Brasile. Fuori Bolsonaro, fuori i «garimpeiros»


Dopo quattro anni di presidenza Bolsonaro, il paese latinoamericano versa in condizioni molto pesanti. In particolare, drammatica è la situazione dei popoli indigeni. Ne abbiamo parlato con dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e presidente del Cimi, organizzazione che quest’anno ha compiuto 50 anni (1972-2022).

Al bingo dello «shoop do Ismael» i primi due premi sono due revolver 357, il terzo è costituito da due litri di whisky. All’internet caffè di Lora, oltre alla connessione wifi, si possono trovare torte, snack, pizze, bibite gassate, succhi naturali. Da Nanda c’è, invece, una festa di carnevale con cabaret e musica.

Questo pubblicizzano i manifesti di tre locali pubblici.

Bingo, feste di carnevale, internet caffè sarebbero attività normali in un qualsiasi centro abitato. Non lo sono quando si trovano in piena foresta amazzonica e addirittura in una terra in cui l’ingresso sarebbe vietato a chiunque non sia indigeno.

Le foto, risalenti al marzo 2021, sono state diffuse dalla Polizia federale (Pf) brasiliana per reclamizzare una loro operazione contro i minatori illegali (garimpeiros) nella Terra indigena yanomami (Tiy), la più grande riserva indigena del paese (ben conosciuta dai lettori di questa rivista).

L’invasione è iniziata negli anni Ottanta, ma nel corso del tempo si è allargata a dismisura tanto che oggi si stimano in 20mila i garimpeiros presenti, allettati dall’altissimo valore dell’oro, il principale minerale ricercato.

Di norma, le miniere (garimpos) si trovano lungo i principali fiumi (rios) amazzonici: Uraricoera, Mucajaí, Couto Magalhães, Apiaú, Catrimani, Parima, Novo, Lobo d’Almada, Surucucu. Per raggiungerle, a parte un lunghissimo e complicato viaggio fluviale, la scelta più facile è la via aerea. L’Ibama, l’Istituto brasiliano per l’ambiente, ha individuato in terra yanomami quasi 280 piste di atterraggio clandestine.

Vista la mancanza di volontà, la corruzione o l’inefficienza delle autorità pubbliche, ormai da anni Yanomami e Ye’kuana raccontano il loro dramma in prima persona attraverso Hutukara (Hay), l’associazione indigena facente capo a Davi Kopenawa e al figlio Dario. Al loro fianco ci sono l’Instituto socioambiental (Isa) e i missionari (cattolici) del Conselho indigenista missionário (Consiglio indigenista missionario, Cimi), che proprio quest’anno ha compiuto 50 anni (1972-2022).

Grande eco ha avuto Yanomami sob ataque, il drammatico rapporto di Hutukara, uscito ad aprile (nello stesso periodo, ha esordito Mapa dos conflitos nell’Amazzonia legale, uno straordinario sito multimediale ideato dall’agenzia Pública e dalla Cpt, la Commissione pastorale del lavoro). Le foto pubblicate nel rapporto sono testimonianza evidente delle devastazioni prodotte dai garimpeiros, ma altrettanto e forse più terribili sono i racconti di come gli invasori, con la loro semplice presenza e i loro comportamenti, stanno distruggendo le basi sociali delle comunità indigene.

Una donna indigena usa la propria schiena per protestare contro il progetto di legge 191 che vorrebbe liberalizzare la ricerca mineraria sulle terre indigene. Foto Carlo Zacquini.

Jair Bolsonaro, presidente anti-indigeno

La situazione degli Yanomami è, attualmente, la più nota, anche a livello internazionale. Tuttavia, la condizione degli oltre 300 popoli indigeni del Brasile è da sempre problematica e si è ulteriormente deteriorata sotto Jair Bolsonaro, il presidente ultraconservatore eletto nel 2018 e ricandidato per le elezioni del prossimo ottobre.

L’atteggiamento anti-indigeno dell’attuale governo brasiliano si è manifestato fin dall’inizio e prosegue senza ripensamenti, con azioni, iniziative legislative e dichiarazioni.

Nell’aprile del 2020, Abraham Weintraub, economista e all’epoca ministro dell’educazione, disse di odiare il termine povos indígenas (popoli indigeni) perché non esistono popoli indigeni, ma soltanto un popolo brasiliano.

«Quelle dichiarazioni – ci spiega dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho (Rondônia), raggiunto via WhatsApp – dimostrano il pregiudizio e la discriminazione che vige nei confronti dei popoli autoctoni. Evidenziano l’ignoranza sulla diversità di popoli, lingue e culture presenti nel nostro paese. Negare questa diversità significa negare l’esistenza di un paese multiculturale e democratico, come garantito dalla Costituzione federale del 1988, quella che gli attuali governanti sono tanto ansiosi di fare a pezzi».

«Gli articoli 231 e 232 della Costituzione federale – continua il prelato – rompono con una tradizione secolare d’esclusione riconoscendo ai popoli indigeni il mantenimento della loro organizzazione sociale e della propria cultura. Divenendo essi soggetti di diritto, la mentalità integrazionista e assimilazionista viene superata».

Nonostante la sua politica anti-indigena, lo scorso 18 marzo il presidente Bolsonaro è stato insignito con la Medalha do mérito indigenista.

Dom Roque si esprime senza remore. Probabilmente, il suo essere presidente del Cimi, organismo molto combattivo e inviso al governo Bolsonaro, lo ha reso indifferente a critiche e attacchi.

«È stata vergognosa – osserva – la mancanza di rispetto per l’obiettivo del premio concesso a persone che si distinguono nella protezione delle popolazioni indigene. L’attuale presidente sta facendo il contrario: un disservizio al Brasile e alle popolazioni indigene. Con il suo governo non sono state delimitate terre indigene e sono state incoraggiate le invasioni. Si è registrato il maggior numero di conflitti e morti di difensori dei diritti. Questo premio è un affronto ai popoli indigeni. Sembra un brutto scherzo visto che questo presidente è stato denunciato (per sei volte, ndr) alla Corte penale internazionale dell’Aia per genocidio».

Corrutela de garimpo no rio Uraricoera, Terra Indígena Yanomami

Il «pacchetto della distruzione»

L’offensiva del governo Bolsonaro e dei suoi alleati nei confronti dei popoli indigeni e delle loro terre poggia anche su strumenti legislativi che mirano a scardinare i principi stabiliti dalla Costituzione del 1988. Tanto che le organizzazioni indigene hanno coniato un termine ad hoc: pacote da destruição. Nel «pacchetto della distruzione» si trovano almeno due progetti di legge (Pl) che, ove approvati, avranno conseguenze devastanti per i popoli indigeni: il Pl 490 (o del marco temporal) e il Pl 191.

Secondo il progetto di legge 490, saranno considerate «terre indigene» soltanto quelle effettivamente occupate al 5 ottobre 1988, data di promulgazione della nuova Costituzione. Senza questa prova temporale le richieste di demarcazione saranno respinte. Sul marco temporal dovrebbe decidere il Supremo tribunal federal (Stf) questo 23 giugno.

«Il “marco temporal” – spiega dom Roque – è un’interpretazione sostenuta dalla bancada ruralista e dall’agrobusiness. La tesi è ingiusta perché ignora le espulsioni, gli allontanamenti forzati e tutte le violenze subite dagli indigeni fino alla data di promulgazione della Costituzione. Inoltre, ignora il fatto che, fino al 1988, i popoli indigeni non potevano adire alla giustizia in modo autonomo (perché, secondo lo Estatuto do índio, del 1973 erano “relativamente incapaci”, ndr). È da augurarsi che i giudici del tribunale siano giusti e rendano giustizia ai popoli originari, che da secoli sono violati e violentati nella loro integrità fisica, culturale e territoriale».

Il progetto di legge 191 vuole, invece, liberalizzare le attività estrattive sulle terre indigene. «È un affronto alla Costituzione federale, che mette a rischio l’esistenza dei popoli indigeni perché legalizza i garimpo», commenta dom Roque.

Non contento, Bolsonaro sta cercando di forzare la situazione anche utilizzando la guerra in Ucraina. È necessario approvare urgentemente l’apertura delle riserve indigene – afferma il presidente -, perché la guerra in Ucraina sta frenando l’importazione di fertilizzanti (potassio) dalla Russia di cui il Brasile ha assoluto bisogno, ma di cui i territori indigeni sarebbero ricchi.

Peraltro, la guerra ha già prodotto un effetto negativo facendo balzare verso l’alto il prezzo dell’oro, dando così ancora più spinta all’invasione della terra di Yanomami e Ye’kuana.

In tutto questo, una piccola speranza viene da un’opposizione indigena che non è più estemporanea, isolata e disorganizzata come in passato. Come ha dimostrato anche la diciottesima edizione dell’Acampamento terra livre (Atl), manifestazione che, lo scorso aprile, ha radunato a Brasilia quasi settemila indigeni appartenenti a 180 popoli differenti.

Boa Vista, l’acqua del monumento al garimpeiro colorata di rosso sangue a simboleggiare la tragica situazione creata dalla presenza dei garimpos illegali sulle terre indigene. Foto Carlo Zacquini.

Amazzonia, la foresta del mondo

Difendere i popoli indigeni significa difendere l’Amazzonia che in Brasile ha oltre il 60 per cento della propria estensione totale. Un’Amazzonia che mai come sotto il governo Bolsonaro è stata presa d’assalto senza ritegno per ottenere soia, legno, risorse minerarie, carne. È dimostrato che la battaglia mondiale contro l’emergenza climatica e ambientale passa obbligatoriamente attraverso la sua salvaguardia.

Ne è convintissimo dom Roque, che prima di arrivare a Rondônia ha ricoperto la carica di vescovo a Roraima, uno stato amazzonico per antonomasia.

«L’Amazzonia – spiega – è un sistema vivo e complesso, che, per mantenersi tale, ha bisogno di una foresta in piedi. Se questa viene a mancare, si avvia un processo di desertificazione, che non solo minaccia i popoli amazzonici, ma l’intero pianeta, accelerando il cambiamento climatico e provocando catastrofi ambientali in tutto il mondo.

In Brasile, purtroppo, la deforestazione dell’Amazzonia è incoraggiata dalle sfere di governo, che mettono al primo posto la crescita economica, basata sulla distruzione di un ecosistema che è vivente ma anche molto fragile.

Ricordo sempre cosa ci insegnano i popoli indigeni: “Se non ci prendiamo cura della terra, lei non si prenderà cura di noi”. Nessuno potrà mangiare soldi, bere veleno e respirare aria contaminata. Per vivere abbiamo bisogno di terra, acqua e aria sane. Difendere l’Amazzonia, i suoi popoli indigeni e le sue comunità significa operare per il buon vivere dell’intero pianeta e delle future generazioni».

Dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho (Rondonia) e presidente del Cimi. Foto Paolo Moiola.

«Questo governo è una minaccia»

A ottobre 2022 nel paese latino-americano ci saranno le elezioni presidenziali. Jair Bolsonaro si ripresenta per ottenere un secondo mandato trovandosi come principale sfidante l’ex presidente e leader del Partito dei lavoratori (Pt) Lula, liberatosi dai propri fardelli giudiziari.

Dom Roque Paloschi dipinge un quadro impietoso della situazione del paese. «Senza ombra di dubbio, in Brasile stiamo vivendo tempi molto difficili. L’attuale governo è una minaccia per la democrazia e l’intera società brasiliana».

«I cittadini – continua il nostro interlocutore – vengono oltraggiati e violati nei loro diritti fondamentali: salute, istruzione, lavoro, servizi igienico sanitari di base. È vergognoso che questo paese abbia superato i 660mila morti a causa del Covid-19 per irresponsabilità e per aver messo l’economia al di sopra della vita. Senza dimenticare che, oltre alla pandemia, abbiamo sperimentato altre forme di violenza come la fame, la disoccupazione, la mancanza di politiche pubbliche».

In questo contesto, la condizione dei più deboli tra i deboli non poteva che peggiorare: «I discorsi d’odio del presidente e dei suoi ministri (come quelli dell’ex ministro Sales) hanno alimentato la violenza contro i popoli indigeni».

Nel periodo peggiore della pandemia, un numero ancora maggiore di terre è stato invaso, mettendo a rischio l’integrità fisica, culturale e territoriale delle popolazioni autoctone.

«E addirittura – precisa il presidente del Cimi -, a rischio di estinzione le comunità indigene che vivono in isolamento. Al tempo stesso, gli organismi pubblici di ispezione e protezione sono stati depotenziati. Per tutto questo il paese ha scalato il ranking mondiale per livelli di violenza e di morte dei difensori dei diritti umani».

Il presidente Bolsonaro festeggia l’incredibile assegnazione della «Medalha do mérito indigenista» (18 marzo 2022). Foto Caluber Cleber Caetano – PR.

Avere memoria

Secondo i sondaggi dei principali istituti di ricerca brasiliani, Lula è largamente in testa nelle preferenze elettorali, precedendo Bolsonaro. Tuttavia, le previsioni indicano che sarà necessario un secondo turno (il 30 ottobre) e qui la lotta appare più incerta.

«Nei periodi elettorali – commenta dom Roque -, tutti i candidati si presentano come i salvatori della patria e sembrano non stancarsi mai di ingannare e manipolare i cittadini. Io spero che il popolo brasiliano abbia memoria di quanto accaduto in questi anni. Spero possa riprendere in mano la sua storia, la democrazia e dire basta ai candidati che negano i diritti dei popoli indigeni, dei neri, delle donne e degli altri gruppi esclusi dalla società».

La conclusione di dom Roque è netta: «Uno stato che – con tutti i suoi poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) – non rispetta la Costituzione del paese e viola i diritti umani basilari, lo abbiamo già ora. La domanda è: continueremo anche in futuro a scommettere su chi promuove distruzione, violenza e morte? A dare fiducia a gruppi che difendono soltanto i propri interessi e non lavorano per il bene comune?».

Paolo Moiola

Terra indigena yanomami (Tiy): trent’anni (1992-2022) di invasioni, distruzione, morte

  • Dati Tiy: 96.650 Km2 (un terzo dell’Italia) Roraima e Amazonas, oltre 28mila indigeni e 371 comunità; la Terra indigena yanomami (Tiy) celebra quest’anno (2022) i 30 anni, essendo stata omologata il 25 maggio 1992;
  • Numeri dell’invasione: 20mila garimpeiros e 3.272 ettari interessati (più 46% rispetto al 2020); 277 piste di atterraggio aereo clandestine; 800 currutelas (sorta di villaggi dei garimpeiros con baracche, negozi, prostitute);
  • Fiumi più coinvolti: rio Uraricoera, rio Mucajai, rio Couto Magalhães, rio Apiaú, rio Catrimani, rio Parima, rio Novo, rio Lobo d’Almada, rio Surucucu;
  • Danni ambientali: i garimpeiros stanno producendo pesantissimi danni ambientali come il disboscamento, la distruzione dell’ecosistema amazzonico, l’inquinamento e la deviazione dei fiumi;
  • Danni sociali: la struttura sociale degli Yanomami e Ye’kuana viene destabilizzata; i ragazzi e i giovani sono allettati a lavorare nei garimpos in cambio di cachaça, armi da fuoco, combustibile, alimenti industriali o altre mercanzie; bambine, ragazze e giovani donne sono adescate per fini sessuali;
  • Pesca, caccia, piantagioni: le attività economiche su cui si fondano le comunità indigene sono sempre più difficilmente praticabili; la pesca si è ridotta a causa dell’inquinamento dei fiumi dovuto principalmente al mercurio usato dai cercatori d’oro; la caccia si è complicata perché gli animali scappano a causa dei rumori prodotti dai macchinari usati nei garimpos e dai mezzi di locomozione (aerei e barche); le piantagioni di frutta e legumi sono trascurate, ridotte o distrutte; per tutti questi motivi è aumentata l’insicurezza alimentare degli indigeni;
  • Situazione sanitaria: oltre al Covid, a causa della devastazione ambientale è esplosa la diffusione della malaria (anche con la versione più letale del Plasmodium falciparum), toccando i 19mila casi all’anno; si è aggravata la denutrizione infantile; la dispersione in acqua e nell’ambiente del mercurio sta producendo pesanti conseguenze sulla salute indigena; l’insicurezza generale ha portato alla chiusura di vari centri di salute governativi.
  • Fonti principali: Hutukara associação yanomami (Hay) – Associação wanasseduume ye’kwana – Instituto socioambiental (Isa), Yanomami sob ataque, aprile 2022; Agência pública – Comissão pastoral da terra (Cpt), Mapa dos conflitos.

(a cura di Paolo Moiola)

(Cuiabá – MT, 19/04/2022) Presidente do Conselho de Pastores do Estado de Mato Grosso (COMEC/MT), Pastor Fábio Senna entrega camisa do Lançamento da Marcha para Jesus para o Presidente Jair Bolsonaro. Foto: Alan Santos/PR

L’analisi della Conferenza episcopale del Brasile (Cnbb)

«Le grida del mio popolo»

Le gravi colpe del governo Bolsonaro sono sotto gli occhi di tutti. Eppure, le elezioni di ottobre rimangono incerte. Con evangelici e cattolici sempre più divisi.

Disoccupazione, disuguaglianza sociale estrema, famiglie senza fissa dimora in ogni città del paese che sopravvivono di spazzatura, e ciò a causa del modello economico operante in Brasile, un modello che produce scarsità per la maggioranza della popolazione, mentre una minoranza privilegiata vanta livelli di ricchezza assurdi.

Sono affermazioni presenti in un lungo documento preparato dai 14 membri (includendo il gesuita Thierry Linard, scomparso a gennaio) del gruppo di analisi della congiuntura della Conferenza episcopale brasiliana (Conferência nacional dos bispos do Brasil, Cnbb). Il documento, titolato «Os clamores do meu povo» (Le grida del mio popolo) e datato 21 aprile, è di una durezza inusitata per l’organismo, in ciò confermando la gravità della situazione brasiliana.

Il fondamentalismo religioso

A iniziare dalla constatazione che il governo Bolsonaro «fa parte di un fenomeno mondiale di ascesa di governi estremisti, autoritari e, in alcuni casi, con tratti neofascisti». Si tratta di governi che, per raggiungere i propri scopi, utilizzano ogni mezzo, compreso il fondamentalismo religioso.

«È importante notare – si legge nel documento – che il dibattito religioso sta acquisendo sempre più importanza e protagonismo nelle elezioni di quest’anno». Tutte le inchieste sulle intenzioni di voto confermano che la gran parte degli evangelici sta con Bolsonaro (46%), mentre la maggioranza dei cattolici (48%) sta con Lula.

«Durante il governo Bolsonaro, abbiamo osservato che vari leader politici, deputati e ministri legati alle chiese neo pentecostali stavano occupando spazio in aree strategiche del governo. Basato, tra l’altro, sulla “teologia del domínio”». Secondo questa teoria, i cristiani hanno ricevuto il mandato divino di assumere il dominio del mondo intero mettendosi a occupare o controllare le istituzioni secolari dei paesi «fondamentale per vincere la guerra cosmica tra Dio e il diavolo».

Bolsonaro è anche un utilizzatore del controverso termine «cristofobia», che segnala una strategia elettorale rivolta al pubblico evangelico. «Secondo Ronilso Pacheco, editorialista del portale Uol, pastore evangelico e studioso di religioni, il termine “cristofobia” sarà utilizzato come strategia elettorale decisiva nelle prossime elezioni».

Il ruolo del tribunale federale (STF)

Il documento della Cnbb si sofferma anche sul potere giudiziario. «Di recente – si legge -, la magistratura, in particolare il Supremo tribunale federale (Stf), è diventata un importante attore politico nel paese».

Nel contesto della pandemia, si sono verificate alcune delle controversie più importanti. Per esempio, la corte suprema ha vietato la campagna governativa «O Brasil não pode parar» (Il Brasile non può fermarsi), considerata disinformazione. Nell’anno in corso, il principale argomento di controversia è l’«agenda verde» e le questioni indigene e socio ambientali.

Il gruppo della Cnbb chiude la sua analisi della congiuntura elencando undici azioni necessarie: dalla «difesa intransigente dei diritti civili e delle istituzioni democratiche del paese» a una nuova proposta di sviluppo «socialmente inclusiva e ambientalmente sostenibile», dalla «universalizzazione dei servizi pubblici essenziali» alla «promozione della pace e della giustizia». Con un augurio finale: «Come fare dipende da tutti noi! Sarà però il risultato del dialogo e della solidarietà tra tutti e con l’Altro, soprattutto i più vulnerabili e coloro che in ogni angolo gridano di essere liberati».

Paolo Moiola

Lula, candidato presidenziale ed ex presidente, davanti agli indigeni di «Terra libre» ha promesso la creazione di un ministero per gli indigeni (12 aprile 2022). Foto Kamikia Ksedje Midia India – APIB.




Vicinanza e concretezza


La vicinanza al popolo dell’Ucraina, aggredito e violentato dalle truppe di Putin, si può manifestare in vari modi. Uno di questi è portare aiuti alla popolazione rimasta senza nulla. Diario di un viaggio di duemila chilometri, da Trento a Chişinău.

Se è vero che il viaggio ha valore e trova il suo significato non nella meta da raggiungere, ma nel percorso che ci porta a essa, allora questa volta ho proprio viaggiato. E non solo da un punto di vista fisico, ma anche con il cuore e con la mente.

Verso fine marzo mi è stata offerta la possibilità di recarmi nella repubblica di Moldavia per portare degli aiuti, viveri, medicinali, prodotti per l’igiene, al Centrul social pastoral «Casa Providentei» che si trova a Chisinau (Chişinău, è la scrittura corretta), dove opera da vari anni suor Rosetta Benedetti, missionaria trentina dell’istituto Suore della Provvidenza, assieme a due giovani consorelle rumene, suor Juliana e suor Michela.
Il Centro, dall’inizio della guerra in Ucraina, è stato adibito dalle suore all’accoglienza di tante persone, soprattutto donne e bambini, in fuga dal loro paese.

Gli aiuti erano stati raccolti dalla San Vincenzo di Mestre e dal Centro missionario diocesano di Trento, dove da molti anni lavoro. Quando l’amico Bruno**, da noi interpellato per intraprendere il viaggio assieme ai volontari della San Vincenzo, mi ha proposto di accompagnarlo, istintivamente ho detto subito sì. Appena chiusa la telefonata, sono stata assalita da dubbi e ripensamenti: la lunghezza del viaggio, il pensiero che forse non sarei stata di molta utilità, ma soprattutto la preoccupazione di essere d’impiccio una volta arrivati a destinazione.

Ripensandoci con calma e condividendo queste riflessioni con il direttore e i colleghi, ho realizzato che il mio andare avrebbe avuto il significato di portare a suor Rosetta (che, peraltro, aveva accolto la notizia della visita con grande entusiasmo) un piccolo segno di vicinanza e solidarietà della sua diocesi e della sua terra di origine.

Così, alla fine, i dubbi che albergavano nella mia mente si sono dissolti.

Nell’attesa della partenza, mentre si mettevano a punto l’itinerario, i contatti, gli aspetti tecnici, non ho potuto fare a meno di elaborare qualche proiezione su quello che avrei potuto incontrare e vedere. Senza peraltro farmi troppe aspettative, come sono solita ripetere a chiunque si appresti a vivere un’esperienza missionaria, e ciò per essere liberi di accogliere tutto quello che ci verrà offerto.

Una vecchia università convertita in centro per rifugiati a Chişinǎu: qui vengono ospitate varie minoranze provenienti dall’Ucraina (9 aprile 2022). Foto Pablo Miranzo -Anadolu Agency-AFP.

Attraverso Slovenia, Ungheria, Romania

Siamo partiti in cinque il 21 marzo, a quasi un mese dallo scoppio della guerra in Ucraina. Abbiamo attraversato Slovenia e Ungheria, percorrendo un’autostrada che ci ha permesso di arrivare al confine con la Romania e attraversarlo fino al raggiungimento della prima tappa, in dodici ore, senza avere occasione di vedere un granché se non solo in lontananza il lago Balaton.

Una volta arrivati in Romania il paesaggio è subito cambiato. Pur giungendo di notte alla periferia di Oradea, capoluogo di uno dei distretti del paese, ci siamo resi conto di essere arrivati in un’Europa un po’ diversa da quella a cui siamo abituati. Piccole e basse casette, una attaccata all’altra, la maggior parte non molto ben messe, con pali della luce in legno, fili elettrici aerei, aggrovigliati, come solo forse negli anni Cinquanta e primi anni Sessanta, dalle nostre parti si potevano osservare nei centri più piccoli. Mano a mano che ci avvicinavamo al centro, le casette lasciavano il posto a grandi palazzi residenziali, alcuni davvero imponenti, che solo alla luce del giorno avrebbero rivelato una certa trascuratezza e una impressionante somiglianza tra loro. È pur vero che abbiamo attraversato parte della città senza poterci fermare se non per una notte, accolti in un seminario greco cattolico, da padri che parlavano perfettamente l’italiano e molto disponibili, che ci hanno raccontato le loro attività con seminaristi, bambini, giovani e universitari e dell’aiuto che portano ai confini con l’Ucraina, entrando nel paese con viveri, farmaci e beni di prima necessità. Però la sensazione di trovarci in un «altro» mondo, l’ho proprio percepita. Per di più, vittima dei soliti pregiudizi (che da una vita cerco di scardinare in me e negli altri), immaginavo di trovare un paese sporco, magari con immondizie ai lati delle strade, e invece non c’era un pezzo di carta per terra e la cura per la pulizia degli spazi comuni era davvero ammirevole.

Da Oradea in poi è iniziato il vero viaggio: circa 600 km, tutti su strade provinciali attraverso i monti Carpazi.

Carretti e auto di lusso

Mi era stato detto che, in Romania, il percorso non si calcola in chilometri, ma in ore. Infatti, per arrivare a Iași, posta al confine con la Repubblica Moldava, la nostra piccola carovana ha impiegato dieci ore. Abbiamo attraversato città storiche come Cluj Napoca, con un bellissimo centro storico, che richiama l’epoca imperiale, molto caotica e con un traffico che non ha nulla da invidiare a quello di Milano; città più piccole dove si possono ammirare le caratteristiche case dei Rom, con rifiniture in metallo che sembrano merletti e comignoli davvero originali (che spesso però sono vuote); altre con grandi palazzi un po’ decadenti. Abbiamo passato villaggi di montagna in mezzo alla neve, simili a piccole stazioni turistiche con alti monti innevati sullo sfondo; villaggi sul fondo valle, dove il tempo sembra essersi fermato a un centinaio di anni fa, con le casette, qualche animale, donne, probabilmente anziane, infagottate e con il capo coperto da un foulard legato sotto il mento. In ogni dove, anche nelle zone più remote, abbiamo notato imponenti chiese ortodosse e monasteri. E poi chilometri e chilometri di campagna, terra, che – ci è stato spiegato – è coltivata a grano, granoturco e patate. Un mezzo di trasporto ancora molto utilizzato è un carretto trainato da un cavallo dalla corporatura massiccia, che serve per portare di tutto, dalle persone agli attrezzi da lavoro, masserizie, cibo. A far da contraltare a questo mezzo antico, automobili di grossa cilindrata (Bmw, Mercedes, Volkswagen) che, soprattutto in alcune aree agricole e modeste, sono di grande contrasto.

Tutto questo abbiamo visto attraversando la Romania da Ovest a Est, nel territorio della Transilvania. Difficile dire quale sia veramente la realtà non avendo potuto fermarsi e stare un poco con le persone. L’idea che mi sono fatta, attraverso quanto ho registrato con il solo senso della vista, è che si tratti di un paese che porta ancora in sé i segni di un passato legato all’ex Unione Sovietica ma con uno sguardo rivolto al mondo occidentale, all’Europa di cui fa parte e di cui forse vorrebbe tenere il passo.

Arrivati a Iași, ad attenderci abbiamo trovato suor Betty della congregazione delle Suore della Provvidenza di Adjudeni (Romania) che ci avrebbe accompagnati nella Repubblica di Moldavia e aiutato nell’attraversamento delle dogane rumene e moldave.

Al mattino, con i pulmini carichi, ci siamo avviati per percorrere l’ultimo tratto di strada verso la Casa della Provvidenza di Chisinau, il centro pastorale della diocesi dove trovano ospitalità molti profughi ucraini, spesso di passaggio per raggiungere altre mete europee dove si trovano parenti e amici.

Donne e bambini protestano contro la Russia davanti al Teatro nazionale dell’Opera e del balletto di Chişinǎu, tenendo in mano cartelli e giocattoli insanguinati (9 aprile 2022). Foto Pablo Miranzo -Anadolu Agency-AFP.

Burocrazia e panico da dogana

Alla dogana rumena non abbiamo avuto nessuna difficoltà. La cosa non è stata altrettanto facile alla dogana moldava. Nonostante tutti i nostri documenti preparati in Italia e in repubblica di Moldavia dalle suore, i quali riportavano la proprietà dei pulmini, l’elenco delle merci, la destinazione, la motivazione (aiuti umanitari), siamo stati bloccati per un modulo sul quale mancava la firma di una funzionaria moldava.

Abbiamo atteso qualche ora perché le suore potessero recarsi all’ufficio, raccogliere la firma, inviare il documento alla dogana e a suor Betty che ha dovuto trovare il modo di stamparlo e consegnarlo.

Abbiamo vissuto altri momenti di panico quando ci hanno informati che avrebbero apposto i sigilli a uno dei pulmini. Poi, fortunatamente, ci hanno ripensato (chissà – ho pensato – forse grazie alla Provvidenza) e siamo potuti ripartire. Poco dopo il nostro arrivo, alla dogana moldava è arrivato un pullman francese carico di aiuti e con una decina di accompagnatori. Anche loro si sono trovati ad affrontare la burocrazia della frontiera, ma hanno avuto meno fortuna visto che li abbiamo incontrati la sera tardi che uscivano dalla dogana moldava mentre noi eravamo già sulla strada del ritorno verso Iași.

Suor Betty ci ha spiegato che alla frontiera sono diventati molto pignoli da quando c’è un grande passaggio di profughi ucraini. Sappiamo infatti di altri che sono stati trattenuti ore ed ore con controlli accuratissimi. Senza voler giudicare o criticare le leggi e le procedure degli altri paesi, mi chiedo se – in una situazione di simile emergenza e nel momento in cui si è in possesso di documenti idonei – non si possano snellire gli iter burocratici per evitare di intasare le dogane con file interminabili e tempi infiniti di attesa, anche da parte di persone che provengono da situazioni di guerra e che, quindi, hanno già sulle spalle grandi preoccupazioni e ansie.

L’8 marzo, giorno della festa della mamma, madri e nonne ucraine ricevono un fiore dalle suore del centro. Foto Centrul Social Pastoral Casa Providentei.

Finalmente alla meta

Dopo più di due giorni di viaggio, abbiamo raggiunto la nostra meta. Ultimo scoglio: gli uffici doganali in città che dovevano dare il nullaosta per scaricare la merce. Ancora tempi di attesa, toccati a suor Betty e Sandro.

L’accoglienza di suor Rosetta e delle altre suore è stata davvero speciale, come sempre mi è capitato di sperimentare nelle mie visite ai missionari trentini.

Siamo arrivati quando i bambini dell’asilo, una delle due attività normali del centro, stavano giocando in cortile, come pure alcuni dei bambini ucraini ospiti.

Suor Rosetta ci ha raccontato che erano presenti una novantina di profughi. Dieci erano di etnia Rom, arrivati la sera prima con una bambina di 15 giorni. Sono per la maggior parte nonne e mamme con bambini. Arrivano accompagnati dalla polizia o in auto, in autonomia, a seguito del passaparola di coloro che ci sono già passati e che consigliano a parenti e amici di recarsi dalle suore, dove si può trovare un’accoglienza attenta e cordiale.

Fuggire in pigiama

Il centro pastorale, che ha anche un seminario, sorge in una zona nuova della città di Chisinau. Quando è stato costruito era in campagna, ora è attorniato da negozi e supermercati, palazzi di nuova costruzione dove risiedono giovani coppie che hanno anche delle possibilità economiche, spesso anche grazie alle rimesse di nonne che si trovano in Europa ad assistere gli anziani come badanti. Le attività ordinarie delle suore sono la gestione di un asilo con 120 bambini e una mensa per persone anziane indigenti, attività che continuano anche in questo momento. Ci hanno parlato della solidarietà dimostrata dai genitori dei bambini che si sono attivati per raccogliere cibo e indumenti per gli ospiti ucraini.

Le due strutture che compongono il centro sono state trasformate per poter dare ospitalità a un massimo di 120 persone. Ogni stanza, salone, corridoio, è stato attrezzato con letti, che sono stati sistemati anche nella cappella. I seminaristi presenti sono stati trasferiti in un’altra struttura della diocesi per far posto ai profughi. Le suore con i loro collaboratori hanno spostato mobili, montato letti, preparato biancheria. Ogni volta che arriva un gruppo di persone si mettono in moto per sistemarlo nel miglior modo possibile. Ci sono giorni in cui si registrano arrivi fino a tarda ora. Chiunque bussi alla porta trova suor Rosetta, suor Juliana, suor Michela con un sorriso e un gesto di affetto nei suoi confronti. Alcuni sono arrivati in auto, in pigiama, perché fuggiti in fretta e furia, lasciando tutto. Molte delle donne con i figli sono state accompagnate al confine dai mariti e dai padri che poi sono tornati indietro per cercare di difendere le loro città e il loro paese.

Piccoli, grandi gesti

Suor Juliana, Luisa Legari e Tatiana Brusco, autrice di questo diario, scaricano gli aiuti da un furgoncino. Foto Centrul Social Pastoral Casa Providentei.

Una signora, sentendoci parlare italiano, si è avvicinata mentre stavamo scaricando i pulmini e ci ha ringraziati per l’aiuto portato alla sua gente. In quel momento come ora, mentre ne sto scrivendo, mi salgono le lacrime agli occhi, perché il nostro sembrava davvero un piccolo gesto davanti all’enormità della tragedia che tutti loro stanno vivendo.

Ci ha raccontato che era in attesa del permesso per recarsi con il figlio in Germania per raggiungere la madre che si trovava là per cure e che chissà quando sarebbe potuta tornare a casa. Questo breve incontro mi ha fatto comprendere come sia importante l’esserci, il poter dare anche un piccolo segno di solidarietà con la presenza, come e anche più dei molti aiuti che si possono portare. Questo è quanto le suore e le persone che operano al centro stanno dimostrando in questo momento, non risparmiandosi e non contando le ore di lavoro e trovando sempre un gesto di attenzione speciale per ognuno. Come è accaduto l’8 marzo, giorno della Festa della Mamma nella repubblica di Moldavia: le suore hanno donato a tutte le mamme e nonne un tulipano giallo e un piccolo dolce. Forse non era la cosa più importante festeggiare le mamme in quel momento, ma ha fatto sentire tutte loro amate e considerate e non solo persone da aiutare.

Questo è quanto abbiamo sperimentato anche noi: malgrado la stanchezza, i pensieri e le preoccupazioni che vivono ogni giorno, le suore sono state davvero contente di vederci e di passare assieme alcune ore, offrendoci un pranzo tradizionale moldavo, con un immancabile tocco trentino rappresentato da un’ottima torta di mele.

Con la valigia pronta

Anche il popolo moldavo sta dimostrando una grande solidarietà accogliendo nelle proprie case i profughi e attivandosi per dar loro aiuto. Una parte dei moldavi vive nella paura che possa succedere qualcosa anche al loro paese. In molti hanno una valigia pronta e qualche risparmio da parte per essere pronti a partire in qualsiasi momento.

Tatiana Brusco

Una mappa della Moldavia con evidenziate le regioni contese con la Russia: la Transnistria e la Gaugazia. Illustrazione di Stratfor (2014).

Moldavia, incubo Transnistria

  • Superficie: 34mila Km2;
  • Popolazione: 3,9 milioni;
  • Capitale: Chişinău, con circa 800mila abitanti;
  • Sistema politico: repubblica parlamentare;
  • Presidente: Maia Sandu, in carica dal 20 dicembre 2020; prima donna moldava alla presidenza, la Sandu è una filo europea, al contrario del suo predecessore Igor Dodon, filo russo;
  • Date essenziali: indipendenza, 25 dicembre 1991; aprile 2022, alcuni attentati in Transnistria, «stato» legato alla Russia, avvertono che la guerra può toccare anche questa regione;
  • Principali gruppi demografici: moldavi 70%, ucraini 11%, russi 9%;
  • Religioni principali: ortodossi 93%; gli ortodossi fanno capo alla Chiesa ortodossa moldava legata al patriarcato di Mosca guidata da Kirill, mentre una parte più piccola di essi fanno riferimento alla Chiesa ortodossa rumena;
  • Economia: principalmente rurale e agricola, la Moldavia è considerata il più povero tra i paesi europei; lo scorso 4 marzo, la presidente Maia Sandu ha presentato domanda di adesione
    all’Unione europea;
  • Gas: le forniture di gas provengono dalla Russia;
  • Regioni contese: la regione moldava della Transnistria è uno stato indipendente de facto, sotto tutela di Mosca; anche la regione autonoma della Gagauzia chiede l’indipendenza dalla Moldavia; si tratta di una situazione simile a quella del Donbass e della Crimea in Ucraina, tanto che un progetto di Mosca prevederebbe la formazione di un corridoio dai territori ucraini conquistati fino alla Transnistria;
  • Profughi ucraini: 453.848 persone entrate nel paese dallo scoppio della guerra (dati Unhcr al 6 maggio 2022);
  • Moldavi in Italia: 122.667 pari al 2,4% degli stranieri ufficiali (dati Istat, 1° gennaio 2021); dei residenti moldavi in Italia la maggior parte è occupata nei servizi alla persona (colf e badanti).

(a cura di Paolo Moiola)

Guerra russa e Chiesa ortodossa

La croce e il Cremlino

Le immagini di Vladimir Putin alla messa della Pasqua ortodossa – lo scorso 24 aprile – sono subito state diffuse da Sputnik, l’agenzia di stampa del Cremlino operante in tutto il mondo. Il presidente e novello zar russo è stato immortalato con una candela in mano e mentre si fa il segno della croce. Il tutto si è svolto a Mosca, nella cattedrale di Cristo Salvatore, a poca distanza dal Cremlino.

A officiare la cerimonia pasquale non poteva che essere il patriarca Kirill, dal 2009 primate della Chiesa ortodossa russa. Dopo le sue scandalose omelie in favore della «operazione militare speciale» in Ucraina, in quella occasione il patriarca si è limitato a parole di circostanza.

Nelle sue invettive contro l’Occidente e i suoi vizi, il fustigatore Kirill evita sempre ogni possibile riferimento alla propria persona. Come il sodale Putin, il patriarca ha infatti un passato da agente del Kgb a Ginevra, quando lavorava per il Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec). Come Putin (anche se non ai suoi irraggiungibili livelli), il patriarca ha accumulato ingenti ricchezze personali (famosa la foto del 2009 con un orologio Breguet da trentamila dollari al polso). Proprio come avvenuto con il presidente, in Russia, pochi hanno osato opporsi al bellicismo del patriarca, anche per non incorrere nelle pesanti «attenzioni» della polizia. Come dimostrano le vicende di padre Ioann Burdin (50 anni) e padre Georgy Edelshtein (89), perseguiti per aver parlato contro la guerra in Ucraina.

È proprio in quel paese che il patriarca Kirill ha subito lo smacco più importante: lo scisma del 2018. Nel suo libro La croce e il Cremlino, il professor Thomas Bremer spiega che la storia della Chiesa russa inizia a Kiev nel X secolo. «Le tensioni politiche che emergono talvolta (il libro è del 2007, ndr) tra Russia e Ucraina si comprendono a partire da questa radice storica: per alcuni russi è difficile accettare che Kiev, la “madre delle città russe” e la culla dell’Ortodossia russa, oggi sia terra straniera».

Secondo un altro professore, il francese Antoine Nivière, autore de Gli ortodossi russi (2018), da quando ha raggiunto il più alto grado della gerarchia, Kirill si è radicalizzato, adottando come Putin la teoria dello «scontro di civiltà».

Proprio in questo mese di giugno, papa Francesco avrebbe dovuto incontrare il patriarca Kirill a Gerusalemme. Appuntamento poi sospeso a causa del conflitto. Nel febbraio del 2016, Francesco e Kirill si erano visti a L’Avana, primo ed unico incontro tra leader della Chiesa cattolica e di quella ortodossa russa.

Paolo Moiola

8174121 24.04.2022 Russian President Vladimir Putin attends the Easter service at the Christ The Saviour Cathedral in Moscow, Russia. Sergey Fadeichev / POOL (Photo by Sergey Fadeichev / POOL / Sputnik via AFP)

Archivio MC

 

 




Guatemala: Da vittime a protagoniste


Nel paese centroamericano la violenza contro le donne è normalità quotidiana. Ancora di più se indigene. Elena e Cristina, di origine maya ixil, hanno saputo trasformare la loro esperienza in un aiuto per altre vittime.

La cosa che colpisce di più quando si parla con Elena Guzaro è la dolcezza del suo sguardo, un misto di timidezza, fatica, ma anche determinazione. Di fianco a lei, Cristina Raymundo ha occhi vivaci e sinceri. Ti squadra in maniera diretta, senza abbassare la testa, visibilmente divertita.

Sono due modi diversi di osservare il mondo, ma entrambi rivelano la serenità e la consapevolezza di chi, non senza difficoltà, è riuscita a prendere in mano la propria vita e a decidere per se stessa. Sono gli sguardi di chi è stata capace di sottrarsi alle botte di un marito ubriaco, o di chi rifiuta di rimanere intrappolata in una relazione familiare di dipendenza economica o, ancora, di chi vuole studiare per migliorare le proprie opportunità future. Sono gli sguardi tipici di chi è riuscita ad affrancarsi dalla violenza di genere con il proprio corpo e le proprie parole. E dopo averlo fatto, è determinata ad aiutare altre donne a seguire i suoi passi.

Donne indigene portano croci con i nomi di vittime del conflitto armato guatemalteco durante una manifestazione per il 22° anniversario della pubblicazione (avvenuta nel 1999) del rapporto della «Commissione per la verità» (Città del Guatemala, 25 febbraio 2021). Foto Johan Ordonez – AFP.

Elena e Cristina

Elena Guzaro e Cristina Raymundo sono due donne indigene di origine maya ixil, vivono a Nebaj, a duemila metri d’altezza nella regione del Quiché, zona Nord Ovest del Guatemala. Sono ex vittime di violenza. Ex, perché oggi non lo sono più.  Nel presento sono, e lo saranno nel futuro, due defensoras dei diritti umani che, forti della loro esperienza dolorosa, aiutano le loro concittadine, così come le donne provenienti da tutta la regione maya ixil, a riconoscere la violenza e, in questo modo, a liberarsene.

Da anni, Elena e Cristina sono parte integrante dell’Associacion red de mujeres ixiles (Asoremi), un’organizzazione di donne che si batte proprio per richiedere giustizia in nome delle vittime di abusi fisici e sessuali, di discriminazione e di minacce psicologiche. Nel corso del tempo, la Defensoría de la mujer I’x (dove in lingua maya ixil «I’x» vuol dire «donna»), la sede di Asoremi, è diventata un punto di riferimento per bambine, giovani e donne di tutte le età che, in caso di violenza, preferiscono rivolgersi a loro invece di dirigersi da sole alla polizia, che in molti casi non prende in esame le loro denunce.

1960-1996: La guerra civile

Elena Guzaro è la presidentessa di Asoremi e sa bene cosa significa essere incastrata in un contesto di violenza. Lei stessa ha vissuto l’esperienza sulla sua pelle. È nata nel 1980, nel pieno del conflitto armato interno che ha causato oltre 200mila vittime e 45mila desaparecidos, tra il 1960 e il 1996, anno in cui sono stati firmati gli accordi di pace. La guerra civile, giocata nel contesto della Guerra fredda, ha visto contrapporsi l’esercito, sostenuto e armato dagli Stati Uniti, a una guerrilla partecipata da contadini, studenti, sindacalisti e alcune organizzazioni di sinistra, tra cui il Movimiento revolucionario 13 de noviembre.

Tra il 1981 e il 1983, il conflitto conobbe una svolta drammatica con una fase genocida, guidata dall’allora dittatore Efraín Ríos Montt, nei confronti della popolazione maya ixil. Il piano elaborato per lo sterminio del popolo indigeno portò all’esecuzione di migliaia di persone, tra adulti e minori. Oltre alle morti e alle sparizioni forzate, si aggiunge alle atrocità di quel periodo anche lo stupro, arma di guerra ripetutamente utilizzata nei confronti delle donne maya ixil.

A oggi, il genocidio è rimasto impunito, pur essendo evidenti le responsabilità dell’ex dittatore. Il report realizzato dalla «Commissione per il chiarimento storico», voluta dalle Nazioni Unite, ha infatti evidenziato che il 93% delle violenze avvenute durante l’intero conflitto armato è stato perpetrato dall’esercito.

Donne indigene in cammino. Foto Simona Carnino.

La violenza Inizia in famiglia

Allora Elena Guzaro era una bambina di pochi anni ed è riuscita a sopravvivere alla prima violenza della sua vita, a cui, nel tempo, se ne sono sommate altre. «Mio padre è morto nel 1982, durante la guerra, e fin da bambina ho dovuto lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, nella zona della costa Sud – racconta Elena -. Ho avuto il mio primo figlio a 18 anni. Mio marito non mi aiutava, anzi, mi picchiava quando partecipavo alle attività di Asoremi, perché voleva che rimanessi a casa. Era violento, ma io pensavo che fosse normale perché anche mia madre mi diceva che se lui mi picchiava era per colpa mia, perché uscivo per andare a lavorare alla Red con le altre donne. Ora non sto più con lui. Ci siamo lasciati cinque anni fa, ma è stato difficile prendere questa decisione nonostante le botte, perché da quel momento lui ha smesso di sostenere economicamente la famiglia. Io ho sei figli ed è dura mantenerli da sola».

Un problema radicato

La violenza contro le donne in Guatemala, così come nel Nord dell’America Centrale, Messico e in numerosi paesi dell’America Latina, è un problema radicato.  Come in quasi tutto il mondo, la violenza si presenta sotto molteplici forme, a partire da quella fisica, sessuale, psicologica, economica, fino ad arrivare agli abusi dello stato, di cui, per esempio, è stata vittima Elena Guzaro quando, durante il conflitto armato, ha dovuto abbandonare la sua casa per sfuggire al genocidio perpetrato dall’esercito guatemalteco ai danni della sua comunità.

In America Latina è alta l’incidenza del femminicidio, che nel 2020 ha generato oltre 4mila vittime, uccise principalmente per mano di un familiare prossimo, in particolare del compagno o dell’ex.

Secondo gli ultimi dati disponibili dell’«Osservatorio sull’uguaglianza di genere» delle Nazioni Unite, con un tasso di 4,7 donne uccise su 100mila abitanti è l’Honduras ad aggiudicarsi il primato di paese più mortale per le donne, seguito da Repubblica Dominicana e da El Salvador.

In Guatemala, i femminicidi sono attualmente in rapida ascesa dopo una lieve riduzione nel 2020. Secondo il recente report sulla «Violenza omicida», prodotto dal «Gruppo di supporto mutuo» (Gam) del Guatemala, solamente nel mese di gennaio 2022 sono state uccise 52 donne, con una media di quasi due al giorno, a cui si aggiungono ulteriori cinque denunce quotidiane di scomparsa. Il tasso di impunità dei femminicidi sfiora il 98% secondo i dati della «Commissione internazionale contro l’impunità» (Cicig).

In America Latina persiste anche un’elevata violenza patrimoniale, che si verifica quando il padre di famiglia decide di abbandonare il nucleo familiare rifiutandosi di passare gli alimenti ai figli, forzando, di fatto, la donna a sobbarcarsi da sola i costi della famiglia, spesso molto numerosa. Questo tipo di violenza ha un impatto molto forte in particolare sulle donne che, soprattutto in America Centrale, vivono già in una condizione di povertà, a volte anche estrema.

Un evento organizzato dalla «Red» a Nebaj, comune del dipartimento del Quiché. Foto Simona Carnino.

Anche le bambine

Le donne indigene sono maggiormente esposte a discriminazione e violenza «intersezionale» (legata cioè non soltanto al genere, ma anche ad altri aspetti) su base etnica, economica e sociale. Questo significa che una donna maya ixil rischia di essere vittima di violenza non solo perché donna, ma anche per il fatto di appartenere a uno dei 22 popoli maya che, in Guatemala, sono spesso discriminati ed esclusi da investimenti statali in ambito educativo, sanitario ed economico.

Durante il lockdown del 2020, nell’area maya ixil è aumentata in maniera esponenziale la violenza fisica e sessuale ai danni anche di bambine e giovani donne che sono dovute rimanere a casa, costantemente a fianco del proprio aguzzino.

«Durante la pandemia abbiamo ricevuto molte segnalazioni di violenza – racconta Cristina Raymundo -. In quel periodo abbiamo provato a dare assistenza telefonica, ma il servizio non ha funzionato, perché le donne non potevano parlare apertamente di fronte ai loro mariti o alla famiglia violenta. In quel periodo è aumentata la violenza sessuale e il numero di incesti. Abbiamo aiutato alcune donne a scappare di casa, pagando loro un taxi, e le abbiamo ospitate presso la Defensoría, tanto che alcuni bambini sono nati lì. In quel periodo abbiamo provato a insegnare alle giovani madri a prendersi cura dei neonati e di loro stesse».

Una vista della chiesa e del centro di Nebaj, nel Quiché. Foto SImona Carnino.

La Rete delle donne

La Red de mujeres ixiles ha un unico e fondamentale obiettivo: lottare contro qualsiasi forma di violenza sulle donne, attraverso un sostegno concreto, che può essere l’assistenza psicologica, legale, educativa e anche un supporto economico.

La storia della Red, una rete che unisce circa 360 donne impegnate in nove associazioni di base nel comune di Nebaj (Quiché), è iniziata nel 1999 grazie a un capitale di microcredito erogato dal «Fondo di investimento sociale» dello stato guatemalteco, che ha permesso di finanziare le piccole attività economiche delle socie, come, ad esempio, sartorie, allevamenti di polli e coltivazioni della terra. Nel 2005, le nove associazioni hanno fondato ufficialmente la Red de mujeres ixiles.

Elena Guzaro ha iniziato la sua esperienza in una delle organizzazioni di base proprio nel 1999. «Avevo 19 anni. Volevo provare ad accedere al microcredito e imparare anche a leggere e scrivere. Ancora oggi organizziamo corsi di alfabetizzazione per dare alle donne la possibilità di studiare. Io avrei sempre voluto farlo, però da piccola ho dovuto lavorare, per cui ho iniziato tardi, ma ora ho il titolo di maestra. Lavorare alla Red è stato un modo per imparare da donne più grandi di me a riconoscere la violenza e, allo stesso tempo, le ho aiutate a superare gli abusi che vivevano nelle loro case, simili a quelli che subivo io».

Tutte le socie di Asoremi hanno vissuto qualche forma di violenza e in maggioranza vivono in condizione di povertà. Secondo gli ultimi dati della «Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi», il Guatemala si situa al quinto posto nell’area per disuguaglianza nella distribuzione del reddito, particolarmente evidente nei salari delle donne indigene che, lavorando spesso come tessitrici informali, guadagnano circa 50 dollari al mese a fronte di un salario minimo nazionale di 350 dollari mensili.

Panoramica su un barrio vulnerabile a Città del Guatemala, capitale del paese centroamericano. Foto Simona Carnino.

Persecuzioni e minacce

La volontà di aiutare le donne a diventare indipendenti mentalmente ed economicamente da partner violenti è alla base del lavoro della Red de mujeres ixiles. E proprio per questo, molte delle socie sono state vittime di persecuzioni e minacce da parte di uomini o, in alcuni casi, di persone anonime.

Nel 2018, una socia è stata uccisa mentre camminava per tornare a casa e molte compañeras della Red sono state derubate e attaccate verbalmente e fisicamente.

Ma le violenze e la paura non le annichilisce. Anzi, le donne della Red continuano a portare avanti il loro lavoro. Ogni anno danno assistenza psicologica e legale a circa 500 donne e promuovono pubblicamente, attraverso eventi pubblici e la radio, la necessità di ridurre la violenza sulle donne e le bambine per creare una società meno conflittuale e più giusta per tutti.

Un lavoro per il quale le socie di Asoremi hanno ottenuto molti riconoscimenti, tra cui il «Premio per i diritti umani» lanciato dall’associazione di Bolzano Operation Daywork Onlus (operationdaywork.org) che Elena e Cristina hanno ritirato durante un recente viaggio in Italia, nel marzo di quest’anno. Il legame di Asoremi con l’Italia è rafforzato anche dalla collaborazione con la Ong torinese Cisv
(cisvto.org), che dal 2009 affianca Asoremi nell’accompagnamento delle vittime di violenza e nella risoluzione dei conflitti nell’area maya ixil.

Curare le ferite

Nel libro Tus pasos y mis pasos, prodotto da Asoremi, le socie dicono di se stesse: «Abbiamo sperimentato violenza domestica, economica, fisica, politica (durante il conflitto armato interno), abusi psicologici e furti. La maggior parte di noi si è formata per poter gestire le proprie attività commerciali e i propri soldi […]. Abbiamo capito l’importanza di essere parte di un’organizzazione e di sanare le nostre ferite».

Le socie della Red de mujeres ixiles sono convinte che una donna sopravvissuta alla violenza possa guarire dal dolore e recuperarsi, se aiutata a farlo.

Cristina Raymundo si occupa proprio di «sanación», un percorso di risanamento delle ferite subite, e da anni aiuta le donne a riprendere in mano la propria vita, a riconoscere e, di conseguenza, evitare per quanto possibile la violenza di genere.

«Sono entrata nella Red nel 2013 e da allora ho sostenuto molte donne nel loro percorso di guarigione – spiega Cristina -. La prima cosa che faccio è ascoltarle, quando arrivano dopo essere state malmenate o abusate psicologicamente. Poi facciamo alcuni esercizi di respirazione e provo a spiegare loro che non devono sentirsi in colpa se si sentono senza forze o spaventate. È normale dopo una violenza. Spesso disegniamo per connetterci mentalmente con la persona che le ha danneggiate, nel tentativo di perdonarla e superare il dolore. Alla fine, le accompagno da altre donne della Red dove possono ascoltare storie simili ed essere ispirate a trovare soluzioni».

Donne indigene alla messa della Domenica delle Palme (10 aprile 2022) a San Pedro Sacatepequez, a 25 chilometri dalla capitale guatemalteca. Foto Johan Ordonez – AFP.

Il contesto familiare e sociale

Il processo di guarigione è un percorso collettivo di mutuo aiuto, che permette alle sopravvissute alla violenza di sentirsi accolte e capite, senza giudizi.

Molte donne, indipendentemente dal paese di provenienza, o dal ceto sociale e dal livello educativo, fanno fatica a riconoscere di essere state vittime di violenza. Di fatto, la continua colpevolizzazione che la società attuale fa della vittima alimenta quello storico cortocircuito che impedisce a molte donne, ancora oggi, di ammettere, e quindi di denunciare, gli abusi subiti in prima persona.

«Io arrivo da un contesto patriarcale, dove anche mia madre era vittima di violenza, ma non l’ha mai voluto accettare e riconoscere – continua Cristina -. Per cui ho iniziato io a educare le mie sorelle a essere libere, così come le donne della Red hanno fatto con me. Il supporto e la fiducia che trasmettiamo alle donne è ciò che le ispira a fare la stessa cosa con le altre. Quando una sopravvissuta alla violenza usa la propria esperienza per aiutare una sorella o un’amica a riconoscere e difendersi dalla violenza, smette di essere una vittima e diventa una defensora dei diritti umani, come tutte noi».

Simona Carnino

Il libro pubblicato nel 2022 su Don Piero Nota, sacerdote della diocesi di Torino, che ha dedicato la sua vita al Guatemala.




Il giornalista che non voleva gridare


È un racconto lungo oltre 60 anni. Una carrellata di personaggi famosi e, spesso, scomodi o incompresi. Tra sport, musica, cinema e politica.

Uno dei ritratti disegnati da Bruno Bozzetto per il documentario «Gianni Minà, vita da giornalista» di Loredana Macchietti.

Il documentario «Gianni Minà, una vita da giornalista» che ha aperto il 25 marzo scorso il Festival di Bari (Bif&st 2022), ha avuto una lenta ma costante gestazione, fino a pochi giorni prima della consegna agli organizzatori baresi. Dal 2008 io e Gianni abbiamo iniziato a pensare all’idea di memoria, a dare una logica, un ordine alla montagna di documentazione del suo lavoro fatta di supporti, documentari, materiale registrato e poi scartato o mai montato, interviste fatte ma non prese in considerazione dalla Rai, unico acquirente, qui in Italia, dei suoi lavori. Ma, soprattutto, abbiamo iniziato a condividere l’esperienza professionale di Minà con le nuove generazioni, per non disperderla e per mantenere accesa la luce sui fatti e sulle persone che non hanno mai avuto voce.

In quell’anno organizzammo, alla Casa del Cinema di Roma, un incontro di una settimana, ogni giorno un tema diverso, per festeggiare e ricordare i 50 anni di lavoro di Gianni. A quell’incontro, invitammo gli amici di una vita: da Pietro Mennea a Tommie Smith, da Luis Sepúlveda a Frei Betto a Joan Manuel Serrat, da Stefania Sandrelli a Raffaele La Capria e molti altri. Finimmo quella specie di happening con un concerto di Augusto Enriquez y su mambo band (e con la prima comunione di nostra figlia Paola).

Da quei giorni abbiamo iniziato a dare corpo ai ricordi in forma dinamica, a tramandare la memoria senza aspettare la fine del percorso di una vita, mentre ancora lavoravamo.

Lo spunto ce lo ha dato Jorge Amado, con il suo «Navigazione di cabotaggio» (1992), un libro fatto solo di nomi di amici nel quale il grande scrittore brasiliano aveva dedicato un breve commento a ognuno. Tra loro c’era pure Gianni. Jorge lo avevamo conosciuto anni prima, quando avevamo percorso tutta l’America Latina alla ricerca dei grandi miti latinoamericani del calcio italiano ancora viventi. Fu un’avventura lavorativa molto faticosa, che non ci procurò il guadagno sperato, ma la ricchezza di nuovi amici, tra i quali Amado e Zelia Gattai, la moglie di origine friulana, che ci fecero conoscere Bahia, il candomblé e la cucina afrobrasiliana.

Muhammad Alì e Gianni Minà in una foto d’epoca. Foto archivio Gianni Minà.

Con Frei Betto

In Brasile, insieme a Jorge Amado, conoscemmo Frei Betto, domenicano, teologo della liberazione che, dopo aver fatto imbustare i resti di una cena conviviale, ci portò a conoscere i bambini di strada, ammassati a dormire in riva al mare nel buio della notte. I bambini, dai 4 ai 10 anni, divisero senza litigare e in silenzio i resti di quel pasto. Per ringraziarci, il più grande, un ragazzino di neanche 10 anni, ci porse un cocco. Quella sera nacque una fratellanza con Frei Betto, ma anche un cambio radicale di visione per me e Gianni.

Betto per noi è prezioso, e più di un fratello. Ha intrecciato la sua vita con la nostra, è stato sempre presente nei momenti belli, ma soprattutto nei momenti bui della nostra famiglia: in un’alba di quasi 20 anni fa mio padre morì per un’operazione che non riuscì a sostenere. Lo misero, come uno «scarto» qualsiasi, avvolto in un telo in uno sgabuzzino dove, nell’angolo, c’erano dei secchi con degli stracci e degli spazzoloni per pulire i pavimenti. Mia madre e mio fratello erano annichiliti dal dolore e non riuscivano a proferire parola, ma Betto, appena arrivato dal Brasile, si fece accompagnare da noi e con le sue parole e la sua benedizione riuscì a riportare luce e dignità alla disperazione.

Nel 2013, in questo percorso nella memoria, abbiamo composto il libro «Il mio Alì» (edito dalla Eri), una raccolta dei principali  articoli e delle interviste che Gianni ha fatto a Muhammad Alì, un uomo straordinario, che ha saputo trasformare anche la sua malattia in un’arma di resistenza. Ogni volta che passava per Roma per qualche convegno o invito televisivo, non mancava mai di farci visita, insieme a sua moglie Lonnie. Ricordo Muhammad Alì come un uomo profondamente religioso e veramente spiritoso.

Sentivamo, inoltre, l’esigenza di lasciare una testimonianza sull’idea di giornalismo di Minà, quello tradizionale e d’inchiesta, ma sempre con un’attenzione particolare ai diritti dei più deboli, a coloro che, ovunque nel mondo, si ribellano. È nato allora «Così va il mondo» (edito dal Gruppo Abele), frutto di un dialogo tra Gianni e Giuseppe De Marzo, ecologista italiano, ma anche scrittore ed economista, ripreso poi nel documentario per parlare di pace, giustizia ecologica e libertà. Conosciutisi al Forum social mundial (Fsm) intorno al Duemila, De Marzo e Minà hanno intessuto un dialogo mai sopito, che dura ancora oggi.

Un altro dialogo, nel 2020, Gianni lo ha intrecciato con lo scrittore Fabio Stassi. Da questa collaborazione è nato «Storia di un boxeur latino» (edito da Minimum fax), il libro autobiografico di Minà nel quale, per la prima volta, lui racconta la sua vita, almeno fino agli anni Novanta. Lo ha fatto soprattutto per le sue tre figlie – Marianna, Francesca e Paola -, nella consapevolezza di essere un padre troppo anziano perché le possa accompagnare in un tratto lungo delle loro vite.

Quel titolo è frutto di una sorpresa che feci a Gianni per un regalo di Natale. Lui ama moltissimo l’amico Paolo Conte e le sue canzoni, così chiesi all’autore se potesse dedicare a Minà un suo lavoro. Pochi giorni dopo, mi venne recapitato un cofanetto accompagnato da una bellissima dedica: «All’amico Gianni, un boxeur latino». Dopo questo libro, la stessa casa editrice ha dato alle stampe anche una raccolta di articoli scritti da Gianni sull’indimenticabile Diego Armando Maradona.

Un giovane Minà con i Beatles (George, Ringo, Paul e John), a Roma nel giugno del 1965. Foto archivio Gianni Minà.

Regista cercasi

Ritornando al documentario, avevamo accantonato il progetto, un po’ perché sempre oberati di lavoro, un po’ perché non trovavamo un regista che potesse rendere in modo aderente la storia di Minà: chiunque si faceva avanti, esprimeva perplessità a raccontare temi delicati, come i suoi scoop latinoamericani (Fidel Castro, Chávez, il papa a Cuba, il Fsm, ecc.).

Poco a poco, mi venne l’idea di scrivere un copione sulla sua vita professionale, usandola però come espediente per raccontare la storia del giornalismo e della Tv in Italia dagli anni Sessanta ai giorni nostri. Ci pensavo, ma non speravo, anzi aspiravo. In fondo, la mia professione è sempre stata quella più pratica, meno artistica, di producer. Ma i ferri del mestiere li sapevo usare più che bene, lavorando per Gianni da più di 30 anni. Lo conobbi casualmente nel 1985: avevo bisogno di fare dei lavoretti, mentre stavo aspettando il «concorsone» al Comune di Roma come assistente sociale. Dovevo «sbobinare» su carta le sue interviste che aveva fatto alcuni anni prima ai pugili americani degli anni Settanta. Mentre aspettavo il concorso, lui mi iniziò al montaggio (ma negli orari notturni, perché quelli erano i turni per i «pivelli») con un regista che poi è diventato un mio fraterno amico, Giuseppe Sciacca. Poi, nel tempo, ho ricoperto tutti i ruoli di questo ambiente: segretaria di redazione, programmista regista, segretaria di produzione, produttore esecutivo, produttore. Mi mancava il ruolo da regista.

Gianni Minà con Maradona, amico di una vita. Foto archivio Gianni Minà.

Gianni, tra fatti e gente

Ho intrecciato la mia vita professionale con Gianni Minà da subito, familiare parecchi anni dopo. Non sono stata né davanti, né dietro di lui, ma ho avuto il privilegio di stare al suo fianco. La soluzione è stata quella di costruire la nostra famiglia intorno al suo lavoro, perché, come disse Enzo Ferrari in una sua intervista, Gianni ha sposato la sua professione, ha aderito ai suoi ideali e non ha mai avuto intenzione di divorziare. Io sono sempre stata d’accordo con lui, perché «rotolando» insieme per il mondo, ho potuto vedere cose tremende e bellissime, persone decenti, immense, derelitte ma anche senza vergogna, ho sfiorato la Storia con la «S» maiuscola, abbiamo corso qualche rischio insieme, ma ne è valsa la pena. Ho capito che Gianni ha sempre voluto fare da ponte tra i fatti e la gente. Come ben riassunse il regista Walter Salles quando, nel 2007, a sorpresa, si presentò a Berlino per consegnargli il premio Berlinale Kamera: «L’opera di Gianni è un’opera che ci fa vedere quello che non ci sarebbe permesso mostrare o vedere o ascoltare se non fosse stato per lui. È guidato da una grande compassione, da una profonda umanità, ma soprattutto da un profondo desiderio di condividere con gli altri».

Con il leader cubano Fidel Castro, che Minà ha lungamente frequentato. Foto archivio Gianni Minà.

A Torino

Il documentario «Gianni Minà, una vita da giornalista» (una produzione Format con Rai Cinema) ha avuto una gestazione laboriosa perché la sua produzione è cominciata pochi mesi prima dell’inizio della pandemia. Abbiamo potuto girare gli esterni solo a Torino. Il resto delle interviste è stato registrato a casa nostra. Con un inizio che è una gemma preziosa: i titoli di testa pensati e disegnati da Bruno e Andrea Bozzetto e il loro team. A mano a mano che andavo avanti, facevo visionare a Gianni il premontato, ma lui non commentava mai nulla. Alla visione finale dell’opera, non ho più saputo resistere: «Beh, allora? Che te ne pare?». E lui: «Montaggio sufficiente, ma onesto». Insomma, promossa.

Loredana Macchietti

 (*) Loredana Macchietti, producer, è al suo primo documentario come regista.
È sposata con Gianni Minà, ben noto anche ai lettori di MC per la sua rubrica «Persone che conosco».

Serata con Gianni Minà nell’Aula Magna del CAM a Torino

Serata con Gianni Minà nell’Aula Magna del CAM a Torino

Serata con Gianni Minà nell’Aula Magna del CAM a Torino il 22/11/2016 © AfMC




Ricostruire persone e comunità


Ricostruire è un altro modo per dire consolare. E oggi c’è bisogno di farlo per persone e comunità in tutto il mondo e, in modo concreto, in Europa. Laddove ci sono situazioni infrante, consolare è favorire il perdono che libera e la riconciliazione che ricuce.

Ero a Bogotá. Il superiore mi aveva chiesto, con una certa insistenza, di partecipare a un incontro di teologia organizzato dall’Università dei Gesuiti. Poteva essere una specie di penitenza o, forse, il fatto che non trovasse nessun altro.

Vi andai e rimasi contento.

Il linguaggio, anche se esatto e raffinato, era accessibile.

Mi interessò soprattutto quanto detto da un anziano gesuita, professore molto rispettato, ormai in pensione, che iniziò parlando del capitolo 40 di Isaia, il famoso passo che dice: «Consolate, consolate il mio popolo…».

«Israele si trova in una situazione disastrosa. Il tempio è distrutto, le mura della città abbattute, il sacerdozio, non esistendo più il tempio, non ha ragione di essere, la popolazione è stata dispersa, le persone con qualche capacità di lavoro sono deportate a Babilonia. Non servono parole o gesti consolatori. Qui c’è bisogno di una ricostruzione dalla radice».

Giunto a questo punto del suo intervento, il professore diede sfoggio delle sue conoscenze della lingua ebraica: «Le parole “consolare” e “ricostruire” hanno, in ebraico, la stessa radice», disse. «Quindi consolare sta per ricostruire».

Come missionario della consolazione sentii che il teologo gesuita parlava del mio carisma: l’impegno di ricostruire le persone, le situazioni, le relazioni.

Da allora, l’affermazione dell’antico professore, che non ho mai potuto verificare, l’ho sempre venduta, così come l’ho ricevuta.

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Persone e comunità distrutte

Oggi incontriamo molte persone che si sentono distrutte, non trovano ragioni per andare avanti. A volte si tratta di situazioni non particolarmente disastrate, ma senza soluzione, per l’incomprensione e il rifiuto continuo all’interno delle relazioni più intime e familiari.

La maggior parte delle persone che si avvicinano al sacramento della penitenza, più che altro cercano ascolto, consolazione, indicazioni per ricostruire se stesse o le relazioni con chi si è allontanato.

C’è, quindi, un estremo bisogno di ricostruire persone e comunità. Questo è il nome della consolazione, necessaria oggi in tutto il mondo e, in modo concreto, in Europa.

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Il perdono è liberazione

Come possono ricomporre la propria vita persone distrutte perché offese, violentate, calunniate, diffamate?

C’è una parola fondamentale: il perdono.

Se ne parla spesso, ma forse è importante sottolinearne alcuni aspetti.

C’è chi lo vede come un dovere morale: «Devi perdonare». Ma, a chi è stato ferito, si può chiedere di aggiungere al dolore subìto anche il peso di guardare con rispetto il proprio offensore?

Forse non è questo il perdono utile per ricostruire la persona.

Allo stesso tempo, però, se al male rispondiamo con il male, allunghiamo una catena che ci tiene schiavi.

Il perdono è spezzare quella catena.

Mi fanno del male? Rispondo in un altro modo. Non voglio che chi mi ha fatto soffrire continui a dominare su di me.

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Il perdono è liberazione, è costruire la propria vita con tutta la libertà possibile. Se è vero che il perdono non cambia il passato, può liberare però il futuro.

Ho diritto a provare rabbia di fronte a un fatto ingiusto, ma trasformare la rabbia in rancore, vivere di rabbia, è una disgrazia.

Se, invece, riesco a liberare la mia vita dal desiderio della vendetta, se non conservo il male dentro di me verso chi mi ha fatto del male, allora curo la ferita che mi è stata inferta e mi sento capace di affrontare il futuro con libertà.

Certamente perdonare non è dimenticare, ma è ricordare in modo nuovo e diverso.

Questo non vuol dire che mi sia riconciliato con chi mi ha offeso, ma almeno ho preso il largo, sento che non sono più alle dipendenze di chi mi vuole o mi ha voluto male.

È facile perdonare? No. Bisogna lasciare alle spalle l’oscurità della rabbia e del rancore per prendere una decisione che mi fa stare bene. E ciò che mi aiuta in questa decisione è essere convinto che devo cambiare il mio punto di vista, non per giustificare quanto è avvenuto, ma per cercare di comprendere.

La persona che mi ha fatto soffrire è certamente una persona, sotto molti punti di vista, orribile. Ma è pur sempre una persona.

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Non sei ciò che hai fatto

Una chiacchierata fatta qualche tempo fa nel carcere minorile di Torino con un gruppo di interni, mi ha permesso di condividere questo tema.

Un giovane, che aveva commesso un grave delitto, mi ha detto: «Io sono un assassino». «No», gli ho risposto. «Allora che cosa sono?», ha ribattuto. «Sei una persona che ha ucciso». «Ma è lo stesso». «No, non è lo stesso».

Un giovane tunisino è intervenuto con una battuta: «Quando esco di qui voglio andare in Spagna». «Ti piace la Spagna?», gli ho chiesto. «È che là non mi conoscono», mi ha risposto. «È già un bel motivo per andarci. Ma che cosa vai a fare in Spagna?». «Voglio fare una banda». «E tu che cosa suoni?». «Ma non è per suonare. È per rubare». Allora io ho ribattuto: «Ma tu non sei un ladro». «E che cosa sono?». «Sei una persona che ruba». «Ma è lo stesso». «Penso di no. Non è lo stesso».

E così con un marocchino. «Tu non sei uno spacciatore. Sei una persona che spaccia».

Il dialogo è continuato a lungo e si è fatto acceso. Alla fine, ho detto: «Vi faccio un’ultima domanda e la finiamo lì. Chi è nato ladro, assassino o spacciatore?». La risposta è stata unanime: «Nessuno». «Come siamo nati? Come persone. Ecco quello che siamo. Poi non è uguale uccidere e aiutare, rubare o spacciare e servire gli altri. Allora ognuno si prenda le sue responsabilità. Ma tu non sei quello che hai fatto. Sei anche quello che puoi essere. Non sei solo il tuo passato, ma anche il tuo presente e il tuo futuro».

Se questa diventa una nostra convinzione, allora avremo purificato il nostro sguardo su chi ci ha fatto del male. Ma avremo anche purificato il nostro sguardo sul perdono più difficile, che è perdonare se stessi.

Ricostruire se stessi è l’impresa più grande, ma anche la più necessaria e liberatrice.

A volte risulta più facile offrire il nostro perdono agli altri che a noi stessi. Abbiamo in noi il desiderio di sentirci perfetti e invece è importante avere il coraggio di ritenerci limitati, fragili. Il perfezionismo non è utile, perché ci rende infelici, ci impedisce di accettare gli altri e noi stessi nelle nostre limitazioni.

Qualunque cosa sia avvenuta nella nostra vita, noi non siamo il nostro errore. Ci dobbiamo guardare con simpatia e fiducia sapendo che il passato non c’è più, il presente e il futuro sono nelle nostre mani.

Certamente possono rimanere in noi le radici del passato, radici che dobbiamo saper controllare e limitare nei loro sviluppi. È vero che il perdono non cambia il passato, il perdono verso gli altri e verso di noi libera il futuro.

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La riconciliazione

Se, con il perdono abbiamo ripulito e curato la nostra ferita, che, pur lasciando una cicatrice, non brucia più come agli inizi, adesso possiamo passare a curare la ferita con l’altro, con chi ci ha fatto del male.

Questo percorso lo chiamiamo riconciliazione.

Il perdono è sempre totale, senza condizioni. Sempre possiamo perdonare, perché ci fa stare bene, ci libera, ci rende creativi e padroni di noi stessi.

La riconciliazione, invece, non sempre è possibile. Se il nostro avversario si rifiuta, se è morto, se non so dove si trovi… allora posso perdonare, cioè rimuovere da me ogni desiderio di vendetta, di fare del male, ma non mi posso riconciliare.

Inoltre, la riconciliazione richiede la volontà da parte di tutti e due per percorrere un cammino che permetta l’incontro. E questo cammino si sviluppa attraverso varie tappe, che sono condizioni perché la riconciliazione sia reale.

Questo vale quando la riconciliazione è interpersonale o quando avviene tra due gruppi di avversari, o anche quando si tratta di riconciliazioni di tipo storico, ad esempio riconciliazioni nazionali come furono quelle molto interessanti elaborate in Sudafrica, in Perù o in Croazia.

Sono tentativi che non risolvono tutti i problemi, ma cercano di disinnescare conflitti maggiori e violenti.

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Memoria, verità, giustizia per un patto nuovo

Per percorrere in modo positivo il cammino della riconciliazione sono necessarie delle condizioni chiare.

Iniziamo con la memoria.

Non si costruisce la riconciliazione sul nulla. Qualcosa è successo, c’è stato un conflitto. La memoria non è una risorsa per ricordare, ma per ricostruire il passato con una finalità: assumere verso di esso un atteggiamento etico, cioè arrivare ad affermare «mai più, questo non deve succedere più».

Non si sta a esaminare il passato per distribuire colpe o errori: si scaverebbe una fossa che interromperebbe le relazioni. Si cerca, piuttosto, di arrivare insieme alla conclusione che quanto è avvenuto non è utile, non aiuta, non libera, non ci rende più umani.

Si passa poi al tema della verità. Anche qui non è importante la verità oggettiva, che è stata già in parte affrontata con la memoria, ma l’atteggiamento di reciproca sincerità. La verità delle relazioni, la fiducia rinnovata, la comunicazione sono necessarie per guardarsi in faccia e negli occhi affermando, senza il pericolo di inganno, che ci si può fidare, che si è recuperata una base solida su cui costruire o ricostruire la possibilità di una relazione solida.

Il passo successivo ci porta a riflettere sulla giustizia, che richiede due momenti: il primo, assumere la propria responsabilità, il secondo, offrire una riparazione.

Quando si è affermato che nessuno è il suo errore, si è anche detto che ogni atto ha un suo senso: non è lo stesso agire in un modo o in un altro. Ognuno può assumersi le proprie responsabilità.

Anche perdonare se stessi non equivale ad assolversi, ma significa non bloccarsi in una situazione.

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Assumere la propria responsabilità su ciò che è avvenuto può essere fatto nel dialogo o anche nel silenzio interiore. Allora è importante passare al secondo momento: offrire una riparazione, che può consistere in un oggetto donato, un gesto che esprima la volontà di riconciliazione. In questo caso sono importanti i gesti o rituali della pace: un abbraccio, un bacio, una stretta di mano…

Finalmente, l’ultimo passo nel cammino della riconciliazione consiste nel guardare verso il futuro e stringere un patto o accordo.

I patti si costruiscono in base alla necessità o alla convenienza. Se si considera necessario giungere a un accordo, allora bisogna che ognuno guadagni qualcosa e trovi il modo per superare le differenze.

È chiaro che, soprattutto nel momento del patto, è necessaria la presenza di un mediatore che possa facilitare un buon risultato. In un patto ben costruito nessuno perde, ma tutti guadagnano.

I patti, poi, possono avere diversi livelli. Ci sono patti di coesistenza, che potremmo anche chiamare patti di non aggressione. Ognuno vive per proprio conto, senza maggiori interferenze. Ci sono poi i patti di convivenza, dove si condivide, in qualche modo, qualche aspetto della vita. Infine, ci sono i patti di comunione, quelli tramite i quali si pianifica, si realizza, si valuta e si condivide tutto.

Ognuno sceglierà il patto possibile. Non è necessario, e a volte non è bene, per evitarsi inutili frustrazioni, puntare al patto più perfetto.

In ogni caso, anche una buona separazione è già anche una forma di riconciliazione. Quando non è possibile continuare insieme, si arriva alla conclusione che ognuno può prendere la propria strada, ma in modo serio e rispettoso. Ognuno ricupera la sua libertà rispettando la libertà dell’altro.

Ricostruire persone e situazioni infrante

Non sarà questa una strada di consolazione? Quella di ricostruire persone e situazioni infrante, aiutando perché ognuno personalmente, con il perdono, o comunitariamente, con la riconciliazione, ritrovi la propria libertà e armonia?

Qualche anno fa mi trovavo a Scutari, in Albania. Il vescovo mi aveva chiesto di parlare di questi temi a un gruppo di universitari albanesi e kosovari. Alla fine dell’incontro si è avvicinata una ragazza, che parlava bene l’italiano, come quasi tutti loro, e mi ha detto: «Lei ha parlato di me. Quello è il mio caso».

Avevo affermato, alla fine del discorso, che, a volte, io stesso consiglio di perdonare senza cercare la riconciliazione. Il caso più chiaro è quando si tratta di una ragazza violentata da suo padre. «Perdona», dicevo, «cioè, cerca di guarire questa enorme ferita. Tu ti meriti tutto l’amore e il rispetto di questo mondo. Sei una vittima, non sei colpevole. Riprendi nelle tue mani la tua vita, sentiti libera, costruisci il tuo futuro. Il segno di questa violenza rimarrà in te, come una cicatrice, non più come una ferita. Cerca di volerti bene e stai lontana da chi ti ha fatto del male». «E il comandamento che dice di amare i propri genitori?», mi ha domandato. «Sì, onora tuo padre, tua madre, ma anche tua figlia. È l’onore e l’amore per tutta la famiglia. Se tieni lontano tuo padre non gli farai nessun male ed eviterai che lui ne possa fare ancora a te».

Quella ragazza mi è saltata al collo e mi ha detto: «Grazie. Mi sento liberata. Sono felice».

Penso che, quel giorno, la consolazione sia arrivata a quella vita, che l’abbia ricostruita.

Anche in Europa c’è tanto bisogno di consolazione.

Gianfranco Testa


L’Università del Perdono è un’Associazione Onlus, senza fini di lucro, apolitica e aconfessionale, che intende promuovere uno stile di vita improntato al perdono e alla nonviolenza attiva.

L’Università mette in atto qualsiasi intervento o azione che possa essere funzionale alla diffusione dei valori del perdono e della nonviolenza, mettendo al centro l’uomo piuttosto che il conflitto.

www.universitadelperdono.org

desalvia.anto@gmail.com

 

 




Da prospettiva a solida realtà


Si tratta di imprese (virtuose e innovative) in rapida crescita. Introdotte nel 2016 nell’ordinamento giuridico italiano come una nuova forma societaria, sono ora presenti nel nostro paese con oltre mille enti.

Le Società Benefit (Sb) rappresentano una forma d’impresa virtuosa e innovativa, che potrebbe essere definita l’evoluzione del concetto stesso di azienda: mentre quelle tradizionali, infatti, esistono per rispondere a bisogni reali della società, ma lo fanno allo scopo principale di avere un profitto, le Società Benefit integrano nella propria ragione sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di generare un impatto positivo sulla società e sull’ambiente.

A differenza delle organizzazioni non profit (Onlus, Aps, OdV, ecc.), le Società Benefit fanno parte della realtà for profit, non rinunciando a mantenere il proprio scopo di lucro. A esso aggiungono però il perseguimento di uno o più benefici su persone, comunità, territorio e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni, oltre ad altri portatori di interesse, ovvero l’ecosistema all’interno del quale le Sb orientano il proprio agire quotidiano e di medio lungo periodo. Il tutto in modo responsabile, sostenibile e trasparente, con una gestione che richiede ai manager un serio bilanciamento tra l’interesse dei soci (shareholder) e l’interesse della collettività (stakeholder).

Alcune protagoniste dei corsi di formazione nel campo dell’assistenza domiciliare sostenute da Promos

Un approccio fortemente «cristiano»

Tale approccio al mondo del lavoro e dell’impresa recepisce anche i valori e le indicazioni che vengono dalla dottrina sociale della Chiesa.

Era il 2015 quando, nell’enciclica Laudato si’, papa Francesco si esprimeva nei seguenti termini: «Il lavoro dovrebbe essere il principale ambito di sviluppo personale, dove si mettono in gioco molte dimensioni della vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo sviluppo delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri, un atteggiamento di adorazione. Perciò la realtà sociale del mondo di oggi, al di là degli interessi limitati delle imprese e di una discutibile razionalità economica, esige che si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro per tutti» (LS, 127).

In seguito, il concetto è stato ulteriormente ribadito e approfondito nell’enciclica Fratelli tutti, ancora più incentrata sul tema dell’amicizia sociale. Ne citiamo un passaggio, a titolo di esempio: «L’attività degli imprenditori effettivamente è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti. Dio ci promuove, si aspetta da noi che sviluppiamo le capacità che ci ha dato e ha riempito l’universo di potenzialità. Nei suoi disegni ogni persona è chiamata a promuovere il proprio sviluppo e questo comprende l’attuazione delle capacità economiche e tecnologiche per far crescere i beni e aumentare la ricchezza.

Tuttavia, in ogni caso, queste capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso» (FT, 123).

Parole forti e incisive, che certamente hanno avuto un ruolo importante nel plasmare la mentalità di quei soggetti, imprenditori socialmente orientati e politici che, animati da spirito di servizio per il bene della comunità, hanno investito tempo e risorse affinché il «modello Benefit» si potesse realizzare e sviluppare.

Alcune giovani a scuola, in Kenya, grazie al contributo di Promos

Fenomeno in espansione

Se nel 2017 si parlava di Società Benefit come di un fenomeno nuovo, nato sulla scia delle B Corp (Benefit Corporation) statunitensi. Oggi quello che ci troviamo di fronte è una solida realtà. A fine 2021 le Sb in Italia hanno sfondato quota mille, il doppio rispetto al solo anno precedente, a conferma di una crescita esponenziale. Non c’è regione della penisola che non presenti almeno una realtà produttiva caratterizzata dalla forma giuridica introdotta dalla legge entrata in vigore nel 2016. A inizio 2022 in Lombardia erano oltre 300 e sul podio vi è anche il Lazio (oltre 120) con l’Emilia Romagna (oltre 100).

A dispetto della pandemia, pertanto, il numero delle Società Benefit in Italia è aumentato. Un’ulteriore conferma del successo che sta prendendo forma, è l’inclusione della «categoria Società Benefit» tra quelle contemplate nell’«Oscar di bilancio», premio organizzato da Ferpi – Federazione relazioni pubbliche italiana – con Borsa italiana e Università Bocconi, che viene assegnato fin dal 1954 alle imprese più meritevoli nelle attività di rendicontazione finanziaria e che rappresenta il riconoscimento più importante nell’ambito della comunicazione dei risultati di impresa.

Un impatto da condividere

Un elemento fondamentale nella disciplina delle Società Benefit è rappresentato dal fatto che, annualmente, tali realtà hanno l’obbligo di produrre una «Relazione di impatto» che sia pubblica, possibilmente realizzata da un ente terzo indipendente, che metta di fronte ai propri azionisti e ai propri clienti quanto concretamente realizzato nel corso dell’anno precedente per avvicinarsi al raggiungimento delle «Finalità di beneficio comune» dichiarate nello statuto. Si tratta di un aspetto fondamentale, utile a evitare i tristemente noti fenomeni di greenwashing o social washing, che fanno sì che l’impegno verso la sostenibilità sia solo una questione di marketing, senza un reale impatto positivo sull’ambiente e sulle comunità.

La capacità di comunicare in maniera trasparente ed efficace il perseguimento del beneficio comune è uno degli asset strategici più importanti per una Società Benefit. La comunicazione non finanziaria, ovvero la redazione annuale della «Relazione di impatto» rappresenta, infatti, non solo una opportunità di comunicazione e di posizionamento nel mercato, ma un vero e proprio strumento di gestione, relativo all’intero andamento della vita aziendale. Ad oggi, le Società Benefit sono le uniche realtà tra le imprese profit non quotate in Borsa a dovere redigere una comunicazione non finanziaria da allegare al bilancio, il che rappresenta un unicum nell’intera Unione europea, con l’Italia che costituisce l’esempio a cui guardare.

La premiazione di Reynaldi nel corso del Festival dell’Economia Civile

Un virtuosismo contagioso

Diventare Società Benefit rappresenta, certamente, un grande impegno e una grande responsabilità sociale, ma anche una immensa soddisfazione. Oltre a una dichiarazione di intenti, è una strada percorsa concretamente da numerose realtà che hanno saputo coniugare la ricerca del profitto con un concreto impegno sociale. A titolo di esempio segnaliamo due aziende torinesi che si sono distinte per il loro operato, anche durante la pandemia.

Il Festival dell’economia civile, svoltosi a Firenze a fine 2020, ha nominato l’azienda cosmetica torinese Reynaldi Srl SB «Ambasciatrice dell’economia civile» per l’impegno nella produzione responsabile dal punto di vista sociale e ambientale, investendo al contempo in formazione e attivando progetti di cooperazione in Burkina Faso, Kenya e Sudan per la produzione di materie prime di altissima qualità da utilizzare in ambito cosmetico, riconoscendo alle comunità locali un giusto prezzo, una concreta possibilità di crescita e la garanzia di richiesta continuativa.

Un altro esempio è la Promos SrL Sb, che pone al centro del proprio operato l’accompagnamento di altre realtà che si affacciano al mondo delle Benefit Corporation aiutandole a migliorare il proprio impatto sociale, ambientale ed economico. Il tutto, senza dimenticarsi di chi è meno fortunato, impegnandosi in progetti di sostegno scolastico per orfani in Kenya, nella regione del Meru, e a Capo Verde, a Mindelo. Si occupa anche della realizzazione di corsi di formazione professionale certificata per donne straniere nel campo dell’assistenza domiciliare e, in collaborazione con la Caritas italiana, sta attivando percorsi di formazione gratuita a livello nazionale per i rifugiati che provengono dall’Ucraina.

Sono solo due testimonianze di un modo diverso di fare impresa, che mette al centro il bene comune, ci invita ad «andare oltre» le logiche del solo profitto e ci ricorda che ciò è davvero possibile.

Paolo Rossi

* Già volontario nel Tharaka, Meru, Kenya, presidente di Col’or Ong di Orbassano (To) e assegnista di ricerca nel campo del Social Business Modelling presso l’Università del Piemonte Orientale.


Archivio

Paolo Rossi, Le Società Benefit: una realtà in crescita, MC maggio 2017.




Un Vescovo servo di consolazione


L’ordinazione episcopale del primo missionario della Consolata venezuelano nominato ausiliare di Caracas, ha coronato le celebrazioni del 50° anniversario della presenza dell’Istituto nel paese.

In una bella e sentita celebrazione nella chiesa di San Giovanni Bosco, nella capitale del Venezuela, sabato 12 marzo, il cardinal Baltazar Porras, amministratore apostolico dell’arcidiocesi, accompagnato da monsignor Jesús Gonzáles de Zárate, presidente della Conferenza episcopale venezuelana, e monsignor Raúl Biord Castillo, Sdb, vescovo di La Guajira, hanno consacrato i due nuovi vescovi ausiliari di Caracas: monsignor Lisandro
Rivas, missionario della Consolata, che fino a ora era stato rettore del Pontificio collegio San Paolo di Roma, e monsignor Carlos Márquez Delima, del clero della medesima arcidiocesi.

Celebravano con loro una ventina di vescovi, tra cui monsignor Francisco Múnera Correa, arcivescovo di Cartagena de Indias e monsignor Joaquín Humberto Pinzón, del vicario apostolico di Puerto Leguizamo Solano, ambedue consolatini dalla Colombia.

Il superiore generale, padre Stefano Camerlengo, introducendo la celebrazione, ha ricordato ai due nuovi vescovi che l’episcopato nella Chiesa non è un ruolo di potere destinato a valorizzare la carriera di chi lo riceve, ma un servizio per il bene di tutti, per la crescita e il cammino della comunità. Li ha chiamati «beati», per ricordare loro che, secondo il Vangelo, il termine «beati» deve essere tradotto così: vescovi che stanno «in piedi, in cammino, in marcia, poveri, perché Dio cammina e combatte con voi ed è per voi garanzia di felicità e fonte di gioia eterna. E questo è il servizio per il quale sono chiamati: aiutarci a stare in piedi». Ha poi concluso invitandoli a essere testimoni delle Beatitudini e, con le parole del beato Allamano, a camminare nel Signore: «Avanti in Domino».

Consacrazione episcopale di Rivas Durán Mons. Lisandro Alirio

Chi è Lisandro rivas

Monsignor Lisandro è nato in un paesino sui monti vicino a Boconó, nello stato di Trujillo, Venezuela. Figlio di Allirio Domingo Rivas e Durán Estéfana, ha una sorella, Lisay. La mamma, donna di profonda fede, lo ha formato a una religiosità semplice e concreta alla scuola di una vita dedicata al lavoro della terra.

Dopo aver conosciuto i Missionari della Consolata, ha iniziato il suo percorso formativo a Caracas; ha poi studiato filosofia all’istituto Juan German Roscio a Los Teques, e continuato la teologia in Inghilterra. Ordinato sacerdote il 19 agosto 1995, il giovane andino ha preso le sue valigie e iniziato il viaggio che lo ha condotto nelle missioni del Kenya, dove ha lavorato per cinque anni nel Meru, prima a Kagaene, poi nell’antica missione di Mekinduri e, da ultimo, quando queste sono state consegnate alla diocesi, nella nuova missione di Kagaene.

Nel 2001 l’Istituto gli ha chiesto di ritornare in patria per fare il formatore nel seminario, dove ha svolto un intenso lavoro di accompagnamento dei futuri sacerdoti, oltre a dedicarsi a diversi impegni nell’ambito di «Giustizia e pace», specialmente al servizio dei carcerati. Incaricato della formazione dei «Laici della Consolata», è stato di grande aiuto per la crescita di questo gruppo. In seguito, l’Istituto lo ha inviato come rettore del Seminario Imc di Bogotà, in Colombia, e poi a Roma, al servizio del Collegio pontificio San Paolo di Propaganda Fide, chiamato anche seminario missionario.

Qui ha ricevuto la notizia della sua designazione per il nuovo servizio pastorale in Venezuela. Padre Lisandro ricorda: «A Roma sono stato in comunità con 192 sacerdoti diocesani che provenivano da 45 paesi del mondo. Ciò mi ha permesso di sentirmi come un fratello universale».

La diocesi che lo riceve

Caracas è la diocesi della capitale venezuelana, città con oltre tre milioni di abitanti. Essendo la sede del governo, è stata la prima che ha risentito l’effetto di tutti i confronti e scontri che hanno segnato il paese durante più di vent’anni di «rivoluzione bolivariana». L’arcidiocesi ha più di 5 milioni di abitanti e, come ha ricordato il cardinale Baltazar Porras, richiede un governo pastorale di grande complessità.

In questa diocesi i Missionari della Consolata sono presenti da più di 50 anni (vedi dossier in MC novembre 2021). In Caracas hanno la Casa regionale, il seminario propedeutico e filosofico e, da più di vent’anni, la parrocchia San Joaquin e Santa Ana a Carapita, un quartiere periferico tra i più poveri della città. Lì il nuovo vescovo ha poi celebrato la sua prima messa il 13 marzo.

Vescovo e missionario

Il cardinal Baltazar Porras, in riferimento al fatto che padre Lisandro appartiene a un istituto missionario, ha insistito: «Adesso dovrai vivere lo spirito missionario in cui sei cresciuto e che hai vissuto oltremare in questa terra caraqueña».

In effetti, la nomina di monsignor Lisandro Rivas come vescovo ausiliare di Caracas, avvenuta precisamente nel mese in cui i Missionari della Consolata completavano la celebrazione del 50° di presenza nel paese, è stata interpretata come un segno provvidenziale. In un paese che è stato straziato da conflitti politici e da una complessa crisi umanitaria ancora in corso, la direzione verso cui orientare il servizio pastorale non può essere altra che: «Consolate, consolate il mio popolo. Ditegli che il suo peccato è stato già perdonato».

Il nuovo vescovo è ben cosciente che la gente è molto provata e scoraggiata dalla situazione che sta vivendo. Per questo vuole una evangelizzazione che crei vicinanza ed empatia. Nel suo servizio di consolazione vuole stare con la gente, ascoltarla e accompagnarla, non solo dentro la chiesa ma là dove vive, per ricostruire insieme il paese. In questo impegno sa bene di non essere solo, ma di avere il supporto di tutta la famiglia della Consolata: padri, suore, laici e amici.

traduzione e adattamento di Gigi Anataloni

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Ucraina. Aggressione e resilienza


Per il presidente russo, l’Ucraina «non esiste» come stato autonomo. Un’affermazione smentita dall’incredibile resistenza degli ucraini all’invasione di Mosca. Una guerra – «operazione militare speciale», secondo i russi – che, dal 24 febbraio, ha cambiato il mondo.

Da mesi, la domanda che in tanti si ponevano era: ci sarà una guerra contro l’Ucraina o il presidente russo Vladimir Putin sta solo bluffando? La risposta è arrivata la notte del 24 febbraio, quando i convogli corazzati russi hanno attraversato il confine ucraino e i missili hanno iniziato a colpire prima obiettivi militari e poi civili. Mentre la guerra imperversava sempre più cruenta, tutti hanno cominciato a discutere sul perché. Speculazioni e mezze verità che non hanno senso se non si fa un passo indietro, analizzando il legame morboso che lega la Russia all’Ucraina e a come è nato il conflitto nel Donbass, dimenticato ma in atto da otto anni.

Due donne ucraine passano davanti a un carro armato russo fuoriuso e alle macerie di edifici distrutti dall’aggressore nella città di Trostianets (29 marzo 2022). Foto Fadel Senna – AFP.

Un paese giovane con una storia secolare

La dissoluzione dell’Unione Sovietica, sancita ufficialmente nel dicembre del 1991, è stata sorprendentemente pacifica in Ucraina, che ha festeggiato il trentennale della propria indipendenza lo scorso 24 agosto. Festeggiamenti ormai dimenticati a causa dello scoppio di una nuova guerra, che sta lacerando questo paese giovane, ma dalla storia secolare e che, da Est a Ovest, si è ritrovato a lottare per rimanere unito sotto un’unica bandiera. L’Ucraina, infatti, non è nata ieri. Possiede da secoli un’identità propria, un sentito movimento nazionale e una profonda storia d’indipendenza che risale a ben prima dell’arrivo di Pietro il Grande. Un’identità che, spesso e volentieri, è stata vittima di deformazioni storiche: nonostante, infatti, ucraini e russi (insieme ai bielorussi) vengano da alcuni considerati fratelli inseparabili («un unico popolo», come ha sottolineato lo stesso Putin in un lungo scritto del 12 luglio scorso titolato «Sull’unità storica dei russi e degli ucraini»), i primi hanno una loro storia secolare e multiculturale, una loro lingua ufficiale e delle tradizioni culturali diverse da quelle dei secondi.

Tra «Russkij mir» e democrazia

Durante i primi 20 anni dalla dissoluzione dell’Urss, la Russia ha tenuto d’occhio gli sviluppi in Ucraina e ha interferito in vari modi nella politica interna del paese. Ma la presenza di una nutrita popolazione ucraina di lingua russa garantiva – o sembrava garantire – che il paese non si sarebbe mai allontanato troppo dalla sfera d’influenza russa, dal cosiddetto russkij mir («mondo russo»).

Tuttavia, il concetto di democrazia era già ben radicato nella mentalità e nella cultura politica del popolo ucraino, erede storico di quel particolare sistema statale dell’«etmanato cosacco» del XVII secolo (abolito da Caterina II di Russia nel 1764). Non sorprende, quindi, sapere che, al contrario della Russia, in Ucraina è sempre esistita un’opposizione. Senza equivoci, la politica ucraina era (e lo è tuttora) piena di conflitti interni: i cambi di potere e i rimpasti di governo sono stati tumultuosi in quanto riflettevano genuine differenze di opinione nella popolazione su ciò che l’Ucraina sarebbe dovuta essere e diventare. Inoltre, la mancata esperienza diretta di sistemi democratici ha minato la corretta applicazione dei principi di base (come la giustizia o la lotta alla corruzione e al clientelismo) soprattutto nei primi anni Novanta. Alcuni pensavano che il paese dovesse integrarsi ulteriormente all’Europa, altri che dovesse rimanere strettamente legata alla Russia. Una questione che ha portato prima alla «Rivoluzione della dignità» (nota anche come «Euromaidan», Europiazza) e, successivamente, a un conflitto ibrido nei territori orientali del paese, oggi trasformatosi in un bagno di sangue su scala nazionale.

Profughi ucraini accolti in un rifugio temporaneo organizzato in un ex edificio storico della stazione ferroviaria di Cracovia, in Polonia, il 28 marzo 2022. Foto Beata Zawrzel – Anadolu Agency – AFP.

La questione Donbass

L’Ucraina è in guerra dal 2014, ovvero dall’anno dell’annessione da parte della Russia della penisola di Crimea (avvenuta il 18 marzo dopo un referendum giudicato illegale a livello internazionale) e dello scoppio del conflitto nella regione più orientale del Donbass. Per otto anni, il paese è stato diviso da una linea del fronte lunga circa 400 km che separava, fino allo scorso febbraio, una parte dei territori del Donbass dalle autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk (Doneckaja narodnaja respublikae, Dnr, nella traslitterazione dal russo) e Luhansk (Luganskaja narodnaja respublika, Lnr), occupate dai separatisti armati e finanziati dal Cremlino. Si è sempre trattato, nei suoi otto anni, di un conflitto ibrido limitato a questi territori e poco noto internazionalmente, tanto che spesso veniva (erroneamente) considerato una guerra civile o addirittura una guerra tra clan mafiosi, data la grande presenza locale di potenti oligarchi.

Un conflitto definito «a bassa intensità» che, però, ha provocato migliaia di vittime e sfollati interni: dall’aprile 2014 e fino allo scorso dicembre, circa 13.300 morti (3.375 civili, 4.150 soldati ucraini e 5.700 separatisti). Vani sono stati i tentativi per trovare una soluzione diplomatica attraverso dei negoziati. Questi hanno visto protagonisti prima esclusivamente le due parti in causa – Russia e Ucraina (Accordi di Minsk del 2014) – e poi anche Francia e Germania («Quartetto Normandia»), in qualità di mediatori, nei cosiddetti Accordi di Minsk II del 2015. L’intento dei negoziati, svoltisi nella capitale bielorussa, era quello di concordare un cessate il fuoco bilaterale, effettuare scambi di prigionieri, fornire aiuti umanitari, demilitarizzare la zona e, soprattutto, decentralizzare il potere fornendo una maggiore autonomia alle regioni del Donbass e indicendo anche nuove elezioni sotto il monitoraggio dell’Osce. L’intesa, tuttavia, è fallita più volte a causa di ripetute violazioni del cessate il fuoco da entrambe le parti.

Uno dei maggiori ostacoli nell’adempimento dei negoziati è stata la mancata ammissione da parte della Russia di essere soggetto integrante del conflitto stesso: Kyiv ha sempre sostenuto che, nel Donbass, le forze armate separatiste provenissero anche da Mosca, ma la Russia ha sempre negato. Questa era la situazione fino allo scorso 22 febbraio, quando Vladimir Putin ha annunciato il riconoscimento ufficiale dell’indipendenza di Dnr e Lnr e ha cambiato le carte in tavola sulla scacchiera geopolitica internazionale.

Oggi, in seguito all’escalation e all’invasione russa, le parti sono tornate a fronteggiarsi apertamente, non solo violando il cessate il fuoco nei territori occupati e vicini alla linea di contatto, ma scatenando una guerra su larga scala e una crisi umanitaria di enormi proporzioni per l’Ucraina e per tutta l’Europa.

Civili in attesa di essere evacuati dalla città martire di Mariupol, quasi rasa al suolo dai militari russi e dai separatisti (26 marzo 2022). Foto Anadolu Agency – AFP.

Il casus belli di Putin

Nel lungo discorso per giustificare il riconoscimento delle repubbliche secessioniste ucraine del Donbass, il presidente russo ha chiaramente detto che l’obiettivo principale del suo intervento militare in Ucraina è quello di «denazificare» il paese.

Per Putin, infatti, l’Ucraina sarebbe governata da un esecutivo di «drogati» e «neonazisti». Inoltre, ha sostenuto che, in Ucraina, sia in corso un vero e proprio «genocidio» nei confronti della popolazione russa e russofona, vittima dei nazisti al governo. Una descrizione della realtà infondata e assurda. Basta guardare ai numeri effettivi della presenza dell’estrema destra ucraina, alla popolazione che attualmente sta combattendo per la propria libertà, nonché al fatto che molti dei politici ucraini (come lo stesso presidente Zelenskyj) sono di madrelingua russa.

Come succede per ogni guerra, anche il conflitto in Ucraina ha dato origine a una sconcertante diffusione di verità parziali e a un controllo pedissequo della narrazione, soprattutto da parte dei media russi. L’affermazione di Putin, secondo cui la «Rivoluzione della dignità» del 2014 fu un «colpo di stato fascista» e l’Ucraina è uno stato nazista, è stata usata per anni come giustificazione per l’annessione della Crimea e il sostegno ai separatisti russofoni nell’Est del paese, guadagnando molto consenso anche sui social. Ma l’Ucraina è un autentico stato liberal-democratico, anche se imperfetto, con libere elezioni che producono significativi spostamenti di potere, compresa l’elezione nel 2019 del riformatore liberal-populista Volodymyr Zelenskyj. Inoltre, il partito che rappresenta i cosiddetti neonazisti non ha attualmente nemmeno un seggio in parlamento. L’Ucraina, quindi, non è assolutamente uno stato nazista, e il casus belli russo è l’ennesima bugia del Cremlino.

Le milizie ucraine di estrema destra

Stemma del «Battaglione Azov», formazione ucraina neonazista.

Stabilito questo, è vero che tra le milizie volontarie ucraine che partecipano a questa guerra ci sono anche quelle neonaziste. Tra queste, la più nota è il «battaglione Azov», un’organizzazione di estrema destra fondata da Andriy Biletskiy. Nato come gruppo paramilitare, nel 2014 il battaglione è stato inquadrato nella «Guardia nazionale ucraina», componente di riserva dell’esercito. Lo scopo principale di Azov era quello di contrastare le crescenti attività di guerriglia dei separatisti filorussi del Donbass. Il battaglione ha come base la città portuale ucraina di Mariupol’ (la più martoriata nel conflitto) ed è legato al progetto politico Nacional’nyj Korpus (Corpo nazionale) che partecipa alle elezioni e ha rapporti internazionali con altri gruppi di estrema destra. Nonostante tra il presidente Volodymyr Zelenskyj e il battaglione non scorra buon sangue, Azov combatte oggi in prima linea ed è molto utile al governo di Kyiv in quanto conosce bene il territorio, è ben organizzato e possiede capacità e conoscenze militari effettive.

Per ora, l’Ucraina e Zelenskyj hanno, quindi, bisogno delle capacità militari e dello zelo ideologico delle milizie nazionaliste e di estrema destra per combattere e vincere la battaglia per la sopravvivenza nazionale. Ma quando la guerra finirà, Zelenskyj e i suoi sostenitori occidentali dovranno stare attenti a non dare troppo potere a gruppi i cui obiettivi sono in netto contrasto con le norme basilari dei sistemi politici liberal democratici. Armare e finanziare Azov e compagni è una delle scelte difficili imposte dallo status di guerra, ma il loro disarmo dovrebbe essere una priorità a conflitto terminato.

Che significa neutralità?

Nessuno si sarebbe mai aspettato né un conflitto di tale portata, né una resistenza così motivata e organizzata da parte del popolo ucraino, caratteristica quest’ultima che ha colto tutti di sorpresa. Come sorprendente è stato il presidente Zelenskyj che, in Occidente e tra il pubblico internazionale, si è guadagnato un’immagine da vero eroe, un capitano che non abbandona la nave nel momento del bisogno ma che, al contrario, lotta con la propria gente.

Le truppe russe si sono trovate davanti un nemico «incapace» di arrendersi e di piegarsi all’aggressore. E Putin, che sperava di risolvere la questione ucraina con una guerra lampo, si è trovato a dover riformulare la propria strategia. Se prima il suo obiettivo principale era evitare che l’Ucraina si unisse a Ue e Nato per poterla tenere sotto la propria ala di influenza e, eventualmente, sostituire l’attuale governo, ai suoi occhi troppo filoeuropeo, con un team fidato, ora (mentre andiamo in stampa, a metà aprile, ndr) la sua priorità sembra essere quella di rendere il paese neutrale. Ma cosa significherebbe? Vorrebbe dire smilitarizzare l’Ucraina trasformandola in una nuova Austria o Svezia. Un’operazione che sarebbe, tuttavia, possibile esclusivamente in tempi di pace e in presenza di un cessate il fuoco, fattori assenti in questo momento: bombardamenti e assedi continuano in diverse città (Mariupol’, Sumy, Charkiv, Cherson) oggi completamente distrutte e dove i civili sono vittime di attacchi quotidiani.

Nel complesso, gli esperti sembrano essere d’accordo sul fatto che la neutralità è la strada da seguire. «Nel suo mondo ideale, Putin potrebbe aver sognato un’Ucraina unita alla Russia in un’unica forma statale, ma gli eventi delle ultime settimane hanno dimostrato che è un risultato altamente improbabile», ha commentato il prof. Graeme Gill, esperto di politica sovietica e russa, aggiungendo che «mentre c’è ancora un sostanziale sentimento filorusso in alcune parti del paese, l’invasione ha inasprito la visione dei russi da parte di molti ucraini».

La crisi dei migranti

Nel giro di un mese e mezzo oltre 4,5 milioni (su 41,5) di ucraini sono fuggiti; la maggior parte (2,6 milioni) ha trovato rifugio temporaneo in Polonia. Anche negli anni precedenti (a partire dal 2014) è stato questo paese ad accogliere oltre un milione di ucraini. Eppure, oggi, dopo una iniziale sincera catena di solidarietà che ha accolto i rifugiati a braccia aperte, nei media stanno emergendo domande su come i sistemi di assistenza sociale e sanitaria, già sovraccarichi, potranno reggere.

La guerra in Ucraina ha costretto uno stato conservatore per antonomasia come la Polonia ad abbandonare la sua rigida posizione anti rifugiati degli ultimi anni. Oggi il governo polacco ha aperto le frontiere a tutti gli sfollati provenienti dall’Ucraina, rivedendo le sue posizioni: un’accoglienza motivata tanto dalla paura della confinante Russia, quanto dalla compassione. Ma quanto reggerà?

Claudia Bettiol*

(*) Nata nel 1986, slavista di formazione, dopo un anno di studio in Russia, un Erasmus in Estonia e un volontariato nella città ucraina di Sumy, Claudia Bettiol si è trasferita a Kyiv dove, fino allo scoppio della guerra, lavorava come traduttrice e insegnante di italiano. Ha scritto per «East Journal» (eastjournal.net). Dal 2019 collabora con «Osservatorio Balcani e Caucaso» (balcanicaucaso.org).


La guerra di Putin e le divisioni della Chiesa ortodossa

Putin e il patriarca Kirill alla cattedrale ortodossa della Resurrezione di Cristo, la principale cattedrale delle forze armate russe, in occasione di una commemorazione, Kubinka (Mosca), 22 giugno 2020. Foto Aleksey Nikolskyi / Sputnik / AFP.

Kirill, il patriarca con l’elmetto

Il patriarca di Mosca non ha voluto (o potuto) distinguersi dall’amico Putin. Il suo avvallo alla guerra in Ucraina è una scelta grave e densa di conseguenze.

Il presidente Putin e il patriarca ortodosso Kirill formano una coppia di guerra ben assortita: il primo ha il sogno di ricostituire una sorta d’impero zarista, il secondo di difendere l’idea della Santa Russia («Svjataja Rus»).

Pubblicamente, entrambi hanno come riferimento l’ideologia del Mondo russo («Russkii mir»). Segretamente, entrambi hanno (o avevano) l’ambizione di ampliare la rispettiva sfera di potere.

Sul tema, un nutrito gruppo di teologi ortodossi è intervenuto con una dichiarazione congiunta: «Questo “Mondo russo” – vi si legge – ha un centro politico comune (Mosca), un centro spirituale comune (Kyiv quale “madre di tutte le Rus’”), una lingua comune (il russo), una Chiesa comune (la Chiesa ortodossa russa, il Patriarcato di Mosca), e un patriarca comune (il Patriarca di Mosca) che lavora in “sinfonia” con un presidente/capo nazionale comune (Putin) per governare questo mondo russo, oltre che per sostenere una spiritualità, moralità e cultura comuni, distinte da quelle del mondo non russo». I firmatari concludono: «[Noi] respingiamo l’eresia del “Mondo russo” e le azioni vergognose del governo della Russia [compiute] con la connivenza della Chiesa ortodossa russa» (13 marzo 2022, domenica dell’ortodossia).

La conversione religiosa di Putin viene fatta risalire agli anni Novanta. Il suo padre spirituale sarebbe l’ultraconservatore vescovo Tikhon, oggi metropolita di Pskov. Tuttavia, le apparizioni pubbliche dello zar del Cremlino sono state e sono con il patriarca Kirill. Dopo l’invasione dell’Ucraina, i due si sono sostenuti a vicenda con dichiarazioni che, fuori della Russia, sono apparse sconcertanti. Durante il suo comizio allo stadio di Mosca (17 marzo), il presidente ha giustificato l’invasione citando un passo del Vangelo di Giovanni: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Per parte sua, il patriarca ha superato ogni immaginazione nel suo sermone di domenica 6 marzo. In esso Kirill ha giustificato l’intervento armato russo per proteggere i valori cristiani sulla sessualità e sul matrimonio, minacciati, egli sostiene, dalla cultura occidentale delle «parate gay». Anche nelle ore del massacro di Bucha, il patriarca di Mosca ha parlato in difesa dell’intervento russo (3 aprile).

Come il sodale Putin, pure Kirill, a capo della Chiesa ortodossa russa dal 2009, non ha però tutto sotto controllo. Dopo lo scisma ucraino del 2018 (7mila parrocchie su 19mila sono passate alla neonata Chiesa ortodossa autocefala guidata dal primate Epifanij), oggi Kirill si trova in difficoltà anche con la Chiesa ortodossa ucraina guidata dal primate Onufrij, la quale, pur rimasta legata al patriarcato di Mosca, ha espresso una forte contrarietà alla guerra.

I cattolici ucraini

I cattolici ucraini – stimati attorno all’11 per cento del totale, pari a 6 milioni di persone – sono invece riuniti nella Chiesa greco cattolica, guidata da monsignor Sviatoslav Shevchuk. «Non lasciateci soli nel nostro dolore – ha detto il vescovo (28 marzo) -. Nessuno è preparato alla guerra, tranne i criminali che la pianificano e la mettono in atto. È stato uno choc. Ma era evidente che si trattava di un’invasione ben pianificata». Quella ucraina non è una «guerra di religione», ma è una guerra in cui la religione viene usata come strumento. Come troppo spesso nella storia.

Paolo Moiola


Mappa dell’Ucraina con evidenziate le regioni contese: il Donbass e la Crimea.

Ucraina, alcuni dati

  • Superficie: 603.600 Km2 (due volte l’Italia);
  • Popolazione: 41,5 milioni (dato controverso);
  • Capitale: Kyiv (traslitterato dall’ucraino), Kiev (traslitterato dal russo), con circa tre milioni di abitanti;
  • Sistema politico: repubblica democratica semipresidenziale;
  • Presidente: Volodymyr Zelenskyj, in carica dal 20 maggio 2019;
  • Date essenziali: indipendenza, 25 dicembre 1991; invasione russa, 24 febbraio 2022; scoperta una strage di civili a Bucha, 3 aprile; papa Francesco parla di «impotenza dell’Onu» (6 aprile);
  • Principali gruppi demografici: ucraini 78%, russi 17%;
  • Religioni principali: ortodossi 78% (divisi in due Chiese, una legata a Mosca e una autocefala), cattolici 11% (Chiesa greco cattolica);
  • Economia: produzione agricola (grano, semi di girasole, zucchero, carne, prodotti caseari); industria siderurgica (acciaio e ghisa);
  • Gas: attraversa l’Ucraina il gasdotto Yamal, dal quale passa circa il 10% delle forniture totali di gas proveniente dalla Russia;
  • Regioni contese: Donbass, regione mineraria (carbone in primis, ma anche ferro, uranio, titanio, manganese, mercurio e gas) di circa 32mila Km2, quattro milioni di abitanti (dato controverso), Donesk e Luhansk come capoluoghi; Crimea, penisola sul Mar Nero di 26.200 Km2 (poco più della Lombardia), due milioni di abitanti e Sebastopoli come capoluogo;
  • Migranti (anteguerra): circa sei milioni di cittadini (World Migration Report, 2022), la maggior parte in Russia e Polonia; ottavo paese al mondo per fenomeno migratorio;
  • Ucraini in Italia (anteguerra): 236mila pari al 4,6% degli stranieri ufficiali (dati Istat, 1° gennaio 2021); dei residenti ucraini in Italia 177mila sono donne, in larga parte occupate nei servizi alla persona (colf e badanti; dati Fondazione Leone Moressa);
  • Profughi: 6,5 milioni di profughi interni (International organization for migration, Iom, marzo 2022); 4,5 milioni di profughi scappati dal paese (dati Unhcr al 10 aprile 2022), oltre 87mila arrivati in Italia (secondo le cifre del Viminale al 10 aprile).

(a cura di Paolo Moiola)




Le Queens, regine del campo


In un mondo di relazioni sempre più disumane, una squadra di calcio formata da donne – richiedenti asilo, rifugiate e operatrici sociali – sfida violenza, pregiudizi e maschilismo. Accade a Torino.

In una sera estiva del 2017, in una Torino afosa e deserta, è nata l’idea delle Queens. Una squadra di calcio femminile per dare la possibilità a donne richiedenti asilo e rifugiate, supportate dalle operatrici della cooperativa sociale Progetto Tenda, di andare oltre gli schemi, senza curarsi di ciò che gli altri credevano possibile o impossibile.

«Come ogni estate, Balon Mundial aveva promosso il campionato dilettantistico tra le squadre delle comunità di migranti – racconta Anael, operatrice tra le fondatrici della squadra -. Dato che, da alcuni anni, c’era anche un torneo femminile, pensammo che il calcio avrebbe potuto essere lo strumento giusto per metterci in gioco».

Una vera sfida nella sfida: uno sport quasi esclusivamente maschile, con un pubblico in grande maggioranza maschile, da proporre a donne che si sforzavano di riprendere in mano la propria vita, dopo anni di viaggi, violenze e percorsi travagliati e traumatici.

«Sentivamo – prosegue Anael – il bisogno di mettere in gioco le nostre capacità in modo nuovo e inaspettato, indirizzando la nostra energia in qualcosa da costruire insieme, cucendolo sulla nostra pelle ferita. Partendo da una passione condivisa per il calcio, abbiamo quindi messo tutto il nostro entusiasmo nella creazione della squadra».

Le giocatrici delle Queens si allenano con tiri verso la porta difesa dalla nigeriana Esosa. Foto Davide Casali.

L’anno dell’esordio: Nigeria, Somalia, Italia

Così, quasi per caso, donne richiedenti asilo e operatrici si sono ritrovate in un gruppo pieno di desideri, un gruppo che avrebbe saputo affrontare insieme vittorie e sconfitte, sempre coeso, con condivisione e fiducia reciproca nonostante le differenze culturali, etniche, linguistiche, di esperienze di vita.

Nonostante solo una delle giocatrici avesse esperienza in questo sport, tutte si sono cimentate nella scoperta e conoscenza delle regole e delle tecniche calcistiche e nei vari ruoli, partecipando con dedizione agli allenamenti e alle partite.

C’era Mary che ha rispolverato i tacchetti abbandonati in Nigeria iniziando così la carriera di bomber delle Queens. C’era la connazionale Esosa che si è lanciata da neofita in questa avventura diventando una giocatrice versatile e preziosa per le sue compagne. C’era Suleqa, giovane donna somala, che ha giocato ogni partita con il velo e che, con determinazione, ha difeso a spada tratta la sua squadra. C’era Rebecca, educatrice giovane e impetuosa (quanto si è arrabbiata quando abbiamo perso le prime partite!). C’era Anael, la «saracinesca», prima portiera delle Queens. C’era Monica che è venuta a lavorare per due settimane con il segno dei tacchetti sul polpaccio. E poi c’erano: Marta che sventolava bandiera e distribuiva bottiglie d’acqua, sorrisi e incoraggiamento; Alessandra con la sua dirigenza esperta e la sua passione e, ultima ma non ultima, Mathilde (belga), vera e propria «tuttofare» della squadra. «Ed è stato così che le educatrici e le donne ospitate nelle strutture si sono confuse in un unico abbraccio sudato – continua Anael -. Tutte insieme abbiamo partecipato al torneo del Balon Mundial. Tra sconfitte e vittorie, ci siamo classificate al quarto posto: un piccolo miracolo!».

Ragazze delle Queens durante un allenamento. Foto Davide Casali.

L’apertura a tutte: una pioggia di adesioni

L’esperienza del primo anno delle Queens ha dimostrato a tutte come lo sport condiviso possa essere davvero uno spazio di emancipazione, inclusione, gioia e libertà.

Per questo la squadra, dal 2018, ha deciso di aprirsi al territorio, dando la possibilità a tutte le donne interessate a partecipare. «Sono arrivate tante adesioni – raccontano dalla cooperativa – siamo rimaste sorprese dal numero di donne che avevano fatto esperienze pregresse o che avevano sempre desiderato giocare, ma non avevano trovato spazio o coraggio».

Grazie all’arrivo di nuove giocatrici, donne di varie nazionalità, tra cui molte italiane, con storie e situazioni differenti, le Queens sono cresciute e oggi le educatrici della cooperativa si possono dedicare al tifo dalla panchina. Poi, alla fine del torneo estivo del Balon Mundial 2019, si è presentata un’altra grande occasione di crescita: l’associazione organizzatrice del torneo si è voluta avvicinare alla squadra, proprio per quei valori che ogni giorno essa cerca di promuovere (inclusione, equità, empowerment, crescita personale).

È nata così una partnership, in cui le donne hanno iniziato a essere seguite dagli educatori sportivi dell’associazione. A ogni allenamento essi cercano di lavorare sulle competenze personali delle giocatrici. Competenze che le donne possono sviluppare in campo, ma che sono utili anche fuori dal campo, nella vita di tutti i giorni: comunicazione, lavoro di squadra, fiducia in sé stesse, spirito di adattamento.

Zuleika, ragazza somala, rincorre il pallone con il velo sul capo. Foto Davide Casali.

Il cartellino rosso del Covid

Negli ultimi due anni, purtroppo, l’emergenza sanitaria ha messo a dura prova gli allenamenti della squadra e la possibilità di continuare a vedersi. Per le donne che vivono in comunità partecipare agli allenamenti (tenuti su vari campi della città) è diventato impossibile. La responsabilità di tutelare, oltre che la propria, anche la salute delle altre ospiti e del personale ha impedito loro di continuare ad allenarsi.

Durante il primo lockdown, grazie alla collaborazione con i coach di Balon Mundial, le donne hanno avuto la possibilità di incontrarsi sulla piattaforma Zoom per allenamenti settimanali, ma per molte di loro questa modalità non era abbastanza. Mancava quel contatto umano e quella libertà di correre in campo che aveva permesso loro di dimenticare, almeno per alcune ore a settimana, traumi e sofferenze e ritrovare la fiducia in se stesse. Anche in questo caso l’emergenza causata dal Covid ha colpito più duramente le persone più fragili e vulnerabili.

Attualmente gli allenamenti sono ripresi, pur rispettando tutte le norme e le indicazioni di sicurezza. Finalmente le Queens sono tornate tutte insieme in campo, pronte per il prossimo torneo e le nuove avventure che le aspettano.

Impegno, entusiasmo, voglia di divertirsi e di mettersi alla prova in un nuovo contesto, sono stati e sono gli ingredienti di questo mix energico chiamato Queens.

«Per un calcio oltre i confini, per un calcio oltre il genere», per dirla con le parole del loro slogan.

Bianca Orazi e Sara Lopresti
(operatrici Progetto Tenda)

Momenti (concitati) di gioco durante una partita. Foto Davide Casali.


Accoglienza e solidarietà

I miracoli del pallone

Due Onlus di Torino – Progetto Tenda (1999) e Balon Mundial (2012) –  hanno         trasformato il gioco del calcio in uno strumento per superare la violenza dei     confini e dei generi.

Cultura dell’accoglienza e della solidarietà, inclusione sociale, educazione al fair play, rispetto delle regole, risoluzione dei conflitti. Sembra essere soltanto un elenco di belle parole e buone intenzioni. Eppure, soprattutto di questi tempi, è fondamentale mantenere obiettivi alti che superino le miserie dell’oggi. A tutto questo ambiscono due Onlus di Torino.

Progetto tenda

Progetto Tenda – si legge su progettotenda.net – è una cooperativa sociale nata nel 1999 con l’obiettivo di occuparsi di percorsi d’inserimento nella società dei soggetti più fragili, con una particolare attenzione alle donne. Negli anni la cooperativa – attualmente guidata da Cristina Avonto, Valentina Melchionda e Cristina Apicella – ha sostenuto i percorsi di richiedenti asilo, rifugiati, donne vittime di tratta, mamme con bambini, famiglie in povertà, donne e uomini senza dimora, minori stranieri non accompagnati.

Ogni giorno le addette di Progetto Tenda lavorano per accogliere persone in difficoltà e diffondere la cultura dell’accoglienza e della solidarietà.

La sua mission è migliorare la vita delle persone in difficoltà e più fragili promuovendo percorsi di comunità per sostenere l’incontro tra le persone, nativi e migranti, donne e uomini, senza alcuna discriminazione, sostenendo ogni percorso individuale, ogni scelta e orientamento sessuale, religioso, di appartenenza etnica o politica e permettendo a ogni individuo di autoderminarsi nella costruzione del proprio percorso di vita.

La filosofia di Progetto Tenda è così riassunta sul sito dell’associazione: «Crediamo che la comprensione della diversità, più che l’integrazione in un predefinito modello culturale, sia la chiave per realizzare il nostro obiettivo: una società più pacifica, più aperta e più giusta, in cui siano garantiti uguali diritti a tutti quanti».

Come suggerisce il nome, la Tenda offre in primis servizi di prima necessità (vitto, alloggio e sportello lavoro), ma ha in essere anche attività lavorative proprie come un catering («Mondi a tavola») e una gelateria («Gelateria popolare+»). Il progetto delle Queens è nato nel 2017, trovando, due anni dopo, un socio in un’altra grande realtà di Torino: Balon Mundial.

Balon mundial

L’Associazione sportiva dilettantistica Balon Mundial Onlus è una realtà abbastanza recente: ha compiuto 10 anni lo scorso gennaio, essendo nata nel gennaio del 2012. Le attività dell’associazione torinese si concentrano sullo sport e, in particolare, sul calcio inteso come strumento capace di abbattere ogni tipo di barriera e pregiudizio.

«Il calcio – si legge su balonmundial.it – è uno sport universale. È lo sport più praticato al mondo. Davanti a un pallone non importa quale sia il colore della tua pelle, la tua religione, che tu sia uomo o donna. Davanti ad un pallone siamo tutti e tutte uguali».

«Metti in gioco le differenze» è lo slogan che descrive il metodo di lavoro di Balon Mundial. Significa confrontarsi con gli altri, saper mettere in discussione le proprie conoscenze e certezze ma, soprattutto, saper ascoltare per imparare da chi propone un pensiero diverso. «Un insegnante è una persona che spiega le cose. Un educatore è una persona capace di essere un esempio».

Balon Mundial Onlus – attualmente guidata da Tommaso Pozzato e Luca Dalvit e da un gruppo di coach, formatori, educatori, mediatori e project manager – organizza vari tornei e «la Coppa del mondo delle comunità migranti» tra squadre composte da migranti provenienti dalla stessa nazione residenti a Torino. L’ultima edizione, quella del 2019 (poi è arrivato il Covid), ha sancito la vittoria del Perù in campo maschile e dell’Italia Avis in quello femminile.

Paolo Moiola

I SITI WEB:
www.progettotenda.net
www. balonmundial.it

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Una foto per cambiare il mondo


Ha incontrato la fotografia per caso. Così come i suoi primi soggetti: i migranti. Ora vede il suo lavoro come una missione. Al centro c’è l’essere umano, con la sua storia. E non come mezzo per fare soldi o diventare famosi.

Francesco Malavolta è un fotogiornalista. Vive a Roma, dove lavora come addetto stampa per un viceministro, ma è originario della Calabria: «Sono nato a Corigliano Calabro, ho vissuto 22 anni a Palermo e ora sono a Roma per lavoro, ma in realtà non sento di appartenere a nessun luogo specifico. Stando sempre in giro, i posti in cui vivo sono come dormitori, appartengo a tutti i mondi che ho raccontato e non a uno in particolare», racconta Francesco.

È impegnato da oltre vent’anni nella documentazione dei flussi migratori che interessano il nostro continente.

Un lavoro svolto in un contesto spazio temporale in costante mutamento che lo ha portato a viaggiare lungo i confini di una Europa sempre più blindata e difficile da raggiungere via terra o via mare. Da molti anni collabora con l’Unione europea, varie agenzie di stampa internazionali, come Associated Press, nonché organizzazioni internazionali quali Unhcr (Alto commissariato per i rifugiati) e Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni).

Un incontro

L’incontro con la fotografia è stato casuale. Si potrebbe dire – per usare le sue parole – che è stata la fotografia a «sceglierlo». Da sempre appassionato di immagine in senso lato, non aveva sviluppato una vera consapevolezza oltre la passione.

Ricorda se stesso ragazzo quando, a 14 o 15 anni, internet non c’era e la sua finestra sul mondo erano le riviste, che sfogliava e dalle quali strappava gli articoli contenenti notizie e immagini che lo colpivano particolarmente. Francesco, infatti, è sempre stato attratto dall’immagine, dalla sua potenza evocativa, specialmente quando è unita a una storia che va oltre la foto.

Poi un giorno la fotografia è entrata a far parte della sua vita, trasformandosi in un lavoro.

Francesco paragona questo incontro a un altro, altrettanto casuale e altrettanto carico di significato: quello con il primo soggetto delle sue fotografie.

Si trovava in Puglia, al porto di Brindisi, quando ha assistito a  uno sbarco di albanesi in fuga dalla dittatura. Era una coda del grande esodo iniziato nel 1991.

Francesco si è sentito immediatamente attratto da quella moltitudine di persone che, scappando, aveva deciso di inseguire un sogno di libertà.

Per questo, da oltre vent’anni, la sua fotografia è legata quasi interamente – ma non esclusivamente – alla documentazione dei flussi migratori in tutta Europa e paesi limitrofi lungo le rotte di terra e di mare.

La migrazione, lo spostamento, sono tratti peculiari della natura umana. L’umanità è da sempre in movimento, e questo movimento assume tratti tanto più drammatici quanto più si cerca di ostacolarlo amplificando paure e posizioni illogiche e anacronistiche. Gli scatti di Francesco recano testimonianza delle migrazioni e del loro evolversi concentrandosi sui loro protagonisti. Ogni scatto è il racconto di una storia. Ogni storia, un tentativo di salvare la peculiarità della vita ritratta, sfuggendo alla logica spersonalizzante che presenta le migrazioni come «fenomeni idraulici» e anonimi. L’obiettivo di Francesco è, infatti, rendere omaggio a un’umanità caparbia che, un passo alla volta, guadagna centimetri di libertà.

La fotografia necessaria

Davanti a quello sbarco di albandesi, a quell’umanità disperata e disorientata, Francesco non ha potuto far altro che porsi delle domande fondamentali.

«Chi sono queste persone? Perché scappano? Che storia hanno alle spalle? Perché fanno una scelta così importante come lasciare la propria terra e la propria casa? Cosa li spinge a muoversi verso l’ignoto rischiando così tanto?».

Francesco ha capito che l’unica cosa che poteva fare era approfondire: «Guai se un fotografo si muove in un qualunque posto del mondo senza saperne la storia profonda. È necessario studiare, confrontarsi, andare a fondo nelle storie e nella vita delle persone per poter poi raccontare con la giusta cura e il giusto approfondimento, altrimenti si rischia l’approssimazione, che equivale a una mancanza di rispetto».

Francesco ha iniziato così a studiare: cultura, usi, pensiero, politica, modo di vivere. Tutto ciò che caratterizzava la realtà che desiderava conoscere e raccontare.

Pur amando e apprezzando tutti i generi di fotografia, perché ognuno è una forma d’arte e, come tale, importante, ritrarre gli esseri umani, per lui, è l’unico tipo di fotografia necessaria, anzi fondamentale. Attraverso un «frame», infatti, si congela un attimo di un’intera esistenza, ma se insieme alla fotografia si trova il modo giusto per raccontare la storia che le sta alle spalle e la giusta informazione, allora quello scatto diventa eterno, e può fare la differenza.

Le storie che i fotogiornalisti raccontano sono tutte diverse l’una dall’altra, come diverse sono le identità delle persone raccontate. Questo ci tiene a sottolineare Francesco. Egli, infatti, dedica la stessa cura, la stessa attenzione e lo stesso amore a ogni storia raccolta.

L’identità di ogni individuo è al centro della sua fotografia. Allo stesso tempo Malavolta ha capito che, sebbene le storie di migrazione siano tutte diverse, condividono qualcosa di fondamentale: il dolore, la perdita, la mancanza.

Egli, con la sua macchina fotografica, cerca di raccontare «la verità più vicina alla verità», per usare le sue parole, e lo fa partendo dalle origini della storia raccontata.

Questo implica un enorme sacrificio, perché significa immergersi totalmente in ogni storia. Aprire ogni canale possibile per dare e ricevere. Il fine ultimo è quello di restituire al pubblico che vedrà le sue immagini la storia più completa, chiara e dettagliata possibile, al netto di preconcetti e disinformazione.

Definendo se stesso, Francesco parla di sé come «un mezzo», nulla di più. Una sorta di amplificatore in grado di divulgare storie che altrimenti finirebbero nel silenzio.

Una missione

Per portare avanti questo mestiere, che è prima di tutto passione e missione vera e propria, Francesco tiene incontri nelle scuole o in qualunque ente sia interessato a comprendere come i popoli si muovono e perché.

I flussi migratori, infatti, vengono spesso narrati in maniera contorta, sbagliata. Si concentra il racconto su uno spazio temporale che va dall’emergenza – la barca in difficoltà, i morti, il salvataggio – alle polemiche successive allo sbarco, senza però concentrarsi su ciò che avviene prima.

In questo modo le persone che si muovono per via terrestre, spostandosi da un punto A a un punto B, difficilmente si vedono.

Francesco ha lavorato principalmente nel bacino del Mediterraneo, nel Canale di Sicilia, nello stretto di Gibilterra, nel Mar Egeo e sulle terre più vicine, quindi Italia, Spagna, le isole greche e i confini terrestri come la rotta balcanica. Ma ha reputato necessario spostarsi poi nei paesi di partenza dei flussi migratori come l’Etiopia, lo Sri Lanka, il Senegal, il Burkina Faso.

Racconta le migliaia di sfollati interni che spesso non arrivano alle coste europee e che sono, in realtà, la gran parte delle persone in movimento. Di loro spesso non si sa nulla.

Alcune storie hanno richiesto a Francesco molta energia come quelle raccolte in Burkina Faso, dove si è trovato a documentare i giovani sfruttati per trovare oro scavando nella roccia a 20-25 metri di profondità.

Calati in miniere, con l’utilizzo di semplici corde, totalmente sprovvisti di sicurezza, fanno un lavoro usurante e sfinente che permette loro appena di sopravvivere. Non è difficile allora immaginare il motivo che li spinge a cercare una vita migliore.

Muoversi, fuggire, cercare un’altra possibilità, è qualcosa di strettamente legato all’animo umano, alla necessità, e non avviene solo in tempi di guerra, ma anche quando la vita diventa impossibile e intollerabile.

Il fine ultimo

Il reportage non è morto, come non è morto il fotogiornalismo, ma sempre di più l’editoria ha problemi a resistere. Oggi il contenitore principale dal quale trarre foto del mondo è il web e bisogna spesso accontentarsi di immagini fatte approssimativamente. Eppure, nell’ultimo decennio il numero di persone che si sono avvicinate al fotogiornalismo è maggiore rispetto a qualsiasi altro momento.

Francesco continua a credere fortemente nel potere del buon fotogiornalismo e porta come esempio ciò che è avvenuto dopo la famosa fotografia di Alan Kurdi: è tato per quell’immagine che la Germania ha aperto i propri confini a oltre mezzo milione di siriani e poi anche ad altri profughi.

C’è una cosa però a cui Francesco tiene particolarmente: il fine ultimo.

«Ai giovani fotografi che decidono di avvicinarsi alla fotografia giornalistica dico sempre di non avere fretta, e di tenere chiaro in mente l’obiettivo finale del proprio lavoro che non è diventare fotografi di successo, ma creare una narrazione che possa cambiare le cose. Non fare foto fini a se stesse per ottenere premi, mostre o pubblicare un libro. Quelli non sono punti di inizio o di arrivo, ma possono essere una distrazione se diventa l’unico fine della propria fotografia.

Bisogna fotografare pensando prima di tutto di ascoltare, raccogliere la storia con responsabilità verso gli altri e verso noi stessi. Se vogliamo fare fotogiornalismo, questo ci deve guidare: la voglia di cambiare le cose, nel nostro piccolo. La fotografia è politica, e può accendere una fiammella là dove il buio avanza e sembra fagocitare tutto».

Francesco ha diversi ricordi di immagini che non avrebbe voluto vedere, fotografie che non avrebbe voluto scattare. Una su tutte è quella delle 368 bare del naufragio di Lampedusa nell’ottobre del 2013. Da quell’immagine in poi, molte saranno le bare che Francesco si troverà a fotografare. Vite disperate, vite stroncate.

È per questo che oggi a 46 anni di cui 44 vissuti in riva al mare, non riesce più a guardare quella distesa di acqua così familiare e così amata con lo stesso sguardo che aveva da ragazzo. Il mare Mediterraneo, con i suoi 40mila morti negli ultimi 20 anni, gli appare come un grande cimitero e pur amandolo, oggi non riesce più a farsi un bagno senza pensare a ciò che «c’è sotto», come ci dice.

Francesco nelle sue presentazioni, mostre, incontri, parla con tutti, ma in particolare ama parlare con i bambini. Nella loro ingenuità, nella loro purezza non vedono differenze tra le persone, e ogni volta che parla con loro, la prima cosa che dice è che devono proseguire proprio su quella strada, su quell’idea di fratellanza che vede le differenze di usanze, tradizioni, luoghi di origine, come ricchezze e non come motivi di discriminazione.

I profughi dell’Ucraina

Dall’inizio del conflitto Russia – Ucraina, Malavolta è impegnato a documentare le migliaia di profughi in fuga dalla guerra sui confini di Polonia, Ungheria e Slovacchia. «Questo conflitto ci mette a dura prova perché in questo nuovo secolo in Europa nessuno si sarebbe aspettato una tale violenza così vicina. Ci sentiamo in pericolo. Vedo una gara di solidarietà incredibile verso i profughi ucraini, questo perché li sentiamo molto più vicini a noi in quanto bianchi e cristiani. Allo stesso tempo mi rendo profondamente conto di quanto altre guerre, come ad esempio quella in Siria, in Afghanistan, in Yemen, non vengono guardate con la stessa attenzione. Proprio lo scorso novembre al confine tra Polonia e Bielorussia, un bimbo siriano è morto assiderato senza che la sua famiglia potesse salvarlo. Non ci sono gli stessi riguardi verso chi viene dalla parte “sbagliata” del mondo».

La speranza di Francesco per il futuro è poter finalmente scattare immagini di luoghi senza muri. Vorrebbe poter fotografare mari senza dover raccontare persone disperate aggrappate a relitti, mentre tendono le mani per essere salvati.

Spera, in futuro, di fotografare persone felici accolte negli aeroporti, con un passaporto in mano.

Valentina Tamborra