RUSSIA – Fabbrica di sordomuti

Chiusa agli stranieri e inaccessibile ai russi, la città di Severodvinsk è la Cheobyl del Mar Bianco. L’autore
di questo articolo, che per ovvie ragioni si firma con uno pseudonimo, è riuscito a visitarla e ha scoperto cose mostruose.

Sono le 8 del mattino; il termometro segna 25° sotto lo zero all’aeroporto di Arcangelo, 1.300 km a nord di Mosca e 100 dal Circolo Polare Artico. L’impatto col gelo polare viene attenuato dal sorriso dolce di Sacha, la interprete, che mi aspetta all’uscita del velodromo, reggendo un cartello col mio nome scritto in rosso. L’accompagna Anatolij. Entrambi mi guideranno a Severodvinsk, meta del viaggio.
Chiusa agli stranieri, la città è quasi inaccessibile anche ai russi: fino a pochi anni fa avevano bisogno di un passaporto speciale per accedervi. L’isolamento geografico e politico la rendono misteriosa all’interno del paese e pressoché sconosciuta all’estero. Il permesso per accedere a questa «terra incognita» viene rilasciato occasionalmente agli stranieri dai servizi segreti (Fsb), dopo autentiche acrobazie diplomatiche e raccomandazioni di politici influenti.
CITTÀ GULAG
Costruita per ordine di Stalin nel 1936 a 35 km a ovest di Arcangelo, sulle rive del Mar Bianco, Severodvinsk è battuta dai venti polari 12 mesi all’anno, con temperature invernali di 30-40° sotto lo zero. «In realtà – rassicura Anatolij – a Severodvinsk fa freddo solo due mesi all’anno; gli altri 10 sono freddissimi!».
Negli anni ’30 furono scaricati nella zona circa 60 mila carcerati per costruire la città; nasceva così un campo di lavori forzati (gulag), dove vennero deportate le vittime del terrore staliniano, per essere fucilate o semplicemente lasciate morire di fatica o di freddo. Tra il 1936 e 1953 vi morirono 25 mila persone.
Oggi Severodvinsk conta 210 mila abitanti ed è una città strategica per il sistema di difesa russo: il gulag è sostituito dai cantieri navali Sevmash e Zvezdochka. Dal 1992 la Sevmash è l’unico cantiere della Russia in cui si costruiscono sottomarini nucleari (ufficialmente assembla macchine spazzaneve).
Dai cantieri di Severodvinsk sono usciti i sottomarini classe typhoon, nella denominazione americana, o akula (squalo), secondo quella russa: la più grande e devastante macchina da guerra creata dall’uomo, lungo 175 metri ed equipaggiato di 20 missili intercontinentali con testate nucleari multiple.
DAL NORD UN FANTASMA
Tre anni fa un uomo denutrito e assiderato dal freddo bussò alla porta di una Ong moscovita per chiedere aiuto. Raccontò la sua storia. Arrivava da Severodvinsk, dopo vari giorni di viaggio a piedi e autostop. Aveva lavorato nella fabbrica Sevmash fin dai tempi della guerra fredda, quando lo stipendio governativo per chi lavorava nell’industria bellica in zone disagiate era quattro volte superiore alla media nazionale. Da quando il governo non aveva più soldi per pagare gli operai, tutta Severodvinsk era senza lavoro e senza cibo.
Ma non era questo il motivo del viaggio di quel denutrito. Suo figlio, come molti bambini della città, accusava strane sindromi d’immunodeficienza che portano alla sordità. Il medico ne attribuiva la causa a iniezioni di antibiotici scaduti e non poteva farci nulla.
Sfidando la rete dei servizi segreti e della polizia che controllano la città, l’uomo aveva affrontato un viaggio così rischioso per far conoscere al mondo il problema che aveva colpito suo figlio e trovare i soldi per curare i bambini della città.
Quell’uomo era Anatolij. Ora è con me nell’auto con la quale andiamo a Severodvinsk, perché io capisca (ma non troppo) cosa vi sta succedendo.
NEL VENTRE DELLA BALENA
Alle mie domande Anatolij è evasivo. Continua a insistere che la versione ufficiale è giusta: nessuna relazione tra malattia del figlio e radioattività; questa è sotto controllo. Dice qualcosa che Sacha non traduce e finisce con Fsb (polizia segreta).
Pochi secondi dopo, l’auto si ferma davanti a una sbarra. Dalle folate di blizzard si materializzano due figure in divisa che appoggiano i colbacchi contro i finestrini appannati. Sacha si tormenta il labbro con gli incisivi. Dobbiamo scendere. Uno degli agenti mi porta in disparte nella neve ed esamina con lentezza esasperante il lasciapassare. «Viene da Mosca» spiego nel mio russo stentato. «Moskva daliekò» (Mosca è lontana) risponde l’agente, per sottolineare che oramai siamo nel ventre della balena della macchina militare.
Intirizziti dal freddo e dagli sguardi ancora più gelidi dei poliziotti, risaliamo sulla macchina e raggiungiamo la città. Dalla tundra s’innalza una ciminiera con un debole pennacchio. Anatolij spiega che è la centrale termica che riscalda l’intera città e fornisce acqua calda e gas per cucinare. «Anzi, riscaldava – continua la guida -. All’inizio dell’inverno Mosca ha stanziato, come al solito, i soldi per l’acquisto del gas; ma quest’anno il sindaco è sparito col malloppo, lasciandoci tutti al freddo. Tenuta a regime minimo, la centrale fornisce saltuariamente acqua calda, con gravi problemi per anziani, neonati e ospedali. Per cucinare la gente usa i ferri da stiro».
Mosca si è dimenticata di loro. Non esiste alcun piano di aiuto. Anzi, con la sua pesante burocrazia, il governo centrale ostacola l’invio di aiuti esteri. Recentemente un’organizzazione umanitaria tedesca aveva inviato una costosa e sofisticata apparecchiatura per sordomuti; arrivata alla frontiera, Anatolij si sentì comunicare che la tassa di sdoganamento era superiore al costo del macchinario. Non avendo i soldi necessari per il riscatto, l’apparecchiatura era rimasta nei magazzini della polizia di frontiera.
Anatolij racconta tutto con distacco, come se riguardasse qualcun altro. Il sorriso del suo viso scao, da prigioniero di gulag, diventa radioso quando entriamo in casa, accolti dalla moglie, figli e gatto Simion.
L’appartamento minuscolo è al quarto piano di un alveare prefabbricato, senza ascensore. Un paio di stufette elettriche non riesce a sciogliere il ghiaccio dai vetri. Per cena ci vengono serviti mirtilli, lamponi e funghi, raccolti nella bella stagione e conservati sotto vetro.
Quel poco che possiede questa fiera gente del nord lo divide con l’ospite, obbligandolo a mangiare a sazietà. Sacha commenta con tristezza che questa cena costringerà la famiglia di Anatolij a stringere la cinghia per qualche giorno.
SILENZIO! L’FSB TI ASCOLTA!
Nella luce rarefatta dell’inverno artico, le gru dei cantieri navali e l’interminabile profilo dei capannoni della Sevmash si stagliano sulla baia di Severodvinsk. Non possiamo sostare nei paraggi o fotografare: l’Fsb è sempre presente, anche se non si vede. In Russia i servizi segreti continuano a incutere paura, nonostante la fine della guerra fredda.
Anatolij non è da meno: teme per la sua famiglia e rifiuta di dare spiegazioni convincenti. Sacha, giovane e impulsiva, non tollera tale reticenza e sbotta: «I miei genitori sono entrambi morti di cancro a 40 anni; da sola ho dovuto crescere la mia sorellina. Ho 24 anni. Non vedo l’ora di andarmene da questo posto maledetto. Non è un luogo per vivere, ma solo per morire. Qui ho quattro probabilità in più di ammalarmi di cancro che a Mosca. La radioattività strettamente sotto controllo è una fandonia. Aria, acqua, funghi e mirtilli che hai mangiato a casa di Anatolij sono contaminati. Severodvinsk non è un cantiere, ma un’immensa pattumiera nucleare e noi ci viviamo come topi. Voglio mostrarti qualcosa, a mio rischio e pericolo. Fino a quando queste cose rimarranno nascoste, qui non cambierà mai niente».
La reticenza degli abitanti di Severodvinsk non è cosa da sottovalutare. Tra il ’94 e ’95 Alexandr Nikitin, ex capitano della flotta russa, poi impiegato di un’associazione ecologista norvegese, contribuì alla stesura di un rapporto sulla drammatica situazione della costa del nord. Quando le notizie furono divulgate, Nikitin fu imprigionato, processato e condannato a morte per alto tradimento, anche se l’esecuzione rimane sospesa.
Secondo l’articolo 10 della legge sull’informazione, infatti, «è proibita la pubblicazione di documenti relativi all’ambiente o situazioni straordinarie che possano compromettere la sicurezza delle aree industriali russe».
UNA CHERNOBYL
«AL RALLENTATORE»

Secondo il rapporto menzionato, Severodvinsk rischia di diventare una delle aree più contaminate della Russia, una Cheobyl «al rallentatore». Mentre nei cantieri Sevmash si costruiscono nuovi sottomarini, la Zvezdochka procede allo smantellamento di quelli vecchi e allo stoccaggio del combustibile nucleare esausto della marina militare. Tre grandi silos all’interno dei cantieri e uno fuori città contengono 12.530 metri cubi di materiale radioattivo solido per un totale di 4.620 tonnellate.
Dall’inizio degli anni ’80 è in funzione un inceneritore, capace di bruciare 40 chili di scorie all’ora. Ma fino al 1991 buona parte delle scorie erano scaricate negli antistanti mari di Kara e Barents (quei «mari puliti» dove i pescherecci della pubblicità prendono i merluzzi più appetitosi); altre erano gettate nella discarica municipale, in barba ai regolamenti sulla sicurezza. È vero, che quando esse venivano scoperte, erano riportate nei contenitori Zvezdochka, ma nessuno saprà mai quanta immondizia nucleare sia sepolta nei dintorni della città. Tale immondizia aumenta ogni anno di 520 metri cubi e i silos sono oramai al collasso della loro capacità ricettiva.
A 12 km dalla città, sulle alture di Mirovna, un bunker sotterraneo (il misterioso «oggetto 379») racchiude 1.840 metri cubi di scorie radioattive. L’acqua piovana che entra e esce attraverso le sue crepe, secondo una verifica fatta nel 1991, contiene da 100 a 10.000 Bq al litro di cesio e 100 Bq di cobalto (Bq = becquerel, unità di misura dell’attività nucleare; corrisponde a una disintegrazione al secondo: ndr).
Durante le riparazioni delle navi e ricarica dei reattori, i cantieri Zvezdochka rilasciano 10.000 metri cubi di gas radioattivo. Una quantità incalcolabile di radiazioni viene riversata sulla costa e l’area circostante da un silos per la raccolta di scorie a elevata attività, aperto in più punti, e dagli innumerevoli fusti sforacchiati sparsi nei capannoni, pronti per essere inabissati in fondo al mare.
Infine cinque contenitori galleggianti, tra cui la vecchia nave cisterna Ossezia, ormai in disarmo, contengono 563 metri cubi di liquidi venefici e disperdono una radioattività di 83,8 giga Bq.
Sacha non esagera.
LA CASA DEL BAMBINO
Sacha affretta il passo e punta come un siluro la porta di una casa bassa, con vetri rotti, addobbati con figurine di cartone. Sullo stipite una scritta sbiadita e contraddittoria: «Dietzky Dom» (casa del bambino).
«Noi la chiamiamo casa dei mostri. Non ho mai avuto il coraggio di entrarci prima d’ora. E capirai perché» spiega Sacha, mentre m’introduce in un ufficio, dove ci accoglie una simpatica signora corpulenta, che si presenta come la direttrice.
Fa freddo. Non c’è riscaldamento. «Questo è un ospedale speciale per bambini – comincia la direttrice -. Dipendiamo dal governo. Ed è già un problema. Sono nove mesi che non riceviamo lo stipendio; le medicine sono quasi finite; non abbiamo più cibo per i bimbi. Però c’è molta solidarietà. Il personale continua a lavorare, perché ama sinceramente questi poverini. Venga! Potrà vedere e fotografare quanto vuole».
Mi viene aperta una porta a vetri smerigliati alla fine di un lungo corridoio buio. La bianca luce artificiale mi abbaglia per un attimo, come l’alba di un nuovo giorno, finché scorgo nei lettini un centinaio di creature che si agitano informi, urlando suoni terribili. Non sembrano bambini. La maledizione nucleare ha tolto loro quegli attributi che li contraddistinguono come figli di una natura buona, che dona mani per giocare, occhi per vedere i colori, gambe per correre a scuola.
Sacha piange in silenzio, con le braccia strette alla vita, mentre la direttrice spiega che sono tutti figli di genitori sani, operai e impiegati dei cantieri Sevmash e Zvezdochka.
Una tragedia per gli abitanti di Severodvinsk. Alcuni bambini nascono deformi; molti diventano presto sordi o si ammalano di cancro; altri rimangono orfani, perché i genitori, nella disperazione di non riuscire a sfamare i propri figli, si suicidano.

Il permesso dell’Fsb è scaduto da diverse ore. All’aeroporto, Sacha e Anatolij mi salutano appoggiando la testa contro la mia. È l’usanza dei nenets, le etnie nomadi di origine mongola, che abitano nella parte orientale della regione e vivono da secoli in armonia con la natura, prima che arrivassero la guerra fredda e i sottomarini nucleari.

E. Knight




CINA – Mao sconfittto da Mc Donald’s

A 10 anni dalla strage di Tien’anmen, a 50 dalla rivoluzione comunista, il grande paese asiatico sorprende i visitatori occidentali per i progressi e il dinamismo della sua gente.
Pur tra contraddizioni e limiti, i cinesi apprezzano la «nuova via».

Sono ritornata in Cina dopo sette anni. Ho visitato alcune città importanti. Le ho trovate molto cambiate. Ma, soprattutto, è cambiata la gente.

ERA IL BENIAMINO
Beniamino è il nome che aveva scelto per lui l’insegnante d’italiano, perché era il suo studente prediletto.
Non so se credere a tutto ciò che racconta questo troppo sorridente mister Song. Parla a raffica e sa di esagerare: sembra proprio che non riesca a porre freno al fiume di parole, espressioni idiomatiche e proverbi tutti imparati a memoria alle lezioni di italiano. Lo sento eccitato dalle possibilità che gli offre il nuovo lavoro di interprete e guida.
Song non è mai uscito dalla Cina; eppure sa tutto dell’Italia, dell’Europa. La sua era una famiglia di medici a Pechino: anche la sorella e il cognato lo sono. Nato e cresciuto all’interno di un ospedale, dove i genitori lavoravano, al momento della selezione per entrare all’università, è stato indirizzato d’obbligo alla facoltà di lingue.
Ora gongola e non ne fa mistero. Si lascia sfuggire che ha potuto persino comprarsi una seconda casa, a Qindao, la più bella città della Cina. Una città costruita dai tedeschi nello Shandong durante il breve periodo della loro «concessione» in terra cinese.
A PECHINO In bicicletta
Non riconosco più la capitale della Cina. Sapevo che, in anni recenti, il paese era tutto un cantiere, mentre ne avevo un ricordo opprimente: cielo ed edifici grigi, afa, caldo e una folla immensa. Un mare di biciclette, un muro che dovevi sfidare per attraversare le strade, che per incanto, si apriva e richiudeva dietro di te.
Anche oggi i ciclisti non si fermano mai: sanno evitare pedoni e camion, e continuano a pedalare sereni. Molti sono donne, signore coi calzini di nylon, ragazze con guanti e mantellina leggera che protegge dal sole.
Vent’anni fa, drappelli di contadini delle «comuni», in uniforme blu, venivano guidati nei vasti spazi della «città proibita». Vi era stupore e ingenuità nei visi dei cinesi di allora. Visi segnati da fatica, denti guasti che denunciavano malnutrizione. Oggi i sorrisi mostrano dentature forti e sane; i berretti hanno scritte americane; i vestiti sono occidentali.
Ho portato con me l’uniforme blu che mi ero comprata allora, forse l’abito più pratico per il viaggio. Non le fanno più così, con la casacca a kimono, chiusa sul fianco da nodi di stoffa, e i pantaloni arricciati alle caviglie.
Percorro Wandi fujing, una grande strada commerciale che ormai ha poco di orientale. Nelle vie laterali sono spuntati grandi alberghi e edifici lussuosi e si costruisce ancora. È notte, ma i cantieri non si fermano. Un operaio batte il piccone sulla pietra e altri cinque stanno a guardare. Vedo passare bici-carretto, cariche di cucine con tanto di camino. Chiusi i mercati, si torna a casa, macinando decine di chilometri in una metropoli sterminata.
Tra i cantieri e neon, mai spenti, dei centri commerciali, noto qualche brandello delle vecchie case di Pechino, le case dei vicoli. Le riconosci perché sono basse e hanno tetti di coppi grigi. Accanto alla più bella, noto un cancello sormontato dalla croce. Una parete nasconde una delle quattro chiese cattoliche patriottiche di Pechino.
Un tempo queste case avevano il cortile, con un albero che dava frescura. Poi sono venute le fabbriche e ogni cortile aveva una ciminiera. Ne restano ancora tante, che spuntano fra i tetti, incongrue e abbandonate. Le vecchie famiglie avevano dovuto stringersi nelle loro abitazioni con decine di nuovi arrivati.
Ora Pechino ha più di 15 milioni di abitanti; nessuno lo sa con esattezza, tanto meno il governo. Ai contadini è proibito di spostarsi in città, pena una forte tassa da pagare.
Da 50 anni la capitale subisce devastazioni. La città era il luogo più sacro, il centro dell’impero: quindi del mondo per i cinesi. Distrutte le mura, ha conosciuto l’orrore della rivoluzione culturale, che ha risparmiato ben poco dell’«urbanistica divina» e ha inciso ancora di più sulle persone. Oggi, almeno, si costruisce meglio e gli abitanti hanno un migliore tenore di vita.
Agli occidentali spiace che si abbattano i vecchi quartieri, così tipici. Ma come far vivere la gente, senza servizi, nel centro della capitale?
A nord-ovest della «città proibita», un quartiere è stato risparmiato. Qui non sorgeranno grattacieli o case popolari. Le antiche e deliziose case di vicolo, circondate da muri di mattoni grigi e con l’unica apertura chiusa da un portone di legno laccato, sono state ristrutturate e dotate di ogni servizio. Naturalmente vi abitano i ricchi, che sono molti a Pechino.
Hanno riedificato templi e palazzi, rasi al suolo dalla rivoluzione comunista. Un ritorno d’orgoglio, per il glorioso passato, o un cinico calcolo di interesse turistico? Difficile dirlo, come è arduo capire quanto ci sia di fede vera nella frequentazione dei templi buddisti, lamaisti, taoisti, che risorgono in fretta dopo anni di chiusura. «Siamo atei – dichiarano i miei amici -. Tutti i cinesi lo sono».
Ma sono anche tanto superstiziosi.

I «MCDONALD’S» DI SHANGHAI
Siamo a New York o a Shanghai? File di palloncini rossi e ombrelli rovesciati sono appesi tra un tetto e l’altro delle case dall’aspetto troppo cinese.
Nel centro di Shanghai, nell’antico quartiere risanato, tutto è lucido, nuovo e ricco. Negozi di lusso si alternano a ristoranti, pagode e palazzi ricostruiti, affollatissimi. Nella frenetica metropoli sono più di 20 i McDonald’s e oltre 50 i Kentucky fried chicken. Shanghai resta comunque affascinante. Girato l’angolo, si scopre la vecchia città, che aspetta moribonda di essere spazzata via. Una città putrescente, fatta di casette a due piani e abbaini roventi strette nei vicoli scuri, dove la mattina passa il carretto a vuotare le latrine. Salveranno le casette più belle, insieme al quartiere inglese e francese con le villette vittoriane. Le altre saranno buttate giù.
Gli anziani, in pigiama, possono ancora sdraiarsi su sedie di bambù e prendere il fresco della sera. Si gioca a domino, si cucina, si vive sui marciapiedi durante l’estate caldissima.
Le luci, dall’altra parte del fiume, traggono in inganno. Sono edifici vuoti: grattacieli costruiti chissà da chi, con chissà quale danaro, per accogliere uffici e alberghi. File di villette, nate come funghi lungo le tangenziali che portano fuori città, sono vuote da anni: troppo care per i poveri e troppo brutte per i ricchi.
Anche i cinesi a volte fanno male i loro calcoli.
L’ESERCITO DI XIAN
Xian è diventata più bella, da quando hanno scoperto il famoso «esercito di terracotta». C’è ancora molto da scoprire, studiare e scavare intorno a quello che era il terminale della via della seta. Sensazionale il museo. Dovremmo imparare dai cinesi: in pochi anni hanno saputo creare dal vuoto di Mao centri di cultura, che sono pure operazioni commerciali. Nei lussuosi negozi che precedono l’ingresso ai musei, dove il visitatore deve comunque passare, si può comprare di tutto. Copie perfette degli oggetti esposti: cavalli, guerrieri, libri e altro.
A Xian conosco Marcello, un ragazzo volitivo e intelligente che ha imparato bene la storia e l’arte del suo paese. Oggi, invece di lavorare, lo vedo sempre al telefonino, una mania dei cinesi come degli italiani. Gli chiedo cosa sta facendo. Gioca sulla borsa di Hong Kong? Telefona alla fidanzata?
Mister Zhou (questo il suo vero nome) si ricompone e mi spiega: «Ho l’occasione di comprare la casa. Devo dare oggi una risposta. Ora ho deciso, prenderò un alloggio all’ultimo piano, il settimo; così pagherò di meno e avrò un appartamento di 70 metri quadrati». Zhou mi spiega che solo nelle case di oltre sette piani viene installato l’ascensore…
Jiang lo conosco nel Guizhou, una regione agricola, tropicale, nel sud. Originario di Wuhan, grigia megalopoli nel cuore industriale della Cina si è trasferito a Guilin, dove è ancora viva l’antica tradizione della pittura paesaggistica su carta di riso e seta. C’è sicuramente lavoro per un tipo sveglio come Jiang, che ha imparato presto l’italiano come tanti giovani «artisti» di questa città.
«LEI» e suo figlio
Lei è il nome di un’energica signora sui 50. La laurea in spagnolo l’ha ottenuta dopo una lunga interruzione degli studi durante la rivoluzione culturale. «Ero al secondo anno d’università -mi dice -. Con i miei compagni, fui mandata in una regione remota a lavorare la terra».
La famiglia di Lei ha origini contadine. I genitori, abbandonata la dura vita dei campi, raggiunsero Shanghai negli anni ’40. Entrambi trovarono lavoro nel più grosso emporio della metropoli, raggiungendo un certo benessere.
Dopo l’esperienza del confino nel regime maoista, Lei riuscì a laurearsi; sposatasi, venne ad abitare a Souzhou, piccola e storica città del delta, famosa per i giardini e le dimore dei mandarini. Il mandarinato è interessante. Il fatto che l’amministrazione di uno sterminato impero fosse affidata ad un’élite di intellettuali, scelti per merito dopo esami difficilissimi, mi affascina.
Lei ha un solo figlio, come vuole la legge per chi vive in città. Il ragazzo ha 25 anni; vive negli USA, a Filadelfia, dove lavora nell’industria elettronica guadagnando 100 mila dollari l’anno. Precoce da bambino: a 4 anni era in prima elementare e a 14 era pronto per l’università. Lei sapeva che le migliori opportunità per il figlio erano in America.
Riuscì a pagare il primo anno di università; poi si rivolse ad un parente, fuggito da anni ad Hong Kong, per un prestito. Dal terzo anno in poi, problemi non ve ne furono: il giovane lavorava e continuava a brillare negli studi. Dopo il dottorato, il lavoro presso una grande azienda.
«Sono stata l’anno scorso a trovare mio figlio – racconta Lei con un sorriso un po’ malinconico -. Filadelfia mi è piaciuta. Ma non saprei adattarmi. Non conosco l’inglese e le comunità cinesi, laggiù, non hanno niente in comune con la nostra cultura. E, poi, sono vecchia».
UN DILEMMA A CANTON
«Fatelo questo bambino, ma fatelo per amore e non per calcolo!».
Sono le ultime parole che rivolgo a Marisa, al controllo dei passaporti nella nuova stazione di Canton, che sembra un aeroporto: tutta marmi, cristalli e insegne luminose. Sento che devo chiamarla e incoraggiare la giovane donna che mi ha aiutato a scoprire la sua città.
Marisa Wu ha 31 anni e parla un italiano perfetto. Sposata e con un figlio, è una delle migliori guide della città. È riuscita a comprarsi un appartamento, ad un prezzo politico, in un vecchio stabile della cornoperativa dell’agenzia di stato. «Abbiamo speso 30 mila yuan (6 milioni di lire). Ora stiamo pensando di avere un secondo figlio; ma, per farlo, dovremmo pagare la multa di 60 mila yuan». Marisa ha un sorriso incerto quando mi confida i suoi dubbi. «Sono preoccupata per il futuro. Chi penserà a noi due, quando saremo vecchi?». La politica del figlio unico, in vigore da molti anni per arginare la crescita demografica, ha messo in crisi un antico sistema di vita, basato sui valori tradizionali. Primo fra tutti, il rispetto per l’anziano.
Questi grassi bambini cinesi della rampante classe media, super viziati e coccolati da nonni e genitori, domani si prenderanno l’onere di accudire gli anziani? Li ho visti sul volo Alitalia da Milano a Pechino, al ritorno da un viaggio in Europa, fare i capricci per lo swatch del duty free.
Se la Cina cambierà ancora con la presente velocità, quando Marisa sarà anziana, dei valori confuciani che hanno retto il suo paese per 2 mila anni rimarrà ben poco.

Claudia Caramanti




KENYA – …Affetto cercasi…

Si chiama Familia ya ufariji, cioè famiglia della consolazione: è la casa per i bambini di strada che i missionari della Consolata hanno costruita alla periferia di Nairobi. In un ambiente di serenità e amore,
i ragazzi sono aiutati a riacquistare fiducia in se stessi e nella società a riavere l’affetto di cui sono stati defraudati.

Kamau mostra delle cicatrici sulle gambe: la madre, in un momento di pazzia, lo aveva messo nell’acqua bollente e poi abbandonato nel bosco. Fu raccolto da un vecchio ubriacone, che lo tenne in casa per qualche giorno. Ma poiché il bimbo piangeva per le scottature, cominciò a picchiarlo, poi decise di portarlo all’ospedale. Quando fu guarito, il ragazzo si mise a vivere per le strade di Nairobi, finché fu preso dalla polizia e rinchiuso nel riformatorio di Kabete.
Come Kamau, altri 60 mila bambini di strada, a Nairobi, potrebbero raccontare simili storie di maltrattamenti. Una cinquantina di essi sono accolti nella Familia ya ufariji (famiglia della consolazione), una iniziativa avviata dai missionari della Consolata per accogliere i ragazzi di strada della capitale kenyana.

CORSA A OSTACOLI
L’idea di costruire la Familia ya ufariji nacque nella conferenza regionale del 1994. Durante le discussioni rimbalzava spesso una domanda: «Come missionari della Consolata, cosa possiamo fare, oltre alle tradizionali attività parrocchiali e diocesane, per rispondere alle attuali sfide della società del Kenya, come Aids, bambini di strada, ragazze madri, senzatetto?». Fu deciso di intraprendere un’opera sociale. Dopo un sondaggio in cui furono interpellati tutti i missionari, fu scelto di dar vita a un centro di accoglienza dei bambini di strada.
Lo stesso anno fu comprato un vasto appezzamento di terreno a Kahawa, periferia nord di Nairobi, e creato un comitato per disegnare il progetto e raccogliere i fondi. Ma la gente del posto, già impaurita dalla criminalità cui dovevano far fronte, non voleva ragazzi di strada nella zona; non fu facile convincerla che la loro presenza non avrebbe causato alcun inconveniente.
Più difficile fu superare gli ostacoli burocratici per ottenere l’autorizzazione e soddisfare tutte le pratiche legali. Una volta presentati gli incartamenti agli uffici comunali di Nairobi furono sottratti; una seconda volta smarriti. Finalmente, nel gennaio del 1997, si poté dare il via alle costruzioni. «Dato che questa zona vanta uno dei più alti tassi di criminalità di Nairobi – racconta padre Alessandro Signorelli, direttore del Familia ya ufariji -, cominciai a circondare la proprietà di un alto muro con filo spinato e istallare un potente allarme, per la sicurezza mia e dei ragazzi. Ciò nonostante, una notte i ladri sono riusciti a entrare indisturbati e rubare il ferro già cementato nelle fondamenta».
Ultimata la prima fase del progetto con la costruzione di due dormitori, salone-refettorio, cucina e casa dei padri, passarono altri mesi prima che l’ispettore governativo approvasse la funzionalità degli edifici e le autorità competenti concedessero il permesso di prelevare i ragazzi dal riformatorio. Nel settembre 1998 furono accolti i primi 12 ragazzi; altri scaglioni arrivarono nei mesi successivi, a mano a mano che procedeva la costruzione di altri dormitori.
Oggi sono 50 i bambini accolti nella casa; a settembre di quest’anno ne entreranno altrettanti. «Quando il progetto sarà completato – spiega padre Alessandro – potremo ospitare 120-150 ragazzi. Non intendiamo superare questo numero; ne scapiterebbe la formazione. Inoltre accogliamo solo i più piccoli, tra quattro e sei anni, perché più malleabili, indifesi e bisognosi di affetto».
«Il progetto prevede di prendersi cura solo dei maschi?» domando.
«Per il momento, sì – risponde padre Alessandro -. In futuro si vedrà: se trovassimo una comunità di suore disposte a vivere e lavorare in questa istituzione, potremmo estendere il progetto anche alle bambine».

INFANZIA BRUCIATA
Secondo le statistiche ufficiali, a Nairobi vivono circa 60 mila bambini di strada; la metà di essi non rientrerebbero in questa categoria: sono costretti dai genitori a mendicare per le vie della città; hanno quindi una famiglia cui la sera fanno ritorno per consegnare quanto hanno raccolto.
L’altra metà, invece, ha tagliato ogni legame con la propria famiglia: alcuni sono figli di prostitute; altri sono scappati dai maltrattamenti di genitori violenti e maneschi; altri ancora sono stati abbandonati da parenti poveri e disperati.
In città i ragazzi vivono nelle zone dove sono più sicuri e meno infastiditi; si aggregano in piccole bande per aiutarsi e sentirsi più protetti. Per sopravvivere fanno lavoretti improvvisati; chiedono l’elemosina; cercano nei rifiuti; poi condividono quello che hanno racimolato. Molti di essi si arrangiano ricorrendo a furti e altre attività illegali.
Ogni tanto la polizia fa delle retate, specie se i bambini sconfinano nel centro della città e in luoghi di maggiore affluenza turistica. Nella rete, però, cadono solo i pesci piccoli e inesperti. Portati in caserma, i ragazzi vengono interrogati; alcuni (pochi in verità) raccontano la loro storia e sono riconsegnati ai genitori e parenti; i più tacciono sulla loro provenienza e vengono rinchiusi nel riformatorio, dove sono costretti a una vita inumana. Alcuni riescono a scappare e ritornare sulla strada; gli altri aspettano che qualche organizzazione caritativa li richieda per offrire loro un futuro migliore.
«Tutti i ragazzi che accogliamo ci vengono affidati dal tribunale dei minori, dopo un esame della loro situazione sanitaria e familiare – continua padre Alessandro -. La legge proibisce qualsiasi altro canale non ufficiale, per impedire eventuali commerci di minori».
Quando arrivano alla Familia ya ufariji, i bambini hanno ancora i segni dell’infanzia bruciata: sporcizia e denutrizione, maltrattamenti e malattie, piaghe e scabbia. Soprattutto, sono chiusi e sospettosi di tutto e di tutti. Di fronte a qualsiasi domanda temono che li si voglia interrogare per riportarli al riformatorio o alla famiglia di origine.
In un paio di settimane i bambini si rimettono fisicamente in sesto. Più lungo e laborioso risulta, invece, aiutarli a rimarginare le ferite interiori, a riacquistare il sorriso e la naturale loquacità.

UNA VITA NORMALE
Tra i vari fabbricati non vedo alcun edificio scolastico né chiesa. «I più piccini vanno all’asilo, che si trova appena fuori delle mura – spiega padre Alessandro -. Gli altri camminano un po’ di più per frequentare le varie scuole pubbliche disseminate nella zona. La domenica vanno a messa in parrocchia, distante due o tre chilometri. Il sabato pomeriggio possono mescolarsi con i ragazzi del circondario, che vengono a giocare con loro nella nostra proprietà. Tutto questo li aiuta a liberarsi dal complesso di inferiorità e sentirsi parte della società. Voglio che i nostri ragazzi abbiano una vita il più possibile normale, come quella dei loro coetanei africani».
La normalità «africana» sembra un chiodo fisso di padre Signorelli. «Cerco di ricostruire l’ambiente africano il più possibile, soprattutto nel cibo che, pur abbondante e bilanciato, è conforme alla dieta a cui sono abituati – continua il padre -. Non voglio che crescano viziati, per cui non permetto che i turisti diano loro caramelle o altri regalucci. Nel salone non c’è alcuna televisione, poiché a casa non ce l’anno. La sera preferisco che giochino, perché si conoscano meglio e diventino più amici».
A creare l’amicizia contribuiscono anche la disposizione degli edifici e l’organizzazione in piccoli gruppi: 12 ragazzi per ogni camera. In gruppo e individualmente i ragazzi sono educati a pulire gli ambienti in cui vivono, lavarsi la biancheria, fare qualche lavoretto utile nell’orto… e tutto quello che la tradizione africana si aspetta dai bambini di questa età.
In linea di massima, i ragazzi rimarranno nella Familia ya ufariji fino a quando avranno completato le scuole elementari e qualche anno di quelle secondarie. I più promettenti saranno aiutati a frequentare le scuole secondarie e istituti tecnici che i missionari della Consolata gestiscono nelle varie missioni. Ma non rimarranno oltre i 18 anni; a questa età tutti i giovani africani devono essere responsabili del proprio avvenire.

RICREARE LA FAMIGLIA
L’unica abitudine africana bandita da padre Signorelli sono i castighi corporali. «Non voglio che i bambini vengano picchiati, come si faceva nel sistema educativo introdotto dagli inglesi – spiega il padre -. Tra l’altro, è proibito dalla legge del Kenya; ma il costume continua ugualmente, talora con atteggiamenti sadici. Se ci sarà bisogno di punizioni, studieremo i provvedimenti da prendere caso per caso. Ma nessuna punizione corporale».
Per formare i ragazzi e mantenere la disciplina, padre Alessandro ha scelto dei collaboratori africani sperimentati: una mamma, una maestra diplomata e un assistente. Una dozzina di persone curano l’andamento esterno della casa: custodi, guardiani, operai. «Lo scopo fondamentale della casa è espresso dal nome: “Famiglia della consolazione” – continua il padre -. Tutti, piccoli e grandi, devono sentirsi membri di questa famiglia e collaborare al suo buon andamento. Anche gli operai e lavoratori: ho spiegato loro che devono sentirsi coinvolti in questo fine, come fratelli maggiori, cercando di conoscere i ragazzi, rispettarli e trattarli come fratelli minori, bisognosi di affetto e attenzione».
Al tempo stesso padre Signorelli cerca di rintracciare la parentela dei ragazzi e restituirli alla famiglia d’origine, aiutando i genitori a far fronte alle eventuali difficoltà. «È il lavoro più difficile – conclude il padre -. Le timidi confessioni, i comportamenti che riflettono i drammi vissuti in famiglia e sulla strada (balbuzie, incontinenza nottua, chiusura e isolamento), mi dicono che questi bambini non vogliono avere più nulla a che fare con l’ambiente da cui sono fuggiti. Eppure sono tanto sensibili. Una sera un bambino si avvicinò e mi cantò una canzoncina: un gesto per esprimere i sentimenti più profondi e, soprattutto, per chiedere affetto e tenerezza.

Benedetto Bellesi




OCEANIAChiesa in alto mare

Si è svolto a Roma, dal 22 novembre al 12 dicembre
1998, il primo Sinodo dei vescovi per l’Oceania.
Le giovani chiese del continente continuano l’opera
di evangelizzazione e promozione umana
tra innumerevoli sfide: isolamento geografico,
complessità dell’ambiente multiculturale e
multireligioso, confusione provocata dal pullulare
delle sètte fondamentaliste, diversità delle condizioni
socioeconomiche delle popolazioni e scarsità di aiuti.
Un insieme di chiese sorelle che chiede solidarietà.

Non è facile rintracciare sull’atlante la diocesi di mons. Guy Chevalier, Taiohae o Tafenuaenata, nella Polinesia francese. «Vescovo nelle Marchesi – spiega -, a 1.500 km dal più vicino confratello vescovo. Sono abituato a un certo isolamento. Ma c’è un isolamento molto più serio: quello delle piccole comunità cattoliche (isole, villaggi o regioni) che, per la loro collocazione geografica e l’esiguo numero di abitanti, sono abituate a vivere senza sacerdote».
Ancora più problematico scorgere le isole Cook, «molto piccole e isolate, sparse in 240 chilometri quadrati di oceano». Viene da dire: povera chiesa universale, rintracciabile solo con la lente d’ingrandimento!
UNA CHIESA GALLEGGIANTE
Al Sinodo dell’Oceania un vescovo inizia il suo intervento scusandosi di non essere un teologo, ma aggiustatore di motori. C’è da capirlo: quando il fuoribordo va in tilt, non c’è nessuno che lo ripari all’infuori di lui; l’evangelizzazione tira i remi in barca. In Oceania l’attività missionaria non si misura in passi o a chilometri, ma a ore di navigazione. Che la geografia non abbia nulla a che vedere con l’evangelizzazione è opinione da dilettanti.
Le chiese d’Africa, America e Asia, di cui si sono celebrati i sinodi, hanno in comune la terraferma, che consente loro di stabilire i punti di partenza e arrivo, di misurare le distanze prima di spiccare il volo. I popoli continentali hanno qualche goccia di sangue in comune nelle vene. L’Oceania, al contrario, galleggia sugli oceani, dando la sensazione di una piattaforma sballottata dai flutti e senza meta fissa. I suoi popoli vengono da mondi ignoti e migrano verso altri altrettanto sconosciuti.
Anche l’Australia, Nuova Zelanda e Papua Nuova Guinea, pur così immense, fanno parte di quel mondo sparso, che si staglia contro il fondo verde mare, sul quale la missione naviga da due o tre secoli e ha avuto impulso con l’arrivo dei missionari dei Sacri cuori, maristi e Pime: una missione consacrata dal sacrificio di Damiano di Molokai, Pietro Chanel, Giovanni Mazzucconi, Peter To Rot, Mary Mckillop e altri santi e beati.
Un terzo della superficie terrestre ospita poco più di 30 milioni di abitanti; 700 i linguaggi soltanto in Papua Nuova Guinea. A rappresentare questa chiesa non sono stati scelti, come per gli altri sinodi, dei delegati: l’invito è stato rivolto a tutti. Hanno risposto 37 vescovi dell’Australia, 10 della Nuova Zelanda, 19 di Papua Nuova Guinea e Isole Salomone, 15 del Cepac (Conferenza episcopale del Pacifico), comprendente le isole minori come Samoa, Tahiti, Fiji, Nuova Caledonia, Guam, Wallis e Futuna, Kiribati, Marianne, Cook, Vanuatu ecc. Ognuno con il suo carico di problemi e soluzioni mancate.
UN SINODO TUTTO DIVERSO
Di strettamente episcopale c’è in essi la croce, che deve essere pesante e faticosa da portare. Si recano a gruppi verso la sala del sinodo, dondolando le loro cartelle come vecchi compagni di scuola, conversando in inglese con accento coloniale americanizzato che li accomuna, in francese e tedesco. Ne riconosci la provenienza dai nomi: Collins, Gerry, Baes, Loft, Reichert, Kurtz, Chevalier ecc. Non manca l’italiano, anzi il veneziano: è mons. Cesare Bonivento del Pime, vescovo di Vanimo in Papua Nuova Guinea, accompagnato dal giovane assistente indiano, padre Joseph Mathai Pullanappillil. Vengono poi i capi dicastero, i membri di nomina pontificia, esperti, auditori e auditrici.
Tra queste spicca la signora Elsie Heiss, della «nazione aborigena dei wirandjuri», alta, bruna, vestita all’occidentale, con un accento inglese da intellettuale e un leggero tocco di stravaganza che la rende distinguibile a prima vista. È addetta all’ufficio per la Pastorale degli aborigeni nel settore della sanità dell’arcidiocesi di Sydney.
Sono abbastanza numerosi gli aborigeni: circa 400 mila solo in Sydney e quasi altrettanti nella diocesi di Parramatta, suffraganea di Sydney; ma per l’opinione pubblica australiana essi non supererebbero i 300 mila. Sono state abolite le riserve, monumenti eretti dalla discriminazione razziale: dal 1948 gli aborigeni hanno cominciato a essere accolti, a gruppi scelti, nelle scuole cattoliche e in quelle pubbliche. Ma nella chiesa stentano a farsi strada: non ci sono ancora sacerdoti aborigeni, soltanto qualche diacono. «Vorrei dire ai vescovi e cardinali di aprire le porte anche alla mia gente – afferma Elsie -, perché possano diventare sacerdoti. Ne abbiamo bisogno come gli altri».
Il problema aborigeno è affiorato più volte nel sinodo, mentre la signora Heiss ha fatto un intervento di grande ispirazione: «Poiché l’inculturazione – ha detto fra l’altro – rappresenta un termine accettabile per la nostra comunità ecclesiale, noi portiamo alla chiesa i nostri valori spirituali e culturali, che possono contribuire ulteriormente all’arricchimento delle comunità cristiane».
OGNI CHIESA È UN’ISOLA
Il sinodo apre i suoi lavori su «Gesù Cristo e i popoli dell’Oceania» con una panoramica d’insieme esposta all’assemblea dal relatore generale, mons. James Hichey, arcivescovo di Perth in #Australia. Prima di dare lettura della relazione, assicura i presenti che è stata commissionata una mappa della chiesa in Oceania per facilitare la comprensione degli interventi a tutti i partecipanti, compresi gli addetti all’informazione; che è quanto dire: appartenere alla chiesa d’Oceania non significa conoscere tutte le chiese della Melanesia, Micronesia, Polinesia, Australia, Nuova Zelanda e Papua Nuova Guinea, ma cercare in tutti i modi di avvicinare i popoli e le comunità accorciando le distanze che finora li hanno tenuti separati.
La missione, da quando è esistita, ha sempre avuto a che fare con linguaggi e culture, ma qui si è aggiunta un’altra barriera: quella delle distanze. «Navi, battelli, canoe e aerei – dice il relatore – in Oceania sono sempre stati più importanti che automobili e treni». Forse è racchiusa, in questa espressione ovvia, la chiave per comprendere la natura dell’evangelizzazione in Oceania, dove rari sono contatti e scambi, perché qui ogni uomo è un’isola. Non si è mai parlato di distanze nei precedenti capitoli, neppure in quello dell’Asia dove, presumibilmente, il problema esiste, ma su terra ferma.
I temi focalizzati ritornano nelle assemblee e nei lavori di gruppo, che si sono svolti dal 22 novembre al 12 dicembre. A ognuno il compito di metterli sul tavolo in modo comprensibile e condivisibile da tutti.
SFIDE DI CULTURE E SÈTTE
In questa comunità di intenti e nella fede partecipata si riconosce la chiesa di oltre mezzo mondo, rappresentata da un pugno di uomini e di donne. Ritorna con martellante insistenza il tema dell’incontro del vangelo con la cultura, che non avviene in modo indolore, perché ogni penetrazione del vangelo cambia pensiero e vita. Il prefetto apostolico delle isole Marshall, il gesuita C. Gould, invita alla sfida, «laddove la cultura dominante sembra contraria al vangelo e al modo di vivere cristiano».
L’intento è buono, ma la comunità è troppo fragile per resistere alle sollecitazioni della tradizione e delle novità. A volte stravolge il senso del vangelo e ne ricava soluzioni deformanti, come le sètte. Sono queste un fenomeno deviante che non risparmia nessun angolo dell’Oceania. Alcune sono importate, altre di origine locale. «Nelle Samoa americane – dice mons. Quinn, vescovo di Samoa-Pago Pago – gruppi religiosi a tendenza fondamentalista fanno riferimento a comunità religiose della “corrente principale”, sia protestante che cattolica, e attraggono persone di ogni età, grazie allo stile accattivante, compartecipazione, musica e finanziamenti esteri». Preoccupa i vescovi la divisione che le sètte operano in alcuni villaggi, mettendo a nudo «il punto debole del cattolicesimo»; come preoccupa il crescente numero di matrimoni misti e separazioni che ne conseguono.
E qui viene messo in causa il Codice di diritto canonico del 1983: a giudizio di mons. Boyle, vescovo di Donedin (Nuova Zelanda), esso lega le mani a vescovi e sacerdoti più di quello del 1917, al punto che ciò che era permesso prima è vietato oggi, e viceversa. È permesso solo ciò che dice il Codice. Questo criterio, a giudizio del presule e di altri, oltre che creare confusione nei sacerdoti, determina una fuga dalla chiesa a tutto vantaggio delle sètte.
«Talora – annota mons. Lolesio Fuahea, vescovo locale di Wallis Futuna – le sètte sono dei circoli chiusi, formati da gente influente, che cercano di dominare il paese e la chiesa». In Papua Nuova Guinea molte sètte deriverebbero dalla cosiddetta cargo mentality, che intende entrare in possesso dei beni che gli europei hanno sottratto con l’astuzia, facendo uso degli stessi metodi.
LOTTA ALL’IGNORANZA
Il proliferare delle sètte viene attribuito specialmente all’ignoranza religiosa dilagante ovunque. Le scuole cattoliche, che formavano la base per una evangelizzazione intelligente e cosciente, danno segni di cedimento e laicismo. L’allarme sale da più parti. Il vescovo autoctono di Suva nelle Fiji, Petero Macata, teme per il futuro della scuola, a motivo del dilagare dei «nuovi gruppi religiosi (sètte), che offrono un consistente supporto finanziario per colpire i cattolici di spicco proprio nell’istruzione dei loro figli. Soldi per i pesci grossi… Speriamo di poter conservare le nostre scuole». Nel caso contrario, la chiesa perderebbe la base più importante della sua evangelizzazione, che aveva di mira la formazione di un laicato efficiente e responsabile.
Al problema della scuola è direttamente legato quello della formazione dei catechisti e, soprattutto, dei sacerdoti. «Il numero delle vocazioni locali – ammette il card. Tomko – aumenta con buon ritmo, anche se insufficiente». Più esplicito mons. Cesare Bonivento della Papua Nuova Guinea, per il quale il problema non sta solo nella quantità e qualità dei candidati, ma anche nell’impegno dimostrato dai pastori. «Se ci impegneremo poco in questa direzione – avverte – daremo sempre l’impressione che la nostra chiesa è riluttante a diventare chiesa locale».
Molti altri i problemi studiati e dibattuti: comunione e dialogo; diritti umani e insegnamento sociale della chiesa; problema dei sacerdoti soli, dei diaconi sposati, dei catechisti facenti funzione di preti, di comunità rimaste senza eucaristia sei mesi all’anno.
C’è soprattutto un senso di impotenza, a partire dai vescovi stessi, i quali si sentono incapaci di intervenire, perché privi dei collegamenti necessari, non esclusi quelli finanziari. Qualcuno ha espresso la propria «preoccupazione per il fatto che i criteri delle agenzie di benefattori, specialmente quelle cattoliche, possono essere diversi da quelli delle nostre aree in via di sviluppo. Si spera che i criteri di donazione non escludano i bisogni delle chiese particolari in Oceania o in qualunque altro posto».
Un appello alla solidarietà mondiale perché non distingua tra poveri in macchina e poveri in canoa.

Giovanni Tebaldi




ARGENTINAI maestri di Menem

La «carpa blanca» dei docenti argentini è simbolo della lotta di tutti i lavoratori contro una concezione economica che non rispetta la dignità delle persone.
E che ha generato quasi 9 milioni di poveri, il 25% della popolazione argentina.

Buenos Aires – È una protesta straordinaria per la durata, la partecipazione, l’originalità. Dal 2 aprile 1997 gruppi di docenti argentini si alternano in uno sciopero della fame effettuato in una grande tenda piantata in «Plaza de los Dos Congresos», proprio davanti al palazzo del parlamento.
L’inquinamento atmosferico (che nella capitale è notevole) ha trasformato il suo colore bianco in un grigio sporco, ma poco importa. Per tutti è la Carpa blanca.
In questi quasi due anni, in essa sono passati più di 600 digiunanti, che si danno il cambio ogni 15/20 giorni. Maestri, precettori, professori, direttori: docenti di tutti i tipi (con l’esclusione dei professori universitari) e di tutte le province argentine si danno il cambio per contribuire di persona a uno sciopero che non ha precedenti nella storia sindacale del paese.
Gli obiettivi della lunghissima battaglia non si limitano a richieste di aumenti salariali (per tutti i livelli e in tutto il paese, da La Quiaca alla Terra del Fuoco), ma sono finalizzati a una revisione integrale del sistema educativo dell’Argentina.
I docenti chiedono la creazione di un «fondo de financiamento educativo» e una nuova legge di «educación pública nacional»; respingono, inoltre, tutti i progetti governativi che prevedano l’introduzione della flessibilità sul lavoro e la soppressione della copertura sanitaria pubblica per i lavoratori dell’educazione.

UNA LEZIONE PER TUTTI

Entriamo da una porticina laterale, quasi in punta dei piedi per timore di disturbare. Ma all’interno c’è molto movimento. Marta Maffei, segretaria generale del CTERA (la «Confederation de Trabajadores de la Educación de la Republica Argentina», che rappresenta 192.000 docenti), è intervistata da un gruppetto di giornalisti. Alcuni studenti parlano con un’insegnante. Altre persone stanno disegnando manifesti di protesta. Ci sono sedie accatastate, tavoloni pieni di carte, lavagne con messaggi di tutti i tipi, un televisore acceso.
Gli scioperanti si riconoscono immediatamente, perché indossano un camice bianco, e una targhetta avverte che sono maestri in sciopero della fame. In tre si offrono di farci da guida. Cesar Olivares è precettore a Moreno, nella provincia di Buenos Aires; Margherita Aqueveque insegna contabilità in una scuola secondaria nel Rio Negro; Alicia Ferrada lavora in un asilo di Esquel, nella provincia di Chubut.
La tenda è divisa in tre parti distinte: a destra (rispetto all’entrata principale) c’è uno spazio per le riunioni, le telefonate e la distribuzione delle bevande; al centro c’è una stanza per accogliere i visitatori; a sinistra c’è l’ambiente più privato, dove sono state sistemate le brande per il riposo.
Chiediamo in cosa consista lo sciopero. «Non assumiamo – ci spiega Margherita – alcun tipo di alimento. Prendiamo soltanto liquidi». E, per farci comprendere meglio l’organizzazione, ci mostra un foglio appeso a un pannello. Esso indica con precisione tutte le bevande da assumere: ogni mezz’ora, a partire dalle 7,30 del mattino, un liquido diverso (thé, mate, Seven-up, ecc.). «Questa tenda – spiega Cesar – è un esempio di pace, di lotta, di solidarietà. Noi qui dentro conviviamo con persone che non conosciamo, provenienti da altre province. C’è gente che viene da molto lontano, lasciando la famiglia per almeno 20 giorni. Gli argentini non vogliono più violenza. Per questo una manifestazione pacifica come la nostra ha l’appoggio della società».
«Il nostro salario è talmente basso che provo vergogna a dirlo» confessa Cesar. La retribuzione media per un insegnante è di 350 pesos mensili. Per comprendere l’esiguità della somma, sono sufficienti due dati: un salario di 300 pesos è considerato un salario da fame o di pura sopravvivenza; d’altra parte, secondo gli istituti di ricerca argentini, una famiglia con due bambini per coprire le necessità basilari avrebbe bisogno di almeno 1.030 pesos al mese.
«Tutti sappiamo – ha detto il deputato Andres Delich – che i problemi educativi non si esauriscono nei bassi salari dei nostri docenti. Tuttavia, allo stesso tempo, sappiamo che senza salari degni risulta impossibile qualsivoglia progetto serio di miglioramento della scuola argentina». Ma non tutti, in Argentina, sono d’accordo. Ancora in luglio, Roque Feández, ministro dell’economia, aveva detto: «È vero che i maestri guadagnano poco, ma è altrettanto vero che lavorano poco».
Marta Maffei, appena riconfermata alla testa del CTERA, porta dei grandi occhiali e un telefonino che squilla in continuazione. Ci dice: «Nella carpa, nelle strade, nelle scuole continuiamo a lottare per un’Argentina giusta per tutti. Noi non vogliamo un maquillaje, chiediamo cambi profondi. Nella carpa de la dignitad, con la forza, la convinzione e la serena fermezza dei maestri abbiamo detto no alla violenza istituzionale, alla rassegnazione, all’isolamento. Abbiamo mostrato un sindacalismo differente che usa strumenti diversi. È bello poter contare sulla solidarietà della gente per combattere contro questo fondamentalismo neoliberista, globale e selvaggio».

PER UN PUGNO DI «PESOS»

Pare che la Carpa blanca dia molto fastidio al presidente Carlos Menem e ai politici della maggioranza. Quando, lo scorso settembre, si parlò di installae una anche davanti alla Casa Rosada, in Plaza de Mayo, intervenne a vietare l’iniziativa il responsabile degli interni, Carlos Corach. Il ministro giustificò il divieto affermando che Plaza de Mayo è un «monumento storico nazionale» e che, pertanto, non può essere fatta oggetto di manifestazioni.
Il governo ha sempre sostenuto che non c’è denaro per finanziare le richieste dei docenti. Per sbloccare la situazione, in settembre i deputati hanno approvato il progetto governativo di un’imposta d’emergenza dell’1% (annuale) sul valore delle automobili: il denaro raccolto in questo modo (700 milioni di pesos, secondo le stime ufficiali) avrebbe dovuto finanziare un aumento dei salari dei docenti. Il progetto è stato però modificato dal Senato e, quindi, è tornato alla Camera, dove è attualmente fermo. Nel frattempo, il mercato dell’auto è crollato dell’11%…

IL DISEGNO DI MENEM

Che il budget statale sia limitato corrisponde a verità. Inoltre, in questi anni di politiche neoliberiste, la situazione sociale è degenerata e il governo ha dovuto riempire più le pance che le teste degli scolari: le spese per dare da mangiare ai bambini hanno prevalso su quelle per l’istruzione.
Secondo dati ufficiali, oggi in Argentina ci sono 1.357.995 famiglie che vivono in condizioni critiche; il numero dei poveri arriva a 9 milioni di persone, circa il 25% della popolazione argentina. Cifre allarmanti, soprattutto davanti ai proclami trionfalistici fatti dal presidente e dai suoi ministri economici. Ma Menem non sembra preoccupato, forse perché ha deciso di rispettare la costituzione non candidandosi (sarebbe stata la terza volta consecutiva) alle elezioni del 1999. È probabile che nella sua testa ci sia un progetto di più lungo respiro: ripresentarsi nel 2003, possibilmente nelle vesti di salvatore della patria.

Paolo Moiola




KENYAScommettiamo sui giovani (seconda parte)

Continua il viaggio nella diocesi di Marsabit.
Morijo, Maralal, Wamba: stessi problemi di povertà,
insicurezza, banditismo, impraticabilità delle strade…
E identiche testimonianze di amore e di speranza:
missionari e missionarie della Consolata investono
la loro vita in istruzione e sanità, per un futuro migliore
di queste regioni e del resto del paese.

Morijo: 2.000 metri di altitudine. L’aria è frizzante, ma l’accoglienza di padre Aldo Vettori è calorosa: «Per i superiori questa è una missione ad personam» esordisce con una fragorosa risata. L’ha iniziata 11 anni fa, partendo da zero, dopo aver fondato e organizzato la missione di Barsaloi.
Padre Aldo racconta a ruota libera virtù e miracoli dei suoi samburu; fornisce la sua versione sulle passate lotte tribali; descrive con passione il suo lavoro missionario, catechisti e catecumenati, organizzazione comunitaria impressa alla parrocchia, progetti realizzati o ancora nel cassetto. Rimango a bocca aperta, come 42 anni fa, quando raccontava le avventure di naia e lotte sindacali. Non è cambiato di una virgola: sempre entusiasta di tutto e di tutti. Essendo io cresciuto, faccio mentalmente un po’ di tara.
I fatti mi fanno ricredere. Morijo è un cantiere aperto: nel cortile i meccanici aggiustano le macchine; nella falegnameria stridono pialle e seghe; poco lontano alcune donne sistemano la cucina della scuola, i muratori riparano le case dei maestri, altri costruiscono la sede della polizia. Qui padre Aldo alza la voce: minaccia il governo di sospendere tutto, se non arriva il granoturco promesso per pagare lavoro e materiale. Gli operai gli danno ragione e continuano la costruzione.
Visitiamo il dispensario, la scuola, l’asilo, il laboratorio di taglio e cucito e il serbatornio dell’acqua: fiore all’occhiello della missione. Da lontano sembra un diroccato castello medievale, da vicino un’opera geniale: il fianco d’una collina è stato sbancato, pavimentato e circondato da un muro, per raccogliere l’acqua piovana e convogliarla in un’enorme cisterna. Per le stagioni secche, padre Aldo ha scovato una falda acquifera in una valletta; ha scavato un pozzo di 140 metri e, con un motore, pompa l’acqua nel serbatornio. Le famiglie più isolate, con casa in muratura e tetto di lamiera, sono aiutate dalla missione a costruirsi un modesto serbatornio dove raccogliere l’acqua piovana: è il «progetto anfora».
La visita è quasi finita. Uno stuolo di donne aspetta il missionario per esporgli i loro problemi, sicure di ricevere un aiuto. Ci sono anche alcuni catechisti e uomini armati. «Sono le mie “guardie del corpo” – dice padre Aldo sorridendo -. Ogni notte si dispongono strategicamente attorno al villaggio, per difenderlo dai malintenzionati. Qui mi sento sicuro».
Morijo è l’unica missione senza reticolati, muri di recinzione e cancelli blindati, eretti negli ultimi anni per motivi di sicurezza in tutte le missioni visitate.
Alcune persone sono venute a vendere latte, favi di miele, legna, carbone. Padre Aldo compera tutto, aiutando la gente a guadagnarsi qualche soldo; poi lo rivende ai poveri a minor prezzo di quanto lo ha pagato. Confratelli un po’ maligni raccontano che uno stesso sacco di carbone venga più volte comprato e rivenduto agli stessi poveri. Padre Aldo ha un cuore troppo grande per accorgersi di tali sottigliezze.
A proposito di cuore: padre Aldo, 68 anni, di cui 30 vissuti in Africa da pioniere solitario, ha fatto tre by pass, ma si sente ringalluzzito. «Per ringiovanire l’istituto, ho suggerito al superiore generale di sottoporre i vecchietti alla stessa operazione» dice ridendo sonoramente. Poi confessa di non poter guidare a lungo come una volta; che preferisce il giorno alla notte, perché può muoversi e respirare senza fatica.
I superiori tentano di dargli un collaboratore: ma non è facile trovare chi resista ai suoi ritmi. Gli hanno proposto il trasferimento in una parrocchia più comoda, anche se sanno che, dovunque andasse, comincerebbe a mettersi in proprio e fonderebbe un’altra missione ad personam.

Maralal, ore 6.30, concelebro con padre Marino Gemma: da una collinetta poco lontana un altoparlante vomita musica assordante, seguito da un sermone a squarciagola. «È così ogni mattina – spiega padre Marino -. La chiesa dell’Assemblea di Dio è sempre vuota, ma il pastore fa la predica a tutta la città. Qui i cattolici sono in maggioranza; ma il pullulare di sètte religiose sta creando grande confusione, specie tra i giovani».
I giovani: sono la grande sfida della parrocchia di Maralal; se ne contano a migliaia nelle numerose scuole elementari e superiori della città. Se ne occupa padre Marino quasi a tempo pieno: ogni giorno, al pomeriggio, si reca nelle varie scuole per insegnare religione, incontrare gruppi di Azione cattolica e istruire catecumeni; la sera visita una delle 16 piccole comunità cristiane della città. «Sono quasi tutte formate da kikuyu: è bello vedere come la fede sia radicata nella loro vita; più che nei cristiani di qualsiasi altra etnia».
La parrocchia è il punto di riferimento della gioventù anche fuori della scuola. Ogni fine settimana vengono organizzati toei sportivi e competizioni culturali. «Non si tratta solo di farli divertire – spiega il missionario -, ma di promuovere conoscenza reciproca e amicizia, di cui sentono tanto bisogno.
Le attività giovanili culminano con la Consolata Cup, nel mese di giugno, a cui partecipano tutte le scuole di Maralal».
Altre opere a favore della gioventù sono gestite dalle missionarie della Consolata, come il collegio per studentesse di scuole secondarie e l’«Irene Training Center»: un istituto professionale, dove le ragazze si specializzano in tessitura, cucito, maglieria, lavorazione del cuoio, scienze domestiche, e conseguono un diploma che le abilita all’esercizio di una professione e a insegnare le materie in cui si sono specializzate.
Capoluogo amministrativo del distretto Samburu, Maralal è anche il cuore della diocesi di Marsabit: qui c’è il seminario minore, diretto da padre Paschal Libana, missionario della Consolata tanzaniano; l’ex seminario maggiore (oggi filosofi e teologi studiano a Nyeri) ospita il centro pastorale, dove padre Roberto Sibilia dirige corsi di formazione per animatori e agenti pastorali e cura la pubblicazione di numerosi sussidi catechetici e liturgici in lingua inglese, samburu e swahili; il centro catechetico è in fase di ripensamento, ma continua la formazione dei catechisti nelle singole parrocchie.
La tabella di marcia non mi consente di sostare in tutte le missioni, ma una fugace visita a Suguta Marmar, 30 km da Maralal, è doverosa. Vi incontro un novizio d’eccezione, che emetterà la professione religiosa a metà marzo: è don Pietro Tablino, missionario fidei donum della diocesi di Alba, una vita spesa nelle regioni più inospitali del Marsabit. «In fondo al cuore mi sono sempre sentito missionario della Consolata – dice sorridendo -. È ora che lo diventi anche giuridicamente».
Wamba: la scuola secondaria «Santa Teresa» celebra 25 anni di vita. Nei viali fioriti c’è un indescrivibile viavai di colori, dal bianco e azzurro delle divise delle alunne, alle tinte smaglianti dei vestiti di signore sofisticate, dal nero dei veli musulmani ai variopinti oamenti samburu.
Alle 11 gli invitati affollano il salone parrocchiale. Per tre ore s’intrecciano discorsi, canti, danze e scenette. Comincia la preside, suor Giuseppina, ricordando gli obiettivi raggiunti dalla scuola: «Oltre 1.230 ragazze hanno completato con successo i quattro anni di formazione umana e accademica: sono state stimolate a sfruttare le doti personali e diventare responsabili del proprio e altrui futuro».
Una ventina di prosperose ex alunne raccontano la loro storia: sono insegnanti, infermiere, assistenti sociali, segretarie di provveditorati e aziende, impiegate e imprenditrici; altre frequentano ancora l’università. «Se siamo ciò che siamo, lo dobbiamo alle basi ricevute in questa scuola», affermano le signore Kaparo e Lesirma, rispettivamente mogli del presidente dell’Assemblea nazionale e del segretario del Parlamento.
Il signor Lengala, provveditore agli studi per il distretto Samburu, sottolinea l’eccellenza dei risultati ottenuti fin dagli inizi, che fanno di «Santa Teresa» un esempio per le scuole del distretto e di tutto il territorio nazionale. Poi aggiunge lodi e ringraziamenti per tutti, vivi e defunti: missionari e missionarie che hanno investito vita e mezzi materiali in questa istituzione e continuano a sponsorizzare le ragazze più povere; mons. Carlo Cavallera, primo vescovo di Marsabit, che ha scommesso sull’istruzione e promozione della donna; l’attuale vescovo, mons. Ambrogio Ravasi, che continua a sostenere questa scuola e altre opere sociali.
A parte la retorica di circostanza, Wamba è lo specchio di quanto è avvenuto nell’intero territorio di Marsabit: tutto ciò che esiste, nel campo dello sviluppo e promozione umana, istruzione e sanità, è opera della chiesa e dei suoi missionari.
Per 10 volte padre Lorenzo Rosano si era visto rifiutare dalle autorità coloniali il permesso di stabilirsi a Wamba, essendo zona d’influenza protestante. Ma continuò a fare il missionario ambulante tra Maralal e Wamba, fermandosi per i tre giorni consentiti. «Ironia della sorte – racconta padre Giuseppe Gorzegno -, per tutto il tempo in cui rimaneva a Wamba, padre Lorenzo era ospite di un catechista protestante di nome Filippo. È morto nel 1984. Mentre lo assistevo all’ospedale, mi diceva con orgoglio di essere stato il primo catechista cattolico di Wamba; raccontava della bontà del tenace missionario e dei palloni che gli portava per fare giocare i bambini».
Con l’indipendenza del Kenya, arrivò il sospirato permesso, nel 1965. «Quel giorno padre Rosano scrisse nel diario di aver pianto di gioia» continua padre Gorzegno. Accorse subito mons. Cavallera: piantò la tenda, radunò gli anziani e ottenne il terreno per costruire la scuola e il dispensario. Era la politica del vescovo pioniere: evangelizzare promuovendo istruzione e sanità.
Il ciclo elementare, nel 1973, sfociò nella scuola secondaria: Wamba Boys, per ragazzi, poi nazionalizzata, e «Santa Teresa», per le ragazze, gestita ancora oggi dalle missionarie della Consolata.
Anche le suore sono state protagoniste della crescita di Wamba. Attualmente sono quindici, in maggioranza impegnate nella scuola e ospedale; tre collaborano nelle attività della parrocchia: asili, catechesi, gruppi di donne e giovani, servizio della carità. «Quando qualcuno viene a chiederci aiuto, lo mandiamo da suor Michelita e lei risolve tutti i casi» racconta padre Giuseppe.
Dopo tanti anni di servizio in ospedale, suor Michelita continua a fare l’infermiera ambulante, scorrazzando in bicicletta per tutto il villaggio e dintorni: visita le famiglie povere, assiste gli ammalati a domicilio, distribuisce medicine e consolazione. Quando si ferma, è subito attorniata da un nugolo di poveri: ascolta, fa coraggio e aiuta più che può.

È domenica. Wamba riprende ad animarsi fin dalle prime ore del mattino. Alle sette, la prima messa è affollata da suore, personale medico, studenti infermiere e ragazze della scuola Santa Teresa. La seconda, alle 9.30, dura quasi due ore. Animano la liturgia gli Wamba Boys, che, secondo il costume samburu, cantano con tutta la voce in canna.
Il pomeriggio visito l’ospedale. Pare un giardino: bougainvillee multicolori e sfavillanti oano i viali e pensiline che collegano i vari padiglioni. Ordine e pulizia dappertutto. L’attrezzatura dei vari reparti non ha nulla da invidiare agli ospedali europei.
Il dispensario, nato nel 1965, è cresciuto celermente, diventando un ospedale con oltre 150 letti e, grazie alla dedizione del dottor Prandoni e della sua équipe medica, la sua fama è dilagata sino ai confini dell’Etiopia e Somalia. «I malati arrivano da centinaia di chilometri – afferma padre Giuseppe -. Molti musulmani lo preferiscono agli ospedali governativi più a portata di mano».
Sostenuto e amministrato per molti anni dai missionari della Consolata, l’ospedale di Wamba è passato sotto la responsabilità della diocesi e, attraverso una rete di amici e organismi inteazionali, si è reso autosufficiente. Molti dottori e professori italiani vengono a prestarvi servizi specialistici gratuiti.
Accanto all’ospedale, un’altra prestigiosa istituzione per la costruzione del futuro del Kenya: la scuola per infermiere, l’unica in tutta la diocesi. Gestita da una suora della Consolata, con la collaborazione d’insegnanti formati in loco, la scuola assicura il servizio all’ospedale di Wamba e fornisce personale qualificato e specializzato a quelli governativi.
La visita si conclude alla Huruma home (casa della misericordia), aperta dalla diocesi nel 1990 per bambini handicappati fisici e mentali. Tre suore indiane e alcune donne africane stanno imboccando alcuni bambini. Altri riescono a nutrirsi da soli. «Ne abbiamo 25, tra 2 e 15 anni – spiega la suora direttrice -. Otto di essi fanno fisioterapia nell’ospedale, perché imparino a badare a se stessi il più possibile. Ma il loro male più grave è la mancanza di affetto: sono rifiutati dalla famiglia, che li ritiene una maledizione. Abbiamo tentato inutilmente di convincere i familiari a riprenderli in casa; abbiamo organizzato delle feste per i genitori, con la presenza del vescovo, perché vengano almeno a visitarli; ma pochissimi si sono presentati. Oramai, per queste creature, siamo noi le loro mamme».

Benedetto Bellesi




CILEVoglia di sognare

Dal secondo «Congresso latinoamericano
di pastorale giovanile»,
qualche spunto di cronaca e alcune riflessioni.
Per uno scambio tra mondi, ritenuti a volte
un po’ lontani, e per imparare anche da loro:
per esempio, ad essere più audaci e creativi.

D al 3 all’11 ottobre scorso si è svolto a Santiago del Cile il secondo Congresso dei giovani dell’America Latina: una tappa fondamentale nel cammino di progettazione e riflessione sulla realtà giovanile, già iniziato nel 1992 con il primo Congresso, tenutosi a Cochabamba in Bolivia.
Partecipandovi come invitato per la Pastorale giovanile italiana, ho potuto incontrare e dialogare con giovani, sacerdoti, suore e vescovi di 22 nazioni, che rappresentavano realtà spesso molto diverse tra loro: talvolta anche in contrasto, ma unite da un profondo senso di appartenenza ad una terra con una grande voglia di riscatto, desiderosa di gestire in modo autonomo e democratico il proprio sviluppo sociale e spirituale.
Ho così avuto la possibilità di scoprire un’America Latina molto più matura e responsabile di quella che viene solitamente presentata a noi «occidentali», nell’intento forse di giustificare una tutela economica e politica attuata dai paesi più ricchi e potenti, in primo luogo gli Stati Uniti.
Già il tema del Congresso («I giovani con Cristo, trasformando l’America Latina con giustizia e speranza») ha evidenziato una acuta sensibilità per i problemi di ineguaglianza e discriminazione sociale-economica che affliggono il continente, ma che vengono affrontati con fiducia.
Mi ha affascinato questo atteggiamento positivo e propositivo, che non si lascia sopraffare dagli enormi problemi che investono, in modo diverso, tutto il territorio latino-americano (povertà, narcotraffico, dittatura, violenza…). I giovani riuniti a Santiago sono partiti da un’analisi lucida e dettagliata della realtà attuale (riassunta in una serie di desafios, sfide), che ha rappresentato il terreno dal quale si sono sviluppati, in un secondo momento, i documenti di indirizzo e le linee prioritarie della Pastorale giovanile (definite «lineas de accion»).
Negli atti ufficiali del Congresso si legge un’esplicita condanna, da parte dei giovani, della società neoliberale, «che aumenta l’emarginazione sociale, il debito pubblico, lo sfruttamento minorile, il divario tra ricchi e poveri» (Desafio n. 1).
A questo modello neoliberale, simbolo della contraddizione di un sistema socio-economico mondiale che assicura la vita a pochi e l’indigenza a troppi, i giovani sudamericani contrappongono la necessità di una chiesa che «accompagni i giovani a partecipare nei processi politici». Questo suppone una formazione integrale, basata sulla dottrina sociale della chiesa e capace di individuare alternative economiche di autorealizzazione e autogestione, per contribuire ad un miglioramento della qualità della vita.

U n limite in questa analisi è un’eccessiva semplificazione, che non tiene conto delle complesse conseguenze del processo di globalizzazione. Vengono indicate soluzioni approssimative e vaghe.
Tuttavia ho apprezzato nei giovani latinoamericani una qualità che noi, «occidentali», abbiamo drammaticamente perso: la creatività, ossia la capacità di sognare un mondo diverso da quello attuale, la capacità di immaginare che possano esistere altre ipotesi di organizzazione sociale, al di là dell’attuale struttura socio-economica.
I giovani non si arrendono all’idea di una realtà immodificabile e di un sistema neoliberale insito nel genoma dell’uomo. Però faticano a tradurre il cambiamento desiderato in strategia politica e, soprattutto, in dialogo propositivo con organismi inteazionali, senza il cui appoggio ogni tentativo di modifica è vano.
C’è, infatti, sfiducia nelle reali intenzioni dell’Occidente e nell’intervento diplomatico, ben riassunto nelle parole di Raquel, giovane delegata della pastorale giovanile paraguaiana: «Ho ancora fiducia che, guidati dalla Parola di Dio, si possa riscattare questa terra dai suoi peccati, ma diffido di chi si accorge dei drammi dell’America Meridionale solo per l’uccisione dei bambini da parte della polizia, o il massacro degli indios, e dimentica che ogni giorno, qui, muoiono centinaia di bambini che non hanno quasi mai conosciuto un sorriso… Il problema è economico e sociale e non riguarda solo noi, ma anche gli interessi e l’egoismo di chi si crede buono e democratico in altre parti del mondo».

A ltri temi scottanti affrontati dai giovani al Congresso sono stati:
– il ruolo della famiglia, «riscoperta come progetto di Dio, comunità di vita e amore, in grado di disceere dai valori imposti dalla società e di poter contribuire alla costruzione di una società nuova, segno del regno di Dio» (Linea de accion n. 4);
– la «scelta per i giovani e i poveri del continente, mediante la creazione di forme concrete di partecipazione e l’individuazione di progetti di autofinanziamento economico, che consentano di realizzare i programmi di evangelizzazione, formazione e missione della pastorale giovanile» (Lineas de accion n. 12/18);
– la creazione di «processi di elezione di assessori di pastorale giovanile, che partano da persone proposte all’interno di gruppi giovanili, prendendo in esame criteri come la vocazione, la formazione e la reale scelta preferenziale per i giovani» (Linea de accion n. 21).
Inoltre sono stati approvati documenti che richiamano la pastorale giovanile ad un maggiore impegno per coloro che sono costretti ad emigrare, «vittime dei trafficanti di carne umana, delle politiche discriminatorie dei loro paesi, della droga, della prostituzione» (Pronunciamento para una pastoral juvenil migratoria).
Non manca un invito al papa a farsi portavoce della richiesta di «condono del debito esterno di questi popoli, come un gesto di unità mondiale e come segno concreto della celebrazione del giubileo dell’anno 2000» (Condonacion de la deuda extea).

È utile per noi, giovani italiani e, per la nostra chiesa confrontarci con le proposte e sfide che ci lanciano i fratelli dall’altra parte dell’Oceano. È un importante stimolo per riportare l’attenzione su temi da noi spesso considerati obsoleti, anacronistici: come la capacità di rinnovare la scelta di una vita semplice, attenta ai problemi dell’emarginazione e in grado di testimoniare, con gioia, bontà e entusiasmo, strade nuove di convivenza.
Nello stesso tempo, è altrettanto importante che la chiesa latinoamericana sappia allargare i propri orizzonti, sviluppando con maggiore sforzo e interesse i temi riguardanti la sfera intima di ciascun individuo, accogliendo alcuni spunti di riflessione che animano, invece, intensamente la nostra realtà pastorale.
Colpisce, ad esempio, che fra le oltre 20 linee di azione, individuate come prioritarie per la pastorale giovanile sudamericana, non si faccia mai riferimento a tematiche che i giovani sperimentano quotidianamente: amicizia, rapporto di coppia, sessualità… Un altro limite mi è parso l’uso di un linguaggio «ingessato» e burocratico, nel quale i giovani faticano ad identificarsi, perché molto diverso dal gergo con cui esprimono timori e desideri.
Ogni esperienza di fede, all’interno della chiesa, rappresenta una ricchezza, pur con i suoi limiti e peculiarità. Credo perciò che una reciproca attenzione e una volontà di condivisione siano non solo auspicabili, ma ora più che mai necessarie, in vista della celebrazione del giubileo del 2000. Un giubileo che sarà, anche solo per ragioni geografiche, molto «occidentalizzato».
Pertanto è ancora maggiore il bisogno di individuare forme celebrative, testimonianze di fede, scelte prioritarie diverse fra loro e, tuttavia, comune espressione di una molteplicità di doni spirituali e morali, raccolti nell’universale chiesa di Gesù Cristo.

Massimo Collino




ETIOPIA – Ibrahim… va bene?

Periferia della grande città, in Etiopia.
Un missionario e una bambina musulmana.
Povertà, sofferenza e tanta semplicità.
Una piccola storia. E una domanda.
Che vale un discorso.
Nulla è impossibile per chi sa guardare gli altri
in modo diverso, con simpatia e amore.
È il succo di questa piccola vicenda: una delle tante
che costellano ancora (per fortuna!) il nostro mondo.

Questa è una storia della periferia di Addis Abeba, capitale d’Etiopia. Non è uno studio sociologico, né una tesi universitaria o una raccolta di dati statistici, come ci si aspetterebbe quando si parla di ambienti molto poveri. È invece una cosa molto più semplice. Se mi si permette un paragone, può essere quello della differenza tra un trattato di teologia e i «fioretti di san Francesco»; questi ultimi, nella loro semplicità, contengono tanta fede vissuta.
In questa periferia, ad essere sinceri, non manca qualche opera modea, scuola e fabbrica. Si incontrano anche tutte le culture e fedi religiose, che fanno dell’Etiopia un caleidoscopio di popoli e nazioni. In particolare si ritrovano nomi cristiani e musulmani, le due fedi più diffuse in Etiopia.
Giamìla, ad esempio, è una bambina di famiglia musulmana, di 11 anni, figlia di un handicappato e frequenta, insieme a centinaia di altri bambini, la scuola di Makanissa, situata alla periferia della città. Segue la quarta elementare.
Nella zona di Makanissa vivono, abitando sotto le tende, diverse migliaia di rifugiati della guerra di Eritrea, finita pochi anni fa e, purtroppo, ricominciata nei mesi scorsi. Molte delle tende che furono assegnate inizialmente ai rifugiati come riparo, complici un po’ di paglia e fango reperibili sul posto, si sono trasformate in costruzioni permanenti; cioè in piccole capanne e case, mentre la tenda servirà a coprire il tetto durante le piogge.
Lì vicino, una fabbrica di vini e liquori, iniziata da un greco ai tempi dell’imperatore Hailé Selassié. E pure una fabbrica di ombrelli, dove lavorano molti handicappati, tra cui il papà di Giamìla. Essendo musulmana, la si può distinguere per lo shas (velo) bianco, molto ben curato, che porta sul capo.
I suoi fratellini portano, specie nei giorni festivi, un copricapo rotondo detto «qob». Alla scuola elementare di Makanissa c’è una uniforme ufficiale di colore verde scuro, ma non ci sono per i bambini problemi speciali di copricapo, proibiti o permessi.

Tutti sanno che l’Etiopia è un paese di tradizione cristiana antichissima, che data dai tempi del regno di Axum (IV secolo). L’ultimo censimento della popolazione del 1994 dava un 53,7% di cristiani-ortodossi e 28,7% musulmani. Ci furono in passato, specie al tempo di «Gragn», famoso condottiero del XVI secolo, guerre tra i due gruppi, ma la nazione ha anche avuto lunghi periodi di convivenza pacifica tra le due comunità.
La prima volta che vidi Giamìla, tornava a casa dalla scuola insieme ad una sua compagna, Meqdès, di famiglia cattolica, che frequenta la quinta elementare. I cattolici sono inferiori all’1% della popolazione.
Il papà di Meqdès, che si chiama Tamru – cioè miracolo – frequenta la cappella della Consolata e altre volte va alla parrocchia in città. La famiglia Meqdès è, al presente, una delle poche famiglie cattoliche della zona, dato che la maggior parte dei giovani e bambini che vengono all’oratorio e alla nostra cappella, provengono dall’ambiente ortodosso. Il nome «Meqdès» è cristiano: il verbo «qeddese» in amarico significa «consacrare», celebrare la santa messa, mentre «Biete Meqdès» vuol dire santuario e «Meqdès» è anche il «santo dei santi», cioè la parte più intea di una chiesa ortodossa, dove si celebra appunto l’eucaristia. Quel giorno, proveniente dalla città dopo le spese della casa-procura, mentre attraversavo la zona di Makanissa, vidi i bambini che uscivano da scuola. Fermai la macchina per caricare Meqdès, che frequenta il nostro oratorio da diversi anni.
Ma dovetti far chiudere subito la porta dell’auto (un camioncino Toyota) per evitare che gli altri scolari saltassero tutti sulla macchina: con il patema d’animo, inoltre, di vedere ancora qualcuno salire o cadere dal cassone del camioncino. Rimpiangevo di non possedere un’auto chiusa, come quelle da città. Debbo dire che il traffico ad Addis Abeba, pure disordinato, è molto più lento e non così «spietato» come nelle nostre città italiane; per cui gli incidenti di solito sono meno gravi.
Rimesso in moto il camioncino, chiesi a Meqdès chi fosse quella bambina islamica che era con lei. Sbagliò e mi disse «Momìna», un altro nome usato in ambiente musulmano. Allora pensai che potevo dare un passaggio in macchina anche a Momìna; volevo non favorire esclusivamente chi frequenta la nostra chiesa.
Fermai la macchina più avanti, fino a che Momìna-Giamìla arrivò e salì. Imparai così che abitava proprio di fronte al nostro «compound», una delle prime case dopo il campo dei rifugiati, con un piccolo terreno davanti a casa, dove cresce il mais: il che è un lusso per chi abita in città.
Dato che i bambini, quando si ferma una macchina, cercano tutti di salire, la volta seguente Giamìla escogitò un trucco (guarderò se è scritto nel corano): incominciò a correre, correre lungo l’affollata strada di Makanissa. C’è gente che va e torna dal mercato, scolari che escono da scuola, veicoli di tutti i generi, asinelli carichi di derrate, talvolta anche mucche e pecore. Cosicché, questa volta, gli altri scolari rimasero un po’ distaccati e a Giamìla bastò quel momento di incertezza per fare in tempo a saltare sulla macchina. Aveva imparato bene a chiudere la portiera dell’auto, senza sbatterla e far saltare la molla della maniglia.
«Come si chiama tuo padre?» le chiesi. «Ibrahim… va bene?» rispose timidamente con un’altra domanda.
Suo padre è handicappato, l’ho visto diverse volte sulla strada. Cammina a stento, si trascina lentissimo col bastone, la schiena curva, la testa completamente ripiegata in avanti. Quando è per strada, non puoi non distinguerlo in mezzo alla gente. Ora Giamìla mi chiede «se va bene» che suo padre si chiami Ibrahim, cioè se è un nome giusto, un nome bello. Evidentemente mi crede una persona molto istruita: guido la macchina e, di fatto, ho avuto dei bravi genitori che mi hanno mandato a scuola e perfino alle superiori, che Giamìla difficilmente potrà frequentare.
Eppure, di fronte a una domanda così, presentata con semplicità, che riguarda chi è stato favorito molto meno di me dalla sorte, sembra che tutta la mia cultura crolli. Non so cosa rispondere, non trovo le parole adatte.

La risposta al quesito, a conclusione di una storia che chiamerei un «fioretto», la lascio quindi ai lettori: persone istruite, gente che ha studiato. Come si aspettano Giamìla e Meqdès.

Vincenzo Clerici




L’OPINIONE – Incontro con Javier Perez de Cuellar

Nonostante molti regimi dittatoriali siano caduti, la democrazia non è una conquista così diffusa. In Perú essa è messa in pericolo dal presidente Fujimori, che da 8 anni esercita il potere in maniera estremamente autoritaria. Ma anche all’Onu, la massima assise mondiale, la democrazia non è di casa. Basti pensare al «diritto di veto» dei 5 membri permanenti…
Così la pensa Javier Pérez de Cuéllar, per 10 anni segretario generale dell’Onu, oggi leader del movimento «Union por el Perú».
Lo abbiamo incontrato nella sua casa di Lima.

Strade pulite ed ordinate, giardini ben curati, case eleganti. San Isidro è uno dei quartieri esclusivi di Lima. La nostra meta è una villa bianca, bella, ma forse un po’ soffocata dai condomini costruiti a ridosso.
Ci apre la porta un domestico in livrea. La casa è molto elegante. Un’ampia scalinata sale al piano superiore. Quadri, sculture, tappeti, argenteria sono in bella vista. Una signora viene ad informarsi se sono previste delle foto. Rispondiamo affermativamente.
Pochi minuti dopo, puntualissimo, si presenta il nostro ospite, l’ex segretario generale dell’Organizzazione delle nazioni unite Javier Pérez de Cuéllar.
Nella notte del 27 agosto 1998 il Congresso peruviano ha bocciato un referendum popolare per il quale erano state raccolte 1 milione e mezzo di firme. Cosa pensa di questa decisione?

È una «derota», una sconfitta per il paese e per la democrazia. Il referendum è l’unico strumento previsto dalla Costituzione per un intervento diretto del popolo. Purtroppo, due organi dello stato (il «Jurado Nacional de Elecciones» e l’«Oficina Nacional de Procesos Electorales») hanno commesso un grave errore sostenendo che la consultazione popolare doveva ottenere la preventiva approvazione del Congresso. Poi quest’ultimo, attraverso una votazione molto discutibile, ha deciso che il referendum non doveva tenersi. Tutto ciò dimostra una mancanza di fiducia del governo nella propria popolarità.

Strana questa paura. Sia nel 1990 che nel 1995 Fujimori stravinse…

Ma in questo paese le elezioni non sono mai limpide. Nel 1995, Fujimori e «Cambio 90» guadagnarono una maggioranza assoluta nel parlamento con manovre illecite…

Fujimori e i suoi uomini sono al potere dal 1990. In questi 8 anni sono riusciti a impossessarsi di tutte le leve del potere, a riscrivere la Costituzione e interpretarla a proprio piacimento, come dimostra in modo eclatante la vicenda del referendum. Dottor Pérez de Cuéllar, davanti a questa situazione ci si chiede se il Perú sia una democrazia o una dittatura…

La situazione è grave perché le istituzioni democratiche non sono rispettate. I tre poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – sono attualmente controllati dal governo.
Dunque, non si può dire che il Perú sia una democrazia, ma allo stesso tempo non si può dire che sia una dittatura (almeno per il momento). C’è ancora una relativa libertà di stampa. Relativa, non assoluta, perché il governo ha il controllo su parecchi giornali e televisioni.

Nel Congresso, su 120 deputati, 71 appartengono a «Cambio 90 – Nueva Mayoria», il partito di Fujimori. Con questi numeri che può fare l’opposizione?

Questo congresso è completamente nelle mani di Fujimori. I congressisti dell’opposizione hanno un ruolo poco più che formale. Hanno una funzione di vigilanza, per scoprire e denunciare ai giornali indipendenti «los atropellos», gli abusi che vengono commessi.
Per l’anno 2000 occorre una coalizione, una convergenza tra i partiti dell’opposizione (APRA, Partito Popular Cristiano, ecc.). Essi debbono accordarsi e trovare un candidato da contrapporre al presidente. Fujimori rimane molto forte e, soprattutto, è furbissimo. Se si ripresenta (come pare ormai certo), è probabile che riesca a vincere per la terza volta consecutiva. A meno che…

A meno che l’opposizione non si presenti compatta con un candidato alternativo, serio e credibile. C’è attualmente una persona che risponda a queste caratteristiche?

No, purtroppo attualmente non c’è un candidato alternativo a Fujimori.

E che ci dice di Pérez de Cuéllar?

Io? Io sono troppo vecchio. Vecchio, vecchio, caro mio. È necessario un candidato giovane di 40-50 anni. Io non ho più l’età per la politica…

Però lei è il leader di «Union por el Perú».
Se non ci fosse questa situazione, io mi sarei ritirato dalla vita politica. Preferirei stare più tranquillo e godermi la mia vecchiaia con mia moglie e i miei 6 nipotini.
Invece, ho scelto di lottare per la restaurazione della democrazia e per il rispetto dei diritti umani in questo paese.
Fujimori e i suoi ministri mostrano con orgoglio i risultati ottenuti in economia (prodotto interno lordo in crescita, inflazione in ribasso), dimenticando i dati sulla disoccupazione e la povertà dilagante. Lei come giudica il programma economico del governo fujimorista?

Non bastano i dati sul prodotto interno lordo e sull’inflazione per gridare al successo. Il programma economico di Fujimori non dà la necessaria attenzione all’aspetto sociale. Educazione, salute, alimentazione non sono abbastanza seguiti. Insomma questo programma manca di una dimensione umana.
Qualsiasi nuovo governo avrebbe il dovere politico e, soprattutto, morale di cambiare. C’è un problema di distribuzione per un paese che è fondamentalmente ricco.

Secondo lei, è possibile che questa grave situazione sociale porti a una rinascita di «Sendero»?

Ci sono già stati segnali in questo senso…
È certo che il terreno è pronto per una rinascita del terrorismo. Tuttavia, polizia e corpi speciali sono allenati per affrontarlo.
Purtroppo, la metà dei peruviani sono poveri. Di questi, almeno 5 milioni sono in condizioni di estrema povertà. Questa situazione può originare violenza, anche se, in generale, il peruviano è pacifico e molto tollerante.

Uno dei maggiori vanti di Fujimori è di aver sconfitto il terrorismo. Però nelle carceri peruviane sono finiti anche tantissimi innocenti…
Lei dice cose vere: la repressione contro il terrorismo ha prodotto molte ingiustizie. Tuttavia, la «commissione ad hoc» (l’organismo governativo che esamina le carcerazioni «dubbie», ndr), guidata dal padre belga Hubert Lanssiers, è un importante passo in avanti.
Per me il diritto fondamentale è il diritto alla vita; per questo sono contro la pena di morte. Non bisogna mai dimenticare che anche a un criminale debbono essere riconosciuti tutti i diritti e ciò per il semplice fatto che lui, pur avendo sbagliato, rimane un essere umano.

Parliamo allora di diritti umani. Nonostante sia finita l’emergenza terrorismo, gli abusi delle forze dell’ordine e dei servizi segreti (il «Sin» di Vladimiro Montesinos) rimangono un fatto normale…

Però, anche il governo di Fujimori ha finalmente capito che deve rispettare i diritti umani. Purtroppo, tra la gente c’è una grande ignoranza rispetto a questo tema, soprattutto nelle regioni meno sviluppate del paese. Per questo sarebbe importante iniziare una educazione ai diritti umani fin dalla scuola.
D’altra parte, è difficile avere rispetto dei diritti umani, quando non c’è democrazia.

In un contesto così difficile, che tipo di ruolo ha la chiesa peruviana?

Ha, prima di tutto, una funzione moralizzatrice. Oggi il governo spesso la accusa di «fare politica». Ma non può essere diversamente quando c’è un autoritarismo così pronunciato.

Lasciamo il Perú e i suoi problemi, per parlare delle Nazioni Unite, organismo al cui vertice lei è stato per 10 anni…

Sull’Onu piovono critiche da parte di tutti. Dall’alto della sua esperienza di ex segretario generale, ci spieghi cosa c’è che non funziona in quella istituzione.
Le risponderò con un esempio. Le Nazioni Unite sono come la sua macchina fotografica. Se non la usa, non può dire che la macchina non vada bene; d’altra parte, se lei non sa usarla, identicamente non può dire che la macchina non funzioni.
Io credo che il meccanismo dell’Onu sia teoricamente perfetto, ma i paesi non lo utilizzano o non sanno utilizzarlo. Le Nazioni Unite potrebbero veramente costituire lo strumento ideale per la soluzione di tutti i problemi mondiali.

I 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza (Cina, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Russia) hanno il «diritto di veto». Se esercitato, esso può bloccare qualsiasi decisione. Le pare giusto?

Il diritto di veto non è uno strumento democratico. Occorrerebbe modificare questa norma, ma per sopprimerla è necessario avere l’assenso dei 5 membri permanenti. Purtroppo, tra loro non c’è accordo su questo punto.

Ci sono paesi, tra cui l’Italia, che spingono per entrare nel Consiglio di sicurezza come membri permanenti. Che ne pensa?

Io sarei d’accordo sull’ampliamento del consiglio, almeno per Germania, Giappone e Italia.

Qual è il suo ricordo più bello nei 10 anni alla guida delle Nazioni Unite?

Il più bel ricordo come segretario ONU fu l’indipendenza della Namibia.

E quello più brutto?
Anche qui non ho alcun dubbio: il più brutto ricordo è la guerra del Golfo.

Lei fu eletto segretario generale una prima volta nel 1981 e riconfermato nel 1986. Perché il suo successore, l’egiziano Boutros Ghali, non ottenne un secondo mandato?

Boutros Ghali fu un segretario molto intelligente e preparato. Non fu rieletto per l’opposizione degli Stati Uniti e di alcuni paesi europei. Probabilmente sulla sua mancata riconferma influirono gli insuccessi in Africa (soprattutto in Somalia, Burundi e Rwanda) e nella ex Jugoslavia.

E che ci dice dell’attuale segretario Kofi Annan?

Boutros Ghali era un giurista, mentre Kofi Annan è un tecnico.

LA NOTTE CHE IL CONGRESSO UCCISE IL REFERENDUM

L’antefatto. L’articolo 112 della Costituzione peruviana del 1993 prevede che il presidente della repubblica possa essere rieletto soltanto per un secondo periodo consecutivo. Il 22 agosto 1996 il Congresso approva la legge 26657, conosciuta come legge di «interpretazione autentica» dell’articolo 112: in base a questa norma Alberto Fujimori potrà candidarsi anche alle elezioni del 2000. Sarebbe il terzo mandato consecutivo, in palese violazione del dettato costituzionale.
Dopo quella decisione, in parlamento e nel paese si sviluppa un vasto movimento di opposizione che vuole impedire l’abuso attraverso il ricorso alla consultazione popolare. In due anni di duro lavoro, il «Foro Democratico» raccoglie quasi un milione e mezzo di firme. Lo scopo del referendum è quello di chiedere ai peruviani se sono d’accordo che il presidente Fujimori si candidi per la terza volta alla presidenza del paese.
Quando sembra che tutto sia pronto per andare a votare, ecco un nuovo colpo di scena. Per impedire il pronunciamento dei cittadini, la maggioranza fujimorista fa pressione sulla «Oficina Nacional de Procesos Electorales» (Onpe) e sul «Jurado Nacional de Elecciones» (Jne). Nell’agosto 1998, i due organi statali inopinatamente stabiliscono che il referendum debba passare attraverso il filtro del Congresso: la consultazione popolare potrà aver luogo soltanto se otterrà almeno 48 voti a favore. È quasi un requiem per il referendum, dal momento che il Congresso è dominato da «Cambio 90-Nueva Mayoria», il partito del presidente (che può contare su 71 dei 120 congressisti).

Lima, 27 agosto 1998. Piazza Bolivar, di fronte al Palazzo del Congresso. Oggi il Congresso decide la sorte della consultazione popolare.
Dalla statua equestre di Simon Bolivar scendono due lunghi striscioni con una scritta a caratteri cubitali: referendum. Davanti al palazzo è stata schierata la polizia. Sono tutte donne, disposte in due file, che coprono l’intera lunghezza dell’edificio. La folla che attende la decisione dei congressisti è variegata. Gli studenti, seduti sul prato, pennelli in mano, preparano i cartelli della protesta.
Fujimori e Vladimiro Montesinos, il potentissimo (e chiacchierato) assessore del presidente, sono i bersagli preferiti. Altri alzano al cielo le prime pagine dei maggiori quotidiani (El Comercio, La Republica etc), tutti schierati in favore della consultazione popolare.
Ci sono pensionati che battono i tamburi della protesta e intonano gli slogan: «Muera Montesinos, Viva el referendum». Le donne (che sono tante) portano, legato attorno al capo, un fazzoletto rosso con una scritta: referendum.
«Stiamo lottando – ci dicono all’unisono tre signore – perché questo governo non si perpetui in eterno». Nella calca, un’altra signora si avvicina al registratore: «Io sono una madre di famiglia, che non si è mai interessata di politica. Ma i miei figli non hanno lavoro – signore – e io non so come dare loro da mangiare».
«Ogni volta che c’è qualcosa di grave – ci spiega un uomo di mezza età – il presidente esce dal paese. Lascia che altri prendano le decisioni scottanti, lavandosene le mani. Così, a cose fatte, potrà dire: “Io non c’ero”».

Il sole è calato da molte ore, quando in piazza Bolivar si diffonde il risultato della votazione: la maggioranza dei congressisti (67 contro 45) ha respinto una proposta referendaria, che non avrebbe neppure dovuto passare attraverso le forche caudine del Congresso. Tra i manifestanti la delusione è enorme, visibile, palpabile. Molte studentesse non riescono a trattenere le lacrime. Sessantasette persone hanno risposto «no» alla legittima richiesta di un milione e mezzo di cittadini peruviani. Fujimori potrà ripresentare la propria candidatura. Per la terza volta consecutiva. Ora ci sono quasi due anni per «preparare» la sua nuova vittoria «democratica».
Paolo Moiola

Chi è? Javier Pérez de Cuéllar

Nato a Lima il 19 gennaio 1920, laureato in lettere e diritto all’Università cattolica della capitale peruviana, Javier Pérez de Cuéllar entrò giovanissimo nel servizio diplomatico. Fu ambasciatore del Perú in vari paesi. Nel 1981 fu eletto segretario generale delle Nazioni Unite. Cinque anni più tardi fu riconfermato nella carica. Nel 1995 si presentò alle elezioni presidenziali, ma fu sconfitto da Alberto Fujimori, detto «El Chino», presidente in carica. Attualmente è leader dell’«Union por el Perú», uno dei maggiori partiti peruviani d’opposizione. Nonostante i quasi 80 anni, Pérez de Cuéllar viaggia molto: Stati Uniti, Portogallo (paese in cui vive una figlia), Francia. Trascorre molti mesi dell’anno a Parigi dove presiede una fondazione che si occupa di diritti umani.

Paolo Moiola




NIGERIA – Meno petrolio più pane quotidiano

Paese popoloso e corrotto. Acuti i contrasti
fra nord musulmano e sud cristiano,
con 28 anni di dittatura militare, 250 etnie
e 2 milioni di barili di petrolio al giorno.
E l’agricoltura? Potrebbe essere la salvezza economica, a certe condizioni.
Nel frattempo tutti attendono il 29 maggio.
Sarà la svolta democratica?

Le cose non vanno affatto bene in Negeria. La situazione sociopolitica è peggiorata, allorché troppi nigeriani importanti hanno abbandonato «la tradizione viva» per interessi materiali, che però non hanno recato alcun beneficio al popolo; anzi, hanno accresciuto la povertà e fomentato la guerra… Oggi, per avere pace nel nostro bello e ricco paese, dobbiamo ritrovare le radici culturali.
A tutti i nigeriani, in patria e all’estero, chiediamo di rieducarsi al patrimonio culturale. Ma facciamo appello anche all’Occidente, perché fermi la vendita di armi ai paesi africani e vengano piuttosto venduti trattori e strumenti agricoli.
L’economia nigeriana è in ginocchio a causa della dittatura (28 anni) e della mentalità egoistica di numerosi individui facoltosi, che non comprendono il valore dello sviluppo agricolo del paese. Ritrovare le nostre radici significa «riscoprire la terra»: con criteri modei, scientifici. Oggi i nigeriani devono svegliarsi, al fine di nutrire i loro concittadini.
Avevamo la luce. Ma l’abbiamo spenta. Il buon Dio ci aiuti a riaccenderla, prima dell’anno 2000.
UN POPOLO DI CONTADINI
La Nigeria, con circa 120 milioni di abitanti, è un paese fortemente agricolo. Ancora nel 1990 – rileva lo studioso Tijani – il 75% dei nigeriani viveva in aree rurali… I contadini locali realizzano il 95% della produzione agricola nazionale.
Le attività iniziano con la stagione delle piogge: in marzo-aprile nel sud e maggio-giugno nel nord. Le coltivazioni si praticano su appezzamenti inferiori a due ettari.
Ad eccezione di alcuni gruppi di contadini, legati ad istituti di ricerca scientifica, la maggioranza degli agricoltori è analfabeta. Bankole Balogun, in «I mezzi di comunicazione e le crisi di cibo» (1990), sottolinea: in caso di scarsa produttività, la mancanza d’informazione aggrava la situazione; è comune la consapevolezza che il raccolto è più abbondante nelle fattorie di ricerca che nei campi privati, anche quando si ricorre alla stessa semente.
Però alcune modee tecniche di produzione, usate nelle grandi aziende, non sono disponibili per il contadino comune o non sono da lui usate propriamente. Pertanto si esige un efficiente scambio d’informazione tra contadini e ricercatori-rappresentanti del governo: questo per migliorare la produttività e conservare i beni agricoli.
Zappa e coltellaccio
In Nigeria non sono mancati, da parte del governo, appelli alla «Rivoluzione verde» e all’«Operazione nutrimento del paese» (Opn), foendo anche strumenti scientifici e meccanici adeguati. Però, stranamente, l’Opn fu lanciata nel 1976 dal capo dello stato, il generale Olusegun Obasanjo, con… la zappa! Quello era il tempo in cui la Nigeria si inebriava del suo petrolio e, di conseguenza, importava moltissimi generi alimentari. Così l’«Operazione nutrimento» morì appena nata, nonostante l’uso di Obasanjo della zappa quale strumento d’identificazione psicologica con le masse popolari.
Ironia della sorte, 20 anni dopo, in Nigeria la zappa è ancora l’utensile più usato nella produzione agricola: e, con la zappa, il coltellaccio. Zappa e coltellaccio sono i nostri «marchi di fabbrica» agricoli.
Negli Stati Uniti e in Israele la popolazione impiegata in attività agricole non supera il 4%; tuttavia la produzione è abbondante e di qualità, non solo per il consumo interno, ma anche per l’esportazione. Ebbene: quale potrebbe essere il risultato in Nigeria, dove il 75% degli abitanti lavora la terra?
Le università, gli istituti di ricerca rurale e i responsabili del bacino del fiume Niger stanno introducendo tecniche modee nell’agricoltura e nell’allevamento, al fine di produrre più cibo e provvedere materia prima alle industrie; ma la loro azione è ancora molto isolata. E noi continuiamo a dipendere dalle importazioni alimentari. Il 90% del reddito nazionale annuale si basa sulla produzione di petrolio greggio.

ALCUNI PROBLEMI
Se non si supera l’«ubricatura» del petrolio, la crisi alimentare nigeriana aumenterà, sia per problemi interni che estei. Ne elenchiamo alcuni.
Cambiamenti climatici mondiali. L’inquinamento del pianeta sta modificando il clima mondiale, con conseguenze sfavorevoli alla regolarità delle piogge. Però tanti contadini hanno poca o nessuna conoscenza delle previsioni del tempo. Ne conseguono seminagioni inutili e, quindi, spreco di risorse.
Bassi raccolti. Numerosi agricoltori dispongono di nozioni rudimentali circa lo sfruttamento della terra. Il medesimo appezzamento è soggetto, nel corso degli anni, alla monocoltura, senza la necessaria rotazione di messi né «soste». E i raccolti sono poveri. La situazione si aggrava con il diboscamento selvaggio e i fertilizzanti errati, che distruggono l’ecosistema. I contadini ricorrono quasi esclusivamente a concimi industriali, trascurando quelli naturali… Un po’ d’informazione favorirebbe anche gli allevatori, il cui bestiame viene decimato dalle malattie.
Conservazione dei prodotti. Ananas, manghi, pomodori, banane, noci di cola, ecc. marciscono al termine di ogni raccolta. I silos sono molto fuori mano per i contadini e, paradossalmente, sono dislocati nei centri urbani. Per di più, molti centri di produzione e raccolta non sono serviti da buone strade.
Leggi di mercato. Queste hanno avuto un impatto negativo su molti produttori. Avidi intermediari hanno accresciuto le difficoltà nei processi di compravendita e distribuzione dei beni agricoli. I prezzi sono soggetti a «tira e molla». Così tanti contadini sono isolati e passivi guardiani dei mercati locali… e non formano cornoperative, che potrebbero consolidare i prezzi e le vendite.

RUOLO DELL’INFORMAZIONE
Questi ed altri problemi dovrebbero essere affrontati e risolti anche attraverso un’informazione corretta. Ad esempio: rendendo noti gli effetti benefici del rimboschimento, s’incoraggia a praticarlo e si determinano anche cambiamenti climatici positivi.
La coltivazione di orti è un altro settore, che merita maggiore sostegno. Inoltre la ricerca e scoperta di acque sotterranee (come è avvenuto in India) potrebbero essere praticate su larga scala anche nelle nostre aree rurali.
L’enfasi deve essere posta sull’agricoltura mista (coltivazione e allevamento), con esami del suolo per verificarne il grado di acidità e alcalinità, la cui conoscenza scongiurerebbero l’errato uso di fertilizzanti.
Esempi agricoli da imitare sono quelli di Israele (deserto del Negev), Botswana, Camerun, Etiopia e Ciad.

Conclusione: la ricchezza di un paese non può prescindere dalla produzione agricola. Mashood Abiola, nel suo «La politica agricola ideale» (1990), lo sosteneva apertamente. In Nigeria non si devono ignorare i milioni di agricoltori poveri che, nonostante tutto, lavorano la terra e foiscono alle industrie tante materie prime.

TROPPE STELLE MILITARI

NIGERIA: così chiamarono gli inglesi l’ultimo tratto del bacino del possente fiume Niger, prima di morire nel Golfo di Guinea. Nell’antichità vi prosperarono stati e imperi. Al presente, fra le circa 250 etnie, emergono gli haussa-fulani, i yoruba e gli ibo. Il loro rapporto è conflittivo, specie fra le popolazioni musulmane (nord) e cristiane (sud).
Nel campo letterario sono significative le produzioni in lingua haussa e i musei di Lagos e Ife conservano opere d’arte preziose per lo studio delle civiltà. Senza scordare Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1986 e condannato a morte dal regime militare nel 1997, né lo scrittore Ken Saro-Wiwa, impiccato dallo stesso regime nel 1995, perché difendeva gli ogoni, minacciati nella sopravvivenza dalla multinazionale anglo-olandese Shell. Il petrolio è «il pomo della discordia» in tutta la nazione.

p 1960: il 1° ottobre la Nigeria diventa indipendente come stato del «Commonwealth» e, tre anni dopo, nasce la repubblica federale.
p 1966: date le tensioni politico-tribali, i militari insorgono con due colpi di stato. Nel 1966 il generale Ironsi, ibo, cerca di abolire lo stato federale; vi si oppone il generale Yakubu Gown, haussa. Gli ibo, con Odumegwu Ojukwu, proclamano la secessione e fondano la repubblica del Biafra. È la guerra civile, con due milioni di morti (soprattutto ibo) e popolazioni ridotte alla fame.
p 1970: il 15 gennaio il Biafra capitola. Gown ripristina lo statuto federale.
p 1975: altro colpo di stato con il generale Mohammed Murtala, ucciso l’anno successivo. Il potere è del generale Olusegun Obasanjo, che nel 1978 lo consegna ai civili: presidente Shehu Shagari.
p 1983: crisi del petrolio ed espulsione di 2 milioni di stranieri, soprattutto del Togo e Ghana.
p 1984: colpo di stato che porta alla ribalta il generale Mohammed Buhari.
p 1985: il potere passa al generale Ibrahim Babangida, dopo (ovviamente!) un colpo di stato. Nel nord si scatenano rivolte di fondamentalisti islamici. Gravi i danni.
p 1990: colpo di stato, represso nel sangue. Babangida rimane in sella. Nel nord islamico gli estremisti scendono in piazza: 200 morti (22 aprile 1991).
p 1993: Babangida indice le elezioni, vinte da Mashood Abiola. Il generale lo incarcera, perché è… yoruba, mentre il governo spetta agli haussa-fulani, al potere dagli anni ‘60.
p 1994: ennesimo colpo di stato e il 19 novembre il governo civile viene licenziato. Presidente-dittatore è Sani Abacha.
p 1998: l’8 giugno il generale Abacha muore d’infarto (secondo la versione ufficiale) e, un mese dopo, la stessa sorte tocca allo scarcerato Abiola. Il potere è in mano al generale Abdusalam Abubakar. Questi, però, annuncia libere elezioni, per consegnare il paese ad un presidente civile il prossimo 29 maggio.

L a Nigeria conta al potere gli stessi militari che l’hanno strapazzata per 28 dei suoi 39 anni d’indipendenza. Ma oggi, in attesa del 29 maggio, splende «un raggio di speranza», scrivono i vescovi cattolici (1). Ma potrebbe essere lo «stesso vino vecchio in bottiglie nuove». In vista delle elezioni, l’episcopato ammonisce: «È criminale comprare o vendere voti». I nigeriani devono vigilare per non essere manipolati da quanti fomentano fazioni tribalitiche.
Sotto il profilo economico, si raccomanda di variare l’uso delle risorse: la Nigeria non deve dipendere solo dal petrolio, trascurando l’agricoltura. Tuttavia, anche nel settore energetico, la situazione non è rosea. «La corruzione nella nostra società – scrivono ancora i vescovi – si traduce in una perenne scarsità di combustibile. È penoso che un paese, ai primi posti nel mondo per la produzione di greggio, non soddisfi i bisogni primari del suo popolo». La corruzione, inoltre, è responsabile dei gravi disservizi riguardanti l’acqua, le strade, i telefoni e le poste.
Ben vengano, allora, le nuove elezioni. Ma siano democratiche. E i vescovi, dopo aver ricordato l’urgenza della riconciliazione nazionale, invitano tutti i nigeriani «a costruire insieme una cultura democratica, indispensabile per assicurare una democrazia stabile».
Francesco Beardi

(1) «Un raggio di speranza» (comunicato dei vescovi cattolici della Nigeria, Ibadan 7-12 settembre 1998).

John Izuegbu