Albert Einstein, Tra Nobel e famiglia


La vita del grande fisico tedesco non è stata facile. Problemi familiari, invidie, incomprensioni, accuse (anche di comunismo) non sono mai mancati. Lo ricordiamo a cent’anni dall’assegnazione del premio Nobel (ma non per la sua teoria della relatività).

Il 9 novembre 1922, il Comitato per il premio Nobel per la fisica decise di assegnare, con un anno di ritardo, il premio per il 1921 ad Albert Einstein «per i suoi servizi alla fisica teorica, in particolare per la sua scoperta della legge dell’effetto fotoelettrico».

Il premio assegnato al fisico tedesco venne conferito con un anno di ritardo perché nel 1921 la Reale Accademia delle scienze svedese non aveva ritenuto alcun candidato meritevole del premio, riservandosi il diritto di rivedere la propria posizione in seguito. Fu Allvar Gullstrand, uno dei cinque membri che doveva valutare le candidature, a nutrire particolare ostilità nei confronti della teoria della relatività di Einstein, ancora di difficile comprensione. Naturalmente gli accademici svedesi erano imbarazzati per non aver ancora concesso il massimo onore a uno scienziato così popolare che, dal 1910 al 1922, era stato nominato

annualmente come candidato (ad eccezione del 1911 e del 1915) senza mai ottenere il premio. Fu un altro membro della Reale Accademia delle scienze, Carl Wilhelm Oseen, a trovare la soluzione: dato che non si riusciva a laureare Einstein per la sua teoria della relatività, lo propose per il suo articolo scritto, sempre in quell’annus mirabilis 1905, sull’effetto fotoelettrico.

Einstein apprese la notizia del conferimento del premio il 13 novembre 1922 mentre stava per imbarcarsi a Shanghai diretto verso il Giappone. Con lui c’era la seconda moglie Elsa Löwental, che era anche sua cugina di primo grado. Gli anni felici passati con Mileva Marić, la prima moglie da cui aveva divorziato nel 1919, erano ormai dimenticati e mentre Einstein trovava nuovo slancio nella sua vita privata e scientifica, l’ex coniuge arrancava a Zurigo con i loro due figli Hans Albert ed Eduard (a cui, in seguito, sarebbe stata diagnosticata una forma di schizofrenia).

Un giovane Albert Einstein con la prima moglie Mileva Marić, serba con cui fu sposato dal 1903 al 1919 e da cui ebbe due figli, Hans Albert e Eduard, e una figlia. Foto ETH-Bibliothek Zürich, Bildarchiv.

Tra Svizzera e Serbia

Il centenario del Nobel ad Albert Einstein è l’occasione per ripercorrere i passi compiuti a Berna dall’allora felice coppia Einsten-Marić che lo stesso Albert aveva soprannominato, prendendo spunto dal proprio cognome, «Una pietra» (da «ein», una, e «stein», pietra).

I due si erano conosciuti – lei ventenne lui diciassettenne – nel 1896 all’Istituto politecnico svizzero di Zurigo (oggi Istituto federale svizzero di tecnologia, Eth). La Svizzera era uno dei pochi paesi in Europa dove alle donne era permesso studiare materie scientifiche, ma l’amore sbocciato con Albert non le permise di conseguire il diploma: nel 1902 Mileva rimase incinta e nello stesso anno, a Novi Sad, la città in cui abitava la famiglia di lei e dove si era recata per partorire, nacque una bambina a cui venne dato il nome di Lieserl. Poco dopo, della figlia si

persero le tracce: c’è chi dice che morì, chi invece afferma sia stata data in adozione. Da parte loro, i coniugi Einstein non ne fecero più cenno pubblicamente (l’ipotetica lettera alla figlia scritta da Einstein che circola su internet è un falso).

Nel 1902 Albert, che non aveva potuto seguire la fidanzata in Serbia, si trasferì a Berna occupando un posto nell’Ufficio federale della proprietà intellettuale. Il novello fisico rimase immediatamente estasiato dalla città, tanto da scrivere a Mileva: «Berna è deliziosa, è una di quelle città in cui vivere è confortevole e dove si può vivere bene come a Zurigo».

Einstein vi sarebbe rimasto per i successivi sette anni (traslocando sette volte), ma in questa piccola cittadina sembrava avesse trovato il suo equilibrio vitale. Pertanto, dopo aver acquisito una certa stabilità economica, chiese alla sua amata di tornare in Svizzera e di sposarlo. Lei acconsentì e nel 1903 divenne la signora Einstein.

Passarono i successivi due anni, forse i più tranquilli e felici della loro vita, in un bell’appartamento in via Kramgasse 49, dalle cui finestre era possibile osservare lo Zytglogge, il famoso orologio medioevale che si dice abbia ispirato ad Einstein l’idea della relatività del tempo. Albert lavorava sei giorni alla settimana all’ufficio brevetti, dalle 7 alle 18 anticipando l’uscita alle 17 solo al sabato. Tornava a casa e si rimetteva al lavoro sulla piccola scrivania cercando di completare le sue teorie (la leggenda che Einstein lavorasse alle proprie idee durante gli orari d’ufficio e di nascosto dal suo superiore sembra sia infondata).

Gli Einstein sembravano veramente «una pietra»: affiatati e innamorati, incontravano amici, discutevano di fisica. Nel 1904 ebbero un altro figlio, Hans Albert, e le aspirazioni di Mileva di poter conseguire il diploma e intraprendere la carriera di scienziata si dileguarono definitivamente.

Nell’appartamento di Kramgasse 49, mentre il marito continuava le sue ricerche, Mileva puliva, riassettava, cucinava, accudiva il piccolo Hans.

Poi arrivò il famoso 1905, l’annus mirabilis. In pochi mesi, dal 18 marzo al 27 settembre, Albert Einstein collezionò una serie di straordinari successi pubblicando i suoi articoli sulla più prestigiosa rivista scientifica di allora, gli Annalen der Physics.

Iniziato con l’articolo sull’effetto fotoelettrico che gli sarebbe valso il Nobel, l’annus mirabilis terminò il 27 settembre 1905 con la pubblicazione de L’inerzia di un corpo dipende dal contenuto di energia? in cui compare la famosa relazione tra energia e massa collegandola a un suo precedente articolo pubblicato nel giugno 1905 sulla relatività ristretta.

Einstein con la seconda moglie, Elsa Löwental, con cui rimase fino alla morte di lei, avvenuta nel 1936. Foto The George Grantham Bain Collection.

Contributi ignorati?

La paternità degli articoli che resero famoso Einstein non fu mai messa in discussione fino a quando, nel 1969, Desanka Trbuhovi-Gjuri scrisse una biografia di Mileva Marić in cui asseriva che il contributo della moglie serba nelle teorie di Einstein fosse stato decisivo.

Nonostante non si siano mai trovate prove definitive su questa tesi, da quel volume nacque una fiorente letteratura che sarebbe sfociata anche in serie televisive che rivalutavano la collaborazione scientifica di Mileva alle scoperte del marito.

Oggi, gli studiosi sono pressoché unanimi nell’asserire che la Marić non destreggiasse sufficientemente la matematica per poter assumere un ruolo decisivo nel lavoro di Einstein. Del resto nell’abbondante carteggio di Einstein, in cui compaiono le lettere anche della moglie, non vi sono indicazioni di un coinvolgimento diretto di Mileva.

I rapporti tra i coniugi erano ancora ottimi quando gli Annalen pubblicarono i lavori del fisico tedesco, quindi perché, si chiedono in molti tra storici e scienziati, negli scritti originali della relatività ristretta, Albert Einstein avrebbe ringraziato l’amico Michele Besso per «essere rimasto accanto nel mio lavoro sul problema qui discusso e di cui gli sono debitore per i numerosi e valenti suggerimenti» senza citare la moglie?

Forse, accanto al supporto dato dalla moglie, la grande ingegnosità della mente di Einstein potrebbe essere stata stimolata dalla ricchezza culturale di Berna e dall’atmosfera di tranquilla operosità che la cittadina emanava.

Le passeggiate che sicuramente lo scienziato faceva sulle colline circostanti e nel Rose Garden, dove ancora oggi c’è una panchina con una sua statua, potrebbero aver stimolato la sua visione. Le caffetterie che si aprono sull’arteria principale furono teatro di discorsi con gli amici scienziati. Probabilmente fu in uno di questi locali che Michele Besso introdusse all’amico i lavori di Ernst Mach, decisivi per la futura visione fuori dagli schemi della fisica che accompagnò Albert.

Gli «anni felici trascorsi a Berna», come Einstein avrebbe descritto in seguito quello sprazzo di vita passata nella capitale svizzera, sarebbero rimasti sempre impressi nei ricordi dello scienziato.

A Berna si consolidò anche lo stretto sodalizio con il matematico Conrad Habicht e il filosofo Maurice Solovine. I tre, ai quali talvolta si aggiungeva anche Besso, si riunivano spesso prima nell’appartamento di Gerechtigkeitsgasse al 32 e poi in Kramgasse 49 per discutere non solo di fisica, ma anche di religione, politica, filosofia. Mileva, a quanto avrebbe scritto Solovine, si limitava a osservare: portava in tavola gli stuzzichini (in genere, salsicce, formaggio, frutta), serviva il caffè, il tè senza partecipare alle discussioni. L’Akademie Olympia (Accademia Olimpia), come venne chiamato il gruppo dagli stessi partecipanti, giocò un ruolo essenziale nella formazione eclettica di Einstein. Nel salotto di casa, col sottofondo dello sferragliare dei tram scandito dai battiti dello Zytglogge, i tre discutevano i temi trattati da David Hume, John Stuart Mill, Henri Poincaré, Baruch Spinoza. Di tanto in tanto, Einstein dilettava gli amici suonando il suo violino.

Nel 2005, la casa in cui gli Einstein abitarono venne trasformata in museo, la «Einsteinhaus», mentre il Museo storico di Berna dedicò un’intera sezione alla coppia.

I partecipanti alla conferenza di Solvay del 1927; in prima fila, al centro, un inconfondibile Albert Einstein. Si noti, inoltre, Marie Curie, unica donna tra tanti uomini. Foto International Solvay Institutes for Physics and Chemistry.

 

Maldicenze e invidie universitarie

Berna fu davvero il palcoscenico dove si dipanarono gli anni più spensierati di Einstein. Con la locale università il rapporto fu invece più conflittuale che collaborativo.

Forse Einstein si risentì per il rifiuto ricevuto il 28 ottobre 1907 dalla facoltà dell’ateneo bernese della sua domanda per l’abilitazione all’insegnamento in Fisica teorica. La ricusazione non fu motivata dal rigetto delle sue teorie, come è stato recentemente ipotizzato, ma da un cavillo burocratico: Einstein non aveva presentato la tesi di abilitazione. La espose qualche settimana più tardi perché il 27 febbraio 1908 la stessa università invitò il fisico a una lezione di prova con alcuni studenti. La sua esposizione non sembra fosse stata apprezzata dagli studenti: molti trovarono i suoi concetti interessanti, ma spiegati in modo poco comprensibile e tanti abbandonarono il corso prima della sua conclusione.

Alla fine, ad Einstein venne proposto una Privatdozent che gli permetteva di diventare un docente privato esterno e senza paga, che avrebbe potuto tenere lezioni nelle aule dell’università raccogliendo le tasse di iscrizione ai suoi corsi.

L’esperienza fu però un fallimento: «L’università è un letamaio. Non insegnerò lì, sarebbe una perdita di tempo», scrisse a Michele Besso.

Come molti suoi colleghi, Einstein non riusciva a esprimere con concetti chiari e semplici le sue idee che risultavano astruse al corpo studentesco.

La gloriosa epopea bernese della famiglia Einstein terminò il 6 luglio 1909 quando, a seguito dell’accoglimento della sua domanda di insegnamento al Politecnico di Zurigo, rassegnò le sue dimissioni dall’Ufficio brevetti di Berna e, assieme a Mileva e a Hans Albert, si trasferì a Zurigo.

Qui, a differenza di Berna, il suo essere ebreo lo portò a subire maldicenze da parte dei suoi colleghi. Altra città e altri tempi per il futuro premio Nobel per la fisica.

Piergiorgio Pescali


L’uomo, la religione, le idee

Einstein, ebreo e pacifista

La copertina che Time, la famosa rivista statunitense, dedicò ad Albert Einstein il 1° luglio 1946.

Albert Einstein nacque a Ulm, nella regione tedesca del Württemberg, il 14 marzo 1879 da una famiglia ebrea ashkenazita (da «Ashkenaz», il nome ebraico della regione del Reno, dove gli ebrei di lingua yiddish si stanziarono nel medioevo). A Monaco, dove la famiglia si era trasferita, Einstein frequentò le scuole cattoliche, ma fu un altro ebreo di origine lituana, Max Talmud, a scoprire il suo talento per le materie scientifiche. La passione per la scienza allontanò Einstein dalla religione: in una lettera del 1929 indirizzata a un rabbino, scrisse di credere a un Dio in armonia con gli esseri viventi più che al Dio trascendente della tradizione ebraica.
Questa sua idea di essere supremo panteistico spinoziano lo portò ad abbracciare il suo pacifismo che, assieme al sionismo, ebbe un peso determinante nella vita sociale dello scienziato (nella sfera privata, invece, Einstein non fu così mite e fu un padre assente nella vita dei figli).
Poche volte nella sua vita, Einstein trasgredì la sua vena pacifista: la lettera inviata a Roosevelt in cui chiedeva al presidente Usa di avviare un programma per sviluppare la bomba nucleare, fu una parentesi dovuta al terrore di vedere Hitler trionfare in Europa.
Il Time fu implacabile nel dedicargli la copertina del 1° luglio 1946 in cui lo ritraeva accanto a un fungo atomico. In realtà, l’appellativo di «padre della bomba atomica», che per anni lo rincorse con suo disappunto, fu del tutto ingiustificato, visto che si rifiutò di collaborare al «progetto Manhattan», il programma di ricerca e sviluppo che portò alla produzione dell’arma nucleare. Il suo impegno per il disarmo e per il dialogo tra Usa e Urss gli procurò guai negli Stati Uniti fino a essere accusato di simpatie comuniste.
La nascita dello stato di Israele fu salutata da Einstein con favore, ma rimase sempre scettico sulla partizione tra arabi ed ebrei. L’unica volta che visitò la Palestina fu nel 1922, al ritorno da un viaggio in Giappone. Nel 1952, alla morte di Chaim Weizmann, il suo amico e primo ministro israeliano David Ben-Gurion gli offrì la presidenza dello stato, che il fisico rifiutò.
L’ultima sua grande incursione pubblica fu la firma del «manifesto Russell», la dichiarazione del 1955 (anno in cui Einstein morì) che, partendo dalla constatazione del pericolo posto dagli arsenali nucleari, chiamava i potenti della Terra a cercare una soluzione pacifica dei conflitti. La pubblicazione del manifesto portò anche alla fondazione del movimento Pugwash che si prefigge l’eliminazione delle armi di distruzione di massa nel mondo.

Piergiorgio Pescali

Righi-Einstein e l’effetto fotoelettrico

L’effetto fotoelettrico, motivo del conferimento del premio Nobel per la fisica ad Albert Einstein nel 1922, era già noto da tempo. Fu l’italiano Augusto Righi nel 1888 a dare il nome di fotoelettrico al fenomeno di emissione di elettroni che avviene quando un metallo è colpito da una radiazione elettromagnetica. Quello che Einstein fece, nel suo lavoro intitolato «Un punto di vista euristico sulla produzione e trasformazione della luce», fu di spiegarlo correttamente ipotizzando che la luce fosse formata da piccole particelle, i fotoni, che, trasportando una certa quantità di energia, potevano eccitare gli elettroni di un atomo. Se l’energia trasmessa dai fotoni fosse stata sufficientemente alta, gli elettroni avrebbero potuto liberarsi dal legame che li teneva uniti al loro nucleo.

Grazie al suo articolo, scritto a Berna il 17 marzo 1905 e pubblicato dagli Annalen der Physics il successivo 9 giugno, venne dimostrato che la luce, o meglio i fotoni, potevano comportarsi sia come onde che come particelle. (PP)

Il libro

Piergiorgio Pescali, autore di questo articolo e storico collaboratore di MC, ha pubblicato recentemente un nuovo libro sulla guerra in Ucraina: Il pericolo nucleare in Ucraina, Mimesis Edizioni, Milano 2022.

 

 

 

 

 

 

 




Per una salute che arriva al cuore


Le foreste del Nord Ovest del Congo sembrano l’ultimo posto al mondo dove ci sia bisogno di un centro di cardiologia. Eppure, povertà, violenze, guerre, cibo inadeguato, assenza di cure e uso di bevande acoliche tradizionali creano una situazione sanitaria che ha bisogno di risposte urgenti.

L’«Hôpital notre Dame de la Consolata» a Neisu, è un ospedale rurale situato nell’aerea della chefferie Ndey, territorio di Rungu, provincia dell’Haut-Uélé nella diocesi d’Isiro-Niangara in Rd Congo. Neisu (che nelle mappe si trova ancora con l’antico nome coloniale di Egbita) è a 33 km da Isiro, il capoluogo della provincia Nord orientale.

L’area è caratterizzata da un clima tipicamente tropicale con due stagioni: stagione delle piogge e stagione secca.
La popolazione di Neisu e dintorni appartiene principalmente all’etnia mangbetu e ai Bayogo, un gruppo minoritario di Pigmei. Vive principalmente di agricoltura (arachidi, mais, banane, riso) e allevamento di bestiame (capre, suini, pecore, pollame). L’insieme della popolazione è stimata a più di 80mila abitanti.

Nella parte settentrionale della provincia si trovano miniere di diamanti – perlopiù sfruttate artigianalmente – nelle quali lavorano prevalentemente giovani fra i quali, di conseguenza, è elevata l’incidenza di malattie polmonari e, a causa dell’inevitabile promiscuità, di malattie a trasmissione sessuale, incluso l’Aids.

Le sole vie d’accesso sono le strade, ma in uno stato di completa rovina. Ai tempi coloniali esisteva anche una ferrovia a scartamento ridotto, ora totalmente fuori uso.

Ospedale di Neisu

Nasce l’ospedale

L’ospedale inizia la propria attività a fine 1982 in un capannone vicino al luogo dove si sta costruendo la nuova chiesa con l’arrivo di padre Oscar Goapper, missionario della Consolata argentino che, prima della sua partenza, ha fatto un corso base da infermiere. Padre Oscar, che intanto studia con l’aiuto di un medico locale per migliorare le sue conoscenze sanitarie, fonda un primo dispensario per rispondere al grave abbandono sanitario di tutta la zona. Presto questo diventa «l’Ospedale Nostra Signora della Consolata».

Nel 1986 padre Oscar si iscrive all’università di medicina a Milano continuando a lavorare a Neisu, e riesce, nel 1994, a laurearsi in medicina a pieni voti. L’ospedale fiorisce, ma nel 1998, in piena guerra civile, tutti devono scappare in foresta per salvarsi. Ritornati all’ospedale all’inizio del 1999, riprendono in pieno il servizio per rispondere a una situazione disastrosa.

Contagiato da un’infezione di un paziente che stava curando, padre Oscar muore improvvisamente il 18 maggio 1999. Ma l’ospedale, così necessario in quella zona fuori del mondo, continua la sua attività. La sua fama si estende progressivamente, cosicché i pazienti vengono dalla città di Isiro e da altri centri della provincia per essere curati. Alcuni, attirati dalle infrastrutture e anche dalle possibilità di scolarizzazione per i figli, decidono di stabilirsi a Neisu dopo la propria guarigione.

Ospedale di Neisu – Dipinto con padre Oscar e suor Irene

Alcuni dati

L’ospedale Nostra Signora della Consolata di Neisu ha una capacità d’accoglienza di 190 posti letto, più venticinque letti nella nuova maternità.

Impiega cinque medici, cinquanta fra infermieri e tecnici di laboratorio e radiologia, ed altri quaranta impiegati (servizio amministrativo, addetti alla lavanderia, alle cucine, alla manutenzione alle riparazioni tecniche ecc.).

I servizi offerti dall’ospedale comprendono: ambulatorio, farmacia ospedaliera, laboratorio analisi, radiologia, centro nutrizionale (Centre Bolingo), servizio di medicina preventiva di comunità, unità operative di medicina, chirurgia, pediatria, ginecologia, ostetricia e un nuovo reparto di cardiologia. Inoltre, garantisce terapie e cure preventive (salute materna e infantile, educazione sanitaria, salute comunitaria), oltre a cure per la malaria che diventa epidemica in alcuni periodi dell’anno.

Il bacino di utenza dell’ospedale è di 70mila persone, ma numerosi sono gli afflussi dalle zone confinanti.

Presenza sul territorio

L’ospedale assicura, inoltre, la supervisione del settore Ovest dell’area sanitaria di Isiro, nella collettività di Ndey, Mongomasi e Medje-Mango, circa 1.800 km2, per una popolazione di circa 60mila abitanti, con una rete di sei dispensari e sei postazioni sanitarie che coprono dieci aree diverse. Questi dispensari si trovano in piena foresta e sono un punto di riferimento e consolazione per la molta popolazione che vive lontana da Neisu. Vista l’impraticabilità delle strade, raggiungere questi posti diventa sempre più impegnativo per l’ospedale, e anche costoso per il mantenimento dei vari equipaggi, delle attrezzature necessarie, le medicine e il carburante.

L’ospedale non riceve energia elettrica da fuori e per il funzionamento delle attrezzature mediche viene utilizzato sia il generatore centrale, alimentato a gasolio, sia l’energia fotovoltaica autoprodotta. Segue le politiche e i programmi sanitari del paese, ma non riceve finanziamenti pubblici dal governo e quindi è interamente supportato, a livello economico, dai Missionari della Consolata, con l’aiuto di amici e benefattori. Le entrate dell’ospedale decisamente non bastano a coprire le spese per le medicine (acquistate in Uganda), per gli stipendi e gli alimenti per il centro nutrizionale e la manutenzione.

Ospedale di Neisu

Come vive la gente

La vita nel villaggio, qui a Neisu, in piena foresta, è molto diversa dalla vita nella cittadina d’Isiro. La gente è più povera, vive sulla soglia della sopravvivenza, fa tanta fatica a pagarsi alimenti, medicine, vestiti, e ancor di più a provvedere libri, quaderni e divise scolastiche per i bimbi. Spesso pagano le fatture e le medicine dell’ospedale, anziché in denaro, con prodotti agricoli locali: riso, fagioli, mais. Tutto questo serve poi per il centro nutrizionale e per i poveri che visitiamo ogni giorno. In molti casi, e sono troppi, vista la miseria di certe situazioni, concediamo dei crediti. Di fronte a situazioni d’urgenza, l’unica via possibile è dare un credito per poter salvare una vita. Questi crediti difficilmente si recuperano, ma in certe contingenze è sempre meglio «perdere» (denaro) che lasciare una vita abbandonata alla sua triste sorte.

Altri, non avendo la possibilità di pagarsi tutta la fattura dell’ospedale, lasciano in pegno qualche oggetto, casseruole, piccoli vestiti o una vecchia moto quasi inutilizzabile. Ogni anno, il nostro ospedale si riempie soprattutto di bambini, i più vulnerabili, ma anche di adulti e anziani, colpiti da malaria.

Molti arrivano dai villaggi vicini, ma anche da quelli distanti una sessantina di km. In troppi casi, i pazienti arrivano in situazioni d’emergenza, soprattutto i più piccoli, con anemia severa, per la quale serve subito una trasfusione. Purtroppo, anche in questi casi, molti non hanno i soldi per pagare il sacchetto di sangue, che resta così a carico dell’ospedale.

Il rapporto annuale 2021 documenta che abbiamo curato circa 2.500 persone colpite da malaria e fatto 1.260 trasfusioni.

Ospedale di Neisu

Cardiologia, perché

I malati di cardiopatia e d’ipertensione, in questi ultimi anni sono in continuo aumento e costituiscono una grande sfida a livello sanitario, vista la mancanza di ospedali e medici specializzati in cardiologia, anche nella più vicina città di Isiro.

Le cause principali delle malattie cardiache sono le seguenti:

  • Stress. Il livello socioeconomico basso e l’instabilità politica non permettono alla popolazione di assicurarsi una stabilità di vita, e sono diffuse la precarietà e l’incertezza.
  • La famiglia allargata. Essa domanda che ognuno si prenda cura di tutti i suoi componenti, per cui molti, già in giovane età, devono impegnarsi a cercare i mezzi per un futuro migliore.
  • Le abitudini alimentari. Povere in proteine e troppo ricche di grassi e sale. In primo luogo l’eccessiva consumazione di olio di palma, ricco di colesterolo.
  • L’eccessivo e sregolato consumo di bevande alcoliche di preparazione locale. Il metodo di produzione delle stesse non rispetta minimamente i principi della giusta distillazione, per cui è impossibile quantificare i gradi acolici presenti in esse, che sono spesso molto elevati.
  • Il consumo della noce di cola, che è un forte eccitante.

Queste sono alcune tra le cause più comuni, e sempre in aumento già in giovane età. Abbiamo ricoverato studenti tra i 13 e i 20 anni con problemi cardiologici. Purtroppo molti non sopravvivono.

Ospedale di Neisu

Il nuovo reparto

Grazie alla donazione di una famiglia torinese, nel maggio scorso, abbiamo terminato di costruire un padiglione per la cardiologia, composto da una stanza con una decina di posti letto per uomini, un’altra simile per sole donne, con servizi igienici esterni, lo studio medico e due stanze private con servizi igienici e doccia in camera. Tutto con una cinta di protezione.

Vista la mancanza di cardiologi e medici specialisti in generale, nello scorso mese di aprile abbiamo inviato a Kinshasa, la capitale del paese, per una formazione in cardiologia, una nostra dottoressa e due infermiere, che ad oggi sono ancora in formazione.

Questa è la situazione.

  • Nel 2020 abbiamo trattato 168 pazienti con problemi cardiaci e 108 con ipertensione.
  • Abbiamo ricoverato in medicina interna 64 pazienti con problemi cardiaci e 46 per ipertensione.
  • In terapia intensiva: 14 pazienti con cardiopatie e 13 ipertensione. In questo servizio, sui 72 decessi, 12 sono avvenuti per problemi cardiaci.
  • In medicina interna, su 1.234 ricoverati, 110 sono pazienti con problemi cardiaci e ipertensione. Il 30% dei decessi in medicina interna sono legati a cardiopatie.

Ospedale di Neisu

Ospedale di Neisu

Richiesta d’aiuto

Ora abbiamo bisogno di equipaggiare questa cardiologia.
Finora siamo riusciti a comperare un elettrocardiografo e un ecodoppler. Avremmo bisogno di un monitor, un concentratore d’ossigeno, un holter pressorio ed un piccolo gruppo elettrogeno che ci servirà per far funzionare tutte le apparecchiature mediche necessarie per le varie diagnosi di cardiologia. Più eventuali condensatori di ossigeno per quando il grosso gruppo elettrogeno dell’ospedale è spento. Visti i costi elevati del carburante per far funzionare il generatore centrale dell’ospedale, questo piccolo generatore è indispensabile soprattutto nel pomeriggio o nelle urgenze notturne.

Per il funzionamento saranno necessari 1.500 litri di carburante all’anno. Ci sarebbe utile anche un altro monitor per il reparto di terapia intensiva, visto che ne siamo tutt’ora sprovvisti. Tutte queste apparecchiature e il carburante (il cui prezzo è ormai imprevedibile anche qui da noi) saranno acquistate a Kampala (Uganda).

Come missionari siamo chiamati a essere portatori di speranza, quella speranza che è la tenera ala che sostiene la nostra fede, speranza che ci fa credere nei sogni di altre persone, sogni che non possono spezzarsi in giovane età.

Ivo Lazzaroni
amministratore dell’ospedale


Amici Missioni Consolata

Progetto cardiologia

Sosteniamo gli Amici Missioni Consolata che si impegnano a raccogliere i circa 15mila euro necessari all’acquisto dei macchinari per il reparto di cardiologia di Neisu.

Donazioni attraverso la  Fondazione MCO specificando: «Cardiologia Neisu».

Grazie.

 




È tempo per una nuova Colombia


Dallo scorso 7 agosto il paese latinoamericano è guidato da Gustavo Petro e Francia Márquez, un politico di sinistra e un’afrocolombiana. In queste pagine Angelo Casadei, missionario della Consolata, racconta il proprio stupore davanti a un cambio considerato epocale.

Arrivai in Colombia per la prima volta nel 1986, poco dopo l’assalto e la terribile strage (101 morti) al Palazzo di giustizia di Bogotá, compiuta dal gruppo guerrigliero M-19 (novembre 1985).

In quegli anni, il paese era in pieno boom (bonanza, in spagnolo) della coca e le Farc, il principale gruppo guerrigliero, avevano trovato nel traffico della droga un mezzo per finanziare la loro guerra contro lo stato. Era pure il tempo del grande narcotrafficante Pablo Escobar (1949-1993), che con la sua guerra mise in ginocchio l’intero paese.

Il 9 marzo del 1990 l’M-19 depose le armi (pagando l’accordo con l’assassinio di molti suoi leader) e iniziò a partecipare attivamente alla vita politica: all’assemblea costituente e al rinnovo della Carta costituzionale (1991), nella quale le popolazioni indigene e gli afrocolombiani, fino ad allora invisibili, trovarono finalmente spazio con diritti e doveri.

Il neo presidente colombiano Gustavo Petro (a destra) con l’ex presidente Álvaro Uribe in una riunione avvenuta a Bogotà lo scorso 29 giugno, poco dopo la vittoria elettorale. Foto Gustavo Petro’s Press Office – AFP.

Gli anni di Uribe

Nel 2002, le elezioni presidenziali furono vinte da Álvaro Uribe Vélez che aveva creato un suo partito. Una volta salito al potere, Uribe iniziò una guerra sfrenata contro la guerriglia e in modo particolare contro le Farc, definendo queste un gruppo terrorista davanti alla comunità nazionale e internazionale.

Quando – era il 2005 – per la seconda volta tornai in Colombia, trovai una popolazione esausta per tanta violenza e una guerra di cui non vedeva la fine. Nel 2006, Uribe venne riconfermato presidente governando fino al 2010. Suo successore venne eletto Juan Manuel Santos, già ministro della difesa del suo governo. Santos però si allontanò dalla politica uribista facendosi promotore di un accordo di pace.

Nel 2014 venne rieletto proprio per portare a termine questo percorso di pacificazione che, dopo un lungo e travagliato cammino, si chiuse con gli accordi firmati in territorio neutrale, a Cuba, il 26 settembre 2016.

Nel 2018, alla presidenza del paese arrivò Iván Duque, un altro delfino di Uribe, anzi una sua brutta copia che avrebbe alimentato il malcontento tra la popolazione, soprattutto tra i giovani i quali, mossi anche da gruppi di sinistra, nel 2021 avrebbero organizzato i paros nacionales (scioperi nazionali) contro alcune riforme governative che ancora una volta andavano a favorire il sistema politico vigente e le classi più elevate.

Il 19 giugno 2022 (nel secondo turno elettorale), dopo un’intensa campagna con tensioni e conflitti, il popolo colombiano ha eletto presidente della Repubblica Gustavo Francisco Petro Urrego e Francia Elena Márquez Mina come vicepresidente.

Il villaggio di Hericha, sul fiume Orteguaza (Caquetá). Foto Angelo Casadei.

Una svolta storica

Sicuramente l’elezione di Gustavo Petro e Francia Márquez segna un cambio profondo nella storia colombiana, un punto di rottura nella politica nazionale e internazionale. L’elezione di un ex guerrigliero di sinistra e di una donna afro proveniente da una classe povera è qualcosa d’impensabile fino a qualche anno fa.

La Colombia è stata sempre governata da politici della destra e dai ricchi che dominano il paese fin dall’indipendenza dalla Spagna (luglio 1810). Pertanto, quello che è successo il 19 giugno 2022 è una pagina nuova e inaspettata.

È un fatto che queste elezioni abbiano dato un «giro» completo alla politica della Colombia, un paese «dove si vive il classismo, il razzismo, la violenza e la paura dei poveri», come direbbe la giornalista Yolanda Ruiz.

Esse hanno rappresentato l’emergere dell’«altra Colombia», della Colombia emarginata e messa alla periferia della vita. Esse hanno significato l’emergere di gruppi e settori storicamente discriminati ed esclusi, come sono i giovani, le donne, gli afrocolombiani, gli indigeni, i contadini e le minoranze sessuali.

Analizzando il risultato delle votazioni, un’altra impressione è che il paese ha messo in luce una forte polarizzazione politica sia per il numero di candidati presentatisi sia per le poche migliaia di voti che hanno separato Gustavo Petro dal suo rivale Rodolfo Hernández.

Alla fine di tutto nessuno ignora che l’elezione di Gustavo Petro e di Francia Márquez rappresenta una grande sfida per il paese e per il mondo: per la sua novità e per i possibili ostacoli che si potranno incontrare lungo questo nuovo cammino.

È sicuramente vero che sono molti i rischi che aleggiano sulla presidenza di Gustavo Petro. I maggiori sono la frattura sociale, lo scontento diffuso, la violenza. L’opposizione di certo non lo lascerà governare facilmente, come pure gli enti di controllo, gli apparati della giustizia, i gestori della finanza pubblica, e lo stesso esercito. In una parte dei colombiani c’è, inoltre, il timore che la Colombia intraprenda una strada come quella del vicino Venezuela.

La realtà è molto diversa. Ci troviamo davanti a un popolo lavoratore che, in questi anni, ha sostenuto l’economia, anche nei duri momenti della pandemia. Penso che, se la Colombia avesse voluto un cambiamento, in questo momento storico non avrebbe potuto che trovarlo nel presidente eletto.

La scuola elementare – una costruzione in legno e una in cemento – de La Macarena (Solano, Caquetá). Foto Angelo Casadei.

Una coppia unica

Gustavo Petro ha una grande esperienza politica che ha coltivato e sperimentato prima come sindaco di Bogotà, poi facendo parte dell’opposizione.

Petro è stato anche l’unico dei candidati che avesse un progetto di governo chiaro e preciso che punta molto sulla pace, la giustizia, l’educazione, l’ambiente e sull’appoggio alle classi povere. D’altra parte, per prima cosa, il neopresidente ha chiesto collaborazione all’opposizione per governare insieme e fare crescere il paese.

Al suo fianco, Petro si trova Francia Márquez, altra grandissima novità della storia politica colombiana: un evento nell’evento.

È, infatti, la prima volta che una donna afrocolombiana, proveniente dalle classi povere e madre sola, arriva nelle alte sfere del potere. Si tratta di una forma di rivincita storica del popolo afrocolombiano, discriminato ed escluso. Speriamo che sia questo l’inizio di un grande processo di emancipazione e di consolidamento dell’altra Colombia, quella emarginata, ghettizzata e senza dignità.

L’Uribismo di Iván Duque

Qual è il bilancio sul governo uscito di scena? Non è facile esprimere un giudizio sulla presidenza di Iván Duque. La sua elezione aveva significato il ritorno al potere dell’«uribismo». Duque è stato il successore di Juan
Manuel Santos, un altro discepolo di Álvaro Uribe che però, una volta eletto, aveva preso le distanze dal maestro (soprattutto firmando un accordo di pace mai accettato dall’ex presidente).

Iván Duque è stato eletto presidente come il consacrato di  Álvaro Uribe. Grazie a quest’ultimo, egli è passato dall’anonimato a figura di primo piano nella politica nazionale. Anzi, secondo alcuni, Duque è stato una specie di reincarnazione di Álvaro Uribe e il suo progetto si è identificato con l’«uribismo».

La presidenza di Iván Duque può essere classificata come una sorta d’esperimento. L’apparente improvvisazione nella selezione dei membri dell’esecutivo (con continui cambiamenti) e l’attuazione d’iniziative e progetti estemporanei ne sono la prova.

Sul suo bilancio complessivo ci sono pareri differenti: la presidenza Duque ha cioè generato sentimenti contrastanti, alcuni di approvazione, altri di disapprovazione.

Mons. Luis Castro, missionario della Consolata e intermediario nel processo di pace colombiano, morto lo scorso 2 agosto 2022. Foto Paolo Moiola.

Mons. Luis Castro, costruttore di pace

Nel percorso colombiano verso la pace va ricordato mons. Luis Augusto Castro Quiroga, missionario della Consolata, morto a 80 anni lo scorso 3 agosto. Lui è stato coinvolto in prima persona negli accordi di pace: è stato ai colloqui di Cuba, ha parlato a favore delle vittime, ha dialogato con molti ex guerriglieri. È sempre stato in favore dell’accordo di pace, perché – diceva – «un cattivo accordo è sempre meglio che la guerra».

Non è diventato cardinale di Bogotá perché ha sempre parlato chiaro per la pace e contro la politica di guerra dell’allora presidente Uribe.

A parte l’opera di mons. Castro, in questi ultimi anni, la Chiesa cattolica colombiana ha avuto notevoli cambiamenti impegnandosi di più in ambito sociale.

Nell’ultimo processo elettorale, non si è allineata con nessuno dei candidati alla presidenza. Al secondo turno, ha rispettato le proposte dei candidati rimasti in lotta: quella di Gustavo Petro e quella di Rodolfo Hernández. E ha invitato a esercitare il diritto al voto. In occasione delle ultime elezioni la partecipazione è stata, in effetti, molto alta rispetto alle votazioni precedenti. Finalmente molti giovani hanno esercitato il loro diritto di scelta.

All’inizio della mia seconda esperienza missionaria in Colombia, i superiori mi avevano destinato a Remolino del Caguán (Caquetá), terra di narcotraffico e con una forte presenza di guerriglia. All’epoca, quando m’incontravo con alcuni comandanti delle Farc, tutti mi confermavano che, per cambiare la situazione, bisognava arrivare al potere a tutti i costi e, l’unico modo – argomentavano ,- era attraverso le armi perché il sistema politico colombiano – incentrato su 46 famiglie che da oltre 200 anni detengono il potere – si disinteressava delle classi più povere della nazione.

La storia ha invece preso un cammino diverso con gli accordi di pace, lo scioglimento delle Farc e, infine, la vittoria di un ex guerrigliero e di una donna afrocolombiana.

Il popolo colombiano

Vivendo in questo bellissimo paese ormai da anni, sono stato testimone delle sue mille contraddizioni con un popolo che, da decenni, vive in mezzo alla violenza e all’ingiustizia, ma nonostante tutto rimane pieno di speranza e con una voglia di vivere straordinaria; un popolo accogliente, felice e sempre pronto a fare festa; un popolo lavoratore, mal retribuito ma con una grande capacità di superare le avversità per costruire un futuro diverso e migliore.

Angelo Casadei

 


Archivio MC

Articoli e video sulla Colombia:

Il gesuita padre Rengifo, presidente della Cev, mostra un volume della relazione finale della Commissione da lui presieduta.


La relazione finale della Cev

450.664 morti (ma «c’è un futuro se c’è verità»)

«Portiamo un messaggio di speranza e futuro per la nostra nazione violata e spezzata. Verità scomode che sfidano la nostra dignità, un messaggio per tutti come esseri umani, al di là delle opzioni politiche o ideologiche, delle culture e delle credenze religiose, dell’etnia e del genere». E ancora: «Invitiamo a guarire il corpo fisico e simbolico, multiculturale e multietnico che formiamo come cittadini e cittadine di questa nazione».

Sono due passaggi iniziali di Hay futuro si hay verdad, la relazione finale della Commissione della verità (Comisión del esclarecimiento de la verdad, Cev), presentata a Bogotà lo scorso 28 di giugno. Un lavoro di ricostruzione storica presieduto dal sacerdote gesuita Francisco José de Roux Rengifo, durato quattro anni e passato attraverso migliaia di interviste a testimoni, vittime e carnefici.

i numeri della guerra

«C’è un futuro se c’è verità» sarebbe una lettura appassionante se non fosse il «racconto» di una guerra interna che, tra il 1985 e il 2016 (anche se, in realtà, il conflitto colombiano ebbe inizio già negli anni Sessanta), ha prodotto 450.664 omicidi (80% civili, 20% combattenti, 91% uomini, 9% donne).

Secondo i dati raccolti dalla Cev, i responsabili di questi morti sono per il 45% i paramilitari, per il 21% le Farc e per il 12% le forze dello stato.

Gli omicidi, però, sono soltanto uno degli aspetti della guerra civile. Sono stati conteggiati 121.768 casi di scomparsa (desaparición forzada) e 50mila sequestri (opera questi al 40% delle Farc e al 24% dei paramilitari). Senza dimenticare i reclutamenti forzati: sono stati almeno 30mila le bambine e i bambini reclutati attorno ai 15 anni per entrare nelle Farc o nei gruppi paramilitari.

Infine, un altro numero drammatico: 7.752.964 persone sfollate (più del 10% della popolazione colombiana), con il 51% di adulti e il 49% di minori, 52% di donne e 48% di uomini. Una «moltitudine errante» che ha dovuto abbandonare case, terreni, animali, amicizie. Oltre che per i contadini (campesinos y campesinas, dice la relazione), il conflitto armato è stato particolarmente distruttivo per le comunità etniche, indigene e afrocolombiane.

La sfida odierna

Il primo volume (su 10 totali) della relazione finale si chiude parlando di riconciliazione. «Riconciliazione significa accettare la verità come condizione per la costruzione collettiva e superare il negazionismo e l’impunità. Significa prendere la decisione di non uccidersi mai più e togliere le armi dalla politica. Significa accettare che siamo molti – in varia misura, per azione o omissione – i responsabili della tragedia. Significa rispettare l’altro, al di là dei retaggi culturali e della rabbia accumulata. Che non ci sia più impunità. Che quelli che continuano la guerra lo capiscano che non hanno il diritto di continuare a farlo […]. Che dobbiamo costruire dalle differenze con speranza e fiducia collettiva».

Il lavoro della Cev è stato straordinario ed encomiabile. Ora, però, arriva il difficile: passare dalle parole ai fatti, dalla guerra alla costruzione della pace. Vedremo se i colombiani ne saranno capaci. Vedremo se Gustavo Petro e Francia Márquez saranno in grado di spingere il paese nella giusta direzione. Detto questo, è inutile negare quanto la speranza tende a nascondere: la sfida sarà enorme. Come già hanno mostrato le prime settimane di governo: il 2 settembre, sette agenti di polizia sono stati uccisi in un attentato nel dipartimento di Huila.

Paolo Moiola

Immagine simbolica dell’espansione economica di Pechino in America Latina, spesso subentrando a Washington. Foto CBN News.


 Le relazioni internazionali dei governi latinoamericani

Da Washington a Pechino?

La nuova Colombia nata con l’elezione di Gustavo Petro va ad allungare l’elenco di paesi latinoamericani guidati da rappresentanti delle sinistre. Ad oggi, infatti, sono in carica Andrés Obrador in Messico, Alberto Fernández in Argentina, poi Luis Arce in Bolivia, Pedro Castillo in Perú, Xiomara Castro in Honduras, Gabriel Boric in Cile, oltre ai tre leader più discussi: Nicolás Maduro in Venezuela, Miguel-Diaz Canel a Cuba e, soprattutto, Daniel Ortega in Nicaragua. In attesa dei risultati delle elezioni di questo ottobre quando, in Brasile, l’ex presidente Lula potrebbe sostituire Jair
Bolsonaro, uomo dell’ultradestra, distruttore dell’Amazzonia e imputato di genocidio.

Sono presidenti di sinistra (pur con una pluralità di sfumature, anche consistenti, di rosso) che si trovano a governare paesi con alcuni tratti comuni. Il primo è dato da società caratterizzate da enormi diseguaglianze con i ricchi che s’intascano la gran parte delle ricchezze, come raccontano i rapporti delle Nazioni Unite (Pnud). Una disparità sociale ed economica che viene amplificata dal colore della pelle e dall’etnia: afrodiscendenti e indigeni sono sempre discriminati rispetto ai bianchi e ai meticci, come ha evidenziato anche la pandemia da Covid-19.

Altro tratto comune è la religione cristiana e la sua influenza sulle società latinoamericane. Tutti i paesi sono a maggioranza cattolica, ma le nuove Chiese evangeliche e pentecostali, schierate a destra (senza se e senza ma), stanno crescendo anno dopo anno, spostando milioni di voti.

La tela cinese

E poi c’è il rapporto con gli Stati Uniti, un rapporto che potremmo definire di odio e amore. Odio che nasce dagli errori storici fatti da Washington nel continente, a iniziare dal golpe cileno del 1973. Amore perché è in quel paese che milioni di latinoamericani vorrebbero trasferirsi (come dimostrano le ininterrotte ondate migratorie). Nel frattempo, negli ultimi decenni, in America Latina è arrivata in forze la Cina con il suo capitalismo di stato. Verso Pechino non esiste (e probabilmente mai esisterà) un’attrazione, ma c’è un forte interesse economico per i suoi investimenti nell’area. Com’è stato confermato nel corso del 14.mo Summit dei Brics (l’alleanza a trazione cinese tra Brasile, Russia, India, Sudafrica e appunto Cina), organizzato da Pechino lo scorso 23 giugno.

Gli Stati Uniti e i paesi occidentali (con l’Unione europea in testa) possono ancora recuperare il terreno perduto in America Latina. Se faranno emenda degli errori del passato e se metteranno da parte gli atteggiamenti neocolonialisti, puntando invece su relazioni di pari dignità.

Paolo Moiola

Verso il porticciolo di Hericha sul fiume Orteguaza (Solano, Caquetá). Foto Angelo Casadei.




Brasile. «Ma il futuro è indigeno»


Questo mese il Brasile sceglierà il proprio presidente tra Bolsonaro e Lula. Gli ultimi quattro anni sono stati drammatici per il paese. Anche per questo, la «Commissione pastorale della terra» (Cpt) e il «Consiglio indigenista missionario» (Cimi) sono sempre stati in prima linea.

È prassi consolidata che le promesse fatte durante le campagne elettorali vengano dimenticate o sminuite appena la tornata elettorale sia terminata. Come sempre, ci sono però delle eccezioni. Nel 2018, il candidato Bolsonaro promise «di non demarcare un altro centimetro di terre indigene» (não demarcar mais nenhum centímetro de terras indígenas). Dopo quattro anni di governo, non soltanto quella sua promessa è stata mantenuta, ma è andata ben oltre. Infatti, è stata permessa e incentivata l’invasione delle terre indigene da parte di garimpeiros, grileiros, latifundiários e madeireiros. Sempre nel 2018, il candidato Bolsonaro disse: «Per l’amor di Dio, oggi un indigeno costruisce una casa in mezzo alla spiaggia e arriva la Funai a dire che ora lì c’è una riserva indigena. Se sarò eletto, darò alla Funai un coltello, ma al collo. Non c’è altro modo».

Anche questa promessa è stata mantenuta: la «Fondazione nazionale per l’indio» (Funai) è stata smantellata e trasformata in una organizzazione anti indigenista (Ina-Inesc, Fundação anti-indígena. Un retrato da Funai sob o governo Bolsonaro, giugno 2022).

Un arcobaleno illumina il cielo sopra la aldeia Xihopi (Tiy, Amazonas, maggio 2022). Foto Christian Braga – ISA.

«Dio, patria e famiglia»

Bolsonaro si è presentato alle elezioni del 2022 forte dell’appoggio dei suoi due eserciti: quello ufficiale dei militari (suo vice designato è il generale Braga Netto) e quello ufficioso delle Chiese neoevangeliche (o evangelicali).

Tanto che, alla convention per il lancio della candidatura alla rielezione (lo scorso 24 luglio), il primo intervento è stato quello di Marco Feliciano, deputato federale e pastore evangelico, che ha parlato di una battaglia del bene contro il male e della vittoria di Bolsonaro in nome di Gesù. Insomma, la campagna del presidente uscente è ripartita da «Dios, patria e familia», seguendo il canovaccio scelto anche dall’ex presidente Donald Trump e da molti politici europei.

Abituata a un dibattito interno e ad assumere posizioni più scomode, la Chiesa cattolica del Brasile non ha dato indicazione su chi votare, ma è intervenuta sui temi specifici. Detto questo, alcuni suoi organismi non hanno fatto mistero di non volere la rielezione di Bolsonaro. La Commissione pastorale della terra (Comissão pastoral da terra, Cpt), nella sua Carta pública. Manifesto sobre as eleições 2022, ha parlato della gravità del momento e denunciato con parole chiare l’autoritarismo del governo uscente, guidato da «un ex capitano espulso dall’esercito». E ha dichiarato di appoggiare «candidature contadine o  candidati impegnati nell’agenda della riforma agraria, della demarcazione delle terre indigene e dei territori dei popoli e delle comunità tradizionali, dell’ecologia e dell’agroecologia e della vita dignitosa nelle campagne, nelle acque e nelle foreste».

La copertina del rapporto 2022 del CIMI.

Per parte sua, il Consiglio indigenista missionario (Conselho indigenista missionário, Cimi) non si è smentito continuando a dare un contributo essenziale alla causa indigena e amazzonica, sempre cercando di evitare posizioni neocolonialiste o paternalistiche. Per esempio, l’arcidiocesi di Porto Velho, guidata da dom Roque Paloschi, presidente del Cimi, a luglio ha ospitato leader indigeni e rappresentanti di Cimi, Cpt, Via campesina e Caritas brasiliana per l’incontro «Ascolto sinodale, riflessioni e prospettive di azioni in difesa dell’Amazzonia». L’obiettivo era quello di riflettere – si legge nel documento finale – «sull’attuale congiuntura delle politiche pubbliche di natura genocida, ecocida, etnocida e della persecuzione e criminalizzazione dei movimenti e delle organizzazioni sociali, nonché dei leader indigeni e rurali e dei difensori dei diritti umani, sociali e ambientali». Si parla di una «legalizzazione dell’illegalità» da parte del governo Bolsonaro, come sta accadendo per l’attività mineraria nelle terre indigene o l’utilizzo di agrotossici cancerogeni, proibiti fuori dal Brasile.

A metà agosto è invece uscito l’annuale rapporto del Cimi, Relatório – Violência contra os povos indígenas no Brasil, Dados de 2021. Come previsto, contiene tantissime notizie negative: d’altra parte, sotto il governo Bolsonaro la situazione non poteva che peggiorare. Tuttavia, scrive Antônio Eduardo Cerqueira de Oliveira, segretario esecutivo del Cimi, il movimento indigeno non è rimasto a guardare scendendo in strada a Brasilia e in tutto il Brasile.

Da parte sua, il presidente Dom Roque chiude la propria presentazione con queste parole: «Dobbiamo denunciare la brutalità e la codardia dei tiranni che mutilano le vite sulla madre terra, che profanano e assaltano i luoghi sacri dei popoli. Continueremo a protestare e combattere, senza risparmiare gli sforzi, per la fine della violenza e il rispetto della vita. Basta con le atrocità».

L’aldeia Xihopi in una spettacolare vista dall’alto. Foto Christian Braga – ISA.

«Sì, anch’io posso agire»

Come abbiamo visto, informarsi in maniera seria sull’Amazzonia e sui popoli indigeni è possibile. Tuttavia, come sempre, l’enormità delle questioni può spaventare e far dire: «Ma io come posso essere utile?». Le strade ci sono. Per esempio, l’ultimo rapporto (è del luglio 2022) pubblicato dall’«Osservatorio dell’agroimpresa in Brasile» (De olho nos ruralistas. Observatório do agronegócio no Brasil) indica con nome e cognome le imprese, brasiliane e internazionali, che finanziano l’allevamento bovino causa primaria del disboscamento dell’Amazzonia, casa dei popoli indigeni e scrigno naturale del mondo.

Un’altra inchiesta condotta da Repórter Brasil (25 luglio) ha seguito il percorso compiuto dall’oro estratto illegalmente in Amazzonia (Terra indigena Yanomami e Terra indigena Kayapó). È stato scoperto che quell’oro passa per le imprese di raffinazione Chimet (Italia) e Marsam (Brasile) e finisce nei prodotti (cellulari e computer) di Apple, Microsoft, Amazon e Google.

Informarsi compiutamente e rifiutare i prodotti delle imprese non etiche e non trasparenti sarebbe già un’utile scelta politica e un concreto comportamento ambientalista. Indipendentemente da chi, tra Lula o Bolsonaro, entrerà nel Palácio do Planalto, a Brasilia.

Paolo Moiola


Il libro

Laboratorio Amazzonia

La copertina di «Amazzonia. Viaggio al tempo della fine» (giugno 2022).

Da qualche anno l’Amazzonia è divenuta argomento di discussione a livello globale (*). La ragione è presto detta. «L’Amazzonia è una terra chiave, è un luogo simbolo, è un laboratorio in cui sperimentare l’ecologia integrale. Purtroppo, fino ad ora, il bilancio è negativo, gravemente negativo. Saremo in grado di invertire la tendenza?». Sono le parole preoccupate con cui papa Francesco conclude la sua breve prefazione ad «Amazzonia. Viaggio al tempo della fine», un diario di viaggio del vaticanista Raffaele Luise (Edizioni Appunti di Viaggio, giugno 2022).

Il viaggio del giornalista si snoda tra Belém a Tabatinga, passando per Manaus, sempre accompagnato da missionari che, da molto tempo, operano nella regione amazzonica. Come mons. Carlo Verzeletti, che dice: «Oggi l’Amazzonia è di moda. Ma non esiste una sola Amazzonia. Ce ne sono molte – puntualizza -. Prima di tutto, certamente la grande foresta e i suoi popoli originari. Solo salvando loro possiamo difendere tutte le realtà amazzoniche» (pag. 34). I nemici più prossimi sono i diversi invasori: fazendeiros, garimpeiros, madeireiros. Tanto che dom Carlo non esita a parlare di «biocidio» ed «ecocidio» (pag. 28).

Nel capitolo dedicato alla Vale do Javari (la valle del fiume Javari, lungo il confine con il Perù), recentemente (giugno 2022) uscita anche sui media internazionali a causa dell’assassinio del giornalista britannico dom Phillips e dell’indigenista brasiliano Bruno Araújo Pereira, l’autore parla anche dell’invasione e dei danni causati dai missionari appartenenti alle nuove Chiese evangeliche e pentecostali, ricche di soldi, arroganza e fondamentalismo religioso.

Interessante è il parallelo che Luise fa tra la figura dello sciamano e quella dello scienziato: «Non può non colpirci l’inquietante consonanza della profezia cosmoecologica sciamanica con i teorici del cambiamento climatico e dell’Antropocene» (pag. 212). Per concludere che la sfida più impellente è quella di passare dall’Antropocene (l’era attuale in cui l’uomo ha modificato l’ambiente) all’Ecozoico (un’era che abbia al centro l’ecologia).

«Amazzonia. Viaggio al tempo della fine» è un libro che ha il pregio di essere molto scorrevole (anche perché quasi senza note, fonti, date) e di proporre al lettore una visione complessiva e, soprattutto, empatica dell’Amazzonia brasiliana. Con alcuni limiti: utilizza ancora un termine ormai giustamente desueto come «indios», altri termini inaccurati (come «riverinhos» invece di «ribeirinhos»); fa un uso smodato di aggettivi, superlativi e punti esclamativi; spesso l’autore indulge troppo in annotazioni da diario personale. Detto questo, il lavoro di Raffaele Luise merita di essere letto perché ogni informazione in più può aiutare a capire e difendere quel che resta del laboratorio Amazzonia e dei suoi popoli indigeni.

Paolo Moiola

 (*) A conferma di come l’Amazzonia sia argomento di grande interesse, è uscito un altro lavoro: «Viaggio sul fiume mondo. Amazzonia» di Angelo Ferracuti e Giovanni Marrozzini, Mondadori, agosto 2022.




Benvenuti ad Aguas Santas


Un progetto di accoglienza di migranti e rifugiati. Un servizio vissuto dai volontari della Fundação Allamano di Aguas Santas, nel Nord del Portogallo, come una chiamata alla missione ad gentes in Europa. Il Vangelo vissuto e portato alle periferie.

«Oggi abbiamo 28 ospiti. Sono tutti uomini, arrivati da noi dopo lunghi viaggi e brutte esperienze. A parte due quarantenni, gli altri hanno tra i 20 e i 30 anni. Gli ultimi due sono arrivati dall’Afghanistan». José Miranda, laico volontario della Fondazione Allamano, ci racconta l’accoglienza di profughi iniziata nel 2020 nella casa dei Missionari della Consolata di Aguas Santas, 10 km dalla città di Oporto, Nord del Portogallo. «Gli altri vengono da Pakistan, Togo, Camerun, Nigeria, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Ghana, Mali, Gambia, Senegal».

I più poveri tra i poveri

Incontriamo José tramite una videochiamata. Camicia azzurra, occhiali tondi, capelli rasati a zero. Occhi sorridenti. Mani grosse ed espressive.

Ci parla di quella che considera un’attività di vera missione ad gentes in Europa, una delle risposte che i Missionari della Consolata stanno dando all’appello di papa Francesco di portare il Vangelo alle periferie.

«Abbiamo iniziato tre anni fa con un’accoglienza molto breve: l’Alto commissariato per le migrazioni, un organo del governo portoghese, ci aveva chiesto una disponibilità di qualche settimana. Solo letto e cibo. Nient’altro. Come un albergo. I migranti sono i più poveri tra i poveri. Da quell’esperienza abbiamo iniziato a pensare a un progetto di accoglienza più strutturato per accompagnarli all’autonomia».

Incontro ai bisognosi

José parla benissimo l’italiano: è stato dal 1995 al 1998 tra Rivoli (To), Vittorio Veneto (Tv) e Roma. «Ho 46 anni. Da piccolo abitavo vicino ai missionari di Aguas Santas. Andavo a giocare a pallone da loro. Poi mi hanno invitato nel gruppo dei giovani missionari della Consolata. Avevo 16 anni. Due anni dopo sono entrato in seminario a Lisbona. In seguito sono andato a Rivoli per imparare l’italiano nel 1995. Nel 1996 a Vittorio Veneto per il noviziato, e nell’agosto del 1997 a Roma per studiare teologia, ma dopo un anno sono tornato a Porto dai miei. Adesso sono sposato e ho due figli di 13 e 20 anni.

Lavoro in una ditta che trasporta container. Parlo sempre con tante persone di tutto il mondo. È un lavoro che mi piace.

Nel frattempo, sono rimasto legato all’Imc, e da qualche anno sono un volontario della Fondazione Allamano, nata dieci anni fa dalla volontà dei Missionari della Consolata di avere un “braccio sociale operativo” in un quartiere popolato da molti anziani e famiglie in difficoltà».

«C’è molta gente arrivata qui per il lavoro – spiega José -. Gli anziani, i bambini e i giovani sono i più bisognosi. L’idea era quella di fare qualcosa per loro: distribuire pacchi alimentari, aprire un centro diurno con attività ricreative e culturali, offrire servizi domiciliari nell’area della salute e sociale (la Fondazione supporta anche la fattoria pedagogica e gli orti comunitari nel centro Imc di Cacém, cfr MC 5/2022, nda).

La Fondazione è amministrata da volontari e diretta da Ana, assistente sociale, e Jacinto, che gestisce gli spazi interni e esterni della struttura.

La sua sede è nella casa Imc: un ex seminario dove ora vivono sette padri della Consolata più Delfino che ha fatto la professione a fine luglio».

I primi ospiti e il Covid

Quando la Fondazione ha deciso d’impegnarsi nell’accoglienza, i volontari hanno visitato altre realtà già attive, come i gesuiti di Lisbona. «Siamo stati a Lisbona a marzo 2020. Una settimana dopo si è fermato tutto per il Covid. Eravamo pronti per i primi nove rifugiati provenienti dai centri di accoglienza di Torino e Bari, ma la pandemia li ha tenuti bloccati fino a novembre.

Nel frattempo, però, l’Alto commissariato, a maggio 2020, ci ha chiesto di accogliere Michael, un ventiquattrenne del Ghana, in Portogallo da sei mesi.

È stato molto bello iniziare con lui. Durante il lockdown Michael ci ha aiutato in tutte le attività della casa. È un ragazzo molto in gamba, umile, con un sorriso facile. Gli piace ballare. Ha dato una mano anche nell’animazione missionaria, veniva agli incontri, stava con i giovani.

Michael ha attraversato l’Africa fino alla Libia dove ha lavorato per un po’. Dopo due o tre mesi senza essere pagato, sono arrivati alcuni uomini con le armi dicendo a tutti: “Nessuno vi pagherà, ma vi possiamo portare in Europa. Che ne dite?”. Quando qualcuno ha detto di no, l’hanno ammazzato. Allora tutti sono partiti. Dopo due notti nel mare, li ha raccolti una nave che li ha portati a Lampedusa. Un anno dopo Michael è arrivato in Portogallo».

I primi nove ospiti dall’Italia sono arrivati ad Aguas Santas a novembre 2020. Nella casa Imc la Fondazione Allamano ha allestito nove stanze con tre letti e un bagno ciascuna. «Si sta bene da noi – prosegue José -. L’Alto commissariato è venuto a visitarci, e ci ha detto che la nostra ospitalità è la più bella del Portogallo. Essere solo in tre per stanza, invece che in 10 o 15, permette ai rifugiati di avere un po’ di spazio personale».

Lingua e lavoro

Il protocollo di accoglienza prevede un’ospitalità di 18 mesi. È il tempo per iniziare un processo di integrazione e autonomia.

«Se vuoi rimanere nel paese, devi imparare la lingua – dice José -. Il portoghese non è facile, però, anche se alcuni di loro non erano mai andati a scuola, tutti hanno avuto molta buona volontà».

José ci racconta che tutti gli ospiti hanno iniziato a lavorare già dopo tre mesi. «Le aziende erano tutte contente. La maggior parte di loro è andata a lavorare nel settore delle costruzioni civili. Quattro hanno partecipato a un progetto di una multinazionale dell’arredamento, e hanno lavorato lì per otto mesi imparando anche il portoghese. Finito il progetto, due sono stati assunti, e sono molto contenti. Ora li stanno anche aiutando a trovare un’abitazione propria».

Cominciando a lavorare e a parlare portoghese, i rifugiati iniziano a essere autonomi.

Convivenza interculturale e interreligiosa

Dopo i primi nove arrivati a novembre 2020, a gennaio sono arrivati due ragazzi diciottenni dal Pakistan, tramite un altro programma per rifugiati in Grecia.

Gli ospiti già presenti erano tutti di origine africana. I due pachistani, perciò, apparivano molto diversi per la loro cultura. «Anche gli altri, però, erano tutti diversi tra loro. L’Africa ha molte culture. In più, ogni ragazzo ha una sua storia, ed è arrivato qui con uno scopo personale», dice José accennando alla grande quota di «diversità» presente nel piccolo gruppo di ospiti.

«Oggi sono ventotto. Sono arrivati un po’ per volta in gruppetti di due, tre o quattro. Noi abbiamo sempre detto di sì. La maggior parte sono ancora con noi.

Ricordo due ragazzi del Camerun che sono andati via dopo 15 giorni: ci hanno lasciato un biglietto per ringraziarci e per dirci che andavano in Francia. Il Portogallo non è uno dei paesi dove gli africani pensano di andare, se non quelli che parlano già portoghese. Piuttosto puntano a Germania, Inghilterra, Francia. È capitato altre due volte: con un ragazzo iracheno e uno siriano che avevano famigliari in quei paesi».

La maggior parte degli ospiti sono musulmani, i cristiani sono pochi, alcuni non sono credenti. «Questa è stata una bella sfida – sorride José -. Musulmani accolti dai missionari. Per me è un arricchimento grandissimo. Loro parlano molto della loro religione, e il rispetto reciproco è grande. Capita che, per andare in camera, passino davanti alla cappella dove, di giovedì, c’è sempre il santissimo esposto. E loro passano di lì con moltissimo rispetto. Quando facciamo degli incontri insieme, diciamo sempre una preghiera. Per loro è importante pregare anche con noi».

Negli ultimi tempi, in cinque hanno iniziato a chiedere di fare catechesi con uno dei missionari, Antonio Malila del Kenya.

Uno di loro, della Guinea Bissau, è stato battezzato durante la veglia pasquale di quest’anno.

«Noi di questo non parliamo molto, perché non è lo scopo dell’accoglienza, e non vogliamo creare confusione nelle persone. Però è stato un momento importante per tutti».

La quotidianità

«La maggior parte degli ospiti, ora lavora, esce presto la mattina, si preoccupa di tenere in ordine la propria stanza e i luoghi comuni, come la cucina e gli spazi esterni. Noi li aiutiamo con i documenti, con le questioni sanitarie, andiamo con loro dal medico, dall’oculista, dal dentista. Poi suggeriamo loro come presentarsi alle aziende, come fare il curriculum vitae e, quando è possibile, andiamo con loro per i colloqui.

Quando qualcuno ha un po’ di soldi da mandare in famiglia al paese di origine, li aiutiamo. Anche quando hanno voglia di giocare a pallone in cortile, cosa che succede spesso, li aiutiamo volentieri», conclude José allegro. Nella stessa struttura vive anche la comunità di otto missionari della Consolata. Vivono in una zona separata, però sono sempre presenti tra i profughi. «Soprattutto padre Antonio Malila, che è africano e ha un grande dialogo con loro, prendono il caffè insieme, fanno gite…».

Diventare autonomi

Michael, il primo ospite, è l’unico per il momento a essere andato via. Ha trovato una fidanzata, ed è uscito dalla casa dei Missionari della Consolata diverse settimane prima della fine dei 18 mesi del progetto, per andare a vivere con lei. Continua ad andare alla Fondazione Allamano per i pacchi di cibo e di prodotti per la vita quotidiana, ma anche per la vicinanza che ha sperimentato con i volontari.

«Degli altri, sono 14 quelli che hanno già finito i 18 mesi del progetto. Ma ci sono due problemi: il costo dell’abitazione, e i documenti di soggiorno che vengono rinnovati di sei mesi in sei mesi. Alcuni sarebbero già in grado di sostenere l’affitto di un alloggio, soprattutto se ci andassero in gruppetti, però, quando uno ha dei documenti solo per sei mesi, è difficile trovare un lavoro stabile, e anche una casa in affitto».

Famiglie ucraine

Nella primavera scorsa, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, anche il Portogallo ha iniziato a ospitare profughi da quel paese.

«C’è stata una risposta che nessuno immaginava – racconta José -. Ci sono state persone che sono partite per andare a prendere i profughi e portarli in Portogallo. Noi ci siamo detti: “Le nostre camere sono tutte piene. Però ci sono quattro stanze nella zona delle attività di animazione giovanile”. Allora ho detto ai missionari: “Anche noi vorremmo accogliere degli ucraini”, ed è stato facile ottenere un sì, nonostante nessuno sapesse cosa sarebbe successo, se l’ospitalità sarebbe durata poche settimane o anni.

Quando il sindaco di Maya ha deciso di accogliere delle famiglie, circa cinquanta persone, famigliari di ucraini già residenti in zona, hanno chiamato subito noi.

Alla fine, abbiamo deciso per un’accoglienza a tempo, fino all’estate. Così abbiamo chiesto al sindaco di garantirci che. nel giro di due o tre mesi, avrebbe trovato degli alloggi per le famiglie che sarebbero arrivate. Il bene deve essere fatto bene: a delle famiglie bisogna offrire un luogo dignitoso che permetta la vita di famiglia, non una semplice stanza, che va bene solo temporaneamente.

Sono venute quattro famiglie più una donna sola di 60 anni, per un totale di diciassette persone: una famiglia formata da due bimbe di uno e quattro anni, mamma, sorella della mamma con un’altra bimba, e nonna; la seconda era composta da una mamma con due figlie di diciassette e sedici anni e un figlio di dodici; la terza da una bambina di sei anni con la mamma e i nonni; infine, c’erano una donna di cinquant’anni con la madre».

Convivenza facile

«Mi ha stupito la volontà degli ucraini di vivere e di fare andare tutto bene. Due giorni dopo il loro arrivo erano già lì che s’impegnavano a fare cose, studiare il portoghese. Non li ho mai visti disperati. Hanno perso tutto, gli uomini sono rimasti in Ucraina per fare la guerra, eppure si mostravano sempre forti e sorridenti – esclama José con ammirazione -. Il nostro paese ha fornito loro i documenti di soggiorno per tutto il tempo che vogliono e un sussidio economico. Il comune li accompagna con gli assistenti sociali».

José mette l’accento sul bel clima di convivenza che gli ospiti hanno creato con le famiglie ucraine. «Sono stati da noi tre mesi. Oggi, diversi di loro lavorano. Due famiglie sono in case del comune per sei mesi gratuitamente. Le altre due famiglie hanno voluto ritornare in patria.

Con gli altri ospiti la convivenza è stata sempre facile: la casa ha un grande spazio esterno dove si trovavano tutti insieme, e si aiutavano. Non erano obbligati a parlarsi, ma si sono relazionati subito tra loro spontaneamente. È stata un’esperienza bella».

Missione in Europa

Per José, gli ingredienti principali di una buona accoglienza sono l’ascolto e la comunicazione dell’affetto.

«Essere straordinari nell’ordinario: noi abbiamo cercato di fare così. Il comune di Porto ha accolto 200 persone in un antico seminario. Questa è la mia idea di Chiesa. Una Chiesa che fa missione in Europa anche in questo modo.

Oggi è questo lo scopo principale della Fondazione Allamano: ci occupiamo degli anziani e dei giovani portoghesi, ma soprattutto dei migranti. Il nostro punto identificativo è l’accoglienza.

Noi abbiamo la fortuna di poter fare quello che la Chiesa e papa Francesco stanno chiedendo: andare alle periferie.

Quello che stiamo facendo con la fondazione mi fa molto felice. Non è semplice, anche per il finanziamento delle attività. Però si va avanti con la grazia di Dio».

Luca Lorusso
foto di José Miranda




Honduras. Maestri coraggiosi


L’infiltrazione negli istituti scolastici delle bande Mara Salvatrucha e Barrio 18 è un dato di fatto. Per questo, insegnare nelle scuole del paese centroamericano è una sfida che pone in rischio la vita stessa.

Dall’altra parte dello schermo di un computer, il sorriso di Rodrigo Pineda (nome di fantasia per questioni di sicurezza, ndr), direttore di una scuola pubblica honduregna, supera i circa 10mila km che ci separano diffondendo calma anche nello spazio virtuale di una videochiamata su Zoom.

Rodrigo vive a Tegucigalpa, capitale dell’Honduras, e 20 anni fa ha deciso di diventare professore e poi dirigente scolastico di uno dei tanti istituti comprensivi del paese che, in genere, includono le scuole di primo e di secondo grado (6-17 anni).

Il giorno in cui ha deciso di rispondere alla vocazione per l’insegnamento sapeva che, oltre alle sfide educative, avrebbe dovuto accettare anche il rischio personale che questa professione porta con sé, almeno nei casi in cui bisogna esercitarla nei quartieri più poveri della capitale honduregna, controllati e messi a ferro e fuoco dalle bande Mara Salvatrucha (Ms-13) e Barrio 18.

E di fatti, ogni volta che il professor Pineda metteva piede nella propria scuola, prima che la pandemia costringesse alunni e insegnanti a vivere di didattica online, doveva far leva su tutto il suo coraggio per affrontare non solo le ore di lezione ma anche i criminali affiliati alle due bande che, da sempre, utilizzano le scuole pubbliche a proprio uso e consumo. Ormai da anni, i leader delle gang minacciano fisicamente i dirigenti scolastici per ottenere le chiavi degli istituti, dove di notte entrano per nascondere droga e armi nelle aule meno frequentate. Non era raro, infatti, che, al mattino, i bambini si imbattessero in un pacchetto di cocaina o in qualche proiettile nei corridoi, mentre si dirigevano verso le aule scolastiche. Tuttavia, la Mara Salvatrucha e Barrio 18 non sono mai state interessate agli istituti scolastici in quanto edifici. Il loro interesse è reclutarne i frequentatori. Spesso fermi davanti ai cancelli delle scuole, i membri delle due bande rivali cercavano di agganciare ragazze e ragazzi in età scolare. Questa forma di affiliazione, quasi sempre forzata, ha funzionato fino a marzo 2020 e, dal 18 aprile del 2022, giorno in cui – dopo due anni di pandemia – le classi di ogni istituto sono tornate alla didattica in presenza, rischia di riprendere a essere una pericolosa routine.

Personale forense trasporta il corpo di uno studente ucciso dai membri di una banda su un bus di Tegucigalpa (15 febbraio 2017). Foto Orlando Sierra – AFP.

Mara Salvatrucha e Barrio 18

Mara Salvatrucha (Ms-13) e Barrio 18 sono le due più grandi organizzazioni malavitose dell’America Centrale che, da decine di anni, alimentano una guerra intestina non solo in Honduras, Guatemala e Salvador, ma in parte anche negli Stati Uniti e in Canada, con l’obiettivo di controllare il monopolio del traffico di droga e armi e di gestire il giro dell’estorsione e della tratta a fine di prostituzione.

Le due bande criminali, in spagnolo chiamate maras o pandillas, nascono tra gli anni Settanta e Ottanta a Los Angeles, negli Stati Uniti. La cifra presente nel loro nome, «13» e «18», fa riferimento, infatti, al numero delle due strade della città californiana in cui vivevano e operavano i fondatori delle due gang. Entrambe le bande accoglievano migranti messicani e centroamericani e si sono diffuse nei loro paesi di origine a partire da metà degli anni Ottanta, quando, a causa di un indurimento delle politiche migratorie operato da Reagan e successivamente da Bush, sono aumentate in maniera esponenziale le deportazioni di persone arrivate sul territorio statunitense senza permesso di soggiorno, anche in giovane età. Attraverso questa operazione, una buona parte delle cellule attive delle due bande si sono ritrovate, dalla mattina alla sera, tra Salvador, Honduras e Guatemala, dove hanno continuato a crescere, diventando in breve tempo una presenza forte e strutturata tanto da sostituirsi allo stato, soprattutto nelle zone marginali e povere dove gestiscono ogni tipo di business, lecito o illecito.

Il reclutamento forzato

Per mantenere forti le maras e farle crescere, i loro leader devono reclutare continuamente nuovi membri, ragazzi da iniziare a piccole o grandi attività criminose, che possono variare dalla riscossione del pizzo nei negozi di quartiere fino alla gestione dell’intero traffico di droga verso il Nord America. Per questo motivo, alcuni membri delle gang hanno cominciato a prendere di mira le scuole più povere, cercando di convincere, con le buone o le cattive, ragazze e ragazzi tra i 10 e i 14 anni a unirsi a loro.

«Un giorno un pandillero (un membro di una banda, ndr) mi ha detto che le scuole sono praticamente il loro “incubatore”, la loro “serra”, dove crescono i loro futuri adepti. Sono i bambini più poveri, orfani o provenienti da famiglie disgregate che rischiano maggiormente di essere forzati a unirsi a loro. Quasi la metà dei miei studenti vive con un nonno o uno zio, perché i genitori sono morti o migrati negli Stati Uniti. Alcuni ragazzi vedono las maras come l’unica opzione di guadagno facile, ma molti, invece, ci chiedono aiuto. Ed è proprio per loro che scendiamo in strada e proviamo a dialogare con i capi delle bande per convincerli a lasciare stare i nostri studenti», dice Rodrigo Pineda.

Tipico gesto giovanile. Foto Karsten Winegeart – Unsplash.

Docenti assassinati

Migliaia di docenti honduregni (insegnanti, presidi, uomini e donne) hanno cercato di proteggere i loro studenti, in particolare i bambini e le ragazze, spesso vittime di rapimento anche a scopo di sfruttamento sessuale. Tuttavia, questo coraggio è costato la vita a più di 100 insegnanti fino a oggi. Secondo gli ultimi dati ufficiali elaborati dalla Commissione nazionale per i diritti umani dell’Honduras, solamente tra il 2010 e il 2017, las maras hanno ucciso 90 docenti.

Lo sa bene il preside Alberto Herrera (nome di fantasia, ndr), 52 anni di età e 32 anni di servizio nelle scuole, prima come maestro e negli ultimi anni come direttore didattico, che più di una volta nella sua vita ha dovuto ascoltare alla radio o leggere sui giornali la triste notizia dell’omicidio di un collega.
«Il problema è che alcuni studenti sono figli dei leader delle bande. In questo caso dobbiamo fare molta attenzione, perché spesso i genitori ci insultano, ci minacciano o ci aggrediscono se diamo un brutto voto a uno dei loro ragazzi – racconta Alberto -. Qualche anno fa, un’insegnante ha cercato di placare una rissa tra due ragazze e il padre di una di loro ha interpretato questa intromissione come un’umiliazione, per cui si è presentato a scuola e ha sparato al collega di fronte agli studenti durante l’intervallo».

In fuga dalle città

Rischiare la vita per fare il proprio mestiere non è accettabile per nessuno, in particolare per i più giovani, che spesso decidono di abbandonare la professione e la propria casa per sfuggire alle minacce e migrare verso le zone rurali del paese che hanno una percentuale di conflittualità inferiore a quella delle grandi città. Secondo gli ultimi dati dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che protegge i diritti dei rifugiati politici e, nel caso dell’Honduras, anche degli sfollati interni, negli ultimi cinque anni, 269 insegnanti hanno deciso di migrare all’interno del paese a causa della violenza delle gang, una violenza che, tra il 2014 e il 2018, ha interessato 247.090 persone honduregne, pari al 2,7% della popolazione.

«Questa gentaglia entra di notte nelle nostre scuole per nascondere armi e droga e di giorno spesso sentiamo il rumore di sparatorie in mezzo alla strada di fronte alla scuola. In questi casi attuiamo il protocollo di sicurezza, che significa rimanere in classe anche fino a sera e lasciare uscire i bambini solamente quando le strade sono libere», continua Pineda.

Rodrigo Pineda e Alberto Herrera sono parte attiva del Comitato di docenti (Comité de docentes), un’organizzazione di insegnanti che si batte per promuovere un’istruzione di qualità e sradicare la violenza dalle scuole. Il Comitato è sostenuto dall’Unhcr e dall’Ong Save the children che, nel 2018, ha prodotto un rapporto di denuncia sulla grave situazione di violenza nelle scuole di cui sono vittime studenti e docenti. Questi ultimi, in Honduras, sono considerati la terza categoria professionale più esposta alle brutalità delle bande. «Gli insegnanti sono tra le vittime designate dalle bande, insieme ai gestori dei trasporti pubblico-privati e agli imprenditori – afferma Vanessa Paguada, coordinatrice di Save the children del progetto di protezione dei bambini e dei giovani, in collaborazione con l’Unhcr – i professori subiscono vari tipi di abusi, tra cui estorsione, furto e violenze fisiche o sessuali. Il fatto è che le bande li vedono come un ostacolo da eliminare perché si oppongono al reclutamento dei giovani. In qualche modo sfidano le bande proteggendo i ragazzi e questo affronto è inaccettabile per il codice d’onore delle maras».

Uomini della polizia honduregna arrestano membri appartenenti alla Mara Salvatrucha (Ms-13) a San Pedro Sula (17 febbraio 2017). Foto Jordan Perdomo – AFP.

Collusione polizia e «maras»

Neppure durante la pandemia c’è stata pace, molti insegnanti, infatti, sono stati vittime anche di violenza informatica e di estorsioni online. «Questi criminali sono arrivati a chiederci anche di ricaricare le loro carte di credito e di pagare internet ai loro figli. Ovviamente – spiega il professor Pineda – lo abbiamo fatto, perché temiamo per la nostra vita e soprattutto per quella dei nostri figli e delle nostre famiglie. Il problema è che non possiamo neppure denunciare, perché tutti qui sanno che la polizia è collusa con le maras. Anzi, spesso alcuni pandilleros diventano poliziotti. Non c’è un luogo libero dalla prevaricazione di queste persone. Sono ovunque».

La mancanza di fiducia nelle istituzioni trova una ragione in più nel recente arresto, e successiva estradizione, dell’ex presidente Juan Orlando Hernández, accusato dagli Stati Uniti di legami diretti con il narcotraffico.

Durante il suo mandato, Hernández ha ordinato la militarizzazione di numerosi centri educativi, in seguito alla morte di alcuni docenti e studenti.

«Lo stato fornisce misure palliative, ma non ha mai provato a risolvere il problema alla radice. La polizia rimane a pattugliare le scuole per un po’ e poi se ne va, lasciando il campo libero alle maras, che tornano più forti e arrabbiate di prima e la violenza contro di noi e gli studenti aumenta», spiega Alberto Herrera.

Di fatto la militarizzazione del territorio voluta dall’ex presidente ha spesso portato a scontri tra esercito e pandillas che hanno coinvolto anche passanti, gente comune e studenti, braccati sotto un fuoco incrociato. Questa situazione di guerra latente ha trasformato le strade dei quartieri più poveri di Tegucigalpa in veri e propri campi di battaglia senza né vinti né vincitori, ma con un numero elevato di morti innocenti.

Record di morti

I bambini e i giovani che rifiutano il reclutamento forzato stanno di fatto sfidando – anche inconsapevolmente – i capi delle bande, che puniscono questa audacia con la morte. Una vita breve però fa parte del destino anche di chi invece sceglie di unirsi a una banda, perché è consuetudine che siano proprio i più giovani e inesperti pandilleros a essere uccisi in rapine e scontri con la polizia. Con un tasso di 30 omicidi di minori ogni 100mila abitanti, l’Honduras detiene il record mondiale di bambini e adolescenti assassinati, secondo quanto riportato da un’indagine svolta da Save the children nel 2017.

Intrappolati in una situazione di violenza claustrofobica, molti giovani honduregni sono costretti ad abbandonare la scuola e le loro case e a scappare da un parente prossimo che vive in zone rurali del paese, o, più frequentemente, verso gli Stati Uniti, sommandosi all’enorme numero di minori non accompagnati che migrano dall’America Centrale.

Secondo gli ultimi dati della US Customs and border protection, l’agenzia di dogana degli Stati Uniti, da ottobre a maggio 2022 sono arrivati alla frontiera meridionale più di 100mila minori in viaggio da soli, il 23% dei quali sono honduregni.

Membro di una banda mostra la pistola. Foto Nathan Costa – Unsplash.

Dispersione scolastica

Negli ultimi due anni, in Honduras il tasso di dispersione scolastica è salito alle stelle. Circa il 40% degli studenti, infatti, ha abbandonato la scuola nel 2020, a causa dell’insicurezza, ma anche del peggioramento delle condizioni economiche dovuto alla pandemia e agli effetti degli uragani Eta e Iota (del novembre 2020). Oggi il 70% della popolazione honduregna vive in situazione di povertà.

In questo panorama, un buon numero di studenti di Rodrigo e Alberto ha lasciato la scuola per iniziare a lavorare informalmente, altri sono rimasti e alcuni sono migrati, ma sono riusciti a frequentare le lezioni collegandosi online dai campi di migranti in Messico, riuscendo addirittura a terminare l’anno scolastico. «Io dico sempre che noi docenti cerchiamo di fare un buon lavoro in mezzo a un campo minato. Provo una grande soddisfazione quando incontro ex studenti che sono già adulti e hanno terminato gli studi e ora lavorano onestamente, o quando vedo un bambino che partecipa alle lezioni nonostante stia migrando da solo verso gli Stati Uniti. Per loro e solo per loro continuiamo a rischiare la vita e a lottare per fare in modo che abbiano la migliore educazione possibile anche in mezzo a tutte queste difficoltà», conclude Alberto Herrera.

Simona Carnino

Aggregazione di giovani su una strada. Foto Brian Lundquist – Unsplash.


Archivio MC

Gli ultimi articoli sulla violenza delle bande giovanili in Centro America e sull’Honduras:




Mongolia. Giovane Cardinale di una piccola chiesa


Dal 2003 è in Mongolia, paese che ama e che continua a stupirlo. Qui, con altri missionari e missionarie della Consolata, ha fondato una nuova parrocchia. Da agosto 2020 è prefetto apostolico di Ulaanbaatar. Poi l’annuncio di papa Francesco.

Nato il 7 giugno del 1974, cresciuto a Torino tra le parrocchie di sant’Alfonso, Regina delle Missioni e gli scout, Giorgio Marengo decide di entrare nei Missionari della Consolata dopo la maturità al liceo Cavour. Segue il percorso di formazione e viene ordinato a Torino, nel 2001, all’anniversario dei 100 anni dell’Istituto. Nel 2003 è nel primo gruppo di missionari in partenza per la Mongolia.

L’ordinazione episcopale arriva ad agosto 2020. Poi, a sorpresa, il suo nome compare nella lista dei nuovi cardinali, resa nota da papa Francesco lo scorso 29 maggio. Viene quindi nominato nel concistoro del 27 agosto. È il cardinale più giovane, ed è il primo tra i Missionari della Consolata e della chiesa in Mongolia.

Ci accoglie con un grande sorriso, e la disponibilità che lo contraddistingue, nonostante i tanti impegni di un periodo frenetico.

Come descriverebbe la Mongolia in poche parole?

«È un paese affascinante, molto bello, con tanti contrasti, a cominciare da quelli climatici. C’è il deserto freddo più grande del mondo, d’estate +40°, d’inverno

-40°. L’impatto dell’uomo è poco visibile. È il secondo paese meno popolato del mondo (su una superficie 5,2 volte l’Italia, vivono 3,3 milioni di persone).

È difficile da definire, ma possiamo parlare di due Mongolie, quella della capitale e poi tutto il resto. Entrambe rappresentano la Mongolia, ma in maniera diversa. Ulaanbaatar è una capitale evoluta, tecnologica, con molte costruzioni moderne, lo stile di vita è urbano. Negli ultimi dieci anni si è trasformata. La Mongolia dell’interno è quella tradizionale, dell’allevamento, delle grandi distese, delle tradizioni, dell’isolamento, del vuoto.

Un forte elemento identificativo è la storia. Ovvero Gengis Kahn e il ruolo dominante dei mongoli nel XIII secolo, quando hanno costituito l’impero più grande di sempre. Questo ha plasmato la coscienza comune. Sono un popolo molto fiero.

Oggi sono un paese sovrano e democratico in mezzo a due superpotenze, la Federazione Russa e la Cina popolare. La Mongolia è un paese che mantiene la sua identità, e vuole confermare la propria sovranità, su base democratica e di rispetto dei diritti e della libertà.

È stata per settant’anni una repubblica popolare, non formalmente membro dell’Urss, ma totalmente allineata alla politica sovietica. Questo ha implicato questioni molto gravi, compresa la repressione del buddhismo, la cancellazione della libertà religiosa, grosse sfide alla cultura, l’imposizione del cirillico al posto della scrittura mongola, l’ateismo di stato. Quei 70 anni hanno impattato, ma oggi, dopo 30 anni dalla fine del regime, la democrazia è affermata».

La Chiesa cattolica ha compiuto 30 anni nel paese. Come è stato l’inizio?

«All’indomani delle prime elezioni democratiche nel ‘92, quando si è costituito il primo governo multipartitico, questo ha voluto dimostrare al mondo l’impegno di tutelare la libertà di religione e di culto. Inoltre, il paese aveva molto bisogno di aiuto dall’estero perché, come è sempre successo nel post-comunismo, subito c’è stata una fase di grande crisi economica. Così il governo mongolo ha chiesto alla Santa sede di ristabilire relazioni diplomatiche. Di solito accade il contrario.

La Santa sede si è subito attivata e, per motivi storici, ha proposto alla congregazione del Cuore immacolato di Maria (Scheut) di andare in Mongolia. Intanto padre Jeroom Heyndrickx, noto
sinolgo, aveva già compiuto una prima esplorazione nell’ottobre 1991, così nel luglio 1992, sono stati mandati tre missionari, i padri Robert Goessens, Gilbert Sales (belgi) e Venceslao Padilla (originario delle Filippine). Questi hanno cominciato a inserirsi, creato contatti, e hanno fatto una grande attività di promozione umana, facendo arrivare tanti aiuti in un paese che allora era in ginocchio.

Con grande capacità relazionale, soprattutto di Padilla, si sono costituite le prime realtà ecclesiali, da un nucleo che si ritrovava nell’appartamento in affitto nel quale i missionari vivevano. Si sono create relazioni stabili con gente interessata a questioni di fede e dieci anni dopo, la Santa Sede ha eretto la Prefettura apostolica. Padilla è stato ordinato prefetto e poi vescovo nell’agosto 2003.

Noi Missionari della Consolata ci siamo inseriti nel luglio 2003, quando era ancora un’esperienza pionieristica.

Il cambiamento più grande è stato tra il 2003 e il 2010, quando c’è stato un grosso boom economico, legato ad aiuti e investimenti. La Mongolia ha accelerato la trasformazione interna, e questo si è riflettuto un po’ anche sulla realtà ecclesiale».

Veglia pasquale ad Arvaiheer con battesimi dei neofiti.

Ci racconta i primi passi della Consolata?

«I primi tre anni ci siamo dedicati a imparare la lingua, nella capitale Ulaanbaatar, iniziando a guardarci intorno per vedere dove installarci. La presenza missionaria si concentrava nella capitale, e noi volevamo metterci a disposizione di qualsiasi altra realtà che non fosse stata ancora raggiunta. Mons. Venceslao Padilla ci disse di fare noi il discernimento, e così facemmo, sempre in comunione con lui. Dopo una serie di viaggi esplorativi la Provvidenza ci ha portati in una zona del centro Sud, vicino al deserto del Gobi. Così ci siamo stabiliti nel 2006 ad Arveiheer, capoluogo della provincia. Eravamo due padri e tre suore. Abbiamo cominciato tutto da zero. È stata una bellissima esperienza di vita, di missione, di fede. Perché lì la chiesa non c’era mai stata.

Avevamo bisogno delle autorizzazioni delle autorità locali, e abbiamo vissuto in affitto condividendo la vita della gente di realtà diverse. Poi il governo ci ha dato il permesso e si è avviata la missione».

Come è organizzata oggi la Chiesa cattolica in Mongolia?

«Abbiamo dieci luoghi di culto riconosciuti dallo stato, di cui otto parrocchie e due cappelle (cinque in capitale e dintorni, due nel Nord e una ad Arveiheer). Sono il fulcro della vita cristiana. Abbiamo 22 sacerdoti di cui due sono mongoli, 35 suore, alcuni laici missionari, per 11 congregazioni e 24 nazionalità. I catechisti, sui quali si è investito e si continua a investire, sono i principali protagonisti dell’evangelizzazione, grazie al fatto che sono membri di questo popolo e che possono esprimere con lingua e categorie culturali locali i contenuti essenziali della fede e accompagnare le persone nel loro percorso, con un discorso di comunità e fraternità.

Il 71% delle nostre attività sono di tipo sociale: promozione umana e sviluppo, educazione, sanità, assistenza, promozione e diffusione della cultura mongola. La chiesa è impegnata in settori di utilità comune, non specificamente religiosi. Quest’anno, oltre al sinodo stiamo celebrando i primi 30 anni della chiesa in questo paese e ci siamo fermati a riflettere. Io sono dell’idea che, probabilmente, le priorità non sono più quelle di 20-30 anni fa. Forse dobbiamo gradualmente riorientare le nostre energie verso obiettivi più attuali.

Ho scritto la mia prima lettera pastorale e ho proposto tre parole fondamentali: profondità, fraternità e annuncio.

Profondità, perché il seme è stato gettato, la testimonianza della prima generazione di missionari è stata feconda, accolta. Se abbiamo una comunità cristiana è perché le persone che la compongono hanno veramente accolto il Signore nella loro vita. Adesso però c’è bisogno che questa vita embrionale di fede raggiunga le fibre più profonde della persona e delle comunità, che non sia qualcosa di superficiale che poi è soggetta all’abbandono, ma si approfondisca continuamente.

Fecondità, perché questa piccola comunità rischia, come accade ovunque, di frazionarsi nelle otto parrocchie, anche a causa delle tendenze centrifughe delle varie congregazioni.

Annuncio, per non dimenticarci che, se siamo lì è perché con discrezione e con umiltà vogliamo condividere la nostra fede, e quindi non aver paura di continuare ad annunciare Cristo».

Cosa vuole dire essere una chiesa di minoranza?

«Essere una minoranza è una grazia, perché ci riporta al messaggio delle parabole: un po’ di lievito, un pizzico di sale, una candela, un seme caduto nel terreno. Il Signore quando ha parlato del Regno di Dio ha sempre fatto riferimento a immagini del poco nel tanto, quindi io l’ho vissuta così e continuo a viverla come una grazia. Ci porta a questa dimensione dell’autenticità messa alla prova per il fatto che non è per nulla scontato essere cristiani, ed essere accettati come tali. Usiamo spesso il parallelo con gli Atti degli apostoli.

Essere minoranza può avere, da una parte, il rischio di portarci a dire: stiamo bene tra di noi, siamo piccoli, siamo poveri. Questo non è il nostro caso. Dall’altra, quello di porci l’obiettivo di diventare noi maggioranza, cioè raggiungere una situazione in cui sia socialmente accettabile e auspicabile diventare cristiani. Ritengo che l’esperienza dell’Occidente sia importante, fondamentale, ma non è l’unica, e nella storia ha rappresentato una piccola sezione in ordine di tempo e di spazio. È importante il fatto di non dare nulla per scontato nell’esercizio della fede, perché è un continuo provare a metterla in circolo nella vita concreta, in una società in cui i punti di riferimento sono altri. È una provocazione sana, che ci fa rimanere umili, attenti, che ci fa dire: questa strada non funziona, allora ne proviamo un’altra.

L’importante è curare l’autenticità del messaggio e della vita di fede, aiutando le persone a viverla con coraggio e serenità, perché diventare cristiano per un mongolo è una scelta impopolare, che lo espone anche alla derisione sociale.

Come aiutare queste persone ad appropriarsi della fede, ad approfondirla in modo che poi diventi sorgente di una nuova interpretazione della realtà, in armonia con l’identità culturale, ma anche capace ogni tanto di provocare, è una delle grandi sfide.

Anche se in Italia è generalmente accettato, il messaggio del Vangelo è comunque sempre controcorrente, non è mai assimilabile a una cultura o società».

Com’è la relazione con le altre religioni?

«Essere minoranza ha come aspetto bello che ti fa percepire la ricchezza delle tradizioni religiose diverse. Per noi sono il buddhismo di matrice tibetana, che nel paese oramai si chiama buddhismo mongolo, poi lo sciamanesimo, come anche l’islam praticato nell’Ovest, nella comunità kazaca, e anche delle altre tradizioni religiose recenti, il bahaismo o le altre denominazioni cristiane non cattoliche.

C’è un rapporto con tutti, ma il migliore lo abbiamo con il buddhismo, rappresentato dalle loro istituzioni e dai loro leader, con cui abbiamo un cammino trentennale continuo. Il 28 maggio scorso il Papa ha ricevuto in udienza due autorità del buddhismo mongolo, uno è l’abate del secondo monastero della Mongolia.

Esiste una rete di incontri interreligiosi che, fino a un anno fa, erano annuali e ora sono quasi mensili: a turno uno dei leader religiosi ospita gli altri, si mangia, si discute di temi comuni. L’orizzonte di questi incontri è da una parte conoscitivo (solo se ci si conosce bene ci si rispetta, ci si apprezza), e dall’altra pensare quali obiettivi raggiungere insieme».

Come si diventa cattolici in Mongolia?

«Quando siamo andati ad Arveiheer non c’era nessun cristiano. È stato interessante vedere come la grazia si fa strada. È una storia di relazioni, di amicizia con i missionari e le missionarie, attraverso la quale le persone vengono in contatto con un mondo che si apre loro e che magari all’inizio è legato a una loro necessità. Da notare che la campagna ha conosciuto lo sviluppo dieci anni dopo la capitale. Per cui quando siamo arrivati c’era molta povertà. Quando abbiamo avuto il permesso di svolgere le nostre attività, la curiosità e l’amicizia ha portato le persone per la prima volta a mettere la testa dentro la nostra gher, a vedere cosa vuol dire la preghiera dei cristiani. O a vedere questi poveri stranieri imbranati che cercavano di rendersi utili con una mentalità di non sfruttamento degli altri e, possibilmente, di aiuto. Questo faceva sorgere dei punti di domanda, e le persone, gradualmente, senza correre, chiedevano di approfondire.

C’è sempre una specie di pre catecumenato, che è un periodo fluido di contatti, di relazione, di amicizia, fino a quando la persona formula la sua richiesta, che noi vogliamo sia scritta: io voglio iniziare un percorso di fede. Si propone la catechesi e il catecumenato dura due anni. Stiamo lavorando per preparare il materiale catechetico di base. Poi c’è l’iniziazione, il battesimo.

Oggi i cristiani in Mongolia sono di prima ma anche di seconda generazione. A chi è battezzato ed è riuscito a conservare la fede anche nella vita famigliare, si propone di far fare il cammino della catechesi anche ai loro figli. Non abbiamo mai insistito, abbiamo sempre aspettato che la gente si proponesse».

Quale ruolo può avere la chiesa mongola tra le chiese asiatiche?

«In Asia ci sono tante esperienze interessanti e anche diversificate tra di loro. È un arricchimento reciproco. Il blocco del Sud Est asiatico è erede di un’epopea missionaria dell’800 in cui i missionari erano provenienti da nazioni coloniali, un tema che in Mongolia non c’è. Non c’è mai stata sovrapposizione di poteri politici ed ecclesiastici. Lì c’è una cristianità più radicata, antica. Noi siamo la chiesa più giovane d’Asia.

Nella Federazione delle conferenze episcopali dell’Asia (Fabc, fondata nel 1971), c’è un clima molto fraterno. I vescovi di tutta l’Asia si incontrano, condividono, dialogano, cercano vie comuni.

Da aprile sono entrato a fare parte della neonata conferenza episcopale dell’Asia centrale. Nell’autunno 2021 la Santa Sede l’ha istituita raggruppando le cinque repubbliche ex sovietiche, l’Afghanistan e la Mongolia.

A parte le Filippine e la Corea, dove ci sono le due chiese più affermate, per il resto, in tutta l’Asia siamo minoranza. In certi paesi ha buoni rapporti con lo stato, in altre parti è una chiesa sofferente».

Quali sono le sfide della Chiesa in Asia?

«Riuscire a essere un faro per i diritti là dove esistono regimi non morbidi, un agente di coesione e pace sociale, di promozione del dialogo: è una sfida grande in tutta l’Asia. Anche nei paesi di tradizione più affermata. Le comunità cattoliche in tutto il continente sono dei baluardi di umanità, fede, spiritualità, rappresentano una bella testimonianza.

L’ateismo puro in Asia non esiste, è esistito imposto dal comunismo, ma il tema non è Dio o non Dio, piuttosto quale Dio. Non c’è mai stato l’illuminismo quindi la cesura tra ragione e fede, tra uomo religioso e uomo scientifico non è mai esistita. In Asia si deve portare avanti un discorso di dialogo, per dire con quali valori comuni, noi seguaci di tradizioni religiose diverse, possiamo promuovere il bene di questi paesi. Poi c’è il discorso più teologico: io ho collaborato con il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso che organizza periodicamente un colloquio buddhista-cristiano».

Secondo lei, perché un cardinale in Mongolia?

«Bisogna chiederlo a papa Francesco. Conoscendolo, per lui queste esperienze di chiesa in situazioni di minoranza e marginalità sono preziose, e allora forse vuole che siano conosciute di più e rappresentate».

Quali sono i progetti futuri?

«Vorremmo riuscire a vivere la progettualità da un punto di vista più unitario, comunionale: non solo le singole congregazioni con i loro progetti, ma unire le forze per ottimizzare le cose già meravigliose che i singoli missionari stanno facendo.

Abbiamo rilevato un edificio in capitale, e vorremmo creare la Casa della misericordia, un luogo di accoglienza e consolazione, per rendere la chiesa un porto sempre accessibile a chiunque, con qualunque necessità».

Marco Bello

Cura dei bambini, il pasto

 




Argentina. Nella terra del sole


I Missionari della Consolata sono andati ad aprire una nuova presenza nella periferia di San Juan, zona centro occidentale dell’Argentina, dove tra insediamenti informali, povertà educativa, violenza ed emarginazione, portano il Vangelo.

La provincia di San Juan, insieme a quella di Mendoza e San Luis, forma la regione di Cuyo, nella zona centro occidentale dell’Argentina dove le Ande fanno da confine naturale con il Cile.

Lo scorso gennaio 2022, i Missionari della Consolata vi hanno iniziato una nuova missione stabilendosi a La Bebida, cittadina alla periferia Ovest della capitale provinciale. Una nuova apertura che porta l’Imc per la prima volta in questa provincia e che vuole essere in particolare sintonia con le indicazioni dell’ultimo Capitolo generale del 2017, con il progetto continentale e la decima conferenza regionale Argentina.

Missione sognata

La decisione di fare questo passo è stata la conseguenza di un discernimento compiuto con molta preghiera, tramite il confronto con il materiale e le informazioni a nostra disposizione, e grazie al dialogo con diversi vescovi argentini.

Il progetto continentale della Consolata in America, ai numeri 138 e 139, dice: «Sentiamo che le periferie esistenziali sono una grande sfida per il nostro essere e diventare missionari […]. Assumere questa opzione ci porta a passare da una pastorale della conservazione a una pastorale decisamente missionaria nel metodo e nello stile».

Il desiderio di aprire nuove strade con un percorso diverso da quello fatto finora, evidenzia la dimensione delle periferie esistenziali e dello stile di vita.

I vescovi delle diocesi di Mendoza, Catamarca e La Rioja, ci avevano invitati a integrarci nelle loro diocesi. Il nostro superiore regionale, padre Mauricio Guevara le ha visitate, ma alla fine ha scelto la diocesi di San Juan. Camminando per le strade dei quartieri periferici della città e incontrando la precarietà della gente, infatti, è stato colpito dalla grande sfida che rappresentava.

In questo momento la nuova missione tanto sognata e desiderata è già realtà.

Semplicità di vita e mezzi

La comunità missionaria è formata da padre Sang Hun Im Marcos (del 1978), originario della Corea del Sud; padre James Macharia Kirira (del 1987), keniano, e il sottoscritto, padre Manolo García Candela (del 1956), dalla Spagna. Ci accompagna, inoltre, con il suo servizio fino alla sua ordinazione sacerdotale, il diacono Pablo Ezequiel Sosa Martín, del 1989, argentino, originario di Mendoza.

Senza averlo premeditato, in questo momento la comunità rappresenta i quattro continenti nei quali l’Istituto è presente. Consideriamo importante e valorizziamo anche questo aspetto multiculturale.

Le indicazioni dell’ultimo Capitolo generale Imc, al numero 139, dice: «Lo stile delle nuove aperture deve realizzarsi nella semplicità della vita e dei mezzi, coinvolgendo per quanto possibile la Chiesa e le comunità locali». Noi siamo arrivati a San Juan quasi solo con quello che indossavamo (pochi bagagli personali e alcune scatole che riempivano appena un furgone).

Una volta arrivati, siamo partiti da zero per attrezzare la casa con un minimo di comfort. La gente del posto si è occupata del resto: l’accoglienza, il cibo e l’igiene durante i primi giorni.

La temperatura è molto alta a San Juan, i raggi del sole sono forti per molte ore al giorno, ma il calore che emana dal cuore delle persone li supera.

Questa è stata la nostra prima impressione.

Abbiamo trovato una popolazione diversa da quella di altre aree in cui abbiamo lavorato. Persone molto amichevoli, rispettose e accoglienti, anche nelle espressioni e nel modo di parlare. Tutto è totalmente inedito per noi, e sappiamo di avere molto da imparare.

Periferia esistenziale

Il centro abitato in cui ci troviamo si trova nel dipartimento di
Rivadavia. È una zona periferica della città di San Juan. La nostra missione copre un territorio di 49 km2 abitato da una popolazione di trentamila persone distribuite in un gran numero di quartieri.

Quella di San Juan è una zona sismica, e le scosse di terremoto si sentono di frequente.

Il punto di riferimento della missione è la parrocchia che ci è stata affidata, dedicata alla Madonna del Rosario di Andacollo, una devozione di origine cilena.

La parte occidentale del territorio arriva fino alle colline pedemontane e alla prima catena montuosa.

A Sud si stanno formando numerosi quartieri, diversi insediamenti costituiti da famiglie che si costruiscono dei piccoli ripari alzando muri d’argilla e che vivono in condizioni precarie. Alcuni di questi insediamenti sono senza acqua ed elettricità.

Le persone aspettano che il governo assegni loro una casetta con i servizi minimi, ma l’attesa può durare anni.

Tra i problemi che si vivono negli insediamenti spontanei, uno riguarda la distanza delle baracche dalle scuole. Lontani dai mezzi di trasporto pubblici e da tutto in generale, in questo tipo di ambiente nascono e crescono violenza, criminalità, rapine, spaccio di droga.

Da subito siamo stati informati del fatto che eravamo giunti in una zona difficile, conflittuale e insicura. Però non ci siamo spaventati, né ci spaventiamo.

Abbiamo chiaro che dobbiamo raggiungere le famiglie. Il nostro atteggiamento è quello dell’ascolto, perché le persone qua hanno molto da raccontare. E noi vogliamo essere con loro per accompagnarli e camminare e celebrare la fede insieme. Soffrire i dolori insieme e godere delle stesse gioie.

È sorprendente per noi scoprire che tra loro alcuni sono stati feriti, maltrattati o emarginati anche da ministri della chiesa.

Siamo giunti a questa missione come se fosse un ospedale da campo, pronti a curare le ferite, riconciliare, accompagnare, ascoltare, perché ciascuno trovi gioia e pace con se stesso, con gli altri e con Dio.

Papa Francesco ci incoraggia con le sue parole: «Vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, che esce dalle sue sacrestie, per accompagnare la vita, per sostenere la speranza, per essere segno di unità… costruire ponti, rompere muri, seminare riconciliazione» (Fratelli tutti, 276).

Questa terra di San Juan ci ricorda la terra di Gesù, la Palestina, sia per il suo terreno arido, sia perché esistono le condizioni necessarie affinché l’uva delle viti dia un buon vino e gli ulivi abbondanti producano l’olio che dà lustro al viso (cfr. Salmo 103,15). Le viti e gli ulivi sono i simboli della gioia e della pace, quella pace di cui, secondo Isaia, il messaggero è portatore.

La nostra comunità si presenta come annunciatrice e portatrice di pace. «È bello vedere i piedi del messaggero di pace scendere dalla montagna».

Manolo García Candela




Iraq. I costi della «ricchezza»


A Bassora, seconda città dell’Iraq, il petrolio non ha portato benessere, ma disastri ambientali, inquinamento e malattie. Abbiamo incontrato chi paga le conseguenze di questa «ricchezza».

Bassora. Questa antichissima città si trova nel Sud dell’Iraq. Fu abitata dai Sumeri e dai Persiani. In seguito, nel settimo secolo dopo Cristo, divenne una delle più grandi metropoli del giovane Islam. Qui, in un corso d’acqua chiamato Shatt al Arab, confluiscono anche il Tigri e l’Eufrate. Oggi però Bassora è più conosciuta per la quantità delle risorse presenti nel suo sottosuolo. Qui, infatti, si estrae il 70% del petrolio greggio dell’intera nazione. Bassora è il secondo esportatore di tutto il Medio Oriente dopo l’Arabia Saudita.

Stando a queste percentuali, la città e la sua provincia dovrebbero essere ricchissime. Invece, la disoccupazione raggiunge il 25% e quella giovanile il 30%. Molte delle sue strade principali e dei corsi d’acqua straripano di immondizia, non essendoci un sistema funzionante di raccolta dei rifiuti o di riciclo. Bassora vanta anche un tristissimo primato per il suo inquinamento: ogni mese le analisi sulla qualità dell’aria di questa città, la annoverano tra le più irrespirabili di tutto il Medio Oriente e ad altissimo rischio per la salute.

Una mandria di bufali nelle acque delle paludi della Mesopotamia, biotopo dell’Unesco in gravissimo pericolo a causa del cambio climatico e dell’inquinamento. Foto di Angelo Calianno.

Petrolio e raffinerie

Guidando attorno a Bassora ci vuole poco per capire il perché. Ovunque sono visibili gli impianti di estrazione del petrolio e le raffinerie, quasi tutte a ridosso dei villaggi.

Mi fermo davanti a una di queste enormi strutture nella periferia della città: il complesso di Nahr Bin Omar. Mentre mi appresto a scattare delle foto arrivano dei poliziotti. Cominciano a urlare che non è possibile far fotografie minacciando di portarmi in centrale e di sequestrarmi la macchina fotografica. Dopo qualche attimo di tensione, sono costretto a cancellare le poche foto fatte e vado via.

Continuando a guidare, noto che un uomo mi segue in auto e, appena fuori dalla zona sorvegliata, comincia a segnalarmi la sua presenza con i fari lampeggianti. Fermata l’auto, si accosta a me: «Ho visto quello che ti hanno detto. Non è giusto che tu non possa documentare. Quello che accade va raccontato. Seguimi, ti mostro qualcosa».

Dopo qualche sentiero impervio e aver attraversato baraccopoli di lamiera, arriviamo alle spalle della raffineria. L’enorme centrale, praticamente attaccata a uno dei villaggi dei sobborghi, getta fiamme e fumo nero nel cielo, scaricando anche diversi liquami nel corso d’acqua sottostante.

«Vedi? Lì viviamo noi, proprio sotto le ciminiere. Le nostre case sono sempre piene di polvere e tutti abbiamo dei problemi respiratori o tumori, soprattutto i bambini. A nessuno importa, il ministero del petrolio ci fa arrivare dei soldi, ci garantisce l’assunzione per dei lavori nelle loro industrie, ma siamo tutti malati».

Gli impianti petroliferi qui usano ancora il sistema, obsoleto e pericolosissimo per l’ambiente, del «gas flaring»: bruciano all’aria aperta i gas derivati dall’estrazione del petrolio immettendoli quindi nell’atmosfera. Solo nel 2019, si è stimato che più di centomila persone siano state ricoverate per avvelenamento delle acque potabili, la maggior parte di loro erano bambini.

Un corridoio dell’ospedale, tra donne velate e pareti rallegrate a beneficio dei piccoli ospiti. Foto di Angelo Calianno.

Il Basra children hospital

Osama Abdullah, direttore del «Basra Children Hospital», a Bassora. Foto di Angelo Calianno.

Per trattare tumori e leucemie in età infantile, come punto di riferimento, c’è il solo Basra children hospital, che ha 125 posti letto, sempre occupati. Centinaia sono poi le famiglie che arrivano qui quotidianamente per i trattamenti di chemio e radio terapia.

Al Basra children hospital mi accoglie il direttore, Osama Abdullah: «Lavoro qui da 12 anni. La situazione è complicata perché molte famiglie, soprattutto quelle che vivono nelle zone rurali e più lontane, arrivano in ospedale in uno stadio delle malattie molto avanzato e, spesso, non c’è molto che possiamo fare». Chiedo: «Dottore, quali sono le cause principali di questi tumori in età infantile? E quanto c’entra l’inquinamento?». «È difficile fare una stima, anzi direi impossibile per la mancanza di dati. Alcuni sono fattori genetici, altri sociali, come i rapporti tra consanguinei. Sicuramente l’inquinamento ha degli effetti, ma in Iraq non c’è nessun istituto di ricerca che raccoglie i dati e li collega direttamente al numero di tumori e leucemie».

Karaar, uno dei giovani pazienti del «Basra Children Hospital», a Bassora. Foto di Angelo Calianno.

Il nostro interlocutore continua: «Noi cerchiamo di curare i pazienti, ma purtroppo non abbiamo anche le risorse per indagare sulle cause. Ci manca inoltre il personale: medici, tecnici, infermieri. Dall’Iraq ancora molta gente scappa via, qui abbiamo molti dottori giovanissimi sia residenti che tirocinanti, ma ce ne vorrebbero almeno altri 5-6 per ogni reparto».

Camminando per le corsie, incontro, oltre ai giovani dottori, tanti pazienti con le loro famiglie. Molti vengono da cittadine lontane e devono affrontare enormi sforzi economici per raggiungere questo ospedale, l’unico in tutto il Sud dell’Iraq. Bambini come Hussein, quattro anni di cui tre passati in chemioterapia, o Karaar, ragazzo di 15 anni affetto da una grave forma di leucemia. Sua madre mi racconta: «Ho cinque figli che ho dovuto lasciare per venire qui. Prima di poter arrivare abbiamo fatto anche molti test privati che non era possibile fare in ospedale. Ogni test costa 100 dollari, alcuni 200. Rimanere qui è gratuito ma non sempre si può. Quindi dobbiamo andare e venire per le cure giornaliere. Non so ancora per quanto potremmo permettercelo».

La madre di Karaar è solo un esempio delle decine di persone che, parlando con me, alla fine mi hanno chiesto un aiuto economico per questa gravissima situazione.

Bambini all’esterno di un’abitazione sulle «marshes». Foto di Angelo Calianno.

La Mesopotamia e le paludi in pericolo

La piaga dell’inquinamento non reca danno soltanto a ridosso delle raffinerie. Esiste un luogo in Iraq, dal 2016 anche patrimonio mondiale dell’Unesco, in cui è possibile misurare sia statisticamente che materialmente gli effetti dell’inquinamento: sono le marshes, le paludi della Mesopotamia, uno degli esempi più importanti di biodiversità di tutto l’Iraq.

Le marshes sono la più grande area umida di tutto il Medio Oriente, oltre diecimila chilometri quadrati di paludi che svolgono un importantissimo compito di «filtraggio» dell’inquinamento del Tigri e dell’Eufrate, preservando così la costa del golfo dalla degradazione. Oggi questa vastissima area è a rischio di scomparsa a causa del riscaldamento globale, della contaminazione delle acque e delle opere ingegneristiche degli stati confinanti.

Le marshes hanno una storia molto travagliata. Questi canali erano già navigati dai Sumeri e, stando agli scritti antichi, qui
veniva collocato il giardino dell’Eden. Nel 1991, durante il regime di Saddam Hussein, a Bassora ci fu una rivolta da parte degli sciiti, repressa dal dittatore nel sangue e nella violenza. I sopravvissuti a quella strage si rifugiarono qui. Le milizie sciite anti Saddam usarono questi canali e isole per nascondersi e colpire nuovamente il regime con diversi attentati. Il rais Saddam ordinò allora una massiccia opera ingegneristica per prosciugare gran parte delle paludi. In pochi mesi le marshes vennero ridotte del 90% e la sua popolazione scese da 400mila a 40mila. Un disastro ambientale senza precedenti. Saddam, in seguito, usò le terre ormai in secca, per piazzare rampe missilistiche e bombardare l’Iran.

Alcune abitazioni sugli isolotti delle «marshes», le paludi della Mesopotamia. Foto di Angelo Calianno.

Disastro ambientale nelle «marshes»

Qual è la condizione delle marshes oggi? E quella degli abitanti che ci vivono?

Abu Haider, proprietario di una piccola mandria di bufali allevata tra le acque delle paludi. Foto di Angelo Calianno.

A Chabaish, lo chiedo a Jassim Al-Asad, direttore del «Nature of Iraq», organizzazione che si occupa del monitoraggio, sensibilizzazione e protezione dell’ambiente in Iraq. «Sono nato nelle marshes. Ho visto questo luogo cambiare giorno per giorno. Ho vissuto il periodo di Saddam, quando le acque erano talmente basse da poter camminare sul fondo dei canali.

I problemi che minacciano ancora queste zone oggi sono molti e vanno affrontati uno alla volta. Il primo è sicuramente il riscaldamento globale, qui più evidente che in altre zone del mondo, per l’immissione dei gas delle raffinerie nell’atmosfera. Le temperature, in particolare negli ultimi quattro anni, si sono alzate moltissimo tanto che l’acqua d’estate evapora in quantità enormi. Di conseguenza, quella rimanente è salatissima e questa è una delle cause principali della morte dei bufali, animali che sono la principale fonte di sostentamento per la gente del posto. Quello che si coltiva serve per alimentare loro. I bufali vengono allevati per la carne, ma forniscono anche il latte e il burro. Ogni estate, però, ne muoiono a centinaia».

«Un altro gravissimo problema è quello della mancata affluenza dei fiumi. Le nazioni confinanti, come l’Iran, hanno costruito dighe che bloccano alcuni dei corsi principali, questa è una delle cause del prosciugamento. C’è stata anche una conferenza molto importante mediata dalle Nazioni Unite, ci siamo seduti al tavolo con i ministri iraniani. Loro ci hanno promesso che avrebbero aperto alcune dighe facendo affluire più acqua ma, come immagini, non è mai successo».

«Un terzo fattore di degrado è l’inquinamento che tu stesso hai avuto modo di notare: le fogne delle città scaricano direttamente nelle paludi. Una volta questi canali si navigavano con canoe mosse da lunghi remi, oggi, con l’introduzione delle barche a motore, non solo c’è più inquinamento ma il rombo delle imbarcazioni spaventa tante specie di uccelli migratori, altra componente fondamentale per la biodiversità di questi luoghi. Esistono molti piani ingegneristici in atto per migliorare questa situazione anche se, purtroppo, non ci sono ancora i fondi necessari. Abbiamo molta speranza che qualcosa possa cambiare ora che le marshes sono anche patrimonio
dell’Unesco».

Solcando i canali si scorgono paesaggi unici, mandrie di bufali che camminano nell’acqua, pescatori e tanti bambini sugli isolotti che salutano sorridenti.
È facile capire perché la gente è così affezionata a questi luoghi e perché così tanto, anticamente, è stato scritto al loro riguardo.

Abu Haider e alcuni giovani membri della sua famiglia seduti all’esterno delle loro abitazioni situate sulle isolette delle paludi. Foto di Angelo Calianno.

L’Unesco non basta

Jassim Al-Asad, direttore di «Nature of Iraq». Foto di Angelo Calianno.

In una delle isole incontro Abu Haider. Vive qui con la sua famiglia ed è proprietario di una piccola mandria di bufali. Scendendo dalla canoa vengo accolto dai suoi figli e nipoti. L’isolotto è una piccola fattoria con oche e galline, oltre ai bufali. Entro in una grande capanna che funge da sala da pranzo di giorno e camera da letto di notte, tranne che per Abu Haider. Il capofamiglia, infatti, dorme in una capanna a parte. Mi racconta: «Prima di Saddam lavoravamo anche molto con la pesca, oggi però c’è pochissimo pesce e l’unico nostro sostentamento deriva dall’allevamento dei bufali. Negli ultimi anni, però, d’estate fa così caldo che siamo costretti a spostarci verso i villaggi sulla terra ferma, perché le paludi stanno diventando invivibili, senza acqua e con temperature altissime. Quando andiamo via dobbiamo lasciare qui i bufali e, al nostro ritorno, ce ne sono sempre meno: ogni anno ne muoiono tantissimi».

Continuando a navigare, si notano anche molte capanne ormai abbandonate. La popolazione delle paludi continua a diminuire. Molti giovani preferiscono tentare la fortuna nelle città più grandi o addirittura in Iran e Turchia, piuttosto che continuare ad abitare questi luoghi sempre più difficili.

Pur essendo l’Iraq un paese che ha fatto molti passi avanti dopo la caduta dell’Isis nel 2017, qui si vive tuttora in uno stato di continua insicurezza. Sono ancora molti i villaggi, soprattutto nelle zone di confine, presi d’assalto dagli uomini del Daesh, oggi soprattutto per racimolare denaro e viveri.

Nel frattempo, il governo di Baghdad continua a concentrare molti dei suoi sforzi economici sull’estrazione del petrolio, lasciando così indietro i progetti di sviluppo e piani per la tutela dell’ambiente. La guerra in Ucraina ha aumentato la richiesta di combustibili fossili in questa zona, allontanando così un futuro migliore per molti iracheni che, per la propria salute e sicurezza, continuano a fuggire.

Angelo Calianno*

 (*) Dello stesso autore, sul sito di MC, si possono trovare tre altri reportage dall’Iraq usciti
ad aprile
e
maggio 2019 e
a luglio 2022.

Veduta dell’impianto petrolifero di Nahr Bin Omar, alle porte di Bassora. Foto di Angelo Calianno.


Risorse fossili e politica

La trappola del gas

Soltanto con la guerra di Putin (e di Medveded, Lavrov e Kirill) la maggior parte degli europei si è resa conto di quanto sia destabilizzante, per un paese importatore, la dipendenza energetica dai combustibili fossili. L’Italia è tra i paesi a più alta dipendenza dall’estero: il 77% del proprio fabbisogno. Il primo paese fornitore di petrolio all’Italia è l’Iraq che precede di poco l’Azerbaigian, seguito a sua volta da Russia, Libia, Arabia Saudita, Kazakistan, Nigeria e, con quote piccole (circa il 2%), da Angola, Stati Uniti ed Egitto. Tuttavia, è il gas che copre la maggior parte (41,8%) del fabbisogno italiano.

Stando ai rapporti dell’Eni, di gran lunga il primo importatore italiano, il principale fornitore di gas dell’Italia è la Russia (51%), seguito a distanza da Libia (13%), Algeria (13%), Azerbaigian (10%), Paesi Bassi (8%) e Norvegia (5%).

Dall’aggressione di Mosca all’Ucraina (24 febbraio) la situazione è precipitata in una spirale paradossale: paghiamo sempre più caro il gas comprato dal dittatore russo, il quale, in ogni momento e senza preavviso, può tagliare le sue forniture (per ricatto e per far aumentare il prezzo dello stesso e l’inflazione nei paesi importatori). Il governo Draghi sta cercando di ridurre la dipendenza dalla Russia, incrementando le forniture da paesi alternativi (Algeria, Libia e, per il gas liquefatto, Qatar, Congo, Angola e Mozambico). Tuttavia, la soluzione non è – scrive Lega Ambiente (maggio 2022) – «liberare l’Italia dalla dipendenza del gas russo per renderla dipendente da quello di altri paesi, molti dei quali con grandi problemi interni tra dittature e autocrazie». «Accelerare la crescita delle fonti rinnovabili – si legge sul sito di Italy for climate – permetterebbe all’Italia non solo di centrare gli obiettivi climatici, ma anche di ridurre la sua altissima dipendenza energetica dall’estero».

Non migliore è la politica dell’Unione europea. A febbraio, la Commissione ha incluso il gas (e il nucleare) nella «tassonomia verde» (la classificazione delle attività ecosostenibili), attirando dure critiche. Secondo le associazioni ambientaliste, se la decisione sarà confermata (lo scorso 6 luglio il Parlamento di Strasburgo non si è opposto), la tassonomia Ue bloccherà la transizione energetica e, inoltre, porterà miliardi extra nelle casse del Cremlino. Già ora Mosca riceve un miliardo di euro al giorno dai paesi europei, con Germania e Italia in testa. Oggi la Russia – ecco il paradosso e la trappola – esporta meno gas (petrolio e carbone), ma guadagna di più, attutendo perciò l’impatto delle sanzioni e finanziando la sua guerra in Ucraina. Il processo di decarbonizzazione è sicuramente difficile, lungo e costoso, ma urgente e indispensabile. È questo il momento storico per attuare quella «rivoluzione energetica» di cui tutti i governi si riempiono la bocca.

Paolo Moiola

Bambine di Bassora si recano a scuola passando accanto agli inquinatissimi canali della città irachena. Foto di Angelo Calianno.

Una famiglia all’interno di un’abitazione sulle «marshes». Foto di Angelo Calianno.

 




Dalla Bosnia. La porta è chiusa


Rispetto a quella del Mediterraneo, la rotta dei Balcani è meno nota ma sempre più frequentata. Qualunque sia la strada seguita, la questione delle migrazioni verso l’Europa rimane irrisolta. Reportage dai campi profughi della vicina Bosnia.

Silvia Maraone è la responsabile del progetto di Ipsia (Istituto pace sviluppo innovazione, la Ong delle Acli) a Bihać e a Lipa, in Bosnia. Schietta e cordiale, Silvia si muove con autorevolezza e determinazione con istituzioni locali, poliziotti, cittadini, volontari, operatori di varie organizzazioni e con i profughi.

Ci accompagna all’interno del campo di Lipa, raccontando come funzionano le cose, come sta evolvendo la situazione, quanto siano preziosi gli aiuti che arrivano dall’Italia.

Siamo nel distretto bosniaco di Una Sana, una terra ricca di fiumi e di boschi, con paesini caratterizzati da piccoli minareti. In questi luoghi, che trent’anni fa videro il conflitto dell’ex Jugoslavia, negli ultimi due anni si è creata un’emergenza straordinaria.

La cittadina di Bihać, che conta circa 30mila abitanti, ha visto arrivare seimila profughi, in maggioranza provenienti dal Medio Oriente e diretti in Europa. Persone che, nonostante il diritto di chiedere asilo, vengono bloccate proprio sul confine tra Bosnia e Croazia, dove si fa di tutto per non farle proseguire.

Una veduta del nuovo campo profughi di Lipa, in Bosnia, aperto il 19 novembre 2021; posto a 20 chilometri da Bihać, può ospitare fino a 1.500 persone. Foto di Geoffrey Brossard – Nangka Press – Hans Lucas – AFP.

La strategia di Frontex

Logo dell’agenzia europea Frontex.

È la «fortezza» Europa che non li vuole e che, come spesso accade, li ferma per interposta persona. In questo caso, è la Croazia – paese dell’Unione europea – che respinge i profughi, mentre la Bosnia prende il posto della Turchia o della Libia nel trattenerli. L’agenzia europea Frontex trova conveniente utilizzare la vicinanza geografica dei Balcani e la collaborazione di diversi governi desiderosi di entrare nella Ue (come la Bosnia Erzegovina), per rendere il contenimento dei migranti più semplice e, soprattutto, meno costoso.

Nel 2021, con un aumento del 125% di passaggi irregolari su questa rotta rispetto all’anno precedente, Frontex ha perseguito una logica securitaria fatta di fili spinati, campi di confinamento e militarizzazione dell’area. Ciliegina sulla torta, l’uso di moderne tecnologie, dai droni allo studio di sistemi di sorveglianza e controlli di tipo biometrico, come le impronte digitali, il riconoscimento facciale, ecc. (vedi Luca Rondi su Altreconomia n. 245). Pratiche che già molte organizzazioni contestano, considerandole illegali e pericolosissime dal punto di vista dei diritti umani e della privacy in campo digitale (lo si fa con i migranti, ma anche con i cittadini di molti paesi).

La mappa mostra i tragitti dei migranti per raggiungere la Bosnia.

Il «non luogo» di Lipa

Così la zona è divenuta una sorta di collo di bottiglia, e la radura di Lipa, a 20 chilometri da Bihać e da qualsiasi altro centro abitato, si è trasformata inizialmente in una tendopoli di quasi duemila profughi, mentre altri venivano ospitati in città, in due campi provvisori. Dopo l’incendio di un anno e mezzo fa, le organizzazioni internazionali e la municipalità di Bihać hanno deciso di attrezzare l’area, che ora si presenta più funzionale e dove in maggio è stata inaugurata una nuova zona per le attività dedicate ai bambini (grazie ai fondi inviati direttamente da papa Francesco). Ma non cambia il fatto che questo campo tra i boschi della Bosnia resti un «non luogo» in mezzo al nulla, con millecinquecento posti – fino a giugno, occupati da circa 400 ospiti – con ben poche possibilità di interazione con il territorio. Oltre alla distanza fisica, infatti, esiste anche una differenza culturale importante: la maggioranza di queste persone provengono da Afghanistan e Pakistan, ma ci sono anche siriani, iraniani e diversi africani. Oltre a un centinaio di cubani, la cui storia è davvero originale, nella sua drammaticità. Andare negli Usa può costare troppo, e allora si ripiega sull’Europa, e la Russia – non distante dal sogno europeo – è uno dei pochi paesi in cui un cubano può sbarcare senza visto (ma dove non può restare né chiedere asilo). Di respingimento in respingimento, anche i cubani sono finiti a Lipa, luogo nel quale tutti (maschi e femmine, famiglie, giovani e meno giovani, di qualsiasi provenienza) hanno un unico scopo: varcare il confine.

Alcune strutture del nuovo campo profughi di Lipa. Foto di Roberto Calza.

La struttura

Lipa è la tappa principale per chi prova e riprova «the game», il cammino verso l’Europa, ed è disposto a tutto per realizzare il proprio progetto migratorio. Un percorso sempre più ostacolato – anche con metodi brutali – dalle autorità croate che hanno persino «rasato» una striscia di bosco a ridosso del confine per individuare meglio con i droni coloro che provano ad emigrare – come cantava Ivano Fossati – «da una terra che ci odia ad un’altra che non ci vuole».

Ipsia è un’organizzazione particolarmente attiva a Bihać e nel campo, dove ha promosso alcune iniziative innovative, sostenute da molti donatori italiani, come il servizio di lavanderia, le cucine collettive, i social cafè. Il primo si era reso necessario per urgenti problemi igienico sanitari, in quanto molti migranti indossavano per giorni gli stessi vestiti senza poterli lavare e cambiare, cosa che aveva provocato diversi casi di scabbia. Le cucine – una decina di grandi bracieri a legna – sono invece una felice intuizione che permette a molti ospiti di sentirsi protagonisti nel cucinare i loro pasti, secondo la loro tradizione e le loro capacità. I social cafè sono infine una modalità per favorire le relazioni all’interno del campo, tramite un tè o un caffè, alcune attività ludico ricreative e culturali, con il supporto di operatori e volontari.

«Ora i posti a disposizione sono sufficienti e l’essenziale c’è – ci dice Silvia -, ma per proseguire con le cucine (cibo e legna costano 3/4mila euro al mese) e la lavanderia (altri 5mila) serviranno altri fondi, oppure dovremo ridurre il numero di beneficiari. Inoltre, oggi i profughi in tutta la Bosnia sono meno di duemila, ma se i numeri aumenteranno – come potrebbe accadere – rischieremo nuovamente di trovarci in difficoltà».

Oltre a Ipsia, il campo – ma anche la città di Bihać – vede la presenza di una decina di realtà internazionali e locali che hanno costruito efficaci sinergie finalizzate a rispondere alle innumerevoli esigenze portate dai migranti. Caritas Italiana (con l’appoggio di numerose Caritas diocesane), Caritas Banja Luka, Ipsia, Croce Rossa (sia internazionale che locale), l’agenzia delle Nazioni Unite per le migrazioni (Iom), alcune Ong di Danimarca e Austria e pure l’ambasciata italiana, hanno permesso di gestire la situazione in modo tutto sommato efficace, per quanto sempre emergenziale.

«All’inizio dell’emergenza – racconta il responsabile della Caritas di Banja Luka che a Bihać ha aperto un ufficio appositamente per far fronte alla complessa situazione – erano presenti una cinquantina di associazioni, che poi sono scomparse. Chi è rimasto ha capito che, perché le cose funzionassero, era necessario collaborare, facendo ognuno la propria parte».

Così il progetto lavanderia funziona grazie ai volontari e operatori Ipsia (tra cui alcune ragazze italiane in servizio civile) che raccolgono gli indumenti al campo, mentre la Croce Rossa di Bihać provvede al lavaggio e alla consegna, grazie a lavatrici industriali e furgoni finanziati dall’Italia. La Croce Rossa poi – autorizzata dal governo bosniaco a monitorare quanti si accampano nei dintorni (nei cosiddetti «jungle camp», vedi riquadro pp. 20-21) – condivide le informazioni con Caritas Bihać che, tramite tre suore di Madre Teresa, due infermiere e due psicologi, raggiunge questi dimenticati portando loro viveri, vestiti e assistenza sanitaria. Inoltre, per evitare uno sbilanciamento di risorse verso i profughi, si interviene anche sulle povertà della comunità locale. Similmente per la scuola: le attività e le risorse messe in campo per favorire l’inserimento dei bambini stranieri (in verità non molti), sono nei fatti destinate a tutti i minori, senza distinzioni.

Un migrante si prepara la cena in un rifugio di fortuna nei boschi fuori Lipa. Foto di Stefano Calza.

Sotto la cenere

Nonostante una situazione che al momento appare più tranquilla, restano impressionanti alcuni numeri forniti da Caritas Bihać, che opera grazie all’aiuto di varie Caritas in Italia e di altri donatori, nonché al supporto degli operatori Ipsia con cui collabora da tempo. Grazie ai fondi Caritas, in questi ultimi mesi la Croce Rossa locale ha distribuito 120mila pasti per il campo, a cui se ne aggiungono altri 40mila per quanti vivono accampati nei boschi e nei ruderi, mentre altri 16mila pasti vengono distribuiti in altre realtà. Allo stesso tempo si sostengono circa 400 famiglie bosniache bisognose di Bihać con aiuti di prima necessità.

Purtroppo, la questione migratoria non è l’unica preoccupazione. Daniele Bombardi, operatore di Caritas Italiana, che da anni viaggia tra Serbia, Bosnia e Kossovo, ammonisce: «Non è solo la questione migratoria a preoccupare. I compromessi su cui si è costruito il governo bosniaco dopo la guerra, appaiono sempre più fragili (riquadro a pag. 22). A livello governativo vi sono state alcune provocazioni, con richieste di autonomie che risultano divisive. E se non si presidia la situazione, basta una scintilla per riaccendere un fuoco che cova sotto la cenere».

Ogni tanto un paio di ragazzi escono dal campo con lo zaino in spalla. A loro non interessano i discorsi delle autorità venute a inaugurare il nuovo padiglione, né le beghe politiche nel governo bosniaco. Partono per «the game», alla ricerca di un futuro. Dovessero fallire e tornare indietro, Lipa probabilmente sarà ancora lì: un letto, un pasto e centinaia di compagni di sventura con cui condividere informazioni, fatiche e speranze. E qualche persona amica pronta a regalare un sorriso e a provare a salvaguardare la loro dignità.

Roberto Calza*

 (*) Già direttore della Caritas diocesana di Trento per dieci anni, attualmente referente per la pastorale Migrantes della stessa diocesi. Coordinatore della campagna «Cambiamo Rotta», promossa nel maggio 2021 da alcune realtà trentine a sostegno dei progetti di Ipsia a Bihać e Lipa in Bosnia.

Si parte per un nuovo tentativo di attraversamento del confine. Foto di Stefano Calza.


Storie di altri migranti

Ancora, ancora e ancora

Sopravvivono fuori dai campi ufficiali, ma resistono e non demordono: continueranno a provare il passaggio in Europa. Assistiti dai volontari del Jrs.

I boschi della Bosnia non sono la giungla tropicale, ma «jungle camp» è il modo in cui vengono indicati gli accampamenti nei boschi, fuori dai campi profughi autorizzati («squat» invece è il termine usato in area urbana). In mezzo agli alberi o appoggiandosi a qualche rudere nelle campagne piuttosto che a qualche capannone dismesso in una periferia urbana, alcune centinaia di persone stazionano nei pressi del confine, pronte all’ennesimo giro di giostra, per attraversare quella linea che li separa da un’Europa che, in questi anni, è divenuta una sorta di nuovo Eldorado.

All’interno delle attività del Jesuit refugee service (Jrs, in Italia rappresentato dal Centro Astalli), che ha un presidio nel campo di Lipa, c’è quella di «outreach», la ricerca di questi campi informali, con conseguenti visite a chi li popola, in particolare nella zona di Bihać e di Velika Kladuša. È un lavoro particolare, fatto di relazioni, di contatti, di condivisione di informazioni con altre organizzazioni e anche di un’attenta lettura del territorio. Se infatti alcuni luoghi sono ormai divenuti punti fermi di transito di molte persone, altre volte è necessario intuire – da un sentiero accennato in un prato, dalla presenza di volti nuovi in città, da qualche rifiuto lasciato nei boschi – dove si formano nuovi insediamenti.

Il sostegno che viene fornito da Jrs a chi vive nei jungle camp è principalmente di due livelli: quello materiale, che consiste nel rifornire i profughi di quanto può servire ad affrontare «the game» (es. vestiti e powerbank per i cellulari), e quello sanitario con visite mediche per accertare le condizioni di salute e, in caso di necessità, inviare le persone a professionisti (dentisti, oculisti, medici) convenzionati con l’associazione che paga il conto. Non è concesso consegnare viveri.

Un gruppo di volontari di Jrs visita un rifugio di migranti nei boschi attorno a Lipa. Foto di Stefano Calza.

L’altra faccia della rotta balcanica

Chi vive nei jungle camp? Per lo più si tratta di uomini, soprattutto pachistani e afghani, anche se non manca qualche famiglia (nei nostri giri abbiamo incontrato un paio di nuclei nepalesi e una famiglia iraniana) che decide di attendere in ripari di fortuna il momento buono per partire.

Sono luoghi che rappresentano l’altra faccia della rotta balcanica, che raccontano vicende che vale la pena far conoscere.

Nei pressi di una casa abbandonata alla periferia di Velika Kladuša incontriamo John, giovane camerunense che necessita di cure mediche. Ha infatti un labbro enorme, tumefatto da un pestaggio da parte delle guardie di frontiera, confermato dai segni di uno stivale sulla guancia. Gli operatori di Drc (Danish refugee council), la grande organizzazione danese che – tra i vari interventi – si occupa di fornire cure sul campo, esaminano il volto di John e sostengono che loro possono fare ben poco, meglio sarebbe se fosse sotto controllo medico per qualche giorno, per evitare complicazioni. Gli viene suggerito di farsi portare al campo di Lipa (è possibile chiamare il dipartimento per l’immigrazione bosniaco che fa questo servizio) dove l’assistenza medica è più strutturata e h24. John tentenna, non gli piace troppo dover tornare al campo, ma alla fine accetta, ponendo però una condizione: si farà trovare sulla strada principale, non vuole che il dipartimento immigrazione conosca esattamente l’ubicazione di quel rifugio né chi ci abita. Forse una sorta di rispetto per i suoi compagni di campo. Quando starà meglio, sicuramente farà tappa qui e poi, come tutti, proseguirà per fare un altro tentativo.

Un cartellone con i nomi delle organizzazioni attive nel nuovo campo di Lipa. Foto di Roberto Calza.

Dal Pakistan

Ci sono poi le storie di Sajad e Ibrahim, che troviamo insieme ad altri ragazzi pachistani in una vecchia fabbrica. Sajad, che compirà 18 anni quest’anno, ci racconta che, dopo diversi tentativi, era riuscito a passare – con un gruppo di quaranta connazionali – sia il confine croato che quello sloveno. A Novo Mosto, in Slovenia, la comitiva è stata fermata dalla polizia che ha chiesto chi fosse il capo del gruppo. Qualcuno ha indicato Sajad che – senza alcuna accusa precisa, senza una intermediazione né un traduttore e nemmeno una comunicazione formale – è stato arrestato e tenuto in carcere per sei mesi, prassi ormai piuttosto frequente. Una volta rilasciato – senza alcun processo – è stato rispedito in Bosnia.

Quella di Ibrahim, sui trent’anni, è invece una vicenda più complessa. Lui conosce quasi tutte le frontiere dell’Est Europa, avendo provato a passare da ogni pertugio possibile. Partito anche lui dal Pakistan, ha attraversato Iran, Turchia, Grecia, Kosovo, Albania, Serbia, Ungheria (passando il tristemente noto muro tra questi due paesi).

Arrivato finalmente in Austria, è stato fermato e riportato in Serbia e da qui in Bosnia. Tuttavia, Sajad e Ibrahim non demordono.

Proprio pochi giorni prima di incontrarli avevano riprovato «the game», insieme. Ma stavolta la reazione delle pattuglie che controllano il confine croato è stata particolarmente severa. Hanno preso loro i telefoni a cui hanno sparato, dando poi fuoco ai pochi soldi che avevano, ricacciandoli indietro ancora una volta.

La partita infinita

Dopo alcuni giorni passati tra queste persone diventa inevitabile chiedersi il senso di questo «gioco», che di ludico ha ben poco, e se non ci siano modi meno rischiosi e più dignitosi per arrivare in Europa. Ma il semplice fatto che qualcuno ce la faccia (e la cosa rimbalza velocemente di smartphone in smartphone) motiva tutti quelli che ancora – magari dopo aver provato 30 o 40 volte – sono in attesa. Perché qualcuno il confine lo passa comunque ogni giorno. In stazione a Zagabria, mentre torno in Italia, incrocio casualmente alcuni volti noti, sfiniti ma sorridenti. Sono ragazzi incontrati a Lipa alcuni giorni prima. Dopo tre giorni di cammino ora sono lì, forse a un passo dalla conclusione del loro progetto migratorio. Offro loro quel poco che ho, sperando arrivino alla loro meta.

Stefano Calza*

 (*) Laureando in sociologia, attualmente in tirocinio presso il Centro Astalli (Jesuit refugee service, Jrs) di Trento, da due anni vive un’esperienza di condivisione abitativa con alcuni migranti presso i padri comboniani del capoluogo trentino.

Rappresentanti di Jrs spiegano la loro presenza in Bosnia Erzegovina. Foto di Stefano Calza.


Bosnia-Erzegovina, venti di secessione

  • Superficie: 51mila Km2;
  • Popolazione: 3,8 milioni;
  • Sistema politico: dal 1995, Repubblica parlamentare federale composta da due entità: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (croato-musulmana) e la Repubblica Serba (Republika Srpska);
  • Presidenza: tripartita, con un rappresentante per ogni gruppo etnico: Milorad Dodik (serbo), Šefik Džaferović (bosgnacco), Željko Komšić (croato);
  • Capitali: Sarajevo, con circa 300mila abitanti; Banja Luka, capoluogo della Repubblica Serba;
  • Date essenziali: secessione dalla Jugoslavia nell’aprile 1992; guerra civile (1992-1995) con 38.697 civili uccisi; accordi di pace di Dayton (Ohio, Usa) del novembre 1995;
  • Principali gruppi etnici: bosgnacchi 48% (musulmani), serbi 37,1% (ortodossi), croati 14,3% (cattolici);
  • Religioni principali: islam, cattolicesimo, Chiesa cristiana ortodossa;
  • Economia: a 27 anni dalla fine della guerra, l’economia del paese rimane di sussistenza; lo stipendio mensile medio è di 500 euro; in crescita il turismo internazionale;
  • Gas: le forniture di gas provengono dalla Russia;
  • Situazione politica: la Repubblica Serba spinge per la secessione dalla Federazione bosniaca; come il governo di Belgrado, il leader Milorad Dodik è vicino alle posizioni di Vladimir Putin;
  • Bosniaci in Italia: 21.500 persone (dati Istat al 31 dicembre 2020);
  • Rotta balcanica: è il percorso dei migranti attraverso Grecia, Macedonia del Nord, Bulgaria, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia.

(a cura di Paolo Moiola)

Mappa della Bosnia Erzegovina e dei paesi nati dallo smembramento della ex Jugoslavia.


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Daniele Biella – Luca Lorusso, Ragazzi dimenticati, dossier, dicembre 2021;
Simona Carnino, Il «game» infinito dei respingimenti, aprile 2021.