L’opinione – I popoli sono come le nuvole

Vidiadhur S. Naipaul

Nato a Trinidad (Piccole Antille) nel 1932,
è uno dei massimi scrittori viventi.
Il 19 giugno scorso ha ricevuto
il premio internazionale Grinzane Cavour
“Una vita per la letteratura”.
Dotato di un inglese raffinato,
Vidiadhur S. Naipaul ha scritto romanzi e saggi, frutto di una ricerca rigorosa
e una forte tensione morale.
Lo scrittore, che non sopporta la superficialità dei giornalisti, ha risposto ad alcune domande durante una conferenza-stampa.

Signor Naipaul, lei ha viaggiato anche in paesi islamici e ha scritto «Fra credenti». Pensa che ci sia una rinascita del mondo islamico, una rivoluzione modea?
Ho visitato, per esempio, l’Iran nel 1979-80. Gran parte del linguaggio dei fondamentalisti islamici pareva una mimica del linguaggio della rivoluzione marxista. Per questo i marxisti in Iran hanno avuto tanti guai. Si sono dati alla causa religiosa e ne sono stati consumati. Quella non era una rivoluzione religiosa, ma un’azione reazionaria in gran parte nelle mani di persone senza cultura. Dobbiamo essere molto cauti e non lasciarci sedurre dalle parole apparentemente civili.
So che alcuni studiosi degli Stati Uniti ritengono che il fondamentalismo abbia aspetti positivi: stanno soltanto proteggendo il loro lavoro. Abbiamo visto e, ancora oggi, vediamo tutta la faccia nefasta del fondamentalismo in Afghanistan.
L’Iran è una tirannia. Non dobbiamo, però, frapporci tra le rivoluzioni e ciò che la gente vuole. Gli iraniani hanno voluto questa rivoluzione «farsa». È giusto che l’abbiano e che ne paghino il prezzo.

Le migrazioni hanno sempre caratterizzato la storia? Che ne pensa?
Se si potesse vedere la storia, come su foto inviate da un satellite, si vedrebbero le popolazioni in movimento come le nuvole. Se potessimo andare ai tempi dell’antica Roma, vedremmo le invasioni dei teutoni nel sud della Francia, dove Cezanne ha dipinto i suoi quadri famosi. L’Andalusia, regione della Spagna, ha preso il suo nome dai vandali dell’Europa orientale (la parola «anda» deriva da «vandalo»), mentre i turchi per secoli si sono accampati presso le rovine delle città dell’antica Grecia. In quest’ottica anche gli spagnoli hanno poi invaso il Nuovo Mondo.
Questo genere di migrazioni non può, però, essere paragonato alle attuali migrazioni «economiche» a cui forse state pensando.

Ebbene, come giudica le odiee migrazioni «economiche»? Conflittuali o incontri di cultura?
L’odiea migrazione è permessa e persino incoraggiata dai governi con le loro politiche. I kosovari in Italia potrebbero essere definiti «i migranti della Nato». La Nato ha fatto grande pubblicità. Ne siete preoccupati?

Lei lo sarebbe?
Se fossi italiano credo proprio di sì.

Cosa pensa dei molti conflitti che lacerano il mondo, in India come nell’ex Jugoslavia? Sono causati da motivi tribali?
Abbiamo parlato di «movimenti storici». Non userei l’aggettivo «tribale», perché penso che lo si possa applicare solo, forse, a sparuti gruppi che vivono nell’Antartico… Nessuno può pensare ad un mondo tribale o incoraggiare il mondo ad esserlo!
Il conflitto dei Balcani non è soltanto etnico. Le popolazioni locali hanno vissuto per decenni senza libertà, senza istituzioni libere, senza leggi in cui riporre speranza, senza valide tradizioni. La storia insegna che un popolo si sente potente nella propria etnia (che poi si rivela una trappola), quando non ha fiducia nelle istituzioni. Alle nuove generazioni dell’ex Jugoslavia bisognerebbe insegnare la democrazia e, con questa, sviluppare la fiducia nelle istituzioni.
Non userei l’aggettivo «tribale» anche perché penso che ogni persona possa avere cinque, sei, sette… idee di se stessa.
Per esempio, guardate questa signora (indicava la sottoscritta, che mi ero presentata come collaboratrice di una rivista missionaria): è italiana, giornalista, scrive per un periodico impegnato, ha una sua cultura, avrà visitato paesi del sud del mondo, conosciuto culture diverse…

Nel suo romanzo «Alla curva del fiume», ambientato in Congo, il protagonista Samir è di origine indiana e appare come una persona onesta, mentre la figura del despota racchiude i tratti di numerose dittature. Ha voluto sottolineare alcune caratteristiche universali?
Quando scrivo non mi chiedo se il protagonista è onesto: scrivo e basta. Sarà il lettore o il critico a giudicare i diversi personaggi.
Nel presentare la figura del dittatore in Congo, avevo in mente Mobutu e ho cercato di descriverlo. Non so se Mobutu sia «universale». Se tale despota ne ricorda altri, non è mio compito dirlo. Nei romanzi cerco di raccontare situazioni reali in un determinato contesto e momento storico.

Che cosa pensa degli scrittori indiani come Narayan?
Narayan è un grande scrittore indiano di lingua inglese: oggi ha più di 90 anni. Però è uno scrittore spirituale, mistico e nega la realtà. Ha perso la moglie quando era molto giovane e questo ha condizionato la sua opera. Scrive nell’illusione, nega le osservazioni della realtà. Per lui la realtà è falsa.
Scrivere un romanzo significa, invece, affermare che il mondo è reale, significa illustrare la solidità del mondo. Attenti, dunque, agli scrittori che cercano di raccontare la complessa realtà indiana imitando Joyce, Marquez o Hemingway!

Quali scrittori apprezza o apprezzava da studente?
Sono uno scrittore, non un lettore. Da giovane leggevo decine di libri per volta. Di ogni testo scorrevo con attenzione 50-60 pagine, cercando di sentire la musica nella scrittura. Ho apprezzato molto Maupassant.

Pare che il suo rapporto con i giornalisti sia terribile. Eppure non l’ho rilevato nei suoi scritti. Perché?
La mia irritazione non è causata dai giornalisti, ma dal loro bluff (inganno, boria). Personalmente non mi sognerei mai di diventare editore del Musical Express, perché non so nulla di musica. Ma purtroppo ci sono giornalisti che pretendono di intervistare uno scrittore senza aver letto almeno uno dei suoi libri o che scrivono copiando materiale d’archivio. Questi giornalisti sono un bluff, perché sciupano sia il proprio tempo che quello dello scrittore e commettono una frode nei confronti dei lettori, che non ricevono il servizio dovuto.
È un’occasione perduta per il giornalista, al quale chiedo: «Qual è il valore del tuo lavoro? Che rispetto hai di te stesso? Fai così settimana dopo settimana? Che cosa offri ai tuoi lettori? Come ti senti?».

P. S.
Non mi sognerei mai di fare domande ad uno scrittore senza aver letto almeno due dei suoi libri e aver deciso che vale la pena di intervistarlo.
Nel caso di Naipaul, avevo capito che è uno scrittore di valore, ma che non sarebbe stato facile incontrarlo.
Durante la conferenza-stampa, ho suggerito ad un collega di leggere «Una casa per il signor Biswas», in cui Naipaul è critico e ironico verso i giornalisti e direttori di giornali, oppure «Alla curva del fiume», in cui il protagonista è inorridito della superficialità con cui i giornalisti occidentali hanno descritto i massacri degli arabi lungo la costa dell’Africa orientale.
Naipaul ha apprezzato il mio suggerimento e ha commentato: «Vedo che lei si è preparata bene. Per quale rivista scrive?».
«Missioni Consolata» ho risposto.
S. B.

Silvana Bottignole




Metropoli e personaggi – Naipaul

Un caleidoscopio di «intoccabili» e «maharaja», atei e credenti, conservatori e progressisti, indù, musulmani, sikh, cristiani.
E non solo.

«Per me l’India è un paese
difficile.
Non è, né può essere la mia
patria, eppure non riesco
a respingerla, né a esserle
indifferente; non posso
visitarla semplicemente
da turista.
Le sono al tempo stesso
troppo vicino
e troppo lontano».

Così scrive Vidiadhur S. Naipaul nel suo saggio «India: una civiltà ferita», frutto del viaggio nel paese tra agosto 1975 e ottobre 1976. Ancora più traumatica fu la visita nel 1962, da cui scaturì «Un’area di tenebra».
Nel 1989 Naipaul, ormai scrittore affermato a livello internazionale, rivisitò l’India con l’occhio reso più acuto dall’esperienza e incontrò figure emblematiche nei contesti più disparati di un paese velato ancora da un’aura di mistero.
«India», frutto di questo nuovo viaggio, è una serie di mirabili affreschi in cui i personaggi, intervistati dallo scrittore con profondità psicologica, sono immersi in uno scenario che presenta i mutamenti avvenuti negli ultimi 30 anni e cattura eventi culturali ancora vivi, malgrado il peso dei secoli, nella vita quotidiana degli indiani.

«Bombay… C’erano ora su entrambi i lati della strada file di edifici di cemento, ammuffiti ai piani alti dal clima (troppo sole, troppa pioggia, troppa calura) e sudici ai piani bassi, come se assorbissero la sporcizia della brulicante umanità che si muoveva a livello del marciapiede, come se quell’umano sudiciume procedesse verso l’alto, superando una dopo l’altra le linee di marea fino a raggiungere i piani ammuffiti…
La chiesa nominata dall’autista era la celebre cattedrale della Goa dov’è sepolto san Francesco Saverio. La cattedrale e gli altri edifici portoghesi della città vecchia, un po’ rientrati rispetto al fiume Mandovi, hanno un effetto sconcertante in questa coice: così lontani dall’Europa… in quella luce così abbacinante, con le spiagge bianche che ricordano più le isole deserte del Nuovo Mondo… che villaggi e cittadine sovraffollate della vecchia India, con il suo passato intricato…».
nn In una Bombay cosmopolita e caotica Naipaul è colpito da una «coda lunga un paio di chilometri», formata dai dalit (intoccabili), decorosamente vestiti «per rendere omaggio al loro santo da lungo tempo sepolto, a quel dottor Ambedkar che nella fotografia indossava una cravatta all’europea».
Intervista Namdeo, poeta dalit e fondatore nel 1974 delle Dalit Panther, che afferma: «C’era un’epoca in cui eravamo trattati come animali. Adesso viviamo come esseri umani. E tutto grazie ad Ambedkar».
Sempre a Bombay, metropoli di opportunità e disperazione, lo scrittore incontra un giovane pujari, cresciuto in un ashram, fedele esecutore di riti complessi secondo la tradizione indù, e il ventinovenne Papu, agente di borsa di successo e fedele seguace di Giano: perciò vegetariano e impegnato la domenica mattina come volontario nella bidonville di Dharewi.
Anwar, giovane musulmano, è invece attendibile testimone delle continue violenze tra indù e musulmani.

«L a gente ora aveva più soldi a disposizione: si vedeva chiaramente anche dalla campagna del Kaataka, lungo la strada a sud di Goa. La povertà indiana non era scomparsa, c’erano ancora mucchi d’immondizia, le case e i vicoli dall’aspetto cadente, ma i campi di canna da zucchero, di cotone e di altri prodotti agricoli avevano un’aria lussureggiante e ben tenuta; nei villaggi le case erano spesso pulite, con i muri intonacati e i tetti di tegole rosse. Non c’era traccia dell’indigenza che avevo visto 26 anni prima dall’autobus lento che si fermava ad ogni passo; non più quegli scheletri ambulanti dagli sguardi allucinati. La rivoluzione agricola lì era una realtà, la disponibilità di cibo era visibile…».
nn Invitato a colazione da Prakash, ministro del governo del Kaataka, lo scrittore osserva la lunga fila di gente in attesa di udienza e favori, perché «i ministri sono gli odiei maharaja» e godono di molti privilegi concessi a chi «detiene il potere». «I maharaja avevano perso il titolo nel 1956, ma disponevano ancora di un appannaggio reale».

«A Bangalore hanno la sede istituzioni scientifiche di ogni disciplina. Le strade, fiancheggiate dagli alberi della città-giardino dei maharaja, sono ormai invase dai rumori, dalla puzza e dai gas di scarico dei veicoli a tre ruote e delle automobili. Certo non è più la città in cui passeggiare piacevolmente…».
nn A Bangalore Naipaul apprende dal giornalista scientifico Deviah la storia di Ayappa, il cui tempio attira folle di pellegrini; incontra il dottor Srinivasan, presidente della Commissione indiana per l’energia atomica, e altri due scienziati, i cui antenati erano «sacerdoti», che lo erudiscono sulla complessa storia di quelle regioni e lo inducono a commentare: «Da quell’incontro (tra il sapere difficile dei sacerdoti, l’attenzione a compiere con precisione rituali complessi, il silenzio che accompagnava taluni riti e la nuova educazione) era nata una nuova generazione di scienziati».

«Non ero mai riuscito ad adattarmi a Madras, per quanto fosse una città ospitale e piena di movimento. Le piramidi scolpite delle torri del tempio, le palme, i bramini a torso nudo in mezzo alle antiche colonne di pietra, la cisterna d’acqua di Mylapore con i suoi gradini tutt’intorno, enorme e bellissima, sembravano cose viste nelle vecchie stampe europee…».
nn Visitando Madras Naipaul afferma: «Ci voleva tempo a capire che era avvenuto un rovesciamento di poteri, che i bramini erano sulla difensiva, pur essendo ancora musicisti e danzatori, cuochi e sacerdoti dei templi».
È quanto emerge dalle interviste a Veeramani, guida dal 1973 del Movimento progressista dravidico. In quell’anno era morto il fondatore Periyar, ateo e razionalista. Il Movimento aveva vinto per la prima volta le elezioni nel 1967 e ha continuato a vincere, anche se è anti-braminico e non abbraccia tutte le caste, ma solo quelle medie. Alla gente di infimo livello il Movimento non offre alcuna protezione.

«Per anni e anni si diceva che Calcutta stava morendo. Le città… non muoiono solo quando vengono abbandonate. Forse le città muoiono quando perdono i piaceri che sono loro propri: gli stimoli visivi, la sensazione più acuta delle possibilità umane, e diventano semplicemente luoghi con troppe persone, e le persone soffrono… Nel 1946 ci furono i massacri tra indù e musulmani. Segnarono l’inizio della fine per la città. L’anno dopo, l’India era indipendente, ma divisa. Anche il Bengala fu diviso. Un numero enorme di profughi indù arrivò a Calcutta e vi si accampò e Calcutta, cui mancava anche solo un centesimo della capacità di recupero dell’Europa, non si riprese mai».
nn A Calcutta Naipaul raccoglie le testimonianze di due superstiti del Partito comunista indiano, nato nel 1969: Dipanjan, docente di scienze in un college, si era appassionato alla causa dei braccianti, ma intraprese azioni violente e fu imprigionato; Debu, importante dirigente di una grossa società, si unì al Partito, ma fu testimone di vicende cruente e devastatrici.
Commenta Naipaul: «Dalla compassione immediata e l’umiliazione per i poveri e il proprio paese al suicidio culturale e economico, a nuove coercizioni e violazioni, a una causa insomma molto lontana dalla fame dei contadini».
Il padre di Chidananda Das Gupta, altro interlocutore di Naipaul, aveva speso la sua vita come predicatore-bramino, la cui fede «unisce l’essenza dell’insegnamento upanishadico con alcuni elementi cristiani… Credeva nel diritto delle donne all’educazione, negli ideali democratici e nell’abolizione del sistema di casta».

L’ultimo bastione dell’India musulmana è Lakhnau, capitale dello stato dell’Uttar Pradesh. Naipaul vi incontra Amir, raja di Mahmudabad. Il padre era stato membro della Lega musulmana tra gli anni ’30-40 e, nel 1945, aveva offerto il figlio di soli 2 anni all’imam, per servire la fede sciita.
Con l’indipendenza di India e Pakistan nel 1947, Amir iniziò una vita di peregrinazioni. La guerra indo-pakistana del 1965 permise al governo indiano di confiscare tutte le proprietà del genitore e l’atroce conflitto indo-pakistano per il Bangladesh del 1971 lo condusse, due anni dopo, alla tomba; fu sepolto nel tempio di Mashhad nell’Iran orientale.

La famiglia di Vishwa Nath, settantenne editore di Woman’s Era, viveva a Delhi da 400 anni. Dal 1931, anno della marcia del sale di Gandhi, l’editore ha sempre indossato il khadi, il tessuto di cotone filato a mano, affermando: «Gandhi ha fatto di noi una nazione. Eravamo come topi e fece di noi degli uomini».
«Il tempio d’oro sorge ad Amristar, lo stagno del nettare, perché si dice che lì vi fosse uno stagno noto al primo guru. La doratura, riflessa tutt’intorno al lago artificiale, produce un effetto magico» scrive Naipaul, che è riuscito ad intervistare alcuni stretti collaboratori di Bhindranwale, famoso capo sikh, che nel tempio trovò la morte dopo un attacco delle forze governative.
Iniziato per alleviare le «sofferenze del popolo», perché i sikh vedono «Dio come un liberatore», il movimento si trasformò in un covo di terroristi. Il giornalista Dalip commenta: «Bhindranwale arrivò al tempio d’oro il 20 luglio 1982. Ne uscì morto il 6 giugno 1984. Ha danneggiato i sikh come di più non si poteva… Ha danneggiato il Punjab e l’India».
Silvana Bottignole

Silvana Bottignole




Missionari in pensieri, parole e opere

Sintetizzare il pensiero missionario del beato Giuseppe Allamano non è facile.
Si rischia di essere riduttivi. Ma alcuni punti sono precisi, irrinunciabili.
Li ricordiamo… in occasione della sua festa: il 16 di questo mese.

Il primo annuncio

Nel 1901 il beato Giuseppe Allamano fonda i missionari della Consolata per annunciare il vangelo a persone, gruppi e popoli presso i quali non è ancora conosciuto… E questa è l’identità del missionario della Consolata, sacerdote, suora e fratello. Ciò comporta crescere nella «passione» di far conoscere il Signore al maggior numero possibile di persone, e fare proprie le parole dell’apostolo Paolo: «Guai a me se non evangelizzassi!» (1 Cor 9, 16).
«Tutto io faccio per il vangelo» dice ancora san Paolo. E l’Allamano incalza: «Tutto, tutto! Mi sacrificherò per questo, fino ad accorciare o anche donare la vita. Per questo ci vuole fuoco»: il fuoco dell’amore per Dio e i fratelli in attesa dell’annuncio di salvezza e di aiuto fraterno nelle loro necessità.
Solo questo giustifica l’impegno per la missione, l’apertura all’universalità, la sollecitudine per i fratelli di ogni razza e lingua. Se non si arde – continua l’Allamano – non si farà mai nulla. Si condurrà una vita amorfa, insignificante. Tale ideale va sempre riproposto, perché sia «al primo posto», «in cima a tutti i pensieri». Altrimenti «ci si guasta», non si è più come si deve essere.
Andare oltre
Anche se situazioni di «prima evangelizzazione» sono oggi presenti in ogni ambiente, la prospettiva dell’Allamano è quella dell’universalità: chiede di non rimanere chiusi entro i propri confini territoriali, stretti dalle proprie necessità, ma di guardare a quelle più grandi in altri paesi. E ciò in obbedienza al comando di Cristo «andate in tutto il mondo» e a testimonianza della natura «cattolica» della chiesa. Se essa pensasse soltanto alle sue urgenze, non sarebbe fedele a Cristo.
Fa parte della vocazione dei missionari della Consolata l’uscire dai propri confini nazionali, culturali e religiosi, per annunciare il vangelo negli avamposti del mondo, in ogni parte della terra, dove esistono situazioni che manifestano una lontananza dal Dio di Gesù Cristo e dagli ideali del suo regno.
Pur operando sempre in Italia, l’Allamano stesso vive la dimensione missionaria dell’«andare oltre». Egli ne intuisce la portata all’interno di ogni chiesa: opera (e fatica) per cambiare una mentalità chiusa, incoraggiando a superare gli schemi della pastorale ordinaria, per sostenere iniziative nuove, affrontare situazioni di emergenza, settori bisognosi di evangelizzazione anche a Torino: il mondo della moda, il settore della stampa, la classe operaia, l’azione cattolica, le cornoperative…
Questo spirito è oggi più che mai attuale, e impone ai missionari di dae una speciale testimonianza.
Sette Atteggiamenti
missionari
Nel realizzare la missione ad gentes il beato Allamano indica anche degli atteggiamenti che esprimono il suo stile.

1. Dedizione totale
Le proposte dell’Allamano sono sempre esigenti, conformi alla radicalità del vangelo. Egli è comprensivo della debolezza umana, pronto a capire, perdonare, incoraggiare ad «andare avanti», ma non sopporta la mediocrità. La missione esige impegno totale e perpetuo. Essa, secondo l’idea dell’Allamano codificata dalle Costituzioni, «deve permeare la nostra spiritualità, guidare le scelte, qualificare la formazione e le attività apostoliche, orientare totalmente l’esistenza».
L’Allamano vuole missionari coraggiosi, energici, generosi.

2. Qualificazione
Di conseguenza chiede che i missionari siano qualificati. Ne è tanto convinto da ricorrere a espressioni insolite sulle sue labbra: «Dobbiamo essere tutti di prima classe. Qui voglio solo roba scelta, vasi ripieni di liquore prelibato». Per la missione, prima attività della chiesa, si deve dare il meglio.
È convinto che, più del numero, valga la qualità: meglio pochi, ma in gamba, capaci di fare per molti. Non pensa a superdotati. «Non abbiamo bisogno di aquile, ma di buone e ferme volontà».
Oggi la qualificazione è necessaria per essere mediatori culturali, veicoli d’incontro tra popoli, culture, religioni.
Inoltre la missione ad gentes è destinata alle frontiere, a situazioni-limite. Si deve confrontare con la globalizzazione economica, il pensiero postmoderno, i movimenti religiosi, il numero crescente di battezzati che hanno perso il senso della fede e appartenenza alla chiesa, la secolarizzazione di un mondo che pretende costruirsi su basi che prescindono da Dio e dai principi morali.
Ciò richiede evangelizzatori preparati, capaci di far leva sugli aspetti positivi di fenomeni in gran parte negativi.

3. Primato dello spirito
La qualificazione è soprattutto di carattere spirituale e morale. Il missionario è una persona attiva, che però pone a fondamento la ricerca di Dio. L’Allamano afferma: «Prima santi e poi missionari». È un «prima» riferito a tanti aspetti: preghiera, consacrazione religiosa, studio, pratica delle virtù umane e cristiane, impegno in ogni campo.
Per essere missionari ci vuole una marcia in più, o (se si vuole usare una delle parole più frequenti nell’Allamano) «uno spirito».
Che cosa egli intenda è detto bene nel documento preparatorio al X Capitolo generale dei missionari della Consolata: «Egli parla di spirito di povertà, spirito di obbedienza, spirito di sacrificio, spirito di preghiera, spirito di silenzio, spirito di umanità, spirito di fede, spirito di lavoro, spirito di distacco, spirito di carità. Spirito è una realtà che penetra, regge e nobilita altre. È profondità, intensità. È intuizione. È l’opposto di ogni formalismo. È totalità. È verità, soprattutto nell’essere missionari. È andare all’essenza delle cose. È farle bene».
«Voi – dice l’Allamano – dovete avere lo spirito dei missionari della Consolata nei pensieri, nelle parole, nelle opere».

4. Unità di intenti
La missione non è un’attività individuale, secondo criteri personali. È azione di chiesa in spirito di comunione, «in unità di intenti». Questa è una intuizione fondamentale, un principio basilare, un’idea fissa.
Si tratta di uno «spirito di famiglia» o «spirito di corpo», che per l’Allamano è il segreto di riuscita, l’obiettivo da realizzare ad ogni costo. Nel lavoro missionario l’unità è la condizione «più necessaria» e «più importante», senza la quale si rischia di lavorare invano.
La comunione tra i missionari diventa anche metodo di lavoro, estendendosi ai collaboratori, ai catechisti e ai membri più sensibili delle comunità cristiane. Si esprime all’interno e all’esterno: essere tutti per uno e uno per tutti.

5. Collaborazione con i laici
Proprio perché pensa sempre alla missione nell’unità, Giuseppe Allamano si adopera di coinvolgere anche le comunità cristiane, iniziando da quanti frequentano il santuario della Consolata di Torino, cui è rettore. La sua opera non sarebbe riuscita senza tale partecipazione.
Oggi è maturata una visione teologica che fa meglio comprendere l’impegno di ogni comunità cristiana nell’annuncio del vangelo. Il battesimo conferisce il diritto-dovere di impegnarsi, sia come singoli sia in associazioni, perché l’annunzio della salvezza sia conosciuto e accolto da ogni uomo, in ogni luogo; tale obbligo li vincola ancora di più nelle situazioni in cui gli uomini non possono ascoltare il vangelo e conoscere Gesù se non per mezzo loro» (cfr. Redemptoris missio, 71).
Questa collaborazione, espressa in varie forme nell’ambito dell’istituto dell’Allamano, ha aperto ai laici nuove vie d’impegno nei paesi di missione come in Italia.

6. Stare con la gente
I missionari portano il «lieto annuncio». Devono farlo stando dalla parte di chi ha più bisogno di essere sollevato, colmato di gioia, anche alleviando mali fisici e morali causati da malattia, emarginazione, povertà, ignoranza.
L’Allamano raccomanda di «stare con la gente», andare a trovarla dove vive. È l’espressione del cuore compassionevole di Dio che diventa consolazione. È un programma iscritto nel nome stesso che i missionari portano: quello della «Consolata». Sul modello di Maria sollecita del bene dell’umanità, la missione tende a instaurare il regno di Dio, che è amore, bontà, misericordia.
Le Costituzioni dell’istituto hanno accolto tale istanza, proponendo di «essere presenti tra la gente con cui lavoriamo in modo semplice e fraterno, con contatti personali e con attenzione ai loro problemi e necessità concrete».

7. La promozione dell’uomo
Non è difficile scorgere l’intima correlazione tra la consolazione-liberazione-promozione e la missione. Dio, che ha visto la miseria del suo popolo e ha ascoltato il grido di aiuto, ha inviato Mosè a liberarlo dall’oppressione (cfr. Es 3, 7-11). Chiaramente la consolazione-liberazione è missione divina, dono del Cristo salvatore.
A noi è stato affidato il ministero di portarlo a tutti – si legge nel documento preparatorio al X Capitolo generale -. Senza difficoltà si può riconoscere che, nel nostro metodo di lavoro, evangelizzazione e promozione umana si sono sempre accordate. L’insegnamento del fondatore su questo è esplicito e frequente. E prese posizione per difendere questo suo principio… Noi dobbiamo assumere la condizione della gente e apprezzare i suoi valori. Le nostre certezze e pretese di superiorità, la nostra supposta e indiscussa dignità da salvaguardare si oppongono a una metodologia di comunione.

Gottardo Pasqualetti




Serbia – E’ tempo di girare pagina

Pregare per chi sta al potere è una consuetudine della chiesa ortodossa. Ma quando il potere
è contro il popolo e il vivere cristiano, opporsi
è dovere di ogni credente. Oggi la Serbia
è distrutta dai bombardamenti della Nato
e 14 milioni di persone sono strangolate
da tirannia, miseria e sanzioni economiche.
Per questo il patriarca Pavle invita
il presidente Milosevic a uscire di scena.
Senza ulteriori spargimenti di sangue.

Oltre ai 10 comandamenti, la chiesa ortodossa serba chiede ai suoi fedeli di rispettare altre regole: andare alla liturgia tutte le domeniche e feste religiose; digiunare (cioè non mangiare carne) prima delle feste principali (pasqua, natale, apostoli Pietro e Paolo e assunzione di Maria), nonché ogni mercoledì e venerdì; confessarsi e fare la comunione dopo i periodi di digiuno; digiunare quando lo ordina il vescovo a causa di qualche disgrazia collettiva; non contrarre matrimoni nei periodi di digiuno; non leggere libri eretici; non adoperare oggetti che si usano in chiesa; rispettare i sacerdoti; pregare per quanti sono al potere.
Dunque, pregare per chi detiene il potere è un comandamento della chiesa ortodossa. Essere al vertice di un paese, è una responsabilità enorme, che l’uomo da solo non potrà mai sostenere se non aiutato da Dio. E, per esserlo, serve la preghiera non solo sua personale, ma anche comunitaria.
Ma che fare se al potere c’è un non cristiano? Quando egli stesso non rivolge alcuna preghiera a Dio per essere aiutato a svolgere il suo dovere verso il popolo? Quando non va in chiesa e non rispetta né i comandamenti di Dio né, tanto meno, quelli della chiesa? Quando considera la chiesa solo un’istituzione da sfruttare a suo vantaggio?
Così è accaduto in Serbia a partire dal 1945, in Russia dalla rivoluzione d’ottobre, in Romania e Bulgaria. Questi paesi, in cui la religione principale era quella cristiano- ortodossa, hanno sperimentato un potere contro ogni tipo di religiosità: contro la chiesa, contro i sacerdoti, contro Dio stesso.
«La religione è l’oppio dei popoli – tuonava Lenin -. Preti, vescovi e cristiani sono tutti parassiti, inutili e nocivi, da eliminare insieme ai capitalisti». Ne erano pieni i campi di concentramento di Stalin e degli altri capi comunisti. Sorsero nuovi martiri che perdevano la vita per testimoniare la fede, come ai tempi dei romani.
Eppure, nonostante tutto, è rimasta la regola di pregare per quelli che sono al potere, perché la preghiera cristiana non ha limiti.
Gesù ci insegna a pregare anche per i nemici (Mt 5, 44) e gli apostoli Pietro e Paolo invitano a rispettare e ubbidire a quelli che sono al potere (1Pt 2, 13-17; Rom 13, 1-7).
Ma, allorché i governanti portano in rovina il popolo, quando ciò che chiedono è in contraddizione con i comandamenti di Dio e del vivere cristiano, è dovere di ogni cristiano disubbidire, opporsi.

La chiesa ortodossa è apolitica. «Non ha il potere di costringere, ma di proporre con parole di verità, indicando quello che è peccato, male individuale o collettivo, disgrazia in questa vita e in quella eterna». Essa si preoccupa, innanzitutto, per l’anima della gente. Ma ora che la sopravvivenza fisica e spirituale del popolo è minacciata, la chiesa ortodossa serba ha alzato la voce. Per la prima volta nella sua storia, si è schierata contro un potere: il potere di Milosevic.
All’inizio la chiesa sostenne il presidente, perché riteneva che fosse l’uomo giusto per riunire tutti i serbi in un unico stato. Presto, però, si accorse che la politica del presidente portava i serbi alla rovina.
Oggi il paese sta affogando con i suoi 14 milioni di abitanti, soffocato dalla tirannia, dalla miseria, dalle sanzioni che hanno reso impossibile qualsiasi progresso: distrutto dai bombardamenti della Nato.
Il 10 agosto 1999, a Belgrado, i vescovi della chiesa serba hanno ricordato agli uomini del potere che hanno il dovere davanti a Dio, al popolo e alla storia di trovare una via d’uscita alla situazione.
In base a tale dovere e responsabilità, per prima cosa hanno chiesto all’attuale presidente, se non desidera trasformare il suo popolo in ostaggio, portandolo a sicura rovina, di permettere che altri assumano la guida dello stato, in modo democratico e pacifico, senza versare altro sangue.
«Ci aspettiamo elezioni libere e democratiche. La chiesa non ha mai suggerito per chi votare. Abbiamo soltanto invitato i nostri fedeli a riflettere prima di scegliere. Se uno è credente, non dovrebbe dare il proprio voto a partiti o persone non credenti».

La chiesa ha chiesto alle Nazioni Unite e alle forze di pace in Kosovo di porre fine ai crimini contro la popolazione serba e alle distruzioni di chiese, monasteri e interi villaggi. Da quando si è ritirato l’esercito serbo dal Kosovo, il presidente Milosevic non ha rivolto una parola né al popolo rimasto nella regione né ai profughi che si sono rifugiati nella Serbia settentrionale.
Il patriarca Pavle è andato due volte in Kosovo, per incoraggiare i serbi a non abbandonare le loro case e avere fiducia nelle forze inteazionali. Ha supplicato i rappresentanti inteazionali di proteggere il popolo indifeso e minoritario, di difendere chiese e monasteri carichi di storia.

Snezana Petrovic




Serbia – dal partito di Tito a quello di dio

M i hanno battezzata di nascosto… La nonna mi ha raccontato che di notte piangevo sempre e dovevano tenermi tra le braccia per farmi dormire. Lo facevano a tui: nonna, nonno, mamma.
Vedendo che la situazione non migliorava, la nonna concluse che mi comportavo così perché i diavoli mi maltrattavano, non avendo ottenuto la protezione di Dio tramite il battesimo. Ma non aveva il coraggio di parlare con suo figlio (mio papà) dei suoi timori, perché egli era un comunista convinto, iscritto al partito. In sua presenza non si poteva parlare di religione o di chiesa. Ma la nonna aveva un piano in testa…
Un giorno, quando papà partì per un viaggio di lavoro, mandò la mamma in città a fare la spesa. Chiamò sua figlia (mia zia), un suo cugino e tutti insieme mi portarono nella chiesa più vicina per il battesimo. Era primavera, ma faceva ancora freddo.
L’anziano prete mi bagnò così tanto con l’acqua, che la nonna si preoccupò che mi ammalassi.
Fecero tutto talmente in fretta che non diedero neanche i dati per iscrivermi nel registro dei battezzati.
Quando tornammo a casa, la mamma non era ancora rientrata e nessuno si accorse di niente. Però quella notte, per la prima volta, io dormii senza piangere. Per la nonna era la conferma che aveva ragione.
Dopo alcuni giorni, quando anche la mamma si accorse del cambiamento (di notte non piangevo più), la nonna raccontò cosa avevamo fatto. Ma decisero di non dire nulla a papà.

D a piccola, prima di andare a scuola, passavo molto tempo in campagna nella casa della nonna. Lei era vedova. Il nonno era morto quando avevo due anni e, da quel giorno, iniziano i miei ricordi.
La nonna mi portava in chiesa quando c’erano le feste del paese; nella bella stagione, perché d’inverno c’era troppa neve ed era molto difficile muoversi. Mi ricordo del cortile profumato e pieno di fiori del monastero, delle suore vestite in nero, di atmosfere festose e solenni. Mi ricordo delle candele che si accendevano per i vivi e i morti e del prete con la barba lunga, che mi faceva un po’ di paura.

N ella scuola elementare eravamo tutti bambini «pionieri di Tito». Per noi Tito era come un padre, un nonno, l’incarnazione di bontà, giustizia e saggezza.
«Il comunista morale» era un libriccino di Marx in cui si parlava di come deve essere un vero comunista. Io lo lessi e lo scelsi a mia guida di comportamento. Ero molto ambiziosa e volevo iscrivermi al partito. Ce la feci: il 7 marzo 1973 fui ammessa nell’organizzazione.
Ricordo che, prima di andare alla riunione, temevo che mi chiedessero delle mie convinzioni religiose. Mi spaventava l’idea di rinnegare Dio, anche se tutta la mia educazione era stata senza religione. Mi avevano insegnato che tutto – la vita presente e futura – è nelle nostre mani, che la vita dura fino alla morte e poi non c’è più nulla. Dall’esistenza si passa all’inesistenza. Chi nella vita crea un’opera significativa, resterà nella memoria dell’umanità finché durerà la sua opera.
Ivo Andric parlava dell’eterno bisogno dell’uomo di lasciare tracce dietro di sé, le tracce della sua esistenza, incapace di accettare il fatto che tutto passa, si disfa, marcisce… Io volevo diventare scrittrice: lasciare ai posteri dei libri come testimonianza della mia esistenza.

M i sono sposata con un italiano, cattolico, non praticante. Volevo sposarmi in chiesa, non per motivi religiosi, ma per il sogno romantico di un lungo vestito bianco e la solennità della cerimonia accompagnata con la musica dell’organo. E anche per superstizione. Ci siamo sposati in comune. Perché mi dissero che avrei dovuto convertirmi al cattolicesimo per sposarmi in una chiesa cattolica. Non era vero, ma allora non lo sapevo. Sapevo solo che non avrei cambiato la mia religione. Quale religione, se non ero religiosa? Mi rivolgevo a Dio solo se ero in difficoltà: lo mettevo alla prova e Lui mi aiutava sempre. Io ero il centro dell’universo e giudicavo ogni cosa secondo la mia convenienza.
C ominciò la guerra civile. Non c’era più la Jugoslavia, ma un enorme fronte, un manicomio, un mattatornio. Volevano sapere se ero serba, croata o bosniaca. Dicevo di essere jugoslava, ma quella nazione non esisteva più. Volevo capire il perché. Ho riletto la storia. Ho cominciato a studiare le religioni delle etnie in conflitto. Ho capito che quella jugoslava non era una guerra di religione. Era, al contrario, una guerra in un paese «ateizzato» e, proprio per questo, facile preda dei signori della guerra. Sono andata alla ricerca della religione cristiana ortodossa, scoprendo che essa fa parte inseparabile della mia identità nazionale.
Mi sono messa in viaggio verso Gesù e Lui mi è venuto incontro. Ho scoperto i doni del vangelo. Ho scoperto il volontariato e la gioia del lavoro gratuito come espressione dell’amore per il prossimo. Ho capito che non sono il centro dell’universo, ma solo un anello nella catena della vita e debbo stare attenta che questo anello non si arrugginisca.

D opo 13 anni di matrimonio, con due bambini già grandi, ci siamo sposati in chiesa con il rito ortodosso. E, come da bambina avevo smesso di piangere dopo essere stata battezzata, così… ho cessato di litigare con mio marito, come prima facevamo. È diventato più semplice educare i figli e risolvere ogni problema.
Per ogni cosa Gesù ha la risposta giusta e un consiglio saggio. Ora andiamo a messa tutte le feste e, in casa, commentiamo le prediche di don Enrico, il nostro parroco.
Una volta al mese ospitiamo padre Milivoj, il prete ortodosso che due volte al mese celebra la liturgia a Vicenza, in una chiesa prestataci per le funzioni religiose dai fratelli cattolici.
Nella nostra regione, il Trentino-Alto Adige, ci sono circa 3.600 serbi; nelle province di Vicenza, Verona e Padova sono oltre 6.000. Il nostro prete è, come l’apostolo Paolo, senza dimora fissa, ospitato dalla sua gente: ci insegna a vivere secondo l’insegnamento di Gesù, a comportarci da veri cristiani. Battezza i non battezzati e celebra i matrimoni; raccomanda di insegnare ai nostri figli lingua, usi e costumi della terra d’origine.

I o cerco di rispettare le regole della mia chiesa per ciò che riguarda digiuno, confessione e comunione; mio marito e i figli seguono le norme cattoliche. Siamo una famiglia ecumenica, e io prego con tutto il cuore che un giorno le nostre chiese si uniscano superando le divergenze dogmatiche.

Snezana petrovic




Serbia – I patriarchi tra re e dittaori

I serbi cominciarono a diventare cristiani nell’VIII secolo, ma solo nel XII tutti accettarono la religione cristiana. Quando, nel 1054, la chiesa cristiana si spaccò (diventando cattolica ad Occidente e ortodossa ad Oriente), in un primo momento il governatore serbo Mihailo Vojislavic riconobbe il papa come capo supremo della chiesa e il papa lo premiò con l’arcivescovado indipendente di Bar.
Anche il grande Nemanja, il personaggio con il quale comincia la storia del regno serbo, fu battezzato con il rito occidentale. Successivamente, egli accettò la religione ortodossa che diventò la religione del suo popolo. Mantenne però sempre buoni rapporti con il papa. Nel 1183 Nemanja diventò indipendente dall’impero bizantino e allargò i confini del suo stato. Nemanja aveva tre figli: Vukan, Stefan e Rasko.
Rasko si fece monaco col nome di Sava e nel 1219 fondò la chiesa autocefala serba, di cui fu il primo vescovo. Anche Nemanja diventò monaco con il nome di Simeon; trascorse la fine della sua vita nel monastero di Hilandar sul monte Atos, dopo aver lasciato il suo secondo figlio a governare.
Il figlio maggiore, Vukan, spinto dalla gelosia e dall’invidia per la decisione del padre, promise al papa Innocenzo III (1198-1216) di proclamare la religione cattolica religione ufficiale dello stato serbo, se l’avesse aiutato a prendere il potere. Con l’aiuto del papa, nel 1202 Vukan raggiunse lo scopo e tutta la chiesa serba fu sottomessa a Roma.
Ma il potere di Vukan durò poco, perché Stefan ridiventò sovrano della Serbia. Anch’egli diventò amico del papa, che lo proclamò re. Però il papa perse l’influenza sulla chiesa serba, che toò ad essere ortodossa.
I due fratelli in lotta furono riconciliati dal fratello Sava, che con il suo lavoro diplomatico e illuminato, diventò il personaggio più importante della storia serba. La chiesa lo proclamò santo e il 27 gennaio di ogni anno si celebra santo Sava.
Il figlio di Stefano, Dusan (1331-1355), fece della Serbia lo stato più potente dei Balcani e la chiesa diventò patriarcato. Il codice di Dusan fu il più famoso di tutto il Medioevo. Dopo Dusan, la Serbia perse la sua potenza, ma tutti i sovrani erano molto religiosi e costruivano chiese e monasteri, dei quali la maggior parte si trova nell’attuale Kosovo. I monasteri erano centri dell’istruzione, dell’arte e della cultura serba.
In Kosovo, dopo la famosa battaglia di Kosovo Polje del 28 giugno 1389, la Serbia perse la sua indipendenza, cadendo per 5 secoli sotto il dominio musulmano dei turchi ottomani. La popolazione cominciò a spostarsi verso nord. Lo spostamento più grande avvenne alla fine del XVII secolo, guidato dal patriarca Arsenije Caojevic.
Al nord i serbi ricevettero molti privilegi dall’impero austro-ungarico, a patto che difendessero i confini dell’impero dai turchi. Così Krajina, Slavonia e Vojvodina divennero roccaforti dell’impero, con una maggioranza di popolazione serba. Però la popolazione fu, fino al XIX secolo, sotto la pressione dei vescovi cattolici.
Nel 1878, con la pace di Berlino, la Serbia diventò di nuovo indipendente, grazie alle rivolte e al lavoro diplomatico di Milos Obrenovic. E nel 1882 diventò regno con la dinastia Karagiorgevic. La chiesa ebbe un ruolo importante.

T ra le due guerre mondiali tutti i re serbi ebbero un grande rispetto per la chiesa. Il re doveva essere benedetto dal patriarca.
Dopo il secondo conflitto mondiale, con la vittoria del comunismo, anche se formalmente era riconosciuta la libertà di religione, tutte le forme di religiosità furono combattute con una fortissima propaganda. La sorte peggiore toccò proprio alla chiesa ortodossa.
Le terre e ricchezze della chiesa furono espropriate dallo stato. Non c’era più l’insegnamento della religione nella scuola e chi andava in chiesa difficilmente poteva trovare lavoro. Per lavorare, era necessaria «l’attitudine morale-politica»: e questo voleva dire essere ateo. Il marxismo diventò la nuova religione, che entrò nelle scuole. Marx, Engels, Lenin e Tito erano i nuovi dèi.
Era nata e cresciuta una generazione di non battezzati, senza alcuna educazione religiosa, diventando a loro volta genitori di un’altra generazione senza fede.
Dopo Tito, con l’aumentare della crisi economica, cominciò lentamente il risveglio religioso della popolazione.
Nella Serbia di Milosevic non si lavora a natale e pasqua: questa è l’unica concessione ai credenti. Nelle scuole non si insegna religione e i matrimoni celebrati in chiesa debbono essere ripetuti in municipio per essere legali.
S.Pe.

Snezana Petrovic




kinshasa (Congo R. D. ) – Pelle a rischio

Nella spirale di violenza che ha insanguinato
la capitale della Repubblica Democratica del Congo padre Stefano ha condiviso con la gente rischi e pericoli, fino a sentire un mitra puntato alle tempie.
La presenza dei missionari continua
a infondere nella popolazione semi di speranza.

L a chiamano «guerra mondiale africana». Tra paesi e gruppi ribelli si contano 19 soggetti in stato di guerra. È stato firmato un documento di «cessate il fuoco» tra l’esercito di Kabila e quello dell’Uganda e Rwanda, ma si continua a sparare. I gruppi ribelli continuano a frammentarsi e boicottare gli sforzi di pace, rivendicando fette di territorio e potere.
Tra le varie aggregazioni, quella di «Bemba» riscuote le maggiori simpatie da parte della gente. Figlio di un ministro di Mobutu e ancora al governo con Kabila, Bemba è diventato a poco a poco uno degli uomini più ricchi del Congo, padrone di quasi un terzo del paese. Anche lui rivendica la sua fetta di potere.
Tre quarti del territorio nazionale sono controllati da eserciti stranieri e forze ribelli. Troppi interessi sono in gioco e la guerra potrebbe durare molti anni. Alla fine il vecchio Zaire potrebbe essere smembrato in tre stati indipendenti. E sarebbe il male minore.
UNA CITTÀ ARRABBIATA
La situazione economica e sociale è allo sfascio. Kinshasa, capitale del Congo, fa paura: 8 milioni di abitanti cercano di sopravvivere in condizioni di precarietà. Non c’è lavoro. Chi ha un impiego non viene pagato, come maestri e professori, che continuano a insegnare per non perdere il posto.
Per la penuria di benzina i trasporti sono allo sbando: tanta gente fa a piedi 6-7 km al giorno per raggiungere il posto di lavoro, con la prospettiva di non essere pagata. Il denaro non circola; eppure la vita continua, per una sorta di miracolo cittadino, dove ognuno s’inventa un modo di sopravvivenza.
La gente è arrabbiata contro Kabila: in più occasioni gli ha tirato i sassi. Cacciato Mobutu e raggiunto il potere con l’aiuto di rwandesi e ugandesi, il nuovo presidente aveva suscitato grandi aspettative, finendo per scontentare tutti, a partire dagli alleati. Ritenendoli ormai troppo ingombranti, Kabila pensò di sbarazzarsene prendendoli a calci, innescando così una guerra che ha ripiombato il paese nel caos e, all’inizio dell’agosto 1998, ha affogato in un bagno di sangue la capitale congolese.
In quei giorni, al colmo della rabbia, la gente ha sfoderato gli istinti più bassi della sua umanità, iniziando una feroce «caccia ai ribelli» e divertendosi nel bruciarli vivi: un copertone attorno al collo, inzuppato di benzina, un fiammifero… e lo spettacolo era assicurato!
La fobia del «ribelle» aveva sparso la voce che le spie nemiche si fossero infiltrate in Kinshasa travestite da dementi: persone malvestite che si aggiravano per la città, barboni e vagabondi sorpresi a rovistare tra le immondizie, tutta gente ignara dell’esistenza di una guerra, furono scambiati per spie e bruciati vivi.
La psicosi collettiva sembrava cancellare ogni senso d’umanità: si giunse a misurare il naso della gente, per decidere se uno era o meno un ribelle ugandese, e ad assassinare amici e conoscenti sospettati di collaborazionismo. Perfino le treccine legate ai capelli furono sospettate di essere veicolo per portare i messaggi al nemico: tale moda scomparve dalla circolazione in un baleno.
Ho visto scene da fare accapponare la pelle. In alcuni casi sono intervenuto, rischiando grosso, per salvare qualche vittima di tanta follia; ma ho ottenuto solo che il condannato non venisse sacrificato sotto gli occhi dei bambini.
TRE GIORNI DI FUOCO
I momenti più drammatici iniziarono quando gli ugandesi si organizzarono per conquistare Kinshasa e cacciare Kabila. Una parte dell’esercito ribelle si attestò sulla collina di Mont Ngafula, dove ci sono la nostra parrocchia e il seminario filosofico. Rimanemmo per una settimana alla mercé di 3.000 militari ugandesi, mentre i soldati di Kabila erano fuggiti per organizzare la difesa.
Bisognosi di cibo e medicine, i ribelli cominciarono a visitare conventi e fattorie della zona. A fae le spese erano soprattutto le galline. Vennero anche nelle nostre case e, devo confessarlo, si comportarono correttamente. Ci dissero di stare tranquilli, perché ce l’avevano solo con Kabila. Chiedevano da mangiare e medicine; poi se ne andavano.
Prima che scoppiassero le ostilità, pensammo bene di mandare studenti e suore nel seminario teologico verso il centro città, a una ventina di chilometri da Mont Ngafula. Per percorrere quel tragitto di una quindicina di minuti in auto, fratel Paolo Ferrari e padre Giovanni Torres, che accompagnavano gli studenti e le suore, impiegarono più di tre ore. Dovettero superare 25 sbarramenti militari e ogni volta bisognava scendere dall’auto, aprire le borse, identificarsi e sottoporsi a interrogatori.
Anche per me, rimasto a custodire la casa con tre seminaristi, quel viaggio fu un autentico calvario. In costante contatto telefonico con padre Vincenzo Mura, direttore del seminario teologico, mi sentivo morire dentro e mi domandavo cosa fosse loro capitato.
Il 2 agosto 1998 cominciò l’offensiva. La gente del quartiere era terrorizzata e non sapeva cosa fare. Gli uomini erano fuggiti per paura di essere presi dai soldati; donne e bambini, rimasti soli, si rifugiarono nella nostra casa. Condividemmo quel po’ di riso e quant’altro rimaneva delle scorte del seminario. Un gesto di solidarietà che è stato ampiamente ripagato: in seguito la gente ci ha aiutato, soprattutto vigilando sulla nostra casa, affinché non diventasse oggetto di rapine e saccheggi.
Per tre giorni, tappati in casa, sentivamo le pallottole fischiare senza interruzione e senza sapere cosa capitasse fuori. Nessuno fiatava. La notte, poi, senza luce elettrica, tensione e paura diventavano palpabili. Dovendo comunicare a Roma la nostra situazione, accendevo un piccolo generatore che, essendo alquanto rumoroso, spegnevo al più presto possibile, per non attirare l’attenzione, limitandomi a trasmettere le notizie essenziali e in modo telegrafico.
LA FUGA
Quando si sparse la notizia che i soldati di Kabila avrebbero bombardato Mont Ngafula, la gente cominciò a fuggire all’impazzata verso il fondovalle. Mi convinsi che non valeva la pena rischiare la pelle per restare a guardia della casa. Infilai i documenti essenziali in uno zainetto e raggiunsi la gente che sciamava.
Tutto avvenne in maniera improvvisa e precipitosa, da non permettere alcuna pianificazione. Una fiumana di persone scendeva la collina, ciascuno tirandosi dietro i bambini, una pentola, due stracci, in una fuga frenetica e disordinata, per arrestarsi di fronte ai blocchi militari.
Ad ogni barriera mi sentivo nell’occhio del ciclone: fui minacciato e molestato più degli altri. «Perché ce l’hanno tanto con me» pensai. Forse qualcuno aveva riferito ai soldati della nostra radiofonia, usata per restare in contatto con i confratelli del nord, e del telefono, che ci permette di comunicare con l’estero. Di conseguenza potevo essere sospettato di complicità con i ribelli e, soprattutto, di seminare zizzania, diffondendo all’estero notizie false sul paese.
In uno di quei blocchi non ricordo cosa sia successo: mi trovai inginocchiato per terra, con un mitra puntato alla testa. Un soldato urlava contro i bianchi, colpevoli di avere alloggiato i ribelli. «Voi preti, soprattutto, avete aperto le chiese e accolto i ribelli». Era vero. I soldati ugandesi erano entrati nelle nostre chiese. Cosa avremmo potuto fare contro 3.000 soldati armati fino ai denti?
Col mitra puntato alle tempie, dapprima rimasi muto per l’incredulità; poi stordito e pieno di paura; infine chiusi gli occhi e mi sentii pervaso da una grande pace. Non so quanto tempo restai in quella posizione: un minuto o un’eternità. Ricordo solo che, quando riaprii gli occhi, non vidi più nessuno attorno a me. Mi alzai di scatto e rincorsi la gente, sentendomi risuscitato.
Rimasi nel fondovalle per tre giorni. Avrei potuto raggiungere il seminario teologico verso il centro città, ma preferii restare con la gente, accampata sulla strada, senza acqua né cibo, con i bambini che piangevano.
I cannoni sparavano contro la collina. Non fu difficile inventare qualche battuta scherzosa per sdrammatizzare e raffreddare la tensione. In un momento di calma, raggiunsi un convento di suore e telefonai a Roma per rassicurare i superiori che confratelli, seminaristi e suore erano tutti al sicuro.
La domenica, cessato il bombardamento, sperimentai uno dei momenti più commoventi della vita. La gente mi circondò per dirmi: «Grazie, padre, perché sei rimasto con noi» e tante parole piene di amicizia e solidarietà. Poi arrivarono i confratelli che in quei giorni mi avevano cercato, pieni di apprensione per la mia sorte. È stato bellissimo riabbracciarsi.
IL RITORNO
La domenica pomeriggio le truppe di Kabila avanzarono verso la collina e cominciarono il rastrellamento. Gli ugandesi fuggirono nella foresta, dove furono massacrati.
La mattina seguente decisi di tornare a casa. Avevo fatto i primi passi con i tre seminaristi e alcuni amici, quando, come per incanto, la gente si accodò in massa dietro a noi. Più salivamo più la processione s’ingrossava. La fuga precipitosa del venerdì si era mutata in un rientro giornioso e pieno di speranza, tra i canti dei bambini.
Più in alto la visione era raccapricciante e l’aria irrespirabile per il fumo delle case distrutte e il fetore dei corpi bruciati e in decomposizione. Arrivati in seminario, ricevemmo la sgradita visita dei soldati di Kabila: ci derubarono di tutto, dopo averci fatto patire le pene dell’inferno.
Ci recammo in visita ai confratelli della parrocchia, che ci raccontarono la loro storia. Quel venerdì padre Fedele Crippa stava celebrando la messa, quando, al momento della comunione, i ribelli fecero irruzione nella chiesa, sparando in ogni direzione. Il celebrante rimase imperterrito, deciso a terminare la celebrazione, ma si ritrovò con la chiesa vuota: la gente, strisciando sotto i banchi, era scappata in sacrestia.
Quando i soldati si furono allontanati, i missionari si rifugiarono nella casa parrocchiale e vi rimasero intrappolati, con alcuni fedeli, per tutto il tempo del bombardamento. Grazie a Dio, erano tutti incolumi.
RICOSTRUIRE LA GENTE
DAL DI DENTRO
Tutti hanno apprezzato il fatto che siamo rimasti con loro e affrontato gli stessi rischi e sofferenze. In effetti è questo il significato principale della nostra presenza. La situazione di guerra in cui vive il paese non ci permette di fare grandi opere. È la terza volta che ci distruggono tutto e che dobbiamo ricominciare da capo. Stando con la gente, condividendone la precarietà e confusione del presente e l’incertezza del futuro, siamo un segno di speranza per un avvenire nuovo e migliore.
Tuttavia continuiamo a domandarci come possiamo essere segno più efficace per questa popolazione che, oggi più che mai, riscopre la propria religiosità e la convinzione che il futuro è nelle mani di Dio. Per aiutarla a sopravvivere, cerchiamo di stimolare e coinvolgere la gente in varie forme di collaborazione, piccoli progetti, cornoperative di lavoro e commercio. Le donne, soprattutto, giocano un ruolo di grande importanza: sono esse le più creative nella ricostruzione del tessuto sociale, organizzando, per esempio, giornate di lavoro comunitario per riparare le strade e altre strutture di comune utilità.
Al tempo stesso guardiamo anche lontano, per progettare un lavoro a lunga scadenza. A tal proposito, credo che dobbiamo dare priorità alla scuola, ormai completamente trascurata dallo stato. In un paese come il Congo, dove la corruzione è elevata a sistema di vita e di sopravvivenza, c’è bisogno di ricostruire la gente dal di dentro.
Sarà questa la sfida del futuro: formare le nuove generazioni a un maggiore senso di responsabilità, amore per la pace e il bene comune.

Stefano Camerlengo




Meno tecnologia, più spiritualità

Musica e solidarietà, un mero abbinamento pubblicitario o un sincero
interessamento per i più sfortunati? Può la musica arrivare dove altri falliscono?
Ne abbiamo parlato con due componenti dei «Nomadi», il complesso italiano
che da anni appoggia la causa del Tibet, paese schiacciato dalla dominazione cinese.
Il racconto della loro visita a Dharamsala e l’ammirazione nei confronti
del Dalai Lama, capo politico e spirituale del popolo tibetano.

Per alcuni i «Nomadi» fanno pensare ad un noto complesso pop degli anni ’60. I Nomadi, invece, continuano a esistere: producono dischi, fanno oltre 150 concerti all’anno, hanno un nutrito stuolo di fans e, ciò che più ci interessa, spendono la loro immagine a favore di molte cause e di molti popoli oppressi. Noi li ricordiamo, tra l’altro, come testimonials per la Colombia e il Caquetà nella giornata conclusiva della campagna «Non di sola coca».
Impegnati da anni a far conoscere nel nostro paese la tragedia del Tibet, conquistato ed oppresso dalla Cina comunista, i Nomadi hanno suonato nell’ottobre scorso a Milano in un concerto tenutosi in occasione della visita in Italia del Dalai Lama.

A biamo incontrato, durante le prove del concerto milanese, Beppe Carletti (tastierista e membro storico del gruppo) e Danilo Sacco (cantante e frontman).
I Nomadi sono noti anche per il loro impegno in molte attività umanitarie. Ma, tra le tante cause per cui lottare, perché avete scelto proprio il Tibet?
Danilo: «In generale, ogni popolo che soffre riceve la nostra attenzione. Il Tibet ci ha colpito particolarmente, perché è un polmone di cultura e fede. Se questa cultura fede andassero perdute, credo che il mondo ne risentirebbe moltissimo. E, purtroppo, questa perdita è già in atto, perché i cinesi con la loro repressione hanno distrutto gran parte dei monasteri e deportato tantissima gente.
Pur vivendo nell’epoca dei mass media, del Tibet si conosce poco e soprattutto non si sa della repressione che ha subìto e sta ancora subendo. Purtroppo, se non passa in televisione, la gente pensa che queste cose non esistano… Invece eccome se esistono: c’è un popolo che sta soffrendo da decine di anni e ci sono stati già più di un milione e 200 mila morti.
Il nostro impegno allora è questo: testimoniare ciò che sta accadendo. Noi quindi facciamo prima di tutto una campagna di informazione.
Il Tibet per noi è importante, anche perché abbiamo conosciuto sua santità il Dalai Lama, una persona che ci ha colpiti molto. Ci hanno stupito la sua dolcezza e tenerezza incredibili. Egli è il capo spirituale – e anche politico – di un popolo che è stato massacrato. Ci chiediamo sempre come faccia a mantenere la scelta per la nonviolenza, a voler seguire con il suo popolo questa strada, qualunque cosa accada. Questa è la cosa che più ci ha impressionato».
Beppe: «Già nel ’95, in occasione del disco Tributo ad Augusto (Augusto Daolio, già cantante dei Nomadi, morto per un cancro il 7 ottobre 1992, n.d.r.), abbiamo voluto devolvere gli introiti del disco a 3 associazioni: una che si occupa dei bambini palestinesi, una di un orfanotrofio a San Paolo del Brasile e la terza di bambini tibetani. Ci sembrava giusto beneficiare tre realtà così diverse e lontane. In seguito, io sono stato tre giorni in un monastero tibetano, a Sheherezed, nel sud dell’India, dove ho potuto incontrare i bambini tibetani che là erano ospiti. Tra l’altro, questa sera ci sono dei coristi che vengono proprio da Sheherezed.
Nel ’95 siamo stati tutti insieme a Dharamsala, un paese nel nord dell’India, abitato completamente da profughi tibetani. Qui abbiamo incontrato il Dalai Lama, che in quella occasione ci ha detto una cosa molto bella: cioè che la musica può fare tanto per la causa tibetana. E in effetti è vero: non è necessario suonare musica tibetana, ma quando noi saliamo sul palco a inneggiare al Tibet e alla sua liberazione, questo è qualcosa che la musica fa… Perché quello del Tibet è un popolo che ha bisogno non tanto di denaro quanto soprattutto che si sappia cosa accade.
E poi, come sottolineava Danilo, il Dalai Lama ha una spiritualità ed un sorriso grandissimi… Mi ha colpito molto quando ha detto “si deve perdonare, ma non si deve dimenticare”. È stato un incontro incredibile, di oltre un’ora, e non è comune poter avere un incontro così lungo con lui, premio Nobel per la Pace, capo spirituale e politico di una nazione.
Quando eravamo là, c’era con noi un amico carissimo, di Reggio Emilia, che subito ha detto: “Bene, possiamo organizzare una manifestazione davanti all’ambasciata cinese…”. Ma Dalai Lama ha risposto: “No! Non fate queste cose, non c’è bisogno… Noi vinceremo con il sorriso…”. E lui ti accoglie con questo sorriso che, da solo, ha la grande prerogativa di farti stare bene e di metterti a tuo agio. Non so se sia lui come persona o ciò che rappresenta, ma è così. Vale la pena di portare avanti questa causa. Noi, con la nostra musica, crediamo di poter fare qualcosa».
Danilo: «C’è un’altra frase che, secondo me, fotografa bene quello che è il Dalai Lama. Egli è soprattutto un capo spirituale, il capo spirituale dei buddisti tibetani mahayana. E proprio lui dice: “Non dovete cambiare religione. Non cambiate religione: le religioni sono tutte positive. Cambiate voi stessi!”».
Beppe: «Anche a quelli che vogliono avvicinarsi al buddismo egli dice: “È bene che lo facciate, così potete capire meglio anche la vostra religione”. Lui non vuole “rubare” fedeli alle altre confessioni. Questo è molto bello».
Danilo: «Questo è un punto da mettere in evidenza: il buddismo mahayana non ha mai cercato di fare proselitismo. Ed è bello che questo stesso principio ci sia stato ripetuto anche da Dwayne, sciamano e capo spirituale della tribù sioux dakota. Anch’egli ci ha detto: “Non dovete cambiare religione per cercare qualcosa di diverso. Per cercare una maggiore armonizzazione, cambiate voi stessi”. Lo stesso concetto espresso da due persone completamente diverse, che vivono a migliaia di chilometri di distanza».
Voi avete incontrato il Dalai Lama, siete stati a Dharamsala… Il popolo tibetano è composto in gran parte da monaci. Cosa vi ha colpito di queste persone?
Danilo: «Prima di tutto, quando si incontrano culture così lontane dalla nostra, è importante lasciare completamente a casa i preconcetti di uomo europeo. Soltanto aprendo il cuore si può riuscire a capire quello che queste persone hanno da dire. I tibetani hanno fatto una scelta opposta della nostra: noi abbiamo demandato tutta la nostra vita alla tecnologia: più tecnologia, meno spiritualità… Essi hanno fatto l’esatto opposto: meno tecnologia, più spiritualità. Di conseguenza noi siamo convinti di essere avanzati, perché abbiamo il telefonino, la macchina eccetera… In realtà poi non è così: conoscendo bene le loro opinioni e le loro idee, credo che il vero progresso sia il loro, perché progrediscono dentro e non fuori. Io sono convinto, ad esempio, che la scienza e la medicina europee si avvicineranno sempre di più a questa cultura, perché ha molto da insegnarci».
Beppe: «Noi a Dharamsala siamo stati tre giorni, e quello che ci ha colpito è stata la spiritualità che essi vivono così a fondo. E poi il sorriso che ha il Dalai Lama lo hanno tutti… Dharamsala è un paese, di circa 1.500 abitanti, popolato totalmente da tibetani. Anche se geograficamente è in India, si entra in un altro mondo. Si incontrano i monaci, che sono quasi continuamente in preghiera. La cosa bella è questa: vivono totalmente la loro spiritualità, te la trasmettono, ti fanno stare bene quando sei con loro. La spiritualità si “respira” è nell’aria, non si può fare a meno di incontrarla.
Al monastero di Sheherezed, per esempio, i monaci iniziavano la preghiera al mattino all’alba e andavano avanti fino a sera tarda, con alcuni che portavano da mangiare e bere, perché gli altri non interrompessero la preghiera. Questa è una cosa bellissima, che colpisce e fa riflettere. Insomma, ti rimane dentro».
L’incontro con una cultura così diversa può cambiare la vita delle persone?
Beppe: «Posso parlare per me. Io non so se sono cambiato. Sinceramente se dicessi “sì, sono cambiato, mi ha fatto cambiare”, sarei un bugiardo. Se sono cambiato non me ne sono accorto, anche perché il tempo in cui sono stato là è poco rispetto ad una vita. Però sono sensazioni che mi porto dentro. Anche se non sono cambiato io, può darsi che io trasmetta queste emozioni ad altri che mi ascoltano…».
Danilo: «Per me questo incontro è stato importante soprattutto perché ogni cultura, diversa dalla tua, ti arricchisce molto, se tu ovviamente tu non la rifiuti. E questo è già essenziale.
Si dovrebbe imparare ad accogliere tutte le diversità, ad avere voglia di confrontarsi. La fusione delle culture, prendendo il meglio da ciascuna, credo che sia l’unica salvezza del mondo. E la cultura tibetana è una delle più importanti e antiche. Se la salviamo, salviamo anche una parte di noi stessi».

Ugo Finardi




ETIOPIA – Crescere da rifugiati

Vivere in un campo-profughi è un’esperienza drammatica.
Ma per i bambini, cresciuti nella precarietà, c’è sempre
un modo per divertirsi. Dopo una guerra durata 30 anni,
oggi le relazioni tra Etiopia ed Eritrea sono tornate
molto tese. E i rifugiati rischiano di aumentare.

In Etiopia, la casa procura dei missionari della Consolata si trova a Makanissa, una zona della periferia sud di Addis Abeba. Questa parte della città era stata assegnata, ai tempi del negus Hailé Selassié, agli handicappati e ai lebbrosi. Ora ci vivono anche (e sono dunque nostri vicini di casa) alcune migliaia di rifugiati, provenienti da Asmara (Eritrea).
Sono i profughi della guerra d’indipendenza dell’Eritrea, che durò ben 30 anni (finì nel 1991). Arrivarono qui nel 1992 e fu loro assegnata un’area non abitata alla periferia di Addis Abeba.

L e tende delle Nazioni Unite, a poco a poco, si sono trasformate in abitazioni stabili. Insomma, la tenda fa da «casa». L’acqua viene distribuita da un serbatornio per due-tre ore al giorno e, ovviamente, c’è sempre una coda di gente per avere questo elemento così prezioso.
Quando l’acqua manca del tutto si rivolgono alla missione. Allora si fa scorrere un tubo di plastica oltre il muro di cinta del seminario e lo si collega alla pompa elettrica e al pozzo. Si chiama anche un guardiano a distribuire l’acqua e mantenere l’ordine.
Sia le famiglie che i bambini parlano correntemente due lingue, il tigrigna (lingua dell’Eritrea e del Tigrai, che i piccoli imparano dalle mamme) e l’amarico imparato dai papà, ex militari dell’esercito di Menghistu.
La condizione di essere tutti rifugiati non elimina certo i problemi «etnici». Al primo campo di Makanissa prevalevano le famiglie di lingua tigrigna, rari gli amara, oromo e sidamo. Un altro campo rifugiati a nord-est di Addis Abeba aveva invece diverse etnie. La vita là non era facile. Ci furono grossi bisticci, tanto che alla fine un numero di rifugiati fu trasferito a Makanissa; si formò così un secondo campo, in pratica la continuazione del primo, ma in condizioni più precarie, con spazio più ristretto, attaccato alla strada, e abitazioni più piccole.
Conoscere i rifugiati è stata per me una nuova esperienza. I bambini rifugiati sono quelli che danno vita al quartiere: giocano, gridano, corrono ai bordi della strada, un po’ come si vede nelle campagna. Fanno giochi tipo «la settimana» o «palla prigioniera», molto simili a quelli che giocavamo noi in Italia. La palla è sempre una vecchia calza o un sacco di plastica legato e riempito di stracci.
Diversi vengono all’oratorio di sabato e domenica. Se non hanno il tesserino di riconoscimento richiesto per entrare (sono state emesse più di mille «cards») o perché l’hanno perso o perché è caduto nell’acqua (!) o non l’hanno mai avuto, cercano di passarselo l’un l’altro da sotto il cancello, tanto il guardiano non vede…

I bambini rifugiati ti invitano sempre a visitare le loro «case». Luàm e Nebiàt, due sorelline di nove e undici anni, sono un po’ speciali a voler condurre tutte le persone importanti alla loro tenda. Sovente senti Luàm raccontare che quell’ospite straniero (che parlava solo poche parole d’inglese) o quell’abba (padre) nuovo arrivato (che non sapeva una parola di amarico) sono stati a visitare la sua capanna. La mamma prepara per gli ospiti il tradizionale caffè e talvolta i pop-co, arrostiti su una piastra di ferro; il combustibile sono rametti e foglie secche raccattati all’intorno.
Un giorno di festa, in cui ero stato invitato per il caffè, mi ero avviato verso casa, e Nebiàt venne ad accompagnarmi. Non è facile trovare la strada in mezzo al campo rifugiati. Il villaggio è diventato una micro-città con strade strettissime dei sentirnerini), che girano e si intersecano in tutte le direzioni in mezzo alle case e casette (le ex tende).
Avevamo appena girato attorno alle prime capanne, che a Nebiàt venne in mente di farmi uno scherzo: «Addio brother, io debbo tornare a casa ad aiutare la mamma». Il significato – lo capii subito – era che io mi sentissi disorientato, e trovandomi in mezzo a quel labirinto di viuzze, avrei dovuto certamente chiederle aiuto per farmi accompagnare all’uscita del campo, che tra l’altro è anche in parte cintato col filo spinato. Io però non mi spaventai: «Va bene, grazie. Io giro a destra, poi ancora a destra attorno alla capanna diroccata, poi seguo il sentirnero che va zigzagando fino alla strada principale, dove non avrò difficoltà a orientarmi. Ciao» (ciao si usa anche in Etiopia). Fra me e me pensai: qui nel campo non ci sono ladri e malintenzionati; forse avrei più paura in certe zone della città…
I bambini rifugiati provano una certa fierezza a fare da guida ad un forengi (straniero) in mezzo al loro complicato villaggio. Unico avvertimento per il visitatore: stare attento a non picchiare la testa contro i pali sporgenti dai tetti, dato che le case sono molto basse.
I bambini del campo-profughi non sono oziosi: in maggioranza frequentano la scuola elementare di Makanissa. C’è chi si industria comprando e vendendo aranci o cipolle ai bordi della strada per pochi centesimi. Ibrahim, Motekù e Samuel fanno i lustrascarpe agli incroci delle vie principali e ai capolinea dei bus. Quello del lustrascarpe è un mestiere molto diffuso tra i bambini di strada di Addis Abeba. Bisogna dire che fanno bene e da competenti il loro lavoro, veloci e con una tecnica tutta particolare. Anche la gente benestante, impiegati e funzionari, si fanno lucidare le scarpe da loro.

Un giorno vedo passare, veloci tra una capanna e l’altra, dei bambini con dei grandi vassoi. Gridano: «Komidore, komidore». Guardo cosa c’è nei vassoi e vedo dei bei «pomidori». Mi pareva che ciò che sentivo gridare avesse un suono familiare!
Parole italiane sono entrate nel loro linguaggio. Infatti vengono da Asmara, città italiana per tanti anni. Esempi: «koporta» per «coperta»; «fornello», «fuo» o «bani» per «pane». Anche alcuni nomi di persona: «Rosa» e «Fiori» (l’equivalente amarico è Abeba. Addis Abeba significa «Nuovo Fiore»).
Questa sera dalla casa regionale ho sentito gridare sulla strada: «Fiori! Fiori!». Sono loro che giocano, e una bambina si chiama appunto «Fiori».

Si vedono tra i rifugiati anche atti di generosità. Bzuayehu vive nel campo e ha il papà con un lavoro fisso. Ma potrebbe la sua famiglia permettersi un esoso affitto per una casa fuori dal campo? Poco migliore poi dell’abitazione presente? Bzuayehu parla poco, è molto intelligente e va bene a scuola. È compagna di Nebiàt. Tra gli scolari del campo è l’unica a portare i libri in uno zainetto moderno, come usano oggi gli studenti più fortunati.
Un giorno vedo Nebiàt tornare da scuola con uno zainetto per i libri. «Dove l’hai trovato?». Mi sembra impossibile che la sua famiglia l’abbia comprato: costa più di 100 birr, un lusso.
«Me l’ha regalato Bzuayehu, suo fratello ne ha portato uno da Dire Dawa». Dire Dawa è una città nell’est dell’Etiopia, dove arrivano dal mare molte mercanzie a prezzi ribassati. «Bzuayehu aveva già uno zainetto. Allora ha dato l’altro a me».

Vincenzo Clerici




Il dio dei desideri – La chiesa in Asia

Il vangelo ha varcato pure i palazzi imperiali di Cambalùc, cioè Pechino.
Non solo, ma ha raggiunto tutti i paesi dell’Asia. Con grandi difficoltà, numerosi errori e scarsi risultati.
La chiesa in Asia riafferma la scelta dell’uomo, soprattutto se povero,affidandosi alla forza e intuizione
dello Spirito, che soffia come, dove e quando vuole.

UNO SGUARDO AL PASSATO

La storia della chiesa in Asia è antica quanto la chiesa stessa. Infatti è in terra d’Asia che Gesù donò lo Spirito Santo ai suoi discepoli e li inviò sino ai confini della terra, perché proclamassero il vangelo e riunissero le comunità di credenti. «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20, 21). Seguendo il comando del Signore, gli apostoli predicarono ovunque la Parola.
Da Gerusalemme la chiesa si diffuse ad Antiochia, a Roma e oltre, raggiungendo l’Etiopia a sud, la Russia a nord e l’India a est, dove, secondo la tradizione, san Tommaso apostolo giunse nel 52 d.C.
Straordinario fu lo spirito missionario, nel III e IV secolo, della comunità siriana dell’est, avente come centro Edessa. Le comunità ascetiche della Siria rappresentarono una forza fondamentale dell’evangelizzazione in Asia dal III secolo in poi, e foirono l’energia spirituale della chiesa, specialmente durante i tempi di persecuzione. L’Armenia fu la prima nazione ad abbracciare il cristianesimo: essa si sta ora preparando a celebrare il 1700° anniversario del suo battesimo.
Alla fine del V secolo il messaggio cristiano aveva raggiunto i regni arabi, ma per molte ragioni (incluse le divisioni tra i cristiani) non si radicò fra questi popoli.
Mercanti persiani portarono il vangelo in Cina nel V secolo, e la prima chiesa cristiana fu costruita all’inizio del VII secolo. Durante la dinastia t’ang (618-907 d.C.) la chiesa fiorì per circa due secoli. Il declino della vivace chiesa in Cina, alla fine del primo millennio, è uno dei capitoli più tristi nella storia del popolo di Dio nel continente asiatico.
Nel XII secolo la «buona notizia» fu annunciata ai mongoli, ai turchi e, ancora una volta, ai cinesi. Ma il cristianesimo quasi scomparve per diverse cause: l’insorgere dell’islam, l’isolamento geografico, l’assenza di un adattamento alle culture locali e, soprattutto (forse), la mancanza di preparazione ad incontrare le grandi religioni dell’Asia.
Alla fine del XIV secolo si verificò un drammatico ridimensionamento della chiesa in Asia, eccetto nell’India del sud. La chiesa doveva attendere una nuova era missionaria. Le fatiche apostoliche di san Francesco Saverio, la nascita della congregazione di Propaganda Fide e le direttive ai missionari di rispettare e apprezzare le culture locali produssero, nel XVI e XVII secolo, risultati più positivi.
Nel secolo XIX vi fu un risveglio dell’attività missionaria e varie congregazioni religiose si dedicarono a tale compito. Fu riorganizzata Propaganda Fide; fu posto un maggiore accento sull’edificazione delle chiese locali; attività educative e caritative andarono di pari passo con la predicazione del vangelo. La «buona notizia» continuò così a raggiungere un più vasto numero di persone, specialmente tra i poveri e gli svantaggiati, ma anche tra élites sociali e intellettuali. Furono effettuati nuovi tentativi di inculturazione del vangelo, anche se non si rivelarono sufficienti.
Nonostante una plurisecolare presenza e i numerosi sforzi, la chiesa in Asia era considerata straniera e, spesso, associata alle potenze coloniali.
L’IMPULSO DEL vaticano II
Questa era la situazione alla vigilia del Concilio ecumenico Vaticano II. Grazie, tuttavia, all’impulso che esso foì, la chiesa maturò una nuova comprensione della propria missione. E si accese una grande speranza.
L’universalità del piano salvifico di Dio, la natura missionaria della chiesa e la conseguente responsabilità di ogni cristiano costituirono il quadro di riferimento di un impegno rinnovato.
Pur tra difficoltà, oggi la chiesa in Asia è inserita fra popoli che dimostrano un intenso desiderio di Dio e sa che tale desiderio può essere pienamente soddisfatto da Gesù Cristo, parola di Dio per tutte le nazioni. I padri del Sinodo per l’Asia hanno auspicato che si focalizzasse questo aspetto e si incoraggiasse la chiesa a proclamare con vigore, in parole e opere, che Gesù Cristo è il salvatore.
Lo spirito di Dio, sempre all’opera nella storia della chiesa in Asia, continua a guidarla. I tanti elementi positivi delle chiese locali rafforzano la speranza di una «nuova primavera di vita cristiana».
Solida ragione di speranza è l’incremento di laici maggiormente formati ed entusiasti, più coscienti della propria vocazione nella comunità ecclesiale. Fra questi va reso omaggio ai catechisti. Inoltre i movimenti apostolici e carismatici sono un dono dello spirito, poiché infondono nuovo vigore nella formazione delle famiglie e della gioventù.
Infine le associazioni ecclesiali, che si impegnano nella promozione della dignità umana e della giustizia, rendono tangibile l’universalità del messaggio evangelico della comune adozione a figli di Dio (Cfr. Rm 8, 15-16).
SETE DI «ACQUA VIVA»
In Asia continua il dialogo d’amore tra Dio e l’uomo, preparato dallo Spirito Santo e realizzatosi nel mistero di Cristo. In questo i vescovi, i sacerdoti, i consacrati e i laici hanno un ruolo essenziale da svolgere, memori delle parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo e mi sarete testimoni a Gerusalemme… fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8).
La chiesa è convinta che nel cuore degli uomini, delle culture e religioni dell’Asia vi sia sete di «acqua viva» (Cfr. Gv 4, 10-15), che lo Spirito stesso suscita e che solo Gesù salvatore potrà pienamente saziare.
Guidata dallo Spirito nella missione di servizio e amore, la chiesa può offrire un incontro fra Gesù Cristo e i popoli alla ricerca della pienezza della vita. Solo in tale incontro può essere trovata l’«acqua viva», cioè la conoscenza dell’unico vero Dio e del suo inviato, Gesù Cristo.
Nelle complesse realtà dell’Asia, la chiesa sa di dover disceere la chiamata dello Spirito a testimoniare Gesù salvatore in modi nuovi ed efficaci. La piena verità di Gesù e della salvezza, da Lui ottenuta per noi, è sempre un dono e mai il risultato di uno sforzo umano. «Lo Spirito ci attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8, 16-17).
Perciò la chiesa grida incessantemente: «Vieni, Santo Spirito! Invadi i cuori dei tuoi fedeli e accendi il fuoco del tuo amore!».
Con tale sentimento, i padri del Sinodo hanno individuato le principali sfide missionarie che la chiesa deve affrontare in Asia, mentre varca la soglia del terzo millennio.
L’UOMO SOPRATTUTTO
Gli uomini e le donne, non la ricchezza o la tecnologia, sono gli agenti primari e i destinatari dello sviluppo.
Pertanto il progresso che la chiesa promuove va al di là delle questioni economiche: inizia e termina con l’integrità della persona, creata ad immagine di Dio e dotata di dignità e diritti inalienabili.
Le diverse dichiarazioni inteazionali sui diritti umani e le molte iniziative da esse ispirate sono segno di una crescente attenzione a livello mondiale alla dignità della persona. Spesso, però, tali dichiarazioni sono violate nella pratica. A 50 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, molte persone sono ancora soggette a degradanti forme di sfruttamento e manipolazione, che le riducono a vere schiavitù in balìa dei più potenti, di ideologie, del potere economico, di sistemi oppressivi, della tecnocrazia scientifica o dell’invadenza dei mass media.
I padri del Sinodo sono apparsi ben coscienti della violazione dei diritti umani in tante parti del mondo; in modo particolare in Asia, dove decine di milioni di persone soffrono discriminazione, sfruttamento e povertà. Essi hanno espresso la necessità che tutto il popolo di Dio giunga alla consapevolezza della sfida inevitabile e irrinunciabile, connessa con la difesa dei diritti umani e la promozione della giustizia e della pace.
preferenza per i poveri
Nella ricerca della promozione della dignità umana, la chiesa dimostra un amore preferenziale per i poveri e senza-voce, perché il Signore si è identificato con loro in modo speciale (Cfr. Mt 25, 40). Tale amore non esclude alcuno, ma incarna una priorità di servizio testimoniata dalla tradizione cristiana.
È una caritas che abbraccia folle di affamati, mendicanti, senzatetto, privi di assistenza medica e, soprattutto, senza speranza di un futuro migliore: non si può non prendere atto di tali realtà. L’ignorarle significherebbe assimilarci al ricco epulone, che fingeva di non conoscere Lazzaro, il mendico fuori della sua porta (Cfr. Lc 16, 19-31).
Ciò è particolarmente vero in Asia, continente con abbondanti risorse e grandi civiltà, ma dove si possono trovare nazioni misere e dove oltre la metà della popolazione soffre privazioni e sfruttamento.
I poveri trovano le migliori ragioni di speranza nel comandamento di amarsi «come Cristo ci ha amati». Ma la chiesa non può non sforzarsi di adempiere, in parole e opere, il comando del Signore nei confronti dei bisognosi.
la globalizzazione
I padri del Sinodo hanno riconosciuto l’importanza della globalizzazione economica nel considerare la promozione umana in Asia.
Pur riconoscendo gli aspetti positivi della globalizzazione, hanno anche rilevato che essa si è risolta a svantaggio dei poveri per l’intrinseca tendenza a spingere le nazioni più deboli ai margini dei rapporti inteazionali di carattere economico e politico. Molti paesi asiatici non sono in grado di inserirsi in una economia globale di mercato.
Forse ancora più significativa è la globalizzazione culturale, oggi possibile con i mezzi di comunicazione: essa sta rapidamente attirando le società asiatiche in una cultura consumistica e materialistica. Ne risulta l’erosione della famiglia tradizionale e dei valori sociali che finora hanno sostenuto popoli e società.
Tutto questo rende evidente che gli aspetti etici e morali della globalizzazione devono essere affrontati dai capi delle nazioni e dalle organizzazioni coinvolte nella promozione umana.
La chiesa insiste sulla necessità di una globalizzazione senza marginalizzazione. I padri del Sinodo hanno invitato tutte le chiese, specialmente quelle dell’occidente, a far sì che la dottrina sociale della chiesa abbia il dovuto impatto nella formulazione delle norme etiche e giuridiche che regolano il mercato mondiale e i mezzi di comunicazione sociale. I leader e professionisti cattolici dovrebbero spronare le istituzioni governative e inteazionali della finanza e del commercio a rispettare tali norme.
L’antico Israele insisteva sull’inscindibile legame tra l’adorazione di Dio e la cura del debole, rappresentato da vedove, stranieri, orfani (Cfr. Es 22, 21-22): le categorie più esposte alla minaccia dell’ingiustizia. Negli ammonimenti dei padri sinodali si odono i profeti biblici: Dio vuole «l’amore e non il sacrificio». E Gesù fece sue tali parole (Cfr. Mt 9, 13).
L’appello del Sinodo per lo sviluppo e la giustizia è nello stesso tempo antico e nuovo: è antico, perché sorge dalle profondità della tradizione cristiana; è nuovo, perché tocca la situazione di moltissime persone oggi.
IL CORO DEI TESTIMONI
I programmi di formazione e le strategie sono fondamentali nella missione. Ma, alla resa dei conti, è il martirio che rivela l’essenza profonda del messaggio cristiano. La parola «martire» significa testimone, e quanti hanno sparso il proprio sangue per Cristo hanno dato la testimonianza estrema all’autentico valore del vangelo.
Nella bolla di indizione del giubileo del 2000, Incaationis mysterium, il papa scrive: «Dal punto di vista psicologico, il martirio è la prova più eloquente della verità della fede, che sa dare un volto umano anche alla più violenta delle morti e manifesta la sua bellezza anche nelle più atroci persecuzioni».
L’Asia, lungo i secoli, ha dato alla chiesa e al mondo un grande numero di martiri della fede. Da tanti angoli del continente si innalza il canto: Te martyrum candidatus laudat exercitus (Ti loda la candida schiera dei martiri). È questo il grido giornioso di quanti sono morti per Cristo nei primi secoli, come pure nei tempi recenti: Paolo Miki, Lorenzo Ruiz, Andrea Dung Lac, Andrea Kim Taegôn e tutti i loro compagni.
Come i «testimoni» di ieri, i cristiani d’oggi sono chiamati a proclamare, sempre e ovunque, niente altro che la potenza della croce del Signore.

Francesco Beardi