ITALIA – I marciapiedi della discordia
Nei consultori familiari e negli ospedali torinesi
le pazienti extra-comunitarie sono sempre di più.
La maggioranza ha problemi seri. Portati dai paesi che hanno abbandonato o «presi» sulle strade italiane.
Christine ha 25 anni, è in Italia dal ’95; vi è giunta al seguito di un’amica, Kitty, nigeriana come lei, che le aveva proposto di aiutarla nei suoi preparativi per il matrimonio. Avrebbe dovuto fermarsi a casa sua, a Torino, per un paio di mesi, il periodo giusto per organizzare un evento che, nella loro tradizione, assorbe molta energia. Christine lascia il lavoro di impiegata a Benin City e arriva nel nostro paese. Per alcune settimane è ospite della ricca amica e si gode felice la vacanza.
Un giorno, però, Kitty la invita ad uscire con lei e la conduce in una strada, il corso Regina Margherita. «Ecco, io lavoro qui. Faccio la prostituta. Da domani sarà anche il tuo mestiere». Christine, scioccata, le chiede perché non glielo avesse detto prima e si rifiuta di cedere all’imposizione della sua falsa amica. Iniziano così violenze e ricatti di ritorsione alla famiglia; infine, un rito woodoo sancisce nel sangue il patto di sfruttamento e di paura. Sessanta milioni da «restituire» attraverso un lavoro che inizia al mattino per terminare a notte inoltrata: un viaggio da Torino alla provincia di Cuneo, 30-50 mila lire a cliente, per tre mesi. Per sé non può tenere neanche i soldi per il cibo: deve consegnarle tutto. Un inferno domestico fatto di piatti e bottiglie scagliate contro di lei (e il suo corpo ricoperto da cicatrici lo dimostra senza equivoci), fame e umiliazioni, pericoli e insidie per la sua salute ed incolumità. Finalmente, la fuga verso la libertà in casa di un amico, un cliente gentile che la riempie di regali. Due anni di serenità e di fiducia riacquistate; poi, all’improvviso, una mattina bussa alla porta la mamam con due scagnozzi: volano insulti e minacce, per lei e il suo fidanzato. Lui si spaventa e la manda via di casa. Così, terrorizzata, delusa e disperata, è di nuovo sul marciapiede, fino alla comparsa dei primi sintomi di una malattia terribile: l’Aids.
Ora Christine è ricoverata in ospedale, ha abbracciato la fede cristiana attraverso un gruppo di religiosi che l’ha accolta e assistita. Purtroppo il virus avanza, ma lei, forse, non ne è cosciente. Tra lacrime e guizzi di un’antica e indistruttibile allegria, ha raccontato la sua storia e così la conclude: «Ho smesso di fare quella vita squallida e le maledizioni woodoo della mia ex mamam non mi fanno più paura. Ora credo in Dio e in Gesù».
La storia di Christine è tristemente comune a molte donne africane e albanesi. Molte, malate, si rivolgono ad ospedali e A.s.l. torinesi per ricevere aiuto medico, ma anche un sostegno psicologico. Per tante altre, invece, è l’aborto il motivo di ingresso nelle strutture sanitarie.
Consultorio familiare di via Sospello n. 139, Borgo Vittoria, Torino: nella sala d’attesa siedono alcune donne immigrate. Un’anziana signora italiana le guarda con diffidenza borbottando ad alta voce.
Quando è il suo tuo, senza ribattere, una di loro si alza e si dirige in uno degli ambulatori.
Sono tante le pazienti straniere anche in questa circoscrizione, la V: gli operatori parlano del 15% dell’utenza, formata, in prevalenza, da egiziane, maghrebine, ma anche da nigeriane e di altre nazionalità. Non tutte sono in regola, ma proprio per la natura stessa dei consultori, che sono facilmente raggiungibili dal pubblico, sono gratuiti e garantiscono l’anonimato (legge n. 405/75), possono accedervi senza paure o rischi.
Tuttavia, l’ambiente «multietnico» di via Sospello non costituisce un caso isolato. In molti quartieri torinesi, infatti, la presenza di cittadini extra-europei è forte e ben visibile e viene a riflettersi anche all’interno delle strutture pubbliche. Marocchini, peruviani, cinesi, rumeni, filippini, egiziani, nigeriani, somali, albanesi, ex-jugoslavi, senegalesi, tunisini… vanno a formare la numerosa popolazione (si parla di qualche decina di migliaia) di nuovi utenti, regolari e clandestini. L’azienda sanitaria torinese che ne ha registrato la maggioranza dei ricoveri in Day Hospital e in degenza ordinaria è di sicuro il Sant’Anna – Regina Margherita, dove i pazienti extra-comunitari, donne e bambini (alcuni dei quali vittime di guerra o colpiti da gravi malformazioni ad organi vitali) toccano punte del 6-7-8%. In questa prospettiva, un lavoro molto importante viene svolto dal mediatore socio-culturale, che facilita la comunicazione tra medici e pazienti stranieri.
Un altro ospedale dove la presenza annua di utenti immigrati si aggira intorno alle 400-500 unità è il Mauriziano; seguono poi il Martini Nuovo di via Tofane, le Molinette, il San Giovanni Bosco, l’Amedeo di Savoia, il San Giovanni Vecchio e il Maria Vittoria.
Gli interventi medici richiesti vanno dalle interruzioni di gravidanza (7-800 su tutte le A.s.l. torinesi); ai parti (400 relativi a donne straniere anche comunitarie, e circa 200 di sole cittadine extra-comunitarie); all’asportazione e cura di tumori; al trattamento di malattie sessualmente trasmissibili come l’Aids, di vari tipi di patologie respiratorie e polmonari, di disturbi della personalità, di psicosi, nevrosi, ansie…
Un esempio fra tutti: la A.s.l. 3 (Amedeo di Savoia, Maria Vittoria, distretti di base e consultori a loro connessi) ha accolto circa 1.500 utenti immigrati.
Particolarmente importante è il ruolo svolto dai consultori familiari: molte donne vi si rivolgono per chiedere aiuto e consiglio per le più disparate ragioni medico-sanitarie, ma anche socio-assistenziali e psicologiche. «Da noi arrivano madri all’ottavo mese di gravidanza, immigrate dall’Africa o dal mondo arabo, che non hanno mai fatto un esame di controllo» racconta Maryam, una mediatrice socioculturale egiziana. «Altre hanno problemi con il partner e denunciano gravi violenze domestiche; alcune donne arabe prenotano, tra mille remore e tormenti, interruzioni di gravidanza assolutamente vietate dalla loro cultura di appartenenza; altre ancora hanno problemi di solitudine e di depressione, o paura di malattie che non conoscono; qualcuna richiede una consulenza per convincere il marito a superare barriere culturali e tradizionali che gli impediscono di far uso di profilattici».
«Capita anche che qualche ragazza albanese o nigeriana si rechi in ospedale, perché non si sente bene e scopra da un momento all’altro di essere affetta dall’Aids». Casi umani disperati che affiorano alla superficie di un’ormai ampia fascia di popolazione immigrata, che non è solo portatrice di criminalità, ma che è spesso vittima di abusi, ingiustizie e sfruttamento.
Come Amina, la giovane donna maghrebina, incinta, che viveva in uno squallido retrobottega, tra topi e scarafaggi, senz’acqua e senza possibilità alcuna di arginare un’estesa infezione puerperale all’apparato genitale: per quel locale malsano, indegno di un essere umano, pagava 700 mila lire al mese al proprietario, un italiano.
LYDIA, SARAH E LE ALTRE
È un mercato in espansione. Negli ultimi anni il fenomeno della prostituzione
extra-comunitaria si è allargato
dalle periferie delle grandi città alle strade
dei piccoli centri di provincia.
Cronaca (non commentata) di un viaggio
in treno da Torino a Rovereto.
Ore 17.59, stazione di Torino Porta Susa. Sono tante le nigeriane in attesa del treno interregionale per Milano. Quando arriva, la maggioranza sale su uno dei vagoni di testa. Si sistemano in gruppetti di tre. Alcune, allungate le gambe, appoggiano subito la testa sulle sacche nere. Altre estraggono cibo odoroso da sacchetti di plastica. Passa il controllore che esamina con attenzione i loro biglietti. Alcune mostrano l’abbonamento. Mentre fingo di leggere i giornali, sbircio ciò che accade. Una di loro estrae dal beauty uno specchietto e inizia a spalmarsi con cura una crema bianca sul viso. La dirimpettaia, camicietta nera a lustrini fluorescenti, si passa un pennello sulle palpebre. La terza, jeans attillati e felpa, si tinge le unghie delle mani con un colore verde smeraldo. Il vagone sembra essersi trasformato in una silenziosa «sala trucco». Allungo lo sguardo verso i sedili più avanti. Un’altra nigeriana, lunghi capelli neri raccolti in treccine, specchietto in mano, si trucca con attenzione ciglia e sopracciglia. La sua vicina, scarpe con tacchi altissimi, si sta riposando con il viso nascosto sotto la tenda del finestrino, ma è svegliata dal trillo del telefonino che la compagna seduta a fianco tiene legato alla cintola dei pantaloni. Alle 19 e 45 il treno entra nella stazione centrale di Milano. Le nigeriane scendono velocemente e si disperdono. Io mi dirigo verso un altro binario.
Ore 22.30, stazione di Rovereto, provincia di Trento. La stazione si trova lungo la strada statale. La luna illumina la notte. Ci dirigiamo verso sud, in direzione dell’incrocio per il lago di Garda. Saranno meno di tre chilometri. Sulla destra c’è un distributore di benzina. Accanto, un po’ in penombra, una nigeriana è in attesa. Procediamo incrociando poche auto. A sinistra si trova un altro distributore. E un’altra donna nera. Slanciata, indossa un abito molto corto, nonostante la temperatura. Passiamo il ponte sul torrente Leno. Sulla sinistra c’è una nuova pompa di benzina. E, accanto ad un lampione, una ragazza di colore. Un semaforo e un incrocio. A destra, ancora un distributore. E ancora una nigeriana. Poco oltre, l’ennesima pompa di benzina. E l’ennesima ragazza (*). Sta confabulando al finestrino di un’auto. Tra qualche centinaio di metri, io sarò a casa. Il termometro segna 2 gradi centigradi.
Paolo Moiola
(*) Secondo recenti statistiche, in Italia lavorano circa 25.000 prostitute straniere. Di queste il 60% proviene dalla Nigeria, il 15% dall’Albania, il 10% dalla ex Jugoslavia.
LAPIDAZIONE O FUSTIGAZIONE
Il corano e la sharia sono assolutamente ferrei in materia sessuale. Sono vietati i rapporti pre ed extraconiugali (foicazione) e la prostituzione. Se il foicatore è già stato sposato, almeno una volta, con una donna musulmana, viene applicata la pena capitale tramite lapidazione; se è ancora celibe, verrà condannato alla fustigazione pubblica (100 frustate).
«Il rapporto sessuale illecito – zina, in lingua araba – è definito come rapporto al di fuori del milk o della shubhat milk: il milk è il diritto al rapporto sessuale che scaturisce dal matrimonio o dal possesso di una schiava» (*).
Sura XVII, v. 32: «Non ti avvicinare alla foicazione. È davvero cosa turpe e un tristo sentirnero». Sura XXIII, vv. 5-6-7 e sura LXX, v. 29-30: «(…) e che si mantengano casti, eccetto con le loro mogli e con le schiave che possiedono – e in questo non sono biasimevoli -, mentre coloro che desiderano altro sono i trasgressori». Sura XXXIII, v. 30: «O mogli del Profeta, quella tra voi che si renderà colpevole di una palese turpitudine, avrà un castigo raddoppiato due volte. Ciò è facile per Allah». Sura V, v. 5: «(Vi sono inoltre lecite) le donne credenti e caste, le donne caste di quelli cui fu data la Scrittura prima di voi, versando il dono nuziale – sposandole, non come debosciati libertini!». Sura IV, v. 15: «Se le vostre donne (nell’islam è ammessa la poligamia, ndr) avranno commesso azioni infami (adulterio), portate contro di loro quattro testimoni dei vostri. E se essi testimonieranno, confinate quelle donne in una casa finché non sopraggiunga la morte o Allah non apra loro una via d’uscita»; v. 24: «(…) A parte ciò, vi è permesso cercare mogli utilizzando i vostri beni in modo onesto e senza abbandonarvi al libertinaggio (…)»; v. 25: «E chi di voi non avesse i mezzi per sposare donne credenti libere, scelga moglie tra le schiave nubili e credenti. Allah conosce meglio la vostra fede, voi provenite gli uni dagli altri. Sposatele con il consenso della loro gente, e versate la dote in modo conveniente; siano donne rispettabili e non libertine o amanti(…)». Sura II, v. 235: «Non sarete rimproverati se accennerete a una proposta di matrimonio, o se ne coltiverete segretamente l’intenzione. Allah sa che ben presto vi ricorderete di loro. Ma non proponete il libertinaggio; dite solo parole oneste».
E, per concludere, sura XXIV – La Luce, v. 2-10: «Flagellate la foicatrice e il foicatore, ciascuno con cento colpi di frusta e non vi impietosite nell’applicazione della Religione di Allah, se credete in Lui e nell’Ultimo Gioo, e che un gruppo di credenti sia presente alla punizione (…)».
Un breve cenno merita il cosiddetto matrimonio temporaneo – mut’a -, consentito apertamente dalla sola pratica sciita (duodecimana): esso è previsto per circostanze particolari ove non si possa o non si voglia celebrare un matrimonio a tutti gli effetti. Questa unione temporanea ha lo scopo di poter «consumare» il rapporto sessuale senza infrangere la legge islamica. Alla donna viene corrisposto un compenso.
Angela Lano
(*) Cfr. Joseph Schacht, Introduzione al diritto musulmano, Edizioni della Fondazione Agnelli, Torino 1995, pag. 186
Angela Lano