Ucraina. Aggressione e resilienza


Per il presidente russo, l’Ucraina «non esiste» come stato autonomo. Un’affermazione smentita dall’incredibile resistenza degli ucraini all’invasione di Mosca. Una guerra – «operazione militare speciale», secondo i russi – che, dal 24 febbraio, ha cambiato il mondo.

Da mesi, la domanda che in tanti si ponevano era: ci sarà una guerra contro l’Ucraina o il presidente russo Vladimir Putin sta solo bluffando? La risposta è arrivata la notte del 24 febbraio, quando i convogli corazzati russi hanno attraversato il confine ucraino e i missili hanno iniziato a colpire prima obiettivi militari e poi civili. Mentre la guerra imperversava sempre più cruenta, tutti hanno cominciato a discutere sul perché. Speculazioni e mezze verità che non hanno senso se non si fa un passo indietro, analizzando il legame morboso che lega la Russia all’Ucraina e a come è nato il conflitto nel Donbass, dimenticato ma in atto da otto anni.

Due donne ucraine passano davanti a un carro armato russo fuoriuso e alle macerie di edifici distrutti dall’aggressore nella città di Trostianets (29 marzo 2022). Foto Fadel Senna – AFP.

Un paese giovane con una storia secolare

La dissoluzione dell’Unione Sovietica, sancita ufficialmente nel dicembre del 1991, è stata sorprendentemente pacifica in Ucraina, che ha festeggiato il trentennale della propria indipendenza lo scorso 24 agosto. Festeggiamenti ormai dimenticati a causa dello scoppio di una nuova guerra, che sta lacerando questo paese giovane, ma dalla storia secolare e che, da Est a Ovest, si è ritrovato a lottare per rimanere unito sotto un’unica bandiera. L’Ucraina, infatti, non è nata ieri. Possiede da secoli un’identità propria, un sentito movimento nazionale e una profonda storia d’indipendenza che risale a ben prima dell’arrivo di Pietro il Grande. Un’identità che, spesso e volentieri, è stata vittima di deformazioni storiche: nonostante, infatti, ucraini e russi (insieme ai bielorussi) vengano da alcuni considerati fratelli inseparabili («un unico popolo», come ha sottolineato lo stesso Putin in un lungo scritto del 12 luglio scorso titolato «Sull’unità storica dei russi e degli ucraini»), i primi hanno una loro storia secolare e multiculturale, una loro lingua ufficiale e delle tradizioni culturali diverse da quelle dei secondi.

Tra «Russkij mir» e democrazia

Durante i primi 20 anni dalla dissoluzione dell’Urss, la Russia ha tenuto d’occhio gli sviluppi in Ucraina e ha interferito in vari modi nella politica interna del paese. Ma la presenza di una nutrita popolazione ucraina di lingua russa garantiva – o sembrava garantire – che il paese non si sarebbe mai allontanato troppo dalla sfera d’influenza russa, dal cosiddetto russkij mir («mondo russo»).

Tuttavia, il concetto di democrazia era già ben radicato nella mentalità e nella cultura politica del popolo ucraino, erede storico di quel particolare sistema statale dell’«etmanato cosacco» del XVII secolo (abolito da Caterina II di Russia nel 1764). Non sorprende, quindi, sapere che, al contrario della Russia, in Ucraina è sempre esistita un’opposizione. Senza equivoci, la politica ucraina era (e lo è tuttora) piena di conflitti interni: i cambi di potere e i rimpasti di governo sono stati tumultuosi in quanto riflettevano genuine differenze di opinione nella popolazione su ciò che l’Ucraina sarebbe dovuta essere e diventare. Inoltre, la mancata esperienza diretta di sistemi democratici ha minato la corretta applicazione dei principi di base (come la giustizia o la lotta alla corruzione e al clientelismo) soprattutto nei primi anni Novanta. Alcuni pensavano che il paese dovesse integrarsi ulteriormente all’Europa, altri che dovesse rimanere strettamente legata alla Russia. Una questione che ha portato prima alla «Rivoluzione della dignità» (nota anche come «Euromaidan», Europiazza) e, successivamente, a un conflitto ibrido nei territori orientali del paese, oggi trasformatosi in un bagno di sangue su scala nazionale.

Profughi ucraini accolti in un rifugio temporaneo organizzato in un ex edificio storico della stazione ferroviaria di Cracovia, in Polonia, il 28 marzo 2022. Foto Beata Zawrzel – Anadolu Agency – AFP.

La questione Donbass

L’Ucraina è in guerra dal 2014, ovvero dall’anno dell’annessione da parte della Russia della penisola di Crimea (avvenuta il 18 marzo dopo un referendum giudicato illegale a livello internazionale) e dello scoppio del conflitto nella regione più orientale del Donbass. Per otto anni, il paese è stato diviso da una linea del fronte lunga circa 400 km che separava, fino allo scorso febbraio, una parte dei territori del Donbass dalle autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk (Doneckaja narodnaja respublikae, Dnr, nella traslitterazione dal russo) e Luhansk (Luganskaja narodnaja respublika, Lnr), occupate dai separatisti armati e finanziati dal Cremlino. Si è sempre trattato, nei suoi otto anni, di un conflitto ibrido limitato a questi territori e poco noto internazionalmente, tanto che spesso veniva (erroneamente) considerato una guerra civile o addirittura una guerra tra clan mafiosi, data la grande presenza locale di potenti oligarchi.

Un conflitto definito «a bassa intensità» che, però, ha provocato migliaia di vittime e sfollati interni: dall’aprile 2014 e fino allo scorso dicembre, circa 13.300 morti (3.375 civili, 4.150 soldati ucraini e 5.700 separatisti). Vani sono stati i tentativi per trovare una soluzione diplomatica attraverso dei negoziati. Questi hanno visto protagonisti prima esclusivamente le due parti in causa – Russia e Ucraina (Accordi di Minsk del 2014) – e poi anche Francia e Germania («Quartetto Normandia»), in qualità di mediatori, nei cosiddetti Accordi di Minsk II del 2015. L’intento dei negoziati, svoltisi nella capitale bielorussa, era quello di concordare un cessate il fuoco bilaterale, effettuare scambi di prigionieri, fornire aiuti umanitari, demilitarizzare la zona e, soprattutto, decentralizzare il potere fornendo una maggiore autonomia alle regioni del Donbass e indicendo anche nuove elezioni sotto il monitoraggio dell’Osce. L’intesa, tuttavia, è fallita più volte a causa di ripetute violazioni del cessate il fuoco da entrambe le parti.

Uno dei maggiori ostacoli nell’adempimento dei negoziati è stata la mancata ammissione da parte della Russia di essere soggetto integrante del conflitto stesso: Kyiv ha sempre sostenuto che, nel Donbass, le forze armate separatiste provenissero anche da Mosca, ma la Russia ha sempre negato. Questa era la situazione fino allo scorso 22 febbraio, quando Vladimir Putin ha annunciato il riconoscimento ufficiale dell’indipendenza di Dnr e Lnr e ha cambiato le carte in tavola sulla scacchiera geopolitica internazionale.

Oggi, in seguito all’escalation e all’invasione russa, le parti sono tornate a fronteggiarsi apertamente, non solo violando il cessate il fuoco nei territori occupati e vicini alla linea di contatto, ma scatenando una guerra su larga scala e una crisi umanitaria di enormi proporzioni per l’Ucraina e per tutta l’Europa.

Civili in attesa di essere evacuati dalla città martire di Mariupol, quasi rasa al suolo dai militari russi e dai separatisti (26 marzo 2022). Foto Anadolu Agency – AFP.

Il casus belli di Putin

Nel lungo discorso per giustificare il riconoscimento delle repubbliche secessioniste ucraine del Donbass, il presidente russo ha chiaramente detto che l’obiettivo principale del suo intervento militare in Ucraina è quello di «denazificare» il paese.

Per Putin, infatti, l’Ucraina sarebbe governata da un esecutivo di «drogati» e «neonazisti». Inoltre, ha sostenuto che, in Ucraina, sia in corso un vero e proprio «genocidio» nei confronti della popolazione russa e russofona, vittima dei nazisti al governo. Una descrizione della realtà infondata e assurda. Basta guardare ai numeri effettivi della presenza dell’estrema destra ucraina, alla popolazione che attualmente sta combattendo per la propria libertà, nonché al fatto che molti dei politici ucraini (come lo stesso presidente Zelenskyj) sono di madrelingua russa.

Come succede per ogni guerra, anche il conflitto in Ucraina ha dato origine a una sconcertante diffusione di verità parziali e a un controllo pedissequo della narrazione, soprattutto da parte dei media russi. L’affermazione di Putin, secondo cui la «Rivoluzione della dignità» del 2014 fu un «colpo di stato fascista» e l’Ucraina è uno stato nazista, è stata usata per anni come giustificazione per l’annessione della Crimea e il sostegno ai separatisti russofoni nell’Est del paese, guadagnando molto consenso anche sui social. Ma l’Ucraina è un autentico stato liberal-democratico, anche se imperfetto, con libere elezioni che producono significativi spostamenti di potere, compresa l’elezione nel 2019 del riformatore liberal-populista Volodymyr Zelenskyj. Inoltre, il partito che rappresenta i cosiddetti neonazisti non ha attualmente nemmeno un seggio in parlamento. L’Ucraina, quindi, non è assolutamente uno stato nazista, e il casus belli russo è l’ennesima bugia del Cremlino.

Le milizie ucraine di estrema destra

Stemma del «Battaglione Azov», formazione ucraina neonazista.

Stabilito questo, è vero che tra le milizie volontarie ucraine che partecipano a questa guerra ci sono anche quelle neonaziste. Tra queste, la più nota è il «battaglione Azov», un’organizzazione di estrema destra fondata da Andriy Biletskiy. Nato come gruppo paramilitare, nel 2014 il battaglione è stato inquadrato nella «Guardia nazionale ucraina», componente di riserva dell’esercito. Lo scopo principale di Azov era quello di contrastare le crescenti attività di guerriglia dei separatisti filorussi del Donbass. Il battaglione ha come base la città portuale ucraina di Mariupol’ (la più martoriata nel conflitto) ed è legato al progetto politico Nacional’nyj Korpus (Corpo nazionale) che partecipa alle elezioni e ha rapporti internazionali con altri gruppi di estrema destra. Nonostante tra il presidente Volodymyr Zelenskyj e il battaglione non scorra buon sangue, Azov combatte oggi in prima linea ed è molto utile al governo di Kyiv in quanto conosce bene il territorio, è ben organizzato e possiede capacità e conoscenze militari effettive.

Per ora, l’Ucraina e Zelenskyj hanno, quindi, bisogno delle capacità militari e dello zelo ideologico delle milizie nazionaliste e di estrema destra per combattere e vincere la battaglia per la sopravvivenza nazionale. Ma quando la guerra finirà, Zelenskyj e i suoi sostenitori occidentali dovranno stare attenti a non dare troppo potere a gruppi i cui obiettivi sono in netto contrasto con le norme basilari dei sistemi politici liberal democratici. Armare e finanziare Azov e compagni è una delle scelte difficili imposte dallo status di guerra, ma il loro disarmo dovrebbe essere una priorità a conflitto terminato.

Che significa neutralità?

Nessuno si sarebbe mai aspettato né un conflitto di tale portata, né una resistenza così motivata e organizzata da parte del popolo ucraino, caratteristica quest’ultima che ha colto tutti di sorpresa. Come sorprendente è stato il presidente Zelenskyj che, in Occidente e tra il pubblico internazionale, si è guadagnato un’immagine da vero eroe, un capitano che non abbandona la nave nel momento del bisogno ma che, al contrario, lotta con la propria gente.

Le truppe russe si sono trovate davanti un nemico «incapace» di arrendersi e di piegarsi all’aggressore. E Putin, che sperava di risolvere la questione ucraina con una guerra lampo, si è trovato a dover riformulare la propria strategia. Se prima il suo obiettivo principale era evitare che l’Ucraina si unisse a Ue e Nato per poterla tenere sotto la propria ala di influenza e, eventualmente, sostituire l’attuale governo, ai suoi occhi troppo filoeuropeo, con un team fidato, ora (mentre andiamo in stampa, a metà aprile, ndr) la sua priorità sembra essere quella di rendere il paese neutrale. Ma cosa significherebbe? Vorrebbe dire smilitarizzare l’Ucraina trasformandola in una nuova Austria o Svezia. Un’operazione che sarebbe, tuttavia, possibile esclusivamente in tempi di pace e in presenza di un cessate il fuoco, fattori assenti in questo momento: bombardamenti e assedi continuano in diverse città (Mariupol’, Sumy, Charkiv, Cherson) oggi completamente distrutte e dove i civili sono vittime di attacchi quotidiani.

Nel complesso, gli esperti sembrano essere d’accordo sul fatto che la neutralità è la strada da seguire. «Nel suo mondo ideale, Putin potrebbe aver sognato un’Ucraina unita alla Russia in un’unica forma statale, ma gli eventi delle ultime settimane hanno dimostrato che è un risultato altamente improbabile», ha commentato il prof. Graeme Gill, esperto di politica sovietica e russa, aggiungendo che «mentre c’è ancora un sostanziale sentimento filorusso in alcune parti del paese, l’invasione ha inasprito la visione dei russi da parte di molti ucraini».

La crisi dei migranti

Nel giro di un mese e mezzo oltre 4,5 milioni (su 41,5) di ucraini sono fuggiti; la maggior parte (2,6 milioni) ha trovato rifugio temporaneo in Polonia. Anche negli anni precedenti (a partire dal 2014) è stato questo paese ad accogliere oltre un milione di ucraini. Eppure, oggi, dopo una iniziale sincera catena di solidarietà che ha accolto i rifugiati a braccia aperte, nei media stanno emergendo domande su come i sistemi di assistenza sociale e sanitaria, già sovraccarichi, potranno reggere.

La guerra in Ucraina ha costretto uno stato conservatore per antonomasia come la Polonia ad abbandonare la sua rigida posizione anti rifugiati degli ultimi anni. Oggi il governo polacco ha aperto le frontiere a tutti gli sfollati provenienti dall’Ucraina, rivedendo le sue posizioni: un’accoglienza motivata tanto dalla paura della confinante Russia, quanto dalla compassione. Ma quanto reggerà?

Claudia Bettiol*

(*) Nata nel 1986, slavista di formazione, dopo un anno di studio in Russia, un Erasmus in Estonia e un volontariato nella città ucraina di Sumy, Claudia Bettiol si è trasferita a Kyiv dove, fino allo scoppio della guerra, lavorava come traduttrice e insegnante di italiano. Ha scritto per «East Journal» (eastjournal.net). Dal 2019 collabora con «Osservatorio Balcani e Caucaso» (balcanicaucaso.org).


La guerra di Putin e le divisioni della Chiesa ortodossa

Putin e il patriarca Kirill alla cattedrale ortodossa della Resurrezione di Cristo, la principale cattedrale delle forze armate russe, in occasione di una commemorazione, Kubinka (Mosca), 22 giugno 2020. Foto Aleksey Nikolskyi / Sputnik / AFP.

Kirill, il patriarca con l’elmetto

Il patriarca di Mosca non ha voluto (o potuto) distinguersi dall’amico Putin. Il suo avvallo alla guerra in Ucraina è una scelta grave e densa di conseguenze.

Il presidente Putin e il patriarca ortodosso Kirill formano una coppia di guerra ben assortita: il primo ha il sogno di ricostituire una sorta d’impero zarista, il secondo di difendere l’idea della Santa Russia («Svjataja Rus»).

Pubblicamente, entrambi hanno come riferimento l’ideologia del Mondo russo («Russkii mir»). Segretamente, entrambi hanno (o avevano) l’ambizione di ampliare la rispettiva sfera di potere.

Sul tema, un nutrito gruppo di teologi ortodossi è intervenuto con una dichiarazione congiunta: «Questo “Mondo russo” – vi si legge – ha un centro politico comune (Mosca), un centro spirituale comune (Kyiv quale “madre di tutte le Rus’”), una lingua comune (il russo), una Chiesa comune (la Chiesa ortodossa russa, il Patriarcato di Mosca), e un patriarca comune (il Patriarca di Mosca) che lavora in “sinfonia” con un presidente/capo nazionale comune (Putin) per governare questo mondo russo, oltre che per sostenere una spiritualità, moralità e cultura comuni, distinte da quelle del mondo non russo». I firmatari concludono: «[Noi] respingiamo l’eresia del “Mondo russo” e le azioni vergognose del governo della Russia [compiute] con la connivenza della Chiesa ortodossa russa» (13 marzo 2022, domenica dell’ortodossia).

La conversione religiosa di Putin viene fatta risalire agli anni Novanta. Il suo padre spirituale sarebbe l’ultraconservatore vescovo Tikhon, oggi metropolita di Pskov. Tuttavia, le apparizioni pubbliche dello zar del Cremlino sono state e sono con il patriarca Kirill. Dopo l’invasione dell’Ucraina, i due si sono sostenuti a vicenda con dichiarazioni che, fuori della Russia, sono apparse sconcertanti. Durante il suo comizio allo stadio di Mosca (17 marzo), il presidente ha giustificato l’invasione citando un passo del Vangelo di Giovanni: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Per parte sua, il patriarca ha superato ogni immaginazione nel suo sermone di domenica 6 marzo. In esso Kirill ha giustificato l’intervento armato russo per proteggere i valori cristiani sulla sessualità e sul matrimonio, minacciati, egli sostiene, dalla cultura occidentale delle «parate gay». Anche nelle ore del massacro di Bucha, il patriarca di Mosca ha parlato in difesa dell’intervento russo (3 aprile).

Come il sodale Putin, pure Kirill, a capo della Chiesa ortodossa russa dal 2009, non ha però tutto sotto controllo. Dopo lo scisma ucraino del 2018 (7mila parrocchie su 19mila sono passate alla neonata Chiesa ortodossa autocefala guidata dal primate Epifanij), oggi Kirill si trova in difficoltà anche con la Chiesa ortodossa ucraina guidata dal primate Onufrij, la quale, pur rimasta legata al patriarcato di Mosca, ha espresso una forte contrarietà alla guerra.

I cattolici ucraini

I cattolici ucraini – stimati attorno all’11 per cento del totale, pari a 6 milioni di persone – sono invece riuniti nella Chiesa greco cattolica, guidata da monsignor Sviatoslav Shevchuk. «Non lasciateci soli nel nostro dolore – ha detto il vescovo (28 marzo) -. Nessuno è preparato alla guerra, tranne i criminali che la pianificano e la mettono in atto. È stato uno choc. Ma era evidente che si trattava di un’invasione ben pianificata». Quella ucraina non è una «guerra di religione», ma è una guerra in cui la religione viene usata come strumento. Come troppo spesso nella storia.

Paolo Moiola


Mappa dell’Ucraina con evidenziate le regioni contese: il Donbass e la Crimea.

Ucraina, alcuni dati

  • Superficie: 603.600 Km2 (due volte l’Italia);
  • Popolazione: 41,5 milioni (dato controverso);
  • Capitale: Kyiv (traslitterato dall’ucraino), Kiev (traslitterato dal russo), con circa tre milioni di abitanti;
  • Sistema politico: repubblica democratica semipresidenziale;
  • Presidente: Volodymyr Zelenskyj, in carica dal 20 maggio 2019;
  • Date essenziali: indipendenza, 25 dicembre 1991; invasione russa, 24 febbraio 2022; scoperta una strage di civili a Bucha, 3 aprile; papa Francesco parla di «impotenza dell’Onu» (6 aprile);
  • Principali gruppi demografici: ucraini 78%, russi 17%;
  • Religioni principali: ortodossi 78% (divisi in due Chiese, una legata a Mosca e una autocefala), cattolici 11% (Chiesa greco cattolica);
  • Economia: produzione agricola (grano, semi di girasole, zucchero, carne, prodotti caseari); industria siderurgica (acciaio e ghisa);
  • Gas: attraversa l’Ucraina il gasdotto Yamal, dal quale passa circa il 10% delle forniture totali di gas proveniente dalla Russia;
  • Regioni contese: Donbass, regione mineraria (carbone in primis, ma anche ferro, uranio, titanio, manganese, mercurio e gas) di circa 32mila Km2, quattro milioni di abitanti (dato controverso), Donesk e Luhansk come capoluoghi; Crimea, penisola sul Mar Nero di 26.200 Km2 (poco più della Lombardia), due milioni di abitanti e Sebastopoli come capoluogo;
  • Migranti (anteguerra): circa sei milioni di cittadini (World Migration Report, 2022), la maggior parte in Russia e Polonia; ottavo paese al mondo per fenomeno migratorio;
  • Ucraini in Italia (anteguerra): 236mila pari al 4,6% degli stranieri ufficiali (dati Istat, 1° gennaio 2021); dei residenti ucraini in Italia 177mila sono donne, in larga parte occupate nei servizi alla persona (colf e badanti; dati Fondazione Leone Moressa);
  • Profughi: 6,5 milioni di profughi interni (International organization for migration, Iom, marzo 2022); 4,5 milioni di profughi scappati dal paese (dati Unhcr al 10 aprile 2022), oltre 87mila arrivati in Italia (secondo le cifre del Viminale al 10 aprile).

(a cura di Paolo Moiola)




Le Queens, regine del campo


In un mondo di relazioni sempre più disumane, una squadra di calcio formata da donne – richiedenti asilo, rifugiate e operatrici sociali – sfida violenza, pregiudizi e maschilismo. Accade a Torino.

In una sera estiva del 2017, in una Torino afosa e deserta, è nata l’idea delle Queens. Una squadra di calcio femminile per dare la possibilità a donne richiedenti asilo e rifugiate, supportate dalle operatrici della cooperativa sociale Progetto Tenda, di andare oltre gli schemi, senza curarsi di ciò che gli altri credevano possibile o impossibile.

«Come ogni estate, Balon Mundial aveva promosso il campionato dilettantistico tra le squadre delle comunità di migranti – racconta Anael, operatrice tra le fondatrici della squadra -. Dato che, da alcuni anni, c’era anche un torneo femminile, pensammo che il calcio avrebbe potuto essere lo strumento giusto per metterci in gioco».

Una vera sfida nella sfida: uno sport quasi esclusivamente maschile, con un pubblico in grande maggioranza maschile, da proporre a donne che si sforzavano di riprendere in mano la propria vita, dopo anni di viaggi, violenze e percorsi travagliati e traumatici.

«Sentivamo – prosegue Anael – il bisogno di mettere in gioco le nostre capacità in modo nuovo e inaspettato, indirizzando la nostra energia in qualcosa da costruire insieme, cucendolo sulla nostra pelle ferita. Partendo da una passione condivisa per il calcio, abbiamo quindi messo tutto il nostro entusiasmo nella creazione della squadra».

Le giocatrici delle Queens si allenano con tiri verso la porta difesa dalla nigeriana Esosa. Foto Davide Casali.

L’anno dell’esordio: Nigeria, Somalia, Italia

Così, quasi per caso, donne richiedenti asilo e operatrici si sono ritrovate in un gruppo pieno di desideri, un gruppo che avrebbe saputo affrontare insieme vittorie e sconfitte, sempre coeso, con condivisione e fiducia reciproca nonostante le differenze culturali, etniche, linguistiche, di esperienze di vita.

Nonostante solo una delle giocatrici avesse esperienza in questo sport, tutte si sono cimentate nella scoperta e conoscenza delle regole e delle tecniche calcistiche e nei vari ruoli, partecipando con dedizione agli allenamenti e alle partite.

C’era Mary che ha rispolverato i tacchetti abbandonati in Nigeria iniziando così la carriera di bomber delle Queens. C’era la connazionale Esosa che si è lanciata da neofita in questa avventura diventando una giocatrice versatile e preziosa per le sue compagne. C’era Suleqa, giovane donna somala, che ha giocato ogni partita con il velo e che, con determinazione, ha difeso a spada tratta la sua squadra. C’era Rebecca, educatrice giovane e impetuosa (quanto si è arrabbiata quando abbiamo perso le prime partite!). C’era Anael, la «saracinesca», prima portiera delle Queens. C’era Monica che è venuta a lavorare per due settimane con il segno dei tacchetti sul polpaccio. E poi c’erano: Marta che sventolava bandiera e distribuiva bottiglie d’acqua, sorrisi e incoraggiamento; Alessandra con la sua dirigenza esperta e la sua passione e, ultima ma non ultima, Mathilde (belga), vera e propria «tuttofare» della squadra. «Ed è stato così che le educatrici e le donne ospitate nelle strutture si sono confuse in un unico abbraccio sudato – continua Anael -. Tutte insieme abbiamo partecipato al torneo del Balon Mundial. Tra sconfitte e vittorie, ci siamo classificate al quarto posto: un piccolo miracolo!».

Ragazze delle Queens durante un allenamento. Foto Davide Casali.

L’apertura a tutte: una pioggia di adesioni

L’esperienza del primo anno delle Queens ha dimostrato a tutte come lo sport condiviso possa essere davvero uno spazio di emancipazione, inclusione, gioia e libertà.

Per questo la squadra, dal 2018, ha deciso di aprirsi al territorio, dando la possibilità a tutte le donne interessate a partecipare. «Sono arrivate tante adesioni – raccontano dalla cooperativa – siamo rimaste sorprese dal numero di donne che avevano fatto esperienze pregresse o che avevano sempre desiderato giocare, ma non avevano trovato spazio o coraggio».

Grazie all’arrivo di nuove giocatrici, donne di varie nazionalità, tra cui molte italiane, con storie e situazioni differenti, le Queens sono cresciute e oggi le educatrici della cooperativa si possono dedicare al tifo dalla panchina. Poi, alla fine del torneo estivo del Balon Mundial 2019, si è presentata un’altra grande occasione di crescita: l’associazione organizzatrice del torneo si è voluta avvicinare alla squadra, proprio per quei valori che ogni giorno essa cerca di promuovere (inclusione, equità, empowerment, crescita personale).

È nata così una partnership, in cui le donne hanno iniziato a essere seguite dagli educatori sportivi dell’associazione. A ogni allenamento essi cercano di lavorare sulle competenze personali delle giocatrici. Competenze che le donne possono sviluppare in campo, ma che sono utili anche fuori dal campo, nella vita di tutti i giorni: comunicazione, lavoro di squadra, fiducia in sé stesse, spirito di adattamento.

Zuleika, ragazza somala, rincorre il pallone con il velo sul capo. Foto Davide Casali.

Il cartellino rosso del Covid

Negli ultimi due anni, purtroppo, l’emergenza sanitaria ha messo a dura prova gli allenamenti della squadra e la possibilità di continuare a vedersi. Per le donne che vivono in comunità partecipare agli allenamenti (tenuti su vari campi della città) è diventato impossibile. La responsabilità di tutelare, oltre che la propria, anche la salute delle altre ospiti e del personale ha impedito loro di continuare ad allenarsi.

Durante il primo lockdown, grazie alla collaborazione con i coach di Balon Mundial, le donne hanno avuto la possibilità di incontrarsi sulla piattaforma Zoom per allenamenti settimanali, ma per molte di loro questa modalità non era abbastanza. Mancava quel contatto umano e quella libertà di correre in campo che aveva permesso loro di dimenticare, almeno per alcune ore a settimana, traumi e sofferenze e ritrovare la fiducia in se stesse. Anche in questo caso l’emergenza causata dal Covid ha colpito più duramente le persone più fragili e vulnerabili.

Attualmente gli allenamenti sono ripresi, pur rispettando tutte le norme e le indicazioni di sicurezza. Finalmente le Queens sono tornate tutte insieme in campo, pronte per il prossimo torneo e le nuove avventure che le aspettano.

Impegno, entusiasmo, voglia di divertirsi e di mettersi alla prova in un nuovo contesto, sono stati e sono gli ingredienti di questo mix energico chiamato Queens.

«Per un calcio oltre i confini, per un calcio oltre il genere», per dirla con le parole del loro slogan.

Bianca Orazi e Sara Lopresti
(operatrici Progetto Tenda)

Momenti (concitati) di gioco durante una partita. Foto Davide Casali.


Accoglienza e solidarietà

I miracoli del pallone

Due Onlus di Torino – Progetto Tenda (1999) e Balon Mundial (2012) –  hanno         trasformato il gioco del calcio in uno strumento per superare la violenza dei     confini e dei generi.

Cultura dell’accoglienza e della solidarietà, inclusione sociale, educazione al fair play, rispetto delle regole, risoluzione dei conflitti. Sembra essere soltanto un elenco di belle parole e buone intenzioni. Eppure, soprattutto di questi tempi, è fondamentale mantenere obiettivi alti che superino le miserie dell’oggi. A tutto questo ambiscono due Onlus di Torino.

Progetto tenda

Progetto Tenda – si legge su progettotenda.net – è una cooperativa sociale nata nel 1999 con l’obiettivo di occuparsi di percorsi d’inserimento nella società dei soggetti più fragili, con una particolare attenzione alle donne. Negli anni la cooperativa – attualmente guidata da Cristina Avonto, Valentina Melchionda e Cristina Apicella – ha sostenuto i percorsi di richiedenti asilo, rifugiati, donne vittime di tratta, mamme con bambini, famiglie in povertà, donne e uomini senza dimora, minori stranieri non accompagnati.

Ogni giorno le addette di Progetto Tenda lavorano per accogliere persone in difficoltà e diffondere la cultura dell’accoglienza e della solidarietà.

La sua mission è migliorare la vita delle persone in difficoltà e più fragili promuovendo percorsi di comunità per sostenere l’incontro tra le persone, nativi e migranti, donne e uomini, senza alcuna discriminazione, sostenendo ogni percorso individuale, ogni scelta e orientamento sessuale, religioso, di appartenenza etnica o politica e permettendo a ogni individuo di autoderminarsi nella costruzione del proprio percorso di vita.

La filosofia di Progetto Tenda è così riassunta sul sito dell’associazione: «Crediamo che la comprensione della diversità, più che l’integrazione in un predefinito modello culturale, sia la chiave per realizzare il nostro obiettivo: una società più pacifica, più aperta e più giusta, in cui siano garantiti uguali diritti a tutti quanti».

Come suggerisce il nome, la Tenda offre in primis servizi di prima necessità (vitto, alloggio e sportello lavoro), ma ha in essere anche attività lavorative proprie come un catering («Mondi a tavola») e una gelateria («Gelateria popolare+»). Il progetto delle Queens è nato nel 2017, trovando, due anni dopo, un socio in un’altra grande realtà di Torino: Balon Mundial.

Balon mundial

L’Associazione sportiva dilettantistica Balon Mundial Onlus è una realtà abbastanza recente: ha compiuto 10 anni lo scorso gennaio, essendo nata nel gennaio del 2012. Le attività dell’associazione torinese si concentrano sullo sport e, in particolare, sul calcio inteso come strumento capace di abbattere ogni tipo di barriera e pregiudizio.

«Il calcio – si legge su balonmundial.it – è uno sport universale. È lo sport più praticato al mondo. Davanti a un pallone non importa quale sia il colore della tua pelle, la tua religione, che tu sia uomo o donna. Davanti ad un pallone siamo tutti e tutte uguali».

«Metti in gioco le differenze» è lo slogan che descrive il metodo di lavoro di Balon Mundial. Significa confrontarsi con gli altri, saper mettere in discussione le proprie conoscenze e certezze ma, soprattutto, saper ascoltare per imparare da chi propone un pensiero diverso. «Un insegnante è una persona che spiega le cose. Un educatore è una persona capace di essere un esempio».

Balon Mundial Onlus – attualmente guidata da Tommaso Pozzato e Luca Dalvit e da un gruppo di coach, formatori, educatori, mediatori e project manager – organizza vari tornei e «la Coppa del mondo delle comunità migranti» tra squadre composte da migranti provenienti dalla stessa nazione residenti a Torino. L’ultima edizione, quella del 2019 (poi è arrivato il Covid), ha sancito la vittoria del Perù in campo maschile e dell’Italia Avis in quello femminile.

Paolo Moiola

I SITI WEB:
www.progettotenda.net
www. balonmundial.it

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Una foto per cambiare il mondo


Ha incontrato la fotografia per caso. Così come i suoi primi soggetti: i migranti. Ora vede il suo lavoro come una missione. Al centro c’è l’essere umano, con la sua storia. E non come mezzo per fare soldi o diventare famosi.

Francesco Malavolta è un fotogiornalista. Vive a Roma, dove lavora come addetto stampa per un viceministro, ma è originario della Calabria: «Sono nato a Corigliano Calabro, ho vissuto 22 anni a Palermo e ora sono a Roma per lavoro, ma in realtà non sento di appartenere a nessun luogo specifico. Stando sempre in giro, i posti in cui vivo sono come dormitori, appartengo a tutti i mondi che ho raccontato e non a uno in particolare», racconta Francesco.

È impegnato da oltre vent’anni nella documentazione dei flussi migratori che interessano il nostro continente.

Un lavoro svolto in un contesto spazio temporale in costante mutamento che lo ha portato a viaggiare lungo i confini di una Europa sempre più blindata e difficile da raggiungere via terra o via mare. Da molti anni collabora con l’Unione europea, varie agenzie di stampa internazionali, come Associated Press, nonché organizzazioni internazionali quali Unhcr (Alto commissariato per i rifugiati) e Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni).

Un incontro

L’incontro con la fotografia è stato casuale. Si potrebbe dire – per usare le sue parole – che è stata la fotografia a «sceglierlo». Da sempre appassionato di immagine in senso lato, non aveva sviluppato una vera consapevolezza oltre la passione.

Ricorda se stesso ragazzo quando, a 14 o 15 anni, internet non c’era e la sua finestra sul mondo erano le riviste, che sfogliava e dalle quali strappava gli articoli contenenti notizie e immagini che lo colpivano particolarmente. Francesco, infatti, è sempre stato attratto dall’immagine, dalla sua potenza evocativa, specialmente quando è unita a una storia che va oltre la foto.

Poi un giorno la fotografia è entrata a far parte della sua vita, trasformandosi in un lavoro.

Francesco paragona questo incontro a un altro, altrettanto casuale e altrettanto carico di significato: quello con il primo soggetto delle sue fotografie.

Si trovava in Puglia, al porto di Brindisi, quando ha assistito a  uno sbarco di albanesi in fuga dalla dittatura. Era una coda del grande esodo iniziato nel 1991.

Francesco si è sentito immediatamente attratto da quella moltitudine di persone che, scappando, aveva deciso di inseguire un sogno di libertà.

Per questo, da oltre vent’anni, la sua fotografia è legata quasi interamente – ma non esclusivamente – alla documentazione dei flussi migratori in tutta Europa e paesi limitrofi lungo le rotte di terra e di mare.

La migrazione, lo spostamento, sono tratti peculiari della natura umana. L’umanità è da sempre in movimento, e questo movimento assume tratti tanto più drammatici quanto più si cerca di ostacolarlo amplificando paure e posizioni illogiche e anacronistiche. Gli scatti di Francesco recano testimonianza delle migrazioni e del loro evolversi concentrandosi sui loro protagonisti. Ogni scatto è il racconto di una storia. Ogni storia, un tentativo di salvare la peculiarità della vita ritratta, sfuggendo alla logica spersonalizzante che presenta le migrazioni come «fenomeni idraulici» e anonimi. L’obiettivo di Francesco è, infatti, rendere omaggio a un’umanità caparbia che, un passo alla volta, guadagna centimetri di libertà.

La fotografia necessaria

Davanti a quello sbarco di albandesi, a quell’umanità disperata e disorientata, Francesco non ha potuto far altro che porsi delle domande fondamentali.

«Chi sono queste persone? Perché scappano? Che storia hanno alle spalle? Perché fanno una scelta così importante come lasciare la propria terra e la propria casa? Cosa li spinge a muoversi verso l’ignoto rischiando così tanto?».

Francesco ha capito che l’unica cosa che poteva fare era approfondire: «Guai se un fotografo si muove in un qualunque posto del mondo senza saperne la storia profonda. È necessario studiare, confrontarsi, andare a fondo nelle storie e nella vita delle persone per poter poi raccontare con la giusta cura e il giusto approfondimento, altrimenti si rischia l’approssimazione, che equivale a una mancanza di rispetto».

Francesco ha iniziato così a studiare: cultura, usi, pensiero, politica, modo di vivere. Tutto ciò che caratterizzava la realtà che desiderava conoscere e raccontare.

Pur amando e apprezzando tutti i generi di fotografia, perché ognuno è una forma d’arte e, come tale, importante, ritrarre gli esseri umani, per lui, è l’unico tipo di fotografia necessaria, anzi fondamentale. Attraverso un «frame», infatti, si congela un attimo di un’intera esistenza, ma se insieme alla fotografia si trova il modo giusto per raccontare la storia che le sta alle spalle e la giusta informazione, allora quello scatto diventa eterno, e può fare la differenza.

Le storie che i fotogiornalisti raccontano sono tutte diverse l’una dall’altra, come diverse sono le identità delle persone raccontate. Questo ci tiene a sottolineare Francesco. Egli, infatti, dedica la stessa cura, la stessa attenzione e lo stesso amore a ogni storia raccolta.

L’identità di ogni individuo è al centro della sua fotografia. Allo stesso tempo Malavolta ha capito che, sebbene le storie di migrazione siano tutte diverse, condividono qualcosa di fondamentale: il dolore, la perdita, la mancanza.

Egli, con la sua macchina fotografica, cerca di raccontare «la verità più vicina alla verità», per usare le sue parole, e lo fa partendo dalle origini della storia raccontata.

Questo implica un enorme sacrificio, perché significa immergersi totalmente in ogni storia. Aprire ogni canale possibile per dare e ricevere. Il fine ultimo è quello di restituire al pubblico che vedrà le sue immagini la storia più completa, chiara e dettagliata possibile, al netto di preconcetti e disinformazione.

Definendo se stesso, Francesco parla di sé come «un mezzo», nulla di più. Una sorta di amplificatore in grado di divulgare storie che altrimenti finirebbero nel silenzio.

Una missione

Per portare avanti questo mestiere, che è prima di tutto passione e missione vera e propria, Francesco tiene incontri nelle scuole o in qualunque ente sia interessato a comprendere come i popoli si muovono e perché.

I flussi migratori, infatti, vengono spesso narrati in maniera contorta, sbagliata. Si concentra il racconto su uno spazio temporale che va dall’emergenza – la barca in difficoltà, i morti, il salvataggio – alle polemiche successive allo sbarco, senza però concentrarsi su ciò che avviene prima.

In questo modo le persone che si muovono per via terrestre, spostandosi da un punto A a un punto B, difficilmente si vedono.

Francesco ha lavorato principalmente nel bacino del Mediterraneo, nel Canale di Sicilia, nello stretto di Gibilterra, nel Mar Egeo e sulle terre più vicine, quindi Italia, Spagna, le isole greche e i confini terrestri come la rotta balcanica. Ma ha reputato necessario spostarsi poi nei paesi di partenza dei flussi migratori come l’Etiopia, lo Sri Lanka, il Senegal, il Burkina Faso.

Racconta le migliaia di sfollati interni che spesso non arrivano alle coste europee e che sono, in realtà, la gran parte delle persone in movimento. Di loro spesso non si sa nulla.

Alcune storie hanno richiesto a Francesco molta energia come quelle raccolte in Burkina Faso, dove si è trovato a documentare i giovani sfruttati per trovare oro scavando nella roccia a 20-25 metri di profondità.

Calati in miniere, con l’utilizzo di semplici corde, totalmente sprovvisti di sicurezza, fanno un lavoro usurante e sfinente che permette loro appena di sopravvivere. Non è difficile allora immaginare il motivo che li spinge a cercare una vita migliore.

Muoversi, fuggire, cercare un’altra possibilità, è qualcosa di strettamente legato all’animo umano, alla necessità, e non avviene solo in tempi di guerra, ma anche quando la vita diventa impossibile e intollerabile.

Il fine ultimo

Il reportage non è morto, come non è morto il fotogiornalismo, ma sempre di più l’editoria ha problemi a resistere. Oggi il contenitore principale dal quale trarre foto del mondo è il web e bisogna spesso accontentarsi di immagini fatte approssimativamente. Eppure, nell’ultimo decennio il numero di persone che si sono avvicinate al fotogiornalismo è maggiore rispetto a qualsiasi altro momento.

Francesco continua a credere fortemente nel potere del buon fotogiornalismo e porta come esempio ciò che è avvenuto dopo la famosa fotografia di Alan Kurdi: è tato per quell’immagine che la Germania ha aperto i propri confini a oltre mezzo milione di siriani e poi anche ad altri profughi.

C’è una cosa però a cui Francesco tiene particolarmente: il fine ultimo.

«Ai giovani fotografi che decidono di avvicinarsi alla fotografia giornalistica dico sempre di non avere fretta, e di tenere chiaro in mente l’obiettivo finale del proprio lavoro che non è diventare fotografi di successo, ma creare una narrazione che possa cambiare le cose. Non fare foto fini a se stesse per ottenere premi, mostre o pubblicare un libro. Quelli non sono punti di inizio o di arrivo, ma possono essere una distrazione se diventa l’unico fine della propria fotografia.

Bisogna fotografare pensando prima di tutto di ascoltare, raccogliere la storia con responsabilità verso gli altri e verso noi stessi. Se vogliamo fare fotogiornalismo, questo ci deve guidare: la voglia di cambiare le cose, nel nostro piccolo. La fotografia è politica, e può accendere una fiammella là dove il buio avanza e sembra fagocitare tutto».

Francesco ha diversi ricordi di immagini che non avrebbe voluto vedere, fotografie che non avrebbe voluto scattare. Una su tutte è quella delle 368 bare del naufragio di Lampedusa nell’ottobre del 2013. Da quell’immagine in poi, molte saranno le bare che Francesco si troverà a fotografare. Vite disperate, vite stroncate.

È per questo che oggi a 46 anni di cui 44 vissuti in riva al mare, non riesce più a guardare quella distesa di acqua così familiare e così amata con lo stesso sguardo che aveva da ragazzo. Il mare Mediterraneo, con i suoi 40mila morti negli ultimi 20 anni, gli appare come un grande cimitero e pur amandolo, oggi non riesce più a farsi un bagno senza pensare a ciò che «c’è sotto», come ci dice.

Francesco nelle sue presentazioni, mostre, incontri, parla con tutti, ma in particolare ama parlare con i bambini. Nella loro ingenuità, nella loro purezza non vedono differenze tra le persone, e ogni volta che parla con loro, la prima cosa che dice è che devono proseguire proprio su quella strada, su quell’idea di fratellanza che vede le differenze di usanze, tradizioni, luoghi di origine, come ricchezze e non come motivi di discriminazione.

I profughi dell’Ucraina

Dall’inizio del conflitto Russia – Ucraina, Malavolta è impegnato a documentare le migliaia di profughi in fuga dalla guerra sui confini di Polonia, Ungheria e Slovacchia. «Questo conflitto ci mette a dura prova perché in questo nuovo secolo in Europa nessuno si sarebbe aspettato una tale violenza così vicina. Ci sentiamo in pericolo. Vedo una gara di solidarietà incredibile verso i profughi ucraini, questo perché li sentiamo molto più vicini a noi in quanto bianchi e cristiani. Allo stesso tempo mi rendo profondamente conto di quanto altre guerre, come ad esempio quella in Siria, in Afghanistan, in Yemen, non vengono guardate con la stessa attenzione. Proprio lo scorso novembre al confine tra Polonia e Bielorussia, un bimbo siriano è morto assiderato senza che la sua famiglia potesse salvarlo. Non ci sono gli stessi riguardi verso chi viene dalla parte “sbagliata” del mondo».

La speranza di Francesco per il futuro è poter finalmente scattare immagini di luoghi senza muri. Vorrebbe poter fotografare mari senza dover raccontare persone disperate aggrappate a relitti, mentre tendono le mani per essere salvati.

Spera, in futuro, di fotografare persone felici accolte negli aeroporti, con un passaporto in mano.

Valentina Tamborra

 




Africa dell’Ovest. Salvatori della patria?


La crisi sociale si fa sentire in Africa dell’Ovest. E il malcontento della popolazione verso chi governa aumenta. Così i militari tornano in auge, prendono il potere con la forza. E la gente, per ora, applaude. Sarà il declino della democrazia nell’area?

L’Africa Occidentale non fa molto notizia in questi tempi. Eppure, nei suoi 5,12 milioni di km2 (17 volte l’Italia) abitano circa 400 milioni di persone. Dell’area fanno parte i paesi del Sahel (Senegal, Gambia, Mali, Burkina Faso, Niger), zona climatica semi arida, cerniera tra il Sahara e la fascia più umida, e i paesi della costa (Guinea-Bissau, Guinea, Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria).

Tutti insieme fanno parte della Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (acronimo Cedeao in francese o Ecowas, inglese), che è un accordo economico regionale. Ha pure una parte di cooperazione sulla sicurezza, l’Ecomog (Economic community of West african states monitoring group). L’Ecomog prevede, tra l’altro, in casi specifici, l’invio di forze militari di interposizione nell’area.

Tra la metà del 2020 e il gennaio 2022 si sono verificati quattro colpi di stato in tre paesi della regione. Le giunte militari che hanno preso il potere e avviato transizioni in regime speciale, hanno tutte dichiarato di voler riportare i paesi a elezioni democratiche. Gli stati interessati sono: Mali, Guinea e, per ultimo, Burkina Faso. Tutti e tre sono stati sospesi dalla Cedeao e il primo è stato sottoposto a embargo e sanzioni.

Vista la concomitanza di questi eventi, ci sembra importante fare il punto sui fatti accaduti e sulle loro conseguenze, senza la pretesa di essere esaustivi. Gettiamo uno sguardo sull’area per fare emergere le tendenze comuni dei singoli colpi di stato, e gli elementi di originalità di ciascuno.

Mali

È il 18 agosto 2020 quando un gruppo di militari, comandati dal colonnello Assimi Goïta, mette bruscamente fine alla presidenza di Ibrahim Boubakar Keita, detto Ibk. Anche in Mali il gruppo di potere è stato fortemente contestato e accusato di corruzione, in particolare dopo le legislative di aprile (ne abbiamo parlato in MC novembre 2020). Le manifestazioni di piazza sono state represse dalle forze di sicurezza, che hanno lasciato sul campo morti e feriti. È stato in particolare il Movimento 5 giugno – Raggruppamento delle forze patriottiche (M5-Rfp), a guidare il dissenso: una convergenza di elementi della società civile e partiti di opposizione.

I militari hanno approfittato di questo slancio popolare per realizzare il colpo, battezzandosi Comitato nazionale di salute del popolo (Cnsp).

È bene ricordare che il Mali, dal 2012, vive una guerra interna contro i movimenti indipendentisti e jihadisti nati nel Nord del paese, anche a causa di influenze straniere dell’islam radicale, e propagatisi nel centro prendendo una rischiosa piega di tipo etnico. Conflitto che vede l’intervento esterno francese nel gennaio 2013, poi affiancato dalla presenza di un contingente di caschi blu dell’Onu (Minsuma), una delle missioni con maggiori perdite tra gli effettivi (cfr MC giugno 2017). Nel 2015 sono stati firmati degli accordi di pace tra il governo e una parte dei gruppi in conflitto.

La giunta, che prende il potere nell’agosto 2020, sotto pressioni della Cedeao e in negoziazione con M5-Rfp, insedia un presidente civile Bah N’Daw (ex militare ed ex ministro in pensione) e un primo ministro civile, Moctar Ouane, per il governo di transizione. Goïta, che rimane l’uomo forte, mantiene la carica di vicepresidente.

(Photo by Issouf SANOGO / AFP)

Golpe su golpe

Qualcosa si incrina quando, nel maggio 2021, il primo ministro pensa di cambiare i due responsabili dei dicasteri chiave di difesa e sicurezza. La giunta reagisce il 24 maggio, facendo arrestare presidente e primo ministro di transizione e imponendo altri due militari come ministri. Si parla di secondo colpo di stato, questa volta contro le istituzioni di transizione, quindi non democratiche. Di fatto è un ribadire, chi comanda effettivamente nel paese, già in stato di emergenza.

«Sembra che la Francia avesse fatto pressioni sul governo per cambiare questi due ministri e metterne due più favorevoli alla propria politica. I due licenziati avevano studiato in Russia e stavano interagendo per creare una relazione con quel paese. È stata un’operazione un po’ maldestra», ci dice un cooperante che da anni vive nel paese saheliano.

Già da un po’ di tempo Goïta stava percorrendo la pista russa, nell’ottica di avere militari (o miliziani) in grado di realizzare anche lavori «sporchi». La tendenza è quella di sostituire l’appoggio militare dell’ex colonizzatore francese, in un certo senso fallimentare, con quello russo.

Allo stesso tempo già dal 2019, la Francia, per ragioni anche interne, aveva optato per un disimpegno sul terreno (ritiro graduale della missione Barkhane con 5mila uomini e mezzi), promuovendo la creazione della Task force Takuba (estate 2020), una forza a base di militari della Unione europea (tra cui da marzo 2021 un contingente italiano di circa 200 uomini con elicotteri), con compiti di consulenza e assistenza.

Colonello Assimi Goita in conferenza stampa, Mali, 19 agosto 2020. (Photo by MALIK KONATE / AFP)

Via i colonialisti

Nel paese il sentimento antifrancese, che sempre cova sotto le ceneri, era cresciuto già nel periodo della presidenza Ibk, accusato di essere troppo sottoposto agli interessi transalpini. Il potere golpista ha poi iniziato un’operazione di propaganda, puntando sull’identità maliana, per spingere questa dinamica di intervento dei russi.

Secondo fonti di Radio France internationale (Rfi), nel gennaio di quest’anno, uomini del gruppo Wagner avrebbero già preso possesso della base militare di Tombuctu, lasciata dai militari francesi, anche se il governo maliano continua a negare. Wagner è una milizia di mercenari russi, vicina al Cremlino, della quale si è parlato per la prima volta a livello internazionale nel 2014, per il suo appoggio ai separatisti del Donbass, in Ucraina. Il gruppo Wagner, in Africa, è già presente in Repubblica Centrafricana (cfr Mc maggio 2021), Nord del Mozambico, Libia e, pare, in Sudan (torneremo prossimamente su Wagner con un approfondimento).

La tensione tra le autorità di Bamako e quelle di Parigi aumenta. Il 31 gennaio di quest’anno l’ambasciatore di Francia viene espulso dal paese. Stessa sorte era toccata al contingente danese della Takuba.

Il ritiro di Barkhane e della Takuba viene deciso. Parte dei militari vengono ricollocati in Niger, lungo la frontiera con il Mali, dopo l’accordo con il presidente nigerino Mohamed Bazoum, avvenuto a metà febbraio di quest’anno.

«Sono stati visti militari bianchi, con la divisa russa. Ufficialmente non ci sarebbero, ma qualcuno di loro, ferito, è già stato curato in ospedale. Non è chiaro il loro dislocamento. Quello che si sa per certo, è che da gennaio è ripresa un’offensiva importante contro i jihadisti, e ci sono state più vittime civili in quel mese che in tutto il 2021», dice la nostra fonte.

A metà marzo Human rights watch e Rfi riportano esecuzioni sommarie di civili a opera dei militari della Fama (Forze armate maliane). Anche Michelle Bachelet, alto commissario per i diritti umani dell’Onu, fa una dichiarazione di denuncia l’8 marzo.

La reazione del governo di transizione è durissima: le trasmissioni in Mali di Rfi e della televisione France24 (entrambe dello stato francese) vengono sospese. In un comunicato ufficiale del governo, Rfi viene paragonata alla famigerata Radio mille colline, che nel Rwanda del 1994 incitava al genocidio.

«In questo momento, in generale, la popolazione maliana sembra favorevole ai golpisti. Forse perché occorreva dare un taglio alla dipendenza dalla Francia.

Una parte della popolazione non condivide il golpe, ma solo perché getta discredito sul paese a livello internazionale. Ma se aumentano gli attacchi militari e quindi le vittime civili, bisogna vedere se questo consenso terrà», ci dice ancora il nostro interlocutore da Bamako.

Intanto la giunta, il 21 febbraio, fa approvare la Carta di transizione, che prevede una durata del regime fino al 2027.

Mali. (Photo by Michele Cattani / AFP)

Repubblica di Guinea

Alpha Condé, oppositore storico, vince finalmente le elezioni nel 2010 e diventa presidente della Repubblica. Si ripete cinque anni più tardi, confermandosi per un secondo mandato. La Costituzione non ne prevede di ulteriori, ma lui indice un referendum costituzionale nel maggio 2020, che la modifica per potersi ricandidare. I partiti di opposizione, e in generale, la società civile, non sono contenti di questa forzatura (peraltro comune a diversi capi di stato africani), e il malcontento sfocia in manifestazioni di piazza che vengono violentemente represse. Condé si fa così eleggere per un terzo mandato, nell’ottobre 2020.

I problemi crescono con l’aumento dei prezzi dei beni essenziali. La goccia è l’aumento del carburante, il 3 agosto del 2021, da 9mila a 11mila franchi guineani al litro. La gente scende in piazza.

«La popolazione soffriva perché i prezzi stavano aumentando, ma allo stesso tempo i ministri e politici al governo si costruivano dei “castelli” (delle grandi case, ndr) in modo molto evidente», ci racconta Djéneba, una sociologa guineana che lavora per una Ong internazionale.

Il 5 settembre 2021 un gruppo di militari, guidati dal tenente colonnello Mamadi Doumbouya, arresta il presidente Condé e prende il potere. La giunta si fa chiamare Comitato nazionale per la riconciliazione e lo sviluppo (Cnrd, sigla in francese). Il primo ottobre Doumbouya si autoproclama presidente. La gestione è opaca e a tutt’oggi non è chiaro chi siano esattamente i componenti del Cnrd.

«La gente diceva: “I ladri sono partiti”. La giunta al potere ha subito abbassato il prezzo del carburante, portandolo a 10mila franchi. La popolazione comprende solo la questione dei prezzi dei beni di prima necessità. Il presidente ha poi incontrato i grandi operatori economici per cercare di tenere a freno l’aumento dei prezzi. Ma è complicato, perché dipendono anche dall’estero», continua la nostra interlocutrice, raggiunta telefonicamente. Così a inizio marzo i prezzi riprendono a salire, mentre la giunta cerca di calmierare almeno quelli dei prodotti nazionali.

Viene nominato un governo di transizione, un parlamento di transizione, e redatta una Carta di transizione, che dovrebbe regolamentare questi organi, le relazioni tra gli stessi e la durata.

Quest’ultima in particolare, dettaglio molto delicato, dovrebbe essere determinata da una concertazione tra il Cnrd e le «forze vive della nazione». Una coalizione di 58 partiti politici denuncia, invece, una «visione unilaterale del Cnrd», e il tentativo di tenere la politica lontana dalla transizione.

Guinea, Colonello Mamady Doumbouya. (Photo by Cellou BINANI / AFP)

Una speranza

La gente comune, invece, ha ancora una certa speranza: «Sì, perché vediamo trasparenza e la maturità con le quali stanno gestendo il paese».

Anche i responsabili religiosi appoggiano la transizione. L’arcivescovo di Conakry, Vincent Koulibaly, durante la messa dello scorso Natale, ha detto: «Per servire il nostro paese, occorre amare la verità. Se noi amiamo la Guinea, niente ci impedirà di attaccare su tutti i fronti i mali che frenano il suo sviluppo. È in questo senso che gli sforzi del Cnrd e del suo governo sono orientati in questo momento. Meritano di essere sostenuti da tutti i guineani, non solo nei discorsi, ma anche nelle azioni» (africaguinee.com).

Intanto il Cnrd organizza gli incontri delle Assises nationales, per dare corpo al cosiddetto «dialogo nazionale». A oggi si attende di sapere ufficialmente quanto durerà la transizione, mentre voci parlano di 36 mesi.

Burkina Faso

Il «paese degli uomini integri» aveva vissuto un’insurrezione popolare terminata con la cacciata del presidente Blaise Compaoré, al potere da 27 anni, nell’ottobre 2014. Si era poi rivoltato contro un tentativo di colpo di stato del suo fidato generale Gilbert Dienderé un anno dopo, il 15 settembre.

Ma dopo le elezioni e l’arrivo al potere di Roch Marc Christian Kaboré (cfr MC dicembre 2018 e gennaio 2019) il Burkina Faso aveva visto un peggioramento della situazione di sicurezza interna con l’arrivo sul suo territorio di gruppi islamisti radicali e la nascita di altri gruppi autoctoni, che oggi controllano porzioni del territorio. Così quando il 24 gennaio di quest’anno, un commando militare depone il presidente, al suo secondo mandato iniziato a gennaio 2021, e prende il potere, la popolazione non insorge, anzi scende in strada a gridare il suo sostegno.

Vengono rapidamente convocate delle assise nazionali, delle quali fanno parte diversi settori della società burkinabè (partiti, sindacati, società civile, giovani), inclusi i rappresentanti degli sfollati interni, per approvare gli organi di transizione e la durata.

Presto fatto, il presidente di transizione è il capo della giunta (Movimento patriottico per la salvaguardia e la restaurazione), il tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba. Viene poi designato un primo ministro di transizione, Albert Ouderaogo, che formerà il suo governo il 6 marzo, e un’assemblea legislativa di transizione di 75 membri. La transizione è prevista di una durata di 36 mesi. Gli obiettivi principali dell’esecutivo sono la lotta al terrorismo per riportare la sicurezza nel paese, e il rinforzo della governance tramite la lotta alla corruzione.

Il tenente collonello Paul-Henri Sandaogo Damiba, Presidente del Burkina Faso. (Photo by OLYMPIA DE MAISMONT / AFP)

Il sociologo ex ministro

Chiediamo il parere sulla situazione ad Antoine Raogo Sawadogo, sociologo, già ministro dell’Amministrazione territoriale e sicurezza, padre del decentramento amministrativo in Burkina, e fondatore del Laboratoire Citoyenneté (laboratorio di cittadinanza attiva), che raggiungiamo telefonicamente.

«Viviamo oggi una grave crisi della sicurezza, che sottende diverse altre crisi. La crisi alimentare, perché i contadini cacciati dai loro territori a causa degli attacchi jihadisti, non hanno potuto coltivare. Inoltre la stagione delle piogge è stata scarsa, per cui abbiamo un grosso deficit alimentare. Una crisi della casa, in quanto gli sfollati, che sono oggi circa 1,5 milioni (su una popolazione di 21 milioni, nda), sono andati a ingrossare le città, che non erano preparate ad assorbirli. Una crisi sanitaria, perché le stesse città non hanno servizi di base sufficienti per tutte queste persone, per cui osserviamo una recrudescenza delle malattie veicolate dall’acqua o causate dalla malnutrizione. Poi c’è la crisi scolastica perché abbiamo circa 4mila scuole chiuse o distrutte a causa degli attacchi terroristici, e i bambini sono lasciati all’abbandono.

Tutto questo fa sì che la situazione in Burkina sia deleteria. E purtroppo la crisi della sicurezza continua o, addirittura, è peggiorata, dopo il colpo di stato che avrebbe dovuto fermarla».

E continua, con voce grave: «Il golpe non è che la conclusione di una serie di malfunzionamenti, quelli riguardanti la sicurezza, ma anche la governance del paese. La popolazione aveva l’impressione che nessun organo dello stato fosse in piedi per servirla, ma piuttosto, che quelli che erano responsabili di dirigere il paese fossero lì per servire se stessi».

L’ex ministro cita il caso delle miniere d’oro, metallo del quale il paese è diventato grande produttore nell’ultimo decennio. Sembra infatti che la metà dell’oro estratto sparisca a causa dell’opacità delle aziende di estrazione. «Se lo stato non spiega ai cittadini cosa succede, l’opinione pubblica vive di voci. C’era un grande problema di dialogo tra i cittadini e coloro che devono rappresentarli. Inoltre, l’Assemblea nazionale (il parlamento) non svolgeva il suo ruolo di controllo sui governanti tramite le interpellanze sulle questioni fondamentali».

E conferma: «Quindi il colpo di stato è venuto a dare un punto finale, a fermare tutto questo, e ha dato speranza alla popolazione».

Ma oggi la delusione e la disperazione sono già palpabili, perché la situazione, invece di migliorare, è ancora peggiorata.

Chiediamo a Raogo cosa pensa la gente di una transizione – annunciata da parte dei golpisti – di 36 mesi. «Penso che la durata della transizione non sia una preoccupazione della popolazione. La preoccupazione sono le crisi che abbiamo elencato. Alla gente oggi non importa di essere governati da un regime democratico o da un regime di emergenza, non è questo il problema. D’altronde non sono stati serviti bene durante il lungo periodo democratico. La democrazia all’occidentale è un problema di secondo ordine, adesso la questione è la sopravvivenza».

Ovviamente ci sono settori che non sono contenti: «I partiti politici non sono d’accordo, ma cosa hanno ancora da dire? Non hanno portato il benessere della popolazione. Così come certe associazioni, penso a Le Balai citoyens, che hanno cavalcato l’insurrezione del 2014, e i cui membri hanno poi preso soldi dall’estero. Alcuni sono entrati in politica ma sono allo stesso livello degli altri. Tutti loro sono inascoltabili oggi».

La Cedeao, dopo aver sospeso Mali e Guinea a causa dei rispettivi colpi di stato, ha sospeso a fine gennaio anche il Burkina Faso: «La Cedeao non ha più credito agli occhi di nessuno. Da quando siamo in crisi non ha spedito un solo sacco di viveri, né medicine. Solo parole. Nessuno ha più orecchie per ascoltarli».

Dimostranti in Ouagadougou in Burkina Faso. (Photo by Olympia DE MAISMONT / AFP)

Democrazia a rischio?

«La dinamica in generale dei colpi di stato nell’area è inquietante. Iniziano a esserci situazioni stabili di regimi non democratici», ci ha detto il cooperante italiano a Bamako.

Abbiamo chiesto a Enrico Casale, giornalista esperto di Africa e collaboratore di MC, cosa hanno in comune questi eventi. «Da un lato vediamo una grande fragilità delle istituzioni di questi paesi, che faticano a intraprendere la strada per la democrazia. Dall’altro ci sono delle minacce esterne, come l’integralismo islamico che porta a tensioni fortissime dal punto di vista militare (specie per Mali e Burkina), e poi la malavita. Questa ha un peso dalla Guinea fino al Nord Africa per traffici di droga, sigarette, migranti. Va notato che entrambi questi fenomeni si alimentano con il malcontento stesso.

Quest’area sta poi vivendo un forte cambiamento climatico che causa tensioni tra pastori e agricoltori».

E quindi: «Tutto ciò porta a instabilità, in paesi con istituzioni fragili la reazione sono spesso colpi di stato che forniscono soluzioni solo temporanee perché non risolvono nulla o molto poco».

E continua: «Poi c’è un altro elemento, che è l’insofferenza nei confronti della Francia, ex paese colonialista. Questi paesi ne stanno prendendo le distanze, e si buttano tra le braccia di altri attori, come Russia e Cina. E la Francia stessa si sta ritirando».

Abbiamo visto come, nei tre casi esaminati, la popolazione abbia acclamato i colpi di stato.

«Questo perché la fragilità istituzionale si è tradotta in mancanza di sicurezza e incapacità di dare soluzioni ai problemi epocali di questi paesi. Di fronte a una democrazia fragile, la gente preferisce un governo forte. Ma questo è molto rischioso per la tenuta democratica di tutta l’area. Anche a causa delle nuove alleanze, perché Cina e Russia, che hanno i loro interessi, non hanno nessuna attenzione per la democrazia in questi paesi. Quindi queste giunte militari rischiano di durare a lungo».

Casale allarga il discorso al continente: «Più in generale, in Africa, fino a tutti gli anni 2000 eravamo abituati a uno schema semplice, in cui si manteneva una struttura di influenza postcoloniale. Adesso ci sono tanti nuovi protagonisti, quelli citati, ma anche India, Turchia, Vietnam e la struttura delle influenze si è notevolmente complicata».

Marco Bello


Processo Sankara

Il 6 aprile scorso, nell’ambito del processo per l’assassinio di Thomas Sankara e 12 suoi collaboratori (15 ottobre 1987), sono stati condannati all’ergastolo l’ex presidente Blaise Compaoré, il suo addetto alla sicurezza Hyacinthe Kafando (entrambi in contumacia) e il generale Gilbert Diendéré.

Conakry, Guinea, 18 settembre 2021. (Photo by JOHN WESSELS / AFP)

 




Portogallo. Rifugiati come in famiglia


A Cacém (Lisbona), in Portogallo, una comunità di missionari della Consolata, due sacerdoti, un fratello e tre seminaristi, apre le porte a tre giovani profughi africani accogliendoli in casa. Un’esperienza di missione interculturale e interreligiosa, e di famiglia.

È il 26 giugno 2019. Siamo all’aeroporto di Lisbona per dare il benvenuto a Salim e Ismael, 19 e 20 anni, musulmani del Sudan, sbarcati in Italia due mesi fa, e accolti dal Portogallo.

Sguardi indagatori, strette di mano. Chiedo all’interprete di tradurre in arabo queste parole: «È da tempo che vi aspettiamo. Benvenuti. Se vorrete, la nostra comunità sarà la vostra famiglia».

Nella nostra casa, a Cacém, periferia di Lisbona, in questo momento siamo in sette: tre seminaristi tra i ventisette e i trent’anni, uno colombiano, uno keniano, uno tanzaniano, tutti al quarto anno di teologia, poi ci sono fratel Gerardo Secondino, italiano con quindici anni di Mozambico alle spalle, padre Norberto Ribeiro Louro, un portoghese 84enne con una lunga storia missionaria, anche lui in Mozambico, un ospite venticinquenne della Guinea Bissau, studente universitario, e chi scrive.

La nostra casa è un grande spazio che ospita una Caf, «comunità apostolica formativa», cioè un piccolo seminario a dimensione famigliare e missionariamente attivo nel territorio.

Facciamo accoglienza, attività di animazione con gruppi, parrocchie, scout. Nei nostri terreni abbiamo ricavato 80 orti comunitari coltivati da famiglie bisognose della zona. Infine, collaboriamo con altre realtà del sociale.

Quando mi presento a Salim e Ismael, sento che i due giovani ci vengono affidati, e che loro si affidano a noi.

Forse siamo degli incoscienti. Ci stiamo mettendo in un’avventura senza sapere bene dove ci porterà: si troveranno bene questi due giovani con noi? Riusciremo ad accoglierli?

Aprire cuore e casa

L’accoglienza non è un’esperienza nuova per noi, perché fin dall’inizio di questa comunità formativa, nel 2015, la nostra casa è aperta per chi ne avesse bisogno: è stato con noi un giovane senzatetto portoghese con problemi di alcolismo, poi lo studente della Guinea Bissau, da solo in Portogallo, poi altri con altre storie che si sono fermati per tempi più o meno lunghi.

L’idea è che la comunità, già caratterizzata da una grande diversità culturale (come spesso accade nelle case dei Missionari della Consolata), cercando di vivere come una famiglia, si offra temporaneamente come famiglia anche a chi ne ha bisogno per un percorso di recupero, inserimento, autonomia.

La scelta di aprire la casa a Salim e Ismael è, quindi, in linea con l’esperienza di accoglienza già avviata e con lo stile di formazione che vogliamo offrire ai nostri seminaristi: una fraternità autentica e missionaria.

Inoltre, l’apertura ai profughi risponde anche all’appello più volte ripetuto da papa Francesco alle comunità cristiane e religiose perché accolgano nelle loro case i migranti che arrivano.

Salim, Ismael e Bright

L’occasione è venuta quando il Jesuit Refugee Service ci ha cercati per sapere se, come alcuni anni prima si era ipotizzato, la Consolata fosse ancora disponibile a cedere la casa di Cacém per l’accoglienza. Con la nuova comunità arrivata da pochi anni, non potevamo accogliere un grande numero di persone, ma subito abbiamo detto che eravamo aperti a fare qualcosa.

Salim e Ismael, quindi, sono i primi due profughi che accogliamo. Per arrivare da noi hanno fatto un lungo viaggio. Sono passati per il Ciad e la Libia, costretti a lavorare nelle miniere d’oro in condizioni disumane per pagare il debito contratto per il passaggio in macchina ricevuto, hanno attraversato il Mare Mediterraneo su un barcone.

Quando sono partiti dalle loro case, nel Darfur in guerra, avevano 15 anni. Si sono conosciuti in viaggio e sono arrivati a Messina, in Sicilia, cinque anni dopo.

Sedersi a tavola insieme

I primi tempi comunichiamo con Salim e Ismael tramite sguardi, gesti, sorrisi e qualche parola di inglese. Sedersi a tavola con loro due ha qualcosa di misterioso e profondo.

I primi mesi sono caratterizzati dai tentativi di comunicare, dall’attenzione a essere il più possibile accoglienti e a far sentire i nostri ospiti a casa loro, dall’emozione di vivere quella pagina di vangelo che dice: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35), che molte volte abbiamo ascoltato e che ora si concretizza in questo piccolo e coraggioso passo fatto come comunità. La parola di Dio «che opera in noi» (1Ts 2, 13) ha orientato una scelta, è diventata gesto, incontro, volto, presenza.

Scambi interreligiosi

Sin dai primi giorni, nonostante i limiti della comunicazione, i ragazzi s’inseriscono in modo sorprendente nella comunità. Osservano come funzionano le cose in casa e contribuiscono in modo attivo alla vita comunitaria: rispettano gli orari, lavano i piatti e fanno le pulizie con noi. Mentre noi celebriamo l’eucaristia alla sera, loro preparano la tavola per la cena. Presto si crea come una simbiosi tra noi, anche sul piano religioso: la differenza è vissuta con rispetto, naturalezza e curiosità da entrambe le parti. Non è infrequente che ci chiedano spiegazioni sulla nostra fede. Il fatto di essere musulmani in una comunità di religiosi non crea nessuna perplessità: Salim e Ismael sono genuinamente sostenuti dalla loro spiritualità e per loro, che pregano quattro volte al giorno, non è strano parlare di preghiera e vedere che noi ci riuniamo per le nostre celebrazioni. A nostra volta, noi possiamo vedere da vicino come i musulmani vivono il Ramadan, condividere le loro feste.

Poco prima dello scoppio della pandemia, a inizio 2020, arriva nella nostra casa un altro ospite. Si chiama Bright, ha 28 anni, è nigeriano, pentecostale, fuggito dalle persecuzioni religiose.

Bright ci racconta di aver viaggiato per tre anni. Giunge da noi molto provato da ciò che deve aver sofferto in Libia. Ci racconta che è un saldatore e che dei mesi trascorsi a Bari ricorderà sempre la pasta che mangiava tutti i giorni.

Il suo primo discorso alla comunità riunita è un’ispirata preghiera di ringraziamento a Gesù.

Il Giovedì Santo, nel mezzo del lockdown, quando celebriamo la messa in casa, laviamo i piedi ai tre giovani. Il servizio che la nostra comunità sta facendo è fatto alla scuola di Gesù.

Toccare la carne

L’arrivo di Salim, Ismael e Bright, con tutto quello che porta con sé, conferma ancora una volta la verità di quel testo per noi molte volte ispiratore, che troviamo nella parte finale dell’Evangelii Gaudium, quando papa Francesco parla di un rinnovato impulso missionario: «A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo» (EG 270).

Prendersi cura di qualcuno significa diminuire le distanze, accogliere qualcuno in casa vuol dire accettare che diventi parte di noi, lasciare che i suoi problemi diventino anche un po’ i nostri: per questo la vita si complica, ma si complica meravigliosamente, perché da questo incontro ne usciamo tutti più ricchi.

Verso un futuro migliore

Certo che la differenza culturale mette alla prova non poche volte la nostra capacità di ascolto e di dialogo. Non è facile nemmeno capire la sofferenza discreta di chi continua a essere perseguitato dalla preoccupazione per i familiari lontani ancora in pericolo. Accompagniamo con un’apprensione, quasi da genitori, i loro primi colloqui di lavoro.

Sperimentiamo poi anche la gioia del chiarimento e del perdono, della fiducia e dell’amicizia che cresce nelle piccole attenzioni quotidiane. Abbiamo accesso a uno spessore umano che non ci lascerà uguali.

Molte volte papa Francesco ci ha esortati a guardare negli occhi il povero e a toccare la sua mano quando facciamo l’elemosina, indicando così un atteggiamento imprescindibile che deve marcare qualsiasi tipo di solidarietà, perché sia anzitutto attenta alla persona. Abbiamo l’esempio di Gesù, che nei Vangeli molto spesso tocca le persone che hanno bisogno di essere curate, che sempre cerca il contatto.

Ricevendo in casa questi giovani non facciamo l’elemosina: li aiutiamo a realizzare il sogno di un futuro migliore che li ha condotti sino ai margini dell’Europa. Quando li guardo negli occhi vedo futuro: un futuro sognato, che ha radici in un passato di sofferenza, che è stato come una stella che li ha guidati in un viaggio lungo e pieno di pericoli, fino a correre il rischio di morire nelle acque del Mediterraneo.

Come una famiglia

Nell’enciclica Fratelli tutti, il papa ci ricorda che ogni gesto di solidarietà per essere autentico deve nascere dall’amore, chiede il coinvolgimento nella relazione: «L’amore implica dunque qualcosa di più che una serie di azioni benefiche. Le azioni derivano da un’unione che inclina sempre più verso l’altro considerandolo prezioso, degno, gradito e bello, al di là delle apparenze fisiche o morali. L’amore all’altro per quello che è ci spinge a cercare il meglio per la sua vita. Solo coltivando questo modo di relazionarci renderemo possibile l’amicizia sociale che non esclude nessuno e la fraternità aperta a tutti» (FT 94).

Durante il lockdown della prima fase della pandemia, quando la nostra comunità sembra l’arca di Noè, ci rendiamo conto chiaramente di cosa sia questa «amicizia sociale» di cui parla il papa.

In casa siamo in tredici: oltre a noi sei missionari, ai tre giovani profughi e allo studente guineano, c’erano anche un uomo, padre di due figli, divorziato e ospitato temporaneamente in attesa di trovare altra sistemazione, e una coppia di pensionati sardi, bloccati in Portogallo per un’emergenza di salute e per la chiusura delle frontiere.

Mentre tutto fuori si ferma, dentro, in comunità, la vita continua: i turni di cucina, le lezioni di informatica e di portoghese per sostituire quelle sospese fuori, i lavori di manutenzione e pulizia della casa e del parco, persino alcuni momenti di preghiera interreligiosa per chiedere la fine della pandemia. Tutti ci sentiamo e siamo utili e responsabili gli uni degli altri. Anche chi è accolto.

Facendo un esercizio del corso di portoghese, Bright, descrivendo ai compagni il luogo dove vive, sintetizza: «In casa viviamo tutti insieme, come una famiglia».

Guardando la nostra tavola durante i pasti e le persone così diverse che, attorno a essa, prendono posto, spesso con il gusto di stare insieme e di raccontarsi, penso più volte che, in quest’angolo di periferia urbana, stiamo celebrando nel nostro piccolo una liturgia dell’accoglienza dal respiro universale.

Un passo per volta

Il progetto promosso dall’Alto commissariato per le migrazioni del governo portoghese prevede una permanenza dei giovani di un anno e mezzo presso di noi. Un tempo utile per conseguire l’autonomia linguistica e finanziaria. Vista però la difficile situazione causata dalla pandemia e visto che le istituzioni non offrono molte possibilità, in comunità decidiamo di nostra iniziativa di tenere con noi i giovani ancora per sei mesi, per aiutarli a consolidare la loro autonomia.

Salim e Ismael non hanno una formazione scolastica perché sono partiti presto dal loro paese, ma sono molto intelligenti. Salim vorrebbe diventare meccanico. Dopo aver preso la terza media, farà un corso di formazione. Intanto ha trovato un lavoro. Ismael ha il sogno di diventare ingegnere. Deve completare gli studi di base. Nel frattempo, ha iniziato a lavorare come muratore in un’impresa di un nostro amico.

In questo processo ci accorgiamo di come sia importante fare il primo passo: molte istituzioni a cui bussiamo sono immediatamente disponibili ad aiutare in diversi modi: i nostri Laici missionari della Consolata, ad esempio, si mobilitano da subito per molte necessità, e uno di loro assume Bright nella sua piccola impresa di montaggio di pannelli solari. Bright sarà con noi ancora fino alla primavera del 2022.

Le avventure della carità e della missione iniziano sempre con un primo passo fatto con coraggio e amore da qualcuno, al quale poi si uniscono altri per continuare il cammino che spesso si apre in modo imprevisto.

Vivere il vangelo

La domenica in cui salutiamo Salim e Ismael, che ora hanno la possibilità di affittare una stanza, a maggio 2021, viviamo un momento molto toccante: durante il pranzo chiedo che sia proclamato il capitolo 25 del Vangelo di Matteo, quello nel quale Gesù parla del giudizio finale identificandosi con i bisognosi: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare… ero straniero e mi avete accolto…». La lettura è fatta in portoghese e in arabo.

È emozionante ascoltare le parole di Gesù pronunciate in arabo da quei giovani musulmani. Non è difficile per loro riconoscersi nello straniero, solo, con i soli vestiti che ha addosso. E per noi è evidente che quelle parole di Gesù le abbiamo vissute: sentiamo lo stupore per la semplicità del Vangelo e la forza con cui esso trasforma la nostra vita quando proviamo a metterlo in pratica.

In questi due anni, nonostante la religione diversa, accogliendoci gli uni gli altri, abbiamo scritto insieme una pagina di Vangelo e di bene. Il Vangelo è semplice, ed è possibile e bello viverlo, basta aprirgli il cuore e la casa.

Amici, fratelli, figli

Nei loro discorsi di ringraziamento, sinceri e visibilmente commossi, ci dicono di aver ritrovato nella nostra comunità la famiglia che hanno lasciato cinque anni fa, quando sono partiti dal loro paese. Uno di loro cita persino le parole di Gesù, «amatevi gli uni gli altri», affermando di avere vissuto proprio questo. Di essere stato accolto non come un bisognoso, ma come un amico, un fratello, un figlio.

Salim e Ismael, che non conoscevano molto della nostra religione, attraverso la nostra accoglienza, hanno capito chi sono i cristiani.

Non abbiamo accolto i profughi per fare un’attività tra le altre, ma per vivere, noi sacerdoti, insieme al fratello missionario e ai nostri seminaristi in formazione, la vocazione di cristiani e di missionari. L’apertura e l’accoglienza fanno parte dello stile di vita di una comunità missionaria. È un modo di vivere il Vangelo, non tanto preoccupati di testimoniare qualcosa, ma anzitutto desiderosi di vivere autenticamente il nostro essere missionari, di dare senso alla nostra presenza qua dove siamo.

Ermanno Savarino,
Comunità apostolica formativa dei Missionari della Consolata a Cacém, Lisbona, Portogallo


 * Reu: Regione Europa IMC




Accoglienza profughi dall’Ucraina /5


Carissimi amici e benefattori
un saluto a tutti voi

Dopo una pausa dall’ultima comunicazione vi aggiorno sulla situazione che ci vede impegnati tutti insieme ad aiutare coloro che sono colpiti dalla guerra in Ucraina.

Qui a Łomianki come del resto in Polonia siamo passati ormai ad una seconda fase dall’inizio del conflitto inziato quasi due mesi fa e purtroppo non ancora interrotto. Dopo l’ondata di profughi improvvisa e gigantesca che si faceva notare ovunque nel paese, direi che ora siamo passati a una gestione delle migliaia di persone giunte qui. Qualcuno (pochi) ha provato a rientare nel paese ricongiungendo la famiglia in Ucraina; invece, la maggior parte di donne e di bambini che vivono ormai da 2 mesi presso le famiglie o nei centri in cui hanno trovato alloggio, sono ancora qui tra noi.

Se per fortuna non si notano piu le folle di arrivi di donne e bambini alle stazioni dei treni, tuttavia nei centri di assitenza le code giornaliere sono sempre ben visibili, come capita nella parrocchia di Łomianki, dove ogni giorno continuiamo coi volontari a distribuire generi di prima necessità. Permettetemi di ringraziare molti di voi per le generose offerte che ci avete fatto avere, grazie alle quali possiamo quotidianamente comprare e nuovamente riempire gli scaffali del centro di aiuto della parrocchia, che rapidamente si svuotano.

Ringraziamo anche i volontari che da diverse parti del mondo hanno scelto di vivere nella nostra casa per aiutare in diversi modi, tra questi ricordiamo Clara un’infermiera di Torino, Kessie una dottoressa del Sud Africa e Adriano un volontario di origine italiana abitante in Canada.

Se la situazione in Polonia si puo definire in questo momento di gestione, lo stesso non si puo dire nella vicina Ucraina, dove purtroppo come ben sapete il conflitto continua con una cruenza e una violenza raccapricciante. Le notizie che ascoltiamo dai media e ancor piu le storie dei testimoni che incontriamo sono molto tristi. Per questo motivo stiamo sempre piu organizzando i nostri sforzi non solo qui sul posto ma anche inviando aiuti di vario genere in Ucraina soprattuto nelle zone occupate, escluse da ogni rifornimento.

Sono gia 4 i trasporti partiti, (e per grazia arrivati!) nell’Est del paese come nella zona di Charkow dove proseguono i combattimenti. In quei luoghi ogno genere di aiuti e visto come una manna dal cielo, perche il prolungare del conflitto ha ridotti ogni scorta nei magazzini. Un frate francescano mi ha detto che in quella regione dove abita, per fare benzina alla propria auto con l’aiuto di un amico, sono andati a fare rifornimento da un treno abbandonato che aveva ancor del carburante nel serbatoio. Queste perché i benzinai o sono esauriti i sono stati distrutti.

In questi giorni stiamo organizzando altre spedizioni nella regione di Zaporoze esattamente a Energodar dove si trova la centrale atomica piu grande di Europa. La città è stata occupata.   Prevedo questa estate, se le condizioni lo permetteranno, di recarmi in Ucraina.

In questo momento è difficile fare delle previsioni. La situazione è ancora molto confusa e purtroppo non si vedono ancora spiragli per un cessate il fuoco. Una delle poche cose di cui si e sicuri che purtroppo si continuerà a lungo. Oltre a questo, una cosa che vediamo bene è il rischio che una volta terminata la guerra questa stessa continui nei cuori di molte persone che hanno subito violenza e sopprusi.

Per questo continuaimo a pregare per la fine della guerra chiedendo a Dio il dono della pace e continuando a costruiore pace attorno a noi.
Un saluto a tutti

padre Luca Bovio


Le foto sono da Charkow, in Ucraina. Sono le persone beneficiate dagli aiuti che abbiamo inviato.




Oujda, Oltre frontiera


Da poco più di un anno la Consolata ha portato i suoi missionari in Marocco. In una città snodo fondamentale della rotta migratoria. È iniziata una missione complessa, che ha caratteristiche e potenzialità tali da attivare tanti ambiti missionari.

«L’idea nasce dal lavoro che i laici della Consolata (Lmc) di Malaga portano avanti da anni con i migranti», ci racconta Silvio Testa, laico italiano, da una vita trapiantato nella città costiera a Sud della Spagna. Silvio, pur essendo originario di Torino, ha una forte pronuncia spagnola, che rende la sua parlata ancora più calorosa. «Dal 2005 i Lmc, attraverso la loro associazione Uyamaa (che significa famiglia allargata in kiswahili, uyamaa.org, ndr), sono presenti nella Piattaforma di solidarietà con gli immigrati, una rete che si occupa da oltre 20 anni dei migranti nella provincia di Malaga». In quegli anni, i barconi, chiamati «pateras», con il loro carico di vite umane e di sogni, partiti dalle coste africane, arrivavano nei pressi della città e nel suo porto. «Il nostro sguardo – ricorda Silvio – è quindi andato fino all’altro lato del Mediterraneo. Quegli arrivi ci interpellavano: “Cosa possiamo fare?”. Insieme a padre Luis Jiménez Fernández, all’epoca superiore Imc in Spagna, è maturata l’idea di avviare un qualche intervento a Melilla, città di fronte a Malaga, ma sul continente africano».
Melilla, insieme a Ceuta, costituisce una piccola porzione di territorio spagnolo in Africa, fa parte della diocesi di Malaga. Entrambi i territori sono frontiere molto calde tra Africa e Unione europea, che spagnoli e marocchini presidiano, e dove sono presenti alte recinzioni, «muri» tra Sud e Nord. «Volevamo prestare attenzione a quello che stava succedendo da una parte e dall’altra delle frontiera», continua Silvio.

In questa dinamica, nel 2014, Uyamaa ha proposto alla Piattaforma di creare l’Osservatorio frontiera Sud (Osf), un’iniziativa orientata a seguire la situazione dei migranti in transito tra Marocco e Spagna. «Questo impegno ha portato noi Lmc a incontrare altri attori coinvolti nell’appoggio ai migranti sia a Ceuta e Melilla che nelle città del Nord del Marocco, nella diocesi di Tangeri». La comunità di missionari della Consolata di Malaga ha seguito da vicino questi sviluppi coinvolgendo la regione Spagna dell’Istituto.

Intanto l’Imc stava preparando la ristrutturazione che avrebbe portato alla creazione della Regione Europa (Reu), nella quale il tema dei migranti e rifugiati sarebbe diventato a tutti gli effetti la nuova frontiera missionaria.

Le visite

Tra il 2018 e il 2019 un’équipe mista Imc-Lmc, della quale faceva parte anche Silvio, ha compiuto tre viaggi in Marocco, due nella diocesi di Tangeri e uno nella diocesi di Rabat. Durante quei viaggi, l’équipe ha contattato diverse istituzioni ed enti coinvolti nel lavoro con i migranti.

«Durante il terzo viaggio (aprile 2019, ndr), il cardinale Cristóbal López, arcivescovo di Rabat, ci ha proposto di assumere la parrocchia di Oujda, vicino al confine con l’Algeria. Le condizioni erano buone, e sembrava la missione giusta». Silvio ricorda che, nei due viaggi precedenti, molti degli enti contattati, avevano citato Oujda come punto nevralgico di passaggio del flusso di migranti in arrivo dal Sahara, ma anche di quelli espulsi dalle autorità marocchine. «Così ci siamo andati, e quando ho visto la parrocchia e il lavoro, mi sono detto: secondo me è questo il posto giusto. Da quando è stata presa la decisione, le cose sono andate molto in fretta». Silvio era con padre Edwin Osaleh Duyani e padre José Luis Pereyra Quintián, superiore della Spagna.

A Oujda operava un sacerdote diocesano francese, che però doveva rientrare al suo paese. «Abbiamo visto il lavoro che si stava facendo, la frontiera chiusa ufficialmente per problemi diplomatici tra i due paesi, ma attraversata clandestinamente da migranti subsahariani, mentre altri, arrestati in altre zone del paese, venivano portati lì per essere espulsi in Algeria (anche se formalmente non sarebbe lecito)».

La scelta per l’arrivo dell’Imc in Marocco è caduta su padre Edwin, che avrebbe dovuto fare alcuni viaggi con permanenze limitate nel 2020, senza però riuscirci a causa della pandemia.

Il pioniere

«Sono arrivato a Oujda nel novembre del 2020 e ho iniziato a lavorare con il sacerdote francese che mi ha affiancato per diversi mesi», ricorda Edwin, che abbiamo raggiunto telefonicamente a Oujda.

«Da due anni ero in missione a Malaga, e pensavo di starci di più. Non credevo di venire qui subito, come pioniere. Ma alla fine ho capito, perché il lavoro è molto importante».

«Molti migranti vengono qui a chiedere aiuto dopo un viaggio sofferto nel deserto. Ho trovato una realtà nella quale si vive come in famiglia, si cerca di fare le cose insieme, affinché si ritrovi, almeno in minima parte, quell’atmosfera persa durante il viaggio. Questo approccio mi è subito piaciuto».

Edwin non nasconde le difficoltà iniziali, come le due lingue da imparare, francese e arabo (lui è keniano), o lo stupore iniziale dei migranti, nel vedere un prete africano occuparsi di loro, migranti africani: «Abituati a un europeo, all’inizio erano diffidenti, e non volevano che il sacerdote francese andasse via. Ma poco a poco si sono abituati». Edwin è stato poi affiancato da padre Francesco Giuliani e, alla fine di febbraio 2022, è arrivato finalmente anche il congolese padre Patrick Mandondo.

Il lavoro è molto, la struttura di accoglienza è aperta 24 ore su 24: «25 su 24», dice Edwin. Di solito è lui che apre la porta di notte. I locali della parrocchia sono grandi e sono aperti a chi ha bisogno di un riparo, un posto per lavarsi, dormire, mangiare, ma anche ricostruirsi mentalmente. «Stiamo accogliendo mediamente 50-60 persone, ma sovente sono di più. Nel 2021 sono stati 2311. Alcuni si fermano pochi giorni, altri settimane oppure anche mesi».

La salute, prima di tutto

Uno dei problemi maggiori sono le condizioni di salute nelle quali arrivano i migranti.

Ci racconta Silvio: «Tutti i giorni, a tutte le ore, arriva gente con i piedi sfracellati, le ossa rotte, la testa aperta. Devi essere lì ad accogliere queste persone e dare loro delle cure.

Una missione così, è difficile trovare gente che la voglia assumere. È un lavoro massacrante. Il fattore umano è fondamentale. Inoltre l’impegno è molto esigente perché devi avere tante relazioni: con la sanità pubblica, la polizia, le autorità. Fai da mediatore. Non è un classico lavoro da prete».

Ma Edwin è contento e ci spiega come è composta l’équipe di lavoro. «Il progetto va avanti anche grazie alla chiesa protestante evangelica. Siamo due coordinatori, io e un evangelico. C’è un’ottima collaborazione ecumenica. Prestiamo anche i locali della chiesa a questi fratelli cristiani per il loro culto, perché non ne hanno.

Poi ci sono due medici, arrivati come studenti, uno cattolico e uno protestante. Sono molto importanti a causa dei frequenti problemi di salute di chi bussa alla nostra porta. Loro poi, hanno contatti negli ospedali, e si adoperano per far prendere in carico i migranti.

Della équipe fanno inoltre parte due suore spagnole di due differenti congregazioni. Sono incaricate delle donne e delle attività di formazione».

Poi Edwin ci racconta una storia di speranza: «Tra i responsabili dell’accoglienza c’è un ragazzo del Camerun, arrivato come migrante sei anni fa. Dormiva qui fuori. In quel periodo hanno iniziato ad accogliere nei locali della parrocchia, e il prete gli ha chiesto di aiutarlo. Così si è integrato e ora si adopera per gli altri migranti. Ci aiuta moltissimo, perché lui sa riconoscere le varie situazioni. Un ospite ti dice che è appena arrivato dall’Algeria, invece magari arriva da Casablanca o Rabat, oppure vive nel quartiere. Lui capisce tutto, io sto imparando da lui. A volte i migranti, quando arrivano, sono intercettati da una mafia locale. Dicono loro che li aiutano, invece li chiudono in appartamenti, poi li torturano e fanno chiamare loro le famiglie perché mandino soldi per liberarli. Arrivano da noi con brutte ferite. Lui si interessa, e cerca di capire chi è stato».

Dover scegliere

Edwin ci dice che i migranti arrivano numerosi, «non andiamo noi a cercarli, purtroppo dobbiamo selezionare. In alcuni casi diamo un po’ da mangiare e poi devono andare via».

Chi è di turno all’accoglienza deve capire la situazione di chi arriva. Si registrano i dati, le condizioni di salute, le informazioni sul viaggio. Chi è più vulnerabile, stanco o ferito viene subito accolto.

Come detto, molti sono da curare, per cui vengono accompagnati in ospedale. Ma spesso le cure sono molto costose. «In quel caso si deve valutare, perché se curiamo un migrante, togliamo dei soldi all’acquisto di cibo, ma talvolta è necessario. Allora speriamo nella Provvidenza».

E poi ci sono i minori non accompagnati: «A volte è difficile capire: dicono di essere minori e non lo sono, o viceversa, a seconda di cosa vogliono ottenere. Altri danno nomi falsi alla polizia, poi noi li recuperiamo e i dati che abbiamo noi non coincidono.

Aiutiamo i minori a capire meglio il mondo. Arrivano qui persi, non sanno cosa fare, dove vogliono andare. Hanno un sogno, che però è sbagliato. Pensano che in Europa trovi tutto appena arrivi. Noi gli diciamo la verità. Rimangono qualche settimana, qualche mese. Quelli che non sanno leggere e scrivere, li aiutiamo con dei corsi. Cerchiamo anche di contattare le loro famiglie. Sono in tanti, tra i 14 e i 16 anni».

I missionari danno anche la possibilità agli ospiti di frequentare corsi di formazione professionale, a chi fosse interessato (elettricità, meccanica, cucina, ecc.). Inoltre, collaborano con le ambasciate dei vari paesi quando ci sono problemi di
documenti.

«Quando arrivano qui, ci sono per loro tre possibilità: andare in Europa, ma pochissimi riescono; rimanere in Marocco, ma anche ottenere i documenti per lavorare qui è complicato. La terza possibilità è quella di ritornare al proprio paese. Ci sono quelli che vogliono fare lo stesso viaggio a ritroso, ma è complesso. Con diversi di loro iniziamo il processo di rimpatrio con l’Oim (Organizzazione mondiale per le migrazioni, ndr), che può prendere settimane o mesi. In questo tempo i migranti rimangono qui, e facciamo loro dei corsi di formazione».

Edwin ci racconta la storia di uno dei tanti. «È con noi un ragazzo di 15 anni della Sierra Leone, arrivato 5 mesi fa. Il suo sogno era di andare in Europa. Ha un fratello maggiore in Spagna. Ho cercato di dissuaderlo, ma lui ha insistito, e così ho fatto una ricerca per trovare il numero del fratello. Siamo riusciti a telefonargli. Lui gli ha sconsigliato di proseguire, dicendogli di tornare a casa: “Qui le cose non sono come pensi”. Il ragazzo ha iniziato a piangere, dicendo: “Non mi vuole bene”. Io gli ho detto: “Guarda, sono stato in Europa e sta dicendo la verità”. Poi c’era anche una divisione nella famiglia, perché la madre voleva che continuasse. Alla fine, hanno accettato, e ora abbiamo iniziato le pratiche per il rimpatrio con l’Oim».

Le donne che arrivano sono invece rare: «Non si possono fermare da noi, non siamo attrezzati, ma le suore se ne occupano e trovano loro una sistemazione. Poi le seguono e propongono dei corsi di formazione».

Una missione… europea

Questa missione è stata ideata e voluta dal gruppo di padri e laici di Malaga e dipende dalla Regione Europa, anche se si trova in Africa. Edwin, inoltre, è consigliere regionale (ovvero uno dei cinque membri del consiglio che guida i Missionari della Consolata del continente). Gli chiediamo in che modo si sente parte dell’Europa: «Penso sia stato lo Spirito che mi ha spinto a questa decisione. Io creo il legame con la regione, questa missione ne fa parte. Siamo ad gentes, lavoriamo e parliamo con non cristiani. Viviamo la consolazione e parliamo di Gesù, non tanto con le parole, ma con le nostre azioni, con la nostra vita».

La missione ha un legame stretto con la comunità di Malaga. Ora che è più difficile viaggiare, a causa della pandemia, viene organizzato un incontro online ogni due settimane. Vi partecipano i missionari di Oujda e alcuni membri dell’équipe, insieme ai laici e ai padri di Malaga. Ogni incontro riguarda un aspetto specifico del lavoro: sanità, prima accoglienza, formazione, ecc.

Secondo Silvio, questa missione può offrire molti spunti: «A parte le attività in sé, essa si può convertire in un fuoco eccezionale di animazione missionaria. Abbiamo previsto di andare d’estate con un gruppo di giovani. I classici campi di lavoro, per fare qualcosa. Si programma e si preparano incontri con i migranti, che sono anche loro giovani. Si respira veramente il lavoro e la spiritualità missionaria. È una missione di frontiera, in senso fisico e tematico.

Ha un potenziale in altri ambiti che bisogna sfruttare, come quello del dialogo interreligioso e dei diritti umani. Ci sono agganci con il mondo esterno.

Il potenziale di Oujda è che riporta la regione Europa all’essenza della spiritualità missionaria, e questa è un punto per ricominciare molte cose».

Marco Bello

Archivio MC


La voce del cardinale

Missione speciale

Monsignor Cristóbal López Romero, arcivescovo di Rabat (una delle due diocesi del Marocco con Tangeri), è stato nominato cardinale il 5 ottobre 2019 da papa Francesco. Salesiano, spagnolo della regione di Almería, è di una simpatia straripante. Ha scritto questo testo per MC per presentare la missione di Oujda, alla quale tiene molto.

Oujda è la città più orientale del Marocco, la porta dell’Algeria. È pure la porta di entrata in Marocco per migliaia di persone migranti, provenienti da diversi paesi africani, ma tutti con una destinazione comune: l’Europa.

La chiesa di Oujda è la più antica di quelle attualmente presenti nella diocesi di Rabat: fu costruita nei primi anni del protettorato francese (durato dal 1912 al 1956).

In quell’epoca, la comunità cristiana era composta da europei che si stabilivano in Marocco per le opportunità di lavoro che c’erano.

Oggi la piccola comunità cristiana è fatta di studenti universitari subsahariani e di alcune persone di passaggio durante l’avventura migratoria.

Fin dall’inizio di questo fenomeno, la parrocchia si è aperta all’accoglienza di queste persone che arrivano a Oujda sfinite, ferite, in situazione di vulnerabilità, dopo aver attraversato il deserto e la frontiera algerina, in mezzo a difficoltà e pericoli.

Quattro verbi, quattro azioni

La parrocchia di Oujda cerca di mettere in pratica le quattro azioni che papa Francesco propone in relazione a questi fratelli: accogliere, proteggere, promuovere e inserire.

Accogliere e proteggere. Tutte le persone che arrivano sono accolte e ascoltate. Se hanno fame, possono mangiare. Se sono stanche possono riposare. Se sono malate, le si cura. Se sono prese nella rete mafiosa, si fa il possibile per liberarle.

Questo porta, ogni anno, ad accogliere diverse migliaia di persone nei locali della parrocchia, che sono arrivati a ospitare fino a 150 persone contemporaneamente. La permanenza va da alcune ore a diversi mesi, fino a un anno.

Promuovere e inserire. Per i giovani che scoprono la necessità di formarsi prima di fare il salto verso l’Europa oppure di tornare al proprio paese, esiste la possibilità di fare corsi brevi di formazione professionale.

Però la cosa più importante è che a tutti si offre un ambiente di serenità e sicurezza, e un accompagnamento personale che li porta a recuperare la propria dignità, il proprio equilibrio emotivo, e li aiuta a ripensare un progetto di vita, permettendo loro di andare avanti più coscienti e con un più alto grado di libertà. Possiamo dire che queste persone passano a Oujda attraverso un processo di recupero della dignità.

L’inserimento è difficile, perché son pochi che scelgono di fermarsi in Marocco. Però la formazione ricevuta li aiuterà a inserirsi in Europa oppure a reinserirsi nel proprio paese di origine, se decidono di tornare (e sono molti che scelgono questa opzione).

Una missione ecclesiale importante

Quello che la comunità cristiana di Oujda fa in favore delle persone in migrazione è il miglior servizio che la chiesa sta prestando loro in tutta la diocesi. Esso consiste innanzitutto nell’offrire un ambiente famigliare, nel quale le persone si sentano accolte, valorizzate e amate, come requisito per potere aumentare la propria autostima e recuperare la dignità.

È un servizio ecumenico perché lo facciamo in comunione di azione con i cristiani protestanti presenti nella Chiesa evangelica del Marocco.

È un servizio inter congregazionale, perché integra i Missionari della Consolata, e due congregazioni di religiose, le suore del Sagrado Corazon e quelle di Jesus-Maria.

È un servizio interreligioso, perché in esso si coniuga il lavoro di cristiani e musulmani, e si indirizza a qualsiasi persona in necessità, indipendentemente dalla sua religione. E i musulmani sono la maggioranza.

È un servizio integrale perché accompagna la persona, specialmente i giovani e minori non accompagnati, in tutti i suoi bisogni e finché non diventa autonoma e in grado di proseguire da sola.

Ho affidato la responsabilità della direzione del centro di accoglienza e della parrocchia di Oujda ai Missionari della Consolata, per dare una continuità istituzionale, ma soprattutto perché il carisma della Consolazione è di pertinenza e necessità estrema per le persone in migrazione.

Inoltre, una comunità ha le caratteristiche giuste per creare il clima di famiglia.

Segni e testimoni

Essere vescovo, essere cristiano in Marocco, presuppone e implica convertirsi in segno e testimone dell’amore che Dio ha per l’umanità. Quello che facciamo ha un valore relativo, l’importante è quello che siamo e che viviamo, la testimonianza che diamo.

San Giovanni Paolo II, in una brevissima visita a Casablanca, disse: «Le opere che fate qui, continueranno o non continueranno, però quello che certamente rimarrà è l’amore con il quale fate ciò che fate».
L’amore non passa mai, in verità, ed è la vocazione comune di tutti i cristiani, ovunque sia e qualunque cosa facciano.

La nostra sfida principale in questo ambiente nel quale viviamo, di maggioranza assoluta musulmana, è essere segno e testimoni della tenerezza e della misericordia di Dio; essere parola vivente e convertirci nel quinto Vangelo, l’unico che i musulmani potranno leggere: essere apostoli della bontà, affinché, come diceva (il beato, presto santo, ndr) Charles de Foucauld, chi ci conosce possa pensare o dire: «Se il discepolo è così, come sarà il maestro».

cardinale Cristóbal López Romero
arcivescovo di Rabat
(liberamente tradotto dallo spagnolo) 

Nota

Il cristianesimo (cattolici e protestanti) in Marocco è una minoranza, valutato in circa 1% della popolazione, meno di 40mila. I fedeli sono per lo più stranieri.

mde




Madagascar,

La lunga strada della missione


Immersi in paesaggi mozzafiato ma con enormi problemi di viabilità, la missione si fa anche con le suole delle scarpe. La gente è accogliente. I cristiani pochissimi e giovani. La voce dell’esperienza diretta.

Le meraviglie di Dio sono enormi. In modo straordinario hanno rafforzato la nostra piccola fede, reso facili le nostre lotte quotidiane e ci hanno dato un’incredibile speranza di guardare al futuro. Hanno facilitato i nostri viaggi, l’attraversamento di villaggi, fiumi, torrenti e foreste, salendo e scendendo le ripide colline del comune di Beandrarezona. Hanno fatto accadere l’inatteso e l’impossibile.

Ci troviamo nella regione di Sofia, nella provincia di Mahajanga, nel distretto di Bealalana. La regione di Sofia ha una superficie di 52.504 chilometri quadrati (come due grosse regioni italiane), con una popolazione approssimativa di 985mila abitanti. Il municipio di Beandrarezona è costituito da tre comuni rurali con una popolazione di 51.170 persone di cui 716 cattolici. Il novanta per cento dei cattolici sono giovani e bambini.

Il gruppo etnico dominante è quello degli Tsimihety, che sono prevalentemente agricoltori e coltivano riso, tabacco, arachidi, fagioli, mais. L’agricoltura viene effettuata su piccola scala utilizzando metodi tradizionali. Questo comune è uno dei luoghi più poveri della regione di Sofia. La povertà è sentita più duramente tra i giovani che sono la maggioranza. Non esistono reti stradali che favoriscano la circolazione delle persone e dei prodotti agricoli verso i mercati locali.

Comunità lontane

Il programma di evangelizzazione casa per casa e di visita dei villaggi è in corso di realizzazione. È una buona esperienza incontrare persone nel loro ambiente quotidiano. L’accoglienza è finora positiva e la gente apprezza queste visite. Questa attività richiede resistenza e determinazione. Bisogna infatti camminare attraverso sentieri, fiumi e terreni collinari. La maggior parte delle persone sono amichevoli e disponibili.

Ci sono quarantacinque villaggi lontani l’uno dall’altro tra i 20 e i 90 chilometri. Non ci sono strade, quindi, per lo più, facciamo queste grandi distanze a piedi. La nostra comunità cristiana più lontana è a 90 chilometri dalla sede di Beandrarezona: si tratta di una camminata di due giorni. Abbiamo anche visitato per la prima volta nuovi villaggi nell’area della nostra missione. È stata un’avventura perché alcuni non erano mai stati visitati da nessun sacerdote, mentre altri villaggi avevano visto un missionario solo prima del nostro arrivo nel 2018, quando ancora c’erano i frati cappuccini. Il numero di cristiani in una cappella esterna varia da 5 a 30. Tuttavia, ci sono villaggi dove non c’è un solo cattolico. Ogni cappella ha un catechista. Questi sono uomini di buona volontà, scelti dai cristiani del luogo per condurre le celebrazioni domenicali, pianificare e organizzare preghiere, come il rosario, e infine prendersi cura del pezzo di terreno dove sorge la cappella.

Per la scelta dei catechisti sono stati presi in considerazione i seguenti elementi: in primo luogo devono essere persone con una buona reputazione nella comunità e, in secondo luogo, devono saper leggere e scrivere. Questi catechisti non hanno alcuna formazione catechetica e, in casi estremi, alcuni di loro non sono neppure battezzati. Può sembrare strano, ma questa è la nostra realtà. I catechisti che devono ancora essere battezzati sono aiutati da cristiani anziani a formare i catecumeni, mentre si sottopongono essi stessi a formazione.

Diverse cappelle esterne hanno strutture semi permanenti che sono in uno stato fatiscente, mentre altre usano come luogo di culto e riunione delle strutture di fortuna messe a disposizione da cristiani nelle loro fattorie. La parrocchia, per rendere più stabili le singole comunità dovrà acquistare appezzamenti di terra in diversi villaggi: non avere un luogo di culto permanente è infatti destabilizzante.

Generalmente, ci sono pochissimi adulti nelle comunità cristiane, e questo rende molto difficile l’autofinanziamento allo scopo di acquistare terreni.

Bisogno di formazione

La formazione delle comunità cristiane è in corso. Il nostro obiettivo è quello di creare un senso di appartenenza e partecipazione alla parrocchia. I catechisti stanno seguendo sessioni di formazione che permettono loro di svolgere meglio i loro compiti. Sono stati esposti diversi temi, come la vocazione di un catechista, il suo ruolo in una comunità cristiana e nella parrocchia, l’importanza della preghiera nella vita cristiana. Inoltre, concetti semplici di liturgia come l’anno liturgico, i colori e i diversi momenti e gesti della messa, riflessioni sulle letture domenicali, e così via. Gli incontri sono programmati ogni tre mesi e durano quattro giorni, e si svolgono nella sede centrale. A causa delle lunghe distanze, i catechisti arrivano il martedì e partono la domenica mattina dopo la messa. Ogni catechista condivide le sue esperienze e il lavoro svolto negli ultimi tre mesi.

Abbiamo attivato i programmi di formazione per i bambini e i giovani, che consistono in seminari, sport, istruzioni catechetiche. Il fatto che la maggioranza dei cristiani siano giovani è un buon segno per un futuro luminoso del distretto missionario.

La maggior parte dei genitori non sono cristiani, ma non hanno problemi a vedere i propri figli partecipare alle attività della chiesa, frequentare le lezioni di catechismo e ricevere i sacramenti. Tuttavia, non riconoscono la domenica come un giorno di culto e dedicato alle attività della chiesa, e spesso costringono i loro figli a lavorare nei campi, rendendo difficile la realizzazione delle attività durante i fine settimana. Non abbiamo strutture fisiche dove organizzare alcune di queste attività, soprattutto durante la stagione delle piogge, e questo ostacola il buon funzionamento dei programmi di formazione.

Inculturazione

Abbiamo celebrato la fahamadiana (esumazione) dei morti. Perché l’idea di vita eterna per i Malgasci è collegata alla tomba ancestrale, ovvero passato e futuro convergono nella tomba di famiglia. L’astrologo di famiglia determina i giorni di esumazione. Le ossa vengono riassemblate nella loro posizione originale e poi avvolte in nuovi sudari. I discendenti sono invitati a ballare con gli antenati. È una grande festa per la famiglia e l’intero villaggio.

Le piaghe da combattere

La povertà e l’analfabetismo sono i nemici più pericolosi della popolazione di Beandrarezona e  si fanno sentire a tutti i livelli della vita. In questo contesto, i più a rischio sono le bambine e i bambini, perché non possono soddisfare i bisogni di base. Le ragazze sono forzate a mettersi in gioco in rapporti sessuali con adulti, i quali promettono loro un futuro migliore che, alla fine, è solo un miraggio. Queste ragazze spesso rimangono incinte e diventano madri in tenera età.

Per il ragazzo l’educazione non è una priorità. L’accento è posto sul numero di figli che si sono generati, sul numero di mucche e risaie acquisite come proprietà. In molti casi, il bambino viene coinvolto in piccoli crimini e nell’abuso di alcol e droghe (come il rongony). Così povertà e analfabetismo ostacolano lo sviluppo di questa comunità.

Diverse iniziative sono state prese, anche se il percorso è ancora molto lungo e accidentato. Alcuni obiettivi sono stati raggiunti e si lavora per arrivare a molti altri.

Questo viaggio missionario richiede coraggio, determinazione e sostegno da parte di ognuno di noi. Ringraziamo Dio per il suo straordinario potere e la sua opera nella nostra vita. Non possiamo dimenticare la sua bontà e le sue benedizioni su di noi durante questi tempi di Covid-19. Ancora una volta, la nostra gratitudine va a colui che ci sta dando speranza in questi tempi difficili rafforzandoci per i suoi scopi.

 Kizito Mukalazi


Archivio MC


 




Mozambico. La jihad dei poveri


La frustrazione per i proventi del petrolio mai arrivati, l’infiltrazione di imam radicali stranieri, l’afflusso di armi. Tutti ingredienti che hanno sviluppato una presenza islamista. Mentre il governo centrale, che aveva sottovalutato il problema, chiede aiuto.

La guerra continua. Sottotraccia, ma continua. Cabo Delgado, in Mozambico, molto probabilmente, non avrà pace neppure nei prossimi mesi. Quel senso di frustrazione e di marginalizzazione che hanno portato i giovani locali a sollevarsi contro il governo centrale di Maputo, spinti anche dalla predicazione di imam radicali, ha creato una miscela esplosiva che non è stata ancora neutralizzata. Neanche per effetto dell’intervento delle forze armate straniere, in particolare quelle ruandesi.

Cabo Delgado, uno sfollato si costruisce un riparo di fortuna usando tecniche tradizionali. Foto Luca. S. Pistone.

La genesi della crisi

La crisi a Cabo Delgado scoppia nell’ottobre del 2017. È in quel periodo che la provincia più povera e periferica del Mozambico inizia a conoscere i primi attacchi da parte di gruppi di islamisti radicali. Si tratta di azioni limitate, messe in atto da miliziani armati con machete e coltelli da caccia, che si spostano con mezzi di fortuna (motorini, vecchie auto, pulmini scassati). Prendono di mira villaggi isolati e sterminano la popolazione senza mostrare alcuna pietà. Professano un islam radicale e l’adesione allo Stato islamico, anche se non è mai stato confermato un rapporto organico che andasse al di là di una formale adesione da parte dell’Isis alle rivendicazioni dei miliziani mozambicani. In questi ultimi, però, c’è anche una volontà di rivalsa di carattere etnico. La maggior parte sono Kimwani e Amakhuwa e la loro lotta è indirizzata contro la minoranza Makonde (economicamente) dominante e filogovernativa.

Nampula. Giovane donna sfollata alla registrazione nel campo profughi. Luca S. Pistone

I motivi

Ma perché si ribellano? Che cosa li spinge a rivoltarsi contro le autorità centrali? L’esplosione delle violenze, secondo alcuni analisti internazionali, è legata soprattutto alla scoperta di grandi giacimenti offshore di gas fatta da società di idrocarburi occidentali, ad Afungi, all’estremo Nord della costa mozambicana, vicino alla città e al porto di Palma. «Gli investimenti nei giacimenti offshore del Nord del Mozambico – spiega Emilia Columbo, ricercatrice del Center for strategic & international studies (Csis), think tank di Washington (Usa), esperta delle dinamiche politiche dell’Africa australe – hanno creato enormi aspettative nelle popolazioni locali. Esse speravano che, finalmente, la loro vita misera potesse cambiare, ma non è stato così». Gran parte dei proventi dell’industria petrolifera e mineraria sono volati verso Sud e hanno arricchito le élite di Maputo invece di trasformarsi in stanziamenti per costruire infrastrutture e creare occupazione e ricchezza nel Nord. «La miseria è stata la vera spinta di questo movimento – continua Emilia Columbo -. Il detonatore che ha fatto esplodere la bomba è stato l’integralismo islamico predicato da imam venuti da fuori o da mozambicani che sono rientrati in patria dopo essersi radicalizzati all’estero. Nello Shabab, così si chiama il movimento (da non confondere con al Sahabab della Somalia, ndr), ai locali si sono aggiunti altri giovani provenienti dall’estero: tanzaniani, burundesi, ugandesi, ecc.».

Due giovani sfollate a Nampula. Foto Luca S. Pistone.

Salto di qualità

Gli attacchi, nel corso degli anni, sono diventati sempre più frequenti e sempre più efferati. Vere e proprie stragi nei villaggi che hanno portato a migliaia di morti (nessuno sa quante siano le vittime). Per mettersi al sicuro, la gente a iniziato a fuggire. Dei circa 1,5 milioni di abitanti di Cabo Delgado, 800mila hanno cercato rifugio nelle province vicine: Nampula, Niassa e Zambezia, o addirittura in Tanzania. In molte città delle province confinanti è scattata una gara di solidarietà nei confronti degli sfollati. Molte famiglie hanno ospitato nelle proprie case i rifugiati, offrendo loro aiuto materiale e sostegno umano. Chi è fuggito, secondo le testimonianze dei militari, non solo ha perso tutto, ma è spaventato.

La Chiesa cattolica si è mobilitata in molte zone per portare aiuti: vestiti, cibo, acqua, medicinali. Padre Fonseca Kwiriwi, religioso passionista, responsabile della comunicazione della diocesi di Pemba, capoluogo della regione, spiega, allagenzia Fides, l’azione solidale dei cristiani: «La Chiesa è sempre stata presente, fin dall’inizio della guerra, fornendo aiuti di ogni genere per contenere la crisi umanitaria. Abbiamo provveduto a cibo, sostenuto costruzioni di case e abbiamo istituito un centro di ascolto psicosociale permanente. In ogni caso, noi siamo in mezzo alla gente e collaboriamo con varie organizzazioni internazionali umanitarie per il sostentamento della popolazione e il raggiungimento della pace».

La tragica situazione è messa in risalto da una nota dei leader religiosi della provincia di Cabo Delgado, nel Mozambico settentrionale, resa nota il 5 gennaio scorso. «La nostra provincia attraversa una profonda crisi umanitaria causata dalla violenza terroristica, mentre si assiste alla regressione degli indicatori di sviluppo integrale, e aggravata anche dalle conseguenze delle misure restrittive di prevenzione contro la pandemia», hanno dichiarato.

Nampula, campo di sfollati. Pesa dei bambini per determinare lo stato di nutrizione. Foto Luca S. Pistone.

La reazione militare

I miliziani islamisti, in origine male organizzati e male armati, sono riusciti progressivamente ad acquisire mezzi e armi moderne. Le azioni sono diventate sempre più ardite. Come quando sono riusciti a occupare Pemba e Mocimboa da Praia cacciando le forze armate e la polizia.

Il loro integralismo inizia anche a fare presa su una società che ha sempre professato un islam sufi, dialogante, aperto al confronto con altre fedi e altre culture. «Shabab ha iniziato a indottrinare anche donne e perfino minori – continua Emilia Columbo – che hanno creato una rete di informatori diventata una sorta di struttura di intelligence per i ribelli. Lo Stato islamico ha approvato l’affiliazione della formazione. Non ci sono però evidenze che, oltre agli appelli propagandistici, abbia fornito un aiuto materiale ai miliziani».

Maputo ha inizialmente sottovalutato questo fenomeno, derubricandolo come criminalità comune. Ha inviato, quindi, giovani di leva delle province meridionali. Ragazzi poco addestrati che si sono trovati in un ambiente a loro estraneo culturalmente e linguisticamente e, soprattutto, a loro ostile. I miliziani di Shabab hanno avuto gioco facile con loro e i reparti dell’esercito di Maputo sono stati sopraffatti.

«Il governo – continua l’analista -, considerava questo movimento trascurabile. Operava in un luogo remoto, lontano dalla capitale e riguardava piccole città e popolazioni poverissime. Ma si sbagliava». La forza sempre maggiore dei miliziani lo ha convinto a inviare rinforzi militari al Nord. L’intervento dei mercenari russi (Gruppo Wagner) e sudafricani a fianco delle truppe mozambicane non è però servito a molto. Hanno fornito supporto aereo con gli elicotteri senza però offrire un contributo effettivo sul territorio.

Donne in un campo di sfollati a Cabo delgado. Foto Luca S. Pistone.

Arrivano i Ruandesi

La svolta si è registrata con l’arrivo di un contingente ruandese. Bene addestrati, abituati da anni a far fronte a varie guerriglie (soprattutto ai confini con la Rd Congo), i soldati di Kigali sono riusciti a contenere le azioni dei miliziani jihadisti. «Le cose sono cambiate con l’arrivo di militari ruandesi – conferma Emilia Columbo -. Hanno fornito un supporto nella formazione dei mozambicani e hanno combattuto sul terreno. Insieme alle truppe della Sadc, l’organizzazione degli Stati dell’Africa australe, sono riusciti a cacciare i ribelli dalla costa e dalle principali città. I miliziani jihadisti si sono dispersi, ma non sono stati sconfitti».

Le multinazionali petrolifere sono tornate nella provincia settentrionale dopo la sospensione delle attività. Secondo quanto riporta l’agenzia Ansa, TotalEnergies ha anche aperto un ufficio informazioni che ha lo scopo di facilitare la comunicazione tra le diverse compagnie interessate al progetto di esplorazione del gas naturale liquefatto (Gnl) nel bacino di Rovuma.

Cabo Delgado. Distribuzione di cibio a bimbi sfollati. Foto Luca S. Pistone.

La guerra continua

La guerra però prosegue. È un conflitto a bassa intensità, meno diffuso sul territorio, ma comunque cruento. Il comando militare ruandese ha confermato che i ribelli caduti non sono stati più di un centinaio, e pochi sono stati anche quelli catturati. Ciò significa che gli insorti sono ancora in gran parte operativi, nascosti in alcune aree protette dalla boscaglia all’interno di Cabo Delgado. «In generale la situazione a Cabo Delgado e nelle aree liberate si mostra tranquilla – conclude padre Fonseca Kwiriwi -. Purtroppo, però, gli attacchi non sono finiti, continuano in particolare nei villaggi più piccoli, nelle aree con poca popolazione.
I villaggi più piccoli sono vittime di ripetuti agguati e la gente vive ancora nel terrore. Ho visitato di recente alcune delle aree occupate dai terroristi, come Mocimboa da Praia e alcune aree nella zona di Mbaú. Si tratta di zone che erano sotto il totale controllo dei terroristi. Questi due territori in particolare sono ancora considerati di difficile accesso e solo i militari possono entrarci. Lì è ancora impossibile tornare a vivere».

Enrico Casale

Archivio MC
Mozambico. Jihad in Africa: nuovo fronte, Enrico Casale, agosto-settembre 2020.

Cabo Delgado. Profughi accampati in un palazzetto dello sport. Foto Luca S. Pistone.




Dalla schiavitù al Cristo negro


I conquistatori portarono nelle Americhe gli africani e il cattolicesimo. Che tipo di relazione s’instaurò tra gli schiavi neri e la religione? Come si arrivò alle effigi nere venerate in molti paesi latinoamericani?

La storia degli schiavi africani a Panama, le loro lotte e la loro presenza sul territorio sono vincolate in modo profondo e simbolico all’identità di tutta la regione. Nel XVI secolo gli schiavi insorti Felipillo e Bayano liberarono centinaia di loro compagni dal giogo spagnolo trasformando l’istmo panamense in un territorio della resistenza contro l’oppressione degli uomini su altri uomini. Una geografia articolata che passa dal Corridoio del Darien, la selva che oggi unisce Panama con la Colombia (dove appunto operarono Bayano e Felipillo), a quella che viene chiamata «Costa Arriba» (nell’attuale provincia di Colón), dove successivamente si svilupparono i principali insediamenti di afrodiscendenti.  Proprio nella zona di Costa Arriba, nel 1502, arrive Cristoforo Colombo durante il suo quarto viaggio in quelle che ancora non si chiamavano Americhe. La città di Nombre de Dios venne fondata nel 1510 da Diego de Nicuesa ed è considerata il più antico insediamento, ancora abitato, costituito nell’America continentale dagli europei. La cittadina di Nombre de Dios ebbe fortune alterne: abbandonata e ripopolata nel 1519, saccheggiata e incendiata dai pirati nel 1572 e nel 1596. Dopo l’incendio del 1596 ad opera del corsaro inglese Francis Drake, la popolazione venne spostata nella vicina Portobelo, in una zona più salubre e fortificabile, un luogo nel quale si sarebbe concentrata la storia e la tradizione afrodiscendente. In tutta la provincia di Colón troviamo comunità afropanamensi, ma senza dubbio Portobelo rappresenta il loro centro identitario più forte. All’epoca non era un luogo di permanenza della popolazione nera, ma era sicuramente uno dei nodi commerciali di transito più importanti. Con il tempo però si formarono delle comunità afrodiscendenti stabili che si organizzarono nei quartieri di Guinea e Malambo, veri e propri conglomerati di tradizione africana e sincretica.

È proprio in questa cittadina affacciata sui Caraibi che si trova un simbolo di pellegrinaggio e ragione identitaria del cattolicesimo nero (e non solo) a Panama: il Cristo negro di Portobelo. Un’effige che ci offre la possibilità di esplorare una pagina importante del passato e del presente afrodiscendente della regione latinoamericana e caraibica. Si tratta, infatti, di una storia che affonda le radici nel tempo della colonia spagnola e che, se da un lato è avvolta dal mito, dall’altro rispecchia una relazione controversa delle comunità afrolatine e afrocaraibiche con il credo cattolico.

Fortezza spagnola con cannoni a Portobelo, porto naturale che fu di grande rilevanza durante l’epoca della Conquista. Foto Jefe LeGran.

21 ottobre 1658: l’arrivo

Non c’è una verità certa sull’orgine di questa effige sacra. Esistono, infatti, almeno tre versioni diverse su come e perché il Cristo negro sia arrivato a Portobelo: ad ogni modo tutte coincidono sulla data, cioè il 21 di ottobre del 1658.

La prima versione, conosciuta come «la cassa e la tempesta»,  parla di una nave spagnola che sulla rotta per Cartagena de Indias (Colombia) fece scalo a Portobelo. Ogni volta che l’equipaggio si preparava a salpare per raggiungere la destinazione finale si alzava un forte vento e la tempesta li obbligava a ritornare al porto. Al quinto tentativo la nave subì notevoli danni e sfiorò per poco un drammatico naufragio. Fu a quel punto che per rendere la nave meno pesante e quindi più maneggevole, l’equipaggio gettò in mare parte del carico riuscendo a riprendere la navigazione. Tra gli oggetti che vennero lanciati fuori bordo c’era una cassa che venne ritrovata poco dopo da alcuni pescatori del posto. Quando questi la aprirono, con grande sorpresa videro che conteneva l’immagine del Nazareno: un Cristo negro che venne subito portato al villaggio e collocato nella chiesa.

La seconda versione, conosciuta come «la cassa e l’epidemia» parte dal punto nel quale dei pescatori incontrarono una cassa sulla spiaggia. Aprendola, scoprirono al suo interno il Cristo negro. Interpretarono il fatto come un segno, giacché la zona era afflitta in quel momento da una terribile epidemia di colera (o di vaiolo, secondo le versioni). L’effige venne collocata nella chiesa di Portobelo e – come narra la leggenda – quasi immediatamente l’epidemia cessò e i malati furono miracolosamente sanati.

La terza versione parla di un errore, ed è infatti conosciuta come «lo scambio di effigi». Secondo questo racconto, il Cristo negro arrivato a Portobelo era inizialmente destinato alla chiesa di Taboga, una piccola isola nel pacifico di fronte alla costa della città di Panama. Quella comunità aveva infatti commissionato a un artigiano spagnolo un’immagine di Gesù Nazareno. Allo stesso artigiano era stata però commissionata anche una statua di San Pietro proprio da parte della comunità di Portobelo. Durante il viaggio dalla Spagna ci fu un errore di consegna e così, mentre la chiesa di Taboga ricevette l’effige di San Pietro, quella di Portobelo ricevette il Gesù Nazareno. La leggenda racconta che tutti gli sforzi fatti per rimediare all’errore furono infruttuosi: infatti tutte le volte che si pianificava lo spostamento del Cristo negro da Portobelo succedeva qualcosa che lo impediva. A quel punto la comunità afrodiscendente del luogo interpretò gli eventi come un segnale divino, decidendo che Portobelo sarebbe stata la nuova casa del Cristo negro. Parte di questo racconto è fortemente radicato nella tradizione orale, tanto che nel mese di ottobre, quando si canta e si balla di fronte al simbolo della città, le persone recitano: «En Portobelo te quedaste, como signo de tu amor» (A Portobelo sei rimasto, come segno del tuo amore).

Ogni anno a partire dal 15 di ottobre si assiste a una manifestazione di fede e devozione che supera di molto i confini di Portobelo e della provincia di Colón. Sono infatti migliaia le persone che da tutta Panama fanno lunghi pellegrinaggi per andare a incontrare il Cristo nero nella settimana della sua celebrazione che ha il suo culmine il 21 di ottobre. Processioni fatte a piedi o in ginocchio, rituali sincretici e celebrazioni festose che vedono nel colore viola il protagonista delle cerimonie. Ma la devozione del Cristo negro di Portobelo ha superato anche le frontiere di Panama, tanto che pure Ismael Rivera, l’indimenticato cantante portoricano, ha scritto una canzone in suo onore: «El Nazareno».

Il volto del Cristo nero nella chiesa di San Felipe a Portobelo, Panama. Foto Adam Jones.

La Chiesa cattolica e la schiavitù

Nel periodo della schiavitù in America Latina e nei Caraibi, la Chiesa cattolica ha difeso il potere delle persone bianche, usando modi formali (le leggi) e informali per garantire in primis agli europei cattolici le migliori posizioni, titoli e altri privilegi. Ai neri, ai meticci e agli indigeni è stato impedito di occupare incarichi di responsabilità all’interno delle società, con la motivazione che non avevano tradizione cattolica o titoli nobiliari che garantissero la loro capacità ad adempiere a tali funzioni. Gli argomenti utilizzati erano di natura teologica e sociale. Si affermava che questi gruppi appartenessero a una razza impura e che il loro sangue fosse macchiato e irredimibile. È da qui che prende origine l’espressione della «razza infetta», che appare in molti documenti dell’epoca coloniale. Non si trattava però solo di idee, ma di qualcosa di strutturale nella pratica quotidiana. Per ricoprire incarichi ufficiali il candidato doveva dimostrare di avere il «sangue pulito», cioè di non avere ascendenti appartenenti alle «razze» impure. Solo in quel caso sarebbe stato considerato una persona degna di fiducia, buona, virtuosa, timorota di Dio e onorata. La tradizione cattolica occupava uno dei posti più alti nella scala valoriale della società dominante. Pertanto, l’afrodiscendete poteva scegliere tra due sole alternative: o adattarsi ai valori della cultura bianca ed europea di impronta cattolica (assimilando usi e costumi di una cultura che non gli apparteneva) o recuperare le proprie radici religiose afro, che mantenevano le tradizioni nei culti e nelle celebrazioni principalmente animiste. Adeguandosi al modello europeo, il nero, divenuto cattolico, cessava dunque di vivere tutta la ricchezza culturale ereditata dall’Africa, dimenticando le questioni razziali e sposando una narrazione che promuoveva e giustificava la schiavitù. Tutto questo basato sul silenzio complice e interessato della Chiesa nella questione razziale e sociale. L’evangelizzazione ha necessariamente attraversato un processo di occidentalizzazione, promuovendo, per diventare più praticabile, il deterioramento delle tradizioni ancestrali nella popolazione afrodiscendente. Da qui dobbiamo partire se vogliamo capire come il cristianesimo si è rapportato con le comunità di schiavi africani e afrodiscendenti in America Latina e nei Caraibi.

Il sistema coloniale operava l’evangelizzazione forzata delle comunità, proibiva i riti tradizionali animisti (satanizzandoli) e usava la punizione corporale per quelle pratiche che venivano etichettate come eretiche. In questo contesto, la popolazione afrodiscendente, per la maggior parte schiavi, ha dovuto adattare la propria religiosità. L’ha fatto nascondendo la ritualità del suo credo sotto immagini di santi cristiani creando in tal modo una forma di religiosità sincretista.

Tra i santi neri venerati nella regione ricordiamo San Benedetto da Palermo, Santa Efigenia de Etiopia e San Martín de Porres (peruviano e unico caso di santo afrodiscendente autoctono). Caso particolare è poi quello di San Baltasar o Santo Cambá, molto amato in Argentina e Uruguay, ma il cui culto è praticato in modo paraliturgico, poiché per la Chiesa cattolica, San Baltasar non è canonizzato.

Una bella panoramica del porto naturale di Portobelo. Foto Ben Beiske.

Sincretismo e praticità

Oltre al culto dei santi, esistono culti legati al Cristo nero e alla Vergine nera. Se, da un lato, nel caso della Vergine, non possiamo escludere elementi sincretici di identificazione di Maria con divinità femminili amerinde o africane come Pacha mama o Yemayá, dall’altro la spiegazione comunemente accettata riguarda semplicemente il metodo di produzione delle immagini sacre. Il motivo di questa tonalità scura, infatti, è molto semplice: nel mondo medievale la maggior parte delle immagini di culto erano realizzate in legno, un materiale igroscopico che subiva notevoli variazioni con l’umidità ed era anche facile preda di funghi e tarli o termiti. Per questo gli scultori cercavano un modo per renderle il più possibile resistenti e inalterabili. Nella maggior parte dei casi lo fecero con uno strato di bitume che le proteggesse da umidità e insetti. Gli artigiani, quindi, dopo aver intagliato l’effige sacra in un legno comune (noce, pioppo, o cipresso), la ricoprivano con bitume o altre sostanze protettive di colore scuro. A quel punto, si dipingeva l’immagine conferendo il colore appropriato alla pelle e ai vestiti. Più tardi, nel corso dei secoli, quel colore è andato via via scomparendo, portando in superficie il colore del bitume.

La Vergine nera

Il Cristo nero di Portobelo è dunque in buona compagnia giacché sono decine le immagini della Vergine nera venerate in America Latina e nei Caraibi: Virgen del Valle, a Catamarca, Argentina; Nuestra Señora Aparecida, in Brasile; Nuestra Señora de los Ángeles (la Negrita), a Cartago, Costa Rica; Nuestra Señora de la Monserrate, a Hormigueros, Porto Rico; Virgen de Regla, a L’Avana, Cuba; Nuestra Señora de Itati, a Corrientes, Argentina; la Virgen Negra de los Ángeles de Atocha, a Montalbán, Venezuela.

La Virgen de Guadalupe in Messico è colei che ha originato il culto mariano più diffuso nelle Americhe. È riconosciuta dalla Chiesa cattolica come la «patrona d’America» ed è chiamata colloquialmente La Morenita. In realtà questo aggettivo che dovrebbe far riferimento al tono della sua pelle, non riguarda l’immagine che si trova in Messico, ma deve la sua origine alla somiglianza di questa Vergine con quella del Monastero reale di Santa Maria di Guadalupe, nella provincia di Cáceres (Extremadura, Spagna), conosciuta in questo caso come la Vergine Nera o Nostra Signora di Guadalupe.

Diego Battistessa

Dipinto dell’epoca mostra una scena di schiavitù ad opera dei conquistatori spagnoli


Secolo XVI / Gli schiavi africani fuggiaschi

La lotta dei «cimarrones»

Nella Panama della colonia spagnola il fenomeno del cimarronaje («darsi alla macchia», da «cimarra», boscaglia) iniziò fin dai primi decenni del 1500, proprio con l’arrivo dall’Africa dei primi «carichi» di forza lavoro schiavizzata. Gli schiavi vennero portati nell’istmo per svolgere diversi lavori: uno dei principali era la pesca delle perle. Un’attività che, al pari della vita delle miniere d’oro e argento, non solo era molto dura ma anche molto pericolosa: decine, infatti, furono gli africani morti per annegamento, per embolie polmonari o vittime di attacchi di verdesca (o squalo azzurro). A fronte di questa situazione iniziarono le fughe verso l’interno e verso la giungla del Darién. I cimarrones però non si nascondevano dagli spagnoli, li affrontavano in campo aperto e attaccavano le carovane che percorrevano la rotta commerciale dell’istmo che collegava i due oceani. Verso la fine del decennio del 1540, cominciarono a diffondersi notizie di uno schiavo liberto chiamato Felipillo, leader fuggito dalle zone perlacee e capace di organizzare i cimarrones in un palenque (villaggio autogestito di schiavi fuggiaschi, come i quilombos in Brasile, ndr) sulle rive del Golfo di San Miguel, nel Darién. Il compito di eliminare la minaccia dei cimarrones ricadde sul capitano Francisco Carreño che iniziò una guerra senza quartiere, infliggendo gravi e inumani castighi a coloro che venivano catturati. Le truppe di Carreño, dopo diverse scaramucce, scoprirono nel 1549 l’ubicazione esatta del palenque di Felipillo, che fu attaccato in forze e ridotto in cenere. Dopo aver ucciso il leader africano (1551), gli spagnoli probabilmente pensarono di aver eliminato il problema delle ribellioni nella zona, ma non avevano fatto i conti con l’esigenza psicofisica di libertà di coloro che erano stati schiavizzati. Poco dopo, altre ribellioni esplosero a Panama, guidate da capi come Antón Mandinga e il Negro Mozambique (che non ebbero molta fortuna) e soprattutto da Bayano, lui sì erede dello spirito di Felipillo.

D.Ba.

Copertina de America Latina afrodiscendente (2021) di Diego Battistessa, collaboratore di MC.