Centrafrica. Religioni contro la guerra


La crisi nel paese inizia a fine 2012. Subito viene propagandata come guerra di religione. Ma i responsabili delle maggiori confessioni non ci stanno. E la visita di papa Francesco sarà determinante. Incontro con il cardinale Dieudonné Nzapalainga.

La Repubblica Centrafricana è un paese ricco (di diamanti, oro, altri minerali e legname), abitato da gente povera o molto povera che non ha accesso ai servizi primari. Situato nel cuore del continente, non ha sbocchi sul mare, e poche strade, mal messe, lo collegano al Golfo di Guinea, attraverso il Camerun.

Il Centrafrica, come viene anche chiamato, ha vissuto anni di guerra intensa, solo recentemente trasformatasi in una «pace precaria».

Gli inizi della crisi

È il dicembre 2012 quando gruppi armati dei paesi confinanti, Sudan e Ciad, attaccano città e villaggi del Nord. Si dicono di fede islamica e si fanno chiamare Seleka.

Nella capitale, Bangui, tre leader religiosi stringono un patto. Creano una piattaforma per la pace. Sono l’arcivescovo cattolico, Diedonné Nzapalainga, il pastore capo Nicolas Guerekoyame-Gbangou e il presidente degli imam Omar Kobine Layama. Tre uomini, tre appartenenze religiose, un unico obiettivo: non fare precipitare il paese in un bagno di sangue.

«Chiarimmo fin da subito che non ci trovavamo assieme per discutere di dogmi o delle nostre divisioni. Il paese era in pericolo, volevamo unire le nostre competenze e intelligenze per salvare delle vite umane». Ci dice mons. Nzapalainga, già intervistato varie volte da MC (cfr. MC maggio 2021), che incontriamo durante una visita in Italia nel mese di maggio.

Il cardinale sta presentando la sua autobiografia, fresca di stampa: «La mia lotta per la pace. A mani nude contro la guerra in Centrafrica», scritto con la giornalista Laurence Desjoyaux, e pubblicato dalla Libreria editrice vaticana.

Il 15 dicembre 2012 i tre capi religiosi fanno una dichiarazione congiunta: «Il nostro paese è uno e indivisibile. È un paese laico. Nella sua storia non ci sono mai state guerre di religione. Siamo sempre vissuti in simbiosi, in armonia. Ci ha sempre caratterizzato l’ospitalità. Ora noi veniamo a sapere che ci si accanisce su esseri umani per ragioni religiose. Noi, leader religiosi, diciamo no! Che nessuno dica che questa è una guerra di religione!». Nasce quel giorno la Piattaforma delle confessioni religiose del Centrafrica, che avrà un ruolo importante per evitare conseguenze del conflitto ancora più disastrose.

Il gruppo inizia subito un lavoro di sensibilizzazione, utilizzando versetti del Corano e della Bibbia, per dimostrare ai fedeli che i libri sacri non vogliono la guerra e ripudiano la violenza.

Ci racconta il cardinale: «L’imam ha cercato nel Corano cosa si dice su pace, perdono e riconciliazione. Il pastore e io stesso lo abbiamo fatto con la Bibbia. Trovati i versetti, ci siamo messi intorno a un tavolo e li abbiamo messi insieme, per proporli ai nostri fedeli. Sono religioni monoteiste rivelate, e ci sono delle parole che ci uniscono. Questo l’ho vissuto sul terreno, nel cuore della crisi».

Una spirale perversa

I gruppi di Seleka, inizialmente, venivano da Sudan e Ciad, non parlavano la lingua locale, il sango, ma l’arabo. Nei territori che occupavano andavano dai musulmani, con i quali riuscivano a capirsi, e si facevano ospitare. Allo stesso tempo depredavano e compivano violazioni e massacri. In primo luogo, contro i non musulmani, ma non solo. Nel frattempo, giovani musulmani centrafricani, si univano ai guerriglieri per motivi di convenienza.

Cristiani e animisti si vedevano perseguitati. I musulmani locali, spesso costretti a ospitare gli invasori, venivano considerati collaborazionisti. Si stava innescando così la spirale della contrapposizione di religione. L’equilibrio tra le comunità di fede diversa in Centrafrica era saltato. Si trattava, nella realtà, di una strumentalizzazione da parte di gruppi, il cui unico obiettivo era prendere il potere. E così avrebbero fatto.

«Se ci siamo levati contro la visione confessionale del conflitto, è perché avevamo l’impressione che ci venisse imposta una narrazione che non corrispondeva alla sociologia religiosa del nostro paese. Da noi le famiglie di religione mista sono numerose, e fino a quel momento ciò non aveva mai posto problema», scrive il cardinale nella sua biografia.

Miliziani anti-Balaka davanti a casa distrutta dai Seleka a circa 300 km a Nord di Bangui, il 25 aprile 2014. AFP PHOTO / ISSOUF SANOGO

Riconciliazione sul campo

Ma il terzetto non si è limitato a questo. È andato a parlare con il presidente, all’epoca François Bozizé, e poi ha ideato e sperimentato una vera metodologia di riconciliazione.

«Andavamo insieme a parlare con i responsabili di istituzioni, con chi governa, per chiedere loro di disarmare i loro cuori dal desiderio di uccidere», ci racconta il cardinale.

La metodologia di riconciliazione è la seguente. Quando una città o una zona veniva presa d’assalto, vi si recavano fisicamente. Qui si dividevano e ognuno incontrava la propria comunità confessionale. L’obiettivo era ascoltare le ragioni e le recriminazioni di ogni gruppo.

In un momento successivo, si chiedeva a ogni comunità di mandare dieci rappresentanti e si organizzava un incontro delle tre delegazioni con la mediazione dei tre responsabili religiosi. Era la seconda tappa, chiamata ascolto e dialogo, la più delicata.

Nella città di Mobaye, nel Sud del paese, ad esempio, da mesi gli abitanti della città non si parlavano più e si consideravano nemici. Si trattava di mettere a confronto le diverse verità. «Noi responsabili religiosi abbiamo dovuto spingere i relatori a riportare tutto quello che era stato detto nei rispettivi gruppi – dice il cardinale -. Avevano paura». Cardinale, imam e pastore, infatti, dopo l’incontro, sarebbero andati via, e i rappresentanti dei diversi gruppi temevano ritorsioni. «Noi abbiamo insistito, si dovevano superare le parole di circostanza, in modo che la verità fosse manifesta».

Una mediazione di questo tipo è stata efficace a Mobaye, e anche ad Alindao, nel centro.

La terza fase del metodo si realizzava in un grande incontro al mercato, con tutti, in particolare con la presenza dei ribelli. E qui i tre capi religiosi parlavano, cercando di riportare al centro i valori etici di base, come non rubare, non uccidere. «A tutti mostravamo che c’è un’autorità sopra di loro, un’autorità che si chiama Dio. Loro erano potenti signori della guerra. L’avessero voluto avrebbero potuto ucciderci». In effetti nei territori occupati la legge la facevano loro. Era fondamentale incontrarli per il processo di riconciliazione.

In una fase successiva della guerra, quando altri miliziani, gli anti-Balaka, sedicenti cristiani, perseguitavano la popolazione, il terzetto ha potuto parlare direttamente anche con loro. «Nel nostro paese, dove tutti sono credenti, la nostra autorità di capi religiosi è più forte di quella degli uomini in armi».

«Lo scopo delle nostre trasferte era di creare uno spazio di parola perché venissero accolte tutte le sofferenze, si ricostituisse una memoria comune e una comunità, là dov’erano rimasti solo il comunitarismo e le divisioni. Le parole pronunciate e ascoltate in un contesto favorevole permettevano di interrompere il ciclo della vendetta».

Guerra civile

La guerra è continuata con la presa della capitale da parte dei gruppi Seleka, il 24 marzo 2013. Questi hanno proseguito le loro devastazioni, soprattutto a danno dei cristiani. In quel periodo il cardinale Dieudonné interveniva nei vari quartieri di Bangui, quando veniva a conoscenza di qualche attacco a chiese e strutture religiose: «Andavo soprattutto allo scopo di confortare, consolare e rassicurare. Erano i miei preti, i miei operatori pastorali, i miei fedeli, a essere più in pericolo». L’arcivescovo di Bangui si è preso in questo modo molti rischi, ma oggi ci dice: «Quando si fa una scelta, si va fino in fondo. La mia scelta di essere vescovo coincideva con quella di restare con il popolo tutto. Non volevo abbandonare gli altri per salvare la mia vita».

E sono venuti poi gli anti-Balaka, le milizie costituitesi in tutto il paese in reazione ai Seleka, ma anche queste frammentate e prive di ogni controllo. Hanno attaccato la capitale il 5 dicembre 2013 e volevano vendicarsi dei soprusi perpetrati dai Seleka. Monsignor Nzapalainga, sapendo che l’imam Kobin era in forte pericolo, perché i musulmani a quel punto erano i primi a essere nel mirino, è andato a prelevare lui e la famiglia e li ha ospitati per mesi nell’arcidiocesi. «Anche la nostra vicinanza si traduceva in una testimonianza».

Intanto, gruppi di Seleka erano presenti, e la guerra civile è dilagata, in capitale e nel resto del paese.

Papa Francesco a Bangui. (Photo by GIANLUIGI GUERCIA / AFP)

Il Papa a Bangui

Monsignor Nzapalainga ha organizzato una visita della Piattaforma delle confessioni religiose a Roma da papa Francesco. Lui, insieme all’imam Kobin e al pastore Nicolas, in udienza dal papa gli hanno chiesto di recarsi a Bangui, per portare la pace.

Papa Francesco ha deciso di aprire il Giubileo della Misericordia in Centrafrica. La data della visita è stata fissata per fine novembre 2015.

Fino a pochi giorni prima, checkpoint erano presenti sul percorso previsto per la papamobile. In città si sparava, in particolare nel quartiere Pk5, una specie di ghetto dove si erano isolati i musulmani della capitale.

Per Nzapalainga e i suoi, l’organizzazione della visita è stata complicatissima.

Il papa è arrivato il 29 novembre. Ha visitato prima i fratelli protestanti, poi ha aperto la porta Santa della Misericordia, alla cattedrale di Bangui, e infine ha compiuto una memorabile visita ai musulmani, al quartiere Pk5. Qui ha pregato con l’imam in moschea. Per il cardinale, è stato l’inizio della pacificazione del paese.

Monsignor Nzapalainga ricorda: «Umanamente, militarmente e diplomaticamente, non era possibile che il papa aprisse un giubileo a Bangui. Quello che ha fatto è stato un atto di fede. È venuto in un paese in guerra, dove alla vigilia si uccideva. La sua venuta ha avuto l’effetto di unire tutte le comunità. È andato dai protestanti, dai musulmani. Molti musulmani hanno preso coraggio e sono usciti dal loro quartiere.

L’apertura della porta della cattedrale è stata simbolica del fatto che eravamo chiusi in noi stessi, non volevamo accogliere, non volevamo ricevere, ascoltare l’altro. Era la guerra che ci paralizzava, ci chiudeva in una prigione. Il papa è venuto ad aprire la porta del nostro cuore, della fraternità e del perdono verso gli altri. Questo gesto è rimasto in noi, e oserei dire che Bangui è diventata capitale spirituale del mondo.

Noi, musulmani, protestanti e cattolici, ci siamo detti: “Questo è il messaggio di un uomo di Dio che ci invita a vivere la nostra spiritualità”. È stata l’inizio della salvezza per il popolo centrafricano».

Papa Francesco con l’Imam Nehedid Tidjani a Bangui il 30 Novembre 2015. (Photo by GIUSEPPE CACACE / AFP)

Ucraina, un’altra guerra

Chiediamo a monsignor Nzapalainga cosa pensa della guerra in Ucraina.

«Non auguro una guerra a nessuno e a nessun popolo. Quando arriva è la distruzione, la sofferenza, la morte. Dio ci ha creati per la vita e per vivere insieme. Ma ascolto sovente alla televisione dire che bisogna dare più armi agli ucraini perché si possano difendere; invece, non sento dire che bisogna toccare i cuori degli uomini e delle donne che hanno preso le armi affinché possano vedere gli altri come fratelli e sorelle.

Si dice, dopo la guerra ci sarà la pace, ma non possiamo invece economizzare vite e distruzioni, evitando la guerra? Uomini e donne di pace usano un linguaggio diverso da quello delle armi.

È fondamentale che i protagonisti possano vedersi in faccia, possano discutere, negoziare, trovare un compromesso. È così che avremo un inizio di soluzione». Nzapalainga porta a confronto la sua esperienza: «Io sono andato a discutere con i ribelli, con i nemici, per dire loro di deporre le armi. Bisogna trattare con i nemici. Mi auguro che succeda anche per questo conflitto, che si vada verso una situazione di pace».

Russi e rwandesi

Dopo un breve periodo di calma, a inizio 2016, durante il quale sono state realizzate le elezioni che hanno portato alla presidenza Faustin-Archange Touadera, i gruppi ribelli, riorganizzati sotto altre forme, hanno ripreso a combattersi. A fine 2016 il contingente francese dell’operazione Sangaris, presente dall’inizio della crisi, è stato ritirato.

A loro sono subentrati mercenari russi, come il gruppo Wagner e, infine, il Rwanda, con il suo esercito, sempre interessato a estendere la propria influenza nei paesi ricchi di minerali preziosi. Entrambi gli interventi sono stati sollecitati da Touadera, nel 2020 (cfr. MC maggio 2021, pag. 57). Il presidente è stato poi rieletto a gennaio 2021 per un secondo mandato. Nel frattempo la guerra è continuata, ma l’intervento di questi due attori esterni in appoggio all’esercito regolare ha ribaltato la situazione. Oggi il governo controlla l’80% del territorio, e il restante 20% è in mano ai ribelli. Prima era l’esatto contrario.

Il cardinale vede oggi qualche segno di speranza nel paese, ma ci conferma che si tratta di una situazione molto precaria.

Marco Bello

Archivio MC

Ribelli, mercenari ed eserciti, Marco Bello, maggio 2021.
Solo Dio può salvare il Centrafrica, Federico Trinchero, agosto 2018.




Messico. Un sogno che unisce o divide

Alla città di frontiera messicana arrivano migranti da ogni dove. Da tempo, anche ucraini e russi, che lasciano i loro paesi in guerra per tentare di entrare negli Stati Uniti. È un sogno di tanti, ma non per tutti. Con l’aiuto dei «Border Angels» di San Diego abbiamo cercato di capirne i motivi.

«Verso Nord» dice il cartello indicante le strade della California. Foto Ana Pietres – Unsplash.

Tijuana è una città dai molti record. È il centro urbano di frontiera più grande e dinamico del Messico. Accoglie la sede di centinaia di multinazionali del settore manifatturiero attratte da condizioni fiscali vantaggiose. Ha l’ambizione di diventare un vivace polo culturale del paese. Per contro, con circa cento omicidi al mese (sei al giorno, ottocento tra gennaio e giugno 2022), presenta uno dei tassi di violenza più alti al mondo. Tijuana raccoglie in se stessa le contraddizioni tipiche di una città in moto perpetuo, in una crescita scomposta e senza regole. Con i suoi 24 km di confine segnati da una lunga barriera, simile a un moderno muro di Berlino, condivisi con la città gemella di San Diego, in territorio statunitense, Tijuana è anche la città di frontiera più trafficata del mondo. Ogni giorno circa 80mila persone l’attraversano per svariati motivi, per raggiungere il posto di lavoro, fare un acquisto o abbracciare un amico che vive dall’altra parte.

A Tijuana il mondo si incontra, fiducioso e disperato allo stesso tempo. Sullo stemma della città c’è scritto «Qui inizia la patria», ma per molti, in realtà, è proprio qui che finisce lo stato e, con esso, i diritti umani.

Tijuana è la città dove migliaia di migranti provenienti dall’America Latina si ammassano con la speranza, spesso delusa, di ricevere asilo politico negli Stati Uniti, presentandosi in una delle dogane di cui è costellata la città. E non si tratta soltanto di latinoamericani. A Tijuana arriva gente anche dall’Africa, dall’Asia e dai confini dell’Europa. Qui si spinge chi ha un sogno, ma anche chi sta scappando, magari da un disastro ambientale, dalla violenza, da mancanza di opportunità lavorative o da un conflitto armato. Contro il muro della città messicana sbattono i rifugiati di ogni dove. Negli ultimi mesi, sono arrivati anche migliaia di russi e ucraini. Accomunati dallo stesso sogno: mettere piede negli Stati Uniti.

Anche dalla Russia e dall’Ucraina

Ben prima del 24 febbraio, data di inizio dell’offensiva militare russa in Ucraina, Tijuana ha assistito all’arrivo di un inizialmente invisibile, ma poi sempre più consistente, gruppo di cittadini russi che hanno cominciato a lasciare il proprio paese quando per loro erano già evidenti le avvisaglie del conflitto. A fuggire verso la frontiera Sud degli Stati Uniti sono stati proprio gli oppositori del regime di Putin che, a partire da ottobre 2021, si sono imbarcati, insieme alle proprie famiglie e grazie a un visto turistico, su voli intercontinentali con scalo in Turchia e arrivo a Città del Messico o, più spesso, a Cancún, centro dei Caraibi storicamente frequentato dal turismo russo. Da qui, affittando un’automobile è possibile arrivare a Tijuana in qualche giorno di viaggio.

L’aumento del numero di persone provenienti dalla Russia non è passato inosservato alle organizzazioni di volontari che a Tijuana si occupano di dare un sostegno umano ed economico ai migranti.

«Nell’autunno scorso centinaia di russi sono stati fermati e detenuti dalle autorità di frontiera statunitensi – spiega Dulce García, la presidente dei Border Angels, un’associazione che fornisce assistenza legale ai migranti tra San Diego e Tijuana -. Abbiamo aiutato alcuni di loro a pagare la cauzione necessaria per uscire dalle strutture detentive durante la fase di valutazione della loro richiesta di protezione internazionale. La maggior parte delle persone russe che arrivano a Tijuana cercano rifugio negli Stati Uniti, dove hanno familiari o amici».

E i dati parlano chiaro. Secondo le statistiche della U.S. Customs and border protection, l’agenzia di dogana degli Stati Uniti, a ottobre 2021 sono stati registrati in frontiera 1.577 passaporti russi, mentre nello stesso mese del 2020 i fermi erano stati sette. Il numero di arrivi ha toccato il suo apice a dicembre 2021 con 2.105 russi in frontiera contro i 53 dell’anno precedente. Dallo scorso ottobre fino ad aprile 2022, la polizia degli Stati Uniti ha registrato la presenza di 10.089 cittadini russi, un numero che va ben oltre il doppio dell’intero anno precedente.

I cittadini ucraini hanno cominciato ad arrivare in massa a Tijuana a partire da marzo 2022. Con 20.118 persone registrate sulla frontiera sud dagli Stati Uniti solamente nel mese di aprile, il numero di ucraini è aumentato esponenzialmente, se si considera che allo stesso mese dell’anno precedente erano state registrate 31 persone. Per loro il viaggio passa attraverso la Moldavia e la Romania da dove è possibile imbarcarsi per Città del Messico e, da lì, verso Tijuana, via terrestre o aerea.

L’arrivo sulla frontiera di persone in fuga dall’Ucraina ha generato scompiglio e destrutturato in parte il sistema di accoglienza degli Stati Uniti che, negli ultimi due anni, era stato caratterizzato da una chiusura pressoché totale.

Il muro di Tijuana finisce sulla spiaggia del Pacifico, dividendo la città messicana da quella statunitense di San Diego. Foto Max Böhme – Unsplash.

Il diritto d’asilo cancellato

Nel 2021, il paese del Nord America ha registrato circa 1 milione e 700mila arresti di persone migranti, un milione delle quali è stato espulso direttamente dalla frontiera senza avere l’opportunità di chiedere asilo. Nonostante la Convenzione di Ginevra (1951) obblighi i paesi a garantire il diritto d’asilo e, di conseguenza, a dare a qualsiasi individuo la possibilità di richiedere protezione internazionale, gli Stati Uniti hanno scavalcato le normative internazionali appellandosi al Titolo 42, una vecchia legge di politica sanitaria di quarantena reintrodotta, con alcune modifiche, dall’ex presidente Donald Trump a marzo 2020. Dall’inizio della pandemia, la misura è stata utilizzata per espellere direttamente dalla frontiera i migranti, ufficialmente per motivi sanitari, anche in assenza di sintomi di Covid-19. Questo procedimento, travestito da politica di sanità pubblica, non ha fatto altro che rendere il confine più inespugnabile impedendo a più di un milione di persone di far richiesta di asilo.

«Negli ultimi anni la frontiera è stata chiusa per tutti, soprattutto per chi arrivava da Haiti, Venezuela e Centro America – spiega Dulce García -. Da marzo abbiamo assistito a un cambiamento della politica migratoria degli Stati Uniti, ma solo in favore di cittadini ucraini e, successivamente, anche di russi che, per lo meno, hanno potuto fare richiesta di asilo politico. Ma anche le persone di Haiti stanno scappando da una situazione terrificante, che potremmo considerare una guerra interna. Tutti dovrebbero avere il diritto di richiedere asilo politico, ma le persone afrodiscendenti, latine e indigene sono ancora sottoposte al Titolo 42 ed espulse in forma immediata».

A Tijuana, proprio vicino ai punti di ingresso negli Stati Uniti, ogni giorno si accampano migliaia di persone che provano a fare richiesta di asilo politico, vengono respinte dalla polizia di frontiera statunitense e successivamente riprovano, in un rituale circolare che pare non avere fine.

Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, il presidente Joe Biden ha dichiarato di essere aperto ad accogliere i profughi provenienti dal conflitto e nei mesi di marzo e aprile i cittadini ucraini hanno potuto beneficiare di programmi di accoglienza speciale, mentre le persone di nazionalità russa, nonostante alcune iniziali espulsioni, hanno avuto la possibilità di fare richiesta di asilo politico, risultando in grande parte esenti dall’applicazione del Titolo 42.

Dal 21 aprile, inoltre, il presidente degli Stati Uniti ha lanciato il programma «Uniting for Ukraine», che permette ai cittadini ucraini con uno «sponsor» nel paese di arrivare sul suolo nazionale direttamente in aereo e ricevere un permesso di soggiorno di due anni. Questo procedimento punta ad azzerare gli arrivi dalla frontiera terrestre del Messico, ma genera un problema per chi si trova già a Tijuana. Secondo le regole del programma, le persone di nazionalità ucraina ferme sul confine Sud dovrebbero ritornare in Europa e da lì fare richiesta d’ammissione online, oppure rivolgersi all’ambasciata a Città del Messico. In attesa di uno sblocco della situazione sulla frontiera Sud, centinaia di ucraini sono stati ospitati presso la palestra comunale di Tijuana e la solidarietà è arrivata anche dalla popolazione locale messicana che ha aperto le proprie case fornendo un rifugio temporaneo a numerose famiglie.

«Da fine aprile abbiamo notato che pure i cittadini ucraini hanno cominciato ad avere problemi a entrare negli Stati Uniti. Tuttavia, anche se ci vuole del tempo, in qualche settimana le loro richieste di protezione internazionale vengono accolte – continua Dulce García -.  Siamo felici di vedere che il Titolo 42 non viene applicato alle persone ucraine o ai russi e ci auguriamo che questo sia il primo passo verso l’eliminazione completa di una legge che lede i diritti umani».

Border Angels, l’organizzazione di volontari di cui Dulce è presidente, da due anni lotta e manifesta per l’eliminazione del Titolo 42 che, in pratica, ha permesso agli Stati Uniti di smantellare quasi completamente il sistema di asilo vigente.

Scritte benauguranti su un tratto del muro di Tijuana. Foto Barbara Zandoval – Unsplash.

Joe Biden e il Titolo 42

«Ciascuno è benvenuto», ricorda la frase scritta sul muro. Foto Katie Moum – Unsplash.

Il presidente Joe Biden ha mantenuto il Titolo 42 fino a oggi, considerandolo essenziale per prevenire la diffusione del Covid-19, nonostante numerosi rappresentanti della comunità scientifica abbiano messo in evidenza che questa politica discriminatoria non ha un effetto diretto sulla diffusione della pandemia. Spinto dalle numerose critiche provenienti da organizzazioni dei diritti umani e dalla sua stessa parte politica, ad aprile 2022, il presidente degli Stati Uniti ha provato a mettere fine al programma entro il 23 maggio, ma un giudice federale della Louisana (Robert Summerhays) ha ordinato che la misura rimanesse in atto, dopo una causa mossa da alcuni stati repubblicani, per cui, al momento, la politica viene ancora attuata.

«Espellere i migranti dalla frontiera secondo il Titolo 42 significa obbligarli ad ammassarsi a Tijuana, una città pericolosa e dominata in parte dai narcos – continua Dulce García -. Molti migranti latinoamericani o africani respinti in Messico sono stati rapiti o uccisi proprio dopo il respingimento».

Secondo l’organizzazione Human rights first, si sono verificati 9.886 casi di rapimento, tortura, violenza sessuale, furti e altre violazioni ai danni delle persone migranti espulse secondo il Titolo 42 durante l’amministrazione Biden.

Questi respingimenti hanno reso Tijuana un grande campo profughi a cielo aperto, nel quale chiunque arrivi si accampa come riesce: all’angolo di una strada, a pochi metri dalle dogane, sotto qualche tettoia o nelle zone pedonali. In queste condizioni migliaia di migranti continuamente respinti assistono a un’applicazione sommaria e discriminatoria del Titolo 42 da parte della polizia di frontiera che decide chi ha diritto di chiedere protezione internazionale e chi no in base alla nazionalità delle persone.

«Non c’è violenza tra i migranti, perché nessuno si arrabbia con gli ucraini o i russi se loro passano e gli altri no – spiega Dulce García -. La frustrazione dei migranti a cui viene applicato il Titolo 42 si rivolge contro il governo degli Stati Uniti che non accetta le loro domande di asilo politico e contro quello del Messico che non garantisce standard di sicurezza sul suo territorio. Noi lottiamo per richiedere che vengano rispettati i diritti delle persone che stanno vivendo un percorso migratorio, indipendentemente dalla loro nazionalità».

Mentre gli arrivi dei cittadini russi e ucraini sulla frontiera terrestre sembrano diminuire, proprio nel mese di giugno è partita una nuova carovana di circa 15mila migranti centroamericani, provenienti in particolare dall’Honduras e dal Guatemala, che viaggiano verso gli Stati Uniti in fuga da contesti di povertà, corruzione e violenza.

Logo degli «Angeles de la frontera», associazione d’aiuto con sede a San Diego.

Migranti di «serie a» e migranti di «serie b»

Ad attenderli sul piede di guerra un fermo Joe Biden che, al IX Summit of the Americas dello scorso giugno, ha dichiarato che «la migrazione irregolare è inaccettabile» e il confine statunitense è chiuso per chi arriva senza un regolare visto. A dargli una mano ci sarà anche il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador che ha deciso di schierare 30mila militari sulle sue frontiere proprio nei giorni in cui la carovana è partita.

«È appunto questo che lamentiamo: non esistono persone di serie A e di serie B. I richiedenti asilo non sono solamente coloro che fuggono da una guerra in Europa. Qui arrivano persone di diverse etnie e da diverse parti del mondo che si lasciano alle spalle conflitti militari, economici, sociali o politici e meritano di ricevere protezione così come qualsiasi essere umano», conclude Dulce García.

Simona Carnino

I capi di stato americani al IX «Summit of the Americas», tenutosi a Los Angeles lo scorso giugno.
Foto Alan Santos – PR.

Archivio MC

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Mozambico.

La baraccopoli nel Grande Hotel


Nato come hotel di lusso, utilizzato dai militari e come prigione durante la guerra, da decenni il Grande Hotel di Beira è un gigantesco palazzo occupato. Ci vivono centinaia di famiglie, adattandosi in ogni possibile spazio.

Beira. Come entri nella stanza buia e spoglia, in un angolo a sinistra, a lato dell’armadio, vedi un albero di Natale. È là tutto l’anno, durante la stagione delle piogge e in quella secca. «L’ho comprato due anni fa al mercato del Goto (il più grande mercato della città, nda) perché volevo che i miei tre figli sentissero l’atmosfera del Natale, che imparassero a sognare», mi dice Ilaria con aria soddisfatta mentre guardo l’abete incuriosito.

Un pomeriggio di qualche settimana fa l’ho trovata seduta per terra sul balcone, all’ingresso della sua stanza, in compagnia di due amiche. Stavano guardando delle fotografie. «Ce le siamo fatte scattare quest’anno, il primo di gennaio, da uno dei fotografi ambulanti in piazza del municipio. Volevo che fosse di buon auspicio per il nuovo anno per me e i miei figli». Ho guardato la serie di foto: avevano messo i vestiti buoni. Lei e la figlia si erano fatte fare una nuova acconciatura. Tutti e quattro avevano l’aria fiera e soddisfatta. Sapevano che stavano facendo qualche cosa di insolito e speciale.

Qualche giorno dopo l’ho incrociata per caso nella zona commerciale della città: «Sono venuta a comprare delle stoffe per me e le mie amiche per celebrare tutte assieme il primo di maggio».

Quando parlo con Ilaria rimango sempre ammirato dalla sua forza d’animo e dalla sua determinazione nel creare dei piccoli momenti di gioia e nel cercare di dare un futuro migliore ai suoi tre figli.

Simbolo della città

Ilaria è una dei tanti abitanti del Grande Hotel di Beira, probabilmente il più popoloso e grande edificio occupato al mondo. È uno dei simboli della città, tra le principali del Mozambico.

L’hotel incarna la storia del paese, uno dei più poveri al mondo, con un bassissimo livello di sviluppo umano, aspettativa di vita e altri indicatori socioeconomici. Fu costruito a metà degli anni Cinquanta, quando il Mozambico era una colonia portoghese, per mostrare al mondo la forza e il successo del regime fascista al potere in Portogallo dal 1933. Era un luogo di opulenza e venne concepito per essere tra gli hotel più lussuosi d’Africa. Un posto solo per ricchi, per lo più bianchi. In stile Art Déco, le facciate dalle enormi forme geometriche e ripetizioni architettoniche dovevano rappresentare la modernità. Mentre l’esterno non presentava ornamenti o motivi intricati, gli interni dai sontuosi saloni e scalinate erano fatti con materiali costosi abbastanza rari nella regione.

Il Grande Hotel era famoso in tutto il mondo, ma chiuse i battenti nel 1963, perché nei suoi otto anni di attività non fu mai redditizio, dato che pochissime persone potevano permettersi di alloggiare in una delle sue 116 camere. Negli anni seguenti aprì solo in alcune occasioni per ospitare grandi eventi, come quando soggiornarono alcuni membri del Congresso degli Stati Uniti in crociera lungo la costa dell’Africa Orientale.

Durante i 16 anni di guerra civile iniziata nel 1976, l’edificio servì inizialmente come base dell’esercito e come prigione, successivamente come campo profughi. Fu solo dopo l’abbandono dal suo scopo originale che le stanze furono riempite per la prima volta. Da allora, il Grande Hotel è diventato casa per le persone più vulnerabili, in una città che è in costante crescita ma non è in grado di costruire alloggi decenti e adeguati per chi ci vive.

Comunità autogestita

Si stima che attualmente ci vivano circa duemila persone, molte delle quali bambini e adolescenti, che occupano tutte le stanze e ogni sezione di questo enorme edificio buio e umido, comprese le scale, i lunghi corridoi e gli scantinati. I suoi abitanti vivono come una comunità autogestita, ma senza i servizi pubblici essenziali, come l’acqua e servizi igienici, l’elettricità e la raccolta dei rifiuti. Per avere una stanza bisogna pagare un affitto. Pochi euro, che per alcuni sono però proibitivi. Succede allora che qualcuno debba lasciare una di quelle che, negli anni Cinquanta, erano stanze di lusso per trasferirsi in un angoletto nei corridoi o nelle cantine.

Ilaria vive presso il Grande Hotel da quando era ragazzina. Lì ha conosciuto il suo compagno, che poi l’ha abbandonata. Lì sono nati i suoi figli. Vive al primo piano, in un «appartamentino» che un tempo era una delle suite dell’hotel. Il suo letto occupa quello che in passato era un bagno finestrato. Lo si riconosce dalle piastrelle alle pareti e dalle allacciature dell’acqua. Il figlio più grande dorme su un materasso steso sul pavimento in un piccolo corridoio.

La vita si svolge prevalentemente sul balcone, più luminoso e arieggiato. Lì si cucina, si fanno i compiti e si gioca. Si chiacchiera con gli ospiti e ci si rilassa. All’ingresso dell’alloggio Ilaria ha una piccola bancarella di frutta e verdura. A volte vende delle frittelle o delle patate dolci fritte. Abbastanza per pagarsi le spese e comprare nuovi prodotti da vendere. Ma non abbastanza per risparmiare e avere più garanzie per il suo futuro.

Vivere alla giornata

La maggior parte degli abitanti dell’hotel non ha un lavoro fisso e campa alla giornata. Così come Ilaria, all’interno e all’ingresso dell’edificio molte donne allestiscono piccole bancarelle che vendono frutta, verdura e pesce.

Nei corridoi si trovano dei piccoli saloni di bellezza, specie nel fine settimana. Si sta seduti sugli scalini o sulle sedie di plastica: passano le ore tra chiacchiere e nuove acconciature.

Alcuni degli abitanti sono pescatori, ma la maggior parte sopravvive trovando lavori occasionali, alla giornata. Il numero di pasti, così come la quantità di cibo e il condimento da accompagnare al riso e alla xima (una polenta a base di mais), dipendono da come è andata la giornata. Quando si mangia pesce fresco o carne, significa che la giornata lavorativa è andata bene o c’è qualche ricorrenza da festeggiare.

Vivendo in condizioni di estrema vulnerabilità, la malnutrizione è cronica, specialmente tra i bambini. Diarrea, Aids, malaria, scabbia, tubercolosi e altre malattie sono un problema diffuso. Ma tra vicini di casa ci si aiuta.

Manuel Antonio era un signore anziano. Aveva perso una gamba a causa di una mina, da giovane, rientrando da una partita di calcio, durante la guerra civile. «Se non fossi saltato su quella mina – mi dice un giorno con un sorriso malinconico – forse non sarei qui a raccontartela perché avrei dovuto combattere durante la guerra civile». Viveva presso il Grande Hotel dall’inizio degli anni Novanta e passava le sue giornate fuori dal panificio in piazza del municipio. Il pane e qualche moneta data dai passanti erano abbastanza per sopravvivere. È là che ci siamo conosciuti, qualche anno fa. Ultimamente però era molto debole e non riusciva ad andare fino alla piazza. E così, mentre mi fermavo a chiacchierare con lui in corridoio fuori dalla sua stanza in lamiera, spesso arrivavano dei vicini con qualche cosa da mangiare. E quando, poco tempo fa, se ne è andato a causa della tubercolosi, gli amici hanno fatto una colletta per pagare il funerale.

Negli scantinati

Moltissime persone vivono negli scantinati, che sono umidi e bui. Tra loro Josè, pescatore, con sua moglie e i quattro figli. La prima volta che sono andato a visitarlo in casa mi ha incuriosito il fatto che tutti i mobili, come ad esempio il tavolo, la struttura del letto o il piano di appoggio del televisore, erano fatti di mattoni di cemento. «Con i risparmi sto comprando del materiale per fabbricare dei mattoni. Quando ne avrò abbastanza vorrei costruire una casa fuori da qui, forse nel quartiere della Manga. Però mi mancherà la vicinanza al mare».

Il Grande Hotel si trova di fronte all’oceano, non lontano dal porto costruito dai portoghesi, da cui è cresciuta la città di Beira, su una pianura alluvionale sotto il livello del mare che la espone a inondazioni regolari.

Nell’edificio si fa pochissima manutenzione. Le infiltrazioni di acqua piovana e gli allagamenti costituiscono un problema ricorrente. In diverse aree sia all’interno che all’esterno ci sono cumuli di spazzatura. I vani degli ascensori e le scale sono diventati delle voragini, in cui occasionalmente qualcuno cade. Il palazzo è esposto ai venti, alla salsedine e all’usura del tempo. La struttura è forte e regge, tuttavia si sta lentamente deteriorando. Ogni tanto alcuni soffitti e pareti crollano, anche se le persone che ci vivono fanno del loro meglio per tenere l’edificio pulito e in sicurezza.

Il ciclone Idai del marzo 2019, uno dei peggiori cicloni tropicali che abbiano mai colpito l’Africa e l’emisfero meridionale, che ha causato enormi danni e una crisi umanitaria nella regione, ha lasciato il suo segno sia sul Grande Hotel che nella memoria di chi ci vive.

Pochi mesi dopo, la situazione si è complicata ulteriormente a causa dello stato di emergenza dichiarato a seguito della pandemia, soprattutto perché molte attività economiche formali e informali in città hanno chiuso, ed è diventato più difficile trovare un lavoro. Inoltre, per parecchi mesi i bambini non sono potuti andare a scuola. In un paese dove il sistema scolastico è già abbastanza precario e non è così raro incontrare dei ragazzi che, alla fine della scuola dell’obbligo, sanno a mala pena leggere e scrivere.

Difficile andarsene

Ultimamente, l’aumento generalizzato dei prezzi, in particolare del pane e di altri beni di prima necessità, è causa di nuovi forti disagi. Diverse persone hanno dovuto chiudere le loro bancarelle perché con i guadagni non riuscivano a coprire i costi. Ma ci si inventa sempre qualcosa per andare avanti.

Da poco un ragazzo si è costruito un piccolo chiosco, dove vende cd e offre servizi di registrazione audio per chi vuole incidere un brano musicale. Il chiosco è di fronte al cinema in lamiera che in genere proietta film di azione americani doppiati in brasiliano.

Ogni tanto qualcuno riesce a guadagnare abbastanza, oppure a studiare e a trovare un lavoro ben pagato che gli permette di uscire dal ventre del palazzo. Molti ragazzi sono determinati a studiare, come Amaral che sogna di diventare tecnico di costruzione, o Regina che vorrebbe studiare per diventare infermiera e aiutare la sua famiglia. Ma non è facile, e per la maggior parte degli abitanti del Grande Hotel il mondo fuori non è destinato a essere meno precario. Molte persone lì sono nate, hanno avuto i loro figli e, in alcuni casi, hanno visto i loro nipoti nascere e crescere.

Paolo Ghisu

Paolo Ghisu è nato e cresciuto a Trento. Laureato in economia e relazioni internazionali, ha lavorato per varie Ong e organizzazioni internazionali, in diversi paesi. Dal 2018 vive a Beira, Mozambico. Da sempre appassionato di fotografia, nel 2020 ha deciso di renderla parte della propria carriera, iniziando un percorso di formazione in fotografia e narrazione visiva. Attraverso il suo lavoro racconta storie di sostenibilità, diversità, vulnerabilità e resilienza.

Il progetto Fully booked. Vivere al Grande hotel di Beira è il primo progetto fotografico di Paolo Ghisu. Nell’ottobre del 2020 ha iniziato a frequentare regolarmente il Grande Hotel. Passo dopo passo, molti degli abitanti gli hanno aperto le porte delle loro case. Per mesi ha condiviso con loro momenti di quotidianità, fatta di costante precarietà. www.paologhisu.com

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Filippine. Il ritorno di Marcos


Le elezioni dello scorso maggio hanno visto il trionfo del figlio del dittatore Ferdinand Marcos, cacciato a furor di popolo nel 1986. Accanto a lui, la vicepresidente è la figlia del presidente uscente, il «duro» Duterte. Cosa farà la strana coppia del paese strategico per il Mar Cinese meridionale?

Bongbong ha iniziato a diventare presidente delle Filippine il 9 novembre 2016. Quel giorno, mentre il mondo seguiva la vittoria di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca, la Corte suprema di Manila dava il via libera alla sepoltura, nel cimitero degli eroi, del dittatore che aveva governato con pugno di ferro le Filippine tra il 1965 e il 1986. Nove giorni dopo, la bara di Ferdinand Marcos, morto nel 1989 in esilio a Honolulu, è arrivata in elicottero a Manila dalla sua città natale di Ilocos Norte. Ed è stata posta con gli onori militari nel luogo più sacro per i patrioti filippini. Il 9 maggio 2022, esattamente cinque anni e mezzo dopo, Ferdinand Marcos Junior ha vinto le elezioni presidenziali delle Filippine.

Chi lo avrebbe mai detto, a fine febbraio 1986, che il figlio del dittatore cacciato dal paese sarebbe un giorno diventato anch’egli presidente? Il 25 febbraio di 36 anni fa la famiglia Marcos abbandonò il palazzo del Malacañan, dove viveva nello sfarzo più assoluto. Mamma Imelda conservava una collezione di tremila paia di scarpe. Proprio lei è considerata da molti la mente dietro la scalata politica del figlio.

Dopo la fuga a bordo di aerei americani, che Marcos Jr. avrebbe definito un «rapimento» nel 2011, la folla di manifestanti (che paralizzava Manila da settimane per protestare contro l’esito considerato fraudolento delle elezioni) prese d’assalto il palazzo presidenziale saccheggiando gli uffici del dittatore e bruciando i quadri con la sua effigie.

Marcos aveva governato imponendo una dura legge marziale che gli aveva consentito non solo di eliminare tutti gli oppositori politici, ma anche di confiscare un numero enorme di aziende e istituzioni. Secondo le accuse, la coppia si sarebbe appropriata in modo indebito di una cifra tra i 5 e i 10 miliardi di dollari di denaro pubblico.

Centinaia di oppositori denunciarono episodi di repressione, torture e uccisioni comprese. Con il giallo mai risolto dell’omicidio di Benigno Aquino (politico e marito di Corazon Aquino, poi eletta presidente, rientrava dall’esilio negli Usa, ndr) all’aeroporto di Manila.

Philippine President-elect Ferdinand Marcos Jr.(C) is proclaimed by Senate President Vicente Sotto (L) and House Speaker Lord Allan Velasco as duly-elected president at the House of Representatives in Quezon City, suburban Manila on May 25, 2022. (Photo by Ted ALJIBE / AFP)

A pieni voti

Eppure, Marcos Jr. non ha vinto con un golpe, ma con un netto successo alle urne. Un impressionante 83% dei 67,4 milioni di elettori, ovvero circa la metà dei 112,5 milioni di abitanti delle Filippine, che è andato a votare. Il 56,79% degli elettori ha scelto Bongbong, ribattezzato così dal padre quando era piccolo per l’abitudine di salirgli sulle spalle (in tagalog, lingua più diffusa, il termine identifica un contenitore di bambù che si porta sulla schiena). È stata anche la prima volta, dopo il rovesciamento del dittatore, che un candidato ha ottenuto una così chiara maggioranza.

Bongbong ha vinto senza prendere le distanze dai genitori. Anzi, da quando ha intrapreso la carriera politica, dopo il ritorno in patria ha lavorato per riabilitarne la memoria. Con il tempo e, più recentemente, con l’aiuto di un’abile propaganda social, si è affermata l’idea che la dittatura di Marcos fosse stata un’epoca d’oro in cui le Filippine godevano di stabilità, alta crescita e massicci investimenti in infrastrutture. Una versione revisionista della storia che, piano piano, ha preso sempre più corpo, soprattutto di fronte a un presente fatto di delusioni, divisioni e conflitti. La disillusione nei confronti dell’establishment politico e dei governi democratici degli ultimi tre decenni è stata alimentata da scandali, processi e impeachment. Trent’anni nei quali la fiducia nella democrazia liberale sembra essersi già esaurita, tanto che alcuni analisti che parlano di un «gusto per il governo illiberale», fomentato dall’amministrazione di Rodrigo Duterte (cfr. MC marzo 2019). Da qui la diffusione di un sentimento di nostalgia per l’era Marcos, in particolare tra gli elettori più giovani che non ne hanno ricordi dei soprusi del dittatore, e che hanno mitizzato quel periodo a causa del mix tra contenuti propagandistici sui social e rabbia verso la tradizionale classe politica filippina. Non un fattore di poco conto, in un paese dove l’età media è di 26 anni. A protestare rimangono gli attivisti, che vedono a rischio il futuro di quella che viene considerata come la più antica democrazia del Sud Est asiatico.

Con la figlia di Duterte

La violenta campagna anti droga di Duterte, accusato di aver ordinato o comunque consentito centinaia di omicidi extragiudiziali, ha scosso il paese a livello sociale. L’economia, già zoppicante, ha subito un duro colpo a causa della pandemia di Covid-19. Duterte ha detto più volte di essere un «ammiratore» di Marcos padre. Non del figlio che, anzi, ha definito «bambino viziato» durante la campagna elettorale. Ma la vicepresidente sarà proprio sua figlia, la 43enne Sara, che ha scelto di correre in ticket con Marcos Jr. contro il parere del padre che l’avrebbe invece voluta leader al suo posto.

Una mossa che, nei piani del rampollo di mamma Imelda, dimostra «unità» e che soprattutto gli ha portato in dote tanti voti dai numerosi sostenitori del presidente uscente. Ora, questa vittoria così netta fa temere a molti che la coppia possa sentirsi in diritto di governare incontrastata.

Che cosa farà Bongbong al potere? Si prevede che continuerà la guerra alla droga di Duterte, ma ha spiegato che avrà una strategia più «mirata» che enfatizzerà maggiormente la riabilitazione e la prevenzione.

In molti tifavano per la sua principale rivale, l’ex vicepresidente Leni Robredo. A partire dalla comunità Lgbt+ e dalle minoranze etniche, per arrivare agli investitori. Il programma in materia economica di Marcos Jr. è ritenuto debole e confuso. Ha parlato di piani per rafforzare i partenariati pubblico-privato, l’agricoltura e il turismo ma senza fornire dettagli significativi.

Scene inside polling precinct during the National and Local Elections in Metro Manila, Philippines on May 9, 2022. Filipinos cast their votes during the 2022 Philippine Election. (Photo by Ryan Eduard Benaid/NurPhoto) (Photo by Ryan Eduard Benaid / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Vicino alla Cina?

Bongbong è sempre stato vago anche in materia di politica estera, ma si ritiene che possa riprendere l’avvicinamento alla Cina che è stato iniziato da Duterte nel 2016. Nonostante Xi Jinping non abbia mai rispettato una sentenza dell’Aja a favore di Manila sulle dispute territoriali del Mar Cinese meridionale, Duterte è stato a Pechino poco dopo il suo insediamento e ha predetto enfaticamente la «vittoria» della Cina nella corsa alla supremazia globale contro l’Occidente.

L’interscambio commerciale tra i due paesi asiatici è arrivato a livelli record. Duterte si è pure fatto immortalare mentre gli veniva somministrato il vaccino cinese Sinovac durante la pandemia.

Da quando alla Casa Bianca è arrivato Joe Biden, però, Manila è sembrata essere in procinto di tornare all’ovile, rafforzando i tradizionali legami con l’antico colonizzatore. Duterte ha fatto marcia indietro su molte delle sue minacce contro Washington, compresa l’abrogazione di un patto di difesa. Anche a causa della crisi di qualche tempo fa, quando decine di navi cinesi stazionavano nelle acque rivendicate dalle Filippine come parte della loro zona economica esclusiva. Nello scorso aprile Manila e Washington hanno condotto insieme l’esercitazione militare più massiccia degli ultimi sette anni.

Il Balikatan, in tagalog «spalla a spalla», ha mobilitato circa 9mila membri tra personale militare filippino e americano nell’area di Luzon. Sono stati realizzati dei nuovi avamposti della guardia costiera su tre isole contese nell’arcipelago delle Spratly, nonostante le proteste di Pechino. Alla fine di maggio le Filippine hanno presentato una protesta diplomatica nei confronti della Repubblica popolare, che ha imposto unilateralmente un divieto di pesca in quelle acque.

Marcos Jr., però, ha promesso che rafforzerà le relazioni con la Cina dotandole di una «marcia più alta». Durante un colloquio telefonico pochi giorni dopo le elezioni, Xi Jinping ha definito il neoeletto presidente «un costruttore e un promotore dell’amicizia con la Cina», e ha proposto un piano di cooperazione per regolare il futuro sviluppo dei legami bilaterali. «Imelda è amica della Cina e ha un’ottima relazione con il governo cinese ad alto livello, il che è destinato a influenzare la politica estera di Marcos Jr. nei confronti della Cina», ha dichiarato Yang Jinglin, professore associato presso il Centro di studi Cina-Asean (Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico) dell’Università del Guangxi (Cina popolare).

O vicino agli Usa?

Marcos Jr. ha comunque garantito che Manila non cederà alle rivendicazioni cinesi sul mar Cinese meridionale, continuando a rifarsi alla sentenza del 2016. «Non permetteremo che un singolo millimetro dei nostri diritti marittimi venga calpestato», ha detto. Un modo per provare a tenere in equilibrio i rapporti sia con Washington che con Pechino. Bongbong ha palesato l’intenzione di ridiscutere e ridefinire il Visiting forces agreement con gli Usa di fronte a uno «scenario regionale in cambiamento». Fino al 30 giugno, Marcos Jr., tra l’altro, non poteva mettere piede negli Stati Uniti a causa di una maximulta, mai pagata, da 353,6 milioni di dollari comminata a lui e alla madre dopo una class action contro le violazioni dei diritti umani del regime guidato dal padre. Ma, nelle scorse settimane, la vicesegretaria di Stato Wendy Sherman ha chiarito che l’impedimento è venuto meno grazie alla sua immunità presidenziale e che il neo leader filippino sarebbe il «benvenuto» negli Usa. Segnale di quanto il posizionamento del paese asiatico sia ritenuto cruciale dall’amministrazione Biden che sta provando a riproiettarsi in Asia-Pacifico per contenere l’ascesa cinese. Da parte sua, il nuovo leader filippino proverà a rafforzare la cooperazione in materia di sicurezza all’interno dell’Asean, riducendo la dipendenza militare dagli Stati Uniti, e a non esporsi al confronto tra blocchi. L’agognato avvicinamento a Pechino potrebbe però essere rallentato dalle tensioni strategiche.

Sono lontani i tempi in cui Marcos sr. era stato definito «il braccio destro dell’America in Asia» dall’allora presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson durante una visita a Manila del 1966. Secondo molti, Marcos jr. userà il suo potere per fermare le indagini sul patrimonio della sua famiglia, dato che presiederà la commissione che ancora conduce l’inchiesta. «Giudicatemi per le mie azioni, non per le azioni dei miei antenati», ha chiesto Bongbong. Chissà che cosa ne pensano i protagonisti della rivoluzione popolare del 1986, che hanno visto un Marcos varcare nuovamente la soglia di Palazzo Malacañan.

Lorenzo Lamperti

Archivio MC

• Filippine, 500 anni di evangelizzazione, Xiao Chua, Marco Bello, luglio 2021.
• Filippine: La (sporca) guerra alla droga, Luca S. Pistone, marzo 2019.

People walk outside a polling precinct during the presidential election in Antipolo, Rizal province on May 9, 2022. (Photo by Maria Tan / AFP)




Messico. Costruendo Autonomia


Il modello di sviluppo dominante opera con mega progetti che distruggono territori e modi di vita originari. Le comunità locali sono al lavoro per costruire un modello alternativo di gestione dell’energia. L’esempio della città di Cuetzalan.

«Cosa ti dice oggi il tuo cuore?», mi saluta Ivan. È un mattino di novembre, siamo nel bar Tosepan Kajfen nel centro di Cuetzalan del Progreso.

Il saluto di Ivan, tradotto letteralmente dalla lingua nahuatl della Sierra Nordorientale dello stato di Puebla, in Messico, corrisponde al nostro «buon giorno».

Il Nahuatl è una delle lingue principali di questo territorio, i cui abitanti appartengono in gran parte ai popoli Masewal-Totonaku e mestizos (meticci)1.

Cuetzalan ne è una delle principali cittadine, con il suo centro storico dalla pavimentazione in pietra, il tiangui (mercato) domenicale, il palo della danza de los voladores di fronte all’enorme chiesa, anch’essa in pietra, e le sue abbondanti piogge che durante tutto l’anno alimentano la rigogliosa vegetazione della regione.

Mi trovo in una terra generosa, nella quale si coltiva e si commercia caffè, cannella, pepe nero, e si fabbricano cesti e altri prodotti di jonote e tessuti elaborati al telar de cintura.

 Minacce e resistenza

Questa terra ha anche una lunga storia di custodia e di resistenza da parte dei suoi abitanti.

Da decenni, infatti, diversi megaprogetti minacciano il territorio, la cosmovisione autoctona, le identità, le pratiche culturali delle comunità indigene, gli agroecosistemi locali delle milpas, l’acqua e la foresta.

Negli ultimi venti anni ci sono stati molti conflitti. Una resistenza che non si limita all’opposizione, ma difende i modelli alternativi di vita, pianificati e gestiti dalla popolazione locale in armonia con un paradigma culturale e spirituale che rispetta il territorio e il suo benessere, in favore di tutti i suoi abitanti.

 

il malinteso sviluppo

L’anno decisivo fu il 2008, quando la Commissione nazionale per lo sviluppo dei popoli indigeni (Cdi – Commisión nacional para el desarrollo de los pueblos indígenas) annunciò l’attuazione di un progetto turistico nella parte alta del comune, sulla Sierra de San Manuel.

Il piano, sostenuto dal governatore dello stato di Puebla, si poneva l’obiettivo di attrarre capitali privati, nazionali ed esteri, allo scopo di creare imprese turistiche in undici comuni della regione, in aree particolarmente attrattive per il loro valore paesaggistico e ambientale.

Il progetto riguardante Cuetzalan prevedeva la costruzione di capanne, hotel e di una scuola alberghiera nella quale gli «indigeni locali» sarebbero stati formati per prestare servizi turistici (poco pagati).

Fin da subito il progetto destò dubbi per gli incerti benefici che avrebbe portato a livello locale e per la mancata partecipazione degli abitanti nella sua pianificazione.

Durante i lavori, poi, le famiglie cominciarono a notare contaminazione di calce, fango e cemento nell’acqua dei loro rubinetti. Il sistema idrico del municipio, amministrato in maniera autonoma dai comitati territoriali dell’acqua, infatti, stava subendo le conseguenze del progetto che, oltre a essere stato imposto, era stato fin da subito mal gestito con disprezzo per la salute degli abitanti e gli ecosistemi locali.

Pianificazione ecologica

Le comunità non rimasero a guardare. Nel 2009, in collaborazione con accademici e accademiche della Buap (Benemérita universidad autónoma de Puebla), esse cominciarono a sviluppare un modello di pianificazione territoriale basato sulle conoscenze, la cosmovisione e le esigenze di indigeni e mestizos locali.

Nel dicembre 2010, il modello elaborato venne pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale» come «Programma di pianificazione ecologica territoriale» (Poet – Programa de ordenamiento ecológico territorial) del comune di Cuetzalan.

Il Poet prevedeva limitazioni ai «progetti di sviluppo» e alla costruzione di infrastrutture energetiche. Da quel momento, i progetti consentiti sarebbero stati solamente quelli pianificati e pienamente giustificati dai bisogni della popolazione locale.

Difesa di vita e territorio

Per dare seguito alla nuova modalità di gestione del territorio, si costituì il Comitato di pianificazione territoriale integrale (Cotic), composto principalmente da organizzazioni sociali, comitati dell’acqua, produttori di caffè e pepe, artigiani, associazioni di difesa dei diritti umani, associazioni di donne, nonché dai residenti di Cuetzalan e da autorità municipali, statali e federali.

Le decisioni relative a qualsiasi piano o progetto per il territorio vengono da allora discusse nell’amplissima Assemblea in difesa della vita e del territorio che normalmente si riunisce nel centro di Cuetzalan ed è riuscita a raccogliere fino a 4mila persone. Quest’ampia partecipazione e il reale controllo del processo di decisione da parte delle organizzazioni locali, fa del Poet un esempio unico nel paese e un punto di riferimento e ispirazione per altre esperienze simili.

Proyectos de Muerte

Cuetzalan

L’articolazione della popolazione locale in comitati e associazioni, e la lunga esperienza di collaborazione comunitaria e cooperativista che caratterizza il municipio, facilitarono la creazione di un fronte di resistenza allo sfruttamento del territorio e di vigilanza sui progetti infrastrutturali in campo energetico e minerario.

Alcuni dei casi più significativi di programmi di «sviluppo» nocivi, hanno portato alla distruzione di sorgenti d’acqua per la costruzione di un’autostrada da parte del ministero dei Trasporti, al tentativo di costruzione di due grandi magazzini che avrebbero messo a repentaglio il commercio locale (uno del gruppo Walmart e l’altro di Coppel), a quattro dighe idroelettriche sul fiume Apulco, a giacimenti di gas e petrolio, e ad attività di fracking (estrazione di petrolio tramite frantumazione delle rocce, ndr).

Accanto al Cotic, un altro comitato si creò proprio in risposta all’industria estrattiva, il Concejo Tiyat Tlali en defensa de la vida y el territorio, con compiti di sorveglianza e denuncia di opere e progetti contrari a quanto previsto dal piano regolatore.

Questi progetti sono chiamati dai loro oppositori proyectos de muerte, perché chiaramente contrari alla cura e riproduzione della vita e delle sue basi ecologiche, alle pratiche agroecologiche e alla convivenza di tutti gli esseri viventi, delle generazioni attuali e future.

Molti di essi furono fermati. Tra i più recenti, possiamo ricordare le concessioni minerarie revocate dalla Corte suprema nei primi mesi del 2022 a causa della non conformità di tali progetti con la legislazione vigente. La revoca delle concessioni ha colpito gli investimenti della multinazionale canadese Almaden Mineras, che intendeva estrarre oro e argento dal territorio del municipio di Ixtacamaxtitlán, e del Grupo Ferro Minero, che aveva tre progetti in Cuetzalan del Progreso, Tlatlauquitepec e Yahonáhuac.

Energia, tema chiave

Un altro anno decisivo per Cuetzalan, questa volta in relazione ai megaprogetti elettrici, fu il 2015. La Commissione federale dell’elettricità (Cfe), società statale incaricata di produrre e vendere energia elettrica, aveva promosso lo sviluppo della linea ad alta tensione (di seguito Lat2) tra Teziutlán II e Papantla, passando per Ayotoxco de Guerrero e Cuetzalan. Nella zona Nord Est di quest’ultima sarebbe stata costruita una sottostazione elettrica.

Il Cotic, tramite studi specializzati, dimostrò che la stazione non rispondeva alla domanda di energia di Cuetzalan e della regione, bensì a quella dell’industria che si stava preparando nello stato e in tutto il paese.

Gli abitanti del municipio scoprirono così che il loro territorio era strategico per l’interconnessione di diverse linee elettriche che avrebbero fornito energia allo sfruttamento minerario del territorio e al fracking.

«Da quel momento abbiamo capito che dovevamo affrontare il tema energetico in chiave di autonomia locale, altrimenti sarebbe stato inutile opporsi ai megaprogetti. Dovevamo dimostrare che un altro modello è possibile e che le comunità lo possono gestire», mi spiega Leo Durán, della cooperativa Tosepan. «Così abbiamo deciso che l’energia doveva diventare un settore chiave di trasformazione comunitaria».

La Lat, tra le altre cose, avrebbe danneggiato irrimediabilmente un’importante area di acque sorgive, protetta e conservata nel tempo dalle comunità locali, comportando impatti irreversibili su una vasta area di piantagioni di caffè e di altri prodotti che rappresentano il sostentamento di numerose famiglie.

Inoltre la Lat avrebbe messo a rischio l’habitat di specie uniche e il sistema di orientamento dell’ape melipona, responsabile dell’impollinazione di tutte le coltivazioni e delle specie silvestri. La produzione di miele, fonte di reddito soprattutto per apicoltrici donne, si sarebbe interrotta.

La deforestazione, infine, avrebbe provocato la destabilizzazione dei pendii portando il rischio di frane disastrose.

La linea s’interrompe a Cuetzalan

Per queste ragioni, il 19 novembre 2016, il popolo Masewal-Totonaku e i mestizos, tramite un’azione nonviolenta, dichiarò la sua ferma opposizione alla linea ad alta tensione, affermando il diritto dei popoli indigeni alla libera autodeterminazione tutelato dal secondo articolo della Costituzione messicana.

In grande numero, gli abitanti del municipio si recarono nell’area di costruzione della sottostazione e impedirono fisicamente la ripresa dei lavori mediante un lungo, deciso e pacifico sit in. Dopo più di un anno di accampamento e turni di guardia degli abitanti di Cuetzalan e dei municipi vicini, le autorità comunali si videro obbligate a ritirare la licenza di costruzione della sottostazione elettrica in programma.

Criminalizzazione e repressione violenta

Nonostante la cancellazione del progetto, la criminalizzazione e la violenza contro gli oppositori della Lat non si fece aspettare. Nel febbraio 2018, otto rappresentanti di organizzazioni della regione furono accusati (e poi assolti) del reato di «impedimento» all’esecuzione di un’opera pubblica. Il 14 maggio 2018 fu assassinato Manuel Gaspar Rodríguez, membro del Miocup (Movimiento independiente obrero campesino urbano popular) che già aveva ricevuto molteplici minacce di morte per la sua opposizione alla centrale.

Il suo nome, così, si aggiunse a quelli delle molte persone che nel mondo scompaiono per la difesa e la cura del loro territorio.

Un altro membro di Miocup, Antonio Esteban Cruz, era stato già ucciso nel giugno del 2014 per la sua opposizione alle dighe idroelettriche (Vedi Daniela del Bene, Uomini e terra sotto attacco, MC giugno 2021).

Nel marzo di quello stesso 2018, un commando armato sparò a un camion su cui viaggiavano membri della Tosepan. Successivamente, il centro di formazione della cooperativa fu dato alle fiamme mentre alcuni suoi membri vi lavoravano.

Il 18 marzo 2021, la Commissione nazionale per i diritti umani (Cndh) emise la raccomandazione numero 9/2021, chiedendo alle autorità competenti di effettuare una riparazione completa del danno subito dalle persone criminalizzate per la protesta a Cuetzalan.

Energie alternative

L’opposizione alla centrale rappresentò il ripudio popolare al piano estrattivista della regione.

L’Assemblea in difesa della vita e del territorio invitò le persone a disconnettersi dai cavi dei «progetti di morte» e ad appropriarsi di tecnologie alternative per la produzione di energia e per la riduzione del consumo.

«Durante il sit in, si erano organizzati laboratori e discussioni sul tema energetico, e alcuni giovani avevano insegnato alla comunità il funzionamento delle energie alternative, in particolare quella prodotta con pannelli solari», mi racconta doña Rufina che gestisce la piccola struttura di ricezione turistica Hotel Taselotzin insieme alle altre donne della cooperativa Maseualsiuamej Mosenyolchicauanij (che in nahuatl significa «donne indigene che lavorano insieme e si sostengono a vicenda»).

Non era infatti più sufficiente opporsi ai megaprogetti, ma era giunto il momento di costruire alternative in armonia con la cosmovisione e l’idea stessa di vita dignitosa e sana propria degli abitanti della regione.

Le comunità organizzate nell’assemblea annunciarono in particolare l’intenzione di camminare verso un modello energetico che contribuisca al buen vivir, al yeknemilis in Nahuatl.

Photo by Pablo Rebolledo on Unsplash

Codice Masewal

Dal 2015 al 2018, una riflessione collettiva coordinata da organizzazioni locali come l’associazione di donne Maseualsiuamej Mosenyolchicauanij, l’Unione delle cooperative Tosepan Titataniske e altre, portò alla stesura del Codice Masewal: sognando i prossimi 40 anni, nel quale si dettagliano dieci linee strategiche per la costruzione del «Yeknemilis dei popoli Masewal, Tutunakú e i mestizos della Sierra Nord orientale di Puebla».

Tra queste, la linea strategica dell’autonomia energetica portò all’installazione di pannelli fotovoltaici nelle sedi di ricezione turistica gestita dalle stesse organizzazioni locali, tra cui l’Hotel Taselotzin, varie strutture della cooperativa Tosepan, e alcune case della vicina comunità di Xocoyolo.

L’installazione degli impianti fotovoltaici beneficiò della collaborazione della cooperativa Onergia, con sede nella città di Puebla. Essa, dal 2017, si occupa anche di sviluppare processi formativi su energie rinnovabili e cooperativismo rivolti ai giovani.

Furono inoltre realizzate mappature e inchieste per conoscere i livelli di povertà energetica nelle comunità della regione.

Infine, la progettazione e realizzazione di impianti fotovoltaici adattati alle condizioni meteorologiche locali e al materiale da costruzione, come il bambù, disponibile nella zona.

Autonomia energetica

Dal 2016 a oggi si sono tenute molte formazioni in campo energetico alle famiglie e alle organizzazioni di Cuetzalan per la buona manutenzione dei pannelli solari. L’obiettivo è di fornire conoscenze e autonomia nella loro manutenzione.

Nel 2020, fu sviluppato un percorso di consolidamento della nuova cooperativa locale Tonaltzin, composta da un gruppo di dieci giovani che fornisce servizi elettrici e di riparazione rivolti principalmente alle comunità di Cuetzalan.

Nel 2021, la cooperativa Tosepan e altri partner ottennero un finanziamento del Consiglio scientifico nazionale (Conacyt) per un progetto denominato «Energia per il Yeknemilis nella Sierra Nord orientale di Puebla».

Comunità locali, organizzazioni e accademici lavorano ora insieme per costruire un modello alternativo di gestione dell’energia, a partire dal riconoscimento e dalla valorizzazione della cosmovisione comunitaria e contadina, che contribuisca a vivere secondo il Yeknemilis.

L’Assemblea per la difesa del territorio ha intanto cambiato il suo nome in Asemblea para los planes de vida en el territorio, un nome che sottolinea la necessità non solo di difendere le basi della vita ma anche di costruire collettivamente meccanismi che garantiscano una vita sana e dignitosa, coerente e in armonia con la cosmovisione locale, in un territorio sano.

L’energia come diritto collettivo e bene comune è solo una parte di questo progetto, ed è tanto centrale quanto lo è l’acqua, la terra, la cultura e la madrelingua, il rispetto intergenerazionale e di genere, la dialettica tra il sapere locale e quello scientifico e tecnologico.

Un processo di difesa della vita e di costruzione di saperi e di alternative concrete che sta già ispirando altre comunità e di cui abbiamo tutti e tutte estremo bisogno.

Daniela del Bene


Note:

1- Cuetzlan del Progreso è un comune situato nella Serra Nord orientale dello stato di Puebla. Il comune fa parte di un vasto territorio in cui i popoli Masewal, Tutunaku e i mestizos (meticci) convivono insieme da molte generazioni. Nel caso del comune di Cuetzalan del Progreso, la popolazione è prevalentemente indigena di lingua nahuatl e si identifica come masewalmeh, che letteralmente si potrebbe tradurre come «donne e uomini liberi, orgogliosi della propria identità e del proprio territorio».
Le comunità tutunaku vivono generalmente in zone più isolate rispetto al centro urbano. Il concetto di «mestizos» si riferisce alle famiglie miste o che non si riconoscono propriamente indigene.

2- La Lat consiste nell’installazione, esercizio e manutenzione di una linea di trasmissione ad alta tensione, della potenza di 115 kilowatt (Kw), a doppio circuito, della lunghezza di 10.171,63 metri. La traiettoria del progetto inizierebbe all’incrocio con una linea esistente (Papantla Power-Teziutlán II), e finirebbe sotterranea presso la futura sottostazione elettrica, nel Nord Ovest della città di Cuetzalan, vicino alla strada statale 575. Entrambi i progetti sono stati promossi dalla Commissione Federale d’Elettricità, sostenendo i benefici che porterebbero alla popolazione della zona. Tuttavia, esiste una triste correlazione tra lo sviluppo della Lat e gli altri megaprogetti in corso di attuazione nella Sierra Norte di Puebla, tra cui l’idroelettrico, il minerario e l’estrazione di idrocarburi.

Video:

La Energía de los Pueblos su Youtube.

Link

Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.
www.ejatlas.org
www.envjustice.org
http://cdca.it (atlante conflitti ambientali italia).




Iraq. Una fuga che non si arresta


Dopo gli attentati degli estremisti islamici e una discriminazione mai veramente scomparsa, anche in Iraq la presenza dei cristiani è in costante diminuzione. Come ci hanno confermato sacerdoti e fedeli incontrati in alcune chiese di Baghdad.

Baghdad. È la mattina del 31 ottobre 2010 quando, nel centro della città, si sente una forte esplosione. Un’autobomba salta in aria vicino alla sede della borsa valori, nel cuore della capitale. Due uomini di guardia rimangono gravemente feriti. Le forze di sicurezza si mobilitano, circondano l’area dell’attacco, un elicottero sorvola la scena. Il vero obiettivo però è un altro, questo primo attentato forse serve solo da diversivo.

Ore dopo, nella chiesa siro cattolica di Sayidat al-Nejat (Nostra Signora della Salvezza), una delle più grandi di Baghdad, si sta celebrando la messa.

Cinque uomini appaiono ai cancelli, indossano uniformi da guardia di sicurezza privata. Un’auto bomba deflagra in strada, uno dei cinque si fa esplodere all’ingresso della chiesa. Gli altri quattro entrano sparando sulla folla e prendono in ostaggio 120 fedeli.

Molti si nascondono sotto le panche, altri si mettono in ginocchio. I terroristi urlano di fare silenzio, uno di loro telefona al canale televisivo di Al-Baghdadiya. Dichiarano di essere una cellula affiliata ad Al Qaeda e pretendono la liberazione di alcuni compagni rinchiusi nelle carceri irachene e libanesi.

Nel frattempo, le forze di sicurezza circondano l’edificio, l’elicottero sulla scena dell’attentato alla borsa valori si è spostato sulla zona del nuovo attacco.

Nella chiesa ci sono due giovani sacerdoti che stavano celebrando la messa. Provano a far ragionare i terroristi e tenere calmi i fedeli. Padre Saad Abdal Tha’ir e padre Waseem Tabeeh vengono messi in ginocchio e freddati sull’altare.

Le forze di sicurezza irachene decidono di non negoziare. Irrompono nell’edificio. Si sente un’altra esplosione e un lungo scontro a fuoco.

Quando la chiesa viene liberata e messa in sicurezza, i morti sono 58: due sacerdoti, 46 fedeli, inclusi due bambini e una donna incinta di tre mesi. Un terzo sacerdote presente alla messa, padre Raphael Qatin, morirà in ospedale in seguito alle ferite riportate. Il resto dei corpi sono di poliziotti e terroristi.

Settanta sono i feriti gravi, 26 dei quali, grazie all’intervento della Chiesa, vengono trasferiti a Roma per essere curati.

Quattro anni dopo, quella cellula terroristica affiliata ad Al Qaeda, verrà conosciuta dal mondo come «Isis».

Una strada di Baghdad con, in lontananza, la chiesa armena ortodossa di Meskenta. Foto Angelo Calianno.

Per i cristiani la fuga continua

Oggi la chiesa di Nostra Signora della Salvezza è stata totalmente ricostruita. Le mura che circondano l’edificio sono dipinte con le immagini di papa Francesco, venuto qui in visita a marzo del 2021 per onorare e ricordare le vittime dell’attentato. Per i 46 fedeli e i 2 sacerdoti, il 31 ottobre 2019 si è chiusa la fase diocesana della causa di beatificazione.

Il sagrestano Natiq Anwar, sopravvissuto all’attentato del 2010. Foto Angelo Calianno.

Attorno ai muri, tra scritte e pensieri di pace con le immagini del pontefice, ci sono anche reti metalliche, filo spinato, telecamere di sicurezza e sbarre di metallo. Natiq Anwar è il sagrestano della chiesa, uno dei sopravvissuti all’attacco del 2010 e tra quelli curati a Roma. Mentre mi guida all’interno della chiesa e nella cripta racconta: «È accaduto tutto molto velocemente. Io sono stato ferito da una delle esplosioni, ricordo l’arrivo di questi uomini in divisa, il boato, le urla che provenivano dalla chiesa e tanto sangue ovunque. Sono invalido da allora, ho subito diverse operazioni a reni e fegato e ho gravi problemi di vista».

«Dopo quello che hai vissuto e data l’instabilità della sicurezza nel paese, hai paura che ci possano essere altri attacchi?», gli chiedo. «Sì, io ho sempre paura che possa riaccadere, ogni volta che entro qui e che guardo verso i cancelli, mi immagino che improvvisamente possano ricomparire degli uomini e che tutto si ripeta. Ma sono un servo di Dio, non rinuncio a lavorare qui, questo è il mio posto».

In uno dei cortili della chiesa incontro Burnahnuddin Assaq Ibrahim, uno dei cinque rappresentanti cristiani del parlamento iracheno, una piccola minoranza dei 329 membri.

«Ognuno di noi è responsabile di una provincia. Devo essere sincero però, negli ultimi anni soprattutto, ci sentiamo rispettati. Quando parliamo, i nostri colleghi ci ascoltano e cercano di venire incontro alle nostre richieste. Il vero problema è che i cristiani scappano da questo paese. La paura degli attacchi e l’instabilità causano la fuga. Nel 2003 eravamo quasi un milione e mezzo, oggi siamo circa 300mila. Però noi cristiani, anche se di diverse confessioni, siamo uniti tra noi».

Sono giorni particolari in Iraq, è l’anniversario della morte dell’Imam Musa Al Kadhim, settimo imam e martire sciita seppellito qui a Baghdad.

Per tre giorni, pellegrini sciiti da tutto il mondo arabo e dall’Asia centrale, vengono qui per pregare davanti al grande santuario. Per strada ci sono tende e migliaia di banchetti allestiti con cibo gratuito. I pellegrini arrivano a piedi, a volte camminando scalzi, non solo dalle province irachene ma anche da Iran, Libano, Pakistan, Uzbekistan.

«Ogni anno, solo per organizzare le baracche con il cibo gratuito per i pellegrini, i leader politici di fede sciita spendono migliaia e migliaia di dollari. Tutto questo è una manovra politica per ottenere voti e consensi, molte di queste persone mangiano carne forse una volta l’anno, non hanno mai visto così tanto cibo tutto insieme nella loro vita e arrivano da zone veramente povere», confessa un poliziotto di pattuglia.

Straordinarie sono anche le misure di sicurezza. Le chiese e le comunità cristiane non sono i soli bersagli dei terroristi, ma anche, e di recente soprattutto, i santuari e le moschee sciite. Proprio durante i giorni del pellegrinaggio, puntualmente l’Isis minaccia di attaccare la moschea di Al Khadim. Molti, in questi anni, sono stati gli attentati sventati, ma anche quelli arrivati a segno, come l’autobomba del 2014 che uccise 21 persone, o le granate che, nel marzo 2021, uccisero dieci uomini tra i pellegrini in visita al santuario.

La chiesa di Nostra Signora del Rosario, a Baghdad. Foto Angelo Calianno.

Identità: musulmano o non musulmano

Il parlamentare cristiano Burnahnuddin Assaq Ibrahim. Foto Angelo Calianno.

In questo contesto, con l’attenzione dei media e delle forze di sicurezza concentrata sulle strade del pellegrinaggio, con il traffico, le cucine a cielo aperto, è molto complicato scorgere e raggiungere le chiese cristiane di Baghdad.

Spesso sono situate in quartieri periferici e molti degli edifici religiosi non si differenziano dalle case attorno. Per intravedere una croce, quasi mai visibile da lontano, occorre arrivare molto vicino all’entrata.

Raggiungo la cattedrale latina di San Giuseppe, fondata nel 1632, elevata a sede di arcidiocesi il 19 settembre 1848, dove mi accoglie padre Francis Domenique.

Padre Peter, sacerdote di Sayidat al-Nejat. Foto Angelo Calianno.

La chiesa si affaccia su una strada anonima in un quartiere residenziale, all’interno delle mura però si apre un altro mondo: un campetto da pallavolo, una sala lettura, dei cortili dove i pochi giovani cristiani possono incontrarsi e socializzare.

Uno di questi ragazzi è Raed.

«Non è facile essere cristiani qui. Non dico che viviamo degli episodi di razzismo direttamente, ma, ad esempio, se faccio domanda per un lavoro e c’è un candidato musulmano con la mia stessa preparazione, in questo caso sicuramente si preferirà lui. Oltre a questo, i ragazzi sono davvero pochi, moltissimi vanno via: in Kurdistan o magari in Europa. Ho tanti amici che sono via e mi raccontano come va lì. Non è che hanno una vita semplice, certo, le difficoltà si trovano in tutto il mondo, però sono liberi di professare la propria religione senza imbarazzo o discriminazione. I miei amici all’estero non sono giudicati per la propria religione, questa è una grande libertà che qui non è affatto scontata».

«E tu, se potessi, o magari ci stai pensando, andresti via?». Sorride: «Sì, penso che potrei andare via se mi si presentasse un’occasione».

Padre Dominque Francis, sacerdote di San Giuseppe e Teresa. Foto Angelo Calianno.

All’interno del cortile, impegnato a giocare a pallavolo con i ragazzi, incontro anche Zayed, frate domenicano. «Padre Zayed, com’è la vita dei cristiani oggi in Iraq? Alcune persone, tra le autorità che ho intervistato, mi hanno detto che le varie correnti cristiane sono unite tra di loro. Secondo lei, è davvero così?».

«No – risponde -, non penso che i cristiani in Iraq siano uniti e credo che questa disunione sia una delle cause dei nostri problemi. La discriminazione è reale, come il grande esodo dei cristiani che preferiscono andare via. La verità è che all’estero, anche se in un paese straniero, è comunque più facile che qui. La discriminazione può manifestarsi in diverse maniere, sia diretta che indiretta. Ti faccio un esempio pratico: sui nostri documenti deve esserci scritta la religione, ma si può solo scrivere musulmano o non musulmano. Potrà sembrare cosa da poco, ma è così che poi funziona anche il resto. Le altre religioni non sono contemplate, o sei musulmano oppure no».

La difficile quotidianità dei convertiti

In un altro quartiere periferico, fuori dalla chiesa della Madonna del Rosario, incontro Joseph (nome di fantasia), che mi chiede di mantenere segreta la sua identità.

Joseph è di origine musulmana, ma si è convertito al cristianesimo. Racconta: «In Iraq, la vita più difficile ce l’abbiamo noi che ci siamo convertiti. Io ho sempre voluto essere cristiano, da quando ero bambino e giocavo a calcio con gli altri ragazzini nel cortile di una chiesa qui vicino. Prima di convertirmi dovevo andare in chiesa di nascosto, una volta presa la decisione, la mia famiglia non mi ha più rivolto la parola. Da quel momento sono cominciati tutti i miei guai, lavoravo in un ufficio che aveva relazioni con l’estero e mi è stata fatta molta pressione per andare via. Trovare e mantenere un lavoro è la cosa più difficile per i cristiani in Iraq, per chi come me, poi, si è convertito, è anche peggio».

«Hai mai vissuto episodi di violenza?». «Personalmente, violenza fisica no. Sono stato insultato molte volte, anche dalla mia famiglia. Purtroppo, i miei genitori, fratelli e sorelle, sono stati vittime di vessazioni a causa della mia conversione. Le violenze peggiori si perpetrano contro le donne, soprattutto quelle di origine musulmana che decidono di sposare un altro convertito. La moglie di un mio amico in una zona a Sud del paese, poco tempo fa, è stata vittima di un lancio di pietre perché non portava il velo. Baghdad è più libera da questo punto di vista, ma la discriminazione è dietro l’angolo. Non dimenticarti poi, che in caso di attacco da parte degli estremisti, noi siamo sempre il loro bersaglio preferito».

«L’Isis continua a operare?», chiedo. «Certamente, soprattutto nei villaggi sulle zone di confine. Hanno bisogno di cibo e denaro per finanziarsi. E le comunità cristiane sono viste come una nuova risorsa per ottenere riscatti».

Angelo Calianno*

(*) Dello stesso autore, sul sito MC, si possono trovare due altri reportage dall’Iraq
– aprile 2019
– e maggio 2019.

 


Croce con le foto dei 48 «martiri» uccisi nell’attentato islamista del 2010 nella chiesa di Sayidat al-Nejat. Foto Angelo Calianno.

Cristiani in Iraq, qualche numero

Resistono in trecentomila

In Iraq, il grande esodo della comunità cristiana non si è mai fermato. Nel 2003, erano un milione e 300mila. Oggi, stando alle ultime statistiche, sarebbero soltanto 300mila i cristiani rimasti in questa nazione. Negli ultimi quindici anni, in tutto il paese, sono state più di sessanta le chiese danneggiate o distrutte da attentati terroristici e
conflitti.

Centomila cristiani, provenienti dalla Piana di Ninive a Mosul, occupata dall’Isis fino al 2017, sono stati costretti ad abbandonare le proprie case distrutte dalla guerra e oggi vivono in Kurdistan. Un grande sforzo economico, da parte della comunità cattolica internazionale, è stato fatto per ricostruire case e luoghi di culto a Mosul, con la speranza del ritorno dei fedeli.

La visita di papa Francesco (*), nel marzo dello scorso anno, ha acceso una flebile speranza che le cose possano migliorare. Questa comunità, che per secoli si è sentita abbandonata, con la visita del pontefice per la prima volta si è sentita riconsiderata.

Già Carol Wojtyla aveva programmato un viaggio qui nel 1999. Il progetto poi venne ostacolato dagli Stati Uniti e da Bill Clinton. Questi temeva che la presenza del papa avrebbe rafforzato Saddam Hussein.

Oggi il paese si dibatte tra gli attentati dell’Isis e le milizie filoiraniane tornate molto attive soprattutto dopo la morte del generale Qasem Soleimani, ucciso proprio a Baghdad.

Durante la sua visita in Iraq, papa Francesco ha detto: «Il terrorismo quando ha invaso questo caro paese, ha barbaramente distrutto parte del suo meraviglioso patrimonio religioso, tra cui chiese, monasteri e luoghi di culto di varie comunità. Ma anche in quel momento buio sono brillate delle stelle. Penso ai giovani volontari musulmani di Mosul che hanno aiutato a risistemare chiese e monasteri, costruendo amicizie fraterne sulle macerie dell’odio, e a cristiani e musulmani che oggi restaurano insieme moschee e chiese». Oggi i cristiani in Iraq si dividono tra caldei, siriaci, armeni, latini, melchiti, ortodossi e protestanti.

A.Cal.

(*) Su quella visita: Luca Lorusso, MC, aprile 2021.

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Messico. Per un nome, un volto, una storia


Da anni i buscadores attraversano il Messico in cerca di figli e familiari desaparecidos andando a scavare nelle fosse comuni in cui sono stati gettati da narcos, poliziotti corrotti o semplici delinquenti. Quest’anno la búsqueda (ricerca) ha avuto una dimensione internazionale. Vi ha partecipato anche Ugo Zamburru, psichiatra torinese.

«Tremi lo stato, il cielo, le strade/ Tremino i giudici e la magistratura/ A noi donne oggi tolgono la calma/ Hanno seminato paura, ci sono cresciute ali».

Cantano con dolcezza e determinazione, mentre si preparano per la giornata di ricerca. Sono madri, sorelle, padri che non si rassegnano e da anni attraversano il Messico in cerca dei familiari desaparecidos. Secondo il Prodh (Centro de derechos humanos Miguel Agustín Pro Juárez A.C, fondato dai gesuiti), il Messico sta per raggiungere le 100mila persone scomparse, con oltre 50mila corpi e resti non identificati negli obitori. «Ma i dati ufficiosi parlano addirittura di 200mila desaparecidos, tra messicani e migranti stranieri», dice Ugo Zamburru, psichiatra torinese che ha preso parte alla prima Brigada internacional de búsqueda, svoltasi dal 16 febbraio al 4 marzo negli stati settentrionali di Sonora e Baja California.

«La novità di questa búsqueda (ricerca) è che hanno partecipato familiari e volontari provenienti da tutto il Centroamerica, dal Canada, e il sottoscritto in rappresentanza di una cordata europea – Carovane migranti, Abriendo fronteras, LasciateCIEntrare e la basca Ongi Etorri – continua Zamburru -. Ma soprattutto è stata la prima volta che, oltre alla búsqueda en campo, cioè la ricerca collettiva dei cadaveri gettati nelle fosse comuni, si è realizzata una búsqueda en vida, per ritrovare alcune delle persone scomparse ancora vive».

I buscadores viaggiano su un bus messo a disposizione dalle autorità locali. Foto Ugo Zamburru.

Madri in prima linea

Mappa con gli stati messicani di Sonora e Baja California dove si è svolta la Prima Brigada internacional de búsqueda.

Come in Cile, con l’Associazione delle famiglie dei detenuti scomparsi, e in Argentina, con le madri e le nonne di Plaza de Mayo, le protagoniste delle búsquedas in Messico sono all’80 per cento donne, soprattutto madri in cerca dei figli o delle figlie vittime di sparizioni forzate.

La violenza e le desapariciones in Messico si sono intensificate dalla fine degli anni ‘90 quando, in un paese già egemonizzato dai cartelli della droga, si sono inseriti Los Zetas: soldati scelti dell’esercito nazionale addestrati in Usa e Israele che hanno creato un’organizzazione criminale tra le più spietate e ramificate, «specializzata» nel narcotraffico, nei rapimenti a scopo d’estorsione, nella prostituzione (anche minorile) e in altre attività illecite in tutto il Centroamerica.

Malgrado i tentativi del governo di reagire (come la «guerra alla droga» avviata nel 2006 da Felipe Calderón), negli ultimi vent’anni si è assistito a un crescendo di omicidi, torture e sparizioni. «Molti messicani sono gente onesta, ma c’è una parte significativa di funzionari e poliziotti corrotti, attratti da facili guadagni o spinti dalla paura – spiega Zamburru -. Non di rado delitti e desapariciones sono opera loro».

Com’è stato per il figlio di Cecilia Delgado Grijalva, una delle partecipanti alla Brigada internacional: la sera del 2 dicembre 2018, mentre stava chiudendo il suo negozio a Hermosillo, Jesús Ramón Martínez Delgado, allora trentaquattrenne, è stato caricato su un furgone bianco della polizia di stato e da allora è svanito nel nulla. «Ho subito fatto denuncia al pubblico ministero, ma per due anni nessuno ha indagato; malgrado la telecamera di sorveglianza e i testimoni, hanno sempre negato l’esistenza della pattuglia 073, responsabile del sequestro (in seguito rintracciata e fotografata da Cecilia stessa, nda)», racconta lei, che da allora ha percorso tutto il Messico in cerca del figlio. «Ho perlustrato ospedali, obitori, prigioni, centri d’accoglienza, ho cercato tra la gente di strada, sotto i ponti e nelle discariche, sono entrata nei rifugi dei drogati, mi sono unita ad altre donne che scavavano in cerca dei cadaveri».

E scavando con le sue mani, il 25 novembre 2020, Cecilia ha trovato i resti di Jesús nel quartiere di Altares. «Non ho dovuto aspettare il test del dna, ero certa che si trattasse di lui per l’apparecchio ai denti e perché sul cranio aveva ancora i capelli, i suoi capelli castani con quei ricci che non gli piacevano e che copriva di gel». Jesús Delgado ha lasciato tre figli, la più piccola oggi ha 5 anni. «È lei che soffre di più, piange e mi domanda perché ci ho messo così tanto a ritrovare il suo papà».

Come Cecilia, molte altre madri continuano a partecipare alle búsquedas durante tutto l’anno, pur avendo già ritrovato i propri cari o quel che ne resta. «Finché si va in cerca dei familiari, si riesce a dare un senso alla propria vita perché c’è la speranza di ritrovarli, vivi o morti, pur di non restare nell’incertezza, che è devastante (vedi box). Una volta raggiunto questo obiettivo, allora la missione diventa aiutare le altre donne – spiega Zamburru -. È un meccanismo psicologico di sublimazione per cui si investe in qualcosa di superiore: lo spirito del gruppo, che crea appartenenza, spezza la solitudine e permette di condividere dolore, rabbia e impotenza».

La madre di una scomparsa mostra un cartello con foto e dati della figlia durante una manifestazione a Guadalajara, il 10 maggio 2022; alle sue spalle, decine di manifesti di scomparse e scomparsi. Foto Ulises Ruiz – AFP.

Resti umani e Dna

«Cantiamo senza paura, chiediamo giustizia/ Gridiamo per ogni scomparsa/ Che risuoni forte: Ci vogliamo vive!».

L’inno della cantautrice Vivir Quintana contro i femminicidi echeggia nello scuolabus giallo messo a disposizione dei búscadores dalle autorità di Hermosillo, la capitale di Sonora: uno degli stati con il maggior numero di segnalazioni di scomparsi, oltre 600 l’anno. Inghiottiti dal deserto, 300mila km² (vale a dire quasi quanto l’Italia) dove bastano cinque minuti per perdere l’orientamento, dov’è facile venire aggrediti da criminali o animali pericolosi, oppure morire di sete e stenti mentre si viaggia verso Nord, verso la frontiera con gli Stati Uniti.

In questi territori inospitali «le búsquedas – organizzate di concerto dalle associazioni dei familiari e dalle istituzioni pubbliche – si svolgono con la scorta di polizia, esercito, protezione civile, Comisión nacional de búsqueda ecc., per il rischio sempre incombente di venire assaliti dai narcos e da delinquenti comuni», racconta Zamburru. Già molti genitori sono stati uccisi per aver cercato i propri figli, ma «quando ti tolgono un figlio, non hai più paura di niente», dice Cecilia Delgado. «Le nostre armi sono la pala, il piccone e la varilla».

Quest’ultima è un’asta di metallo appuntita a forma di «T», che si conficca nel terreno per poi annusarne l’estremità: se emana cattivo odore è un «buon» segno, lì sotto potrebbero trovarsi dei cadaveri. A quel punto l’area viene transennata e iniziano gli scavi, fino a un metro e mezzo di profondità. Nel deserto si usano le pale, mentre nelle zone collinari, dove il suolo è più duro (e dove i narcos costringono le vittime a scavarsi la propria fossa), si utilizza il piccone e a volte la scavatrice.

Spesso i buscadores scavano in punti segnalati da telefonate anonime, talvolta attendibili ma più spesso dovute a depistaggi o tentativi di estorcere denaro. Quando vengono individuati resti umani – membra, parti dello scheletro, oppure resti carbonizzati o sciolti nella soda caustica – l’antropologo forense effettua una serie di verifiche, mentre le madri si fanno prelevare il dna, che viene registrato nella banca dati della Comision nacional de derechos humanos.

«Sono rimasto colpito dall’euforia con cui le madri accolgono il ritrovamento dei resti. Sotto il sole a picco, a quasi 50 gradi, io sentivo la fatica, mentre quelle donne esili, provate da anni di sofferenze, continuavano a scavare per giorni, energiche e instancabili», racconta Zamburru.

«L’amore che abbiamo per i nostri figli è più forte del clima, della fame o della paura», dice Charlín Unger, 62 anni, alla ricerca del figlio Carlos Antonio rapito nel 2019 da un commando armato. «I “pezzi” che riusciamo a trovare sono i nostri cari, i nostri tesori preziosi, da trattare con cura e con amore per restituire loro umanità, per dare loro un nome, un volto, una storia».

Gli antropologi forensi effettuano rilievi in un’area in cui sono stati individuati resti umani. Foto Ugo Zamburru.

La polizia messicana

Charlín Unger è cofondatrice insieme a Cecilia Delgado delle Búscadoras por la paz, uno degli oltre settanta collettivi di familiari nati per reazione all’inerzia dello Stato, incapace di garantire la sicurezza dei cittadini e il diritto alla verità e alla giustizia. Sebbene dal 2013 sia stata promulgata in Messico la Ley general de víctimas [vedi box] per contrastare le sparizioni forzate. Tuttavia, le vittime di questi reati sono in continuo aumento e il 99% delle desapariciones rimane impunito.

Come nel caso di Juan Hernández, agente scelto della polizia federale, «prelevato» dal suo albergo nel Nuevo León nel 2011, all’età di 22 anni. La «colpa» di Juan è stata respingere un tentativo di corruzione da parte di un suo superiore in combutta con Los Zetas. «La polizia, senza indagare, voleva che firmassi subito la presunzione di morte, ed è iniziata la tortura delle menzogne, per impedirmi di cercare. Mi hanno anche mostrato un video in cui alcuni criminali tagliavano la gola a quattro poliziotti», racconta la madre di Juan, Patricia Manzanares Ochoa. «In più, quando sparisce un poliziotto federale, non si fanno denunce di scomparsa. La polizia si limita a un verbale interno e, dopo tre giorni, archivia il caso come “abbandono del lavoro”».

Così la donna ha dovuto rimboccarsi le maniche e fare ciò che sarebbe toccato alle autorità, cercare Juan. «All’inizio credi che il governo compia il proprio dovere. Ma non fanno che trascrivere pezzi di carta, non s’impegnano mai in una vera ricerca, così si perde tempo prezioso, sembra quasi lo facciano apposta per far sparire le prove», dice Patricia. «Ho dovuto documentarmi e acquisire conoscenze che non avevo. Se avessi saputo tutto quel che so adesso, avrei trovato mio figlio. Ma noi familiari non siamo avvocati né antropologi, non sappiamo nulla di diritto». In occasione delle búsquedas «le autorità ci accolgono, assistono agli scavi, ma siamo noi che dovremmo osservarli mentre fanno il loro mestiere. Abbiamo uno stato fallito, che viola i nostri diritti».

Parole amare, confermate dai numeri: a fronte di decine di migliaia di desapariciones, in questi anni sono state emesse appena una quindicina di condanne. In aggiunta, le persone scomparse e le loro famiglie vengono ulteriormente vittimizzate. «Succede spesso che si sparga la voce secondo cui, se sono stati uccisi, è perché erano coinvolti in qualcosa di losco, traffico di droga o altro – dice Cecilia Delgado -, ma è una menzogna, io stessa conosco decine e decine di vittime totalmente innocenti: uomini, donne, giovani e anche bambini». Sono 7mila oggi i minori desaparecidos in Messico, quasi tutti vittime di violenze e omicidi (Registro nacional de datos de personas extraviadas o desaparecidas).

Antropologi forensi al lavoro in una zona di scavo. Foto Ugo Zamburru.

la ricerca in ricoveri, discariche, carceri

«Suo figlio si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato», ha concluso la Procura della Repubblica a più di dieci anni dalla scomparsa di Oscar Javier Muñoz Cortés, studente universitario di 21 anni. Il giorno prima di sparire, nel novembre 2008, Oscar aveva difeso una ragazza che stava subendo molestie per strada. L’indomani un poliziotto municipale di Pachuca fu visto mentre lo consegnava a un gruppo armato, che lo prese a botte e lo caricò su un furgone. Il padre, anche lui di nome Oscar Javier, non ha ottenuto nulla di concreto dalle autorità statali né da quelle federali: «Dopo più di dieci anni, hanno anche preso a pretesto la pandemia per bloccare le indagini. Alla fine, sono stati individuati due colpevoli del sequestro, uno è stato scagionato grazie alla madre avvocato e l’altro liberato per presunti motivi di salute».

Oscar è tra i più attivi nella búsqueda en vida che si snoda tra i centri urbani e rurali, distribuendo e affiggendo i volantini con la foto a colori del figlio, la sua descrizione e il numero di telefono se qualcuno avesse notizie. Insieme a lui, le madri e gli altri búscadores cantano, tappezzano muri, pali della luce e alberi con i ciclostilati, fermano e interrogano ogni persona, ripetono la loro storia alla stampa, alla tv locale, alle Ong, a chiunque possa aprire un varco verso la verità. «A noi europei questo modo di procedere un po’ naïf può sembrare una follia – dice Zamburru -, ma è una maniera per non rassegnarsi: alla perdita dei propri cari, alla violenza, al senso d’impotenza che può sottomettere e abbattere».

Una capacità di resistenza che anima il convoglio dei búscadores mentre attraversano i vari punti nevralgici: dal ricovero per migranti Giovanni Bosco di Nogales alla discarica di Puerto Peñasco, dal carcere di Mexicali al Centro per le dipendenze di Rosarito… mai stanchi di domandare, di cercare nel volto di tanti disgraziati tracce di somiglianza con un marito scomparso, con una figlia o una sorella perdute. «In ogni incontro scattano anche dinamiche di solidarietà: le madri spesso portano cibo e abiti ai migranti affamati, ai recicladores delle discariche, a chi vive negli anfratti ai bordi delle autostrade – racconta Zamburru -. È terribile pensare a queste donne, con i figli scomparsi per politiche criminali, e ai tanti infelici abbandonati qui a causa di un sistema economico altrettanto criminale, costretti a lasciare paesi invivibili per la violenza e finiti a vivere nel nulla».

Migliaia di persone in attesa di valicare il confine con gli Usa o deportados che, una volta arrivati nel «paese pavimentato d’oro», sono stati rispediti indietro e ora vivono in strada perché si vergognano di tornare a casa, o perché sono diventati tossici o alcolisti.

Scarpe, pantaloni e uno scheletro umano. Foto Ugo Zamburru.

Una fede incrollabile

Durante la búsqueda internacional sono stati ritrovati 29 desaparecidos morti e 4 in vita, e si sono individuate alcune piste su cui la Comisión nacional de búsqueda sta proseguendo le indagini. Ma le búscadoras e i buscadores non si fermano, vanno avanti nelle loro ricerche per tutto l’anno. «Per fare una vita così, occorrono un coraggio e una fede incredibili. Sono quasi tutti molto religiosi, hanno una grande fede in Dio e fiducia di ritrovare i loro cari malgrado siano passati anni», dice Zamburru. «Ogni mattina, prima di mettersi all’opera, si riuniscono per pregare insieme. Una volta ho domandato come facecessero a credere ancora in Dio, e una madre mi ha risposto che se lei, povera donna ignorante, era lì a impegnarsi insieme a tutti gli altri, doveva per forza esserci un senso».

«A Dio chiedo di darmi la forza per continuare a cercare, perché l’incertezza ti consuma dentro e non ti restano che la tua fede e la speranza, da non perdere mai», dice Patricia Manzanares. «A Lui chiedo soltanto di non lasciarmi morire senza aver prima conosciuto la verità su quanto è successo a mio figlio».

Stefania Garini

Una buscadora con la varilla, l’asta a forma di «T» per sondare il terreno. Foto Ugo Zamburru.

Buone leggi, cattive prassi

Negli ultimi anni, le istituzioni pubbliche messicane hanno tentato di reagire alla violenza e alle sparizioni forzate mediante una serie di misure a sostegno delle vittime e dei loro parenti. Lo stato di Baja California ad esempio, secondo le parole del segretario generale di governo Amador Rodríguez Lozano, si è impegnato nello stanziamento di un «Fondo per la riparazione globale dei danni» con un budget di circa 4 milioni di pesos (circa 186mila euro).

A livello federale, dal 2013 la Ley general de víctimas garantisce la tutela delle vittime con riferimenti circostanziati al rispetto della loro dignità, alla salvaguardia del benessere fisico e psicologico, alle condizioni di sicurezza, al sostegno economico e occupazionale, ecc., sottolineando il diritto fondamentale a ricevere «assistenza, protezione, attenzione, verità, giustizia, riparazione integrale (individuale, collettiva, materiale, morale e simbolica)».

La legge prevede anche un sussidio per i familiari – messicani e stranieri – costretti ad abbandonare casa e lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla ricerca dei desaparecidos. «Un’ottima norma, che però rimane spesso lettera morta», spiega Ugo Zamburru del collettivo Carovane migranti.

Durante la Brigada internacional de búsqueda, insieme ad Ana Gricelides Enamorado, madre e attivista del Movimiento migrante mesoamericano, ha accompagnato alla procura della repubblica di Città del Messico una donna salvadoregna, Silvia Artiga Castaneda, che anni prima aveva denunciato la scomparsa del figlio. «All’epoca Silvia era convinta di aver fatto tutto il necessario, ma abbiamo scoperto che la procura non aveva neppure aperto il fascicolo d’inchiesta. Ufficialmente quel caso di desaparición non esisteva. Quindi, oltre a non fare nulla per cercare il ragazzo, non le avevano riconosciuto alcun sostegno economico».

Attraverso l’intervento di Ana Enamorado e del Movimiento migrante mesoamericano, impegnato nella ricerca dei desaparecidos, nella lotta contro le reti di violenza e le politiche di oppressione dei migranti, e nella capacitación (empowerment) dei familiari, «dopo lunghe trattative e la minaccia di far intervenire un avvocato, si è ottenuto che a Silvia venisse pagato il viaggio e fornito il visto, e si sono attivate le ambasciate di Messico ed El Salvador per occuparsi del caso. Malgrado ciò che le leggi prescrivono, la strada per il rispetto dei diritti resta lunga e difficoltosa».

S.Ga.

Su YouTube

Videopillole della I Brigada internacional de búsqueda di Ugo Zamburru sono disponibili sul canale YouTube di Carovane Migranti: htpps://bit.ly/35dphCg

Scarpe e ossa umane emerse dallo scavo. Foto Ugo Zamburru.

Il lutto impossibile

«Ogni giorno non faccio che pensare a dove possa trovarsi mio figlio, se mangia, se lo picchiano, se è vivo o morto. Voglio trovarlo, ma non voglio trovarlo». Patricia Manzanares Ochoa esprime così quella costante e tormentosa ambiguità che colpisce tutti i buscadores: in bilico tra la volontà di ritrovare le spoglie dei propri cari, uscendo dall’incertezza, e il desiderio di non trovarli per serbare la speranza che siano ancora vivi. Un vortice di pensieri e sentimenti contrastanti tipico di ogni «perdita ambigua», come l’ha definita la psicoterapeuta Pauline Boss negli anni ’70 in riferimento ai familiari dei soldati dispersi in Vietnam. Nella perdita ambigua, l’indeterminatezza della situazione accresce il dolore e ostacola la normale elaborazione del lutto, con possibili esiti patologici (senso d’impotenza, depressione, ansia, conflitti relazionali). Diventano quindi fondamentali la ricerca di significato e la speranza, per sviluppare un approccio costruttivo alla vita e darsi obiettivi realistici.

In questi casi la certezza della morte risulta più accettabile del dubbio continuo. Il riconoscimento ufficiale e i riti collettivi che l’accompagnano possono essere di grande aiuto. Come dice Cecilia Delgado Grijalva, «quando ho ritrovato mio figlio ho provato un dolore straziante; ma sapere che è morto, mettere fine all’incertezza e offrirgli finalmente una cerimonia funebre, in un certo senso ha mitigato le mie sofferenze. Tutte le famiglie e le mamme dovrebbero avere la possibilità di compiere questi gesti di cura postuma, perciò non mi stanco di aiutare gli altri nella loro ricerca».

S.Ga.

Lo psichiatra torinese Ugo Zamburru con Oscar J.M. Cortés (in maglietta bianca), il cui figlio è sparito nel 2008 (due dei rapitori sono stati identificati, ma restano a piede libero).




Obiezione di coscienza: Tu non uccidere


L’obiezione al servizio militare ha una lunga storia. Ne ripercorriamo le tappe principali dalla fine della Seconda guerra mondiale all’approvazione della legge avvenuta in Italia nel 1972. Un’altra difesa non armata e nonviolenta è possibile.

Pietro Pinna, primo obiettore

Il 22 maggio 1947 all’Assemblea costituente si discute dell’articolo 49 (poi 52 nella numerazione definitiva) della Costituzione italiana, quello cioè che statuirà il sacro dovere della difesa della patria e il servizio militare obbligatorio nei limiti e modi previsti dalla legge.

Il momento storico è delicato: il secondo governo De Gasperi è andato in crisi. Ancora non lo si sa, ma l’unità resistenziale tra democristiani, socialisti e comunisti è in procinto di rompersi.

Umberto Merlin, relatore, membro della Democrazia Cristiana, interviene su alcuni emendamenti. Uno di questi, a firma del socialdemocratico Ernesto Caporali, propone il riconoscimento in Costituzione dell’obiezione di coscienza. Merlin lo rigetta con una frase laconica: «Non lo possiamo accettare perché in Italia non esiste una setta di obiettori di coscienza, come quella che esiste in Inghilterra» (si riferisce probabilmente alla Società degli amici, noti come Quaccheri, presso i quali il rifiuto della guerra ha una lunga tradizione).

«Obiezione di coscienza» è, in effetti, un’espressione «esotica», come la definirà nel 1949 il poeta Guido Ceronetti, giovanissimo attivista per il suo riconoscimento. Se il primo paese a legiferare sul tema è stato la Norvegia nel 1900, seguito da Gran Bretagna nel 1916, Danimarca nel 1917, Svezia nel 1920 e Paesi Bassi nel 1922, i paesi cattolici ci arriveranno solo nella seconda metà del ‘900: la Francia nel 1963, il Belgio nel 1964, l’Italia nel 1972, la Spagna e il Portogallo nel 1976.

Di obiettori di coscienza in Italia ce ne sono stati fin dalla Prima guerra mondiale, ma dei loro nomi non si ha notizia. Erano liberi pensatori o, soprattutto, testimoni di Geova: nessuno di loro si è mai definito obiettore.

All’epoca della Costituente, della questione cominciano a discutere alcuni circuiti pacifisti raccolti attorno al filosofo Aldo Capitini e all’ex sacerdote modernista Giovanni Pioli. Ma di fatto l’obiezione è presente solo nei dizionari come calco dall’inglese.

Fermenti cattolici

Foto LaPresse Torino/Archivio storico | Storico, anni ’60, Aldo Capitini

Che l’obiezione di coscienza abbia maggiore diffusione nel mondo anglosassone protestante è cosa evidente. Tuttavia, anche il mondo cattolico comincia a fare i conti con l’adesione al comandamento del non uccidere e dell’amore evangelico. Il cattolicesimo francese, ad esempio, si confronta con le crisi di coscienza legate alla drammatica guerra in Indocina iniziata nel 1946. In Austria, invece, il caso del contadino Franz Jägerstätter, il quale ha rifiutato di prestare servizio militare nella Wehrmacht di Hitler, venendo giustiziato, suscita imbarazzo nell’episcopato: questo, nonostante la sua opposizione morale al nazismo, biasima l’atteggiamento di Jägerstätter rispetto al servizio militare.

A tutte le latitudini, gli obiettori di coscienza pongono questioni non marginali: la sostenibilità della dottrina della guerra giusta in epoca atomica, il ruolo della coscienza del singolo di fronte all’autorità di uno stato che può ordinare crimini immani.

Emerge, inoltre, una tradizione cristiana nonviolenta che affonda le radici nei richiami del Vangelo, ma anche nelle storie esemplari di alcuni santi, come Massimiliano di Tebessa o Martino di Tours.

Il «primo» obiettore

A cambiare l’inerzia della situazione in Italia è un giovane di Ferrara, Pietro Pinna. Egli, pur essendo mosso dalla spiritualità cattolica, si è distaccato dalla Chiesa nella quale non ha trovato conformità tra la sua predicazione e il Vangelo.

Matura la sua scelta mentre svolge il servizio militare nel 1949. Scrive a Capitini, che gli risponde in modo distaccato. Questi, infatti, preferisce che il giovane prenda in completa autonomia la decisione che gli potrà costare la libertà. Quando Pinna decide di obiettare, tuttavia, Capitini gli è a fianco. «Bastò una breve circolare dattiloscritta spedita ai più noti operatori per la pace in Italia, a qualche associazione all’estero, a un parlamentare (il deputato Umberto Calosso), a qualche giornale, per rendere noto il fatto, sì che in pochi mesi, in Italia, divennero popolari […] il termine e il nome dell’obiettore di coscienza n. 1», ricorderà qualche anno più tardi.

A sostegno di Pietro Pinna si muovono Edith Bolling, vedova del presidente americano Woodrow Wilson, Tatjana Tolstoj, figlia del celebre scrittore russo, alcuni parlamentari laburisti.

Al processo di Torino sono presenti le maggiori testate giornalistiche nazionali: molte sono critiche, ma non pochi sono i fogli che sostengono l’obiettore.

A difendere Pinna in tribunale è Bruno Segre, quello che diventerà lo storico avvocato degli obiettori. Il suo giornale «L’Incontro», fondato all’inizio del 1949, si imporrà come una delle voci più presenti nel diffondere le idee degli obiettori.

Pinna è condannato a dieci mesi con la condizionale e nuovamente richiamato al Car di Avellino. Seguono una nuova condanna, l’amnistia, infine la liberazione: al Car di Bari viene, infatti, riformato il 12 gennaio 1950 per una inesistente nevrosi cardiaca, inventata per chiudere il caso.

Padre Ernesto Balducci

Un embrione di dibattito

Nell’ottobre 1949, Umberto Calosso, deputato del Partito socialista dei lavoratori italiani, e il democristiano Igino Giordani presentano un disegno di legge per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, poi insabbiatosi nella Commissione difesa.

Nel frattempo, l’esempio di Pinna è seguito da altri giovani: dal libertario Elevoine Santi e dagli anarchici Pietro Ferrua e Mario Barbani. Proseguono anche le obiezioni dei testimoni di Geova che, tuttavia, non danno risalto al loro gesto.

Presentatosi al primo processo con la Bibbia in mano, Pinna compie un gesto che chiama in causa il mondo cattolico, il quale è attraversato da un forte dibattito. «L’Osservatore romano» rievoca «la più famosa obiezione di coscienza che la storia registri», quella dei terziari francescani, avvenuta nel 1221 a Rimini. Monsignor Carlo Pettenuzzo, docente dell’Istituto internazionale salesiano don Bosco di Torino, su «L’Incontro» definisce il cristianesimo «il più grande obiettore di coscienza».

Su questo embrionale dibattito cala la scure della condanna della «Civiltà Cattolica»: lo stato impone il servizio militare per proteggere la «vita associata»; il cittadino che ne «trae benefici» vi deve obbedire.

Nell’esasperazione delle tensioni della guerra fredda, l’obiezione di coscienza è vista come un cavallo di Troia della propaganda comunista, nonostante il Partito comunista guardi con freddezza, quando non con ostilità, il gesto degli obiettori, avvertito come frutto di una mentalità borghese.

Don Primo Mazzolari

Don Primo Mazzolari

Con lo scoppio della guerra di Corea nel 1950, il dibattito si chiude. Oltre alla voce del gruppo capitiniano, a sostenere gli obiettori rimane quella solitaria di don Primo Mazzolari. Nel suo libro più celebre, Tu non uccidere, pubblicato inizialmente anonimo nel 1955, condanna la guerra con parole che sembrano preconizzare l’enciclica che il futuro papa Giovanni XIII scriverà nel 1963, la Pacem in terris: ogni guerra è sempre «criminale in sé e per sé», mostruosamente sproporzionata, «trappola per la povera gente», «antiumana e anticristiana»; agli obiettori va riconosciuta l’attenzione alla pace come «un’adorazione in ispirito e verità». In un precedente articolo sulla rivista «Adesso», fondata dallo stesso Mazzolari nel ‘49, definisce gli obiettori profeti.

L’anno seguente, nel messaggio natalizio del dicembre 1956, il papa Pio XII usa, invece, ben altre parole. Guardando ai carri armati sovietici nella piazza di Budapest, dichiara: «Un cittadino cattolico non può appellarsi alla propria coscienza per rifiutare di prestare i servizi e adempiere i doveri fissati per legge».

La guerra è follia

«Ci sembra conforme ad equità – si troverà scritto nella costituzione conciliare Gaudium et spes del 1965 – che le leggi provvedano umanamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l’uso delle armi, mentre tuttavia accettano qualche altra forma di servizio della comunità umana». Dal messaggio natalizio di Pio XII a queste parole passeranno nove anni. Dentro la Chiesa il cambiamento sarà epocale.

Ci sarà il papato giovanneo e la Pacem in terris con quell’«alienum est a ratione» (è follia, è impensabile) riferito alla guerra.

La Gaudium et spes raccoglierà il testimone di una nuova attenzione all’obiezione di coscienza al servizio militare tra i cattolici.

Nel 1961, a Firenze, il sindaco Giorgio La Pira proietta il film Non uccidere di Claude Autant Lara, la cui circolazione è stata vietata in Italia dalla commissione censura. Il film racconta una storia realmente accaduta in Francia nel dopoguerra: un tribunale militare, nello stesso giorno in cui condanna Jean Bernardo Moreau, un obiettore di coscienza cattolico, assolve un sacerdote tedesco che durante la guerra ha obbedito all’ordine di uccidere un partigiano francese.

In maniera ben più accesa rispetto al caso Pinna, il mondo cattolico si divide tra chi approva la censura e chi la contesta.

Don Milani

Gozzini, Balducci, Milani

Nel 1962, all’obiettore raccontato dal cinematografo se ne sostituisce uno in carne e ossa, Giuseppe Gozzini, il primo in Italia a richiamarsi esplicitamente al cattolicesimo e alle parole di papa Giovanni XXIII.

All’indomani della condanna di Gozzini, su «La Nazione» interviene l’assistente diocesano della gioventù femminile dell’Azione cattolica, don Luigi Stefani, affinché «i giovani cattolici fiorentini non vengano tratti in errore da un gesto arbitrario che mette il suo protagonista al di fuori delle norme di ubbidienza alle legittime autorità dello stato e quindi contro i principi della morale cattolica». Gli risponde, il 13 gennaio 1963, in un’intervista sul «Giornale del Mattino», padre Ernesto Balducci, sollecitato dagli operai cattolici della Nuova Pignone: secondo Balducci, il rischio di un conflitto apocalittico fa sì che gli obiettori meritino una «silenziosa ammirazione». Per queste parole, il sacerdote viene processato. All’assoluzione in primo grado, segue nel 1964 la condanna in appello per apologia di reato che verrà poi confermata dalla Cassazione. La sentenza suscita scalpore: il «magistrato teologo», come viene definito dal settimanale «Il Mondo», si incarica di fornire quella che a suo dire è l’interpretazione della Chiesa sull’obiezione di coscienza (senza però citare la Pacem in Terris) e accusa Balducci di ricorrere alla frode nel modo in cui presenta la posizione della Chiesa sul tema.

Nel 1965 è don Lorenzo Milani a intervenire in difesa degli obiettori contro il pronunciamento dei cappellani militari toscani in congedo. Questi hanno definito l’obiezione «insulto alla Patria e ai suoi caduti», «estranea al comandamento cristiano dell’amore» ed «espressione di viltà».

In una lettera che diventerà celebre, don Milani stravolge quella forma di religione della patria, proponendone una alternativa. «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia patria, gli altri i miei stranieri». Anche lui viene processato, ma la sua morte, che lo coglie il 26 giugno 1967, interviene prima della sentenza.

Viene invece condannato Luca Pavolini, il direttore del periodico comunista «Rinascita», per aver diffuso la lettera.

Una politica impreparata

Nel suo percorso di avvicinamento all’obiezione di coscienza, la Chiesa cattolica è preceduta da quella valdese.

Già nel 1958, infatti, il Sinodo ha approvato un ordine del giorno di appoggio a «ogni iniziativa che, per il rispetto dovuto ai diritti insopprimibili della persona umana, tende a dare uno stato giuridico agli obiettori di coscienza». È il frutto di un dibattito cominciato negli anni Quaranta.

Il mutamento che attraversa il mondo cristiano è specchio di quello che investe la società. L’antimilitarismo entra nella musica cantautorale. I Cantacronache, i Gufi o Fabrizio De André celebrano con irriverenza il rifiuto della morte eroica e della retorica del valore militare.

Anche i pacifisti riprendono il loro impegno: nel 1961 Capitini li ha radunati in una marcia di 20 chilometri da Perugia ad Assisi. L’anno successivo ha fondato il Movimento nonviolento che si è dotato di un braccio operativo, i Gruppi di azione nonviolenta: a guidarli è stato chiamato Pietro Pinna. Le loro azioni dimostrative nonviolente, spesso chiuse dall’intervento repressivo della polizia, hanno portato la richiesta del riconoscimento dell’obiezione di coscienza nei centri cittadini, attraverso sit in, marce, digiuni.

Intanto un democristiano, Nicola Pistelli, e due socialisti, Lelio Basso e Luciano Paolicchi, nel 1964 hanno presentato alla Camera tre progetti di legge, ma la politica non è ancora pronta.

inizio anni 70 – La foto immortala una manifestazione antimilitarista in via Garibaldi. Non ci sono altre indicazioni. Sul retro è segnalato il nome dello studio fotografico.

Il Sessantotto

Il Sessantotto irrompe nella società italiana raccogliendo istanze maturate nel corso del decennio e rimaste irrisolte. Anche l’obiezione di coscienza ne è coinvolta. Muta il lessico: da una tensione spirituale si passa a una dimensione politica. Nei nuovi movimenti antimilitaristi, nelle dichiarazioni degli obiettori, il rifiuto del servizio militare a favore di un servizio civile da destinare ai più deboli è visto come parte della lotta di classe.

Cambia inoltre la forma dell’obiezione: a partire dal 1971 sorgono gruppi che presentano collettivamente il rifiuto del servizio militare con una dichiarazione congiunta. Divulgano la dichiarazione nelle piazze, decidono il momento della consegna alle autorità, si «auto distaccano» in servizi a favore degli emarginati attendendo l’arresto. Sono cattolici, anarchici, libertari, radicali con un linguaggio comune.

Alle manifestazioni non partecipa più una manciata di giovani, ma centinaia, talvolta migliaia.

A partire dal 1967, tutti gli anni, una marcia antimilitarista sfila da Milano a Vicenza (in seguito sarà da Trieste ad Aviano) passando davanti al carcere di Peschiera del Garda per manifestare solidarietà agli obiettori detenuti.

Alla mobilitazione tradizionale del Movimento nonviolento, orfano di Capitini, morto nel 1968, si affiancano nuovi soggetti, su tutti il Partito radicale. Non mancano i momenti di tensione: durante alcune manifestazioni, i pacifisti sono aggrediti da militanti di estrema destra o dalle forze dell’ordine e sottoposti a processo. Rispetto ad altre iniziative di piazza, in queste il grado di violenza rimane basso e unilaterale.

Attenzione crescente

Anche nel mondo cattolico prorompe dalle nuove generazioni una richiesta di rinnovamento.

Gli orrori della guerra nel Vietnam generano un’attenzione crescente verso il tema dell’obiezione e della nonviolenza che viene incanalata in particolare dal movimento di Pax Christi (nato in Francia nel 1945, arrivato in Italia nel 1954 per desiderio di mons. Montini, futuro Paolo VI), guidato dal 1968 dal vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi.

Tale sensibilità coinvolge anche le gerarchie della Chiesa, le quali già si confrontano con le esperienze radicali della «teologia della liberazione» – della quale diventa simbolo Camillo Torres – che contempla la lotta armata contro l’oppressione.

I pronunciamenti a favore dell’obiezione di coscienza si moltiplicano: Paolo VI vi fa cenno nella Populorum progressio, vescovi come Carraro a Verona e Pellegrino a Torino esprimono solidarietà agli obiettori.

Nel 1971 il Sinodo dei vescovi invita le nazioni a «favorire la strategia della nonviolenza» e a «regolare mediante le leggi l’obiezione di coscienza».

La legge

Il 14 dicembre 1972 la Commissione Difesa della Camera approva finalmente la legge che la riconosce. La mobilitazione della società civile ha coinvolto deputati dei diversi partiti, riuniti dall’indipendente di sinistra Luigi Anderlini in una Lega per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza. Episodio determinante, tuttavia, è il digiuno dei due militanti radicali Marco Pannella e Alberto Gardin che dura 38 giorni coinvolgendo larghe componenti della società civile e ottenendo la solidarietà di personalità della cultura francese e tedesca, tra cui tre premi Nobel. Il clamore mediatico spinge infine la maggioranza ad acconsentire al varo della legge.

Per obiettori e movimenti il successo, però, è amaro. Azione nonviolenta titola «Votata la legge truffa sull’obiezione di coscienza». Il provvedimento, infatti, manifesta le tracce di una certa diffidenza: il servizio civile dura otto mesi in più rispetto al servizio militare, l’obiettore rimane sottoposto al ministero della Difesa e alla giustizia militare, non sono riconosciute le motivazioni politiche, ma solo quelle religiose o filosofiche. Soprattutto, la domanda per il servizio civile è sottoposta al vaglio di una commissione.

Di fatto continueranno ad andare in carcere quegli obiettori che contesteranno l’impostazione della legge rifiutando il servizio civile o autoriducendolo, e gli obiettori non riconosciuti dalla commissione.

People carry a big peace flag during the march for peace from Perugia to Assisi on April 24, 2022 in Assisi. (Photo by Tiziana FABI / AFP)

Un’altra difesa possibile

Nonostante i suoi limiti, la legge 772 rappresenta comunque una cesura: il servizio civile entra nella storia dell’Italia repubblicana, veicolando un’altra idea di difesa della patria: quella non armata. È una conquista ottenuta da un piccolo gruppo: fino al 1972, infatti, gli obiettori sono stati appena 708, dei quali 622 testimoni di Geova.

In un primo momento, l’inerzia del Parlamento che tarda ad approvare un regolamento attuativo del servizio civile permette che questo sia realizzato, in autogestione, dalla neonata Lega degli obiettori di coscienza e da alcune associazioni. Con la definitiva istituzionalizzazione del servizio civile nel 1977, il ruolo degli enti emerge con maggiore ampiezza: entrano in campo organizzazioni come Caritas e Arci.

L’obiezione di coscienza acquisisce allora quella dimensione di massa tanto attesa. Al tempo stesso, però, si riscopre diversa, legata più a una matrice solidaristica che ai principi di antimilitarismo e nonviolenza.

Nonostante le sue palesi contraddizioni, la legge 772 rimane in vigore fino al 1998, quando una nuova legge riconosce l’obiezione come un diritto. La parificazione etica e temporale del servizio civile è ottenuta grazie alla protesta degli autoriduttori che suscita una sentenza della Corte costituzionale.

Infine, nel 2001, il servizio civile diventa volontario.

Una volta esauritasi la spinta dell’obbligo militare, questa storia è forse diventata improvvisamente lontana. Sembra tuttavia tornare, a parlarci, di fronte all’immane dramma che sta funestando l’Ucraina, provocato dalla guerra offensiva di Putin. Ripropone infatti alcuni interrogativi che hanno travagliato la coscienza di quei giovani che desideravano bandire la guerra dall’umanità: la possibilità di una guerra giusta nell’era degli armamenti atomici, il rapporto tra autorità e coscienza, la possibilità di una difesa nonviolenta della patria.

Marco Labbate*

* È dottore di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici e assegnista di storia contemporanea presso l’Università Carlo Bo di Urbino. Collabora con il Centro studi Sereno Regis di Torino.




Taiwan. Vento europeo sullo stretto


La guerra in Europa accelera le dinamiche aperte sullo stretto di Taiwan. Le presunte gaffe di Biden sulla sua eventuale difesa alimentano la retorica dello scontro Cina-Usa. Il presidente Xi vuole risolvere la questione. Ma i taiwanesi cosa vogliono?

Due dicembre 2016.
Donald Trump scrive su Twitter: «La presidente di Taiwan mi ha chiamato oggi per congratularsi per la vittoria nelle elezioni. Grazie». Aggiungendo qualche ora dopo: «Curioso come gli Stati Uniti vendano miliardi di dollari di equipaggiamento militare a Taiwan, ma io non avrei dovuto accettare una telefonata di congratulazioni».

Da quel giorno di poco più di cinque anni e mezzo fa il piano dello «stretto» (qui s’intende lo stretto di Taiwan, braccio di mare che separa l’isola principale alla Cina popolare, con una distanza minima di 143 km, ndr) si è fatto un poco più inclinato. Tendenze e questioni aperte già da decenni hanno subito un’accelerazione, soprattutto a livello retorico, ma anche strategico. Su questo cambio di velocità si innesta anche la guerra in Ucraina, che potrebbe avere effetti indiretti anche sullo stretto.

Il sostegno Usa

Gli Stati Uniti hanno aumentato le dichiarazioni di sostegno a Taipei, sia con l’amministrazione Trump, sia con quella di Joe Biden, dimostrando di avere raggiunto un consenso bipartisan sulla sua importanza strategica. D’altronde, il Pentagono ha cambiato proprio nell’autunno 2021 l’individuazione del rivale strategico numero uno, che è diventato la Repubblica popolare cinese (sostituendo la Russia). Ecco che allora Taiwan diventa più importante che mai, in particolare sul piano commerciale, visto che Taipei è il nono partner di Washington (l’Ucraina solo il 67esimo). Partner dal punto di vista tecnologico, soprattutto per il fondamentale settore dei semiconduttori che è letteralmente dominato a livello globale dai colossi taiwanesi come Tsmc (Taiwan semiconductor manufactoring company), che controllano oltre il 50% della quota globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio.

Dal punto di vista strategico, visto il posizionamento dell’isola principale di Taiwan nella prima catena di isole del Pacifico, è questo il teatro nel quale appare chiaro ormai che si siano spostati i principali interessi geopolitici mondiali. Ma anche dal punto di vista retorico, Taipei è la dimostrazione vivente che la democrazia è possibile con una popolazione di etnia han (maggioritaria nella Cina continentale) da sbandierare alla Repubblica popolare suggerendo il regime change. Ecco allora le leggi per facilitare la vendita di armamenti, l’apertura di un’ambasciata de facto Usa a Taipei, l’eliminazione delle restrizioni auto imposte nei rapporti con ufficiali taiwanesi (decisa da Mike Pompeo poco prima di lasciare il Dipartimento di stato, ma mantenuta da Biden), l’invito della rappresentante taiwanese negli Usa all’insediamento del presidente democratico. Da ultimo, l’aggiornamento dei documenti con i quali il Dipartimento di stato descrive le relazioni degli Usa con Taiwan: è scomparsa la spiegazione della «Politica di una sola Cina», così come la specifica che «gli Stati Uniti non sostengono l’indipendenza di Taiwan».

Oltre alle mosse ufficiali bipartisan, ci sono state anche quelle implicite. Le presunte gaffe di Biden di questi mesi, quando in tre occasioni (l’ultima delle quali il 23 maggio scorso, durante il recente tour in Asia) ha dichiarato che c’è un impegno a difendere Taiwan in caso di aggressione esterna, hanno fatto improvvisamente sembrare la classica «ambiguità strategica» statunitense nei rapporti con Taipei (impegno al sostegno alla difesa della sua indipendenza de facto ma non impegno a intervenire militarmente) un po’ meno ambigua. Così come le ripetute indiscrezioni dei media americani sulla presenza di militari a stelle e strisce su suolo taiwanese avevano generato avvertimenti più minacciosi del solito dal governo di Pechino.

Eppure, Yan, ex militare in pensione, spiega: «Gli americani ci sono sempre stati, almeno da quando sono entrato nell’esercito io. E a mio parere Pechino lo ha sempre saputo». Yan parla di un piccolo gruppo presente «in pianta stabile per addestramento e supporto tecnico» e l’arrivo di una truppa più numerosa «una volta all’anno per un aggiornamento» fatto su una delle isole minori del Pacifico. Una versione che lascia interpretare in modo diverso l’ufficializzazione della presenza di questo contingente fatta a sorpresa dalla presidente Tsai Ing-wen in un’intervista alla Cnn in cui, ammettendo la presenza di alcuni istruttori americani, ha aggiunto: «Ma non sono quanti la gente crede». Ergo, messaggio implicito rivolto a Pechino (che fino ad allora aveva detto che avrebbe interpretato l’azione come una dichiarazione di guerra, ritenendo il suolo taiwanese suolo cinese) è stato: «Sono sempre gli stessi di cui sapete già». E, infatti, da lì le minacce di sorvolo diretto del territorio taiwanese da parte dei mezzi dell’Esercito popolare di liberazione sono svanite.

Le pressioni della Cina

È però innegabile che la Repubblica popolare abbia intensificato le pressioni diplomatiche, propagandistiche e militari nei confronti di Taipei.

Dal 2019 le incursioni dei jet cinesi nello spazio di identificazione di difesa aerea avvengono su base pressoché quotidiana. La quantità e la qualità di queste incursioni aumenta in concomitanza con le novità che si apprendono sui rapporti tra Taiwan e Usa, oppure in occasione di giornate ad alto tasso retorico. Su tutte, le due celebrazioni nazionali a inizio ottobre della Repubblica popolare e della Repubblica di Cina (nome ufficiale di Taiwan, ndr). Così come si sono fatte più frequenti le esercitazioni militari navali sullo stretto. Ma le ripetute dimostrazioni di forza di Pechino stanno provocando un ulteriore allontanamento di Taipei.

Con il discorso di inizio anno del 2019, il presidente cinese Xi Jinping ha aumentato i discorsi retorici, dicendo che la questione taiwanese non può essere tramandata di generazione in generazione e che va risolta, se necessario, «anche con l’utilizzo della forza». Negli scorsi mesi è stato inserito un orizzonte temporale per ottenere il risultato, sia nella terza risoluzione storica, approvata al sesto plenum, che alle due sessioni dello scorso marzo: «Entro la nuova era». C’è chi individua i limiti temporali entro il classico 2049 (centenario della Repubblica popolare), ma chi invece ritiene si parli dell’orizzonte politico di Xi, avvicinando dunque il momento della resa dei conti.

La senatrice Usa Lindsey Hraham (L) rriceve un dono dal presidente Tsai Ing-wen a Taipei. (Photo by Handout / Taiwan Presidential Office / AFP)

Cosa vogliono i taiwanesi

Un momento che la maggioranza dei taiwanesi non vorrebbe arrivasse mai, visto che oltre l’80% di loro, secondo tutti i sondaggi, vede come soluzione ideale (quantomeno per ora), il mantenimento dello status quo.

I taiwanesi guardano con rabbia e timore alle manovre di Pechino, ma osservano (in silenzio) con qualche perplessità anche i colpi di testa americani. A Taipei si dice sempre che con gli Stati Uniti si vuole una «relazione stabile, non un amore passionale». Rassicurazioni, non inviti a camminare su sentieri ignoti. Per questo, a marzo, aveva destato qualche preoccupazione la visita di Pompeo (rigorosamente lontana dai riflettori). In calendario subito dopo l’invasione russa dell’Ucraina, rischiava di innestarsi sulla narrativa del Partito comunista, che, come dopo la caduta di Kabul, ha subito insistito per dire ai taiwanesi: «Smettetela di flirtare con gli americani, nel momento del bisogno vi abbandoneranno come hanno fatto con gli afghani prima e gli ucraini poi». Visto che Pompeo e i trumpiani ascrivono la mossa di Vladimir Putin alla debolezza di Biden, eventuali parole fuori registro dell’ex segretario di Stato avrebbero potuto creare un mix letale per l’opinione pubblica taiwanese. Una delegazione di alti funzionari assemblata in fretta e furia e spedita a Taipei da Biden in anticipo di 48 ore su Pompeo ha smussato gli angoli, consentendo, tra l’altro, una presa di distanze implicita da quello che avrebbe detto anche agli occhi di Pechino.

Taipei come Kiev?

I paragoni tra Taiwan e Ucraina, peraltro, non colgono le profonde differenze che intercorrono tra i due territori. Tutti gli attori in campo hanno caratteristiche diverse. Taipei è un attore economico cruciale a livello globale, ben più di Kiev. Pechino continua a perseguire la «riunificazione» (annessione per i taiwanesi) pacifica, anche perché considera Taiwan parte del suo territorio e dichiararle guerra sarebbe, dal suo punto di vista, come dichiarare guerra a se stessa. Washington ha interessi ben diversi su Taiwan rispetto a quelli mantenuti sull’Ucraina. Se la Cina è il rivale numero uno, Taipei è meno sacrificabile rispetto a Kiev.

I paralleli però ci sono soprattutto a livello retorico, con ricadute sull’opinione pubblica.

«All’inizio dell’invasione russa c’era molta preoccupazione, ma ora il governo taiwanese è almeno in parte sollevato guardando al sostegno ricevuto da Kiev in termini di aiuti militari e sanzioni alla Russia», spiega Jay Chen, capo redattore della Central news agency, agenzia di stampa taiwanese. «Più gli ucraini resistono e più lo fanno grazie all’aiuto dei partner occidentali e più anche i taiwanesi guadagnano convinzione che in un ipotetico conflitto futuro potrebbero fare lo stesso», prosegue Chen.

Recenti sondaggi mostrano che la percentuale di cittadini disposti a combattere per difendere Taiwan è notevolmente cresciuta, anche se è scesa la fiducia in un intervento militare diretto degli Usa in caso di invasione cinese. In questo senso, l’opinione pubblica ora sembra più disposta ad accettare mosse fino a qualche tempo fa impopolari come un’estensione della leva militare e un ampliamento del programma dedicato ai riservisti. Mentre aumentano le richieste agli Usa (anche del Giappone attraverso le parole dell’ex premier Shinzo Abe) di abbandonare l’ambiguità strategica.

Non è un caso che su Taiwan non ci sia spazio per nessun tipo di negoziato. Gli Usa non trattano e fanno passi verso Taipei; Pechino ribadisce che la «riunificazione» è un obiettivo «storico» e considera quella di Taiwan una questione interna. Utilizzando, tra l’altro, la propaganda russa sulla guerra in Ucraina in funzione anti Usa e anti Nato perché le è funzionale in Asia-Pacifico. Così come l’estensione dell’Alleanza Atlantica in Europa orientale ha «gettato benzina sul fuoco» e causato il conflitto in Ucraina, dice la Cina, i tentativi di accerchiamento in corso con le varie piattaforme di sicurezza come Quad (alleanza strategica Usa, India, Giappone e Australia, siglata nel 2017) e Aukus (Australia, Regno Unito, Usa, in partenariato strategico militare dal 2021) gettano benzina sul fuoco in Asia-Pacifico. Ergo: «Se in futuro ci sarà una guerra su Taiwan non sarà colpa nostra».

Si affilano I coltelli

La guerra in Ucraina sta portando Pechino ad aumentare la sua capacità di fuoco e la sua potenza nucleare, nel tentativo di scoraggiare non solo Taiwan a difendersi, ma anche Washington a intervenire. La stessa cosa provano a fare gli Usa facendosi vedere più spesso dalle parti dello stretto e organizzando tentativi di Nato asiatiche. Contestualmente, Xi affila l’arsenale normativo per sottomettere i taiwanesi.

Liste nere (esiste in Rpc una legge antisecessione che sanziona i secessionisti usando le black list, ndr), una possibile futura legge che prenda di mira non più i secessionisti ma tutti coloro che non si prodigano alla riunificazione. Basi legali per ipotetiche azioni militari.

In un complicato gioco di specchi e di deterrenza incrociata, entrambe le potenze percepiscono il rivale voglioso di cambiare lo status quo e dunque si sentono incentivate a testare le rispettive linee rosse. Taiwan, nel mezzo, cerca di non recidere completamente il rapporto con la Repubblica popolare. L’interscambio commerciale, che ha raggiunto il suo record storico nel 2021 nonostante le tensioni politiche, e l’approvvigionamento tecnologico della Rpc (con i grandi colossi che fungono da veri e propri attori diplomatici in assenza di dialogo tra i due governi), sono leve fondamentali alle quali Taiwan non vuole rinunciare, nonostante le pressioni americane. Ad esempio, per i semiconduttori Biden sta cercando di costruire catene di approvvigionamento «democratiche» che escludano Pechino. O, se fosse costretta a rinunciare agli affari con la Cina, chiederebbe garanzie più chiare di una difesa completa agli Usa.

C’è chi ritiene che i rapporti tra Pechino e Taipei abbiano già oltrepassato il punto di non ritorno e che il confronto diretto sullo stretto sia solo questione di tempo, a prescindere da come andrà in Ucraina. Eppure, c’è anche chi vede le cose diversamente. «Se non ci sarà la guerra, il corso degli eventi può nuovamente cambiare direzione», sostiene Chen Kuan-Ting, amministratore delegato del think tank taiwanese NextGen, ben inserito nelle dinamiche politiche locali. «Durante l’era di Hu Jintao i taiwanesi avevano iniziato a guardare alla Cina in un’altra maniera, e tantissimi hanno deciso di andare dall’altra parte dello stretto a lavorare o vivere», dice Chen. «Pechino può ancora riuscire a cambiare la sua immagine, se vuole conquistare il cuore dei taiwanesi, ha tanti modi per farlo. Ma se usasse la forza, quella possibilità si cancellerebbe e ogni rapporto verrebbe tagliato. Come sta succedendo tra Russia e Ucraina», prosegue Chen. Ma in che modo? «Condividiamo la stessa lingua e la stessa cultura, abbiamo rapporti profondi a livello commerciale: i taiwanesi non vogliono essere unificati, ma il dialogo potrebbe ripartire, se il Pcc (Partito comunista cinese) scegliesse di essere più aperto e non mostrare solo i muscoli», conclude Chen. «Non so, magari accadrà quando la Cina avrà un nuovo leader».

Tra pochi mesi, al XX Congresso, Xi dovrebbe però ricevere lo storico terzo mandato. E le lancette della nuova era continuano a scorrere.

Lorenzo Lamperti

Lorenzo Lamperti. Giornalista professionista, è direttore editoriale di China Files, scrive di Asia orientale per varie testate tra cui La Stampa, il Manifesto, Wired e think thank come Ispi.
China Files. È un collettivo di giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici. Nata a Pechino nel 2008 come agenzia stampa focalizzata sulla Cina si è ampliata fino a coprire l’intera Asia. Ha già collaborato con MC. www.china-files.com




Tanzania. Tutte le sfide della presidente


Una nuova presidenza dettata dall’emergenza. In un paese ricco, nel quale però la gente fatica a vivere. Un popolo pacifico con una lingua che lo unisce. Ma cosa è cambiato negli ultimi 50 anni? E quali sono le sue potenzialità oggi?

Dal marzo dello scorso anno, il Tanzania ha una nuova presidente della repubblica, Samia Suluhu Hassan, subentrata d’ufficio al presidente John Magufuli, scomparso improvvisamente il 17 marzo 2021.

Magufuli era stato eletto nel 2015 e, completato un primo mandato presidenziale, era stato rieletto nell’ottobre 2020, quando aveva scelto la Suluhu come vicepresidente. Magufuli aveva gestito male l’emergenza della pandemia da Covid-19, dichiarando eradicata la malattia dal paese già nell’aprile 2020. Quando è morto, a 61 anni, è stato ufficialmente dichiarato deceduto per crisi cardiaca, ma la sua scomparsa, tuttavia, è avvolta nel mistero. Di fatto non appariva in pubblico da oltre due settimane.

Abbiamo parlato del paese con padre Francesco Bernardi, missionario della Consolata e giornalista (già direttore di MC), che ha vissuto due diversi periodi storici nel paese.

Il peso del presidente

«Il Tanzania è una repubblica presidenziale, e questo vuol dire che il presidente ha un peso enorme. Ad esempio, i governatori delle regioni sono nominati direttamente da lui, che può anche rimuoverli. Così come tutti i ministri. È inoltre capo delle forze armate, garante della Costituzione, e molto altro ancora.

Secondo la carta costituzionale non è facile criticare il presidente. È possibile, ma occorrono elementi sicuri per farlo. Questo sistema può dar adito a un presidente autoritario, addirittura dittatore».

«Da circa un anno abbiamo come nuova presidente Samia Suluhu Hassan, donna, musulmana, terza moglie di un tanzaniano. Si presenta bene, parla bene l’inglese, a differenza di Magufuli, e ha un linguaggio molto accessibile. Quando ha preso il posto di Magufuli ha detto: “Le cose non cambiano, continueremo come prima”. In realtà le cose sono molto cambiate. A cominciare dall’atteggiamento nei confronti del Covid. Una delle prime cose che la presidente ha fatto, è stata di vaccinarsi, invitando tutti i cittadini tanzaniani a fare altrettanto. È stata fatta una campagna con manifesti per le strade. Ma la gente non si vaccina. A differenza del Kenya dove il vaccino si è diffuso».

La President del Tanzania Samia Suluhu Hassan Drew Angerer/Getty Images/AFP

Padre Francesco sulla misteriosa morte di Magufuli dice che «è stato ammalato per 17 giorni, durante i quali c’è stato un blackout di notizie. Il primo ministro Kassim Majialiwa diceva di non preoccuparsi, non prendere notizie dai social media. Invece Samia, che era vicepresidente, pochi giorni prima che il suo predecessore morisse, ha detto: “Il presidente Magufuli è un uomo come tutti, e come tutti può anche ammalarsi”. La versione ufficiale è che sia morto per problemi cardiaci, ma qualcuno dice che sia morto per Covid, e altri addirittura per avvelenamento, e che ci sia stato un complotto nel quale c’entra Jakaya Kikwete, il presidente suo predecessore. Ma sono solo voci».

La cosa più eclatante è il cambiamento di politica che la nuova presidente ha messo in atto. In uno dei suoi primi interventi, parlando al giudice federale, garante della Costituzione, ha chiesto di elencare tutte le cose che nel paese non funzionavano. Padre Francesco racconta che il giudice ha iniziato l’elenco partendo da alcuni scandali relativi al lavoro: «Magufuli si vantava dei lavori infrastrutturali che si stavano facendo. È vero che ha realizzato diverse azioni di ammodernamento, di sviluppo, come il progetto di ferrovia ad alta velocità da Dar-es-Salaam a Morogoro. Ma si è scoperto che c’erano un migliaio di operai assunti non registrati. Tutti cinesi e coreani».

Austerità e manganello

Il presidente Magufuli aveva imposto un clima di austerità abbastanza rigido, ad esempio aveva proibito a tutti i ministri di viaggiare all’estero. E lui stesso è andato pochissimo in visita ufficiale. Aveva inoltre eliminato alcune feste nazionali, per risparmiare soldi da investire in opere pubbliche, come risistemare e costruire strade. «Era un intervento populista, però era positivo. Lui si proclamava difensore dei poveri, e in un certo senso lo era. D’altro lato però era una persona autoritaria, come lo è anche Suluhu, ma in termini più sfumati. Ad esempio, se parliamo della polizia, non si sa fino a che punto sia autonoma o sia alle dipendenze del presidente.

Per ogni manifestazione di piazza occorre avere il permesso, ma raramente viene concesso; quindi, non ci sono molti scioperi o dimostrazioni e, se si verificano, la polizia può intervenire anche in maniera molto pesante. Se ci sono dei morti, difficilmente la polizia viene inquisita, c’è una certa impunità».

In Tanzania il parlamento ha un ruolo secondario. Ha prerogative di controllo sul presidente, ma in termini molto blandi. Una delle richieste dell’opposizione è di rivedere la Costituzione. Magufuli si era opposto e anche la Suluhu ha rimandato.

«Il parlamento è sovrano, ma non si sa di cosa – afferma padre Francesco -. Le leggi devono essere controfirmate dal presidente. Ci sono poi casi eclatanti di mancanza di giustizia. Ad esempio, quando le opposizioni sono troppo forti o violente, gli interessati vengono presi e poi scompaiono».

Un paese ricco

Il momento attuale, secondo il nostro interlocutore, è segnato da un’impasse grave: «Il Tanzania è un paese ricco, a differenza di quello che diceva il presidente Julius Nyerere i primi tempi del suo mandato (1964-1985). Ha grandi giacimenti di oro, i maggiori dopo Sudafrica, Ghana e Congo. Ha la tanzanite, che si trova solo sul suo territorio. Ha molto gas naturale».

Rispetto a quest’ultimo, è stato valutato che il Tanzania abbia giacimenti offshore di oltre 1.600 miliardi di metri cubi. È stato recentemente firmato un primo accordo tra la Tanzania petroleum development corporation, l’ente statale di gestione, e alcune multinazionali europee e statunitensi per la realizzazione di un impianto di liquefazione di gas naturale che permetterà di trasportare la materia prima, tramite navi, in qualsiasi parte del mondo. L’investimento sarà di circa 30 miliardi di dollari e dovrebbe dare lavoro a circa 5mila persone. L’impianto entrerebbe in funzione tra 4-5 anni e farebbe diventare il Tanzania uno dei maggiori esportatori di gas naturale al mondo. Con la crisi energetica in corso, a causa della guerra in Ucraina, questo tipo di impianti diventa sempre più interessante. Attualmente il paese ha già tre giacimenti in funzione con una produzione di circa tre miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno.

Il paese è inoltre ricco di acqua. È circondato dai grandi laghi: Vittoria, Tanganika, Niassa, e percorso da grandi fiumi.

Potenzialmente è un paese con enormi possibilità agricole, a differenza del Kenya che importa derrate alimentari proprio dal vicino. Non si tratta però di un’agricoltura meccanizzata, ma svolta a livello famigliare, artigianale.

Un’altra risorsa, poi, è rappresentata dalle bellezze naturali che alimentano una florida industria del turismo: «Il Tanzania è il più grande giardino zoologico del mondo», ricorda padre Francesco.

La popolazione

«La ricchezza maggiore del paese è la popolazione – aggiunge padre Francesco -: pacifica, tranquilla scevra da ogni tribalismo, a differenza di tanti paesi africani, come, ad esempio, Kenya, Uganda, Burundi. È un vantaggio, questo, dovuto alla lingua swahili che unisce.

Inoltre, il Tanzania ha avuto il pregio di raggiungere l’indipendenza in maniera pacifica, senza guerre civili.

I primi missionari, i benedettini, hanno insistito sullo swahili. Poi è venuto in presidente Nyerere, che ha dato un grande impulso a questa lingua, anche dal punto di vista religioso. Lui ha tradotto i quattro Vangeli in un suo swahili particolare, molto popolare.

L’aspetto negativo può essere che si sta indebolendo l’inglese, che è parlato pochissimo e male. Questo è un impoverimento. In parlamento si parla swahili, all’università di parla inglese, ma è un inglese molto povero.

Al contrario di quello che sta avvenendo in Kenya, dove lo swahili sta crescendo ed è di buon livello, in Tanzania si sta mischiando con l’inglese e altre lingue. Le lingue locali, che sono tante, non hanno peso. I giovani delle diverse etnie, parlano tutti swahili, non parlano le loro lingue. In particolare a Dar-es-Salaam, città di sei milioni di abitanti, dove non c’è tanzaniano che non vi abbia un parente».

Livello di vita

Padre Francesco ha il privilegio di poter fare il confronto di due periodi su un arco di mezzo secolo: dalla sua prima esperienza alla sua vita nel paese oggi. Ci conferma che in città la vita è molto cambiata, mentre in campagna un po’ meno.

«La prima volta sono arrivato in Tanzania nel 1973 e vi sono rimasto tre anni. Nel ‘74 lavoravo in un villaggio con un altro padre più anziano. Il giudice del luogo ci ha chiamati a osservare un processo. Al termine avevamo capito tutte le parole, ma non l’argomento. Si trattava di una violenza di un padre su una figlia, un caso nuovo per la società di allora. La parola “violentare”, in quei quattro anni non l’ho mai sentita.

Oggi, invece, il tema è all’ordine del giorno, giornali, televisione, radio. Violenza domestica e sessuale sono diffusissime».

Padre Francesco ci dice che sta avvenendo un cambiamento culturale importante, specialmente tra i giovani. Non sopportano più di stare zitti: «Io sono a contatto con ragazzi e ragazze universitari e laureati che dicono: “Non si può andare avanti così, se vedo cose che non vanno, specialmente per quanto riguarda la giustizia, non sto zitto”».

I giovani sono attratti dalla città, perché sperano di divertirsi e di acquisire una certa istruzione, se sono ammessi all’università, cosa che dipende da come si sono qualificati alle superiori. «Molti studiano informatica e marketing. Ma una volta terminati i tre anni, ci sono ragazzi e ragazze che si danno al commercio di strada, per racimolare qualcosa. Oppure fanno i mototaxi, che provocano tanti incidenti. Ma il guadagno è molto povero. Se riescono a ricavare 3-4 euro al giorno va bene. Lo fanno per sopravvivere».

C’è dunque un livello di reddito molto basso, non c’è fame, ma non c’è circolazione di denaro. Se una famiglia ha un’emergenza, cure mediche da affrontare, o andare a un funerale a molti chilometri di distanza, non ha i soldi per affrontarla. «Molto spesso le persone che lavorano con me, a metà mese mi chiedono un anticipo, perché non hanno abbastanza soldi per pagare il trasporto pubblico e venire al lavoro».

La disoccupazione, specie giovanile, è altissima. La gente si arrangia. Ma non c’è la tendenza a migrare, neppure tra i giovani.

Per chi ha un lavoro, il problema grosso sono i salari bassi. Di solito al primo maggio di ogni anno venivano aumentati, ma la presidente l’anno scorso e quest’anno non lo ha fatto. Oggi lo stipendio medio è di circa 80 euro al mese.

Ma tutti i prezzi stanno aumentando, anche a causa della guerra in Ucraina. Non se ne parla molto, ma l’influenza si vede già. Il costo della benzina e dei generi di prima necessità, come la farina, sono aumentati, anche del 70%. Così pure i mezzi di trasporto».

Alle Nazioni Unite, nella mozione di condanna dell’invasione dell’Ucraina, il Tanzania si è astenuto, mentre il Kenya ha votato contro la Russia. C’era una certa alleanza, molti studenti sono passati da Mosca.

Il Tanzania ha relazioni con la Cina sul piano economico, da sempre. Il Tanganyka (il primo nome del paese, ndr) è stato forse il primo paese che ha avuto rapporti con il gigante asiatico. Durante la guerra fredda, Nyerere ha scelto la Cina. I cinesi hanno costruito la ferrovia che collega il Tanzania con lo Zambia. Oggi la grande maggioranza dei prodotti circolanti sul mercato sono cinesi. La gente li compra perché il prezzo è basso, anche se la qualità è scadente. Ci sarebbero anche prodotti buoni: «Una tanzaniana che conosco stava per aprire un’attività commerciale ed è andata in Cina per vedere cosa importare. Mi ha poi raccontato: “In Cina mi hanno fatto una domanda: signora vuole prodotti scadenti, copie o originali? E mi hanno fatto tre prezzi”».

Bambini scomparsi

Un altro fenomeno di cui ci parla padre Bernardi è quello dei bambini che scompaiono. «Si cercano anche con annunci in chiesa. Cosa c’è dietro? Sono bambini che magari non sopportano l’ambiente famigliare. Alcuni scappano. Altri vengono rapiti, specie le ragazze di 10-15 anni.

Una mamma un giorno mi ha detto: “Mia fglia non c’è più. L’ho mandata da una zia che abita a 600 km ed è scomparsa. Potrebbe essere stata rapita, essere al servizio di una signora o del marito di questa”. La mamma voleva andare a vedere ma non aveva i soldi per pagare il viaggio».

«Quando Nyerere divenne presidente, nel 1961, disse: “Il Tanzania ha tre nemici: povertà, ignoranza, malattia”. Si sono fatti dei passi, ma oggi sono ancora i tre nemici principali. E oggi vedo un quarto nemico: la corruzione.

Io personalmente ritengo che il paese farà strada. Ero in Tanzania 50 anni fa e non c’era nulla. Oggi è cambiato, è andato avanti. Ha delle potenzialità. In quei tempi le persone qualificate erano molto poche. Nel ‘61 quando il Tanganika divenne indipendente, c’erano due studenti, uno di medicina e uno di ingegneria. La qualità però è ancora bassa».

Parliamo di terrorismo islamista, ricordando l’attentato del 1998 all’ambasciata Usa. «In Tanzania non c’è. L’unica incertezza è Zanzibar. Ci sono state, negli anni passati, alcune uccisioni, tra cui un prete, e dei ferimenti. Ma il governo centrale ha il pugno di ferro. Quando ci sono giovani sospetti vengono eliminati. È sempre stato così. Dicono che ai primi tempi di Nyerere ci siano stati due tentativi di colpi di stato, sventati dai servizi segreti, che funzionano molto bene».

La Consolata in Tanzania

«Noi missionari della Consolata abbiamo compiuto 100 anni di presenza in Tanzania (cfr. MC gennaio 2019). Arrivammo nel 1919, al termine della Prima guerra mondiale, quando i tedeschi furono sconfitti e i missionari tedeschi, benedettini, vennero cacciati. A mio parere abbiamo compiuto una grande opera. In particolare, di educazione scolastica: gli stessi figli di Nyerere hanno studiato da noi. Abbiamo costruito missioni con un impegno notevole. Quell’epoca è passata, ora l’Istituto è africanizzato e noi stranieri siamo una minoranza, e siamo anziani.

Oggi abbiamo un’eccellenza che è il centro di Bunju a 35 chilometri da Dar-es-Salaam (cfr. MC luglio 2020). È un centro di formazione culturale missionaria, “un centro per pensare, per far pensare i giovani”. È stato creato per dare una formazione approfondita ai giovani e ai catechisti. Questi sono la forza principale della chiesa.

Allo stesso tempo il centro raccoglie tante persone, di estrazione diversa: i luterani sono i nostri “clienti” migliori, gli anglicani, le Ong vengono a fare incontri. Lo frequentano anche i musulmani, presenti, ad esempio, nei gruppi governativi. E tutti restano molto soddisfatti.

Questo è un punto qualificante che l’Istituto ha in Tanzania oggi. Non è facile portarlo avanti, perché la formazione culturale approfondita non è un’esigenza molto avvertita. Il Tanzania è un paese dove la gente legge pochissimo. Esiste un detto: “Hai un segreto e vuoi che resti tale? Scrivilo, perché nessuno ti legge”. Questo è l’insulto peggiore che possano fare ai tanzaniani! Ma questa è anche la grande sfida: cominciare a far pensare la gente. Io leggo romanzi locali per avere un’idea della società. C’è un abisso tra quello quello che la gente vive nel quotidiano e quello che scrivono i romanzieri, i quali propongono idee anche nuove, magari critiche verso il potere, la tradizione, la cultura. Anche dal punto di vista religioso, non basta avere il rosario al collo, bisogna avere la Bibbia in mano. Leggere e pensare. Come cristiani è la Parola di Dio che deve essere il nostro libro e non i libercoli.

I vescovi tanzaniani, ogni anno, in occasione della Quaresima, scrivono una lettera. Di solito è molto bella, critica. Ma viene ignorata dagli stessi preti. Manca un senso critico verso società, politica, chiesa. Il centro di Bunju vuole preparare la gente a pensare con la propria testa. Per questo motivo abbiamo fondato la rivista Enendeni, che vuol dire Andare, l’unica a carattere missionario, anche un po’ critica. Fa fatica a diffondersi.

Abbiamo poi tante altre opere, come l’ospedale di Ikonda, l’accoglienza dei bambini abbandonati, vicino a Iringa. Ma la novità è questo centro».

Chiediamo a padre Francesco qual è il suo impegno oggi. «Sono ripartito nel 2011 dopo 38 anni a Torino nella redazione di questa rivista. Avevo 68 anni. Ho trovato questo grande paese cambiato. Per prima cosa ho fatto un patto con me stesso: per tre anni non leggere una riga di italiano, non parlarlo, ma solo swahili. E l’ho fatto. Oggi me la cavo. Il mio swahili non è quello della gente, ma più letterario, secondo le regole e la grammatica.

Dopo 11 anni a Bunju, ho preparato il mio successore alla rivista Enendeni, lavorando con lui un anno. Quindi sono andato a fare il viceparroco in una parrocchia di missione, nella parte centrale di Dar. È una zona degradata, una semi favela. Dar ha poche strade di accesso grandi, solo due. Lasci la strada principale, ti metti dentro e sono strade in terra battuta. Vicoli. Ma la gente esce vestita bene».

Marco Bello