Le multinazionali all’assalto del mondo

«Chiquita», la multinazionale statunitense delle banane,
è riuscita a mettere in crisi l’Unione europea. I sostenitori di un sistema
fatto a misura di multinazionali affermano:
meno vincoli statali significa più libertà e di conseguenza più benessere per tutti. Ma questo proclama neoliberista crolla davanti ai fatti:
disoccupazione crescente nei paesi industrializzati, condizioni lavorative
indegne nei paesi poveri. E tutto mentre i mercati finanziari sono drogati
dalla speculazione e il cancro del debito avvelena il mondo.

C hi comanda oggi nel mondo? La risposta è chiara: comandano le multinazionali.
Le Nazioni Unite definiscono multinazionali tutte le imprese che detengono la proprietà di altre società dislocate all’estero. Per cui basta che una azienda ne possegga un’altra al di là dei confini nazionali ed è classificata come multinazionale. Le multinazionali censite nel mondo sono oltre 40 mila; forse oggi sono diventate 50 o 60 mila. Il loro numero va crescendo. La quantità di imprese che esse controllano si aggira intorno a 400 mila.
Ma, detto questo, si rischia di essere portati fuori strada, perché le multinazionali che contano davvero non arrivano a 600; qualcuno dice addirittura che non giungono a 200. Si stima che 500 multinazionali siano responsabili del 25% del prodotto lordo mondiale; quindi il potere economico si sta concentrando sempre di più nelle mani di poche strutture.
Va data anche un’altra definizione di multinazionale, legata alle dimensioni: le multinazionali sono enormi; sono così grandi che nessuna nazione contiene un numero di consumatori sufficienti ad assorbire i loro prodotti.
Si pensi a Coca Cola, Nike, Reabock, Philips Morris, Nestlé e tante altre. Ebbene, per tutte queste imprese, i confini di casa loro sono troppo stretti. Di qui la necessità di espandersi a livello mondiale, di qui la globalizzazione.
INTERESSI COMMERCIALI E LIBERTÀ DI PROFITTO
La globalizzazione è nata perché le imprese affermatesi sono multinazionali. Noi non siamo dentro ad una globalizzazione qualsiasi, ma ad una globalizzazione che ha connotati precisi, per servire interessi precisi.
Il primo interesse è commerciale: la commercializzazione dei prodotti in ogni angolo del mondo; la libertà di collocare le merci ovunque, sia a New York che a Kathmandù, a Hong Kong come in qualsiasi altro paese.
La seconda libertà che le multinazionali rivendicano è di poter trasformare ogni risorsa naturale in merce. Che si tratti di legname tropicale, minerali, petrolio o qualsiasi altra risorsa con un ruolo fondamentale per i meccanismi vitali del pianeta, ebbene le imprese multinazionali rivendicano il diritto di trasformare le risorse in merce. Vale a dire di sfruttarle, di poterle esaurire pur di ottenere dei profitti.
La terza libertà, rivendicata dalle imprese a livello mondiale, è di usare qualsiasi tecnologia, non ultima quella che scardina i meccanismi intimi della vita. Ecco allora le biotecnologie, gli organismi geneticamente modificati, la clonazione dell’essere umano.
Per ottenere questo, le imprese hanno bisogno che gli stati si mettano d’accordo su trattati precisi che garantiscano il liberismo.
PER UN MONDO SENZA OSTACOLI
Esistono alcuni organismi importanti (come l’Organizzazione mondiale del commercio), che si muovono secondo due logiche di fondo.
In primis affermano che il commercio è al di sopra di tutto. Quindi si comincia ad affermare l’egemonia del commercio sopra ogni valore sociale e ambientale. Questa è la nuova dottrina che si sta tentando in tutti i modi di affermare all’inizio del terzo millennio.
La seconda strategia è quella di fare in modo che gli stati perdano sempre di più potere.
Le multinazionali hanno bisogno di un mondo senza ostacoli. Hanno bisogno che gli stati non solo perdano la possibilità di legiferare, in modo da sottoporre gli interessi collettivi a quelli commerciali, ma addirittura che gli stati cancellino le leggi che antepongono gli interessi sociali a quelli commerciali.
Di qui l’importanza di un meccanismo giudicante nell’Organizzazione mondiale del commercio. Esso interviene qualora gli stati membri pensino che altri stiano ledendo gli interessi di una loro multinazionale. Ci sono esempi concreti.
Recentemente l’Unione europea è stata portata in giudizio dal governo degli Stati Uniti a causa di una regolamentazione nel settore delle banane. La regolamentazione europea non ledeva gli interessi degli Stati Uniti (giacché essi non sono un esportatore di banane), bensì quelli della Chiquita, che è una multinazionale di origine statunitense.
L’Unione europea è stata trascinata in giudizio e condannata. Essa si è trovata di fronte a due scelte: o mantenere la sua regolamentazione e accettare di essere sottoposta a ritorsioni commerciali equivalenti al danno inflitto a Chiquita, oppure cancellare la regolamentazione e fae un’altra.
Ovviamente l’Unione europea ha scelto la seconda strada.
LA GLOBALIZZAZIONE PRODUTTIVA
Con la globalizzazione commerciale, si è sviluppata anche una globalizzazione produttiva: il mondo intero, cioè, si sta trasformando in un unico villaggio produttivo. Questo perché le multinazionali hanno fatto un’amara scoperta.
Esse hanno scoperto che il mondo è vasto da un punto di vista geografico e demografico (siamo oltre 6 miliardi di individui), ma il numero di persone con la possibilità di comprare, all’interno del mercato mondiale, è piccolo.
In altre parole, i consumatori che hanno soldi sufficienti, per comprare ciò che il sistema produttivo (altamente tecnologico) mette sul mercato, sono molto scarsi. Il loro numero non va oltre il 30-35% della popolazione mondiale. Insomma, il numero degli «eletti» è molto piccolo. Tutti gli altri sono stati esclusi a causa di cinque secoli di colonialismo, che hanno creato una massa di poveri enorme.
Non dobbiamo dimenticare che un miliardo e mezzo di persone vive in povertà assoluta: sono quelle che vivono con meno di un dollaro al giorno. I poveri assoluti sono coloro che campano nella precarietà massima, che dormono di notte sui marciapiedi e si alzano al mattino con la loro famiglia senza sapere se mangeranno un piatto di minestra durante il giorno; non sanno se troveranno il lavoro che gli permetterà di guadagnare quel famoso dollaro al giorno. Non riescono ad offrire ai loro figli la possibilità di andare a scuola, tanto meno di comprare una medicina o di entrare in un ospedale. Non riusciranno mai a garantire a se stessi neanche l’acqua potabile.
È veramente uno scandalo enorme, che grida contro di noi e il nostro sistema economico.
Ebbene tutto questo si sta ritorcendo contro. In un mondo squilibrato, con grandi sacche di povertà, i nodi sono venuti al pettine.
PER LA DIMINUZIONE DEI COSTI
In un mercato con pochi acquirenti e tanti venditori, si scatena una concorrenza feroce tra le imprese, per strapparsi i clienti a vicenda.
Osserviamo i mercanti che vanno alla fiera del mattino. Essi pensano di essere in pochi a mettere la propria bancarella in una piazza, dove passeranno tanti clienti facoltosi; invece scoprono che le bancarelle sono molte e che la gente è tanta, ma la maggior parte è stracciona e non ha la possibilità di comprare.
Allora… con un megafono enorme si cerca di richiamare l’attenzione dei passanti. Ecco la pubblicità che incalza e assume tante forme.
Non è solo pubblicità quella in televisione o sui giornali. La pubblicità è sempre più strisciante e subdola, con numerose sponsorizzazioni: non solo sportive, ma anche sociali. Sono tantissime le società che cercano di associare al loro marchio anche entità che si contraddistinguono per la propria finalità sociale. Perfino l’Unicef si fa sponsorizzare dalle imprese!
E le imprese non fanno nulla gratuitamente. Esse non conoscono il verbo «regalare». Le imprese danno quando sanno che il ritorno è il doppio o triplo.
E, siccome sanno di essere in una società dove la sensibilità dei consumatori per alcuni problemi va crescendo, accettano volentieri di associare il loro nome a quello di enti caritatevoli. Questo perché gli farà avere un ritorno di immagine, che riuscirà ad aumentare le loro vendite.
Dopo la pubblicità, la seconda strategia per vendere è legata ai prezzi. Basta che un prodotto costi una lira di meno per attirare subito i consumatori. Poi si fanno altre valutazioni; però quella del prezzo è fondamentale.
Poiché la concorrenza è feroce, i prezzi diminuiscono: questa è una delle vie per accaparrarsi i clienti. Ma se i prezzi diminuiscono, diminuiscono pure i ricavi e i profitti. Allora bisogna trovare altre strategie che facciano sì che i guadagni rimangano stazionari o, addirittura, aumentino.
A tale scopo, le imprese si sono impegnate a diminuire «altri» costi di produzione: come al solito, ciò che ha attirato la loro attenzione è stato il mondo del lavoro. Le strategie per diminuire i costi del lavoro sono tante. Una fra tutte: la sostituzione dell’uomo con la macchina. La disoccupazione odiea è sostanzialmente tecnologica.
Si è instaurata anche un’altra strategia, soprattutto nei settori che ricorrono ancora alla manovalanza. Essa consiste nel trasferire la produzione in quelle parti del mondo dove la gente, a causa di una povertà secolare, accetta di lavorare per un tozzo di pane.
È cominciato il trasferimento della produzione in paesi come la Corea del sud, Taiwan. Poi, quando tali paesi hanno raggiunto un certo standard di vita, sono state chiuse le fabbriche là, per trasferire la produzione in Indonesia, Thailandia… E, quando anche in queste nazioni, i lavoratori reclameranno migliori condizioni di lavoro, là pure si chiuderanno le fabbriche per trasferirsi in altre parti del mondo.
Già oggi si vedono nuovi paesi di approdo, come il Vietnam e la Cina. Anche l’Africa comincia a richiamare questo tipo di produzioni. Il processo di trasferimento della produzione è continuo.
Nelle loro fabbriche di scarpe, tessili e giocattoli le condizioni di lavoro sono facilmente immaginabili: i salari sono tanto infami che non riescono neanche a garantire il soddisfacimento dei bisogni primari. In Indonesia i salari delle ragazze che lavorano nelle fabbriche di scarpe coprono a mala pena il 70% del loro fabbisogno di base.
Ci sono poi orari di lavoro lunghissimi, per tentare di guadagnare qualche spicciolo in più. Le libertà sindacali sono inesistenti e, dulcis in fundo, si diffonde il lavoro minorile, che è un compenso a situazioni in cui gli adulti non guadagnano abbastanza. In alcuni casi il lavoro minorile si trasforma in schiavitù, come ad esempio nella produzione di tappeti in India o Nepal.
La globalizzazione produttiva sta portando le condizioni di lavoro sempre di più verso il basso. Lo si vede chiaramente in Asia e America centrale. Ma anche i nostri paesi sono trascinati in questo abisso.
L’ACCORDO SUGLI INVESTIMENTI
L’esigenza di produrre in ogni parte del mondo ha spinto le multinazionali ad ottenere una regolamentazione che, ancora una volta, riconoscesse loro tutti i diritti e nessun dovere: diritti di entrare in ogni paese e di uscie, quando ne sentivano il bisogno, senza alcun obbligo nei confronti della collettività o del governo; addirittura il diritto di un trattamento migliore di quello garantito alle imprese nazionali.
Questi diritti facevano parte del famigerato «accordo sugli investimenti», che per fortuna non è passato. Si è tentato il colpo in segreto a Parigi, all’interno dell’Ocse, affinché l’economia sia gestita sempre di più in maniera liberista. Dopo cinque anni, finalmente, qualcuno ha avvistato i pericoli; e, pur facendo parte della delegazione ufficiale, ha tirato fuori la notizia e l’ha data in pasto ad alcune organizzazioni non governative.
Il clamore suscitato è stato tale che il governo francese si è ritirato, facendo crollare tutta la costruzione.
Nell’accordo c’era una clausola, legata agli espropri, che diceva: le multinazionali, che investono in un paese estero, hanno il diritto di essere rimborsate ogni qual volta vengano espropriate di attività, terre o fabbriche; non solo, hanno diritto di essere risarcite anche nel caso in cui uno stato emani una legge che, in qualche modo, comprometta le possibilità dell’impresa di vendite future.
Che cosa significa? Se una fabbrica produce una sostanza chimica dannosa e viene promulgata una legge che la proibisce, la fabbrica può fare i conti di quanto avrebbe guadagnato nei prossimi dieci anni e spedire il conto allo stato!
Non sono cose campate per aria, perché nel Nord America, all’interno dell’accordo del Nafta (stipulato tra Stati Uniti, Canada e Messico), questa clausola esiste già. Il Canada è già stato portato in giudizio per un fatto del genere. Siccome intravvedeva la possibilità di essere condannato, è arrivato a patti con l’impresa che l’aveva citato in giudizio e ha pagato 13 milioni di dollari pur di chiudere il caso.
Siamo di fronte ad una situazione in cui tutto il potere è delle imprese, e le nazioni (vale a dire la gente) hanno soltanto doveri: doveri persino di risarcire le multinazionali anche del loro mancato guadagno.
IL DEBITO
Accanto alla globalizzazione produttiva e commerciale, c’è la globalizzazione finanziaria, incominciata 30 anni fa con il fenomeno del debito dei paesi poveri.
Esso nacque perché le banche inteazionali si trovavano con una grande quantità di denaro, derivante soprattutto dai guadagni degli emiri arabi con il rincaro del petrolio. Le banche non sapevano che fare dei petrodollari, perché Europa, Stati Uniti e l’intero mondo industrializzato stavano attraversando un periodo di recessione.
Le banche, non sapendo dove collocare il denaro (esse guadagnano solo se collocano i depositi che ricevono), hanno cominciato a offrire soldi a condizioni agevolate ai governanti del Sud del mondo, prospettandogli la possibilità di usarlo per i loro sogni. Purtroppo non erano sogni che miglioravano le condizioni di vita della gente; anzi, quasi sempre erano sogni volti a rafforzare il potere personale e gli eserciti dei dittatori sparsi nel mondo.
Poi una quantità di soldi è stata sprecata per realizzare «cattedrali nel deserto», progetti che non avrebbero prodotto niente, ma che servivano esclusivamente per fornire appalti alle imprese del Nord. E queste ricompensano i governanti con laute bustarelle, alimentando una paurosa corruzione.
Il debito scellerato non è stato contratto per consentire alla gente di vivere meglio, per fare investimenti produttivi e sociali, ma per rafforzare posizioni di potere.
Intanto, finita la fase dei tassi agevolati, gli interessi sui prestiti hanno incominciato a salire. Il debito è cresciuto a dismisura. I paesi, non riuscendo a pagare le rate, sono stati costretti a chiedere altri prestiti e il debito è aumentato come una valanga. Oggi siamo arrivati a circa 2.500 miliardi di dollari di debito complessivo.
Ogni anno i paesi del Sud versano alle casse del Nord qualcosa circa 290 miliardi di dollari: sono sudore della gente, sono materie prime che passano gratuitamente dal Sud verso il Nord, anno dopo anno.
Se si vuole guadagnare da un paese, basta indebitarlo. Il debito è un meccanismo scientifico, studiato a tavolino, proprio per avere un travaso di risorse dal Sud verso il Nord.
IL RICATTO DELLE ISTITUZIONI
La scelleratezza è diventata via via più immane. Le istituzioni inteazionali concedevano nuovi prestiti ai paesi indebitati, ponendo condizioni ben precise: «Noi ti diamo un ennesimo prestito, a patto che tu ristrutturi l’economia nazionale esclusivamente per ripagare il debito».
La logica che sta sotto è semplice. Cosa chiede una persona a un suo debitore? Di lavorare tanto e tirare la cinghia, in modo che egli avanzi una quantità sufficiente di risorse per restituire il debito. È questa la logica che applica il Fondo monetario internazionale.
Non c’è niente di complicato quando si parla di «aggiustamento strutturale» dell’economia per favorire il pagamento del debito. In base a questa logica, i paesi del Sud sono spronati a fare sempre di più man bassa delle loro risorse, a sfruttare maggiormente il lavoro dei loro popoli, a orientare la loro economia verso l’esportazione. Infatti solo così si procurano i dollari per restituire il debito.
Il meccanismo infeale implica, nel contempo, una drastica riduzione dei bilanci pubblici: meno fondi per il pubblico significa più soldi per ripagare il debito. Ecco, allora, che vengono tagliati i sussidi a sanità, istruzione, alimentazione: insomma tutte le spese sociali.
Sicuramente, però, i risparmi non vengono fatti sulle spese destinate agli armamenti, che (guarda caso) si comprano da noi.
Questa è la logica dell’«aggiustamento strutturale». Oggi la gente del Sud del mondo sta morendo, intrappolata nel sistema diabolico descritto.
LA SPECULAZIONE FA MALE AI LAVORATORI
Nell’ambito della globalizzazione finanziaria trova sempre di più spazio la speculazione sui cambi delle valute e sul valore dei titoli.
La finanza sta andando in questa direzione per due ragioni. In primo luogo, perché i tassi di interessi sono diminuiti considerevolmente e, di conseguenza, non c’è più stimolo a depositare il denaro in banca o acquistare titoli di stato.
L’altra ragione è che si stanno rafforzando nuove istituzioni finanziarie, ancora una volta legate alle scelte liberiste dei governi. Quanto più lo stato rinuncia al suo compito in ambito sociale, tanto più esso viene assorbito da istituzioni private che, naturalmente, hanno bisogno di guadagnare. Si tratta, in particolare, di società che gestiscono i fondi pensione e delle assicurazioni.
Poiché le istituzioni private devono mostrare ai loro clienti che sanno far fruttare i soldi, mettono in atto strategie che puntano al profitto immediato. Un miliardo e mezzo di dollari transita ogni giorno da un computer all’altro per tentare di guadagnare sulle variazioni delle valute straniere e sul valore dei titoli azionari!
Due anni fa, in Thailandia, la borsa crollò del 10-15% dall’oggi al domani, mettendo in moto un processo di recessione che provocò il licenziamento di migliaia di persone. Occorre essere più consapevoli del fatto che l’economia finanziaria si ripercuote su quella reale. Dunque, sulla vita quotidiana della gente comune.

Francesco Gesualdi




NAIROBI (KENYA) – «Polepole»… entra in episcopio

Anthony Ireri Mukobo,
primo missionario
della Consolata kenyano
e vescovo ausiliare
di Nairobi dal 18 marzo,
è entrato in servizio
in punta di piedi,
ossia «polepole».
Una vita semplice la sua,
ma con un’idea chiara della nuova responsabilità:
imprimere maggiore spirito missionario
alla chiesa del Kenya.

È la prima volta. Non mi era mai capitato di intervistare un nuovo vescovo africano. Temevo che il compito non mi sarebbe riuscito, sia per la mia mancanza di esperienza, sia per la naturale circospezione dell’interessato. Invece tutto è filato liscio, con soddisfazione per entrambi.
Seduti attorno ad un tavolo, monsignor Anthony Ireri Mukobo, missionario della Consolata, consacrato vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Nairobi (Kenya) il 18 marzo scorso, mi ha raccontato la sua storia in modo semplice e cordiale.
È una storia che non ha nulla di straordinario, ma profondamente intessuta dell’eroismo del dovere quotidiano e della ricerca serena della volontà di Dio.
Ve la offro come il protagonista me l’ha raccontata.
Non cristiano
fino a 16 anni
Sono nato il 23 settembre 1949 in un piccolo villaggio chiamato Mufu, nei dintorni di Kyeni. Mio papà seguiva la religione tradizionale. È voluto diventare cattolico soltanto dopo la mia ordinazione sacerdotale. Io stesso ho avuto la grande gioia di battezzarlo, con il nome significativo di Paolo. Mia madre Maria, invece, era cattolica. È morta quando ero bambino. Ho due fratelli e due sorelle maggiori di me. Il papà è morto mentre mi trovavo missionario in Colombia.
Io non ero ancora cristiano quando frequentavo la scuola elementare a Kyeni e poi la Kangaru secondary school di Embu. È stato alla fine del ciclo scolastico che ho deciso di entrare nella chiesa cattolica: ho frequentato per due anni il catecumenato e, nel natale del 1965, padre Livio Tessari mi ha battezzato nella parrocchia di Kyeni.
Approfondendo la mia fede e vivendo con i missionari, sentivo sorgere in me il desiderio di diventare sacerdote, stupito com’ero dalla vita che conducevano queste persone venute da lontano. Avevano lasciato tutto e tutti per evangelizzare e rendere migliore la mia gente, sia a Kyeni sia nelle missioni vicine.
All’inizio non li conoscevo bene; ma mi impressionavano molto per dedizione, spirito di sacrificio e disponibilità giorno e notte. Oltre a padre Livio, ricordo con riconoscenza i padri Giuseppe Maggioni e Bruno Porcu. Quest’ultimo lavorava molto bene nella promozione spirituale e sociale tra la gente di Kyeni.
Verso il termine delle scuole secondarie ho manifestato il desiderio di diventare sacerdote al padre Angelo Dwera, incaricato per la pastorale vocazionale del seminario di Nyeri. Ma i parenti non erano molto contenti della mia decisione.
Intanto, però, la Provvidenza mi apriva un’altra strada facendomi incontrare padre Giuseppe Demarie. Questi, con pazienza e saggezza, mi spiegava le diversità tra il prete diocesano e il religioso-missionario. Mi raccomandava di chiedere luce al Signore nella preghiera.
Un kenyano
in Colombia
Finita la scuola, ho scelto di diventare anch’io come uno dei missionari che avevo conosciuto. Molti sacerdoti diocesani e studenti del seminario di Nyeri hanno cercato di dissuadermi, dicendo: «Un giorno te ne andrai e ci lascerai, mentre qui c’è tanto lavoro!». Ma la chiamata alla missione era più forte di me. Così ho fatto domanda di entrare tra i missionari della Consolata e sono stato accolto nel seminario di Langata (Nairobi). Era il 1972.
Eravamo in otto. Frequentavamo i corsi di filosofia nel vicino seminario diocesano di St. Thomas Aquinas. Al termine degli studi, nel 1974 entrai in noviziato. Ma ero rimasto solo. Gli altri avevano lasciato.
L’anno di noviziato è stato determinante per la mia vita. Avevo il maestro, padre Luigi Tempini, tutto per me: sotto la sua guida ho conosciuto lo «stile» dei missionari della Consolata, ho sciolto dubbi e difficoltà e sono entrato «ufficialmente» nella nuova famiglia.
Finiti gli studi di teologia ho esercitato per un anno il diaconato a Karima e il 5 gennaio 1980 sono stato ordinato prete a Nairobi da monsignor Njiru Silas, vescovo di Meru.
H o vissuto le prime esperienze di sacerdote nella parrocchia di Kyeni e Karima, dove ho lavorato per due anni. Poi sono stato inviato a Roma, per frequentare il pontificio istituto di spiritualità Teresianum.
Nel 1983, conseguita la licenza in spiritualità, sono partito per le missioni della Colombia. Gli inizi sono stati difficili: l’impatto con una nuova lingua e cultura è stato faticoso.
La gente non era abituata a vedere un sacerdote nero. Più di una volta ho raggiunto a cavallo varie comunità sconosciute per celebrare la messa, ma la gente continuava ad aspettare il sacerdote. Si accorgeva che ero io soltanto quando avevo indossato i paramenti…
Superate a poco a poco le difficoltà, si è creato un clima amichevole. Sono rimasto in Colombia sette anni, lavorando nel Caquetá (Puerto Rico), nel Cauca (El Tambo) e a Manizales come incaricato della pastorale vocazionale.
Richiamato in Kenya, sono stato destinato al seminario filosofico di Langata, addetto alla formazione dei seminaristi (1991-93). Poi sono nuovamente ritornato al lavoro pastorale, prima come viceparroco a Timau e poi come parroco a Karima (1995).
Insegnavo anche missiologia e spiritualità nel seminario maggiore di Nyeri.
Per una chiesa africana
più missionaria
Tutto ciò fino a quando mi è arrivata la nomina a vescovo ausiliare di Nairobi.
Ora inizia una nuova fase della mia vita. L’arcidiocesi di Nairobi ha problemi immensi. Una grossa croce mi è caduta sulle spalle. Ma, come ogni altra incombenza precedente, è una croce che viene dal Signore: Egli mi darà anche la forza per portarla. Spero di trovarmi bene e di aiutare con tutte le energie l’arcivescovo, monsignor R. Ndingi.
Cosa farò adesso? Prima di tutto, sarà necessario sedersi attorno ad un tavolo con l’arcivescovo, l’altro vescovo ausiliare, D. Kamau, e i diversi incaricati della pastorale, sacerdoti e laici, per pianificare il lavoro e camminare insieme.
Il fatto che io sia missionario della Consolata è molto positivo: i confratelli in Kenya non mi faranno sentire solo. Essi continueranno a essere la mia famiglia.
Penso, inoltre, d’impegnarmi per infondere lo spirito missionario nella chiesa locale, affinché alcuni sacerdoti e laici diventino evangelizzatori in altri paesi del mondo, come 99 anni fa i missionari della Consolata. Sono partiti da Torino per venire ad evangelizzare il Kenya…

G razie, monsignor Anthony, per la sua disponibilità. Auguri sinceri per il suo nuovo e non facile lavoro missionario.

Achille Da Ros




BURUNDI – Severin si sveglia ll’alba

A spiegare la divisione etnica si rischia sempre
di cadere in facili
schematizzazioni:
gli hutu-agricoltori contro i tutsi-allevatori, i primi in maggioranza
ma senza potere,
i secondi privilegiati
dai colonizzatori.
Ma la divisione è reale
e si riproduce anche
nella chiesa locale.
Dicono molti burundesi: «Noi siamo figli
della nostra terra,
prima siamo hutu e tutsi
e poi cristiani».
Per capire di più,
abbiamo seguito Severin, di professione catechista, lungo le strade
del piccolo e martoriato paese africano.

Come ogni mattino Severin Ndikundana si sveglia all’alba. Alle cinque il sole sta già sorgendo sulle colline del Burundi e i contadini, da sempre, scandiscono il ritmo delle loro giornate sulle ore di luce. Severin saluta la moglie e i figli e parte, a piedi, percorrendo le scorciatornie che lo porteranno dopo una decina di chilometri, dalla sua collina, nei pressi di Gishora, alla seconda città del Burundi: Gitega.
Severin è uno dei catechisti dell’antica parrocchia di Rukundo (amore, in kirundi), che, trovandosi ai margini della città, copre un vasto territorio circostante. I fedeli sono i contadini dell’interno più che la gente di Gitega.
È catechista dal 1980, mostra orgoglioso il tesserino della diocesi sul quale sono riportati i suoi dati e il giorno di inizio del servizio. Perché sei diventato catechista? «Per vocazione» risponde con molta semplicità. Magro, con il volto scavato, osserva con due occhi intelligenti. Difficile definire la sua età, ma in un paese dove la speranza di vita è di 43 anni, lui è sicuramente considerato un anziano. Quindi, in Africa, un saggio.
«Diventare catechisti è una vocazione. Bisogna, però, frequentare dei movimenti cattolici da giovani per stimolarla».
Severin insegna religione in una scuola elementare, segue i catecumeni per prepararli al battesimo, impartisce una formazione di due mesi a chi si è allontanato dai sacramenti e vuole riconvertirsi. Come altri catechisti è coinvolto in attività di alfabetizzazione: insegna a leggere, scrivere e contare agli adulti che non hanno potuto frequentare la scuola.
A Rukundo ci sono 28 catechisti «ufficiali», che svolgono questa attività come lavoro, in cambio di un piccolo salario. Altri 121 sono gli aiuto-catechisti volontari. I primi si incontrano ogni venerdì mattina per seguire la formazione, aggioarsi e scambiarsi impressioni.
LA CHIESA, SPECCHIO DELLA SOCIETÀ
Il paese sta attraversando una crisi che si trascina dal 21 ottobre 1993, all’indomani dell’assassinio del neopresidente (il primo democraticamente eletto) Melchior Ndadaye. Le elezioni avevano segnato una svolta portando al potere un partito a maggioranza hutu. Più di sei anni di guerra civile, causata dalla lotta intea per il potere e influenzata dall’instabile situazione geopolitica regionale dei Grandi Laghi. Un conflitto con evidenti connotazioni etniche, che ha causato, oltre ad alcune centinaia di migliaia di morti e più di un milione di sfollati e rifugiati, la catastrofe economica del piccolo paese centrafricano.
«La chiesa del Burundi è lo specchio della società» si sente spesso dire, e la società burundese è attraversata, oltre che dalle divisioni economiche e di potere, anche dalla problematica etnica. «La questione etnica non è compresa dall’opinione pubblica straniera» spiega un missionario esperto in comunicazioni sociali, che chiede di mantenere l’anonimato (perché in Burundi nessuno parla e chi accetta di farlo non vuole essere citato). «Viene spesso assimilata alla divisione in partiti politici e catalogata in categorie chiuse, mentre ha assunto un significato molto più… sentimentale». Bisogna esaminare le componenti culturali e storiche, ci spiega. Le culture di base degli allevatori (tutsi) e degli agricoltori (hutu) non delimitavano una divisione così netta tra le due etnie.
L’imposizione di una struttura estea (quella coloniale) che si appoggiava di più a un gruppo (i tutsi), foendogli educazione e dandogli peso economico e infine politico, è stato uno shock culturale e ha enfatizzato il problema. Così da un complesso tessuto socio-politico, composto da clan, lignaggi e discendenze regali, il colonialismo ha realizzato una tremenda semplificazione storica banalizzando la divisione in due gruppi precisi: hutu e tutsi.
La mancanza di una cultura della condivisione del potere ha fatto il resto.
CLERO INDIGENO E CLERO COLONIALE

Per un altro religioso, burundese, si può parlare di un vero cristianesimo coloniale: «Nel catechismo veniva insegnato che, incontrando per strada il parroco e il capo villaggio, il curato doveva essere salutato prima».
Con l’indipendenza (1962) si è costituito un clero «indigeno», che ha subito puntato a rimpiazzare i missionari e ad ottenere una posizione politica, mentre restava un clero «coloniale», che cercava di resistere. Si creò questa ambiguità in seno alla stessa chiesa; ambiguità che oggi ereditano religiosi, preti e vescovi.
«Gli avvenimenti del ’72 (massacri a sfondo etnico) consacrano la divisione in tre chiese – sostiene il nostro interlocutore -; oltre a quella coloniale (missionaria, ndr.), il clero indigeno si posiziona sui due gruppi etnici e di colpo la chiesa ha l’immagine del paese traducendone esattamente gli stessi conflitti sociali». È Bagaza (1976-’87) che rompe il meccanismo togliendo potere alla chiesa, ma con Buyoya (presidente dal 1987 al 1993 e poi dal ’96 a oggi) si ritorna a un matrimonio ambiguo tra chiesa e stato.
SPIRITUALITÀ ANCESTRALE
Una società che, secondo un missionario belga, «dal ’62 si bagna nella violenza, e così anche i cristiani. Una vera strategia politica». Il religioso vede una chiesa di massa, «sacramentale», nella quale cioè si da molta importanza ai sacramenti nella loro esteriorità, ma che ha poco impatto sulla trasformazione della società. Basta guardare le statistiche dei battesimi e l’assidua frequentazione delle messe.
«Non c’è corrispondenza tra la fede che deve determinare comportamenti di misericordia, di tolleranza, e le azioni del cristiano». C’è poi ancora molta sovrapposizione con il magico, le credenze tradizionali.
Anche il padre burundese è d’accordo: «La chiesa non è mai stata una parte integrante della nostra cultura, ma sempre qualcosa di esterno. Non c’è mai stato niente che ci abbia fatto identificare in essa». Questa è una caratteristica comune a tutta l’Africa, dove l’evangelizzazione si è innestata su una cultura che aveva già una spiritualità profonda. Spiritualià il più delle volte negata e proibita (come nel caso del Burundi). Il cristiano africano mantiene questa ambiguità, in cui spesso i valori ancestrali, come quelli di appartenenza, sono più profondi di quelli del vangelo. «Noi siamo figli della nostra terra, prima siamo hutu e tutsi e poi cristiani» si dice in Burundi.
C’È CHIESA E CHIESA
Il capannone scuro della parrocchia di Rukundo è ancora trabordante di persone alla terza messa domenicale. Vi saranno almeno un migliaio di fedeli, stipati su dei piccoli banchi costituiti da un asse inchiodato su due sostegni. In fondo, lontanissimo, su un’alta base di cemento, siede il sacerdote. Dietro di lui un ampio altare e, sul muro, un grosso tamburo in bassorilievo, simbolo del potere regale, che ospita il tabeacolo. La messa in kirundi (la lingua del popolo barundi) dura circa due ore. La maggior parte dei presenti vive sulle colline, anche a molti chilometri di distanza. Sono venuti in città per il mercato e la messa. Spesso sono scalzi o portano consumate ciabatte infradito. Le donne sono avvolte in sgargianti tessuti, hanno in testa il tipico foulard colorato e portano il figlioletto sulla schiena.
Diversa è l’atmosfera alla parrocchia del Buon Pastore, nel cuore del quartiere dei funzionari. Il locale è più piccolo, ma c’è meno gente e non si sta accalcati sugli ampi banchi con inginocchiatornio. C’è anche la messa in francese. Rare sono le donne in vestiti africani. Normalmente qui si sfoggia l’ultimo abito all’europea acquistato in capitale e l’elaborata acconciatura che obbliga le signore a intere giornate dal parrucchiere. Anche i bambini hanno le scarpe lucide. La messa dura solo un’ora. I volti sono diversi: sembra di essere in un altro paese. Ma anche qui dietro all’altare c’è un tabeacolo a forma di tamburo.
Cyprien lavora assieme a Severin alla parrocchia di Rukundo. Ha fatto un corso da catechista che dura quattro anni. Adesso svolge un anno di prova e alla fine dovrà presentare una sintesi delle attività di questo periodo, per diventare, si può dire, un catechista diplomato. «Mi piacerebbe cambiare il cuore dei fedeli – spiega -, fare in modo che aprano la loro mente e partecipino al loro sviluppo». Cyprien vorrebbe essere una guida per un reale miglioramento della vita dei cristiani. Una liberazione che passa attraverso il vangelo.
La suora che li accompagna (anch’essa burundese) è più esplicita: «Abbiamo la fede, ma non si manifesta dentro di noi. L’odio e l’ingiustizia regnano in noi, a partire dalle autorità, fino ai consacrati, e tutti i cristiani».
«Molta gente non dice la verità, ruba. Non è la carenza di cose; è il non saper vivere con quello che c’è». È una chiesa che deve convertirsi, e conclude: «Pregate perché ciò avvenga».
Cyprien ci racconta il compito più importante dei catechisti. «La domenica, nelle succursali (cappelle legate alla parrocchia, ndr) sulle colline, ci incontriamo con i cristiani e li aiutiamo in celebrazioni semplici, non eucaristiche». Fondamentali perché il sacerdote è costretto, dalla vastità del territorio parrocchiale, a visitare a tuo le comunità.
VESCOVI E PRETI LONTANI DAL POPOLO
La frattura tra il popolo e la gerarchia ecclesiastica è ancora grande. La gestione della diocesi è spesso autoritaria. «Il vescovo è un capo tribale, così i preti a livello più basso – spiega un missionario studioso di ecclesiologia -; esiste una netta separazione tra gli ecclesiastici e il popolo. I preti non vogliono perdere i loro privilegi, il loro potere». Secondo lui siamo di fronte a una chiesa pre-Concilio Vaticano II. I motivi sono anche storici, perché nel ’65 il Burundi veniva dilaniato da massacri post-indipendenza che portarono alla prima repubblica con il consolidamento del potere tutsi. Le tensioni politiche e sociali impedirono la penetrazione delle idee del Concilio.
Secondo il missionario esperto in comunicazione, invece, c’è una condivisione di responsabilità tra laici e clero. Il responsabile della commissione «giustizia e pace» della conferenza episcopale, l’addetto stampa della stessa e altre posizioni di responsabilità sono assunte da laici.
Severin e Cyprien raccontano di avere poco contatto con il loro vescovo: «Non è facile incontrarlo. Arriviamo a lui tramite la nostra responsabile. Da quando è stato nominato (marzo ’97, ndr) non è mai venuto a farci visita». Eppure alcuni vescovi burundesi sono sempre in viaggio. Passano due mesi in Burundi e uno in Europa. Lo stesso pontefice, secondo indiscrezioni, li avrebbe ripresi nell’ultima visita ad limina.
Andarlo a cercare? Troppo timore reverenziale. «L’ufficio pastorale della diocesi è come la presidenza (della repubblica, ndr) per noi. Ci andiamo solo se il parroco ci dà il permesso». In questo senso si capiscono le parole di un altro missionario: «I vescovi fanno i padroni della loro gente, non si mischiano e non soffrono con il popolo».
IL DRAMMA DEI «RAGGRUPPATI»
Nessun vescovo ha visitato, ufficialmente, uno dei cinquanta campi di raggruppamento, nei quali sono stati concentrati a forza, a partire da metà settembre, almeno 350 mila persone, sulle colline intorno alla capitale.
Atteggiamento che non è piaciuto a molti cristiani, questo «non mischiarsi nella miseria», necessario, specie per un pastore, perché siamo fatti di sentimenti, non solo di conoscenza intellettuale.
Un grido di denuncia è arrivato dall’arcivescovo di Gitega, mons. Ntamwana, al rientro da un incontro con i vescovi di Rwanda e Congo, in Kenya. Ma nelle dichiarazioni di fine anno nessun riferimento ai campi, dove la gente muore di stenti e sono violati i diritti umani più elementari. «Era chiaro che non ci sarebbe stato un atto congiunto. Da un lato, perché non sarebbero stati tutti d’accordo e, dall’altro, perché qui le denunce si fanno in modo silenzioso». Molte situazioni si risolvono sulla base di relazioni personali. Non bisogna quindi offendere la sensibilità di qualcuno e rovinare i rapporti, ma piuttosto cercare di agire con diplomazia (caratteristica questa molto sviluppata nei burundesi) sfruttando contatti diretti.
Ma non a tutti questi metodi vanno bene: mancano le critiche e le prese di posizione. «Sono rari gli interventi profetici, che puntino a sganciarsi dalla problematica etnica e diano voce ai senza voce – dice un missionario italiano -; non vogliono mettersi contro il presidente, cattolico e moderato». Il religioso burundese insiste: «Ci mancano profeti e testimoni. Si ha paura di dire la verità e assumerla. I missionari possono gridare un po’ di più. Ma devono stare attenti». I religiosi stranieri spesso parteggiano a fianco «della massa che soffre» (ovvero gli hutu, 85% della popolazione, quasi totalmente esclusi dal potere politico, economico e militare) e questo prende subito una connotazione etnica. Da qui le accuse da parte di preti, vescovi ed estremisti di appoggiare la ribellione (a maggioranza hutu).
Ancora una volta sono i catechisti che si espongono di più. Anche nei campi di raggruppamento, mettendo in pericolo la loro vita, continuano a portare la testimonianza del vangelo, ad aiutare la gente. «Questo fa sperare: al di là della debolezza dei preti, c’è una presenza popolare fatta di fede, che prova che la chiesa non sparirà» continua il missionario.
TEOLOGIA SENZA TESTIMONIANZE
In Burundi ci sono circa 1.300 religiosi, tra cui più di 1.000 suore. L’«Assemblea dei superiori maggiori» (Asuma) cornordina le 16 congregazioni di uomini e le 32 di donne. Nazionali e stranieri insieme. È qui che si legano maggiormente la chiesa missionaria e quella locale, pur partendo da basi culturali molto lontane. Le congregazioni burundesi sono state create dai vescovi, che le vogliono al loro servizio. «Cerchiamo di far passare il messaggio che, in quanto religiosi, siamo parte della chiesa, abbiamo le nostre opere, una nostra missione e un ruolo specifico», racconta un ex presidente dell’assemblea. Questo per ridurre la dipendenza gerarchica. «Pensate che nelle convenzioni che facciamo con i vescovi non possiamo usare la parola “partenariato”, perché presume un accordo tra parti uguali. È una teologia che stiamo formando, poco a poco». Ma molto resta il cammino da fare.
Allo stesso modo l’Asuma cerca di far aprire le congregazioni locali all’impegno verso il popolo: «Abbiamo cercato di motivarli nei confronti dei raggruppati. Problema che loro non sentivano come prioritario. Siamo riusciti a organizzare raccolte di fondi e distribuzioni di viveri con l’impegno diretto di religiosi e religiose». Purtroppo, spiega il padre, il vangelo sociale non è ancora compreso, molto spesso a causa della formazione nei seminari che non prevede i concetti di «servizio», «responsabilizzazione» e «partecipazione popolare».
Ad esempio c’è molta ignoranza sull’importanza, della giustizia nell’evangelizzazione.
Conferma, ancor più duro, il religioso burundese: «È una chiesa senza pensiero teologico, dove dominano i buoni parlatori e i buoni strateghi. Manca uno spazio di espressione sulla fede». Vede però uno spiraglio. «Esiste tuttavia una riflessione teologica che parte dalla base, fatta di testimonianze».
E I MISSIONARI?
Ha dunque ancora un senso la permanenza dei missionari in Burundi? «Sì. Perché la chiesa è missionaria per natura. Per l’apertura agli altri e per lo scambio», ci risponde qualcuno. «Per la varietà e l’universalità della chiesa. Perché la presenza di missionari, specie nei momenti più bui, ha dato fiducia. Abbiamo ancora bisogno di collaborare, non con posti di responsabilità, ma con una presenza efficace, con libertà di analisi e di suggerire», dice qualcun altro. «Sì, ma in modo diverso da oggi. Come poveri, contemplativi, per diffondere il messaggio di Cristo a tutti andando in profondità, per incarnarlo in questa cultura», sostiene chi rigetta il modello di clero «coloniale», ancor oggi presente.
È difficile descrivere la complessità della chiesa di un paese. Ci accontentiamo di una frase di Cyprien, catechista di Mugutu, parrocchia di Rukundo: «Vorrei che il nostro popolo uscisse dall’oscurità e partecipasse, lui stesso, al suo sviluppo. Per questo ha bisogno di guide».

Hubert Dubo




TIBET – Poi il piccolo Budda è fuggito

Lo chiamano così perché ha solo 15 anni. Più giustamente, è conosciuto come «Karmapa». L’abbiamo incontrato in Tibet in ottobre, ma all’inizio di gennaio
è fuggito in India.
Non ancora chiare le ragioni che l’hanno spinto a tale gesto. Il ragazzo, numero tre della gerarchia buddista tibetana dopo il Dalai Lama
e il Panchem Lama,
ha detto: «I buddisti devono avere la libertà di praticare la loro religione».
Un problema
per la Cina.

L’ultimo raccolto

Da Lhasa, capitale del Tibet, ci avviamo verso il monastero buddista di Tsurpu, che dista circa 80 chilometri in direzione ovest. La strada che si inoltra nella valle è una pista sterrata, che diventa subito assai sconnessa; in alcuni punti il fondo è così accidentato da richiedere all’auto uno sforzo particolare per avanzare.
È la fine di ottobre. Nella notte una leggera nevicata ha imbiancato le cime delle montagne. Il tempo è incerto; le nuvole si rincorrono e, spesso, ricoprono il sole. La temperatura è decisamente fresca.
Risalendo la valle, ci fermiamo ad osservare alcune casette, costruite a cavallo del torrente dalle acque limpide. Si vedono anche mulini, azionati dall’acqua corrente, che servono a macinare l’orzo prodotto nella valle. Raggiungiamo un villaggio che, per gli standard di vita locali, non appare particolarmente povero: infatti presenta case dignitose, mentre la campagna è intensamente coltivata.
È il momento della raccolta dell’orzo. Le donne hanno il compito di tagliare le pianticelle e formare i covoni, che poi gli uomini portano a casa impiegando, generalmente, yak e muli come animali da soma. Una curiosità: le donne operano indossando vestiti che non sembrano da lavoro; esibiscono giornielli, specialmente collane ed orecchini. Le sposate indossano anche sgargianti grembiuli, formati dalla giunzione di strisce variopinte, tessute in casa su stretti telai.
La scena è corale e bucolica. È anche un momento di festa, perché rappresenta l’ultimo raccolto agricolo dell’anno, prima della inattività invernale.
il numero tre
Proseguiamo fino a raggiungere una stazione di polizia, posta circa ad un chilometro dal monastero. La caserma è dotata anche di un’enorme antenna satellitare; serve per ricevere ordini dal comando centrale, oltre a tenerlo informato sulla situazione locale.
L’attenzione della polizia cinese al monastero di Tsurpu è particolare, in quanto vi risiede il Karmapa. Egli è un «incarnato» e rappresenta quindi un alto grado nella gerarchia buddista del Tibet: è terzo nella graduatoria, inferiore solamente al Dalai Lama e al Panchem Lama.
Secondo la tradizione tibetana, l’esistenza del Karmapa era stata prevista sia dal Budda Sakyamuni sia da Padmasambhava, che fu il missionario indiano ad introdurre il buddismo nel paese, sovrapponendolo alla religione bon allora esistente.
Il Karmapa è una personificazione della misericordia e si è incarnato per 17 generazioni, a partire dal XV secolo. Le storie delle varie incarnazioni mostrano i Karmapa come persone ascetiche, dedicate agli studi, ma capaci pure di creare espressioni artistiche, specialmente poetiche.
Il Karmapa in Tibet esprime la continuità della dottrina del Vajrayana (il veicolo di diamante), una scuola originata dal filone principale del Mahajana, che rappresenta il buddismo tibetano…
Raggiungiamo il monastero a 4.400 metri di altitudine. Gli edifici furono, a suo tempo, distrutti dai comunisti cinesi. Solo i padiglioni costruiti molto in alto, su rocce a strapiombo, furono risparmiati, essendo irraggiungibili.
Questi padiglioni servivano (e servono) per ritiri spirituali. I monaci vi si chiudono in meditazione per periodi anche lunghi; durante tali segregazioni pregano per «il bene di tutti gli esseri viventi» e sono serviti da altri colleghi che, periodicamente, portano loro il necessario per la sopravvivenza.
Gli attuali edifici principali del monastero sono stati ricostruiti. Una comunità di religiosi è tuttora operante nel grande complesso.
Sembra impassibile
Siamo ricevuti con molta cordialità dai monaci; non ci pongono limiti per fotografare o riprendere con le videocamere… ricordandoci però di lasciare una piccola offerta. Così partecipiamo alle loro preghiere, anche cantate, che si succedono per un paio di ore, spesso accompagnate dal suono di strumenti a percussioni: conchiglie soffiate come trombe e altri strumenti a fiato, simili a grandi oboi.
Successivamente i monaci, seduti in fila a gambe incrociate sui propri scranni, ricevono dai giovani novizi una tazza, in cui viene versato del te. Bevuto il te, nella stessa tazza si versa una determinata dose di farina di tsampa (orzo macinato e abbrustolito), si aggiunge altro te in modo da formare una «polentina» e ciascun religioso consuma il tutto. È il pasto di mezzogiorno, indubbiamente frugale.
Al termine, tutti i monaci e novizi si alzano ed escono dal tempio: passeggiano e chiacchierano fra loro, e anche con noi.
Prima di essere ricevuti dal Karmapa, trascorre una mezz’ora. Nel frattempo si radunano altri pellegrini tibetani, anch’essi in attesa dell’udienza. Tutti siamo dotati, come minimo, di una sciarpa bianca da lasciare in dono al Karmapa, secondo l’usanza da rispettare quando si incontrano monaci di alto grado.
Finalmente inizia la processione di avvicinamento al Karmapa. Però ad un certo punto, già all’interno dell’edificio, alcuni monaci atletici dall’aria decisa ci sottopongono ad accurata perquisizione. Evidentemente la diffidenza verso i cinesi e la paura di attentati rendono necessarie queste precauzioni.
Dopo aver attraversato altre sale, siamo di fronte al «piccolo Budda», che siede su un tronetto in posizione elevata. Ci appare veramente un ragazzo, ma dall’aspetto serio e dall’espressione matura. Osserva ciascuno dei presenti con uno sguardo profondo, ma anche impassibile: riceve la sciarpa e impone le mani sul capo di tutti in segno di benedizione.
Poi usciamo frettolosamente, sospinti dalla folla e dal servizio d’ordine che cerca di sveltire al massimo la cerimonia. E ci ritroviamo sul cortile del monastero tra radi fiocchi di neve gelata.
Risaliamo sulla nostra vettura per rientrare a Lhasa.
L’imbarazzo della Cina
Abbiamo pensato spesso a quel ragazzo, che svolge un ruolo di capo spirituale gravoso e, apparentemente, al di sopra delle possibilità della sua età. In realtà la capacità del Karmapa di gestirsi, sorretto dai consiglieri, è stata tale da permettergli di rendere tollerabili i rapporti con le autorità cinesi e di… organizzare la sua fuga dal Tibet. È avvenuta nel gennaio scorso.
Ugyen Trinley Dorje (questo il nome del Karmapa), dopo un viaggio di circa 1.500 chilometri attraverso i passi himalayani, nonostante la stagione invernale, è apparso a Dharamsala (India), dove risiede il Dalai Lama. Probabilmente il viaggio è stato compiuto in prevalenza a piedi, utilizzando in qualche tratto un camion.
Dal suo giungere in India, il Karmapa non è mai apparso in pubblico, ma ha delegato alcuni monaci a dichiarare che il suo viaggio ha come fine solo quello di ritrovare sacre reliquie.
La fuga clamorosa sta scottando l’orgoglio del governo cinese, che si è visto beffato, nonostante le precauzioni assunte. Quel ragazzo se n’è andato «senza il permesso del regime di Pechino».
Nel contempo la Cina sta facendo forti pressioni sull’India, perché non conceda lo stato di asilo politico al fuggitivo, mentre l’India stessa sta cercando una soluzione politica. Ma di una restituzione del Karmapa non se ne parla.
Sia in Tibet che in Cina è stretto il controllo sulle comunità religiose. Ne fa le spese soprattutto la chiesa cattolica «clandestina», fedele alla Santa Sede che rifiuta, tra l’altro, di riconoscere l’ultimo vescovo nominato dal governo cinese.
Pechino, in ogni caso, deve affrontare la crescente «fame» di religiosità che si sta diffondendo nel grande paese. Ma, per il momento, ricorre ancora alla repressione.

Giorgio Motta




ECUADOR – La partita del cuore

Un giorno padre Felice prese il bus e andò a Guayaquil.
Si trovò nella favela El Fortín, stipata da 50 mila persone e disse:
«Questo posto fa per me, perché sono i più poveri tra i poveri».
Così iniziò la presenza dei missionari della Consolata nella periferia
di una delle più grandi città dell’Ecuador.

GENESI DI UN PROGETTO

Nel 1997, per celebrare i 50 anni di lavoro dei missionari della Consolata in Colombia, fu deciso di aumentare la nostra presenza in Ecuador. Si pensava di aprire una parrocchia nella capitale, Quito, come punto di appoggio per i padri operanti nella diocesi di Riobamba e preoccupati di prestare la loro assistenza religiosa agli indios emigrati dalle parrocchie di Licto e Punin.
Prima di dire l’ultima parola sulla scelta del nuovo campo missionario, feci un giro a Guayaquil, diocesi scarsa di sacerdoti, con una periferia di mezzo milione di persone poverissime, ammassate nelle «invasioni», i terreni occupati abusivamente da poveri diavoli.
Avevo in tasca alcuni indirizzi di preti e suore e, presentandomi, dicevo loro: «Vorremmo, avremmo intenzione di…». Qualcuno mi disse: «Al di là della circonvallazione c’è tutto quello che vuoi. Prendi il bus e vai a vedere». Trovai una favela immensa e spaventosa: una marea di baracche con pareti di canne. «È il posto che fa per noi – mi dissi senza esitazione -. Poveri così non ne ho mai visti».
Mi recai dal vescovo e gli dissi: «Siamo missionari. Cerchiamo un posto dove nessun prete ha messo piede e bisogna incominciare da zero». Il presule mi parlò di El Fortín, la favela che avevo appena visto, e aggiunse: «Prendete una parrocchia in città e da lì potrete iniziare a lavorare tra i baraccati». «È un impegno che assorbirebbe troppo tempo ed energie, monsignore – risposi -. Meglio inserirci subito e a tempo pieno nella favela».
Il vescovo si arrese e mi concesse ospitalità in una casetta, in un quartiere non lontano da El Fortín, dove abitava già un diacono. Arrivò padre Claudio Brualdi, superiore regionale, per vedere il nuovo campo di lavoro e approvò la scelta. Toammo dal vescovo e firmammo un contratto di lavoro per tre anni.
PRIMO APPROCCIO
Avevo in mente già qualche progetto. Dissi al vescovo: «Monsignore, conosce qualcuno in quella zona che potrebbe regalarci un pezzo di terra o venderla a basso prezzo?». «Ma tu non sei missionario?». Capii subito l’antifona: dovevo cavarmela da solo.
Il giorno seguente cominciai a percorrere la favela in lungo e in largo, bussando alle baracche e presentandomi: «Buon giorno! Sono il nuovo parroco. Siete contenti?». Le esclamazioni di sorpresa, curiosità e meraviglia si sprecavano. Qualcuno rispondeva: «Io sono evangelico. Io sono mormone…». La favela è zeppa di sètte. La domenica seguente mi piazzai con un megafono in un crocicchio nel centro del quartiere, gridando: «Santa messa nel blocco numero sei, alle undici del mattino: siete tutti invitati!». Il padrone della casa, vicina a quell’incrocio, mi permise di celebrare l’eucaristia nel cortiletto. Arrivarono una cinquantina di persone, soprattutto bambini. Il ghiaccio era rotto. In seguito mi feci amico di alcuni giovani e insieme preparammo e distribuimmo a tutte le case un volantino con l’orario della messa e l’invito a parteciparvi.
Per oltre un mese continuai a passare di casa in casa, per incontrare la gente e farmi conoscere. Poi lanciai i programmi di preparazione al battesimo, prima comunione e cresima. Finalmente riuscii a comprare sei piccoli lotti di terreno, proprio sul luogo dove avevo celebrato la prima messa, rimborsando la gente e aiutandola a sistemarsi in un’altra parte della favela.
OPERE SOCIALI
Per essere visibili e fare qualcosa di concreto a favore della gente, cominciai a costruire le strutture di base: chiesa, casa parrocchiale e dispensario. Quest’ultimo, soprattutto, mi stava tanto a cuore: ora un medico spagnolo, missionario laico residente in città, viene tre o quattro volte la settimana per visitare gli ammalati.
Il problema dei bambini si è imposto subito con urgenza e gravità. Nella maggioranza delle famiglie è assente la figura del padre; le mamme sono costrette ad andare in città per lavorare, lasciando i bambini soli in casa. A volte le baracche prendono fuoco e i bambini muoiono bruciati. Decisi di costruire un asilo.
Ed è riuscito bene. È stato sovvenzionato con una parte dei proventi raccolti nella «Partita del cuore», giocata a Cagliari tra cantanti e politici e trasmessa da Rai2. Poco tempo dopo il mio arrivo, alcuni tecnici della Rai erano venuti a fare delle riprese nella favela; colsi l’occasione per esporre il progetto dell’asilo. Commossi e impressionati, promisero di aiutarmi: hanno presentato il mio sogno all’associazione «Amici dei bambini»; questi mi hanno aiutato con i proventi della famosa «Partita del cuore»; poi sono venuti a visitare l’opera compiuta e ne sono rimasti felicemente impressionati sia per i fabbricati che per la gestione dell’opera, affidata a due laiche italiane, coadiuvate da alcune maestre locali.
Dato che l’asilo è stato totalmente finanziato, ho potuto investire i risparmi ad esso destinati nella costruzione di una scuola elementare. Il mio sogno era di avviare una scuola di arti e mestieri; ma le finanze del missionario non sono mai proporzionate alla grandezza dei suoi sogni. Consigliato da altre congregazioni, mi sono dovuto accontentare della scuola elementare.
Tanto più che nella favela non ci sono scuole statali: in un quartiere d’«invasione» è tutto illegale. Qualcuno organizza piccole scuole private a livello familiare, ma valgono poco. Per assicurare una vera istruzione ai bambini, mi sento obbligato a costruire una scuola come Dio comanda, anche se per lo stato è «illegale».
Ma il sogno della scuola di arti e mestieri e per la promozione della donna non è abbandonato: ho presentato il progetto alla Comunità europea (Ce), con la speranza che fosse finanziato, come è avvenuto per altri progetti. Durante l’emergenza provocata dal «fenomeno del niño» la Ce promise un aiuto, ma l’approvazione avvenne quando la situazione di emergenza era ormai passata. Ho chiesto e ottenuto il permesso di usare il finanziamento per ampliare il dispensario medico con un laboratorio di analisi.
Seguire tanti progetti è molto impegnativo. A volte le preoccupazioni mi tolgono il sonno, specialmente durante il periodo in cui, a causa della crisi economica, il governo congelò per un anno tutti i fondi bancari. Non sapevo dove sbattere la testa. Ora mi sento più tranquillo, da quando è arrivato padre Tiziano Viscardi, esperto in amministrazione e con notevole esperienza nel seguire i progetti.
PASTORALE E CARITÀ
Ben più assillanti e gravi sono le preoccupazioni derivanti dalla situazione generale della favela, che rende difficile un lavoro specificamente missionario. All’inizio molta gente era prevenuta e restava a guardare ciò che dicevo e facevo. Ora qualcosa è cambiato; ho stretto amicizie con tante persone. Tuttavia poter contare su di loro, convincerle a partecipare a progetti di formazione e impegnarsi a diventare fermento nella comunità… non c’è niente di tutto questo! Ho provato un’infinità di iniziative per smuovere la gente, radunarla e organizzarla, ma con scarsi risultati. Si notano piccoli segni, ma niente di esaltante.
Ma non ho tempo di annoiarmi. Mi reco tutti i giorni in una casa di malati terminali di cancro e Aids; sono cappellano di due collegi privati: un incarico che ci consente di mantenerci. Seguo le varie attività, scorrazzando per la favela giorno e notte. Tutte le sere partecipo a incontri di vario genere: catechisti, neo-catecumenali, carismatici e altri gruppi. Raduni protratti fino a notte fonda.
E poi i vari problemi della gente. Prima di natale, per esempio, il fuoco ha gettato tre famiglie sul lastrico. Sono riuscito a procurare loro, gratuitamente, casette prefabbricate con canne di bambù, come si usa nella favela. E che dire degli ammalati, spesso «immaginari»? Vengono al dispensario con la «ricetta» del medico a chiedere soldi: abbiamo risolto il problema proponendo loro di sottoporsi alla visita del nostro medico: se sono veramente malati ricevono gratis medicine e trattamento. Gli approfittatori sono diminuiti, ma molti, son sicuro, riescono a raggirarmi. Tuttavia preferisco peccare d’ingenuità, piuttosto che rifiutare un aiuto a chi si trova veramente nel bisogno.
C’È POCO DA RIDERE
I più «ricchi» che si vedono nei dintorni (fatto curioso) sono gli indigeni, che hanno in mano tutto il commercio; vengono dalla Sierra, le zone intee e montagnose del paese, dove producono frutta e ortaggi che vendono nelle periferie della città. Gli abitanti della favela sono poveri e bisognosi di tutto: è una popolazione costituita da bianchi e negri, scappati dalla provincia di Esmeralda, regione di afroamericani al nord dell’Ecuador, ai confini con la Colombia.
La miseria è causata dalla disoccupazione e aggravata da una infinità di problemi: violenza e delinquenza, droga e insicurezza. Per sopravvivere alcune donne hanno trovato un lavoro come domestiche in città. La maggioranza sbarca il lunario con piccoli espedienti o lavoretti. Per gli uomini il lavoro più diffuso è quello di vigilante o muratore, occupazioni saltuarie, che non durano più di qualche settimana. Allora vendono biglietti della lotteria, magliette, cianfrusaglie, frutta e caramelle alle fermate dei bus. Alcuni sfaccendati salgono sui bus, raccontano barzellette, poi chiedono l’elemosina: ma c’è poco da ridere.
La famiglia praticamente non esiste. A 15-16 anni le ragazze si ritrovano con un figlio da sfamare. Da sole. «Questo è il figlio del mio primo “compromesso” (promesso sposo) – spiegano molte donne indicandomi i loro bambini -. Quest’altro è figlio del secondo; questo del terzo». E così via. Il matrimonio rimane sempre una promessa vuota.
Anche sotto l’aspetto fisico la favela è un disastro: viviamo nel fango; non essendoci acquedotto, compriamo l’acqua dalle autobotti che passano e la conserviamo nel «bidone dell’acqua». Rubiamo la luce dalla linea che corre lungo la circonvallazione che divide la favela dalla città. Ma non è gratuita: per l’allacciamento bisogna pagare la mafia locale.
MAFIA E POLITICA
Anche le cosiddette «invasioni» (occupazioni di terre per costruire la favela) sono frutto di mafia genuina e giochetti dei politici. Costoro si mettono d’accordo con bande mafiose per scegliere il settore da occupare. Quindi un gruppo di persone comincia a costruirvi le baracche. La polizia interviene per distruggerle, ma il giorno seguente ricomincia la ricostruzione, finché la polizia si stanca e lascia tutti in pace.
Quando la situazione è tranquilla, intervengono i «dirigenti», cioè i supervisori dell’invasione: dividono il territorio in piccoli lotti e li vendono agli immigrati. Parte del ricavato finisce nelle tasche dei politici, i quali, oltre al guadagno, si assicurano un feudo elettorale.
Il terreno dove sorgono le nostre opere, per esempio, era stato invaso da una donna che oggi siede nel consiglio municipale. Non aveva speso un soldo per averlo; ma ce l’ha venduto senza sconti.
Anche altri servizi, come l’allacciamento abusivo alla linea elettrica, è in mano ai cosiddetti «dirigenti». Per avere la corrente ho voluto fare il furbo, col metodo «fai-da-te». Mi hanno tagliato i fili. Ho risposto facendo un gran baccano, per svegliare la gente: «Qui stiamo facendo opere sociali – ho detto ai parrocchiani della zona -. Se le volete datevi da fare per avere la luce, altrimenti chiudo baracca e burattini e vado a costruirle altrove». E la corrente ritoò immediatamente.
Tutta la vita sociale della favela è sottoposta a vessazioni mafiose, come quella di sborsare ai «dirigenti» due mila sucre (1.000 lire) la settimana per la «vigilanza nottua». Da me stanno alla larga. Finora non hanno osato chiedermi niente. Ho cercato a più riprese di stimolare la gente perché si organizzi e si ribelli a questa forma di oppressione e sfruttamento perpetrati alla luce del sole, ma ha paura di essere cacciata e subisce supinamente. Di fatto, alcuni che non hanno pagato sono stati costretti ad allontanarsi: in varie circostanze sono dovuto intervenire per difendere questi sfortunati.
GUARDANDO AVANTI
Per l’immediato futuro non vedo prospettive molto rosee. Sto formando un gruppetto di catechisti, che curo come una chioccia, ma sono ancora «pulcini bagnati», incapaci, per ora, di assumersi delle responsabilità. Avevo trovato un ragazzo di 21 anni, che mi sembrava superiore a tutti gli altri: frequentava la chiesa, parlava bene, era pieno di iniziative. Lo vedevo già un ottimo catechista. Ma un giorno arrivò suo padre trafelato per dirmi che il ragazzo era in prigione: la polizia lo aveva arrestato in centro città, mentre assaltava la gente con la pistola in pugno. Nonostante le delusioni, devo riconoscere che la parrocchia comincia ad essere pervasa da un certo fermento, provocato da vari gruppi di carismatici, neo-catecumenali, catechisti e da un buon numero di persone sempre più coinvolte nella vita della comunità. Tutto fa sperare per un futuro più consolante.
Quando annunciai, durante l’ultima messa a El Fortín, che mi sarei assentato un paio di mesi per le vacanze in Italia, provai un’emozione indimenticabile: dopo la celebrazione mi si avvicinarono tutti in massa per abbracciarmi e salutarmi. Un gesto di amicizia e un segno che qualcosa di buono è stato seminato. E se sono rose fioriranno.

Felice Prinelli




Il “college” degli indios

Si estende su 72 ettari.
Ospita 500 alunni che ricevono
un’educazione multidisciplinare, ma sempre legata
al territorio e alla cultura di provenienza.
Tra gli studenti e le comunità locali si cerca una simbiosi
che faccia crescere entrambi. Questo è il «Cecidic»,
un istituto esemplare, cresciuto sulla terra
che appartenne a un latifondista. Di pessima fama.

Toribio. Sembra un campus universitario nordamericano. Forse per la natura che lo circonda: alberi, colline coltivate, addirittura un torrente. Forse per quelle costruzioni spartane, ma funzionali. O forse per quei mattoncini rossi che ingentiliscono la struttura. Invece, è un istituto superiore creato dalle comunità nasa del Cauca.
Il centro, posto tra Toribio e San Francisco, porta un nome impegnativo: «Centro di educazione, abilitazione e ricerca per lo sviluppo integrale della comunità». In breve, Cecidic.
La prima costruzione che si incontra, oltrepassata l’entrata dell’istituto, è una palazzina a due piani. Ospita la direzione e gli uffici; a destra di essa ci sono case d’abitazione; a sinistra, un salone per le riunioni e le feste; a fianco di questo, un altro edificio, con i due lati più lunghi senza pareti, funge da sala mensa.
Su un lato della grande sala c’è uno spaccio. «Assaggiate un bicchiere di malta (una bevanda analcolica ricavata dai cereali, ndr)», ci dice padre Antonio Bonanomi, missionario della Consolata, in Colombia dal 1978. «A parte le bevande, tutto il resto si produce qui: pane e dolci, yogurt, succhi di frutta e gelati».
Mentre stiamo sorseggiando la bevanda, al bancone si avvicina una persona per salutare padre Antonio. È un professore di lingua nasa. Il Cecidic è nato proprio perché la scuola statale non teneva in alcun conto la cultura autoctona, a partire dalla lingua. «L’idea di partenza – racconta padre Bonanomi – era di recuperare tutti i valori propri della tradizione indigena, inserendoli in un contesto moderno. Non aggiungere una cosa all’altra, ma tentare di far vivere la tradizione nella modeità».
Sull’altro lato della sala mensa c’è la cucina. Alcune signore stanno pulendo delle bellissime verdure: carote, patate, cavoli, insalata, cipolle, mais. «Tutti questi prodotti – spiega soddisfatto padre Antonio mentre curiosa nei pentoloni – provengono dai nostri orti. Non solo ne abbiamo a sufficienza per il consumo interno, ma riusciamo anche a vendee all’esterno. Senza dire dei nostri alberi da frutto. Ora stiamo provando con la coltivazione del caffè: abbiamo piantato 10 mila piantine».
Al Cecidic tutto è coltivato senza usare concimi chimici. «Il vero indio – spiega padre Antonio – si rifiuta di utilizzare questi mezzi innaturali per non violentare la terra, per non rompee la sacralità».
A poca distanza dalla cucina, c’è un’officina da fabbro. «Qui i ragazzi imparano a tagliare e saldare i metalli. Sono loro che hanno costruito tutte le porte, le finestre, i tralicci della scuola. L’idea è di aumentare e migliorare la produzione. Per ora, infatti, facciamo soltanto cose normali, mentre vorremmo fare cose più artistiche: finestre con fiori in rilievo, porte oate, ecc.».
Ci incamminiamo verso il torrente che attraversa la proprietà. «Davanti a noi ci sono i vivai. Da lì sono già uscite 120-130 mila piante, tutti alberi da frutto o da legna. Piante originarie del luogo; non abbiamo importato niente da altre zone». Ma che ne fate?, domandiamo. «Le usiamo per riforestare le nostre montagne. Nel piano di sviluppo delle varie comunità c’è un progetto di riforestazione. Questo progetto viene realizzato dalla scuola».
La deforestazione di queste valli iniziò negli anni ’30 quando i coloni distrussero i boschi per far posto ai pascoli per le loro mandrie. Poi, a partire dagli anni ’70, gli indios cominciarono a recuperare le terre. Negli ultimi anni, però, il problema della deforestazione si è di nuovo aggravato a causa dell’amapola, la cui coltivazione si è rapidamente diffusa.
Mentre attraversiamo il piccolo ponte che supera il torrente San Francisco, sul nostro registratore annotiamo: autosostentamento della struttura e ricadute immediate sulle comunità locali.
«I ragazzi – spiega padre Antonio – mettono in pratica nelle proprie famiglie le nozioni apprese a scuola. Soprattutto le tecniche agricole e di allevamento. Spesso i genitori giudicano con più severità dei professori. Agli studenti più bravi diamo regali in natura: un maialino o una coppia di conigli da portare a casa».
La prima pietra del Cecidic fu posta nel 1992. Da allora il centro è cresciuto senza sosta. Oggi non è solo scuola di arti e mestieri e scuola agropastorale, ma anche istituto per animatori comunitari e scuola di comunicazione. E l’espansione continua tuttora. Come dimostra il fervore dei lavori in corso.
I carpentieri stanno completando gli edifici che ospiteranno altre aule e i laboratori di chimica ed informatica. «Dove lavorano con il bulldozer si scava per fare una piscina. Ai ragazzi piace moltissimo bagnarsi. Una volta si buttavano nel torrente, ma poi abbiamo dovuto proibirlo perché l’acqua è contaminata dalle coltivazioni di agave. Quando sarà pronta la piscina, potranno venire qui con le loro famiglie».
Per il momento le famiglie debbono accontentarsi di riunirsi attorno ai laghetti dell’istituto e, magari, di praticare la pesca sportiva. Nei piccoli bacini d’acqua dolce sono infatti allevati tre tipi di pesce. «I ragazzi che seguono l’allevamento vanno nelle comunità per portare gli avannotti e aiutare la gente ad allevarli».
Mentre visitiamo il centro, notiamo che tutte le aule presentano grandi aperture: le finestre sono strutture metalliche (costruite, ovviamente, nell’officina dell’istituto) senza vetri. Come mai?, chiediamo a padre Antonio. «Ci sono ragioni culturali. I nasa non amano i luoghi chiusi. Molte volte si fa scuola all’aperto».

Piccolo di statura, capelli bianchi, una faccia da buono che non lascia prevedere la vigoria dell’uomo. Nonostante si scheisca, senza Antonio Bonanomi il Cecidic non sarebbe quello che è. Vale a dire una struttura che, tra maschi e femmine, oggi è frequentata da 450 studenti. Un centinaio di essi, quelli che abitano più lontani, sono ospitati dalla scuola. Anche gli insegnanti e le rispettive famiglie vivono all’interno dell’istituto, in abitazioni costruite ad hoc per loro.
Il missionario, facendo leva su perseveranza, tenacia e… capacità di convincimento, ha personalmente raccolto la gran parte dei soldi necessari per costruire e far crescere l’istituto. In Italia soprattutto, ma anche nelle stanze dell’Unione europea.
Fino al dicembre 1998, padre Antonio ne era il cornordinatore generale. Poi si è fatto volontariamente da parte, lasciando l’incarico a Gilberto Muñoz, ex alcalde (sindaco) di Toribio. Padre Bonanomi siede ancora nel consiglio di amministrazione del Cecidic, assieme ai tre governatori di Toribio, San Francisco e Tacueyo. «Ma – precisa subito il missionario, quasi per scusarsi – è un organo più teorico che reale».
Il Cecidic è una realizzazione incredibile, soprattutto quando si rammenta che ci troviamo in una sperduta regione della Colombia. Ma da buoni giornalisti dobbiamo scoprire qualcosa che non funziona. Finalmente, ecco una pecca: l’istituto ha dimenticato tutte quelle persone che si sono ritrovate adulte senza aver mai avuto l’opportunità di studiare. «A dire il vero – precisa padre Bonanomi – abbiamo pensato anche a loro. Ci sono 6 centri per adulti sparsi sul territorio. Alle lezioni serali che si tengono a Toribio e Tacueyo ci sono più di 200 iscritti. Altre centinaia di adulti, più giovani, vengono al Cecidic dopo le lezioni dei ragazzi. Seguono corsi più brevi, ma hanno anch’essi la possibilità di utilizzare i laboratori, i computers, le attrezzature della scuola».
Padre Antonio, ancora una curiosità: la guerriglia che sta sulle montagne qui attorno non ha mai attaccato il centro? «No, mai. È passata, si è fermata, ma non ha mai colpito la scuola, perché apprezza il nostro lavoro. Piuttosto, chi ci fa un po’ di paura sono i paramilitari». Cosa potrebbero fare? «Non lo so. Ma certamente tutto questo è un pugno in un occhio per loro. Che una comunità indigena riesca a fare qualcosa che lo stato non ha mai voluto o potuto o saputo fare…».
Dall’alto della collina padre Antonio ci mostra con orgoglio quanto il Cecidic sia grande. «Il centro si estende su 72 ettari. Ma la cosa più interessante è che tutta questa valle era di proprietà di un solo possidente, uno dei nemici più accaniti di padre Alvaro (ucciso da sicari il 10 novembre 1984, ndr). Dove ora c’è la direzione un tempo c’era la sua casa».
Anche noi torniamo verso la palazzina della direzione, dato che abbiamo appuntamento con un professore della scuola.

Alto e magro, Nestor Wilson Calderon porta dei grandi occhiali sul viso giovanile. È professore di religione, etica e morale. Ma è anche conosciuto per essere il mago della videoregistrazione e nel suo studio lo incontriamo.
«I governi che si sono susseguiti fino ad ora – esordisce Nestor – non hanno mai investito in educazione. E le conseguenze si vedono: la scuola pubblica è meno che mediocre; gran parte dei ragazzi pensa soltanto ad ottenere il pezzo di carta senza riguardo per i contenuti».
Quindi, l’obiettivo del Cecidic è quello di colmare queste lacune? «Siamo nati per tentare di cambiare un po’ questa situazione. Ma soprattutto per dare una svolta alla comunità indigena attraverso un’educazione più partecipativa, più cosciente, più aperta».
E che risposte avete avuto? «Abbiamo giovani molto coscienti. Tuttavia, ancora troppi non vanno a scuola o abbandonano presto. Saltano l’adolescenza e diventano subito adulti con un lavoro e magari una famiglia».
Dei 450 alunni quanti appartengono al gruppo nasa? «Circa il 90 per cento è nasa, mentre i rimanenti sono meticci».
In generale, com’è la situazione delle famiglie da cui i ragazzi provengono? «C’è povertà, ma è una povertà sopportabile. La terra, pur poca rispetto alle necessità, dà di che mangiare: yucca, patate, fagioli, mais».
Povertà, guerriglia, narcotraffico: chiediamo a Nestor quale, a suo dire, sia il problema più grave. «Il narcotraffico – risponde deciso il giovane professore – è come un’erbaccia che strappi qui e torna a crescere là. È un problema molto grave perché divide la comunità tra quelli che hanno i soldi e quelli che non li hanno. E poi crea bisogni nuovi: gli elettrodomestici, i vestiti, l’auto…».
Il lavoro del Cecidic ha attratto l’attenzione di molte università (del Cauca, la xaveriana, la San Bonaventura di Cali, la pontificia di Medellin), che hanno iniziato ad interessarsi alle attività dell’istituto e anche a collaborare. Ma Nestor rimane con i piedi per terra.
«C’è un proverbio che recita più o meno così: “la fama ti mette a letto”. Noi misuriamo il successo del Cecidic con altri parametri, come il crescente numero di iscritti. Questo significa che la gente india ha preso coscienza che l’educazione può migliorare le nostre condizioni di vita».
Nestor non è di etnia nasa, ma è come lo fosse diventato, tanto si è immedesimato nella società indigena.
«Io ho studiato a Bogotà. Ora seguo un corso di scienze sociali con indirizzo antropologico. Conosco bene i missionari della Consolata. Con loro, qui nel Cauca, ho trovato uno spazio particolare, molto importante per la mia vita. Sono convinto della strada che stiamo tracciando: insegnare alla gente a costruire una nuova società che collabori con gli altri, ma non dipenda da essi. Perché se si dipende, si torna schiavi. Credo che il progetto fatto con il popolo nasa sia un modello da imitare per le altre comunità indigene della Colombia, ridotte a vivere in condizioni deplorevoli».

Sono le cinque del pomeriggio. Anche per gli studenti del Cecidic è giunta l’ora di tornare a casa. Chi abita più lontano sale sul vecchio autobus della scuola, che in pochi minuti si riempie fin sopra il tetto di ragazze e ragazzi festanti.
Rombando e suonando il clacson, il mezzo si avvia pian piano verso l’uscita del Cecidic, il «college degli indios» nato sulla terra che fu di un latifondista. Un’altra piccola rivincita per gli indios di Toribio, San Francisco e Tacueyo.

IL CABILDO AUTORITA’ INDIGENA”

Rappresenta l’autorità civile e giudiziaria delle comunità indigene,
Organo collegiale ed elettivo, il cabildo si è guadagnato un ruolo fondamentale,
riconosciuto dalla legge colombiana.
Ma i problemi da affrontare sono molti:
la narcoeconomia, i rapporti con la guerriglia, la questione della terra.
Ne abbiamo parlato con il governatore del cabildo di Toribio.

Toribio. La sede del cabildo si trova quasi all’entrata del paese. È una modesta casa ad un piano con una grande scritta murale: «cabildo indigena resguardo de Toribio». Il cabildo è l’autorità indigena, collegiale ed elettiva, che ha giurisdizione su un resguardo; il resguardo è l’ambito territoriale su cui vive una determinata comunità.
Bussiamo e ci apre un giovane che si presenta come il custode. Dice che non c’è alcun rappresentante del cabildo, però acconsente a farci dare un’occhiata all’ambiente. Sul piccolo e spoglio cortile interno si aprono le porte di alcuni uffici, compreso quello del governatore, la carica più alta tra i membri del cabildo.
Non vi sarebbe nulla di particolare se non fosse per la presenza, su un lato del cortile, di una grata in ferro che chiude dei loculi verticali, piuttosto stretti. È il «calabozo», una sorta di prigione dove il condannato è costretto a rimanere in piedi per un certo numero di ore. Non si tratta dell’unica punizione che il cabildo può comminare. Ci sono anche il «cepo», i ceppi legati al reo; il «latigo», vale a dire le frustate; i lavori forzati nei campi appartenenti al cabildo; infine, il «destierro», l’espulsione dalla comunità, che costituisce, probabilmente, la condanna più temuta.
In effetti, tra le tante funzioni assegnate al cabildo dalla legge 89 del 1890 e dalle norme costituzionali del 1991, c’è anche l’amministrazione della giustizia.
Per sapee di più, chiediamo di poter parlare con il governatore. Ci spiegano che lo possiamo incontrare alla festa del «Tablazo», una località posta pochi chilometri sopra Toribio. Decidiamo di andarvi il giorno dopo.

«Bienvenidos al Tablazo» recita lo striscione. Come lo stesso nome suggerisce, il luogo è un altipiano, una radura aperta tra il verde della valle. È ancora presto e la festa non è ancora entrata nel vivo. Non abbiamo difficoltà a rintracciare il governatore di Toribio, Marcos Yule Yatacuè. Tarchiato, capelli neri e lisci, Marcos è con gli amici Martin, Ricardo e Marino. La funzione del governatore è quella di «servire e orientare» la comunità, tenere le relazioni con le autorità statali, vigilare sul territorio, amministrare i fondi che arrivano dallo stato, cornordinare il lavoro dei 40 membri del cabildo. «Ma – precisa Marcos – sopra di noi c’è il medico tradizionale, l’autorità spirituale da cui tutto muove».
Nella vita Marcos Yule Yatacuè è un linguista, che insegna ad altri professori. È faticoso fare il governatore?, domandiamo. «Sì, perché è un lavoro quotidiano, che ti impegna costantemente, dal lunedì alla domenica. La comunità si rivolge a te per ogni problema». Marcos lamenta che la sua posizione lo costringe a trascurare i 3 figli, ma si vede che è orgoglioso di ricoprire la carica (elettiva, annuale e gratuita).
Chiediamo quali siano le condizioni economiche della comunità. «L’economia è di sussistenza: si produce per mangiare. La terra è poca rispetto alle necessità: molte zone sono impraticabili, altre sono ancora in mano ai latifondisti. E poi non c’è sbocco di mercato per i nostri prodotti. Per questo molti giovani indigeni decidono di seminare amapola, coca o canapa. Sono coltivazioni molto più redditizie».
Raccontiamo a Marcos di aver visitato la sede del cabildo e di aver visto, con un po’ di stupore, la punizione del calabozo. «Il cabildo – spiega tranquillo il governatore – amministra la giustizia ed applica le relative sanzioni. I problemi della giustizia sono attesi da un “consiglio di investigazione” di 4 persone. Queste raccolgono le dichiarazioni e accertano i fatti. Poi sarà l’assemblea della comunità a determinare le punizioni: il numero di frustate, i mesi (o gli anni) di lavoro forzato nella finca del cabildo, fino alla sanzione estrema dell’espulsione. Ora stiamo discutendo su come sanzionare gli indigeni che sono coinvolti nel narcotraffico».
Ancora una volta, dunque, il discorso torna sul problema della droga. «La narcoeconomia produce una decomposizione a livello sociale. Genera vizi e invidia. Chi ha di più umilia chi ha di meno. Proprio il contrario di ciò che dovrebbe essere l’economia indigena: solidale e comunitaria».

In ottobre sono partiti i negoziati di pace tra le Farc e il governo del presidente Pastrana. Che ne pensa il governatore di Toribio? «È un negoziato in cui mancano i rappresentanti della società civile» taglia corto Marcos.
E i rapporti con la guerriglia? «I gruppi armati, le Farc in particolare, contestano la nostra autonomia. Dicono che dobbiamo essere inclusi in una sola forma di società, che le differenze e le pluralità culturali non hanno importanza. Affermano che il territorio non ci appartiene. Non rispettano l’autorità del cabildo».
Però – obiettiamo – come indigeni non potete lamentarvi: la costituzione colombiana vi dà ampie garanzie di autonomia. «Noi indigeni di Colombia abbiamo molti diritti. Ma sono più teorici che reali. Davanti ai nostri progetti rispondono che non c’è denaro. Però, lo trovano subito quando si tratta della guerra o del narcotraffico. Insomma, per ora il cambiamento non si vede. Ma noi dobbiamo insistere e spingere in quella direzione».
Pa.Mo.

Paolo Moiola




VIETNAM – Hanoi pedala nel passato

Dopo alcuni anni di rapida crescita, oggi il paese asiatico è in difficoltà.
Nonostante i divieti, i vietnamiti abbandonano
le campagne per trovare precari lavori nelle città.
Mentre la salute e l’educazione sono privilegio di pochi,
il corrotto apparato comunista mira soltanto a preservare il potere, indipendentemente dal consenso popolare.
Riprenderanno le fughe come ai tempi dei «boat people»?

Phuong è un nome dal suono dolce, perfetto per una giovane vietnamita. La Phuong che conosco ad Hanoi è carina e molto fortunata. Un corpo flessuoso, occhi a mandorla, Phuong è sposata da un anno e oggi mi ha confidato di aspettare un bimbo.
La fortuna le viene dal nonno, eroe di guerra, ucciso a Diem Bien Phu dai francesi. Il padre di Phuong non fece a tempo a conoscerlo, ma, quando arrivò il momento di fare il militare, fu esentato perché capofamiglia e mandato a studiare economia all’università. Ora lavora al ministero del turismo. La moglie è all’agenzia di stato e i figli sono tutti sistemati. Phuong si è laureata in russo e inglese, ha ancora poca esperienza, ma sa già come comportarsi quando le fanno domande indiscrete sul suo paese.
In Vietnam il partito è unico. Non solo, è a numero chiuso. Non ci si può iscrivere al partito comunista vietnamita. Se ci sei, perché tuo nonno ha fatto la guerra con Ho o era nel gruppo di intellettuali comunisti che lo fondarono, allora puoi stare tranquillo: tu e i tuoi figli avrete sempre un posto di lavoro con le ferie e la pensione. Altrimenti sei costretto a sopravvivere, come tutti gli altri. Come le donne che stasera vedo correre a casa, sotto la pioggia sottile, col loro carico ancora integro, bilanciato sulle spalle dal bastone di bambù. Hanno percorso le vie della città tutto il giorno, cercando di vendere qualcosa. Si sono fermate a cucinare per i passanti, arrostire pannocchie o friggere patate sul loro fornello portatile, sul marciapiede. Molte non indossano neppure i sandali di plastica, hanno il cappello conico di paglia che le protegge e un’uniforme che sembra un pigiamino.
La gente in campagna non ce la fa più e si sposta in città, nonostante i divieti. Le ragazze di campagna le vedi arrivare la mattina alle cinque e mezza; magari hanno fatto due ore di bici per arrivare nelle zone residenziali, dove è più facile trovare lavoro alla giornata.
SE MANCANO I SOLDI
L’abitudine dei vietnamiti è di rispondere «no» a qualsiasi richiesta, che sia un servizio o un’informazione. Così sono stati educati: loro non sanno, non possono, non rispondono. Jeanine invece parla, ora che è in pensione. Prima, non poteva neppure andare in chiesa: avrebbe perso il posto. Jeanine è cattolica e viene da Thai Bin, una città del delta a 120 km da Hanoi, dove c’è una grande chiesa.
Jeanine ha un grande rimpianto. Nata in Nuova Caledonia, dove il padre era emigrato durante l’ultima guerra mondiale (nel 1945 ci fu la fame nel nord, con 2 milioni di morti, mentre nel sud si gettava via il riso). Arrivò in Vietnam nel 1964, quando il genitore si lasciò convincere a rientrare in patria insieme ad altri emigrati. I vietnamiti hanno forte il senso della famiglia e della patria. Ma alcuni di loro si suicidarono, quando si resero conto dell’errore commesso lasciando la tranquilla e ricca colonia francese. Dopo 30 anni di lavoro come stenografa, ora Jeanine fa la domestica in casa di una famiglia danese, in una di quelle villette alte e strette che sono sorte come funghi 4-5 anni fa intorno al lago dell’ovest, la zona residenziale di Hanoi.
Jeanine ha modi signorili, grande dignità e parla un ottimo francese. Per me è stata una compagnia e un aiuto prezioso per comprendere questo paese. «Sono vecchia e stanca, ma non posso vivere coi 20 dollari di pensione al mese. Mio figlio studia all’università e ho anche dei debiti da pagare, a causa di un incidente che lo ha coinvolto».
I FALLIMENTI
DELLA SCUOLA
Alle cinque del mattino Jeanine va al mercato, che si estende lungo l’argine fino alla strada che porta in centro. Oggi è mistress day, la festa degli insegnanti e io l’accompagno, compreremo dei fiori, scegliendo tra i tanti mazzi di crisantemi gialli e bianchi. All’incrocio vedo giovani dall’aspetto grigio, arrivati dalla campagna per trovare un lavoro. «A volte passa la polizia e li scaccia tutti via – mi spiega Jeanine-. È uno spettacolo che il governo non vuole mostrare agli stranieri. Inoltre, vogliono scoraggiare i contadini a trasferirsi in città. Ma la vita in campagna è un inferno».
Hanno montato un palco con il busto di Ho Chi Min nel cortile della scuola. I bambini arrivano ben vestiti, con il loro mazzo di fiori, accompagnati dalle mamme, orgogliose e timide. Forse loro non sono mai andate a scuola e questa volta vogliono fare bella figura. Jeanine scuote il capo e mi dice: «Qui i maestri promuovono se ricevono regali. Sono mal pagati dal governo e l’insegnamento è di basso livello». Incontriamo due donne lungo il viale fiorito, che porta all’esclusivo club della pesca, sulle rive del lago. Thoa e Hung per oggi un lavoro l’hanno trovato: stanno zappettando le aiuole e stasera si porteranno a casa un dollaro prezioso, dopo 8 ore di lavoro e 4 di bicicletta.

STRANIERI, PRIVILEGIATI
MA ESCLUSI
Il centro di Hanoi ha conservato il fascino degli anni coloniali francesi, anche nei locali che sono stati restaurati. Davanti alla cattedrale, costruita sul modello di Notre Dame di Parigi, i ragazzini giocano al pallone, mentre un traffico di ciclò e motorette non disturba la tranquilla vita dei commercianti.
Nei quartieri residenziali periferici molte ville, costruite qualche anno fa per gli stranieri, sono sfitte. Anche i lussuosi alberghi del centro sono vuoti. Dopo aver attirato investimenti e joint ventures, i contratti sono stati modificati su iniziativa governativa, a danno degli investitori stranieri.
Frits Jepsen è un funzionario danese che lavora da anni nel campo delle fisheries, la pesca. Il governo danese è presente in Vietnam con progetti di aiuto e sviluppo, ma questi devono essere costantemente verificati, perché la corruzione è altissima. «In Vietnam la situazione è peggiore che in Sierra Leone, dove ho lavorato anni fa – mi dice Frits -. In Africa c’è molta corruzione, ma qui è stata addirittura codificata dal regime comunista. Non c’è via di uscita».
Anche la vita culturale di Hanoi è pesantemente influenzata da un regime legato ai vecchi schemi comunisti e nazionalisti. «Hanno speso 70 miliardi per ristrutturare l’Opera di Hanoi con l’aiuto di sponsors stranieri – interviene la signora Jepsen, che rimpiange molto l’Europa -. Ma sono obbligati a mettere in scena opere di Gluck e Mozart tradotte in vietnamita. Con risultati disastrosi».
Lisa Jepsen mi fa conoscere le amiche di Hanoi, che lavorano nelle organizzazioni umanitarie. Come la Iom (Inteational Organization for Migration), dove una signora danese si occupa delle donne vietnamite costrette a prostituirsi o a sposare cinesi che a casa loro non trovano moglie, a causa della politica del figlio unico e dell’aborto selettivo. Una ginecologa danese è arrivata da poco con il marito, funzionario dell’ambasciata. Sta cercando di rendersi utile, ma non è facile, data la chiusura che dimostra la burocrazia vietnamita. Mi confida: «C’è molto da fare nel mio campo. Le donne, specialmente le giovani madri, hanno bisogno di essere aiutate e informate. L’assistenza sanitaria nazionale è praticamente inesistente, per chi non può pagare».
La chiesa cattolica del quartiere apre la sera dopo le cinque. La donna che tiene le chiavi si scusa per lo stato d’abbandono in cui versa il minuscolo edificio. Il rosario di stasera, recitato da pochi, mi pare un lamento. Quando rientro a casa, la donnina che lavora nel cantiere vicino agli Jepsen è ancora occupata a caricare e trasportare sabbia e mattoni sul carretto. Va avanti e indietro, dal mattino alle 6 fino alle 10 di sera, col suo pigiamino grigio, il cappello conico e la mascherina di pezza. Come si può vivere in queste condizioni?
BICICLETTE
COME CAMION
È domenica: andiamo in campagna. Attraversiamo il Fiume Rosso e prendiamo la strada dell’argine. Non vi è traccia di fabbriche nei dintorni della capitale; solo presso l’aeroporto ho visto i lavori in corso, per creare un’area di insediamenti industriali.
La campagna è bella. Hanno terminato la raccolta del riso. Le case in mattoni sono spesso raccolte intorno a una chiesa, ma le campane non suonano più la domenica. Oggi è festa solo per gli impiegati di Hanoi, che da ottobre ’99 hanno ottenuto il sabato libero.
Proseguiamo per Bat Trang, un antico villaggio a ridosso del primo argine, dove pare d’essere in un girone infeale. Nelle vie fangose, interrotte da vaste pozzanghere, tutti sono al lavoro, anche i bambini. Da 500 anni qui si fabbricano vasi di ceramica di tutti i tipi. I più belli sono grandi, pesantissimi, smaltati e decorati a mano. Poi le teiere e le ciotole bianche a disegni azzurri, come quelle antiche, cinesi.
Ogni casa ha il suo foo a carbone e sono le bambine che impastano la polvere nera con acqua per fare le forme rotonde, da seccare sul muro. Le infeali e rudimentali macchine per lavorare il caolino fanno un rumore assordante. Cerco inutilmente una bottega che ci venda qualcosa da bere. Trovo solo qualche contadina con il suo cesto per terra con le verdure, qualche pesce e le pannocchie da arrostire. Gli uomini passano spingendo a mano le bici, con due pali per tenerle in equilibrio. Portano due cesti enormi con decine di grossi vasi. Durante la guerra venivano utilizzate le bici per il trasporto di armi, fino a 300 chili. Chi le sa riparare è uno dei più abbienti, in questa società di diseredati.
CESTE COME BARCHE
Un volo diretto da Hanoi ci permette di superare la zona colpita dal tifone, dove centinaia di persone sono morte, spazzate via nelle loro capanne di bambù su palafitte. La costa sul Mar della Cina è soggetta a tifoni, che fanno crollare ponti e dighe, distruggendo i raccolti. Mentre atterriamo a Nha Trang, vedo la grande baia e le isole che la circondano: pare un bacino di fango, tanti sono i detriti che riempiono il mare.
Un promontorio boscoso nasconde le ville di Bao Dai, l’ultimo imperatore. Sulla spiaggia ci sono le casette dei pescatori, gente cordiale e robusta che mi accoglie con simpatia. Un gruppo di ragazzine sta caricando taniche di combustibile su un piroscafo. Vanno e vengono sulla spiaggia, con la basculla di bambù sulle spalle che porta almeno 40 chili. Qualcuno ripara le reti, le donne puliscono il pesce, i giovani manovrano le sorprendenti barchette, cesti rotondi che possono portare anche 3-4 persone.
Una pioggia improvvisa mi costringe a fermare un ciclò e ripararmi sotto la cerata. Mi farò portare da questo magro signore (che ha forse passato la notte accoccolato sul sedile) sul bel lungomare, fino all’estremo opposto della baia di Nhga Trang. Una città tranquilla, con le sue chiese, le pagode e le torri cham che ricordano l’India, dove la vita è più facile e persino la guerra non si è fatta sentire. Qui si rifugiarono molti cattolici nel ’54, dopo la caduta di Dien Bien Phu, durante i 300 giorni concessi dagli accordi di Ginevra per poter passare la linea di demarcazione posta sul 17° parallelo. Nel 1954 la Polonia aveva partecipato, con Indonesia e altri paesi neutrali, all’evacuazione dei vietnamiti che volevano fuggire dal comunismo del nord.
Mi fermerò nel ristorante di Nam, buon amico del dottor Falcone, il medico italiano responsabile di Medici senza frontiere (Msf), che in città ha un ambulatorio per la cura e la prevenzione dell’Aids. Nam e la sua famiglia sono cattolici, originari di Hanoi. Apprendo così che a Nha Trang ci sono 3 diocesi, un nuovo seminario, 6 parrocchie e diverse comunità religiose.

A SAIGON
SOGNANO L’AMERICA
L’ultima mattina a Saigon, davanti alla bella cattedrale, incontro Cuong. L’aria è festosa, il clima caldo e rilassato, i negozi modei hanno un aspetto occidentale. Cuong vorrebbe che mi fermassi: «Avrei ancora molte cose da raccontare» mi dice. Figlio di un intellettuale comunista di Hanoi che ha scelto il sud per vivere, Cuong ha potuto studiare all’università e ora guida i gruppi di reduci americani in visita. «Ho avuto la fortuna di avere entrambi i genitori impegnati nella lotta contro i francesi e gli americani. Siamo stati spietati con i nostri connazionali che aiutavano il nemico, ma solo con chi uccideva. Sapevamo tutto, avevamo degli infiltrati ovunque. Nel governo filoamericano avevamo anche un ministro vietcong».
Vedo un giovane deciso, sicuro di sé, che non toerebbe mai al nord, la terra dei suoi. «Ma tu, che hai scelto di vivere in questa, che è la città più “americana” del paese, – gli chiedo infine – cosa preferisci, l’America e il suo stile di vita, o il comunismo?». Cuong risponde senza esitazione: «L’America»!

LA STORIA DI QUY, FRATE VIETNAMITA

Nha Trang (costa meridionale). Raggiungo la chiesa di Sant’Antonio su una bici arrugginita, nel traffico impazzito del pomeriggio. In queste città vietnamite bisogna viaggiare in mezzo alla strada, per lasciare posto alle moto e alle bici che vogliono attraversare contromano. Basta fidarsi, continuare a pedalare diritto senza cambiare il ritmo e la velocità: sono gli altri che ti evitano. Sfioro donne che corrono scalze con enormi carichi bilanciati sulle spalle e ho il cuore in gola, per la paura e la fatica.
Padre Quy’, un frate minore dal viso tondo e il sorriso asimmetrico, è parroco di S. Antonio. Mi parla a lungo del suo paese e mi fa conoscere situazioni e persone. Nato nel ’46 a Phu Gia, villaggio cattolico a 10 km da Hanoi, la sua è una famiglia molto devota, come tante nel nord. Nel ’54 sono costretti ad abbandonare il paese e raggiungono Nha Trang, sulla costa meridionale del paese, su una nave polacca. Quy’ entra nel seminario di Dalat e nel ’71 fa la sua professione a Saigon. Nel ’75 viene inviato in un remoto villaggio di campagna. Vi passerà i successivi 18 anni, lavorando la terra e cercando di rivitalizzare le parrocchie, abbandonate dai preti durante la guerra. La polizia provinciale lo sorveglia e lo autorizza a continuare perché ne apprezza l’opera, che non si limita al catechismo. Quy’ infatti incoraggia la popolazione a lavorare per migliorare le condizioni di vita. Dal ’79 all’’81 la regione soffre una terribile carestia: i contadini muoiono di fame a causa della collettivizzazione forzata. Sono gli anni della fuga, dei «boat people», che tentano con ogni mezzo di fuggire da un paese allo stremo. Molti di costoro sono cattolici, perseguitati dal regime. L’apertura arriverà solo con la «perestroika» di Gorbaciov, nel 1986.

Padre Quy’ è arrivato col suo motorino. Salgo e partiamo. Attraversiamo la città, dominata dalla bella cattedrale, costruita su un rilievo, in pieno centro. Saliamo sulla collina che chiude la baia verso nord, dove ho notato un edificio di stile italiano. È un convento francescano. Chiuso da anni, ha i vetri rotti alle finestre e una bandiera rossa appesa sulla porta. Sulla strada sterrata c’è la statua di San Francesco e, seminascosto da baracche di lamiera ondulata, il monumento funebre di Maurice Bertin, il missionario francese che fondò la missione di Nha Trang e fece costruire i primi conventi dei frati minori in Vietnam.
Gli abitanti del villaggio di Ba Lang, nella provincia di Than Hoa, arrivarono qui nel ’54, sfuggendo al massacro ordinato dal governo per impedie la partenza. Qualcuno dei familiari restò, per custodire la casa nella speranza di un ritorno. Than Hoa subì poi i devastanti bombardamenti americani, testimoniati dalle migliaia di crateri che segnano il suo territorio. I rifugiati di Than Hoa erano tutti pescatori e si installarono lungo questa baia, già occupata da comunità cattoliche. Nel ’79 i religiosi persero le scuole e parte dei terreni, requisiti dal governo che vi costruì una stazione di polizia e le caserme. Restano le chiese, una piccola comunità di carmelitane di clausura e una casa per le novizie delle suore francescane di Maria. Suor Claire, la superiora, è una donna stupenda, di grande esperienza, che ha fatto aggiungere la cappella (dopo i controlli governativi) sul tetto, per non dare nell’occhio. La parrocchia è guidata da padre Pierre Trai, un personaggio interessante, grande amico di Quy’. «Al tempo del presidente cattolico Diem, padre Pierre era segretario del vescovo di Saigon – mi dice Quy’ -. Gli americani fecero uccidere Diem perché si opponeva al loro intervento. Fu un grave errore. Del suo governo si ricorda solo la corruzione e il nepotismo. In realtà Diem, che apparteneva a una grande famiglia di mandarini del re, era stimato anche da Ho Chi Min. Entrambi non si erano sposati e avevano dedicato la loro vita al paese». Padre Pierre ha subìto la prigionia e deve sapere molte cose, che nasconde dietro un sorriso intelligente.

L’ultima visita è forse la più interessante. Padre Phuc fa parte del movimento patriottico. «Sono anch’io francescano, quindi perché non comunista?», mi dice, sorridendo dietro le lenti spesse. Phuc è seduto alla scrivania della sua stanzetta, ingombra di carte, radio e oggetti di ogni tipo. Quy’ mi spiega: «Abbiamo bisogno di essere rappresentati nel governo provinciale e Phuc è il nostro uomo. Hanno cercato di dividere le comunità cristiane, come è stato fatto in Cina, ma qui non ci sono riusciti».
La finestra è aperta sul sagrato, dove stanno lavorando alcuni operai. Parliamo della chiesa vietnamita. «La religione deve essere gestita e controllata dallo stato, che ha creato i movimenti patriottici, buddista e cristiano. Essi sono strumento del partito, ma, mentre la maggioranza dei buddisti è favorevole a questo governo, i cattolici no». La polizia segreta è tuttora onnipresente. La logica dei comunisti nel governare il paese è: opprimere, reprimere, prevenire i movimenti di opposizione. Ho visto i cartelli che invitano a partecipare al voto, con immagini femminili. «Il rinnovamento deve necessariamente partire dall’interno del partito – aggiunge Quy’, che mi pare il più pessimista -. Il comunismo vietnamita è senz’anima. Concussione e corruzione regolano la vita economica, ma il male peggiore è stato fatto all’uomo. La menzogna domina oramai le relazioni personali».
Devo partire. Padre Phuc e Quy’ sorridono, ma si sente amarezza nelle loro parole. «Abbiamo dei giovani intelligenti, che vorremmo continuassero gli studi, ma sono poveri…».
C.C.

Claudia Caramanti




KENYA & TANZANIA – Dialogare… da dove cominciamo?

Il fenomeno delle sètte costituisce una sfida
per le giovani chiese in Africa. Alcune di esse vorrebbero azzerare un secolo di evangelizzazione.
Eppure è urgente aprire un dialogo anche con loro: un nuovo fronte missionario di non facile attuazione.

«Lodiamo il Signore, fratelli, prima di continuare il nostro viaggio! Preghiamo!». Con voce forte e suasiva, il predicatore di strada John Mwangi si fa largo tra la folla alla stazione degli autobus di Nairobi, abborda un gruppo di persone in attesa di partire per Ngong, sale sul bus e continua il suo sermone.
La sua predicazione è basata su un versetto della bibbia, quasi sempre lo stesso. Finita la predica, chiede ai passeggeri un minuto di preghiera, in silenzio, occhi chiusi e testa bassa. E conclude con la terza parte, la più lunga e importante: «E ora, fratelli, prima di lasciarvi, se qualcuno vuole donare uno scellino per la parola di Dio, può farlo».
È così che, da due anni, Mwangi si guadagna da vivere; lo confessa candidamente e giura di essere un predicatore convinto e genuino. Ma ammette che altri usano la parola di Dio per i loro interessi.

A Githuri, sobborgo di Nairobi, sta prendendo piede una setta anticristiana per soli uomini. Ispirandosi alle tradizioni ataviche, lo sguardo rivolto al monte Kenya, gli adepti cantano in kikuyu le lodi di Ngai (Dio).
Kimani, un membro della setta, dice che la religione tradizionale è l’unico mezzo per unire la gente, mentre il cristianesimo, secondo lui, è causa di divisione. «Guarda a quante sètte ha dato origine: tutte in guerra tra di loro» aggiunge.
Il movimento non ha leader, perché davanti a Dio sono tutti uguali. Non credono in Cristo; ma buona parte del loro insegnamento si rifà all’Antico Testamento. Si considerano dei «Sansoni» redivivi, col compito di salvare il mondo dai «filistei» cristiani. Non si tagliano i capelli e temono le donne: potrebbero diventare potenziali Dalila.
L’identità più segreta è svelata solo ai nuovi adepti. La disciplina è molto rigida; chi disubbidisce è punito severamente. Sembra, tuttavia, che tra i loro ideali ci sia quello di servire la gente. Per esempio, si danno da fare per ridurre borseggi alla stazione degli autobus. Sono convinti che, con l’aiuto di Dio, cambieranno il mondo in un luogo di delizie.

A vvolti in tuniche multicolori, i seguaci della setta Thai invadono le strade di Nairobi; in nome di Mugeka, creatore e protettore di tutti, predicano la fedeltà coniugale. Se la prendono con i contracettivi, ma chiudono un occhio per i condom.
Molti aderenti a questa setta sono giovani e fanatici: arrivano con grandi altoparlanti; predicano anche quando la gente è poca o indifferente. Le zone residenziali, soprattutto, sono oggetto delle loro crociate.

S iamo a Nyeri, nel cuore della terra dei kikuyu. Poco lontano dalla città l’Outspan Hotel è pieno di turisti. Oltre il fiume Chania si estende il Mathari, dove i missionari della Consolata hanno costruito una roccaforte cristiana, con ospedale, scuole, seminario, istituti tecnici, tipografia, casa madre di una congregazione di suore africane.
Eppure, in città, all’ombra di un mugumo, pianta sacra per i kikuyu, in una piccola capanna-santuario, alcuni anziani discutono della loro religione tradizionale, incuranti delle beffe ironiche degli abitanti della zona. Uno di loro legge una vecchia bibbia. Per terra ci sono coa di animali differenti, teschi di capre, lattine di plastica, zucche svuotate.
Un uomo vestito di bianco sostiene che quel luogo è la fonte della loro antica fede religiosa: è la «chiesa» di Gikuyu e Mumbi, la coppia che ha dato origine all’etnia kikuyu.
Chege Kibiro, l’uomo vestito di bianco, è il «prete» del santuario, un esperto di tradizioni locali. Spiega con orgoglio che tale santuario fu costruito da alcuni vecchi mau mau, i guerriglieri del Kenya che hanno lottato per liberare il paese dal governo inglese e missionari cristiani. «La nostra religione – afferma Kibiro – è stata dispersa dall’uomo bianco. Con l’indipendenza va rivitalizzata. Fa parte della libertà per cui abbiamo combattuto».
La decisione di creare tale santuario fu presa il 14 aprile 1989, durante un raduno di ex combattenti. Vicino dovrebbe sorgere un istituto tecnico, dedicato a un eroe della lotta per l’indipendenza. È già stata inoltrata all’amministrazione governativa la richiesta di un pezzo di terra per tale costruzione, vicino a un grande mugumo naturalmente.
Kibiro è stato scelto come sacerdote in virtù dei suoi poteri straordinari, che risalgono al leggendario Mugo wa Kibiro, il profeta kikuyu che aveva previsto un’invasione della loro terra da parte di gente «con la pelle come quella di un rospo» (sarebbero i colonialisti e i missionari).
Il santuario è molto frequentato, spiega il custode della tradizione. Vengono anche alcuni politici per consultare la divinità tradizionale. All’ombra dell’albero sacro, si sacrifica una capra e si gettano i dadi: così si rivela la volontà divina.
E tutto questo avviene a pochi chilometri da Tetu e da Mathari, dove i missionari della Consolata hanno cominciato la loro attività nel lontano 1902. Quasi cent’anni fa!
Una grande sfida per la giovane chiesa di Nyeri e per i missionari.

Mtoto wa Siasa

Alessandro Di Martino




SUDAN – Sangue e petrolio sui monti Nuba

Il paese più vasto dell’Africa,
spaccato fra genti arabizzate e musulmane nel nord
ed etnie autoctone e cristiane nel sud. Ed è guerra fra i due «schieramenti»:
fra il regime di Khartoum e l’esercito popolare di liberazione,
fra il presidente al-Bashir e il colonnello Garang.
Con l’aggravante della fame e il blocco degli aiuti alimentari ai morenti,
con la razzia di schiavi e il genocidio del popolo nuba.
Impera la «legge islamica», detestata dal sud. E zampilla pure il petrolio.
Allora l’occidente apre gli occhi. A favore di chi?

Nell’aprile 1995 un gruppo di associazioni e organi di stampa italiani (Pax Christi, Acli, Amani, Arci, Caritas, Cesvi, Cuore Amico, Mani Tese, Nigrizia) lanciò la Campagna «Sudan, un popolo senza diritti», raccogliendo circa 50 mila firme per avviarla.
In questi ultimi anni la Campagna ha cercato, con una informazione corretta sulla «guerra dimenticata» del Sudan, di sensibilizzare l’opinione pubblica e di attuare una pressione politica sul governo italiano. A tale scopo ha organizzato incontri sul paese e ha promosso iniziative di solidarietà verso la popolazione, provata dalla guerra, dei Monti Nuba.
Nel forum «Sudan, un popolo senza diritti» (Milano, settembre 1999) i problemi sono ritornati alla ribalta. Sono intervenuti, fra gli altri, Richard Gray, professore di storia africana all’università di Londra e docente di storia all’università di Khartoum (1959-1961), Mel Middleton, cornordinatore della Campagna contro Talisman (compagnia petrolifera canadese in Sudan), Johannes Ajawin, sudanese del sud, avvocato e autore di rapporti sui diritti umani per African Rights, e Joseph Gazi Abanjite, vescovo e rappresentante della Conferenza episcopale del Sudan.
Prof. Richard Gray:
Colonialismo e guerra
Il professore Gray ha delineato con chiarezza le cause della guerra in corso in Sudan da tanti anni, dovuta soprattutto a situazioni economiche e politiche, «che si sono gradualmente confuse con i fattori delle identità religiose».
L’impero britannico occupò l’Egitto nel 1882, ma solo dal 1899 amministrò il Sudan insieme all’Egitto, dopo aver sconfitto il «Mahdi», eroe della rivolta islamica che, nel 1885, aveva debellato il generale inglese Gordon e si era insediato a Khartoum. Il governo di Londra non aveva interesse nel Sudan per sé, ma, occupandolo, negava «ad altre potenze il controllo sull’Egitto e sul Canale di Suez, all’epoca cordone ombelicale per l’India».
Con il timore di un’altra rivolta islamica, nel 1920 il governo britannico stabilì un modus vivendi con i sudanesi più influenti, permettendo al nord di vivere in pace e godere di benefici economici. Invece «il sud, insieme alla maggior parte del popolo nuba, rimase tagliato fuori dallo sviluppo fino al 1839, quando Muhammad Alì inviò una spedizione per esplorare il Nilo Bianco».
Mercanti europei, egiziani e levantini cercarono fortuna in queste regioni con il commercio dell’avorio e, ben presto, iniziarono la tratta degli schiavi. «Per tre decenni il governo britannico continuò questa violenza, usando anche aerei da bombardamento contro il sud, dal quale i pochi missionari cattolici si erano ritirati da tempo». Solo più tardi il Comboni e i suoi missionari raggiunsero i Monti Nuba.
Nel 1930 si riuscì a stabilire un modus vivendi anche con i popoli del sud. Per una generazione i britannici vi assicurarono la pace. «Per mantenere la stabilità, il governo di Londra escluse ogni influenza del nord, compreso il nazionalismo arabo».
Al termine della seconda guerra mondiale il governo britannico capì (tardi, in verità) che non si poteva conservare l’isolamento socioeconomico. Nel 1948 fu aperta la prima scuola superiore nel sud.
Nel 1956 il Sudan divenne indipendente. Gli amministratori coloniali, dopo i negoziati anglo-egiziani, lasciarono il paese e i loro posti di potere passarono nelle mani dei sudanesi del nord. Questo fece capire al sud che «si era passati da un regime coloniale ad un altro».
Scoppiò quindi la guerra civile, interrotta dal 1972 al 1983 per volontà del presidente Nimeiry. Egli stesso, però, ruppe la tregua quando furono scoperti giacimenti di petrolio nelle regioni settentrionali. La guerra riprese nel 1983, più cruenta che mai. Nel settembre 1983 Nimeiry ripristinò la sharia (legge islamica).
Dal 1989, con il presidente Omar al-Bashir, il potere si è consolidato nelle mani del Fronte islamico nazionale di Hassan al-Turabi, mentre il colonnello John Garang ha continuato a guidare l’Esercito popolare di liberazione (Spla).
Anche se l’attuale regime cerca di mobilitare tutti in una «guerra santa» soprattutto contro i nuba, «la guerra civile investe questioni economiche e politiche».
Coord. Mel Middleton:
L’ARMA DEL PETROLIO
La guerra contro il sud-Sudan si avvale anche dell’arma del petrolio. Da più di sei anni alcune imprese straniere lavorano nel paese per estrarre greggio.
Arakis fu la prima società del Canada ad operare con il governo sudanese nel settore petrolifero, con la presenza di imprese statali di Cina e Malesia. La compagnia canadese ha ammesso di aver fornito 10 mila barili di greggio al giorno alla raffineria di El Obeid. In questa città esiste una base militare aerea, che bombarda i Monti Nuba e le popolazioni del sud-Sudan.
Nel 1998 Talisman, un’altra impresa famosa in Canada, acquistò Arakis, legandosi anch’essa al governo di Khartoum. Le chiese del Canada e associazioni di difesa dei diritti umani hanno denunciato il fatto. Però Jim Buckee, direttore di Talisman, ha dichiarato: «Non c’era nulla che potesse far pensare che la nostra società sostenesse un regime malvagio».
Mel Middleton, cornordinatore canadese della Campagna contro Talisman, ha commentato: «I responsabili della società non hanno mai visitato le regioni meridionali del Sudan, colpite dal divieto dei voli umanitari per recare aiuto alle genti sottoposte a carestie “provocate”, traffico di schiavi e atti di genocidio. Il petrolio estratto è un’arma strategica del regime contro il popolo del sud».
Lo stesso Buckee nel 1998 ammise che una parte dei 250 milioni di dollari investiti da Talisman è finita in mano al presidente al-Bashir e compagni. Il vicepresidente ha detto: «Con l’esportazione di petrolio, otterremo una vittoria decisiva contro i ribelli del sud».
Il denaro del petrolio è il prezzo del sangue.
Avv. Johannes Ajawin:
chiese e moschee distrutte
La guerra civile ha comportato il genocidio, ancora in corso, dei nuba. Lo ha ricordato Ajawin, avvocato sudanese del sud e membro del movimento African Rights. Già nel 1995 African Rights accusò il governo di Khartoum di annientare il popolo nuba.
Il movimento ha come programma la verifica del rispetto dei diritti umani sui Monti Nuba: è un programma gestito da 11 volontari sul campo, collegati a Londra. Rigorose descrizioni documentano le atrocità e barbarie (bombardamenti, mine anti-uomo, razzie, sequestri) commesse contro i nuba, cristiani e musulmani.
In una relazione dell’agosto 1997 si legge: «L’incendio di chiese è divenuto prassi comune. Tutti i luoghi di culto nei villaggi e molti altri ancora sono stati distrutti: a Tandiri, Tabari, Regifi Um Dulu, Karkaraya, Nagorban, Nakur; anche la chiesa di Achiron è stata bombardata».
Si contano pure moschee distrutte. Questo è, per molti, uno degli aspetti più sorprendenti della guerra sui Monti Nuba, poiché gli autori dei misfatti sono musulmani. Il fatto fu documentato per la prima volta da African Rights tre anni fa. Però nulla è cambiato.
Il Consiglio islamico del Kordofan, nel sud, ha continuato il triste compito di elencare le moschee distrutte. La moschea di Kauda è una struttura solida, difficile da abbattere. Ma, nel marzo 1996, l’esercito vi lasciò solo i muri. Su una parete, vicino alla moschea, fu scritto il seguente versetto del corano: «Coloro che morirono in battaglia non sono realmente morti. Dio li benedirà più tardi».
Questo per indicare che non importa se un uomo ha ucciso qualcuno, perché Dio ne avrà cura.
Mons. Joseph Gazi Abanjite:
Per una pace giusta
Il vescovo ha rappresentato la Conferenza episcopale del Sudan, che si era incontrata a Nairobi il 12-27 agosto 1999 e aveva stilato il documento «Verso una pace giusta». Ne sono stati citati alcuni passi significativi.
«Giustizia e pace devono camminare mano nella mano e divenire parte integrante del nostro ministero pastorale. Vogliamo che le nostre diocesi e parrocchie (fino alle più piccole comunità) siano seriamente coinvolte nel creare e mantenere un’atmosfera in cui giustizia e pace possano prosperare… Perciò abbiamo deciso di allestire alcune strutture, di intraprendere iniziative, di raccogliere e divulgare informazioni per lavorare più efficacemente per la giustizia e la pace».
Al riguardo sarà formato un comitato speciale, con diversi gruppi di lavoro, per attuare programmi di pace insieme ad associazioni, altre conferenze episcopali, istituti religiosi, agenzie ed esperti vari.
«Faremo tutto il possibile – affermano i vescovi del Sudan – per espandere e rafforzare le iniziative ecumeniche esistenti per la riconciliazione tra i gruppi. Incoraggeremo le etnie e gli anziani locali ad usare i loro metodi tradizionali per risolvere i conflitti, quale valido contributo al processo di pace».
«Continueremo ad esercitare la non-violenza attiva denunciando le ingiustizie, gli affronti alla dignità e le violazioni dei diritti umani; resisteremo alle intimidazioni; entreremo in dialogo, scrivendo lettere e usando i mass media. Consideriamo la non-violenza attiva un mezzo di resistenza agli oppressori per renderli consapevoli del male che causano ai loro fratelli e sorelle».
«Cercheremo di avere informazioni accurate sulla propaganda e le politiche del governo sudanese e dello Spla, per renderle accessibili ai vescovi, alle ambasciate straniere, ai gruppi dei diritti umani, ai mass media stranieri».
I vescovi pregano e si augurano, un giorno non lontano, di poter dire con il salmista: «Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo; nell’andare se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma, nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni» (Sal 126, 5-6).
Pace in Sudan!

Silvana Bottignole




Anno 2000. Avanti tutta?

Abbiamo iniziato il 2000 con speranze e sogni di novità. Scampati, pure,
dai presunti disastri di un «baco» distruttore. Ma i problemi del mondo
sono sempre gli stessi.
Se ne siamo più coscienti,
potremo fare qualcosa di meglio
per non ricadere negli errori eterni.

nuovo

S iamo un gruppo di pre-adolescenti. Pur consci della nostra inesperienza, vogliamo tuttavia dire la nostra all’alba del nuovo millennio.
La riflessione inizia dai «nobili»: dai grandi castelli medievali, dalle torri gremite di guerrieri, dalle muraglie per difendersi dal nemico… che vuole impossessarsi dei loro averi.
In quei tempi esistevano due «vite parallele». La vita nel castello, con i ricchi, i guerrieri da difesa (questa è rimasta invariata fino ai giorni nostri!). Poi c’era la vita fuori delle mura, con gente semplice che si guadagnava il pane lavorando, sudando per quanti abitavano nel palazzo.
Fu così per un lungo periodo. I «nobili» o «grandi» costruivano roccaforti sempre più alte per intimorire il nemico, difendere i beni accumulati e rubati in battaglie. Più il castello era in una posizione proibitiva, più racchiudeva ricchezze…
L’uomo ha sempre camminato su due «trampoli»: l’orgoglio e la paura. Orgoglio: enorme stima di se stesso e dei propri mezzi, fierezza, amor proprio, fino a spingersi al vanto, rompendo spesso l’equilibrio con i simili.
Paura: sentimento che si prova in presenza o al pensiero di un pericolo; preoccupazione che aumenta sempre di più, specialmente quando si è impreparati ad un evento o quando si possiedono molti averi, di cui si ritiene di non potere fare a meno.
I signori si pavoneggiavano e, per sconfiggere la paura, si facevano costruire castelli sempre più impenetrabili.

C ambiarono gli eventi, ma l’impostazione sociale della vita continuò. Finché, nel secolo XIX, la rivoluzione industriale pose fine al sistema precedente. In Inghilterra la rivoluzione toccò in modo speciale il settore tessile. Gli artigiani, che da secoli avevano filato e tessuto in casa su telai di legno azionati a mano, si trovarono spiazzati: infatti non potevano più concorrere con la nascente industria che si avvaleva di macchine a motore, che producevano più merce e a minore prezzo.
Gli artigiani dovettero abbandonare i telai e cercarono lavoro in fabbrica come salariati. Nacquero due nuove classi sociali: quella imprenditoriale (ricca) e quella operaia (povera).
I rapporti tra le due classi non furono improntati a giustizia. A parte lodevoli eccezioni, la classe operaia venne sfruttata: bisognosa di lavorare per vivere, ma priva di una legislazione che ne tutelasse i diritti, subì, con l’incertezza del salario, estenuanti tui lavorativi di 12-14 ore giornaliere in condizioni durissime. Vi sottostavano anche i bambini, senza alcuna assicurazione sociale.
S’impose il «problema operaio», davanti al quale due furono le posizioni assunte. Nella prima ci si schierò a fianco dei salariati e, con organizzazioni sindacali e leggi, li si sostenne nella rivendicazione dei loro diritti. Le persone, impegnate in vari movimenti, per lo più socialisti e cattolici, riconobbero l’utilità delle due classi sociali (imprenditrice e operaia), ma si batterono sul fronte politico, legislativo e sindacale per conquistare la giustizia sociale.
In Inghilterra ricordiamo il Cartismo, i Trade Unions (attuali sindacati), le figure di Robert Owen (assertore di un socialismo utopico) e del prelato Henry Manning, chiamato dagli operai «il cardinale dei poveri». I frutti delle loro azioni, pazienti e tenaci, si ritrovano ancora oggi nelle buone condizioni di vita che i lavoratori godono: specialmente nel Nord Europa, ove l’azione dei cristiano-sociali fu più tempestiva ed efficace.
Nella seconda posizione, di fronte al «problema operaio» incontriamo Karl Marx. Questi non si lasciò intenerire dalle tristi condizioni dei salariati, che vedeva con i propri occhi a Londra, e neppure si mosse per aiutarli; ma, conformemente alla sua filosofia, additò la soluzione del problema nella soppressione delle stesse classi sociali, da realizzarsi mediante la rivoluzione. Tale rivoluzione, proclamata nel 1848 con la pubblicazione del «Manifesto», esercitò una potente attrattiva sulle masse operaie.
Tuttavia l’interesse per Marx non si sarebbe spinto più avanti, se egli avesse solo teorizzato la rivoluzione. Ma, per Marx, filosofia e rivoluzione formano un’unità inscindibile: è impossibile fare la rivoluzione senza abbracciare la filosofia. Una filosofia che chiedeva ai lavoratori non solo la partecipazione alla rivoluzione, ma anche il rifiuto di Dio e di ogni religione, perché «oppio del popolo».
I due sistemi (socialista-cristiano e marxista-ateo) viaggiavano in parallelo, scrutandosi con un comportamento di «guerra fredda» tra est e ovest. Questo frontismo, come tutti sanno, durò a lungo, fino al crac del 1989, reso emblematico dalla caduta del muro di Berlino. L’est si è frantumato.
M a anche l’ovest è in «crisi». I paesi occidentali sono preoccupati, perché l’oriente asiatico si affaccia sempre di più sul nostro mercato, i paesi arabi avanzano. L’occidente sventola la bandiera del vincitore; si dichiara un sistema positivo ed efficace. In realtà conta molte matasse da sbrogliare.
Anche gli italiani si avvertono sempre di più soli, chiusi in se stessi. Le case sono diventate piccoli castelli, quasi come nei tempi andati, con cancelli elettrici, cinte sempre più alte, citofoni, videocamere e mastini. Si ha paura di tutto e tutti. Sentendosi sempre di più persi, gli interrogativi aumentano e le risposte tardano ad arrivare. Intanto ci si riempie di oggetti… «che ci fanno sentire vivi», offuscando i veri valori. La tecnologia sfoa ogni giorno nuove attrattive, foendo gingilli che ci sembrano indispensabili, ma sono tali solo in forza della pubblicità. L’importante è vendere, creando una buona economia. Ordine tassativo: «costruire» acquirenti il più possibile. Siamo nell’era della comunicazione o della confusione?
Siamo tutti come bambini viziati: appena ci sentiamo vuoti, acquistiamo qualcosa per riempirci, sentendoci momentaneamente «vivi» per poi ritrovarci «morti». Si possiede solo per lo sfizio d’avere, senza chiedersi se sia veramente utile o no.
Nuovo millennio, vecchi bisogni! E le nostre paure aumentano.

N oi ragazzi non vogliamo metterci sul terrazzo e fare solo da spettatori. Né vogliamo soltanto criticare. Vogliamo metterci in discussione: fermarci, respirare e capire quale sia la nuova strada da percorrere. E ben venga chi, più esperto di noi, ci darà una mano.

Millennium bluff?

Nel mondo sono stati spesi tre milioni di miliardi di lire per sconfiggere il millennium bug. Parola del TG1.
Noi dell’associazione PeaceLink non abbiamo speso una lira e i nostri computer funzionano benissimo. Come mai? Semplice: bastavano pochi ed elementari controlli di routine. Invece è stata regalata agli «esperti» e alle multinazionali dell’informatica una montagna di soldi per risolvere un problemino aritmetico da quinta elementare.
Tuttavia il millennium bug, anche se i mass media non lo diranno, ha le sue vittime invisibili: cento milioni di persone moriranno nei prossimi dieci anni, private delle risorse investite per sconfiggere il millennium bug.
Mentre diciamo queste cose, siamo considerati fuori dal mondo. La lotta ad un improbabile baco viene, ovviamente, prima di quella alla fame in questa «ragionevole società del capitalismo reale». I bambini possono anche morire. Ma i computer non possono sbagliare data!
Detta così, la cosa può creare sconcerto. Facciamo allora qualche calcolo. Le statistiche documentano una mortalità per fame, malattie e povertà variabile da 30 mila a 40 mila vittime al giorno. Cifre che, ovviamente, non devono turbare l’opinione pubblica e che, quindi, la TV dà raramente. Qualcosa trapela quando esce il rapporto dell’Unicef.

R itorniamo ai tre milioni di miliardi che – a detta del TG1 del 2 gennaio 2000 – il mondo ha speso per il «baco».
Informiamoci: potremo sapere che bastano 500 mila lire l’anno per adottare un bambino a distanza. Armiamoci di carta, penna e tabelline: potremo calcolare che, se si fosse speso anche solo la metà dei miliardi destinati al millennium bug, si sarebbero potuti adottare a distanza per dieci anni 300 milioni di bambini poveri, sfamandoli, curandoli, mandandoli a scuola per prepararli al lavoro, aiutandoli a costruirsi un futuro senza dover emigrare.
Nei prossimi dieci anni che fine faranno quei 300 milioni di bambini? Purtroppo non saranno sufficientemente bravi a gestire le 1.500 lire che le statistiche affidano loro quale reddito pro-capite giornaliero; non riusciranno (gli sciuponi!) neppure a pagare il debito estero della loro nazione nel nuovo millennio.
Pertanto, come si è detto, se ne perderanno per strada più di 30 mila al giorno, insieme alle loro mamme e ad altre persone deboli, affamate e malate di lebbra o Aids. E, nel 2010, di quei 300 milioni ben 100 milioni saranno scomparsi dall’anagrafe dei vivi: 100 milioni di desaparecidos che il «capitalismo reale» considera una perdita fisiologica e tollerabile per la civile coscienza dei suoi fans. Costoro avranno sicuramente delle statistiche per documentare che, nel medioevo, la mortalità infantile era in percentuale maggiore.
Quindi, tutto sommato, viviamo in tempi più che mai fortunati.

N el 2010, in soli dieci anni del nuovo millennio, 100 milioni di vittime del capitalismo reale pareggeranno la bilancia con le vittime di 60 anni di comunismo reale.
D’accordo, il capitalismo reale non le uccide. E che bisogno ci sarebbe? Tanto muoiono da sole. Saranno cento milioni in meno, che non peseranno sulle borse di New York o di Tokyo, che non appesantiranno lo stato sociale né nostro né dei paesi poveri e che voleranno in cielo assicurando prosperità al mondo computerizzato.
Eh sì, perché spendere tre milioni di miliardi nel millennium bug crea sviluppo, spendee anche solo la metà per salvare vite umane in un pianeta già così popolato… no! Se per il mercato globale la vita delle persone contasse, le associazioni umanitarie sarebbero quotate in borsa. Invece no.

I l baco ha fatto da paravento al millennium business: nel più grottesco dei modi. L’opinione pubblica si è, alla fine, accorta di essere stata manipolata dai mass media. Ma, quando la consapevolezza si stava diffondendo, è stata iniettata una nuova dose di propaganda. Bill Gates ha detto: «Il baco non è ancora sconfitto, attenti ai prossimi mesi». Sganciate altri soldi, insomma. Se lo dice lui, che è un cervellone, cosa potrà ribattere l’ignaro inesperto?
In realtà Bill ed «esperti» si sono indegnamente arricchiti grazie al millennium bluff.

Giovanni Fumagalli