Australia. Senza voce a casa propria


È la condizione che vivono i popoli indigeni dell’Australia. Da quando – era il 1788 – gli inglesi arrivarono a occupare la loro terra.

Ormai è trascorso un anno, ma quella data – 14 ottobre 2023 – rimarrà nella storia del Paese come un giorno nero.
Gli elettori australiani erano stati chiamati a un referendum per approvare o respingere una modifica alla Costituzione riguardante i popoli indigeni del Paese. Ovvero per dire sì o no alla formazione di un organismo consultivo chiamato «Aboriginal and Torres Strait Islander Voice». Detto organismo avrebbe avuto il compito di presentare istanze al Parlamento e al Governo su questioni relative alle popolazioni indigene.

La proposta è stata però respinta sia a livello nazionale che in ognuno dei sei stati (Australia Meridionale, Australia Occidentale, Nuovo Galles del Sud, Queensland, Tasmania, e Victoria). Insomma, la maggioranza degli australiani ha detto no a un emendamento costituzionale di buon senso, a una riparazione (sia pure molto tardiva) che avrebbe posto fine a secoli di dominazione sui popoli nativi.

Dagli olandesi alla conquista inglese

Donna aborigena a caccia di varani della sabbia in Australia, Comunità aborigena Warlpiri di Alice Spring. Foto: Fred Muller – Biosphoto via AFP.

I primi stranieri ad approdare sulla Terra australis (Terra meridionale) furono gli olandesi. Un navigatore al servizio della Compagnia olandese delle Indie orientali, Willem Janszoon, nel 1605 sbarcò a Capo York, penisola nordorientale del continente australiano, nella regione successivamente chiamata Queensland.

Dopo le sporadiche visite degli olandesi, trascorsi oltre centocinquanta anni, furono gli inglesi a iniziare un vero e proprio insediamento nel continente australiano.

Nel 1770, il capitano James Cook tracciò la costa orientale dell’Australia e la rivendicò per la Gran Bretagna. Tornò a Londra con resoconti favorevoli alla colonizzazione a Botany Bay (oggi Sydney).

La prima flotta di navi britanniche arrivò a Botany Bay nel gennaio 1788 per fondarvi una colonia penale. Tra il 1788 e il 1868 furono deportati in Australia più di 162mila detenuti, ospiti delle prigioni della Gran Bretagna e dell’Irlanda. Di questi, solo nel 1833 ne arrivarono quasi settemila.

Quelle terre erano abitate da una popolazione nativa considerata tra le più antiche del mondo: gli studi la fanno risalire a 65mila anni fa. «L’arrivo di portatori di una potente cultura imperialista – spiega l’enciclopedia Britannica – costò agli aborigeni la loro autonomia e il possesso indiscusso del continente». Le modalità e le conseguenze della conquista furono identiche a quelle accadute nelle Americhe e, in pratica, in ogni luogo del mondo abitato da popolazioni indigene.

Gli insediamenti europei iniziarono a espandersi nell’entroterra, venendo in conflitto con i nativi per il possesso della terra. «Quando divenne evidente – si legge sul sito dell’Australian war memorial (Awm) – che i coloni e il loro bestiame erano venuti per restare, si sviluppò la competizione per l’accesso alla terra e l’attrito tra i due modi di vita divenne inevitabile. […] Si stima che in questo conflitto morirono circa 2.500 coloni e poliziotti europei. Per gli abitanti aborigeni il costo fu molto più alto: si ritiene che circa 20mila siano stati uccisi nelle guerre di frontiera, mentre molte altre migliaia morirono di malattie e altre conseguenze involontarie dell’insediamento».

Come sempre avviene, sul numero dei nativi morti durante la conquista non c’è concordanza. Tuttavia, è comune – anche se controverso – parlare di «genocidio». Si ritiene, infatti, che la popolazione nativa passò da un numero stimato di 1-1,5 milioni di persone a meno di centomila agli inizi del Novecento.

Cittadini o stranieri?

L’indipendenza della colonia australiana da Londra (rimanendo essa nel Commonwealth e sotto la Corona britannica) arrivò con la Costituzione del 1901. Questa trattava diversamente i nativi dagli altri australiani.

Soltanto due parti si riferivano agli abitanti originari del Paese: la Sezione 51 (paragrafo XXVI) che conferiva al Commonwealth il potere di legiferare nei confronti di «persone di qualsiasi razza, diversa dalla razza aborigena, per la quale si ritiene necessario emanare leggi speciali»; e la Sezione 127 in base alla quale «nel computo del numero delle persone del Commonwealth, o di uno Stato o di un’altra parte del Commonwealth, i nativi aborigeni non devono essere conteggiati».

«Ciò significava – si legge sul sito di the Australian institute of aboriginal and Torres Strait islander studies (Aiatsis) – che gli aborigeni e gli isolani dello Stretto di Torres non venivano riconosciuti come parte della popolazione australiana».

Il referendum del 1967 mise fine a questa incredibile esclusione. Così, a partire dal Censimento del 1971 gli indigeni australiani entrarono – per la prima volta – nel computo dei cittadini australiani.

Mappa dell’Australia con i sei stati federati (più due territori).

Per gli indigeni del continente la strada del riconoscimento dei propri diritti era però ancora molto lunga. Una delle proteste più famose e longeve – e tuttora in essere – prese il nome di «The tent embassy», l’Ambasciata della tenda.

Tutto ebbe inizio il 26 gennaio 1972, nella capitale Canberra. Quel giorno quattro indigeni installarono un ombrellone sui prati di fronte al Parlamento. L’ombrello (poi divenuto una tenda) venne denominato «Ambasciata aborigena». Dato che il governo non considerava i diritti indigeni sulla terra di cui erano storicamente proprietari, quella protesta voleva ricordare che il governo aveva reso gli indigeni australiani «stranieri nella propria terra» e, in quanto tali, avevano bisogno di un’ambasciata.

Sulla proprietà della terra la questione è ancora aperta, ma – come accade ovunque nel mondo – non stanno vincendo i popoli indigeni.

Secondo l’incipit di una dettagliata inchiesta del Guardian – titolata «Who owns Australia?» (17 maggio 2021) -: «Chi possiede l’entroterra australiano è una questione controversa. La vera risposta sono i popoli delle Prime nazioni, la cui proprietà risale a 60mila anni fa. La risposta giuridica è più complessa. È un pasticcio di titoli: proprietà, locazioni pastorali, locazioni della corona, terreni pubblici, titoli nativi e terreni detenuti da trust aborigeni».

Secondo dati governativi, «a livello nazionale, nel giugno 2023, il 16,2% della superficie terrestre australiana (1,25 milioni di Km quadrati, ndr) era posseduta o controllata da aborigeni e isolani dello Stretto di Torres».

Tanto o poco? Per avere un’idea delle proporzioni è utile confrontare i dati con le proprietà in mano a uno ristretto numero di privati e di multinazionali. Per esempio, la magnate Gina Rinehart – della multinazionale mineraria Hancock – possiede 9,2 milioni di ettari (92mila chilometri quadrati). Secondo Forbes, la donna è la persona più ricca dell’Australia, al 56° posto nella classifica mondiale.

Il razzismo esiste ancora

Anche il termine per definire i popoli nativi è stato oggetto di dibattito. Per lungo tempo essi sono stati conosciuti come «aborigeni» australiani. Questo termine è però troppo generico ed anche incorretto perché incompleto, non includendo gli indigeni dello Stretto di Torres, un ampio braccio di mare tra il Queensland e la Nuova Guinea che comprende ben 274 isole. Pertanto, è stato adottato il termine di Prime nazioni (First nations people) o di Popoli aborigeni e isolani dello Stretto di Torres (Aboriginal and Torres Strait islander people).

Essi non costituiscono una comunità omogenea, ma un insieme di centinaia di gruppi con lingue, storie e tradizioni diverse.

Secondo l’ultimo censimento, la popolazione indigena australiana conta poco meno di un milione di persone. Di essa il 41 per cento vive nelle città, il 44 per cento in aree interne e il restante 15 per cento in zone remote o molto remote del Paese. Dal punto di vista geografico, gli stati con la più alta percentuale di indigeni sono il Nuovo Galles del Sud (34 per cento) e il Queensland (28 per cento).

L’Australian institute of health and welfare (Aihw), ente pubblico, deve ammettere: «È riconosciuto che, in tutto il mondo, la colonizzazione ha avuto un impatto fondamentale sugli svantaggi e sulla cattiva salute dei popoli delle Prime nazioni, attraverso sistemi sociali che hanno mantenute le disparità. In Australia, gli effetti storici e attuali della colonizzazione e del razzismo hanno contribuito, almeno in gran parte, alle attuali disuguaglianze».

Un recente studio (Australian reconciliation barometer, 2020) ha rilevato che oltre la metà di tutti gli aborigeni e degli isolani dello Stretto di Torres ha sperimentato almeno una forma di pregiudizio razziale negli ultimi sei mesi, mentre il 60% di essi concorda sul fatto che l’Australia sia un Paese razzista.

Emarginazione e razzismo fanno sì che i popoli indigeni australiani abbiano i peggiori indicatori socioeconomici: oltre 120mila indigeni vivono al di sotto della soglia di povertà; i tassi di disoccupazione indigena sono doppi di quelli delle popolazioni non indigene nelle città e nei centri regionali ma molto più alti nelle aree remote.

Manifestazione in favore del «sì» al referendum del 1967 sui popoli indigeni australiani (l’esito fu favorevole al contrario di quello dell’ottobre 2023). Foto sbs.com.au.

Quel «no» alla riconciliazione

Il clamoroso risultato del referendum del 14 ottobre 2023 è stato un colpo ferale per i popoli indigeni australiani e i loro sostenitori. Come Marcia Langton, antropologa aborigena (Yiman), in prima linea nella lotta per il riconoscimento dei diritti indigeni.

«È molto chiaro – ha detto senza mezzi termini la docente universitaria – che la riconciliazione è morta. La maggioranza degli australiani ha detto “no” all’invito dell’Australia indigena, con una proposta minima, a darci voce in capitolo sulle questioni che riguardano le nostre vite. Penso che i sostenitori del “no” abbiano molto di cui rispondere  per aver avvelenato l’Australia contro questa proposta e contro l’Australia indigena».

Paolo Moiola

Camberra, gennaio 1972: un’immagine della protesta nota come «Ambasciata aborigena» (Aboriginal embassy o The tent embassy) contro il trattamento riservato alle popolazioni indigene.
Foto: Ken Middleton collection, National Library of Australia.




«Machina sapiens» e guerra


La competizione tra Cina e Stati Uniti, le due maggiori potenze mondiali, è totale. Nella corsa agli armamenti la sfida è anche a colpi di Intelligenza artificiale (Ia), la nuova frontiera tecnologica dell’umanità.

Negli ultimi anni, il panorama geopolitico globale è stato rivoluzionato da una nuova e insidiosa corsa agli armamenti, non basata solo su missili o carri armati, ma su qualcosa di ancora più potente: l’Intelligenza artificiale (Ia).

In questo contesto, Cina e Stati Uniti si trovano al centro di una sfida epocale, investendo risorse senza precedenti nello sviluppo di tecnologie avanzate che potrebbero ridefinire il futuro della sicurezza internazionale. Le dinamiche di questa competizione tecnologica stanno già cambiando l’equilibrio dell’economia globale.

Secondo il Digital economy report della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo del 2021, le grandi aziende tecnologiche come Apple, Amazon, Meta e la cinese Huawei detengono il 90% della capitalizzazione di mercato nel settore. Esse stanno scommettendo fortemente sul digitale, investendo ingenti risorse in infrastrutture all’avanguardia. Questa strategia consente loro di acquisire un potere di mercato senza precedenti, sia sotto il profilo finanziario che economico, e di esercitare un controllo significativo sulle enormi quantità di dati personali degli utenti, rafforzando ulteriormente la loro posizione dominante a livello globale.

Ciò che serve

Le tre componenti fondamentali per sviluppare sistemi avanzati di Ia sono: algoritmi innovativi, una grande quantità di dati per addestrare i modelli e, infine, chip moderni e potenti e in grande quantità per supportare l’enorme potenza di calcolo necessaria. Questo introduce un rischio di natura militare e geopolitica, poiché il principale centro di produzione dei microchip a livello mondiale si trova attualmente a Taiwan.

Gli Stati Uniti e la Cina sono leader nella ricerca avanzata e nell’utilizzo delle tecnologie di intelligenza artificiale. Per la Cina, questa è una priorità nazionale di massima importanza.

Il presidente Xi Jinping lo ha chiaramente delineato nel piano per la «grande rinascita della nazione cinese» entro il 2049 presentato durante il XX Congresso del Partito comunista cinese. Un rapporto del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti del 2023 conferma l’intenzione della Cina di superare l’Occidente nella ricerca sull’intelligenza artificiale entro il 2025 e di diventare leader mondiale entro il 2030.

Screenshot. Suggerimenti di IA da Google Play

La difesa nell’era dell’Ia

In ambito militare, l’uso dell’Ia è essenziale per la raccolta di informazioni, il monitoraggio del campo di battaglia e la localizzazione del nemico, contribuendo a una decisiva previsione delle mosse dell’av-

versario. Elaborando grandi quantità di informazioni, gli algoritmi possono penetrare i sistemi di difesa avversari.

L’integrazione tra ambiti militari e civili rappresenta uno dei pilastri della strategia cinese. L’obiettivo è di creare un database comune accessibile a tutti gli istituti di ricerca scientifica, le università, le aziende e il corpo militare cinese.

Baidu – la Google cinese – e altre aziende tech hanno invocato la collaborazione con il settore della difesa, rendendo molte delle tecnologie sviluppate utilizzabili per operazioni belliche dall’esercito cinese. Fino ad oggi, la strategia militare del paese ha dato priorità ai sistemi e alle attrezzature da combattimento senza equipaggio (droni, missili autonomi, sottomarini).

Usa contro Cina

Nella frenetica rincorsa per avanzare nel campo dell’Ia, anche la Cina si trova a dover affrontare numerosi ostacoli, tra cui significative carenze negli standard tecnici e nelle piattaforme software. Difficoltà maggiorate a seguito delle restrizioni imposte dal governo Usa a Nvidia, azienda americana (da poco la più capitalizzata al mondo) leader nell’esportazione di chip verso la Cina. Il segretario al Commercio degli Stati Uniti, Gina Raimondo, ha dichiarato che queste nuove normative mirano a impedire alla Cina di ottenere chip avanzati, essenziali per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, soprattutto in ambito militare.

Queste restrizioni mettono in luce le difficoltà che il gigante asiatico deve affrontare nel raggiungere l’autosufficienza in settori vitali come quello dei semiconduttori.

Ia, droni e nuove guerre

L’integrazione dell’Intelligenza artificiale nel settore militare sta radicalmente trasformando il concetto di guerra. Un esempio significativo di questa rivoluzione è rappresentato dagli avanzamenti nel campo dei droni.

I test condotti dagli Stati Uniti hanno evidenziato le straordinarie potenzialità di questi dispositivi per le operazioni militari. I micro droni Perdix (solo 30 centimetri di apertura alare) hanno dimostrato capacità avanzate, tra cui quella di decidere in autonomia e collettivamente tra loro, il volo in formazione adattivo e l’autoriparazione.

William Roper, direttore dello Strategic capabilities office (Sco), ha dichiarato: «A causa della natura complessa del combattimento, i Perdix non sono individui pre programmati e sincroniz- zati, ma un organismo collettivo che condivide un cervello distribuito per il processo decisionale e si adatta l’uno all’altro come gli sciami in natura».

Nel 2017, il governo statunitense ha lanciato il Progetto Maven, un programma volto a creare sistemi in grado di elaborare le immagini dei droni e rilevare automaticamente potenziali obiettivi. Per farlo mettono insieme e analizzano dati per renderli utilizzabili operativamente, in modo più preciso e affidabile di quanto potrebbe mai fare la capacità umana. I sistemi sviluppati grazie a questa iniziativa sono stati utilizzati in operazioni contro l’Isis in Medio Oriente e, più recentemente, dall’Ucraina nel conflitto con la Russia.

Errato sarebbe escludere i possibili margini di errore dei sistemi automatizzati. Infatti, le precedenti esperienze hanno rivelato problematiche che aumenteranno esponenzialmente nell’era dell’Ia. Non a caso è stato creato l’Ai incident database, un’enciclopedia online degli incidenti di Intelligenza artificiale conosciuti, sotto la voce «errori epocali».

Proliferazione e pericoli

La prudenza degli Stati Uniti nell’adozione di tecnologie autonome, motivata da una profonda consapevolezza dei rischi, si contrappone all’approccio più aggressivo della Cina. Tuttavia, questa competizione non si limita a una semplice rivalità bilaterale, ma coinvolge una dimensione globale, dove la proliferazione di droni e sistemi autonomi potrebbe facilitare l’accesso a tecnologie avanzate anche a nazioni più piccole e gruppi paramilitari.

Mentre il confronto tra le due superpotenze richiama alla mente i giorni della Guerra fredda, l’impiego dell’Ia in campo militare introduce sfide uniche e complesse.

La facilità di produzione e l’economicità del software che alimenta queste armi autonome potrebbero trasformare i conflitti moderni, rendendo la gestione e il controllo delle nuove tecnologie una priorità cruciale. Pertanto, è indispensabile che le grandi potenze globali intraprendano un dialogo mirato a sviluppare una legislazione comune sull’uso dell’Ia in ambito militare. Questo dialogo dovrà essere guidato dall’urgenza di prevenire escalation e conseguenze catastrofiche, assicurando che l’elemento umano rimanga centrale nel processo decisionale.

La «Dichiarazione politica sull’uso militare responsabile dell’intelligenza artificiale e dell’autonomia» del 2023, rilasciata dal governo statunitense rappresenta un passo nella giusta direzione, tracciando linee guida che enfatizzano la responsabilità umana nell’impiego di queste tecnologie.

Screenshot. Suggerimenti di IA da Google Play

L’«Ai act»: le regole dell’Europa

Facendo un passo storico verso la regolamentazione delle tecnologie emergenti, nel marzo 2024 il Parlamento europeo ha adottato il «Regolamento sull’Intelligenza artificiale» (Ai act), una normativa volta a creare un quadro giuridico armonizzato per l’uso dei sistemi di Ia nell’Unione europea. Questo regolamento mira a bilanciare l’innovazione tecnologica con la protezione dei diritti fondamentali dei cittadini.

La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha dichiarato che la legge dell’Ue sull’Ia rappresenta «il primo quadro giuridico globale in assoluto in materia di intelligenza artificiale a livello mondiale». L’obiettivo è proteggere i diritti fondamentali, la democrazia, lo Stato di diritto e la sostenibilità ambientale dai sistemi di Ia ad alto rischio, creando al contempo le condizioni per una continua innovazione.

Il regolamento stabilisce obblighi basati sui possibili rischi e sul livello d’impatto delle applicazioni introdotte, imponendo rigorosi controlli per le aziende che utilizzano l’Ia.

Non solo «chatbot» e «deep fake»

I controlli saranno applicati sulla base di quattro possibili scenari di rischio: inaccettabile, alto, limitato o minimo. I sistemi che presentano un rischio inaccettabile sono quelli che vanno contro i valori e i principi fondamentali dell’Ue, come il rispetto della dignità umana, della democrazia e dello Stato di diritto.

A rischio elevato sono considerati gli scenari che possono avere un impatto sui diritti fondamentali o la sicurezza dei cittadini. Sono soggetti a rigorosi controlli prima di essere immessi sul mercato europeo. In questa categoria si trovano le applicazioni sanitarie, giudiziarie e quelle per l’assunzione del personale.

Il rischio limitato è rappresentato dai sistemi di intelligenza artificiale che possono influenzare alcuni diritti o idee degli utenti, in misura però minore rispetto ai sistemi ad alto rischio. Appartengono a questa categoria le applicazioni utilizzate per produrre o modificare contenuti audiovisivi (deep fake) o per fornire assistenze personalizzate (chatbot). Gli utenti hanno il diritto di sapere che stanno interagendo con un robot o che un’immagine è stata creata dall’intelligenza artificiale.

Se il rischio è minimo o nullo le applicazioni non sono soggette a particolari controlli.

Gli aggiornamenti periodici, necessari per affrontare le sfide emergenti e le innovazioni tecnologiche, dimostrano l’impegno dell’Ue nel mantenere il regolamento al passo con i tempi. Monitorare costantemente l’implementazione e l’impatto dell’Ai Act sarà fondamentale per assicurare che le normative rimangano efficaci e pertinenti. L’Ue si conferma all’avanguardia sul fronte dei diritti, ma fatica a tenere il passo della tecnologia.

Secondo una relazione della Corte dei conti europea, l’Ue ha avuto finora poco successo nello sviluppare un dialogo comune. Si stima che il divario tra gli Stati Uniti e l’Ue in termini di investimenti complessivi nell’Ia sia più che raddoppiato tra il 2018 e il 2020 (l’Ue è rimasta indietro per più di 10 miliardi di euro). L’assenza di strumenti di governance e il mancato monitoraggio sugli investimenti non hanno prodotto dati sugli obiettivi raggiunti. Bruxelles ha stanziato i fondi senza incentivare un contributo privato. Inoltre, si deve fare di più per assicurarsi che i risultati dei progetti di ricerca finanziati in tema di Ia siano pienamente commercializzati o sfruttati.

Nel tentativo di recuperare il terreno perso, nel giugno 2024 l’Ue ha istituito l’Ai Office. Guidato dall’italiana Lucilla Sioli, è incaricato di coordinare l’applicazione del Ai act e di gestire la politica di investimento in questo campo.

Antropocentrica e planetocentrica

In Europa, il Regno Unito, pur fuori dall’Unione, è il maggiore investitore, seguono Francia e Germania che hanno intrapreso percorsi ben definiti.

La strategia dell’Italia arriva a fine 2021 con il «Programma strategico sull’Intelligenza artificiale» e la creazione di un Fondo nazionale. L’intelligenza artificiale dovrebbe non solo aumentare la produttività, ma anche evolversi in sinergia con lo sviluppo sostenibile.

L’obiettivo della Commissione europea è di promuovere una Twin transition, una doppia transizione che integra i diritti e le regolamentazioni per gli individui con gli obiettivi di sostenibilità. L’Ai deve essere, quindi, non solo «antropocentrica», ma anche «planetocentrica», come affermano i dirigenti della Commissione.

In definitiva, per competere efficacemente a livello globale, è essenziale che tutti i Paesi europei lavorino insieme per superare frammentazioni e carenze, costruendo una visione comune che integri normative, innovazioni tecnologiche e investimenti finanziari.

Raffaele Bevilacqua, Federica Mirto

John McCarthy, il matematico statunitense che, nel lontano 1956, coniò il termine «intelligenza artificiale».


Glossario essenziale

IA, DI COSA PARLIAMO?

L’enciclopedia Treccani definisce l’Intelligenza artificiale (Ia) – in inglese, Artificial intelligence (Ai) – come la «disciplina che studia se e in che modo si possano riprodurre i processi mentali più complessi mediante l’uso di un computer». Questo obiettivo è perseguito attraverso algoritmi (sequen di istruzioni matematiche) e software (programmi che leggono le istruzioni per il computer).

In altri termini, i software di Ai sono capaci di eseguire autonomamente un compito o una finalità definita, prendendo decisioni che solitamente sono affidate alle persone. Il termine AI è stato coniato dal matematico e informatico statunitense John McCarthy (1927-2011) nel 1956.

L’Ia generativa – spiega il sito di Klondike – è una sottocategoria dell’Intelligenza artificiale in grado di creare autonomamente nuovi contenuti. I software di Ai generativa partono da «prompt» (richieste o descrizioni) formulate dall’utente per generare contenuti come immagini, testi, audio, video, codici di programmazione e molto altro ancora. Per esempio, l’Ai generativa può scrivere un articolo per MC, fare il riassunto di un libro, svolgere un compito scolastico, fare una diagnosi medica.

L’algoretica è lo studio dei problemi e dei risvolti etici connessi all’applicazione degli algoritmi. «Le implicazioni sociali ed etiche delle Ai e degli algoritmi – ha scritto Paolo Benanti già nel 2018 – rendono necessaria tanto un algoretica quanto una governance di queste invisibili strutture che regolano sempre più il nostro mondo per evitare forme disumane di quella che potremmo definire una algocrazia».

È ancora più esplicito quanto si legge sul sito di Rome call for Ai ethics, della vaticana «Renaissance foundation»: «Il settore digitale e l’intelligenza artificiale sono il motore del cambiamento epocale in atto. Lo sviluppo tecnologico influenza tutti gli aspetti della vita, portando con sé il rischio potenzialmente elevato di una società sempre più diseguale e asimmetrica, privata di significato e governata da algoritmi. Pertanto, se si vuole che l’Ia sia all’altezza della sfida del rispetto della dignità di ogni essere umano, è necessaria un’etica che non funga da strumento di contenimento, ma piuttosto da strumento di indirizzo e di pianificazione».

Attualmente però la necessità richiamata nella dichiarazione di Roma si scontra con una situazione ben sintetizzata da Laura Turini, avvocata esperta di Ai: «Il futuro dell’intelligenza artificiale è in mano ai privati. Questo è il problema vero».

Paolo Moiola

Papa Francesco e Joe Biden nell’incontro al G7 in Puglia, lo scorso 14 giugno. Foto Vatican Media via AFP.


L’Intelligenza artificiale secondo Francesco

L’uomo non sia «cibo per gli algoritmi»

Giugno 2024: per la prima volta nella storia, un papa ha partecipato al G7, ospitato quest’anno in Puglia. È stato invitato per parlare di Intelligenza artificiale. Un invito non casuale: in un contesto di cambiamenti tecnologici senza precedenti, il Vaticano risulta essere all’avanguardia nella sua comprensione, fornendo un punto di riferimento per i leader politici globali.

Infatti, già nel 2020, ben prima dell’avvento degli strumenti di Ai generativa come ChatGpt, il Vaticano, attraverso la «Pontificia accademia per la vita», aveva firmato la dichiarazione d’intenti «Rome call for Ai ethics» (Roma chiama per una Ia etica). Siglato insieme a Microsoft, Ibm, Fao e il Dipartimento Italiano per l’innovazione tecnologica, questo importante documento stabilisce le linee guida etiche da seguire nello sviluppo dell’intelligenza artificiale.

Il fenomeno della rapida ascesa dell’intelligenza artificiale ha suscitato pensieri contrastanti tra lo stupore e il disorientamento come ha ribadito papa Francesco in occasione della 58ª Giornata delle comunicazioni sociali del 12 maggio 2024. Nello stesso messaggio il pontefice ci invita a non essere solo degli osservatori di fronte al cambiamento, ma ad accoglierlo con la sapienza che distingue l’essere umano. Perché – sottolinea il papa – non possiamo pretendere sapienza dalle macchine.

Sebbene il termine «intelligenza artificiale» sia ormai diffuso, il papa ritiene che sia fuorviante, poiché le macchine non possiedono la capacità di decodificare il senso dei dati come gli esseri umani. Le macchine possono memorizzare e correlare un’enorme quantità di informazioni, ma è l’uomo che deve interpretare e dare loro significato. Questa osservazione mette in luce una verità essenziale: l’uomo non può essere ipnotizzato dalla propria creazione al punto da credersi onnipotente. La tecnologia dovrebbe essere uno strumento al servizio dell’umanità, non un sostituto della nostra capacità di pensiero e discernimento. Il papa pone una serie di domande cruciali per il nostro tempo: come tutelare la dignità dei lavoratori nel campo della comunicazione? Come garantire la trasparenza e la responsabilità delle piattaforme digitali? Come evitare che l’uso dell’Ia conduca a nuove forme di sfruttamento e disuguaglianza?

Questi interrogativi non hanno risposte facili, ma sono essenziali per costruire un futuro in cui la tecnologia sia al servizio dell’uomo e non il contrario. Il papa ci ricorda che la risposta dipende da noi: possiamo scegliere se diventare «cibo per gli algoritmi» o nutrire di libertà e sapienza i nostri cuori.

In un mondo sempre più dominato dalla tecnologia, il richiamo del papa alla prudenza e alla riflessione etica è più che mai pertinente. Solo con una visione equilibrata e responsabile possiamo sperare di trasformare le sfide del presente in opportunità per un futuro più giusto e umano. Egli esorta la comunità internazionale a lavorare insieme per adottare un trattato che regoli lo sviluppo e l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, affinché essa non diventi uno strumento di dominio ostile e di nuova ingiustizia sociale.

Figura di riferimento dell’attuale governo italiano è padre Paolo Benanti, francescano e teologo, professore straordinario di Etica della tecnologia presso la Pontificia Università Gregoriana e presidente della «Commissione Ia per l’informazione» nonché unico italiano tra i 39 esperti dell’advisory board sull’Ia delle Nazioni Unite. In un’intervista con l’agenzia Dire padre Benanti ha ricordato che «l’intelligenza artificiale è un moltiplicatore e quindi può moltiplicare anche le disuguaglianze».

R.B e F.M.

 




A tutto G.A.S.


Oggi, cinque milioni di italiani si nutrono (anche) tramite un gruppo di acquisto solidale. Dalla nascita del primo Gas, trent’anni fa, le reti di economia solidale sono cresciute opponendo il modello della collaborazione a quello della competizione.

I gruppi di acquisto solidali, o Gas, sono formati da persone e famiglie che si aggregano per comprare insieme alcuni prodotti di uso quotidiano, seguendo i principi della solidarietà e della sostenibilità. Questo li porta a scegliere produttori piccoli e locali, rispettosi dell’ambiente e delle persone, con cui entrare in relazione diretta.

Il concetto che sta alla base dei Gas è quello di «filiera corta», cioè dell’avvicinamento fra produttore e consumatore, sia in termini geografici, privilegiando le aziende più vicine, sia in termini «funzionali», saltando gli intermediari.

Economia solidale

La nascita dei Gas segue quella dei loro fratelli maggiori nella famiglia dell’economia solidale. In Italia, infatti, le esperienze di costruzione di un’altra economia iniziano negli anni 80 con il commercio equo e solidale, la finanza etica e il turismo responsabile.

Gli anni 90 vedono invece fiorire esperienze legate al consumo: il consumo critico, i bilanci di giustizia e, appunto, i Gas.

Il primo Gruppo di acquisto solidale si costituisce ufficialmente a Fidenza (Pr) trent’anni fa, nel 1994. I suoi fondatori, insieme alla critica al modello di sviluppo dominante, ingiusto e insostenibile, mettono le esigenze concrete del quotidiano, ovvero la necessità di mangiare cibi sani e gustosi, portatori di significati e di relazioni.

La sede della cooperativa Iris a Calvatone (Cr), fornitore storico dei Gas di pasta e altri prodotti biologici. Il murales dice «semina cambiamento». © Andrea Saroldi

La rete si allarga

Questa pratica inizia a diffondersi in tutta Italia con il passaparola, e altri gruppi si formano sull’esempio del primo.

Nel 1997 nasce la rete di collegamento tra i Gas per scambiare informazioni e organizzare eventi e progetti.

I vantaggi ambientali, sociali e personali della diffusione dei Gas sono numerosi e su diversi livelli: dal punto di vista ambientale, la preferenza di prodotti locali riduce il consumo di energia e l’inquinamento dovuti al trasporto; la scelta di prodotti biologici aiuta a conservare il terreno; inoltre, il tipo di confezioni e di distribuzione diminuiscono di molto gli imballaggi e gli scarti.

Dal punto di vista sociale, questo modo di acquistare pone attenzione alle modalità di produzione, quindi al lavoro, evitando lo sfruttamento, migliorando le condizioni del produttore grazie al giusto prezzo che gli viene riconosciuto e favorendo le relazioni tra i diversi soggetti.

Dal punto di vista personale, un Gas consente al singolo che vi fa parte di ottenere prodotti ottimi, di accrescere le proprie relazioni, di avere una maggiore conoscenza di ciò che acquista e, infine, di risparmiare denaro a parità di qualità dei prodotti.

Si viene a stabilire così un patto tra produttori e consumatori, ricercando lungo la filiera le condizioni migliori per tutti i soggetti coinvolti.

Molte forme

Anche se tutti i Gas utilizzano gli stessi criteri guida nella ricerca dei produttori, riassumibili con i termini «piccolo», «locale» e «solidale», i singoli gruppi si organizzano in modalità molto diverse tra loro. Ne esistono alcuni composti da poche famiglie e altri che superano il centinaio; la maggioranza dei Gas non ha una struttura formale riconosciuta, ma molti sono anche quelli costituiti in associazione.

Al di là delle differenze, i Gas si riconoscono per il loro modo di operare: dopo aver scelto da quali produttori rifornirsi, periodicamente il gruppo raccoglie al suo interno le richieste per i prodotti disponibili; queste vengono sommate per formare l’ordine complessivo del gruppo per ciascun produttore, il quale in seguito lo consegna in un luogo e un tempo definito. Il giorno della consegna, i membri del gruppo passano a ritirare la loro parte. Gli ordini dei prodotti vengono fatti periodicamente, con una frequenza che può variare da settimanale a mensile a stagionale, a seconda dei prodotti. Il gruppo, poi, si incontra periodicamente per confrontarsi sui propri acquisti, sui produttori, sui diversi temi collegati, per vivere un po’ di convivialità.

Alessandro Cascini a Solidalia 2024. Insieme ad Anna Giampaoli conduce tra Pesaro e Fano la piccola azienda agricola biologica «Semi di Zucca» che rifornisce i Gas della zona di legumi, semi, farine. © Andrea Saroldi.

Dai Gas alle reti locali di economia solidale

Dopo i primi anni un po’ pionieristici, i Gas hanno continuato a moltiplicarsi attraverso il passaparola e la «gemmazione» a partire dai gruppi già esistenti, e a collegarsi in rete.

Nel 2014, dopo 20 anni dalla fondazione del primo, i Gas censiti in Italia erano un migliaio. Quelli effettivi erano probabilmente almeno il doppio.

Oggi è difficile dare una stima della misura del fenomeno. Secondo un sondaggio svolto per il Rapporto sul consumo responsabile 2022 curato dall’Osservatorio per la coesione e l’inclusione sociale, in Italia l’8,6% della popolazione adulta afferma di acquistare tramite un gruppo di acquisto solidale; stiamo quindi parlando di circa cinque milioni di persone che si nutrono, almeno in parte, tramite questa modalità di consumo.

I dati preliminari del 2024 mostrano che i Gas «tengono», anzi danno segni di crescita.

Le diverse reti che si sono create, sia a livello locale che nazionale, favoriscono la nascita di progetti più ampi che collegano diversi Gas, produttori e altri soggetti.

Sono così nate in questi anni molte collaborazioni lungo filiere gestite direttamente dai soggetti coinvolti nei diversi passaggi dal campo alla tavola, estendendo lo schema anche ad altri prodotti e servizi: dal pane alle patate, dalla «pummarola» agli avocado, dal vino alla carne, dai detersivi al tessile e all’energia.

Questi progetti estendono su scala più ampia gli stessi principi di mutuo aiuto che stanno alla base delle pratiche dei Gas: le relazioni tra pari e la ricerca di soluzioni che possano soddisfare nel modo migliore possibile le esigenze dei diversi soggetti coinvolti.

Allo stesso modo, i Gas e i loro intrecci di relazioni sono attivi nella costruzione di reti di economia solidale legate al territorio, identificate con il termine Distretti di economia solidale (Des).

Silvia Carlini e Pierluca Urbinati, fondatori nel 2004 di Officina Naturae a partire dalla loro esperienza nel Gas di Rimini e dai loro studi in chimica. Producono detergenti ecologici e cosmetici naturali con un ciclo di produzione e distribuzione etico ed eco sostenibile. © Andrea Saroldi.

I Gas al passaggio d’epoca

Nel 2024 i Gas compiono trent’anni; l’anniversario è diventato un’occasione per riflettere insieme su cosa è successo in questo tempo, ma soprattutto su come affrontare il futuro.

Molte cose sono cambiate, e ci rendiamo conto di entrare in una nuova era, quella che Gigi Anataloni su Missioni Consolata (marzo 2024) chiama «nuovo feudalesimo». Un’era segnata dal riscaldamento globale e dal capitalismo delle piattaforme, che altri chiamano tecnofeudalesimo. Chi vuole costruire un mondo equo e sostenibile si interroga su come attraversare le diverse crisi della nostra società.

Una cosa che abbiamo imparato è che la legge della collaborazione, quella che Pablo Servigne e Gauthier Chapelle, chiamano «l’altra legge della giungla», è quella che ci consente di vivere meglio. Mentre la prima legge della giungla, quella nota della competizione, consente agli individui di primeggiare gli uni sugli altri, la legge della solidarietà si dimostra vincente a livello di gruppo: i gruppi che vivono meglio nel loro ambiente sono quelli che collaborano maggiormente; infatti, quando le condizioni sono ostili, collaborare è una questione di sopravvivenza.

I Gas e le altre forme di economia solidale hanno in questo un’enorme utilità: ci mostrano che l’altra legge della giungla, quella del mutuo aiuto, ha un suo valore e una sua forza, e ci allenano ad applicarla.

Speranza attiva

Le reti che si sviluppano lungo le filiere sono quelle che ci possono aiutare ad attraversare le avversità. È il caso del Furgoncino solidale (vedi box qui sotto): quando i produttori romagnoli colpiti dall’alluvione sono stati invitati a «salire a bordo» del furgoncino, hanno ricevuto un sostegno attraverso l’inserimento dei loro prodotti in una rete di distribuzione gestita insieme da Gas e produttori.

È questo il modo in cui le reti di solidarietà si attivano, prefigurando la capacità di generare risposte praticabili che aiutano tutti a stare meglio, fornendo strumenti concreti per rispondere agli eventi avversi, mostrando il mondo come lo vorremmo e alimentando in questo modo la speranza attiva.

 

La strategia del bambù

In questa resistenza alle derive della nostra società, per costruire un mondo equo e sostenibile, i Gas e le altre pratiche degli stili di vita hanno a nostro avviso un ruolo fondamentale: quello di formare un intreccio sotterraneo che conserva e porta il nutrimento.

La foresta di bambù ha una strategia particolare per resistere alle avversità: le canne che noi vediamo svilupparsi verso l’alto sono ancorate a un reticolo di rizomi, delle specie di radici, che si estendono in larghezza sotto la superficie del terreno. L’intreccio dei rizomi delle diverse piante sostiene le canne. In caso di vento forte o neve, queste si piegano, ma quando le condizioni avverse sono terminate ritornano alla loro posizione grazie alla loro flessibilità e alla piattaforma di rizomi intrecciati che le sostiene. Inoltre, i rizomi penetrano il terreno e colonizzano nuovi territori.

I Gas e le altre pratiche degli stili di vita sono come i rizomi che si sviluppano in estensione sotto la superficie, attaccati alle canne che crescono verso l’alto e ne costituiscono la parte visibile: i produttori, le filiere, le campagne, i progetti, le attività economiche.

La resistenza della foresta alle avversità si basa sull’intreccio sotterraneo tra le diverse piante; le canne catturano la luce del sole con le loro foglie, ma si sostengono su una rete di rizomi fitta ed estesa; sono questi a distribuire il nutrimento e scavare il terreno.

La forza della foresta sta nell’estensione dell’intreccio e delle connessioni sotterranee, nel sostegno reciproco tra la parte visibile e quella invisibile.

La consegna di un ordine collettivo di mele a Torino per i Gas della rete GasTorino (economiasolidale.net/gastorino). © Andrea Saroldi.

Pensiamo che il ruolo dei Gas sia mantenere ed estendere lo strato vitale sotterraneo, penetrando nuovi terreni e portando nutrimento ai germogli che in primavera crescono verso la luce del sole.

Le reti e i reticoli dei gruppi e delle organizzazioni che costruiscono un mondo equo e sostenibile, connessi e intrecciati tra loro, attraversano l’epoca tecnofeudale conservando la vita e nutrendo i germogli.

Effetto Gas

In occasione del trentennale dalla nascita del primo Gas, numerosi gruppi e altri soggetti interessati a riflettere su come affrontare il passaggio d’epoca che stiamo vivendo si sono incontrati alla giornata «Effetto Gas» organizzata alla fiera Solidalia a Collecchio (Parma) il 25 maggio 2024, dopo un percorso di preparazione durato un anno.

Solidalia è la festa dell’economia solidale lanciata nel 2022 dal Des Parma. Tra banchetti, incontri, laboratori, giochi e musica è l’occasione per conoscere produttori, progetti e prospettive dell’economia solidale (solidalia.org).

Qui si sono tenuti lavori di gruppo per confrontarsi e identificare proposte e priorità sul futuro dei gruppi di acquisto solidale; si tratta di lavori in corso, nella volontà di mettere in gioco sempre più il ruolo dei Gas facendo tesoro dell’esperienza fatta e per guardare avanti.

In questi trent’anni moltissimi progetti sono nati e sono stati portati avanti. Alcuni di essi erano presenti tra i banchetti e gli incontri a Solidalia.

Abbiamo considerato come l’esperienza dei Gas costituisca un modello con alcune caratteristiche ancora oggi molto utili, pur nel nuovo contesto: favoriscono le relazioni paritarie all’interno del gruppo, la fiducia e la collaborazione; costituiscono un’azione concreta che alimenta la speranza sulla possibilità di resistere e modificare la situazione in cui ci troviamo; sviluppano le reti di cui abbiamo bisogno per affrontare le crisi; seguono una strategia «rizomatica» che si basa sulla forza dei legami e delle connessioni sotterranee; nutrono il sogno della costruzione di un mondo equo e sostenibile che passa anche dal nostro stile di vita.

Un modello con una forma flessibile che può essere rimescolata e reinventata per affrontare le nuove sfide del passaggio d’epoca attuale.

In questo modo i Gas nutrono la speranza, una speranza attiva, come descritta da Rebecca Solnit nell’introduzione alla raccolta di saggi sull’emergenza climatica Not too late (non è troppo tardi).

«La speranza è diversa dall’ottimismo. L’ottimismo presuppone il meglio e la sua inevitabilità, il che porta alla passività, proprio come il pessimismo e il cinismo che presuppongono il peggio. Sperare, come amare, significa correre dei rischi ed essere vulnerabili agli effetti di una perdita. La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che vale la pena fare qualcosa a prescindere da come andrà a finire».

Andrea Saroldi*


*Andrea Saroldi promuove da tempo i Gruppi di acquisto e le Reti di economia solidale come strumenti per il benvivere.

Su questi temi ha scritto numerosi articoli e pubblicato, insieme ad altri autori, Giusto movimento, Invito alla sobrietà felice, Gruppi d’acquisto solidale, Costruire economie solidali, Il capitale delle relazioni, Un’economia nuova, dai Gas alla zeta.

È presidente della Associazione GasTorino e cura il sito www.economiasolidale.net.

Bibliografia minima

Oltre alla rivista «Altreconomia», i libri:

  •  – Massimo Acanfora, Piccola guida al consumo critico, Altreconomia 2016.
  •  – Massimo Acanfora (a cura), Il libro dei Gas, Altreconomia 2015.
  •  – Tavolo Res (a cura), Un’economia nuova, dai Gas alla zeta, Altreconomia 2013.
  • – Marco Binotto, Comunicazione solidale. Storia e media del consumo responsabile e dei gruppi d’acquisto solidale. Postfazione di Jason Nardi, Guerini scientifica, Milano 2023.


Progetti in corso

Numerosi sono i progetti dell’economia solidale in corso che collegano diversi soggetti lungo le filiere, anche su scala nazionale. Alcuni di questi sono coordinati dalla Ass. Co-energia sui temi della sovranità energetica e della sovranità alimentare (www.co-energia.org).

Nel campo della distribuzione, il progetto del Furgoncino solidale (furgoncinosolidale.it) unisce i produttori e i Gas di diversi territori con un furgone che lungo il suo percorso consegna gli ordini ai Gas e preleva i prodotti dai produttori viaggiando, così, sempre carico.

Le notizie e gli aggiornamenti sulle diverse iniziative sono disponibili sul sito della Ries, la Rete italiana di economia solidale (rete-ries.it) e sul sito economiasolidale.net.

A.S.

il gruppo dei bilanci di giustizia di Torino in visita al produttore di frutta Bargiolina, a Barge (Cn). © Andrea Saroldi.




Raccontare liberazioni. Teologia e femminismo brasiliani


Le storie di alcune donne cristiane impegnate per la liberazione propria e delle loro comunità narrano di un modo di essere Chiesa. Incontriamo l’autrice di un libro che, descrivendo alcune esperienze del passato, vuole aprire a buone pratiche per oggi e domani.

Neide Furlan, nata il 14 marzo 1957, è una donna brasiliana. Quando Viviana Premazzi, autrice del libro Per una società e una Chiesa senza esclusioni, la incontra nel 2005, vive nella diocesi di Lages, nello stato di Santa Catarina, zona Sud del Paese: uno dei territori più poveri dove la terra è nelle mani di pochi latifondisti.

L’ingiustizia è la radice dell’impoverimento della popolazione, e la condizione subalterna delle donne fa parte della situazione generale di oppressione.

Neide, moglie di un sindacalista camponeso (contadino), ha capito che la lotta per la terra e la dignità è diversa se si è donne o uomini. E, osservando la situazione attorno a sé, ha deciso di impegnarsi anche lei per i diritti dei contadini, in particolare per quelli delle donne camponesas.

Per anni è coordinatrice regionale del Movimento de mulheres camponesas (Movimento delle donne contadine).

Il suo impegno l’ha portata a prendere una laurea in storia. Pensa, infatti, che per lavorare nei movimenti sociali sia necessario conoscere il passato e i meccanismi che hanno generato l’ingiustizia. Non una storia generale, però, ma una storia specifica, di un luogo e di persone precisi. In particolare, pensa che la riscoperta delle storie di alcune donne che in passato hanno avuto ruoli di liberazione per i loro popoli possa aiutare la lotta delle donne del presente.

Data la sua formazione cattolica e il suo impegno nelle comunità ecclesiali di base (Cebs) approfondisce anche le figure femminili presenti nella Bibbia, perché crede che la Parola liberi.

I lavoratori rurali protestano davanti al Ministero dell’Agricoltura (José Cruz/Agência Brasil)

Neide, Romilda e le altre

La storia di Neide è contenuta nel libro di Premazzi, pubblicato nel 2023 da Effatà editrice con il sottotitolo Teologia e femminismo in Brasile.

Assieme alla sua, l’autrice racconta anche la storia di Romilda che, a sua volta ispirata dall’esperienza delle Cebs, dalla teologia della liberazione e dalle donne della Bibbia, si impegna nella società e nella Chiesa per la liberazione della donna nelle vesti di leader di comunità, catechista, ministra della Parola e dell’eucaristia, animatrice di un gruppo famiglia.

Marione, invece, è una suora della Divina Provvidenza che lavora con le donne del barrio São José proponendo corsi di cucito, di teologia e di Bibbia, perché esse acquistino maggiore dignità e rispetto da parte degli uomini della comunità.

Proprio come Neide, anche Viviana Premazzi, lombarda, 43 anni, ha raccolto e raccontato le storie di alcune donne brasiliane per fare – ci dice – la sua parte nella costruzione di una società e una Chiesa senza esclusioni.

Pur pubblicandolo nel 2023, l’autrice ha lavorato sul materiale del libro nel 2005. Ha conosciuto Neide, Romilda, Marione e molte altre persone impegnate per la liberazione degli oppressi, durante un viaggio in Brasile per la sua tesi di laurea in Scienze politiche. Una volta laureata, ha lasciato decantare il testo finché non ha incrociato una ragazza induista e il suo scoraggiamento nei confronti della condizione delle donne nelle religioni. «In occasione di un evento interreligioso a Roma – scrive Premazzi nell’introduzione -, una ragazza di religione induista […] ha detto che non ci sarebbe mai stato nulla da fare per le donne nelle religioni, perché sono intrinsecamente misogine ed escludenti, perché perpetuano una cultura di sottomissione, violenza ed oppressione […]. Le sue parole mi hanno catapultato a vent’anni fa […]. Ho chiesto la parola […] e le ho detto che […] capivo benissimo quello che stava vivendo e che l’avevo vissuto anche io e che questa ricerca mi aveva portato in Brasile a cercare, scoprire e trovare un altro modo di vivere la religione e di essere Chiesa per le donne […]». A quel punto ha deciso che valeva la pena riproporre quelle esperienze ai lettori di oggi.

Viviana Premazzi durante la presentazione del suo libro presso il Cam di Torino. © Marco Bello

Tanti «Brasili»

Ci colleghiamo online con Viviana Premazzi poco prima dell’inizio dell’estate. Si trova a Malta, dove vive dal 2018, ma è in procinto di «scappare»: quando l’isola si riempie di turisti, preferisce andare altrove.

Nata a Venegono Inferiore (Va), Viviana è da sempre impegnata in ambito sociale ed ecclesiale.

Nella quarta di copertina si legge su di lei che «ha un dottorato in sociologia delle migrazioni e un master in gestione dei conflitti interculturali e interreligiosi. Ha lavorato come ricercatrice, consulente e formatrice per organizzazioni, università e centri di ricerca in Europa, Nord America, Africa e Medio Oriente». Nel 2018 ha fondato a Malta il Global mindset development, una società di consulenza sul dialogo interculturale e interreligioso al servizio di aziende, Ong, enti pubblici, scuole, università, per «aiutare a formare – dice – una mentalità inclusiva e globale».

Le domandiamo come è nata la sua relazione con il mondo missionario e con il Brasile.

«Conosco i missionari Comboniani fin da piccola – risponde -. Quando sono partita per il Brasile per la tesi, sono andata tramite loro. In quegli anni ho incontrato anche i Missionari della Consolata grazie a suor Angela Puricelli che mi ha fatto conoscere i progetti che padre Giordano Rigamonti faceva nelle scuole della mia zona tramite l’Associazione Impegnarsi serve. Poi mi sono trasferita a Torino dove ho lavorato per il Fieri, il Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione, per l’Università di Torino, la Banca Mondiale e l’Oim, sempre sul tema delle migrazioni, seconde generazioni, identità, culture. Nel 2009 sono tornata in Brasile con i Missionari della Consolata per raccogliere materiale da usare poi nelle scuole. Sono stata a Catrimani con gli Yanomami e a Raposa con i Macuxì. Nei miei viaggi ho scoperto che esistono tanti “Brasili”. La prima volta sono andata a Rio Grande do Sul, al forum sociale di Porto Alegre, la seconda volta sono andata per la tesi nella diocesi di Lages, a Santa Catarina, la terza volta in Amazzonia, a Salvador de Bahia, a Fortaleza, a Vittoria, poi in Paranà e infine di nuovo in Santa Catarina».

Chiesa e liberazione

Viviana racconta che la sua ricerca sulla teologia femminista è nata in risposta a un suo sentimento di disagio: «Ero una giovane donna impegnata nel mondo ecclesiale, associativo, ecc. Stavo bene, ma, allo stesso tempo c’era qualcosa che mi mancava, che non mi tornava. Al Forum sociale mondiale di Porto Alegre ho sentito parlare di teologia della liberazione, e ho capito che quella poteva essere una risposta alle mie domande. Ho deciso quindi di fare la tesi su una delle sue declinazioni: la teologia femminista, e mi ci sono buttata. Ho scoperto, così, e approfondito la realizzazione di una Chiesa strumento di liberazione per gli oppressi».

Assemblea diocesana a Lages, 2005. ©Viviana Premazzi

Donne nella diocesi di Lages

La conoscenza di una realtà specifica come quella della diocesi di Lages è stata fondamentale per lei, per vedere come la teologia femminista della liberazione si fosse incarnata nella vita di persone e comunità.

«Un comboniano mi ha messa in contatto con Maria Soave Buscemi, una missionaria laica italiana, una teologa, che ha vissuto tutta la vita in Brasile. A Lages ha lavorato molti anni per la diocesi e poi fondato, insieme ad altri, e anche con il sostegno di realtà italiane, il Centro ecumenico di studi biblici che molto ha fatto e continua a fare.

L’incontro con Soave è stato fondamentale: lei viveva come le persone, tra le quali stava, e io sono potuta entrare nelle comunità da eguale, non come una che andava per aiutare.

È stata Soave a permettermi di conoscere molte donne impegnate a livello ecclesiale che avevano trovato il loro empowerment in una certa modalità di lettura della Bibbia e di vivere la comunità. Donne impegnate a livello sociale. Donne impegnate in politica».

L’accaparramento da parte di pochi ricchi delle risorse fondamentali del territorio, l’acqua e la terra, provoca ancora oggi nella diocesi di Lages un forte impoverimento della popolazione. Ai tempi delle ricerche di Viviana, la Chiesa locale affrontava la povertà tramite l’esperienza delle comunità ecclesiali di base che incarnavano la teologia della liberazione diventando scuole di partecipazione ecclesiale, sociale e politica.

Oggi, ci dice Viviana, la vita delle diocesi è cambiata: quella di Lages era una delle ultime fedeli alla teologia della liberazione, ma nel tempo, per vari motivi, tutti i movimenti si sono raffreddati. Non sono spariti, ma sono diventati più sotterranei, e l’unica esperienza sopravvissuta ufficialmente è il Centro ecumenico di studi biblici, nonostante Soave oggi sia nel Mato Grosso.

Raccontare le donne

Chiediamo a Viviana in che modo le storie di Neide e delle altre donne parlano del patriarcato e della teologia femminista della liberazione.

«Per quanto riguarda la riflessione sul patriarcato, ad esempio, l’attenzione di Neide alla storia locale è un elemento fondamentale. Io, ad esempio, sono di Venegono Inferiore, un paesino nel quale da qualche anno si stanno riscoprendo alcune storie di streghe locali. Queste rappresentano un’occasione per riflettere non solo su come le donne sono escluse, ma anche su come vengono raccontate. Le ricerche storiche hanno mostrato che esse, dopo essere state sfruttate da alcuni signori locali, a un certo punto sono state accusate di stregoneria per interessi politici.

La riscoperta della storia locale sotto questo profilo è un insegnamento che Neide e le altre mi hanno lasciato».

Oltre al modo in cui le donne sono raccontate, per Viviana è importante riflettere anche sul modo in cui le donne sono escluse dal racconto della storia. «Anche nella Bibbia succede qualcosa di simile. Se io non vedo raccontate altre donne come me nella Bibbia e nella storia, penso di essere sbagliata a volere stare in questa storia. Ed è facile farmi sentire sbagliata se oggi decido di avere un ruolo, perché in qualche modo mi viene detto che io, in quanto donna, un ruolo non ce l’ho.

La cosa rilevante, secondo me, del lavoro fatto da persone come Neide, è la volontà di portare alla luce il ruolo delle donne, e di dirlo ad altre, oltre all’impegno diretto nella Chiesa, nei movimenti, nella politica».

La teologia femminista è stata il contesto ecclesiale nel quale le esperienze di Neide e delle altre hanno trovato casa. La lettura della Bibbia sperimentata nelle comunità ecclesiali di base, a volte condotte da coppie, altre volte da donne, è stata uno degli strumenti di emancipazione. In questo senso, ci dice Viviana, le storie di queste donne parlano della teologia femminista.

Presentazione del libro al Cam, il centro Cultures & Mission dei Missionari della Consolata a Torino. Da sinistra: Monica Pairone (Effatà editrice), Viviana Premazzi e Maria Chiara Giorda, professoressa associata di Storia delle religioni l’Università Roma Tre. ©Marco Bello

Stare con gli oppressi

Nel suo libro, Viviana Premazzi dedica uno spazio molto ampio, i primi tre capitoli, ad approfondire cosa è la teologia della liberazione e la sua declinazione femminista. Domandiamo all’autrice di darci qualche indicazione sintetica. «L’idea di fondo – risponde – è che una persona non è povera per colpa sua, ma perché vive una situazione di oppressione. Allora l’obiettivo della Chiesa è quello di aiutare questa persona a liberarsi. Riprende l’immagine della liberazione del popolo ebraico dall’Egitto sotto la guida di Mosè.

Il passaggio fatto dalla teologia femminista è questo: la condizione di sfruttamento socio economico non è la stessa per gli uomini e per le donne, così come la teologia indigenista afferma che l’oppressione subita dai popoli nativi ha i suoi caratteri specifici, la teologia nera parla della condizione degli afrodiscendenti, e così via.

La domanda che queste teologie suscitano è: “Da dove deriva la mia situazione di oppressione socio economica, o di genere? Come attuare la liberazione?”».

Gli strumenti sono, oltre alla riflessione teologica, quello della lettura della Parola e quello della comunità. «Dalla teologia della liberazione nascono le comunità ecclesiali di base: la teologia non è una cosa che si fa da soli, ma assieme, e partendo dal basso, come accadeva alle prime comunità cristiane. Partendo dal suo popolo, la Chiesa si deve domandare: “Stiamo con i potenti o con i poveri?”».

Comunità ecclesiali di base

immagine raffigurante la Chiesa di Lages. Il pinhão, frutto dell’albero simbolo della regione, il pinheiro araucaria. © Viviana Premazzi

Viviana ci racconta che il titolo del suo libro ricalca quello delle linee guida per la diocesi di Lages consegnate alla curia nel 2005 dalla rete delle Cebs dopo un processo partecipativo. «Quando hanno presentato queste linee guida intitolate “Per una società e una Chiesa senza esclusioni”, la curia voleva togliere il termine “Chiesa”. Ma le comunità hanno insistito perché il cammino dell’inclusione anche nella Chiesa è ancora lungo.

Il primo nucleo delle comunità sono le famiglie, cioè il luogo delle relazioni affettive. In quelle zone in Brasile la maggior parte delle famiglie sono composte da donne sole con i figli, quindi i gruppi di famiglie sono spesso gruppi di donne.

La leadership è a rotazione, e ciascuno porta il suo talento. Le decisioni vengono prese in modo partecipativo. Nelle Cebs esiste anche la decima, un’autotassazione per sostenere, oltre alle attività ecclesiali, anche le persone bisognose all’interno della comunità».

Retroutopia

Il libro di Viviana Premazzi è composto da cinque capitoli: i primi tre sulla teologia della liberazione, il quarto, sulla diocesi di Lages al tempo del viaggio dell’autrice, il quinto su alcune figure di donne.

La teologa Maria Soave Buscemi, nella prefazione, parla del testo di Premazzi prima paventando il rischio che esso proponga una «retrotopia» – il racconto di qualcosa di bello, ma morto -, poi parlando di «retroutopia» – il racconto di un passato che può far scorgere nel presente simili segni di liberazione -.

«Anche io inizialmente avevo paura che il libro fosse retrotopia – conclude l’autrice -: cioè il racconto di una cosa bella, ma appartenente al passato, finita nella forma in cui l’avevo conosciuta. Un bel ricordo.

Però è fondamentale continuare a riflettere. Guardare indietro serve per sognare e pianificare qualcosa per l’oggi e il futuro. Anche per riconoscere le stesse cose che adesso magari hanno altre forme e non sono ancora state riconosciute.

Quello che racconto nel libro, che ha una collocazione spazio temporale precisa, non è un unicum. Esiste da altre parti. E dobbiamo parlarne».

Luca Lorusso

 




Messico. Claudia, doctora y presidenta


Lei è Claudia Sheinbaum Pardo, delfina di Amlo, il presidente uscente. Guiderà il secondo paese dell’America Latina per popolazione. Un paese in crescita ma afflitto da una violenza endemica.

Nel paese dei femminicidi – nel 2023 sono stati 827 -, dal primo di ottobre una donna, la doctora Claudia Sheinbaum, sarà alla guida del Messico. Nelle elezioni dello scorso 2 giugno ha battuto – nettamente (36 milioni di voti contro 16,5, oltre 30 punti percentuali di scarto) – un’altra donna, la senatrice di origini indigene Xóchitl Gálvez.

Il dato (ufficiale) dei femminicidi è certamente drammatico, ma la contesa elettorale tra due donne indica che nel Paese latino-americano è in corso un cambiamento radicale. Inevitabilmente lento, ma effettivo.

Forse il passo più significativo può essere individuato nel decreto del 6 giugno del 2019, soprannominato «paridad de genéro en todo». Con esso furono modificati nove articoli della Costituzione messicana per applicare la parità di genere nelle candidature e nei posti negli organi esecutivo, legislativo e giudiziario, a livello federale, statale e municipale.

I sei anni di Amlo

Il presidente uscente Amlo, padre politico di Claudia Sheinbaum, prima presidente donna del Messico. Foto. Eneas De Trya – via Flickr.

Claudia Sheinbaum prenderà il posto del suo mentore Andrés Manuel López Obrador (Amlo), fondatore di Morena (oggi primo partito del Paese) e presidente tanto popolare quanto controverso. Fin dalla sua entrata nell’arena politica, la missione di Amlo è stata riassunta in una frase: «Por el bien de todos, primero los pobres» (Per il bene di tutti, prima i poveri), affermazione meritoria, ma molto impegnativa. Di sicuro, dopo decenni di dominazione dei due partiti conservatori (Pan e Pri), la sua presidenza – forse catalogabile come «populismo di centrosinistra» – è stata una novità assoluta.

Nei sei anni del suo mandato la spesa pubblica per programmi sociali è aumentata in modo significativo, ma i problemi fondamentali – l’insicurezza e la povertà su tutti – non hanno trovato soluzione.

Nonostante sei aumenti del salario minimo giornaliero (passato dagli 88 pesos del 2018 agli attuali 249, pari a circa 13 euro), il livello della povertà è rimasto alto. Secondo i dati di Coneval (un organismo costituzionale autonomo), ben 46,8 milioni di persone vivono in povertà, pari al 36,3 per cento della popolazione del paese. Di queste, oltre nove milioni (7,1 per cento) sono afflitte da povertà estrema.

Per gli strani giochi della politica e dell’economia, nel sessennio di Amlo i miliardari messicani hanno visto incrementare (di molto) le proprie fortune. Dietro a Carlos Slim (diciassettesimo nella classifica mondiale di Forbes), ci sono altre 13 persone: questo ristrettissimo gruppo di privilegiati – racconta un rapporto di Oxfam Mexico – controlla l’8 per cento dell’economia complessiva del paese.

Non è andata meglio in tema di sicurezza. La politica di Amlo sintetizzata nello slogan «abrazos, no balazos» (abbracci, non proiettili) è fallita, stando al numero degli omicidi e delle sparizioni, sempre altissimo.

Nei primi quattro mesi del 2024 la media è stata di 81 omicidi al giorno. Nelle statistiche degli ultimi sei anni impressionano poi due cifre: l’uccisione di 9 sacerdoti cattolici (vedere riquadro) e di 44 giornalisti (5 nel 2023 più uno scomparso).

Secondo Article 19, organizzazione messicana indipendente e apartitica che promuove la libertà d’espressione, nel 2023 nel Paese latino-americano ci sono state 561 aggressioni a giornalisti o mezzi d’informazione, un numero più alto rispetto ai governi che hanno preceduto quello di Amlo.

Questa è la pesante eredità di Obrador. Detto ciò, chiedersi se Claudia sarà una mera esecutrice delle volontà del presidente uscente, suo grande sponsor e padre politico, è un ragionamento dal vago sapore maschilista: dubitare della sua autonomia decisionale perché donna?

Il curriculum di Claudia

Nata in una famiglia di ebrei non praticanti, padre chimico con genitori della Lituania, madre biologa con genitori della Bulgaria, laureata in fisica all’Universidad Autónoma de México (Unam), un master a Berkeley e un dottorato, Claudia Sheinbaum è stata sindaca di Città del Messico.

Da anni, Amlo parla di «quarta trasformazione» della vita messicana. Nelle sue intenzioni si tratta di un indispensabile passaggio storico dopo le precedenti tre fasi: la guerra d’indipendenza (1810-1821), il periodo della riforma (1858-1861) e gli anni della rivoluzione (1910-1917), culminati con la promulgazione della Costituzione messicana (5 febbraio 1917).

Claudia Sheinbaum ha promesso più volte che continuerà sulla strada segnata da Amlo per dare seguito alla quarta trasformazione.

Sarà poi interessante vedere come la presidenta affronterà la questione climatica in un Paese che ne sta già patendo le conseguenze con picchi straordinari di calore e gravi carenze di acqua.

Il curriculum parla a suo favore, avendo lei collaborato con gli scienziati delle Nazioni Unite riuniti nel Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc). Le sue scelte prima dell’elezione sono però state contraddittorie. È stata infatti accusata di aver appoggiato il Tren Maya, la grande opera di Amlo contestata dagli ambientalisti.

Sul fronte energetico, Claudia Sheinbaum ha confermato di voler incrementare le fonti rinnovabili, senza dimenticare che il Messico è l’undicesimo produttore mondiale di petrolio tramite la Pemex (Pétroleos mexicanos), compagnia interamente di proprietà statale. La presidenta afferma che non sarà privatizzata, nonostante sia gravata da molti debiti.

Una panoramica di Guanajuato, città patrimonio dell’umanità. Foto Dennis Schrader – Unsplash.

Il vicino di casa

Il giorno seguente alla vittoria elettorale di Claudia Sheinbaum, il presidente americano Joe Biden ha chiamato l’eletta per complimentarsi.

Tutto prevedibile, considerato che Messico e Stati Uniti condividono molti affari e molti problemi. Il Paese latino-americano è il secondo socio commerciale degli Usa dopo il Canada. Inoltre, 11 dei 12 milioni di messicani nati in patria ma che vivono all’estero risiedono negli Stati Uniti, generando un enorme flusso di rimesse. Infine, dalla frontiera settentrionale del Messico – 3.169 chilometri di lunghezza – transitano la gran parte dei migranti illegali diretti negli Usa, una delle questioni più dibattute nella contesa elettorale tra Biden e lo sfidante Trump.

Le dimensioni del problema sono evidenziate da un dato: nel solo mese di dicembre 2023, la polizia di frontiera Usa ha fermato 250mila migranti che cercavano di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti.

Cosa accadrà se nelle elezioni del 5 novembre dovesse prevalere il candidato repubblicano? Durante la lunga e scorrettissima campagna elettorale, Trump ha affermato che, dopo la sua vittoria (che lui dà per certa) farà espellere milioni di immigrati senza documenti. Secondo il Pew research center, questi sono circa 11 milioni. Di questi 4,1 milioni (il 40 per cento) sono messicani, risultando di gran lunga il principale gruppo di immigrati senza documenti (irregolari), precedendo nell’ordine quelli provenienti da El Salvador, India, Guatemala e Honduras.

La previsione

Oltre ai problemi citati, la situazione messicana è complicata da un’altra questione rilevante, interna al Paese.

Il presidente Amlo ha, infatti, proposto un pacchetto di venti riforme costituzionali, alcune molto interessanti (su diritti e ambiente), altre più opinabili (su organi giudiziari e guardia nazionale).

Per essere approvate, esse necessitano una maggioranza qualificata sia alla Camera che al Senato. Vedremo cosa accadrà in questi mesi di transizione tra le due presidenze.

Avendo in mente quanto accaduto alle (poche) colleghe latinoamericane elette alla medesima carica, possiamo prevedere che Claudia Sheinbaum, doctora y presidenta, avrà un compito duro.

Ed è molto probabile, anzi quasi certo, che sarà osservata e valutata con più severità rispetto a un presidente maschio.

Paolo Moiola


La Chiesa cattolica messicana e la neopresidente

BUONI PROPOSITI

Al contrario di altri paesi latinoamericani, in Messico la Chiesa cattolica ha resistito meglio all’erosione di fedeli per mano delle Chiese evangeliche. Stando ai dati dell’ultimo censimento (Inegi, 2020), i cattolici sono il 77,2 percento della popolazione. Questo non significa che non ci siano problemi. Per esempio, la Chiesa cattolica messicana ha avuto un rapporto piuttosto conflittuale con il presidente Andrés Manuel López Obrador (Amlo). A parte le tematiche sensibili (aborto, eutanasia, gender), l’accusa principale è di non aver fatto abbastanza contro la violenza del crimine organizzato. Violenza di cui è stata vittima la stessa Chiesa: durante la presidenza di Amlo sono stati ben nove i sacerdoti assassinati.

Di discendenza ebraica, la neopresidente ha spesso affermato di essere cresciuta in una famiglia laica con entrambi i genitori che si professavano atei. Questo non le ha impedito di incontrare papa Francesco in Vaticano lo scorso 15 febbraio.

Dopo la sua vittoria, la Conferenza episcopale messicana (Cem) ha rilasciato un comunicato di felicitazioni e di speranza.

«Oltre a sottolineare il privilegio di essere la prima donna a raggiungere la più alta carica del Paese, eleviamo le nostre preghiere affinché, con la responsabilità e la saggezza che la carica richiede, e cercando sempre il bene comune, possa condurre il Messico verso orizzonti migliori», ha scritto, tra l’altro, la Cem nel suo messaggio.

Pa.Mo.

La cattedrale di Mazatlán, nello stato di Sinaloa, dove domina l’omonimo cartello di narcos. Foto Mick Haupt – Unsplash.




Niger. Creatività al lavoro


Vi ricordate le start up di giovani nigerini di cui avevamo scritto nel marzo 2023? Avevamo incontrato alcuni protagonisti del progetto «Obiettivo lavoro», gestito da due Ong italiane. Le attività sono terminate e li abbiamo contattati per sapere come è andata.

Abbiamo parlato in video chiamata con il coordinatore del progetto Obiettivo lavoro, gestito dalla Ong Cisv in partenariato con Africa 70. Le attività, iniziate a fine 2020, consistevano nell’aiuto a start up di giovani imprenditori e a cooperative.

Moussa Arohalassi Halidou, dottorato in nutrizione, con oltre tredici anni di esperienza nel campo dello sviluppo, pare soddisfatto: «È un progetto fuori dal comune, rispetto a quelli che si trovano oggi in Niger. Gli iniziatori delle micro imprese e i membri delle cooperative sono stati responsabilizzati rispetto all’uso dei fondi, sia per gli investimenti iniziali che per le attività. Sono stati loro a studiare e proporre gli investimenti da fare. Noi, équipe di progetto, abbiamo verificato la fattibilità delle loro idee».

Responsabili della gestione finanziaria, dunque, ma anche della scelta dei fornitori e del rapporto con i clienti.

Soddisfazioni

Per quanto riguarda le micro imprese, l’équipe di progetto ha fatto una selezione delle 36 migliori idee di start up, su circa 500 domande ricevute. È stato quindi dato un appoggio formativo nelle materie della gestione d’impresa e dell’amministrazione. Ogni start up ha poi ottenuto un pacchetto di fondi (tra i 5 e i 6mila euro) per gli investimenti iniziali, ricevuti a rate dopo aver presentato un pano aziendale soggetto ad approvazione.

Quindi, l’équipe del progetto è rimasta al fianco di imprenditrici e imprenditori in una forma permanente di tutoraggio. «Noi siamo stati lì a verificare quello che le micro imprese facevano, per orientarle e dare consigli», continua Moussa, soddisfatto dei risultati. «Il progetto Obiettivo lavoro ha permesso a molte micro imprese di partire. Non esistevano, e il progetto le ha accompagnate a formalizzarsi, e poi a cominciare le loro attività».

Oggi però il progetto è terminato, e il tempo di accompagnamento è scaduto: «Avere a disposizione un periodo più lungo per accompagnare le start up aiuterebbe gli imprenditori a ridurre certe difficoltà che devono affrontare per portare le imprese a realizzare un maggiore volume di affari e quindi creare impiego.

Questo è uno degli obiettivi del progetto: creare lavoro per giovani e donne. Lo abbiamo raggiunto con le cooperative, ma non ancora con le micro imprese. Ogni start up dovrebbe creare dai due ai tre posti. Purtroppo, a fine progetto, non c’erano ancora questi numeri. È qualcosa che si vede sul medio lungo termine: quando una micro impresa decollerà, allora assumerà personale».

Micro impresa Niger Shine lady’s, serviette higiènique. La fondatrice Leila Pierre Barry, insieme al sarto. foto Idrissa Cherakau.

Difficoltà

Ma le difficoltà non sono mancate, come ricorda il coordinatore. A partire dal colpo di Stato del 26 luglio dello scorso anno (cfr MCnotizie. Niger. Colpo di stato: i militari padroni del Sahel), e dalle conseguenti sanzioni imposte dalla Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) che hanno bloccato il sistema finanziario nigerino. Ricorda Moussa: «Le sanzioni internazionali hanno reso più complesso l’arrivo dei fondi dall’Italia, ma anche i versamenti delle rate alle singole micro imprese, che poi dovevano realizzare, esse stesse, gli investimenti, ad esempio per l’acquisto di macchinari o di materiali. Tutto questo ha complicato il programma».

Inoltre, occorre ricordare che in tutta l’area del Sahel, imperversano diversi gruppi armati jihadisti, rendendo insicuri vasti territori. «Il Paese non è totalmente stabile e ci sono zone nelle quali sono frequenti gli attacchi da parte di gruppi armati. Le cooperative e le micro imprese nella regione di Tillaberi hanno avuto questo problema, mentre quelle nella capitale Niamey e a Zinder non sono state toccate».

Gli chiediamo come hanno proceduto: «Le nostre équipe non potevano visitare i partner, seguirli e dare loro consigli perché era troppo pericoloso. Per i momenti di formazione e le riunioni facevamo venire i responsabili a Niamey. Inoltre, in alcune zone, le strutture esistenti, come uffici e magazzini, sono state saccheggiate dai gruppi armati. Tutto questo ha penalizzato le start up di quell’area».

Niger Shine Lady’s

Dopo aver sentito Moussa, abbiamo contattato alcuni imprenditori che sono riusciti a partire.

Lei si chiama Leila Barry, e si definisce imprenditrice sociale. Ha 34 anni ed è laureata in comunicazione d’impresa all’Università di Niamey. Ha un buon lavoro nel settore amministrativo, ma non le bastava. «L’idea della creazione della micro impresa Niger shine lady’s mi è venuta perché facevo borse e scarpe in cuoio e desideravo formare alcune ragazze del mio quartiere a produrle perché diventassero autonome sul piano economico. Dopo alcuni anni, quando ero capo progetto per una Ong internazionale che si occupava della salute delle donne, ho notato che le ragazze più povere avevano difficoltà a procurarsi gli assorbenti. Allora mi è venuta l’idea di insegnare loro la confezione di assorbenti igienici riutilizzabili».

Leila ha iniziato con l’ideazione del prodotto, ha poi realizzato qualche piccolo investimento con i propri fondi: «Pensavo ai bisogni delle ragazze che stavo seguendo». In seguito, il progetto le ha permesso di acquisire le macchine da cucire elettriche e le competenze in gestione.

Leila continua appassionata: «Gli obiettivi della mia micro impresa inizialmente erano la confezione di assorbenti riutilizzabili ma anche la fornitura di servizi associati per le ragazze in difficoltà, in tutto il Paese. In secondo luogo, avevo l’idea di creare qualche posto di lavoro, indispensabile per il funzionamento dell’attività. Ovviamente con una gestione rigorosa, per raggiungere la sostenibilità economica nel tempo. Ma sempre con grande attenzione agli aspetti sociali e ambientali».

Leila racconta che ci sono state anche difficoltà di tipo culturale, in quanto il tema è ancora considerato tabù dalla maggior parte della gente in Niger. Oggi però l’impresa funziona e oltre lei vi lavorano la sua assistente, un sarto e un guardiano.

Micro impresa Terre d’Adam. Produzione di materiale da costruzione, compresi mattoni di terra compressa autobloccanti. Formazioni sulla posa dei mattoni. Fondatore Ismael Hassane Adamou. (Foto Idrissa Cherakau)

Terra di Adamo

Ismael Hassane Adamou è un ingegnere nigerino di 32 anni. È a capo di un laboratorio che fa test sui materiali dell’edilizia. Qualche tempo fa, ha avuto un’idea: «Si può avere un terreno a Niamey, ma costruire una casa è piuttosto complicato. Allora ho pensato a un’alternativa al mattone in cemento, economica e pure più adattata al nostro clima. Ho scoperto un tipo di mattone di terra compattata con una particolare forma a incastro, che mette insieme economicità e un maggior confort all’interno della casa».

Si tratta di mattoni fabbricati con speciali presse, che compattano ad alta pressione una miscela di terra lateritica (molto diffusa in Niger) con una percentuale di cemento.

Ismael: «Ho chiamato la mia impresa Terre d’Adam (Terra di Adamo). L’obiettivo principale è quello di diffondere la costruzione con la terra, in quanto i suoi vantaggi sono innegabili e, in seconda battuta, di aiutare a risolvere la crisi di alloggi che c’è a Niamey. Oggi, infatti, in questa città è molto complicato trovare una casa in affitto o in acquisto ben costruita.

Questi mattoni sono economici perché usano meno cemento di quelli normali, ma sono comunque molto solidi. Inoltre, la costruzione avviene più rapidamente grazie alla struttura a incastro. Anche questo fa diminuire i costi complessivi».

Ismael, preparato tecnicamente, ha allargato le sue conoscenze grazie al progetto Obiettivo lavoro: «Ho acquisito alcune competenze cruciali, soprattutto in contabilità e in gestione, che mi hanno permesso di strutturare la micro impresa e renderla redditizia».

La start up produce attualmente tra i 120 e i 200 mattoni al giorno, utilizzando una pressa manuale. «Ma con la pressa semi automatica che stiamo per installare, potremo moltiplicare questo numero per 20», riprende soddisfatto Ismael. «Inoltre – continua -, l’appoggio passo passo di Cisv fino dall’apertura dell’impresa è stato fondamentale, perché mi ha permesso di sentirmi aiutato e seguito in tutto il processo. È stato molto importante per me. Mi sono sentito come in famiglia».

Oggi, la start up, è pronta a mettersi sul mercato. Impiega un responsabile della produzione e tre operai.

Cerimonie e compost

«Mi chiamo Rahamatoulaye Alio Sanda Almou, detta Ramatou, ho 27 anni, sono nigerina e ho studiato farmacia all’Università di Niamey. Quando ero studentessa, mi è venuta l’idea di creare una micro impresa. Ho avuto la possibilità di seguire una formazione in gestione d’impresa, e questo mi ha spinto a creare la mia attività. Ho scelto il settore dei servizi igienico sanitari con l’idea di trasformare i rifiuti organici in concime».

L’idea era buona: «Ma non è stato facile. Volevo creare la mia micro impresa, mi sono subito scontrata con i primi problemi: come finanziarla e quindi realizzarla?». Ramatou ha partecipato ad alcuni concorsi per le idee di start up nazionali e regionali. Ne ha vinto uno, e con i fondi ricevuti ha comprato la prima «toilette mobile» che pensava di affittare agli enti locali, con l’obiettivo di migliorare le condizioni igieniche dei quartieri della capitale ma anche di ottenere concime organico.

«Mi sono scontrata con il problema delle abitudini e degli usi della popolazione. Come portare le persone a utilizzare le toilette?». Nel frattempo, è arrivata la pandemia e tutto si è fermato. «Mi sono detta: devo essere resiliente e riflettere su come rimodulare le attività della micro impresa. Ho quindi orientato l’attività al privato, che mi pareva più recettivo per utilizzare questo servizio. L’idea era quella di fornire servizi a chi organizza eventi privati e cerimonie, come i matrimoni, i battesimi, che coinvolgono molte persone». I servizi si sono ampliati all’affitto di sedie e tendoni per gli eventi, molto utilizzati nel paese.

«Devo dire che la pandemia è stata una difficoltà, ma anche un fattore determinante che mi ha fatto cambiare gli obiettivi della micro impresa. Inoltre mi ha spinta a cercare dei partenariati con progetti come Obiettivo lavoro».

Ramatou ha chiamato la sua start up «Sapta», che in haussa, la lingua più parlata in Niger, significa pulito o pulizia. Selezionata dal progetto di Cisv, ha potuto acquisire le attrezzature che le mancavano. Inoltre, lei e i suoi colleghi, hanno seguito formazioni di marketing, gestione aziendale e contabilità.

Oggi Sapta impiega quattro persone, di cui due permanenti e la altre a cottimo.

Micro impresa Complex Agro. Avicoltura, vendia di uova, uova fecondate, pulcini e incubatrici per uova. Riparazione di incubatrici e formazioni. Oumarou Moumouni Saley è il fondatore. Animali allevati nella micro impresa. Foto Idrissa Cherakau.

Polli che passione

Moumuni Saley ha 31 anni, è sposato e ha una figlia di due anni: «Il mio lavoro è gestire progetti in ambito sanitario, perché ho un master di secondo livello in gestione di progetti e programmi di salute pubblica. Però ho anche alcune certificazioni in fabbricazione di incubatrici per le uova, in orticoltura, in avicoltura moderna e biologica. Inoltre, ho competenze in gestione d’impresa.

La mia idea di micro impresa è nata perché avevo un sogno: creare una fattoria integrata, che comprendesse la piscicoltura, l’orticoltura e l’avicoltura. Era una passione che non avevo potuto seguire con gli studi».

La start up Complex Agro vende polli, pulcini e uova, produce e vende incubatrici, e fornisce assistenza dopo la vendita, consulenze e formazioni.

«Il progetto Obiettivo lavoro mi ha permesso di fare il salto di qualità. Prima facevo tutto questo a casa e in modo informale, in piccole quantità, non avevo i mezzi tecnici e finanziari. Adesso, dopo avere ricevuto tre formazioni sulla gestione d’impresa e una sull’avicoltura biologica, e dopo il finanziamento per le infrastrutture, tecnicamente sono più forte. È come se mi avesse fatto progredire di otto anni di lavoro in uno solo. Sono passato a un livello superiore per realizzare il mio sogno».

Marco Bello, con la collaborazione di Issa Yakouba

 




Cina. L’offensiva culturale di Xi


L’attacco agli Stati Uniti e all’Occidente da parte del presidente cinese è sistematico e  totale. Mira a sostituire idee e valori con la visione cinese. Ma a una disamina attenta emergono le molte contraddizioni di Pechino.

Si dice fosse la città più grande al mondo, con lunghe mura di argilla e un imponente palazzo reale all’interno. Stiamo parlando delle antiche rovine di Liangzhu, risalenti a 5.300 anni fa, ben mille anni prima della dinastia Shang, la prima ad apparire nella documentazione storica scritta.

Quella fiorita sul delta del fiume Azzurro, nell’area che oggi corrisponde alla periferia di Hangzhou, viene considerata tra le culture neolitiche tecnologicamente più avanzate al mondo: quelle rovine ospitano i resti della più antica struttura di ingegneria idraulica di tutta la Cina.

Liangzhu non è però solo la culla della civiltà cinese. Il sito archeologico offre anche i presupposti ideologici per un nuovo ordine internazionale, così come vagheggiato da Pechino: più «democratico» e inclusivo rispetto all’architettura mondiale definita dall’Occidente dopo la Seconda guerra mondiale.

Può sembrare strano, ma le ambizioni riformiste (qualcuno dirà «revisioniste») della leadership cinese attingono a piene mani a quel lontano passato. Per capire perché, occorre arrotolare il nastro al 15 marzo 2023, quando il presidente Xi Jinping, intervenendo a un meeting con i partiti politici stranieri, ha proposto una nuova soluzione alle «molteplici sfide globali»: «Tolleranza, coesistenza, scambi e apprendimento reciproco tra le diverse civiltà svolgono un ruolo insostituibile nel far avanzare il processo di modernizzazione dell’umanità», ha spiegato Xi.

La globalizzazione «armonica» di Xi

Da quel discorso ha preso forma uno dei pilastri della politica estera cinese: la Global civilization initiative (Gci), l’ultima di tre iniziative che, insieme, suggeriscono come perseguire lo sviluppo economico mondiale (la Global development initiative), il mantenimento della sicurezza internazionale (la Global security initiative), e appunto la gestione delle relazioni diplomatiche (la Gci). Secondo quest’ultima, ogni Stato ha una sua cultura specifica e specifici valori che meritano rispetto. Pertanto, è possibile convivere armoniosamente solo rinunciando all’imposizione di relazioni gerarchiche e astenendosi dall’interferire nelle questioni interne degli altri paesi. Non esiste un modello politico economico migliore o universalmente valido.

Si tratta di una visione che promuove la saggezza degli antichi principi confuciani e taoisti (dell’«armonia senza uniformità» e «della coesistenza armoniosa delle differenze») come ricetta per affrontare guerre, discriminazioni razziali, competizioni geopolitiche tra paesi: i mali della contemporaneità che Pechino attribuisce alle vecchie potenze occidentali, smaniose di esportare il proprio sistema democratico in giro per il mondo. Oltre che da Confucio e Laozi, il trittico Gdi-Gsi-Gci trae ispirazione dal concetto di «comunità dal destino condiviso», teorizzato dalla leadership cinese negli anni Novanta. Xi lo ha reso uno dei principi cardinali della sua politica estera prima ancora di avviare la Belt and road initiative (Bri), il progetto infrastrutturale volto a riportare l’ex Celeste Impero al centro delle dinamiche economiche e geopolitiche globali. Il presupposto è che «il futuro di tutti i paesi è oggi strettamente connesso» e che «pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà» sono «aspirazioni comuni» verso cui tendere.

Relativizzazione dei valori e nessuna ingerenza

Se la Bri punta soprattutto a infondere sviluppo materiale, le tre nuove sigle gettano invece i presupposti teorici per un nuovo modello di governance mondiale. Ergo, alla Cina non basta più presentarsi come il paese in via di sviluppo diventato seconda economia mondiale. Vuo-le che allo status economico corrisponda un riconoscimento politico e culturale.

È un’ambizione maturata nel corso di decenni, oggi più esplicita alla luce dei «profondi cambiamenti mai visti in cento anni di storia», come direbbe Xi: le guerre in Ucraina e Medio Oriente hanno evidenziato come una cospicua parte di mondo condivida il malcontento di Pechino nei confronti della postura occidentale nei due conflitti. Per quanto discutibile e largamente retorica, nel cosiddetto Sud globale la «neutralità» cinese viene apprezzata più della conclamata vendita di armi americane a Kiev e Tel Aviv.

Sul giudizio pesano le promesse mancate del Nord del mondo in merito alla necessità di riformare gli organi multilaterali, ancora troppo poco rappresentativi dei paesi emergenti. Esigenza di cui la Cina si è resa portavoce, dall’interno, incoraggiando l’ampliamento delle vecchie istituzioni internazionali (come il G20 e il Consiglio di sicurezza dell’Onu); dall’esterno, incentivando la nascita di piattaforme concorrenziali, a partire dai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che nel 2024 hanno accolto altri quattro membri (Etiopia, Egitto, Iran ed Emirati arabi uniti).

Come appare evidente, gli effetti della Gci non sono esclusivamente «culturali», almeno non in senso stretto. Difficile non notare come la relativizzazione dei valori promossa dalla sigla smentisca l’universalità dei diritti umani, che Pechino subordina al raggiungimento del benessere economico. Mentre, sottoposta a un’interpretazione westfaliana della sovranità (lo Stato-nazione), l’ingerenza della comunità internazionale nelle dinamiche politiche dei paesi viene respinta sempre e comunque. Anche davanti all’«operazione militare speciale» di Putin in Ucraina o a una possibile (ri)unificazione di Taiwan alla Cina continentale.

Teoria e realtà

C’è chi ritiene che la missione civilizzatrice di Xi strizzi l’occhio alle autocrazie amiche. Riferimenti alla Gdi, Gsi e Gci, sono ormai una costante nei comunicati congiunti durante gli incontri con gli emissari del Sud globale. Eppure, l’approccio autoreferenziale dell’iniziativa cinese rischia di limitare notevolmente la cerchia degli ammi-

ratori. Se «pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà» sono principi incontestabili, è impossibile non riscontrare come nel mondo reale Pechino fatichi a rispettarne il significato letterale. Basta pensare all’espansionismo militare nel Mar cinese meridionale, che la Repubblica popolare rivendica quasi tutto per sé e dove negli ultimi mesi pescherecci e guardia costiera delle Filippine sono stati respinti a cannonate d’acqua. O alla repressione delle minoranze musulmane nello Xinjiang, la provincia cinese al confine con l’Asia centrale. Difficile parlare di rispetto per le differenze culturali quando le diversità vengono annullate persino dentro i confini nazionali.

La superiorità cinese

Scricchiola anche l’assioma dell’«equità», tanto caro al Sud globale. A parole la Cina sostiene la tradizionale architettura internazionale con al centro le Nazioni Unite: l’organizzazione, che meglio esprime le istanze dei paesi in via di sviluppo, figura esplicitamente nei documenti fondativi delle tre nuove iniziative globali di Pechino. Eppure, balza all’occhio come la retorica dei media statali spesso non esiti a rimarcare l’eccezionalità della tradizione cinese.

In una lettera scritta per commemorare il sito archeologico di Liangzhu, Xi ha affermato che la civiltà cinese, essendo «aperta e in costante cambiamento» da oltre 5.000 anni, «assorbe le parti migliori di altre civiltà da tutto il mondo». Riprendendo lo stesso concetto sulla rivista teorica Qiushi, lo scorso maggio il presidente spiegava senza giri di parole che «dal punto di vista della tradizione culturale, la civiltà cinese è l’unica civiltà al mondo che è continuata fin dall’antichità senza interruzioni. L’effetto combinato di molteplici fattori ha consentito alla nazione cinese di modellare gradualmente una mentalità nazionale e una psicologia culturale indipendenti e autonome nel suo sviluppo storico».

Questa autonomia, profondità e longevità – aggiunge il leader – attribuisce alla civiltà cinese «un fascino unico che è diverso dalle altre civiltà del mondo».

Tra le righe, si scorge una malcelata forma di «suprematismo culturale» molto antica che, se in epoca imperiale si manifestava nei confronti dei paesi «vassalli» del vicinato asiatico, oggi spesso emerge per scoperchiare i «doppi standard» degli Stati Uniti, modello di democrazia solo quando si tratta di criticare i paesi rivali.

Non potendo ancora rivendicare una superiorità economica (che, peraltro, oggi pare allontanarsi), a Pechino non resta che reclamare un primato immateriale: il tema della pochezza culturale degli Stati Uniti, il «nuovo mondo» senza storia, ricorre frequentemente sui media cinesi. D’altronde, oltre la Muraglia, proprio lo scontro geopolitico con Washington sembra aver rinvigorito quell’orgoglio per il passato negli ultimi vent’anni un po’ offuscato dai numeri luccicanti del Pil.

Il rapporto con gli Stati Uniti

Nelle relazioni con gli Usa, c’è un prima e c’è un dopo l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, nel 2017. Quello è stato il momento in cui la competizione sino-americana è debordata sul piano ideologico. Che sia stato così, è diventato evidente, però, solo nell’aprile di due anni dopo quando, parlando al Future security forum, l’ex direttore della pianificazione politica del Dipartimento di stato degli Usa, Kiron Skinner, ha rimarcato come per «la prima volta» Washington si trovasse a fronteggiare «una grande potenza» non caucasica.

Da quel momento, per parte dell’establishment americano, la cultura e l’identità razziale sono diventate criteri per stabilire la natura – cooperativa o conflittuale – delle relazioni con gli altri Stati. Tanto che l’autorevole analista cinese Wang Jisi recentemente ha constatato come ormai «il dibattito politico e ideologico tra la Cina e gli Stati Uniti è essenzialmente definito dalle direttrici del nazionalismo, della cultura e della civiltà – “l’Oriente contro l’Occidente” – non tra socialismo e capitalismo, o tra proletariato e borghesia».

Contro le contaminazioni

È quindi la Cina che attacca o va considerata «legittima difesa»? Come spiega Xi sul Qiushi, «Sin dai tempi moderni, l’afflusso delle tendenze culturali occidentali ha avuto un impatto sulle tradizioni culturali e sul mondo spirituale del popolo cinese. Alcune persone hanno gradualmente perso la loro soggettività culturale. Come riconquistare la spina dorsale culturale è diventata una questione importante, legata alla sopravvivenza e allo sviluppo della nazione cinese». Un compito spettante al Partito comunista che, investito di una «missione storica», lo porterà avanti concentrandosi da una parte «sulla civiltà materiale», dall’altra «sulla civiltà spirituale». Il messaggio è chiaro: la prosperità economica non può prescindere dallo «sviluppo della cultura socialista». Non solo perché, come dice Xi, la Cina si sente minacciata dalle contaminazioni ideologiche esterne, ma anche perché dietro l’apparente sicurezza della leadership cinese si nascondono timori e debolezze. Impossibile non notare, infatti, come l’enfasi attribuita al passato glorioso serva a sviare l’attenzione dalle difficoltà del presente.

In patria, il rallentamento della crescita economica (scesa al 5% dal 10% del 2010) sta affossando gli stipendi; oltreconfine le disponibilità economiche più contenute hanno indotto una riduzione degli investimenti nel Sud globale.

Radici confuciane e marxismo

In cerca di nuove fonti di legittimazione, Pechino guarda indietro. Erede della Cina imperiale e maoista, la leadership comunista guidata da Xi sta investendo massicciamente nell’archeologia e nella ricerca storica per valorizzare tanto le radici confuciane quanto i «geni rossi» del Paese. Nella stanza dei bottoni viene utilizzato il termine «le due integrazioni», formula che sta a indicare la capacità con cui il Partito ha saputo armonizzare «i principi fondamentali del marxismo con le realtà specifiche della Cina e il meglio della sua cultura tradizionale, adattando continuamente il marxismo al contesto cinese e alle esigenze dei tempi».

Occorreranno mesi, forse anni, prima di poter giudicare il valore geopolitico della controffensiva culturale di Xi.

Dall’altro lato del Pacifico qualche perplessità già c’è. Per R. Evan Ellis, docente presso il United states army war college, in molte parti del mondo – proprio quelle a cui ammicca la Gci -, i concetti di «civilizzazione» e «modernità» sono ancora associati alla dominazione coloniale e all’emarginazione delle popolazioni indigene.

Senza bisogno di guardare troppo lontano, nello Xinjiang usi e costumi locali vengono considerati sintomo di arretratezza in contrapposizione al progresso economico e sociale delle province cinesi abitate dall’etnia maggioritaria Han. A quanto pare, i «doppi standard» non sono una prerogativa solo dell’Occidente.

Alessandra Colarizi




Atomica. L’umanità al bivio


In soli 45 minuti di guerra nucleare morirebbero 85 milioni di persone. L’atomica non è un elemento tra gli altri della politica mondiale. È quello centrale. E rende la guerra obsoleta. Ricordare Hiroshima e Nagasaki per impedire la «soluzione finale» dell’umanità.

Nel 2019 un gruppo di ricercatori dell’Università di Princeton, guidati dal professor Alex Glaser, svolse una simulazione sugli effetti di una guerra nucleare tra Russia e Nato.

Il modello era basato sulla reale dotazione nucleare delle potenze in campo e sui rispettivi obiettivi strategici. Aveva come ipotesi di avvio un primo colpo «tattico» nucleare inviato dall’esclave russa di Kaliningrad – l’antica Königsberg, città di Immanuel Kant, autore, tra l’altro, del progetto Per la pace perpetua – con l’obiettivo di fermare l’avanzata della Nato verso i confini russi, e la conseguente risposta nucleare Usa-Nato.

La previsione fu che in soli 45 minuti si sarebbero causati 85,3 milioni di morti, senza contare le vittime legate agli effetti successivi delle radiazioni.

Un’immane e repentina ecatombe. La morte dell’umanità e della civiltà. Quella distruzione di mondi della Bhagavadgītā, testo sacro dell’induismo, evocata da Robert Oppenheimer («sono diventato morte, distruttore di mondi»), il fisico a capo del progetto Manhattan, quando assistette all’effetto dirompente dell’esplosione della bomba Trinity nel deserto di Los Alamos, test definitivo dopo il quale il presidente degli Usa Harry Truman diede il via allo sganciamento delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, il 6 e il 9 agosto del 1945. Come abilmente narrato nel film di Cristopher Nolan (vedi MC 6/2024).

Hiroshima e Nagasaki

Ricordiamo brevemente i fatti. Gli storici che hanno potuto esaminare i documenti Usa desecretati, affermano sempre più convintamente che il governo giapponese era pronto ad arrendersi già da un mese quando piovve le prima bomba atomica il 6 agosto 1945 e, sicuramente, prima che arrivasse la seconda.

Il presidente Truman, però, che era da poco succeduto a Roosevelt, non intendeva dissipare i risultati della costosissima tecnologia messa a punto segretamente con il progetto Manhattan, e diede ugualmente il via libera allo sganciamento dei due ordigni atomici.

«La vera posta in gioco – ha scritto Zygmunt Baumann su quella decisione ne Le sorgenti del male, 2021 – può essere facilmente dedotta dal trionfante discorso presidenziale il giorno successivo alla distruzione di centinaia di migliaia di vite a Hiroshima: “Abbiamo fatto la scommessa scientifica più audace della storia, una scommessa da due miliardi di dollari – e abbiamo vinto!”».

Tre giorni dopo, il 9 agosto, la stessa funesta scommessa venne riversata anche su Nagasaki.

Furono 220mila le vittime dirette delle due esplosioni, quasi esclusivamente civili inermi, e circa 150mila quelle successive: persone morte per le conseguenze delle radiazioni. Il più grande e impunito crimine di guerra della storia dell’umanità.

La guerra è obsoleta

Mentre si chiudeva la Seconda guerra mondiale, si inaugurava la cosiddetta Guerra fredda con la sua corsa agli armamenti. Iniziava un’era inedita nella quale l’umanità aveva la possibilità dell’autodistruzione.

Non passarono neanche dieci mesi da quel cambio di paradigma nella guerra moderna, avvenuto a spese degli inermi abitanti delle due città giapponesi, quando in Italia cominciarono i lavori dell’Assemblea costituente. Essa aveva perfettamente chiaro che la guerra non era ormai più utilizzabile, non solo «come strumento di offesa della libertà degli altri popoli», ma neanche come «mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Dopo gli oltre sessanta milioni di morti causati dalla guerra appena conclusa, le armi nucleari avrebbero dovuto rendere definitivamente obsoleta la guerra, una realtà da archiviare tra i ferri vecchi della storia.

L’articolo 11, posto tra i Principi fondamentali della Costituzione, dice proprio questo, e obbliga, implicitamente, a ricercare e costruire le alternative alla violenza bellica («pace con mezzi pacifici», recita la Carta delle Nazioni Unite). Alternative compatibili con la continuazione della specie umana sulla terra. È l’etica della responsabilità che innerva la Costituzione e attraversa la parte migliore del pensiero politico del Novecento.

Sul filo del rasoio

Un esempio luminoso di questo pensiero è il Manifesto per il disarmo nucleare, composto nel 1955 da Albert Einstein e Bertrand Russell. Sottoscritto da illustri scienziati del tempo, da Max Born a Linus Pauling, è di una disarmante attualità: «Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?».

Secondo Einstein e Russell l’alternativa ormai è radicale: «Metteremo fine al genere umano o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?». Un quesito che, per noi, qui e ora, è più attuale che mai.

Vale la pena aggiungere che nel 1955, uno dei momenti di maggiore crisi durante la Guerra fredda, le lancette del Doomsday clock – l’orologio dell’Apocalisse, il simbolico indicatore del pericolo nucleare per l’umanità messo a punto dal «Bollettino degli scienziati atomici» fin dal 1947 a Chiacago – era fissato pericolosamente a due minuti dalla mezzanotte, l’ora della fine dell’umanità.

Oggi la situazione è peggiorata: nel gennaio 2023, a quasi un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, la nuova posizione delle lancette era a 90 secondi dalla mezzanotte, il punto più pericoloso mai raggiunto per la sicurezza dell’umanità. Stessa situazione confermata nel gennaio di quest’anno.

«L’umanità è sul filo del rasoio – ha ribadito Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, lo scorso 8 giugno -: il rischio che venga usata un’arma nucleare ha raggiunto livelli mai visti dai tempi della Guerra fredda».

Responsabilità e realismo. Bandire le armi atomiche

Eppure, salvo alcuni «grandi vecchi» come papa Francesco ed Edgar Morin, entrambi intervenuti all’Arena di Pace di Verona del 18 maggio scorso (seppure il secondo con un video messaggio registrato), decisori, intellettuali e media sembrano, in grande maggioranza, non avere la percezione del pericolo che stiamo correndo, in questo varco della storia, con la continua escalation della guerra tra potenze nucleari in corso in Europa, dimenticando colpevolmente la lezione di filosofi come Günther Anders che avevano messo al centro della propria riflessione esattamente la situazione dell’umanità nell’epoca della possibilità dell’autodistruzione atomica. Secondo Anders, nella nostra epoca, qualunque azione politica, in particolare all’interno di un conflitto internazionale, non può non tenere conto della «situazione atomica».

La tesi secondo la quale le armi atomiche sarebbero solo uno degli elementi in gioco nello scenario politico è un inganno. È vero piuttosto che lo scenario atomico è il contesto nel quale avvengono le cosiddette azioni politiche (Tesi sull’età atomica, in Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki).

L’agire politico, dunque, per essere dotato di responsabilità e realismo deve tenere conto dell’esistenza delle armi nucleari. Deve ritrovare «il coraggio di aver paura». La paura, infatti, è segno di consapevolezza e ha un valore euristico, cioè di strumento per conoscere la realtà, oltre che di sprone alla mobilitazione.

Ricordare, dunque, lo sganciamento delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, non è – non può essere – la celebrazione di un irripetibile evento storico passato, ma rappresenta – deve rappresentare – la presa di coscienza dello stato presente del mondo. Della sua attuale riproducibilità: «Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima – scrive Anders – è cominciata una nuova era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un’altra Hiroshima».

Se questa possibilità è ormai irreversibile sul piano delle competenze tecnologiche – e appare sempre più vicina -, è tuttavia modificabile attraverso l’acquisizione dei saperi etici che consentano di imboccare l’unica uscita di sicurezza esistente: la cancellazione delle armi nucleari dalla faccia della terra, con la loro definitiva proibizione, e il superamento della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti.

Si tratta di colmare ciò che Anders chiama lo «scarto prometeico», ossia la frattura che passa tra l’infinita capacità produttiva di distruzione e la nostra capacità immaginativa delle conseguenze.

In un pianeta nel quale, mentre la crisi sistemica globale moltiplica i conflitti, i governi moltiplicano le armi e le guerre, è necessario declinare il piano etico del dover essere sul piano politico della possibilità di essere ancora: dando un’ulteriore chance all’umanità attraverso precise scelte di disarmo, a partire dall’adesione al Trattato internazionale per la messa al bando delle armi nucleari.

Parliamo del Trattato Onu voluto dall’azione dal basso dei popoli attraverso la campagna Ican, vincitrice del Nobel per la Pace nel 2017. In vigore dal 22 gennaio 2021, esso mette fuori legge le testate atomiche, ma non è stato sottoscritto né dai nove governi dei paesi atomici (Usa, Russia, Cina, India, Pakistan, Gran Bretagna, Francia, Israele, Corea del Nord), né dai governi dei paesi che «ospitano» testate altrui. Come l’Italia che «custodisce» tra le basi militari di Ghedi (Brescia) ed Aviano (Pordenone) diverse decine di testate atomiche statunitensi, facendo così della Pianura Padana il primario obiettivo di un possibile attacco nucleare su territorio europeo. Preparandone «il non essere più», come nella realistica simulazione di Princeton.

Bomba e soluzione finale

Mentre scrivo queste righe, i popoli europei stanno votando per le elezioni del Parlamento di Strasburgo. Questo mi fa tornare in mente le note preparatorie, probabilmente dell’87, per il testo di un intervento mai svolto di Alberto Moravia al Parlamento europeo, dove l’intellettuale italiano era stato eletto nel 1984 (oggi inserito in appendice al suo L’inverno nucleare): «Nei primi anni del dopoguerra, la situazione era questa: la Germania nazista aveva elaborato una teoria (quella della cosiddetta soluzione finale ossia del genocidio totale) che giustificava la bomba come la sola arma che permettesse la strage di massa ma non aveva saputo creare la bomba. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica dal canto loro non avevano alcuna teoria che giustificasse la bomba ma avevano la bomba. Anzi, gli Stati Uniti, nel 1945, avevano costruito e lanciato la bomba […]. Al processo di Norimberga – continua lucidamente Moravia -, la teoria della bomba (cioè della soluzione finale) fu solennemente condannata come una teoria contraria alle leggi della guerra. Ma non ci si accorse che non bastava condannare la teoria ma si doveva mettere fuori legge l’arma nucleare che di quella teoria era l’indispensabile corollario. Questa mancata consapevolezza del segreto e strettissimo rapporto tra bomba e teoria della soluzione finale impedì di rendersi conto che Hitler, lungi dall’essere stato sconfitto, era il vero vincitore della Seconda guerra mondiale».

Saprà l’Europa, questa volta, impedire il dispiegamento della soluzione finale dell’umanità, con la resistenza attiva e nonviolenta contro la Terza guerra mondiale, che, se sarà, sarà nucleare? A ciascuno il compito urgente di fare la sua parte.

Pasquale Pugliese

Nel mondo, in Europa, in Italia

Secondo l’ultimo rapporto Ican (la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari), nel 2023, i nove Stati dotati di armi atomiche hanno speso complessivamente 10,7 miliardi di dollari in più rispetto al 2022 per i loro arsenali nucleari, raggiungendo la cifra di 91,4 miliardi.

Lo scorso 17 giugno il Sipri (l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma) ha reso pubblica la sua ricerca annuale sul numero di testate nucleari presenti nel mondo. Scrive: «All’inizio del 2024, nove Stati – Usa, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, India, Pakistan, Corea del Nord e Israele – possedevano circa 12.121 armi nucleari, di cui 9.585 potenzialmente disponibili a livello operativo. Si stima che circa 3.904 di queste testate siano state schierate con le forze operative, di cui circa 2.100 mantenute in uno stato di alta allerta operativa, circa 100 in più rispetto all’anno precedente».

Riguardo alla presenza di testate nucleari Usa sul territorio italiano, più avanti, nel rapporto si stima che a inizio 2024 ci fossero circa 100 bombe non strategiche schierate in Europa per un potenziale utilizzo da parte di aerei da combattimento statunitensi e alleati. Le bombe, controllate dall’aeronautica americana, sono presenti in sei basi aeree in cinque stati membri della Nato: Kleine Brogel in Belgio; Büchel in Germania; Aviano e Ghedi in Italia; Volkel nei Paesi Bassi; e İncirlik in Turchia.

Luca Lorusso

 




Migranti in subappalto


L’Unione europea intensifica le collaborazioni con paesi terzi per la gestione dei flussi migratori. Sono accordi costosi nei quali il rispetto dei diritti umani non è un requisito. Ne parliamo con il direttore dell’ufficio per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite.

I flussi migratori e la loro gestione sono uno dei temi più dibattuti in Europa. Per far fronte alla questione sono stati stipulati, negli anni, diversi patti tra l’Unione europea o i suoi membri e paesi terzi, soprattutto del Nord Africa e dell’Europa orientale. Questi paesi ricevono ingenti somme di denaro in cambio di un più o meno esplicito impegno nel fermare i movimenti di migranti.

Si parla di processi di esternalizzazione delle frontiere, cioè politiche volte a spostare i confini dell’Ue in paesi terzi ai quali viene subappaltato il controllo dei flussi di persone dirette in Europa. Il tutto nonostante si sappia che in questi paesi non ci sono gli stessi standard di tutela dei diritti umani.

I «patti» dell’Ue

Il «Patto su migrazione e asilo» approvato ad aprile dall’Unione europea va in questa direzione: la compartecipazione a cui i paesi Ue sono chiamati nella gestione dei flussi può essere risolta infatti con il versamento di un contributo monetario in un fondo comune che potrà essere utilizzato per finanziare progetti e patti bilaterali con paesi terzi coinvolti nei flussi. Analizzando i diversi accordi già in opera, emergono diversi dubbi sul rispetto dei diritti umani.

Tra gli accordi di più lunga data ci sono quelli con la Turchia e la Libia. L’Italia porta avanti dal 2017 un memorandum d’intesa con la Libia, Paese altamente instabile, dominato da istituzioni fantoccio e governi locali autoproclamati in un territorio disseminato di campi di prigionia, nuovi lager dove le vite dei disperati sono la base di un mercato di schiavismo e ricatti economici. Nonostante la situazione nota del Paese, l’Italia ha finanziato, formato ed equipaggiato la guardia costiera libica, ignorando gli avvertimenti degli organismi internazionali che da anni denunciano le violazioni dei diritti umani di cui questa si rende partecipe.

Su questa linea, uno degli ultimi passi fatti è rappresentato dalla firma del memorandum tra l’Unione europea e la Tunisia. Si tratta di un pacchetto di aiuti diviso in tre voci, di cui due subito disponibili. Esse prevedono 150 milioni di euro a sostegno delle finanze del Paese e 105 milioni per la gestione dei flussi migratori. Fondi destinati al governo di Kaïs Saïed, ritenuto sempre più autoritario, anche per aver accentrato negli ultimi anni i poteri su di sé indebolendo parlamento e magistratura. Le migrazioni sono proprio uno dei cavalli di battaglia del presidente che da tempo porta avanti discorsi di odio nei confronti dei migranti subsahariani. Parole spesso tradotte in repressioni violente.

La Tunisia è uno dei paesi al centro di una grossa inchiesta giornalistica internazionale, intitolata «Desert dumps», che mostra come i paesi nordafricani utilizzino i finanziamenti europei per compiere azioni violente nei confronti dei migranti subsahariani. Come la pratica di intercettarli sulle imbarcazioni e portarli in zone remote del deserto abbandonandoli in condizioni terribili.

Kigali, capitale del Rwanda.

Il punto di vista dell’Oim

Per indagare a fondo questi temi abbiamo intervistato Laurence Hart, direttore dell’ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite.

L’Oim è nata nel 1951, dal 2016 fa parte delle Nazioni Unite e si occupa di assistere i migranti e i suoi 175 paesi membri nella gestione organizzata dei flussi migratori.

L’ufficio di coordinamento del Mediterraneo copre diplomaticamente Italia, Malta e Santa sede e ha il ruolo di supportare un approccio coerente e costruttivo alle migrazioni su entrambe le coste del Mediterraneo, quindi collaborando anche con i paesi del Nord Africa. Cerca di supportare i processi di cooperazione tra stati e lo sviluppo delle loro politiche migratorie, interviene nelle situazioni di emergenza, e offre un grosso supporto alle autorità italiane nei processi di accoglienza, ad esempio con oltre 180 mediatori culturali che affiancano la guardia costiera e gli uffici immigrazione nella valutazione delle domande di asilo.

Il nuovo «Patto su migrazione e asilo» dell’Unione europea vuole coordinare gli sforzi dei vari paesi nella gestione dei flussi migratori. Sono però emerse molte critiche su come questo possa impattare sulla vita dei migranti. Riguardo a questo, l’Oim come si pone?

«Cercare di riassumere in un documento unico quelle che possono essere le risposte al fenomeno migratorio – non lo chiamo mai problema, diventa un problema se non gestito – è sicuramente uno sforzo lodevole. Bisogna capire quanto queste dichiarazioni poi si tradurranno in azioni concrete ed efficaci.

Certamente un punto abbastanza complesso e critico è la tendenza crescente all’esternalizzazione delle frontiere nella gestione migratoria. La cooperazione deve essere inquadrata in una partnership più globale che includa, ad esempio, la migrazione regolare e il rafforzamento delle capacità istituzionali. Non ci si può limitare al pagamento di una somma in cambio del controllo delle frontiere. È già stato dimostrato in passato che queste sono politiche di respiro corto. Spesso poi ci sono cambi politici nei paesi terzi che possono portare a qualche forma di ricatto con lo scopo di alzare la posta aumentando le richieste finanziarie per sostenere la gestione migratoria. Si rischia inoltre di creare nuovi appetiti in paesi che possono, sulla base dei precedenti, sentirsi legittimati a richiedere un aiuto economico».

Mark Rutte, Ursula von der Leyen, Kais Saied e Giorgia Meloni durante l’incontro che ha portato al Memorandum con la Tunisia.

Sono stati da poco fatti nuovi accordi con la Tunisia. Accordi di questo tipo sono accusati di finanziare gravi violazioni dei diritti umani, come recenti inchieste sembrano dimostrare. State studiando questo fenomeno?

«Non ne sono testimone diretto ma non mi sorprenderebbe che queste cose succedano, purtroppo. Il rischio è scaricare il peso della gestione del fenomeno migratorio su un paese di transito che non ha le possibilità di assorbirlo. Penso ai paesi nordafricani che sono territori di transito, di origine, ma anche di destinazione. C’è necessità di moltissima manodopera anche in questi Stati i quali vanno quindi accompagnati anche su altre misure, come quelle di inclusione e di collocamento all’interno del tessuto sociale.

Abbiamo situazioni anche molto diverse, per esempio quella della Guardia costiera libica che è un soggetto molto delicato. Esiste sì una struttura ma esistono anche tante infiltrazioni di interessi diversi, soprattutto economici e finanziari, che purtroppo vanno a sfruttare ulteriormente i migranti che vengono riportati in Libia: in questo senso si può considerare un paese “non sicuro”.  Noi lo diciamo da tempo ormai.

Quello che fanno i libici è un lavoro difficile, nel pieno di una crisi che dura ormai da parecchi anni. La Libia è un Paese che richiede la costruzione di infrastrutture, piuttosto che di altri servizi per cui le competenze non esistono necessariamente tra i lavoratori libici. La consapevolezza che la manodopera e le competenze straniere sono uno strumento per lo sviluppo del Paese deve ancora radicarsi. Accompagnare i libici in questo lavoro è estremamente importante.

Trovare le soluzioni che possano venire incontro alle esigenze di tutti è la sfida che oggi ci si ritrova ad affrontare. Purtroppo, documenti come il Patto europeo rischiano di essere ripiegati solo sulle preoccupazioni interne dei paesi dell’Unione, e di dimenticare che il fenomeno è complesso e richiede anche soluzioni che non sono quelle canoniche».

Laurence Hart

Regno Unito e Italia stanno sviluppando nuovi centri per migranti rispettivamente in Rwanda e in Albania, e molti paesi europei vorrebbero emularli. Spostare questi processi in altri paesi quali risvolti può avere?

«Innanzitutto, Albania e Rwanda sono due casi assolutamente diversi, proprio da un punto di vista legale. Uno è un paese che è di futuro accesso all’Unione europea e l’altro invece è un paese che non ha degli standard internazionali riconosciuti o che comunque molti paesi mettono in questione.

Ci sono ancora da capire una serie di elementi nel contesto dell’accordo Italia-Albania: qual è la giurisdizione che sarà applicata? Nella misura in cui la legislazione è italiana, quindi garantista, e viene applicata su tutto il processo, non abbiamo, noi dell’Oim, grandi obiezioni da fare. Sappiamo che esisteranno tutta una serie di tutele.

Diverso è il caso del Rwanda, dove invece si applica una legislazione che non è parte del sistema europeo. Da quel punto di vista ci preoccupa l’esternalizzazione nella misura in cui l’allocazione di queste procedure ad altri paesi può violare i diritti fondamentali delle persone.

Esistono poi altre considerazioni che secondo me sono importanti da fare riguardo il rapporto costi benefici di queste operazioni. Bisogna chiedersi se, visti i numeri, è opportuno investire ingenti somme di denaro per la costruzione di strutture dedicate, e per finanziare un meccanismo che richiederà una serie di viaggi e di enti preposti. Se non sia più efficiente investire nelle strutture già esistenti sul territorio.

Sono domande aperte. Penso che le considerazioni debbano essere fatte tenendo conto della globalità degli elementi. Sicuramente chi porta avanti queste azioni vede la questione più come una specie di deterrenza, con l’obiettivo di creare una serie di ostacoli per far ridurre l’appetito di una migrazione clandestina».

Rifugiati in attesa di attraversare il confine serbo-croato tra le città di Sid (Serbia) e Bapska (Croazia). Sid, Serbia – 17 ottobre 2015.

In questi ultimi anni avete notato dei cambiamenti nelle rotte migratorie e nelle motivazioni che spingono a intraprendere questi viaggi?

«La fotografia è quella di un mondo che si ritrova di fronte a una crescente instabilità la quale va affrontata con soluzioni molto specifiche. Il numero dei conflitti è aumentato negli ultimi anni, basti pensare al Sudan, per esempio, che è uno degli ultimi esplosi in maniera importante e che ha generato non solo sfollamento interno, ma anche – ovviamente – un movimento di richiedenti asilo verso l’Europa e l’Italia. Ci sono molti altri conflitti aperti in corso, come in Etiopia, Sud Sudan, Yemen, Myanmar e Afghanistan.

Esistono anche situazioni di conflitti a bassa intensità: pensiamo ai paesi del Sahel che oggi si ritrovano di fronte a conflitti interni che generano spostamenti di popolazioni.

Ci sono anche interessi internazionali: si stanno svolgendo elezioni in molti paesi, e la narrativa migratoria viene usata come arma di paura e minaccia nei confronti della popolazione. Quindi l’instabilità è sicuramente uno degli elementi che ci porterà ad avere un aumento del movimento di migranti che hanno necessità di protezione. E fornire la necessaria protezione è prima di tutto un dovere per tutti i paesi che sono firmatari di convenzioni internazionali.

Un altro elemento è il cambiamento climatico. Ad oggi non ci è dato sapere con esattezza quante persone emigrano perché la loro attività è vittima di una situazione climatica estrema o avversa. Bisogna indagare quanto il fenomeno del cambiamento climatico incide sulla decisione delle persone di spostarsi, perché è quello che permette poi di capire quali possono essere le risposte a monte per poter mitigare questa situazione e accompagnare le persone che sono in loco, quelle che si muovono e poi quelle nei paesi di destinazione».

Nel prossimo periodo, secondo lei, quali saranno le situazioni più importanti su cui intervenire per una gestione migliore dei flussi migratori?

«Le sfide sono tante e richiedono delle soluzioni che non siano solamente quelle di frenare la migrazione. Si parla molto spesso di sviluppo dei paesi di origine, per esempio il piano Mattei è un’iniziativa che l’Italia ha messo in piedi con questo proposito.

Però dobbiamo anche interrogarci sul concetto stesso di sviluppo. Certamente piccole progettualità possono alleviare sofferenze e difficoltà nei paesi di origine, ma non risolvono la problematica fondamentale: quella di far fiorire l’imprenditoria dei giovani africani nel loro contesto.

Ho letto un articolo che parlava di come le linee aeree low cost in Europa abbiano favorito la creazione e lo sviluppo dell’industria turistica di accoglienza, permettendo un maggior movimento di persone e favorendo la nascita di iniziative e di business tra paesi.

Oggi per fare lo stesso viaggio in aereo in un contesto africano si spende il triplo, questo significa che la classe media africana non ha le risorse per poter viaggiare in forma ricreativa.

Il che non permette la costruzione di un’industria dell’accoglienza e ostacola la circolazione di idee e capitali tra paesi africani.

Gli ostacoli burocratici e di integrazione nel sistema africano sono tra gli elementi su cui gli economisti dovrebbero interrogarsi perché l’aiuto esterno è importante, ma è fondamentale eliminare le barriere strutturali interne ai paesi. Il rischio altrimenti è quello di mettere dei soldi senza avere però anche dei risultati a lungo termine».

Mattia Gisola

 




Guatemala. Rompere il ciclo della miseria


C’è un altro modo per migrare dal Centro America agli Stati Uniti. E senza mettere i propri soldi e la propria vita nelle mani dei trafficanti. Ottenere un visto è difficile, ma possibile. E si crea un ciclo virtuoso, ma non senza sacrifici. Ecco alcune storie di successo.

Sumpango e Santiago Sacatepequez. In piedi nel suo campo di more, Arnoldo Chile Recopachí si toglie il cappello, con la manica della felpa si asciuga il sudore dalla fronte e poi si concede un momento per osservare il sole scomparire dietro il vulcano Agua.

Sorride con la serenità di chi si trova esattamente dove vuole essere.

Arnoldo ha 33 anni e nella vita ha già realizzato buona parte di tutto ciò che ha sempre sognato. Da qualche anno è proprietario di un vasto terreno coltivato a more ed è riuscito a costruirsi una casa nel piccolo villaggio di El Rejón nella zona periferica di Sumpango, dove vive con sua moglie a un’ora di strada da Città del Guatemala.

Con un visto per lavoratori agricoli H-2A in mano, dal 2016 per Arnoldo è stato tutto un andirivieni tra Stati Uniti e Guatemala. Da allora trascorre otto mesi in California, dove è impiegato come responsabile dei lavoratori guatemaltechi nella logistica di un’azienda agro- alimentare, e quattro mesi a Sumpango, in Guatemala, dove si occupa del suo campo di more acquistato con le rimesse.

Arnoldo nel suo campo di more, nei dintorni di Aldea El Rejon, Sumpagngo, Guatemala. Foto Simona Carnino

 

L’imprenditrice

Nel frattempo, dall’altra parte di Sumpango, nella piccola comunità di Rancho Alegre, Roselia Canel Tejaxún intercetta gli ultimi raggi di sole che entrano dalla finestra della sua camera e che le sono necessari per finire di ricamare un güipil (o huipil), la blusa tipica dell’abbigliamento femminile maya. Anche lei sorride, pensando che presto avrà abbastanza soldi per aprire il suo atelier di moda nel terreno che ha appena acquistato. A quel punto, nonostante abbia solo 22 anni, sarà un’imprenditrice e potrà costruire una casa per la sua futura famiglia con i proventi dell’investimento. Mentre Roselia sta pensando a tutto questo, Juan Pacache e sua moglie, con la zappa in spalla, stanno tornando a casa dal loro campo di taccole situato nella zona più periferica di Sumpango, dopo un’intera giornata trascorsa a concimare la terra e controllare la crescita delle piante.

A pochi chilometri di distanza, a Santiago Sacatepéquez, Vilma Lemus Chaval si occupa degli ultimi clienti della giornata nel suo negozio di frutta. Normalmente chiude le porte della frutteria intorno alle otto di sera, attraversa la strada e va a casa dove cena con sua madre, sua nipote e suo figlio di sette anni. Il giorno dopo si alza, si prepara e torna in negozio. Così fa tutti i giorni, almeno fino a quando non tornerà negli Stati Uniti.

Uscire dalla miseria

Roselia ricama un vestito tradizionale, a casa, RAncho Alegre, Sumpango, Guatemala. Foto Simona Carnino

Arnoldo, Juan, Roselia e Vilma hanno lavorato per circa quattro mesi come braccianti agricoli in una floricoltura del South Dakota, Usa. «Questo lavoro ci ha permesso di guadagnare circa 4mila dollari al mese – spiega Roselia -. Dopo quattro mesi di lavoro, io personalmente sono riuscita a risparmiare abbastanza da comprare una terra a poche centinaia di metri da casa dei miei. Inoltre, ho regalato parte dei miei guadagni agli anziani del villaggio che vivono in condizione di miseria e ne hanno davvero bisogno. Se riesco a farmi ancora tre o quattro stagioni di lavoro negli Stati Uniti, sono certa di poter mettere via i soldi necessari ad aprire il mio negozio di moda qui a Sumpango. Cucire mi rende felice ed è esattamente quello che voglio fare».

Arnoldo, Juan, Roselia e Vilma sono solo quattro delle migliaia di persone centroamericane costrette a migrare negli Stati Uniti per motivi economici, ma sono tra i pochi che hanno avuto la possibilità di farlo con i documenti regolari.

«Migrare con un visto in mano, ti salva la vita perché non sei costretto a viaggiare con un coyote (specie di trafficante, ndr) e non rischi di morire attraversando una frontiera o sequestrato da un narcos – spiega Arnoldo -. Io ho avuto questa fortuna perché sono stato coinvolto in un programma di invio di lavoratori agricoli temporanei di Cuatro Pinos, una cooperativa agricola di Santiago Sacatepéquez di cui mio padre è socio. Dopo un solo anno di lavoro negli Stati Uniti sono riuscito a comprarmi un campo di more qui in Guatemala. Normalmente un migrante non riesce ad avere delle rimesse utili prima dei due anni di lavoro, ma nel mio caso è stato possibile perché non avevo un debito da pagare a un coyote».

I numeri della migrazione

Secondo il Dipartimento di sicurezza interna degli Stati Uniti, nel 2022 circa 9mila persone provenienti dal Guatemala sono riuscite a entrare nel Paese con un contratto di lavoro temporaneo. Di queste, 2.982 sono arrivate con il visto agricolo H-2A e 5.999 con il visto H-2B per lavoratori temporanei non agricoli. In entrambi i casi i lavoratori sono stati selezionati da reclutatori privati, che fanno le veci del datore di lavoro statunitense, o attraverso il programma di mobilità lavorativa del ministero del Lavoro guatemalteco.

Nonostante negli ultimi anni si sia verificato un chiaro aumento dei visti temporanei regolari, questa tendenza contrasta con i dati della migrazione irregolare del 2023, per cui 55.302 persone guatemalteche sono state deportate via aerea dagli Stati Uniti, 19.665 via terra dal Messico e 222.085 sono state arrestate mentre tentavano di attraversare irregolarmente il confine con gli Usa. Sebbene mettersi in viaggio con un coyote abbia raggiunto il prezzo di circa 16mila euro per una traversata di sola andata attraverso il Messico fino alla frontiera Sud degli Stati Uniti senza nessuna garanzia di arrivo, questo continua a essere il modo più frequente per migrare verso il Nord America per un cittadino centroamericano, perché di fatto andarci in maniera regolare non è per nulla facile e tanto meno pubblicizzato né dagli Stati di origine né da quelli di destinazione.

Migranti regolari temporanei viaggiano in Messico per un periodo di lavoro, con intermediazione di Cierto Global. Foto Simona Carnino

Non è facile

Le principali difficoltà sono di tipo amministrativo e burocratico. In Guatemala, servono circa 120 giorni per richiedere un visto di lavoro temporaneo per gli Stati Uniti, e ottenerlo non è scontato.  Il procedimento inizia quando le grandi imprese agricole negli Usa richiedono al dipartimento del lavoro una certificazione che dimostri la necessità di assumere lavoratori stranieri a causa della mancanza di manodopera locale. Quando ottiene questo documento, il datore di lavoro deve comunque aprire le candidature prima ai possibili lavoratori locali e, se nessuno si candida per la posizione, allora può iniziare la selezione all’estero, facendosi aiutare dai reclutatori, organizzazioni che lavorano nei paesi di origine dei migranti e che si occupano di fare la prima scrematura dei profili.

«Ci occupiamo di selezionare la manodopera qualificata attraverso le organizzazioni contadine qui in Guatemala – spiega Johana Bustamante, direttrice di Cierto global, responsabile del reclutamento etico dei lavoratori agricoli -. Facciamo colloqui e valutiamo anche le competenze tecniche dei candidati. Per esempio, andiamo a vedere come se la cavano con la raccolta delle fragole o delle taccole. Poi, è sempre l’azienda negli Stati Uniti che fa la scelta finale dei lavoratori. Dopo questa fase, noi ci occupiamo di tutta la parte burocratica necessaria al rilascio dei visti».

Vilma nella sua cucina tradizionale. Guatemala. Foto Simona Carnino.

Evitare il «coyote»

Sebbene non ci siano limiti di numero per i visti agricoli H2-A, non si può dire lo stesso per il visto H2-B per lavoratori non agricoli. In questo caso ne sono previsti solo 66mila all’anno che in genere vengono concessi quasi esclusivamente a chi ha già avuto un’esperienza precedente negli Stati Uniti, in particolare proveniente dal Messico. Tutto ciò rende oggettivamente improbabile che una persona centroamericana ottenga questo tipo di visto, per cui alla fine preferiscono affidarsi a un coyote.

«La migrazione temporanea regolare dal Guatemala agli Stati Uniti è recente e ci sono pochi contratti con le aziende là – continua Johana Bustamante -. Le tempistiche per ottenere i visti sono molto lunghe, ma il problema più grave è che comunque tanti decidono di partire con il coyote perché ci sono parecchi reclutatori che truffano le persone, promettendo visti in cambio di denaro per poi sparire nel nulla».

Vilma Estela Lemus Chavac, 45 anni, di Santiago Sacatepéquez, è stata vittima di questa truffa. «Nel 2008, io e mia sorella abbiamo conosciuto una persona che ci ha promesso di darci un visto per lavorare negli Stati Uniti in cambio di diecimila quetzales a testa (circa 1.200 euro, nda) – racconta Vilma, guardando tristemente a terra -. Allora ho venduto l’unico pezzo di terra che avevo per racimolare i soldi necessari, ma alla fine quest’uomo è scomparso e io ho perso tutto. Per molti anni non ho pensato di partire, poi ho conosciuto Cierto global e ho ricominciato a credere nella possibilità di poter viaggiare regolarmente negli Stati Uniti senza indebitarmi e senza truffe».

Juan nel suo campo, Sumpango. Guatemala. Foto Simona Carnino

Pagare i debiti e investire

Così, nel marzo 2023, Vilma è partita alla volta degli Stati Uniti dove è rimasta quattro mesi a coltivare i fiori in un’azienda agricola del South Dakota. Ha dovuto pagare solo 400 quetzales (45 euro) per il passaporto, poiché il biglietto, il visto e l’alloggio sono stati coperti dal datore di lavoro, come avviene nella maggioranza dei casi di assunzione di lavoratori agricoli stagionali regolari. Una volta tornata a casa, Vilma è riuscita a pagare i debiti accumulati nel corso degli anni per tenere in piedi la casa che condivide con sua mamma di 83 anni, sua nipote e i suoi tre figli. «Grazie al denaro guadagnato negli Stati Uniti, sono riuscita a coprire le bollette e le spese necessarie alla nostra sopravvivenza. Inoltre, ho affittato un negozio dove vendo verdura, frutta e vestiti. Questo mi ha permesso di generare nuove entrate».

Tra i reclutatori riconosciuti dal ministero del Lavoro guatemalteco c’è la cooperativa agricola Cuatro Pinos, che dal 2016 gestisce un programma di migrazione regolare esclusivamente per i soci e i loro familiari. «Nell’ultimo anno abbiamo inviato 150 lavoratori, che insieme hanno accumulato un milione e mezzo di dollari in rimesse, reinvestite nella produzione agricola qui – spiega Vanessa García, direttrice esecutiva della Fondazione Juan García Comparini che si occupa della responsabilità sociale di Cuatro pinos -. La migrazione stagionale permette alle persone di migrare senza rischiare la vita durante il viaggio. Inoltre, non devono pagare il debito al coyote e possono mantenere i legami familiari perché tornano dopo pochi mesi».

Vilma nel suo negozio ei frutta e verdura e abiti. Santiago Sacatepéquez, Guatemala. Foto Simona Carnino

Non tagliare le radici

Secondo una ricerca del Pew research center, un migrante irregolare in media vive all’estero circa 13,6 anni, con il rischio di perdere i legami familiari e comunitari. La vita di Juan Pacache, però, mostra che è possibile vivere un’esperienza di migrazione lunga mantenendo gli affetti intatti. Gli ultimi 20 anni della sua vita li ha trascorsi andando e tornando più volte, inizialmente dal Canada, poi, negli ultimi anni, degli Stati Uniti. «La mia casa e il mio campo di taccole sono il frutto diretto delle mie rimesse – racconta Juan -. Dopo il primo viaggio in Canada, ho investito tutti i miei risparmi nell’istruzione dei miei figli, per cercare di rompere il circolo di povertà in cui eravamo e dare a loro una possibilità lavorativa migliore della mia. Ora che sono grandi, utilizzo le rimesse per comprare terra, fertilizzanti, sementi e per assumere persone che lavorino con me. Voglio reinvestire il denaro in un circolo economico virtuoso beneficiando chi della mia comunità non è potuto migrare come ho fatto io». In Guatemala, le rimesse sono aumentate dell’11,5% nei primi otto mesi del 2023 rispetto all’anno precedente e oggi rappresentano il 18,99% del Pil. Secondo l’ultimo report dell’Ong Acción contra el hambre realizzato in America Centrale, sia i migranti regolari che quelli irregolari inviano rimesse, ma i migranti regolari le inviano più frequentemente e con importi mensili più elevati.

Le donne sono un ridotto numero all’interno dei programmi di migrazione regolare, perché i datori di lavoro del settore agricolo normalmente preferiscono la manodopera maschile. «Mi sento fortunata a essere stata selezionata l’anno scorso – racconta Roselia -. Noi donne abbiamo dimostrato di poter lavorare anche più velocemente degli uomini. Per questo dovrebbero darci più opportunità di viaggiare, soprattutto perché per noi donne migrare con il coyote spesso significa subire violenza fisica e sessuale; quindi, darci un visto significherebbe salvarci la vita». Mentre Roselia sta aspettando che le venga rinnovato il visto per tornare negli Stati Uniti, Vilma e Juan sono nuovamente in South Dakota da marzo 2024, dove resteranno per alcuni mesi. Lavorano duramente tutta la settimana dal mattino alla sera e la domenica riposano. Ogni giorno chiamano le loro famiglie, per raccontarsi la giornata vicendevolmente e per sentirsi un po’ meno soli. Anche se a volte si sentono tristi perché lontani da casa, il pensiero di tornare presto e di migliorare la vita nel loro Paese d’origine li riempie di energia. «Le autorità guatemalteche dovrebbero considerare che le persone se ne vogliono andare dal Guatemala perché non c’è lavoro e quando c’è è mal pagato – conclude Juan -. Per questo motivo dovrebbero facilitare il processo di reclutamento in Canada e negli Stati Uniti, permettendo a tutti di migrare regolarmente. Stiamo costruendo il Guatemala con le nostre stesse rimesse, quindi lo Stato ha il dovere di rispettare i nostri diritti e darci la possibilità di viaggiare senza rischiare di morire».

Simona Carnino

Vilma con la sua famiglia. Guatemala. Foto Simona Carnino