OCEANIAChiesa in alto mare

Si è svolto a Roma, dal 22 novembre al 12 dicembre
1998, il primo Sinodo dei vescovi per l’Oceania.
Le giovani chiese del continente continuano l’opera
di evangelizzazione e promozione umana
tra innumerevoli sfide: isolamento geografico,
complessità dell’ambiente multiculturale e
multireligioso, confusione provocata dal pullulare
delle sètte fondamentaliste, diversità delle condizioni
socioeconomiche delle popolazioni e scarsità di aiuti.
Un insieme di chiese sorelle che chiede solidarietà.

Non è facile rintracciare sull’atlante la diocesi di mons. Guy Chevalier, Taiohae o Tafenuaenata, nella Polinesia francese. «Vescovo nelle Marchesi – spiega -, a 1.500 km dal più vicino confratello vescovo. Sono abituato a un certo isolamento. Ma c’è un isolamento molto più serio: quello delle piccole comunità cattoliche (isole, villaggi o regioni) che, per la loro collocazione geografica e l’esiguo numero di abitanti, sono abituate a vivere senza sacerdote».
Ancora più problematico scorgere le isole Cook, «molto piccole e isolate, sparse in 240 chilometri quadrati di oceano». Viene da dire: povera chiesa universale, rintracciabile solo con la lente d’ingrandimento!
UNA CHIESA GALLEGGIANTE
Al Sinodo dell’Oceania un vescovo inizia il suo intervento scusandosi di non essere un teologo, ma aggiustatore di motori. C’è da capirlo: quando il fuoribordo va in tilt, non c’è nessuno che lo ripari all’infuori di lui; l’evangelizzazione tira i remi in barca. In Oceania l’attività missionaria non si misura in passi o a chilometri, ma a ore di navigazione. Che la geografia non abbia nulla a che vedere con l’evangelizzazione è opinione da dilettanti.
Le chiese d’Africa, America e Asia, di cui si sono celebrati i sinodi, hanno in comune la terraferma, che consente loro di stabilire i punti di partenza e arrivo, di misurare le distanze prima di spiccare il volo. I popoli continentali hanno qualche goccia di sangue in comune nelle vene. L’Oceania, al contrario, galleggia sugli oceani, dando la sensazione di una piattaforma sballottata dai flutti e senza meta fissa. I suoi popoli vengono da mondi ignoti e migrano verso altri altrettanto sconosciuti.
Anche l’Australia, Nuova Zelanda e Papua Nuova Guinea, pur così immense, fanno parte di quel mondo sparso, che si staglia contro il fondo verde mare, sul quale la missione naviga da due o tre secoli e ha avuto impulso con l’arrivo dei missionari dei Sacri cuori, maristi e Pime: una missione consacrata dal sacrificio di Damiano di Molokai, Pietro Chanel, Giovanni Mazzucconi, Peter To Rot, Mary Mckillop e altri santi e beati.
Un terzo della superficie terrestre ospita poco più di 30 milioni di abitanti; 700 i linguaggi soltanto in Papua Nuova Guinea. A rappresentare questa chiesa non sono stati scelti, come per gli altri sinodi, dei delegati: l’invito è stato rivolto a tutti. Hanno risposto 37 vescovi dell’Australia, 10 della Nuova Zelanda, 19 di Papua Nuova Guinea e Isole Salomone, 15 del Cepac (Conferenza episcopale del Pacifico), comprendente le isole minori come Samoa, Tahiti, Fiji, Nuova Caledonia, Guam, Wallis e Futuna, Kiribati, Marianne, Cook, Vanuatu ecc. Ognuno con il suo carico di problemi e soluzioni mancate.
UN SINODO TUTTO DIVERSO
Di strettamente episcopale c’è in essi la croce, che deve essere pesante e faticosa da portare. Si recano a gruppi verso la sala del sinodo, dondolando le loro cartelle come vecchi compagni di scuola, conversando in inglese con accento coloniale americanizzato che li accomuna, in francese e tedesco. Ne riconosci la provenienza dai nomi: Collins, Gerry, Baes, Loft, Reichert, Kurtz, Chevalier ecc. Non manca l’italiano, anzi il veneziano: è mons. Cesare Bonivento del Pime, vescovo di Vanimo in Papua Nuova Guinea, accompagnato dal giovane assistente indiano, padre Joseph Mathai Pullanappillil. Vengono poi i capi dicastero, i membri di nomina pontificia, esperti, auditori e auditrici.
Tra queste spicca la signora Elsie Heiss, della «nazione aborigena dei wirandjuri», alta, bruna, vestita all’occidentale, con un accento inglese da intellettuale e un leggero tocco di stravaganza che la rende distinguibile a prima vista. È addetta all’ufficio per la Pastorale degli aborigeni nel settore della sanità dell’arcidiocesi di Sydney.
Sono abbastanza numerosi gli aborigeni: circa 400 mila solo in Sydney e quasi altrettanti nella diocesi di Parramatta, suffraganea di Sydney; ma per l’opinione pubblica australiana essi non supererebbero i 300 mila. Sono state abolite le riserve, monumenti eretti dalla discriminazione razziale: dal 1948 gli aborigeni hanno cominciato a essere accolti, a gruppi scelti, nelle scuole cattoliche e in quelle pubbliche. Ma nella chiesa stentano a farsi strada: non ci sono ancora sacerdoti aborigeni, soltanto qualche diacono. «Vorrei dire ai vescovi e cardinali di aprire le porte anche alla mia gente – afferma Elsie -, perché possano diventare sacerdoti. Ne abbiamo bisogno come gli altri».
Il problema aborigeno è affiorato più volte nel sinodo, mentre la signora Heiss ha fatto un intervento di grande ispirazione: «Poiché l’inculturazione – ha detto fra l’altro – rappresenta un termine accettabile per la nostra comunità ecclesiale, noi portiamo alla chiesa i nostri valori spirituali e culturali, che possono contribuire ulteriormente all’arricchimento delle comunità cristiane».
OGNI CHIESA È UN’ISOLA
Il sinodo apre i suoi lavori su «Gesù Cristo e i popoli dell’Oceania» con una panoramica d’insieme esposta all’assemblea dal relatore generale, mons. James Hichey, arcivescovo di Perth in #Australia. Prima di dare lettura della relazione, assicura i presenti che è stata commissionata una mappa della chiesa in Oceania per facilitare la comprensione degli interventi a tutti i partecipanti, compresi gli addetti all’informazione; che è quanto dire: appartenere alla chiesa d’Oceania non significa conoscere tutte le chiese della Melanesia, Micronesia, Polinesia, Australia, Nuova Zelanda e Papua Nuova Guinea, ma cercare in tutti i modi di avvicinare i popoli e le comunità accorciando le distanze che finora li hanno tenuti separati.
La missione, da quando è esistita, ha sempre avuto a che fare con linguaggi e culture, ma qui si è aggiunta un’altra barriera: quella delle distanze. «Navi, battelli, canoe e aerei – dice il relatore – in Oceania sono sempre stati più importanti che automobili e treni». Forse è racchiusa, in questa espressione ovvia, la chiave per comprendere la natura dell’evangelizzazione in Oceania, dove rari sono contatti e scambi, perché qui ogni uomo è un’isola. Non si è mai parlato di distanze nei precedenti capitoli, neppure in quello dell’Asia dove, presumibilmente, il problema esiste, ma su terra ferma.
I temi focalizzati ritornano nelle assemblee e nei lavori di gruppo, che si sono svolti dal 22 novembre al 12 dicembre. A ognuno il compito di metterli sul tavolo in modo comprensibile e condivisibile da tutti.
SFIDE DI CULTURE E SÈTTE
In questa comunità di intenti e nella fede partecipata si riconosce la chiesa di oltre mezzo mondo, rappresentata da un pugno di uomini e di donne. Ritorna con martellante insistenza il tema dell’incontro del vangelo con la cultura, che non avviene in modo indolore, perché ogni penetrazione del vangelo cambia pensiero e vita. Il prefetto apostolico delle isole Marshall, il gesuita C. Gould, invita alla sfida, «laddove la cultura dominante sembra contraria al vangelo e al modo di vivere cristiano».
L’intento è buono, ma la comunità è troppo fragile per resistere alle sollecitazioni della tradizione e delle novità. A volte stravolge il senso del vangelo e ne ricava soluzioni deformanti, come le sètte. Sono queste un fenomeno deviante che non risparmia nessun angolo dell’Oceania. Alcune sono importate, altre di origine locale. «Nelle Samoa americane – dice mons. Quinn, vescovo di Samoa-Pago Pago – gruppi religiosi a tendenza fondamentalista fanno riferimento a comunità religiose della “corrente principale”, sia protestante che cattolica, e attraggono persone di ogni età, grazie allo stile accattivante, compartecipazione, musica e finanziamenti esteri». Preoccupa i vescovi la divisione che le sètte operano in alcuni villaggi, mettendo a nudo «il punto debole del cattolicesimo»; come preoccupa il crescente numero di matrimoni misti e separazioni che ne conseguono.
E qui viene messo in causa il Codice di diritto canonico del 1983: a giudizio di mons. Boyle, vescovo di Donedin (Nuova Zelanda), esso lega le mani a vescovi e sacerdoti più di quello del 1917, al punto che ciò che era permesso prima è vietato oggi, e viceversa. È permesso solo ciò che dice il Codice. Questo criterio, a giudizio del presule e di altri, oltre che creare confusione nei sacerdoti, determina una fuga dalla chiesa a tutto vantaggio delle sètte.
«Talora – annota mons. Lolesio Fuahea, vescovo locale di Wallis Futuna – le sètte sono dei circoli chiusi, formati da gente influente, che cercano di dominare il paese e la chiesa». In Papua Nuova Guinea molte sètte deriverebbero dalla cosiddetta cargo mentality, che intende entrare in possesso dei beni che gli europei hanno sottratto con l’astuzia, facendo uso degli stessi metodi.
LOTTA ALL’IGNORANZA
Il proliferare delle sètte viene attribuito specialmente all’ignoranza religiosa dilagante ovunque. Le scuole cattoliche, che formavano la base per una evangelizzazione intelligente e cosciente, danno segni di cedimento e laicismo. L’allarme sale da più parti. Il vescovo autoctono di Suva nelle Fiji, Petero Macata, teme per il futuro della scuola, a motivo del dilagare dei «nuovi gruppi religiosi (sètte), che offrono un consistente supporto finanziario per colpire i cattolici di spicco proprio nell’istruzione dei loro figli. Soldi per i pesci grossi… Speriamo di poter conservare le nostre scuole». Nel caso contrario, la chiesa perderebbe la base più importante della sua evangelizzazione, che aveva di mira la formazione di un laicato efficiente e responsabile.
Al problema della scuola è direttamente legato quello della formazione dei catechisti e, soprattutto, dei sacerdoti. «Il numero delle vocazioni locali – ammette il card. Tomko – aumenta con buon ritmo, anche se insufficiente». Più esplicito mons. Cesare Bonivento della Papua Nuova Guinea, per il quale il problema non sta solo nella quantità e qualità dei candidati, ma anche nell’impegno dimostrato dai pastori. «Se ci impegneremo poco in questa direzione – avverte – daremo sempre l’impressione che la nostra chiesa è riluttante a diventare chiesa locale».
Molti altri i problemi studiati e dibattuti: comunione e dialogo; diritti umani e insegnamento sociale della chiesa; problema dei sacerdoti soli, dei diaconi sposati, dei catechisti facenti funzione di preti, di comunità rimaste senza eucaristia sei mesi all’anno.
C’è soprattutto un senso di impotenza, a partire dai vescovi stessi, i quali si sentono incapaci di intervenire, perché privi dei collegamenti necessari, non esclusi quelli finanziari. Qualcuno ha espresso la propria «preoccupazione per il fatto che i criteri delle agenzie di benefattori, specialmente quelle cattoliche, possono essere diversi da quelli delle nostre aree in via di sviluppo. Si spera che i criteri di donazione non escludano i bisogni delle chiese particolari in Oceania o in qualunque altro posto».
Un appello alla solidarietà mondiale perché non distingua tra poveri in macchina e poveri in canoa.

Giovanni Tebaldi




ARGENTINAI maestri di Menem

La «carpa blanca» dei docenti argentini è simbolo della lotta di tutti i lavoratori contro una concezione economica che non rispetta la dignità delle persone.
E che ha generato quasi 9 milioni di poveri, il 25% della popolazione argentina.

Buenos Aires – È una protesta straordinaria per la durata, la partecipazione, l’originalità. Dal 2 aprile 1997 gruppi di docenti argentini si alternano in uno sciopero della fame effettuato in una grande tenda piantata in «Plaza de los Dos Congresos», proprio davanti al palazzo del parlamento.
L’inquinamento atmosferico (che nella capitale è notevole) ha trasformato il suo colore bianco in un grigio sporco, ma poco importa. Per tutti è la Carpa blanca.
In questi quasi due anni, in essa sono passati più di 600 digiunanti, che si danno il cambio ogni 15/20 giorni. Maestri, precettori, professori, direttori: docenti di tutti i tipi (con l’esclusione dei professori universitari) e di tutte le province argentine si danno il cambio per contribuire di persona a uno sciopero che non ha precedenti nella storia sindacale del paese.
Gli obiettivi della lunghissima battaglia non si limitano a richieste di aumenti salariali (per tutti i livelli e in tutto il paese, da La Quiaca alla Terra del Fuoco), ma sono finalizzati a una revisione integrale del sistema educativo dell’Argentina.
I docenti chiedono la creazione di un «fondo de financiamento educativo» e una nuova legge di «educación pública nacional»; respingono, inoltre, tutti i progetti governativi che prevedano l’introduzione della flessibilità sul lavoro e la soppressione della copertura sanitaria pubblica per i lavoratori dell’educazione.

UNA LEZIONE PER TUTTI

Entriamo da una porticina laterale, quasi in punta dei piedi per timore di disturbare. Ma all’interno c’è molto movimento. Marta Maffei, segretaria generale del CTERA (la «Confederation de Trabajadores de la Educación de la Republica Argentina», che rappresenta 192.000 docenti), è intervistata da un gruppetto di giornalisti. Alcuni studenti parlano con un’insegnante. Altre persone stanno disegnando manifesti di protesta. Ci sono sedie accatastate, tavoloni pieni di carte, lavagne con messaggi di tutti i tipi, un televisore acceso.
Gli scioperanti si riconoscono immediatamente, perché indossano un camice bianco, e una targhetta avverte che sono maestri in sciopero della fame. In tre si offrono di farci da guida. Cesar Olivares è precettore a Moreno, nella provincia di Buenos Aires; Margherita Aqueveque insegna contabilità in una scuola secondaria nel Rio Negro; Alicia Ferrada lavora in un asilo di Esquel, nella provincia di Chubut.
La tenda è divisa in tre parti distinte: a destra (rispetto all’entrata principale) c’è uno spazio per le riunioni, le telefonate e la distribuzione delle bevande; al centro c’è una stanza per accogliere i visitatori; a sinistra c’è l’ambiente più privato, dove sono state sistemate le brande per il riposo.
Chiediamo in cosa consista lo sciopero. «Non assumiamo – ci spiega Margherita – alcun tipo di alimento. Prendiamo soltanto liquidi». E, per farci comprendere meglio l’organizzazione, ci mostra un foglio appeso a un pannello. Esso indica con precisione tutte le bevande da assumere: ogni mezz’ora, a partire dalle 7,30 del mattino, un liquido diverso (thé, mate, Seven-up, ecc.). «Questa tenda – spiega Cesar – è un esempio di pace, di lotta, di solidarietà. Noi qui dentro conviviamo con persone che non conosciamo, provenienti da altre province. C’è gente che viene da molto lontano, lasciando la famiglia per almeno 20 giorni. Gli argentini non vogliono più violenza. Per questo una manifestazione pacifica come la nostra ha l’appoggio della società».
«Il nostro salario è talmente basso che provo vergogna a dirlo» confessa Cesar. La retribuzione media per un insegnante è di 350 pesos mensili. Per comprendere l’esiguità della somma, sono sufficienti due dati: un salario di 300 pesos è considerato un salario da fame o di pura sopravvivenza; d’altra parte, secondo gli istituti di ricerca argentini, una famiglia con due bambini per coprire le necessità basilari avrebbe bisogno di almeno 1.030 pesos al mese.
«Tutti sappiamo – ha detto il deputato Andres Delich – che i problemi educativi non si esauriscono nei bassi salari dei nostri docenti. Tuttavia, allo stesso tempo, sappiamo che senza salari degni risulta impossibile qualsivoglia progetto serio di miglioramento della scuola argentina». Ma non tutti, in Argentina, sono d’accordo. Ancora in luglio, Roque Feández, ministro dell’economia, aveva detto: «È vero che i maestri guadagnano poco, ma è altrettanto vero che lavorano poco».
Marta Maffei, appena riconfermata alla testa del CTERA, porta dei grandi occhiali e un telefonino che squilla in continuazione. Ci dice: «Nella carpa, nelle strade, nelle scuole continuiamo a lottare per un’Argentina giusta per tutti. Noi non vogliamo un maquillaje, chiediamo cambi profondi. Nella carpa de la dignitad, con la forza, la convinzione e la serena fermezza dei maestri abbiamo detto no alla violenza istituzionale, alla rassegnazione, all’isolamento. Abbiamo mostrato un sindacalismo differente che usa strumenti diversi. È bello poter contare sulla solidarietà della gente per combattere contro questo fondamentalismo neoliberista, globale e selvaggio».

PER UN PUGNO DI «PESOS»

Pare che la Carpa blanca dia molto fastidio al presidente Carlos Menem e ai politici della maggioranza. Quando, lo scorso settembre, si parlò di installae una anche davanti alla Casa Rosada, in Plaza de Mayo, intervenne a vietare l’iniziativa il responsabile degli interni, Carlos Corach. Il ministro giustificò il divieto affermando che Plaza de Mayo è un «monumento storico nazionale» e che, pertanto, non può essere fatta oggetto di manifestazioni.
Il governo ha sempre sostenuto che non c’è denaro per finanziare le richieste dei docenti. Per sbloccare la situazione, in settembre i deputati hanno approvato il progetto governativo di un’imposta d’emergenza dell’1% (annuale) sul valore delle automobili: il denaro raccolto in questo modo (700 milioni di pesos, secondo le stime ufficiali) avrebbe dovuto finanziare un aumento dei salari dei docenti. Il progetto è stato però modificato dal Senato e, quindi, è tornato alla Camera, dove è attualmente fermo. Nel frattempo, il mercato dell’auto è crollato dell’11%…

IL DISEGNO DI MENEM

Che il budget statale sia limitato corrisponde a verità. Inoltre, in questi anni di politiche neoliberiste, la situazione sociale è degenerata e il governo ha dovuto riempire più le pance che le teste degli scolari: le spese per dare da mangiare ai bambini hanno prevalso su quelle per l’istruzione.
Secondo dati ufficiali, oggi in Argentina ci sono 1.357.995 famiglie che vivono in condizioni critiche; il numero dei poveri arriva a 9 milioni di persone, circa il 25% della popolazione argentina. Cifre allarmanti, soprattutto davanti ai proclami trionfalistici fatti dal presidente e dai suoi ministri economici. Ma Menem non sembra preoccupato, forse perché ha deciso di rispettare la costituzione non candidandosi (sarebbe stata la terza volta consecutiva) alle elezioni del 1999. È probabile che nella sua testa ci sia un progetto di più lungo respiro: ripresentarsi nel 2003, possibilmente nelle vesti di salvatore della patria.

Paolo Moiola




KENYAScommettiamo sui giovani (seconda parte)

Continua il viaggio nella diocesi di Marsabit.
Morijo, Maralal, Wamba: stessi problemi di povertà,
insicurezza, banditismo, impraticabilità delle strade…
E identiche testimonianze di amore e di speranza:
missionari e missionarie della Consolata investono
la loro vita in istruzione e sanità, per un futuro migliore
di queste regioni e del resto del paese.

Morijo: 2.000 metri di altitudine. L’aria è frizzante, ma l’accoglienza di padre Aldo Vettori è calorosa: «Per i superiori questa è una missione ad personam» esordisce con una fragorosa risata. L’ha iniziata 11 anni fa, partendo da zero, dopo aver fondato e organizzato la missione di Barsaloi.
Padre Aldo racconta a ruota libera virtù e miracoli dei suoi samburu; fornisce la sua versione sulle passate lotte tribali; descrive con passione il suo lavoro missionario, catechisti e catecumenati, organizzazione comunitaria impressa alla parrocchia, progetti realizzati o ancora nel cassetto. Rimango a bocca aperta, come 42 anni fa, quando raccontava le avventure di naia e lotte sindacali. Non è cambiato di una virgola: sempre entusiasta di tutto e di tutti. Essendo io cresciuto, faccio mentalmente un po’ di tara.
I fatti mi fanno ricredere. Morijo è un cantiere aperto: nel cortile i meccanici aggiustano le macchine; nella falegnameria stridono pialle e seghe; poco lontano alcune donne sistemano la cucina della scuola, i muratori riparano le case dei maestri, altri costruiscono la sede della polizia. Qui padre Aldo alza la voce: minaccia il governo di sospendere tutto, se non arriva il granoturco promesso per pagare lavoro e materiale. Gli operai gli danno ragione e continuano la costruzione.
Visitiamo il dispensario, la scuola, l’asilo, il laboratorio di taglio e cucito e il serbatornio dell’acqua: fiore all’occhiello della missione. Da lontano sembra un diroccato castello medievale, da vicino un’opera geniale: il fianco d’una collina è stato sbancato, pavimentato e circondato da un muro, per raccogliere l’acqua piovana e convogliarla in un’enorme cisterna. Per le stagioni secche, padre Aldo ha scovato una falda acquifera in una valletta; ha scavato un pozzo di 140 metri e, con un motore, pompa l’acqua nel serbatornio. Le famiglie più isolate, con casa in muratura e tetto di lamiera, sono aiutate dalla missione a costruirsi un modesto serbatornio dove raccogliere l’acqua piovana: è il «progetto anfora».
La visita è quasi finita. Uno stuolo di donne aspetta il missionario per esporgli i loro problemi, sicure di ricevere un aiuto. Ci sono anche alcuni catechisti e uomini armati. «Sono le mie “guardie del corpo” – dice padre Aldo sorridendo -. Ogni notte si dispongono strategicamente attorno al villaggio, per difenderlo dai malintenzionati. Qui mi sento sicuro».
Morijo è l’unica missione senza reticolati, muri di recinzione e cancelli blindati, eretti negli ultimi anni per motivi di sicurezza in tutte le missioni visitate.
Alcune persone sono venute a vendere latte, favi di miele, legna, carbone. Padre Aldo compera tutto, aiutando la gente a guadagnarsi qualche soldo; poi lo rivende ai poveri a minor prezzo di quanto lo ha pagato. Confratelli un po’ maligni raccontano che uno stesso sacco di carbone venga più volte comprato e rivenduto agli stessi poveri. Padre Aldo ha un cuore troppo grande per accorgersi di tali sottigliezze.
A proposito di cuore: padre Aldo, 68 anni, di cui 30 vissuti in Africa da pioniere solitario, ha fatto tre by pass, ma si sente ringalluzzito. «Per ringiovanire l’istituto, ho suggerito al superiore generale di sottoporre i vecchietti alla stessa operazione» dice ridendo sonoramente. Poi confessa di non poter guidare a lungo come una volta; che preferisce il giorno alla notte, perché può muoversi e respirare senza fatica.
I superiori tentano di dargli un collaboratore: ma non è facile trovare chi resista ai suoi ritmi. Gli hanno proposto il trasferimento in una parrocchia più comoda, anche se sanno che, dovunque andasse, comincerebbe a mettersi in proprio e fonderebbe un’altra missione ad personam.

Maralal, ore 6.30, concelebro con padre Marino Gemma: da una collinetta poco lontana un altoparlante vomita musica assordante, seguito da un sermone a squarciagola. «È così ogni mattina – spiega padre Marino -. La chiesa dell’Assemblea di Dio è sempre vuota, ma il pastore fa la predica a tutta la città. Qui i cattolici sono in maggioranza; ma il pullulare di sètte religiose sta creando grande confusione, specie tra i giovani».
I giovani: sono la grande sfida della parrocchia di Maralal; se ne contano a migliaia nelle numerose scuole elementari e superiori della città. Se ne occupa padre Marino quasi a tempo pieno: ogni giorno, al pomeriggio, si reca nelle varie scuole per insegnare religione, incontrare gruppi di Azione cattolica e istruire catecumeni; la sera visita una delle 16 piccole comunità cristiane della città. «Sono quasi tutte formate da kikuyu: è bello vedere come la fede sia radicata nella loro vita; più che nei cristiani di qualsiasi altra etnia».
La parrocchia è il punto di riferimento della gioventù anche fuori della scuola. Ogni fine settimana vengono organizzati toei sportivi e competizioni culturali. «Non si tratta solo di farli divertire – spiega il missionario -, ma di promuovere conoscenza reciproca e amicizia, di cui sentono tanto bisogno.
Le attività giovanili culminano con la Consolata Cup, nel mese di giugno, a cui partecipano tutte le scuole di Maralal».
Altre opere a favore della gioventù sono gestite dalle missionarie della Consolata, come il collegio per studentesse di scuole secondarie e l’«Irene Training Center»: un istituto professionale, dove le ragazze si specializzano in tessitura, cucito, maglieria, lavorazione del cuoio, scienze domestiche, e conseguono un diploma che le abilita all’esercizio di una professione e a insegnare le materie in cui si sono specializzate.
Capoluogo amministrativo del distretto Samburu, Maralal è anche il cuore della diocesi di Marsabit: qui c’è il seminario minore, diretto da padre Paschal Libana, missionario della Consolata tanzaniano; l’ex seminario maggiore (oggi filosofi e teologi studiano a Nyeri) ospita il centro pastorale, dove padre Roberto Sibilia dirige corsi di formazione per animatori e agenti pastorali e cura la pubblicazione di numerosi sussidi catechetici e liturgici in lingua inglese, samburu e swahili; il centro catechetico è in fase di ripensamento, ma continua la formazione dei catechisti nelle singole parrocchie.
La tabella di marcia non mi consente di sostare in tutte le missioni, ma una fugace visita a Suguta Marmar, 30 km da Maralal, è doverosa. Vi incontro un novizio d’eccezione, che emetterà la professione religiosa a metà marzo: è don Pietro Tablino, missionario fidei donum della diocesi di Alba, una vita spesa nelle regioni più inospitali del Marsabit. «In fondo al cuore mi sono sempre sentito missionario della Consolata – dice sorridendo -. È ora che lo diventi anche giuridicamente».
Wamba: la scuola secondaria «Santa Teresa» celebra 25 anni di vita. Nei viali fioriti c’è un indescrivibile viavai di colori, dal bianco e azzurro delle divise delle alunne, alle tinte smaglianti dei vestiti di signore sofisticate, dal nero dei veli musulmani ai variopinti oamenti samburu.
Alle 11 gli invitati affollano il salone parrocchiale. Per tre ore s’intrecciano discorsi, canti, danze e scenette. Comincia la preside, suor Giuseppina, ricordando gli obiettivi raggiunti dalla scuola: «Oltre 1.230 ragazze hanno completato con successo i quattro anni di formazione umana e accademica: sono state stimolate a sfruttare le doti personali e diventare responsabili del proprio e altrui futuro».
Una ventina di prosperose ex alunne raccontano la loro storia: sono insegnanti, infermiere, assistenti sociali, segretarie di provveditorati e aziende, impiegate e imprenditrici; altre frequentano ancora l’università. «Se siamo ciò che siamo, lo dobbiamo alle basi ricevute in questa scuola», affermano le signore Kaparo e Lesirma, rispettivamente mogli del presidente dell’Assemblea nazionale e del segretario del Parlamento.
Il signor Lengala, provveditore agli studi per il distretto Samburu, sottolinea l’eccellenza dei risultati ottenuti fin dagli inizi, che fanno di «Santa Teresa» un esempio per le scuole del distretto e di tutto il territorio nazionale. Poi aggiunge lodi e ringraziamenti per tutti, vivi e defunti: missionari e missionarie che hanno investito vita e mezzi materiali in questa istituzione e continuano a sponsorizzare le ragazze più povere; mons. Carlo Cavallera, primo vescovo di Marsabit, che ha scommesso sull’istruzione e promozione della donna; l’attuale vescovo, mons. Ambrogio Ravasi, che continua a sostenere questa scuola e altre opere sociali.
A parte la retorica di circostanza, Wamba è lo specchio di quanto è avvenuto nell’intero territorio di Marsabit: tutto ciò che esiste, nel campo dello sviluppo e promozione umana, istruzione e sanità, è opera della chiesa e dei suoi missionari.
Per 10 volte padre Lorenzo Rosano si era visto rifiutare dalle autorità coloniali il permesso di stabilirsi a Wamba, essendo zona d’influenza protestante. Ma continuò a fare il missionario ambulante tra Maralal e Wamba, fermandosi per i tre giorni consentiti. «Ironia della sorte – racconta padre Giuseppe Gorzegno -, per tutto il tempo in cui rimaneva a Wamba, padre Lorenzo era ospite di un catechista protestante di nome Filippo. È morto nel 1984. Mentre lo assistevo all’ospedale, mi diceva con orgoglio di essere stato il primo catechista cattolico di Wamba; raccontava della bontà del tenace missionario e dei palloni che gli portava per fare giocare i bambini».
Con l’indipendenza del Kenya, arrivò il sospirato permesso, nel 1965. «Quel giorno padre Rosano scrisse nel diario di aver pianto di gioia» continua padre Gorzegno. Accorse subito mons. Cavallera: piantò la tenda, radunò gli anziani e ottenne il terreno per costruire la scuola e il dispensario. Era la politica del vescovo pioniere: evangelizzare promuovendo istruzione e sanità.
Il ciclo elementare, nel 1973, sfociò nella scuola secondaria: Wamba Boys, per ragazzi, poi nazionalizzata, e «Santa Teresa», per le ragazze, gestita ancora oggi dalle missionarie della Consolata.
Anche le suore sono state protagoniste della crescita di Wamba. Attualmente sono quindici, in maggioranza impegnate nella scuola e ospedale; tre collaborano nelle attività della parrocchia: asili, catechesi, gruppi di donne e giovani, servizio della carità. «Quando qualcuno viene a chiederci aiuto, lo mandiamo da suor Michelita e lei risolve tutti i casi» racconta padre Giuseppe.
Dopo tanti anni di servizio in ospedale, suor Michelita continua a fare l’infermiera ambulante, scorrazzando in bicicletta per tutto il villaggio e dintorni: visita le famiglie povere, assiste gli ammalati a domicilio, distribuisce medicine e consolazione. Quando si ferma, è subito attorniata da un nugolo di poveri: ascolta, fa coraggio e aiuta più che può.

È domenica. Wamba riprende ad animarsi fin dalle prime ore del mattino. Alle sette, la prima messa è affollata da suore, personale medico, studenti infermiere e ragazze della scuola Santa Teresa. La seconda, alle 9.30, dura quasi due ore. Animano la liturgia gli Wamba Boys, che, secondo il costume samburu, cantano con tutta la voce in canna.
Il pomeriggio visito l’ospedale. Pare un giardino: bougainvillee multicolori e sfavillanti oano i viali e pensiline che collegano i vari padiglioni. Ordine e pulizia dappertutto. L’attrezzatura dei vari reparti non ha nulla da invidiare agli ospedali europei.
Il dispensario, nato nel 1965, è cresciuto celermente, diventando un ospedale con oltre 150 letti e, grazie alla dedizione del dottor Prandoni e della sua équipe medica, la sua fama è dilagata sino ai confini dell’Etiopia e Somalia. «I malati arrivano da centinaia di chilometri – afferma padre Giuseppe -. Molti musulmani lo preferiscono agli ospedali governativi più a portata di mano».
Sostenuto e amministrato per molti anni dai missionari della Consolata, l’ospedale di Wamba è passato sotto la responsabilità della diocesi e, attraverso una rete di amici e organismi inteazionali, si è reso autosufficiente. Molti dottori e professori italiani vengono a prestarvi servizi specialistici gratuiti.
Accanto all’ospedale, un’altra prestigiosa istituzione per la costruzione del futuro del Kenya: la scuola per infermiere, l’unica in tutta la diocesi. Gestita da una suora della Consolata, con la collaborazione d’insegnanti formati in loco, la scuola assicura il servizio all’ospedale di Wamba e fornisce personale qualificato e specializzato a quelli governativi.
La visita si conclude alla Huruma home (casa della misericordia), aperta dalla diocesi nel 1990 per bambini handicappati fisici e mentali. Tre suore indiane e alcune donne africane stanno imboccando alcuni bambini. Altri riescono a nutrirsi da soli. «Ne abbiamo 25, tra 2 e 15 anni – spiega la suora direttrice -. Otto di essi fanno fisioterapia nell’ospedale, perché imparino a badare a se stessi il più possibile. Ma il loro male più grave è la mancanza di affetto: sono rifiutati dalla famiglia, che li ritiene una maledizione. Abbiamo tentato inutilmente di convincere i familiari a riprenderli in casa; abbiamo organizzato delle feste per i genitori, con la presenza del vescovo, perché vengano almeno a visitarli; ma pochissimi si sono presentati. Oramai, per queste creature, siamo noi le loro mamme».

Benedetto Bellesi




CILEVoglia di sognare

Dal secondo «Congresso latinoamericano
di pastorale giovanile»,
qualche spunto di cronaca e alcune riflessioni.
Per uno scambio tra mondi, ritenuti a volte
un po’ lontani, e per imparare anche da loro:
per esempio, ad essere più audaci e creativi.

D al 3 all’11 ottobre scorso si è svolto a Santiago del Cile il secondo Congresso dei giovani dell’America Latina: una tappa fondamentale nel cammino di progettazione e riflessione sulla realtà giovanile, già iniziato nel 1992 con il primo Congresso, tenutosi a Cochabamba in Bolivia.
Partecipandovi come invitato per la Pastorale giovanile italiana, ho potuto incontrare e dialogare con giovani, sacerdoti, suore e vescovi di 22 nazioni, che rappresentavano realtà spesso molto diverse tra loro: talvolta anche in contrasto, ma unite da un profondo senso di appartenenza ad una terra con una grande voglia di riscatto, desiderosa di gestire in modo autonomo e democratico il proprio sviluppo sociale e spirituale.
Ho così avuto la possibilità di scoprire un’America Latina molto più matura e responsabile di quella che viene solitamente presentata a noi «occidentali», nell’intento forse di giustificare una tutela economica e politica attuata dai paesi più ricchi e potenti, in primo luogo gli Stati Uniti.
Già il tema del Congresso («I giovani con Cristo, trasformando l’America Latina con giustizia e speranza») ha evidenziato una acuta sensibilità per i problemi di ineguaglianza e discriminazione sociale-economica che affliggono il continente, ma che vengono affrontati con fiducia.
Mi ha affascinato questo atteggiamento positivo e propositivo, che non si lascia sopraffare dagli enormi problemi che investono, in modo diverso, tutto il territorio latino-americano (povertà, narcotraffico, dittatura, violenza…). I giovani riuniti a Santiago sono partiti da un’analisi lucida e dettagliata della realtà attuale (riassunta in una serie di desafios, sfide), che ha rappresentato il terreno dal quale si sono sviluppati, in un secondo momento, i documenti di indirizzo e le linee prioritarie della Pastorale giovanile (definite «lineas de accion»).
Negli atti ufficiali del Congresso si legge un’esplicita condanna, da parte dei giovani, della società neoliberale, «che aumenta l’emarginazione sociale, il debito pubblico, lo sfruttamento minorile, il divario tra ricchi e poveri» (Desafio n. 1).
A questo modello neoliberale, simbolo della contraddizione di un sistema socio-economico mondiale che assicura la vita a pochi e l’indigenza a troppi, i giovani sudamericani contrappongono la necessità di una chiesa che «accompagni i giovani a partecipare nei processi politici». Questo suppone una formazione integrale, basata sulla dottrina sociale della chiesa e capace di individuare alternative economiche di autorealizzazione e autogestione, per contribuire ad un miglioramento della qualità della vita.

U n limite in questa analisi è un’eccessiva semplificazione, che non tiene conto delle complesse conseguenze del processo di globalizzazione. Vengono indicate soluzioni approssimative e vaghe.
Tuttavia ho apprezzato nei giovani latinoamericani una qualità che noi, «occidentali», abbiamo drammaticamente perso: la creatività, ossia la capacità di sognare un mondo diverso da quello attuale, la capacità di immaginare che possano esistere altre ipotesi di organizzazione sociale, al di là dell’attuale struttura socio-economica.
I giovani non si arrendono all’idea di una realtà immodificabile e di un sistema neoliberale insito nel genoma dell’uomo. Però faticano a tradurre il cambiamento desiderato in strategia politica e, soprattutto, in dialogo propositivo con organismi inteazionali, senza il cui appoggio ogni tentativo di modifica è vano.
C’è, infatti, sfiducia nelle reali intenzioni dell’Occidente e nell’intervento diplomatico, ben riassunto nelle parole di Raquel, giovane delegata della pastorale giovanile paraguaiana: «Ho ancora fiducia che, guidati dalla Parola di Dio, si possa riscattare questa terra dai suoi peccati, ma diffido di chi si accorge dei drammi dell’America Meridionale solo per l’uccisione dei bambini da parte della polizia, o il massacro degli indios, e dimentica che ogni giorno, qui, muoiono centinaia di bambini che non hanno quasi mai conosciuto un sorriso… Il problema è economico e sociale e non riguarda solo noi, ma anche gli interessi e l’egoismo di chi si crede buono e democratico in altre parti del mondo».

A ltri temi scottanti affrontati dai giovani al Congresso sono stati:
– il ruolo della famiglia, «riscoperta come progetto di Dio, comunità di vita e amore, in grado di disceere dai valori imposti dalla società e di poter contribuire alla costruzione di una società nuova, segno del regno di Dio» (Linea de accion n. 4);
– la «scelta per i giovani e i poveri del continente, mediante la creazione di forme concrete di partecipazione e l’individuazione di progetti di autofinanziamento economico, che consentano di realizzare i programmi di evangelizzazione, formazione e missione della pastorale giovanile» (Lineas de accion n. 12/18);
– la creazione di «processi di elezione di assessori di pastorale giovanile, che partano da persone proposte all’interno di gruppi giovanili, prendendo in esame criteri come la vocazione, la formazione e la reale scelta preferenziale per i giovani» (Linea de accion n. 21).
Inoltre sono stati approvati documenti che richiamano la pastorale giovanile ad un maggiore impegno per coloro che sono costretti ad emigrare, «vittime dei trafficanti di carne umana, delle politiche discriminatorie dei loro paesi, della droga, della prostituzione» (Pronunciamento para una pastoral juvenil migratoria).
Non manca un invito al papa a farsi portavoce della richiesta di «condono del debito esterno di questi popoli, come un gesto di unità mondiale e come segno concreto della celebrazione del giubileo dell’anno 2000» (Condonacion de la deuda extea).

È utile per noi, giovani italiani e, per la nostra chiesa confrontarci con le proposte e sfide che ci lanciano i fratelli dall’altra parte dell’Oceano. È un importante stimolo per riportare l’attenzione su temi da noi spesso considerati obsoleti, anacronistici: come la capacità di rinnovare la scelta di una vita semplice, attenta ai problemi dell’emarginazione e in grado di testimoniare, con gioia, bontà e entusiasmo, strade nuove di convivenza.
Nello stesso tempo, è altrettanto importante che la chiesa latinoamericana sappia allargare i propri orizzonti, sviluppando con maggiore sforzo e interesse i temi riguardanti la sfera intima di ciascun individuo, accogliendo alcuni spunti di riflessione che animano, invece, intensamente la nostra realtà pastorale.
Colpisce, ad esempio, che fra le oltre 20 linee di azione, individuate come prioritarie per la pastorale giovanile sudamericana, non si faccia mai riferimento a tematiche che i giovani sperimentano quotidianamente: amicizia, rapporto di coppia, sessualità… Un altro limite mi è parso l’uso di un linguaggio «ingessato» e burocratico, nel quale i giovani faticano ad identificarsi, perché molto diverso dal gergo con cui esprimono timori e desideri.
Ogni esperienza di fede, all’interno della chiesa, rappresenta una ricchezza, pur con i suoi limiti e peculiarità. Credo perciò che una reciproca attenzione e una volontà di condivisione siano non solo auspicabili, ma ora più che mai necessarie, in vista della celebrazione del giubileo del 2000. Un giubileo che sarà, anche solo per ragioni geografiche, molto «occidentalizzato».
Pertanto è ancora maggiore il bisogno di individuare forme celebrative, testimonianze di fede, scelte prioritarie diverse fra loro e, tuttavia, comune espressione di una molteplicità di doni spirituali e morali, raccolti nell’universale chiesa di Gesù Cristo.

Massimo Collino




ETIOPIA – Ibrahim… va bene?

Periferia della grande città, in Etiopia.
Un missionario e una bambina musulmana.
Povertà, sofferenza e tanta semplicità.
Una piccola storia. E una domanda.
Che vale un discorso.
Nulla è impossibile per chi sa guardare gli altri
in modo diverso, con simpatia e amore.
È il succo di questa piccola vicenda: una delle tante
che costellano ancora (per fortuna!) il nostro mondo.

Questa è una storia della periferia di Addis Abeba, capitale d’Etiopia. Non è uno studio sociologico, né una tesi universitaria o una raccolta di dati statistici, come ci si aspetterebbe quando si parla di ambienti molto poveri. È invece una cosa molto più semplice. Se mi si permette un paragone, può essere quello della differenza tra un trattato di teologia e i «fioretti di san Francesco»; questi ultimi, nella loro semplicità, contengono tanta fede vissuta.
In questa periferia, ad essere sinceri, non manca qualche opera modea, scuola e fabbrica. Si incontrano anche tutte le culture e fedi religiose, che fanno dell’Etiopia un caleidoscopio di popoli e nazioni. In particolare si ritrovano nomi cristiani e musulmani, le due fedi più diffuse in Etiopia.
Giamìla, ad esempio, è una bambina di famiglia musulmana, di 11 anni, figlia di un handicappato e frequenta, insieme a centinaia di altri bambini, la scuola di Makanissa, situata alla periferia della città. Segue la quarta elementare.
Nella zona di Makanissa vivono, abitando sotto le tende, diverse migliaia di rifugiati della guerra di Eritrea, finita pochi anni fa e, purtroppo, ricominciata nei mesi scorsi. Molte delle tende che furono assegnate inizialmente ai rifugiati come riparo, complici un po’ di paglia e fango reperibili sul posto, si sono trasformate in costruzioni permanenti; cioè in piccole capanne e case, mentre la tenda servirà a coprire il tetto durante le piogge.
Lì vicino, una fabbrica di vini e liquori, iniziata da un greco ai tempi dell’imperatore Hailé Selassié. E pure una fabbrica di ombrelli, dove lavorano molti handicappati, tra cui il papà di Giamìla. Essendo musulmana, la si può distinguere per lo shas (velo) bianco, molto ben curato, che porta sul capo.
I suoi fratellini portano, specie nei giorni festivi, un copricapo rotondo detto «qob». Alla scuola elementare di Makanissa c’è una uniforme ufficiale di colore verde scuro, ma non ci sono per i bambini problemi speciali di copricapo, proibiti o permessi.

Tutti sanno che l’Etiopia è un paese di tradizione cristiana antichissima, che data dai tempi del regno di Axum (IV secolo). L’ultimo censimento della popolazione del 1994 dava un 53,7% di cristiani-ortodossi e 28,7% musulmani. Ci furono in passato, specie al tempo di «Gragn», famoso condottiero del XVI secolo, guerre tra i due gruppi, ma la nazione ha anche avuto lunghi periodi di convivenza pacifica tra le due comunità.
La prima volta che vidi Giamìla, tornava a casa dalla scuola insieme ad una sua compagna, Meqdès, di famiglia cattolica, che frequenta la quinta elementare. I cattolici sono inferiori all’1% della popolazione.
Il papà di Meqdès, che si chiama Tamru – cioè miracolo – frequenta la cappella della Consolata e altre volte va alla parrocchia in città. La famiglia Meqdès è, al presente, una delle poche famiglie cattoliche della zona, dato che la maggior parte dei giovani e bambini che vengono all’oratorio e alla nostra cappella, provengono dall’ambiente ortodosso. Il nome «Meqdès» è cristiano: il verbo «qeddese» in amarico significa «consacrare», celebrare la santa messa, mentre «Biete Meqdès» vuol dire santuario e «Meqdès» è anche il «santo dei santi», cioè la parte più intea di una chiesa ortodossa, dove si celebra appunto l’eucaristia. Quel giorno, proveniente dalla città dopo le spese della casa-procura, mentre attraversavo la zona di Makanissa, vidi i bambini che uscivano da scuola. Fermai la macchina per caricare Meqdès, che frequenta il nostro oratorio da diversi anni.
Ma dovetti far chiudere subito la porta dell’auto (un camioncino Toyota) per evitare che gli altri scolari saltassero tutti sulla macchina: con il patema d’animo, inoltre, di vedere ancora qualcuno salire o cadere dal cassone del camioncino. Rimpiangevo di non possedere un’auto chiusa, come quelle da città. Debbo dire che il traffico ad Addis Abeba, pure disordinato, è molto più lento e non così «spietato» come nelle nostre città italiane; per cui gli incidenti di solito sono meno gravi.
Rimesso in moto il camioncino, chiesi a Meqdès chi fosse quella bambina islamica che era con lei. Sbagliò e mi disse «Momìna», un altro nome usato in ambiente musulmano. Allora pensai che potevo dare un passaggio in macchina anche a Momìna; volevo non favorire esclusivamente chi frequenta la nostra chiesa.
Fermai la macchina più avanti, fino a che Momìna-Giamìla arrivò e salì. Imparai così che abitava proprio di fronte al nostro «compound», una delle prime case dopo il campo dei rifugiati, con un piccolo terreno davanti a casa, dove cresce il mais: il che è un lusso per chi abita in città.
Dato che i bambini, quando si ferma una macchina, cercano tutti di salire, la volta seguente Giamìla escogitò un trucco (guarderò se è scritto nel corano): incominciò a correre, correre lungo l’affollata strada di Makanissa. C’è gente che va e torna dal mercato, scolari che escono da scuola, veicoli di tutti i generi, asinelli carichi di derrate, talvolta anche mucche e pecore. Cosicché, questa volta, gli altri scolari rimasero un po’ distaccati e a Giamìla bastò quel momento di incertezza per fare in tempo a saltare sulla macchina. Aveva imparato bene a chiudere la portiera dell’auto, senza sbatterla e far saltare la molla della maniglia.
«Come si chiama tuo padre?» le chiesi. «Ibrahim… va bene?» rispose timidamente con un’altra domanda.
Suo padre è handicappato, l’ho visto diverse volte sulla strada. Cammina a stento, si trascina lentissimo col bastone, la schiena curva, la testa completamente ripiegata in avanti. Quando è per strada, non puoi non distinguerlo in mezzo alla gente. Ora Giamìla mi chiede «se va bene» che suo padre si chiami Ibrahim, cioè se è un nome giusto, un nome bello. Evidentemente mi crede una persona molto istruita: guido la macchina e, di fatto, ho avuto dei bravi genitori che mi hanno mandato a scuola e perfino alle superiori, che Giamìla difficilmente potrà frequentare.
Eppure, di fronte a una domanda così, presentata con semplicità, che riguarda chi è stato favorito molto meno di me dalla sorte, sembra che tutta la mia cultura crolli. Non so cosa rispondere, non trovo le parole adatte.

La risposta al quesito, a conclusione di una storia che chiamerei un «fioretto», la lascio quindi ai lettori: persone istruite, gente che ha studiato. Come si aspettano Giamìla e Meqdès.

Vincenzo Clerici




L’OPINIONE – Incontro con Javier Perez de Cuellar

Nonostante molti regimi dittatoriali siano caduti, la democrazia non è una conquista così diffusa. In Perú essa è messa in pericolo dal presidente Fujimori, che da 8 anni esercita il potere in maniera estremamente autoritaria. Ma anche all’Onu, la massima assise mondiale, la democrazia non è di casa. Basti pensare al «diritto di veto» dei 5 membri permanenti…
Così la pensa Javier Pérez de Cuéllar, per 10 anni segretario generale dell’Onu, oggi leader del movimento «Union por el Perú».
Lo abbiamo incontrato nella sua casa di Lima.

Strade pulite ed ordinate, giardini ben curati, case eleganti. San Isidro è uno dei quartieri esclusivi di Lima. La nostra meta è una villa bianca, bella, ma forse un po’ soffocata dai condomini costruiti a ridosso.
Ci apre la porta un domestico in livrea. La casa è molto elegante. Un’ampia scalinata sale al piano superiore. Quadri, sculture, tappeti, argenteria sono in bella vista. Una signora viene ad informarsi se sono previste delle foto. Rispondiamo affermativamente.
Pochi minuti dopo, puntualissimo, si presenta il nostro ospite, l’ex segretario generale dell’Organizzazione delle nazioni unite Javier Pérez de Cuéllar.
Nella notte del 27 agosto 1998 il Congresso peruviano ha bocciato un referendum popolare per il quale erano state raccolte 1 milione e mezzo di firme. Cosa pensa di questa decisione?

È una «derota», una sconfitta per il paese e per la democrazia. Il referendum è l’unico strumento previsto dalla Costituzione per un intervento diretto del popolo. Purtroppo, due organi dello stato (il «Jurado Nacional de Elecciones» e l’«Oficina Nacional de Procesos Electorales») hanno commesso un grave errore sostenendo che la consultazione popolare doveva ottenere la preventiva approvazione del Congresso. Poi quest’ultimo, attraverso una votazione molto discutibile, ha deciso che il referendum non doveva tenersi. Tutto ciò dimostra una mancanza di fiducia del governo nella propria popolarità.

Strana questa paura. Sia nel 1990 che nel 1995 Fujimori stravinse…

Ma in questo paese le elezioni non sono mai limpide. Nel 1995, Fujimori e «Cambio 90» guadagnarono una maggioranza assoluta nel parlamento con manovre illecite…

Fujimori e i suoi uomini sono al potere dal 1990. In questi 8 anni sono riusciti a impossessarsi di tutte le leve del potere, a riscrivere la Costituzione e interpretarla a proprio piacimento, come dimostra in modo eclatante la vicenda del referendum. Dottor Pérez de Cuéllar, davanti a questa situazione ci si chiede se il Perú sia una democrazia o una dittatura…

La situazione è grave perché le istituzioni democratiche non sono rispettate. I tre poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – sono attualmente controllati dal governo.
Dunque, non si può dire che il Perú sia una democrazia, ma allo stesso tempo non si può dire che sia una dittatura (almeno per il momento). C’è ancora una relativa libertà di stampa. Relativa, non assoluta, perché il governo ha il controllo su parecchi giornali e televisioni.

Nel Congresso, su 120 deputati, 71 appartengono a «Cambio 90 – Nueva Mayoria», il partito di Fujimori. Con questi numeri che può fare l’opposizione?

Questo congresso è completamente nelle mani di Fujimori. I congressisti dell’opposizione hanno un ruolo poco più che formale. Hanno una funzione di vigilanza, per scoprire e denunciare ai giornali indipendenti «los atropellos», gli abusi che vengono commessi.
Per l’anno 2000 occorre una coalizione, una convergenza tra i partiti dell’opposizione (APRA, Partito Popular Cristiano, ecc.). Essi debbono accordarsi e trovare un candidato da contrapporre al presidente. Fujimori rimane molto forte e, soprattutto, è furbissimo. Se si ripresenta (come pare ormai certo), è probabile che riesca a vincere per la terza volta consecutiva. A meno che…

A meno che l’opposizione non si presenti compatta con un candidato alternativo, serio e credibile. C’è attualmente una persona che risponda a queste caratteristiche?

No, purtroppo attualmente non c’è un candidato alternativo a Fujimori.

E che ci dice di Pérez de Cuéllar?

Io? Io sono troppo vecchio. Vecchio, vecchio, caro mio. È necessario un candidato giovane di 40-50 anni. Io non ho più l’età per la politica…

Però lei è il leader di «Union por el Perú».
Se non ci fosse questa situazione, io mi sarei ritirato dalla vita politica. Preferirei stare più tranquillo e godermi la mia vecchiaia con mia moglie e i miei 6 nipotini.
Invece, ho scelto di lottare per la restaurazione della democrazia e per il rispetto dei diritti umani in questo paese.
Fujimori e i suoi ministri mostrano con orgoglio i risultati ottenuti in economia (prodotto interno lordo in crescita, inflazione in ribasso), dimenticando i dati sulla disoccupazione e la povertà dilagante. Lei come giudica il programma economico del governo fujimorista?

Non bastano i dati sul prodotto interno lordo e sull’inflazione per gridare al successo. Il programma economico di Fujimori non dà la necessaria attenzione all’aspetto sociale. Educazione, salute, alimentazione non sono abbastanza seguiti. Insomma questo programma manca di una dimensione umana.
Qualsiasi nuovo governo avrebbe il dovere politico e, soprattutto, morale di cambiare. C’è un problema di distribuzione per un paese che è fondamentalmente ricco.

Secondo lei, è possibile che questa grave situazione sociale porti a una rinascita di «Sendero»?

Ci sono già stati segnali in questo senso…
È certo che il terreno è pronto per una rinascita del terrorismo. Tuttavia, polizia e corpi speciali sono allenati per affrontarlo.
Purtroppo, la metà dei peruviani sono poveri. Di questi, almeno 5 milioni sono in condizioni di estrema povertà. Questa situazione può originare violenza, anche se, in generale, il peruviano è pacifico e molto tollerante.

Uno dei maggiori vanti di Fujimori è di aver sconfitto il terrorismo. Però nelle carceri peruviane sono finiti anche tantissimi innocenti…
Lei dice cose vere: la repressione contro il terrorismo ha prodotto molte ingiustizie. Tuttavia, la «commissione ad hoc» (l’organismo governativo che esamina le carcerazioni «dubbie», ndr), guidata dal padre belga Hubert Lanssiers, è un importante passo in avanti.
Per me il diritto fondamentale è il diritto alla vita; per questo sono contro la pena di morte. Non bisogna mai dimenticare che anche a un criminale debbono essere riconosciuti tutti i diritti e ciò per il semplice fatto che lui, pur avendo sbagliato, rimane un essere umano.

Parliamo allora di diritti umani. Nonostante sia finita l’emergenza terrorismo, gli abusi delle forze dell’ordine e dei servizi segreti (il «Sin» di Vladimiro Montesinos) rimangono un fatto normale…

Però, anche il governo di Fujimori ha finalmente capito che deve rispettare i diritti umani. Purtroppo, tra la gente c’è una grande ignoranza rispetto a questo tema, soprattutto nelle regioni meno sviluppate del paese. Per questo sarebbe importante iniziare una educazione ai diritti umani fin dalla scuola.
D’altra parte, è difficile avere rispetto dei diritti umani, quando non c’è democrazia.

In un contesto così difficile, che tipo di ruolo ha la chiesa peruviana?

Ha, prima di tutto, una funzione moralizzatrice. Oggi il governo spesso la accusa di «fare politica». Ma non può essere diversamente quando c’è un autoritarismo così pronunciato.

Lasciamo il Perú e i suoi problemi, per parlare delle Nazioni Unite, organismo al cui vertice lei è stato per 10 anni…

Sull’Onu piovono critiche da parte di tutti. Dall’alto della sua esperienza di ex segretario generale, ci spieghi cosa c’è che non funziona in quella istituzione.
Le risponderò con un esempio. Le Nazioni Unite sono come la sua macchina fotografica. Se non la usa, non può dire che la macchina non vada bene; d’altra parte, se lei non sa usarla, identicamente non può dire che la macchina non funzioni.
Io credo che il meccanismo dell’Onu sia teoricamente perfetto, ma i paesi non lo utilizzano o non sanno utilizzarlo. Le Nazioni Unite potrebbero veramente costituire lo strumento ideale per la soluzione di tutti i problemi mondiali.

I 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza (Cina, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Russia) hanno il «diritto di veto». Se esercitato, esso può bloccare qualsiasi decisione. Le pare giusto?

Il diritto di veto non è uno strumento democratico. Occorrerebbe modificare questa norma, ma per sopprimerla è necessario avere l’assenso dei 5 membri permanenti. Purtroppo, tra loro non c’è accordo su questo punto.

Ci sono paesi, tra cui l’Italia, che spingono per entrare nel Consiglio di sicurezza come membri permanenti. Che ne pensa?

Io sarei d’accordo sull’ampliamento del consiglio, almeno per Germania, Giappone e Italia.

Qual è il suo ricordo più bello nei 10 anni alla guida delle Nazioni Unite?

Il più bel ricordo come segretario ONU fu l’indipendenza della Namibia.

E quello più brutto?
Anche qui non ho alcun dubbio: il più brutto ricordo è la guerra del Golfo.

Lei fu eletto segretario generale una prima volta nel 1981 e riconfermato nel 1986. Perché il suo successore, l’egiziano Boutros Ghali, non ottenne un secondo mandato?

Boutros Ghali fu un segretario molto intelligente e preparato. Non fu rieletto per l’opposizione degli Stati Uniti e di alcuni paesi europei. Probabilmente sulla sua mancata riconferma influirono gli insuccessi in Africa (soprattutto in Somalia, Burundi e Rwanda) e nella ex Jugoslavia.

E che ci dice dell’attuale segretario Kofi Annan?

Boutros Ghali era un giurista, mentre Kofi Annan è un tecnico.

LA NOTTE CHE IL CONGRESSO UCCISE IL REFERENDUM

L’antefatto. L’articolo 112 della Costituzione peruviana del 1993 prevede che il presidente della repubblica possa essere rieletto soltanto per un secondo periodo consecutivo. Il 22 agosto 1996 il Congresso approva la legge 26657, conosciuta come legge di «interpretazione autentica» dell’articolo 112: in base a questa norma Alberto Fujimori potrà candidarsi anche alle elezioni del 2000. Sarebbe il terzo mandato consecutivo, in palese violazione del dettato costituzionale.
Dopo quella decisione, in parlamento e nel paese si sviluppa un vasto movimento di opposizione che vuole impedire l’abuso attraverso il ricorso alla consultazione popolare. In due anni di duro lavoro, il «Foro Democratico» raccoglie quasi un milione e mezzo di firme. Lo scopo del referendum è quello di chiedere ai peruviani se sono d’accordo che il presidente Fujimori si candidi per la terza volta alla presidenza del paese.
Quando sembra che tutto sia pronto per andare a votare, ecco un nuovo colpo di scena. Per impedire il pronunciamento dei cittadini, la maggioranza fujimorista fa pressione sulla «Oficina Nacional de Procesos Electorales» (Onpe) e sul «Jurado Nacional de Elecciones» (Jne). Nell’agosto 1998, i due organi statali inopinatamente stabiliscono che il referendum debba passare attraverso il filtro del Congresso: la consultazione popolare potrà aver luogo soltanto se otterrà almeno 48 voti a favore. È quasi un requiem per il referendum, dal momento che il Congresso è dominato da «Cambio 90-Nueva Mayoria», il partito del presidente (che può contare su 71 dei 120 congressisti).

Lima, 27 agosto 1998. Piazza Bolivar, di fronte al Palazzo del Congresso. Oggi il Congresso decide la sorte della consultazione popolare.
Dalla statua equestre di Simon Bolivar scendono due lunghi striscioni con una scritta a caratteri cubitali: referendum. Davanti al palazzo è stata schierata la polizia. Sono tutte donne, disposte in due file, che coprono l’intera lunghezza dell’edificio. La folla che attende la decisione dei congressisti è variegata. Gli studenti, seduti sul prato, pennelli in mano, preparano i cartelli della protesta.
Fujimori e Vladimiro Montesinos, il potentissimo (e chiacchierato) assessore del presidente, sono i bersagli preferiti. Altri alzano al cielo le prime pagine dei maggiori quotidiani (El Comercio, La Republica etc), tutti schierati in favore della consultazione popolare.
Ci sono pensionati che battono i tamburi della protesta e intonano gli slogan: «Muera Montesinos, Viva el referendum». Le donne (che sono tante) portano, legato attorno al capo, un fazzoletto rosso con una scritta: referendum.
«Stiamo lottando – ci dicono all’unisono tre signore – perché questo governo non si perpetui in eterno». Nella calca, un’altra signora si avvicina al registratore: «Io sono una madre di famiglia, che non si è mai interessata di politica. Ma i miei figli non hanno lavoro – signore – e io non so come dare loro da mangiare».
«Ogni volta che c’è qualcosa di grave – ci spiega un uomo di mezza età – il presidente esce dal paese. Lascia che altri prendano le decisioni scottanti, lavandosene le mani. Così, a cose fatte, potrà dire: “Io non c’ero”».

Il sole è calato da molte ore, quando in piazza Bolivar si diffonde il risultato della votazione: la maggioranza dei congressisti (67 contro 45) ha respinto una proposta referendaria, che non avrebbe neppure dovuto passare attraverso le forche caudine del Congresso. Tra i manifestanti la delusione è enorme, visibile, palpabile. Molte studentesse non riescono a trattenere le lacrime. Sessantasette persone hanno risposto «no» alla legittima richiesta di un milione e mezzo di cittadini peruviani. Fujimori potrà ripresentare la propria candidatura. Per la terza volta consecutiva. Ora ci sono quasi due anni per «preparare» la sua nuova vittoria «democratica».
Paolo Moiola

Chi è? Javier Pérez de Cuéllar

Nato a Lima il 19 gennaio 1920, laureato in lettere e diritto all’Università cattolica della capitale peruviana, Javier Pérez de Cuéllar entrò giovanissimo nel servizio diplomatico. Fu ambasciatore del Perú in vari paesi. Nel 1981 fu eletto segretario generale delle Nazioni Unite. Cinque anni più tardi fu riconfermato nella carica. Nel 1995 si presentò alle elezioni presidenziali, ma fu sconfitto da Alberto Fujimori, detto «El Chino», presidente in carica. Attualmente è leader dell’«Union por el Perú», uno dei maggiori partiti peruviani d’opposizione. Nonostante i quasi 80 anni, Pérez de Cuéllar viaggia molto: Stati Uniti, Portogallo (paese in cui vive una figlia), Francia. Trascorre molti mesi dell’anno a Parigi dove presiede una fondazione che si occupa di diritti umani.

Paolo Moiola




NIGERIA – Meno petrolio più pane quotidiano

Paese popoloso e corrotto. Acuti i contrasti
fra nord musulmano e sud cristiano,
con 28 anni di dittatura militare, 250 etnie
e 2 milioni di barili di petrolio al giorno.
E l’agricoltura? Potrebbe essere la salvezza economica, a certe condizioni.
Nel frattempo tutti attendono il 29 maggio.
Sarà la svolta democratica?

Le cose non vanno affatto bene in Negeria. La situazione sociopolitica è peggiorata, allorché troppi nigeriani importanti hanno abbandonato «la tradizione viva» per interessi materiali, che però non hanno recato alcun beneficio al popolo; anzi, hanno accresciuto la povertà e fomentato la guerra… Oggi, per avere pace nel nostro bello e ricco paese, dobbiamo ritrovare le radici culturali.
A tutti i nigeriani, in patria e all’estero, chiediamo di rieducarsi al patrimonio culturale. Ma facciamo appello anche all’Occidente, perché fermi la vendita di armi ai paesi africani e vengano piuttosto venduti trattori e strumenti agricoli.
L’economia nigeriana è in ginocchio a causa della dittatura (28 anni) e della mentalità egoistica di numerosi individui facoltosi, che non comprendono il valore dello sviluppo agricolo del paese. Ritrovare le nostre radici significa «riscoprire la terra»: con criteri modei, scientifici. Oggi i nigeriani devono svegliarsi, al fine di nutrire i loro concittadini.
Avevamo la luce. Ma l’abbiamo spenta. Il buon Dio ci aiuti a riaccenderla, prima dell’anno 2000.
UN POPOLO DI CONTADINI
La Nigeria, con circa 120 milioni di abitanti, è un paese fortemente agricolo. Ancora nel 1990 – rileva lo studioso Tijani – il 75% dei nigeriani viveva in aree rurali… I contadini locali realizzano il 95% della produzione agricola nazionale.
Le attività iniziano con la stagione delle piogge: in marzo-aprile nel sud e maggio-giugno nel nord. Le coltivazioni si praticano su appezzamenti inferiori a due ettari.
Ad eccezione di alcuni gruppi di contadini, legati ad istituti di ricerca scientifica, la maggioranza degli agricoltori è analfabeta. Bankole Balogun, in «I mezzi di comunicazione e le crisi di cibo» (1990), sottolinea: in caso di scarsa produttività, la mancanza d’informazione aggrava la situazione; è comune la consapevolezza che il raccolto è più abbondante nelle fattorie di ricerca che nei campi privati, anche quando si ricorre alla stessa semente.
Però alcune modee tecniche di produzione, usate nelle grandi aziende, non sono disponibili per il contadino comune o non sono da lui usate propriamente. Pertanto si esige un efficiente scambio d’informazione tra contadini e ricercatori-rappresentanti del governo: questo per migliorare la produttività e conservare i beni agricoli.
Zappa e coltellaccio
In Nigeria non sono mancati, da parte del governo, appelli alla «Rivoluzione verde» e all’«Operazione nutrimento del paese» (Opn), foendo anche strumenti scientifici e meccanici adeguati. Però, stranamente, l’Opn fu lanciata nel 1976 dal capo dello stato, il generale Olusegun Obasanjo, con… la zappa! Quello era il tempo in cui la Nigeria si inebriava del suo petrolio e, di conseguenza, importava moltissimi generi alimentari. Così l’«Operazione nutrimento» morì appena nata, nonostante l’uso di Obasanjo della zappa quale strumento d’identificazione psicologica con le masse popolari.
Ironia della sorte, 20 anni dopo, in Nigeria la zappa è ancora l’utensile più usato nella produzione agricola: e, con la zappa, il coltellaccio. Zappa e coltellaccio sono i nostri «marchi di fabbrica» agricoli.
Negli Stati Uniti e in Israele la popolazione impiegata in attività agricole non supera il 4%; tuttavia la produzione è abbondante e di qualità, non solo per il consumo interno, ma anche per l’esportazione. Ebbene: quale potrebbe essere il risultato in Nigeria, dove il 75% degli abitanti lavora la terra?
Le università, gli istituti di ricerca rurale e i responsabili del bacino del fiume Niger stanno introducendo tecniche modee nell’agricoltura e nell’allevamento, al fine di produrre più cibo e provvedere materia prima alle industrie; ma la loro azione è ancora molto isolata. E noi continuiamo a dipendere dalle importazioni alimentari. Il 90% del reddito nazionale annuale si basa sulla produzione di petrolio greggio.

ALCUNI PROBLEMI
Se non si supera l’«ubricatura» del petrolio, la crisi alimentare nigeriana aumenterà, sia per problemi interni che estei. Ne elenchiamo alcuni.
Cambiamenti climatici mondiali. L’inquinamento del pianeta sta modificando il clima mondiale, con conseguenze sfavorevoli alla regolarità delle piogge. Però tanti contadini hanno poca o nessuna conoscenza delle previsioni del tempo. Ne conseguono seminagioni inutili e, quindi, spreco di risorse.
Bassi raccolti. Numerosi agricoltori dispongono di nozioni rudimentali circa lo sfruttamento della terra. Il medesimo appezzamento è soggetto, nel corso degli anni, alla monocoltura, senza la necessaria rotazione di messi né «soste». E i raccolti sono poveri. La situazione si aggrava con il diboscamento selvaggio e i fertilizzanti errati, che distruggono l’ecosistema. I contadini ricorrono quasi esclusivamente a concimi industriali, trascurando quelli naturali… Un po’ d’informazione favorirebbe anche gli allevatori, il cui bestiame viene decimato dalle malattie.
Conservazione dei prodotti. Ananas, manghi, pomodori, banane, noci di cola, ecc. marciscono al termine di ogni raccolta. I silos sono molto fuori mano per i contadini e, paradossalmente, sono dislocati nei centri urbani. Per di più, molti centri di produzione e raccolta non sono serviti da buone strade.
Leggi di mercato. Queste hanno avuto un impatto negativo su molti produttori. Avidi intermediari hanno accresciuto le difficoltà nei processi di compravendita e distribuzione dei beni agricoli. I prezzi sono soggetti a «tira e molla». Così tanti contadini sono isolati e passivi guardiani dei mercati locali… e non formano cornoperative, che potrebbero consolidare i prezzi e le vendite.

RUOLO DELL’INFORMAZIONE
Questi ed altri problemi dovrebbero essere affrontati e risolti anche attraverso un’informazione corretta. Ad esempio: rendendo noti gli effetti benefici del rimboschimento, s’incoraggia a praticarlo e si determinano anche cambiamenti climatici positivi.
La coltivazione di orti è un altro settore, che merita maggiore sostegno. Inoltre la ricerca e scoperta di acque sotterranee (come è avvenuto in India) potrebbero essere praticate su larga scala anche nelle nostre aree rurali.
L’enfasi deve essere posta sull’agricoltura mista (coltivazione e allevamento), con esami del suolo per verificarne il grado di acidità e alcalinità, la cui conoscenza scongiurerebbero l’errato uso di fertilizzanti.
Esempi agricoli da imitare sono quelli di Israele (deserto del Negev), Botswana, Camerun, Etiopia e Ciad.

Conclusione: la ricchezza di un paese non può prescindere dalla produzione agricola. Mashood Abiola, nel suo «La politica agricola ideale» (1990), lo sosteneva apertamente. In Nigeria non si devono ignorare i milioni di agricoltori poveri che, nonostante tutto, lavorano la terra e foiscono alle industrie tante materie prime.

TROPPE STELLE MILITARI

NIGERIA: così chiamarono gli inglesi l’ultimo tratto del bacino del possente fiume Niger, prima di morire nel Golfo di Guinea. Nell’antichità vi prosperarono stati e imperi. Al presente, fra le circa 250 etnie, emergono gli haussa-fulani, i yoruba e gli ibo. Il loro rapporto è conflittivo, specie fra le popolazioni musulmane (nord) e cristiane (sud).
Nel campo letterario sono significative le produzioni in lingua haussa e i musei di Lagos e Ife conservano opere d’arte preziose per lo studio delle civiltà. Senza scordare Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1986 e condannato a morte dal regime militare nel 1997, né lo scrittore Ken Saro-Wiwa, impiccato dallo stesso regime nel 1995, perché difendeva gli ogoni, minacciati nella sopravvivenza dalla multinazionale anglo-olandese Shell. Il petrolio è «il pomo della discordia» in tutta la nazione.

p 1960: il 1° ottobre la Nigeria diventa indipendente come stato del «Commonwealth» e, tre anni dopo, nasce la repubblica federale.
p 1966: date le tensioni politico-tribali, i militari insorgono con due colpi di stato. Nel 1966 il generale Ironsi, ibo, cerca di abolire lo stato federale; vi si oppone il generale Yakubu Gown, haussa. Gli ibo, con Odumegwu Ojukwu, proclamano la secessione e fondano la repubblica del Biafra. È la guerra civile, con due milioni di morti (soprattutto ibo) e popolazioni ridotte alla fame.
p 1970: il 15 gennaio il Biafra capitola. Gown ripristina lo statuto federale.
p 1975: altro colpo di stato con il generale Mohammed Murtala, ucciso l’anno successivo. Il potere è del generale Olusegun Obasanjo, che nel 1978 lo consegna ai civili: presidente Shehu Shagari.
p 1983: crisi del petrolio ed espulsione di 2 milioni di stranieri, soprattutto del Togo e Ghana.
p 1984: colpo di stato che porta alla ribalta il generale Mohammed Buhari.
p 1985: il potere passa al generale Ibrahim Babangida, dopo (ovviamente!) un colpo di stato. Nel nord si scatenano rivolte di fondamentalisti islamici. Gravi i danni.
p 1990: colpo di stato, represso nel sangue. Babangida rimane in sella. Nel nord islamico gli estremisti scendono in piazza: 200 morti (22 aprile 1991).
p 1993: Babangida indice le elezioni, vinte da Mashood Abiola. Il generale lo incarcera, perché è… yoruba, mentre il governo spetta agli haussa-fulani, al potere dagli anni ‘60.
p 1994: ennesimo colpo di stato e il 19 novembre il governo civile viene licenziato. Presidente-dittatore è Sani Abacha.
p 1998: l’8 giugno il generale Abacha muore d’infarto (secondo la versione ufficiale) e, un mese dopo, la stessa sorte tocca allo scarcerato Abiola. Il potere è in mano al generale Abdusalam Abubakar. Questi, però, annuncia libere elezioni, per consegnare il paese ad un presidente civile il prossimo 29 maggio.

L a Nigeria conta al potere gli stessi militari che l’hanno strapazzata per 28 dei suoi 39 anni d’indipendenza. Ma oggi, in attesa del 29 maggio, splende «un raggio di speranza», scrivono i vescovi cattolici (1). Ma potrebbe essere lo «stesso vino vecchio in bottiglie nuove». In vista delle elezioni, l’episcopato ammonisce: «È criminale comprare o vendere voti». I nigeriani devono vigilare per non essere manipolati da quanti fomentano fazioni tribalitiche.
Sotto il profilo economico, si raccomanda di variare l’uso delle risorse: la Nigeria non deve dipendere solo dal petrolio, trascurando l’agricoltura. Tuttavia, anche nel settore energetico, la situazione non è rosea. «La corruzione nella nostra società – scrivono ancora i vescovi – si traduce in una perenne scarsità di combustibile. È penoso che un paese, ai primi posti nel mondo per la produzione di greggio, non soddisfi i bisogni primari del suo popolo». La corruzione, inoltre, è responsabile dei gravi disservizi riguardanti l’acqua, le strade, i telefoni e le poste.
Ben vengano, allora, le nuove elezioni. Ma siano democratiche. E i vescovi, dopo aver ricordato l’urgenza della riconciliazione nazionale, invitano tutti i nigeriani «a costruire insieme una cultura democratica, indispensabile per assicurare una democrazia stabile».
Francesco Beardi

(1) «Un raggio di speranza» (comunicato dei vescovi cattolici della Nigeria, Ibadan 7-12 settembre 1998).

John Izuegbu




BENIN – Sguardo d’amore

Nulla è impossibile per chi sa guardare gli altri
in modo diverso, con simpatia e amore.
È il succo di questa piccola vicenda:
una delle tante che costellano ancora (per fortuna!)
il nostro mondo.

Il sole splende forte e nitido nel cielo sereno di un piccolo angolo d’Africa. Alle sette del mattino ci sono già 30 gradi, la stagione delle piogge è in ritardo. Anche qui gli effetti nefasti del Niño si fanno sentire, con tutto il loro terribile carico: da mesi non scende una goccia di pioggia, la terra è secca, arida; manca la corrente elettrica da molte settimane; l’acqua è razionata; gli alberi di mango, papaia e banana non donano che poveri frutti rinsecchiti; le epidemie di meningite, tifo e molte malattie infettive si susseguono senza soluzione di continuità, abbattendosi su migliaia di uomini, donne e, soprattutto, bambini, già deboli e vulnerabili a causa di malnutrizione e povertà.
Eppure, per alcuni di questi bambini, oggi è un giorno meraviglioso, una benedizione del cielo. Sì, perché nel piccolo villaggio di Abomey-Calavi, in Benin, è arrivato il momento di inaugurare la casa «Sguardo d’amore», che ospiterà inizialmente una cinquantina di orfanelli: piccole creature deformi o semplicemente abbandonate, a causa di ataviche credenze ancora dure a morire, in questo lontano angolo di mondo.
UN AVVENIMENTO TERRIBILE
E pensare che questa bella storia è incominciata 6 anni fa, da un tragico fatto accaduto in un villaggio non lontano e non dissimile da quello di Abomey-Calavi.
Fu un mattino funesto e spaventoso per la gente del villaggio assistere al parto di una loro donna (perché il villaggio in Africa è la famiglia: tutto viene vissuto e condiviso collettivamente) e vedee con sgomento e stupore il prodotto mostruoso: due gemelle siamesi unite per il tronco.
Una creatura simile alle figure delle carte da gioco, con due teste, un paio di braccia e gambe ciascuna, ma un unico ventre: un unico organo riproduttore. Per il féticheur, lo sciamano del villaggio, non c’erano dubbi: «il mostro» sarebbe stato fonte sicura di sciagure per tutto il villaggio, se non lo si fosse soppresso quanto prima.
La madre, in un disperato atto di pietà, disse che ci avrebbe pensato lei stessa. Così, nottetempo, avvolse in un fagotto le sue creature e le portò lontano, in un altro villaggio. E qui la Provvidenza guidò, dopo qualche mese, un giovane medico beninese che, compiuti i suoi studi grazie agli aiuti di alcuni enti religiosi e laici, era da poco tornato nella sua terra per mettere al servizio della gente le sue capacità mediche.
Senza esitazione le bimbe furono portate al sicuro in un centro d’accoglienza, fondato dalle suore della congregazione «Figlie del cuore di Maria».
La Provvidenza continuò a guidare i primi difficili passi del cammino di Tayé e Kegnidé (questi i nomi delle due gemelle) con la presenza di alcuni missionari laici, appartenenti a un piccolo gruppo missionario di Merano (cfr. Missioni Consolata, marzo 1998). Questi le portarono in Italia nel disperato tentativo di salvarle.
Dopo tre mesi di esami, analisi mediche e studi al computer, dopo esitazioni e dubbi sfociati anche nella dolorosa ipotesi di salvae una, condannando l’altra, il 29 marzo 1993 un’équipe di 24 chirurghi e 8 anestesisti, guidata dal prof. Guglielmi di Padova, eseguì un intervento chirurgico durato ben 24 ore in cui si lavorò per dividere e salvare tutte e due le creature.
L’intervento riuscì, anche se non in modo risolutivo; molti erano ancora i problemi delle due piccole, come gli organi da completare e ricreare. Il 15 dicembre dello stesso anno venne eseguito un secondo intervento. Le bimbe incredibilmente risposero bene alle cure e, alla fine di aprile 1994, furono pronte per tornare nella loro terra, a una vita normale.
Ma quando tutto sembrava diventare sereno, il destino riservava loro ancora una brutta sorpresa.
UN REGALO DI NATALE
Alpidio Balbo del «Gruppo missionario di Merano» e la sua decisa signora Carmen riportarono al villaggio natale le bimbe, finalmente divise, ma il villaggio le rifiutò ostinatamente, minacciandole di morte.
Che fare a questo punto?
Il centro d’accoglienza delle «Figlie del cuore di Maria» prima e le suore di Madre Teresa di Calcutta, poi, si presero nuovamente cura delle piccole gemelline che, sebbene crescessero vivaci e allegre, avevano ancora bisogno di tante cure e affetto.
Il tempo passa. Siamo alla vigilia del Natale del 1995. Con un filmato girato dal signor Balbo, la storia delle gemelle viene raccontata anche in televisione. Il «caso» vuole che una famiglia italiana, residente a Monte Carlo, ne venga a conoscenza e accolga l’invito del «Gruppo missionario di Merano» per una fondazione che possa prendersi cura di queste bimbe e di tanti altri piccoli sfortunati.
Grazie alla generosità di questa famiglia, operante nel riserbo, proprio durante le feste natalizie del 1995 iniziano i lavori per la costruzione di una casa d’accoglienza per bimbi abbandonati.
Molte sono le forze che la stessa Africa mette in moto in una gara di generosità. Il medico che tre anni prima aveva salvato le gemelline da morte certa, in collaborazione con alcuni medici, infermieri e maestre d’asilo locali, il gruppo di Merano, i volontari dell’Avo di Padova e i missionari… tessono le fila per una fondazione seria: solide fondamenta, regole semplici e chiare permetteranno a questo progetto non solo di nascere, ma di avere continuità, affinché la sabbia del deserto non ricopra tutto ciò che un impeto di amore di alcuni uomini ha creato.

Siamo tornati sotto il sole del 13 aprile 1998. Sono le 11 del mattino e il caldo si è fatto torrido; ma ciò non toglie nulla al gentile «sguardo d’amore» di tante piccole creature, mentre assistono alla benedizione dell’arcivescovo di Cotonou, mons. De Souza. Si inaugura questa casa, completa di stanze, docce, servizi, un’infermeria e un giardino-giochi.
Quella che agli occhi degli uomini era una disgrazia si è trasformata in grazia agli occhi di Dio. Il fatto insegna che basta «uno sguardo d’amore parte di tutti perché il mondo sia salvato e viva la pace»: come recita la targa di legno appesa all’ingresso di questa piccola nuova casa.
Buona fortuna, Regard d’amour!

(*) Gianni Martinetto è medico. Lavora con il gruppo missionario di Merano che da quattro anni opera in Africa Occidentale.

Gianni Martinetto




MOZAMBICO – Dio è bello

Da oltre 20 anni padre Giuseppe Frizzi mette in atto varie esperienze per incarnare il messaggio evangelico nella cultura macua.
Mediante il «Centro di studi macua»valorizza le espressioni di arte e bellezza che Dio ha seminato
in questo popolo.
E sogna in grande: da questa scuola, un giorno,usciranno teologi e filosofi che esprimeranno la fede e il pensiero con concetti e categorie mentali della cultura locale.

La missione di Maua comprende cinque parrocchie, con circa 165 piccole comunità, ognuna delle quali ha i propri responsabili della liturgia, catechesi e attività caritative. Questi si radunano una volta al mese nel consiglio parrocchiale e frequentano corsi di formazione religiosa durante la stagione secca.
La vita cristiana continua a maturare, grazie alla scelta fatta da decenni dalla chiesa del Mozambico: le piccole comunità cristiane, alle quali viene data fiducia e affidato l’esercizio di tutti i servizi ecclesiali, eccetto quelli specifici del sacerdote. In tale decentralizzazione, è anche compito del sacerdote preparare e formare i responsabili delle comunità e fornire loro strumenti liturgici e catechetici appropriati.
Il metodo di Dio
L’evangelizzazione della popolazione macua parte da una certezza: Dio stesso si è inculturato in essa, prima dell’arrivo dei missionari, seminando principi di moralità e religiosità, che costituiscono l’essenza della cultura di ogni popolo. Di tale religiosità è necessario scoprire i fondamenti filosofici e teologici, i quali, convalidati e illuminati dal vangelo, non possono non essere presi in positiva considerazione per una vera e autentica evangelizzazione.
Se Dio stesso ci precede, perché non approfittare della sua metodologia, facendola propria e portandola a maturazione piena? Dio è missione; anzi, è «la Missione» stessa. Perciò la chiesa «va in missione» mettendosi al servizio di tale «Missione» anticipatamente programmata. Senza questo atteggiamento di estrema obbedienza ai passi e segni di Dio nella storia salvifica di un popolo, si corre il rischio, denunciato da Gamaliele, di far guerra a Dio e ai suoi progetti (cfr. Atti 5,39).
Ciò implica che anche il destinatario del vangelo ha qualcosa da dire all’evangelizzatore; anzi, il primo ad avere la parola di annuncio dovrebbe essere proprio l’evangelizzando. Non esiste, in definitiva, un’evangelizzazione a senso unico: evangelizzando ed evangelizzatore hanno specifici messaggi teologici da annunciare e testimoniare. Tali messaggi implicano sempre un processo di conversione «cardiaca», cioè un fluire di sangue arterioso e venoso, un dare e ricevere costante: convertire, ma anche convertirsi.
Esperienze pastorali
Negli ultimi anni, a Maua abbiamo avviato varie esperienze pastorali; alcune sono ancora allo stato sperimentale; altre sono ormai collaudate. L’uso della lingua matea, per esempio, di canti, danze e strumenti locali, sta dando alla liturgia connotazioni di festività e intensa partecipazione tipicamente africane. Nella catechesi si rivela molto positivo il confronto del messaggio evangelico con il contenuto dei proverbi macua. Nell’ambito dei simboli, la gazzella, animale ancestrale, sinonimo di innocenza, forza curatrice e redentrice, si presta perfettamente per significare l’azione salvifica di Gesù.
La pubblicazione del Nuovo Testamento e del Libro dei salmi in lingua macua costituisce un altro passo importante sulla via dell’inculturazione e un’esperienza di cui trarranno vantaggio non solo le comunità di Maua, ma anche le altre parrocchie della regione.
Il bello
a servizio del vangelo
Più si studia la lingua, più si avverte l’esigenza di approfondire gli altri elementi che costituiscono una cultura: oltre alla letteratura, si devono tenere presenti le espressioni d’arte, come architettura, pittura, scultura e musica.
A questo scopo è nata la «Scuola d’arte» di Nipepe, dove sono state studiate e attuate varie esperienze che hanno riscosso un’accoglienza entusiasta tra la gente del luogo e ammirazione dai visitatori.
Architettura: in generale i macua usano solo blocchi di fango seccati al sole e decorano le pareti alternando i colori delle argille locali con effetti cromatici particolari. Con tale sistema costruiamo chiese e cappelle. È un metodo ecologico ed economico, perché usa i mezzi reperibili in loco.
Scultura: si diceva che il macua non è portato a scolpire. Posso testimoniare, invece, che ha talento anche in questo settore. La scultura macua è forte, robusta, monumentale, massiva, sintetica; ricorda il nostro romanico, in contrasto con quella dei maconde, più decorativa, descrittiva e leziosa, vicina al gotico.
Molto originali sono i crocifissi della nostra scuola d’arte: croce e crocifisso scaturiscono dallo stesso tronco; la figura del Cristo crocifisso, inoltre, è modellata sulla sagoma del tronco prescelto. Ciò crea una grande varietà di realizzazioni scultoree, oltre a rendere più facile la percezione di certe simbologie latenti e patenti della theologia crucis.
Pittura: a prima vista, si ha l’impressione di trovarsi di fronte all’arte modea, imitazione dell’occidente. Eppure si tratta di pittori autodidatti, che usano linguaggi vari, cubici e astratti, per intuizione e inclinazione istintiva; non hanno nulla da spartire con l’avanguardismo e anticonformismo dell’arte modea occidentale.
Molti disegni sono stati riprodotti nella pubblicazione del Nuovo Testamento. Ora stiamo tentando di creare una lettura biblica e uno studio catechetico visualizzati, ambientati nell’orizzonte vitale macua.
Musica: anch’essa è molto robusta, marcata dal ritmo prodotto da vari tipi di tamburi e dalle rispettive figure di danza. Alcuni dicono che è poco melodica e abbastanza monotona; eppure chi la studia e l’ascolta con attenzione può scoprire inebrianti varietà e ricchezze ritmiche.
Tali varietà e ricchezze riescono a esprimere tutte le dimensioni religiose e profane della cultura locale. Feste, cure, iniziazioni… sono sempre scandite dal suono dei rispettivi ritmi e testi. Il macua educa, si forma, cura e si cura danzando e cantando. È una musica che si presta, quindi, all’uso liturgico e catechetico e dovrebbe essere sfruttata con maggiore coraggio.
Anche in questo campo abbiamo fatto passi significativi: i 741 inni pubblicati nel libro delle Preghiere e canti costituiscono un catechismo cantato; ma siamo solo all’inizio nell’uso liturgico e catechetico dei ritmi macua.
Il senso del bello che Dio ha profuso nelle varie manifestazioni artistiche del popolo macua viene così inserito nel processo di evangelizzazione: mentre penetra più profondamente nella cultura, il messaggio evangelico costituisce uno stimolo a cogliere quei linguaggi palesi o latenti che la nuova fede scopre e provoca nel cuore delle giovani comunità.
Tanti canti nuovi che abbiamo raccolto mostrano che una teologia africana informale sta germinando e merita rispetto e attenzione. Cosa sarebbero le lettere di san Paolo senza la preziosità di certi inni, creati e cantati nelle prime comunità? Grande merito di Paolo è l’avee capito la bellezza, dando loro risonanza e consistenza teologica.
I sogni
Ho ancora altri sogni nel cassetto: completare la traduzione e pubblicazione di tutta la bibbia in lingua macua; far sì che il metodo educativo bilingue, usato nelle nostre scuole parrocchiali, venga approvato e adottato regolarmente a livello nazionale; dedicare maggiore attenzione al mondo delle cure tradizionali: questo servizio, nei primi secoli della chiesa, era parte integrante dell’evangelizzazione.
Il sogno più ambizioso si sta realizzando con l’incipiente «Centro di studi macua». Attualmente esso è impegnato in un lavoro retrospettivo: scoprire, evidenziare, analizzare le varie manifestazioni della cultura locale: letteratura orale, scultura, pittura, musica, medicina… L’ideale è far sì che tale centro diventi un laboratorio che promuova una cultura macua viva e creativa, attualizzata e attualizzante.
In altre parole, come c’è già un’architettura, scultura, pittura, musica, liturgia e catechesi, perché non promuovere anche una letteratura e, soprattutto, una filosofia e teologia macua, espresse con i propri concetti? Quindici anni fa, si rideva di fronte alla proposta d’impartire l’insegnamento scolastico nella lingua matea; oggi è un imperativo. Perché non dovrebbe essere possibile filosofare e teologare in macua?
Due constatazioni paradossali: la principale difficoltà di chi, in Mozambico, termina gli studi filosofici e teologici nel seminario maggiore è costituita dall’incapacità di comunicare al popolo cristiano le nozioni teologiche apprese, usando terminologie incomprensibili che, a volte, soffocano quella teologia informale di base che la comunità formula quasi inconsciamente con i canti, la predicazione, la condivisione della parola di Dio.
Dall’altra parte, nel continente africano, non mancano teologi e teologhe autoctoni; ma riflettono e scrivono quasi esclusivamente in lingue europee, quelle della «pura ragione» e non del «cuore»; lingue che gli africani possono conoscere, ma intendono superficialmente. Il mio sogno s’infrange tra questi scogli.
La chiesa in Africa è famiglia, afferma il Sinodo africano. Questa famiglia ha bisogno di potersi esprimere con la lingua e categorie che le appartengono, ma che sono state soppresse e forzatamente rimosse dalle circostanze storico-politiche. La restituzione di tale linguaggio mi sembra un’utopia più che giustificata.

Giuseppe Frizzi




KENYA – Tanta fede e nervi saldi

Sono in Kenya per la quarta volta; la prima come «giornalista» di Missioni Consolata. Dal lago Turkana all’Oceano Indiano, passando per le regioni di Meru, Kikuyu e Nairobi, ho incontrato missionari e missionarie impegnati allo spasimo, nonostante l’età, per sovvenire alle necessità e aspirazioni della gente; condiviso dolori e speranze;
sentito racconti di atrocità e miseria; visto comunità in piena fioritura di fede e vita cristiana; vissuto emozioni indimenticabili… Presento il tutto a puntate.

Alle 8.30 il piccolo Fok-ker decolla dall’aeroporto Windsor di Nairobi diretto a Maralal, dove avrà luogo il funerale di padre Luigi Andeni, ucciso da malviventi il 14 settembre ad Archer’s Post. Viaggio insieme a vari confratelli, due nipoti del defunto, mons. John Njue, presidente della Conferenza episcopale del Kenya, e il nunzio apostolico Giovanni Tonucci.
Traballiamo sopra una fitta coltre di nuvole; poi l’orizzonte si squarcia d’improvviso: la catena dell’Aberdare, a sinistra, sembra a portata di mano; a destra ammicca tra le nubi il massiccio del monte Kenya.
Dopo un’ora di volo, atterriamo su una pista fiancheggiata da zebre, mucche, capre, asini e pastori, avvolti in vesti scarlatte e armati di lance e bastoni. Ancora mezz’ora in Land Rover e arriviamo a Maralal. Il tempo di salutare qualche confratello e inizia il funerale: tre ore di commozione intensa e palpabile. Dentro e fuori la chiesa una folla traboccante segue riti e discorsi con attenzione, applaudendo i passaggi più toccanti e graffianti. Ne parlerò in una prossima puntata.
Alle due del pomeriggio sono di nuovo in Land Rover per raggiungere Loyangalani, da dove inizierà la mia visita al Kenya. Viaggio insieme a padre Lino Gallina, che rientra nella sua missione dopo le vacanze in Italia. Per 200 chilometri la strada sale e scende per pendii scoscesi e pietrosi; scossoni e sobbalzi mettono a dura prova la spina dorsale. Più che sul tracciato stradale e i panorami mozzafiato, l’attenzione si concentra sulle persone che incrociamo: fa un certo effetto vedere i pastori con perizoma scarlatto e sofisticati fucili a tracolla, al posto delle tradizionali lance e bastoni.
«Per difendere il bestiame dalle razzie dei predoni ngorokos – spiega padre Lino -, il governo ha concesso ai capi dei villaggi di tenere le armi. Da quel momento tutta la gente ha cominciato a comperare fucili dai mercanti somali e sudanesi, col risultato che turkana e samburu si sono armati fino ai denti. Nel 1996, durante la campagna elettorale, alcuni candidati al parlamento hanno alimentato le rivalità tra le varie etnie, sfociate in razzie e scontri feroci, con centinaia di morti e migliaia di persone in estrema povertà. Ora la situazione sembra calma; ma l’abbondanza di armi ha fomentato il banditismo: le missioni sono i bersagli preferiti; ma anche le strade del Marsabit sono a rischio per tutti, bianchi e neri, senza distinzione».
A parte un pizzico di apprensione, la strada massacrante, l’oscurità impenetrabile, il viaggio prosegue tranquillo. Alle dieci di notte arriviamo a destinazione. Il tempo di prendere un boccone, scambiarci qualche notizia e subito a letto. La notte si trasforma in un bagno turco: non sono trascorse 48 ore tra il fresco autunno torinese e gli oltre 30° in casa.

Mi alzo al canto degli uccelli, per godermi la brezza mattutina. Il cortile sembra coperto di brina gialla: sono i fiori caduti dalle acacie sotto l’impeto del vento. Alcuni bambini li raccolgono per darli in pasto alle caprette. Poetico, vero? Ma il termometro in saletta è bloccato sui 30 gradi.
Comincia la visita alle varie attività della missione, rifugiandomi il più possibile sotto l’ombra. Si avvicina una vecchia turkana per salutare padre Lino: rosicchia un grosso dattero. «Lo chiamiamo “arancia di Loyangalani” – spiega il padre sorridendo -; ma non è buono neppure per le capre».
Salutiamo suor Florinda: sta annaffiando l’orto. Ci mostra le piante di cetrioli: tanti fiori, ma niente frutti. Da 30 anni, padri e suore le stanno provando tutte per coltivare qualche verdura; ma non hanno ottenuto una sola foglia d’insalata. Il terreno e troppo acido e salato.
Sulla sponda del lago Turkana, Loyangalani è una piccola oasi in una immensa zona vulcanica. Tutto attorno sono pietre infuocate. Grazie a Dio, un bel vento spira giorno e notte, dal lago verso la montagna e viceversa, rendendo l’aria più respirabile, ma mettendo a dura prova il sistema nervoso di chi non è abituato. E per abituarsi occorrono tanta fede e nervi saldi.
Entriamo nel centro medico: oltre alle medicine, offre la possibilità di degenza per i casi gravi; per quelli disperati c’è un ospedale a quattro ore di Land Rover. Ogni settimana i due infermieri prestano servizio ambulante in 14 villaggi, per preparare ostetriche e insegnare igiene e pulizia.
Nonostante le precauzioni, un’epidemia di colera scoppiò nel luglio scorso. «Diagnosticati i primi casi – racconta padre Achille Da Ros -, telefonai subito ai Medici senza frontiere, che accorsero tempestivamente, curarono i malati e attivarono tutti i mezzi per bloccare l’epidemia: con una campagna a tappeto, tutti gli el molo, i più colpiti, e vari gruppi di turkana e samburu furono immersi in bagni disinfettanti, strigliati a dovere e ingozzati di medicine. Sono stati giorni cruciali, specie per suor Linda Hill, missionaria della Consolata, che ha vegliato i pazienti notte e giorno, fino all’esaurimento».
Accanto al dispensario, gruppi di bambini siedono sotto gli alberi; altri, aggrappati alla rete di recinzione, hanno gli occhi fissi su un enorme pentolone di polenta.
«La denutrizione infantile è un problema endemico a Loyangalani – spiega padre Lino -. Da uno studio fatto nel 1996, risultava che, su 600 bambini da zero a cinque anni, il 35% è denutrito; nei villaggi la percentuale era del 50%. Il problema si è aggravato negli ultimi due anni. Partiti i Medici senza frontiere, che hanno provveduto a superare l’emergenza, la missione continua la lotta contro la denutrizione, dando a 150 bambini un bicchiere di latte e un’abbondante porzione di polenta, integrata con proteine e vitamine».
A una quindicina di chilometri, altrettanti bambini el molo attendono di essere sfamati. Vi ha già provveduto padre Achille, partito con un altro pentolone di polenta.
Il pomeriggio, sotto una calura infeale, padre Achille mi fa visitare alcuni luoghi caratteristici: la valle dove è stato girato il film I monti della luna, varie sorgenti di acque diuretiche e lassative, immense distese di pietre nere e cocuzzoli ferrigni, con rari alberelli spinosi e scheletriti, selvaggiamente scorticati.
Ci fermiamo in riva al lago. Scuola, asilo, cappella e un rubinetto da cui scorre inutilmente acqua calda e pura: ecco quanto resta dei pittoreschi villaggi el molo di Komote e Laiyeni: spaventati dall’uccisione di un loro membro, gli abitanti hanno abbandonato gli accampamenti e si sono rifugiati tutti sull’isolotto antistante. «Mi sto dannando l’anima per convincerli a ritornare sulla terra ferma – racconta padre Achille -. L’isola è infestata dai coccodrilli. Senz’acqua potabile e in condizioni igieniche precarie, il colera potrebbe riesplodere da un momento all’altro».

È domenica: padre Achille è partito presto per Komote. Padre Lino celebra la messa nella chiesa parrocchiale per samburu e rendille; subito dopo quella per i turkana, i cui vestiti tradiscono estrema povertà. «Da sempre emarginati e sfruttati, oggi i turkana si sentono anche rifiutati dai samburu – spiega padre Lino -. Purtroppo tale tensione si riflette anche nella comunità cristiana; per questo abbiamo dovuto mettere due messe. Speriamo che tutto ritorni come prima».
Le tensioni etniche aumentano la povertà e l’incertezza del futuro. Il turismo dava lavoro a parecchie famiglie e stimolava l’artigianato: ora si vedono rari turisti mordi-e-fuggi. La pesca è crollata da quando l’Inghilterra ha sospeso le importazioni del pesce fresco e secco, in attesa di garanzie igieniche. L’allevamento del bestiame è sempre più difficile, a causa delle razzie e la scarsità di pascoli. I giovani, soprattutto, finite le elementari non sanno cosa fare: le scuole secondarie sono care e a centinaia di chilometri: continuare gli studi è un miraggio.
Bussando alle porte di varie organizzazioni, i missionari riescono a procurare qualche borsa di studio; fondi per attività di sopravvivenza. «Ci stiamo scervellando per trovare una soluzione che aiuti questa gente a camminare con le proprie gambe – confessa sconsolato padre Lino -, ma non ci riusciamo».
Il sole s’immerge nelle acque del lago, accendendo in cielo un immenso rogo fiammeggiante: di roseo, a Loyangalani, c’è solo il tramonto.

South Horr. Dalle prime luci del mattino, una fila di donne staziona davanti all’ufficio parrocchiale. Fino a sera ripetono lo stesso drammatico ritornello: «Padre, ho fame!».
«Quando mi siedo a tavola – racconta padre Egidio Pedenzini, parroco di South Horr -, mi si blocca lo stomaco, pensando a quelli che sono davanti alla porta. Spesso gli studenti delle secondarie mi dicono che non mangiano da tre giorni e ci credo».
Per convincermi, mi affida al catechista John, per una lunga camminata fuori del centro abitato, dove si sono rifugiate alcune famiglie scampate agli scontri tribali. Nella fuga hanno salvato il salvabile: una capretta scheletrita, qualche pentola ammaccata e i figli, naturalmente. Eppure c’è qualche segno di vita: lungo un torrente, che quest’anno non si è seccato, alcune famiglie hanno strappato qualche fazzoletto di terra alla boscaglia, vi hanno incanalato l’acqua per irrigare fagioli e granturco. Una novità per i samburu: pastori per tradizione, si dedicano all’agricoltura.
Il pomeriggio padre Egidio mi porta in macchina a vedere un’altra parte della missione. «Qui abitavano i turkana – racconta il padre, indicando mucchi di cenere -. Una notte i samburu hanno bruciato le loro capanne, accusandoli d’aver ospitato avanguardie ngorokos. La gente si è rifugiata nella missione. Ho procurato due capre per il sacrificio di purificazione del luogo e aiutato le donne a raccogliere i rami per ricostruire il villaggio. Un giorno, alle due del pomeriggio, il villaggio era di nuovo incenerito. Per tre mesi abbiamo sfamato 250 turkana».
Per tale aiuto i missionari sono stati accusati di schierarsi dalla parte dei turkana. «Dite che la chiesa è turkana – disse il padre, intervenendo in un raduno di autorità locali -. L’ho sentito da voi. Parlo in nome dei padri e delle suore: per noi non c’è alcuna distinzione tribale; siamo qui per servire tutti. Oggi sono i turkana, domani forse sarete voi, samburu, oppure i rendille a chiedere rifugio: la chiesa rimarrà aperta a tutti».
Sfidando le incomprensioni, missionari e missionarie cercano di portare la riconciliazione con opere sociali (asili, scuole, acquedotti, assistenza medica) e la testimonianza quotidiana della carità. «Ma non basta. Occorre incarnare il vangelo nella cultura della gente» afferma padre Egidio, che ama e conosce il mondo samburu come le sue tasche.
«Quando una persona vuole chiedere perdono, offre all’offeso un mazzetto d’erba – continua il missionario -; nessuno può rifiutarlo. Un simbolo potente per aiutare la gente a perdonarsi e ricostruire l’armonia. L’abbiamo usato, insieme al fuoco, per tutto il 1998, per significare la forza dello Spirito Santo, in preparazione al giubileo del 2000. La domenica i fedeli entravano in chiesa reggendo ciuffi d’erba; due anziani passavano a benedirli con latte e miele; quindi aspergevano l’altare e il fuoco, acceso davanti allo stesso altare e alimentato da due donne con legna speciale, quella usata per i sacrifici tradizionali. La gente era felice».
Rimango incantato, mentre parla a ruota libera delle esperienze d’inculturazione. La frase del vangelo «nessuno può servire a due padroni…», per esempio, viene tradotta con due proverbi samburu: «Il cane non abbaia in due villaggi allo stesso tempo»; «un uomo non può tenere i piedi sulle due rive del fiume».
Ha tradotto il canone della messa nel linguaggio e stile samburu: al prefazio e dopo la formula di consacrazione, col bastone in mano, egli elenca le meraviglie di Dio e invoca la sua protezione sui vivi e sui defunti; a ogni frase la gente risponde: «Ngaì! Ngaì!» (Dio), mentre apre e chiude i pugni, per invocare la venuta di Dio tra i suoi figli.
Per aiutare i catechisti a esprimere il vangelo col linguaggio della gente, Padre Egidio ha composto due libretti sul concetto di Dio e sui miti delle origini secondo la cultura samburu; sta per essee stampato un terzo sui sacrifici e cerimonie; un quarto è in avanzata elaborazione, sulla preghiera e benedizioni.
«Tra i vari simboli – continua – il taglio dei capelli potrebbe essere introdotto nel rito del battesimo e matrimonio. Nei momenti più importanti della vita, infatti, i samburu si rasano a zero: la donna dopo il parto, il giovane al tempo dell’iniziazione; gli sposi nel giorno del matrimonio; il vedovo o la vedova alla morte del coniuge; il defunto appena deceduto: ciò significa l’inizio di una nuova vita. Il battesimo è rinascita nella vita di Dio? I capelli degli sposi sono mescolati in latte e miele; nessuno può più distinguere a chi appartengano: quale simbolo più potente per significare l’indissolubilità del matrimonio? Finora ho usato questi simboli per spiegare i sacramenti; bisognerebbe tradurli in pratica perché producano il loro effetto. Ci sto pensando: a pasqua, vorrei rasare tutti i battezzandi, giovani e anziani, donne e bambini… Però qualche missionario mi rompe l’anima con Il diritto canonico!».
Tante sue iniziative, dopo 20 anni, rimangono allo stadio di esperimento. Padre Egidio ha tutte le ragioni di sentirsi solo. Ma non demorde.
Sarei dovuto partire presto, con un comodo fuoristrada dei Medici senza frontiere; mi hanno lasciato a terra. Una breve revisione degli impegni e disponibilità dei mezzi di trasporto: padre Pietro Davoli mi porterà a Baragoi nel pomeriggio. Intanto lo accompagno a Ngorlé, dove si reca a celebrare la messa a una comunità che si sta riorganizzando.
A 88 anni, 64 dei quali spesi in Kenya, padre Davoli è una figura mitica: una vita densa di avvenimenti, che racconta con affascinante semplicità e gioia contagiosa; fresco e pimpante come in giovincello, nonostante l’età, si adatta a qualsiasi incombenza e imprevisto della vita missionaria; quando è libero da impegni religiosi, lo trovi nell’orto o a seccare e macinare peperoncini, che poi distribuisce a tutte le missioni.
Gli domando il segreto della sua eterna giovinezza. «La missione allunga la vita» risponde sorridendo.

Baragoi: padre Giovanni Pronzalino è partito presto per visitare vari villaggi, radunare le piccole comunità cristiane, spiegare la bibbia, celebrare l’eucaristia, ascoltare i problemi della gente. Toerà a casa nel tardo pomeriggio. Così ogni giorno, sistematicamente, nonostante i 70 anni suonati. Padre Giuseppe Da Fre’, parroco sessantenne, mi aggioa sulla situazione.
La parrocchia di Baragoi si estende su un’immensa savana quasi tutta pianeggiante, teatro degli scontri etnici più cruenti di tutto il nord del Kenya: samburu e turkana si leccano ancora le ferite.
«La tensione è altissima – spiega padre Giuseppe -. In un incontro di pochi giorni fa, i turkana hanno chiesto di fare la pace; ma i samburu hanno risposto che non vogliono avere nulla da spartire; che se ne devono andare, con le buone o con le cattive. Un vicecapo turkana mi ha confidato: “Se continueranno a complicarci la vita, impedendoci di fare acquisti nei villaggi e attraversare le zone di loro influenza, li cacceremo anche da Maralal”. Si prospetta un’ennesima guerra tribale, in cui i samburu avrebbero la peggio».
I turkana sono più industriosi. Pur essendo allevatori, si sono adattati all’agricoltura: coltivano sorgo, patate dolci, fagioli, granoturco e frutta. Liberi da tabù alimentari, mangiano di tutto, anche i serpenti; sono temprati a ogni fatica, robusti e coraggiosi.
I samburu sono solo pastori: orgogliosi della loro nobiltà, disdegnano i lavori manuali; al tempo stesso si vedono superati dall’intraprendenza dei rivali. Da qui una certa invidia, che, alimentata dai politicanti, è sfociata in scontri sanguinosi e nella persistente volontà di cacciare i turkana dal loro distretto.
A fae le spese sono anche le missioni: in varie comunità sono stati distrutti i fabbricati, rubate le lastre zincate, strappati i libri, usati i banchi come legna da ardere. Un maestro e un consigliere comunale di Baragoi sono arrivati a puntare il fucile contro i missionari, in casa loro, perché avevano soccorso i feriti turkana. «Gli stessi gesti li abbiamo fatti per voi samburu, quando vi siete trovati in identiche circostanze – risposero i padri -. Abbiamo medicato i vostri feriti, sfamato donne e bambini, seppellito i vostri morti».
Non è sempre facile fare da mediatore in casi di contrasto; risolvere problemi d’ogni genere; calmare gli animi esacerbati, misurare le parole nel denunciare ingiustizie e corruzione. «Pestiamo i piedi a qualcuno – continua padre Da Fre’-. Grazie a Dio, la gente ci vuole bene. Ma spesso ci sentiamo soli; abbiamo bisogno di qualche gesto di solidarietà, per non cadere nello scoraggiamento».
Padre Da Fre’ mi porta a visitare varie attività e opere sociali: pozzi, torrenti sbarrati, serbatorni per raccogliere l’acqua piovana. Ma le piogge non sono sempre regolari: capita che per un anno o due non cada una goccia d’acqua, allora è una tragedia per la popolazione e per il bestiame. Inizia l’ennesima emergenza.
Visitiamo vari asili. Ce ne sono 27 in tutta la parrocchia, per assicurare un pasto giornaliero a migliaia di bambini. «Concentriamo su di loro i nostri sforzi; sono i più indifesi – continua il missionario -. In questo modo speriamo di ricostruire il futuro di queste popolazioni».
Termino con la visita all’asilo adiacente alla chiesa parrocchiale: 150 bei bambini in divisa azzurra. Alcuni si divertono con scivoli e giostre; i più grandicelli giocano a pallone; altri coltivano l’orto; altri ancora sono attaccati alla sottana di suor Raimonda. «Abbiamo bimbi di tutte le etnie: turkana, samburu, rendille, meru, kikuyu… – dice la suora -. Speriamo che anche da grandi sappiano convivere in pace come oggi».

Benedetto Bellesi