Sperimentare il centuplo


Dei tre fratelli Barbero missionari della Consolata, padre Mario è quello di mezzo. Ha accompagnato oltre la metà della storia dell’Imc, tra Italia, Kenya, Usa, Congo e Sudafrica. Suoi amori: la Bibbia, i confratelli e le famiglie del «Marriage encounter» che ha promosso nel mondo.

Padre Mario Barbero, classe 1939, entra nel nostro ufficio con la sua solita discrezione.

Il suo sorriso gentile e il suo sguardo attento non sono mutati dall’ultima volta che ci siamo incontrati a inizio 2020.

Cominciava allora, a 81 anni, una nuova avventura, ed era pronto a prendere, senza saperlo, l’ultimo volo per il Sudafrica prima della chiusura delle frontiere per la pandemia da Covid-19.

Missionario della Consolata nato a Marene (Cn), nei suoi 70 anni vissuti tra i figli dell’Allamano, ha operato in cinque paesi di tre continenti: Italia, Kenya, Usa, Congo Rd e Sudafrica.

Formatore di seminaristi, ha sempre amato lavorare con le famiglie tramite l’esperienza del Marriage encounter («Incontro matrimoniale») di cui è un entusiasta promotore nel mondo.

Padre Mario Barbero durante l’ordinazione sacerdotale di missionari della Consolata nel 2003. Kinshasa, Congo RD. / © Mario Barbero.

Settant’anni di gioia

«La prima volta che sono stato in Casa Madre a Torino avevo 12 anni. Era maggio 1951, e l’Istituto missioni Consolata compiva 50 anni. Ora ne ha più di 120».

Padre Mario si siede di fronte a noi e, con la sua voce bassa e affabile, ci offre subito il quadro di quello che racconterà: una lunga esperienza personale che s’intreccia con gratitudine alla ricca storia della famiglia Imc. «Sono entrato in seminario in prima media, alla Certosa di Pesio (Cn). Ero accompagnato da mio fratello Antonio, di undici anni più grande di me, e già seminarista. Io dico sempre che, prima del Covid, nella mia famiglia c’è stato un altro virus che ha colpito tre fratelli su sei facendoli diventare missionari della Consolata».

Oltre a padre Antonio Barbero, nato nel 1928, missionario in Canada e Congo Rd, morto nel 1982, infatti, un altro fratello è stato parte dell’Imc, Tommaso (chiamato Masino), nato nel 1946, missionario in Tanzania e Kenya e mancato poco più di un anno fa, nel settembre 2021.

«Eravamo cinque fratelli e una sorella. Gli altri si sono sposati regalandomi nipoti e pronipoti. Quando Antonio aveva 12 anni, ha sentito un’ispirazione che gli diceva “fatti missionario”. Lui non sapeva cosa fosse un missionario, allora l’ha chiesto al parroco, che gli ha detto: “I missionari sono quelli che vanno in Africa, e sono di due tipi: i sacerdoti che studiano, e i fratelli che lavorano”. Mio fratello non aveva tanta voglia di studiare, e allora dice: “Va beh, sarò di quelli che lavorano”. Poi va a casa, lo dice a mio papà, e lui gli risponde: “Se vuoi lavorare, qui c’è una cascina…”. E Antonio: “Allora mi farò missionario di quelli che studiano” – ride padre Mario -. Quando poi Antonio veniva a casa una volta all’anno dal seminario, portava sempre con sé una rivista: “Missioni Consolata”».

Guardando al fratello, Mario è cresciuto pensando che anche lui sarebbe diventato missionario e, finite le elementari, è entrato in Certosa nel ‘50.

Padre Mario Barbero con un gruppo di coppie a Kinshasa, Congo RD. / © Mario Barbero.

La chiesa che cresce

Padre Mario segue il filo dei suoi ricordi più di quello delle nostre domande. Ci confida che negli ultimi tempi ha avuto modo di pensare molto alla sua vita passata. Anche il lockdown, scattato tre settimane dopo il suo arrivo in Sudafrica nel 2020, e il Covid, contratto nell’estate 2021, che l’ha costretto a trasferirsi per le cure da Pretoria a Nairobi, sono stati per lui situazioni provvidenziali che gli hanno permesso di pregare e riflettere di più.

«Quando sono guarito, ho girato un po’ il Kenya dove ero stato dal ‘76 all’88. Ho visto il grande sviluppo della chiesa: tante parrocchie, ognuna con il suo prete locale, trent’anni fa erano impensabili. Poi sono andato a Tuthu, il primo posto in cui erano arrivati i missionari nel 1902. Lì non c’era la chiesa. Adesso ci sono tanti preti. Oggi più della metà dell’Imc è composta di africani che vanno nel mondo».

Dopo la convalescenza, è tornato in Sudafrica, ma un nuovo problema di salute l’ha fatto rientrare in Italia.

«Da quando sono arrivato a Torino a inizio 2022, sono andato diverse volte al santuario della Consolata e ho pensato all’Allamano: io non credo che avesse immaginato tutto quello che sarebbe successo. Mandando i suoi missionari, ha allargato le dimensioni dell’Africa, l’ha fatta diventare missionaria».

Fratelli

Il volo dei ricordi fa attraversare a padre Mario decenni e continenti avanti a indietro.

Tornando alla sua famiglia, ci dice che lui è il quinto dei sei fratelli, e che l’ultimo era proprio Tommaso, il terzo che si sarebbe fatto missionario. «Ha fatto più di 40 anni di Tanzania e Kenya. Poi è stato gli ultimi 7-8 anni in Italia per problemi di salute.

Ultimamente ho pensato tanto a lui. Aveva un forte zelo missionario, una grande sensibilità. Ha fondato missioni nelle quali, prima delle strutture, pensava alla formazione dei vari ministeri della gente. Negli anni che ha trascorso qui in Italia, quando ci sentivamo, mi diceva tutte le volte: “Ti penso sempre, ogni volta che celebro messa mi sento unito a te”.

Quando sono diventato prete, la sera prima di essere ordinato, mi sono confessato con mio fratello Antonio, che mi ha detto: “Da domani saremo fratelli due volte. Non solo di sangue, ma anche di sacerdozio”. Ed è stato così anche con Masino.

Quando Antonio era malato, gli ultimi sette mesi li ha passati in Casa Madre a Torino. Masino, che allora era in Spagna, l’ultimo mese gli è stato vicino. Era il 1982. Tre giorni prima che mancasse, io sono venuto dal Kenya e mi ha ancora riconosciuto. Quando è morto io e Masino eravamo uno di qua e l’altro di là a tenere il suo polso. Eravamo sereni, perché lui ci aveva preparati. Era tranquillo, e continuava a pensare allo Zaire.

Quella notte, accanto ad Antonio c’era Maria Stocco, un’infermiera che aveva desiderio di andare in Africa. Antonio le aveva detto “vai a prendere il mio posto”, e lei, dopo la sua morte, è partita. Quando nel 2005 io ero in Congo, sono andato a predicare gli esercizi spirituali ai nostri missionari nel Nord, a Isiro. Lei era ancora lì. Dall’82. Antonio aveva fatto nove anni di Congo. Lei ne ha fatti quasi trenta».

Incontro matrimoniale in Usa con il team mondiale, nel 2000

Il Concilio da vicino

«Più divento vecchio e rifletto sulla mia storia, più vedo che il Signore mi ha messo accanto tante persone di tutti i tipi, preti, suore, laici, famiglie che hanno reso possibile la mia missione», continua padre Mario.

«Finito il noviziato nel 1959, sono stato a Roma dieci anni. Ho fatto filosofia, teologia e poi la specializzazione in Bibbia. Ma soprattutto sono stato a Roma nel tempo del Concilio. Dieci giorni dopo la sua conclusione, sono stato ordinato prete.

È stata un’epoca stupenda. Alcuni dei nostri professori erano nelle commissioni teologiche che lavoravano ai testi. In casa nostra, poi, avevamo otto vescovi che ci aggiornavano su cosa succedeva in San Pietro.

Io vedo il Concilio come una grande benedizione.

Quando sento persone che dicono che la chiesa è stata rovinata dal Concilio, penso che non hanno idea di cos’era la chiesa prima e di cos’è la chiesa oggi.

Quando si parla di crisi della chiesa, c’è uno sguardo solo occidentale. In Africa al tempo del Concilio c’erano una cinquantina di vescovi neri, adesso sono centinaia. Quando sono arrivati i nostri primi missionari a inizio Novecento, l’Africa avrà avuto sì e no due milioni di cattolici, oggi sono 250-300 milioni. Mai c’è stato uno sviluppo così rapido della chiesa. Eravamo abituati ad avere tanti cardinali italiani e adesso ci si stupisce che il papa li nomini in altri paesi. Ma la gran massa di cattolici non è qua, e perché non avere la voce di quelle chiese? Anche di quelle che vivono in minoranza e perseguitate? Sono questi piccoli gruppi che conservano la forza della Parola di Dio che è Gesù che si diffonde».

In team di formatory al Consolata Seminary di Nairobi nel 1977

 

Il Kenya

La prima destinazione di padre Mario è stata a Torino per insegnare Bibbia. «Sono stato formatore e insegnante qui dal ‘69 al ‘75. Insegnavo al Cottolengo, dove c’era la sede della scuola di teologia per diversi istituti, anche il nostro. È stato bello. Facevo anche animazione missionaria. Alcuni di quei giovani (tra cui il direttore di MC, ndr) sono poi diventati preti, altri sono diventati padri di famiglia».

Il primo mandato missionario fuori dall’Italia è arrivato nel 1976. «Sono stato 12 anni in Kenya. Dal ‘76 al 1982 ho insegnato al Consolata seminary di Nairobi. Poi sono stato eletto superiore regionale. In quegli anni si è dato molto sviluppo alla formazione dei missionari africani. Il primo keniano Imc è stato Anthony Ireri Mukobo che ora è vescovo di Isiolo. Anche l’attuale vescovo di Marsabit, Peter Kihara Kariuki, è stato tra i primi che erano entrati nel 1976.

L’anno scorso il Consolata seminary ha compiuto 50 anni. Dei ragazzi passati da lì, 152 sono diventati missionari della Consolata, ora sparsi nel mondo. Altri sono diventati preti diocesani, altri ancora padri di famiglia».

Padre Mario Barbero a un incontro matrimoniale in Togo nel 2008

Marriage Encounter

È stato in Kenya che padre Mario ha incontrato il programma per famiglie Marriage encounter.

«Nel 1978 sono arrivate in Kenya alcune coppie missionarie dall’Irlanda invitate dal cardinale Maurice Michael Otunga di Nairobi.

Incontro matrimoniale forma gli sposi a vivere meglio il loro amore. È basato sul dialogo. Vi partecipano anche preti e suore.

Io non sapevo cosa fosse. Mi hanno invitato. C’erano tre coppie e un prete che davano degli spunti di riflessione. Per me è stata una scoperta bellissima. Dopo ogni conferenza c’è una domanda, e ognuno è invitato a riflettere e a scrivere una risposta personale. Poi marito e moglie si trovano insieme (io mi trovavo con un altro prete). Si dialoga, ci si scambia gli scritti. È una cosa semplicissima. È incredibile cosa può fare il semplice scriversi e parlarsi. Le coppie, dopo i due giorni d’incontro, sono tornate a casa avendo scoperto molte cose, tanti sogni che non si erano mai detti.

È stata una grazia per me. Scherzando, dico sempre che la mia seconda ordinazione da prete è stata il 27-29 di ottobre del ‘78.

Dopo quel weekend, mi sono fatto coinvolgere, e ho anche contagiato mio fratello Masino che allora era in Spagna. Quando è tornato in Tanzania, lo ha impiantato anche lì, dove adesso ci sono migliaia di coppie di Incontro matrimoniale.

La stessa cosa è successa nel Nord Italia: non potevo tenere questa esperienza per me, e ho coinvolto i miei amici più cari.

Allora in Italia c’era già qualcosa a Rimini. Qui a Torino invece è nato da Mario e Annamaria Tenna che hanno invitato i loro amici, poi il loro parroco, e da lì si è allargato in Piemonte e in Italia. In questo momento la coppia responsabile di Incontro matrimoniale in Europa è italiana.

Quando sono andato negli Usa, Incontro matrimoniale c’era già, e mi hanno subito coinvolto. Per 12 anni ho girato una volta al mese per tutto il paese. Quello che mi ha colpito è che funziona ovunque. L’ho vissuto con i keniani, con gli italiani, poi con gli americani, sia ispanici che inglesi, poi in Congo».

Padre Mario Barbero durante un incontro matrimoniale a Johannesburg in Sudafrica nel 2003

Gli USA e Retrouvaille

Quando padre Mario parla delle coppie incontrate grazie al Incontro matrimoniale ha gli occhi che brillano.

Negli Usa è andato subito dopo il Kenya: prima nella casa di
Somerset, vicino a New York, come superiore regionale Imc dal 1988 al ‘94, poi, fino al 2001, a Washington Dc, di nuovo dedicato alla formazione dei seminaristi. In quegli anni, il suo coinvolgimento in Incontro matrimoniale gli ha fatto conoscere una nuova esperienza nata in Canada, quella del Retrouvaille.

«Nel 1994 mi hanno invitato a un weekend del Retrouvaille, parola che significa ritrovarsi, un programma specifico per le coppie separate o divorziate che, a un certo punto, cercano di aggiustare le relazioni. È stata una cosa incredibile. Per me, anche come prete, l’esperienza del perdono vissuta nel programma
Retrouvaille è la più forte.

Quando sono tornato nel 2001 in Italia, la Cei era interessata a farlo approdare anche qui, così il programma è partito nel 2002.

Gli animatori di questo percorso sono coppie che hanno sperimentato il fallimento in prima persona e poi si sono riconciliate. Quando portano la loro testimonianza, sia del fallimento sia della ripresa, ha un grande impatto su chi li ascolta.

In Italia abbiamo fatto oramai oltre 200 di questi weekend».

Congo

Nel 2001 padre Mario è partito dagli Usa destinato al Congo Rd. «Sono passato dall’Italia per rinfrescare il francese, e sono poi andato in Congo nel 2002, a Kinshasa, dove sono rimasto fino al 2007 per fare il formatore dei nostri seminaristi e il professore in un altro centro. Insegnavo anche nel seminario diocesano.

Anche in quel paese ho lavorato con Incontro matrimoniale: lì era già presente, ma da qualche tempo non andava più molto bene, perché le coppie non riuscivano più a pagare il contributo richiesto per i weekend. Fatto sta che ha ripreso, e ora va ancora avanti. Quasi tutti i giorni ricevo ancora messaggi da là».

Padre Mario Barbero (il primo a destra) negli Usa con le due coppie responsabili di Marriage Encounter a livello mondiale e Usa / © Mario Barbero.

Italia

Nel 2008, dopo aver lasciato il Congo e aver trascorso sei mesi in Sudafrica, padre Mario è tornato in Italia dove ha lavorato nell’animazione missionaria fino al 2019, prima a Bedizzole (Bs), poi a Castelnuovo don Bosco (At), infine a Rivoli (To).

«Ho fatto tanti incontri biblici e naturalmente ho lavorato con le famiglie. Poi, nel 2019 mi hanno chiesto di andare in Sudafrica e io ho accettato.

Sono partito a inizio 2020 per fare il parroco per la prima volta nella mia vita. Tre settimane dopo il mio arrivo, c’è stato il lockdown anche lì, e per il primo anno la gente non poteva venire in chiesa. In quella situazione ho riscoperto la preghiera, e facevo un video ogni settimana per i parrocchiani. È nato un bel rapporto con loro, anche se limitato.

Poi ho avuto il Covid, e sono stato mandato in Kenya per curarmi. Dopo tre mesi, sono tornato per altri tre mesi, quando mi è venuta una forte sciatalgia e ho iniziato ad avere difficoltà a camminare. Allora sono ripartito per l’Italia nel febbraio del 2022.

Due anni sono stati pochi, ma sufficienti per iniziare delle belle relazioni. Con alcuni mi sento ancora. È nato un affetto speciale con tante persone.

È stato bello, anche se diverso da quello che immaginavo, come spesso capita nella nostra vita. Adesso sono qui in Casa Madre e sto meglio: ho tanto tempo per pregare, riflettere, ricordare».

Padre Mario Barbero a un incontro matrimoniale a Kinshsa nel 2004

Famiglia e missione

Data la sua esperienza, chiediamo a padre Mario qual è secondo lui la missione delle famiglie.

«Innanzitutto, la loro vita famigliare, il parlarsi tra di loro e la formazione dei figli.

Ora che rifletto molto sulla mia vita, mi rendo conto che, pur avendo studiato tanto, le cose più importanti me le hanno insegnate mio papà e mia mamma.

La famiglia è presente in tutte le realtà. Io sono stato fortunato ad avere una famiglia unita, ma anche nelle famiglie nelle quali magari c’è una separazione, i genitori ti accolgono, ti tirano su. Questa è la cosa principale: il primo impegno di una famiglia è quello di avere cura della famiglia. Tutto il resto viene da lì.

Mentre ero a Washington ho fatto un dottorato, e nel 2001 ho scritto la mia tesi su Priscilla e Aquila: una coppia che ha lavorato con san Paolo e ha fondato con lui la chiesa di Corinto e di Efeso. È stato il mio coinvolgimento con le coppie che mi ha fatto scoprire il Marriage encounter anche in san Paolo».

Bibbia

L’altro grande amore di padre Mario è la sacra Scrittura. Gli chiediamo allora, per concludere la chiacchierata, un brano che gli sta particolarmente a cuore.

«Quando Pietro chiede a Gesù: cosa ne avremo noi a seguirti? E Gesù risponde che avremo il centuplo. Ecco, io il centuplo l’ho sperimentato: prima con l’Imc, dove mi sento bene con tutti i miei confratelli; poi con Incontro matrimoniale, che mi ha aperto migliaia di case».

Luca Lorusso

Nel Consolata Seminary di Nairobi con un gruppo di studenti nel 1983


Fratelli due volte

Antonio Barbero

I tre fratelli Barbero all’ordinazione di padre Masino

Nato il 12-2-1928 a Marene (Cuneo), tredicenne fu accolto nell’Istituto Missioni Consolata e ricevette l’ordinazione sacerdotale il 20-6-1954. Per sei anni svolse attività di insegnamento e di formazione in Italia. Nel 1961 partì per il Canada: quattro anni di intensa pastorale giovanile. Rimpatriato svolse ancora attività formative nelle case Imc d’Italia, poi nel 1972 raggiunse la missione dello Zaire come superiore del gruppo della nascente delegazione: dieci anni di lavoro missionario ardito e intelligente (cfr. dossier in MC 6/2022). Missionario ottimista e guida saggia, sembrava, talora, spregiudicato, invece di fatto il suo comportamento si rivelava stimolante ma equilibrato. La sua arte era semplice ma non sempre facile: ascoltare, riflettere, rispondere, sorridere; un’arte che faceva sempre presa nel cuore dei giovani. Morì a Torino il 9 febbraio del 1982.

Tommaso (Masino) Barbero

Nato l’8-10-1946 a Cervere (Cn), fece la professione temporanea il 2-10-1966 alla Certosa di Pesio, e quella perpetua il 2-10-1969 a Rosignano. Fu ordinato diacono il 16-2-1972 a Torino e sacerdote il 25-3-1972 a San Lorenzo di Fossano.
Dopo i primi due anni tra Cork (in Irlanda) e Biadene (Treviso), partì per il Tanzania dove rimase tra il 1974 e il 1979. Fece animazione missionaria a Saragoza, in Spagna, tra il 1979 e il 1983. Tornò in Tanzania come vice parroco a Kisinga e come parroco a Ng’ingula tra il 1983 e il 1988.
Tornato in Europa, nel 1989 partì per il Kenya. Fu rettore dell’Allamano House a Nairobi fino al 1992, poi fondatore e parroco di Kahawa (Nairobi) fino al 2000, viceparroco e poi parroco a Likoni-Mombasa fino al 2005, direttore della casa di ritiri Bethany House a Sagana tra il 2005 e il 2008, e poi direttore del Centro pastorale di Maralal fino al 2013. Contemporaneamente fu due volte consigliere regionale del Kenya: nel 2005-2008 e nel 2011-2013. Rientrato in Italia nel 2014, lavorò a Platì, Rivoli, Cavi di Lavagna e Torino. Morì il 16 settembre del 2021.

Antonio Giordano e Luca Lorusso

Archivio:

– Padre Mario dal 2015 pubblica mensilmente la rubrica «Bibbia on the road» sul sito di Amico.
South Africa Fifty, Dossier MC giugno 2021.
Amoris Laetitia famiglia missionaria, MC dicembre 2016.

Padre Masino all’inaugurazione dei saloni per le attività parrocchiali a Kahawa West, Kenya.




Mondo. Schiavitù. C’era una volta (e c’è ancora)


Nel mondo sono cinquanta milioni le persone in schiavitù. In questo numero (incredibile) rientra chi lavora forzatamente e chi si sposa contro la propria volontà. La maggior parte delle vittime sono donne e bambini.

Non occorre andare a rileggere i libri di storia e, spesso, non occorre neppure andare lontani: la schiavitù esiste ancora oggi e si può trovare vicino a noi, in Italia.

Saman aveva 18 anni. Di famiglia pakistana, la ragazza è scomparsa nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 2021 a Novellara, in provincia di Reggio Emilia. Probabilmente uccisa dal padre Shabbar Abbas e altri familiari per non aver accettato le nozze «combinate» con un cugino. Un tentativo di matrimonio forzato finito in tragedia.

Sempre in Italia c’è il fenomeno dei minori vittime di sfruttamento sessuale. Secondo l’annuale rapporto di Save the children esso riguarda, in grande maggioranza, ragazze nigeriane, ma anche della Costa d’Avorio e di alcuni paesi dell’Europa orientale (Romania, Bulgaria, Albania). La Ong li chiama «piccoli schiavi invisibili».

Se in Italia, eventi come il matrimonio forzato o il traffico di minori sono molto rari (il primo) o con numeri in crescita ma ancora contenuti (il secondo), diffuso è invece lo sfruttamento del lavoro nelle campagne italiane. Nel caso sussista anche coercizione (violenza, minacce, sequestro dei documenti, restrizione della libertà personale), esso si trasforma in lavoro forzato. Difficile dire quante siano le persone in condizioni di schiavitù nei campi di Sicilia, Calabria, Puglia, ma anche di Maremma, Veneto e Lombardia. Pagate 3 o 4 euro all’ora e in nero, sono in gran parte immigrati nordafricani e asiatici, spesso senza documenti. Stesse condizioni vengono sovente alla luce in aziende tessili di piccole dimensioni operanti sul territorio nazionale. Come, ad esempio, è stato scoperto a Prato e nel napoletano.

C’è anche la Apple

Lo scorso settembre è uscito il rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo, nell’acronimo inglese) sulla schiavitù moderna.

«La schiavitù moderna – si legge nelle prime pagine – è composta da due componenti principali: il lavoro forzato e il matrimonio forzato. Entrambe si riferiscono a situazioni di sfruttamento che una persona non può rifiutare o non può abbandonare a causa di minacce, violenza, inganno, abuso di potere o altre forme di coercizione. Le stime globali indicano che nel 2021, ogni giorno, circa 49,6 milioni di persone si trovano in condizioni di schiavitù moderna, costrette a lavorare contro la propria volontà o in situazione di matrimonio forzato».

In entrambe le condizioni, le vittime preferite sono le donne e i minori. Il lavoro forzato riguarda soprattutto i migranti, a causa della loro condizione di vulnerabilità e ricattabilità (quando sono irregolari). I settori d’impiego sono l’agricoltura, le fabbriche manifatturiere e il lavoro domestico.

I datori di lavoro sono in maggioranza privati, ma ci sono anche entità statali. Accade, per esempio, in Myanmar, con la giunta militare al potere dal febbraio 2021. O nella regione dello Xinjiang, dove la Cina – secondo il rapporto dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu uscito il 31 agosto – costringerebbe al lavoro forzato le minoranze uigure (di fede islamica).

In questo scandalo, sono rimaste coinvolte anche aziende fornitrici della Apple. La multinazionale californiana si è sempre difesa affermando di avere tolleranza zero verso il lavoro forzato e che, nei cinquanta paesi dove operano i suoi fornitori, i controlli sono molto severi. Stesse accuse sono state rivolte ad altri big del mondo digitale come Amazon, Google, Microsoft e Facebook.

Le mani degli sposi; il fenomeno del «matrimonio forzato» vige soprattutto nei paesi arabi e dell’estremo oriente. Foto Khadija Yousaf – Unsplash.

Tra le mura domestiche

Ancora meno noto è il lavoro schiavo nei servizi e, in particolare, nell’ambito domestico. In Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrain, Kuwait, Oman, ma anche Giordania e Libano, esso si basa su una interpretazione distorta del sistema di regole noto come «kafala», nato inizialmente come adozione islamica e poi estesosi ai rapporti lavorativi tra famiglie locali (gli «sponsor») e immigrati assunti come domestici (la Ilo ha stimato oltre tre milioni di persone).

Sono conosciuti gli abusi sulle donne etiopi impiegate in Libano o sul personale filippino in Arabia Saudita (paese che, in teoria, ha abolito la kafala nel marzo 2021). Per parte sua, Amnesty
International ha denunciato con forza le condizioni disumane imposte in Qatar ai lavoratori stranieri (da India, Nepal e Bangladesh) impiegati nella preparazione del mondiale di calcio in programma in questi mesi di novembre e dicembre.

Lo sfruttamento dei lavoratori domestici avviene anche nei paesi latinoamericani, in particolare in Perù. Prima della pandemia di Covid-19 (che ha portato a moltissimi licenziamenti), la Ilo stimava in 450mila i collaboratori familiari (quasi tutti donne, trabajadoras del hogar) nel paese andino.

In Perù, il lavoro domestico è regolato dalla legge e sono attive varie organizzazioni sindacali, ma permangono situazioni di sfruttamento se non di schiavitù. Soprattutto in presenza di contratti verbali o di minori.

In molti paesi, intere famiglie – genitori e bambini – lavorano come braccianti nelle campagne. Foto Zeyn Afuang – Unsplash.

Sfruttamento online

La condizione di schiavitù – sia nella forma di lavoro che di matrimonio – diventa ancora più intollerabile quando i soggetti coinvolti sono minori.

Due su cinque di quelli costretti a sposarsi erano bambini quando il matrimonio ha avuto luogo. Tra questi, il 41% è stato costretto a sposarsi prima dei 16 anni, con una netta prevalenza di ragazze (87% contro 13%). Il matrimonio forzato – più frequente nei paesi arabi e nei paesi asiatici – produce altre forme di violenza: sfruttamento sessuale, servitù domestica, abusi fisici e psicologici, sia dentro che fuori casa.

Impressionante è poi il numero di bambini vittime di sfruttamento sessuale commerciale: 1,7 milioni su 6,3, circa un quarto del totale. Il genere è un fattore determinante: quasi quattro persone su cinque intrappolate nello sfruttamento sessuale forzato sono ragazze o donne. Inoltre, con il Covid-19 si è notevolmente amplificato il rischio di mercimonio sessuale dei minori online. Internet sta creando nuovi canali di comunicazione per la tratta dei bambini e per collegare le vittime con i loro abusatori.

Il rapporto Ilo del 2022 conferma che i due obiettivi di porre fine alla schiavitù infantile entro il 2025 e alla schiavitù in tutte le sue forme entro il 2030 rimangono lontani. I ricercatori spiegano la situazione attuale in questi termini: «Le crisi che si sono sommate negli ultimi anni – la pandemia di Covid-19, i conflitti armati e i cambiamenti climatici – hanno portato a un’interruzione senza precedenti dell’occupazione e dell’istruzione, a un aumento della povertà estrema e delle migrazioni forzate, nonché a un’impennata delle denunce di violenza di genere. Tutto questo contribuisce ad aumentare il rischio di schiavitù moderna nelle sue diverse forme. Come di solito accade nei periodi di crisi, sono coloro che si trovano già in situazioni di maggiore vulnerabilità – tra cui i poveri e gli emarginati sociali, i lavoratori dell’economia informale, i lavoratori migranti irregolari e le persone soggette a discriminazione – a pagare il prezzo più alto».

Lo sfruttamento del lavoro agricolo è una pratica diffusa in tutto il mondo, anche nei paesi ricchi. Foto Aamir Mohd Khan – Pixabay.

Il prezzo del mercato

Lo scorso 14 settembre, due giorni dopo l’uscita del rapporto dell’Ilo, la Commissione europea ha proposto di proibire nei paesi dell’unione l’importazione e la vendita di prodotti realizzati con il lavoro forzato. La proposta è importante, ma realizzarla sarà complicato. Sono infatti tante le multinazionali e le aziende che sfruttano il lavoro schiavo per abbassare i costi dei prodotti e aumentare i loro profitti. Perché, come sempre, è il mercato che prevale sull’uomo.

Paolo Moiola

Fonti principali

Due rapporti scaricabili dal web e un libro:
Ilo (International labour organization), Forced labour and forced marriage, settembre 2022;
Save the children, Piccoli schiavi invisibili. XII Edizione, luglio 2022;
● Benedetto Bellesi e Paolo Moiola, Il prezzo del mercato, Emi, marzo 2006.

Logo dello sciopero dei lavoratori domestici del Perù.

 




Argentina. Scattare la giustizia


I voli della morte, durante la dittatura in Argentina, hanno ucciso, facendole sparire, migliaia di persone. Con il suo progetto fotografico, Giancarlo Ceraudo, ne ha riparlato aiutando la giustizia a fare il suo corso.

Intervisto Giancarlo Ceraudo mentre si trova in Argentina, a casa di Miriam Lewin, giornalista e scrittrice sopravvissuta durante la dittatura nel suo paese ai centri di detenzione illegale dell’Esma1 (Escuela de mecánica de la armada, la scuola ufficiali della marina argentina di Buenos Aires).

La loro amicizia dura dal 2007, anno in cui i due hanno iniziato a collaborare. Già dal 2001, però, Giancarlo aveva deciso di lavorare sull’Argentina: una scelta cruciale, che lo avrebbe portato a sviluppare uno dei progetti più importanti per la sua carriera, Destino final, una lunga ricerca fotografica sui «voli della morte» che in Argentina hanno ucciso migliaia di oppositori politici durante la cosiddetta Guerra sporca fra il 1976 e il 19832.

Viaggio e pigrizia

La fotografia, per Giancarlo, non è un fuoco sacro, né un sogno da inseguire a tutti i costi, bensì una scelta compiuta per poter coltivare, come dice lui stesso, il viaggio e la pigrizia.

Fin da ragazzo, infatti, Giancarlo si domanda se ci sia il modo per guadagnarsi da vivere senza doversi chiudere fra quattro mura e stare a regole imposte da altri.

Attratto dal «dolce far niente», ogni tanto chiede al padre come fare per vivere senza lavorare. La risposta è sempre la stessa: «Non siamo abbastanza ricchi».

Studiare gli piace e, divenuto adulto, intraprende dapprima la facoltà di giurisprudenza, poi quella di antropologia. Ma proprio non accetta l’idea di avere un orario fisso, di essere costretto in qualche modo a rimanere fermo in un posto.

Buenos Aires, November 2007. One of the “Madres de Plaza de Mayo” (Mothers of May Square) cries on her son’s name inscribed on the wall of the Memorial Park in Buenos Aires.

Straordinarietà

La fotografia come strumento per lavorare divertendosi arriva nella sua vita negli anni ‘90, quando ha già superato i vent’anni. Durante un viaggio in Perù con un amico appassionato di fotografia, prende in mano per la prima volta una fotocamera.

Dotato di un forte senso estetico, decide di applicarlo alle immagini, e il risultato è da subito straordinario.

Intuito il proprio potenziale e non potendo permettersi le poche scuole di fotografia esistenti, capisce che non può concedersi la mediocrità: «Sono sempre stato severo con me stesso: o sono bravo, bravo davvero, o devo lasciar perdere. Non posso permettermi la modestia. Un risultato modesto significa non poter fare questo lavoro».

Dal Maxxi al Sud America

Giancarlo Ceraudo è il fotografo più giovane a entrare a far parte della prima collezione di fotografia contemporanea del Maxxi di Roma, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, con «Atlante italiano» del 2003.

Il suo lavoro è stato segnalato al Maxxi dall’architetto Pippo Ciorra che ne ha intuito il potenziale.

Chiamato dal museo a corredare le sue fotografie con una frase, Giancarlo scrive: «Spesso penso che la fotografia sia un capolavoro della pigrizia: con talento e molta fortuna, regala infatti la possibilità di raccontare un mondo in una frazione di secondo e per me, che sono un inguaribile pigro, la fotografia diventa una possibile redenzione». Un punto di vista lontano dai colleghi che si descrivono appassionati, innamorati, forse anche ossessionati dalla fotografia.

Da questo momento inizia per Giancarlo un periodo di grande lavoro e decide di concentrarsi sull’America Latina, un’area geografica poco coperta dai fotogiornalisti ma piena di storie da raccontare.

Va in Cile, Paraguay, Brasile, dando vita a reportage autoriali.

«Destino final»

Intanto Giancarlo si è già trovato nel 2001 a seguire in Argentina la crisi economica che stava colpendo il paese. Ed è a Buenos Aires che inizia una storia che il fotografo seguirà per quindici anni dando vita al progetto «Destino final». Un progetto che definirà il «meno professionale della mia carriera», perché quando si segue una realtà per così tanto tempo diventa parte della propria vita. Partendo dalla sua passione per la storia che lo ha portato ad approfondire i temi delle dittature e degli stermini di massa, presto si accorge che quelle realtà studiate sui libri di scuola, in Argentina sono ferite ancora sanguinanti.

Vivere in Argentina, infatti, significa fare i conti con la realtà passata ma ancora bruciante della dittatura. E quando inizia a documentarsi, la visione del film «Garage Olimpo» di Marco Bechis, lo segna profondamente.

Parla con i testimoni, incontra i sopravvissuti, sente che c’è una storia da raccontare. Ma come farlo tramite la fotografia quando di quella storia rimangono solo ricordi e racconti? La fotografia di reportage, infatti, ha bisogno di situazioni vive che accadono davanti all’obiettivo.

La storia negli oggetti

Forse per via delle sue origini – è romano, innamorato della sua città e della storia che in essa si incontra -, comprende che l’unico modo di fotografare il passato è attraverso gli oggetti.

Si ricorda di quando, da bambino, suo padre lo portava all’aeroporto da un amico pilota e, insieme, sorvolavano la città. Immaginava le vite passate fra quelle pietre e monumenti.

Si domanda: possono i luoghi conservare i ricordi e le pietre qualcosa di ciò che è stato?

È così che il fotografo si chiede dove siano finiti gli aerei utilizzati per i famigerati «voli della morte», pratica di sterminio di massa attuata fra il 1976 e il 1983, durante la Guerra sporca.

La questione legata ai voli della morte è particolarmente spinosa, e ha risonanza non solo in
Argentina ma anche a livello internazionale, anche perché resta ancora sospesa da un punto di vista giudiziario.

Si sono cercate le vittime, i sopravvissuti, ma non gli aerei. Eppure essi sono stati gli strumenti di quel processo terribile e doloroso. Giancarlo immagina che trovare gli aerei possa voler dire trovare anche le persone coinvolte in quel massacro sistematico. Sente, però, di aver bisogno di aiuto perché, pur sapendo gestire storie complesse e avendo familiarità con le inchieste, questa va oltre le sue possibilità e da solo non può farcela.

Buenos Aires, Argentina – 2010 A forensic anthropologist examines the remains of a body recovered from a mass grave.

L’aereo della morte

È a questo punto che entra in scena Miriam Lewin, giornalista e scrittrice, vittima della dittatura, sequestrata e reclusa all’Esma, la scuola militare della Marina.

È lei a condurre Giancarlo in un viaggio della memoria. Gli racconta gli orrori dei campi di detenzione e lo conduce in alcuni dei luoghi centrali per la storia di «Destino final».

Insieme trovano le tracce di cinque degli aerei utilizzati per i voli della morte. Due risultano caduti, altri due venduti al Lussemburgo e non rintracciabili, ma uno è ancora utilizzato per il trasporto della posta e si trova a Fort
Lauderdale, in Florida, negli Usa.

È in questo aereo che Miriam e Giancarlo trovano i documenti dell’atto di acquisto sui quali sono riportati date e nomi di chi, prima di arrivare a Fort Lauderdale, l’ha pilotato.

Ma non sono documenti qualsiasi. Riportano date ben precise e le liste dei voli effettuati fra il 1976 e il 1979. Fra questi, c’è anche quello del 14 dicembre 1977.

Gettati nel mare

La traccia da cui Giancarlo e Miriam partono per trovare quei voli è una fotografia: ritrae una suora vittima di una retata del dicembre 1977 nella Chiesa di Santa Cruz, luogo nel quale gli attivisti contro il regime e le madri di Plaza de Mayo3 si ritrovavano per organizzare la lotta.

In quella retata erano state arrestate due suore. Una di loro sarebbe stata fotografata con il giornale «La Nación», datato 14 dicembre 1977, in mano.

Gli agenti dell’Esma in quel modo avrebbero sostenuto che al momento della foto le suore erano vive, e che sarebbero poi state rapite dai guerriglieri di estrema sinistra, i «montoneros», perdendone le tracce. Entrambe le suore, invece, sarebbero state uccise quella notte stessa, lanciate, nude e semistordite, insieme ad altri attivisti, dai portelloni dell’aereo in volo.

Il corpo di una di loro sarebbe stato ritrovato a riva qualche giorno dopo, spinto dalla «sudestada», insieme ad altri.

I nomi delle persone lanciate dai voli della morte erano fedelmente registrati nei documenti ritrovati da Giancarlo e Miriam sull’aereo di Fort Lauderdale.

Parrandas de Remedios 2008.

 

Foto per la giustizia

A seguito del ritrovamento dell’aereo e dei documenti in esso contenuti, vengono arrestati tre piloti: un militare ormai in pensione e due comandanti di voli di linea ancora in attività.

Con uno di essi, divenuto, dopo la fine della dittatura, pilota di linea, Giancarlo ha anche volato da Roma a Buenos Aires.

Arrestati nell’aprile del 2011, saranno condannati all’ergastolo nel novembre del 2017.

E sarà poco prima di quel pronunciamento che il lavoro fotografico di Giancarlo si fermerà.

Al momento dell’arresto dei piloti, nel 2011, il fotografo fa parte della nota agenzia fotografica Noor. I suoi colleghi gli dicono che dovrà essere la foto del processo e della condanna a chiudere il suo lavoro, ma lui decide di non farlo. Vuole chiudere il libro prima. C’è un momento in cui bisogna fermarsi.

Sì, perché scattare quell’ultima foto al banco degli imputati sarebbe troppo: lì, in fondo, ce li ha portati lui, ha influito sul destino di quegli uomini fotografando l’aereo, cercando prove e documenti; ma lui è solo un testimone, non è come Miriam e altri sopravvissuti che ora possono permettersi gioia, e anche un certo senso di giustizia ristabilita.

Parte per Cuba prima della fine del processo. Lì, per l’assenza di internet, è quasi impossibile seguire quello che succede in Argentina. Lo raggiunge comunque la notizia dell’ergastolo. Giancarlo è felice per Miriam e per tutti quelli che hanno avuto giustizia, ma sente di aver fatto solo il proprio dovere.

Se si hanno dubbi sull’importanza del fotogiornalismo oggi, il lavoro di Giancarlo Ceraudo ci aiuta a fugarli e a farci comprendere, ancora una volta, la potenza di una storia sapientemente raccontata.

Valentina Tamborra


Note:

1- I voli della morte furono una pratica attuata tra il 1976 e il 1983, durante la Guerra sporca in Argentina nell’ambito del cosiddetto Processo di riorganizzazione nazionale. Migliaia di dissidenti politici, o ritenuti tali, furono gettati in mare sotto l’effetto di droghe da aerei o elicotteri militari.

2- Durante la dittatura l’Esma divenne il più grande e attivo centro di detenzione illegale ove le persone scomode al regime della giunta militare venivano segregate e torturate. Delle circa 30mila persone assassinate, più di 5mila passarono da questi centri, solo 500 circa sono i sopravvissuti.

3- Le Madri di Plaza de Mayo è un’associazione formata dalle madri dei desaparecidos, i dissidenti o presunti tali scomparsi durante la dittatura militare.


Giancarlo Ceraudo

Nato a Roma nel 1969. Fotografo documentarista, ha lavorato in America Latina, Medio Oriente e in Europa sui diritti umani e su questioni sociali e culturali.

Suoi lavori sono stati pubblicati su media italiani e internazionali come L’Espresso, Internazionale, El País, Geo, Sunday Times Magazine, New Yorker, Libération, National Geographic, Vrij Nederland, Polka Magazine, 6 Mois. Le sue fotografie fanno parte della collezione del Maxxi di Roma e sono state oggetto di mostre in Italia, Spagna, Francia e Stati Uniti.

www.giancarloceraudo.net

V.T.




Albert Einstein, Tra Nobel e famiglia


La vita del grande fisico tedesco non è stata facile. Problemi familiari, invidie, incomprensioni, accuse (anche di comunismo) non sono mai mancati. Lo ricordiamo a cent’anni dall’assegnazione del premio Nobel (ma non per la sua teoria della relatività).

Il 9 novembre 1922, il Comitato per il premio Nobel per la fisica decise di assegnare, con un anno di ritardo, il premio per il 1921 ad Albert Einstein «per i suoi servizi alla fisica teorica, in particolare per la sua scoperta della legge dell’effetto fotoelettrico».

Il premio assegnato al fisico tedesco venne conferito con un anno di ritardo perché nel 1921 la Reale Accademia delle scienze svedese non aveva ritenuto alcun candidato meritevole del premio, riservandosi il diritto di rivedere la propria posizione in seguito. Fu Allvar Gullstrand, uno dei cinque membri che doveva valutare le candidature, a nutrire particolare ostilità nei confronti della teoria della relatività di Einstein, ancora di difficile comprensione. Naturalmente gli accademici svedesi erano imbarazzati per non aver ancora concesso il massimo onore a uno scienziato così popolare che, dal 1910 al 1922, era stato nominato

annualmente come candidato (ad eccezione del 1911 e del 1915) senza mai ottenere il premio. Fu un altro membro della Reale Accademia delle scienze, Carl Wilhelm Oseen, a trovare la soluzione: dato che non si riusciva a laureare Einstein per la sua teoria della relatività, lo propose per il suo articolo scritto, sempre in quell’annus mirabilis 1905, sull’effetto fotoelettrico.

Einstein apprese la notizia del conferimento del premio il 13 novembre 1922 mentre stava per imbarcarsi a Shanghai diretto verso il Giappone. Con lui c’era la seconda moglie Elsa Löwental, che era anche sua cugina di primo grado. Gli anni felici passati con Mileva Marić, la prima moglie da cui aveva divorziato nel 1919, erano ormai dimenticati e mentre Einstein trovava nuovo slancio nella sua vita privata e scientifica, l’ex coniuge arrancava a Zurigo con i loro due figli Hans Albert ed Eduard (a cui, in seguito, sarebbe stata diagnosticata una forma di schizofrenia).

Un giovane Albert Einstein con la prima moglie Mileva Marić, serba con cui fu sposato dal 1903 al 1919 e da cui ebbe due figli, Hans Albert e Eduard, e una figlia. Foto ETH-Bibliothek Zürich, Bildarchiv.

Tra Svizzera e Serbia

Il centenario del Nobel ad Albert Einstein è l’occasione per ripercorrere i passi compiuti a Berna dall’allora felice coppia Einsten-Marić che lo stesso Albert aveva soprannominato, prendendo spunto dal proprio cognome, «Una pietra» (da «ein», una, e «stein», pietra).

I due si erano conosciuti – lei ventenne lui diciassettenne – nel 1896 all’Istituto politecnico svizzero di Zurigo (oggi Istituto federale svizzero di tecnologia, Eth). La Svizzera era uno dei pochi paesi in Europa dove alle donne era permesso studiare materie scientifiche, ma l’amore sbocciato con Albert non le permise di conseguire il diploma: nel 1902 Mileva rimase incinta e nello stesso anno, a Novi Sad, la città in cui abitava la famiglia di lei e dove si era recata per partorire, nacque una bambina a cui venne dato il nome di Lieserl. Poco dopo, della figlia si

persero le tracce: c’è chi dice che morì, chi invece afferma sia stata data in adozione. Da parte loro, i coniugi Einstein non ne fecero più cenno pubblicamente (l’ipotetica lettera alla figlia scritta da Einstein che circola su internet è un falso).

Nel 1902 Albert, che non aveva potuto seguire la fidanzata in Serbia, si trasferì a Berna occupando un posto nell’Ufficio federale della proprietà intellettuale. Il novello fisico rimase immediatamente estasiato dalla città, tanto da scrivere a Mileva: «Berna è deliziosa, è una di quelle città in cui vivere è confortevole e dove si può vivere bene come a Zurigo».

Einstein vi sarebbe rimasto per i successivi sette anni (traslocando sette volte), ma in questa piccola cittadina sembrava avesse trovato il suo equilibrio vitale. Pertanto, dopo aver acquisito una certa stabilità economica, chiese alla sua amata di tornare in Svizzera e di sposarlo. Lei acconsentì e nel 1903 divenne la signora Einstein.

Passarono i successivi due anni, forse i più tranquilli e felici della loro vita, in un bell’appartamento in via Kramgasse 49, dalle cui finestre era possibile osservare lo Zytglogge, il famoso orologio medioevale che si dice abbia ispirato ad Einstein l’idea della relatività del tempo. Albert lavorava sei giorni alla settimana all’ufficio brevetti, dalle 7 alle 18 anticipando l’uscita alle 17 solo al sabato. Tornava a casa e si rimetteva al lavoro sulla piccola scrivania cercando di completare le sue teorie (la leggenda che Einstein lavorasse alle proprie idee durante gli orari d’ufficio e di nascosto dal suo superiore sembra sia infondata).

Gli Einstein sembravano veramente «una pietra»: affiatati e innamorati, incontravano amici, discutevano di fisica. Nel 1904 ebbero un altro figlio, Hans Albert, e le aspirazioni di Mileva di poter conseguire il diploma e intraprendere la carriera di scienziata si dileguarono definitivamente.

Nell’appartamento di Kramgasse 49, mentre il marito continuava le sue ricerche, Mileva puliva, riassettava, cucinava, accudiva il piccolo Hans.

Poi arrivò il famoso 1905, l’annus mirabilis. In pochi mesi, dal 18 marzo al 27 settembre, Albert Einstein collezionò una serie di straordinari successi pubblicando i suoi articoli sulla più prestigiosa rivista scientifica di allora, gli Annalen der Physics.

Iniziato con l’articolo sull’effetto fotoelettrico che gli sarebbe valso il Nobel, l’annus mirabilis terminò il 27 settembre 1905 con la pubblicazione de L’inerzia di un corpo dipende dal contenuto di energia? in cui compare la famosa relazione tra energia e massa collegandola a un suo precedente articolo pubblicato nel giugno 1905 sulla relatività ristretta.

Einstein con la seconda moglie, Elsa Löwental, con cui rimase fino alla morte di lei, avvenuta nel 1936. Foto The George Grantham Bain Collection.

Contributi ignorati?

La paternità degli articoli che resero famoso Einstein non fu mai messa in discussione fino a quando, nel 1969, Desanka Trbuhovi-Gjuri scrisse una biografia di Mileva Marić in cui asseriva che il contributo della moglie serba nelle teorie di Einstein fosse stato decisivo.

Nonostante non si siano mai trovate prove definitive su questa tesi, da quel volume nacque una fiorente letteratura che sarebbe sfociata anche in serie televisive che rivalutavano la collaborazione scientifica di Mileva alle scoperte del marito.

Oggi, gli studiosi sono pressoché unanimi nell’asserire che la Marić non destreggiasse sufficientemente la matematica per poter assumere un ruolo decisivo nel lavoro di Einstein. Del resto nell’abbondante carteggio di Einstein, in cui compaiono le lettere anche della moglie, non vi sono indicazioni di un coinvolgimento diretto di Mileva.

I rapporti tra i coniugi erano ancora ottimi quando gli Annalen pubblicarono i lavori del fisico tedesco, quindi perché, si chiedono in molti tra storici e scienziati, negli scritti originali della relatività ristretta, Albert Einstein avrebbe ringraziato l’amico Michele Besso per «essere rimasto accanto nel mio lavoro sul problema qui discusso e di cui gli sono debitore per i numerosi e valenti suggerimenti» senza citare la moglie?

Forse, accanto al supporto dato dalla moglie, la grande ingegnosità della mente di Einstein potrebbe essere stata stimolata dalla ricchezza culturale di Berna e dall’atmosfera di tranquilla operosità che la cittadina emanava.

Le passeggiate che sicuramente lo scienziato faceva sulle colline circostanti e nel Rose Garden, dove ancora oggi c’è una panchina con una sua statua, potrebbero aver stimolato la sua visione. Le caffetterie che si aprono sull’arteria principale furono teatro di discorsi con gli amici scienziati. Probabilmente fu in uno di questi locali che Michele Besso introdusse all’amico i lavori di Ernst Mach, decisivi per la futura visione fuori dagli schemi della fisica che accompagnò Albert.

Gli «anni felici trascorsi a Berna», come Einstein avrebbe descritto in seguito quello sprazzo di vita passata nella capitale svizzera, sarebbero rimasti sempre impressi nei ricordi dello scienziato.

A Berna si consolidò anche lo stretto sodalizio con il matematico Conrad Habicht e il filosofo Maurice Solovine. I tre, ai quali talvolta si aggiungeva anche Besso, si riunivano spesso prima nell’appartamento di Gerechtigkeitsgasse al 32 e poi in Kramgasse 49 per discutere non solo di fisica, ma anche di religione, politica, filosofia. Mileva, a quanto avrebbe scritto Solovine, si limitava a osservare: portava in tavola gli stuzzichini (in genere, salsicce, formaggio, frutta), serviva il caffè, il tè senza partecipare alle discussioni. L’Akademie Olympia (Accademia Olimpia), come venne chiamato il gruppo dagli stessi partecipanti, giocò un ruolo essenziale nella formazione eclettica di Einstein. Nel salotto di casa, col sottofondo dello sferragliare dei tram scandito dai battiti dello Zytglogge, i tre discutevano i temi trattati da David Hume, John Stuart Mill, Henri Poincaré, Baruch Spinoza. Di tanto in tanto, Einstein dilettava gli amici suonando il suo violino.

Nel 2005, la casa in cui gli Einstein abitarono venne trasformata in museo, la «Einsteinhaus», mentre il Museo storico di Berna dedicò un’intera sezione alla coppia.

I partecipanti alla conferenza di Solvay del 1927; in prima fila, al centro, un inconfondibile Albert Einstein. Si noti, inoltre, Marie Curie, unica donna tra tanti uomini. Foto International Solvay Institutes for Physics and Chemistry.

 

Maldicenze e invidie universitarie

Berna fu davvero il palcoscenico dove si dipanarono gli anni più spensierati di Einstein. Con la locale università il rapporto fu invece più conflittuale che collaborativo.

Forse Einstein si risentì per il rifiuto ricevuto il 28 ottobre 1907 dalla facoltà dell’ateneo bernese della sua domanda per l’abilitazione all’insegnamento in Fisica teorica. La ricusazione non fu motivata dal rigetto delle sue teorie, come è stato recentemente ipotizzato, ma da un cavillo burocratico: Einstein non aveva presentato la tesi di abilitazione. La espose qualche settimana più tardi perché il 27 febbraio 1908 la stessa università invitò il fisico a una lezione di prova con alcuni studenti. La sua esposizione non sembra fosse stata apprezzata dagli studenti: molti trovarono i suoi concetti interessanti, ma spiegati in modo poco comprensibile e tanti abbandonarono il corso prima della sua conclusione.

Alla fine, ad Einstein venne proposto una Privatdozent che gli permetteva di diventare un docente privato esterno e senza paga, che avrebbe potuto tenere lezioni nelle aule dell’università raccogliendo le tasse di iscrizione ai suoi corsi.

L’esperienza fu però un fallimento: «L’università è un letamaio. Non insegnerò lì, sarebbe una perdita di tempo», scrisse a Michele Besso.

Come molti suoi colleghi, Einstein non riusciva a esprimere con concetti chiari e semplici le sue idee che risultavano astruse al corpo studentesco.

La gloriosa epopea bernese della famiglia Einstein terminò il 6 luglio 1909 quando, a seguito dell’accoglimento della sua domanda di insegnamento al Politecnico di Zurigo, rassegnò le sue dimissioni dall’Ufficio brevetti di Berna e, assieme a Mileva e a Hans Albert, si trasferì a Zurigo.

Qui, a differenza di Berna, il suo essere ebreo lo portò a subire maldicenze da parte dei suoi colleghi. Altra città e altri tempi per il futuro premio Nobel per la fisica.

Piergiorgio Pescali


L’uomo, la religione, le idee

Einstein, ebreo e pacifista

La copertina che Time, la famosa rivista statunitense, dedicò ad Albert Einstein il 1° luglio 1946.

Albert Einstein nacque a Ulm, nella regione tedesca del Württemberg, il 14 marzo 1879 da una famiglia ebrea ashkenazita (da «Ashkenaz», il nome ebraico della regione del Reno, dove gli ebrei di lingua yiddish si stanziarono nel medioevo). A Monaco, dove la famiglia si era trasferita, Einstein frequentò le scuole cattoliche, ma fu un altro ebreo di origine lituana, Max Talmud, a scoprire il suo talento per le materie scientifiche. La passione per la scienza allontanò Einstein dalla religione: in una lettera del 1929 indirizzata a un rabbino, scrisse di credere a un Dio in armonia con gli esseri viventi più che al Dio trascendente della tradizione ebraica.
Questa sua idea di essere supremo panteistico spinoziano lo portò ad abbracciare il suo pacifismo che, assieme al sionismo, ebbe un peso determinante nella vita sociale dello scienziato (nella sfera privata, invece, Einstein non fu così mite e fu un padre assente nella vita dei figli).
Poche volte nella sua vita, Einstein trasgredì la sua vena pacifista: la lettera inviata a Roosevelt in cui chiedeva al presidente Usa di avviare un programma per sviluppare la bomba nucleare, fu una parentesi dovuta al terrore di vedere Hitler trionfare in Europa.
Il Time fu implacabile nel dedicargli la copertina del 1° luglio 1946 in cui lo ritraeva accanto a un fungo atomico. In realtà, l’appellativo di «padre della bomba atomica», che per anni lo rincorse con suo disappunto, fu del tutto ingiustificato, visto che si rifiutò di collaborare al «progetto Manhattan», il programma di ricerca e sviluppo che portò alla produzione dell’arma nucleare. Il suo impegno per il disarmo e per il dialogo tra Usa e Urss gli procurò guai negli Stati Uniti fino a essere accusato di simpatie comuniste.
La nascita dello stato di Israele fu salutata da Einstein con favore, ma rimase sempre scettico sulla partizione tra arabi ed ebrei. L’unica volta che visitò la Palestina fu nel 1922, al ritorno da un viaggio in Giappone. Nel 1952, alla morte di Chaim Weizmann, il suo amico e primo ministro israeliano David Ben-Gurion gli offrì la presidenza dello stato, che il fisico rifiutò.
L’ultima sua grande incursione pubblica fu la firma del «manifesto Russell», la dichiarazione del 1955 (anno in cui Einstein morì) che, partendo dalla constatazione del pericolo posto dagli arsenali nucleari, chiamava i potenti della Terra a cercare una soluzione pacifica dei conflitti. La pubblicazione del manifesto portò anche alla fondazione del movimento Pugwash che si prefigge l’eliminazione delle armi di distruzione di massa nel mondo.

Piergiorgio Pescali

Righi-Einstein e l’effetto fotoelettrico

L’effetto fotoelettrico, motivo del conferimento del premio Nobel per la fisica ad Albert Einstein nel 1922, era già noto da tempo. Fu l’italiano Augusto Righi nel 1888 a dare il nome di fotoelettrico al fenomeno di emissione di elettroni che avviene quando un metallo è colpito da una radiazione elettromagnetica. Quello che Einstein fece, nel suo lavoro intitolato «Un punto di vista euristico sulla produzione e trasformazione della luce», fu di spiegarlo correttamente ipotizzando che la luce fosse formata da piccole particelle, i fotoni, che, trasportando una certa quantità di energia, potevano eccitare gli elettroni di un atomo. Se l’energia trasmessa dai fotoni fosse stata sufficientemente alta, gli elettroni avrebbero potuto liberarsi dal legame che li teneva uniti al loro nucleo.

Grazie al suo articolo, scritto a Berna il 17 marzo 1905 e pubblicato dagli Annalen der Physics il successivo 9 giugno, venne dimostrato che la luce, o meglio i fotoni, potevano comportarsi sia come onde che come particelle. (PP)

Il libro

Piergiorgio Pescali, autore di questo articolo e storico collaboratore di MC, ha pubblicato recentemente un nuovo libro sulla guerra in Ucraina: Il pericolo nucleare in Ucraina, Mimesis Edizioni, Milano 2022.

 

 

 

 

 

 

 




Per una salute che arriva al cuore


Le foreste del Nord Ovest del Congo sembrano l’ultimo posto al mondo dove ci sia bisogno di un centro di cardiologia. Eppure, povertà, violenze, guerre, cibo inadeguato, assenza di cure e uso di bevande acoliche tradizionali creano una situazione sanitaria che ha bisogno di risposte urgenti.

L’«Hôpital notre Dame de la Consolata» a Neisu, è un ospedale rurale situato nell’aerea della chefferie Ndey, territorio di Rungu, provincia dell’Haut-Uélé nella diocesi d’Isiro-Niangara in Rd Congo. Neisu (che nelle mappe si trova ancora con l’antico nome coloniale di Egbita) è a 33 km da Isiro, il capoluogo della provincia Nord orientale.

L’area è caratterizzata da un clima tipicamente tropicale con due stagioni: stagione delle piogge e stagione secca.
La popolazione di Neisu e dintorni appartiene principalmente all’etnia mangbetu e ai Bayogo, un gruppo minoritario di Pigmei. Vive principalmente di agricoltura (arachidi, mais, banane, riso) e allevamento di bestiame (capre, suini, pecore, pollame). L’insieme della popolazione è stimata a più di 80mila abitanti.

Nella parte settentrionale della provincia si trovano miniere di diamanti – perlopiù sfruttate artigianalmente – nelle quali lavorano prevalentemente giovani fra i quali, di conseguenza, è elevata l’incidenza di malattie polmonari e, a causa dell’inevitabile promiscuità, di malattie a trasmissione sessuale, incluso l’Aids.

Le sole vie d’accesso sono le strade, ma in uno stato di completa rovina. Ai tempi coloniali esisteva anche una ferrovia a scartamento ridotto, ora totalmente fuori uso.

Ospedale di Neisu

Nasce l’ospedale

L’ospedale inizia la propria attività a fine 1982 in un capannone vicino al luogo dove si sta costruendo la nuova chiesa con l’arrivo di padre Oscar Goapper, missionario della Consolata argentino che, prima della sua partenza, ha fatto un corso base da infermiere. Padre Oscar, che intanto studia con l’aiuto di un medico locale per migliorare le sue conoscenze sanitarie, fonda un primo dispensario per rispondere al grave abbandono sanitario di tutta la zona. Presto questo diventa «l’Ospedale Nostra Signora della Consolata».

Nel 1986 padre Oscar si iscrive all’università di medicina a Milano continuando a lavorare a Neisu, e riesce, nel 1994, a laurearsi in medicina a pieni voti. L’ospedale fiorisce, ma nel 1998, in piena guerra civile, tutti devono scappare in foresta per salvarsi. Ritornati all’ospedale all’inizio del 1999, riprendono in pieno il servizio per rispondere a una situazione disastrosa.

Contagiato da un’infezione di un paziente che stava curando, padre Oscar muore improvvisamente il 18 maggio 1999. Ma l’ospedale, così necessario in quella zona fuori del mondo, continua la sua attività. La sua fama si estende progressivamente, cosicché i pazienti vengono dalla città di Isiro e da altri centri della provincia per essere curati. Alcuni, attirati dalle infrastrutture e anche dalle possibilità di scolarizzazione per i figli, decidono di stabilirsi a Neisu dopo la propria guarigione.

Ospedale di Neisu – Dipinto con padre Oscar e suor Irene

Alcuni dati

L’ospedale Nostra Signora della Consolata di Neisu ha una capacità d’accoglienza di 190 posti letto, più venticinque letti nella nuova maternità.

Impiega cinque medici, cinquanta fra infermieri e tecnici di laboratorio e radiologia, ed altri quaranta impiegati (servizio amministrativo, addetti alla lavanderia, alle cucine, alla manutenzione alle riparazioni tecniche ecc.).

I servizi offerti dall’ospedale comprendono: ambulatorio, farmacia ospedaliera, laboratorio analisi, radiologia, centro nutrizionale (Centre Bolingo), servizio di medicina preventiva di comunità, unità operative di medicina, chirurgia, pediatria, ginecologia, ostetricia e un nuovo reparto di cardiologia. Inoltre, garantisce terapie e cure preventive (salute materna e infantile, educazione sanitaria, salute comunitaria), oltre a cure per la malaria che diventa epidemica in alcuni periodi dell’anno.

Il bacino di utenza dell’ospedale è di 70mila persone, ma numerosi sono gli afflussi dalle zone confinanti.

Presenza sul territorio

L’ospedale assicura, inoltre, la supervisione del settore Ovest dell’area sanitaria di Isiro, nella collettività di Ndey, Mongomasi e Medje-Mango, circa 1.800 km2, per una popolazione di circa 60mila abitanti, con una rete di sei dispensari e sei postazioni sanitarie che coprono dieci aree diverse. Questi dispensari si trovano in piena foresta e sono un punto di riferimento e consolazione per la molta popolazione che vive lontana da Neisu. Vista l’impraticabilità delle strade, raggiungere questi posti diventa sempre più impegnativo per l’ospedale, e anche costoso per il mantenimento dei vari equipaggi, delle attrezzature necessarie, le medicine e il carburante.

L’ospedale non riceve energia elettrica da fuori e per il funzionamento delle attrezzature mediche viene utilizzato sia il generatore centrale, alimentato a gasolio, sia l’energia fotovoltaica autoprodotta. Segue le politiche e i programmi sanitari del paese, ma non riceve finanziamenti pubblici dal governo e quindi è interamente supportato, a livello economico, dai Missionari della Consolata, con l’aiuto di amici e benefattori. Le entrate dell’ospedale decisamente non bastano a coprire le spese per le medicine (acquistate in Uganda), per gli stipendi e gli alimenti per il centro nutrizionale e la manutenzione.

Ospedale di Neisu

Come vive la gente

La vita nel villaggio, qui a Neisu, in piena foresta, è molto diversa dalla vita nella cittadina d’Isiro. La gente è più povera, vive sulla soglia della sopravvivenza, fa tanta fatica a pagarsi alimenti, medicine, vestiti, e ancor di più a provvedere libri, quaderni e divise scolastiche per i bimbi. Spesso pagano le fatture e le medicine dell’ospedale, anziché in denaro, con prodotti agricoli locali: riso, fagioli, mais. Tutto questo serve poi per il centro nutrizionale e per i poveri che visitiamo ogni giorno. In molti casi, e sono troppi, vista la miseria di certe situazioni, concediamo dei crediti. Di fronte a situazioni d’urgenza, l’unica via possibile è dare un credito per poter salvare una vita. Questi crediti difficilmente si recuperano, ma in certe contingenze è sempre meglio «perdere» (denaro) che lasciare una vita abbandonata alla sua triste sorte.

Altri, non avendo la possibilità di pagarsi tutta la fattura dell’ospedale, lasciano in pegno qualche oggetto, casseruole, piccoli vestiti o una vecchia moto quasi inutilizzabile. Ogni anno, il nostro ospedale si riempie soprattutto di bambini, i più vulnerabili, ma anche di adulti e anziani, colpiti da malaria.

Molti arrivano dai villaggi vicini, ma anche da quelli distanti una sessantina di km. In troppi casi, i pazienti arrivano in situazioni d’emergenza, soprattutto i più piccoli, con anemia severa, per la quale serve subito una trasfusione. Purtroppo, anche in questi casi, molti non hanno i soldi per pagare il sacchetto di sangue, che resta così a carico dell’ospedale.

Il rapporto annuale 2021 documenta che abbiamo curato circa 2.500 persone colpite da malaria e fatto 1.260 trasfusioni.

Ospedale di Neisu

Cardiologia, perché

I malati di cardiopatia e d’ipertensione, in questi ultimi anni sono in continuo aumento e costituiscono una grande sfida a livello sanitario, vista la mancanza di ospedali e medici specializzati in cardiologia, anche nella più vicina città di Isiro.

Le cause principali delle malattie cardiache sono le seguenti:

  • Stress. Il livello socioeconomico basso e l’instabilità politica non permettono alla popolazione di assicurarsi una stabilità di vita, e sono diffuse la precarietà e l’incertezza.
  • La famiglia allargata. Essa domanda che ognuno si prenda cura di tutti i suoi componenti, per cui molti, già in giovane età, devono impegnarsi a cercare i mezzi per un futuro migliore.
  • Le abitudini alimentari. Povere in proteine e troppo ricche di grassi e sale. In primo luogo l’eccessiva consumazione di olio di palma, ricco di colesterolo.
  • L’eccessivo e sregolato consumo di bevande alcoliche di preparazione locale. Il metodo di produzione delle stesse non rispetta minimamente i principi della giusta distillazione, per cui è impossibile quantificare i gradi acolici presenti in esse, che sono spesso molto elevati.
  • Il consumo della noce di cola, che è un forte eccitante.

Queste sono alcune tra le cause più comuni, e sempre in aumento già in giovane età. Abbiamo ricoverato studenti tra i 13 e i 20 anni con problemi cardiologici. Purtroppo molti non sopravvivono.

Ospedale di Neisu

Il nuovo reparto

Grazie alla donazione di una famiglia torinese, nel maggio scorso, abbiamo terminato di costruire un padiglione per la cardiologia, composto da una stanza con una decina di posti letto per uomini, un’altra simile per sole donne, con servizi igienici esterni, lo studio medico e due stanze private con servizi igienici e doccia in camera. Tutto con una cinta di protezione.

Vista la mancanza di cardiologi e medici specialisti in generale, nello scorso mese di aprile abbiamo inviato a Kinshasa, la capitale del paese, per una formazione in cardiologia, una nostra dottoressa e due infermiere, che ad oggi sono ancora in formazione.

Questa è la situazione.

  • Nel 2020 abbiamo trattato 168 pazienti con problemi cardiaci e 108 con ipertensione.
  • Abbiamo ricoverato in medicina interna 64 pazienti con problemi cardiaci e 46 per ipertensione.
  • In terapia intensiva: 14 pazienti con cardiopatie e 13 ipertensione. In questo servizio, sui 72 decessi, 12 sono avvenuti per problemi cardiaci.
  • In medicina interna, su 1.234 ricoverati, 110 sono pazienti con problemi cardiaci e ipertensione. Il 30% dei decessi in medicina interna sono legati a cardiopatie.

Ospedale di Neisu

Ospedale di Neisu

Richiesta d’aiuto

Ora abbiamo bisogno di equipaggiare questa cardiologia.
Finora siamo riusciti a comperare un elettrocardiografo e un ecodoppler. Avremmo bisogno di un monitor, un concentratore d’ossigeno, un holter pressorio ed un piccolo gruppo elettrogeno che ci servirà per far funzionare tutte le apparecchiature mediche necessarie per le varie diagnosi di cardiologia. Più eventuali condensatori di ossigeno per quando il grosso gruppo elettrogeno dell’ospedale è spento. Visti i costi elevati del carburante per far funzionare il generatore centrale dell’ospedale, questo piccolo generatore è indispensabile soprattutto nel pomeriggio o nelle urgenze notturne.

Per il funzionamento saranno necessari 1.500 litri di carburante all’anno. Ci sarebbe utile anche un altro monitor per il reparto di terapia intensiva, visto che ne siamo tutt’ora sprovvisti. Tutte queste apparecchiature e il carburante (il cui prezzo è ormai imprevedibile anche qui da noi) saranno acquistate a Kampala (Uganda).

Come missionari siamo chiamati a essere portatori di speranza, quella speranza che è la tenera ala che sostiene la nostra fede, speranza che ci fa credere nei sogni di altre persone, sogni che non possono spezzarsi in giovane età.

Ivo Lazzaroni
amministratore dell’ospedale


Amici Missioni Consolata

Progetto cardiologia

Sosteniamo gli Amici Missioni Consolata che si impegnano a raccogliere i circa 15mila euro necessari all’acquisto dei macchinari per il reparto di cardiologia di Neisu.

Donazioni attraverso la  Fondazione MCO specificando: «Cardiologia Neisu».

Grazie.

 




È tempo per una nuova Colombia


Dallo scorso 7 agosto il paese latinoamericano è guidato da Gustavo Petro e Francia Márquez, un politico di sinistra e un’afrocolombiana. In queste pagine Angelo Casadei, missionario della Consolata, racconta il proprio stupore davanti a un cambio considerato epocale.

Arrivai in Colombia per la prima volta nel 1986, poco dopo l’assalto e la terribile strage (101 morti) al Palazzo di giustizia di Bogotá, compiuta dal gruppo guerrigliero M-19 (novembre 1985).

In quegli anni, il paese era in pieno boom (bonanza, in spagnolo) della coca e le Farc, il principale gruppo guerrigliero, avevano trovato nel traffico della droga un mezzo per finanziare la loro guerra contro lo stato. Era pure il tempo del grande narcotrafficante Pablo Escobar (1949-1993), che con la sua guerra mise in ginocchio l’intero paese.

Il 9 marzo del 1990 l’M-19 depose le armi (pagando l’accordo con l’assassinio di molti suoi leader) e iniziò a partecipare attivamente alla vita politica: all’assemblea costituente e al rinnovo della Carta costituzionale (1991), nella quale le popolazioni indigene e gli afrocolombiani, fino ad allora invisibili, trovarono finalmente spazio con diritti e doveri.

Il neo presidente colombiano Gustavo Petro (a destra) con l’ex presidente Álvaro Uribe in una riunione avvenuta a Bogotà lo scorso 29 giugno, poco dopo la vittoria elettorale. Foto Gustavo Petro’s Press Office – AFP.

Gli anni di Uribe

Nel 2002, le elezioni presidenziali furono vinte da Álvaro Uribe Vélez che aveva creato un suo partito. Una volta salito al potere, Uribe iniziò una guerra sfrenata contro la guerriglia e in modo particolare contro le Farc, definendo queste un gruppo terrorista davanti alla comunità nazionale e internazionale.

Quando – era il 2005 – per la seconda volta tornai in Colombia, trovai una popolazione esausta per tanta violenza e una guerra di cui non vedeva la fine. Nel 2006, Uribe venne riconfermato presidente governando fino al 2010. Suo successore venne eletto Juan Manuel Santos, già ministro della difesa del suo governo. Santos però si allontanò dalla politica uribista facendosi promotore di un accordo di pace.

Nel 2014 venne rieletto proprio per portare a termine questo percorso di pacificazione che, dopo un lungo e travagliato cammino, si chiuse con gli accordi firmati in territorio neutrale, a Cuba, il 26 settembre 2016.

Nel 2018, alla presidenza del paese arrivò Iván Duque, un altro delfino di Uribe, anzi una sua brutta copia che avrebbe alimentato il malcontento tra la popolazione, soprattutto tra i giovani i quali, mossi anche da gruppi di sinistra, nel 2021 avrebbero organizzato i paros nacionales (scioperi nazionali) contro alcune riforme governative che ancora una volta andavano a favorire il sistema politico vigente e le classi più elevate.

Il 19 giugno 2022 (nel secondo turno elettorale), dopo un’intensa campagna con tensioni e conflitti, il popolo colombiano ha eletto presidente della Repubblica Gustavo Francisco Petro Urrego e Francia Elena Márquez Mina come vicepresidente.

Il villaggio di Hericha, sul fiume Orteguaza (Caquetá). Foto Angelo Casadei.

Una svolta storica

Sicuramente l’elezione di Gustavo Petro e Francia Márquez segna un cambio profondo nella storia colombiana, un punto di rottura nella politica nazionale e internazionale. L’elezione di un ex guerrigliero di sinistra e di una donna afro proveniente da una classe povera è qualcosa d’impensabile fino a qualche anno fa.

La Colombia è stata sempre governata da politici della destra e dai ricchi che dominano il paese fin dall’indipendenza dalla Spagna (luglio 1810). Pertanto, quello che è successo il 19 giugno 2022 è una pagina nuova e inaspettata.

È un fatto che queste elezioni abbiano dato un «giro» completo alla politica della Colombia, un paese «dove si vive il classismo, il razzismo, la violenza e la paura dei poveri», come direbbe la giornalista Yolanda Ruiz.

Esse hanno rappresentato l’emergere dell’«altra Colombia», della Colombia emarginata e messa alla periferia della vita. Esse hanno significato l’emergere di gruppi e settori storicamente discriminati ed esclusi, come sono i giovani, le donne, gli afrocolombiani, gli indigeni, i contadini e le minoranze sessuali.

Analizzando il risultato delle votazioni, un’altra impressione è che il paese ha messo in luce una forte polarizzazione politica sia per il numero di candidati presentatisi sia per le poche migliaia di voti che hanno separato Gustavo Petro dal suo rivale Rodolfo Hernández.

Alla fine di tutto nessuno ignora che l’elezione di Gustavo Petro e di Francia Márquez rappresenta una grande sfida per il paese e per il mondo: per la sua novità e per i possibili ostacoli che si potranno incontrare lungo questo nuovo cammino.

È sicuramente vero che sono molti i rischi che aleggiano sulla presidenza di Gustavo Petro. I maggiori sono la frattura sociale, lo scontento diffuso, la violenza. L’opposizione di certo non lo lascerà governare facilmente, come pure gli enti di controllo, gli apparati della giustizia, i gestori della finanza pubblica, e lo stesso esercito. In una parte dei colombiani c’è, inoltre, il timore che la Colombia intraprenda una strada come quella del vicino Venezuela.

La realtà è molto diversa. Ci troviamo davanti a un popolo lavoratore che, in questi anni, ha sostenuto l’economia, anche nei duri momenti della pandemia. Penso che, se la Colombia avesse voluto un cambiamento, in questo momento storico non avrebbe potuto che trovarlo nel presidente eletto.

La scuola elementare – una costruzione in legno e una in cemento – de La Macarena (Solano, Caquetá). Foto Angelo Casadei.

Una coppia unica

Gustavo Petro ha una grande esperienza politica che ha coltivato e sperimentato prima come sindaco di Bogotà, poi facendo parte dell’opposizione.

Petro è stato anche l’unico dei candidati che avesse un progetto di governo chiaro e preciso che punta molto sulla pace, la giustizia, l’educazione, l’ambiente e sull’appoggio alle classi povere. D’altra parte, per prima cosa, il neopresidente ha chiesto collaborazione all’opposizione per governare insieme e fare crescere il paese.

Al suo fianco, Petro si trova Francia Márquez, altra grandissima novità della storia politica colombiana: un evento nell’evento.

È, infatti, la prima volta che una donna afrocolombiana, proveniente dalle classi povere e madre sola, arriva nelle alte sfere del potere. Si tratta di una forma di rivincita storica del popolo afrocolombiano, discriminato ed escluso. Speriamo che sia questo l’inizio di un grande processo di emancipazione e di consolidamento dell’altra Colombia, quella emarginata, ghettizzata e senza dignità.

L’Uribismo di Iván Duque

Qual è il bilancio sul governo uscito di scena? Non è facile esprimere un giudizio sulla presidenza di Iván Duque. La sua elezione aveva significato il ritorno al potere dell’«uribismo». Duque è stato il successore di Juan
Manuel Santos, un altro discepolo di Álvaro Uribe che però, una volta eletto, aveva preso le distanze dal maestro (soprattutto firmando un accordo di pace mai accettato dall’ex presidente).

Iván Duque è stato eletto presidente come il consacrato di  Álvaro Uribe. Grazie a quest’ultimo, egli è passato dall’anonimato a figura di primo piano nella politica nazionale. Anzi, secondo alcuni, Duque è stato una specie di reincarnazione di Álvaro Uribe e il suo progetto si è identificato con l’«uribismo».

La presidenza di Iván Duque può essere classificata come una sorta d’esperimento. L’apparente improvvisazione nella selezione dei membri dell’esecutivo (con continui cambiamenti) e l’attuazione d’iniziative e progetti estemporanei ne sono la prova.

Sul suo bilancio complessivo ci sono pareri differenti: la presidenza Duque ha cioè generato sentimenti contrastanti, alcuni di approvazione, altri di disapprovazione.

Mons. Luis Castro, missionario della Consolata e intermediario nel processo di pace colombiano, morto lo scorso 2 agosto 2022. Foto Paolo Moiola.

Mons. Luis Castro, costruttore di pace

Nel percorso colombiano verso la pace va ricordato mons. Luis Augusto Castro Quiroga, missionario della Consolata, morto a 80 anni lo scorso 3 agosto. Lui è stato coinvolto in prima persona negli accordi di pace: è stato ai colloqui di Cuba, ha parlato a favore delle vittime, ha dialogato con molti ex guerriglieri. È sempre stato in favore dell’accordo di pace, perché – diceva – «un cattivo accordo è sempre meglio che la guerra».

Non è diventato cardinale di Bogotá perché ha sempre parlato chiaro per la pace e contro la politica di guerra dell’allora presidente Uribe.

A parte l’opera di mons. Castro, in questi ultimi anni, la Chiesa cattolica colombiana ha avuto notevoli cambiamenti impegnandosi di più in ambito sociale.

Nell’ultimo processo elettorale, non si è allineata con nessuno dei candidati alla presidenza. Al secondo turno, ha rispettato le proposte dei candidati rimasti in lotta: quella di Gustavo Petro e quella di Rodolfo Hernández. E ha invitato a esercitare il diritto al voto. In occasione delle ultime elezioni la partecipazione è stata, in effetti, molto alta rispetto alle votazioni precedenti. Finalmente molti giovani hanno esercitato il loro diritto di scelta.

All’inizio della mia seconda esperienza missionaria in Colombia, i superiori mi avevano destinato a Remolino del Caguán (Caquetá), terra di narcotraffico e con una forte presenza di guerriglia. All’epoca, quando m’incontravo con alcuni comandanti delle Farc, tutti mi confermavano che, per cambiare la situazione, bisognava arrivare al potere a tutti i costi e, l’unico modo – argomentavano ,- era attraverso le armi perché il sistema politico colombiano – incentrato su 46 famiglie che da oltre 200 anni detengono il potere – si disinteressava delle classi più povere della nazione.

La storia ha invece preso un cammino diverso con gli accordi di pace, lo scioglimento delle Farc e, infine, la vittoria di un ex guerrigliero e di una donna afrocolombiana.

Il popolo colombiano

Vivendo in questo bellissimo paese ormai da anni, sono stato testimone delle sue mille contraddizioni con un popolo che, da decenni, vive in mezzo alla violenza e all’ingiustizia, ma nonostante tutto rimane pieno di speranza e con una voglia di vivere straordinaria; un popolo accogliente, felice e sempre pronto a fare festa; un popolo lavoratore, mal retribuito ma con una grande capacità di superare le avversità per costruire un futuro diverso e migliore.

Angelo Casadei

 


Archivio MC

Articoli e video sulla Colombia:

Il gesuita padre Rengifo, presidente della Cev, mostra un volume della relazione finale della Commissione da lui presieduta.


La relazione finale della Cev

450.664 morti (ma «c’è un futuro se c’è verità»)

«Portiamo un messaggio di speranza e futuro per la nostra nazione violata e spezzata. Verità scomode che sfidano la nostra dignità, un messaggio per tutti come esseri umani, al di là delle opzioni politiche o ideologiche, delle culture e delle credenze religiose, dell’etnia e del genere». E ancora: «Invitiamo a guarire il corpo fisico e simbolico, multiculturale e multietnico che formiamo come cittadini e cittadine di questa nazione».

Sono due passaggi iniziali di Hay futuro si hay verdad, la relazione finale della Commissione della verità (Comisión del esclarecimiento de la verdad, Cev), presentata a Bogotà lo scorso 28 di giugno. Un lavoro di ricostruzione storica presieduto dal sacerdote gesuita Francisco José de Roux Rengifo, durato quattro anni e passato attraverso migliaia di interviste a testimoni, vittime e carnefici.

i numeri della guerra

«C’è un futuro se c’è verità» sarebbe una lettura appassionante se non fosse il «racconto» di una guerra interna che, tra il 1985 e il 2016 (anche se, in realtà, il conflitto colombiano ebbe inizio già negli anni Sessanta), ha prodotto 450.664 omicidi (80% civili, 20% combattenti, 91% uomini, 9% donne).

Secondo i dati raccolti dalla Cev, i responsabili di questi morti sono per il 45% i paramilitari, per il 21% le Farc e per il 12% le forze dello stato.

Gli omicidi, però, sono soltanto uno degli aspetti della guerra civile. Sono stati conteggiati 121.768 casi di scomparsa (desaparición forzada) e 50mila sequestri (opera questi al 40% delle Farc e al 24% dei paramilitari). Senza dimenticare i reclutamenti forzati: sono stati almeno 30mila le bambine e i bambini reclutati attorno ai 15 anni per entrare nelle Farc o nei gruppi paramilitari.

Infine, un altro numero drammatico: 7.752.964 persone sfollate (più del 10% della popolazione colombiana), con il 51% di adulti e il 49% di minori, 52% di donne e 48% di uomini. Una «moltitudine errante» che ha dovuto abbandonare case, terreni, animali, amicizie. Oltre che per i contadini (campesinos y campesinas, dice la relazione), il conflitto armato è stato particolarmente distruttivo per le comunità etniche, indigene e afrocolombiane.

La sfida odierna

Il primo volume (su 10 totali) della relazione finale si chiude parlando di riconciliazione. «Riconciliazione significa accettare la verità come condizione per la costruzione collettiva e superare il negazionismo e l’impunità. Significa prendere la decisione di non uccidersi mai più e togliere le armi dalla politica. Significa accettare che siamo molti – in varia misura, per azione o omissione – i responsabili della tragedia. Significa rispettare l’altro, al di là dei retaggi culturali e della rabbia accumulata. Che non ci sia più impunità. Che quelli che continuano la guerra lo capiscano che non hanno il diritto di continuare a farlo […]. Che dobbiamo costruire dalle differenze con speranza e fiducia collettiva».

Il lavoro della Cev è stato straordinario ed encomiabile. Ora, però, arriva il difficile: passare dalle parole ai fatti, dalla guerra alla costruzione della pace. Vedremo se i colombiani ne saranno capaci. Vedremo se Gustavo Petro e Francia Márquez saranno in grado di spingere il paese nella giusta direzione. Detto questo, è inutile negare quanto la speranza tende a nascondere: la sfida sarà enorme. Come già hanno mostrato le prime settimane di governo: il 2 settembre, sette agenti di polizia sono stati uccisi in un attentato nel dipartimento di Huila.

Paolo Moiola

Immagine simbolica dell’espansione economica di Pechino in America Latina, spesso subentrando a Washington. Foto CBN News.


 Le relazioni internazionali dei governi latinoamericani

Da Washington a Pechino?

La nuova Colombia nata con l’elezione di Gustavo Petro va ad allungare l’elenco di paesi latinoamericani guidati da rappresentanti delle sinistre. Ad oggi, infatti, sono in carica Andrés Obrador in Messico, Alberto Fernández in Argentina, poi Luis Arce in Bolivia, Pedro Castillo in Perú, Xiomara Castro in Honduras, Gabriel Boric in Cile, oltre ai tre leader più discussi: Nicolás Maduro in Venezuela, Miguel-Diaz Canel a Cuba e, soprattutto, Daniel Ortega in Nicaragua. In attesa dei risultati delle elezioni di questo ottobre quando, in Brasile, l’ex presidente Lula potrebbe sostituire Jair
Bolsonaro, uomo dell’ultradestra, distruttore dell’Amazzonia e imputato di genocidio.

Sono presidenti di sinistra (pur con una pluralità di sfumature, anche consistenti, di rosso) che si trovano a governare paesi con alcuni tratti comuni. Il primo è dato da società caratterizzate da enormi diseguaglianze con i ricchi che s’intascano la gran parte delle ricchezze, come raccontano i rapporti delle Nazioni Unite (Pnud). Una disparità sociale ed economica che viene amplificata dal colore della pelle e dall’etnia: afrodiscendenti e indigeni sono sempre discriminati rispetto ai bianchi e ai meticci, come ha evidenziato anche la pandemia da Covid-19.

Altro tratto comune è la religione cristiana e la sua influenza sulle società latinoamericane. Tutti i paesi sono a maggioranza cattolica, ma le nuove Chiese evangeliche e pentecostali, schierate a destra (senza se e senza ma), stanno crescendo anno dopo anno, spostando milioni di voti.

La tela cinese

E poi c’è il rapporto con gli Stati Uniti, un rapporto che potremmo definire di odio e amore. Odio che nasce dagli errori storici fatti da Washington nel continente, a iniziare dal golpe cileno del 1973. Amore perché è in quel paese che milioni di latinoamericani vorrebbero trasferirsi (come dimostrano le ininterrotte ondate migratorie). Nel frattempo, negli ultimi decenni, in America Latina è arrivata in forze la Cina con il suo capitalismo di stato. Verso Pechino non esiste (e probabilmente mai esisterà) un’attrazione, ma c’è un forte interesse economico per i suoi investimenti nell’area. Com’è stato confermato nel corso del 14.mo Summit dei Brics (l’alleanza a trazione cinese tra Brasile, Russia, India, Sudafrica e appunto Cina), organizzato da Pechino lo scorso 23 giugno.

Gli Stati Uniti e i paesi occidentali (con l’Unione europea in testa) possono ancora recuperare il terreno perduto in America Latina. Se faranno emenda degli errori del passato e se metteranno da parte gli atteggiamenti neocolonialisti, puntando invece su relazioni di pari dignità.

Paolo Moiola

Verso il porticciolo di Hericha sul fiume Orteguaza (Solano, Caquetá). Foto Angelo Casadei.




Brasile. «Ma il futuro è indigeno»


Questo mese il Brasile sceglierà il proprio presidente tra Bolsonaro e Lula. Gli ultimi quattro anni sono stati drammatici per il paese. Anche per questo, la «Commissione pastorale della terra» (Cpt) e il «Consiglio indigenista missionario» (Cimi) sono sempre stati in prima linea.

È prassi consolidata che le promesse fatte durante le campagne elettorali vengano dimenticate o sminuite appena la tornata elettorale sia terminata. Come sempre, ci sono però delle eccezioni. Nel 2018, il candidato Bolsonaro promise «di non demarcare un altro centimetro di terre indigene» (não demarcar mais nenhum centímetro de terras indígenas). Dopo quattro anni di governo, non soltanto quella sua promessa è stata mantenuta, ma è andata ben oltre. Infatti, è stata permessa e incentivata l’invasione delle terre indigene da parte di garimpeiros, grileiros, latifundiários e madeireiros. Sempre nel 2018, il candidato Bolsonaro disse: «Per l’amor di Dio, oggi un indigeno costruisce una casa in mezzo alla spiaggia e arriva la Funai a dire che ora lì c’è una riserva indigena. Se sarò eletto, darò alla Funai un coltello, ma al collo. Non c’è altro modo».

Anche questa promessa è stata mantenuta: la «Fondazione nazionale per l’indio» (Funai) è stata smantellata e trasformata in una organizzazione anti indigenista (Ina-Inesc, Fundação anti-indígena. Un retrato da Funai sob o governo Bolsonaro, giugno 2022).

Un arcobaleno illumina il cielo sopra la aldeia Xihopi (Tiy, Amazonas, maggio 2022). Foto Christian Braga – ISA.

«Dio, patria e famiglia»

Bolsonaro si è presentato alle elezioni del 2022 forte dell’appoggio dei suoi due eserciti: quello ufficiale dei militari (suo vice designato è il generale Braga Netto) e quello ufficioso delle Chiese neoevangeliche (o evangelicali).

Tanto che, alla convention per il lancio della candidatura alla rielezione (lo scorso 24 luglio), il primo intervento è stato quello di Marco Feliciano, deputato federale e pastore evangelico, che ha parlato di una battaglia del bene contro il male e della vittoria di Bolsonaro in nome di Gesù. Insomma, la campagna del presidente uscente è ripartita da «Dios, patria e familia», seguendo il canovaccio scelto anche dall’ex presidente Donald Trump e da molti politici europei.

Abituata a un dibattito interno e ad assumere posizioni più scomode, la Chiesa cattolica del Brasile non ha dato indicazione su chi votare, ma è intervenuta sui temi specifici. Detto questo, alcuni suoi organismi non hanno fatto mistero di non volere la rielezione di Bolsonaro. La Commissione pastorale della terra (Comissão pastoral da terra, Cpt), nella sua Carta pública. Manifesto sobre as eleições 2022, ha parlato della gravità del momento e denunciato con parole chiare l’autoritarismo del governo uscente, guidato da «un ex capitano espulso dall’esercito». E ha dichiarato di appoggiare «candidature contadine o  candidati impegnati nell’agenda della riforma agraria, della demarcazione delle terre indigene e dei territori dei popoli e delle comunità tradizionali, dell’ecologia e dell’agroecologia e della vita dignitosa nelle campagne, nelle acque e nelle foreste».

La copertina del rapporto 2022 del CIMI.

Per parte sua, il Consiglio indigenista missionario (Conselho indigenista missionário, Cimi) non si è smentito continuando a dare un contributo essenziale alla causa indigena e amazzonica, sempre cercando di evitare posizioni neocolonialiste o paternalistiche. Per esempio, l’arcidiocesi di Porto Velho, guidata da dom Roque Paloschi, presidente del Cimi, a luglio ha ospitato leader indigeni e rappresentanti di Cimi, Cpt, Via campesina e Caritas brasiliana per l’incontro «Ascolto sinodale, riflessioni e prospettive di azioni in difesa dell’Amazzonia». L’obiettivo era quello di riflettere – si legge nel documento finale – «sull’attuale congiuntura delle politiche pubbliche di natura genocida, ecocida, etnocida e della persecuzione e criminalizzazione dei movimenti e delle organizzazioni sociali, nonché dei leader indigeni e rurali e dei difensori dei diritti umani, sociali e ambientali». Si parla di una «legalizzazione dell’illegalità» da parte del governo Bolsonaro, come sta accadendo per l’attività mineraria nelle terre indigene o l’utilizzo di agrotossici cancerogeni, proibiti fuori dal Brasile.

A metà agosto è invece uscito l’annuale rapporto del Cimi, Relatório – Violência contra os povos indígenas no Brasil, Dados de 2021. Come previsto, contiene tantissime notizie negative: d’altra parte, sotto il governo Bolsonaro la situazione non poteva che peggiorare. Tuttavia, scrive Antônio Eduardo Cerqueira de Oliveira, segretario esecutivo del Cimi, il movimento indigeno non è rimasto a guardare scendendo in strada a Brasilia e in tutto il Brasile.

Da parte sua, il presidente Dom Roque chiude la propria presentazione con queste parole: «Dobbiamo denunciare la brutalità e la codardia dei tiranni che mutilano le vite sulla madre terra, che profanano e assaltano i luoghi sacri dei popoli. Continueremo a protestare e combattere, senza risparmiare gli sforzi, per la fine della violenza e il rispetto della vita. Basta con le atrocità».

L’aldeia Xihopi in una spettacolare vista dall’alto. Foto Christian Braga – ISA.

«Sì, anch’io posso agire»

Come abbiamo visto, informarsi in maniera seria sull’Amazzonia e sui popoli indigeni è possibile. Tuttavia, come sempre, l’enormità delle questioni può spaventare e far dire: «Ma io come posso essere utile?». Le strade ci sono. Per esempio, l’ultimo rapporto (è del luglio 2022) pubblicato dall’«Osservatorio dell’agroimpresa in Brasile» (De olho nos ruralistas. Observatório do agronegócio no Brasil) indica con nome e cognome le imprese, brasiliane e internazionali, che finanziano l’allevamento bovino causa primaria del disboscamento dell’Amazzonia, casa dei popoli indigeni e scrigno naturale del mondo.

Un’altra inchiesta condotta da Repórter Brasil (25 luglio) ha seguito il percorso compiuto dall’oro estratto illegalmente in Amazzonia (Terra indigena Yanomami e Terra indigena Kayapó). È stato scoperto che quell’oro passa per le imprese di raffinazione Chimet (Italia) e Marsam (Brasile) e finisce nei prodotti (cellulari e computer) di Apple, Microsoft, Amazon e Google.

Informarsi compiutamente e rifiutare i prodotti delle imprese non etiche e non trasparenti sarebbe già un’utile scelta politica e un concreto comportamento ambientalista. Indipendentemente da chi, tra Lula o Bolsonaro, entrerà nel Palácio do Planalto, a Brasilia.

Paolo Moiola


Il libro

Laboratorio Amazzonia

La copertina di «Amazzonia. Viaggio al tempo della fine» (giugno 2022).

Da qualche anno l’Amazzonia è divenuta argomento di discussione a livello globale (*). La ragione è presto detta. «L’Amazzonia è una terra chiave, è un luogo simbolo, è un laboratorio in cui sperimentare l’ecologia integrale. Purtroppo, fino ad ora, il bilancio è negativo, gravemente negativo. Saremo in grado di invertire la tendenza?». Sono le parole preoccupate con cui papa Francesco conclude la sua breve prefazione ad «Amazzonia. Viaggio al tempo della fine», un diario di viaggio del vaticanista Raffaele Luise (Edizioni Appunti di Viaggio, giugno 2022).

Il viaggio del giornalista si snoda tra Belém a Tabatinga, passando per Manaus, sempre accompagnato da missionari che, da molto tempo, operano nella regione amazzonica. Come mons. Carlo Verzeletti, che dice: «Oggi l’Amazzonia è di moda. Ma non esiste una sola Amazzonia. Ce ne sono molte – puntualizza -. Prima di tutto, certamente la grande foresta e i suoi popoli originari. Solo salvando loro possiamo difendere tutte le realtà amazzoniche» (pag. 34). I nemici più prossimi sono i diversi invasori: fazendeiros, garimpeiros, madeireiros. Tanto che dom Carlo non esita a parlare di «biocidio» ed «ecocidio» (pag. 28).

Nel capitolo dedicato alla Vale do Javari (la valle del fiume Javari, lungo il confine con il Perù), recentemente (giugno 2022) uscita anche sui media internazionali a causa dell’assassinio del giornalista britannico dom Phillips e dell’indigenista brasiliano Bruno Araújo Pereira, l’autore parla anche dell’invasione e dei danni causati dai missionari appartenenti alle nuove Chiese evangeliche e pentecostali, ricche di soldi, arroganza e fondamentalismo religioso.

Interessante è il parallelo che Luise fa tra la figura dello sciamano e quella dello scienziato: «Non può non colpirci l’inquietante consonanza della profezia cosmoecologica sciamanica con i teorici del cambiamento climatico e dell’Antropocene» (pag. 212). Per concludere che la sfida più impellente è quella di passare dall’Antropocene (l’era attuale in cui l’uomo ha modificato l’ambiente) all’Ecozoico (un’era che abbia al centro l’ecologia).

«Amazzonia. Viaggio al tempo della fine» è un libro che ha il pregio di essere molto scorrevole (anche perché quasi senza note, fonti, date) e di proporre al lettore una visione complessiva e, soprattutto, empatica dell’Amazzonia brasiliana. Con alcuni limiti: utilizza ancora un termine ormai giustamente desueto come «indios», altri termini inaccurati (come «riverinhos» invece di «ribeirinhos»); fa un uso smodato di aggettivi, superlativi e punti esclamativi; spesso l’autore indulge troppo in annotazioni da diario personale. Detto questo, il lavoro di Raffaele Luise merita di essere letto perché ogni informazione in più può aiutare a capire e difendere quel che resta del laboratorio Amazzonia e dei suoi popoli indigeni.

Paolo Moiola

 (*) A conferma di come l’Amazzonia sia argomento di grande interesse, è uscito un altro lavoro: «Viaggio sul fiume mondo. Amazzonia» di Angelo Ferracuti e Giovanni Marrozzini, Mondadori, agosto 2022.




Benvenuti ad Aguas Santas


Un progetto di accoglienza di migranti e rifugiati. Un servizio vissuto dai volontari della Fundação Allamano di Aguas Santas, nel Nord del Portogallo, come una chiamata alla missione ad gentes in Europa. Il Vangelo vissuto e portato alle periferie.

«Oggi abbiamo 28 ospiti. Sono tutti uomini, arrivati da noi dopo lunghi viaggi e brutte esperienze. A parte due quarantenni, gli altri hanno tra i 20 e i 30 anni. Gli ultimi due sono arrivati dall’Afghanistan». José Miranda, laico volontario della Fondazione Allamano, ci racconta l’accoglienza di profughi iniziata nel 2020 nella casa dei Missionari della Consolata di Aguas Santas, 10 km dalla città di Oporto, Nord del Portogallo. «Gli altri vengono da Pakistan, Togo, Camerun, Nigeria, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Ghana, Mali, Gambia, Senegal».

I più poveri tra i poveri

Incontriamo José tramite una videochiamata. Camicia azzurra, occhiali tondi, capelli rasati a zero. Occhi sorridenti. Mani grosse ed espressive.

Ci parla di quella che considera un’attività di vera missione ad gentes in Europa, una delle risposte che i Missionari della Consolata stanno dando all’appello di papa Francesco di portare il Vangelo alle periferie.

«Abbiamo iniziato tre anni fa con un’accoglienza molto breve: l’Alto commissariato per le migrazioni, un organo del governo portoghese, ci aveva chiesto una disponibilità di qualche settimana. Solo letto e cibo. Nient’altro. Come un albergo. I migranti sono i più poveri tra i poveri. Da quell’esperienza abbiamo iniziato a pensare a un progetto di accoglienza più strutturato per accompagnarli all’autonomia».

Incontro ai bisognosi

José parla benissimo l’italiano: è stato dal 1995 al 1998 tra Rivoli (To), Vittorio Veneto (Tv) e Roma. «Ho 46 anni. Da piccolo abitavo vicino ai missionari di Aguas Santas. Andavo a giocare a pallone da loro. Poi mi hanno invitato nel gruppo dei giovani missionari della Consolata. Avevo 16 anni. Due anni dopo sono entrato in seminario a Lisbona. In seguito sono andato a Rivoli per imparare l’italiano nel 1995. Nel 1996 a Vittorio Veneto per il noviziato, e nell’agosto del 1997 a Roma per studiare teologia, ma dopo un anno sono tornato a Porto dai miei. Adesso sono sposato e ho due figli di 13 e 20 anni.

Lavoro in una ditta che trasporta container. Parlo sempre con tante persone di tutto il mondo. È un lavoro che mi piace.

Nel frattempo, sono rimasto legato all’Imc, e da qualche anno sono un volontario della Fondazione Allamano, nata dieci anni fa dalla volontà dei Missionari della Consolata di avere un “braccio sociale operativo” in un quartiere popolato da molti anziani e famiglie in difficoltà».

«C’è molta gente arrivata qui per il lavoro – spiega José -. Gli anziani, i bambini e i giovani sono i più bisognosi. L’idea era quella di fare qualcosa per loro: distribuire pacchi alimentari, aprire un centro diurno con attività ricreative e culturali, offrire servizi domiciliari nell’area della salute e sociale (la Fondazione supporta anche la fattoria pedagogica e gli orti comunitari nel centro Imc di Cacém, cfr MC 5/2022, nda).

La Fondazione è amministrata da volontari e diretta da Ana, assistente sociale, e Jacinto, che gestisce gli spazi interni e esterni della struttura.

La sua sede è nella casa Imc: un ex seminario dove ora vivono sette padri della Consolata più Delfino che ha fatto la professione a fine luglio».

I primi ospiti e il Covid

Quando la Fondazione ha deciso d’impegnarsi nell’accoglienza, i volontari hanno visitato altre realtà già attive, come i gesuiti di Lisbona. «Siamo stati a Lisbona a marzo 2020. Una settimana dopo si è fermato tutto per il Covid. Eravamo pronti per i primi nove rifugiati provenienti dai centri di accoglienza di Torino e Bari, ma la pandemia li ha tenuti bloccati fino a novembre.

Nel frattempo, però, l’Alto commissariato, a maggio 2020, ci ha chiesto di accogliere Michael, un ventiquattrenne del Ghana, in Portogallo da sei mesi.

È stato molto bello iniziare con lui. Durante il lockdown Michael ci ha aiutato in tutte le attività della casa. È un ragazzo molto in gamba, umile, con un sorriso facile. Gli piace ballare. Ha dato una mano anche nell’animazione missionaria, veniva agli incontri, stava con i giovani.

Michael ha attraversato l’Africa fino alla Libia dove ha lavorato per un po’. Dopo due o tre mesi senza essere pagato, sono arrivati alcuni uomini con le armi dicendo a tutti: “Nessuno vi pagherà, ma vi possiamo portare in Europa. Che ne dite?”. Quando qualcuno ha detto di no, l’hanno ammazzato. Allora tutti sono partiti. Dopo due notti nel mare, li ha raccolti una nave che li ha portati a Lampedusa. Un anno dopo Michael è arrivato in Portogallo».

I primi nove ospiti dall’Italia sono arrivati ad Aguas Santas a novembre 2020. Nella casa Imc la Fondazione Allamano ha allestito nove stanze con tre letti e un bagno ciascuna. «Si sta bene da noi – prosegue José -. L’Alto commissariato è venuto a visitarci, e ci ha detto che la nostra ospitalità è la più bella del Portogallo. Essere solo in tre per stanza, invece che in 10 o 15, permette ai rifugiati di avere un po’ di spazio personale».

Lingua e lavoro

Il protocollo di accoglienza prevede un’ospitalità di 18 mesi. È il tempo per iniziare un processo di integrazione e autonomia.

«Se vuoi rimanere nel paese, devi imparare la lingua – dice José -. Il portoghese non è facile, però, anche se alcuni di loro non erano mai andati a scuola, tutti hanno avuto molta buona volontà».

José ci racconta che tutti gli ospiti hanno iniziato a lavorare già dopo tre mesi. «Le aziende erano tutte contente. La maggior parte di loro è andata a lavorare nel settore delle costruzioni civili. Quattro hanno partecipato a un progetto di una multinazionale dell’arredamento, e hanno lavorato lì per otto mesi imparando anche il portoghese. Finito il progetto, due sono stati assunti, e sono molto contenti. Ora li stanno anche aiutando a trovare un’abitazione propria».

Cominciando a lavorare e a parlare portoghese, i rifugiati iniziano a essere autonomi.

Convivenza interculturale e interreligiosa

Dopo i primi nove arrivati a novembre 2020, a gennaio sono arrivati due ragazzi diciottenni dal Pakistan, tramite un altro programma per rifugiati in Grecia.

Gli ospiti già presenti erano tutti di origine africana. I due pachistani, perciò, apparivano molto diversi per la loro cultura. «Anche gli altri, però, erano tutti diversi tra loro. L’Africa ha molte culture. In più, ogni ragazzo ha una sua storia, ed è arrivato qui con uno scopo personale», dice José accennando alla grande quota di «diversità» presente nel piccolo gruppo di ospiti.

«Oggi sono ventotto. Sono arrivati un po’ per volta in gruppetti di due, tre o quattro. Noi abbiamo sempre detto di sì. La maggior parte sono ancora con noi.

Ricordo due ragazzi del Camerun che sono andati via dopo 15 giorni: ci hanno lasciato un biglietto per ringraziarci e per dirci che andavano in Francia. Il Portogallo non è uno dei paesi dove gli africani pensano di andare, se non quelli che parlano già portoghese. Piuttosto puntano a Germania, Inghilterra, Francia. È capitato altre due volte: con un ragazzo iracheno e uno siriano che avevano famigliari in quei paesi».

La maggior parte degli ospiti sono musulmani, i cristiani sono pochi, alcuni non sono credenti. «Questa è stata una bella sfida – sorride José -. Musulmani accolti dai missionari. Per me è un arricchimento grandissimo. Loro parlano molto della loro religione, e il rispetto reciproco è grande. Capita che, per andare in camera, passino davanti alla cappella dove, di giovedì, c’è sempre il santissimo esposto. E loro passano di lì con moltissimo rispetto. Quando facciamo degli incontri insieme, diciamo sempre una preghiera. Per loro è importante pregare anche con noi».

Negli ultimi tempi, in cinque hanno iniziato a chiedere di fare catechesi con uno dei missionari, Antonio Malila del Kenya.

Uno di loro, della Guinea Bissau, è stato battezzato durante la veglia pasquale di quest’anno.

«Noi di questo non parliamo molto, perché non è lo scopo dell’accoglienza, e non vogliamo creare confusione nelle persone. Però è stato un momento importante per tutti».

La quotidianità

«La maggior parte degli ospiti, ora lavora, esce presto la mattina, si preoccupa di tenere in ordine la propria stanza e i luoghi comuni, come la cucina e gli spazi esterni. Noi li aiutiamo con i documenti, con le questioni sanitarie, andiamo con loro dal medico, dall’oculista, dal dentista. Poi suggeriamo loro come presentarsi alle aziende, come fare il curriculum vitae e, quando è possibile, andiamo con loro per i colloqui.

Quando qualcuno ha un po’ di soldi da mandare in famiglia al paese di origine, li aiutiamo. Anche quando hanno voglia di giocare a pallone in cortile, cosa che succede spesso, li aiutiamo volentieri», conclude José allegro. Nella stessa struttura vive anche la comunità di otto missionari della Consolata. Vivono in una zona separata, però sono sempre presenti tra i profughi. «Soprattutto padre Antonio Malila, che è africano e ha un grande dialogo con loro, prendono il caffè insieme, fanno gite…».

Diventare autonomi

Michael, il primo ospite, è l’unico per il momento a essere andato via. Ha trovato una fidanzata, ed è uscito dalla casa dei Missionari della Consolata diverse settimane prima della fine dei 18 mesi del progetto, per andare a vivere con lei. Continua ad andare alla Fondazione Allamano per i pacchi di cibo e di prodotti per la vita quotidiana, ma anche per la vicinanza che ha sperimentato con i volontari.

«Degli altri, sono 14 quelli che hanno già finito i 18 mesi del progetto. Ma ci sono due problemi: il costo dell’abitazione, e i documenti di soggiorno che vengono rinnovati di sei mesi in sei mesi. Alcuni sarebbero già in grado di sostenere l’affitto di un alloggio, soprattutto se ci andassero in gruppetti, però, quando uno ha dei documenti solo per sei mesi, è difficile trovare un lavoro stabile, e anche una casa in affitto».

Famiglie ucraine

Nella primavera scorsa, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, anche il Portogallo ha iniziato a ospitare profughi da quel paese.

«C’è stata una risposta che nessuno immaginava – racconta José -. Ci sono state persone che sono partite per andare a prendere i profughi e portarli in Portogallo. Noi ci siamo detti: “Le nostre camere sono tutte piene. Però ci sono quattro stanze nella zona delle attività di animazione giovanile”. Allora ho detto ai missionari: “Anche noi vorremmo accogliere degli ucraini”, ed è stato facile ottenere un sì, nonostante nessuno sapesse cosa sarebbe successo, se l’ospitalità sarebbe durata poche settimane o anni.

Quando il sindaco di Maya ha deciso di accogliere delle famiglie, circa cinquanta persone, famigliari di ucraini già residenti in zona, hanno chiamato subito noi.

Alla fine, abbiamo deciso per un’accoglienza a tempo, fino all’estate. Così abbiamo chiesto al sindaco di garantirci che. nel giro di due o tre mesi, avrebbe trovato degli alloggi per le famiglie che sarebbero arrivate. Il bene deve essere fatto bene: a delle famiglie bisogna offrire un luogo dignitoso che permetta la vita di famiglia, non una semplice stanza, che va bene solo temporaneamente.

Sono venute quattro famiglie più una donna sola di 60 anni, per un totale di diciassette persone: una famiglia formata da due bimbe di uno e quattro anni, mamma, sorella della mamma con un’altra bimba, e nonna; la seconda era composta da una mamma con due figlie di diciassette e sedici anni e un figlio di dodici; la terza da una bambina di sei anni con la mamma e i nonni; infine, c’erano una donna di cinquant’anni con la madre».

Convivenza facile

«Mi ha stupito la volontà degli ucraini di vivere e di fare andare tutto bene. Due giorni dopo il loro arrivo erano già lì che s’impegnavano a fare cose, studiare il portoghese. Non li ho mai visti disperati. Hanno perso tutto, gli uomini sono rimasti in Ucraina per fare la guerra, eppure si mostravano sempre forti e sorridenti – esclama José con ammirazione -. Il nostro paese ha fornito loro i documenti di soggiorno per tutto il tempo che vogliono e un sussidio economico. Il comune li accompagna con gli assistenti sociali».

José mette l’accento sul bel clima di convivenza che gli ospiti hanno creato con le famiglie ucraine. «Sono stati da noi tre mesi. Oggi, diversi di loro lavorano. Due famiglie sono in case del comune per sei mesi gratuitamente. Le altre due famiglie hanno voluto ritornare in patria.

Con gli altri ospiti la convivenza è stata sempre facile: la casa ha un grande spazio esterno dove si trovavano tutti insieme, e si aiutavano. Non erano obbligati a parlarsi, ma si sono relazionati subito tra loro spontaneamente. È stata un’esperienza bella».

Missione in Europa

Per José, gli ingredienti principali di una buona accoglienza sono l’ascolto e la comunicazione dell’affetto.

«Essere straordinari nell’ordinario: noi abbiamo cercato di fare così. Il comune di Porto ha accolto 200 persone in un antico seminario. Questa è la mia idea di Chiesa. Una Chiesa che fa missione in Europa anche in questo modo.

Oggi è questo lo scopo principale della Fondazione Allamano: ci occupiamo degli anziani e dei giovani portoghesi, ma soprattutto dei migranti. Il nostro punto identificativo è l’accoglienza.

Noi abbiamo la fortuna di poter fare quello che la Chiesa e papa Francesco stanno chiedendo: andare alle periferie.

Quello che stiamo facendo con la fondazione mi fa molto felice. Non è semplice, anche per il finanziamento delle attività. Però si va avanti con la grazia di Dio».

Luca Lorusso
foto di José Miranda




Honduras. Maestri coraggiosi


L’infiltrazione negli istituti scolastici delle bande Mara Salvatrucha e Barrio 18 è un dato di fatto. Per questo, insegnare nelle scuole del paese centroamericano è una sfida che pone in rischio la vita stessa.

Dall’altra parte dello schermo di un computer, il sorriso di Rodrigo Pineda (nome di fantasia per questioni di sicurezza, ndr), direttore di una scuola pubblica honduregna, supera i circa 10mila km che ci separano diffondendo calma anche nello spazio virtuale di una videochiamata su Zoom.

Rodrigo vive a Tegucigalpa, capitale dell’Honduras, e 20 anni fa ha deciso di diventare professore e poi dirigente scolastico di uno dei tanti istituti comprensivi del paese che, in genere, includono le scuole di primo e di secondo grado (6-17 anni).

Il giorno in cui ha deciso di rispondere alla vocazione per l’insegnamento sapeva che, oltre alle sfide educative, avrebbe dovuto accettare anche il rischio personale che questa professione porta con sé, almeno nei casi in cui bisogna esercitarla nei quartieri più poveri della capitale honduregna, controllati e messi a ferro e fuoco dalle bande Mara Salvatrucha (Ms-13) e Barrio 18.

E di fatti, ogni volta che il professor Pineda metteva piede nella propria scuola, prima che la pandemia costringesse alunni e insegnanti a vivere di didattica online, doveva far leva su tutto il suo coraggio per affrontare non solo le ore di lezione ma anche i criminali affiliati alle due bande che, da sempre, utilizzano le scuole pubbliche a proprio uso e consumo. Ormai da anni, i leader delle gang minacciano fisicamente i dirigenti scolastici per ottenere le chiavi degli istituti, dove di notte entrano per nascondere droga e armi nelle aule meno frequentate. Non era raro, infatti, che, al mattino, i bambini si imbattessero in un pacchetto di cocaina o in qualche proiettile nei corridoi, mentre si dirigevano verso le aule scolastiche. Tuttavia, la Mara Salvatrucha e Barrio 18 non sono mai state interessate agli istituti scolastici in quanto edifici. Il loro interesse è reclutarne i frequentatori. Spesso fermi davanti ai cancelli delle scuole, i membri delle due bande rivali cercavano di agganciare ragazze e ragazzi in età scolare. Questa forma di affiliazione, quasi sempre forzata, ha funzionato fino a marzo 2020 e, dal 18 aprile del 2022, giorno in cui – dopo due anni di pandemia – le classi di ogni istituto sono tornate alla didattica in presenza, rischia di riprendere a essere una pericolosa routine.

Personale forense trasporta il corpo di uno studente ucciso dai membri di una banda su un bus di Tegucigalpa (15 febbraio 2017). Foto Orlando Sierra – AFP.

Mara Salvatrucha e Barrio 18

Mara Salvatrucha (Ms-13) e Barrio 18 sono le due più grandi organizzazioni malavitose dell’America Centrale che, da decine di anni, alimentano una guerra intestina non solo in Honduras, Guatemala e Salvador, ma in parte anche negli Stati Uniti e in Canada, con l’obiettivo di controllare il monopolio del traffico di droga e armi e di gestire il giro dell’estorsione e della tratta a fine di prostituzione.

Le due bande criminali, in spagnolo chiamate maras o pandillas, nascono tra gli anni Settanta e Ottanta a Los Angeles, negli Stati Uniti. La cifra presente nel loro nome, «13» e «18», fa riferimento, infatti, al numero delle due strade della città californiana in cui vivevano e operavano i fondatori delle due gang. Entrambe le bande accoglievano migranti messicani e centroamericani e si sono diffuse nei loro paesi di origine a partire da metà degli anni Ottanta, quando, a causa di un indurimento delle politiche migratorie operato da Reagan e successivamente da Bush, sono aumentate in maniera esponenziale le deportazioni di persone arrivate sul territorio statunitense senza permesso di soggiorno, anche in giovane età. Attraverso questa operazione, una buona parte delle cellule attive delle due bande si sono ritrovate, dalla mattina alla sera, tra Salvador, Honduras e Guatemala, dove hanno continuato a crescere, diventando in breve tempo una presenza forte e strutturata tanto da sostituirsi allo stato, soprattutto nelle zone marginali e povere dove gestiscono ogni tipo di business, lecito o illecito.

Il reclutamento forzato

Per mantenere forti le maras e farle crescere, i loro leader devono reclutare continuamente nuovi membri, ragazzi da iniziare a piccole o grandi attività criminose, che possono variare dalla riscossione del pizzo nei negozi di quartiere fino alla gestione dell’intero traffico di droga verso il Nord America. Per questo motivo, alcuni membri delle gang hanno cominciato a prendere di mira le scuole più povere, cercando di convincere, con le buone o le cattive, ragazze e ragazzi tra i 10 e i 14 anni a unirsi a loro.

«Un giorno un pandillero (un membro di una banda, ndr) mi ha detto che le scuole sono praticamente il loro “incubatore”, la loro “serra”, dove crescono i loro futuri adepti. Sono i bambini più poveri, orfani o provenienti da famiglie disgregate che rischiano maggiormente di essere forzati a unirsi a loro. Quasi la metà dei miei studenti vive con un nonno o uno zio, perché i genitori sono morti o migrati negli Stati Uniti. Alcuni ragazzi vedono las maras come l’unica opzione di guadagno facile, ma molti, invece, ci chiedono aiuto. Ed è proprio per loro che scendiamo in strada e proviamo a dialogare con i capi delle bande per convincerli a lasciare stare i nostri studenti», dice Rodrigo Pineda.

Tipico gesto giovanile. Foto Karsten Winegeart – Unsplash.

Docenti assassinati

Migliaia di docenti honduregni (insegnanti, presidi, uomini e donne) hanno cercato di proteggere i loro studenti, in particolare i bambini e le ragazze, spesso vittime di rapimento anche a scopo di sfruttamento sessuale. Tuttavia, questo coraggio è costato la vita a più di 100 insegnanti fino a oggi. Secondo gli ultimi dati ufficiali elaborati dalla Commissione nazionale per i diritti umani dell’Honduras, solamente tra il 2010 e il 2017, las maras hanno ucciso 90 docenti.

Lo sa bene il preside Alberto Herrera (nome di fantasia, ndr), 52 anni di età e 32 anni di servizio nelle scuole, prima come maestro e negli ultimi anni come direttore didattico, che più di una volta nella sua vita ha dovuto ascoltare alla radio o leggere sui giornali la triste notizia dell’omicidio di un collega.
«Il problema è che alcuni studenti sono figli dei leader delle bande. In questo caso dobbiamo fare molta attenzione, perché spesso i genitori ci insultano, ci minacciano o ci aggrediscono se diamo un brutto voto a uno dei loro ragazzi – racconta Alberto -. Qualche anno fa, un’insegnante ha cercato di placare una rissa tra due ragazze e il padre di una di loro ha interpretato questa intromissione come un’umiliazione, per cui si è presentato a scuola e ha sparato al collega di fronte agli studenti durante l’intervallo».

In fuga dalle città

Rischiare la vita per fare il proprio mestiere non è accettabile per nessuno, in particolare per i più giovani, che spesso decidono di abbandonare la professione e la propria casa per sfuggire alle minacce e migrare verso le zone rurali del paese che hanno una percentuale di conflittualità inferiore a quella delle grandi città. Secondo gli ultimi dati dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che protegge i diritti dei rifugiati politici e, nel caso dell’Honduras, anche degli sfollati interni, negli ultimi cinque anni, 269 insegnanti hanno deciso di migrare all’interno del paese a causa della violenza delle gang, una violenza che, tra il 2014 e il 2018, ha interessato 247.090 persone honduregne, pari al 2,7% della popolazione.

«Questa gentaglia entra di notte nelle nostre scuole per nascondere armi e droga e di giorno spesso sentiamo il rumore di sparatorie in mezzo alla strada di fronte alla scuola. In questi casi attuiamo il protocollo di sicurezza, che significa rimanere in classe anche fino a sera e lasciare uscire i bambini solamente quando le strade sono libere», continua Pineda.

Rodrigo Pineda e Alberto Herrera sono parte attiva del Comitato di docenti (Comité de docentes), un’organizzazione di insegnanti che si batte per promuovere un’istruzione di qualità e sradicare la violenza dalle scuole. Il Comitato è sostenuto dall’Unhcr e dall’Ong Save the children che, nel 2018, ha prodotto un rapporto di denuncia sulla grave situazione di violenza nelle scuole di cui sono vittime studenti e docenti. Questi ultimi, in Honduras, sono considerati la terza categoria professionale più esposta alle brutalità delle bande. «Gli insegnanti sono tra le vittime designate dalle bande, insieme ai gestori dei trasporti pubblico-privati e agli imprenditori – afferma Vanessa Paguada, coordinatrice di Save the children del progetto di protezione dei bambini e dei giovani, in collaborazione con l’Unhcr – i professori subiscono vari tipi di abusi, tra cui estorsione, furto e violenze fisiche o sessuali. Il fatto è che le bande li vedono come un ostacolo da eliminare perché si oppongono al reclutamento dei giovani. In qualche modo sfidano le bande proteggendo i ragazzi e questo affronto è inaccettabile per il codice d’onore delle maras».

Uomini della polizia honduregna arrestano membri appartenenti alla Mara Salvatrucha (Ms-13) a San Pedro Sula (17 febbraio 2017). Foto Jordan Perdomo – AFP.

Collusione polizia e «maras»

Neppure durante la pandemia c’è stata pace, molti insegnanti, infatti, sono stati vittime anche di violenza informatica e di estorsioni online. «Questi criminali sono arrivati a chiederci anche di ricaricare le loro carte di credito e di pagare internet ai loro figli. Ovviamente – spiega il professor Pineda – lo abbiamo fatto, perché temiamo per la nostra vita e soprattutto per quella dei nostri figli e delle nostre famiglie. Il problema è che non possiamo neppure denunciare, perché tutti qui sanno che la polizia è collusa con le maras. Anzi, spesso alcuni pandilleros diventano poliziotti. Non c’è un luogo libero dalla prevaricazione di queste persone. Sono ovunque».

La mancanza di fiducia nelle istituzioni trova una ragione in più nel recente arresto, e successiva estradizione, dell’ex presidente Juan Orlando Hernández, accusato dagli Stati Uniti di legami diretti con il narcotraffico.

Durante il suo mandato, Hernández ha ordinato la militarizzazione di numerosi centri educativi, in seguito alla morte di alcuni docenti e studenti.

«Lo stato fornisce misure palliative, ma non ha mai provato a risolvere il problema alla radice. La polizia rimane a pattugliare le scuole per un po’ e poi se ne va, lasciando il campo libero alle maras, che tornano più forti e arrabbiate di prima e la violenza contro di noi e gli studenti aumenta», spiega Alberto Herrera.

Di fatto la militarizzazione del territorio voluta dall’ex presidente ha spesso portato a scontri tra esercito e pandillas che hanno coinvolto anche passanti, gente comune e studenti, braccati sotto un fuoco incrociato. Questa situazione di guerra latente ha trasformato le strade dei quartieri più poveri di Tegucigalpa in veri e propri campi di battaglia senza né vinti né vincitori, ma con un numero elevato di morti innocenti.

Record di morti

I bambini e i giovani che rifiutano il reclutamento forzato stanno di fatto sfidando – anche inconsapevolmente – i capi delle bande, che puniscono questa audacia con la morte. Una vita breve però fa parte del destino anche di chi invece sceglie di unirsi a una banda, perché è consuetudine che siano proprio i più giovani e inesperti pandilleros a essere uccisi in rapine e scontri con la polizia. Con un tasso di 30 omicidi di minori ogni 100mila abitanti, l’Honduras detiene il record mondiale di bambini e adolescenti assassinati, secondo quanto riportato da un’indagine svolta da Save the children nel 2017.

Intrappolati in una situazione di violenza claustrofobica, molti giovani honduregni sono costretti ad abbandonare la scuola e le loro case e a scappare da un parente prossimo che vive in zone rurali del paese, o, più frequentemente, verso gli Stati Uniti, sommandosi all’enorme numero di minori non accompagnati che migrano dall’America Centrale.

Secondo gli ultimi dati della US Customs and border protection, l’agenzia di dogana degli Stati Uniti, da ottobre a maggio 2022 sono arrivati alla frontiera meridionale più di 100mila minori in viaggio da soli, il 23% dei quali sono honduregni.

Membro di una banda mostra la pistola. Foto Nathan Costa – Unsplash.

Dispersione scolastica

Negli ultimi due anni, in Honduras il tasso di dispersione scolastica è salito alle stelle. Circa il 40% degli studenti, infatti, ha abbandonato la scuola nel 2020, a causa dell’insicurezza, ma anche del peggioramento delle condizioni economiche dovuto alla pandemia e agli effetti degli uragani Eta e Iota (del novembre 2020). Oggi il 70% della popolazione honduregna vive in situazione di povertà.

In questo panorama, un buon numero di studenti di Rodrigo e Alberto ha lasciato la scuola per iniziare a lavorare informalmente, altri sono rimasti e alcuni sono migrati, ma sono riusciti a frequentare le lezioni collegandosi online dai campi di migranti in Messico, riuscendo addirittura a terminare l’anno scolastico. «Io dico sempre che noi docenti cerchiamo di fare un buon lavoro in mezzo a un campo minato. Provo una grande soddisfazione quando incontro ex studenti che sono già adulti e hanno terminato gli studi e ora lavorano onestamente, o quando vedo un bambino che partecipa alle lezioni nonostante stia migrando da solo verso gli Stati Uniti. Per loro e solo per loro continuiamo a rischiare la vita e a lottare per fare in modo che abbiano la migliore educazione possibile anche in mezzo a tutte queste difficoltà», conclude Alberto Herrera.

Simona Carnino

Aggregazione di giovani su una strada. Foto Brian Lundquist – Unsplash.


Archivio MC

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Mongolia. Giovane Cardinale di una piccola chiesa


Dal 2003 è in Mongolia, paese che ama e che continua a stupirlo. Qui, con altri missionari e missionarie della Consolata, ha fondato una nuova parrocchia. Da agosto 2020 è prefetto apostolico di Ulaanbaatar. Poi l’annuncio di papa Francesco.

Nato il 7 giugno del 1974, cresciuto a Torino tra le parrocchie di sant’Alfonso, Regina delle Missioni e gli scout, Giorgio Marengo decide di entrare nei Missionari della Consolata dopo la maturità al liceo Cavour. Segue il percorso di formazione e viene ordinato a Torino, nel 2001, all’anniversario dei 100 anni dell’Istituto. Nel 2003 è nel primo gruppo di missionari in partenza per la Mongolia.

L’ordinazione episcopale arriva ad agosto 2020. Poi, a sorpresa, il suo nome compare nella lista dei nuovi cardinali, resa nota da papa Francesco lo scorso 29 maggio. Viene quindi nominato nel concistoro del 27 agosto. È il cardinale più giovane, ed è il primo tra i Missionari della Consolata e della chiesa in Mongolia.

Ci accoglie con un grande sorriso, e la disponibilità che lo contraddistingue, nonostante i tanti impegni di un periodo frenetico.

Come descriverebbe la Mongolia in poche parole?

«È un paese affascinante, molto bello, con tanti contrasti, a cominciare da quelli climatici. C’è il deserto freddo più grande del mondo, d’estate +40°, d’inverno

-40°. L’impatto dell’uomo è poco visibile. È il secondo paese meno popolato del mondo (su una superficie 5,2 volte l’Italia, vivono 3,3 milioni di persone).

È difficile da definire, ma possiamo parlare di due Mongolie, quella della capitale e poi tutto il resto. Entrambe rappresentano la Mongolia, ma in maniera diversa. Ulaanbaatar è una capitale evoluta, tecnologica, con molte costruzioni moderne, lo stile di vita è urbano. Negli ultimi dieci anni si è trasformata. La Mongolia dell’interno è quella tradizionale, dell’allevamento, delle grandi distese, delle tradizioni, dell’isolamento, del vuoto.

Un forte elemento identificativo è la storia. Ovvero Gengis Kahn e il ruolo dominante dei mongoli nel XIII secolo, quando hanno costituito l’impero più grande di sempre. Questo ha plasmato la coscienza comune. Sono un popolo molto fiero.

Oggi sono un paese sovrano e democratico in mezzo a due superpotenze, la Federazione Russa e la Cina popolare. La Mongolia è un paese che mantiene la sua identità, e vuole confermare la propria sovranità, su base democratica e di rispetto dei diritti e della libertà.

È stata per settant’anni una repubblica popolare, non formalmente membro dell’Urss, ma totalmente allineata alla politica sovietica. Questo ha implicato questioni molto gravi, compresa la repressione del buddhismo, la cancellazione della libertà religiosa, grosse sfide alla cultura, l’imposizione del cirillico al posto della scrittura mongola, l’ateismo di stato. Quei 70 anni hanno impattato, ma oggi, dopo 30 anni dalla fine del regime, la democrazia è affermata».

La Chiesa cattolica ha compiuto 30 anni nel paese. Come è stato l’inizio?

«All’indomani delle prime elezioni democratiche nel ‘92, quando si è costituito il primo governo multipartitico, questo ha voluto dimostrare al mondo l’impegno di tutelare la libertà di religione e di culto. Inoltre, il paese aveva molto bisogno di aiuto dall’estero perché, come è sempre successo nel post-comunismo, subito c’è stata una fase di grande crisi economica. Così il governo mongolo ha chiesto alla Santa sede di ristabilire relazioni diplomatiche. Di solito accade il contrario.

La Santa sede si è subito attivata e, per motivi storici, ha proposto alla congregazione del Cuore immacolato di Maria (Scheut) di andare in Mongolia. Intanto padre Jeroom Heyndrickx, noto
sinolgo, aveva già compiuto una prima esplorazione nell’ottobre 1991, così nel luglio 1992, sono stati mandati tre missionari, i padri Robert Goessens, Gilbert Sales (belgi) e Venceslao Padilla (originario delle Filippine). Questi hanno cominciato a inserirsi, creato contatti, e hanno fatto una grande attività di promozione umana, facendo arrivare tanti aiuti in un paese che allora era in ginocchio.

Con grande capacità relazionale, soprattutto di Padilla, si sono costituite le prime realtà ecclesiali, da un nucleo che si ritrovava nell’appartamento in affitto nel quale i missionari vivevano. Si sono create relazioni stabili con gente interessata a questioni di fede e dieci anni dopo, la Santa Sede ha eretto la Prefettura apostolica. Padilla è stato ordinato prefetto e poi vescovo nell’agosto 2003.

Noi Missionari della Consolata ci siamo inseriti nel luglio 2003, quando era ancora un’esperienza pionieristica.

Il cambiamento più grande è stato tra il 2003 e il 2010, quando c’è stato un grosso boom economico, legato ad aiuti e investimenti. La Mongolia ha accelerato la trasformazione interna, e questo si è riflettuto un po’ anche sulla realtà ecclesiale».

Veglia pasquale ad Arvaiheer con battesimi dei neofiti.

Ci racconta i primi passi della Consolata?

«I primi tre anni ci siamo dedicati a imparare la lingua, nella capitale Ulaanbaatar, iniziando a guardarci intorno per vedere dove installarci. La presenza missionaria si concentrava nella capitale, e noi volevamo metterci a disposizione di qualsiasi altra realtà che non fosse stata ancora raggiunta. Mons. Venceslao Padilla ci disse di fare noi il discernimento, e così facemmo, sempre in comunione con lui. Dopo una serie di viaggi esplorativi la Provvidenza ci ha portati in una zona del centro Sud, vicino al deserto del Gobi. Così ci siamo stabiliti nel 2006 ad Arveiheer, capoluogo della provincia. Eravamo due padri e tre suore. Abbiamo cominciato tutto da zero. È stata una bellissima esperienza di vita, di missione, di fede. Perché lì la chiesa non c’era mai stata.

Avevamo bisogno delle autorizzazioni delle autorità locali, e abbiamo vissuto in affitto condividendo la vita della gente di realtà diverse. Poi il governo ci ha dato il permesso e si è avviata la missione».

Come è organizzata oggi la Chiesa cattolica in Mongolia?

«Abbiamo dieci luoghi di culto riconosciuti dallo stato, di cui otto parrocchie e due cappelle (cinque in capitale e dintorni, due nel Nord e una ad Arveiheer). Sono il fulcro della vita cristiana. Abbiamo 22 sacerdoti di cui due sono mongoli, 35 suore, alcuni laici missionari, per 11 congregazioni e 24 nazionalità. I catechisti, sui quali si è investito e si continua a investire, sono i principali protagonisti dell’evangelizzazione, grazie al fatto che sono membri di questo popolo e che possono esprimere con lingua e categorie culturali locali i contenuti essenziali della fede e accompagnare le persone nel loro percorso, con un discorso di comunità e fraternità.

Il 71% delle nostre attività sono di tipo sociale: promozione umana e sviluppo, educazione, sanità, assistenza, promozione e diffusione della cultura mongola. La chiesa è impegnata in settori di utilità comune, non specificamente religiosi. Quest’anno, oltre al sinodo stiamo celebrando i primi 30 anni della chiesa in questo paese e ci siamo fermati a riflettere. Io sono dell’idea che, probabilmente, le priorità non sono più quelle di 20-30 anni fa. Forse dobbiamo gradualmente riorientare le nostre energie verso obiettivi più attuali.

Ho scritto la mia prima lettera pastorale e ho proposto tre parole fondamentali: profondità, fraternità e annuncio.

Profondità, perché il seme è stato gettato, la testimonianza della prima generazione di missionari è stata feconda, accolta. Se abbiamo una comunità cristiana è perché le persone che la compongono hanno veramente accolto il Signore nella loro vita. Adesso però c’è bisogno che questa vita embrionale di fede raggiunga le fibre più profonde della persona e delle comunità, che non sia qualcosa di superficiale che poi è soggetta all’abbandono, ma si approfondisca continuamente.

Fecondità, perché questa piccola comunità rischia, come accade ovunque, di frazionarsi nelle otto parrocchie, anche a causa delle tendenze centrifughe delle varie congregazioni.

Annuncio, per non dimenticarci che, se siamo lì è perché con discrezione e con umiltà vogliamo condividere la nostra fede, e quindi non aver paura di continuare ad annunciare Cristo».

Cosa vuole dire essere una chiesa di minoranza?

«Essere una minoranza è una grazia, perché ci riporta al messaggio delle parabole: un po’ di lievito, un pizzico di sale, una candela, un seme caduto nel terreno. Il Signore quando ha parlato del Regno di Dio ha sempre fatto riferimento a immagini del poco nel tanto, quindi io l’ho vissuta così e continuo a viverla come una grazia. Ci porta a questa dimensione dell’autenticità messa alla prova per il fatto che non è per nulla scontato essere cristiani, ed essere accettati come tali. Usiamo spesso il parallelo con gli Atti degli apostoli.

Essere minoranza può avere, da una parte, il rischio di portarci a dire: stiamo bene tra di noi, siamo piccoli, siamo poveri. Questo non è il nostro caso. Dall’altra, quello di porci l’obiettivo di diventare noi maggioranza, cioè raggiungere una situazione in cui sia socialmente accettabile e auspicabile diventare cristiani. Ritengo che l’esperienza dell’Occidente sia importante, fondamentale, ma non è l’unica, e nella storia ha rappresentato una piccola sezione in ordine di tempo e di spazio. È importante il fatto di non dare nulla per scontato nell’esercizio della fede, perché è un continuo provare a metterla in circolo nella vita concreta, in una società in cui i punti di riferimento sono altri. È una provocazione sana, che ci fa rimanere umili, attenti, che ci fa dire: questa strada non funziona, allora ne proviamo un’altra.

L’importante è curare l’autenticità del messaggio e della vita di fede, aiutando le persone a viverla con coraggio e serenità, perché diventare cristiano per un mongolo è una scelta impopolare, che lo espone anche alla derisione sociale.

Come aiutare queste persone ad appropriarsi della fede, ad approfondirla in modo che poi diventi sorgente di una nuova interpretazione della realtà, in armonia con l’identità culturale, ma anche capace ogni tanto di provocare, è una delle grandi sfide.

Anche se in Italia è generalmente accettato, il messaggio del Vangelo è comunque sempre controcorrente, non è mai assimilabile a una cultura o società».

Com’è la relazione con le altre religioni?

«Essere minoranza ha come aspetto bello che ti fa percepire la ricchezza delle tradizioni religiose diverse. Per noi sono il buddhismo di matrice tibetana, che nel paese oramai si chiama buddhismo mongolo, poi lo sciamanesimo, come anche l’islam praticato nell’Ovest, nella comunità kazaca, e anche delle altre tradizioni religiose recenti, il bahaismo o le altre denominazioni cristiane non cattoliche.

C’è un rapporto con tutti, ma il migliore lo abbiamo con il buddhismo, rappresentato dalle loro istituzioni e dai loro leader, con cui abbiamo un cammino trentennale continuo. Il 28 maggio scorso il Papa ha ricevuto in udienza due autorità del buddhismo mongolo, uno è l’abate del secondo monastero della Mongolia.

Esiste una rete di incontri interreligiosi che, fino a un anno fa, erano annuali e ora sono quasi mensili: a turno uno dei leader religiosi ospita gli altri, si mangia, si discute di temi comuni. L’orizzonte di questi incontri è da una parte conoscitivo (solo se ci si conosce bene ci si rispetta, ci si apprezza), e dall’altra pensare quali obiettivi raggiungere insieme».

Come si diventa cattolici in Mongolia?

«Quando siamo andati ad Arveiheer non c’era nessun cristiano. È stato interessante vedere come la grazia si fa strada. È una storia di relazioni, di amicizia con i missionari e le missionarie, attraverso la quale le persone vengono in contatto con un mondo che si apre loro e che magari all’inizio è legato a una loro necessità. Da notare che la campagna ha conosciuto lo sviluppo dieci anni dopo la capitale. Per cui quando siamo arrivati c’era molta povertà. Quando abbiamo avuto il permesso di svolgere le nostre attività, la curiosità e l’amicizia ha portato le persone per la prima volta a mettere la testa dentro la nostra gher, a vedere cosa vuol dire la preghiera dei cristiani. O a vedere questi poveri stranieri imbranati che cercavano di rendersi utili con una mentalità di non sfruttamento degli altri e, possibilmente, di aiuto. Questo faceva sorgere dei punti di domanda, e le persone, gradualmente, senza correre, chiedevano di approfondire.

C’è sempre una specie di pre catecumenato, che è un periodo fluido di contatti, di relazione, di amicizia, fino a quando la persona formula la sua richiesta, che noi vogliamo sia scritta: io voglio iniziare un percorso di fede. Si propone la catechesi e il catecumenato dura due anni. Stiamo lavorando per preparare il materiale catechetico di base. Poi c’è l’iniziazione, il battesimo.

Oggi i cristiani in Mongolia sono di prima ma anche di seconda generazione. A chi è battezzato ed è riuscito a conservare la fede anche nella vita famigliare, si propone di far fare il cammino della catechesi anche ai loro figli. Non abbiamo mai insistito, abbiamo sempre aspettato che la gente si proponesse».

Quale ruolo può avere la chiesa mongola tra le chiese asiatiche?

«In Asia ci sono tante esperienze interessanti e anche diversificate tra di loro. È un arricchimento reciproco. Il blocco del Sud Est asiatico è erede di un’epopea missionaria dell’800 in cui i missionari erano provenienti da nazioni coloniali, un tema che in Mongolia non c’è. Non c’è mai stata sovrapposizione di poteri politici ed ecclesiastici. Lì c’è una cristianità più radicata, antica. Noi siamo la chiesa più giovane d’Asia.

Nella Federazione delle conferenze episcopali dell’Asia (Fabc, fondata nel 1971), c’è un clima molto fraterno. I vescovi di tutta l’Asia si incontrano, condividono, dialogano, cercano vie comuni.

Da aprile sono entrato a fare parte della neonata conferenza episcopale dell’Asia centrale. Nell’autunno 2021 la Santa Sede l’ha istituita raggruppando le cinque repubbliche ex sovietiche, l’Afghanistan e la Mongolia.

A parte le Filippine e la Corea, dove ci sono le due chiese più affermate, per il resto, in tutta l’Asia siamo minoranza. In certi paesi ha buoni rapporti con lo stato, in altre parti è una chiesa sofferente».

Quali sono le sfide della Chiesa in Asia?

«Riuscire a essere un faro per i diritti là dove esistono regimi non morbidi, un agente di coesione e pace sociale, di promozione del dialogo: è una sfida grande in tutta l’Asia. Anche nei paesi di tradizione più affermata. Le comunità cattoliche in tutto il continente sono dei baluardi di umanità, fede, spiritualità, rappresentano una bella testimonianza.

L’ateismo puro in Asia non esiste, è esistito imposto dal comunismo, ma il tema non è Dio o non Dio, piuttosto quale Dio. Non c’è mai stato l’illuminismo quindi la cesura tra ragione e fede, tra uomo religioso e uomo scientifico non è mai esistita. In Asia si deve portare avanti un discorso di dialogo, per dire con quali valori comuni, noi seguaci di tradizioni religiose diverse, possiamo promuovere il bene di questi paesi. Poi c’è il discorso più teologico: io ho collaborato con il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso che organizza periodicamente un colloquio buddhista-cristiano».

Secondo lei, perché un cardinale in Mongolia?

«Bisogna chiederlo a papa Francesco. Conoscendolo, per lui queste esperienze di chiesa in situazioni di minoranza e marginalità sono preziose, e allora forse vuole che siano conosciute di più e rappresentate».

Quali sono i progetti futuri?

«Vorremmo riuscire a vivere la progettualità da un punto di vista più unitario, comunionale: non solo le singole congregazioni con i loro progetti, ma unire le forze per ottimizzare le cose già meravigliose che i singoli missionari stanno facendo.

Abbiamo rilevato un edificio in capitale, e vorremmo creare la Casa della misericordia, un luogo di accoglienza e consolazione, per rendere la chiesa un porto sempre accessibile a chiunque, con qualunque necessità».

Marco Bello

Cura dei bambini, il pasto