Haiti, la transizione può attendere


Dopo l’assassinio del presidente, alla guida del paese si è insediato un governo de facto. È sostenuto dalla comunità internazionale e dal maggiore Gruppo di potere. Lo fronteggia una larga coalizione alternativa. Ci sarà scontro o negoziato?

Scaduto il parlamento (ad eccezione di 10 senatori, un terzo del senato, che da soli non possono legiferare), scadute le autorità locali, assassinato il presidente della repubblica (il 7 luglio scorso), ad Haiti il vuoto istituzionale sembra toccare i massimi livelli.

Dopo la morte del presidente Jovenel Moise, una fazione del suo partito, il Phtk (Partito haitiano tèt kole), appoggiata dalle ambasciate occidentali (che insieme a Onu e Osa si riuniscono nel Core group), è riuscita a imporre il medico Ariel Henry come primo ministro de facto. Questi era stato designato dallo stesso Moise due giorni prima di morire. Henry ha poi trovato un accordo con alcuni partiti dell’opposizione, in quello che è passato sotto il nome di «accordo dell’11 settembre». Questa è l’alleanza attualmente al potere che si è data tre obiettivi principali: la riforma della Costituzione, la creazione di un nuovo Consiglio elettorale provvisorio (Cep) per realizzare elezioni generali, e la messa in sicurezza del paese, in preda alle bande armate.

L’accordo prevedeva un nuovo governo de facto, nel quale avrebbero potuto partecipare anche gli altri partiti firmatari. Esso è stato realizzato il 24 novembre scorso. De facto perché non può essere validato da un parlamento, e perché ha un primo ministro che governa da solo, non in collaborazione con il presidente della repubblica, come prevederebbe la Costituzione.

La voce dei movimenti

All’opposizione si trovano diversi schieramenti. L’accordo firmato il 30 agosto da diverse entità del mondo associativo, società civile e alcuni partiti politici (che si dichiarano a sinistra), noto come «accordo di Montana» (dal nome dell’hotel dove è stato siglato), è sicuramente quello più importante per numero e statura degli aderenti. Prevede una transizione più vicina alla Costituzione, con un esecutivo bicefalo. Non essendoci istituzioni repubblicane attive, i firmatari dell’accordo hanno previsto meccanismi consensuali per arrivare alla nomina di un presidente e un primo ministro. Hanno quindi formato il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), costituito da 40 membri tra i quali leader di organizzazioni contadine, femministe, socioprofessionali, e partiti politici.

Il Cnt, il 30 gennaio, ha eletto un presidente e un primo ministro di transizione, nelle figure di Fritz Jean e Steven Benoit, non riconosciuti dalle altre fazioni. «Il Cnt  si contrappone allo schema di chi ha il potere in questo momento. La questione è vedere come andranno i rapporti di forza, per poter realizzare una negoziazione tra le due parti. Per ora hanno avuto solo qualche incontro interlocutorio», ci confida un osservatore haitiano.

Un’ulteriore novità è stata un’alleanza tra il gruppo del Montana e il Protocollo d’intesa nazionale (Protocole d’entante nationale, Pen), un gruppo di partiti politici appartenenti alla destra storica. Ne fa parte, ad esempio, l’ex senatore Yuri Latortue. Tale alleanza, o «consenso politico», suggellata l’11 gennaio scorso, ha suscitato anche qualche perplessità in diversi esponenti della sinistra e dei movimenti sociali.

L’alleanza Montana-Pen, per risolvere il problema presidenziale, propone una presidenza collegiale, composta da cinque membri, alla quale fare partecipare anche un esponente dell’attuale gruppo al potere. Ci sarebbe poi un primo ministro e un gabinetto ministeriale, e questi organi guiderebbero una transizione di due anni che porterebbe alle elezioni generali. «Difficile che il governo di Phtk accetti questo cosiddetto “consenso politico”, se i rapporti di forza si mantengono quelli attuali».

Cimitero danneggiato dal terremoto del 14/08(2021 – Photo by Julien Masson / Hans Lucas / Hans Lucas via AFP

Chi tira i fili

«Il politico più influente del momento rimane l’ex presidente Michel Martelly, che punta a riconquistare la presidenza. Attualmente molti lo vedono dietro alle decisioni del governo di Henry, che di fatto lo rappresenta», continua il nostro interlocutore.

Da notare la spaccatura in seno al partito Phtk, causata proprio dall’assassinio del presidente, che pare essere stato un affare interno. In opposizione alla fazione Martelly-Henry, si trova la moglie di Moise, Martine, che ha mostrato ambizioni politiche, e con lei tutto il settore che appoggiava il presidente assassinato, come l’ex primo ministro e influente uomo d’affari, Laurent Lamothe.

Secondo un articolo del New York Times1 , che riporta un’intervista al businessman, ex trafficante di droga, Rodolphe Jaar, arrestato il 7 gennaio scorso in Repubblica Dominicana nell’ambito delle indagini sull’assassinio di Moise, il premier Henry era in costante contatto con alcuni dei principali indiziati del complotto, prima e dopo gli eventi. Secondo certi analisti, Martelly stesso potrebbe essere stato attivo nell’assassinio.

È però verosimile che le due fazioni, figlie dello stesso partito e della stessa cultura politica, all’ultimo momento, trovino un accordo per governare il paese.

Dove sta il popolo

«Quelli del Montana vorrebbero una “transizione di rottura”, che escluda i corrotti e gli attori del precedente potere, e coloro che hanno partecipato ai massacri di questi ultimi anni (ne sono stati compiuti diversi). Chiedono un processo partecipativo, che metta avanti le associazioni della società civile organizzata, e i partiti politici, in una dinamica democratica. Ma, per avere un peso nel negoziato, dovrebbero poter contare anche su una mobilitazione a livello popolare, cosa che non sembra tanto possibile per il momento, a causa del controllo da parte delle bande armate dei quartieri cittadini e delle principali vie di comunicazione. Gang che obbediscono ancora, almeno in parte, ad alcuni politici del campo opposto.

Il peso che possono giocarsi oggi è di tipo morale, le associazioni hanno una certa rappresentatività, sono circa un migliaio, sono conosciute. Se riuscissero a esprimere la loro forza con manifestazioni di piazza potrebbero portare le forze dominanti e la comunità internazionale ad ascoltarli, a pensare che occorre procedere in modo diverso».

Malgrado tutto, i «Montana» hanno un certo ascolto. Ad esempio, l’ambasciata statunitense e il dipartimento di stato li hanno già incontrati più volte per sapere cosa propongono.

«Penso che la comunità internazionale vorrebbe che il gruppo di Montana integrasse il governo attuale. Brian Nichols, sottosegretario Usa agli affari emisferici, durante un incontro ha chiesto loro di negoziare seriamente con Henry», chiosa il nostro osservatore.

Marco Bello

 1 – �Haitian prime minister had close links with murder suspect, New York Times, 10/01/2022.

 


Nomi e numeri/ Le tappe dello scandalo PetroCaribe

Dove sono i soldi degli haitiani

Da un’ottima idea di Hugo Chávez, quella di aiutare i paesi del Sud con le risorse del Sud, nasce una vicenda di corruzione di proporzioni gigantesche. Essa ci spiega, almeno in parte, perché al popolo di Haiti venga negata la dignità.

Il presidente del Venezuela (1999-2013) Hugo Chávez voleva sviluppare accordi di cooperazione con i paesi limitrofi per aiutarne lo sviluppo. Da questa idea nacque l’accordo PetroCaribe, che permetteva ai paesi firmatari di beneficiare del petrolio venezuelano su una corsia preferenziale.

L’accordo fu firmato nel 2005 da 12 paesi dei Caraibi. All’epoca Chávez non volle firmare con il presidente ad interim di Haiti Boniface Alexandre, in quanto non era stato democraticamente eletto (si trattava di un presidente di transizione, che aveva sostituito Jean-Bertrand Aristide fuggito in esilio nel 2004).

Il giorno dopo l’insediamento di René Préval come presidente, nel maggio 2006, Chávez lo chiamò per proporgli l’accordo. L’ambasciatore Usa ad Haiti, però, fece pressioni affinché non accettasse, pur ammettendo in segreto (rivelano documenti Wikileaks) che l’operazione avrebbe portato un beneficio economico al paese. Dopo una serie di negoziazioni, l’accordo venne firmato nell’ottobre dello stesso anno, per diventare esecutivo a gennaio 2007.

Murale decicato a Jovenel Moise. (Photo by Valerie Baeriswyl / AFP)

Cosa prevede

L’accordo PetroCaribe prevede che il Venezuela fornisca petrolio ad Haiti a un costo pari al 30% di quello del mercato internazionale. Il restante 70% sarà restituito dallo stato haitiano dopo 25 anni, con un tasso di interesse dell’1%. Unico vincolo posto dal Venezuela: che i fondi derivanti dal 70% risparmiato sia impiegato dal governo in progetti di sviluppo, di infrastrutture e di investimento per il paese (strade, scuole, ospedali, ecc.).

Il meccanismo prevede che lo stato acquisisca il petrolio e lo venda alle società private presenti sul territorio, che lo utilizzano per produrre elettricità. In questo modo verrebbero ricavati i fondi spendibili per le opere a favore degli Haitiani.

Per rendere operativo l’accordo, il presidente Préval costituì il Bureau de monetisation de programmes d’aide au développement, Bmpad, (Ufficio di monetizzazione dei programmi di aiuto allo sviluppo) che sarebbe stato l’organo incaricato di gestire i fondi PetroCaribe.

Nell’arco del 2007 i fondi accumulati (il 70%) risultarono essere 197,5 milioni di dollari. A inizio settembre 2008 l’isola fu colpita da quattro forti uragani, che causarono centinaia di morti e distruzione, in particolare nella città di Gonaives. Préval, insieme alla primo ministro Michèle Pierre-Louis, decise di impegnare i fondi PetroCaribe per la ricostruzione.

Cattiva gestione?

I governi che si sono succeduti e hanno impegnato i fondi accumulati da PetroCaribe sono stati i seguenti.

René Préval con primo ministro Jean-Max Bellerive, tre decreti per un impegno totale di 450 milioni di dollari. Il presidente Michel Martelly, succesore di Préval (maggio 2011), con il primo ministro Gary Conille, firmò un decreto il 22 febbraio 2012 per lo sblocco di 220 milioni. Due giorni dopo il primo ministro si dimise. Sarebbe stato sostituito da Laurent Lamothe (imprenditore di una famiglia della ricca borghesia haitiana).

Martelly e Lamothe spesero altri 900 milioni, oltre ai 220 precedenti.

Il presidente Martelly, contestato dalla popolazione, cambiò primo ministro, nominando nel gennaio 2015 Evans Paul, uomo politico di lungo corso, già legato alla sinistra. Durante il periodo Martelly-Paul i fondi PetroCaribe impegnati furono 250 milioni di dollari.

Infine, le elezioni per il successore di Martelly non andarono a buon fine, e venne nominato un presidente di transizione, Jocelerme Privert, che sarebbe stato in carica un anno (da febbraio 2016).

Insieme al primo ministro Enex Jean-Charles, impegnarono 33 milioni del fondo PetroCaribe.

Ad eccezione della prima tranche utilizzate per Gonaives, gli altri fondi diedero origine a progetti «bidone», pagamenti non tracciati, realizzazioni inesistenti.

Altre perdite

Ci sono altri fondi che mancano all’appello. Come detto, il petrolio venezuelano veniva venduto a compagnie private che producono energia (Sogener, e-Power e altre). Queste vendono i chilowattora alla compagnia di stato Eléctricité d’Haiti (EdH). L’EdH, però non pagava i fornitori, per cui questi, a loro volta, non pagavano il petrolio fornito da Bmpad. Questo produsse una perdita secca nell’intero periodo (2008-2016) di altri 600 milioni di dollari.

Infine, sul 30% da pagare subito alla fornitura al Venezuela, il paese di Chávez concesse una moratoria di due anni perché Haiti aveva forti problemi socio economici e di liquidità. Risultò che, di questa parte, solo l’85% venne pagato, mentre il 15% ancora rimane senza tracciamento: circa 200 milioni di dollari statunitensi.

Facendo i conti, dei fondi non tracciabili o spesi in modo dubbio, si raggiunge il valore minimo di 2,653 miliardi di dollari, per il periodo 2008-2016.

Va notato che questa cifra ha lo stesso ordine di grandezza del bilancio annuale del paese caraibico (intorno a 4 miliardi).

La Corte superiore dei conti e dei contenziosi amministrativi (Cscca) di Haiti ha realizzato tre audit finanziari sull’utilizzo dei fondi PetroCaribe che hanno dato origine a tre rapporti: gennaio 2019, maggio 2019 e l’ultimo1, completo, agosto 2020, dai quali sono dedotte le cifre sopra citate. La Corte ha messo in evidenza come «i progetti di investimento e i contratti relativi ai fondi PetroCaribe non sono stati gestiti secondo i principi di efficienza ed economia». La Corte ha lamentato, inoltre, la cattiva cooperazione dei funzionari statali e la mancanza di giustificativi per milioni di dollari.

Il popolo chiede conto

Ancora prima della pubblicazione del primo rapporto, nell’agosto 2018, una mobilitazione aveva preso piede sui social media, sotto l’hastag #PetrocaribeChallenge. La popolazione chiedeva alla classe politica di rendere conto su questi fondi2.

Per assurdo (o cecità di chi governava), il 7 luglio l’esecutivo, spinto dal Fondo monetario internazionale, aveva previsto l’aumento del 50% del prezzo del carburante alla pompa. È stata la scintilla che ha scatenato due giorni di proteste e guerriglia urbana a Port-au-Prince.

Il primo rapporto della Cscca metteva in causa il presidente Jovenel Moise, all’epoca non ancora in carica, per essere al centro dello schema di appropriazione indebita dei fondi, attraverso alcune sue imprese (tra cui Agritrans). La contestazione popolare è divampata in piazza in modo massivo nel febbraio 2019, mettendo a rischio lo stesso presidente3. Tali disordini hanno portato al cosiddetto «payi lok» (paese bloccato, in creolo) negli ultimi mesi di quell’anno, durante i quali la popolazione ha fermato tutte le attività in molte città.

Il fenomeno è andato scemando a inizio 2020 per diversi motivi, dall’arrivo del Covid-19 all’intervento delle gang che impedivano alla gente nei quartieri di uscire di casa e andare a manifestare.

Resta un rapporto di oltre 1.000 pagine, un lavoro esemplare dei giudici della Corte superiore dei conti, che aspetta in un cassetto che i responsabili della gestione, politici al potere e alti funzionari, siano convocati in tribunale per rendere conto.

Marco Bello 

  1. �Audit spécifique de gestion du fonds PetroCaribe. Cour supérieure des comptes et du contentieux administratif. Rapport 3, 12/08/2020.
  2. �#PetrocaribeChallenge, la campagne qui mobilise les haitiens contre la corruption, France24, 15/02/2020.
  3. PetroCaribe scandal: Haiti court accuses officials of mismanaging $2 bln in aid, France24, 18/08/2020.

 


Testimoni/ L’ultima intervista a padre Jean-Yves Urfié

«Bisogna che lascino in pace Haiti»

«Finché [il governo di] Haiti è agli ordini di Washington, la situazione non può migliorare. È un sistema di sfruttamento allo stato puro».

Ho conosciuto Jean-Yves Urfié nel 1995, a Port-au-Prince. Mi avevano parlato di lui, fondatore e direttore dell’unico settimanale in lingua creola (la lingua ufficiale) del paese, Libète. Sacerdote della congregazione dello Spirito Santo, da sempre si occupava di comunicazioni sociali. Mi aveva accordato un’intervista. In seguito ho avuto la fortuna di lavorare con lui al suo giornale.

Arrivato nel 1964 ad Haiti, ne era poi stato espulso da François Duvalier nel 1969. Aveva continuato a lavorare con la diaspora haitiana, prima a Brooklyn, New York, e poi in Guyana francese. Per poi tornare nel paese dei Caraibi a cui avrebbe dedicato la vita.

Nel gennaio dell’anno scorso, gli ho fatto l’ultima intervista sulla situazione del paese. Questa volta per telefono, perché da qualche anno viveva in Francia. Neanche tre settimane dopo, il 9 febbraio 2021, il Covid se l’è portato via all’età di 83 anni. Jean-Yves stava ultimando il suo libro di memorie, una vita che racconta anche la storia di Haiti di oltre mezzo secolo.

Riascoltando l’intervista, trovo una grande lucidità e visione. Ne riporto qui alcuni stralci che aiutano a comprendere l’attuale situazione haitiana.

La presidenza di Jovenel Moise non rischia di trasformarsi in una dittatura?

«È già una dittatura perché il presidente governa per decreto. […] L’opposizione ha cominciato a manifestare contro questo. […]

È soprattutto l’opposizione politica, ma incominciano ad aggiungersi dei movimenti nella società civile perché si rendono conto che alcuni decreti del presidente, sono contro la libertà.

Ad esempio ha creato un’agenzia di servizi segreti i cui membri possono essere armati, e andare dalle persone senza mandato e rendono conto solo al presidente. Una modalità che assomiglia molto ai Macoute del passato. Anche i diplomatici stranieri hanno detto a Moise che è un decreto pericoloso.

I diplomatici stranieri sono, però, molto ipocriti, perché informalmente criticano un decreto, ma non fanno nulla affinché non sia pubblicato.

O meglio, quando vogliono intervenire, lo fanno. Quando non vogliono, dicono che rispettano l’indipendenza del paese. Soprattutto gli Stati Uniti e il cosiddetto Core group».

Ma cosa sta succedendo al movimento popolare?

«Il movimento popolare era più forte nel 2019: avevano bloccato il paese per diverse settimane (si riferisce al payi lok per protestare contro lo scandalo PetroCaribe, vedi box pag. 13, ndr). Ma il problema è che, nell’opposizione stessa, ci sono persone molto simili a Moise, quindi il popolo non ha fiducia in tutti i suoi leader. Inoltre, non riescono a mettersi d’accordo. Per essere efficace, occorre che il movimento sia generale, ma oggi i vari gruppi lottano gli uni contro gli altri. Ci sono quelli che sono più radicali e altri meno, quelli favorevoli al dialogo e altri no. Tra i radicali c’è gente come Yuri Latortue, che faceva parte degli squadroni della morte durante il colpo di stato (parla del golpe di Raoul Cédras, 1991-1994, ndr). È diventato molto ricco grazie a traffici strani. La gente non si fida».

Cosa ne pensi del fatto che sia stato ripristinato l’esercito?

«Questo è un altro pericolo, perché l’esercito è sempre stato contro il popolo, almeno dall’occupazione americana (gli Usa hanno occupato militarmente Haiti dal 1915 al 1934, ndr). Sono loro che hanno riformato le Forze armate d’Haiti durante l’occupazione e questo esercito lavora sempre per gli interessi americani. Nella Costituzione l’esercito esiste, ma aveva una reputazione talmente cattiva che, dopo colpo di stato (di Cédras, ndr), al suo ritorno, Aristide l’aveva eliminato (1994). Da allora tutto il settore macoute (la destra duvalierista, ndr) cerca di rimetterlo in piedi».

Il fenomeno delle gang armate esiste da decenni, ma adesso sembra fuori controllo. Perché?

«Ci sono gang dappertutto, e sono al servizio dei politici. Hanno un grosso arsenale: si parla di 500mila armi leggere che sono entrate nel paese. Latortue e altri politici le ordinano e le fanno arrivare nei porti. E si assiste a una moltiplicazione.

È molto difficile disarmare questi gruppi. È come in Repubblica Centrafricana e altri paesi africani, dove i miliziani non rimettono le armi, neppure con i programmi di demilitarizzazione.

Inoltre tra di loro ci sono poliziotti. A volte si apprende che poliziotti sono arrestati, perché erano coinvolti nei rapimenti. Rapiscono anche gente del popolo. Il loro modo di sopravvivere è utilizzare le armi per fare soldi. Il mezzo più rapido è il rapimento. Chiedono delle somme enormi: uno o due milioni di dollari. Quando non sono pagati, i rapiti vengono uccisi».

(Photo by Reginald LOUISSAINT JR / AFP)

Quali speranze ci sono affinché migliori la situazione sociale ad Haiti?

«Il fondo del problema è un cambiamento di sistema. Non puoi migliorare la situazione ad Haiti cambiando un solo uomo. Fintanto che il sistema resta com’è, ovvero che Haiti è agli ordini di Washingon, non può funzionare. Siamo in pieno sistema capitalista selvaggio: nelle fabbriche le operaie prendono 5 dollari al giorno, un modello di sfruttamento che non può continuare. Questa è la base di tutto. Moise non fa che perpetuare un sistema di disuguaglianze. Finché sarà così, ci saranno le bidonville dove le persone languiscono, bevono acqua sporca, non hanno alcun confort, vivono sotto un tetto di lamiera con 40 gradi all’interno. Sono gli Stati Uniti che hanno le fabbriche al Parc industriel. L’interesse degli Usa per Haiti sono i bassi salari. Una seconda preoccupazione degli americani sono i boat people (migranti sui barconi, ndr) che hanno ripreso a partire. È come un termometro: quando le cose vanno veramente male, i boat people partono.

Gli americani non vogliono i profughi ma vogliono tenere i salari bassi. È un sistema di sfruttamento allo stato puro: “Non siete contenti ma restate a casa vostra, non vi vogliamo da noi, ma voi lavorate per noi”».

Con il presidente Joe Biden le cose potrebbero cambiare?

«Non cambia con i presidenti Usa. Abbiamo avuto Obama e Carter, adesso abbiamo Biden. Anche se non è cattivo come Trump, però rappresenta un sistema pieno di disuguaglianze, che fa la fortuna di Wall Street, il vero simbolo di tutto questo».

Marco Bello

Nota

Jean-Yves Urfié ebbe un ruolo importante nella resistenza al colpo di stato di Raoul Cédras (1991-1994), organizzato dalla Cia (Usa). In quel periodo pubblicò un romanzo contro la dittatura, uscito con lo pseudonimo Paul Anvers, che, se letto in creolo, suona come «pelle all’inverso», in quanto si riteneva haitiano bianco, quindi con la pelle rivoltata.
Paul Anvers, Rizierès de sang, L’Harmattan, Paris, 1992. Ancora disponibile in formato elettronico sul sito dell’editore.

Archivio MC

Cattedrale di Port-au-Prince distrutta nel terremoto del 2010 e mai ricostruita


Appello dei vescovi di Haiti

  • I vescovi di Haiti, il 3 febbraio scorso, hanno fatto un appello pubblico «affinché i protagonisti trovino un consenso il più largo possibile per uscire dalla crisi in modo definitivo, perché è necessario un compromesso storico».

L’ora che viviamo è estremamente grave e particolarmente decisiva, in questo momento irreversibile della nostra storia. Quello che è in gioco è il nostro presente e il nostro avvenire, e dunque la nostra esistenza stessa come popolo, come nazione e come stato. È quindi necessario prendere delle decisioni coraggiose.

Sì, la nostra cara Haiti non ne può davvero più. È stanca, estenuata, sfinita. Ne ha abbastanza di vivere in condizioni totalmente alienanti, umilianti, inumane e disumanizzanti.

È il momento è per l’unità, l’unione che fa la forza, la messa in comune delle nostre idee e dei nostri sforzi. L’ora del consenso nazionale e patriottico per fare uscire definitivamente il nostro paese dalla crisi profonda che perdura da troppo tempo, e che minaccia seriamente la sua stessa esistenza.

È tempo di uscire dalla nostra indifferenza, dal nostro torpore, le nostre paure reciproche. È tempo di raccoglierci in un sussulto morale, patriottico e di cittadinanza, prima che sia troppo tardi.

Di fronte alla situazione drammatica nella quale è precipitato il nostro caro paese, noi, i vescovi cattolici di Haiti, rivolgiamo una volta di più, un appello urgente a tutti i protagonisti che sono sulla scena sociopolitica, affinché trovino insieme un consenso più ampio possibile, che possa condurre all’uscita definitiva dalla crisi, in vista della riconquista della nostra sovranità e di un risollevamento di Haiti.

Noi esortiamo a lavorare insieme, in sinergia, in vista di costruire un avvenire solido e radioso per Haiti, le sue figlie e si suoi figli.

Haitiane e haitiani, noi dobbiamo coniugare tutte le nostre forze, le nostre energie, le nostre intelligenze, nostre risorse e lavorare insieme affinché il 7 febbraio sia un giorno di dialogo, di consenso, e di compromesso storico per l’unità del nostro popolo, la salvaguardia e la trasformazione del nostro paese che si trova sul bordo dell’abisso.

Haitiane e haitiani, mettiamo il bene supremo della Nazione al di sopra di ogni altro interesse personale, per evitare che il nostro paese precipiti nel caos più totale.

Facciamo appello alla coscienza e al senso di responsabilità dei nostri dirigenti, al fine che essi mettano tutto in opera per l’ordine, la pace, la sicurezza e il rispetto delle vite e dei beni sia ristabilito e consolidato. Così prevarranno infine nel nostro paese il diritto e la giustizia.

Ai gruppi armati e ai rapitori che seminano, in totale impunità, la violenza, la paura, il lutto, la desolazione, e la disperazione nelle famiglie haitiane, noi chiediamo di deporre le armi, di rinunciare alla violenza, al rapimento e di smettere di fare colare il sangue delle loro sorelle e fratelli.

Firmato da tutti i vescovi haitiani
(liberamente tradotto dal francese)

 




Xiomara Castro, la donna delle rivincite


In un paese maschilista e dominato da povertà, corruzione e violenza, per la prima volta una donna è diventata presidente. Dopo il golpe militare del 2009 e dodici anni terribili, finalmente una speranza.

Vincitrice nelle elezioni del 28 novembre 2021, in carica dal 27 gennaio, Xiomara Castro è la nuova presidente dell’Honduras e la prima donna alla guida dello stato centroamericano. Un evento di portata epocale, ma anche una rivincita della storia e delle donne honduregne.

Candidata del partito di sinistra Libre (acronimo di Libertad y refundación), Xiomara, 63 anni e quattro figli, è moglie di Manuel Zelaya Rosales, il presidente destituito da un golpe militare il 28 giugno del 2009. Pretesto per il colpo di stato – il primo del XXI secolo – furono presunte violazioni della Carta costituzionale da parte di Zelaya. In realtà, il problema era la sua vicinanza con Hugo Chávez, all’epoca presidente del Venezuela. Il golpe fu condannato da Barak Obama, allora presidente Usa, benché il coinvolgimento di organismi militari statunitensi venne successivamente acclarato.

Al posto del presidente deposto arrivò ad interim Roberto Micheletti, seguito da Porfirio Lobo Sosa e poi, per due mandati, Juan Orlando Hernández.

Questi, nel novembre 2013, sconfisse in elezioni molto contestate proprio Xiomara Castro. Sia Lobo Sosa che Hernández sono attualmente indagati negli Stati Uniti.

Oltre alla rivincita della storia, la vittoria di Xiomara Castro porta con sé una rivincita di genere in un paese di stampo machista, dove le donne soffrono di un’endemica diseguaglianza e discriminazione.

L’ex presidente Manuel Zelaya, marito di Xiomara Castro, con l’ex presidente brasilano Lula (in maglietta rossa). Foto Wandaick Costa (2018).

Non solo Berta: un paese violento

L’Honduras, con circa dieci milioni di abitanti, è un paese dominato da povertà, corruzione e violenza. Le cifre testimoniano la gravità della situazione.

Secondo gli ultimi dati dell’Istituto nazionale di statistica (luglio 2021), la povertà interessa il 73,6 per cento delle famiglie honduregne. E per il 53,7 per cento si tratta di povertà estrema, con i livelli maggiori nelle zone rurali del paese. Alle conseguenze di un sistema economico di chiaro stampo neoliberista, si sono aggiunti, a novembre 2020, i disastri naturali prodotti dagli uragani Eta e Iota, considerati dagli esperti l’ennesima conseguenza dei cambiamenti climatici in atto.

La pessima situazione economica del paese va a braccetto con la violenza. Secondo l’Osservatorio della violenza dell’Università nazionale autonoma dell’Honduras, nel 2021 si sono registrati 3.800 morti violente, pari a un tasso di 40 omicidi ogni 100mila abitanti, piazzando il paese al terzo posto in America Latina dopo Venezuela ed El Salvador (a livello mondiale il tasso medio è del 6,1, stando ai dati Unodc del 2017).

Tra le vittime privilegiate ci sono le donne. Nel 2021, almeno 314 di esse sono state assassinate, secondo i dati del Comisionado nacional de los derechos humanos (Conadeh). Questo significa che, in media, ogni 28 ore una donna honduregna è morta in modo violento. La situazione è peggiorata in maniera significativa durante l’emergenza causata dalla pandemia del Covid-19.

Infine, l’Honduras è considerato uno dei paesi più pericolosi per i difensori dei diritti umani.

Qualche anno fa, il 3 marzo 2016, fu vittima della violenza anche Berta Cáceres, ambientalista dei Lenca (uno dei sette popoli indigeni del paese, composto da circa 400mila persone).

La donna si opponeva alla costruzione della diga Agua Zarca sul fiume Gualcarque cui partecipavano la compagnia honduregna Desa e la compagnia statale cinese Sinohydro. Lo scorso luglio David Castillo, ex amministratore della Desa, è stato giudicato colpevole di essere il mandante di quell’omicidio. Una sentenza considerata storica vista l’impunità che nel paese ha sempre protetto i responsabili dei crimini.

Peraltro, Berta Cáceres non è l’unica persona ad aver pagato la sua lotta per la difesa dell’ambiente. Da due anni otto uomini sono in carcerazione preventiva (il processo è iniziato lo scorso primo dicembre) per aver difeso le acque dei fiumi Guapinol e San Pedro – nella valle del Bajo Aguán, dipartimento di Colon, nel Nord dell’Honduras – dalla contaminazione. Nel 2014, il governo honduregno concesse alla compagnia Inversiones los pinares (Ilp) il diritto allo sfruttamento minerario senza alcuna consultazione delle comunità coinvolte (con migliaia di residenti).

(Photo by Handout / Honduran Presidency / AFP)

Fuga senza fine

Povertà, violenza e corruzione sono le cause che spingono migliaia di honduregni a fuggire dal paese. Il fenomeno delle cosiddette «carovane di migranti», dirette negli Stati Uniti attraverso Guatemala e Messico, ha preso il via nell’ottobre 2018 dalla città di San Pedro Sula, principale città del Nord del paese. Si tratta di un viaggio lungo – per raggiungere la frontiera statunitense ci sono 2.200 chilometri per il Texas (El Paso) e 3.500 per la California (Tijuana-San Diego) -, costoso e soprattutto pericoloso. L’ultima carovana di migranti è partita da San Pedro Sula sabato 22 gennaio.

Per capire l’entità del fenomeno, è sufficiente un dato: in un solo anno (da ottobre 2020 a settembre 2021), 320mila migranti honduregni, più del 3 per cento dell’intera popolazione, sono stati catturati alla frontiera Sud degli Stati Uniti. Su quel confine gli honduregni rappresentano la più numerosa nazionalità in cerca di asilo: 200 famiglie al giorno stando ai dati diffusi dalla polizia di frontiera (U.S. Customs and border protection, Cbp).

Sul tema migratorio la preoccupazione di Washington è tale che la vicepresidente Kamala Harris è volata nella capitale
Tegucigalpa per discuterne di persona con Xiomara Castro già nel giorno dell’insediamento di quest’ultima.

La mappa evidenzia la distanza che separa l’Honduras dal confine Sud degli Stati Uniti, sogno di moltissimi migranti honduregni.

La religione come strumento politico

In Honduras, oltre l’80 per cento della popolazione si dichiara cristiana. I cattolici sono il 38,1 per cento, gli evangelici seguono con il 37,6 (fonte Statista, 2021).  I politici honduregni non si sono mai fatti scrupoli di usare la religione come strumento di consenso. Nel suo discorso d’insediamento del 27 gennaio 2018, l’avvocato Juan Orlando Hernández, membro di una chiesa evangelica, aveva utilizzato il termine Dio con grande disinvoltura, per evidenziare una presunta «volontà divina» dietro la sua elezione a presidente (un comportamento che sarebbe stato utilizzato anche dal capitano Jair Messias Bolsonaro, futuro presidente del Brasile).

«Dalla mano di Dio e del popolo honduregno – aveva detto – costruiremo insieme l’Honduras che meritiamo. Sono Juan Orlando Hernández e sono pronto a dare tutto per l’Honduras, per il mio popolo, per tutti. Grazie mille, Dio benedica l’Honduras! Che Dio ci benedica tutti! E ora… partire di qui, ora per lavorare, per lavorare e per lavorare! Perché dalla mano di Dio il lavoro vince tutto. Grazie di cuore, vi voglio tanto bene e un abbraccio per tutti quelli che sono qui e quelli che sono lì in Honduras… un abbraccio per tutti, con tanto affetto». Oggi, l’ex presidente è accusato dalla giustizia degli Stati Uniti di essere legato al narcotraffico in un paese qualificato come «narcostato».

È in questo contesto che Xiomara Castro in Zelaya ha assunto la carica di presidente.

Paolo Moiola


Il gesuita padre Melo con Berta Cáceres, l’ambientalista indigena assassinata nel 2016. Foto Radio Progreso.

I Gesuiti

Radio Progreso, la voce degli ultimi

In Honduras, l’ordine dei Gesuiti svolge  un’importante opera di comunicazione  attraverso un’emittente radiofonica e un gruppo di riflessione. Ismael Moreno Coto, «padre Melo», ne è l’instancabile animatore.

Gli anni più duri sono stati quelli immediatamente successivi al colpo di stato del giugno 2009. Giornalisti e impiegati ricevevano minacce a ripetizione dai militari e dai loro fiancheggiatori. Ma non si sono mai arresi, anche dopo l’assassinio – l’11 aprile 2014 – di Carlos Mejía Orellana, uno degli amministratori dell’emittente.

Fondata nel 1956, acquisita dalla Compagnia di Gesù nel 1970, Radio Progreso è quella che si può definire un’emittente di lotta o, per usare i suoi slogan, la «voce dei senza voce» (la Voz de los sin voz), «la voce di un popolo in cammino» (la Voz de un pueblo en marcha) e ancora «la voce che sta con te» (la Voz que está con vos). Da gennaio 1980, la struttura di Radio Progreso è affiancata da un gruppo di riflessione e approfondimento conosciuto con l’acronimo di Eric (Equipo de reflexión, investigación y comunicación), anch’esso facente capo ai Gesuiti dell’Honduras.

Padre Melo

Il logo di Radio Progreso, l’attivissima emittente dei Gesuiti dell’Honduras, diretta da padre Melo.

Anima instancabile della radio e del gruppo di riflessione è Ismael Moreno Coto, conosciuto come «padre Melo», gesuita e attivista dei diritti umani. Una persona a cui mai ha fatto difetto il coraggio della parola.

Il 17 dicembre 2019, in occasione dei 63 anni della radio, il padre gesuita ha ricordato il Dna proprio dell’emittente: un’opposizione diretta al modello di sviluppo basato sull’infinita accumulazione di ricchezza e capitale in un numero ridotto di famiglie a costo di condannare milioni di persone alla disoccupazione, alla povertà e alla perdita di diritti e opportunità. A settembre 2021, poco prima delle elezioni, su Envío, la rivista editata da Eric, padre Melo scriveva: «Siamo sotto il controllo di un Patto politico dell’impunità costituito il 28 giugno 2009 con il colpo di stato e andato consolidandosi sotto la guida di un gruppo di mafiosi che ha trasformato un partito politico in una struttura criminale. […] Parliamo di un Patto politico dell’impunità guidato dal crimine organizzato, soprattutto dal traffico di droga, sotto la guida di Juan Orlando Hernández [il presidente del paese], la sua famiglia e i collaboratori più vicini. A questa squadra si aggiungono attivamente i membri dell’alto comando delle Forze armate, la cupola della Polizia nazionale, i magistrati della Corte suprema di giustizia, il Pubblico ministero generale, il settore delle imprese raggruppate nel Cohep [Consejo hondureño de la empresa privada], settori direttamente legati alle aziende transnazionali estrattive, un piccolo gruppo di professionisti e un altro di un’autoproclamata società civile».

Una manifestazione contro l’arresto degli ambientalisti della regione del Guapinol. Foto Orlando Sierra / Cespad.org.

La Chiesa cattolica e il golpe del 2009

Padre Melo non risparmia critiche alla Chiesa cattolica. Nell’ultimo paragrafo della sua riflessione egli ricorda che, dal 2009 al 2012, la Conferenza episcopale del paese (all’epoca guidata dal cardinale Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga) aveva perso credibilità a causa del suo appoggio al golpe militare. Secondo il gesuita, il processo di recupero è iniziato con la nomina a capo della Conferenza del vescovo della diocesi di San Pedro Sula, mons. Ángel Garachana Pérez.

Speranze e un cammino in salita

A conclusione delle elezioni del 28 novembre, il gruppo Eric non ha nascosto (Manifiesto público número 65, 2 dicembre 2021) la propria soddisfazione: «Dopo 12 anni di corruzione, violenze e vergogna mondiale […]. Il popolo è uscito in massa per votare, e questo è il suo trionfo, una

vittoria pacifica, ma determinante e solida. Sono giorni di festa, gratitudine e speranza».

Con l’arrivo alla presidenza di Xiomara Castro, Radio Progreso e il gruppo Eric dovranno riuscire a confermare il loro ruolo a fianco degli ultimi. Infatti, nonostante le speranze suscitate dal nuovo governo, è facile prevedere che la strada per un altro Honduras sarà lunga e molto faticosa. Come riconoscono gli stessi Gesuiti: «Sono giorni per godere del trionfo ma con i piedi ben saldi per terra. Rimane molta strada da fare per rafforzare nel tempo le gioie e la dignità della nostra gente». Una previsione subito confermata dai fatti con il clamoroso scontro interno (Luis Redondo versus Jorge Calix, 23 gennaio) sulla presidenza dell’assemblea legislativa di Tegucigalpa.

Paolo Moiola

La cattedrale di San Pedro Sula, seconda città del paese centroamericano. Foto Hector Emilio Gonzales / Unsplash.

 




Ingiustizie che prendono quota


Ecosistemi sconvolti, intere comunità sfollate, denaro pubblico usato a beneficio di pochi. I progetti aeroportuali nel mondo crescono in numero e in violenza ambientale e sociale. E i movimenti locali di opposizione si mettono in rete.

«Ampliaciones, no. En lucha por el clima, la salud y la vida», «No ampliamenti. In lotta per il clima, la salute e la vita». Nel centro di Barcellona e nel vicino comune di El Prat de Llobregat, dove si trova l’aeroporto internazionale Barcelona-El Prat, lo scorso 19 settembre hanno manifestato con questo slogan oltre 10mila persone.

Convocati dalla coalizione Zeroport e dalla Rete per la Giustizia Climatica (Xarxa de justícia climàtica) della capitale catalana, i manifestanti si opponevano al progetto di ampliamento della struttura aeroportuale.

L’aeroporto che rischiava di mangiarsi il delta del fiume Llobregat era al centro di un acceso dibattito politico in Catalogna e in Spagna. Sia la Generalitat catalana (il governo della comunità autonoma) che il governo centrale spagnolo, infatti, sotto la pressione di gruppi imprenditoriali catalani, come il Grupo Godó, avevano stanziato 1,7 miliardi di euro per aumentare la capacità aeroportuale. L’obiettivo era quello di passare dai 55 milioni di visitatori e turisti annuali in epoca pre Covid a 70 milioni (alcuni hanno perfino parlato di 100 milioni). Più turismo, trasporto più rapido, più servizi, più attrazioni e più shopping tra un volo e l’altro. Il progetto, già traballante al momento della manifestazione, poco dopo è stato dichiarato «sospeso per cinque anni» dal governo nazionale che l’ha escluso dal «Piano aeroportuale spagnolo 2022-2026».

Dallas-Fort Worth International Airport Aerial / flickr.com

Niente interesse generale

Visti gli attuali dati climatici e le previsioni di innalzamento del livello dei mari che hanno da tempo dimostrato l’inevitabile inondazione dell’area dell’aeroporto nei prossimi decenni, il progetto di ampliamento pare segnato da una visione alquanto ottimista. Ed è anche una visione fuori contesto, dati gli impegni di riduzione delle emissioni di CO2 che lo stesso governo spagnolo ha preso nei vertici Onu per il clima. L’aviazione globale è, infatti, uno dei settori più contaminanti in termini di emissioni.

Inoltre, la terza pista in progetto passerebbe nel bel mezzo de La Ricarda, una delle zone paludose del delta del fiume Llobregat più popolate di biodiversità di tutta la penisola iberica, tanto da essere inserita in diverse liste di protezione ambientale a livello catalano, statale ed europeo.

Quella del progetto è, infine, una visione con la quale reti organizzate come la coalizione Zeroport dissentono profondamente anche per questioni sociali. Stanchi, infatti, del turismo di massa che ha sconvolto il tessuto sociale e commerciale di Barcellona, molti cittadini e cittadine rivendicano una maniera diversa di viaggiare e visitare il mondo: lenta, responsabile e attenta alle realtà locali.

Nel mezzo dell’emergenza climatica e con l’attività aeroportuale attualmente in crisi per la pandemia, afferma Zeroport, risulta chiaro che l’ampliamento dell’aeroporto di Barcellona non è un progetto d’interesse generale. Ciò che è in ballo, piuttosto, sono gli interessi di grandi imprese costruttrici d’infrastrutture e degli azionisti di Aena, società spagnola quotata in borsa in mano a fondi d’investimento, proprietaria della maggior parte degli aeroporti del paese. Gli stessi interessi che girano attorno al mondo delle crociere turistiche e delle grandi navi da carico nel porto della città.

Una mappa dei conflitti

Alla manifestazione di settembre a Barcellona ha partecipato anche la rete globale Stay Grounded («Restiamo a Terra»), a dimostrazione del fatto che la tendenza all’ampliamento delle infrastrutture aeroportuali è un fenomeno globale.

Con l’intento di visualizzare tale tendenza, sulla base dei dati forniti dal Center of Aviation (Capa), il gruppo di ricerca dell’Ejatlas (l’atlante della giustizia ambientale) ha identificato più di 350 progetti aeroportuali attualmente in costruzione o interessati da piani di ampliamento, dei quali oltre il 60% in Asia. Molti di essi hanno generato gravi conflitti relativi all’acquisizione di terreni, allo spostamento di persone, alla distruzione di ecosistemi, all’inquinamento e alla salute.

Nell’aprile del 2021 l’Ejatlas ha pubblicato una mappa tematica con più di 80 casi di conflitto e resistenza contro progetti aeroportuali, arricchita da ulteriore informazione cartografica.

Passeggeri e merci

Ma perché si stanno ampliando tanti aeroporti, o costruendo vere e proprie «aerotropoli»1? Possono esserci diverse ragioni, ma tutte legate alla fiducia nell’aumento degli investimenti per rilanciare i settori turistico, mercantile ed energetico. Molti sono, infatti, i progetti aeroportuali volti a far crescere il turismo e il numero dei passeggeri, come l’aeroporto di Chinchero già in costruzione, che mira ad aumentare il numero di visitatori a Machu Picchu in Perù.

La mappa dell’Ejatlas include anche aeroporti cargo, come quelli di Ebonyi e di Ogun Cargo in Nigeria. Quattro casi indicati nella mappa riguardano aeroporti cargo costruiti per la consegna di attrezzature per importanti progetti riguardanti combustibili fossili: l’aeroporto di Komo, ad esempio, per servire il progetto di gas naturale liquefatto (Gnl) della Papua Nuova Guinea; quello di Hoima per supportare lo sviluppo petrolifero sulle rive del lago Albert in Uganda; la pista di atterraggio di Afungi per servire il Gnl del Mozambico e l’aeroporto di Suai che serve piattaforme petrolifere al largo della costa di Timor Est.

Aereoporto di Malpensa / foto Gigi Anataloni

Aerotropoli

Una delle tendenze più eclatanti, soprattutto nel Sud del mondo, è quella delle «aerotropoli»: infrastrutture abnormi, circondate da centri commerciali e industriali, hotel, complessi logistici o collegati a zone economiche speciali. Non si tratta dunque di scali logistici con servizi di comfort, ma di una nuova concezione dell’esperienza aeroportuale. Lo sviluppo delle aerotropoli è iniziato in Europa e negli Stati Uniti negli anni ‘90, in particolare intorno agli aeroporti di Amsterdam, Monaco e Dallas. Ai più grandi progetti di aerotropoli del mondo vengono normalmente assegnate aree di gran lunga superiori alle necessità. Basti pensare a Kuala Lumpur, dove l’aeroporto sorge su 100 chilometri quadrati di terreno, a Denver con uno sviluppo aeroportuale pianificato su 137 km2 e al nuovo aeroporto di Dubai, a cui ne sono stati assegnati ben 140 (la superficie coperta dall’intera città di Napoli è di 119 km2 per 3 milioni di abitanti, ndr).

Tali estensioni sono ufficialmente giustificate dal fatto che le aerotropoli sono motori di sviluppo che galvanizzano la crescita economica per tutti i cittadini. L’obiettivo principale, tuttavia, è massimizzare il commercio e il traffico di passeggeri e di merci al servizio dei profitti delle multinazionali, tra le quali i produttori di aeroplani, le compagnie aeree, quelle petrolifere, di costruzioni, di cemento e asfalto, di sicurezza, i consorzi di grandi hotel e catene di vendita che trattano marchi globali.

I commerci locali di piccole e medie dimensioni sono esclusi.

Essendo grandi progetti infrastrutturali che richiedono, ad esempio, autostrade, collegamenti ferroviari, complessi turistici, le aerotropoli promuovono un ampio processo di espansione urbana e di speculazione immobiliare che finiscono per generare impatti e conflitti socio ambientali a catena.

20/02/2020 Protest in front of Environment Department, Manila – Photo: PAMALAKAYA

Sfollamenti e repressione

L’assegnazione di grandi siti per i progetti aeroportuali, spesso terreni agricoli e zone di pesca, comporta che intere comunità, in alcuni casi migliaia di persone, perdano le loro case e i loro mezzi di sussistenza. In molti dei casi studiati dall’Ejatlas si sono verificati espropriazioni di terre (50% dei casi totali) e sfollamenti coatti (47%).

Molte comunità che hanno resistito hanno subìto diverse forme di repressione da parte dello stato: sgomberi forzati, vessazioni, intimidazioni, arresti, incarcerazioni e violenze che hanno provocato anche morti e feriti. Si sono verificati alti livelli di violenza nel 35,5% dei casi, repressione nel 30% e militarizzazione nel 29%. Alcuni esempi sono quelli dell’aeroporto di Arial Beel (Bangladesh), di Mieu Mon (aeroporto militare in Vietnam) e di Lombok (Indonesia).

In Messico, le organizzazioni locali e la comunità indigena Rarámuri, che si oppongono alla costruzione di un aeroporto a Creel, hanno denunciato come crimine di stato l’omicidio di Antonio Montes Enríquez, un leader indigeno che si opponeva al mega progetto turistico «Barrancas del Cobre», trovato senza vita il 6 giugno 2020. Nei casi degli aeroporti di Bhogapuram e Salem in India si sono documentati casi di suicidi tra le persone che sarebbero state sfollate.

Uno degli episodi storici di violazione dei diritti umani si è verificato ad Atenco nel 2006, zona assegnata a un nuovo aeroporto per la Città del Messico: due giovani sono stati uccisi, 26 donne torturate e stuprate e 207 persone arrestate (12 di loro incarcerate per più di quattro anni durante i quali hanno subito torture). Oggi quel progetto è cancellato, ma l’attuale governo di Andrés Manuel Lopez Obrador non ha abbandonato il sogno della mega infrastruttura: un’altra zona, infatti, è stata identificata per il nuovo aeroporto di Santa Lucia, che causerà conseguenze su altre comunità. Ad Atenco e sul lago di Texcoco, rimangono cicatrici di tralicci, cemento e macchinari abbandonati. L’area permane recintata e l’accesso proibito.

Distruzione di ecosistemi

Nei casi analizzati da Ejatlas si sono registrati paesaggi deturpati (48%), deforestazione (41%) e perdita di biodiversità (32%). Uno dei casi più gravi di deforestazione in Sri Lanka si è verificato nell’area in cui è stato costruito l’aeroporto di Mattala. Nelle Maldive, l’espansione dell’aeroporto di Noonu Maafaru sta portando alla perdita di una vasta area della laguna, mettendo a rischio le tartarughe marine e altre specie. Le mangrovie nella baia di Manila, nelle Filippine, sono già state tagliate per il Bulacan Aerotropolis, mentre in Malaysia le barriere coralline e le praterie di alghe sono a rischio per un secondo aeroporto sull’isola di Tioman. La bonifica del terreno per l’aeroporto di Sanya Hongtangwan, in Cina, è stata interrotta per due anni dopo le denunce per gli impatti sull’habitat dei delfini bianchi cinesi, una specie protetta per il suo alto rischio di estinzione. Il sito per un secondo aeroporto pianificato a Lisbona (Portogallo) si trova nella riserva naturale dell’estuario del Tago, un ecosistema cruciale per l’alimentazione di dozzine di specie di uccelli.

Problemi di salute

Se la costruzione di aeroporti crea impatti sugli ecosistemi, ha ripercussioni negative anche sulla salute umana. Durante la fase di costruzione, si registrano molti casi di incidenti, come all’aeroporto indiano di Navi Mumbai, dove alcuni operai sono rimasti feriti in seguito all’uso di esplosivo per aprire passaggi in pareti di roccia e per livellare il terreno e dove, inoltre, soffrono di alti livelli di inquinamento da polvere. Negli Stati Uniti, i residenti nelle vicinanze dell’aeroporto di Cincinnati/Northern Kentucky hanno intentato un’azione legale collettiva per l’eccessiva polvere, rumore e onde d’urto dovute a esplosioni per la costruzione di un hub di carico.

Una volta che gli aeroporti sono operativi, le comunità limitrofe sono esposte agli inquinanti emessi dagli aerei e ad alti livelli di rumore. Le perdite di carburante per l’aviazione possono contaminare le riserve idriche. Ne sono state documentate in relazione alle strutture che riforniscono due basi aeree statunitensi, Kirtland Afb e Red Hill Bulk Storage Facility alle Hawaii.

Play card demonstration – Simara-Bara (Nepal) – 7/11/2021

Disuguaglianze mondiali

Le ingiustizie ambientali e sociali di cui abbiamo parlato dovrebbero essere inserite in una cartografia mondiale sulle diseguaglianze in termini di possibilità di spostamento e di attraversamento di frontiere, nonché di accessibilità ai beni trasportati negli aeroporti cargo.

Le persone con passaporto europeo possono viaggiare in più di 180 paesi senza visto preventivo, mentre i cittadini di paesi più poveri in molti meno, ad esempio gli afghani solo in 26. Per non parlare poi della capacità di far fronte alle spese per i biglietti aerei. I paesi dove è più alta la percentuale di cittadini che non possono fare viaggi internazionali sono quelli nei quali le persone soffrono maggiormente gli impatti sociali e ambientali dei progetti aeroportuali. A questi aeroporti accedono milioni di persone di altri paesi per turismo e per acquistare beni di difficile (o impossibile) accesso per i residenti locali.

Un altro dato su cui riflettere è quello delle disuguaglianze mondiali di emissioni da trasporto aereo. Le emissioni pro capite di CO2 per il turismo del paese più inquinante (Emirati Arabi Uniti) sono 2.908 volte superiori al paese con meno emissioni (Tagikistan). La maggioranza dei paesi (71%) produce emissioni pro capite relative al settore turistico inferiori alla media globale (242 kg). Ventisette paesi, per lo più in Africa, Medio Oriente e Asia meridionale, registrano emissioni di CO2 pro capite (relative al turismo) inferiori a 50 chilogrammi, il che dimostra che i loro cittadini viaggiano molto poco in aereo. Tuttavia, vi troviamo 419 aeroporti operativi e 113 aeroporti pianificati.

Un esempio è l’India, con pochissime emissioni pro capite relative al settore turistico (17,56 kg) ma con 77 aeroporti principali operativi e 52 in costruzione. Numeri destinati a crescere ancora, tramite il programma del governo per la connettività regionale (Udan) che ha l’obiettivo di «rendere il volo una realtà per l’uomo comune delle piccole città». A tal fine, il governo prevede di costruire altri 100 aeroporti entro il 2024.

Barcelona El Prat Airport 2019 – foto Christine Tyler / Stay Grounded

Le mobilitazioni sociali

La mappa dell’Ejatlas mostra anche una serie di vittorie contro progetti aeroportuali.

Nel 39 per cento dei casi analizzati, la resistenza è stata vista da parte di chi l’ha operata come (parzialmente) riuscita: per l’aumento della partecipazione della popolazione, o per i risarcimenti ottenuti, o, ancora, per le moratorie o cancellazioni dei piani di costruzione. Un esempio famoso in Europa è la resistenza contro il nuovo aeroporto di Nantes, che ha dato vita al movimento zadista (dall’acronimo Zad, zone à défendre, zona da difendere) e alle sue molteplici iniziative di produzione agroecologica, biocostruzioni e attività culturali nei terreni dell’area altrimenti concessionata all’aeroporto.

Tra i casi percepiti come «positivi» rientrano quelli dove le comunità sfollate hanno ottenuto maggiori indennizzi per l’acquisizione di terreni. È questo il caso degli aeroporti di Sentani (Indonesia) e di Bhogapuram (India). Quest’ultimo è un esempio di attivismo che ha ridotto la superficie assegnata al progetto.
In Nigeria, le famiglie agricoltrici espropriate delle loro terre senza preavviso per un aeroporto cargo a Ekiti hanno ottenuto una sentenza del tribunale che ha riconosciuto come illegali le procedure per l’acquisizione forzata delle terre e ha ordinato il pagamento dei danni.

Nella stragrande maggioranza delle storie di successo (80%) la resistenza è iniziata prima dell’inizio dei lavori, e ciò dimostra l’importanza di una strategia preventiva nell’organizzazione sociale. Tuttavia, in molti casi l’opposizione allo sviluppo di un aeroporto provoca lo stallo del progetto piuttosto che l’arresto, come nei casi delle terze piste degli aeroporti di Heathrow (Regno Unito) e di Vienna (Austria).

La possibilità sempre latente che i progetti aeroportuali siano riattivati provoca incertezze e difficoltà presso le comunità interessate, oltre che incontrollabili speculazioni sui terreni limitrofi.

Le domande dei movimenti

Bristol XR in Glasgow – Glasgow (UK) – 3/11/2021

Che cosa chiedono, dunque, i movimenti sociali? In poche parole, ripensare il settore dell’aviazione e la maniera in cui viaggiamo. La coalizione Stay Grounded chiede una moratoria sulla costruzione o ampliamento di nuovi aeroporti, sulle aerotropoli e sulle relative zone economiche speciali che beneficiano di riduzioni fiscali e di regolamentazioni sindacali e ambientali deboli. Chiedono inoltre la fine dei sussidi e delle agevolazioni fiscali a favore delle compagnie aeree. Per non parlare dei piani di salvataggio e cancellazione dei debiti di molte imprese.

Oltre alla politica fiscale e alla spesa pubblica a favore dell’industria dell’aviazione, Stay Grounded segnala anche la problematicità della strategia di mitigazione climatica. Quest’ultima prevede, infatti, che per compensare le emissioni di CO2 le imprese aeree possono comprare crediti di carbone derivanti da programmi di riforestazione o di energia rinnovabile. Un meccanismo interessante che si traduce in iniziative nefaste, come l’implementazione di monocolture di alberi che non garantiscono la biodiversità e che escludono le popolazioni locali dall’accesso ai relativi territori, o la costruzione di dighe idroelettriche che provocano perdita di foreste primarie, sconvolgimenti idrogeologici e sfollamenti coatti.

Queste iniziative non riducono gli impatti sociali e ambientali, ma li rimuovono dalla vista dei loro clienti e li spostano in territori e comunità marginalizzati.

Stay Grounded infine raccomanda cautela nell’affidarsi all’innovazione e alle «soluzioni» tecnologiche, come le ipotesi di sostituire il cherosene con biocombustibili o di costruire aerei elettrici. Mentre, infatti, i biocombustibili si sono già dimostrati inefficienti a livello energetico e problematici a livello ambientale, la conversione di un settore come l’aviazione attuale a tecnologie elettriche sembra del tutto irrealizzabile per l’elevatissima quantità di materiali, metalli ed energia che richiederebbe.

Luton Airport protest Luton (UK) 6/11/2021 Credits: @stevemerchantphotography (stevemerchantphotography.co.uk)

Viaggiare diversamente

C’è bisogno, dunque, di un profondo ripensamento del nostro modo di viaggiare.

Tra le azioni da intraprendere quanto prima rientra la riattivazione delle reti ferroviarie locali e a lunga distanza. Allo stesso tempo, i voli a corta distanza dovrebbero essere limitati, seguendo l’esempio di iniziative come quella di Barcellona che sta cercando di eliminare i voli peninsulari di meno di mille chilometri sostituibili con i treni.

La manifestazione di settembre contro l’ampliamento dell’aeroporto di Barcelona-El Prat, il suo clima festoso e propositivo, con la partecipazione di un ampio spettro di gruppi sociali diversi, dimostra che la volontà di pensare in modo diverso il turismo e la mobilità non manca.

Ciò che ora non deve mancare è la volontà politica di ascoltare e immaginare soluzioni all’altezza dei nuovi contesti sociali, ambientali ed economici che si stanno velocemente formando davanti ai nostri occhi.

Daniela Del Bene

Note:

1- neologismo che unisce i termini «aeroporto» e «metropoli»: indica un’area metropolitana le cui infrastrutture, uso del suolo ed economia sono centrate su un aeroporto.


Atlante della Giustizia Ambientale

Questo articolo fa parte di una collaborazione fra Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental justice atlas) nell’ambito della quale portiamo a conoscenza dei nostri lettori storie e analisi riguardanti alcuni dei conflitti ambientali presenti nell’Atlante.

Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.

Red Line Bike demonstration A bike demonstration in Vienna 2017. Photo by Christian Bock




Carcere e Covid-19. Aggravante pandemia


Sono passati due anni dal sorgere della pandemia e dalle rivolte nelle carceri, seguite da una violenta limitazione dei diritti delle persone detenute. I fatti di Santa Maria Capua Vetere ne sono un brutale indicatore. Anche il Covid-19 ci dice che è tempo di ripensare la pena e le sue forme.

La pandemia ha raggiunto l’Italia come un treno in corsa. Il 21 febbraio 2020 è scoppiata la notizia di un focolaio nel nostro paese, il primo in Europa. In pochi giorni le autorità hanno dovuto prendere misure mai sperimentate prima nel mondo occidentale. Le carceri ne sono state investite.

L’8 marzo un decreto del presidente del Consiglio ha stabilito che i detenuti non potessero più avere colloqui con i loro parenti. Una misura a termine. Ma il termine non poteva essere fissato in anticipo. E non solo dei parenti si trattava, ma dell’ingresso negli istituti di tutti coloro che ne riempiono la vita interna: insegnanti, volontari, chi tiene laboratori, attività sportive e molto altro. All’improvviso, un isolamento immobile e totale dal mondo.

Chi ha spiegato e chi no

In alcune carceri queste misure sono state spiegate alle persone detenute. Il direttore o altri operatori sono andati nei reparti detentivi, hanno organizzato momenti di confronto, assemblee, hanno raccontato i rischi del virus e le misure che era necessario prendere per provare a contenerlo, hanno spiegato il carattere temporaneo delle restrizioni, hanno ragionato insieme su possibili strade da percorrere.

In questi istituti, le misure sono state accettate con spirito di collaborazione e maturità.

Altrove è accaduto che il decreto sia piovuto addosso alla vita del carcere come un macigno, senza che i diretti interessati potessero comprendere quanto stava accadendo.

Prigione di Secondigliano, Napoli. Proteste dei parenti fuori delal prigione (Photo by Carlo Hermann / AFP)

«Hanno pure la TV»

«Hanno pure la televisione», si sente dire spesso a proposito dei detenuti. «Hanno solo la Tv», sarebbe più corretto affermare. In carcere, infatti, il principale strumento d’informazione è proprio quello. I giornali entrano poco, internet per niente. E tutti ricordiamo cosa diceva la Tv in quei primi giorni di emergenza sanitaria: della nuova malattia non si sapeva nulla, qualcuno sosteneva che fosse come un’influenza e qualcun altro che fosse pericolosissima, tutti concordavano sul distanziamento, la mascherina, lavarsi spesso le mani. Ma in carcere la distanza è una chimera, le mascherine non c’erano, e il sapone scarseggia.

Chi era dentro non riusciva ad avere notizie sui propri cari fuori dal carcere. Chi era fuori immaginava scenari apocalittici che potevano verificarsi dentro.

Scoppiano Le rivolte

È in questo contesto che, tra l’8 e il 9 marzo 2020, sono scoppiate rivolte in ben 49 istituti di pena italiani. Sono morti 13 detenuti. Da subito è stato detto che le persone carcerate avevano assaltato l’infermeria e che avevano ingerito metadone.

Ci auguriamo che le inchieste della magistratura possano fare il proprio corso e far piena luce su quanto accaduto.

Nei giorni successivi, Antigone (associazione per la tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario) ha ricevuto dalle carceri varie segnalazioni di ritorsioni violente che sarebbero avvenute sui detenuti dopo la fine delle rivolte.

I nostri avvocati hanno presentato quattro esposti per tortura relativi a quattro carceri diverse. Non sono coinvolti nelle denunce solo poliziotti penitenziari, ma anche alcuni medici che avrebbero prodotto referti falsi.

Anche su questi procedimenti ci auguriamo di avere presto una pronuncia ufficiale.

Santa Maria Capua Vetere

A circa un mese di distanza, il 6 aprile, una protesta è scoppiata nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere: i detenuti battevano le barre dei cancelli. Si era, infatti, diffusa la notizia che un detenuto avesse il Covid ed era scoppiato il panico.

Nei giorni successivi Antigone ha ricevuto segnalazioni che parlavano di un pestaggio di massa che sarebbe avvenuto nelle ore successive la fine della protesta.

Anche in questo caso, dopo aver verificato che i vari racconti erano credibili e tra loro coerenti, gli avvocati di Antigone hanno presentato un esposto in procura dandone contestualmente notizia ai vertici del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), dai quali non hanno ricevuto risposta.

Stato di diritto sospeso

Si è dovuto attendere settembre 2020 perché le indagini partissero con decisione, quando il quotidiano Domani ha pubblicato un’inchiesta su quegli eventi, annunciando anche la presenza di un video. Nei mesi successivi il video è stato reso pubblico, e tutta Europa ha assistito a una grande sospensione dello stato di diritto che ha riguardato centinaia di persone.

Nel settembre del 2021 è stato depositato l’atto di chiusura delle indagini: è lungo 176 pagine, conta 177 vittime tra le persone detenute e 120 indagati tra poliziotti e funzionari. I capi di accusa sono 85. L’associazione Antigone è citata tra le persone offese, cosa che accade quando i fatti sono tanto gravi da riguardare la società intera.

Ma senza quel video probabilmente nulla di tutto questo sarebbe accaduto. Le videocamere nelle carceri spesso non ci sono e, quando ci sono, sovente sono rotte. Quando ci sono e non sono rotte, mantengono la registrazione per poche ore. Forse altre violenze avvenute nelle carceri sarebbero potute emergere se l’istituzione avesse impartito le adeguate direttive.

2012 Carcere Sollicciano (Fi), immagine realizzata da Next New Media e Antigone

Carcere extrema ratio

Uno degli effetti dell’arrivo della pandemia sulle carceri è stato quello di farne diminuire la popolazione, come è avvenuto in molti altri paesi del mondo.

In Italia, fin dal febbraio 2020, Antigone, insieme ad altre organizzazioni e con il consenso di tutti coloro che sono esperti in questioni penitenziarie, ha sottolineato la necessità di creare spazio all’interno degli edifici carcerari. Per il distanziamento sociale, i reparti per le quarantene, i reparti Covid, c’era bisogno di locali ben diversi da quelli sovraffollati e igienicamente a rischio cui siamo abituati.

Con altri soggetti, Antigone ha presentato un elenco di proposte per far uscire dal carcere le persone detenute che presentavano una scarsa pericolosità sociale o problemi di salute.

Il decreto cosiddetto Cura Italia del 17 marzo 2020, seppur con un’eccessiva timidezza, si è mosso in quella direzione.

Se all’inizio di marzo nelle carceri italiane c’erano più di 61mila detenuti (per una capienza ufficiale di 51mila posti, che scendeva a 47mila considerando le sezioni chiuse per ristrutturazione), due mesi e mezzo dopo, ce n’erano 8.500 in meno.

Questo accadeva grazie a quattro ragioni: la diminuzione dei reati dovuta al fatto che l’intera popolazione italiana era in lockdown, le norme introdotte dal decreto che consentivano un maggiore accesso alla detenzione domiciliare, un utilizzo più ponderato da parte della magistratura della custodia cautelare in carcere e un’applicazione più rapida e ampia delle norme ordinarie sulle alternative al carcere da parte della magistratura di sorveglianza. Tutte misure che hanno dimostrato come la risposta carceraria, che dovrebbe rappresentare una extrema ratio, sia utilizzata di solito ben al di là di quanto sarebbe necessario.

Allentata la tensione dovuta all’ondata di Covid, i numeri hanno lentamente ripreso a salire. Se nel maggio 2020 c’erano meno di 53.400 persone detenute nelle carceri italiane, al 30 novembre erano già oltre 54.350. Un anno dopo, quasi 54.600.

Uno degli insegnamenti che si potevano apprendere dall’esperienza della pandemia per le carceri italiane è rimasto purtroppo per molti versi inascoltato.

Immagine del Carcere di Secondigliano (Na) di Katia Ancona per Next New Media e Antigone

L’occasione tecnologia

Speriamo invece che un altro insegnamento possa avere effetti duraturi: quello sull’uso delle nuove tecnologie negli istituti di pena. Esse non solo non sono pericolose per la sicurezza, ma hanno enormi potenzialità.

In molti paesi del mondo la pandemia ha costituito l’occasione per l’ingresso di molte innovazioni tecnologiche in carcere.

Le carceri italiane sono, da questo punto di vista, ferme a molti decenni fa. Il mondo è cambiato, ma il sistema penitenziario è stato incapace di andargli dietro.

Con la chiusura dei colloqui dovuta al Covid, e sotto la pressione di Antigone che, insieme ad altri soggetti, ha portato avanti una forte azione di advocacy, alla fine del marzo 2020 il ministero ha annunciato l’acquisto di 1.600 smartphone da distribuire nelle carceri al fine di far effettuare videochiamate tra detenuti e famigliari.

Chi non conosce il mondo carcerario da vicino non può comprendere pienamente di quale grande rivoluzione si sia trattato.

Al termine della prima ondata di Covid, l’utilizzo delle videochiamate come strumento di comunicazione non è venuto meno. Anzi, si è esteso ad altri ambiti, come, ad esempio – seppur con grandi differenze da un carcere all’altro -, la didattica a distanza.

Ci auguriamo che sempre più si possa utilizzare l’accesso al web e le nuove tecnologie per tutte le attività – quali ad esempio l’informazione – che potrebbero avvicinare la vita in carcere a quella del mondo esterno.

Vita dentro e vita fuori

Tra i massimi insegnamenti del Consiglio d’Europa ce n’è uno che invita a fare diventare la vita interna alle carceri il più possibile simile a quella nel mondo libero. Questo per avvicinare le persone detenute al contesto nel quale torneranno una volta terminato il tempo di detenzione.

Che senso può avere, infatti, recidere i contatti e gli stili di vita che la persona aveva fuori dal carcere? Quando li dovrà riannodare al termine della pena, sarà tutto più tortuoso e faticoso.

La reintegrazione sociale, che dovrebbe essere il fine costituzionale della pena, non sarebbe raggiunta con maggiore facilità e pienezza se la vita carceraria fosse improntata a questi criteri?

Eppure, in molti ambiti della vita penitenziaria si può osservare un grande scollamento dalla vita ordinaria. Il carcere non riesce a proporre alle persone detenute quelle opportunità che possono indirizzare la loro vita verso un duraturo percorso non deviante. Se guardiamo, ad esempio, all’ambito lavorativo, notiamo che al 31 dicembre 2020 i detenuti impegnati in qualche mestiere erano solo 17.937, ovvero il 33,6% del totale. Di questi, la stragrande maggioranza (15.746 persone) lavorava alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, spesso (14.023 persone) per la manutenzione, la pulizia e altre piccole necessità relative alla vita d’istituto.

Si tratta di lavori poco qualificati, che difficilmente riescono a porre le basi per la futura vita esterna della persona. Inoltre, sono spesso lavori di poche ore settimanali, con salari del tutto inadeguati a qualsiasi percorso di emancipazione.

Se guardiamo ai corsi di formazione professionale, nel secondo semestre del 2020, solo 1.279 detenuti – di cui 507 stranieri – in tutta Italia hanno avuto la possibilità di iscrivervisi. I corsi attivati in maggior numero hanno riguardato la cucina e la ristorazione (35), seguiti dai corsi di giardinaggio e agricoltura (18).

Il grosso delle attività di sostegno o delle attività culturali, ricreative e sportive è affidato al volontariato e non all’istituzione. Al 31 dicembre 2020 erano quasi 10mila i volontari autorizzati a fare ingresso negli istituti di pena italiani. Di questi, oltre 4mila si occupavano del supporto alla persona o alle famiglie, con colloqui di sostegno, consegna di pacchi ai meno abbienti, contatti con i parenti. Circa 1.500 erano impegnati in attività religiose. Se infatti il cappellano cattolico è una figura istituzionale in ogni carcere, previsto nell’organico e stipendiato dal ministero della Giustizia, i ministri di culto delle altre religioni sono più o meno equiparati agli altri volontari.

Carcere Marassi Genova

Riformare il sistema

La pandemia, con tutto quello che ha comportato, ha spinto le istituzioni di molti paesi del mondo a una riflessione sul modello di detenzione e sul suo rinnovamento. Anche in Italia si è aperto un percorso riformatore che vede, da un lato, la delega del parlamento al governo per riformare il processo penale e, dall’altro, i lavori della Commissione ministeriale guidata dal professor Marco Ruotolo per ripensare la vita carceraria interna.

Sul fronte processuale, le modifiche normative che il governo è chiamato a fare avranno una ricaduta anche sulle carceri. La delega parlamentare prevede, infatti, che si introduca una serie di sanzioni sostitutive alla pena detentiva, che il giudice di merito potrà comminare in sentenza al posto della pena carceraria fino a quattro anni. È sicuramente un primo passo verso il disconoscimento di quella centralità assoluta del carcere che ha dominato il sistema penale italiano fin dalla nascita della Repubblica.

Se i padri costituenti hanno scritto, all’articolo 27 della Costituzione, che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, declinando al plurale il sostantivo «pena», significa che avevano in mente una pluralità di possibilità sanzionatorie. Sicuramente il carcere, se guardiamo agli altissimi livelli di recidiva, non si è rivelato la più efficace.

Sul fronte amministrativo, la Commissione potrà suggerire una serie di direttive cui improntare la vita interna alle carceri che saranno capaci di renderla, da un lato, più rispettosa della dignità e dei diritti delle persone detenute e, dall’altro, più responsabilizzante nei confronti di queste ultime e utile in vista del loro futuro rientro in società.

Sicuramente tutto ciò che riguarda l’utilizzo delle nuove tecnologie avrà un’importanza fondamentale. Non è pensabile tendere alla reintegrazione sociale delle persone lasciandole nell’analfabetismo informatico.

Le tecnologie potranno aiutare anche nel tentativo di non sradicare la persona detenuta dal suo contesto lavorativo, contemplando la possibilità di smart working come accade ormai in gran parte del mondo esterno.

Inoltre, i contatti tra i detenuti e le persone care, che sono la cosa più importante per chi vive in carcere, potranno essere potenziati senza che vi sia alcuna motivazione contraria sensata.

Immagine del Carcere di Secondigliano (Na) di Katia Ancona per Next New Media e Antigone

Una battaglia decisiva

Spesso nella storia le emergenze di vario tipo hanno costituito le cause iniziali per una compressione dei diritti che poi ha visto nel tempo successivo una stabilizzazione ingiustificata. Questo è un rischio concreto che si è corso nel sistema penitenziario con l’emergenza Covid-19. Un rischio che si è corso e che non è ancora del tutto scongiurato, se non per una esplicita volontà di mantenerlo, almeno per un’inerzia del sistema.

Come ogni emergenza che comporta dei rischi, la pandemia però può anche essere colta come un’occasione di allargamento dei diritti e di avanzamento del modello detentivo.

Se sapremo farlo, avremo vinto una battaglia decisiva.

Claudio Paterniti Martello
(membro dell’Osservatorio  Nazionale carceri di Antigone)

2012 Carcere Sollicciano (Fi), di Next New Media e Antigone




In Polonia per Ucraina con la Consolata /2

Carissimi
con questo terzo scritto provo ad aggiornarvi su quanto sta accadendo attorno a noi in questi ultimi giorni. Permettetemi come sempre di ringraziare anzitutto quanti da ogni parte d’Italia e non solo, in diverse forme e modi, continuano a sostenere i progetti che abbiamo intrapreso come missionari della Consolata presenti in Polonia.

Arrivo degli aiuti della parrocchia di sant’Anna di Milano.

Nella nostra comunità di Kiełpin proprio oggi salutiamo Pietro e la figlia Anastasia che scappando dall’Ucraina, dopo aver vissuto in casa nostra per una decina di giorni, voleranno in America dove ad attenderli ci sono dei familiari.

La scorsa notte hanno dormito in casa nostra anche una mamma Anastasia con i due figli Ivan e Yeva. Siamo riusciti ieri a far loro avere un visto dall’Ambasciata italiana, che ringraziamo sinceramente, e dopo un breve riposo nel cuore di questa notte hanno preso un volo per Milano. Sono già arrivati accolti da alcuni loro familiari.

La nostra comunità sarà presto di nuova pronta per accogliere ancora qualcuno nei prossimi giorni.

Sempre ieri dall’Italia è arrivato il primo trasporto di aiuti, organizzato dalla famiglia Pozzi e amici, provenienti dalla Parrocchia di S. Anna (Milano) e da un gruppo di simpatici tifosi interisti a cui piace farsi chiamare ironicamente “internati”, persone sensibili a organizzare raccolte di materiale per portare consolazione ai colpiti della guerra. A nome dei volontari che hanno accolto i loro preziosi aiuti un grande grazie. Già la prossima notte aspettiamo tre automezzi in viaggio in queste ore, partiti da Sovere (Bergamo). Altri trasporti si stanno organizzando ancora i prossimi giorni. Ricordiamo che i beneficiari di queste raccolte sono soprattutto donne e bambini. Ieri presso il punto di distribuzione della Parrocchia oltre 400 persone hanno beneficiato di questi aiuti. Attualmente sul territorio delle nostre parrocchie sono ospitate 1500 persone, tutte presso le famiglie. Questa situazione prevediamo che durerà a lungo.

 

Accoglienza

Mi sento di dire qualcosa sul tema dell’accoglienza in senso generale che sta avvenendo nel nostro paese. I numeri sono vertiginosi. Pochi giorni fa il governo parlava già ufficialmente di 1.500.000 profughi accolti. Questa cifra ad oggi va sicuramente aggiornata in forte crescita. È risaputo che per vari motivi la Polonia si presenta come il paese che offre migliori possibilità per i profughi. Come spesso ripetiamo e i media ben dimostrano, la maggior parte di essi sono mamme con bambini ucraini. Alcune voci, sostenute anche da articoli pubblicati qua e là, creano qualche dubbio su questa reale apertura del governo polacco nei confronti di coloro che provengono sì dall’Ucraina ma che non sono ucraini. Si tratta di persone presenti in Ucraina per motivi di studi o di lavoro prevenienti dall’Africa o dall’Asia che, trovatisi in mezzo al conflitto, cercano anche loro di fuggire dal paese. Pochi giorni fa mi trovavo sulla banchina dei treni della stazione centrale di Varsavia, punto di arrivo di moltissimi profughi perché, tra l’altro, nella capitale ci sono le ambasciate di tutti i paesi. I treni provenienti dal confine sono tutti pieni di passeggeri che viaggiano gratuitamente. Ho visto personalmente scendere dal treno migliaia di profughi e tra questi, centinaia di loro avevano i tratti somatici di persone non ucraine, per intenderci africani e asiatici. Non solo. La nostra comunità ha accolto una giovanissima coppia di studenti nigeriani che scappava di Kiev, con il loro neonato di 4 mesi. Attualmente vivono dai nostri vicini. Così come un nucleo familiare di origine gambiana.

Detto questo, mi sento di poter affermare come testimone (con tutti i limiti che la mia testimonianza può avere) che non posso escludere a priori singoli casi di problemi nell’accoglienza nel contesto delle cifre che ricordavo prima, ma non c’è stata una discriminazione organizzata. Piuttosto vorrei fa rilevare come si sia messa in moto spontaneamente una gigantesca organizzazione di accoglienza che coinvolge un intero paese. Qualcuno faceva giustamente notare come sia pochissimi i grandi hub ufficiali sotto i quali i profughi trovano riparo e protezione, quanto piuttosto il maggior numero di essi sia accolto presso le famiglie, in un clima molto meno anonimo e molto più umano.

Nella comunità di Kiełpin

Il dramma delle famiglie miste russo-ucraine

Vorrei anche condividere un aspetto che i media mi sembra che non sottolineano abbastanza. Il tessuto sociale delle famiglie presenti in Ucraina, al di là del fatto che scappino o restino, non è come sembra a vista d’occhio divisibile: da una parte le famiglie ucraine attaccate dalle forze russe, così come il conflitto sembra mostrare. La realtà vista più da vicino mostra che i nuclei familiari spesso sono costruiti con dei mix. Ad es. mamma ucraina e marito di origine russa o bielorussa. Oppure il contrario. Lo stesso fenomeno si può leggere al contrario. Anche tra i soldati dell’esercito russo non è raro trovare uomini che hanno origini familiari ucraine. Questa informazione mi sembra importante da tenere in conto anche se rende ancora più tragica e senza senso questa guerra.

In conclusione, vi saluto tutti a nome anche dei confratelli e dei tanti volontari che ogni giorno cercano di portare un po’ di sollievo. Preghiamo per la pace, costruiamo la pace

padre Luca Bovio
Superiore dei missionari della Consolata in Polonia
Kiełpin 11.03.2022

Per l’Ucraina con i Missionari della Consolata in Polonia (prima parte)

Per aiutare:
fare versamento tramite Fondazione missioni Consolata Onlus,

specificando “Aiuto profughi Ucraina”


Per chi desidera contattare padre Luca per inviare cibo e medicine, scrivete a konsolatapl@gmail.com


 




Badanti: Sempre più essenziali

Sono quasi un milione le collaboratrici e i collaboratori domestici con contratto regolare, e altrettanti in nero. Dietro a questi numeri troviamo volti, storie, famiglie divise. Il settore è in continua espansione, nonostante la frenata dovuta alla pandemia.

Sono le 8 del mattino di uno dei primi giorni dell’anno e Mercedes Areola, 63 anni, di origine filippina, cammina veloce per andare al lavoro in una zona residenziale di Torino. Alla stessa ora, ma dall’altra parte della città, Corina Bautista, 50 anni, di origine peruviana, è già entrata in servizio e sta aiutando il suo datore di lavoro di 93 anni ad alzarsi, lavarsi e iniziare la giornata. A 30 km di distanza, la stessa cosa sta facendo Violeta Dobrea, 39 anni, di origine moldava, che ogni mattina e ogni sera di tutti i giorni dell’anno presta la sua opera in una casa di provincia, dove prepara colazione, pranzo e cena, mette i bigodini alla sua titolare, sostiene il marito mentre si infila la camicia e, più in generale, aiuta la coppia a vivere una quotidianità che a un certo punto della vita diventa straordinariamente complicata.

Mercedes, Corina e Violeta non si conoscono, probabilmente non si conosceranno mai, ma in comune hanno tanto. Sono donne, sono di origine straniera e sono essenziali.  Da anni in Italia, garantiscono il buon funzionamento delle case e delle famiglie per cui lavorano.

Mercedes (Mercy), 63 anni, da quasi quaranta in Italia. Lavorando ha fatto studiare i tre figli nelle Filippine. Oggi ha cinque nipoti. Foto Simona Carnino

Lavoro domestico

Mercedes, colf da oltre 33 anni, Corina e Violeta, assistenti familiari, sono tre delle 920.722 lavoratrici e lavoratori domestici con regolare contratto di lavoro, secondo gli ultimi dati Inps aggiornati al 2020. A loro si aggiunge un sommerso di oltre un milione di collaboratori e collaboratrici in nero, che equivale al 57% dei circa 2 milioni di lavoratori domestici presenti in Italia, secondo quanto riportato dall’Osservatorio nazionale Domina sul lavoro domestico. Parlare del comparto domestico significa parlare prevalentemente al femminile, perché, sempre secondo l’Inps, l’87,6% dei lavoratori regolari che si occupano della cura della casa e delle persone anziane è donna. Il 68,8% è rappresentato da forza lavoro immigrata, nonostante un aumento di circa il 12,8% di lavoratori italiani, secondo il Dossier statistico immigrazione 2021 (di seguito utilizzeremo sempre il femminile, perché l’inchiesta si è occupata in specifico di donne, ndr).

La maggior parte delle lavoratrici domestiche impiegate in Italia proviene da Romania, Ucraina, Filippine e Moldavia. Il 73,4% delle badanti regolarmente contrattate è dell’Est Europa, così come il 47% delle colf. Ma nel settore delle collaboratrici domestiche è alta anche la componente di donne di origine filippina e dell’America Latina.

Dietro ai numeri ci sono i volti di donne forti, spesso straniere, con alle spalle la necessità di aiutare la famiglia e nell’anima quell’energia di chi vuole essere indipendente.

Nata e cresciuta a Ballesteros Cagayán nelle Filippine, Mercedes Areola si è ritrovata sposata a 16 anni e con 3 figli a 23 anni. Nel 1983 è partita lasciando i figli alla madre, per seguire il marito a Messina, dove vivevano i suoceri. Abbandonata dal coniuge nel giro di pochi mesi dall’arrivo, ha trovato impiego come assistente familiare convivente di una donna anziana. «Mi sentivo malissimo. Ero in un paese di cui non parlavo la lingua, sola e affaticata – racconta Mercedes -. Dopo circa un anno il lavoro si è concluso, allora ho preso un treno e sono arrivata a Firenze, dove la comunità filippina mi ha aiutata a trovare un lavoro come colf. Mandavo tutto quello che guadagnavo a mia madre, nelle Filippine, che si stava occupando dei miei tre figli. Ogni volta che spedivo i soldi mi mettevo a piangere. Sapevo che stavo facendo il meglio per i bambini, ma ero triste perché mi mancavano».

Famiglie spaccate

Spesso le lavoratrici domestiche extracomunitarie migrano da sole verso l’Italia e successivamente, in caso riescano a ottenere un permesso di soggiorno, procedono con la richiesta di ricongiungimento familiare che permette ai figli di raggiungerle.

Così è successo a Violeta Dobrea arrivata in Italia nel 2009 da Teșcureni in Moldavia, dopo un viaggio da sola, di quelli che si riescono a raccontare solo quando sono finiti. In Moldavia Violeta lavorava come muratrice in estate e come venditrice al mercato in inverno. Divorziata nel 2006 e con due figli ancora piccoli da crescere, ha pensato di seguire le orme di tante sue connazionali e cercare un lavoro più redditizio in Italia, dove vivevano alcuni conoscenti. Duemila euro e due tentativi dopo è arrivata a Exilles, un piccolo paese dell’alta Val Susa, in provincia di Torino.

«Avevo il passaporto moldavo ma non riuscivo a ottenere un visto per nessun paese europeo, allora ho pagato una persona per portarmi in Italia. Sono partita insieme ad altre donne, ma durante il primo tentativo siamo state respinte sul confine con l’Ungheria – ricorda Violeta -. Abbiamo pagato altri 400 euro per un secondo tentativo. Dopo tre giorni di viaggio in macchina sono arrivata a Exilles. Ho avuto paura per tutto il tragitto. Non avevo controllo sul viaggio e temevo che la polizia di frontiera di uno dei paesi attraversati ci rimandasse in Moldavia».

Sorte migliore è toccata a Corina Bautista, originaria di Trujillo, una città costiera del Nord del Perù. Partita nel 1996, è riuscita a raggiungere Torino con un visto turistico e in sicurezza su un volo transoceanico. «Volevo fare l’infermiera, ma eravamo cinque figli e in casa mia non c’era la possibilità economica per farmi studiare – ricorda Corina -. Arrivata in Italia ho provato a lavorare come assistente familiare e studiare allo stesso tempo, ma non ci sono riuscita. All’inizio vivevo in casa con la persona anziana per cui lavoravo e mandavo le rimesse a mio padre, per restituire il prestito per il viaggio. Nel 1998, grazie a una sanatoria e a un contratto di lavoro regolare, sono riuscita a ottenere il permesso di soggiorno, e nel 2014 sono diventata cittadina italiana. Intanto ho conosciuto un mio concittadino qui, ci siamo sposati e abbiamo avuto due figli».

Corina, peruviana, mostra una vecchia foto della sua famiglia.
Foto Simona Carnino

Tra contratti regolari e lavoro nero

Un contratto regolare e una sanatoria sono stati fondamentali anche per Mercedes e Violeta, che, proprio grazie alla formalizzazione del lavoro, hanno potuto ottenere un permesso di soggiorno.

Senza un contratto regolare, è facile essere vittima di episodi di sfruttamento, più frequenti tra le persone straniere senza carte in regola.

«Quando vivevo a Firenze sono stata fermata dalla polizia e portata in questura, perché non avevo il permesso di soggiorno – ricorda Mercedes -. Mi sono disperata e ho pregato di non essere espulsa. Alla fine, mi hanno lasciata andare, ma senza documenti mi sentivo sempre in ansia. Poi nel 1988 sono arrivata a Torino come colf “fissa” di una coppia benestante che faceva eventi in casa. Lavoravo dalle 7 del mattino a tarda notte per cucinare e pulire. Io mangiavo gli avanzi. Dopo sei mesi, ero distrutta e sono andata dai sindacati, che mi hanno messa in contatto con una architetta in cerca di una collaboratrice domestica. È stata una salvezza. Ho lavorato con lei per più di 30 anni e grazie al suo contratto e a una sanatoria, sono riuscita ad avere il permesso di soggiorno».

Nel 2020, i contratti di lavoro domestico regolare sono aumentati del 7,5% e la tendenza è in crescita. Tuttavia, sono ancora tanti a lavorare in nero, nonostante l’ultima sanatoria del 2020 determinata dal decreto rilancio che offriva ai datori di lavoro del settore agricolo e domestico la possibilità di regolarizzare la posizione contrattuale di lavoratori italiani, comunitari o extracomunitari. In quest’ultimo caso, la sanatoria permette ai lavoratori provenienti da fuori Europa di ottenere un permesso di soggiorno per motivi lavorativi.

«Il punto è che molti datori di lavoro non hanno partecipato alla sanatoria per timore di ricevere una multa o essere esposti a indagine sul lavoro nero – spiega Lorenzo Gasparrini, segretario nazionale dell’Osservatorio Domina, Associazione nazionale famiglie datori di lavoro domestico -. Invece questa era l’occasione giusta per sanare i rapporti di lavoro non regolato e per consentire alle lavoratrici domestiche extracomunitarie di ottenere un permesso di soggiorno».

Il comparto domestico è storicamente un settore che vive di «lavoro nero» e malpagato, a causa di una mentalità che considera l’attività di colf e badanti poco più di un lavoretto, ma anche per il costo del lavoro che, sebbene non alto, secondo l’Inps si aggira intorno a 16mila euro all’anno per una badante senza specializzazione. Una spesa ingente per un anziano con una pensione di base. «Per rendere sostenibile l’assunzione e garantire una maggiore regolamentazione del lavoro, è necessario che lo stato italiano promuova una politica di defiscalizzazione che permetta al datore di lavoro di dedurre il 100% dei contributi e almeno tra il 15 e il 30% della retribuzione di colf e badanti», conclude Lorenzo Gasparrini.

Settore in crescita

Secondo le proiezioni demografiche, la popolazione italiana over 75 anni passerà dall’11% del totale nel 2016 al 23% entro il 2050. L’aumento degli anziani porterà a una probabile crescita della domanda di lavoratori domestici e, in particolare, di assistenti familiari.

La novità è che anche questo comparto sta invecchiando e molte persone sono in procinto di andare in pensione. Secondo il Dossier statistico immigrazione 2021, negli ultimi dieci anni è drasticamente calata la presenza di colf, badanti e babysitter under 30 e la fotografia attuale riflette l’immagine di un comparto domestico in buona parte over 50, che non si rinnova.

Questo accade per l’assenza di interesse in questa professione da parte dei giovani, e per le frontiere sempre più inespugnabili che impediscono alle persone straniere di raggiungere in maniera regolare l’Italia.

«Con il graduale invecchiamento della forza lavoro – dichiara il presidente di Assindatcolf, Andrea Zini -, il mancato ricambio generazionale e la chiusura dei canali di ingresso regolari per i cittadini extracomunitari a cui ormai assistiamo da anni e che la pandemia ha particolarmente rafforzato, rischiamo in futuro di non avere personale a sufficienza che assista i nostri anziani e i bambini e che si prenda cura delle nostre case».

Ritratto di Mercedes, che si dice grata all’Italia. Grazie alla fede e al lavoro duro, oggi è soddisfatta della sua vita. Foto Simona Carnino

Investimento generazionale

«La prima volta che ho rivisto i miei bambini era il 1989 e il più piccolo non mi ha riconosciuta. Da allora sono tornata nelle Filippine ogni tre anni. Ho mandato i soldi a casa fino a quando i miei tre figli non si sono laureati – racconta Mercedes -. Oggi la più grande fa la dentista e ha uno studio privato, gli altri due sono ingegneri e io sono nonna di 5 nipoti».

I fatti dimostrano che i sacrifici sono valsi a permettere alla generazione successiva di raggiungere un livello educativo e lavorativo superiore a quello dei genitori.

Così pensa anche Violeta che, dopo qualche anno di lavoro in Italia e il permesso di soggiorno in regola, ha attivato la procedura di ricongiungimento dei suoi due figli, dal 2014 in Italia con lei. «Non ho visto mia madre per anni – racconta Michaela, la figlia ventiduenne di Violeta -. Era duro vivere così, ma so che lo ha fatto per noi. Le scuole pubbliche in Moldavia non sono di qualità e le private troppo care. Appena arrivata in Italia ho sofferto di bullismo a scuola, poi le cose sono cambiate e mi sono diplomata all’istituto alberghiero e ora lavoro qui».

Anche per Corina l’Italia rappresenta un luogo familiare ormai, anche se non abbandona l’idea di tornare in Perù dopo la pensione. «Mi mancano parecchi anni di lavoro, ma intanto io e mio marito siamo riusciti a costruirci una casa a Trujillo dove vivono i miei genitori».

Il settore del lavoro domestico incide in maniera decisiva tanto sul Pil del paese di accoglienza che su quello del paese di origine. Secondo l’Osservatorio Domina, il valore aggiunto prodotto dal lavoro domestico nel 2020 è di circa 16 miliardi di euro, equivalente all’1,1% del Pil italiano.

Allo stesso tempo, la maggior parte di colf e assistenti familiari coopera in maniera concreta al miglioramento economico dei propri paesi di provenienza, con l’invio di rimesse ai familiari, spesso utilizzate per aprire piccole attività imprenditoriali o per investire nell’istruzione specializzata dei figli che, con un livello scolastico superiore, hanno l’opportunità di svolgere professioni più redditizie.

L’impatto del Covid

Vaccinate e con un contratto di lavoro regolare che ne permetteva gli spostamenti, Mercedes, Violeta e Corina hanno lavorato anche durante la pandemia.

Tuttavia, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale del lavoro delle Nazioni Unite, durante la fase più delicata della crisi, la perdita di lavoro tra i lavoratori domestici si è attestata tra il 5 e il 20% nella maggior parte dei paesi europei. La paura del contagio ha portato alcune famiglie a chiudere le collaborazioni con un effetto negativo soprattutto sui lavoratori senza contratto e regolare permesso di soggiorno che, a causa dell’invisibilità del loro status, non hanno potuto richiedere l’indennità Covid che sarebbe spettata anche a loro.

Solitudine e paura hanno avuto un forte impatto su badanti conviventi che, in particolare nella prima fase di lockdown, hanno dovuto prendersi carico al 100% degli anziani. «Le badanti hanno svolto un ruolo fondamentale durante la pandemia perché sono state in grado di accudire e rassicurare gli anziani che, senza di loro, sarebbero stati completamente soli – spiega Lorenzo Gasparrini -. In questa occasione, le famiglie hanno preso coscienza del valore sociale ed essenziale delle assistenti familiari».

Oltre al Covid, sono tante le difficoltà a cui sono esposte le donne che svolgono questa professione. Non sono rari gli episodi di violenza sulle donne che, come in tutto il mondo, si verificano principalmente tra le mura domestiche. Ma è la sofferenza dovuta all’isolamento fisico e comunicativo quella che, prima o dopo, sperimentano quasi tutte le lavoratrici domestiche straniere, in particolar modo le badanti.

«Tra i problemi con la lingua, la solitudine e la quantità di ore lavorate, all’inizio ero depressa – racconta Violeta -. Poi il signore per cui lavoravo mi ha insegnato l’italiano, studiavamo insieme. Ancora conservo il diario su cui scrivevo un po’ in italiano e un po’ in moldavo».

Tante lavoratrici domestiche straniere, come la maggior parte delle persone immigrate, mantengono rapporti stretti con i paesi di origine, a cui rivolgono un pensiero costante.

Ci pensa Corina, che manda le rimesse ai suoi genitori in Perù perché abbiano tutto quello che serve per affrontare la delicata fase della terza età, che lei conosce così bene. Mentre guarda la foto di se stessa a pochi mesi di vita in braccio a sua madre, si chiede se un giorno ritornerà dove le sue radici sono ancora così salde.

Ci pensa Violeta che in Moldavia ha ancora il padre che, in tempi non pandemici, vedeva con frequenza. «Quando avrà bisogno di cure, assumerò una persona che si occupi di lui e lo aiuti con le attività quotidiane, così come faccio io qui».

Ci pensa anche Mercedes che nelle Filippine non ha più la madre, ma tanti nipoti che cerca di vedere due volte all’anno, da quando si può permettere di tornare più spesso. Sono ormai 40 anni che vive in Italia, di cui è diventata cittadina. Sorride, mentre si tocca il ciondolo della collana su cui c’è scritto «Mercy», diminutivo del suo nome, che significa «misericordia», in inglese.

«lo sono grata all’Italia e alla vita. Ho sempre creduto, mi sono data da fare e sono soddisfatta. God is full of mercy (Dio è pieno di misericordia, ndr), come diciamo noi. E in questo film che è la vita mia, probabilmente sono stata abbracciata dalla misericordia anche io».

Simona Carnino




Per l’Ucraina con i Missionari della Consolata in Polonia


Aggiornamento al 4 marzo 2022 |

Per aiutare: fare versamento tramite Fondazione missioni Consolata Onlus, specificando “Aiuto profughi Ucraina”


Łomianki, 5 marzo 2022, visita del Nunzio apostolico, mons. Salvatore Pennacchio al centro di raccolta che ad oggi ufficialmente segue 1200 rifugiati, tutti ospitati nelle famiglie.

 


Notizie 4 marzo 2022

Carissimi tutti,
condivido qualche aggiornamento sulla situaizone che stiamo vivendo, ringraziando ciascuno (e siete davvero tanti!) per linteresse e gli aiuti che state organizzando.

La situazione in generale, come è ben descritta da tutti i mas media, è quella di un costante e continuo giornaliero aumento di rifugiati specialmente qui in Polonia. Notevole è lo sforzo di accoglienza che si sta organizzando.

Il nostro aiuto, come missionari della Consolata presenti in Polonia (siamo qui da anni attualmente con 6 confratelli provenienti da 5 paesi diversi da tre continenti) come vi ho scritto precedentemnte, si sviluppa in tre direzioni:

  • Accoglienza dei profughi
  • Raccolta di beni
  • Raccolta di offerte

Dove aiutiamo:

Kiełpin – Łomianki (vicino a Varsavia)

La nostra comunità di Kiełpin collabora strettamente con la parrocchia di s. Margherita, sul terreno della quale ci troviamo. Qui il numero di profughi ospitati ad oggi è di oltre 800 persone. Il numero è in costante e regoalre crescita. Questo si spiega per il fatto che siamo a pochi chilometri dalla capitale, Varsavia, dove si trovano le ambasciate di tutti i paesi. Molti profughi, infatti, cercano di raggiungere i propri familiari anche fuori dall’Europa come ad esempio in America e per questo hanno bisogno dei documenti e dei permessi. I rifugiati sono principalmente ucraini, donne e bambini ma con non rare eccezioni. In casa nostra ospitiamo un papà ucraino Pietro con la figlia Anastasia di 9 anni. Sono scappati dalla regione del Donbas in accordo con la moglie inpossibilitata a partire a motivo dell’invalidità della sua mamma che è su una sedia a rotelle. Vorrebbero raggiungere un familiare in America.

I nostri vicini di casa, Raffaele e Giulia da poco sposati, stanno ospitando in casa invece una giovane coppia di nigeriani con un neonato di soli 4 mesi. Essi sono scappati da Kiev dove stavano studiando all’università. Questi sono piccoli esempi di storie ordinarie di questi giorni. La maggiornaza dei profughi qui presenti sono comunque mamme e bambini ucraini.

Białystok

A Białystok gia da mesi stiamo collaborando con la caritas locale con aiuti arrivati dall’Italia a favore dei migranti bloccati sul confine (che ancora ci sono) prima ancora che scoppiasse il conflitto. Di fronte all’emergenza di questi giorni è nostro impegno continuare questa collaborazione. Stiamo preparando una nuova sede piu spaziosa nel centro della città dalla quale potremo in un futuro prossimo organizzare diversi aiuti a seconda delle necessatà ed emergenze. Qui al momento i flussi dei profughi non sono altissimi come in altre regioni della Polonia per un motivo semplicemnete geografico, questa città confina con la Bielorussia con la quale i confini sono rigorosamente chiusi. Tuttavia, già ieri i primi profughi sono arrivati anche a Białystok e se ne prevedono altri.

Ukraina – Konotop

La nostra comunità ha da 5 anni vicino a sé una fondazione di volontariato giovanile missionario col nome: Opera per la missione. In breve, sono i nostri giovani volontari missionari polacchi provenienti da tutta la Polonia con base presso la nostra comunità. Essi tra le tante iniziative, da tempo hanno un contatto sul luogo in Ucraina a Konotop, una cittadina di circa 85.000 abitanti a 250 km. a nord est da Kiev, non lontano dal confine con la Russia. Qui vive un frate francescano p. Romualdo. Prima che iniziasse la guerra, c’era il piano di fare un campo di lavoro lì questa estate, piano che ora inevitabilmente è stato abbandonato. I nostri giovani volontari non si arrendono e sono in contatto in questi giorni con p. Romualdo e insieme stiamo organizzando in quale forma aiutare lì, sul posto, con l’invio di offerte (più probabile) e se riusciremo di beni. Purtroppo, quella zona e fortemente militarizzata e occupata.

Luca Bovio


Notizie 3 marzo 2022

Lavoriamo in collaborazione con la parrocchia di Santa Margherita in Łomianki vicino a Varsavia, sul terreno della quale la nostra comunità di Kiełpin si trova, e con la Caritas. Di fronte alle richieste della situazione, abbiamo creato tre aree di aiuto:

1. Accoglienza dei profughi.

Sono già partite delle macchine dalla parrocchia dirette al confine con lo scopo di portare qui i primi profughi. dalle informazioni che abbiamo si tratterebbero di madri con bambini. Stiamo organizzando l’accoglienza presso le famiglie che si dichiarano pronte per questo. Anche la nostra comunità si è resa disponibile.

2. Raccolta di generi di aiuto.

I beneficiari dei generi raccolti sono sia le persone qui ospitate nelle nostre case,  sia le persone rimaste nel paese. Iniziamo a raccogliere cibo che non si deteriori, indumenti in buono stato (anche per bambini), prodotti per la pulizia della casa, medicinali, ecc…

3. Offerte in denaro

I soldi raccolti serviranno a coprire i costi per i servizi resi alle persone qui sul luogo e in Ucraina come ad. esempio, pagamenti d’affitto di casa se ce ne fosse bisogno, aiuto dato a famiglie che ospitano ma che non hanno le possibilità economiche, cure mediche, ecc.

 

Le immagini sono del centro di raccolta e di distribuzione presso la parrocchia e la nostra comunita di Kielpin. Ad oggi (2 marzo 2022) sono gia ospitate piu di 600 rifugiati nel nostro comune di che conta circa 20.000 abitanti.

Queste sono le prime informazioni che posso darvi in una situazione che, come potete immaginare, è in continuo divenire.

notizie ricevute tramite padre Luca Bovio
superiore del gruppo dei missionari della Consolata in Polonia


Per aiutare: fare versamento tramite Fondazione missioni Consolata Onlus, specificando “Aiuto profughi Ucraina”

 

 




Haiti: Una vita in lockdown


Il paese dei Caraibi, nel Settecento la colonia più ricca al mondo, e seconda nazione indipendente delle Americhe, oggi vive una situazione di «stato fallito». Non è una questione di sfortuna. Le cause storiche e geopolitiche sono precise e definite.

È la notte tra il 6 e il 7 luglio 2021. Un commando di una trentina di uomini vestiti di nero si introduce nella residenza del presidente della Repubblica di Haiti, Jovenel Moise, senza sparare un colpo. Giunti in camera da letto, scaricano raffiche di mitragliatore sul presidente, poi infieriscono brutalmente sul suo cadavere. La moglie Martine resta ferita e, evacuata a Miami, si salverà. Le macabre immagini del corpo martoriato fanno il giro dei social, a bella mostra di quanto è successo.

Chi era Jovenel Moise

Moise era espressione della classe borghese del paese, in particolare dei neo arricchiti, non delle famiglie dell’oligarchia storica. Lui aveva fatto i soldi con l’agro business, l’export delle banane, e per questo era chiamato Nèg banann, in creolo, l’uomo delle banane. Era succeduto al presidente Michel Martelly (2011-2016), come suo candidato designato, del suo stesso partito, il Partito haitiano tèt kale (Phtk), di estrema destra, filo duvalierista. Aveva inizialmente perso le elezioni contestate (ottobre 2015) e, dopo un anno di transizione, con il presidente a interim Jocelerme Privert, era stato eletto nel novembre 2016 entrando in carica il 7 febbraio 2017 (cfr. MC aprile 2017).

Moise, in contrasto con la Costituzione, aveva poi evitato di organizzare le elezioni alle scadenze fissate, sia per gli eletti locali, che per il parlamento, il cui mandato si era concluso nel gennaio 2020.

Da allora legiferava per decreto, intervenendo anche su aspetti molto delicati delle istituzioni haitiane. Stava inoltre preparando una riforma costituzionale – percorrendo però una procedura  anticostituzionale – che avrebbe aumentato ulteriormente i poteri del presidente.

La popolazione lo aveva duramente contestato già nel 2018 e poi di nuovo, con manifestazioni che avevano bloccato il paese, dall’autunno 2019.

C’era pure una diatriba sulla scadenza del suo mandato, che sarebbe stata il 7 febbraio 2021, ma che lui aveva portato al 2022, giocando su un’ambiguità costituzionale (cfr. MC marzo 2021).

Photo by Ricardo ARDUENGO / AFP

Il dopo Moise

All’indomani dell’efferato assassinio, che sciocca il paese, si innesca una contesa a tre per la gestione della transizione. I protagonisti sono: Claude Joseph, primo ministro in carica, ma sfiduciato dallo stesso Moise che due giorni prima di essere ucciso aveva designato una nuova figura, il dottor Ariel Henry, a succedergli. Il secondo è Henry stesso, che rivendica la nomina. Infine il terzo è Joseph Lambert, presidente di un terzo del senato (composto da dieci senatori, un terzo del totale, non scaduti, perché la Costituzione ne prevede il rinnovo di un terzo ogni due anni), le uniche cariche elette rimaste nel paese.

La Costituzione del 1987, emendata, prevederebbe (art. 149) che, in caso di vacanza improvvisa del capo di stato, sia il presidente della Corte di Cassazione a prendere la guida del paese, ma il giudice René Sylvestre è morto un mese prima dell’omicidio, a causa delle complicanze del Covid-19.

Come spesso è accaduto nella storia di Haiti, è un intervento esterno che prevale su tutti. Il cosiddetto Core Group (coordinamento delle ambasciate di Germania, Francia, Stati Uniti, Canada, Spagna, Unione europea, e rappresentanti di Organizzazione degli stati americani, e Nazioni Unite), i paesi «amici» di Haiti, appoggia apertamente Ariel Henry, che diventa dunque premier de facto di un governo de facto. Esso infatti non potrà essere validato da un parlamento, che non esiste, e non potrà gestire il potere esecutivo insieme a un presidente della Repubblica che non c’è. Un «deserto istituzionale» senza precedenti.

Un popolo in ostaggio

La morte violenta del presidente fa precipitare la già precaria situazione di sicurezza del paese. Se le gang (bande armate di malviventi, in creolo) sono sempre esistite, e negli ultimi anni erano diventate più forti, adesso si dividono il controllo di gran parte del territorio, nella capitale come nelle principali vie di comunicazione.

La gang di Jimmy Chérisier, detto Barbecue, che si fa chiamare G9 an fanmi ak alye (Gruppo 9 in famiglia e alleati), nei mesi di ottobre e novembre 2021 arriva a impedire la fuoriuscita delle autobotti dal terminale petrolifero di Varreux (gli autisti sono uccisi o rapiti), bloccando di fatto il funzionamento del paese per mancanza di carburante. I prezzi dei trasporti e di tutti i generi alimentari, anche di base, si impennano e molti servizi, inclusi ospedali e banche, devono chiudere. Gran parte dell’energia elettrica ad Haiti è infatti prodotta da centrali termiche e da gruppi elettrogeni privati.

Barbecue, vicino al presidente assassinato Moise, chiede le dimissioni di Ariel Henry. Poi, quasi fosse il capo di stato, pubblica un video in cui dichiara una tregua di una settimana, in onore della battaglia di Vertières (18 novembre 1803: la vittoria dell’esercito «indigeno» contro l’armata napoleonica, porta all’indipendenza), lasciando uscire i camion dal deposito. Nello stesso video dice di essere a capo di un gruppo rivoluzionario, denuncia la fame del popolo e dunque chiama i suoi seguaci a prendere le armi perché «la rivoluzione sta per cominciare».

Nella festa di commemorazione della morte di Jean-Jaques Dessalines, padre della patria, il 17 ottobre, la stessa gang impedisce al primo ministro de facto, al capo della polizia Léon Charles (che si dimetterà a fine ottobre), e al loro seguito, di svolgere la cerimonia di suffragio. I suoi uomini attaccano la scorta che batte in ritirata, e in seguito Chérisier in persona, a volto scoperto e in giacca bianca, deposita una corona di fiori alla base della stele che ricorda l’assassinio di Dessaline a Pont Rouge (Port-au-Prince).

Photo by Richard PIERRIN / AFP

Rapimenti

Un’altra gang famosa, la 400 Mawozo, controlla l’uscita Nord della capitale e la strada principale verso la frontiera con la Repubblica Dominicana. È nota per alcuni rapimenti di massa. Il 16 ottobre compie un salto di qualità, sequestrando 17 stranieri (16 statunitensi e un canadese), missionari protestanti legati all’organizzazione Usa Christian aid ministries. Il rapimento di stranieri, che finora non è una pratica frequente, è la punta dell’iceberg di un fenomeno che si è esteso a tutti i livelli sociali. Chiunque può essere rapito, e i riscatti richiesti variano da decine di migliaia di dollari a milioni. Spesso, se il riscatto non è pagato, il malcapitato viene ucciso.

«I rapimenti sono una media di quattro, sei al giorno, mentre abbiamo contato una media di cinque omicidi al giorno nei primi sette mesi del 2021», ci dice Antonal Mortimé, segretario generale di Defenseur plus, associazione per la difesa dei diritti umani ad Haiti.

«La situazione è molto peggiorata dopo l’assassinio del presidente Moise, e la gente vive un clima di terrore quotidiano. Possiamo dire che il diritto alla vita è negato, in questo momento, nel paese».

Mortimé, contattato telefonicamente, ci descrive la mappa delle gang che controllano la capitale Port-au-Prince, a Nord, Nord-Est, Sud e al centro: «Siamo circondati, siamo presi in ostaggio in modo collettivo. Abbiamo paura di portare i bambini a scuola, di andare all’Università, o al lavoro. Poi ci sono tante micro gang, in guerra tra di loro».

E continua: «Ariel Henry non ha saputo ristabilire l’autorità dello stato, la sicurezza, la fiducia dei cittadini».

Un popolo sotto controllo

«Non è un fenomeno di oggi, i gruppi armati erano presenti già 30 anni fa», ci ripete una fonte autorevole haitiana, che chiede l’anonimato, perché «qui ti ammazzano per molto poco». «Le gang sono organizzazioni paramilitari, come erano i Macoute al tempo dei Duvalier, create per controllare la popolazione. Sono i grandi proprietari terrieri e i grandi padroni dell’import-export che, in accordo con il potere fascista (del partito Phtk, nda), hanno messo in piedi e controllano le gang. Fanno parte dell’azione repressiva del Phtk».

Alcuni osservatori sostengono che questi gruppi armati stiano andando fuori dal controllo di chi li ha creati e finanziati. Il nostro interlocutore non è d’accordo: «Le gang si scontrano con la polizia, ma questa è una contraddizione secondaria. Ci sono battaglie tra gang per il controllo del territorio, dei traffici di droga, ma anche questo è secondario rispetto alla repressione perpetrata ai danni della popolazione. Ci sono gang che tentano di diventare autonome, ma non ci riusciranno. L’imperialismo (intende il controllo esercitato da parte dei paesi vicini, gli Usa in primis, nda), che ha l’ultima parola, non lo permetterà, come è già successo tante volte in America Latina».

E continua spiegando l’approccio comunicativo delle gang: «A volte i loro leader dicono che lottano per la popolazione, come Chérisier, che va in video e accusa i borghesi, e dice di volere le dimissioni del primo ministro Ariel Henry. Ma è l’esatto contrario. Se davvero volessero, potrebbero andare a prenderlo quando vogliono, perché sono più forti della polizia».

In effetti le forze di sicurezza, sebbene siano state formate per decenni dalle Nazioni Unite (missione dei caschi blu Minustah dal 2004 al 2017, preceduta dalla Minuha 1993-96, e oggi sostituita dalla più leggera Binuh, Ufficio integrato delle Nazioni Unite ad Haiti), sono incapaci di opporsi alle bande, e spesso i poliziotti vengono ammazzati. Anche le neonate Forze armate d’Haiti, sciolte dal presidente Jean-Bertrand Aristide nel 1994, e ricostituite da Jovenel Moise nel 2017, non hanno mezzi né risorse.

La piramide del potere

«Ad Haiti – continua il nostro interlocutore – esiste una borghesia industriale, ma è dominata dalla borghesia del commercio (o dell’import-export) che è molto forte e blocca lo sviluppo industriale.

Questa classe dominante non ha però la forza di eliminare il sistema precapitalistico, ovvero quello dei latifondisti, in quanto ha bisogno di loro, sia per la produzione di alimenti da esportazione (caffè, zucchero, banane…) sia per reprimere le rivendicazioni popolari dei piccoli contadini.

D’altro lato l’influenza imperialista, soprattutto statunitense, ma anche canadese, francese, che si appoggia su questa classe dominante, ha dei chiari progetti per il paese».

Si riferisce a quattro settori strategici principali: le zone franche con le manifatture del tessile (aree industriali libere da tasse, delle quali abbiamo parlato in MC gen-feb 2014 e maggio 2016); l’agro industria; le ricchezze del sottosuolo e il turismo di alta gamma.

Manifattura tessile

Le zone franche del tessile fanno parte di una strategia delle multinazionali su Haiti da decenni. Sono state ulteriormente spinte dalla famiglia Clinton (Bill e Hillary) come strategia di ricostruzione dopo il terremoto del 2010. Nel giugno di quell’anno Bill Clinton divenne co-presidente, insieme al primo ministro Jean-Max Bellerive, della Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti. Ma di fatto comandava lui. La grande zona franca industriale di Caracol, nel Nord del paese, ad esempio, ha visto un grosso coinvolgimento di Hillary. Inaugurata nell’ottobre del 2012, è gestita da manager e capitali sudcoreani (per Clinton-Haiti si veda MC gen-feb 2014). Altre aree sono quella di Ouanaminthe (Codevi), al confine Nord con la Repubblica Dominicana, comoda per portare i manufatti direttamente oltre frontiera, e alcune più recenti a Santo (Croix-de-Bouquet, Nord della capitale), la Apaid & Baker Sa, e Carrefour (a Sud), la Palm Apparel, oltre a quella storica nei pressi dell’aeroporto di Port-au-Prince, la Sonapi. In tutte queste zone industriali, libere da tasse, vengono assemblati vestiti per i grandi brand statunitensi e non solo. Si tratta di un grande serbatoio di manodopera a bassissimo costo, a due passi dagli Stati Uniti.

Il punto cruciale, più in generale, sta nel costo del lavoro. Il salario minimo dignitoso è una lotta affrontata a più riprese dai sindacati haitiani, in particolare nel tessile, ma non solo.

Un sindacalista ci racconta: «Oggi il salario minimo è di 500 gourde al giorno, che al tasso di cambio attuale equivale a 5 dollari. Nel 2009 era di 70 gourde (1,75 dollari con il cambio dell’epoca), ma noi ne chiedevamo 250 (6,25 Usd). Uno studio di economisti haitiani e statunitensi indipendenti, aveva calcolato che per far vivere una famiglia di quattro persone, undici anni fa occorrevano 1.100 gourde al giorno (27,50 usd). Ce ne concessero 125 (poco più di 3). Oggi l’operaio del tessile salta sistematicamente il pranzo, bevendo un goccio di kléren (distillato grezzo di canna da zucchero, dal costo irrisorio, nda) per resistere al pomeriggio. Altrimenti non porterebbe a casa nulla. Inoltre, sono quasi tre anni che il salario minimo non è stato rivisto, mentre la svalutazione della moneta nazionale è stata elevata».

Agro industria

La borghesia agro industriale è un gruppo socioeconomico che sta emergendo. Ne era espressione lo stesso Jovenel Moise. Un caso esemplificativo è l’area di Savane Diane, dove l’imprenditore Clifford Apaid (di una delle famiglie più ricche di Haiti) sta impiantando la sua compagnia Stevia agro industries (Stevia Sa), per un investimento stimato di 250 milioni di dollari (1). Su circa 8mila ettari, a cavallo di tre dipartimenti, la cosiddetta Export processing zone, produrrà manioca, zucchero di canna, avocado e stevia. La stevia (s. rebaudiana) è un dolcificante ipocalorico naturale molto utilizzato nei paesi ricchi in sostituzione dello zucchero, ad esempio è usato dalla Coca-Cola per le bibite in versione light. L’area, chiamata «Zone franche agro industrielle d’exportation de Savane Diane», è stata creata grazie a un decreto presidenziale (di Moise) dell’8 febbraio 2021, che la definisce una «zona franca» ovvero «tax free zone», o zona senza tasse. Il decreto ha reso operativo un accordo firmato tra il Consiglio nazionale delle zone franche (Cnzf), rappresentante lo stato haitiano, e Nina Apaid, presidente della Stevia Sa, nell’ottobre 2019. L’operazione prevede l’esproprio di terre ai piccoli contadini e il loro impiego come braccianti (a salario minimo).

Nel decreto salta all’occhio la frase: «Considerando l’impegno delle autorità pubbliche di prendere tutte le misure necessarie per promuovere lo sviluppo socio economico del paese, in particolare attraverso la realizzazione di zone franche».

Il sottosuolo

Una risorsa non ancora sfruttata, ma presente nel paese, è quella mineraria. Secondo diverse prospezioni, fatte in Haiti e in Repubblica Dominicana (Rd), è presente una ricca vena che taglia l’isola di Hispaniola da Nord Ovest al centro, passando per Santiago (Rd). Sono stimate buone quantità di oro, argento e rame.

Alcune multinazionali che sfruttano già il sottosuolo in Rd, hanno fatto prospezioni ad Haiti, stanno firmando accordi di sfruttamento e stanno procedendo all’installazione di siti estrattivi (2). Naturalmente questo sta causando l’esproprio di terre ai piccoli contadini, i quali hanno dato vita al Komite jistis min (in creolo: Comitato giustizia miniere), per opporsi allo sfruttamento indiscriminato delle imprese minerarie internazionali. Attualmente si tratta di zone nel Nord Est del paese, come Grand Bois e Morne Bossa.

Photo by Richard PIERRIN / AFP

L’ultima frontiera

L’ultimo ambito dello sfruttamento del paese da parte di compagnie internazionali, in joint-venture con l’oligarchia locale, è quella del turismo di alta gamma. Ne avevamo parlato in MC (gen-feb 2014) quando ci eravamo chiesti perché parte dei soldi per la ricostruzione post terremoto 2010 erano stati impiegati per costruire grandi hotel di lusso. Oggi il processo continua: «Ci sono compagnie straniere in diverse zone di interesse turistico. Parlo delle isole Tortue (Nord), Gonave, e poi Mole St. Nicolas e di altre spiagge notevoli. Stanno facendo gli studi per impiantare dei resort. E per far questo manderanno via i contadini e assumeranno personale pagandolo con il salario minimo. Un’ulteriore proletarizzazione del produttore agricolo haitiano», rincara il nostro interlocutore.

«Il grosso problema in tutto questo, è che l’opposizione liberale, oltre ovviamente la destra al potere, non mettono in discussione questi mega progetti né il salario minimo». La mano d’opera a bassissimo costo, oltre che la svalutazione continua della moneta nazionale, è infatti il propulsore dello sfruttamento delle risorse naturali e umane di Haiti.

il primo ministro ad interim, Claude Joseph (a sinistra) si congratula con il primo ministro de facto, Ariel Henry (designato dal Core group), durante la commemorazione per il defunto presidente Jovenel Moise, al Pantheon di Port-au-Prince, il 20/07/21. (Photo by Valerie Baeriswyl / AFP)

Perché uccidere il presidente

Torniamo da dove siamo partiti. Perché il presidente Jovenel Moise è stato ucciso e perché con modalità tanto efferate?

Le analisi concordano su un regolamento di conti interno alla classe politica dominante, allo stesso partito Phtk di Michel Martelly e Jovenel Moise.

Un attivista haitiano nel settore dei diritti umani, da noi contattato, che ci ha chiesto pure lui l’anonimato, si esprime così: «Si tratta di un vasto complotto, ben pianificato, che vede coinvolta la mafia haitiana e quella internazionale, insieme a quella che chiamiamo borghesia conservatrice e classe politica tradizionale haitiana. Moise ha sfidato quelli che chiamiamo gli oligarchi, le grandi famiglie più ricche di Haiti, anche se per accedere al potere ha avuto il loro supporto. Ha tentato di sfidarli, riducendo il loro margine di manovra, togliendo certi privilegi, aumentando alcune imposte. Tutto ciò ha prodotto una reazione fino al complotto. Sono passati attraverso la stessa Guardia presidenziale, i cui membri sono stati pagati affinché consegnassero il presidente. Si tratta di un crimine internazionale, costato milioni di dollari, che ha mobilitato decine di persone e materiale militare sofisticato».

In effetti, pure il vilipendio del cadavere, e la sua esposizione sui social media, pare un messaggio chiaro, mandato a chi vuole fare politica ad Haiti: se ci sfidate, ecco cosa può succedervi.

Attualmente, l’inchiesta in corso è condotta dal giudice istrutture Garry Orélien, che ha sostituito ad agosto Mathieu Chanlatte, dimissionario. Una trentina di accusati sono agli arresti, tra i quali ex militari colombiani e tre haitiani-americani. Tra loro lo sconosciuto Christian Emmanuel Sanon, indicato come leader dell’attentato, colui che avrebbe voluto prendere il potere. Molto probabilmente l’uomo di paglia degli ideatori del complotto.

Avvisi a comparire davanti al giudice sono stati emanati ai miliardari uomini d’affari haitiani Réginald Boulos, Jean-Marie Vorbe e Dimitri Vorbe, e agli ex senatori Steven Benoit e Yuri Latortue, come riporta The Strategist, dell’Australian strategic policy institute, un think thank australiano di studi strategici(3).

L’arrestato più illustre è Samir Handal, fermato il 15 novembre scorso all’aeroporto di Istanbul.  Haitiano di origine palestinese (e residente a Miami), fermato grazie a un mandato d’arresto dell’Interpol, fa parte dell’oligarchia haitiana. Si stava recando in Giordania, provenendo da Miami. Dovrà essere estradato ad Haiti.

Il giudice Orélien ha ricevuto numerose intimidazioni: il suo ufficio è stato forzato da ladri nella notte tra il 27 e il 28 ottobre, la sua auto presa a fucilate lo stesso giorno, e uomini armati hanno cercato di fare irruzione, sempre nel suo studio, a inizio novembre.

Chi governa adesso?

Hillary Clinton (all’epoca segretario di stato Usa) inaugura il parco industriale Caracol, a Nord, il 22 ottobre 2012. Zona franca per la manifattura tessile, fortemente voluta da lei e dal marito, l’ex presidente Bill Clinton. (Photo by LARRY DOWNING / POOL / AFP)

Intanto la dinamica politica vede opporsi il governo de facto di Ariel Henry (che è stato ancora rimaneggiato il 24 novembre scorso, con il cambio di 8 ministri su 18) appoggiato da Core group e Binuh, e l’opposizione democratica, firmatari del cosiddetto accordo del 30 agosto, che chiede un processo di transizione differente. Si cerca una «riconciliazione nazionale» sul piano politico.

Gli obiettivi del nuovo governo de facto, dice Henry il 25 novembre, sono ristabilire la sicurezza, la riforma costituzionale e portare il paese alle elezioni a tutti i livelli. Il problema immediato è un deficit di bilancio statale. Un budget di circa 254 miliardi di gourde (2,5 miliardi di dollari), ma le casse dello stato ne avrebbero solo 96, di cui 30 già impegnati per sovvenzionare il carburante.

Come se non bastasse, un forte terremoto ha colpito il Sud Ovest del paese il 14 agosto, causando 2.246 morti e 329 dispersi e perdite economiche stimate di 1,6 miliardi di dollari. I bisogni recensiti per la ricostruzione sono di 1,97 miliardi.

Ma occorre ricordare che, dalle casse dello stato, mancano circa 3 miliardi di dollari, «evaporati» con lo scandalo PetroCaribe.

Marco Bello
(fine prima puntata/ continua)


Note
1 • Haiti-agriculture: new agro-industrial export free zone, Haiti Libre, 12/02/2021.
2 • Ruée vers l’or en Haiti, Enquet’action, 10/06/2020.
3 • Who benefits from insecurity in Haiti?, The Strategist, 14/07/2021.




Storia di Elena Givone, la fotografa dei sogni

foto di Elena Givone |


Un’idea geniale per far sognare i bambini che vivono in realtà difficili. Un’idea che porta Elena ai quattro angoli del pianeta a conoscere storie e desideri di bimbi e ragazzi. Un esempio di fotografia «umana» e umanitaria al tempo stesso.

È il 2011 quando Elena decide di andare in Sri Lanka ospite di una residenza per artisti: il suo progetto è quello di insegnare la fotografia ai bimbi di One world foundation, un’associazione senza fini di lucro che garantisce ai ragazzi delle zone rurali più povere di poter studiare. Si tratta di bambini e adolescenti che non possono permettersi nulla, spesso un solo pasto al giorno e, in ogni caso, non certo grandi sogni. Elena pensa alla fotografia come forma di emancipazione e possibilità di lavoro. Si tratta di una sfida, un’utopia, forse, che Elena, come dimostrerà più avanti, realizzerà.

Scuola di fotografia

Elena istituisce la prima scuola di fotografia in Sri Lanka. Il diploma che i ragazzi conseguono consente loro di accedere a finanziamenti per proseguire gli studi, iscriversi all’università e costruirsi un futuro.

Arrivata per stare qualche mese, la fotografa si ferma per quattro anni. Oltre a insegnare fotografia, infatti, inizia a elaborare un’idea. Vivendo a stretto contatto con i ragazzi e i bambini, comprende che la cosa più difficile per loro è qualcosa di scontato da altre parti del mondo, quasi banale: sognare, immaginare. Realizza così il progetto «Dream from my magic lamp».

Si tratta di una serie di ritratti dei bimbi, dei ragazzi e degli operatori che vivono, studiano e lavorano all’interno di One world foundation. Ognuno di loro viene fotografato sul medesimo sfondo azzurro con una lampada in mano. Un colore che richiama il volo, la fantasia, la libertà. Tutti debbono chiudere gli occhi e immaginare quale sia il proprio sogno. Il progetto è un successo: la fantasia non ha limiti, non conosce fame, né povertà, né disperazione. Ne nasce un libro e un lavoro che varca i confini dello Sri Lanka e arriva in Myanmar, dove Elena decide di portare avanti il proprio lavoro che sempre più si incanala nella direzione umanitaria: c’è un’idea di restituzione dell’infanzia, della bellezza, della leggerezza che anima questa giovane donna e che la spinge a cercare e infine a trovare la bellezza anche nei luoghi più dolorosi. In Myanmar Elena non utilizza più una lampada, ma una coppia ci civette scolpite nel legno, un oggetto simbolico per questa parte del mondo. In questi luoghi conosce l’estrema povertà e la solitudine: sono molti gli orfanotrofi popolati di bimbi che i genitori non possono permettersi di mantenere.

Dal Myanmar Elena parte per l’Ucraina. Qui collabora con La matrioska Onlus.

Il suo progetto sul tema del sogno cresce ancora e raggiunge i bimbi vittime dell’incidente nucleare di Chernobyl.

L’oggetto del sogno è proprio una matrioska: un simbolo di protezione, di maternità. Ogni matrioska infatti ne contiene un’altra fino a quella più piccola, che è il seme, il simbolo del bambino.

Per questi bambini, infatti, che una mamma non l’hanno mai avuta, poter raccontare il proprio bisogno di tenerezza e protezione assume un valore di liberazione.

Rifugiati

Il sogno di Elena non si ferma e anzi, è solo all’inizio. Dopo Sri Lanka, Myanmar e Ucraina, è la volta dei bambini siriani di Aleppo, che si trovano in un campo profughi in Grecia a Ritsona, una penisola a circa 70 km da Atene. Qui il progetto si arricchisce ancora: viene realizzato un libro «Rafi the refugee rabbit», una storia illustrata con protagonista un coniglietto che racconta il suo viaggio pericoloso e disperato, insieme alla propria famiglia, alla ricerca di una nuova casa.

È un libro che racconta il trauma della guerra e della fuga con immagini delicate, ma allo stesso tempo reali, e che cercano di mostrare anche ai bimbi nati in una parte del mondo non afflitta da guerre e povertà, cosa significa dover fuggire, perdere tutto e poi provare a ricominciare.

Sarà dunque un coniglio il simbolo di questo nuovo sogno: ogni bimbo stringe fra le mani un coniglietto in plastica trasparente che s’illumina, a rappresentare la fiamma della speranza. Con questo oggetto fra le mani, i bimbi chiudono gli occhi e raccontano i propri desideri.

Desideri semplici come avere una casa, mangiare un gelato, o un sacco pieno di caramelle.

Elena crea un laboratorio dei sogni: i bambini disegnano, raccontano la propria storia e ricevono in dono la fotografia che li ritrae proprio nel momento della loro massima felicità, mentre desiderano e ricominciano a sperare.

Uno dei sogni più belli che Elena ricorda è quello di Akhmed, un bimbo di Aleppo.

Stringendo fra le mani il coniglietto, il bimbo racconta di desiderare un elicottero così da poter salvare tutti i bimbi che hanno bisogno.

Se è pur vero che ci sono i traumi della guerra da elaborare e che il dolore, in posti come il campo profughi di Ritsona, sembra coprire ogni altro sentimento, è altrettanto vero che la bellezza sa farsi strada ovunque.

Questo è l’insegnamento più grande infine: la tenerezza resiste, nonostante tutto.

Il percorso

Bisogna però riavvolgere il nastro e tornare indietro, a quando Elena inizia a pensare un percorso nel mondo della fotografia.

Uno dei suoi primi ricordi legati a quello che diventerà dapprima passione e poi lavoro è una scena ben precisa che risale all’infanzia: il padre con una macchina fotografica in mano, a esplorare il mondo per poi riportarlo a Elena impresso su pellicola.

Elena racconta di aver «rubato» la macchina fotografica al padre per provare come fosse possibile far uscire da quella scatola magica tante immagini meravigliose. Il primo rullino è un disastro: foto mosse, sgranate, sfocate. Il padre decide così di insegnarle i rudimenti.

Mano a mano che cresce però, Elena si rende conto che di donne fotografe non ce ne sono poi così tante e così decide di essere «La fotografa». La spinta è prima di tutto quella di voler raccontare il mondo e, se possibile, fare qualcosa per darne una visione ampia, diversa e, sì, anche femminile.

Nonostante le reticenze dei genitori, che non vedono la fotografia come un lavoro, Elena non abbandona il proprio sogno, continua a studiare e sperimentare, ma intanto si iscrive all’Università, facoltà di  scienze internazionali e diplomatiche.

Qui incontra un uomo che diventerà il suo maestro e mentore: Luigi Gariglio. Assiste a una lezione di sociologia della comunicazione e comprende, senza più dubbio alcuno, di voler raccontare il mondo tramite l’immagine. Diventa l’assistente personale del professore, e vince una borsa di studio in fotografia allo Ied (Istituto europeo di design) di Torino.

Porta avanti entrambi i percorsi e decide, dopo il diploma allo Ied, di recarsi ad Amsterdam, in Olanda per studiare presso la prestigiosa Gerrit Rietveld Academie.

Il progetto di tesi che la porterà a destinare definitivamente la sua professione alla fotografia umanitaria con tema centrale l’infanzia, è un lavoro sulle mine antiuomo a Sarajevo.

È il primo progetto fotografico di Elena: con la sua fotografia racconta i bimbi nati fra il 1992 e il 1994. Non hanno quasi vissuto la guerra ma ne portano nella mente i segni devastanti. Le conseguenze meno evidenti forse, ma non meno lesive di un’infanzia che non si può definire tale.

Questi bambini e adolescenti, non hanno spazi dove giocare, e spesso i genitori sono mutilati e invalidi a causa del processo di sminamento avviato dal governo serbo che elargisce denaro in cambio di persone che si rechino a sminare i campi.

Il progetto «Pazi Mine» vince il premio Fnac e fa incontrare Elena con un’artista olandese: Hetty Van Der Linden. Hetty porta avanti da anni un laboratorio con bambini, dal nome Paint a Future. Attraverso la pittura, questa artista chiede ai bambini e agli adolescenti di dipingere il proprio futuro.

Elena comprende la forte valenza terapeutica dell’arte e decide di fare lo stesso con il proprio lavoro.

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Brasile

Elena continua il suo viaggio. Grazie al bando Movin’ Up finanziato dal Gai (Giovani artisti italiani) raggiunge Florianopolis, capitale di Santa Catarina (Brasile).

Qui conosce la povertà delle favelas ma anche il valore reale dell’arte: grazie al lavoro di Hetty e alla sua onlus «Paint a Future», infatti, sono stati raccolti fondi e sono state costruite delle case nelle quali gli abitanti delle favelas possono provare a costruire una vita migliore.

È a Florianopolis che Elena incontra per la prima volta, a tu per tu, dolore, violenza, povertà e disperazione.

Dapprima non sa come dare una mano e inizia a fare volontariato, ma presto capisce che portare cibo e abiti non basta, e che può aiutare con la sua arte corpo e mente. Decide che vuole provare a dare ai bambini che incontra la possibilità di volare via.

Elena si procura un tappeto e inventa una storia: un mago, che aveva girato il mondo con il proprio tappeto volante su cui aveva fatto salire tanti bimbi, poteva aiutare a visitare mondi meravigliosi perché i sogni sono infiniti e gratuiti.

Elena si muove nelle favelas con il suo tappeto magico e il desiderio di regalare uno scampolo di bellezza a questi ragazzi che vivono ai confini della società.

Posiziona il tappeto per terra, racconta loro la storia del mago e chiede dove vorrebbero andare. Nel mondo del racconto, Elena scatta una fotografia.

Il progetto «Flyng Away» si sposta più a Nord, nelle carceri minorili di Salvador, Bahia, dove ogni settimana vengono incarcerati circa 40 bambini e adolescenti tra i 9 e i 18 anni.

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In carcere

In carcere avviene uno di quegli incontri che Elena non dimenticherà più: è quello con Emmesson, un adolescente recluso per furto. «Quel tappeto non vola, non ha la benzina», è la prima frase di Emmesson, a cui segue la risposta di Elena: «La benzina è la tua mente, se tu vuoi, puoi».

Dapprima restio a lavorare con la fotografa, diventa uno dei suoi più fidati assistenti, e la aiuta a muoversi nel mondo della prigione minorile e a raccogliere i sogni e le speranze di altri ragazzi come lui.

Una volta uscito dal carcere, Emmesson continuerà a scrivere alla fotografa dicendo che l’incontro con lei gli ha cambiato la vita e gli ha fatto capire quanto conti la bellezza, e quanto anche per lui è possibile immaginare una vita migliore.

Ma sono tanti gli incontri meravigliosi e le testimonianze durante il lavoro nelle carceri: bambini che fermano la fotografa durante il suo lavoro per dirle «ieri ho volato di nuovo, non ho bisogno del tappeto per volare: ho chiuso gli occhi e sono andato a trovare la mia famiglia».

Mali

Un altro lavoro importante è quello realizzato con la Onlus Alì 2000 in Mali, un progetto nato per raccontare i problemi legati alla siccità.

Esistono luoghi nei quali il bene primario, l’acqua, manca e con essa manca anche tutto ciò che all’acqua è connesso. Se è pur vero che molti progetti umanitari mirano a costruire pozzi, quasi nessuno pensa a come da quei pozzi l’acqua verrà raccolta. I bimbi non chiedono alla fotografa cibo o abiti, ma un contenitore, una bottiglia. Ecco l’idea: fotografare ogni bimbo con il proprio recipiente improvvisato. Chi una zucca svuotata, chi un bidone, chi un secchio malandato, chi una vecchia e usurata bottiglia in plastica recuperata chissà dove. Qualcuno, più fortunato, una borraccia.

I primi mille giorni

Dopo aver girato il mondo è il momento di tornare a Torino.

Nel 2016 Elena inizia, con la Onlus Legal@rte, un progetto che continua tutt’ora, «Profumo di Vita #neldirittodelbambino», per accendere i riflettori su un argomento che pochi conoscono: la violenza assistita da minori.

Come è riconosciuto che musica, lettura, tranquillità fanno bene al bimbo nei primi mille giorni di vita, è altresì riconosciuto che assistere a scene di violenza in un periodo così delicato può condizionare la crescita. Per affrontare il tema, l’artista torinese ha scelto la fotografia Newborn: gli scatti sono realizzati all’interno dei reparti maternità di ospedali italiani, nei primissimi giorni di vita del bambino, cogliendo al meglio il momento magico e irripetibile del sonno profondo del neonato nella sua fragilità, protetto dall’abbraccio dei genitori.

Il progetto ha successo e, nel 2021, non potendo più lavorare all’interno degli ospedali a causa del Covid, si sposta in una cornice d’eccellenza: la Reggia di Venaria. Qui la fotografa ritrae neo e future mamme comunicando così la bellezza possibile abitandola.

Una parte delle immagini del progetto sono protagoniste di un calendario giunto alla quinta edizione, destinato a diffondere capillarmente la conoscenza del fenomeno della violenza assistita attraverso un importante contributo didascalico.

Valentina Tamborra

 




Le tante febbri di Conakry


Un paese poco conosciuto in Europa, ricco di risorse naturali e minerarie, ma anche culturali e umane. Inserite in un contesto sociale e politico fragile, troppo spesso sfruttate da imprese multinazionali. Vi portiamo nelle sue contraddizioni.

Lontana dai riflettori dei grandi media, la Guinea sta vivendo un momento storico difficile sia sul piano sanitario che politico.

Con il colpo di stato avvenuto il 5 settembre scorso a opera del leader golpista Mamandy Doumbouya ai danni del presidente Alpha Condé, gli assetti politici del paese sono cambiati.

Sito in Africa occidentale, la Guinea ha 13 milioni di abitanti, ed è 178ª nella classifica Onu dello sviluppo umano (su 189). La situazione è ancora molto delicata, anche se non ci sono stati più grandi scontri o rivolte da parte della popolazione. In un primo momento, nel mese di settembre, la capitale Conakry era un via vai di polizia e militari. Piccoli gruppi hanno cercato di ribellarsi ai soldati, ma senza grandi risultati. Il tenente colonnello Mamandy Doumbouya ha giustificato l’operazione con la situazione economica del paese in caduta libera e il grave aumento della povertà.

Chi troppo vuole…

Il presidente Alpha Condé, eletto per la prima volta nel 2010 e rieletto nel 2015, aveva fatto in modo di cambiare la Costituzione che limitava i mandati a due, tramite un referendum il 22 marzo 2020. Si era quindi fatto rieleggere per un terzo mandato nell’ottobre dello stesso anno, provocando la contestazione di un vasto movimento composto dai partiti di opposizione e da gran parte della società civile. Le proteste di piazza, duramente represse, avevano causato decine di morti.

La popolazione è ancora oggi nettamente divisa in due, c’è chi sostiene Mamandy Doumbouya, autoproclamato presidente ad interim il primo ottobre, e chi ancora appoggia Alpha Condé, attualmente agli arresti.

I due, anche se non appartengono direttamente alla stessa famiglia d’origine, hanno legami, e questo è uno dei motivi che ha arginato le lotte a sfondo tribale nel paese.

Il concetto di famiglia in Guinea è molto esteso: la famiglia coincide con un gruppo tribale che mantiene un cognome e un’identità storica e culturale. Queste appartenenze sono estremamente importanti e significative.

La popolazione guineana si considera da sempre come una grande famiglia. I nuclei più forti a livello sociale e politico sono i Keita, i Touré e i Condé. Fortunatamente le varie famiglie si considerano come cugine tra di loro, e questo, negli anni, ha frenato molte rivolte e proteste. Il popo-lo guineano è d’indole pacifica e ha sempre cercato di rispettare gli accordi presi tra le varie fami-glie, molti secoli fa.

Dopo il colpo di stato, la Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) ha iso-lato la Guinea sul piano economico, chiedendo elezioni libere nell’arco di sei mesi e il ritorno del potere ai civili. Ma il nuovo uomo forte, Doumbouya, non sembra preoccuparsene, negando che ci sia una crisi nel paese.

Un governo costituito da militari spaventa gran parte dei guineani, ma anche i presidenti di molti stati limitrofi.

Risorse minerarie

La Guinea è uno dei paesi più poveri dell’Africa dell’Ovest, anche se il suo territorio è ricco di risorse minerarie. Pure l’agricoltura è una componente essenziale dell’economia del paese, in particolare le coltivazioni di riso.

L’oro e altri minerali preziosi, come la bauxite, dalla quale si trae l’alluminio, sono sfruttati dalle grandi compagnie minerarie europee o americane.

La febbre dell’oro è un fenomeno che si è accentuato durante i primi anni 2000: con l’abbandono delle vecchie miniere di pietre preziose a causa dei cambiamenti del mercato globale, gran parte della popolazione e delle grandi compagnie minerarie si è indirizzata sulla spasmodica ricerca del metallo giallo.

Oltre alle grandi miniere gestite dalle multinazionali, l’estrazione dell’oro avviene in maniera artigianale. Queste piccole miniere sono un rifugio per molte persone che vivono situazioni di grande difficoltà economica e cercano nell’oro una speranza di riscatto, che il più delle volte non si realizza.

Questo sogno raramente ha un finale a lieto fine, ma al contrario porta disagio, fatica e malattie.

L’estrazione aurifera è sviluppata prevalentemente nell’alta Guinea, in particolare nella prefettura di Kouroussa. È proprio in queste terre rosse che ogni giorno centinaia di uomini e donne entrano nelle viscere della terra per cercare fortuna.

Il più delle volte l’oro è polverizzato e mischiato al terreno. Abilmente i minatori tradizionali riescono a dividere le particelle d’oro da quelle del terreno per poi fonderle insieme. Tutto avviene grazie all’utilizzo del mercurio. Purtroppo questa attività è svolta molto spesso vicino ai fiumi, soprattutto al Niger, e il risciacquo dell’oro con il mercurio sta gravemente danneggiando le risorse idriche e non solo.

Anche le miniere tradizionali hanno le loro cooperative che cercano di difendere gli interessi dei minatori. Molto spesso però le grandi compagnie sono interessate ai terreni nei quali lavorano i minatori artigianali e questo genera conflitti. Il più delle volte questi ultimi hanno la peggio. Lo stato quasi sempre appoggia le compagnie per un ritorno economico che però non va mai a sostegno della popolazione locale.

Oro e salute

Il processo di estrazione dell’oro causa molti danni, oltre che all’ambiente, anche alla salute. Svolgendosi vicino a delle risorse idriche, la malaria è una delle malattie più comuni tra i minatori. Per non parlare degli incidenti legati a tali attività. Molti uomini prima di entrare negli stretti cunicoli alla ricerca del prezioso metallo usano psicofarmaci e alcol per farsi coraggio, e questo non fa altro che aumentare la frequenza di comportamenti inadeguati che possono destabilizzare la vita sociale e la salute dei minatori.

In Guinea esiste una popolazione viandante (nomade), che si sposta continuamente alla ricerca di nuovi filoni. Questo crea villaggi temporanei e fatiscenti dove le condizioni igieniche e sanitarie sono disarmanti.

Negli ultimi anni molti burkinabè si sono uniti a questi gruppi, il che ha creato problemi a livello d’integrazione ed episodi di razzismo e intolleranza.

Le donne che appartengono a queste comunità sono solite lasciare i loro figli soli al villaggio mentre vanno nelle miniere vicine. Molto spesso, se queste donne non trovano nulla, la sera si prostituiscono con gli uomini che lavorano alle miniere. La promiscuità fa aumentare fortemente i casi di infezioni da Hiv nella popolazione.

In questi villaggi fatti di materiali di recupero, i bambini si trovano loro malgrado a vivere una vita difficile e piena di pericoli. La mancanza di acqua è una delle cause maggiori di malattie come la disidratazione o la dissenteria e i bambini più piccoli molto spesso non sopravvivono. Sono molti i bambini che non possono frequentare le scuole, lontani da ogni confort e con la responsabilità di curare la casa e i fratelli più piccoli.

Una sanità che fa acqua

La situazione del paese, a livello sanitario, è molto complessa e non riguarda solamente le popolazioni che lavorano in miniera.

L’età media della popolazione è di diciassette anni e la mortalità infantile è ancora molto alta.

La fascia più vulnerabile è quella dei bambini dai zero a cinque anni. Mentre il governo e le istituzioni sanitarie non riescono a garantire una salute pubblica efficiente. Tutte le cure sono a pagamento e la forte corruzione degli organi amministrativi e sanitari fa peggiorare la situazione.

Il 2021 è stato un anno molto complesso a livello sanitario. Già durante i primi mesi ci sono stati dei casi, fortunatamente isolati, di ebola, e un caso di febbre emorragica Marburg. Entrambi questi episodi sono nati nella prefettura di Nzérékoré, nella Guinea Forestiére, ai confini con la Costa d’Avorio, zona con scarsissime risorse economiche.

La regione della Guinea Forestiére è molto diversa dal resto del paese, sia a livello culturale che religioso. Mentre la maggioranza nel resto del paese è musulmana, nella prefettura di Nzérékore prevalgono i cattolici. Anche se non ci sono forti contrasti tra i credenti delle due fedi, a livello culturale chi appartiene al mondo cattolico viene considerato più soggetto ai vizi. Il fatto che proprio in questa zona nascano molte delle epidemie è sintomo di grande povertà e permeabilità dei confini. Il controllo sanitario di chi entra nel paese, infatti, è pressoché inesistente.

Inoltre, intorno all’epidemia di ebola sfortunatamente è nato un grosso business ed è difficile delle volte avere dati sicuri su cui lavorare. Questo complica ulteriormente la situazione e molti speculatori cercano di intercettare i soldi destinati alla cura e alla prevenzione di questa malattia.

Malaria & co

Come se non bastasse, ogni anno la Guinea deve affrontare le conseguenze della malaria che uccide periodicamente centinaia di bambini. L’alta letalità di questa malattia è legata al costo eccessivo delle cure, inoltre molti villaggi del paese sono completamente isolati e, soprattutto durante la stagione delle piogge, è impossibile muoversi per recarsi nei grandi centri dove ci sono gli ospedali migliori. Per questo motivo la medicina tradizionale è ancora importante sia a livello culturale che sanitario, ma purtroppo non è sufficiente a curare i casi gravi.

Un altro virus che spaventa molto è quello del morbillo. Numerosi focolai vicino alla capitale Conakry sono stati isolati grazie all’aiuto di associazioni non governative, e la diffusione è stata arginata.

I vaccini non sono sufficienti e sono costosi, e questo implica che anche per malattie infantili, debellate nei paesi ricchi, in Guinea si continui a morire.

Il Covid è arrivato

Negli ultimi anni, a questi problemi sanitari, si è aggiunta la paura del Covid-19.

L’espandersi della variante Delta sembra aver colpito maggiormente il paese, a differenza delle altre varianti. Anche se il tasso di mortalità non è elevato, la preoccupazione esiste sopratutto nelle aeree metropolitane.

L’Africa è stata colpita meno duramente rispetto al resto del mondo. Questo può avere numerose spiegazioni, tutte teoriche. L’età media della popolazione è molto bassa, mentre il virus uccide di più gli anziani, e alcuni virologi sostengono che nel genoma di alcune popolazioni africane c’è una resistenza maggiore a questo virus. Avere un quadro complessivo dell’andamento del Covid in Guinea non è semplice. La mancanza di tamponi e controlli adeguati ci offre dati imprecisi e parziali.

La campagna vaccinale anti Covid è iniziata a metà 2021, ma non ha avuto molto successo, sopratutto nei piccoli villaggi. La popolazione non è ben informata sulle reali conseguenze del virus e ha paura di farsi fare la vaccinazione. In un primo momento il siero più utilizzato è stato quello cinese, Sinovax, mentre ora sul mercato è possibile trovare anche Astra Zeneca.

Nella capitale Conakry, invece, gran parte della popolazione vuole vaccinarsi, poiché i casi e i decessi sono stati più numerosi. Il problema è che non ci sono sufficienti vaccini per coprire tutte le esigenze, e il ministero della Salute non ha attuato un piano idoneo per salvaguardare la popolazione più fragile. Misure di contenimento sono state attuate dal governo, e – mentre scriviamo – vige un coprifuoco che parte dalle 22 fino alle 5 del mattino.

Queste sono le febbri della Guinea, paese meraviglioso dove la natura ti accoglie calorosamente e dove gli ospiti, soprattutto occidentali, vengo trattati con enorme rispetto e riverenza.

Gianluca Uda