Africa dell’Ovest. Salvatori della patria?


La crisi sociale si fa sentire in Africa dell’Ovest. E il malcontento della popolazione verso chi governa aumenta. Così i militari tornano in auge, prendono il potere con la forza. E la gente, per ora, applaude. Sarà il declino della democrazia nell’area?

L’Africa Occidentale non fa molto notizia in questi tempi. Eppure, nei suoi 5,12 milioni di km2 (17 volte l’Italia) abitano circa 400 milioni di persone. Dell’area fanno parte i paesi del Sahel (Senegal, Gambia, Mali, Burkina Faso, Niger), zona climatica semi arida, cerniera tra il Sahara e la fascia più umida, e i paesi della costa (Guinea-Bissau, Guinea, Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria).

Tutti insieme fanno parte della Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (acronimo Cedeao in francese o Ecowas, inglese), che è un accordo economico regionale. Ha pure una parte di cooperazione sulla sicurezza, l’Ecomog (Economic community of West african states monitoring group). L’Ecomog prevede, tra l’altro, in casi specifici, l’invio di forze militari di interposizione nell’area.

Tra la metà del 2020 e il gennaio 2022 si sono verificati quattro colpi di stato in tre paesi della regione. Le giunte militari che hanno preso il potere e avviato transizioni in regime speciale, hanno tutte dichiarato di voler riportare i paesi a elezioni democratiche. Gli stati interessati sono: Mali, Guinea e, per ultimo, Burkina Faso. Tutti e tre sono stati sospesi dalla Cedeao e il primo è stato sottoposto a embargo e sanzioni.

Vista la concomitanza di questi eventi, ci sembra importante fare il punto sui fatti accaduti e sulle loro conseguenze, senza la pretesa di essere esaustivi. Gettiamo uno sguardo sull’area per fare emergere le tendenze comuni dei singoli colpi di stato, e gli elementi di originalità di ciascuno.

Mali

È il 18 agosto 2020 quando un gruppo di militari, comandati dal colonnello Assimi Goïta, mette bruscamente fine alla presidenza di Ibrahim Boubakar Keita, detto Ibk. Anche in Mali il gruppo di potere è stato fortemente contestato e accusato di corruzione, in particolare dopo le legislative di aprile (ne abbiamo parlato in MC novembre 2020). Le manifestazioni di piazza sono state represse dalle forze di sicurezza, che hanno lasciato sul campo morti e feriti. È stato in particolare il Movimento 5 giugno – Raggruppamento delle forze patriottiche (M5-Rfp), a guidare il dissenso: una convergenza di elementi della società civile e partiti di opposizione.

I militari hanno approfittato di questo slancio popolare per realizzare il colpo, battezzandosi Comitato nazionale di salute del popolo (Cnsp).

È bene ricordare che il Mali, dal 2012, vive una guerra interna contro i movimenti indipendentisti e jihadisti nati nel Nord del paese, anche a causa di influenze straniere dell’islam radicale, e propagatisi nel centro prendendo una rischiosa piega di tipo etnico. Conflitto che vede l’intervento esterno francese nel gennaio 2013, poi affiancato dalla presenza di un contingente di caschi blu dell’Onu (Minsuma), una delle missioni con maggiori perdite tra gli effettivi (cfr MC giugno 2017). Nel 2015 sono stati firmati degli accordi di pace tra il governo e una parte dei gruppi in conflitto.

La giunta, che prende il potere nell’agosto 2020, sotto pressioni della Cedeao e in negoziazione con M5-Rfp, insedia un presidente civile Bah N’Daw (ex militare ed ex ministro in pensione) e un primo ministro civile, Moctar Ouane, per il governo di transizione. Goïta, che rimane l’uomo forte, mantiene la carica di vicepresidente.

(Photo by Issouf SANOGO / AFP)

Golpe su golpe

Qualcosa si incrina quando, nel maggio 2021, il primo ministro pensa di cambiare i due responsabili dei dicasteri chiave di difesa e sicurezza. La giunta reagisce il 24 maggio, facendo arrestare presidente e primo ministro di transizione e imponendo altri due militari come ministri. Si parla di secondo colpo di stato, questa volta contro le istituzioni di transizione, quindi non democratiche. Di fatto è un ribadire, chi comanda effettivamente nel paese, già in stato di emergenza.

«Sembra che la Francia avesse fatto pressioni sul governo per cambiare questi due ministri e metterne due più favorevoli alla propria politica. I due licenziati avevano studiato in Russia e stavano interagendo per creare una relazione con quel paese. È stata un’operazione un po’ maldestra», ci dice un cooperante che da anni vive nel paese saheliano.

Già da un po’ di tempo Goïta stava percorrendo la pista russa, nell’ottica di avere militari (o miliziani) in grado di realizzare anche lavori «sporchi». La tendenza è quella di sostituire l’appoggio militare dell’ex colonizzatore francese, in un certo senso fallimentare, con quello russo.

Allo stesso tempo già dal 2019, la Francia, per ragioni anche interne, aveva optato per un disimpegno sul terreno (ritiro graduale della missione Barkhane con 5mila uomini e mezzi), promuovendo la creazione della Task force Takuba (estate 2020), una forza a base di militari della Unione europea (tra cui da marzo 2021 un contingente italiano di circa 200 uomini con elicotteri), con compiti di consulenza e assistenza.

Colonello Assimi Goita in conferenza stampa, Mali, 19 agosto 2020. (Photo by MALIK KONATE / AFP)

Via i colonialisti

Nel paese il sentimento antifrancese, che sempre cova sotto le ceneri, era cresciuto già nel periodo della presidenza Ibk, accusato di essere troppo sottoposto agli interessi transalpini. Il potere golpista ha poi iniziato un’operazione di propaganda, puntando sull’identità maliana, per spingere questa dinamica di intervento dei russi.

Secondo fonti di Radio France internationale (Rfi), nel gennaio di quest’anno, uomini del gruppo Wagner avrebbero già preso possesso della base militare di Tombuctu, lasciata dai militari francesi, anche se il governo maliano continua a negare. Wagner è una milizia di mercenari russi, vicina al Cremlino, della quale si è parlato per la prima volta a livello internazionale nel 2014, per il suo appoggio ai separatisti del Donbass, in Ucraina. Il gruppo Wagner, in Africa, è già presente in Repubblica Centrafricana (cfr Mc maggio 2021), Nord del Mozambico, Libia e, pare, in Sudan (torneremo prossimamente su Wagner con un approfondimento).

La tensione tra le autorità di Bamako e quelle di Parigi aumenta. Il 31 gennaio di quest’anno l’ambasciatore di Francia viene espulso dal paese. Stessa sorte era toccata al contingente danese della Takuba.

Il ritiro di Barkhane e della Takuba viene deciso. Parte dei militari vengono ricollocati in Niger, lungo la frontiera con il Mali, dopo l’accordo con il presidente nigerino Mohamed Bazoum, avvenuto a metà febbraio di quest’anno.

«Sono stati visti militari bianchi, con la divisa russa. Ufficialmente non ci sarebbero, ma qualcuno di loro, ferito, è già stato curato in ospedale. Non è chiaro il loro dislocamento. Quello che si sa per certo, è che da gennaio è ripresa un’offensiva importante contro i jihadisti, e ci sono state più vittime civili in quel mese che in tutto il 2021», dice la nostra fonte.

A metà marzo Human rights watch e Rfi riportano esecuzioni sommarie di civili a opera dei militari della Fama (Forze armate maliane). Anche Michelle Bachelet, alto commissario per i diritti umani dell’Onu, fa una dichiarazione di denuncia l’8 marzo.

La reazione del governo di transizione è durissima: le trasmissioni in Mali di Rfi e della televisione France24 (entrambe dello stato francese) vengono sospese. In un comunicato ufficiale del governo, Rfi viene paragonata alla famigerata Radio mille colline, che nel Rwanda del 1994 incitava al genocidio.

«In questo momento, in generale, la popolazione maliana sembra favorevole ai golpisti. Forse perché occorreva dare un taglio alla dipendenza dalla Francia.

Una parte della popolazione non condivide il golpe, ma solo perché getta discredito sul paese a livello internazionale. Ma se aumentano gli attacchi militari e quindi le vittime civili, bisogna vedere se questo consenso terrà», ci dice ancora il nostro interlocutore da Bamako.

Intanto la giunta, il 21 febbraio, fa approvare la Carta di transizione, che prevede una durata del regime fino al 2027.

Mali. (Photo by Michele Cattani / AFP)

Repubblica di Guinea

Alpha Condé, oppositore storico, vince finalmente le elezioni nel 2010 e diventa presidente della Repubblica. Si ripete cinque anni più tardi, confermandosi per un secondo mandato. La Costituzione non ne prevede di ulteriori, ma lui indice un referendum costituzionale nel maggio 2020, che la modifica per potersi ricandidare. I partiti di opposizione, e in generale, la società civile, non sono contenti di questa forzatura (peraltro comune a diversi capi di stato africani), e il malcontento sfocia in manifestazioni di piazza che vengono violentemente represse. Condé si fa così eleggere per un terzo mandato, nell’ottobre 2020.

I problemi crescono con l’aumento dei prezzi dei beni essenziali. La goccia è l’aumento del carburante, il 3 agosto del 2021, da 9mila a 11mila franchi guineani al litro. La gente scende in piazza.

«La popolazione soffriva perché i prezzi stavano aumentando, ma allo stesso tempo i ministri e politici al governo si costruivano dei “castelli” (delle grandi case, ndr) in modo molto evidente», ci racconta Djéneba, una sociologa guineana che lavora per una Ong internazionale.

Il 5 settembre 2021 un gruppo di militari, guidati dal tenente colonnello Mamadi Doumbouya, arresta il presidente Condé e prende il potere. La giunta si fa chiamare Comitato nazionale per la riconciliazione e lo sviluppo (Cnrd, sigla in francese). Il primo ottobre Doumbouya si autoproclama presidente. La gestione è opaca e a tutt’oggi non è chiaro chi siano esattamente i componenti del Cnrd.

«La gente diceva: “I ladri sono partiti”. La giunta al potere ha subito abbassato il prezzo del carburante, portandolo a 10mila franchi. La popolazione comprende solo la questione dei prezzi dei beni di prima necessità. Il presidente ha poi incontrato i grandi operatori economici per cercare di tenere a freno l’aumento dei prezzi. Ma è complicato, perché dipendono anche dall’estero», continua la nostra interlocutrice, raggiunta telefonicamente. Così a inizio marzo i prezzi riprendono a salire, mentre la giunta cerca di calmierare almeno quelli dei prodotti nazionali.

Viene nominato un governo di transizione, un parlamento di transizione, e redatta una Carta di transizione, che dovrebbe regolamentare questi organi, le relazioni tra gli stessi e la durata.

Quest’ultima in particolare, dettaglio molto delicato, dovrebbe essere determinata da una concertazione tra il Cnrd e le «forze vive della nazione». Una coalizione di 58 partiti politici denuncia, invece, una «visione unilaterale del Cnrd», e il tentativo di tenere la politica lontana dalla transizione.

Guinea, Colonello Mamady Doumbouya. (Photo by Cellou BINANI / AFP)

Una speranza

La gente comune, invece, ha ancora una certa speranza: «Sì, perché vediamo trasparenza e la maturità con le quali stanno gestendo il paese».

Anche i responsabili religiosi appoggiano la transizione. L’arcivescovo di Conakry, Vincent Koulibaly, durante la messa dello scorso Natale, ha detto: «Per servire il nostro paese, occorre amare la verità. Se noi amiamo la Guinea, niente ci impedirà di attaccare su tutti i fronti i mali che frenano il suo sviluppo. È in questo senso che gli sforzi del Cnrd e del suo governo sono orientati in questo momento. Meritano di essere sostenuti da tutti i guineani, non solo nei discorsi, ma anche nelle azioni» (africaguinee.com).

Intanto il Cnrd organizza gli incontri delle Assises nationales, per dare corpo al cosiddetto «dialogo nazionale». A oggi si attende di sapere ufficialmente quanto durerà la transizione, mentre voci parlano di 36 mesi.

Burkina Faso

Il «paese degli uomini integri» aveva vissuto un’insurrezione popolare terminata con la cacciata del presidente Blaise Compaoré, al potere da 27 anni, nell’ottobre 2014. Si era poi rivoltato contro un tentativo di colpo di stato del suo fidato generale Gilbert Dienderé un anno dopo, il 15 settembre.

Ma dopo le elezioni e l’arrivo al potere di Roch Marc Christian Kaboré (cfr MC dicembre 2018 e gennaio 2019) il Burkina Faso aveva visto un peggioramento della situazione di sicurezza interna con l’arrivo sul suo territorio di gruppi islamisti radicali e la nascita di altri gruppi autoctoni, che oggi controllano porzioni del territorio. Così quando il 24 gennaio di quest’anno, un commando militare depone il presidente, al suo secondo mandato iniziato a gennaio 2021, e prende il potere, la popolazione non insorge, anzi scende in strada a gridare il suo sostegno.

Vengono rapidamente convocate delle assise nazionali, delle quali fanno parte diversi settori della società burkinabè (partiti, sindacati, società civile, giovani), inclusi i rappresentanti degli sfollati interni, per approvare gli organi di transizione e la durata.

Presto fatto, il presidente di transizione è il capo della giunta (Movimento patriottico per la salvaguardia e la restaurazione), il tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba. Viene poi designato un primo ministro di transizione, Albert Ouderaogo, che formerà il suo governo il 6 marzo, e un’assemblea legislativa di transizione di 75 membri. La transizione è prevista di una durata di 36 mesi. Gli obiettivi principali dell’esecutivo sono la lotta al terrorismo per riportare la sicurezza nel paese, e il rinforzo della governance tramite la lotta alla corruzione.

Il tenente collonello Paul-Henri Sandaogo Damiba, Presidente del Burkina Faso. (Photo by OLYMPIA DE MAISMONT / AFP)

Il sociologo ex ministro

Chiediamo il parere sulla situazione ad Antoine Raogo Sawadogo, sociologo, già ministro dell’Amministrazione territoriale e sicurezza, padre del decentramento amministrativo in Burkina, e fondatore del Laboratoire Citoyenneté (laboratorio di cittadinanza attiva), che raggiungiamo telefonicamente.

«Viviamo oggi una grave crisi della sicurezza, che sottende diverse altre crisi. La crisi alimentare, perché i contadini cacciati dai loro territori a causa degli attacchi jihadisti, non hanno potuto coltivare. Inoltre la stagione delle piogge è stata scarsa, per cui abbiamo un grosso deficit alimentare. Una crisi della casa, in quanto gli sfollati, che sono oggi circa 1,5 milioni (su una popolazione di 21 milioni, nda), sono andati a ingrossare le città, che non erano preparate ad assorbirli. Una crisi sanitaria, perché le stesse città non hanno servizi di base sufficienti per tutte queste persone, per cui osserviamo una recrudescenza delle malattie veicolate dall’acqua o causate dalla malnutrizione. Poi c’è la crisi scolastica perché abbiamo circa 4mila scuole chiuse o distrutte a causa degli attacchi terroristici, e i bambini sono lasciati all’abbandono.

Tutto questo fa sì che la situazione in Burkina sia deleteria. E purtroppo la crisi della sicurezza continua o, addirittura, è peggiorata, dopo il colpo di stato che avrebbe dovuto fermarla».

E continua, con voce grave: «Il golpe non è che la conclusione di una serie di malfunzionamenti, quelli riguardanti la sicurezza, ma anche la governance del paese. La popolazione aveva l’impressione che nessun organo dello stato fosse in piedi per servirla, ma piuttosto, che quelli che erano responsabili di dirigere il paese fossero lì per servire se stessi».

L’ex ministro cita il caso delle miniere d’oro, metallo del quale il paese è diventato grande produttore nell’ultimo decennio. Sembra infatti che la metà dell’oro estratto sparisca a causa dell’opacità delle aziende di estrazione. «Se lo stato non spiega ai cittadini cosa succede, l’opinione pubblica vive di voci. C’era un grande problema di dialogo tra i cittadini e coloro che devono rappresentarli. Inoltre, l’Assemblea nazionale (il parlamento) non svolgeva il suo ruolo di controllo sui governanti tramite le interpellanze sulle questioni fondamentali».

E conferma: «Quindi il colpo di stato è venuto a dare un punto finale, a fermare tutto questo, e ha dato speranza alla popolazione».

Ma oggi la delusione e la disperazione sono già palpabili, perché la situazione, invece di migliorare, è ancora peggiorata.

Chiediamo a Raogo cosa pensa la gente di una transizione – annunciata da parte dei golpisti – di 36 mesi. «Penso che la durata della transizione non sia una preoccupazione della popolazione. La preoccupazione sono le crisi che abbiamo elencato. Alla gente oggi non importa di essere governati da un regime democratico o da un regime di emergenza, non è questo il problema. D’altronde non sono stati serviti bene durante il lungo periodo democratico. La democrazia all’occidentale è un problema di secondo ordine, adesso la questione è la sopravvivenza».

Ovviamente ci sono settori che non sono contenti: «I partiti politici non sono d’accordo, ma cosa hanno ancora da dire? Non hanno portato il benessere della popolazione. Così come certe associazioni, penso a Le Balai citoyens, che hanno cavalcato l’insurrezione del 2014, e i cui membri hanno poi preso soldi dall’estero. Alcuni sono entrati in politica ma sono allo stesso livello degli altri. Tutti loro sono inascoltabili oggi».

La Cedeao, dopo aver sospeso Mali e Guinea a causa dei rispettivi colpi di stato, ha sospeso a fine gennaio anche il Burkina Faso: «La Cedeao non ha più credito agli occhi di nessuno. Da quando siamo in crisi non ha spedito un solo sacco di viveri, né medicine. Solo parole. Nessuno ha più orecchie per ascoltarli».

Dimostranti in Ouagadougou in Burkina Faso. (Photo by Olympia DE MAISMONT / AFP)

Democrazia a rischio?

«La dinamica in generale dei colpi di stato nell’area è inquietante. Iniziano a esserci situazioni stabili di regimi non democratici», ci ha detto il cooperante italiano a Bamako.

Abbiamo chiesto a Enrico Casale, giornalista esperto di Africa e collaboratore di MC, cosa hanno in comune questi eventi. «Da un lato vediamo una grande fragilità delle istituzioni di questi paesi, che faticano a intraprendere la strada per la democrazia. Dall’altro ci sono delle minacce esterne, come l’integralismo islamico che porta a tensioni fortissime dal punto di vista militare (specie per Mali e Burkina), e poi la malavita. Questa ha un peso dalla Guinea fino al Nord Africa per traffici di droga, sigarette, migranti. Va notato che entrambi questi fenomeni si alimentano con il malcontento stesso.

Quest’area sta poi vivendo un forte cambiamento climatico che causa tensioni tra pastori e agricoltori».

E quindi: «Tutto ciò porta a instabilità, in paesi con istituzioni fragili la reazione sono spesso colpi di stato che forniscono soluzioni solo temporanee perché non risolvono nulla o molto poco».

E continua: «Poi c’è un altro elemento, che è l’insofferenza nei confronti della Francia, ex paese colonialista. Questi paesi ne stanno prendendo le distanze, e si buttano tra le braccia di altri attori, come Russia e Cina. E la Francia stessa si sta ritirando».

Abbiamo visto come, nei tre casi esaminati, la popolazione abbia acclamato i colpi di stato.

«Questo perché la fragilità istituzionale si è tradotta in mancanza di sicurezza e incapacità di dare soluzioni ai problemi epocali di questi paesi. Di fronte a una democrazia fragile, la gente preferisce un governo forte. Ma questo è molto rischioso per la tenuta democratica di tutta l’area. Anche a causa delle nuove alleanze, perché Cina e Russia, che hanno i loro interessi, non hanno nessuna attenzione per la democrazia in questi paesi. Quindi queste giunte militari rischiano di durare a lungo».

Casale allarga il discorso al continente: «Più in generale, in Africa, fino a tutti gli anni 2000 eravamo abituati a uno schema semplice, in cui si manteneva una struttura di influenza postcoloniale. Adesso ci sono tanti nuovi protagonisti, quelli citati, ma anche India, Turchia, Vietnam e la struttura delle influenze si è notevolmente complicata».

Marco Bello


Processo Sankara

Il 6 aprile scorso, nell’ambito del processo per l’assassinio di Thomas Sankara e 12 suoi collaboratori (15 ottobre 1987), sono stati condannati all’ergastolo l’ex presidente Blaise Compaoré, il suo addetto alla sicurezza Hyacinthe Kafando (entrambi in contumacia) e il generale Gilbert Diendéré.

Conakry, Guinea, 18 settembre 2021. (Photo by JOHN WESSELS / AFP)

 




Portogallo. Rifugiati come in famiglia


A Cacém (Lisbona), in Portogallo, una comunità di missionari della Consolata, due sacerdoti, un fratello e tre seminaristi, apre le porte a tre giovani profughi africani accogliendoli in casa. Un’esperienza di missione interculturale e interreligiosa, e di famiglia.

È il 26 giugno 2019. Siamo all’aeroporto di Lisbona per dare il benvenuto a Salim e Ismael, 19 e 20 anni, musulmani del Sudan, sbarcati in Italia due mesi fa, e accolti dal Portogallo.

Sguardi indagatori, strette di mano. Chiedo all’interprete di tradurre in arabo queste parole: «È da tempo che vi aspettiamo. Benvenuti. Se vorrete, la nostra comunità sarà la vostra famiglia».

Nella nostra casa, a Cacém, periferia di Lisbona, in questo momento siamo in sette: tre seminaristi tra i ventisette e i trent’anni, uno colombiano, uno keniano, uno tanzaniano, tutti al quarto anno di teologia, poi ci sono fratel Gerardo Secondino, italiano con quindici anni di Mozambico alle spalle, padre Norberto Ribeiro Louro, un portoghese 84enne con una lunga storia missionaria, anche lui in Mozambico, un ospite venticinquenne della Guinea Bissau, studente universitario, e chi scrive.

La nostra casa è un grande spazio che ospita una Caf, «comunità apostolica formativa», cioè un piccolo seminario a dimensione famigliare e missionariamente attivo nel territorio.

Facciamo accoglienza, attività di animazione con gruppi, parrocchie, scout. Nei nostri terreni abbiamo ricavato 80 orti comunitari coltivati da famiglie bisognose della zona. Infine, collaboriamo con altre realtà del sociale.

Quando mi presento a Salim e Ismael, sento che i due giovani ci vengono affidati, e che loro si affidano a noi.

Forse siamo degli incoscienti. Ci stiamo mettendo in un’avventura senza sapere bene dove ci porterà: si troveranno bene questi due giovani con noi? Riusciremo ad accoglierli?

Aprire cuore e casa

L’accoglienza non è un’esperienza nuova per noi, perché fin dall’inizio di questa comunità formativa, nel 2015, la nostra casa è aperta per chi ne avesse bisogno: è stato con noi un giovane senzatetto portoghese con problemi di alcolismo, poi lo studente della Guinea Bissau, da solo in Portogallo, poi altri con altre storie che si sono fermati per tempi più o meno lunghi.

L’idea è che la comunità, già caratterizzata da una grande diversità culturale (come spesso accade nelle case dei Missionari della Consolata), cercando di vivere come una famiglia, si offra temporaneamente come famiglia anche a chi ne ha bisogno per un percorso di recupero, inserimento, autonomia.

La scelta di aprire la casa a Salim e Ismael è, quindi, in linea con l’esperienza di accoglienza già avviata e con lo stile di formazione che vogliamo offrire ai nostri seminaristi: una fraternità autentica e missionaria.

Inoltre, l’apertura ai profughi risponde anche all’appello più volte ripetuto da papa Francesco alle comunità cristiane e religiose perché accolgano nelle loro case i migranti che arrivano.

Salim, Ismael e Bright

L’occasione è venuta quando il Jesuit Refugee Service ci ha cercati per sapere se, come alcuni anni prima si era ipotizzato, la Consolata fosse ancora disponibile a cedere la casa di Cacém per l’accoglienza. Con la nuova comunità arrivata da pochi anni, non potevamo accogliere un grande numero di persone, ma subito abbiamo detto che eravamo aperti a fare qualcosa.

Salim e Ismael, quindi, sono i primi due profughi che accogliamo. Per arrivare da noi hanno fatto un lungo viaggio. Sono passati per il Ciad e la Libia, costretti a lavorare nelle miniere d’oro in condizioni disumane per pagare il debito contratto per il passaggio in macchina ricevuto, hanno attraversato il Mare Mediterraneo su un barcone.

Quando sono partiti dalle loro case, nel Darfur in guerra, avevano 15 anni. Si sono conosciuti in viaggio e sono arrivati a Messina, in Sicilia, cinque anni dopo.

Sedersi a tavola insieme

I primi tempi comunichiamo con Salim e Ismael tramite sguardi, gesti, sorrisi e qualche parola di inglese. Sedersi a tavola con loro due ha qualcosa di misterioso e profondo.

I primi mesi sono caratterizzati dai tentativi di comunicare, dall’attenzione a essere il più possibile accoglienti e a far sentire i nostri ospiti a casa loro, dall’emozione di vivere quella pagina di vangelo che dice: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35), che molte volte abbiamo ascoltato e che ora si concretizza in questo piccolo e coraggioso passo fatto come comunità. La parola di Dio «che opera in noi» (1Ts 2, 13) ha orientato una scelta, è diventata gesto, incontro, volto, presenza.

Scambi interreligiosi

Sin dai primi giorni, nonostante i limiti della comunicazione, i ragazzi s’inseriscono in modo sorprendente nella comunità. Osservano come funzionano le cose in casa e contribuiscono in modo attivo alla vita comunitaria: rispettano gli orari, lavano i piatti e fanno le pulizie con noi. Mentre noi celebriamo l’eucaristia alla sera, loro preparano la tavola per la cena. Presto si crea come una simbiosi tra noi, anche sul piano religioso: la differenza è vissuta con rispetto, naturalezza e curiosità da entrambe le parti. Non è infrequente che ci chiedano spiegazioni sulla nostra fede. Il fatto di essere musulmani in una comunità di religiosi non crea nessuna perplessità: Salim e Ismael sono genuinamente sostenuti dalla loro spiritualità e per loro, che pregano quattro volte al giorno, non è strano parlare di preghiera e vedere che noi ci riuniamo per le nostre celebrazioni. A nostra volta, noi possiamo vedere da vicino come i musulmani vivono il Ramadan, condividere le loro feste.

Poco prima dello scoppio della pandemia, a inizio 2020, arriva nella nostra casa un altro ospite. Si chiama Bright, ha 28 anni, è nigeriano, pentecostale, fuggito dalle persecuzioni religiose.

Bright ci racconta di aver viaggiato per tre anni. Giunge da noi molto provato da ciò che deve aver sofferto in Libia. Ci racconta che è un saldatore e che dei mesi trascorsi a Bari ricorderà sempre la pasta che mangiava tutti i giorni.

Il suo primo discorso alla comunità riunita è un’ispirata preghiera di ringraziamento a Gesù.

Il Giovedì Santo, nel mezzo del lockdown, quando celebriamo la messa in casa, laviamo i piedi ai tre giovani. Il servizio che la nostra comunità sta facendo è fatto alla scuola di Gesù.

Toccare la carne

L’arrivo di Salim, Ismael e Bright, con tutto quello che porta con sé, conferma ancora una volta la verità di quel testo per noi molte volte ispiratore, che troviamo nella parte finale dell’Evangelii Gaudium, quando papa Francesco parla di un rinnovato impulso missionario: «A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo» (EG 270).

Prendersi cura di qualcuno significa diminuire le distanze, accogliere qualcuno in casa vuol dire accettare che diventi parte di noi, lasciare che i suoi problemi diventino anche un po’ i nostri: per questo la vita si complica, ma si complica meravigliosamente, perché da questo incontro ne usciamo tutti più ricchi.

Verso un futuro migliore

Certo che la differenza culturale mette alla prova non poche volte la nostra capacità di ascolto e di dialogo. Non è facile nemmeno capire la sofferenza discreta di chi continua a essere perseguitato dalla preoccupazione per i familiari lontani ancora in pericolo. Accompagniamo con un’apprensione, quasi da genitori, i loro primi colloqui di lavoro.

Sperimentiamo poi anche la gioia del chiarimento e del perdono, della fiducia e dell’amicizia che cresce nelle piccole attenzioni quotidiane. Abbiamo accesso a uno spessore umano che non ci lascerà uguali.

Molte volte papa Francesco ci ha esortati a guardare negli occhi il povero e a toccare la sua mano quando facciamo l’elemosina, indicando così un atteggiamento imprescindibile che deve marcare qualsiasi tipo di solidarietà, perché sia anzitutto attenta alla persona. Abbiamo l’esempio di Gesù, che nei Vangeli molto spesso tocca le persone che hanno bisogno di essere curate, che sempre cerca il contatto.

Ricevendo in casa questi giovani non facciamo l’elemosina: li aiutiamo a realizzare il sogno di un futuro migliore che li ha condotti sino ai margini dell’Europa. Quando li guardo negli occhi vedo futuro: un futuro sognato, che ha radici in un passato di sofferenza, che è stato come una stella che li ha guidati in un viaggio lungo e pieno di pericoli, fino a correre il rischio di morire nelle acque del Mediterraneo.

Come una famiglia

Nell’enciclica Fratelli tutti, il papa ci ricorda che ogni gesto di solidarietà per essere autentico deve nascere dall’amore, chiede il coinvolgimento nella relazione: «L’amore implica dunque qualcosa di più che una serie di azioni benefiche. Le azioni derivano da un’unione che inclina sempre più verso l’altro considerandolo prezioso, degno, gradito e bello, al di là delle apparenze fisiche o morali. L’amore all’altro per quello che è ci spinge a cercare il meglio per la sua vita. Solo coltivando questo modo di relazionarci renderemo possibile l’amicizia sociale che non esclude nessuno e la fraternità aperta a tutti» (FT 94).

Durante il lockdown della prima fase della pandemia, quando la nostra comunità sembra l’arca di Noè, ci rendiamo conto chiaramente di cosa sia questa «amicizia sociale» di cui parla il papa.

In casa siamo in tredici: oltre a noi sei missionari, ai tre giovani profughi e allo studente guineano, c’erano anche un uomo, padre di due figli, divorziato e ospitato temporaneamente in attesa di trovare altra sistemazione, e una coppia di pensionati sardi, bloccati in Portogallo per un’emergenza di salute e per la chiusura delle frontiere.

Mentre tutto fuori si ferma, dentro, in comunità, la vita continua: i turni di cucina, le lezioni di informatica e di portoghese per sostituire quelle sospese fuori, i lavori di manutenzione e pulizia della casa e del parco, persino alcuni momenti di preghiera interreligiosa per chiedere la fine della pandemia. Tutti ci sentiamo e siamo utili e responsabili gli uni degli altri. Anche chi è accolto.

Facendo un esercizio del corso di portoghese, Bright, descrivendo ai compagni il luogo dove vive, sintetizza: «In casa viviamo tutti insieme, come una famiglia».

Guardando la nostra tavola durante i pasti e le persone così diverse che, attorno a essa, prendono posto, spesso con il gusto di stare insieme e di raccontarsi, penso più volte che, in quest’angolo di periferia urbana, stiamo celebrando nel nostro piccolo una liturgia dell’accoglienza dal respiro universale.

Un passo per volta

Il progetto promosso dall’Alto commissariato per le migrazioni del governo portoghese prevede una permanenza dei giovani di un anno e mezzo presso di noi. Un tempo utile per conseguire l’autonomia linguistica e finanziaria. Vista però la difficile situazione causata dalla pandemia e visto che le istituzioni non offrono molte possibilità, in comunità decidiamo di nostra iniziativa di tenere con noi i giovani ancora per sei mesi, per aiutarli a consolidare la loro autonomia.

Salim e Ismael non hanno una formazione scolastica perché sono partiti presto dal loro paese, ma sono molto intelligenti. Salim vorrebbe diventare meccanico. Dopo aver preso la terza media, farà un corso di formazione. Intanto ha trovato un lavoro. Ismael ha il sogno di diventare ingegnere. Deve completare gli studi di base. Nel frattempo, ha iniziato a lavorare come muratore in un’impresa di un nostro amico.

In questo processo ci accorgiamo di come sia importante fare il primo passo: molte istituzioni a cui bussiamo sono immediatamente disponibili ad aiutare in diversi modi: i nostri Laici missionari della Consolata, ad esempio, si mobilitano da subito per molte necessità, e uno di loro assume Bright nella sua piccola impresa di montaggio di pannelli solari. Bright sarà con noi ancora fino alla primavera del 2022.

Le avventure della carità e della missione iniziano sempre con un primo passo fatto con coraggio e amore da qualcuno, al quale poi si uniscono altri per continuare il cammino che spesso si apre in modo imprevisto.

Vivere il vangelo

La domenica in cui salutiamo Salim e Ismael, che ora hanno la possibilità di affittare una stanza, a maggio 2021, viviamo un momento molto toccante: durante il pranzo chiedo che sia proclamato il capitolo 25 del Vangelo di Matteo, quello nel quale Gesù parla del giudizio finale identificandosi con i bisognosi: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare… ero straniero e mi avete accolto…». La lettura è fatta in portoghese e in arabo.

È emozionante ascoltare le parole di Gesù pronunciate in arabo da quei giovani musulmani. Non è difficile per loro riconoscersi nello straniero, solo, con i soli vestiti che ha addosso. E per noi è evidente che quelle parole di Gesù le abbiamo vissute: sentiamo lo stupore per la semplicità del Vangelo e la forza con cui esso trasforma la nostra vita quando proviamo a metterlo in pratica.

In questi due anni, nonostante la religione diversa, accogliendoci gli uni gli altri, abbiamo scritto insieme una pagina di Vangelo e di bene. Il Vangelo è semplice, ed è possibile e bello viverlo, basta aprirgli il cuore e la casa.

Amici, fratelli, figli

Nei loro discorsi di ringraziamento, sinceri e visibilmente commossi, ci dicono di aver ritrovato nella nostra comunità la famiglia che hanno lasciato cinque anni fa, quando sono partiti dal loro paese. Uno di loro cita persino le parole di Gesù, «amatevi gli uni gli altri», affermando di avere vissuto proprio questo. Di essere stato accolto non come un bisognoso, ma come un amico, un fratello, un figlio.

Salim e Ismael, che non conoscevano molto della nostra religione, attraverso la nostra accoglienza, hanno capito chi sono i cristiani.

Non abbiamo accolto i profughi per fare un’attività tra le altre, ma per vivere, noi sacerdoti, insieme al fratello missionario e ai nostri seminaristi in formazione, la vocazione di cristiani e di missionari. L’apertura e l’accoglienza fanno parte dello stile di vita di una comunità missionaria. È un modo di vivere il Vangelo, non tanto preoccupati di testimoniare qualcosa, ma anzitutto desiderosi di vivere autenticamente il nostro essere missionari, di dare senso alla nostra presenza qua dove siamo.

Ermanno Savarino,
Comunità apostolica formativa dei Missionari della Consolata a Cacém, Lisbona, Portogallo


 * Reu: Regione Europa IMC




Accoglienza profughi dall’Ucraina /5


Carissimi amici e benefattori
un saluto a tutti voi

Dopo una pausa dall’ultima comunicazione vi aggiorno sulla situazione che ci vede impegnati tutti insieme ad aiutare coloro che sono colpiti dalla guerra in Ucraina.

Qui a Łomianki come del resto in Polonia siamo passati ormai ad una seconda fase dall’inizio del conflitto inziato quasi due mesi fa e purtroppo non ancora interrotto. Dopo l’ondata di profughi improvvisa e gigantesca che si faceva notare ovunque nel paese, direi che ora siamo passati a una gestione delle migliaia di persone giunte qui. Qualcuno (pochi) ha provato a rientare nel paese ricongiungendo la famiglia in Ucraina; invece, la maggior parte di donne e di bambini che vivono ormai da 2 mesi presso le famiglie o nei centri in cui hanno trovato alloggio, sono ancora qui tra noi.

Se per fortuna non si notano piu le folle di arrivi di donne e bambini alle stazioni dei treni, tuttavia nei centri di assitenza le code giornaliere sono sempre ben visibili, come capita nella parrocchia di Łomianki, dove ogni giorno continuiamo coi volontari a distribuire generi di prima necessità. Permettetemi di ringraziare molti di voi per le generose offerte che ci avete fatto avere, grazie alle quali possiamo quotidianamente comprare e nuovamente riempire gli scaffali del centro di aiuto della parrocchia, che rapidamente si svuotano.

Ringraziamo anche i volontari che da diverse parti del mondo hanno scelto di vivere nella nostra casa per aiutare in diversi modi, tra questi ricordiamo Clara un’infermiera di Torino, Kessie una dottoressa del Sud Africa e Adriano un volontario di origine italiana abitante in Canada.

Se la situazione in Polonia si puo definire in questo momento di gestione, lo stesso non si puo dire nella vicina Ucraina, dove purtroppo come ben sapete il conflitto continua con una cruenza e una violenza raccapricciante. Le notizie che ascoltiamo dai media e ancor piu le storie dei testimoni che incontriamo sono molto tristi. Per questo motivo stiamo sempre piu organizzando i nostri sforzi non solo qui sul posto ma anche inviando aiuti di vario genere in Ucraina soprattuto nelle zone occupate, escluse da ogni rifornimento.

Sono gia 4 i trasporti partiti, (e per grazia arrivati!) nell’Est del paese come nella zona di Charkow dove proseguono i combattimenti. In quei luoghi ogno genere di aiuti e visto come una manna dal cielo, perche il prolungare del conflitto ha ridotti ogni scorta nei magazzini. Un frate francescano mi ha detto che in quella regione dove abita, per fare benzina alla propria auto con l’aiuto di un amico, sono andati a fare rifornimento da un treno abbandonato che aveva ancor del carburante nel serbatoio. Queste perché i benzinai o sono esauriti i sono stati distrutti.

In questi giorni stiamo organizzando altre spedizioni nella regione di Zaporoze esattamente a Energodar dove si trova la centrale atomica piu grande di Europa. La città è stata occupata.   Prevedo questa estate, se le condizioni lo permetteranno, di recarmi in Ucraina.

In questo momento è difficile fare delle previsioni. La situazione è ancora molto confusa e purtroppo non si vedono ancora spiragli per un cessate il fuoco. Una delle poche cose di cui si e sicuri che purtroppo si continuerà a lungo. Oltre a questo, una cosa che vediamo bene è il rischio che una volta terminata la guerra questa stessa continui nei cuori di molte persone che hanno subito violenza e sopprusi.

Per questo continuaimo a pregare per la fine della guerra chiedendo a Dio il dono della pace e continuando a costruiore pace attorno a noi.
Un saluto a tutti

padre Luca Bovio


Le foto sono da Charkow, in Ucraina. Sono le persone beneficiate dagli aiuti che abbiamo inviato.




Oujda, Oltre frontiera


Da poco più di un anno la Consolata ha portato i suoi missionari in Marocco. In una città snodo fondamentale della rotta migratoria. È iniziata una missione complessa, che ha caratteristiche e potenzialità tali da attivare tanti ambiti missionari.

«L’idea nasce dal lavoro che i laici della Consolata (Lmc) di Malaga portano avanti da anni con i migranti», ci racconta Silvio Testa, laico italiano, da una vita trapiantato nella città costiera a Sud della Spagna. Silvio, pur essendo originario di Torino, ha una forte pronuncia spagnola, che rende la sua parlata ancora più calorosa. «Dal 2005 i Lmc, attraverso la loro associazione Uyamaa (che significa famiglia allargata in kiswahili, uyamaa.org, ndr), sono presenti nella Piattaforma di solidarietà con gli immigrati, una rete che si occupa da oltre 20 anni dei migranti nella provincia di Malaga». In quegli anni, i barconi, chiamati «pateras», con il loro carico di vite umane e di sogni, partiti dalle coste africane, arrivavano nei pressi della città e nel suo porto. «Il nostro sguardo – ricorda Silvio – è quindi andato fino all’altro lato del Mediterraneo. Quegli arrivi ci interpellavano: “Cosa possiamo fare?”. Insieme a padre Luis Jiménez Fernández, all’epoca superiore Imc in Spagna, è maturata l’idea di avviare un qualche intervento a Melilla, città di fronte a Malaga, ma sul continente africano».
Melilla, insieme a Ceuta, costituisce una piccola porzione di territorio spagnolo in Africa, fa parte della diocesi di Malaga. Entrambi i territori sono frontiere molto calde tra Africa e Unione europea, che spagnoli e marocchini presidiano, e dove sono presenti alte recinzioni, «muri» tra Sud e Nord. «Volevamo prestare attenzione a quello che stava succedendo da una parte e dall’altra delle frontiera», continua Silvio.

In questa dinamica, nel 2014, Uyamaa ha proposto alla Piattaforma di creare l’Osservatorio frontiera Sud (Osf), un’iniziativa orientata a seguire la situazione dei migranti in transito tra Marocco e Spagna. «Questo impegno ha portato noi Lmc a incontrare altri attori coinvolti nell’appoggio ai migranti sia a Ceuta e Melilla che nelle città del Nord del Marocco, nella diocesi di Tangeri». La comunità di missionari della Consolata di Malaga ha seguito da vicino questi sviluppi coinvolgendo la regione Spagna dell’Istituto.

Intanto l’Imc stava preparando la ristrutturazione che avrebbe portato alla creazione della Regione Europa (Reu), nella quale il tema dei migranti e rifugiati sarebbe diventato a tutti gli effetti la nuova frontiera missionaria.

Le visite

Tra il 2018 e il 2019 un’équipe mista Imc-Lmc, della quale faceva parte anche Silvio, ha compiuto tre viaggi in Marocco, due nella diocesi di Tangeri e uno nella diocesi di Rabat. Durante quei viaggi, l’équipe ha contattato diverse istituzioni ed enti coinvolti nel lavoro con i migranti.

«Durante il terzo viaggio (aprile 2019, ndr), il cardinale Cristóbal López, arcivescovo di Rabat, ci ha proposto di assumere la parrocchia di Oujda, vicino al confine con l’Algeria. Le condizioni erano buone, e sembrava la missione giusta». Silvio ricorda che, nei due viaggi precedenti, molti degli enti contattati, avevano citato Oujda come punto nevralgico di passaggio del flusso di migranti in arrivo dal Sahara, ma anche di quelli espulsi dalle autorità marocchine. «Così ci siamo andati, e quando ho visto la parrocchia e il lavoro, mi sono detto: secondo me è questo il posto giusto. Da quando è stata presa la decisione, le cose sono andate molto in fretta». Silvio era con padre Edwin Osaleh Duyani e padre José Luis Pereyra Quintián, superiore della Spagna.

A Oujda operava un sacerdote diocesano francese, che però doveva rientrare al suo paese. «Abbiamo visto il lavoro che si stava facendo, la frontiera chiusa ufficialmente per problemi diplomatici tra i due paesi, ma attraversata clandestinamente da migranti subsahariani, mentre altri, arrestati in altre zone del paese, venivano portati lì per essere espulsi in Algeria (anche se formalmente non sarebbe lecito)».

La scelta per l’arrivo dell’Imc in Marocco è caduta su padre Edwin, che avrebbe dovuto fare alcuni viaggi con permanenze limitate nel 2020, senza però riuscirci a causa della pandemia.

Il pioniere

«Sono arrivato a Oujda nel novembre del 2020 e ho iniziato a lavorare con il sacerdote francese che mi ha affiancato per diversi mesi», ricorda Edwin, che abbiamo raggiunto telefonicamente a Oujda.

«Da due anni ero in missione a Malaga, e pensavo di starci di più. Non credevo di venire qui subito, come pioniere. Ma alla fine ho capito, perché il lavoro è molto importante».

«Molti migranti vengono qui a chiedere aiuto dopo un viaggio sofferto nel deserto. Ho trovato una realtà nella quale si vive come in famiglia, si cerca di fare le cose insieme, affinché si ritrovi, almeno in minima parte, quell’atmosfera persa durante il viaggio. Questo approccio mi è subito piaciuto».

Edwin non nasconde le difficoltà iniziali, come le due lingue da imparare, francese e arabo (lui è keniano), o lo stupore iniziale dei migranti, nel vedere un prete africano occuparsi di loro, migranti africani: «Abituati a un europeo, all’inizio erano diffidenti, e non volevano che il sacerdote francese andasse via. Ma poco a poco si sono abituati». Edwin è stato poi affiancato da padre Francesco Giuliani e, alla fine di febbraio 2022, è arrivato finalmente anche il congolese padre Patrick Mandondo.

Il lavoro è molto, la struttura di accoglienza è aperta 24 ore su 24: «25 su 24», dice Edwin. Di solito è lui che apre la porta di notte. I locali della parrocchia sono grandi e sono aperti a chi ha bisogno di un riparo, un posto per lavarsi, dormire, mangiare, ma anche ricostruirsi mentalmente. «Stiamo accogliendo mediamente 50-60 persone, ma sovente sono di più. Nel 2021 sono stati 2311. Alcuni si fermano pochi giorni, altri settimane oppure anche mesi».

La salute, prima di tutto

Uno dei problemi maggiori sono le condizioni di salute nelle quali arrivano i migranti.

Ci racconta Silvio: «Tutti i giorni, a tutte le ore, arriva gente con i piedi sfracellati, le ossa rotte, la testa aperta. Devi essere lì ad accogliere queste persone e dare loro delle cure.

Una missione così, è difficile trovare gente che la voglia assumere. È un lavoro massacrante. Il fattore umano è fondamentale. Inoltre l’impegno è molto esigente perché devi avere tante relazioni: con la sanità pubblica, la polizia, le autorità. Fai da mediatore. Non è un classico lavoro da prete».

Ma Edwin è contento e ci spiega come è composta l’équipe di lavoro. «Il progetto va avanti anche grazie alla chiesa protestante evangelica. Siamo due coordinatori, io e un evangelico. C’è un’ottima collaborazione ecumenica. Prestiamo anche i locali della chiesa a questi fratelli cristiani per il loro culto, perché non ne hanno.

Poi ci sono due medici, arrivati come studenti, uno cattolico e uno protestante. Sono molto importanti a causa dei frequenti problemi di salute di chi bussa alla nostra porta. Loro poi, hanno contatti negli ospedali, e si adoperano per far prendere in carico i migranti.

Della équipe fanno inoltre parte due suore spagnole di due differenti congregazioni. Sono incaricate delle donne e delle attività di formazione».

Poi Edwin ci racconta una storia di speranza: «Tra i responsabili dell’accoglienza c’è un ragazzo del Camerun, arrivato come migrante sei anni fa. Dormiva qui fuori. In quel periodo hanno iniziato ad accogliere nei locali della parrocchia, e il prete gli ha chiesto di aiutarlo. Così si è integrato e ora si adopera per gli altri migranti. Ci aiuta moltissimo, perché lui sa riconoscere le varie situazioni. Un ospite ti dice che è appena arrivato dall’Algeria, invece magari arriva da Casablanca o Rabat, oppure vive nel quartiere. Lui capisce tutto, io sto imparando da lui. A volte i migranti, quando arrivano, sono intercettati da una mafia locale. Dicono loro che li aiutano, invece li chiudono in appartamenti, poi li torturano e fanno chiamare loro le famiglie perché mandino soldi per liberarli. Arrivano da noi con brutte ferite. Lui si interessa, e cerca di capire chi è stato».

Dover scegliere

Edwin ci dice che i migranti arrivano numerosi, «non andiamo noi a cercarli, purtroppo dobbiamo selezionare. In alcuni casi diamo un po’ da mangiare e poi devono andare via».

Chi è di turno all’accoglienza deve capire la situazione di chi arriva. Si registrano i dati, le condizioni di salute, le informazioni sul viaggio. Chi è più vulnerabile, stanco o ferito viene subito accolto.

Come detto, molti sono da curare, per cui vengono accompagnati in ospedale. Ma spesso le cure sono molto costose. «In quel caso si deve valutare, perché se curiamo un migrante, togliamo dei soldi all’acquisto di cibo, ma talvolta è necessario. Allora speriamo nella Provvidenza».

E poi ci sono i minori non accompagnati: «A volte è difficile capire: dicono di essere minori e non lo sono, o viceversa, a seconda di cosa vogliono ottenere. Altri danno nomi falsi alla polizia, poi noi li recuperiamo e i dati che abbiamo noi non coincidono.

Aiutiamo i minori a capire meglio il mondo. Arrivano qui persi, non sanno cosa fare, dove vogliono andare. Hanno un sogno, che però è sbagliato. Pensano che in Europa trovi tutto appena arrivi. Noi gli diciamo la verità. Rimangono qualche settimana, qualche mese. Quelli che non sanno leggere e scrivere, li aiutiamo con dei corsi. Cerchiamo anche di contattare le loro famiglie. Sono in tanti, tra i 14 e i 16 anni».

I missionari danno anche la possibilità agli ospiti di frequentare corsi di formazione professionale, a chi fosse interessato (elettricità, meccanica, cucina, ecc.). Inoltre, collaborano con le ambasciate dei vari paesi quando ci sono problemi di
documenti.

«Quando arrivano qui, ci sono per loro tre possibilità: andare in Europa, ma pochissimi riescono; rimanere in Marocco, ma anche ottenere i documenti per lavorare qui è complicato. La terza possibilità è quella di ritornare al proprio paese. Ci sono quelli che vogliono fare lo stesso viaggio a ritroso, ma è complesso. Con diversi di loro iniziamo il processo di rimpatrio con l’Oim (Organizzazione mondiale per le migrazioni, ndr), che può prendere settimane o mesi. In questo tempo i migranti rimangono qui, e facciamo loro dei corsi di formazione».

Edwin ci racconta la storia di uno dei tanti. «È con noi un ragazzo di 15 anni della Sierra Leone, arrivato 5 mesi fa. Il suo sogno era di andare in Europa. Ha un fratello maggiore in Spagna. Ho cercato di dissuaderlo, ma lui ha insistito, e così ho fatto una ricerca per trovare il numero del fratello. Siamo riusciti a telefonargli. Lui gli ha sconsigliato di proseguire, dicendogli di tornare a casa: “Qui le cose non sono come pensi”. Il ragazzo ha iniziato a piangere, dicendo: “Non mi vuole bene”. Io gli ho detto: “Guarda, sono stato in Europa e sta dicendo la verità”. Poi c’era anche una divisione nella famiglia, perché la madre voleva che continuasse. Alla fine, hanno accettato, e ora abbiamo iniziato le pratiche per il rimpatrio con l’Oim».

Le donne che arrivano sono invece rare: «Non si possono fermare da noi, non siamo attrezzati, ma le suore se ne occupano e trovano loro una sistemazione. Poi le seguono e propongono dei corsi di formazione».

Una missione… europea

Questa missione è stata ideata e voluta dal gruppo di padri e laici di Malaga e dipende dalla Regione Europa, anche se si trova in Africa. Edwin, inoltre, è consigliere regionale (ovvero uno dei cinque membri del consiglio che guida i Missionari della Consolata del continente). Gli chiediamo in che modo si sente parte dell’Europa: «Penso sia stato lo Spirito che mi ha spinto a questa decisione. Io creo il legame con la regione, questa missione ne fa parte. Siamo ad gentes, lavoriamo e parliamo con non cristiani. Viviamo la consolazione e parliamo di Gesù, non tanto con le parole, ma con le nostre azioni, con la nostra vita».

La missione ha un legame stretto con la comunità di Malaga. Ora che è più difficile viaggiare, a causa della pandemia, viene organizzato un incontro online ogni due settimane. Vi partecipano i missionari di Oujda e alcuni membri dell’équipe, insieme ai laici e ai padri di Malaga. Ogni incontro riguarda un aspetto specifico del lavoro: sanità, prima accoglienza, formazione, ecc.

Secondo Silvio, questa missione può offrire molti spunti: «A parte le attività in sé, essa si può convertire in un fuoco eccezionale di animazione missionaria. Abbiamo previsto di andare d’estate con un gruppo di giovani. I classici campi di lavoro, per fare qualcosa. Si programma e si preparano incontri con i migranti, che sono anche loro giovani. Si respira veramente il lavoro e la spiritualità missionaria. È una missione di frontiera, in senso fisico e tematico.

Ha un potenziale in altri ambiti che bisogna sfruttare, come quello del dialogo interreligioso e dei diritti umani. Ci sono agganci con il mondo esterno.

Il potenziale di Oujda è che riporta la regione Europa all’essenza della spiritualità missionaria, e questa è un punto per ricominciare molte cose».

Marco Bello

Archivio MC


La voce del cardinale

Missione speciale

Monsignor Cristóbal López Romero, arcivescovo di Rabat (una delle due diocesi del Marocco con Tangeri), è stato nominato cardinale il 5 ottobre 2019 da papa Francesco. Salesiano, spagnolo della regione di Almería, è di una simpatia straripante. Ha scritto questo testo per MC per presentare la missione di Oujda, alla quale tiene molto.

Oujda è la città più orientale del Marocco, la porta dell’Algeria. È pure la porta di entrata in Marocco per migliaia di persone migranti, provenienti da diversi paesi africani, ma tutti con una destinazione comune: l’Europa.

La chiesa di Oujda è la più antica di quelle attualmente presenti nella diocesi di Rabat: fu costruita nei primi anni del protettorato francese (durato dal 1912 al 1956).

In quell’epoca, la comunità cristiana era composta da europei che si stabilivano in Marocco per le opportunità di lavoro che c’erano.

Oggi la piccola comunità cristiana è fatta di studenti universitari subsahariani e di alcune persone di passaggio durante l’avventura migratoria.

Fin dall’inizio di questo fenomeno, la parrocchia si è aperta all’accoglienza di queste persone che arrivano a Oujda sfinite, ferite, in situazione di vulnerabilità, dopo aver attraversato il deserto e la frontiera algerina, in mezzo a difficoltà e pericoli.

Quattro verbi, quattro azioni

La parrocchia di Oujda cerca di mettere in pratica le quattro azioni che papa Francesco propone in relazione a questi fratelli: accogliere, proteggere, promuovere e inserire.

Accogliere e proteggere. Tutte le persone che arrivano sono accolte e ascoltate. Se hanno fame, possono mangiare. Se sono stanche possono riposare. Se sono malate, le si cura. Se sono prese nella rete mafiosa, si fa il possibile per liberarle.

Questo porta, ogni anno, ad accogliere diverse migliaia di persone nei locali della parrocchia, che sono arrivati a ospitare fino a 150 persone contemporaneamente. La permanenza va da alcune ore a diversi mesi, fino a un anno.

Promuovere e inserire. Per i giovani che scoprono la necessità di formarsi prima di fare il salto verso l’Europa oppure di tornare al proprio paese, esiste la possibilità di fare corsi brevi di formazione professionale.

Però la cosa più importante è che a tutti si offre un ambiente di serenità e sicurezza, e un accompagnamento personale che li porta a recuperare la propria dignità, il proprio equilibrio emotivo, e li aiuta a ripensare un progetto di vita, permettendo loro di andare avanti più coscienti e con un più alto grado di libertà. Possiamo dire che queste persone passano a Oujda attraverso un processo di recupero della dignità.

L’inserimento è difficile, perché son pochi che scelgono di fermarsi in Marocco. Però la formazione ricevuta li aiuterà a inserirsi in Europa oppure a reinserirsi nel proprio paese di origine, se decidono di tornare (e sono molti che scelgono questa opzione).

Una missione ecclesiale importante

Quello che la comunità cristiana di Oujda fa in favore delle persone in migrazione è il miglior servizio che la chiesa sta prestando loro in tutta la diocesi. Esso consiste innanzitutto nell’offrire un ambiente famigliare, nel quale le persone si sentano accolte, valorizzate e amate, come requisito per potere aumentare la propria autostima e recuperare la dignità.

È un servizio ecumenico perché lo facciamo in comunione di azione con i cristiani protestanti presenti nella Chiesa evangelica del Marocco.

È un servizio inter congregazionale, perché integra i Missionari della Consolata, e due congregazioni di religiose, le suore del Sagrado Corazon e quelle di Jesus-Maria.

È un servizio interreligioso, perché in esso si coniuga il lavoro di cristiani e musulmani, e si indirizza a qualsiasi persona in necessità, indipendentemente dalla sua religione. E i musulmani sono la maggioranza.

È un servizio integrale perché accompagna la persona, specialmente i giovani e minori non accompagnati, in tutti i suoi bisogni e finché non diventa autonoma e in grado di proseguire da sola.

Ho affidato la responsabilità della direzione del centro di accoglienza e della parrocchia di Oujda ai Missionari della Consolata, per dare una continuità istituzionale, ma soprattutto perché il carisma della Consolazione è di pertinenza e necessità estrema per le persone in migrazione.

Inoltre, una comunità ha le caratteristiche giuste per creare il clima di famiglia.

Segni e testimoni

Essere vescovo, essere cristiano in Marocco, presuppone e implica convertirsi in segno e testimone dell’amore che Dio ha per l’umanità. Quello che facciamo ha un valore relativo, l’importante è quello che siamo e che viviamo, la testimonianza che diamo.

San Giovanni Paolo II, in una brevissima visita a Casablanca, disse: «Le opere che fate qui, continueranno o non continueranno, però quello che certamente rimarrà è l’amore con il quale fate ciò che fate».
L’amore non passa mai, in verità, ed è la vocazione comune di tutti i cristiani, ovunque sia e qualunque cosa facciano.

La nostra sfida principale in questo ambiente nel quale viviamo, di maggioranza assoluta musulmana, è essere segno e testimoni della tenerezza e della misericordia di Dio; essere parola vivente e convertirci nel quinto Vangelo, l’unico che i musulmani potranno leggere: essere apostoli della bontà, affinché, come diceva (il beato, presto santo, ndr) Charles de Foucauld, chi ci conosce possa pensare o dire: «Se il discepolo è così, come sarà il maestro».

cardinale Cristóbal López Romero
arcivescovo di Rabat
(liberamente tradotto dallo spagnolo) 

Nota

Il cristianesimo (cattolici e protestanti) in Marocco è una minoranza, valutato in circa 1% della popolazione, meno di 40mila. I fedeli sono per lo più stranieri.

mde




Madagascar,

La lunga strada della missione


Immersi in paesaggi mozzafiato ma con enormi problemi di viabilità, la missione si fa anche con le suole delle scarpe. La gente è accogliente. I cristiani pochissimi e giovani. La voce dell’esperienza diretta.

Le meraviglie di Dio sono enormi. In modo straordinario hanno rafforzato la nostra piccola fede, reso facili le nostre lotte quotidiane e ci hanno dato un’incredibile speranza di guardare al futuro. Hanno facilitato i nostri viaggi, l’attraversamento di villaggi, fiumi, torrenti e foreste, salendo e scendendo le ripide colline del comune di Beandrarezona. Hanno fatto accadere l’inatteso e l’impossibile.

Ci troviamo nella regione di Sofia, nella provincia di Mahajanga, nel distretto di Bealalana. La regione di Sofia ha una superficie di 52.504 chilometri quadrati (come due grosse regioni italiane), con una popolazione approssimativa di 985mila abitanti. Il municipio di Beandrarezona è costituito da tre comuni rurali con una popolazione di 51.170 persone di cui 716 cattolici. Il novanta per cento dei cattolici sono giovani e bambini.

Il gruppo etnico dominante è quello degli Tsimihety, che sono prevalentemente agricoltori e coltivano riso, tabacco, arachidi, fagioli, mais. L’agricoltura viene effettuata su piccola scala utilizzando metodi tradizionali. Questo comune è uno dei luoghi più poveri della regione di Sofia. La povertà è sentita più duramente tra i giovani che sono la maggioranza. Non esistono reti stradali che favoriscano la circolazione delle persone e dei prodotti agricoli verso i mercati locali.

Comunità lontane

Il programma di evangelizzazione casa per casa e di visita dei villaggi è in corso di realizzazione. È una buona esperienza incontrare persone nel loro ambiente quotidiano. L’accoglienza è finora positiva e la gente apprezza queste visite. Questa attività richiede resistenza e determinazione. Bisogna infatti camminare attraverso sentieri, fiumi e terreni collinari. La maggior parte delle persone sono amichevoli e disponibili.

Ci sono quarantacinque villaggi lontani l’uno dall’altro tra i 20 e i 90 chilometri. Non ci sono strade, quindi, per lo più, facciamo queste grandi distanze a piedi. La nostra comunità cristiana più lontana è a 90 chilometri dalla sede di Beandrarezona: si tratta di una camminata di due giorni. Abbiamo anche visitato per la prima volta nuovi villaggi nell’area della nostra missione. È stata un’avventura perché alcuni non erano mai stati visitati da nessun sacerdote, mentre altri villaggi avevano visto un missionario solo prima del nostro arrivo nel 2018, quando ancora c’erano i frati cappuccini. Il numero di cristiani in una cappella esterna varia da 5 a 30. Tuttavia, ci sono villaggi dove non c’è un solo cattolico. Ogni cappella ha un catechista. Questi sono uomini di buona volontà, scelti dai cristiani del luogo per condurre le celebrazioni domenicali, pianificare e organizzare preghiere, come il rosario, e infine prendersi cura del pezzo di terreno dove sorge la cappella.

Per la scelta dei catechisti sono stati presi in considerazione i seguenti elementi: in primo luogo devono essere persone con una buona reputazione nella comunità e, in secondo luogo, devono saper leggere e scrivere. Questi catechisti non hanno alcuna formazione catechetica e, in casi estremi, alcuni di loro non sono neppure battezzati. Può sembrare strano, ma questa è la nostra realtà. I catechisti che devono ancora essere battezzati sono aiutati da cristiani anziani a formare i catecumeni, mentre si sottopongono essi stessi a formazione.

Diverse cappelle esterne hanno strutture semi permanenti che sono in uno stato fatiscente, mentre altre usano come luogo di culto e riunione delle strutture di fortuna messe a disposizione da cristiani nelle loro fattorie. La parrocchia, per rendere più stabili le singole comunità dovrà acquistare appezzamenti di terra in diversi villaggi: non avere un luogo di culto permanente è infatti destabilizzante.

Generalmente, ci sono pochissimi adulti nelle comunità cristiane, e questo rende molto difficile l’autofinanziamento allo scopo di acquistare terreni.

Bisogno di formazione

La formazione delle comunità cristiane è in corso. Il nostro obiettivo è quello di creare un senso di appartenenza e partecipazione alla parrocchia. I catechisti stanno seguendo sessioni di formazione che permettono loro di svolgere meglio i loro compiti. Sono stati esposti diversi temi, come la vocazione di un catechista, il suo ruolo in una comunità cristiana e nella parrocchia, l’importanza della preghiera nella vita cristiana. Inoltre, concetti semplici di liturgia come l’anno liturgico, i colori e i diversi momenti e gesti della messa, riflessioni sulle letture domenicali, e così via. Gli incontri sono programmati ogni tre mesi e durano quattro giorni, e si svolgono nella sede centrale. A causa delle lunghe distanze, i catechisti arrivano il martedì e partono la domenica mattina dopo la messa. Ogni catechista condivide le sue esperienze e il lavoro svolto negli ultimi tre mesi.

Abbiamo attivato i programmi di formazione per i bambini e i giovani, che consistono in seminari, sport, istruzioni catechetiche. Il fatto che la maggioranza dei cristiani siano giovani è un buon segno per un futuro luminoso del distretto missionario.

La maggior parte dei genitori non sono cristiani, ma non hanno problemi a vedere i propri figli partecipare alle attività della chiesa, frequentare le lezioni di catechismo e ricevere i sacramenti. Tuttavia, non riconoscono la domenica come un giorno di culto e dedicato alle attività della chiesa, e spesso costringono i loro figli a lavorare nei campi, rendendo difficile la realizzazione delle attività durante i fine settimana. Non abbiamo strutture fisiche dove organizzare alcune di queste attività, soprattutto durante la stagione delle piogge, e questo ostacola il buon funzionamento dei programmi di formazione.

Inculturazione

Abbiamo celebrato la fahamadiana (esumazione) dei morti. Perché l’idea di vita eterna per i Malgasci è collegata alla tomba ancestrale, ovvero passato e futuro convergono nella tomba di famiglia. L’astrologo di famiglia determina i giorni di esumazione. Le ossa vengono riassemblate nella loro posizione originale e poi avvolte in nuovi sudari. I discendenti sono invitati a ballare con gli antenati. È una grande festa per la famiglia e l’intero villaggio.

Le piaghe da combattere

La povertà e l’analfabetismo sono i nemici più pericolosi della popolazione di Beandrarezona e  si fanno sentire a tutti i livelli della vita. In questo contesto, i più a rischio sono le bambine e i bambini, perché non possono soddisfare i bisogni di base. Le ragazze sono forzate a mettersi in gioco in rapporti sessuali con adulti, i quali promettono loro un futuro migliore che, alla fine, è solo un miraggio. Queste ragazze spesso rimangono incinte e diventano madri in tenera età.

Per il ragazzo l’educazione non è una priorità. L’accento è posto sul numero di figli che si sono generati, sul numero di mucche e risaie acquisite come proprietà. In molti casi, il bambino viene coinvolto in piccoli crimini e nell’abuso di alcol e droghe (come il rongony). Così povertà e analfabetismo ostacolano lo sviluppo di questa comunità.

Diverse iniziative sono state prese, anche se il percorso è ancora molto lungo e accidentato. Alcuni obiettivi sono stati raggiunti e si lavora per arrivare a molti altri.

Questo viaggio missionario richiede coraggio, determinazione e sostegno da parte di ognuno di noi. Ringraziamo Dio per il suo straordinario potere e la sua opera nella nostra vita. Non possiamo dimenticare la sua bontà e le sue benedizioni su di noi durante questi tempi di Covid-19. Ancora una volta, la nostra gratitudine va a colui che ci sta dando speranza in questi tempi difficili rafforzandoci per i suoi scopi.

 Kizito Mukalazi


Archivio MC


 




Mozambico. La jihad dei poveri


La frustrazione per i proventi del petrolio mai arrivati, l’infiltrazione di imam radicali stranieri, l’afflusso di armi. Tutti ingredienti che hanno sviluppato una presenza islamista. Mentre il governo centrale, che aveva sottovalutato il problema, chiede aiuto.

La guerra continua. Sottotraccia, ma continua. Cabo Delgado, in Mozambico, molto probabilmente, non avrà pace neppure nei prossimi mesi. Quel senso di frustrazione e di marginalizzazione che hanno portato i giovani locali a sollevarsi contro il governo centrale di Maputo, spinti anche dalla predicazione di imam radicali, ha creato una miscela esplosiva che non è stata ancora neutralizzata. Neanche per effetto dell’intervento delle forze armate straniere, in particolare quelle ruandesi.

Cabo Delgado, uno sfollato si costruisce un riparo di fortuna usando tecniche tradizionali. Foto Luca. S. Pistone.

La genesi della crisi

La crisi a Cabo Delgado scoppia nell’ottobre del 2017. È in quel periodo che la provincia più povera e periferica del Mozambico inizia a conoscere i primi attacchi da parte di gruppi di islamisti radicali. Si tratta di azioni limitate, messe in atto da miliziani armati con machete e coltelli da caccia, che si spostano con mezzi di fortuna (motorini, vecchie auto, pulmini scassati). Prendono di mira villaggi isolati e sterminano la popolazione senza mostrare alcuna pietà. Professano un islam radicale e l’adesione allo Stato islamico, anche se non è mai stato confermato un rapporto organico che andasse al di là di una formale adesione da parte dell’Isis alle rivendicazioni dei miliziani mozambicani. In questi ultimi, però, c’è anche una volontà di rivalsa di carattere etnico. La maggior parte sono Kimwani e Amakhuwa e la loro lotta è indirizzata contro la minoranza Makonde (economicamente) dominante e filogovernativa.

Nampula. Giovane donna sfollata alla registrazione nel campo profughi. Luca S. Pistone

I motivi

Ma perché si ribellano? Che cosa li spinge a rivoltarsi contro le autorità centrali? L’esplosione delle violenze, secondo alcuni analisti internazionali, è legata soprattutto alla scoperta di grandi giacimenti offshore di gas fatta da società di idrocarburi occidentali, ad Afungi, all’estremo Nord della costa mozambicana, vicino alla città e al porto di Palma. «Gli investimenti nei giacimenti offshore del Nord del Mozambico – spiega Emilia Columbo, ricercatrice del Center for strategic & international studies (Csis), think tank di Washington (Usa), esperta delle dinamiche politiche dell’Africa australe – hanno creato enormi aspettative nelle popolazioni locali. Esse speravano che, finalmente, la loro vita misera potesse cambiare, ma non è stato così». Gran parte dei proventi dell’industria petrolifera e mineraria sono volati verso Sud e hanno arricchito le élite di Maputo invece di trasformarsi in stanziamenti per costruire infrastrutture e creare occupazione e ricchezza nel Nord. «La miseria è stata la vera spinta di questo movimento – continua Emilia Columbo -. Il detonatore che ha fatto esplodere la bomba è stato l’integralismo islamico predicato da imam venuti da fuori o da mozambicani che sono rientrati in patria dopo essersi radicalizzati all’estero. Nello Shabab, così si chiama il movimento (da non confondere con al Sahabab della Somalia, ndr), ai locali si sono aggiunti altri giovani provenienti dall’estero: tanzaniani, burundesi, ugandesi, ecc.».

Due giovani sfollate a Nampula. Foto Luca S. Pistone.

Salto di qualità

Gli attacchi, nel corso degli anni, sono diventati sempre più frequenti e sempre più efferati. Vere e proprie stragi nei villaggi che hanno portato a migliaia di morti (nessuno sa quante siano le vittime). Per mettersi al sicuro, la gente a iniziato a fuggire. Dei circa 1,5 milioni di abitanti di Cabo Delgado, 800mila hanno cercato rifugio nelle province vicine: Nampula, Niassa e Zambezia, o addirittura in Tanzania. In molte città delle province confinanti è scattata una gara di solidarietà nei confronti degli sfollati. Molte famiglie hanno ospitato nelle proprie case i rifugiati, offrendo loro aiuto materiale e sostegno umano. Chi è fuggito, secondo le testimonianze dei militari, non solo ha perso tutto, ma è spaventato.

La Chiesa cattolica si è mobilitata in molte zone per portare aiuti: vestiti, cibo, acqua, medicinali. Padre Fonseca Kwiriwi, religioso passionista, responsabile della comunicazione della diocesi di Pemba, capoluogo della regione, spiega, allagenzia Fides, l’azione solidale dei cristiani: «La Chiesa è sempre stata presente, fin dall’inizio della guerra, fornendo aiuti di ogni genere per contenere la crisi umanitaria. Abbiamo provveduto a cibo, sostenuto costruzioni di case e abbiamo istituito un centro di ascolto psicosociale permanente. In ogni caso, noi siamo in mezzo alla gente e collaboriamo con varie organizzazioni internazionali umanitarie per il sostentamento della popolazione e il raggiungimento della pace».

La tragica situazione è messa in risalto da una nota dei leader religiosi della provincia di Cabo Delgado, nel Mozambico settentrionale, resa nota il 5 gennaio scorso. «La nostra provincia attraversa una profonda crisi umanitaria causata dalla violenza terroristica, mentre si assiste alla regressione degli indicatori di sviluppo integrale, e aggravata anche dalle conseguenze delle misure restrittive di prevenzione contro la pandemia», hanno dichiarato.

Nampula, campo di sfollati. Pesa dei bambini per determinare lo stato di nutrizione. Foto Luca S. Pistone.

La reazione militare

I miliziani islamisti, in origine male organizzati e male armati, sono riusciti progressivamente ad acquisire mezzi e armi moderne. Le azioni sono diventate sempre più ardite. Come quando sono riusciti a occupare Pemba e Mocimboa da Praia cacciando le forze armate e la polizia.

Il loro integralismo inizia anche a fare presa su una società che ha sempre professato un islam sufi, dialogante, aperto al confronto con altre fedi e altre culture. «Shabab ha iniziato a indottrinare anche donne e perfino minori – continua Emilia Columbo – che hanno creato una rete di informatori diventata una sorta di struttura di intelligence per i ribelli. Lo Stato islamico ha approvato l’affiliazione della formazione. Non ci sono però evidenze che, oltre agli appelli propagandistici, abbia fornito un aiuto materiale ai miliziani».

Maputo ha inizialmente sottovalutato questo fenomeno, derubricandolo come criminalità comune. Ha inviato, quindi, giovani di leva delle province meridionali. Ragazzi poco addestrati che si sono trovati in un ambiente a loro estraneo culturalmente e linguisticamente e, soprattutto, a loro ostile. I miliziani di Shabab hanno avuto gioco facile con loro e i reparti dell’esercito di Maputo sono stati sopraffatti.

«Il governo – continua l’analista -, considerava questo movimento trascurabile. Operava in un luogo remoto, lontano dalla capitale e riguardava piccole città e popolazioni poverissime. Ma si sbagliava». La forza sempre maggiore dei miliziani lo ha convinto a inviare rinforzi militari al Nord. L’intervento dei mercenari russi (Gruppo Wagner) e sudafricani a fianco delle truppe mozambicane non è però servito a molto. Hanno fornito supporto aereo con gli elicotteri senza però offrire un contributo effettivo sul territorio.

Donne in un campo di sfollati a Cabo delgado. Foto Luca S. Pistone.

Arrivano i Ruandesi

La svolta si è registrata con l’arrivo di un contingente ruandese. Bene addestrati, abituati da anni a far fronte a varie guerriglie (soprattutto ai confini con la Rd Congo), i soldati di Kigali sono riusciti a contenere le azioni dei miliziani jihadisti. «Le cose sono cambiate con l’arrivo di militari ruandesi – conferma Emilia Columbo -. Hanno fornito un supporto nella formazione dei mozambicani e hanno combattuto sul terreno. Insieme alle truppe della Sadc, l’organizzazione degli Stati dell’Africa australe, sono riusciti a cacciare i ribelli dalla costa e dalle principali città. I miliziani jihadisti si sono dispersi, ma non sono stati sconfitti».

Le multinazionali petrolifere sono tornate nella provincia settentrionale dopo la sospensione delle attività. Secondo quanto riporta l’agenzia Ansa, TotalEnergies ha anche aperto un ufficio informazioni che ha lo scopo di facilitare la comunicazione tra le diverse compagnie interessate al progetto di esplorazione del gas naturale liquefatto (Gnl) nel bacino di Rovuma.

Cabo Delgado. Distribuzione di cibio a bimbi sfollati. Foto Luca S. Pistone.

La guerra continua

La guerra però prosegue. È un conflitto a bassa intensità, meno diffuso sul territorio, ma comunque cruento. Il comando militare ruandese ha confermato che i ribelli caduti non sono stati più di un centinaio, e pochi sono stati anche quelli catturati. Ciò significa che gli insorti sono ancora in gran parte operativi, nascosti in alcune aree protette dalla boscaglia all’interno di Cabo Delgado. «In generale la situazione a Cabo Delgado e nelle aree liberate si mostra tranquilla – conclude padre Fonseca Kwiriwi -. Purtroppo, però, gli attacchi non sono finiti, continuano in particolare nei villaggi più piccoli, nelle aree con poca popolazione.
I villaggi più piccoli sono vittime di ripetuti agguati e la gente vive ancora nel terrore. Ho visitato di recente alcune delle aree occupate dai terroristi, come Mocimboa da Praia e alcune aree nella zona di Mbaú. Si tratta di zone che erano sotto il totale controllo dei terroristi. Questi due territori in particolare sono ancora considerati di difficile accesso e solo i militari possono entrarci. Lì è ancora impossibile tornare a vivere».

Enrico Casale

Archivio MC
Mozambico. Jihad in Africa: nuovo fronte, Enrico Casale, agosto-settembre 2020.

Cabo Delgado. Profughi accampati in un palazzetto dello sport. Foto Luca S. Pistone.




Dalla schiavitù al Cristo negro


I conquistatori portarono nelle Americhe gli africani e il cattolicesimo. Che tipo di relazione s’instaurò tra gli schiavi neri e la religione? Come si arrivò alle effigi nere venerate in molti paesi latinoamericani?

La storia degli schiavi africani a Panama, le loro lotte e la loro presenza sul territorio sono vincolate in modo profondo e simbolico all’identità di tutta la regione. Nel XVI secolo gli schiavi insorti Felipillo e Bayano liberarono centinaia di loro compagni dal giogo spagnolo trasformando l’istmo panamense in un territorio della resistenza contro l’oppressione degli uomini su altri uomini. Una geografia articolata che passa dal Corridoio del Darien, la selva che oggi unisce Panama con la Colombia (dove appunto operarono Bayano e Felipillo), a quella che viene chiamata «Costa Arriba» (nell’attuale provincia di Colón), dove successivamente si svilupparono i principali insediamenti di afrodiscendenti.  Proprio nella zona di Costa Arriba, nel 1502, arrive Cristoforo Colombo durante il suo quarto viaggio in quelle che ancora non si chiamavano Americhe. La città di Nombre de Dios venne fondata nel 1510 da Diego de Nicuesa ed è considerata il più antico insediamento, ancora abitato, costituito nell’America continentale dagli europei. La cittadina di Nombre de Dios ebbe fortune alterne: abbandonata e ripopolata nel 1519, saccheggiata e incendiata dai pirati nel 1572 e nel 1596. Dopo l’incendio del 1596 ad opera del corsaro inglese Francis Drake, la popolazione venne spostata nella vicina Portobelo, in una zona più salubre e fortificabile, un luogo nel quale si sarebbe concentrata la storia e la tradizione afrodiscendente. In tutta la provincia di Colón troviamo comunità afropanamensi, ma senza dubbio Portobelo rappresenta il loro centro identitario più forte. All’epoca non era un luogo di permanenza della popolazione nera, ma era sicuramente uno dei nodi commerciali di transito più importanti. Con il tempo però si formarono delle comunità afrodiscendenti stabili che si organizzarono nei quartieri di Guinea e Malambo, veri e propri conglomerati di tradizione africana e sincretica.

È proprio in questa cittadina affacciata sui Caraibi che si trova un simbolo di pellegrinaggio e ragione identitaria del cattolicesimo nero (e non solo) a Panama: il Cristo negro di Portobelo. Un’effige che ci offre la possibilità di esplorare una pagina importante del passato e del presente afrodiscendente della regione latinoamericana e caraibica. Si tratta, infatti, di una storia che affonda le radici nel tempo della colonia spagnola e che, se da un lato è avvolta dal mito, dall’altro rispecchia una relazione controversa delle comunità afrolatine e afrocaraibiche con il credo cattolico.

Fortezza spagnola con cannoni a Portobelo, porto naturale che fu di grande rilevanza durante l’epoca della Conquista. Foto Jefe LeGran.

21 ottobre 1658: l’arrivo

Non c’è una verità certa sull’orgine di questa effige sacra. Esistono, infatti, almeno tre versioni diverse su come e perché il Cristo negro sia arrivato a Portobelo: ad ogni modo tutte coincidono sulla data, cioè il 21 di ottobre del 1658.

La prima versione, conosciuta come «la cassa e la tempesta»,  parla di una nave spagnola che sulla rotta per Cartagena de Indias (Colombia) fece scalo a Portobelo. Ogni volta che l’equipaggio si preparava a salpare per raggiungere la destinazione finale si alzava un forte vento e la tempesta li obbligava a ritornare al porto. Al quinto tentativo la nave subì notevoli danni e sfiorò per poco un drammatico naufragio. Fu a quel punto che per rendere la nave meno pesante e quindi più maneggevole, l’equipaggio gettò in mare parte del carico riuscendo a riprendere la navigazione. Tra gli oggetti che vennero lanciati fuori bordo c’era una cassa che venne ritrovata poco dopo da alcuni pescatori del posto. Quando questi la aprirono, con grande sorpresa videro che conteneva l’immagine del Nazareno: un Cristo negro che venne subito portato al villaggio e collocato nella chiesa.

La seconda versione, conosciuta come «la cassa e l’epidemia» parte dal punto nel quale dei pescatori incontrarono una cassa sulla spiaggia. Aprendola, scoprirono al suo interno il Cristo negro. Interpretarono il fatto come un segno, giacché la zona era afflitta in quel momento da una terribile epidemia di colera (o di vaiolo, secondo le versioni). L’effige venne collocata nella chiesa di Portobelo e – come narra la leggenda – quasi immediatamente l’epidemia cessò e i malati furono miracolosamente sanati.

La terza versione parla di un errore, ed è infatti conosciuta come «lo scambio di effigi». Secondo questo racconto, il Cristo negro arrivato a Portobelo era inizialmente destinato alla chiesa di Taboga, una piccola isola nel pacifico di fronte alla costa della città di Panama. Quella comunità aveva infatti commissionato a un artigiano spagnolo un’immagine di Gesù Nazareno. Allo stesso artigiano era stata però commissionata anche una statua di San Pietro proprio da parte della comunità di Portobelo. Durante il viaggio dalla Spagna ci fu un errore di consegna e così, mentre la chiesa di Taboga ricevette l’effige di San Pietro, quella di Portobelo ricevette il Gesù Nazareno. La leggenda racconta che tutti gli sforzi fatti per rimediare all’errore furono infruttuosi: infatti tutte le volte che si pianificava lo spostamento del Cristo negro da Portobelo succedeva qualcosa che lo impediva. A quel punto la comunità afrodiscendente del luogo interpretò gli eventi come un segnale divino, decidendo che Portobelo sarebbe stata la nuova casa del Cristo negro. Parte di questo racconto è fortemente radicato nella tradizione orale, tanto che nel mese di ottobre, quando si canta e si balla di fronte al simbolo della città, le persone recitano: «En Portobelo te quedaste, como signo de tu amor» (A Portobelo sei rimasto, come segno del tuo amore).

Ogni anno a partire dal 15 di ottobre si assiste a una manifestazione di fede e devozione che supera di molto i confini di Portobelo e della provincia di Colón. Sono infatti migliaia le persone che da tutta Panama fanno lunghi pellegrinaggi per andare a incontrare il Cristo nero nella settimana della sua celebrazione che ha il suo culmine il 21 di ottobre. Processioni fatte a piedi o in ginocchio, rituali sincretici e celebrazioni festose che vedono nel colore viola il protagonista delle cerimonie. Ma la devozione del Cristo negro di Portobelo ha superato anche le frontiere di Panama, tanto che pure Ismael Rivera, l’indimenticato cantante portoricano, ha scritto una canzone in suo onore: «El Nazareno».

Il volto del Cristo nero nella chiesa di San Felipe a Portobelo, Panama. Foto Adam Jones.

La Chiesa cattolica e la schiavitù

Nel periodo della schiavitù in America Latina e nei Caraibi, la Chiesa cattolica ha difeso il potere delle persone bianche, usando modi formali (le leggi) e informali per garantire in primis agli europei cattolici le migliori posizioni, titoli e altri privilegi. Ai neri, ai meticci e agli indigeni è stato impedito di occupare incarichi di responsabilità all’interno delle società, con la motivazione che non avevano tradizione cattolica o titoli nobiliari che garantissero la loro capacità ad adempiere a tali funzioni. Gli argomenti utilizzati erano di natura teologica e sociale. Si affermava che questi gruppi appartenessero a una razza impura e che il loro sangue fosse macchiato e irredimibile. È da qui che prende origine l’espressione della «razza infetta», che appare in molti documenti dell’epoca coloniale. Non si trattava però solo di idee, ma di qualcosa di strutturale nella pratica quotidiana. Per ricoprire incarichi ufficiali il candidato doveva dimostrare di avere il «sangue pulito», cioè di non avere ascendenti appartenenti alle «razze» impure. Solo in quel caso sarebbe stato considerato una persona degna di fiducia, buona, virtuosa, timorota di Dio e onorata. La tradizione cattolica occupava uno dei posti più alti nella scala valoriale della società dominante. Pertanto, l’afrodiscendete poteva scegliere tra due sole alternative: o adattarsi ai valori della cultura bianca ed europea di impronta cattolica (assimilando usi e costumi di una cultura che non gli apparteneva) o recuperare le proprie radici religiose afro, che mantenevano le tradizioni nei culti e nelle celebrazioni principalmente animiste. Adeguandosi al modello europeo, il nero, divenuto cattolico, cessava dunque di vivere tutta la ricchezza culturale ereditata dall’Africa, dimenticando le questioni razziali e sposando una narrazione che promuoveva e giustificava la schiavitù. Tutto questo basato sul silenzio complice e interessato della Chiesa nella questione razziale e sociale. L’evangelizzazione ha necessariamente attraversato un processo di occidentalizzazione, promuovendo, per diventare più praticabile, il deterioramento delle tradizioni ancestrali nella popolazione afrodiscendente. Da qui dobbiamo partire se vogliamo capire come il cristianesimo si è rapportato con le comunità di schiavi africani e afrodiscendenti in America Latina e nei Caraibi.

Il sistema coloniale operava l’evangelizzazione forzata delle comunità, proibiva i riti tradizionali animisti (satanizzandoli) e usava la punizione corporale per quelle pratiche che venivano etichettate come eretiche. In questo contesto, la popolazione afrodiscendente, per la maggior parte schiavi, ha dovuto adattare la propria religiosità. L’ha fatto nascondendo la ritualità del suo credo sotto immagini di santi cristiani creando in tal modo una forma di religiosità sincretista.

Tra i santi neri venerati nella regione ricordiamo San Benedetto da Palermo, Santa Efigenia de Etiopia e San Martín de Porres (peruviano e unico caso di santo afrodiscendente autoctono). Caso particolare è poi quello di San Baltasar o Santo Cambá, molto amato in Argentina e Uruguay, ma il cui culto è praticato in modo paraliturgico, poiché per la Chiesa cattolica, San Baltasar non è canonizzato.

Una bella panoramica del porto naturale di Portobelo. Foto Ben Beiske.

Sincretismo e praticità

Oltre al culto dei santi, esistono culti legati al Cristo nero e alla Vergine nera. Se, da un lato, nel caso della Vergine, non possiamo escludere elementi sincretici di identificazione di Maria con divinità femminili amerinde o africane come Pacha mama o Yemayá, dall’altro la spiegazione comunemente accettata riguarda semplicemente il metodo di produzione delle immagini sacre. Il motivo di questa tonalità scura, infatti, è molto semplice: nel mondo medievale la maggior parte delle immagini di culto erano realizzate in legno, un materiale igroscopico che subiva notevoli variazioni con l’umidità ed era anche facile preda di funghi e tarli o termiti. Per questo gli scultori cercavano un modo per renderle il più possibile resistenti e inalterabili. Nella maggior parte dei casi lo fecero con uno strato di bitume che le proteggesse da umidità e insetti. Gli artigiani, quindi, dopo aver intagliato l’effige sacra in un legno comune (noce, pioppo, o cipresso), la ricoprivano con bitume o altre sostanze protettive di colore scuro. A quel punto, si dipingeva l’immagine conferendo il colore appropriato alla pelle e ai vestiti. Più tardi, nel corso dei secoli, quel colore è andato via via scomparendo, portando in superficie il colore del bitume.

La Vergine nera

Il Cristo nero di Portobelo è dunque in buona compagnia giacché sono decine le immagini della Vergine nera venerate in America Latina e nei Caraibi: Virgen del Valle, a Catamarca, Argentina; Nuestra Señora Aparecida, in Brasile; Nuestra Señora de los Ángeles (la Negrita), a Cartago, Costa Rica; Nuestra Señora de la Monserrate, a Hormigueros, Porto Rico; Virgen de Regla, a L’Avana, Cuba; Nuestra Señora de Itati, a Corrientes, Argentina; la Virgen Negra de los Ángeles de Atocha, a Montalbán, Venezuela.

La Virgen de Guadalupe in Messico è colei che ha originato il culto mariano più diffuso nelle Americhe. È riconosciuta dalla Chiesa cattolica come la «patrona d’America» ed è chiamata colloquialmente La Morenita. In realtà questo aggettivo che dovrebbe far riferimento al tono della sua pelle, non riguarda l’immagine che si trova in Messico, ma deve la sua origine alla somiglianza di questa Vergine con quella del Monastero reale di Santa Maria di Guadalupe, nella provincia di Cáceres (Extremadura, Spagna), conosciuta in questo caso come la Vergine Nera o Nostra Signora di Guadalupe.

Diego Battistessa

Dipinto dell’epoca mostra una scena di schiavitù ad opera dei conquistatori spagnoli


Secolo XVI / Gli schiavi africani fuggiaschi

La lotta dei «cimarrones»

Nella Panama della colonia spagnola il fenomeno del cimarronaje («darsi alla macchia», da «cimarra», boscaglia) iniziò fin dai primi decenni del 1500, proprio con l’arrivo dall’Africa dei primi «carichi» di forza lavoro schiavizzata. Gli schiavi vennero portati nell’istmo per svolgere diversi lavori: uno dei principali era la pesca delle perle. Un’attività che, al pari della vita delle miniere d’oro e argento, non solo era molto dura ma anche molto pericolosa: decine, infatti, furono gli africani morti per annegamento, per embolie polmonari o vittime di attacchi di verdesca (o squalo azzurro). A fronte di questa situazione iniziarono le fughe verso l’interno e verso la giungla del Darién. I cimarrones però non si nascondevano dagli spagnoli, li affrontavano in campo aperto e attaccavano le carovane che percorrevano la rotta commerciale dell’istmo che collegava i due oceani. Verso la fine del decennio del 1540, cominciarono a diffondersi notizie di uno schiavo liberto chiamato Felipillo, leader fuggito dalle zone perlacee e capace di organizzare i cimarrones in un palenque (villaggio autogestito di schiavi fuggiaschi, come i quilombos in Brasile, ndr) sulle rive del Golfo di San Miguel, nel Darién. Il compito di eliminare la minaccia dei cimarrones ricadde sul capitano Francisco Carreño che iniziò una guerra senza quartiere, infliggendo gravi e inumani castighi a coloro che venivano catturati. Le truppe di Carreño, dopo diverse scaramucce, scoprirono nel 1549 l’ubicazione esatta del palenque di Felipillo, che fu attaccato in forze e ridotto in cenere. Dopo aver ucciso il leader africano (1551), gli spagnoli probabilmente pensarono di aver eliminato il problema delle ribellioni nella zona, ma non avevano fatto i conti con l’esigenza psicofisica di libertà di coloro che erano stati schiavizzati. Poco dopo, altre ribellioni esplosero a Panama, guidate da capi come Antón Mandinga e il Negro Mozambique (che non ebbero molta fortuna) e soprattutto da Bayano, lui sì erede dello spirito di Felipillo.

D.Ba.

Copertina de America Latina afrodiscendente (2021) di Diego Battistessa, collaboratore di MC.




Argentina. L’avanzata della polvere bianca


Da tempo, l’Argentina è divenuta un grande consumatore di droghe. Il problema riguarda soprattutto la cocaina e i suoi derivati a basso costo. Lo stato, sempre alle prese con l’emergenza economica (la povertà è oltre il 40%), è inadeguato nell’affrontare la questione. Qui come altrove.

Villa Puerta 8 è un barrio piccolo: appena una ventina di manzanas (nome con cui si indicano le aree urbane i cui lati – denominati cuadras – sono costituiti da strade) dove vivono 170-180 famiglie per un totale di circa 700 persone. Sorge a lato del torrente Morón, all’incrocio con la statale 8 (Ruta nacional 8), nelle vicinanze del centro del Ceamse, la società che si occupa dei rifiuti della capitale.

Villa Puerta 8 è nel territorio del municipio Tres de Febrero, distretto San Martín della Gran Buenos Aires. Il suo nome si trova anche nel Registro nacional de barrios populares (Renabap) che raccoglie informazioni su 4.416 insediamenti popolari del paese. Ma l’interesse delle autorità statali si ferma a questa iscrizione. Per il resto, è un luogo abbandonato, privo delle strutture minime come illuminazione pubblica, sistema fognario, strade pavimentate. Per questo la definizione di «villa miseria» si attaglia perfettamente al barrio.

Qui la povertà si vede e si tocca con mano. Una povertà che, secondo i dati ufficiali dell’Instituto nacional de estadística y censos (Indec), nel 2021 ha riguardato il 40,6 della popolazione argentina.

Villa Puerta 8 è uscita dall’anonimato nei primi giorni di febbraio quando nel barrio è stata venduta una partita di cocaina adulterata che ha provocato una strage: 24 morti e quasi 80 ricoverati per grave intossicazione. Secondo le ipotesi delle autorità investigative, la droga sarebbe stata addizionata con un analgesico, il fentanyl, un oppioide sintetico considerato da 50 a 100 volte più potente della morfina.

La droga è stata venduta in dosi di mezzo grammo chiuse in bustine sigillate di color rosa al prezzo di 350-700 pesos (3-6 euro).

Agenti di polizia sigillano buste di plastica contenenti dosi di droga sequestrata a Villa Puerta 8 (2 febbraio 2022). Foto Eliana Obregon – AFP.

La droga in Argentina

L’Argentina non può essere definito un «narcostato» come il Messico, la Colombia o l’Honduras. È però un paese di transito, elaborazione e consumo di droghe. Per quest’ultimo si trova ai primi posti tra i paesi americani, alle spalle di Stati Uniti, ma vicina a Brasile, Uruguay e Colombia.

La penetrazione delle droghe nella società trova conferme importanti.

Un recente studio dell’Observatorio de la deuda social argentina, prestigioso istituto della «Pontificia universidad católica argentina» (Uca), ha rilevato che, nell’anno 2021, il 23% delle famiglie nell’Argentina urbana ha segnalato la presenza di spaccio e/o traffico di droga nell’isolato, nel vicinato o nel quartiere in cui si trova. Questa percentuale sale però al 40-60% tra le famiglie che vivono nelle zone più povere come le villas. Al contempo, la vendita e il traffico di droghe diminuiscono notevolmente dove esiste una vigilanza permanente delle forze dell’ordine, di solito nei barrios di classe media o medio alta.

Negli ultimi due decenni, sottolinea la ricerca dell’Osservatorio dell’Uca, il consumo di sostanze è aumentato in maniera particolare tra gli adolescenti e i giovani e nei settori più vulnerabili ed emarginati della società.

Mons. Manuel Fassi, vescovo di San Martín. Foto Obispado de San Isidro.

La Chiesa cattolica: hogares e politica

In Argentina, la Chiesa cattolica aiuta ad affrontare il problema della tossicodipendenza attraverso proprie strutture di accoglienza e recupero (Centros barriales, «Centri di quartiere»), facenti capo all’Hogar de Cristo (dove «hogar» significa focolare, casa, famiglia), associazione nata nel 2008. Nella sola Buenos Aires sono attivi 23 centri, ognuno con le proprie peculiarità, ma tutti con la finalità dello «sviluppo umano integrale». I Centros barriales includono, quindi, l’offerta di pasti, vestiario e docce, gruppi terapeutici, terapia individuale, laboratori (teatro, cinema, sport, ecc.), formazione al lavoro.

Il 4 febbraio, subito dopo la tragedia di Villa Puerta 8, i vescovi della regione di Buenos Aires hanno rilasciato un comunicato in cui si commentavano i fatti partendo da un’affermazione: «la droga uccide» (la droga mata).

Viene riportata la testimonianza di una madre di un tossicodipendente: «Mio figlio non ha ricevuto assistenza, perché se lui non vuole essere ricoverato nessuno lo prende in cura. Dormiva tutto il giorno e usciva la notte. Non riusciva a trovare un lavoro. E quando aveva un lavoro, spendeva tutto per la droga. Dall’età di 14 anni è un consumatore e da allora io sto combattendo».

Che l’esistenza quotidiana risulti sconvolta quando entra in gioco la droga è un dato di fatto. «Il problema più grande del consumo cronico – si legge sul sito dell’associazione Fundartox – è la discesa nella scala dei valori e il cambiamento nel comportamento del tossicodipendente. Costui abbanda i comportamenti più elementari di cura di sé (cibo, igiene personale), inizia a vendere i beni personali, se lavora spende il denaro destinato alla famiglia. Per mantenere il consumo, molti praticano sesso a pagamento (entrambi i sessi). La perdita delle regole sociali vissuta dall’utilizzatore lo trasforma in un altro essere, una situazione che potrebbe essere definita sindrome sociopatica. Il consumo di pasta base [di cocaina] amplifica la vulnerabilità sociale di origine, sia della persona che della sua famiglia. La dipendenza è un fenomeno complesso, va ricercata una cura medico-sociale, che non sia semplicemente la reclusione quando si commette un reato all’interno della dinamica della dipendenza».

Un taller (laboratorio) in un centro dell’«Hogar de Cristo»; sui centri, Uca e Caritas hanno prodotto un libro «Evaluación de impacto integral de los centros barriales del Hogar de Cristo» (2021), scaricabile dal web. Foto Infobae.

Nel loro comunicato, i vescovi di Buenos Aires hanno ribadito la propria posizione contraria a normative che depenalizzino il consumo di alcune sostanze: «La depenalizzazione del consumo, la legalizzazione delle sostanze – si legge nel comunicato dei prelati -, non farà che aumentare il consumo e la marginalità. Sicuramente nella società prenderà piede l’idea che le droghe legali non fanno male: le droghe uccidono sempre».

Ancora più duro mons. Manuel Fassi, vescovo di San Martín, nell’omelia di domenica 6 febbraio: «Capiamolo bene, non esiste una droga buona e una cattiva, ogni droga è cattiva perché danneggia e uccide. Che sia legale o illegale, può sempre finire per uccidere la persona che la consuma. Non capiamo come possano riapparire progetti di legge che vogliono legalizzare, quando la cosa più necessaria sarebbe che appaiano politiche statali che propongano leggi di protezione e cura delle persone vulnerabili».

Abbiamo chiesto un commento a Cecilia Gonzáles, giornalista messicana dal 2002 in Argentina, autrice di vari libri sulle tematiche del narcotraffico (Narcosur, Narcofugas, Todo lo que necesitas saber sobre narcotráfico, quest’ultimo uscito anche in Italia). «Come nel resto del mondo – ci ha spiegato -, anche in Argentina il consumo di droghe è cresciuto in maniera esponenziale. Tuttavia, non c’è paragone con il Messico, il mio paese, dove si combatte una vera e propria narcoguerra».

Abbiamo chiesto alla giornalista chi siano i consumatori di droga in Argentina. «Ce ne sono – ha risposto – in tutti gli strati sociali. Le sostanze di migliore qualità si vendono tra le classi superiori, le peggiori nelle villas».

Come hanno dimostrato i fatti di Puerta 8. «Quella tragedia ha testimoniato, ancora una volta, il fallimento delle politiche statali in materia di droghe. Con la criminalizzazione dei consumatori e l’assenza di misure di salute pubblica. Occorre cambiare registro regolando i mercati e abbandonando la militarizzazione», ha commentato Cecilia Gonzáles.

Una vista aerea di Villa Puerta 8, a lato dell’Arroyo Morón. Foto Tomas Cuesta – AFP.

La droga nel mondo: che fare?

L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sulle droghe nel mondo – World drug report 2021 -, dopo aver analizzato nel dettaglio numeri, trend e prospettive, non lascia molto spazio all’ottimismo. «L’uso di droghe ha ucciso quasi mezzo milione di persone nel 2019, mentre i disturbi causati dal loro utilizzo hanno provocato la perdita di 18 milioni di anni di vita sana, principalmente a causa degli oppioidi. Malattie gravi e spesso letali sono più comuni tra i tossicodipendenti, in particolare quelli che si iniettano farmaci. Molti di essi convivono con l’Hiv e l’epatite C. Il traffico illecito di droga continua a frenare anche l’economia e lo sviluppo sociale, mentre ha un impatto sproporzionato sui più vulnerabili ed emarginati, e costituisce una minaccia fondamentale per la sicurezza e la stabilità in alcune parti del mondo. Nonostante i comprovati pericoli, l’uso di droghe persiste e, in alcuni contesti, prolifera. Nell’ultimo anno, circa 275 milioni di persone hanno fatto uso di droghe, in aumento del 22% rispetto al 2010. Entro il 2030, i fattori demografici prevedono che il numero di persone che faranno uso di droghe cresceranno dell’11 per cento in tutto il mondo e del 40 per cento nella sola Africa». Se tutti concordano sulla gravità del problema, le posizioni sono molto distanti rispetto a come affrontarlo con una netta contrapposizione tra proibizionisti (e sostenitori della «guerra alla droga») e legalizzatori (almeno di alcune sostanze).

Dubbi sono sorti anche a Michelle Bachelet, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. L’ex presidenta cilena, tra l’altro di professione medico, nel corso della 26ª Conferenza sulla riduzione dei danni da stupefacenti (Oporto, aprile 2019) ha ammesso che la cosiddetta «guerra contro le droghe» ha fallito e che il consumo è aumentato invece di diminuire.

«La guerra alle droghe deve finire» (The war on drugs must end) ha sentenziato a luglio 2021 un editoriale di «The Lancet», la più prestigiosa rivista medica del mondo.

Preparazione di una dose («canna») di marijuana, la droga attorno alla quale il dibattito sulla depenalizzazione è più acceso in tutto il mondo. Foto Unsplash.

Il fallimento del proibizionismo

Un intervento statale per regolarizzare il consumo di droghe pare comunque lontano.

«È un altro – ci ha spiegato Cecilia Gonzáles – dei pregiudizi che circondano l’uso di sostanze: l’hanno imposto un secolo fa ed è molto difficile disarmare quella narrativa. Non sappiamo davvero cosa può succedere con una regolamentazione. Quello che sappiamo, perché l’evidenza lo dimostra, è che il proibizionismo ha fallito».

Al momento sono due i paesi che stanno percorrendo strade alternative: l’Uruguay (dal dicembre 2013) e il Portogallo (dal novembre 2000). E sono le politiche sulla droga del paese lusitano che stanno ottenendo i risultati più significativi (riconosciuti, a maggio 2019, anche da un editoriale di The Lancet).

Per parte sua, il medico francese Michel Kazatchkine, membro della Global commission on drug policy (Ginevra), ha affermato: «I governi dovrebbero impegnarsi per un uso sicuro delle sostanze. Occorre affrontare il mondo così com’è. Un mondo libero dalle droghe non esiste».
Il dibattito rimane aperto.

Paolo Moiola


Archivio MC

 Reportage su droga e minori a Buenos Aires e in Brasile:

● Dossier droga:

● Video reportage:

  • due video dell’autore su gruppi di minori consumatori di «paco» nelle strade di Buenos Aires sono visibili a questo indirizzo di YouTube: youtube.com/user/pamovideo

Accensione per una «fumata». Foto Ander Burdain – Unsplash.

Glossario minimo

● Droga:

nome generico dato a sostanze che, una volta introdotte nell’organismo, agiscono sul sistema nervoso centrale provocando cambiamenti che possono influenzare il comportamento, l’umore o la percezione e predispongono alla ripetizione del consumo.

● Paco / crack:

è un residuo della pasta (pa) base di cocaina (co). Si commercializza tagliato con talco, caffeina, bicarbonato di sodio o anfetamine (ma anche con ingredienti meno nobili come veleno per topi). Si fuma in pipe artigianali. È venduto a un prezzo molto basso, produce rapida dipendenza, ha effetti devastanti sull’utilizzatore (immunologici, neurologici, psichici). Il paco è diverso dal crack, altra droga molto economica, che però si ottiene partendo dal cloridrato di cocaina e non dalla pasta base.

● Narcomenudeo:

commercio di droghe illecite su piccola scala; i narcomenudistas sono le persone che si dedicano a quel commercio.

● Cocinas:

laboratori casalinghi argentini dove si processa la pasta base di cocaina importata dai paesi confinanti.

● Kioscos / búnkers:

i luoghi dove si trovano i venditori della droga.

● Soldaditos / pajaritos / esquineros:

sentinelle, di solito minori d’età, che avvertono nel caso di arrivo di estranei nelle zone di spaccio.

● Bolseros:

gli addetti, di solito minori, che consegnano le bustine di droga ai consumatori.

● Hogares:

«case d’accoglienza» per emarginati e tossicodipendenti, di solito gestiti da organizzazioni cattoliche (salesiani di don Bosco, Hogar de Cristo, etc.).

● Villas miserias:

in Argentina, si dà il nome di «villa» alle occupazioni spontanee di terreni. Si tratta, pertanto, di insediamenti umani informali, privi dei servizi urbani basilari (acqua, fognature, energia elettrica, ecc.). Storicamente, la prima villa sorse a Buenos Aires agli inizi del 1930 e si chiamò «Villa desocupación».

Successivamente, questi insediamenti presero il nome di «villas miserias», prendendo spunto dal romanzo Villa Miseria también es América (1957) dello scrittore Bernardo Verbitsky.

Paolo Moiola

Una fiala di fentanyl, oppiaceo con cui potrebbe essere stata tagliata la cocaina che ha fatto strage alla periferia di Buenos Aires.




A Medyka e Shehyni alla frontiera Sud Est tra Polonia e Ucraina


Aggiornamento al 2 aprile 2022 |

Per aiutare: fare versamento tramite Fondazione missioni Consolata Onlus, specificando “Aiuto profughi Ucraina”


Carissimi tutti,
con questo 4 aggiornamento oltre a ringraziare tutti voi per la continua solidarietà concreta che state dimostrando in questa situazione, desidero condividere l’esperienza che ho fatto questa settimana recandomi in Ucraina.

Il viaggio è nato da una proposta arrivata da don Leszez Kryza direttore nazionale dell’Ufficio di aiuto alla chiesa in oriente, struttura appartente alla Conferenza episcopale polacca.

Dopo aver riempito completamente la macchina di beni di prima necessità, quali cibo e medicinali, siamo partiti all’alba di giovedì 31 marzo, in direzione della frontiera di Medyka a sud est della Polonia. Con noi si è unita Clara la volontaria infermiera che da settiane è con noi. Dopo cinque ore di viaggio in un clima che si è fatto improvvisamente invernale alternando la pioggia alla neve, arriviamo presso la frontiera.

Non sono tanti i mezzi che passano il confine dalla Polonia all’Ucraina; tuttavia, i tempi di controllo dei documenti sono lunghi, dovuto sia al controllo dei documenti sia al controllo della merce trasportata, entrando in un paese in guerra i soldati vogliono essere certi di cosa si trasporta.

La frontiera polacca la passiamo senza difficoltà, invece dalla parte ucraina siamo fermati a lungo, per la mancanza di un documento della nostra macchina che abbiamo solo in versione on line e non stampata. Dopo piu di tre ore di attesa, siamo costretti a rientrare in Polonia a motivo della mancanza di questo documento. Cambiamo il nostro piano. Decidiamo di lasciare gli aiuti trasportati presso la sala di una parrocchia dei francescani vicino alla frontiera, per essere già nei prossimi giorni di nuovo spedita oltre il confine con un altro trasporto.

Questo cambio di situazione ci porta alla decisione di entrare in Ucraina a piedi. Il controllo dei documenti dalla Polonia all’Ucraina avviene in modo sbrigativo anche se non siamo soli, alcuni rifugiati, non molti, ritornano. Ci spiegano che sono coloro che abitano vicino a questo confine in una zona meno bombardata di altre. Hanno i mariti che li aspettano nelle loro case e inoltre trovare lavoro in Polonia non è facile… Aiutiamo una giovane donna a portare due borse della spesa pesanti. È tutto quello che ha con sé. La soldatessa ucraina mi chiede cosa andiamo a fare in Ucraina. Le spiego il problema che abbiamo avuto poco prima con la macchina aggiungendo che vorremmo organizzare il passaggio dei beni. Fissandomi seriamente negli occhi per un momento fa poi un mezzo sorriso e ringrazia per quello che stiamo facendo. Sono parole che mi colpiscono perché dette da un soldato non sono per niente scontate.

Entrando in Ucraina notiamo dalla parte opposta una coda molto piu lunga di rifugiati che attendono di entrare in Polonia. Nella vicinanza delle frontiera da entrambi i paesi ci sono tante organizzazioni umanitarie, sono volontari provenienti da tutto il mondo: americani, spagnoli, portoghesi, ebrei, sono tutti giovani sorridenti che trasmettono un calore umano fatto di sorrisi di mille piccole attenzioni verso i profughi. Alcuni sono vestiti da clown come al circo per strappare un sorriso ai bambini che scappano dalla guerra. Altri si prestano con carrelli della spesa ad aiutare a portare i pochi bagagli dei profughi. Altri ancora offrono bevande calde, pasti, cioccolata… siccome la giornata è fredda e umida vengono distribuite delle mantelline per la pioggia che anche noi beneficiamo e si organizzano dei ripari dalla pioggie mista a neve che cade ininterrottamente, usando delle serre per fiori che qualcuno ha offerto. Ci sono anche delle stufe a gas come quelle che si trovano nei ristoranti all’aperto che riscaldano nelle immediate vicinanze.

Incontriamo un gruppo di volontari polacchi che hanno allestito un campo a fianco della frontiera, in Ucraina. Conosciamo Magdalena che fin dall’inizio è qui presente. Ci racconta che la situazione in questi giorni è meno pesante rispetto all’inizio; tuttavia, non c’è sicurezza e da un momento all’altro potrebbe di nuovo tutto precipitare a seconda degli sviluppi della guerra nel paese.

Solo da questa frontiera sono passate circa 700.000 persone (circa la capienza di 10 grandi stadi di calcio) su un totale di 2.700.000 che hanno varcato il confine con la Polonia.

I primi giorni sono stati i più drammatici. Magdalena ci racconta che i primissimi aiuti sono arrivati tutti da Ovest fermandosi in territorio polacco senza oltrepassare il confine. Ancora oggi lì ci sono decine e decine di tende di volontari. Molto meno se ne trovano ancora oggi dalla parte ucraina, dove ci sono le code piu lunghe di profughi.

Ci sono video che mostrano all’inizio del conflitto, code di oltre 30 km di macchine in attesa di passare il confine. Erano tra i pù fortunati perche stavano al caldo e seduti, al contrario della maggioranza di essi che aspettavvano all’aperto giorno e notte anche per tre e quattro giorni, per passare il confine. Anche se le pratiche burocratiche sono state semplificate l’ondata di profughi da smaltire è stata così grande che non lasciava alternative. Per scaldarsi durante la notte si bruciava tutto quel poco che si trovava compresi i vestiti non utilizzati. Ci sono stati, ci raccontano i volontari, anche casi di parti precoci a seguito dello stress e della stanchezza.

Avendo lasciato la macchina al di là del confine, verso sera ci rimettiamo in coda con i profughi per rientrare in Polonia. Ci colpisce molto la dignita di queste persone. Non sentiamo un lamento o una imprecazione. Ci si guarda solo negli occhi. Le storie che ci raccontano sono terribili e talmente crudeli che si fanno fatica a descrivere. Sono tutte persone che scappano dall’estremo est del paese, Mariopol, Charchowy, Donbas, Kiev…

Le uniche persone accompagnate dai volontari che accorciano le file sono solo alcuni anziani su carrozzine avvolti da coperte. Gruppi di persone poco nominate in questo conflitto, ma che rappresentano un altro lato debole della popolazione. Nessuno si lamenta di questo anche se la stanchezza e il freddo non aiutano. Dopo circa tre ore in fila ritorniamo in Polonia. A differenza dei profughi, abbiamo una macchina ad attenderci e un luogo sicuro dove ritornare. È notte fonda quando ritorniamo a casa presso la nostra comunità dopo quasi 24 ore di viaggio. Siamo stanchissimi, ma anche coscienti che abbiamo visto molto e come testimoni molto possiamo continuare a fare molto insieme a tutti voi. Dopo Pasqua probabilmente ci recheremo ancora in Ucraina questa volta per qualche giorno.

padre Luca Bovio IMC




Con la Consolata in Polonia per L’Ucraina /3


Kieplin, 19/03/2022. Con questo 3° aggiornamento provo a darvi a qualche informazione attuale salutandovi e ringraziandovi per le vostre preghiere e i vostri aiuti. Stiamo tutti bene sempre impegnati a organizzare vari aiuti.

Le ultimi informazioni ufficiali governative indicano che si è superato il numero di di 2.000.000 di profughi accolti in Polonia su una popolazione che sfiora i 40.000.000. La capitale Varsavia, che nel 2019 contava 1.800.000 abitanti, ha già accolto quasi 500.000 profughi. Si è fatto notare come questa, che riguarda la Polonia principalmente ma non solo, sia la piu grande ondata di profughi avvenuta in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. I numeri sono costantemente in crescita ed è ragionevole pensare che soltanto la fine del conflitto potrebbe mettere un freno a questa migrazione. La fine del conflitto tanto sospirata sembra essere ancora lontana.

Le stazioni dei treni di Varsavia sono allestite in modo da accolgliere le migliaia di persone che ogni giorno arrivano. Volontari di gruppi e associazioni umanitarie così come singoli cittadini, si impegnano giorno e notte fornendo informazionie e aiuti di prima necessità, come cibo, bevande calde e schede telefoniche prepagate. I mezzi di trasporto di tutto il paese sono gratuiti per i profughi. Ogni profugo ha diritto di ricevere il codice fiscale polacco che permette l’accesso al servizio di assistenza sanitario nazionale.

Come già scrivevo in precedenza sono pochissimi i palazzetti e le scuole che ospitano i grandi gruppi per dormire, perche la maggior viene ospitata nelle case di gente comune in tutto il paese.

Vorrei ringraziare due sacerdoti che abbiamo contattato telefonicamente a Lublino, non lontano dai confini con l’Ucraina, e che hanno organizzato in piena emergenza l’accoglienza per una notte di due gruppi di donne e di bambini. Ogni gruppo contava quasi cento persone. Il giorno successivo con dei pullman questi due gruppi sono partiti per Il Portogallo.

Qui a Łomianki continuiamo il lavoro in collaborazione con la parrocchia di Santa Margherita. Il numero dei profughi, circa 1500 nel solo comunenon è aumentato per una semplice ragione: non ci sono piu posti liberi nelle case. Il centro di distribuzione degli aiuti presso la parrocchia continua a lavorare ogni giorno grazie a un centinaio di volontari che fanno i turni. Gli aiuti che mandate sono distribuiti lì. E da lì sono messi a disposizione per le famiglie presenti ma anche spediti in Ucraina. Ricordo che i beneficiari sono prevalentemente mamme con bambini. I generi alimentari piu richiesti sono la farina, marmellate, olio non necessariamente di oliva, i semolini. Con parte delle vostre offerte questa settimana abbiamo acquistato una tonnellata e mezzo di farina, sufficiente per qualche giorno di distribuzione.

Accoglienza profughi dall’Ucraina nella parrocchia di Lomianki

Da pochi giorni si è unita alla nostra comunità una volontaria infermiera di Torino, Clara, che aiuta nello smistamento delle medicine che arrivano. Un lavoro umile e importante.

Stiamo riuscendo con l’aiuto di molti a organizzare l’accoglienza per i profughi in diversi luoghi in Italia.

Pochi giorni fa alcuni volontari di Sovere (Bg) sono venuti con le macchine per portare aiuti e al ritorno hanno viaggisto con ben 14 profughi che sono stati ospitati presso le famiglie del loro comune. Questa mattina l’associazione Eskenosen di Como similmente, dopo essere arrivati con ben 8 furgoni di aiuti sono ritornati con 11 madri e bambini di varie età.

Mi preme sottolineare che il desiderio di tutti i profughi è quello di tornare al più presto nelle loro case in Ucraina. Siccome non si sa ancora quando e in quale forma questo potrà avvenire (dipenderà molto dall’esito finale della guerra), alcuni sono disposti a intraprendere viaggi in paesi piu lontani per assicurarsi nell’immediato, un futuro piu sicuro e per i loro bambini continuare l’istruzione nelle scuole.

Nel caso di una eventuale disponibilità per l’accoglienza potete contattarci scrivendoci dove questa puo avvenire e le condizioni dell’alloggio. Queste sono informazioni basilari che possiamo dare ai profughi che devono fare, come immaginate, un grande atto di fiducia nel prendere queste decisioni.

Oggi e la festa di S. Giuseppe, festa dei papà. Affidiamo alla sua protezione tutti i papà del mondo specialmente quelle rimasti in Ucraina, e alla sua intercessione chiediamo la fine della guerra e una benedizione per tutte le famiglie.

Preghiamo per la pace, costruiamo la pace.

PadreLuca Bovio
Superiore dei missionari della Consolata in Polonia

Accoglienza profughi dall’Ucraina nella parrocchia di Lomianki


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Per l’Ucraina con i Missionari della Consolata in Polonia

In Polonia per Ucraina con la Consolata /2