Beirut rivuole il paradiso

Il piccolo paese mediorientale è un laboratorio
religioso: cristiani, musulmani-sunniti
e musulmani-sciiti cercano una via di convivenza.
Ma i problemi non sono pochi. Dopo due guerre civili
(1958 e 1975), oggi il Libano patisce
una doppia occupazione (Siria e Israele) e ospita
mezzo milione di profughi palestinesi (musulmani).
Certamente la loro presenza ha contribuito
a rompere il fragile equilibrio del paese,
spostando l’ago della bilancia a favore
della componente islamica.
Per la «terra dei cedri» tornare alla prosperità
di un tempo è un sogno difficile da realizzare.

Francesca ha tanti amici in tutto il paese. Un paese piccolo e molto popoloso, il Libano, dove è facile incontrarsi, specialmente se si visitano i luoghi legati alla sua millenaria storia. Quando si incontrano, i libanesi si baciano tre volte, sulle guance, con affetto e simpatia. Possono essere drusi o armeni oppure maroniti, come lei. Ma per Francesca un amore ancora non c’è anche se sono passati già 13 anni da quella sera di pasqua, quando il suo ragazzo fu ucciso da un cecchino.
Si era nell’86 e i due giovani, che si erano conosciuti all’università, si erano dati appuntamento la sera, per uscire insieme. «Pensavo mi avesse fatto uno scherzo; per cui non volli cercarlo, per ripicca». Quando il mattino seguente la radio annunciò più volte la morte del ragazzo, Francesca ascoltava, ma non capiva. Sentiva ripetere quel nome «Samir, Samir…» e sua madre la guardava e non osava parlarle. «Era bello, intelligente, di buona famiglia, avevamo gli stessi interessi, gli stessi ideali». Per 7 anni Francesca non volle vivere, lavorava soltanto. Studiava e lavorava agli scavi archeologici, una sua passione. La vita continuava, ma la ferita era troppo grande. Molti giovani uomini sono caduti durante i 17 anni di guerra civile. Pare però che le ragazze libanesi siano molto richieste, come mogli, da europei e americani che ne apprezzano le doti.
Francesca mi accompagna in questo viaggio e mi ringrazia per aver avuto il coraggio di ritornare, a oltre 4 anni dalla mia prima visita. Le cose non stanno andando bene, come si sperava allora.

Al mio arrivo dall’Italia ho assistito al corteo festoso che attendeva l’arrivo in aeroporto da Tel Aviv, via Francoforte, di 5 ostaggi liberati dagli israeliani. Ieri un’auto-bomba, guidata da un «martire» hezbollah, ha ferito alcuni civili, mentre tentava di colpire una colonna israeliana.
Il fatto è avvenuto a pochi chilometri da Tiro, nel sud vicino al confine con Israele. Il sud è un altro mondo: la costa è verde di piantagioni e bananeti; la collina è ricoperta di ulivi. Entrando in città, vedo un manifesto con la bandiera a stelle e strisce, dove le stelle sono teschi e le strisce grondano sangue. Le scritte denunciano le responsabilità degli Stati Uniti nel dramma irrisolto del sud occupato; altri cartelli portano le immagini di capi sciiti con barba e turbante.
Tiro è Terra santa. Qui, secondo una tradizione, ricordano ancora i luoghi prediletti dalla Madonna per sostare in attesa del figlio, entrato in città a predicare. Visitiamo i resti grandiosi della città, che il mito dice patria di Europa, la bellissima amata da Giove. Settimio Severo, l’imperatore di Leptis, la volle abbellire, ma gran parte dei resti antichi di 6.000 anni giacciono sotto i nuovi palazzi, che non saranno mai demoliti. Li occupano le famiglie degli eroi della guerra, e dalle loro finestre si abbraccia il porto fenicio, l’ippodromo immenso, l’acquedotto e le vie lastricate col colonnato e la necropoli.
Sento che qualcosa ci lega profondamente a questa terra. Prima di arrivare a noi, la cultura d’Oriente si è fermata su queste rive, ha preso forma nella parola scritta, si è arricchita e si è irradiata in tutto il mondo. Il mare lambisce queste rovine malinconiche. Unici visitatori siamo noi, con una famiglia di libanesi di Montreal, per la prima volta a Tiro coi loro bambini. «In Canada si vive benissimo, ma vogliamo far conoscere il Libano ai ragazzi». Mi dice il padre. Forse non toeranno mai più. C’è tristezza nelle sue parole.
Ho incontrato libanesi nei luoghi più remoti, tutti impegnati negli affari. Gestiscono alberghi e imprese commerciali. La maggioranza è benestante, unita in associazioni che mantengono stretti legami con la madrepatria. Quasi tutte le famiglie libanesi all’estero hanno un figlio o un parente a Beirut.
Siamo nel Chouf, la valle dei drusi, a pochi chilometri da Beirut. Deir el Qamar era il sogno di Fakardino, l’emiro druso che fu profondamente influenzato dall’educazione cristiana e dai contatti con la cultura italiana.
Accanto a eleganti palazzi, una sinagoga (ebrei spagnoli giunsero qui nel ’700) e moschee di pietra dorata, c’è una chiesa del quinto secolo, Sayidet et-Tallè, dove incontro Frate Raimondo, un giovane maronita che ha scelto la famiglia francescana per aiutare i poveri. Indossa il saio e non teme di usarlo anche quando è a Tiro, la sua città nel sud occupato dagli israeliani. Parliamo dei problemi della popolazione, degli hezbollah che continuano a lottare per liberare la loro terra.
«In questo paese le fila delle lotte armate sono tenute in mani lontane, in paesi stranieri che fanno i loro interessi. Ma non è così anche in Italia?». Fuori stazionano guardie armate. Forse sono siriani anche questi giovani col mitra, che sorridono contenti di essere fotografati.
La storia del Libano è anche quella di personaggi carismatici e delle loro grandi famiglie. La storia dei drusi è affascinante, la loro fede misteriosa, esoterica. Il feudo della famiglia Jumblatt (nobili signori drusi, legatissimi alle vicende del paese) è molto esteso. I palazzi sono di un’eleganza raffinata, in stile arabo con influenze fiorentine. La storia di Kamal, che studiò dai padri lazzaristi e fu ucciso nel 1977 dagli uomini di Assad, è riassunta nel museo a lui dedicato; e ora suo figlio Walid Jumblatt è uno dei politici più in vista, in questo Libano pesantemente controllato dalla Siria.

Nabil è un soldato druso, e lo si capisce dall’andatura e dalla stazza. Ora fa l’autista, ma al tempo della guerra ha combattuto, sui monti tra Aley, la sua città, e la valle della Bekaa, la valle dove, secondo la leggenda, Caino uccise Abele. Suo padre, che era nella polizia, morì a 50 anni d’infarto, lasciando una vedova con 9 figli. Una vedova saggia, che seppe crescere la numerosa prole nella cultura tradizionale.
I saggi, presso i drusi, sono coloro che hanno la conoscenza, gli unici a poter accedere ai testi sacri. Sin da bambini devono dimostrare di possedere una particolare sensibilità, e ricordare le vite vissute precedentemente. Allora vengono cresciuti dagli anziani, sulla base delle scritture, che comprendono, oltre al corano, anche i primi cinque libri della bibbia, il vangelo e le lettere degli apostoli. Sono loro che continueranno la tradizione, all’interno di una comunità che ha forte coesione e non può fare proseliti.
Il classico costume nero, con il lungo velo bianco per le donne e il copricapo per gli uomini, viene ormai indossato solo dagli anziani, che abitano queste montagne o alcune regioni del sud della Siria e in Israele. Le sorelle di Nabil sono tutte sposate e vivono in Canada e in Brasile.

Rientro tardi dalla messa in San Francesco, quando il traffico sempre intenso si è fermato: pare che nelle strade buie di Hamra vi sia il coprifuoco. Padre Jussuf, il parroco cappuccino che non porta il saio per non urtare la sensibilità degli abitanti del quartiere, tutti musulmani, mi ha fatto gli auguri. Poi mi ha raccomandato i poveri della parrocchia. Vedove o mogli di carcerati, tutte musulmane e molte anziane e sole, che possiamo «adottare» con offerte che consentano loro una vita dignitosa.
Salendo a piedi, tra le botteghe ancora chiuse per il ramadan, sento gli scoppi di petardi e sussulto. Non sono segni di festa, tra questi edifici ancora segnati dalla guerra, che le luci al neon e le facciate nuove non riescono a nascondere. Uno scoppio a poca distanza, sulla strada, con il fumo acre e passi nel buio che mi fanno sussultare. Col nodo alla gola rientro, passando veloce davanti al gigantesco portiere in tuba e giacca con le code. Un uomo imponente, con baffi neri girati all’insù, che sembra uscito da un circo equestre. Gli altri, i siriani della sicurezza o i poliziotti, che passeggiano tra ingresso e vie laterali, hanno il solito aspetto guardingo. Chissà a quale gruppo, a quale milizia appartengono. Al «Bristol» pare scendano personaggi importanti.
L’altra sera un tabellone annunciava la presenza dell’ambasciatore iraniano, per un convegno del partito Amal. Stasera invece vedo gruppi di libanesi eleganti, accompagnati da donne forse troppo truccate. Sostano nella hall, poi entrano nel salone dove ci sarà la festa. La musica è orientale, le luci sono basse e l’ambiente fumoso.
Troveremo il solito traffico intenso sulle arterie che ci portano a nord est. In Libano vi è una vettura ogni due abitanti e i servizi pubblici sono rari. Prima sostiamo in piazza dei martiri, davanti all’albero di natale coperto di palline rosse di luce. I contorni della chiesa armena, rimasta intatta, sono illuminati da file di lampade che la fanno sembrare più imponente. In fondo al piazzale vuoto scompaiono nel buio le moschee, ex antichissime chiese cristiane. Oltre, si intravedono le sagome delle nuove, lussuose costruzioni, ancora vuote, del progetto Solidère dell’ex primo ministro Hariri. Un quartiere nuovo e miliardario, tra le moschee e il nuovo porto turistico.
Superiamo la «linea verde», che tagliava la piazza e separava la zona musulmana da quella cristiana. Le insegne al neon, commerciali e natalizie, ci seguono lungo la direttrice che porta verso nord est. Superiamo Antelias, il quartiere armeno con la chiesa e la sede del catholicos, e attraversiamo Jounieh, tutta decorata di luci, presepi e slitte con le renne e i babbi natali. Lassù in cima al monte vigila la gigantesca statua della madonna di Harissa. Forse è troppo ostentata la potenza della chiesa, in questo paese oramai in gran parte islamico.
Con il loro carretto ricolmo, i venditori di fave aspettano clienti. Noi ci fermiamo presso la grotta dedicata a San Giorgio, per accendere un cero insieme ai devoti.

Hanno riaperto il «Casino du Liban». Era un luogo mitico, pare, negli anni dorati di Beirut, prima della guerra. L’edificio ricostruito del casinò si affaccia ora su un promontorio verde di giardini, con vista sulla città e la baia. Abbiamo un tavolo riservato per la festa di mezzanotte: oggi è il 31 dicembre del 1999 e in tutte le capitali del mondo si preparano i festeggiamenti.
«Chi non ha vissuto a Beirut, prima della guerra, non sa cosa sia il paradiso sulla terra». Sembra esagerata questa affermazione della signora armena seduta con la figlia accanto al mio tavolo, nella sala martingala, al primo piano del casinò.
È una donna malinconica, dal lungo naso e dagli occhi neri e penetranti, che ricorda con rimpianto gli anni in cui la vita a Beirut era proprio bella. Vedova, la signora Zekunian è tornata a Beirut, dopo quindici anni di esilio forzato a Parigi. «Per nove anni, fino all’83, abbiamo resistito qui, sperando che la guerra sarebbe finita presto. Poi mio marito ha trasferito gli affari in Francia, dove mia figlia ha compiuto i suoi studi. Sono tornata ora, perché sono rimasta sola. Qui sono le mie radici, qui abitano i miei parenti e noi libanesi siamo molto legati alla famiglia».
Nel 1982 infatti i palestinesi ricchi avevano lasciato Beirut, Arafat si era trasferito in Tunisia, e i grandi capitali erano stati ritirati dalle banche libanesi. Il paese era entrato in crisi e la lira libanese aveva subìto una pesante svalutazione. La speranza ora sta nella figura carismatica e, pare, onesta del presidente Lahoud, il generale che liquidò Aoun.
La vita a Beirut non sarà mai più la stessa. La lunga guerra non ha solo devastato il paese, alterando col cemento della ricostruzione l’armonia delle città e del paesaggio mediterraneo; ne ha inquinato l’anima, seminando diffidenza, sfiducia e anche paura tra gente che aveva sempre convissuto bene, da secoli. Facendosi i propri affari e lasciandoli fare agli altri. Dall’oggi al domani, durante quegli anni, chi era amico poteva diventare nemico, e viceversa.
La mezzanotte arriva, ma non vi è un segno che lo indichi. Guardiamo l’orologio, mentre nel resto del mondo si festeggia con fuochi d’artificio, che forse qui fanno paura. Il profilo della città pare tranquillo, attraverso la vetrata, mentre il pianista indugia ancora nel suonare canzoni francesi di mezzo secolo fa. Al piano terreno hanno sospeso per poco i giochi e le slot machines per assistere a una rumorosa processione di suonatori che salgono e scendono dalle scalinate. Donne in abito lungo e giornielli vistosi sostano interdette dallo spettacolo. Hanno distribuito i cotillones, ma dopo pochi minuti nessuno è disposto a continuare di fingere divertimento. La musica ora è quella napoletana, per noi che abbiamo scelto questo luogo per entrare nel 2000.

UN GIGLIO IN MEZZO ALLE SPINE

Rappresentano la più numerosa tra le varie comunità cristiane presenti in Libano. Nel paese mediorientale vi sono, infatti, anche gruppi di assiri, caldei, siro-cattolici, siro-ortodossi, greco-cattolici, greco-ortodossi, latini, protestanti, armeni-gregoriani e armeni-cattolici.
Marone era un eremita che viveva in odore di santità presso il fiume Oronte, in Siria. Dal suo monastero partivano i missionari, suoi discepoli, tra i quali sono ricordati molti santi, per evangelizzare le genti pagane di lingua aramaica che abitavano i monti del Libano. Tra i cristiani di Siria, i seguaci di Marone furono i soli ad aderire alle decisioni del concilio di Calcedonia: Cristo è vero Dio e vero Uomo. Nel 628 essi accettarono il monotelismo, dottrina di compromesso tra monofisiti e calcedonesi, approvata dal papa. Ricevettero quindi i favori dagli imperatori cattolici, ma ebbero anche molti martiri, a causa di gruppi di monofisiti a loro avversi. Accerchiati dall’islam, con la sconfitta dei bizantini i maroniti furono tagliati fuori dalle vicende della chiesa di Roma. Costretti ad abbandonare il loro monastero, distrutto dagli arabi, si rifugiarono nella valle Qadisha, sul monte Libano, dove nel 939 si stabilì il patriarcato. La «valle santa», ricca di eremi e monasteri, è ancor oggi il loro centro spirituale. Furono di aiuto ai crociati, indicando la via migliore per raggiungere Gerusalemme, e vennero da loro ricordati come valorosi soldati. I crociati porteranno la testa di San Marone in Italia, e ora si trova nel duomo di Foligno.
Non esistono prove di una costante fedeltà a Roma dei maroniti, né di una loro eresia. Essi si considerano gli unici ad essere sempre stati cattolici, anche se in occidente li hanno a lungo considerati tra gli «uniati» (termine spregiativo, usato dagli ortodossi per i membri delle loro comunità tornati all’unione con Roma).
Con la partenza dei crociati, i maroniti subirono la vendetta dei mamelucchi. Alcuni si rifugiarono a Cipro, altri rimasero arroccati nella loro valle, isolati ma fedeli a Roma. Leone X darà loro l’appellativo di «un giglio in mezzo alle spine». A quel tempo, ogni centro maronita aveva un preposto che governava a nome del vicerè di Tripoli, con dignità seconda solo al sacerdote. Sotto la dominazione ottomana viene incoraggiato l’insediamento di agricoltori maroniti nel sud. L’emiro druso Fakardino utilizzava governatori maroniti nei suoi domini e costruì conventi per i cappuccini. Fiorirono a quel tempo gli ordini religiosi e sorsero centri culturali e università, che, promuovendo studi e scambi culturali con l’Europa, furono cerniera tra la cultura d’Oriente e d’Occidente. Con la dinastia sunnita Chehab si ebbero numerose conversioni al cristianesimo. Questa relativa pace spinse i gruppi delle chiese uniate a trasferirsi in Libano: i melchiti nel 1725, gli armeni nel 1739, i siro-cattolici nel 1783. Il patriarca maronita era il solo capo religioso ad essere ricevuto alla corte ottomana come un capo di stato. Tuttavia, vi furono, a volte, persecuzioni e martiri che rifiutavano l’abiura. Nel 1860 il massacro operato dai drusi spinse molti maroniti ad emigrare nelle Americhe. Nel 1943 essi si vedono attribuire, col «patto nazionale», il seggio di presidente della repubblica. C.C.

Claudia Caramanti




L’opinione – I popoli sono come le nuvole

Vidiadhur S. Naipaul

Nato a Trinidad (Piccole Antille) nel 1932,
è uno dei massimi scrittori viventi.
Il 19 giugno scorso ha ricevuto
il premio internazionale Grinzane Cavour
“Una vita per la letteratura”.
Dotato di un inglese raffinato,
Vidiadhur S. Naipaul ha scritto romanzi e saggi, frutto di una ricerca rigorosa
e una forte tensione morale.
Lo scrittore, che non sopporta la superficialità dei giornalisti, ha risposto ad alcune domande durante una conferenza-stampa.

Signor Naipaul, lei ha viaggiato anche in paesi islamici e ha scritto «Fra credenti». Pensa che ci sia una rinascita del mondo islamico, una rivoluzione modea?
Ho visitato, per esempio, l’Iran nel 1979-80. Gran parte del linguaggio dei fondamentalisti islamici pareva una mimica del linguaggio della rivoluzione marxista. Per questo i marxisti in Iran hanno avuto tanti guai. Si sono dati alla causa religiosa e ne sono stati consumati. Quella non era una rivoluzione religiosa, ma un’azione reazionaria in gran parte nelle mani di persone senza cultura. Dobbiamo essere molto cauti e non lasciarci sedurre dalle parole apparentemente civili.
So che alcuni studiosi degli Stati Uniti ritengono che il fondamentalismo abbia aspetti positivi: stanno soltanto proteggendo il loro lavoro. Abbiamo visto e, ancora oggi, vediamo tutta la faccia nefasta del fondamentalismo in Afghanistan.
L’Iran è una tirannia. Non dobbiamo, però, frapporci tra le rivoluzioni e ciò che la gente vuole. Gli iraniani hanno voluto questa rivoluzione «farsa». È giusto che l’abbiano e che ne paghino il prezzo.

Le migrazioni hanno sempre caratterizzato la storia? Che ne pensa?
Se si potesse vedere la storia, come su foto inviate da un satellite, si vedrebbero le popolazioni in movimento come le nuvole. Se potessimo andare ai tempi dell’antica Roma, vedremmo le invasioni dei teutoni nel sud della Francia, dove Cezanne ha dipinto i suoi quadri famosi. L’Andalusia, regione della Spagna, ha preso il suo nome dai vandali dell’Europa orientale (la parola «anda» deriva da «vandalo»), mentre i turchi per secoli si sono accampati presso le rovine delle città dell’antica Grecia. In quest’ottica anche gli spagnoli hanno poi invaso il Nuovo Mondo.
Questo genere di migrazioni non può, però, essere paragonato alle attuali migrazioni «economiche» a cui forse state pensando.

Ebbene, come giudica le odiee migrazioni «economiche»? Conflittuali o incontri di cultura?
L’odiea migrazione è permessa e persino incoraggiata dai governi con le loro politiche. I kosovari in Italia potrebbero essere definiti «i migranti della Nato». La Nato ha fatto grande pubblicità. Ne siete preoccupati?

Lei lo sarebbe?
Se fossi italiano credo proprio di sì.

Cosa pensa dei molti conflitti che lacerano il mondo, in India come nell’ex Jugoslavia? Sono causati da motivi tribali?
Abbiamo parlato di «movimenti storici». Non userei l’aggettivo «tribale», perché penso che lo si possa applicare solo, forse, a sparuti gruppi che vivono nell’Antartico… Nessuno può pensare ad un mondo tribale o incoraggiare il mondo ad esserlo!
Il conflitto dei Balcani non è soltanto etnico. Le popolazioni locali hanno vissuto per decenni senza libertà, senza istituzioni libere, senza leggi in cui riporre speranza, senza valide tradizioni. La storia insegna che un popolo si sente potente nella propria etnia (che poi si rivela una trappola), quando non ha fiducia nelle istituzioni. Alle nuove generazioni dell’ex Jugoslavia bisognerebbe insegnare la democrazia e, con questa, sviluppare la fiducia nelle istituzioni.
Non userei l’aggettivo «tribale» anche perché penso che ogni persona possa avere cinque, sei, sette… idee di se stessa.
Per esempio, guardate questa signora (indicava la sottoscritta, che mi ero presentata come collaboratrice di una rivista missionaria): è italiana, giornalista, scrive per un periodico impegnato, ha una sua cultura, avrà visitato paesi del sud del mondo, conosciuto culture diverse…

Nel suo romanzo «Alla curva del fiume», ambientato in Congo, il protagonista Samir è di origine indiana e appare come una persona onesta, mentre la figura del despota racchiude i tratti di numerose dittature. Ha voluto sottolineare alcune caratteristiche universali?
Quando scrivo non mi chiedo se il protagonista è onesto: scrivo e basta. Sarà il lettore o il critico a giudicare i diversi personaggi.
Nel presentare la figura del dittatore in Congo, avevo in mente Mobutu e ho cercato di descriverlo. Non so se Mobutu sia «universale». Se tale despota ne ricorda altri, non è mio compito dirlo. Nei romanzi cerco di raccontare situazioni reali in un determinato contesto e momento storico.

Che cosa pensa degli scrittori indiani come Narayan?
Narayan è un grande scrittore indiano di lingua inglese: oggi ha più di 90 anni. Però è uno scrittore spirituale, mistico e nega la realtà. Ha perso la moglie quando era molto giovane e questo ha condizionato la sua opera. Scrive nell’illusione, nega le osservazioni della realtà. Per lui la realtà è falsa.
Scrivere un romanzo significa, invece, affermare che il mondo è reale, significa illustrare la solidità del mondo. Attenti, dunque, agli scrittori che cercano di raccontare la complessa realtà indiana imitando Joyce, Marquez o Hemingway!

Quali scrittori apprezza o apprezzava da studente?
Sono uno scrittore, non un lettore. Da giovane leggevo decine di libri per volta. Di ogni testo scorrevo con attenzione 50-60 pagine, cercando di sentire la musica nella scrittura. Ho apprezzato molto Maupassant.

Pare che il suo rapporto con i giornalisti sia terribile. Eppure non l’ho rilevato nei suoi scritti. Perché?
La mia irritazione non è causata dai giornalisti, ma dal loro bluff (inganno, boria). Personalmente non mi sognerei mai di diventare editore del Musical Express, perché non so nulla di musica. Ma purtroppo ci sono giornalisti che pretendono di intervistare uno scrittore senza aver letto almeno uno dei suoi libri o che scrivono copiando materiale d’archivio. Questi giornalisti sono un bluff, perché sciupano sia il proprio tempo che quello dello scrittore e commettono una frode nei confronti dei lettori, che non ricevono il servizio dovuto.
È un’occasione perduta per il giornalista, al quale chiedo: «Qual è il valore del tuo lavoro? Che rispetto hai di te stesso? Fai così settimana dopo settimana? Che cosa offri ai tuoi lettori? Come ti senti?».

P. S.
Non mi sognerei mai di fare domande ad uno scrittore senza aver letto almeno due dei suoi libri e aver deciso che vale la pena di intervistarlo.
Nel caso di Naipaul, avevo capito che è uno scrittore di valore, ma che non sarebbe stato facile incontrarlo.
Durante la conferenza-stampa, ho suggerito ad un collega di leggere «Una casa per il signor Biswas», in cui Naipaul è critico e ironico verso i giornalisti e direttori di giornali, oppure «Alla curva del fiume», in cui il protagonista è inorridito della superficialità con cui i giornalisti occidentali hanno descritto i massacri degli arabi lungo la costa dell’Africa orientale.
Naipaul ha apprezzato il mio suggerimento e ha commentato: «Vedo che lei si è preparata bene. Per quale rivista scrive?».
«Missioni Consolata» ho risposto.
S. B.

Silvana Bottignole




Metropoli e personaggi – Naipaul

Un caleidoscopio di «intoccabili» e «maharaja», atei e credenti, conservatori e progressisti, indù, musulmani, sikh, cristiani.
E non solo.

«Per me l’India è un paese
difficile.
Non è, né può essere la mia
patria, eppure non riesco
a respingerla, né a esserle
indifferente; non posso
visitarla semplicemente
da turista.
Le sono al tempo stesso
troppo vicino
e troppo lontano».

Così scrive Vidiadhur S. Naipaul nel suo saggio «India: una civiltà ferita», frutto del viaggio nel paese tra agosto 1975 e ottobre 1976. Ancora più traumatica fu la visita nel 1962, da cui scaturì «Un’area di tenebra».
Nel 1989 Naipaul, ormai scrittore affermato a livello internazionale, rivisitò l’India con l’occhio reso più acuto dall’esperienza e incontrò figure emblematiche nei contesti più disparati di un paese velato ancora da un’aura di mistero.
«India», frutto di questo nuovo viaggio, è una serie di mirabili affreschi in cui i personaggi, intervistati dallo scrittore con profondità psicologica, sono immersi in uno scenario che presenta i mutamenti avvenuti negli ultimi 30 anni e cattura eventi culturali ancora vivi, malgrado il peso dei secoli, nella vita quotidiana degli indiani.

«Bombay… C’erano ora su entrambi i lati della strada file di edifici di cemento, ammuffiti ai piani alti dal clima (troppo sole, troppa pioggia, troppa calura) e sudici ai piani bassi, come se assorbissero la sporcizia della brulicante umanità che si muoveva a livello del marciapiede, come se quell’umano sudiciume procedesse verso l’alto, superando una dopo l’altra le linee di marea fino a raggiungere i piani ammuffiti…
La chiesa nominata dall’autista era la celebre cattedrale della Goa dov’è sepolto san Francesco Saverio. La cattedrale e gli altri edifici portoghesi della città vecchia, un po’ rientrati rispetto al fiume Mandovi, hanno un effetto sconcertante in questa coice: così lontani dall’Europa… in quella luce così abbacinante, con le spiagge bianche che ricordano più le isole deserte del Nuovo Mondo… che villaggi e cittadine sovraffollate della vecchia India, con il suo passato intricato…».
nn In una Bombay cosmopolita e caotica Naipaul è colpito da una «coda lunga un paio di chilometri», formata dai dalit (intoccabili), decorosamente vestiti «per rendere omaggio al loro santo da lungo tempo sepolto, a quel dottor Ambedkar che nella fotografia indossava una cravatta all’europea».
Intervista Namdeo, poeta dalit e fondatore nel 1974 delle Dalit Panther, che afferma: «C’era un’epoca in cui eravamo trattati come animali. Adesso viviamo come esseri umani. E tutto grazie ad Ambedkar».
Sempre a Bombay, metropoli di opportunità e disperazione, lo scrittore incontra un giovane pujari, cresciuto in un ashram, fedele esecutore di riti complessi secondo la tradizione indù, e il ventinovenne Papu, agente di borsa di successo e fedele seguace di Giano: perciò vegetariano e impegnato la domenica mattina come volontario nella bidonville di Dharewi.
Anwar, giovane musulmano, è invece attendibile testimone delle continue violenze tra indù e musulmani.

«L a gente ora aveva più soldi a disposizione: si vedeva chiaramente anche dalla campagna del Kaataka, lungo la strada a sud di Goa. La povertà indiana non era scomparsa, c’erano ancora mucchi d’immondizia, le case e i vicoli dall’aspetto cadente, ma i campi di canna da zucchero, di cotone e di altri prodotti agricoli avevano un’aria lussureggiante e ben tenuta; nei villaggi le case erano spesso pulite, con i muri intonacati e i tetti di tegole rosse. Non c’era traccia dell’indigenza che avevo visto 26 anni prima dall’autobus lento che si fermava ad ogni passo; non più quegli scheletri ambulanti dagli sguardi allucinati. La rivoluzione agricola lì era una realtà, la disponibilità di cibo era visibile…».
nn Invitato a colazione da Prakash, ministro del governo del Kaataka, lo scrittore osserva la lunga fila di gente in attesa di udienza e favori, perché «i ministri sono gli odiei maharaja» e godono di molti privilegi concessi a chi «detiene il potere». «I maharaja avevano perso il titolo nel 1956, ma disponevano ancora di un appannaggio reale».

«A Bangalore hanno la sede istituzioni scientifiche di ogni disciplina. Le strade, fiancheggiate dagli alberi della città-giardino dei maharaja, sono ormai invase dai rumori, dalla puzza e dai gas di scarico dei veicoli a tre ruote e delle automobili. Certo non è più la città in cui passeggiare piacevolmente…».
nn A Bangalore Naipaul apprende dal giornalista scientifico Deviah la storia di Ayappa, il cui tempio attira folle di pellegrini; incontra il dottor Srinivasan, presidente della Commissione indiana per l’energia atomica, e altri due scienziati, i cui antenati erano «sacerdoti», che lo erudiscono sulla complessa storia di quelle regioni e lo inducono a commentare: «Da quell’incontro (tra il sapere difficile dei sacerdoti, l’attenzione a compiere con precisione rituali complessi, il silenzio che accompagnava taluni riti e la nuova educazione) era nata una nuova generazione di scienziati».

«Non ero mai riuscito ad adattarmi a Madras, per quanto fosse una città ospitale e piena di movimento. Le piramidi scolpite delle torri del tempio, le palme, i bramini a torso nudo in mezzo alle antiche colonne di pietra, la cisterna d’acqua di Mylapore con i suoi gradini tutt’intorno, enorme e bellissima, sembravano cose viste nelle vecchie stampe europee…».
nn Visitando Madras Naipaul afferma: «Ci voleva tempo a capire che era avvenuto un rovesciamento di poteri, che i bramini erano sulla difensiva, pur essendo ancora musicisti e danzatori, cuochi e sacerdoti dei templi».
È quanto emerge dalle interviste a Veeramani, guida dal 1973 del Movimento progressista dravidico. In quell’anno era morto il fondatore Periyar, ateo e razionalista. Il Movimento aveva vinto per la prima volta le elezioni nel 1967 e ha continuato a vincere, anche se è anti-braminico e non abbraccia tutte le caste, ma solo quelle medie. Alla gente di infimo livello il Movimento non offre alcuna protezione.

«Per anni e anni si diceva che Calcutta stava morendo. Le città… non muoiono solo quando vengono abbandonate. Forse le città muoiono quando perdono i piaceri che sono loro propri: gli stimoli visivi, la sensazione più acuta delle possibilità umane, e diventano semplicemente luoghi con troppe persone, e le persone soffrono… Nel 1946 ci furono i massacri tra indù e musulmani. Segnarono l’inizio della fine per la città. L’anno dopo, l’India era indipendente, ma divisa. Anche il Bengala fu diviso. Un numero enorme di profughi indù arrivò a Calcutta e vi si accampò e Calcutta, cui mancava anche solo un centesimo della capacità di recupero dell’Europa, non si riprese mai».
nn A Calcutta Naipaul raccoglie le testimonianze di due superstiti del Partito comunista indiano, nato nel 1969: Dipanjan, docente di scienze in un college, si era appassionato alla causa dei braccianti, ma intraprese azioni violente e fu imprigionato; Debu, importante dirigente di una grossa società, si unì al Partito, ma fu testimone di vicende cruente e devastatrici.
Commenta Naipaul: «Dalla compassione immediata e l’umiliazione per i poveri e il proprio paese al suicidio culturale e economico, a nuove coercizioni e violazioni, a una causa insomma molto lontana dalla fame dei contadini».
Il padre di Chidananda Das Gupta, altro interlocutore di Naipaul, aveva speso la sua vita come predicatore-bramino, la cui fede «unisce l’essenza dell’insegnamento upanishadico con alcuni elementi cristiani… Credeva nel diritto delle donne all’educazione, negli ideali democratici e nell’abolizione del sistema di casta».

L’ultimo bastione dell’India musulmana è Lakhnau, capitale dello stato dell’Uttar Pradesh. Naipaul vi incontra Amir, raja di Mahmudabad. Il padre era stato membro della Lega musulmana tra gli anni ’30-40 e, nel 1945, aveva offerto il figlio di soli 2 anni all’imam, per servire la fede sciita.
Con l’indipendenza di India e Pakistan nel 1947, Amir iniziò una vita di peregrinazioni. La guerra indo-pakistana del 1965 permise al governo indiano di confiscare tutte le proprietà del genitore e l’atroce conflitto indo-pakistano per il Bangladesh del 1971 lo condusse, due anni dopo, alla tomba; fu sepolto nel tempio di Mashhad nell’Iran orientale.

La famiglia di Vishwa Nath, settantenne editore di Woman’s Era, viveva a Delhi da 400 anni. Dal 1931, anno della marcia del sale di Gandhi, l’editore ha sempre indossato il khadi, il tessuto di cotone filato a mano, affermando: «Gandhi ha fatto di noi una nazione. Eravamo come topi e fece di noi degli uomini».
«Il tempio d’oro sorge ad Amristar, lo stagno del nettare, perché si dice che lì vi fosse uno stagno noto al primo guru. La doratura, riflessa tutt’intorno al lago artificiale, produce un effetto magico» scrive Naipaul, che è riuscito ad intervistare alcuni stretti collaboratori di Bhindranwale, famoso capo sikh, che nel tempio trovò la morte dopo un attacco delle forze governative.
Iniziato per alleviare le «sofferenze del popolo», perché i sikh vedono «Dio come un liberatore», il movimento si trasformò in un covo di terroristi. Il giornalista Dalip commenta: «Bhindranwale arrivò al tempio d’oro il 20 luglio 1982. Ne uscì morto il 6 giugno 1984. Ha danneggiato i sikh come di più non si poteva… Ha danneggiato il Punjab e l’India».
Silvana Bottignole

Silvana Bottignole




Anno 2000. Avanti tutta?

Abbiamo iniziato il 2000 con speranze e sogni di novità. Scampati, pure,
dai presunti disastri di un «baco» distruttore. Ma i problemi del mondo
sono sempre gli stessi.
Se ne siamo più coscienti,
potremo fare qualcosa di meglio
per non ricadere negli errori eterni.

nuovo

S iamo un gruppo di pre-adolescenti. Pur consci della nostra inesperienza, vogliamo tuttavia dire la nostra all’alba del nuovo millennio.
La riflessione inizia dai «nobili»: dai grandi castelli medievali, dalle torri gremite di guerrieri, dalle muraglie per difendersi dal nemico… che vuole impossessarsi dei loro averi.
In quei tempi esistevano due «vite parallele». La vita nel castello, con i ricchi, i guerrieri da difesa (questa è rimasta invariata fino ai giorni nostri!). Poi c’era la vita fuori delle mura, con gente semplice che si guadagnava il pane lavorando, sudando per quanti abitavano nel palazzo.
Fu così per un lungo periodo. I «nobili» o «grandi» costruivano roccaforti sempre più alte per intimorire il nemico, difendere i beni accumulati e rubati in battaglie. Più il castello era in una posizione proibitiva, più racchiudeva ricchezze…
L’uomo ha sempre camminato su due «trampoli»: l’orgoglio e la paura. Orgoglio: enorme stima di se stesso e dei propri mezzi, fierezza, amor proprio, fino a spingersi al vanto, rompendo spesso l’equilibrio con i simili.
Paura: sentimento che si prova in presenza o al pensiero di un pericolo; preoccupazione che aumenta sempre di più, specialmente quando si è impreparati ad un evento o quando si possiedono molti averi, di cui si ritiene di non potere fare a meno.
I signori si pavoneggiavano e, per sconfiggere la paura, si facevano costruire castelli sempre più impenetrabili.

C ambiarono gli eventi, ma l’impostazione sociale della vita continuò. Finché, nel secolo XIX, la rivoluzione industriale pose fine al sistema precedente. In Inghilterra la rivoluzione toccò in modo speciale il settore tessile. Gli artigiani, che da secoli avevano filato e tessuto in casa su telai di legno azionati a mano, si trovarono spiazzati: infatti non potevano più concorrere con la nascente industria che si avvaleva di macchine a motore, che producevano più merce e a minore prezzo.
Gli artigiani dovettero abbandonare i telai e cercarono lavoro in fabbrica come salariati. Nacquero due nuove classi sociali: quella imprenditoriale (ricca) e quella operaia (povera).
I rapporti tra le due classi non furono improntati a giustizia. A parte lodevoli eccezioni, la classe operaia venne sfruttata: bisognosa di lavorare per vivere, ma priva di una legislazione che ne tutelasse i diritti, subì, con l’incertezza del salario, estenuanti tui lavorativi di 12-14 ore giornaliere in condizioni durissime. Vi sottostavano anche i bambini, senza alcuna assicurazione sociale.
S’impose il «problema operaio», davanti al quale due furono le posizioni assunte. Nella prima ci si schierò a fianco dei salariati e, con organizzazioni sindacali e leggi, li si sostenne nella rivendicazione dei loro diritti. Le persone, impegnate in vari movimenti, per lo più socialisti e cattolici, riconobbero l’utilità delle due classi sociali (imprenditrice e operaia), ma si batterono sul fronte politico, legislativo e sindacale per conquistare la giustizia sociale.
In Inghilterra ricordiamo il Cartismo, i Trade Unions (attuali sindacati), le figure di Robert Owen (assertore di un socialismo utopico) e del prelato Henry Manning, chiamato dagli operai «il cardinale dei poveri». I frutti delle loro azioni, pazienti e tenaci, si ritrovano ancora oggi nelle buone condizioni di vita che i lavoratori godono: specialmente nel Nord Europa, ove l’azione dei cristiano-sociali fu più tempestiva ed efficace.
Nella seconda posizione, di fronte al «problema operaio» incontriamo Karl Marx. Questi non si lasciò intenerire dalle tristi condizioni dei salariati, che vedeva con i propri occhi a Londra, e neppure si mosse per aiutarli; ma, conformemente alla sua filosofia, additò la soluzione del problema nella soppressione delle stesse classi sociali, da realizzarsi mediante la rivoluzione. Tale rivoluzione, proclamata nel 1848 con la pubblicazione del «Manifesto», esercitò una potente attrattiva sulle masse operaie.
Tuttavia l’interesse per Marx non si sarebbe spinto più avanti, se egli avesse solo teorizzato la rivoluzione. Ma, per Marx, filosofia e rivoluzione formano un’unità inscindibile: è impossibile fare la rivoluzione senza abbracciare la filosofia. Una filosofia che chiedeva ai lavoratori non solo la partecipazione alla rivoluzione, ma anche il rifiuto di Dio e di ogni religione, perché «oppio del popolo».
I due sistemi (socialista-cristiano e marxista-ateo) viaggiavano in parallelo, scrutandosi con un comportamento di «guerra fredda» tra est e ovest. Questo frontismo, come tutti sanno, durò a lungo, fino al crac del 1989, reso emblematico dalla caduta del muro di Berlino. L’est si è frantumato.
M a anche l’ovest è in «crisi». I paesi occidentali sono preoccupati, perché l’oriente asiatico si affaccia sempre di più sul nostro mercato, i paesi arabi avanzano. L’occidente sventola la bandiera del vincitore; si dichiara un sistema positivo ed efficace. In realtà conta molte matasse da sbrogliare.
Anche gli italiani si avvertono sempre di più soli, chiusi in se stessi. Le case sono diventate piccoli castelli, quasi come nei tempi andati, con cancelli elettrici, cinte sempre più alte, citofoni, videocamere e mastini. Si ha paura di tutto e tutti. Sentendosi sempre di più persi, gli interrogativi aumentano e le risposte tardano ad arrivare. Intanto ci si riempie di oggetti… «che ci fanno sentire vivi», offuscando i veri valori. La tecnologia sfoa ogni giorno nuove attrattive, foendo gingilli che ci sembrano indispensabili, ma sono tali solo in forza della pubblicità. L’importante è vendere, creando una buona economia. Ordine tassativo: «costruire» acquirenti il più possibile. Siamo nell’era della comunicazione o della confusione?
Siamo tutti come bambini viziati: appena ci sentiamo vuoti, acquistiamo qualcosa per riempirci, sentendoci momentaneamente «vivi» per poi ritrovarci «morti». Si possiede solo per lo sfizio d’avere, senza chiedersi se sia veramente utile o no.
Nuovo millennio, vecchi bisogni! E le nostre paure aumentano.

N oi ragazzi non vogliamo metterci sul terrazzo e fare solo da spettatori. Né vogliamo soltanto criticare. Vogliamo metterci in discussione: fermarci, respirare e capire quale sia la nuova strada da percorrere. E ben venga chi, più esperto di noi, ci darà una mano.

Millennium bluff?

Nel mondo sono stati spesi tre milioni di miliardi di lire per sconfiggere il millennium bug. Parola del TG1.
Noi dell’associazione PeaceLink non abbiamo speso una lira e i nostri computer funzionano benissimo. Come mai? Semplice: bastavano pochi ed elementari controlli di routine. Invece è stata regalata agli «esperti» e alle multinazionali dell’informatica una montagna di soldi per risolvere un problemino aritmetico da quinta elementare.
Tuttavia il millennium bug, anche se i mass media non lo diranno, ha le sue vittime invisibili: cento milioni di persone moriranno nei prossimi dieci anni, private delle risorse investite per sconfiggere il millennium bug.
Mentre diciamo queste cose, siamo considerati fuori dal mondo. La lotta ad un improbabile baco viene, ovviamente, prima di quella alla fame in questa «ragionevole società del capitalismo reale». I bambini possono anche morire. Ma i computer non possono sbagliare data!
Detta così, la cosa può creare sconcerto. Facciamo allora qualche calcolo. Le statistiche documentano una mortalità per fame, malattie e povertà variabile da 30 mila a 40 mila vittime al giorno. Cifre che, ovviamente, non devono turbare l’opinione pubblica e che, quindi, la TV dà raramente. Qualcosa trapela quando esce il rapporto dell’Unicef.

R itorniamo ai tre milioni di miliardi che – a detta del TG1 del 2 gennaio 2000 – il mondo ha speso per il «baco».
Informiamoci: potremo sapere che bastano 500 mila lire l’anno per adottare un bambino a distanza. Armiamoci di carta, penna e tabelline: potremo calcolare che, se si fosse speso anche solo la metà dei miliardi destinati al millennium bug, si sarebbero potuti adottare a distanza per dieci anni 300 milioni di bambini poveri, sfamandoli, curandoli, mandandoli a scuola per prepararli al lavoro, aiutandoli a costruirsi un futuro senza dover emigrare.
Nei prossimi dieci anni che fine faranno quei 300 milioni di bambini? Purtroppo non saranno sufficientemente bravi a gestire le 1.500 lire che le statistiche affidano loro quale reddito pro-capite giornaliero; non riusciranno (gli sciuponi!) neppure a pagare il debito estero della loro nazione nel nuovo millennio.
Pertanto, come si è detto, se ne perderanno per strada più di 30 mila al giorno, insieme alle loro mamme e ad altre persone deboli, affamate e malate di lebbra o Aids. E, nel 2010, di quei 300 milioni ben 100 milioni saranno scomparsi dall’anagrafe dei vivi: 100 milioni di desaparecidos che il «capitalismo reale» considera una perdita fisiologica e tollerabile per la civile coscienza dei suoi fans. Costoro avranno sicuramente delle statistiche per documentare che, nel medioevo, la mortalità infantile era in percentuale maggiore.
Quindi, tutto sommato, viviamo in tempi più che mai fortunati.

N el 2010, in soli dieci anni del nuovo millennio, 100 milioni di vittime del capitalismo reale pareggeranno la bilancia con le vittime di 60 anni di comunismo reale.
D’accordo, il capitalismo reale non le uccide. E che bisogno ci sarebbe? Tanto muoiono da sole. Saranno cento milioni in meno, che non peseranno sulle borse di New York o di Tokyo, che non appesantiranno lo stato sociale né nostro né dei paesi poveri e che voleranno in cielo assicurando prosperità al mondo computerizzato.
Eh sì, perché spendere tre milioni di miliardi nel millennium bug crea sviluppo, spendee anche solo la metà per salvare vite umane in un pianeta già così popolato… no! Se per il mercato globale la vita delle persone contasse, le associazioni umanitarie sarebbero quotate in borsa. Invece no.

I l baco ha fatto da paravento al millennium business: nel più grottesco dei modi. L’opinione pubblica si è, alla fine, accorta di essere stata manipolata dai mass media. Ma, quando la consapevolezza si stava diffondendo, è stata iniettata una nuova dose di propaganda. Bill Gates ha detto: «Il baco non è ancora sconfitto, attenti ai prossimi mesi». Sganciate altri soldi, insomma. Se lo dice lui, che è un cervellone, cosa potrà ribattere l’ignaro inesperto?
In realtà Bill ed «esperti» si sono indegnamente arricchiti grazie al millennium bluff.

Giovanni Fumagalli




Colombia – L’erba dei desideri

La voglia di un’esistenza meno dura e le pressioni estee spingono molti indios del Cauca a coltivare piante da droga. Canapa indiana, coca, papavero da oppio stanno sostituendo le coltivazioni
tradizionali. Con gravi danni ambientali, culturali
e sociali. E mentre i contadini non migliorano
la loro condizione, qualcuno accumula profitti.

Corinto. Alla fine del lungo rettilineo si intravede un posto di blocco. «(…)! – esclamo -. Non ho portato il passaporto…». Padre Ezio Roattino, che è al volante, si gira verso di me con faccia perplessa, ma poi, notando la mia agitazione, prova a rassicurarmi: «Forse non serve».
I militari sono in tuta mimetica, pesantemente armati. «Scendete» ci ordina un giovane nero col mitra a tracolla. Facce rivolte al fuoristrada, mani appoggiate sul tettuccio, gambe larghe, aspettiamo la perquisizione. «Sono un padre della parrocchia di Toribio», spiega il missionario. Momenti di silenzio. «Va bene, padre. Potete proseguire» ci dice uno dei militari. Risaliamo in macchina e, mentre io riprendo a respirare e riacquistare il colorito, entriamo a Corinto.
È questa una piccola città, abitata da meticci, neri e indios. Conosciuta per la sua violenza, Corinto fu sede dei colloqui di pace tra il governo colombiano e il gruppo guerrigliero «Movimiento 19 de Abril» (M-19), che nel marzo 1990 depose le armi dopo 16 anni di lotta.
Dopo un veloce spuntino, cerchiamo di informarci come si raggiunge «La Capilla», la località montana dove padre Ezio dovrebbe benedire una laguna, considerata dagli indigeni un luogo sacro.
Sulla stradina che da Corinto porta verso la montagna c’è un nuovo posto di blocco. E qui si ripete la scena avvenuta all’entrata del paese. Potenza della chiesa, carisma del missionario o scaramanzia dei soldati? Chissà… Ora entriamo in territori soggetti ad un’altra autorità: qui comandano le «Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia» (le Farc) e i militari si guardano bene dall’avventurarsi in queste zone.

Una ragazza che sta salendo a piedi si offre di accompagnarci. La Mitsubishi prosegue senza difficoltà, nonostante la stradina sia ripida e sconnessa. Nei pressi di uno slargo, c’è una jeep ferma. Una decina di metri più in alto, dalla folta vegetazione, spunta un contadino che ci grida di lasciare l’auto e salire da lui. Il sentirnerino, ripidissimo, è segnato da piantine di coca. Quando lo raggiungiamo, il campesino ci accoglie con un grande sorriso. Piccolo di statura, età incerta, viso caffelatte segnato dalla vita all’aria aperta, porta i blue-jeans infilati negli stivaloni di gomma, coperti di fango. Cordialissimo, il contadino ci presenta la moglie e i figlioletti. La famiglia vive in una casetta in legno e adobe, abbellita con molti vasi di fiori. Due lati dell’abitazione sono occupati dalle piante di marijuana, recise e poste ad essiccare. Ci offrono agua panela (acqua con canna da zucchero) e tinto (caffè), ma non c’è tempo. In compenso, accettiamo volentieri che la giovanissima signora ci accompagni, dato che il cammino per raggiungere la laguna non è facile da trovare.
La salita si fa faticosa, anche per via del fango. Passiamo altre abitazioni in legno, nascoste tra la vegetazione e sempre più isolate. Al nostro passaggio altre persone si aggregano, andando ad allungare la fila indiana che, spedita e silenziosa, procede verso la laguna.
Percorriamo sentirneri resi fangosi dalla recente pioggia. Superiamo cancelletti in legno e qualche filo spinato, che appena si nota, tanto è sommerso dalla natura esuberante.
Ecco, la laguna. Laguna? Di acqua ne è rimasta veramente poca. In compenso, non mancano fastidiosissime zanzare e insetti vari che lasciano del tutto indifferente la gente del posto, abituata alla loro presenza. Alcuni uomini, in pochi minuti, recuperano dei tronchi per fare un altare, improvvisato ma funzionale. Il luogo e i presenti (una ventina di persone) creano un’atmosfera particolare e molto coinvolgente. È un peccato che il medico tradizionale, lo sciamano, non sia venuto.
Padre Ezio celebra la messa in spagnolo e nasa. Il fatto che il missionario abbia imparato la lingua indigena (molto difficile, soprattutto a livello di pronuncia) gli ha attirato molta ammirazione, ma anche qualche problema. Nonostante da qualche tempo si stia tentando un recupero dell’idioma, i più giovani tra gli indigeni nasa conoscono soltanto alcune parole. Come «ewcxa» (si legge: eucià), che significa «pace» e che il padre distribuisce a destra e manca.
Lasciamo la laguna per andare verso il cimitero, sistemato più in basso, in un posto da cui si ammira un panorama verde che allarga il cuore. Il camposanto ha poche tombe, tutte sommerse da rigogliose piante di marijuana.

Mentre scendiamo, ne approfitto per parlare con i campesinos, ben disposti verso chi è arrivato con padre Roattino.
– Chi occupa questa zona?, chiedo.
– Il sesto fronte delle Farc.
– La guerriglia vi procura dei problemi?
– A noi certamente no.
– E se mi fossi avventurato per questi boschi da solo?
– Ti avrebbero fatto prigioniero.
– Ah… E perché?
– Per capire chi sei e soprattutto se sei una spia.
– Che cosa coltivate?
– Banani, caffè, qualche cereale, tuberi.
– E questa?, chiedo con faccia da tonto indicando una piantagione di marijuana, confusa tra il caffè e i banani. Mi rispondono tutti con una sonora risata. La coca e la marijuana le ho viste, mi manca soltanto l’«amapola», il papavero da oppio. Mi spiegano che cresce più in alto, perché la pianta preferisce un clima fresco.
Finalmente arriviamo alla base di partenza, dove abbiamo lasciato l’auto. Questa volta accettiamo volentieri la tazza di agua panela che ci viene offerta. Il buio incombe e il ritorno è lungo. Salutiamo il parroco di Corinto e i suoi accompagnatori, che andranno in direzione opposta alla nostra.
Per tornare a Toribio noi abbiamo deciso di fare la strada di montagna, più breve. La zona è piuttosto impervia, regno ideale sia per la guerriglia che per il narcotraffico.

Si chiude una bella giornata ed io mi trovo a pensare perché dovrei giudicare negativamente queste famiglie di campesinos soltanto perché coltivano piante da droga. È molto difficile essere obiettivi, giudicare la situazione. Questi contadini vivono in condizioni difficili, isolati, con nugoli di figli da mantenere, stretti tra le Farc da una parte e l’esercito dall’altra. Sono condannabili perché arrotondano il magro bilancio familiare con qualche coltivazione illecita?
«È vero – mi spiega padre Ezio -che molti campesinos seminano queste piante illecite per poter sopravvivere. Però, tu sai che il denaro facile, soprattutto per i giovani, è una tentazione grande. Un contadino semina un ettaro per pagare i vestiti o l’iscrizione dei figli a scuola. Poi, pensa: “perché non ne seminiamo due, così abbiamo anche la moto”. Io ho visto ciò che è accaduto nella zona del massiccio centrale, dove nascono i grandi fiumi Magdalena e Cauca, con il diffondersi su larga scala delle coltivazioni di amapola. La gente mi dice: “Padre, qui qualche anno fa facevamo la fame. Non c’erano strade, non c’era niente. Oggi abbiamo un mercato pieno di cose, dal mattino alla sera”. Purtroppo, la ricchezza improvvisa ubriaca la gente».
Sembra una strada senza uscita… «Una via c’è, anche se è difficile. In primo luogo, occorre un cambio a livello politico, cioè la scelta di aiutare l’agricoltura con una reale riforma agraria che riporti il nostro popolo a lavorare la terra. Occorre poi un cambio etico, coscientizzare la gente sui danni che le droghe producono nel mondo, ma anche a livello locale».
Da tempo la droga rappresenta la fonte di autofinanziamento delle Farc. Nelle regioni controllate, esse fungono da esattori per produttori e commercianti.
Esprimo a padre Ezio la mia delusione di fronte a una guerriglia che sembra aver mutato il proprio Dna, più interessata al business del narcotraffico che alla liberazione del popolo. «Questa è un’impressione comune a molta gente. Ma credo che non si debba generalizzare. C’è sempre una linea (al momento non maggioritaria) che ha la giustizia sociale come orizzonte, ritenendo che l’impalcatura dello stato colombiano privilegi un ristretto gruppo a discapito di tutti gli altri. Costoro propongono un cambio sociale attraverso le armi. Personalmente ritengo che questa strada sia sbagliata, soprattutto nell’epoca della globalizzazione. Né va dimenticato che, senza il consenso dell’imperialismo nordamericano, in Colombia non può esistere alcun governo alternativo. Però, quello che tu dici è vero: anche la guerriglia è un blocco del potere, come lo stato, le forze armate e il narcotraffico. Nei colloqui con il governo le Farc mirano a ottenere il riconoscimento formale di un potere effettivo che già detengono».
Passiamo varie «veredas», isolate ma quasi tutte raggiunte dalla corrente elettrica. Attraversiamo anche Tacueyò, paese difficile dove lavora padre Thomas, tanzaniano, missionario della Consolata.

Mentre cominciano a intravvedersi le luci di Toribio, la radio «Caracol» trasmette il notiziario, tutto incentrato sulle notizie della guerra. Attentati e sequestri, ma anche le speranze accese dai colloqui tra le Farc ed il governo colombiano.

Paolo Moiola




Missionari in pensieri, parole e opere

Sintetizzare il pensiero missionario del beato Giuseppe Allamano non è facile.
Si rischia di essere riduttivi. Ma alcuni punti sono precisi, irrinunciabili.
Li ricordiamo… in occasione della sua festa: il 16 di questo mese.

Il primo annuncio

Nel 1901 il beato Giuseppe Allamano fonda i missionari della Consolata per annunciare il vangelo a persone, gruppi e popoli presso i quali non è ancora conosciuto… E questa è l’identità del missionario della Consolata, sacerdote, suora e fratello. Ciò comporta crescere nella «passione» di far conoscere il Signore al maggior numero possibile di persone, e fare proprie le parole dell’apostolo Paolo: «Guai a me se non evangelizzassi!» (1 Cor 9, 16).
«Tutto io faccio per il vangelo» dice ancora san Paolo. E l’Allamano incalza: «Tutto, tutto! Mi sacrificherò per questo, fino ad accorciare o anche donare la vita. Per questo ci vuole fuoco»: il fuoco dell’amore per Dio e i fratelli in attesa dell’annuncio di salvezza e di aiuto fraterno nelle loro necessità.
Solo questo giustifica l’impegno per la missione, l’apertura all’universalità, la sollecitudine per i fratelli di ogni razza e lingua. Se non si arde – continua l’Allamano – non si farà mai nulla. Si condurrà una vita amorfa, insignificante. Tale ideale va sempre riproposto, perché sia «al primo posto», «in cima a tutti i pensieri». Altrimenti «ci si guasta», non si è più come si deve essere.
Andare oltre
Anche se situazioni di «prima evangelizzazione» sono oggi presenti in ogni ambiente, la prospettiva dell’Allamano è quella dell’universalità: chiede di non rimanere chiusi entro i propri confini territoriali, stretti dalle proprie necessità, ma di guardare a quelle più grandi in altri paesi. E ciò in obbedienza al comando di Cristo «andate in tutto il mondo» e a testimonianza della natura «cattolica» della chiesa. Se essa pensasse soltanto alle sue urgenze, non sarebbe fedele a Cristo.
Fa parte della vocazione dei missionari della Consolata l’uscire dai propri confini nazionali, culturali e religiosi, per annunciare il vangelo negli avamposti del mondo, in ogni parte della terra, dove esistono situazioni che manifestano una lontananza dal Dio di Gesù Cristo e dagli ideali del suo regno.
Pur operando sempre in Italia, l’Allamano stesso vive la dimensione missionaria dell’«andare oltre». Egli ne intuisce la portata all’interno di ogni chiesa: opera (e fatica) per cambiare una mentalità chiusa, incoraggiando a superare gli schemi della pastorale ordinaria, per sostenere iniziative nuove, affrontare situazioni di emergenza, settori bisognosi di evangelizzazione anche a Torino: il mondo della moda, il settore della stampa, la classe operaia, l’azione cattolica, le cornoperative…
Questo spirito è oggi più che mai attuale, e impone ai missionari di dae una speciale testimonianza.
Sette Atteggiamenti
missionari
Nel realizzare la missione ad gentes il beato Allamano indica anche degli atteggiamenti che esprimono il suo stile.

1. Dedizione totale
Le proposte dell’Allamano sono sempre esigenti, conformi alla radicalità del vangelo. Egli è comprensivo della debolezza umana, pronto a capire, perdonare, incoraggiare ad «andare avanti», ma non sopporta la mediocrità. La missione esige impegno totale e perpetuo. Essa, secondo l’idea dell’Allamano codificata dalle Costituzioni, «deve permeare la nostra spiritualità, guidare le scelte, qualificare la formazione e le attività apostoliche, orientare totalmente l’esistenza».
L’Allamano vuole missionari coraggiosi, energici, generosi.

2. Qualificazione
Di conseguenza chiede che i missionari siano qualificati. Ne è tanto convinto da ricorrere a espressioni insolite sulle sue labbra: «Dobbiamo essere tutti di prima classe. Qui voglio solo roba scelta, vasi ripieni di liquore prelibato». Per la missione, prima attività della chiesa, si deve dare il meglio.
È convinto che, più del numero, valga la qualità: meglio pochi, ma in gamba, capaci di fare per molti. Non pensa a superdotati. «Non abbiamo bisogno di aquile, ma di buone e ferme volontà».
Oggi la qualificazione è necessaria per essere mediatori culturali, veicoli d’incontro tra popoli, culture, religioni.
Inoltre la missione ad gentes è destinata alle frontiere, a situazioni-limite. Si deve confrontare con la globalizzazione economica, il pensiero postmoderno, i movimenti religiosi, il numero crescente di battezzati che hanno perso il senso della fede e appartenenza alla chiesa, la secolarizzazione di un mondo che pretende costruirsi su basi che prescindono da Dio e dai principi morali.
Ciò richiede evangelizzatori preparati, capaci di far leva sugli aspetti positivi di fenomeni in gran parte negativi.

3. Primato dello spirito
La qualificazione è soprattutto di carattere spirituale e morale. Il missionario è una persona attiva, che però pone a fondamento la ricerca di Dio. L’Allamano afferma: «Prima santi e poi missionari». È un «prima» riferito a tanti aspetti: preghiera, consacrazione religiosa, studio, pratica delle virtù umane e cristiane, impegno in ogni campo.
Per essere missionari ci vuole una marcia in più, o (se si vuole usare una delle parole più frequenti nell’Allamano) «uno spirito».
Che cosa egli intenda è detto bene nel documento preparatorio al X Capitolo generale dei missionari della Consolata: «Egli parla di spirito di povertà, spirito di obbedienza, spirito di sacrificio, spirito di preghiera, spirito di silenzio, spirito di umanità, spirito di fede, spirito di lavoro, spirito di distacco, spirito di carità. Spirito è una realtà che penetra, regge e nobilita altre. È profondità, intensità. È intuizione. È l’opposto di ogni formalismo. È totalità. È verità, soprattutto nell’essere missionari. È andare all’essenza delle cose. È farle bene».
«Voi – dice l’Allamano – dovete avere lo spirito dei missionari della Consolata nei pensieri, nelle parole, nelle opere».

4. Unità di intenti
La missione non è un’attività individuale, secondo criteri personali. È azione di chiesa in spirito di comunione, «in unità di intenti». Questa è una intuizione fondamentale, un principio basilare, un’idea fissa.
Si tratta di uno «spirito di famiglia» o «spirito di corpo», che per l’Allamano è il segreto di riuscita, l’obiettivo da realizzare ad ogni costo. Nel lavoro missionario l’unità è la condizione «più necessaria» e «più importante», senza la quale si rischia di lavorare invano.
La comunione tra i missionari diventa anche metodo di lavoro, estendendosi ai collaboratori, ai catechisti e ai membri più sensibili delle comunità cristiane. Si esprime all’interno e all’esterno: essere tutti per uno e uno per tutti.

5. Collaborazione con i laici
Proprio perché pensa sempre alla missione nell’unità, Giuseppe Allamano si adopera di coinvolgere anche le comunità cristiane, iniziando da quanti frequentano il santuario della Consolata di Torino, cui è rettore. La sua opera non sarebbe riuscita senza tale partecipazione.
Oggi è maturata una visione teologica che fa meglio comprendere l’impegno di ogni comunità cristiana nell’annuncio del vangelo. Il battesimo conferisce il diritto-dovere di impegnarsi, sia come singoli sia in associazioni, perché l’annunzio della salvezza sia conosciuto e accolto da ogni uomo, in ogni luogo; tale obbligo li vincola ancora di più nelle situazioni in cui gli uomini non possono ascoltare il vangelo e conoscere Gesù se non per mezzo loro» (cfr. Redemptoris missio, 71).
Questa collaborazione, espressa in varie forme nell’ambito dell’istituto dell’Allamano, ha aperto ai laici nuove vie d’impegno nei paesi di missione come in Italia.

6. Stare con la gente
I missionari portano il «lieto annuncio». Devono farlo stando dalla parte di chi ha più bisogno di essere sollevato, colmato di gioia, anche alleviando mali fisici e morali causati da malattia, emarginazione, povertà, ignoranza.
L’Allamano raccomanda di «stare con la gente», andare a trovarla dove vive. È l’espressione del cuore compassionevole di Dio che diventa consolazione. È un programma iscritto nel nome stesso che i missionari portano: quello della «Consolata». Sul modello di Maria sollecita del bene dell’umanità, la missione tende a instaurare il regno di Dio, che è amore, bontà, misericordia.
Le Costituzioni dell’istituto hanno accolto tale istanza, proponendo di «essere presenti tra la gente con cui lavoriamo in modo semplice e fraterno, con contatti personali e con attenzione ai loro problemi e necessità concrete».

7. La promozione dell’uomo
Non è difficile scorgere l’intima correlazione tra la consolazione-liberazione-promozione e la missione. Dio, che ha visto la miseria del suo popolo e ha ascoltato il grido di aiuto, ha inviato Mosè a liberarlo dall’oppressione (cfr. Es 3, 7-11). Chiaramente la consolazione-liberazione è missione divina, dono del Cristo salvatore.
A noi è stato affidato il ministero di portarlo a tutti – si legge nel documento preparatorio al X Capitolo generale -. Senza difficoltà si può riconoscere che, nel nostro metodo di lavoro, evangelizzazione e promozione umana si sono sempre accordate. L’insegnamento del fondatore su questo è esplicito e frequente. E prese posizione per difendere questo suo principio… Noi dobbiamo assumere la condizione della gente e apprezzare i suoi valori. Le nostre certezze e pretese di superiorità, la nostra supposta e indiscussa dignità da salvaguardare si oppongono a una metodologia di comunione.

Gottardo Pasqualetti




Serbia – E’ tempo di girare pagina

Pregare per chi sta al potere è una consuetudine della chiesa ortodossa. Ma quando il potere
è contro il popolo e il vivere cristiano, opporsi
è dovere di ogni credente. Oggi la Serbia
è distrutta dai bombardamenti della Nato
e 14 milioni di persone sono strangolate
da tirannia, miseria e sanzioni economiche.
Per questo il patriarca Pavle invita
il presidente Milosevic a uscire di scena.
Senza ulteriori spargimenti di sangue.

Oltre ai 10 comandamenti, la chiesa ortodossa serba chiede ai suoi fedeli di rispettare altre regole: andare alla liturgia tutte le domeniche e feste religiose; digiunare (cioè non mangiare carne) prima delle feste principali (pasqua, natale, apostoli Pietro e Paolo e assunzione di Maria), nonché ogni mercoledì e venerdì; confessarsi e fare la comunione dopo i periodi di digiuno; digiunare quando lo ordina il vescovo a causa di qualche disgrazia collettiva; non contrarre matrimoni nei periodi di digiuno; non leggere libri eretici; non adoperare oggetti che si usano in chiesa; rispettare i sacerdoti; pregare per quanti sono al potere.
Dunque, pregare per chi detiene il potere è un comandamento della chiesa ortodossa. Essere al vertice di un paese, è una responsabilità enorme, che l’uomo da solo non potrà mai sostenere se non aiutato da Dio. E, per esserlo, serve la preghiera non solo sua personale, ma anche comunitaria.
Ma che fare se al potere c’è un non cristiano? Quando egli stesso non rivolge alcuna preghiera a Dio per essere aiutato a svolgere il suo dovere verso il popolo? Quando non va in chiesa e non rispetta né i comandamenti di Dio né, tanto meno, quelli della chiesa? Quando considera la chiesa solo un’istituzione da sfruttare a suo vantaggio?
Così è accaduto in Serbia a partire dal 1945, in Russia dalla rivoluzione d’ottobre, in Romania e Bulgaria. Questi paesi, in cui la religione principale era quella cristiano- ortodossa, hanno sperimentato un potere contro ogni tipo di religiosità: contro la chiesa, contro i sacerdoti, contro Dio stesso.
«La religione è l’oppio dei popoli – tuonava Lenin -. Preti, vescovi e cristiani sono tutti parassiti, inutili e nocivi, da eliminare insieme ai capitalisti». Ne erano pieni i campi di concentramento di Stalin e degli altri capi comunisti. Sorsero nuovi martiri che perdevano la vita per testimoniare la fede, come ai tempi dei romani.
Eppure, nonostante tutto, è rimasta la regola di pregare per quelli che sono al potere, perché la preghiera cristiana non ha limiti.
Gesù ci insegna a pregare anche per i nemici (Mt 5, 44) e gli apostoli Pietro e Paolo invitano a rispettare e ubbidire a quelli che sono al potere (1Pt 2, 13-17; Rom 13, 1-7).
Ma, allorché i governanti portano in rovina il popolo, quando ciò che chiedono è in contraddizione con i comandamenti di Dio e del vivere cristiano, è dovere di ogni cristiano disubbidire, opporsi.

La chiesa ortodossa è apolitica. «Non ha il potere di costringere, ma di proporre con parole di verità, indicando quello che è peccato, male individuale o collettivo, disgrazia in questa vita e in quella eterna». Essa si preoccupa, innanzitutto, per l’anima della gente. Ma ora che la sopravvivenza fisica e spirituale del popolo è minacciata, la chiesa ortodossa serba ha alzato la voce. Per la prima volta nella sua storia, si è schierata contro un potere: il potere di Milosevic.
All’inizio la chiesa sostenne il presidente, perché riteneva che fosse l’uomo giusto per riunire tutti i serbi in un unico stato. Presto, però, si accorse che la politica del presidente portava i serbi alla rovina.
Oggi il paese sta affogando con i suoi 14 milioni di abitanti, soffocato dalla tirannia, dalla miseria, dalle sanzioni che hanno reso impossibile qualsiasi progresso: distrutto dai bombardamenti della Nato.
Il 10 agosto 1999, a Belgrado, i vescovi della chiesa serba hanno ricordato agli uomini del potere che hanno il dovere davanti a Dio, al popolo e alla storia di trovare una via d’uscita alla situazione.
In base a tale dovere e responsabilità, per prima cosa hanno chiesto all’attuale presidente, se non desidera trasformare il suo popolo in ostaggio, portandolo a sicura rovina, di permettere che altri assumano la guida dello stato, in modo democratico e pacifico, senza versare altro sangue.
«Ci aspettiamo elezioni libere e democratiche. La chiesa non ha mai suggerito per chi votare. Abbiamo soltanto invitato i nostri fedeli a riflettere prima di scegliere. Se uno è credente, non dovrebbe dare il proprio voto a partiti o persone non credenti».

La chiesa ha chiesto alle Nazioni Unite e alle forze di pace in Kosovo di porre fine ai crimini contro la popolazione serba e alle distruzioni di chiese, monasteri e interi villaggi. Da quando si è ritirato l’esercito serbo dal Kosovo, il presidente Milosevic non ha rivolto una parola né al popolo rimasto nella regione né ai profughi che si sono rifugiati nella Serbia settentrionale.
Il patriarca Pavle è andato due volte in Kosovo, per incoraggiare i serbi a non abbandonare le loro case e avere fiducia nelle forze inteazionali. Ha supplicato i rappresentanti inteazionali di proteggere il popolo indifeso e minoritario, di difendere chiese e monasteri carichi di storia.

Snezana Petrovic




Serbia – dal partito di Tito a quello di dio

M i hanno battezzata di nascosto… La nonna mi ha raccontato che di notte piangevo sempre e dovevano tenermi tra le braccia per farmi dormire. Lo facevano a tui: nonna, nonno, mamma.
Vedendo che la situazione non migliorava, la nonna concluse che mi comportavo così perché i diavoli mi maltrattavano, non avendo ottenuto la protezione di Dio tramite il battesimo. Ma non aveva il coraggio di parlare con suo figlio (mio papà) dei suoi timori, perché egli era un comunista convinto, iscritto al partito. In sua presenza non si poteva parlare di religione o di chiesa. Ma la nonna aveva un piano in testa…
Un giorno, quando papà partì per un viaggio di lavoro, mandò la mamma in città a fare la spesa. Chiamò sua figlia (mia zia), un suo cugino e tutti insieme mi portarono nella chiesa più vicina per il battesimo. Era primavera, ma faceva ancora freddo.
L’anziano prete mi bagnò così tanto con l’acqua, che la nonna si preoccupò che mi ammalassi.
Fecero tutto talmente in fretta che non diedero neanche i dati per iscrivermi nel registro dei battezzati.
Quando tornammo a casa, la mamma non era ancora rientrata e nessuno si accorse di niente. Però quella notte, per la prima volta, io dormii senza piangere. Per la nonna era la conferma che aveva ragione.
Dopo alcuni giorni, quando anche la mamma si accorse del cambiamento (di notte non piangevo più), la nonna raccontò cosa avevamo fatto. Ma decisero di non dire nulla a papà.

D a piccola, prima di andare a scuola, passavo molto tempo in campagna nella casa della nonna. Lei era vedova. Il nonno era morto quando avevo due anni e, da quel giorno, iniziano i miei ricordi.
La nonna mi portava in chiesa quando c’erano le feste del paese; nella bella stagione, perché d’inverno c’era troppa neve ed era molto difficile muoversi. Mi ricordo del cortile profumato e pieno di fiori del monastero, delle suore vestite in nero, di atmosfere festose e solenni. Mi ricordo delle candele che si accendevano per i vivi e i morti e del prete con la barba lunga, che mi faceva un po’ di paura.

N ella scuola elementare eravamo tutti bambini «pionieri di Tito». Per noi Tito era come un padre, un nonno, l’incarnazione di bontà, giustizia e saggezza.
«Il comunista morale» era un libriccino di Marx in cui si parlava di come deve essere un vero comunista. Io lo lessi e lo scelsi a mia guida di comportamento. Ero molto ambiziosa e volevo iscrivermi al partito. Ce la feci: il 7 marzo 1973 fui ammessa nell’organizzazione.
Ricordo che, prima di andare alla riunione, temevo che mi chiedessero delle mie convinzioni religiose. Mi spaventava l’idea di rinnegare Dio, anche se tutta la mia educazione era stata senza religione. Mi avevano insegnato che tutto – la vita presente e futura – è nelle nostre mani, che la vita dura fino alla morte e poi non c’è più nulla. Dall’esistenza si passa all’inesistenza. Chi nella vita crea un’opera significativa, resterà nella memoria dell’umanità finché durerà la sua opera.
Ivo Andric parlava dell’eterno bisogno dell’uomo di lasciare tracce dietro di sé, le tracce della sua esistenza, incapace di accettare il fatto che tutto passa, si disfa, marcisce… Io volevo diventare scrittrice: lasciare ai posteri dei libri come testimonianza della mia esistenza.

M i sono sposata con un italiano, cattolico, non praticante. Volevo sposarmi in chiesa, non per motivi religiosi, ma per il sogno romantico di un lungo vestito bianco e la solennità della cerimonia accompagnata con la musica dell’organo. E anche per superstizione. Ci siamo sposati in comune. Perché mi dissero che avrei dovuto convertirmi al cattolicesimo per sposarmi in una chiesa cattolica. Non era vero, ma allora non lo sapevo. Sapevo solo che non avrei cambiato la mia religione. Quale religione, se non ero religiosa? Mi rivolgevo a Dio solo se ero in difficoltà: lo mettevo alla prova e Lui mi aiutava sempre. Io ero il centro dell’universo e giudicavo ogni cosa secondo la mia convenienza.
C ominciò la guerra civile. Non c’era più la Jugoslavia, ma un enorme fronte, un manicomio, un mattatornio. Volevano sapere se ero serba, croata o bosniaca. Dicevo di essere jugoslava, ma quella nazione non esisteva più. Volevo capire il perché. Ho riletto la storia. Ho cominciato a studiare le religioni delle etnie in conflitto. Ho capito che quella jugoslava non era una guerra di religione. Era, al contrario, una guerra in un paese «ateizzato» e, proprio per questo, facile preda dei signori della guerra. Sono andata alla ricerca della religione cristiana ortodossa, scoprendo che essa fa parte inseparabile della mia identità nazionale.
Mi sono messa in viaggio verso Gesù e Lui mi è venuto incontro. Ho scoperto i doni del vangelo. Ho scoperto il volontariato e la gioia del lavoro gratuito come espressione dell’amore per il prossimo. Ho capito che non sono il centro dell’universo, ma solo un anello nella catena della vita e debbo stare attenta che questo anello non si arrugginisca.

D opo 13 anni di matrimonio, con due bambini già grandi, ci siamo sposati in chiesa con il rito ortodosso. E, come da bambina avevo smesso di piangere dopo essere stata battezzata, così… ho cessato di litigare con mio marito, come prima facevamo. È diventato più semplice educare i figli e risolvere ogni problema.
Per ogni cosa Gesù ha la risposta giusta e un consiglio saggio. Ora andiamo a messa tutte le feste e, in casa, commentiamo le prediche di don Enrico, il nostro parroco.
Una volta al mese ospitiamo padre Milivoj, il prete ortodosso che due volte al mese celebra la liturgia a Vicenza, in una chiesa prestataci per le funzioni religiose dai fratelli cattolici.
Nella nostra regione, il Trentino-Alto Adige, ci sono circa 3.600 serbi; nelle province di Vicenza, Verona e Padova sono oltre 6.000. Il nostro prete è, come l’apostolo Paolo, senza dimora fissa, ospitato dalla sua gente: ci insegna a vivere secondo l’insegnamento di Gesù, a comportarci da veri cristiani. Battezza i non battezzati e celebra i matrimoni; raccomanda di insegnare ai nostri figli lingua, usi e costumi della terra d’origine.

I o cerco di rispettare le regole della mia chiesa per ciò che riguarda digiuno, confessione e comunione; mio marito e i figli seguono le norme cattoliche. Siamo una famiglia ecumenica, e io prego con tutto il cuore che un giorno le nostre chiese si uniscano superando le divergenze dogmatiche.

Snezana petrovic




Serbia – I patriarchi tra re e dittaori

I serbi cominciarono a diventare cristiani nell’VIII secolo, ma solo nel XII tutti accettarono la religione cristiana. Quando, nel 1054, la chiesa cristiana si spaccò (diventando cattolica ad Occidente e ortodossa ad Oriente), in un primo momento il governatore serbo Mihailo Vojislavic riconobbe il papa come capo supremo della chiesa e il papa lo premiò con l’arcivescovado indipendente di Bar.
Anche il grande Nemanja, il personaggio con il quale comincia la storia del regno serbo, fu battezzato con il rito occidentale. Successivamente, egli accettò la religione ortodossa che diventò la religione del suo popolo. Mantenne però sempre buoni rapporti con il papa. Nel 1183 Nemanja diventò indipendente dall’impero bizantino e allargò i confini del suo stato. Nemanja aveva tre figli: Vukan, Stefan e Rasko.
Rasko si fece monaco col nome di Sava e nel 1219 fondò la chiesa autocefala serba, di cui fu il primo vescovo. Anche Nemanja diventò monaco con il nome di Simeon; trascorse la fine della sua vita nel monastero di Hilandar sul monte Atos, dopo aver lasciato il suo secondo figlio a governare.
Il figlio maggiore, Vukan, spinto dalla gelosia e dall’invidia per la decisione del padre, promise al papa Innocenzo III (1198-1216) di proclamare la religione cattolica religione ufficiale dello stato serbo, se l’avesse aiutato a prendere il potere. Con l’aiuto del papa, nel 1202 Vukan raggiunse lo scopo e tutta la chiesa serba fu sottomessa a Roma.
Ma il potere di Vukan durò poco, perché Stefan ridiventò sovrano della Serbia. Anch’egli diventò amico del papa, che lo proclamò re. Però il papa perse l’influenza sulla chiesa serba, che toò ad essere ortodossa.
I due fratelli in lotta furono riconciliati dal fratello Sava, che con il suo lavoro diplomatico e illuminato, diventò il personaggio più importante della storia serba. La chiesa lo proclamò santo e il 27 gennaio di ogni anno si celebra santo Sava.
Il figlio di Stefano, Dusan (1331-1355), fece della Serbia lo stato più potente dei Balcani e la chiesa diventò patriarcato. Il codice di Dusan fu il più famoso di tutto il Medioevo. Dopo Dusan, la Serbia perse la sua potenza, ma tutti i sovrani erano molto religiosi e costruivano chiese e monasteri, dei quali la maggior parte si trova nell’attuale Kosovo. I monasteri erano centri dell’istruzione, dell’arte e della cultura serba.
In Kosovo, dopo la famosa battaglia di Kosovo Polje del 28 giugno 1389, la Serbia perse la sua indipendenza, cadendo per 5 secoli sotto il dominio musulmano dei turchi ottomani. La popolazione cominciò a spostarsi verso nord. Lo spostamento più grande avvenne alla fine del XVII secolo, guidato dal patriarca Arsenije Caojevic.
Al nord i serbi ricevettero molti privilegi dall’impero austro-ungarico, a patto che difendessero i confini dell’impero dai turchi. Così Krajina, Slavonia e Vojvodina divennero roccaforti dell’impero, con una maggioranza di popolazione serba. Però la popolazione fu, fino al XIX secolo, sotto la pressione dei vescovi cattolici.
Nel 1878, con la pace di Berlino, la Serbia diventò di nuovo indipendente, grazie alle rivolte e al lavoro diplomatico di Milos Obrenovic. E nel 1882 diventò regno con la dinastia Karagiorgevic. La chiesa ebbe un ruolo importante.

T ra le due guerre mondiali tutti i re serbi ebbero un grande rispetto per la chiesa. Il re doveva essere benedetto dal patriarca.
Dopo il secondo conflitto mondiale, con la vittoria del comunismo, anche se formalmente era riconosciuta la libertà di religione, tutte le forme di religiosità furono combattute con una fortissima propaganda. La sorte peggiore toccò proprio alla chiesa ortodossa.
Le terre e ricchezze della chiesa furono espropriate dallo stato. Non c’era più l’insegnamento della religione nella scuola e chi andava in chiesa difficilmente poteva trovare lavoro. Per lavorare, era necessaria «l’attitudine morale-politica»: e questo voleva dire essere ateo. Il marxismo diventò la nuova religione, che entrò nelle scuole. Marx, Engels, Lenin e Tito erano i nuovi dèi.
Era nata e cresciuta una generazione di non battezzati, senza alcuna educazione religiosa, diventando a loro volta genitori di un’altra generazione senza fede.
Dopo Tito, con l’aumentare della crisi economica, cominciò lentamente il risveglio religioso della popolazione.
Nella Serbia di Milosevic non si lavora a natale e pasqua: questa è l’unica concessione ai credenti. Nelle scuole non si insegna religione e i matrimoni celebrati in chiesa debbono essere ripetuti in municipio per essere legali.
S.Pe.

Snezana Petrovic




kinshasa (Congo R. D. ) – Pelle a rischio

Nella spirale di violenza che ha insanguinato
la capitale della Repubblica Democratica del Congo padre Stefano ha condiviso con la gente rischi e pericoli, fino a sentire un mitra puntato alle tempie.
La presenza dei missionari continua
a infondere nella popolazione semi di speranza.

L a chiamano «guerra mondiale africana». Tra paesi e gruppi ribelli si contano 19 soggetti in stato di guerra. È stato firmato un documento di «cessate il fuoco» tra l’esercito di Kabila e quello dell’Uganda e Rwanda, ma si continua a sparare. I gruppi ribelli continuano a frammentarsi e boicottare gli sforzi di pace, rivendicando fette di territorio e potere.
Tra le varie aggregazioni, quella di «Bemba» riscuote le maggiori simpatie da parte della gente. Figlio di un ministro di Mobutu e ancora al governo con Kabila, Bemba è diventato a poco a poco uno degli uomini più ricchi del Congo, padrone di quasi un terzo del paese. Anche lui rivendica la sua fetta di potere.
Tre quarti del territorio nazionale sono controllati da eserciti stranieri e forze ribelli. Troppi interessi sono in gioco e la guerra potrebbe durare molti anni. Alla fine il vecchio Zaire potrebbe essere smembrato in tre stati indipendenti. E sarebbe il male minore.
UNA CITTÀ ARRABBIATA
La situazione economica e sociale è allo sfascio. Kinshasa, capitale del Congo, fa paura: 8 milioni di abitanti cercano di sopravvivere in condizioni di precarietà. Non c’è lavoro. Chi ha un impiego non viene pagato, come maestri e professori, che continuano a insegnare per non perdere il posto.
Per la penuria di benzina i trasporti sono allo sbando: tanta gente fa a piedi 6-7 km al giorno per raggiungere il posto di lavoro, con la prospettiva di non essere pagata. Il denaro non circola; eppure la vita continua, per una sorta di miracolo cittadino, dove ognuno s’inventa un modo di sopravvivenza.
La gente è arrabbiata contro Kabila: in più occasioni gli ha tirato i sassi. Cacciato Mobutu e raggiunto il potere con l’aiuto di rwandesi e ugandesi, il nuovo presidente aveva suscitato grandi aspettative, finendo per scontentare tutti, a partire dagli alleati. Ritenendoli ormai troppo ingombranti, Kabila pensò di sbarazzarsene prendendoli a calci, innescando così una guerra che ha ripiombato il paese nel caos e, all’inizio dell’agosto 1998, ha affogato in un bagno di sangue la capitale congolese.
In quei giorni, al colmo della rabbia, la gente ha sfoderato gli istinti più bassi della sua umanità, iniziando una feroce «caccia ai ribelli» e divertendosi nel bruciarli vivi: un copertone attorno al collo, inzuppato di benzina, un fiammifero… e lo spettacolo era assicurato!
La fobia del «ribelle» aveva sparso la voce che le spie nemiche si fossero infiltrate in Kinshasa travestite da dementi: persone malvestite che si aggiravano per la città, barboni e vagabondi sorpresi a rovistare tra le immondizie, tutta gente ignara dell’esistenza di una guerra, furono scambiati per spie e bruciati vivi.
La psicosi collettiva sembrava cancellare ogni senso d’umanità: si giunse a misurare il naso della gente, per decidere se uno era o meno un ribelle ugandese, e ad assassinare amici e conoscenti sospettati di collaborazionismo. Perfino le treccine legate ai capelli furono sospettate di essere veicolo per portare i messaggi al nemico: tale moda scomparve dalla circolazione in un baleno.
Ho visto scene da fare accapponare la pelle. In alcuni casi sono intervenuto, rischiando grosso, per salvare qualche vittima di tanta follia; ma ho ottenuto solo che il condannato non venisse sacrificato sotto gli occhi dei bambini.
TRE GIORNI DI FUOCO
I momenti più drammatici iniziarono quando gli ugandesi si organizzarono per conquistare Kinshasa e cacciare Kabila. Una parte dell’esercito ribelle si attestò sulla collina di Mont Ngafula, dove ci sono la nostra parrocchia e il seminario filosofico. Rimanemmo per una settimana alla mercé di 3.000 militari ugandesi, mentre i soldati di Kabila erano fuggiti per organizzare la difesa.
Bisognosi di cibo e medicine, i ribelli cominciarono a visitare conventi e fattorie della zona. A fae le spese erano soprattutto le galline. Vennero anche nelle nostre case e, devo confessarlo, si comportarono correttamente. Ci dissero di stare tranquilli, perché ce l’avevano solo con Kabila. Chiedevano da mangiare e medicine; poi se ne andavano.
Prima che scoppiassero le ostilità, pensammo bene di mandare studenti e suore nel seminario teologico verso il centro città, a una ventina di chilometri da Mont Ngafula. Per percorrere quel tragitto di una quindicina di minuti in auto, fratel Paolo Ferrari e padre Giovanni Torres, che accompagnavano gli studenti e le suore, impiegarono più di tre ore. Dovettero superare 25 sbarramenti militari e ogni volta bisognava scendere dall’auto, aprire le borse, identificarsi e sottoporsi a interrogatori.
Anche per me, rimasto a custodire la casa con tre seminaristi, quel viaggio fu un autentico calvario. In costante contatto telefonico con padre Vincenzo Mura, direttore del seminario teologico, mi sentivo morire dentro e mi domandavo cosa fosse loro capitato.
Il 2 agosto 1998 cominciò l’offensiva. La gente del quartiere era terrorizzata e non sapeva cosa fare. Gli uomini erano fuggiti per paura di essere presi dai soldati; donne e bambini, rimasti soli, si rifugiarono nella nostra casa. Condividemmo quel po’ di riso e quant’altro rimaneva delle scorte del seminario. Un gesto di solidarietà che è stato ampiamente ripagato: in seguito la gente ci ha aiutato, soprattutto vigilando sulla nostra casa, affinché non diventasse oggetto di rapine e saccheggi.
Per tre giorni, tappati in casa, sentivamo le pallottole fischiare senza interruzione e senza sapere cosa capitasse fuori. Nessuno fiatava. La notte, poi, senza luce elettrica, tensione e paura diventavano palpabili. Dovendo comunicare a Roma la nostra situazione, accendevo un piccolo generatore che, essendo alquanto rumoroso, spegnevo al più presto possibile, per non attirare l’attenzione, limitandomi a trasmettere le notizie essenziali e in modo telegrafico.
LA FUGA
Quando si sparse la notizia che i soldati di Kabila avrebbero bombardato Mont Ngafula, la gente cominciò a fuggire all’impazzata verso il fondovalle. Mi convinsi che non valeva la pena rischiare la pelle per restare a guardia della casa. Infilai i documenti essenziali in uno zainetto e raggiunsi la gente che sciamava.
Tutto avvenne in maniera improvvisa e precipitosa, da non permettere alcuna pianificazione. Una fiumana di persone scendeva la collina, ciascuno tirandosi dietro i bambini, una pentola, due stracci, in una fuga frenetica e disordinata, per arrestarsi di fronte ai blocchi militari.
Ad ogni barriera mi sentivo nell’occhio del ciclone: fui minacciato e molestato più degli altri. «Perché ce l’hanno tanto con me» pensai. Forse qualcuno aveva riferito ai soldati della nostra radiofonia, usata per restare in contatto con i confratelli del nord, e del telefono, che ci permette di comunicare con l’estero. Di conseguenza potevo essere sospettato di complicità con i ribelli e, soprattutto, di seminare zizzania, diffondendo all’estero notizie false sul paese.
In uno di quei blocchi non ricordo cosa sia successo: mi trovai inginocchiato per terra, con un mitra puntato alla testa. Un soldato urlava contro i bianchi, colpevoli di avere alloggiato i ribelli. «Voi preti, soprattutto, avete aperto le chiese e accolto i ribelli». Era vero. I soldati ugandesi erano entrati nelle nostre chiese. Cosa avremmo potuto fare contro 3.000 soldati armati fino ai denti?
Col mitra puntato alle tempie, dapprima rimasi muto per l’incredulità; poi stordito e pieno di paura; infine chiusi gli occhi e mi sentii pervaso da una grande pace. Non so quanto tempo restai in quella posizione: un minuto o un’eternità. Ricordo solo che, quando riaprii gli occhi, non vidi più nessuno attorno a me. Mi alzai di scatto e rincorsi la gente, sentendomi risuscitato.
Rimasi nel fondovalle per tre giorni. Avrei potuto raggiungere il seminario teologico verso il centro città, ma preferii restare con la gente, accampata sulla strada, senza acqua né cibo, con i bambini che piangevano.
I cannoni sparavano contro la collina. Non fu difficile inventare qualche battuta scherzosa per sdrammatizzare e raffreddare la tensione. In un momento di calma, raggiunsi un convento di suore e telefonai a Roma per rassicurare i superiori che confratelli, seminaristi e suore erano tutti al sicuro.
La domenica, cessato il bombardamento, sperimentai uno dei momenti più commoventi della vita. La gente mi circondò per dirmi: «Grazie, padre, perché sei rimasto con noi» e tante parole piene di amicizia e solidarietà. Poi arrivarono i confratelli che in quei giorni mi avevano cercato, pieni di apprensione per la mia sorte. È stato bellissimo riabbracciarsi.
IL RITORNO
La domenica pomeriggio le truppe di Kabila avanzarono verso la collina e cominciarono il rastrellamento. Gli ugandesi fuggirono nella foresta, dove furono massacrati.
La mattina seguente decisi di tornare a casa. Avevo fatto i primi passi con i tre seminaristi e alcuni amici, quando, come per incanto, la gente si accodò in massa dietro a noi. Più salivamo più la processione s’ingrossava. La fuga precipitosa del venerdì si era mutata in un rientro giornioso e pieno di speranza, tra i canti dei bambini.
Più in alto la visione era raccapricciante e l’aria irrespirabile per il fumo delle case distrutte e il fetore dei corpi bruciati e in decomposizione. Arrivati in seminario, ricevemmo la sgradita visita dei soldati di Kabila: ci derubarono di tutto, dopo averci fatto patire le pene dell’inferno.
Ci recammo in visita ai confratelli della parrocchia, che ci raccontarono la loro storia. Quel venerdì padre Fedele Crippa stava celebrando la messa, quando, al momento della comunione, i ribelli fecero irruzione nella chiesa, sparando in ogni direzione. Il celebrante rimase imperterrito, deciso a terminare la celebrazione, ma si ritrovò con la chiesa vuota: la gente, strisciando sotto i banchi, era scappata in sacrestia.
Quando i soldati si furono allontanati, i missionari si rifugiarono nella casa parrocchiale e vi rimasero intrappolati, con alcuni fedeli, per tutto il tempo del bombardamento. Grazie a Dio, erano tutti incolumi.
RICOSTRUIRE LA GENTE
DAL DI DENTRO
Tutti hanno apprezzato il fatto che siamo rimasti con loro e affrontato gli stessi rischi e sofferenze. In effetti è questo il significato principale della nostra presenza. La situazione di guerra in cui vive il paese non ci permette di fare grandi opere. È la terza volta che ci distruggono tutto e che dobbiamo ricominciare da capo. Stando con la gente, condividendone la precarietà e confusione del presente e l’incertezza del futuro, siamo un segno di speranza per un avvenire nuovo e migliore.
Tuttavia continuiamo a domandarci come possiamo essere segno più efficace per questa popolazione che, oggi più che mai, riscopre la propria religiosità e la convinzione che il futuro è nelle mani di Dio. Per aiutarla a sopravvivere, cerchiamo di stimolare e coinvolgere la gente in varie forme di collaborazione, piccoli progetti, cornoperative di lavoro e commercio. Le donne, soprattutto, giocano un ruolo di grande importanza: sono esse le più creative nella ricostruzione del tessuto sociale, organizzando, per esempio, giornate di lavoro comunitario per riparare le strade e altre strutture di comune utilità.
Al tempo stesso guardiamo anche lontano, per progettare un lavoro a lunga scadenza. A tal proposito, credo che dobbiamo dare priorità alla scuola, ormai completamente trascurata dallo stato. In un paese come il Congo, dove la corruzione è elevata a sistema di vita e di sopravvivenza, c’è bisogno di ricostruire la gente dal di dentro.
Sarà questa la sfida del futuro: formare le nuove generazioni a un maggiore senso di responsabilità, amore per la pace e il bene comune.

Stefano Camerlengo