Serbia – E’ tempo di girare pagina

Pregare per chi sta al potere è una consuetudine della chiesa ortodossa. Ma quando il potere
è contro il popolo e il vivere cristiano, opporsi
è dovere di ogni credente. Oggi la Serbia
è distrutta dai bombardamenti della Nato
e 14 milioni di persone sono strangolate
da tirannia, miseria e sanzioni economiche.
Per questo il patriarca Pavle invita
il presidente Milosevic a uscire di scena.
Senza ulteriori spargimenti di sangue.

Oltre ai 10 comandamenti, la chiesa ortodossa serba chiede ai suoi fedeli di rispettare altre regole: andare alla liturgia tutte le domeniche e feste religiose; digiunare (cioè non mangiare carne) prima delle feste principali (pasqua, natale, apostoli Pietro e Paolo e assunzione di Maria), nonché ogni mercoledì e venerdì; confessarsi e fare la comunione dopo i periodi di digiuno; digiunare quando lo ordina il vescovo a causa di qualche disgrazia collettiva; non contrarre matrimoni nei periodi di digiuno; non leggere libri eretici; non adoperare oggetti che si usano in chiesa; rispettare i sacerdoti; pregare per quanti sono al potere.
Dunque, pregare per chi detiene il potere è un comandamento della chiesa ortodossa. Essere al vertice di un paese, è una responsabilità enorme, che l’uomo da solo non potrà mai sostenere se non aiutato da Dio. E, per esserlo, serve la preghiera non solo sua personale, ma anche comunitaria.
Ma che fare se al potere c’è un non cristiano? Quando egli stesso non rivolge alcuna preghiera a Dio per essere aiutato a svolgere il suo dovere verso il popolo? Quando non va in chiesa e non rispetta né i comandamenti di Dio né, tanto meno, quelli della chiesa? Quando considera la chiesa solo un’istituzione da sfruttare a suo vantaggio?
Così è accaduto in Serbia a partire dal 1945, in Russia dalla rivoluzione d’ottobre, in Romania e Bulgaria. Questi paesi, in cui la religione principale era quella cristiano- ortodossa, hanno sperimentato un potere contro ogni tipo di religiosità: contro la chiesa, contro i sacerdoti, contro Dio stesso.
«La religione è l’oppio dei popoli – tuonava Lenin -. Preti, vescovi e cristiani sono tutti parassiti, inutili e nocivi, da eliminare insieme ai capitalisti». Ne erano pieni i campi di concentramento di Stalin e degli altri capi comunisti. Sorsero nuovi martiri che perdevano la vita per testimoniare la fede, come ai tempi dei romani.
Eppure, nonostante tutto, è rimasta la regola di pregare per quelli che sono al potere, perché la preghiera cristiana non ha limiti.
Gesù ci insegna a pregare anche per i nemici (Mt 5, 44) e gli apostoli Pietro e Paolo invitano a rispettare e ubbidire a quelli che sono al potere (1Pt 2, 13-17; Rom 13, 1-7).
Ma, allorché i governanti portano in rovina il popolo, quando ciò che chiedono è in contraddizione con i comandamenti di Dio e del vivere cristiano, è dovere di ogni cristiano disubbidire, opporsi.

La chiesa ortodossa è apolitica. «Non ha il potere di costringere, ma di proporre con parole di verità, indicando quello che è peccato, male individuale o collettivo, disgrazia in questa vita e in quella eterna». Essa si preoccupa, innanzitutto, per l’anima della gente. Ma ora che la sopravvivenza fisica e spirituale del popolo è minacciata, la chiesa ortodossa serba ha alzato la voce. Per la prima volta nella sua storia, si è schierata contro un potere: il potere di Milosevic.
All’inizio la chiesa sostenne il presidente, perché riteneva che fosse l’uomo giusto per riunire tutti i serbi in un unico stato. Presto, però, si accorse che la politica del presidente portava i serbi alla rovina.
Oggi il paese sta affogando con i suoi 14 milioni di abitanti, soffocato dalla tirannia, dalla miseria, dalle sanzioni che hanno reso impossibile qualsiasi progresso: distrutto dai bombardamenti della Nato.
Il 10 agosto 1999, a Belgrado, i vescovi della chiesa serba hanno ricordato agli uomini del potere che hanno il dovere davanti a Dio, al popolo e alla storia di trovare una via d’uscita alla situazione.
In base a tale dovere e responsabilità, per prima cosa hanno chiesto all’attuale presidente, se non desidera trasformare il suo popolo in ostaggio, portandolo a sicura rovina, di permettere che altri assumano la guida dello stato, in modo democratico e pacifico, senza versare altro sangue.
«Ci aspettiamo elezioni libere e democratiche. La chiesa non ha mai suggerito per chi votare. Abbiamo soltanto invitato i nostri fedeli a riflettere prima di scegliere. Se uno è credente, non dovrebbe dare il proprio voto a partiti o persone non credenti».

La chiesa ha chiesto alle Nazioni Unite e alle forze di pace in Kosovo di porre fine ai crimini contro la popolazione serba e alle distruzioni di chiese, monasteri e interi villaggi. Da quando si è ritirato l’esercito serbo dal Kosovo, il presidente Milosevic non ha rivolto una parola né al popolo rimasto nella regione né ai profughi che si sono rifugiati nella Serbia settentrionale.
Il patriarca Pavle è andato due volte in Kosovo, per incoraggiare i serbi a non abbandonare le loro case e avere fiducia nelle forze inteazionali. Ha supplicato i rappresentanti inteazionali di proteggere il popolo indifeso e minoritario, di difendere chiese e monasteri carichi di storia.

Snezana Petrovic




Serbia – dal partito di Tito a quello di dio

M i hanno battezzata di nascosto… La nonna mi ha raccontato che di notte piangevo sempre e dovevano tenermi tra le braccia per farmi dormire. Lo facevano a tui: nonna, nonno, mamma.
Vedendo che la situazione non migliorava, la nonna concluse che mi comportavo così perché i diavoli mi maltrattavano, non avendo ottenuto la protezione di Dio tramite il battesimo. Ma non aveva il coraggio di parlare con suo figlio (mio papà) dei suoi timori, perché egli era un comunista convinto, iscritto al partito. In sua presenza non si poteva parlare di religione o di chiesa. Ma la nonna aveva un piano in testa…
Un giorno, quando papà partì per un viaggio di lavoro, mandò la mamma in città a fare la spesa. Chiamò sua figlia (mia zia), un suo cugino e tutti insieme mi portarono nella chiesa più vicina per il battesimo. Era primavera, ma faceva ancora freddo.
L’anziano prete mi bagnò così tanto con l’acqua, che la nonna si preoccupò che mi ammalassi.
Fecero tutto talmente in fretta che non diedero neanche i dati per iscrivermi nel registro dei battezzati.
Quando tornammo a casa, la mamma non era ancora rientrata e nessuno si accorse di niente. Però quella notte, per la prima volta, io dormii senza piangere. Per la nonna era la conferma che aveva ragione.
Dopo alcuni giorni, quando anche la mamma si accorse del cambiamento (di notte non piangevo più), la nonna raccontò cosa avevamo fatto. Ma decisero di non dire nulla a papà.

D a piccola, prima di andare a scuola, passavo molto tempo in campagna nella casa della nonna. Lei era vedova. Il nonno era morto quando avevo due anni e, da quel giorno, iniziano i miei ricordi.
La nonna mi portava in chiesa quando c’erano le feste del paese; nella bella stagione, perché d’inverno c’era troppa neve ed era molto difficile muoversi. Mi ricordo del cortile profumato e pieno di fiori del monastero, delle suore vestite in nero, di atmosfere festose e solenni. Mi ricordo delle candele che si accendevano per i vivi e i morti e del prete con la barba lunga, che mi faceva un po’ di paura.

N ella scuola elementare eravamo tutti bambini «pionieri di Tito». Per noi Tito era come un padre, un nonno, l’incarnazione di bontà, giustizia e saggezza.
«Il comunista morale» era un libriccino di Marx in cui si parlava di come deve essere un vero comunista. Io lo lessi e lo scelsi a mia guida di comportamento. Ero molto ambiziosa e volevo iscrivermi al partito. Ce la feci: il 7 marzo 1973 fui ammessa nell’organizzazione.
Ricordo che, prima di andare alla riunione, temevo che mi chiedessero delle mie convinzioni religiose. Mi spaventava l’idea di rinnegare Dio, anche se tutta la mia educazione era stata senza religione. Mi avevano insegnato che tutto – la vita presente e futura – è nelle nostre mani, che la vita dura fino alla morte e poi non c’è più nulla. Dall’esistenza si passa all’inesistenza. Chi nella vita crea un’opera significativa, resterà nella memoria dell’umanità finché durerà la sua opera.
Ivo Andric parlava dell’eterno bisogno dell’uomo di lasciare tracce dietro di sé, le tracce della sua esistenza, incapace di accettare il fatto che tutto passa, si disfa, marcisce… Io volevo diventare scrittrice: lasciare ai posteri dei libri come testimonianza della mia esistenza.

M i sono sposata con un italiano, cattolico, non praticante. Volevo sposarmi in chiesa, non per motivi religiosi, ma per il sogno romantico di un lungo vestito bianco e la solennità della cerimonia accompagnata con la musica dell’organo. E anche per superstizione. Ci siamo sposati in comune. Perché mi dissero che avrei dovuto convertirmi al cattolicesimo per sposarmi in una chiesa cattolica. Non era vero, ma allora non lo sapevo. Sapevo solo che non avrei cambiato la mia religione. Quale religione, se non ero religiosa? Mi rivolgevo a Dio solo se ero in difficoltà: lo mettevo alla prova e Lui mi aiutava sempre. Io ero il centro dell’universo e giudicavo ogni cosa secondo la mia convenienza.
C ominciò la guerra civile. Non c’era più la Jugoslavia, ma un enorme fronte, un manicomio, un mattatornio. Volevano sapere se ero serba, croata o bosniaca. Dicevo di essere jugoslava, ma quella nazione non esisteva più. Volevo capire il perché. Ho riletto la storia. Ho cominciato a studiare le religioni delle etnie in conflitto. Ho capito che quella jugoslava non era una guerra di religione. Era, al contrario, una guerra in un paese «ateizzato» e, proprio per questo, facile preda dei signori della guerra. Sono andata alla ricerca della religione cristiana ortodossa, scoprendo che essa fa parte inseparabile della mia identità nazionale.
Mi sono messa in viaggio verso Gesù e Lui mi è venuto incontro. Ho scoperto i doni del vangelo. Ho scoperto il volontariato e la gioia del lavoro gratuito come espressione dell’amore per il prossimo. Ho capito che non sono il centro dell’universo, ma solo un anello nella catena della vita e debbo stare attenta che questo anello non si arrugginisca.

D opo 13 anni di matrimonio, con due bambini già grandi, ci siamo sposati in chiesa con il rito ortodosso. E, come da bambina avevo smesso di piangere dopo essere stata battezzata, così… ho cessato di litigare con mio marito, come prima facevamo. È diventato più semplice educare i figli e risolvere ogni problema.
Per ogni cosa Gesù ha la risposta giusta e un consiglio saggio. Ora andiamo a messa tutte le feste e, in casa, commentiamo le prediche di don Enrico, il nostro parroco.
Una volta al mese ospitiamo padre Milivoj, il prete ortodosso che due volte al mese celebra la liturgia a Vicenza, in una chiesa prestataci per le funzioni religiose dai fratelli cattolici.
Nella nostra regione, il Trentino-Alto Adige, ci sono circa 3.600 serbi; nelle province di Vicenza, Verona e Padova sono oltre 6.000. Il nostro prete è, come l’apostolo Paolo, senza dimora fissa, ospitato dalla sua gente: ci insegna a vivere secondo l’insegnamento di Gesù, a comportarci da veri cristiani. Battezza i non battezzati e celebra i matrimoni; raccomanda di insegnare ai nostri figli lingua, usi e costumi della terra d’origine.

I o cerco di rispettare le regole della mia chiesa per ciò che riguarda digiuno, confessione e comunione; mio marito e i figli seguono le norme cattoliche. Siamo una famiglia ecumenica, e io prego con tutto il cuore che un giorno le nostre chiese si uniscano superando le divergenze dogmatiche.

Snezana petrovic




Serbia – I patriarchi tra re e dittaori

I serbi cominciarono a diventare cristiani nell’VIII secolo, ma solo nel XII tutti accettarono la religione cristiana. Quando, nel 1054, la chiesa cristiana si spaccò (diventando cattolica ad Occidente e ortodossa ad Oriente), in un primo momento il governatore serbo Mihailo Vojislavic riconobbe il papa come capo supremo della chiesa e il papa lo premiò con l’arcivescovado indipendente di Bar.
Anche il grande Nemanja, il personaggio con il quale comincia la storia del regno serbo, fu battezzato con il rito occidentale. Successivamente, egli accettò la religione ortodossa che diventò la religione del suo popolo. Mantenne però sempre buoni rapporti con il papa. Nel 1183 Nemanja diventò indipendente dall’impero bizantino e allargò i confini del suo stato. Nemanja aveva tre figli: Vukan, Stefan e Rasko.
Rasko si fece monaco col nome di Sava e nel 1219 fondò la chiesa autocefala serba, di cui fu il primo vescovo. Anche Nemanja diventò monaco con il nome di Simeon; trascorse la fine della sua vita nel monastero di Hilandar sul monte Atos, dopo aver lasciato il suo secondo figlio a governare.
Il figlio maggiore, Vukan, spinto dalla gelosia e dall’invidia per la decisione del padre, promise al papa Innocenzo III (1198-1216) di proclamare la religione cattolica religione ufficiale dello stato serbo, se l’avesse aiutato a prendere il potere. Con l’aiuto del papa, nel 1202 Vukan raggiunse lo scopo e tutta la chiesa serba fu sottomessa a Roma.
Ma il potere di Vukan durò poco, perché Stefan ridiventò sovrano della Serbia. Anch’egli diventò amico del papa, che lo proclamò re. Però il papa perse l’influenza sulla chiesa serba, che toò ad essere ortodossa.
I due fratelli in lotta furono riconciliati dal fratello Sava, che con il suo lavoro diplomatico e illuminato, diventò il personaggio più importante della storia serba. La chiesa lo proclamò santo e il 27 gennaio di ogni anno si celebra santo Sava.
Il figlio di Stefano, Dusan (1331-1355), fece della Serbia lo stato più potente dei Balcani e la chiesa diventò patriarcato. Il codice di Dusan fu il più famoso di tutto il Medioevo. Dopo Dusan, la Serbia perse la sua potenza, ma tutti i sovrani erano molto religiosi e costruivano chiese e monasteri, dei quali la maggior parte si trova nell’attuale Kosovo. I monasteri erano centri dell’istruzione, dell’arte e della cultura serba.
In Kosovo, dopo la famosa battaglia di Kosovo Polje del 28 giugno 1389, la Serbia perse la sua indipendenza, cadendo per 5 secoli sotto il dominio musulmano dei turchi ottomani. La popolazione cominciò a spostarsi verso nord. Lo spostamento più grande avvenne alla fine del XVII secolo, guidato dal patriarca Arsenije Caojevic.
Al nord i serbi ricevettero molti privilegi dall’impero austro-ungarico, a patto che difendessero i confini dell’impero dai turchi. Così Krajina, Slavonia e Vojvodina divennero roccaforti dell’impero, con una maggioranza di popolazione serba. Però la popolazione fu, fino al XIX secolo, sotto la pressione dei vescovi cattolici.
Nel 1878, con la pace di Berlino, la Serbia diventò di nuovo indipendente, grazie alle rivolte e al lavoro diplomatico di Milos Obrenovic. E nel 1882 diventò regno con la dinastia Karagiorgevic. La chiesa ebbe un ruolo importante.

T ra le due guerre mondiali tutti i re serbi ebbero un grande rispetto per la chiesa. Il re doveva essere benedetto dal patriarca.
Dopo il secondo conflitto mondiale, con la vittoria del comunismo, anche se formalmente era riconosciuta la libertà di religione, tutte le forme di religiosità furono combattute con una fortissima propaganda. La sorte peggiore toccò proprio alla chiesa ortodossa.
Le terre e ricchezze della chiesa furono espropriate dallo stato. Non c’era più l’insegnamento della religione nella scuola e chi andava in chiesa difficilmente poteva trovare lavoro. Per lavorare, era necessaria «l’attitudine morale-politica»: e questo voleva dire essere ateo. Il marxismo diventò la nuova religione, che entrò nelle scuole. Marx, Engels, Lenin e Tito erano i nuovi dèi.
Era nata e cresciuta una generazione di non battezzati, senza alcuna educazione religiosa, diventando a loro volta genitori di un’altra generazione senza fede.
Dopo Tito, con l’aumentare della crisi economica, cominciò lentamente il risveglio religioso della popolazione.
Nella Serbia di Milosevic non si lavora a natale e pasqua: questa è l’unica concessione ai credenti. Nelle scuole non si insegna religione e i matrimoni celebrati in chiesa debbono essere ripetuti in municipio per essere legali.
S.Pe.

Snezana Petrovic




kinshasa (Congo R. D. ) – Pelle a rischio

Nella spirale di violenza che ha insanguinato
la capitale della Repubblica Democratica del Congo padre Stefano ha condiviso con la gente rischi e pericoli, fino a sentire un mitra puntato alle tempie.
La presenza dei missionari continua
a infondere nella popolazione semi di speranza.

L a chiamano «guerra mondiale africana». Tra paesi e gruppi ribelli si contano 19 soggetti in stato di guerra. È stato firmato un documento di «cessate il fuoco» tra l’esercito di Kabila e quello dell’Uganda e Rwanda, ma si continua a sparare. I gruppi ribelli continuano a frammentarsi e boicottare gli sforzi di pace, rivendicando fette di territorio e potere.
Tra le varie aggregazioni, quella di «Bemba» riscuote le maggiori simpatie da parte della gente. Figlio di un ministro di Mobutu e ancora al governo con Kabila, Bemba è diventato a poco a poco uno degli uomini più ricchi del Congo, padrone di quasi un terzo del paese. Anche lui rivendica la sua fetta di potere.
Tre quarti del territorio nazionale sono controllati da eserciti stranieri e forze ribelli. Troppi interessi sono in gioco e la guerra potrebbe durare molti anni. Alla fine il vecchio Zaire potrebbe essere smembrato in tre stati indipendenti. E sarebbe il male minore.
UNA CITTÀ ARRABBIATA
La situazione economica e sociale è allo sfascio. Kinshasa, capitale del Congo, fa paura: 8 milioni di abitanti cercano di sopravvivere in condizioni di precarietà. Non c’è lavoro. Chi ha un impiego non viene pagato, come maestri e professori, che continuano a insegnare per non perdere il posto.
Per la penuria di benzina i trasporti sono allo sbando: tanta gente fa a piedi 6-7 km al giorno per raggiungere il posto di lavoro, con la prospettiva di non essere pagata. Il denaro non circola; eppure la vita continua, per una sorta di miracolo cittadino, dove ognuno s’inventa un modo di sopravvivenza.
La gente è arrabbiata contro Kabila: in più occasioni gli ha tirato i sassi. Cacciato Mobutu e raggiunto il potere con l’aiuto di rwandesi e ugandesi, il nuovo presidente aveva suscitato grandi aspettative, finendo per scontentare tutti, a partire dagli alleati. Ritenendoli ormai troppo ingombranti, Kabila pensò di sbarazzarsene prendendoli a calci, innescando così una guerra che ha ripiombato il paese nel caos e, all’inizio dell’agosto 1998, ha affogato in un bagno di sangue la capitale congolese.
In quei giorni, al colmo della rabbia, la gente ha sfoderato gli istinti più bassi della sua umanità, iniziando una feroce «caccia ai ribelli» e divertendosi nel bruciarli vivi: un copertone attorno al collo, inzuppato di benzina, un fiammifero… e lo spettacolo era assicurato!
La fobia del «ribelle» aveva sparso la voce che le spie nemiche si fossero infiltrate in Kinshasa travestite da dementi: persone malvestite che si aggiravano per la città, barboni e vagabondi sorpresi a rovistare tra le immondizie, tutta gente ignara dell’esistenza di una guerra, furono scambiati per spie e bruciati vivi.
La psicosi collettiva sembrava cancellare ogni senso d’umanità: si giunse a misurare il naso della gente, per decidere se uno era o meno un ribelle ugandese, e ad assassinare amici e conoscenti sospettati di collaborazionismo. Perfino le treccine legate ai capelli furono sospettate di essere veicolo per portare i messaggi al nemico: tale moda scomparve dalla circolazione in un baleno.
Ho visto scene da fare accapponare la pelle. In alcuni casi sono intervenuto, rischiando grosso, per salvare qualche vittima di tanta follia; ma ho ottenuto solo che il condannato non venisse sacrificato sotto gli occhi dei bambini.
TRE GIORNI DI FUOCO
I momenti più drammatici iniziarono quando gli ugandesi si organizzarono per conquistare Kinshasa e cacciare Kabila. Una parte dell’esercito ribelle si attestò sulla collina di Mont Ngafula, dove ci sono la nostra parrocchia e il seminario filosofico. Rimanemmo per una settimana alla mercé di 3.000 militari ugandesi, mentre i soldati di Kabila erano fuggiti per organizzare la difesa.
Bisognosi di cibo e medicine, i ribelli cominciarono a visitare conventi e fattorie della zona. A fae le spese erano soprattutto le galline. Vennero anche nelle nostre case e, devo confessarlo, si comportarono correttamente. Ci dissero di stare tranquilli, perché ce l’avevano solo con Kabila. Chiedevano da mangiare e medicine; poi se ne andavano.
Prima che scoppiassero le ostilità, pensammo bene di mandare studenti e suore nel seminario teologico verso il centro città, a una ventina di chilometri da Mont Ngafula. Per percorrere quel tragitto di una quindicina di minuti in auto, fratel Paolo Ferrari e padre Giovanni Torres, che accompagnavano gli studenti e le suore, impiegarono più di tre ore. Dovettero superare 25 sbarramenti militari e ogni volta bisognava scendere dall’auto, aprire le borse, identificarsi e sottoporsi a interrogatori.
Anche per me, rimasto a custodire la casa con tre seminaristi, quel viaggio fu un autentico calvario. In costante contatto telefonico con padre Vincenzo Mura, direttore del seminario teologico, mi sentivo morire dentro e mi domandavo cosa fosse loro capitato.
Il 2 agosto 1998 cominciò l’offensiva. La gente del quartiere era terrorizzata e non sapeva cosa fare. Gli uomini erano fuggiti per paura di essere presi dai soldati; donne e bambini, rimasti soli, si rifugiarono nella nostra casa. Condividemmo quel po’ di riso e quant’altro rimaneva delle scorte del seminario. Un gesto di solidarietà che è stato ampiamente ripagato: in seguito la gente ci ha aiutato, soprattutto vigilando sulla nostra casa, affinché non diventasse oggetto di rapine e saccheggi.
Per tre giorni, tappati in casa, sentivamo le pallottole fischiare senza interruzione e senza sapere cosa capitasse fuori. Nessuno fiatava. La notte, poi, senza luce elettrica, tensione e paura diventavano palpabili. Dovendo comunicare a Roma la nostra situazione, accendevo un piccolo generatore che, essendo alquanto rumoroso, spegnevo al più presto possibile, per non attirare l’attenzione, limitandomi a trasmettere le notizie essenziali e in modo telegrafico.
LA FUGA
Quando si sparse la notizia che i soldati di Kabila avrebbero bombardato Mont Ngafula, la gente cominciò a fuggire all’impazzata verso il fondovalle. Mi convinsi che non valeva la pena rischiare la pelle per restare a guardia della casa. Infilai i documenti essenziali in uno zainetto e raggiunsi la gente che sciamava.
Tutto avvenne in maniera improvvisa e precipitosa, da non permettere alcuna pianificazione. Una fiumana di persone scendeva la collina, ciascuno tirandosi dietro i bambini, una pentola, due stracci, in una fuga frenetica e disordinata, per arrestarsi di fronte ai blocchi militari.
Ad ogni barriera mi sentivo nell’occhio del ciclone: fui minacciato e molestato più degli altri. «Perché ce l’hanno tanto con me» pensai. Forse qualcuno aveva riferito ai soldati della nostra radiofonia, usata per restare in contatto con i confratelli del nord, e del telefono, che ci permette di comunicare con l’estero. Di conseguenza potevo essere sospettato di complicità con i ribelli e, soprattutto, di seminare zizzania, diffondendo all’estero notizie false sul paese.
In uno di quei blocchi non ricordo cosa sia successo: mi trovai inginocchiato per terra, con un mitra puntato alla testa. Un soldato urlava contro i bianchi, colpevoli di avere alloggiato i ribelli. «Voi preti, soprattutto, avete aperto le chiese e accolto i ribelli». Era vero. I soldati ugandesi erano entrati nelle nostre chiese. Cosa avremmo potuto fare contro 3.000 soldati armati fino ai denti?
Col mitra puntato alle tempie, dapprima rimasi muto per l’incredulità; poi stordito e pieno di paura; infine chiusi gli occhi e mi sentii pervaso da una grande pace. Non so quanto tempo restai in quella posizione: un minuto o un’eternità. Ricordo solo che, quando riaprii gli occhi, non vidi più nessuno attorno a me. Mi alzai di scatto e rincorsi la gente, sentendomi risuscitato.
Rimasi nel fondovalle per tre giorni. Avrei potuto raggiungere il seminario teologico verso il centro città, ma preferii restare con la gente, accampata sulla strada, senza acqua né cibo, con i bambini che piangevano.
I cannoni sparavano contro la collina. Non fu difficile inventare qualche battuta scherzosa per sdrammatizzare e raffreddare la tensione. In un momento di calma, raggiunsi un convento di suore e telefonai a Roma per rassicurare i superiori che confratelli, seminaristi e suore erano tutti al sicuro.
La domenica, cessato il bombardamento, sperimentai uno dei momenti più commoventi della vita. La gente mi circondò per dirmi: «Grazie, padre, perché sei rimasto con noi» e tante parole piene di amicizia e solidarietà. Poi arrivarono i confratelli che in quei giorni mi avevano cercato, pieni di apprensione per la mia sorte. È stato bellissimo riabbracciarsi.
IL RITORNO
La domenica pomeriggio le truppe di Kabila avanzarono verso la collina e cominciarono il rastrellamento. Gli ugandesi fuggirono nella foresta, dove furono massacrati.
La mattina seguente decisi di tornare a casa. Avevo fatto i primi passi con i tre seminaristi e alcuni amici, quando, come per incanto, la gente si accodò in massa dietro a noi. Più salivamo più la processione s’ingrossava. La fuga precipitosa del venerdì si era mutata in un rientro giornioso e pieno di speranza, tra i canti dei bambini.
Più in alto la visione era raccapricciante e l’aria irrespirabile per il fumo delle case distrutte e il fetore dei corpi bruciati e in decomposizione. Arrivati in seminario, ricevemmo la sgradita visita dei soldati di Kabila: ci derubarono di tutto, dopo averci fatto patire le pene dell’inferno.
Ci recammo in visita ai confratelli della parrocchia, che ci raccontarono la loro storia. Quel venerdì padre Fedele Crippa stava celebrando la messa, quando, al momento della comunione, i ribelli fecero irruzione nella chiesa, sparando in ogni direzione. Il celebrante rimase imperterrito, deciso a terminare la celebrazione, ma si ritrovò con la chiesa vuota: la gente, strisciando sotto i banchi, era scappata in sacrestia.
Quando i soldati si furono allontanati, i missionari si rifugiarono nella casa parrocchiale e vi rimasero intrappolati, con alcuni fedeli, per tutto il tempo del bombardamento. Grazie a Dio, erano tutti incolumi.
RICOSTRUIRE LA GENTE
DAL DI DENTRO
Tutti hanno apprezzato il fatto che siamo rimasti con loro e affrontato gli stessi rischi e sofferenze. In effetti è questo il significato principale della nostra presenza. La situazione di guerra in cui vive il paese non ci permette di fare grandi opere. È la terza volta che ci distruggono tutto e che dobbiamo ricominciare da capo. Stando con la gente, condividendone la precarietà e confusione del presente e l’incertezza del futuro, siamo un segno di speranza per un avvenire nuovo e migliore.
Tuttavia continuiamo a domandarci come possiamo essere segno più efficace per questa popolazione che, oggi più che mai, riscopre la propria religiosità e la convinzione che il futuro è nelle mani di Dio. Per aiutarla a sopravvivere, cerchiamo di stimolare e coinvolgere la gente in varie forme di collaborazione, piccoli progetti, cornoperative di lavoro e commercio. Le donne, soprattutto, giocano un ruolo di grande importanza: sono esse le più creative nella ricostruzione del tessuto sociale, organizzando, per esempio, giornate di lavoro comunitario per riparare le strade e altre strutture di comune utilità.
Al tempo stesso guardiamo anche lontano, per progettare un lavoro a lunga scadenza. A tal proposito, credo che dobbiamo dare priorità alla scuola, ormai completamente trascurata dallo stato. In un paese come il Congo, dove la corruzione è elevata a sistema di vita e di sopravvivenza, c’è bisogno di ricostruire la gente dal di dentro.
Sarà questa la sfida del futuro: formare le nuove generazioni a un maggiore senso di responsabilità, amore per la pace e il bene comune.

Stefano Camerlengo




Meno tecnologia, più spiritualità

Musica e solidarietà, un mero abbinamento pubblicitario o un sincero
interessamento per i più sfortunati? Può la musica arrivare dove altri falliscono?
Ne abbiamo parlato con due componenti dei «Nomadi», il complesso italiano
che da anni appoggia la causa del Tibet, paese schiacciato dalla dominazione cinese.
Il racconto della loro visita a Dharamsala e l’ammirazione nei confronti
del Dalai Lama, capo politico e spirituale del popolo tibetano.

Per alcuni i «Nomadi» fanno pensare ad un noto complesso pop degli anni ’60. I Nomadi, invece, continuano a esistere: producono dischi, fanno oltre 150 concerti all’anno, hanno un nutrito stuolo di fans e, ciò che più ci interessa, spendono la loro immagine a favore di molte cause e di molti popoli oppressi. Noi li ricordiamo, tra l’altro, come testimonials per la Colombia e il Caquetà nella giornata conclusiva della campagna «Non di sola coca».
Impegnati da anni a far conoscere nel nostro paese la tragedia del Tibet, conquistato ed oppresso dalla Cina comunista, i Nomadi hanno suonato nell’ottobre scorso a Milano in un concerto tenutosi in occasione della visita in Italia del Dalai Lama.

A biamo incontrato, durante le prove del concerto milanese, Beppe Carletti (tastierista e membro storico del gruppo) e Danilo Sacco (cantante e frontman).
I Nomadi sono noti anche per il loro impegno in molte attività umanitarie. Ma, tra le tante cause per cui lottare, perché avete scelto proprio il Tibet?
Danilo: «In generale, ogni popolo che soffre riceve la nostra attenzione. Il Tibet ci ha colpito particolarmente, perché è un polmone di cultura e fede. Se questa cultura fede andassero perdute, credo che il mondo ne risentirebbe moltissimo. E, purtroppo, questa perdita è già in atto, perché i cinesi con la loro repressione hanno distrutto gran parte dei monasteri e deportato tantissima gente.
Pur vivendo nell’epoca dei mass media, del Tibet si conosce poco e soprattutto non si sa della repressione che ha subìto e sta ancora subendo. Purtroppo, se non passa in televisione, la gente pensa che queste cose non esistano… Invece eccome se esistono: c’è un popolo che sta soffrendo da decine di anni e ci sono stati già più di un milione e 200 mila morti.
Il nostro impegno allora è questo: testimoniare ciò che sta accadendo. Noi quindi facciamo prima di tutto una campagna di informazione.
Il Tibet per noi è importante, anche perché abbiamo conosciuto sua santità il Dalai Lama, una persona che ci ha colpiti molto. Ci hanno stupito la sua dolcezza e tenerezza incredibili. Egli è il capo spirituale – e anche politico – di un popolo che è stato massacrato. Ci chiediamo sempre come faccia a mantenere la scelta per la nonviolenza, a voler seguire con il suo popolo questa strada, qualunque cosa accada. Questa è la cosa che più ci ha impressionato».
Beppe: «Già nel ’95, in occasione del disco Tributo ad Augusto (Augusto Daolio, già cantante dei Nomadi, morto per un cancro il 7 ottobre 1992, n.d.r.), abbiamo voluto devolvere gli introiti del disco a 3 associazioni: una che si occupa dei bambini palestinesi, una di un orfanotrofio a San Paolo del Brasile e la terza di bambini tibetani. Ci sembrava giusto beneficiare tre realtà così diverse e lontane. In seguito, io sono stato tre giorni in un monastero tibetano, a Sheherezed, nel sud dell’India, dove ho potuto incontrare i bambini tibetani che là erano ospiti. Tra l’altro, questa sera ci sono dei coristi che vengono proprio da Sheherezed.
Nel ’95 siamo stati tutti insieme a Dharamsala, un paese nel nord dell’India, abitato completamente da profughi tibetani. Qui abbiamo incontrato il Dalai Lama, che in quella occasione ci ha detto una cosa molto bella: cioè che la musica può fare tanto per la causa tibetana. E in effetti è vero: non è necessario suonare musica tibetana, ma quando noi saliamo sul palco a inneggiare al Tibet e alla sua liberazione, questo è qualcosa che la musica fa… Perché quello del Tibet è un popolo che ha bisogno non tanto di denaro quanto soprattutto che si sappia cosa accade.
E poi, come sottolineava Danilo, il Dalai Lama ha una spiritualità ed un sorriso grandissimi… Mi ha colpito molto quando ha detto “si deve perdonare, ma non si deve dimenticare”. È stato un incontro incredibile, di oltre un’ora, e non è comune poter avere un incontro così lungo con lui, premio Nobel per la Pace, capo spirituale e politico di una nazione.
Quando eravamo là, c’era con noi un amico carissimo, di Reggio Emilia, che subito ha detto: “Bene, possiamo organizzare una manifestazione davanti all’ambasciata cinese…”. Ma Dalai Lama ha risposto: “No! Non fate queste cose, non c’è bisogno… Noi vinceremo con il sorriso…”. E lui ti accoglie con questo sorriso che, da solo, ha la grande prerogativa di farti stare bene e di metterti a tuo agio. Non so se sia lui come persona o ciò che rappresenta, ma è così. Vale la pena di portare avanti questa causa. Noi, con la nostra musica, crediamo di poter fare qualcosa».
Danilo: «C’è un’altra frase che, secondo me, fotografa bene quello che è il Dalai Lama. Egli è soprattutto un capo spirituale, il capo spirituale dei buddisti tibetani mahayana. E proprio lui dice: “Non dovete cambiare religione. Non cambiate religione: le religioni sono tutte positive. Cambiate voi stessi!”».
Beppe: «Anche a quelli che vogliono avvicinarsi al buddismo egli dice: “È bene che lo facciate, così potete capire meglio anche la vostra religione”. Lui non vuole “rubare” fedeli alle altre confessioni. Questo è molto bello».
Danilo: «Questo è un punto da mettere in evidenza: il buddismo mahayana non ha mai cercato di fare proselitismo. Ed è bello che questo stesso principio ci sia stato ripetuto anche da Dwayne, sciamano e capo spirituale della tribù sioux dakota. Anch’egli ci ha detto: “Non dovete cambiare religione per cercare qualcosa di diverso. Per cercare una maggiore armonizzazione, cambiate voi stessi”. Lo stesso concetto espresso da due persone completamente diverse, che vivono a migliaia di chilometri di distanza».
Voi avete incontrato il Dalai Lama, siete stati a Dharamsala… Il popolo tibetano è composto in gran parte da monaci. Cosa vi ha colpito di queste persone?
Danilo: «Prima di tutto, quando si incontrano culture così lontane dalla nostra, è importante lasciare completamente a casa i preconcetti di uomo europeo. Soltanto aprendo il cuore si può riuscire a capire quello che queste persone hanno da dire. I tibetani hanno fatto una scelta opposta della nostra: noi abbiamo demandato tutta la nostra vita alla tecnologia: più tecnologia, meno spiritualità… Essi hanno fatto l’esatto opposto: meno tecnologia, più spiritualità. Di conseguenza noi siamo convinti di essere avanzati, perché abbiamo il telefonino, la macchina eccetera… In realtà poi non è così: conoscendo bene le loro opinioni e le loro idee, credo che il vero progresso sia il loro, perché progrediscono dentro e non fuori. Io sono convinto, ad esempio, che la scienza e la medicina europee si avvicineranno sempre di più a questa cultura, perché ha molto da insegnarci».
Beppe: «Noi a Dharamsala siamo stati tre giorni, e quello che ci ha colpito è stata la spiritualità che essi vivono così a fondo. E poi il sorriso che ha il Dalai Lama lo hanno tutti… Dharamsala è un paese, di circa 1.500 abitanti, popolato totalmente da tibetani. Anche se geograficamente è in India, si entra in un altro mondo. Si incontrano i monaci, che sono quasi continuamente in preghiera. La cosa bella è questa: vivono totalmente la loro spiritualità, te la trasmettono, ti fanno stare bene quando sei con loro. La spiritualità si “respira” è nell’aria, non si può fare a meno di incontrarla.
Al monastero di Sheherezed, per esempio, i monaci iniziavano la preghiera al mattino all’alba e andavano avanti fino a sera tarda, con alcuni che portavano da mangiare e bere, perché gli altri non interrompessero la preghiera. Questa è una cosa bellissima, che colpisce e fa riflettere. Insomma, ti rimane dentro».
L’incontro con una cultura così diversa può cambiare la vita delle persone?
Beppe: «Posso parlare per me. Io non so se sono cambiato. Sinceramente se dicessi “sì, sono cambiato, mi ha fatto cambiare”, sarei un bugiardo. Se sono cambiato non me ne sono accorto, anche perché il tempo in cui sono stato là è poco rispetto ad una vita. Però sono sensazioni che mi porto dentro. Anche se non sono cambiato io, può darsi che io trasmetta queste emozioni ad altri che mi ascoltano…».
Danilo: «Per me questo incontro è stato importante soprattutto perché ogni cultura, diversa dalla tua, ti arricchisce molto, se tu ovviamente tu non la rifiuti. E questo è già essenziale.
Si dovrebbe imparare ad accogliere tutte le diversità, ad avere voglia di confrontarsi. La fusione delle culture, prendendo il meglio da ciascuna, credo che sia l’unica salvezza del mondo. E la cultura tibetana è una delle più importanti e antiche. Se la salviamo, salviamo anche una parte di noi stessi».

Ugo Finardi




ETIOPIA – Crescere da rifugiati

Vivere in un campo-profughi è un’esperienza drammatica.
Ma per i bambini, cresciuti nella precarietà, c’è sempre
un modo per divertirsi. Dopo una guerra durata 30 anni,
oggi le relazioni tra Etiopia ed Eritrea sono tornate
molto tese. E i rifugiati rischiano di aumentare.

In Etiopia, la casa procura dei missionari della Consolata si trova a Makanissa, una zona della periferia sud di Addis Abeba. Questa parte della città era stata assegnata, ai tempi del negus Hailé Selassié, agli handicappati e ai lebbrosi. Ora ci vivono anche (e sono dunque nostri vicini di casa) alcune migliaia di rifugiati, provenienti da Asmara (Eritrea).
Sono i profughi della guerra d’indipendenza dell’Eritrea, che durò ben 30 anni (finì nel 1991). Arrivarono qui nel 1992 e fu loro assegnata un’area non abitata alla periferia di Addis Abeba.

L e tende delle Nazioni Unite, a poco a poco, si sono trasformate in abitazioni stabili. Insomma, la tenda fa da «casa». L’acqua viene distribuita da un serbatornio per due-tre ore al giorno e, ovviamente, c’è sempre una coda di gente per avere questo elemento così prezioso.
Quando l’acqua manca del tutto si rivolgono alla missione. Allora si fa scorrere un tubo di plastica oltre il muro di cinta del seminario e lo si collega alla pompa elettrica e al pozzo. Si chiama anche un guardiano a distribuire l’acqua e mantenere l’ordine.
Sia le famiglie che i bambini parlano correntemente due lingue, il tigrigna (lingua dell’Eritrea e del Tigrai, che i piccoli imparano dalle mamme) e l’amarico imparato dai papà, ex militari dell’esercito di Menghistu.
La condizione di essere tutti rifugiati non elimina certo i problemi «etnici». Al primo campo di Makanissa prevalevano le famiglie di lingua tigrigna, rari gli amara, oromo e sidamo. Un altro campo rifugiati a nord-est di Addis Abeba aveva invece diverse etnie. La vita là non era facile. Ci furono grossi bisticci, tanto che alla fine un numero di rifugiati fu trasferito a Makanissa; si formò così un secondo campo, in pratica la continuazione del primo, ma in condizioni più precarie, con spazio più ristretto, attaccato alla strada, e abitazioni più piccole.
Conoscere i rifugiati è stata per me una nuova esperienza. I bambini rifugiati sono quelli che danno vita al quartiere: giocano, gridano, corrono ai bordi della strada, un po’ come si vede nelle campagna. Fanno giochi tipo «la settimana» o «palla prigioniera», molto simili a quelli che giocavamo noi in Italia. La palla è sempre una vecchia calza o un sacco di plastica legato e riempito di stracci.
Diversi vengono all’oratorio di sabato e domenica. Se non hanno il tesserino di riconoscimento richiesto per entrare (sono state emesse più di mille «cards») o perché l’hanno perso o perché è caduto nell’acqua (!) o non l’hanno mai avuto, cercano di passarselo l’un l’altro da sotto il cancello, tanto il guardiano non vede…

I bambini rifugiati ti invitano sempre a visitare le loro «case». Luàm e Nebiàt, due sorelline di nove e undici anni, sono un po’ speciali a voler condurre tutte le persone importanti alla loro tenda. Sovente senti Luàm raccontare che quell’ospite straniero (che parlava solo poche parole d’inglese) o quell’abba (padre) nuovo arrivato (che non sapeva una parola di amarico) sono stati a visitare la sua capanna. La mamma prepara per gli ospiti il tradizionale caffè e talvolta i pop-co, arrostiti su una piastra di ferro; il combustibile sono rametti e foglie secche raccattati all’intorno.
Un giorno di festa, in cui ero stato invitato per il caffè, mi ero avviato verso casa, e Nebiàt venne ad accompagnarmi. Non è facile trovare la strada in mezzo al campo rifugiati. Il villaggio è diventato una micro-città con strade strettissime dei sentirnerini), che girano e si intersecano in tutte le direzioni in mezzo alle case e casette (le ex tende).
Avevamo appena girato attorno alle prime capanne, che a Nebiàt venne in mente di farmi uno scherzo: «Addio brother, io debbo tornare a casa ad aiutare la mamma». Il significato – lo capii subito – era che io mi sentissi disorientato, e trovandomi in mezzo a quel labirinto di viuzze, avrei dovuto certamente chiederle aiuto per farmi accompagnare all’uscita del campo, che tra l’altro è anche in parte cintato col filo spinato. Io però non mi spaventai: «Va bene, grazie. Io giro a destra, poi ancora a destra attorno alla capanna diroccata, poi seguo il sentirnero che va zigzagando fino alla strada principale, dove non avrò difficoltà a orientarmi. Ciao» (ciao si usa anche in Etiopia). Fra me e me pensai: qui nel campo non ci sono ladri e malintenzionati; forse avrei più paura in certe zone della città…
I bambini rifugiati provano una certa fierezza a fare da guida ad un forengi (straniero) in mezzo al loro complicato villaggio. Unico avvertimento per il visitatore: stare attento a non picchiare la testa contro i pali sporgenti dai tetti, dato che le case sono molto basse.
I bambini del campo-profughi non sono oziosi: in maggioranza frequentano la scuola elementare di Makanissa. C’è chi si industria comprando e vendendo aranci o cipolle ai bordi della strada per pochi centesimi. Ibrahim, Motekù e Samuel fanno i lustrascarpe agli incroci delle vie principali e ai capolinea dei bus. Quello del lustrascarpe è un mestiere molto diffuso tra i bambini di strada di Addis Abeba. Bisogna dire che fanno bene e da competenti il loro lavoro, veloci e con una tecnica tutta particolare. Anche la gente benestante, impiegati e funzionari, si fanno lucidare le scarpe da loro.

Un giorno vedo passare, veloci tra una capanna e l’altra, dei bambini con dei grandi vassoi. Gridano: «Komidore, komidore». Guardo cosa c’è nei vassoi e vedo dei bei «pomidori». Mi pareva che ciò che sentivo gridare avesse un suono familiare!
Parole italiane sono entrate nel loro linguaggio. Infatti vengono da Asmara, città italiana per tanti anni. Esempi: «koporta» per «coperta»; «fornello», «fuo» o «bani» per «pane». Anche alcuni nomi di persona: «Rosa» e «Fiori» (l’equivalente amarico è Abeba. Addis Abeba significa «Nuovo Fiore»).
Questa sera dalla casa regionale ho sentito gridare sulla strada: «Fiori! Fiori!». Sono loro che giocano, e una bambina si chiama appunto «Fiori».

Si vedono tra i rifugiati anche atti di generosità. Bzuayehu vive nel campo e ha il papà con un lavoro fisso. Ma potrebbe la sua famiglia permettersi un esoso affitto per una casa fuori dal campo? Poco migliore poi dell’abitazione presente? Bzuayehu parla poco, è molto intelligente e va bene a scuola. È compagna di Nebiàt. Tra gli scolari del campo è l’unica a portare i libri in uno zainetto moderno, come usano oggi gli studenti più fortunati.
Un giorno vedo Nebiàt tornare da scuola con uno zainetto per i libri. «Dove l’hai trovato?». Mi sembra impossibile che la sua famiglia l’abbia comprato: costa più di 100 birr, un lusso.
«Me l’ha regalato Bzuayehu, suo fratello ne ha portato uno da Dire Dawa». Dire Dawa è una città nell’est dell’Etiopia, dove arrivano dal mare molte mercanzie a prezzi ribassati. «Bzuayehu aveva già uno zainetto. Allora ha dato l’altro a me».

Vincenzo Clerici




Il dio dei desideri – La chiesa in Asia

Il vangelo ha varcato pure i palazzi imperiali di Cambalùc, cioè Pechino.
Non solo, ma ha raggiunto tutti i paesi dell’Asia. Con grandi difficoltà, numerosi errori e scarsi risultati.
La chiesa in Asia riafferma la scelta dell’uomo, soprattutto se povero,affidandosi alla forza e intuizione
dello Spirito, che soffia come, dove e quando vuole.

UNO SGUARDO AL PASSATO

La storia della chiesa in Asia è antica quanto la chiesa stessa. Infatti è in terra d’Asia che Gesù donò lo Spirito Santo ai suoi discepoli e li inviò sino ai confini della terra, perché proclamassero il vangelo e riunissero le comunità di credenti. «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20, 21). Seguendo il comando del Signore, gli apostoli predicarono ovunque la Parola.
Da Gerusalemme la chiesa si diffuse ad Antiochia, a Roma e oltre, raggiungendo l’Etiopia a sud, la Russia a nord e l’India a est, dove, secondo la tradizione, san Tommaso apostolo giunse nel 52 d.C.
Straordinario fu lo spirito missionario, nel III e IV secolo, della comunità siriana dell’est, avente come centro Edessa. Le comunità ascetiche della Siria rappresentarono una forza fondamentale dell’evangelizzazione in Asia dal III secolo in poi, e foirono l’energia spirituale della chiesa, specialmente durante i tempi di persecuzione. L’Armenia fu la prima nazione ad abbracciare il cristianesimo: essa si sta ora preparando a celebrare il 1700° anniversario del suo battesimo.
Alla fine del V secolo il messaggio cristiano aveva raggiunto i regni arabi, ma per molte ragioni (incluse le divisioni tra i cristiani) non si radicò fra questi popoli.
Mercanti persiani portarono il vangelo in Cina nel V secolo, e la prima chiesa cristiana fu costruita all’inizio del VII secolo. Durante la dinastia t’ang (618-907 d.C.) la chiesa fiorì per circa due secoli. Il declino della vivace chiesa in Cina, alla fine del primo millennio, è uno dei capitoli più tristi nella storia del popolo di Dio nel continente asiatico.
Nel XII secolo la «buona notizia» fu annunciata ai mongoli, ai turchi e, ancora una volta, ai cinesi. Ma il cristianesimo quasi scomparve per diverse cause: l’insorgere dell’islam, l’isolamento geografico, l’assenza di un adattamento alle culture locali e, soprattutto (forse), la mancanza di preparazione ad incontrare le grandi religioni dell’Asia.
Alla fine del XIV secolo si verificò un drammatico ridimensionamento della chiesa in Asia, eccetto nell’India del sud. La chiesa doveva attendere una nuova era missionaria. Le fatiche apostoliche di san Francesco Saverio, la nascita della congregazione di Propaganda Fide e le direttive ai missionari di rispettare e apprezzare le culture locali produssero, nel XVI e XVII secolo, risultati più positivi.
Nel secolo XIX vi fu un risveglio dell’attività missionaria e varie congregazioni religiose si dedicarono a tale compito. Fu riorganizzata Propaganda Fide; fu posto un maggiore accento sull’edificazione delle chiese locali; attività educative e caritative andarono di pari passo con la predicazione del vangelo. La «buona notizia» continuò così a raggiungere un più vasto numero di persone, specialmente tra i poveri e gli svantaggiati, ma anche tra élites sociali e intellettuali. Furono effettuati nuovi tentativi di inculturazione del vangelo, anche se non si rivelarono sufficienti.
Nonostante una plurisecolare presenza e i numerosi sforzi, la chiesa in Asia era considerata straniera e, spesso, associata alle potenze coloniali.
L’IMPULSO DEL vaticano II
Questa era la situazione alla vigilia del Concilio ecumenico Vaticano II. Grazie, tuttavia, all’impulso che esso foì, la chiesa maturò una nuova comprensione della propria missione. E si accese una grande speranza.
L’universalità del piano salvifico di Dio, la natura missionaria della chiesa e la conseguente responsabilità di ogni cristiano costituirono il quadro di riferimento di un impegno rinnovato.
Pur tra difficoltà, oggi la chiesa in Asia è inserita fra popoli che dimostrano un intenso desiderio di Dio e sa che tale desiderio può essere pienamente soddisfatto da Gesù Cristo, parola di Dio per tutte le nazioni. I padri del Sinodo per l’Asia hanno auspicato che si focalizzasse questo aspetto e si incoraggiasse la chiesa a proclamare con vigore, in parole e opere, che Gesù Cristo è il salvatore.
Lo spirito di Dio, sempre all’opera nella storia della chiesa in Asia, continua a guidarla. I tanti elementi positivi delle chiese locali rafforzano la speranza di una «nuova primavera di vita cristiana».
Solida ragione di speranza è l’incremento di laici maggiormente formati ed entusiasti, più coscienti della propria vocazione nella comunità ecclesiale. Fra questi va reso omaggio ai catechisti. Inoltre i movimenti apostolici e carismatici sono un dono dello spirito, poiché infondono nuovo vigore nella formazione delle famiglie e della gioventù.
Infine le associazioni ecclesiali, che si impegnano nella promozione della dignità umana e della giustizia, rendono tangibile l’universalità del messaggio evangelico della comune adozione a figli di Dio (Cfr. Rm 8, 15-16).
SETE DI «ACQUA VIVA»
In Asia continua il dialogo d’amore tra Dio e l’uomo, preparato dallo Spirito Santo e realizzatosi nel mistero di Cristo. In questo i vescovi, i sacerdoti, i consacrati e i laici hanno un ruolo essenziale da svolgere, memori delle parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo e mi sarete testimoni a Gerusalemme… fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8).
La chiesa è convinta che nel cuore degli uomini, delle culture e religioni dell’Asia vi sia sete di «acqua viva» (Cfr. Gv 4, 10-15), che lo Spirito stesso suscita e che solo Gesù salvatore potrà pienamente saziare.
Guidata dallo Spirito nella missione di servizio e amore, la chiesa può offrire un incontro fra Gesù Cristo e i popoli alla ricerca della pienezza della vita. Solo in tale incontro può essere trovata l’«acqua viva», cioè la conoscenza dell’unico vero Dio e del suo inviato, Gesù Cristo.
Nelle complesse realtà dell’Asia, la chiesa sa di dover disceere la chiamata dello Spirito a testimoniare Gesù salvatore in modi nuovi ed efficaci. La piena verità di Gesù e della salvezza, da Lui ottenuta per noi, è sempre un dono e mai il risultato di uno sforzo umano. «Lo Spirito ci attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8, 16-17).
Perciò la chiesa grida incessantemente: «Vieni, Santo Spirito! Invadi i cuori dei tuoi fedeli e accendi il fuoco del tuo amore!».
Con tale sentimento, i padri del Sinodo hanno individuato le principali sfide missionarie che la chiesa deve affrontare in Asia, mentre varca la soglia del terzo millennio.
L’UOMO SOPRATTUTTO
Gli uomini e le donne, non la ricchezza o la tecnologia, sono gli agenti primari e i destinatari dello sviluppo.
Pertanto il progresso che la chiesa promuove va al di là delle questioni economiche: inizia e termina con l’integrità della persona, creata ad immagine di Dio e dotata di dignità e diritti inalienabili.
Le diverse dichiarazioni inteazionali sui diritti umani e le molte iniziative da esse ispirate sono segno di una crescente attenzione a livello mondiale alla dignità della persona. Spesso, però, tali dichiarazioni sono violate nella pratica. A 50 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, molte persone sono ancora soggette a degradanti forme di sfruttamento e manipolazione, che le riducono a vere schiavitù in balìa dei più potenti, di ideologie, del potere economico, di sistemi oppressivi, della tecnocrazia scientifica o dell’invadenza dei mass media.
I padri del Sinodo sono apparsi ben coscienti della violazione dei diritti umani in tante parti del mondo; in modo particolare in Asia, dove decine di milioni di persone soffrono discriminazione, sfruttamento e povertà. Essi hanno espresso la necessità che tutto il popolo di Dio giunga alla consapevolezza della sfida inevitabile e irrinunciabile, connessa con la difesa dei diritti umani e la promozione della giustizia e della pace.
preferenza per i poveri
Nella ricerca della promozione della dignità umana, la chiesa dimostra un amore preferenziale per i poveri e senza-voce, perché il Signore si è identificato con loro in modo speciale (Cfr. Mt 25, 40). Tale amore non esclude alcuno, ma incarna una priorità di servizio testimoniata dalla tradizione cristiana.
È una caritas che abbraccia folle di affamati, mendicanti, senzatetto, privi di assistenza medica e, soprattutto, senza speranza di un futuro migliore: non si può non prendere atto di tali realtà. L’ignorarle significherebbe assimilarci al ricco epulone, che fingeva di non conoscere Lazzaro, il mendico fuori della sua porta (Cfr. Lc 16, 19-31).
Ciò è particolarmente vero in Asia, continente con abbondanti risorse e grandi civiltà, ma dove si possono trovare nazioni misere e dove oltre la metà della popolazione soffre privazioni e sfruttamento.
I poveri trovano le migliori ragioni di speranza nel comandamento di amarsi «come Cristo ci ha amati». Ma la chiesa non può non sforzarsi di adempiere, in parole e opere, il comando del Signore nei confronti dei bisognosi.
la globalizzazione
I padri del Sinodo hanno riconosciuto l’importanza della globalizzazione economica nel considerare la promozione umana in Asia.
Pur riconoscendo gli aspetti positivi della globalizzazione, hanno anche rilevato che essa si è risolta a svantaggio dei poveri per l’intrinseca tendenza a spingere le nazioni più deboli ai margini dei rapporti inteazionali di carattere economico e politico. Molti paesi asiatici non sono in grado di inserirsi in una economia globale di mercato.
Forse ancora più significativa è la globalizzazione culturale, oggi possibile con i mezzi di comunicazione: essa sta rapidamente attirando le società asiatiche in una cultura consumistica e materialistica. Ne risulta l’erosione della famiglia tradizionale e dei valori sociali che finora hanno sostenuto popoli e società.
Tutto questo rende evidente che gli aspetti etici e morali della globalizzazione devono essere affrontati dai capi delle nazioni e dalle organizzazioni coinvolte nella promozione umana.
La chiesa insiste sulla necessità di una globalizzazione senza marginalizzazione. I padri del Sinodo hanno invitato tutte le chiese, specialmente quelle dell’occidente, a far sì che la dottrina sociale della chiesa abbia il dovuto impatto nella formulazione delle norme etiche e giuridiche che regolano il mercato mondiale e i mezzi di comunicazione sociale. I leader e professionisti cattolici dovrebbero spronare le istituzioni governative e inteazionali della finanza e del commercio a rispettare tali norme.
L’antico Israele insisteva sull’inscindibile legame tra l’adorazione di Dio e la cura del debole, rappresentato da vedove, stranieri, orfani (Cfr. Es 22, 21-22): le categorie più esposte alla minaccia dell’ingiustizia. Negli ammonimenti dei padri sinodali si odono i profeti biblici: Dio vuole «l’amore e non il sacrificio». E Gesù fece sue tali parole (Cfr. Mt 9, 13).
L’appello del Sinodo per lo sviluppo e la giustizia è nello stesso tempo antico e nuovo: è antico, perché sorge dalle profondità della tradizione cristiana; è nuovo, perché tocca la situazione di moltissime persone oggi.
IL CORO DEI TESTIMONI
I programmi di formazione e le strategie sono fondamentali nella missione. Ma, alla resa dei conti, è il martirio che rivela l’essenza profonda del messaggio cristiano. La parola «martire» significa testimone, e quanti hanno sparso il proprio sangue per Cristo hanno dato la testimonianza estrema all’autentico valore del vangelo.
Nella bolla di indizione del giubileo del 2000, Incaationis mysterium, il papa scrive: «Dal punto di vista psicologico, il martirio è la prova più eloquente della verità della fede, che sa dare un volto umano anche alla più violenta delle morti e manifesta la sua bellezza anche nelle più atroci persecuzioni».
L’Asia, lungo i secoli, ha dato alla chiesa e al mondo un grande numero di martiri della fede. Da tanti angoli del continente si innalza il canto: Te martyrum candidatus laudat exercitus (Ti loda la candida schiera dei martiri). È questo il grido giornioso di quanti sono morti per Cristo nei primi secoli, come pure nei tempi recenti: Paolo Miki, Lorenzo Ruiz, Andrea Dung Lac, Andrea Kim Taegôn e tutti i loro compagni.
Come i «testimoni» di ieri, i cristiani d’oggi sono chiamati a proclamare, sempre e ovunque, niente altro che la potenza della croce del Signore.

Francesco Beardi




KENYA – Tra passato e futuro

Squarci di vita di un’importante tribù.
È vivo il desiderio di far convivere tradizione e modeità.
In questo contesto si innesta l’opera della chiesa, pastorale e di promozione umana.
Anche con l’aiuto di generosi… piemontesi.

D ire «Piemonte» significa evocare le montagne, richiamare alla mente il mormorio di mille ruscelli, sorgenti, fontane ancora ricche d’acqua fresca e cristallina, elemento indispensabile per la nascita di una vegetazione brillante e rigogliosa.
Dire «Africa» significa, invece, quasi sempre evocare immagini di deserto, aridità, sete. E non è un caso, allora, che la generosità di alcuni piemontesi abbia fatto sì che uno dei beni più preziosi per gli esseri viventi potesse giungere in un pezzo d’Africa povero e assetato.
I piemontesi in questione sono il cuneese fratel Mario Beardi, missionario della Consolata (che ha costruito 10 pozzi), e un benefattore che desidera restare anonimo e ha fornito all’intraprendente missionario i mezzi economici per realizzare il suo obiettivo.
UNA MISSIONE E TANTI POZZI
La terra africana di cui stiamo parlando è Chiga: una missione «giovane» (appena 10 anni di vita), che fa parte dell’archidiocesi di Kisumu, città sulle sponde del lago Vittoria, la terza del Kenya in popolazione, commercio e industria.
Chiga è una delle quattro parrocchie legate alla cattedrale di Santa Teresa e si estende su un’area lunga 22 km e larga 15, con una popolazione di circa 80 mila persone, distribuite su una superficie di 330 kmq. La missione comprende 26 villaggi, ciascuno dei quali ha la scuola elementare (spesso molto povera), una chiesetta di frasche, paglia, fango e un «centro di salute», dove un infermiere governativo arriva ogni tanto a distribuire medicinali.
Delle 26 scuole, 16 sono sponsorizzate dall’archidiocesi e offrono il loro servizio a circa 8 mila alunni, suddivisi negli otto anni dell’obbligo. Ma ogni scolaro deve pagare una retta; per cui soltanto il 70% di loro può permettersi di frequentare la scuola. Vi sono anche quattro scuole superiori, che danno la possibilità di completare gli studi e ottenere il diploma di licenza con cui accedere all’università.
Tutti i villaggi fanno capo alla parrocchia di Santa Maria, sede dei missionari. Qui, in questi ultimi tre anni, sono sorte importanti opere che toccano tutti i settori della vita sociale e che non avrebbero potuto vedere la luce se l’impegno di fratel Mario, nella costruzione di pozzi, non avesse permesso di far vivere oltre i limiti della pura sopravvivenza una terra difficile e singolare.
Singolare, perché la zona che circonda il lago Vittoria riceve acqua (e a volte anche in abbondanza); ma il terreno impermeabile non è in grado di accoglierla. Ecco quindi che, a mesi di grande siccità, si alternano periodi di vere e proprie inondazioni.
Vita, dunque, non facile quella dei luo, il popolo in mezzo al quale è sorta la missione di Chiga. Questa popolazione si è insediata da secoli sulle sponde orientali del lago Vittoria: vanta tradizioni di grande interesse, come la sacralità del matrimonio, il rispetto per l’anziano… valori che la nostra società modea, forse, si è affrettata a dimenticare (vedi inserto). Proprio qui sta il pericolo: che l’esasperata modeizzazione porti anche i luo a perdere la propria identità, adottando atteggiamenti e usi che non sono i loro.
Ma l’arcivescovo di Kisumu, Zacchaeus Okoth, è stato lungimirante: dopo aver esortato, nel 1992, i missionari della Consolata ad assumere la responsabilità della parrocchia, ha accolto con entusiasmo la loro proposta: nel 1995 ha sostituito il parroco, l’italiano Luigi Bruno, con un luo, Matthew Ouma, attualmente coadiuvato da un viceparroco, pure luo, John Wao Onyango.
Nessuno meglio di padre Matthew è in grado di coniugare gli aspetti positivi del mondo moderno con la preziosa tradizione del suo popolo. Ed è proprio questo che sta facendo, impegnandosi ad aiutare la sua gente a non dimenticare il significativo cerimoniale nella celebrazione dei matrimoni, cerimoniale che invece i luo (purtroppo attratti dall’aspetto omologato del matrimonio all’europea) tendono a trascurare.
Padre Matthew li guida con discrezione e intelligenza, cercando di evidenziare il lato negativo di un comportamento troppo lontano dalle loro tradizioni e troppo vicino al consumismo, capace di spazzare via decenni di consuetudini e valori.
Anche presso i luo il denaro e la concezione di una posizione sociale, che si conquista più con l’apparenza che con la sostanza, cominciano a mietere molte vittime: la prova più evidente la si riscontra in occasione del funerale, quando la famiglia del defunto arriva a indebitarsi pesantemente pur di offrire ai partecipanti un banchetto tanto indimenticabile quanto costosissimo.
I due sacerdoti sono costantemente impegnati su questo fronte, che ritengono di loro stretta competenza; mentre un gran numero di iniziative le lasciano invece ai vari comitati parrocchiali: liturgico, pastorale, pubblica istruzione, consiglio dei giovani, comunità di base…
I parrocchiani, giovani e vecchi, sono coinvolti e tutti sono fieri di appartenere a un gruppo nel quale, attraverso riunioni settimanali o quindicinali, organizzano le più svariate attività. Vi sono poi 76 piccole comunità di base che funzionano con tanto di presidente, consiglio e segretario: si radunano ogni settimana per pregare e preparare i sacramenti. Questi gruppi funzionano indipendentemente dalla presenza del parroco, che (al massimo) può essere invitato a esprimere la sua opinione.
Se i fedeli non fossero responsabilizzati e non si gestissero autonomamente, sarebbe troppo arduo il compito di padre Matthew. Questi già spende gran parte delle sue energie per cornordinare il tutto e visitare settimanalmente i centri disseminati sul vasto territorio parrocchiale.
FANTASIA DI OPERE
Sono proprio questi centri ad avere beneficiato della capacità tecnica di fratel Mario Beardi. Il missionario è riuscito, in ciascuno di essi, a scavare un pozzo e installare una pompa a mano; oppure, dove c’è energia elettrica, una pompa che spinge l’acqua in una cisterna da cui la gente può attingere.
A noi (abituati ad aprire il rubinetto d’acqua) può sembrare poca cosa; ma, per la gente di Chiga, si tratta di un bene preziosissimo: anche se non è sufficiente per tutti gli usi, soprattutto agricoli, l’acqua del pozzo almeno disseta e allontana le malattie.
L’acqua piovana non è mai potabile, poiché ristagna nelle crepe che si sono aperte durante il periodo di siccità e forma pericolose pozzanghere che richiamano zanzare, portatrici di malaria. I primi ad essee colpiti sono bambini e anziani, ma tutta la popolazione è a rischio per colera o dissenteria, malattie spesso mortali.
La costruzione dei pozzi è la dimostrazione di come sia indispensabile, prima di avviare un processo di evangelizzazione, offrire alla gente la possibilità di sopravvivere dignitosamente. Solo così la missione diventa un centro di promozione dello sviluppo, dove la popolazione, nonostante malattie, carestie o epidemie, cresce e trova nella comunità cristiana un punto di riferimento; non solo per ricevere assistenza spirituale, ma anche per essere soggetto di sviluppo umano e progresso sociale.
Il pozzo non è certamente l’unica «trovata». C’è anche l’«Istituto tecnico magistrale della Consolata» (Cttc), con candidati scelti tra gli studenti che terminano l’ottavo anno della scuola d’obbligo. Qui fratel Mario Beardi esplica tutte le sue capacità: oltre a dirigere la scuola, sovrintende ai vari corsi di falegnameria, meccanica, elettricità e sartoria, aperti a ragazzi e ragazze, tenuti unicamente da maestri locali. Inutile sottolineare la grande importanza del Cttc, che ha il delicato compito di permettere ai giovani di mantenere la loro identità, attraverso la possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro.
Non lontano dall’Istituto tecnico, sorge la «Piccola Casa», dove sono raccolti bambini poliomielitici. È un’opera caritativa che, sostenuta da benefattori italiani, si propone di seguire i bambini più gravi, abbandonati spesso dai genitori, vittime di tabù ed ignoranza dei parenti. Spesso questi bambini si trovano soli, in quanto le malattie e l’Aids li hanno privati dei genitori.
Essendo la percentuale degli orfani molto alta (15%), la parentela non sempre è in grado di assorbirli completamente. Ecco, allora, che per loro si apre la porta della «Casa degli orfani», dove hanno la possibilità di frequentare la scuola, cominciando dall’asilo nido. Questo è dedicato a Luca Delfino, un giovane cuneese, morto tragicamente all’età di 21 anni.
Ancora una volta un forte legame unisce il Piemonte all’Africa, grazie ad una mamma che, invece di chiudersi nel suo dolore, ha voluto offrire a tanti bimbi la possibilità di crescere, come era cresciuto il suo Luca. L’antica conoscenza tra mamma Lucia e fratel Mario è stata l’occasione per far nascere questa importante opera, punto di partenza dello sviluppo sociale di Chiga. L’asilo è guidato dalle suore della Beata Vergine e accoglie bambini di quattro anni, che in un biennio si preparano alla scuola dell’obbligo.
Di grande importanza sociale è pure la «Casa delle vedove», dove sono ospitate alcune donne. Queste, se non avessero un luogo in cui rifugiarsi, sarebbero costrette a sottostare al fratello del marito defunto in condizione di semischiavitù, private della possibilità di decidere autonomamente del loro futuro.
Recentemente è sorto, accanto alla bella e ampia chiesa, il Centro pastorale, ove si radunano catechisti e maestri cattolici. Questo è il «cuore apostolico» della missione: qui si svolgono incontri, seminari e conferenze; qui hanno sede i diversi gruppi caritativi, il catecumenato e l’assistenza agli orfani e alle vedove.
Vi è, infine, il «Centro sociale per la gioventù e lo sviluppo», nel quale i giovani organizzano feste, convegni e iniziative varie. Un’idea «invidiata» da altre parrocchie.

L a missione di Chiga ha compiuto passi da gigante. Con il contributo di generosi benefattori, si è avviata verso un futuro meno… grigio.
Ora rimane aperta una sfida: saprà il popolo luo fare tesoro di queste realizzazioni e valorizzarle anche in seguito? Saprà mantenere il senso di responsabilità e comunione anche quando i missionari, terminato il loro compito di «seminatori», se ne andranno?
È questo, per ogni missionario, il compito più difficile: evitare di fare perennemente da stampella, bensì educare all’autogestione responsabile. Solo così i soggetti, pur tra errori e difficoltà, impareranno a camminare con le proprie gambe.
I padri Matthew, John e fratel Mario continuano a seminare, mantenendo quel prezioso legame di fratellanza e solidarietà tra il popolo italiano e quello luo, ben sapendo che il futuro dell’Africa dovrà restare nelle mani degli africani. Lavorando, affinché questi imparino a riconoscere il bene con umiltà, riceverlo con dignità e restituirlo con altrettanta generosità.

Teresa de Martino




La politica del “pombe”


Il 14 ottobre 1999 scompariva
una delle figure più significative dell’Africa. I detrattori
gli rinfacciano insuccessi e contraddizioni.
Eppure Julius Nyerere passerà alla storia come statista esemplare per coerenza morale e incrollabile fede in un futuro migliore per tutti gli africani

«Non siamo qui per ingannare la nostra gente, ma per dichiarare al paese ciò in cui crediamo». Con queste parole, rivolte al parlamento tanzaniano alla vigilia dell’indipendenza (1961), Julius Nyerere, capo del governo di transizione, indicava lo spirito con cui bisognava scrivere la nuova Costituzione e poi governare.
Con tale spirito di servizio ha guidato il paese all’indipendenza senza spargimento di sangue, ha amalgamato 130 etnie in un’unica nazione, ha garantito 30 anni di stabilità politica e di pace. E questo a differenza di quasi tutti i paesi dell’Africa.
Insuccessi economici e contraddizioni politiche non ne sminuiscono il prestigio. Per rettitudine e coerenza morale la sua figura si eleva al di sopra di quasi tutti i leaders dei paesi africani usciti dal colonialismo.
LA PERSONA
Era nato nel 1922 a Butiama, sulle sponde orientali del lago Vittoria, nella minuscola etnia zanaki. «Figlio di un capo – riderà un giorno di sé – indossai per la prima volta un vestito a dodici anni, quando mi portarono a scuola».
Recuperò in fretta gli anni perduti; si diplomò all’università di Makerere (Uganda) e, primo tanzaniano a studiare in una università britannica, si laureò a Edimburgo.
Fu a lungo insegnante di scuola secondaria nella missione cattolica di Pugu, dove affinò la sua dote più caratteristica: l’arte di comunicare con la gente con chiarezza e convinzione. Per tutta la vita vorrà essere chiamato mwalimu (maestro), definendosi tale per scelta, politico per caso.
A spingerlo nell’impegno politico furono i valori acquisiti con l’esperienza personale, la visione delle condizioni della sua gente, la profonda fede religiosa, le letture eclettiche fatte durante gli studi universitari.
Lavoratore instancabile, semplice e senza esigenze, Nyerere godeva di incontrare la gente; parlatore convinto ed efficace, la elettrizzava per ore con una loquela ricca d’immagini appropriate, proverbi e battute.
Il suo costante sorriso esprimeva affabilità, disponibilità e rispetto verso ogni persona che incontrava. Durante i festeggiamenti del saba saba (7 luglio, anniversario della fondazione del Tanu -Tanganyika African National Union), svoltisi a Iringa nel 1976, lo vidi lasciare il corteo presidenziale per salutare due missionarie della Consolata, conosciute anni prima in una scuola governativa: si fermò così a lungo che anche Samora Machel, presidente del Mozambico da poco indipendente e ospite d’onore, lasciò il corteo per parlare anche lui con le suore.
Cattolico praticante, confessione frequente e comunione spesso quotidiana, Nyerere si è fatto stimare per il rispetto verso ogni credo religioso. Parlando della sua fede, affermava che la scelta era maturata dopo un’attenta ricerca sulle varie religioni, finché si convinse che la chiesa cattolica rispondeva meglio alle sue esigenze spirituali.
Padre di otto figli, il mwalimu non spese mai una parola per assicurare loro alcun privilegio.
Non si riteneva un profeta; eppure si attribuiva una missione da vivere con onestà e passione. La componente cattolica non prevalse mai nella funzione di presidente; ma la forte componente ascetica lo portò, forse, a illudersi di poter chiedere alla sua gente livelli evangelici di dedizione irraggiungibili per la massa.
IL PARTITO UNICO
Accusato di essere antidemocratico, Nyerere affermava che il partito unico era una scelta obbligata: culturalmente impreparato alla democrazia, il paese avrebbe rischiato l’isterismo politico di altri stati africani, diventando facile preda di demagoghi abili nel cavalcare i malumori tribali o religiosi.
Il «serrate le file» del mwalimu trovava nel partito unico i presupposti per la stabilità del governo e l’accelerazione dello sviluppo economico. «Il modello tanzaniano per migliorare la qualità della vita della gente – sottolineava J. Marensin – è anzitutto un progetto politico, teso a creare l’indipendenza e unità del paese, per passare alla soluzione dei problemi a mano a mano che si presentano».
La democrazia vissuta in Tanzania non soddisfa certo i canoni di quelle occidentali, specie in fatto di libertà di stampa e opinione. Il modello di socialismo africano ha imbrigliato la democrazia tanzaniana con morse molto strette, ma l’ha anche tenuta in piedi. L’unione con Zanzibar (1964) non passò al vaglio di alcuna consultazione popolare, tuttavia riuscì a fermare i disordini cruenti provocati dall’odio fra diverse etnie. L’apparato del partito ha inevitabilmente influenzato le consultazioni popolari, ma esse si sono sempre svolte in un clima sereno e festoso.
Una macchia della democrazia tanzaniana furono le leggi sulla «detenzione preventiva», varate dopo un tentato colpo di stato; ma «anche nel periodo di maggior rigore non hanno toccato più di qualche centinaio di persone» (Marensin). Candidato presidente per la terza legislatura, Nyerere accettò con riluttanza, dichiarando che a renderlo perplesso era proprio quella legge antidemocratica, che non poteva ancora permettersi di abrogare.
Nel 1985 rinunciò volontariamente a ricandidarsi alla presidenza e nel 1990 si dimise da capo del partito, per dare spazio a idee ed energie nuove. Un gesto esemplare per il continente africano, dove autoproclamatisi presidenti a vita continuano a mantenere il potere mediante elezioni più o meno democratiche.
UJAMAA: FAMIGLIA ESTESA
Imposta al paese negli anni ’70, l’ujamaa era la traduzione tanzaniana del concetto di «socialismo» nella sua forma più accettabile, codificato nella «Dichiarazione di Arusha» (1967), magna charta del socialismo africano professato da Nyerere e dal partito unico. Alla base di tale scelta ideologica vi erano motivi politici, economici e culturali.
Motivo politico. Primo paese dell’Africa orientale ad avventurarsi sulle sabbie mobili dell’indipendenza, il Tanzania si sentiva accerchiato dal colonialismo portoghese e britannico ancora operante nei paesi limitrofi. In Sudafrica e Rhodesia cresceva l’oppressione dell’apartheid, con la copertura e connivenza del mondo occidentale. Sperare in un appoggio disinteressato dell’occidente era più che improponibile.
Motivo economico. Al momento dell’indipendenza, commercio e industrie del paese erano monopolio di asiatici, poco più di 100 mila, europei e un’esigua e ininfluente frangia africana. Per i militanti del Tanu la scelta socialista sembrava l’unica via per rompere tale accerchiamento economico.
Motivo culturale. Oltre che dalle letture sul capitalismo moderato e socialismo a sfondo cristiano, tale motivazione nasceva dalla personalità stessa di Nyerere. «Gli erano naturali l’etica aristocratica e la scarsa stima del denaro, propria delle etnie guerriere e pastorali da cui proveniva» (Marensin). Per questo trovò nell’ideale socialista la carica profetica che lo spingeva a guidare il paese verso l’indipendenza, l’unità, il progresso e il sistema socio-politico più vicino alla cultura e coinvolgimento comunitario della tradizione africana.
«Il socialismo, come la democrazia, è un atteggiamento dell’animo – scriveva nel suo libro Freedom and Unity -. Nella società socialista il requisito essenziale, perché la gente abbia a cuore il benessere vicendevole, è l’atteggiamento della mente, non la rigida adesione a un modello politico definito. Il fondamento e l’obiettivo del socialismo è l’estensione della famiglia. Il vero socialista africano non guarda a una classe di uomini come fratelli e all’altra come naturali nemici; egli guarda piuttosto a tutti come suoi fratelli, membri di una famiglia estesa».
CAMMINO DIFFICILE
«Secondo la Dichiarazione di Arusha – afferma Nyerere in Freedom and Socialism – scopo di ogni attività sociale, economica, politica deve essere l’uomo, il cittadino e tutti i cittadini di questa nazione. Produrre ricchezza è cosa buona e dobbiamo sforzarci di accrescerla. Ma non sarà più buona, appena la ricchezza cesserà di essere a servizio dell’uomo».
Strumento privilegiato per attuare questi ideali fu l’istruzione: per vari anni le venne destinato il 12% del bilancio statale. Il Tanzania diventò uno dei paesi africani col più alto livello di alfabetizzazione. Ma quando le scuole furono nazionalizzate, cominciò il degrado di strutture e standard d’insegnamento.
La ricerca di equilibrio fra privato e comunitario fu un problema spesso contraddittorio, come dimostra la storia delle cornoperative private. Incoraggiate fin dalla nascita del Tanu (1954) come strumento di progresso e dichiarate da Nyerere parte integrante della vita nazionale, all’inizio del 1970 Derek Bryceson, ministro dell’agricoltura, le definì strutture di latifondismo e fonti d’ineguaglianza. Abolite nel 1976, furono risuscitate nel 1983, per essere definitivamente smantellate dal processo di nazionalizzazione insieme alle banche, compagnie assicurative e grandi aziende.
Per Nyerere la «cornoperativa» dell’ujamaa restava la pietra angolare della politica di autosufficienza, strumento privilegiato di progresso economico. Negli anni 1967-69, il governo fece uno sforzo impressionante per dotare i villaggi di macchinari agricoli modei, che diventarono presto inutile ferraglia, per mancanza di tecnici e manutenzione. E per assicurare un adeguato guadagno ai contadini, fu creato l’ammasso dei prodotti agricoli di consumo ed esportazione; iniziativa scaduta a strumento fiscale a vantaggio del governo e del partito.
L’ujamaa doveva realizzarsi mediante l’adesione volontaria, nell’intenzione del mwalimu, convinto che si possa obbligare la gente a vivere in uno stesso villaggio, ma non a lavorare assieme. A partire dal 1974, però, il processo di «villaggizzazione», già avviato in alcune regioni, fu esteso forzatamente a tutto il paese.
Tale operazione non mancò di produrre effetti positivi, rendendo accessibili a tutti i servizi primari: acqua, scuola e dispensari. Ma sul momento impose notevoli sacrifici alla popolazione, in maggioranza riluttante alle fattorie collettive. Sotto l’aspetto economico fu un fallimento. La produzione agricola diminuì sensibilmente: molti terreni fertili furono abbandonati, perché troppo lontani dai nuovi insediamenti e quelli vicini richiedevano tempi lunghi prima di diventare produttivi.
La stagnazione economica fu aggravata da persistenti siccità e dalla crisi petrolifera: Nyerere dovette dar ordine di vuotare le banche per comprare le derrate.
Le difficoltà economiche sperimentate dagli anni ’70 in poi, mettono in dubbio la validità della politica economica di Nyerere, ma non sembra ci fossero valide alternative in un paese come il Tanzania, ricco di fauna e bellezze naturali, ma terribilmente avaro di risorse che permettano una rapida crescita economica.
GUERRA CONTRO AMIN
Verso la fine del 1978 il Tanzania fu inaspettatamente invaso dai soldati ugandesi di Idi Amin. La risposta di Nyerere fu immediata. L’esercito tanzaniano, insieme agli esuli ugandesi, cacciarono gli invasori, passarono le frontiere e conquistarono la capitale, Kampala, per liberare il paese dal regime del sanguinario dittatore.
La guerra contro l’Uganda è l’episodio più sconcertante della vita del mwalimu: uomo di pace, fu il primo statista africano dell’era postcoloniale a invadere un paese africano e conquistae la capitale. Più sorprendente fu la reazione internazionale: nonostante l’universale condanna delle atrocità commesse da Amin, il Tanzania fu lasciato solo nella dispendiosa impresa per sloggiare il dittatore. Anzi, molti paesi africani presero subito le distanze da Nyerere, rimproverandolo di violare i principi dell’Organizzazione di unità africana, e le potenze occidentali lo isolarono, considerando la sua avven- tura senza infamia e senza lode.
Eppure Nyerere diede al mondo un’esemplare lezione di affermazione dei diritti umani, come aveva fatto negli anni precedenti, offrendo asilo ai movimenti di liberazione in lotta contro il colonialismo portoghese e schierandosi in prima linea con i paesi contrari ai regimi razzisti del Sudafrica e Rhodesia.
Più che l’immagine di Nyerere, fu il paese a pagare il prezzo della guerra ugandese: il Tanzania ne uscì economicamente dissanguato e dovette chiedere aiuti al Fondo monetario internazionale (Fmi). La nazione cominciò a dipendere dagli aiuti stranieri più di ogni altro paese africano.
Tale richiesta fu dibattuta con acrimonia nel paese, poiché minava l’indipendenza autarchica per cui Nyerere si era battuto. Le drastiche misure imposte dall’Fmi (svalutazione monetaria, liberalizzazione dei prezzi e apertura delle frontiere alle importazioni) avrebbero aggravato la situazione dei più poveri, contadini soprattutto, a vantaggio dei soliti faccendieri.
Con la liberalizzazione saltò anche il codice etico del partito, ratificato dalla Dichiarazione di Arusha, che impediva a ministri e dirigenti di partito di approfittare del potere per scopi privati. La corruzione, poco appariscente sotto la presidenza del mwalimu, diventò sempre più rampante a mano a mano che la politica economica si apriva al libero mercato.
TANZANIA OGGI
Il potere d’acquisto del salario minimo rimane inchiodato a 12 dollari, come 20 anni fa. Con un reddito pro capite inferiore a 120 dollari l’anno, il Tanzania è tra i paesi più poveri del mondo. Tuttavia non bisogna dimenticare che buona parte delle esportazioni sfugge alle statistiche ufficiali: nel 1986 il 40% era l’esportazione del caffè e, a suo tempo, l’80% dell’avorio; oggi sono oro, cuoio, pelli a evadere il controllo statale.
Il paese ha accumulato un debito estero di circa 8 miliardi di dollari: cifra imponente per un paese di 30 milioni di abitanti con salari minimi tanto bassi. Tra i progetti controversi, realizzati con tale indebitamento, c’è la nuova capitale, Dodoma, costruita al centro geografico del paese: operazione più di facciata che di reale sviluppo. Eppure i mille chilometri di asfalto e altrettanti di ferrovia verso lo Zambia, a suo tempo contrastati dai paesi occidentali, si sono dimostrati provvidenziali per l’indipendenza dello Zimbabwe e, ancora oggi, indispensabili per il progresso del paese.
Alcuni progetti industriali, purtroppo, non sono mai entrati in funzione; altri non superano il 30% del potenziale produttivo. Colpa della corruzione intea, certamente; ma più colpevoli quei funzionari occidentali che hanno intascato buona parte delle somme destinate allo sviluppo di una nazione così povera.
La liberalizzazione sta trasformando Dar Es Salaam in un paese di cuccagna per addetti alle ambasciate, tecnici stranieri e pochi «fortunati» locali; vi si trova di tutto: fuoristrada, televisori, elettrodomestici, alcornolici e articoli di lusso. Ma per la gente povera non restano neppure le briciole di tanto benessere.
EREDITÀ DEL MWALIMU
Ritirandosi dalla vita politica, Nyerere aveva dichiarato: «Nonostante il fallimento, rimarrò sempre socialista, perché il socialismo è la migliore politica per un paese povero come il Tanzania». I suoi successori hanno sposato capitalismo e libero mercato; ma i benefici non si vedono.
Nonostante tutto, l’esperienza dell’ujamaa ha consolidato il senso di unità e solidarietà del popolo tanzaniano e rimane l’humus naturale per sperare in un futuro migliore. È il senso «della famiglia estesa» a far sì che un nucleo familiare di otto persone, con un unico stipendio, in una capanna di fango alla periferia di Dar Es Salaam, accolga e curi un parente tisico venuto dall’interno del paese.
Lo stesso spirito comunitario tiene viva la tradizione del pombe ya kulima (birra indigena per la coltivazione) nei villaggi, dove tutti gli abitanti si aiutano a vicenda nel lavoro agricolo e la famiglia proprietaria dei campi prepara il pombe in abbondanza, da consumare fra tutti in un clima di festa.
La solidarietà comunitaria rende naturale la partecipazione di tutti alla gioia o al lutto del singolo. È altrettanto spontaneo, passando accanto al vicino, togliergli la zappa di mano e sostituirlo per un momento nel lavoro.
L’ujamaa è morta… Viva l’ujamaa!

Giulio Belotti




RUSSIA – Fabbrica di sordomuti

Chiusa agli stranieri e inaccessibile ai russi, la città di Severodvinsk è la Cheobyl del Mar Bianco. L’autore
di questo articolo, che per ovvie ragioni si firma con uno pseudonimo, è riuscito a visitarla e ha scoperto cose mostruose.

Sono le 8 del mattino; il termometro segna 25° sotto lo zero all’aeroporto di Arcangelo, 1.300 km a nord di Mosca e 100 dal Circolo Polare Artico. L’impatto col gelo polare viene attenuato dal sorriso dolce di Sacha, la interprete, che mi aspetta all’uscita del velodromo, reggendo un cartello col mio nome scritto in rosso. L’accompagna Anatolij. Entrambi mi guideranno a Severodvinsk, meta del viaggio.
Chiusa agli stranieri, la città è quasi inaccessibile anche ai russi: fino a pochi anni fa avevano bisogno di un passaporto speciale per accedervi. L’isolamento geografico e politico la rendono misteriosa all’interno del paese e pressoché sconosciuta all’estero. Il permesso per accedere a questa «terra incognita» viene rilasciato occasionalmente agli stranieri dai servizi segreti (Fsb), dopo autentiche acrobazie diplomatiche e raccomandazioni di politici influenti.
CITTÀ GULAG
Costruita per ordine di Stalin nel 1936 a 35 km a ovest di Arcangelo, sulle rive del Mar Bianco, Severodvinsk è battuta dai venti polari 12 mesi all’anno, con temperature invernali di 30-40° sotto lo zero. «In realtà – rassicura Anatolij – a Severodvinsk fa freddo solo due mesi all’anno; gli altri 10 sono freddissimi!».
Negli anni ’30 furono scaricati nella zona circa 60 mila carcerati per costruire la città; nasceva così un campo di lavori forzati (gulag), dove vennero deportate le vittime del terrore staliniano, per essere fucilate o semplicemente lasciate morire di fatica o di freddo. Tra il 1936 e 1953 vi morirono 25 mila persone.
Oggi Severodvinsk conta 210 mila abitanti ed è una città strategica per il sistema di difesa russo: il gulag è sostituito dai cantieri navali Sevmash e Zvezdochka. Dal 1992 la Sevmash è l’unico cantiere della Russia in cui si costruiscono sottomarini nucleari (ufficialmente assembla macchine spazzaneve).
Dai cantieri di Severodvinsk sono usciti i sottomarini classe typhoon, nella denominazione americana, o akula (squalo), secondo quella russa: la più grande e devastante macchina da guerra creata dall’uomo, lungo 175 metri ed equipaggiato di 20 missili intercontinentali con testate nucleari multiple.
DAL NORD UN FANTASMA
Tre anni fa un uomo denutrito e assiderato dal freddo bussò alla porta di una Ong moscovita per chiedere aiuto. Raccontò la sua storia. Arrivava da Severodvinsk, dopo vari giorni di viaggio a piedi e autostop. Aveva lavorato nella fabbrica Sevmash fin dai tempi della guerra fredda, quando lo stipendio governativo per chi lavorava nell’industria bellica in zone disagiate era quattro volte superiore alla media nazionale. Da quando il governo non aveva più soldi per pagare gli operai, tutta Severodvinsk era senza lavoro e senza cibo.
Ma non era questo il motivo del viaggio di quel denutrito. Suo figlio, come molti bambini della città, accusava strane sindromi d’immunodeficienza che portano alla sordità. Il medico ne attribuiva la causa a iniezioni di antibiotici scaduti e non poteva farci nulla.
Sfidando la rete dei servizi segreti e della polizia che controllano la città, l’uomo aveva affrontato un viaggio così rischioso per far conoscere al mondo il problema che aveva colpito suo figlio e trovare i soldi per curare i bambini della città.
Quell’uomo era Anatolij. Ora è con me nell’auto con la quale andiamo a Severodvinsk, perché io capisca (ma non troppo) cosa vi sta succedendo.
NEL VENTRE DELLA BALENA
Alle mie domande Anatolij è evasivo. Continua a insistere che la versione ufficiale è giusta: nessuna relazione tra malattia del figlio e radioattività; questa è sotto controllo. Dice qualcosa che Sacha non traduce e finisce con Fsb (polizia segreta).
Pochi secondi dopo, l’auto si ferma davanti a una sbarra. Dalle folate di blizzard si materializzano due figure in divisa che appoggiano i colbacchi contro i finestrini appannati. Sacha si tormenta il labbro con gli incisivi. Dobbiamo scendere. Uno degli agenti mi porta in disparte nella neve ed esamina con lentezza esasperante il lasciapassare. «Viene da Mosca» spiego nel mio russo stentato. «Moskva daliekò» (Mosca è lontana) risponde l’agente, per sottolineare che oramai siamo nel ventre della balena della macchina militare.
Intirizziti dal freddo e dagli sguardi ancora più gelidi dei poliziotti, risaliamo sulla macchina e raggiungiamo la città. Dalla tundra s’innalza una ciminiera con un debole pennacchio. Anatolij spiega che è la centrale termica che riscalda l’intera città e fornisce acqua calda e gas per cucinare. «Anzi, riscaldava – continua la guida -. All’inizio dell’inverno Mosca ha stanziato, come al solito, i soldi per l’acquisto del gas; ma quest’anno il sindaco è sparito col malloppo, lasciandoci tutti al freddo. Tenuta a regime minimo, la centrale fornisce saltuariamente acqua calda, con gravi problemi per anziani, neonati e ospedali. Per cucinare la gente usa i ferri da stiro».
Mosca si è dimenticata di loro. Non esiste alcun piano di aiuto. Anzi, con la sua pesante burocrazia, il governo centrale ostacola l’invio di aiuti esteri. Recentemente un’organizzazione umanitaria tedesca aveva inviato una costosa e sofisticata apparecchiatura per sordomuti; arrivata alla frontiera, Anatolij si sentì comunicare che la tassa di sdoganamento era superiore al costo del macchinario. Non avendo i soldi necessari per il riscatto, l’apparecchiatura era rimasta nei magazzini della polizia di frontiera.
Anatolij racconta tutto con distacco, come se riguardasse qualcun altro. Il sorriso del suo viso scao, da prigioniero di gulag, diventa radioso quando entriamo in casa, accolti dalla moglie, figli e gatto Simion.
L’appartamento minuscolo è al quarto piano di un alveare prefabbricato, senza ascensore. Un paio di stufette elettriche non riesce a sciogliere il ghiaccio dai vetri. Per cena ci vengono serviti mirtilli, lamponi e funghi, raccolti nella bella stagione e conservati sotto vetro.
Quel poco che possiede questa fiera gente del nord lo divide con l’ospite, obbligandolo a mangiare a sazietà. Sacha commenta con tristezza che questa cena costringerà la famiglia di Anatolij a stringere la cinghia per qualche giorno.
SILENZIO! L’FSB TI ASCOLTA!
Nella luce rarefatta dell’inverno artico, le gru dei cantieri navali e l’interminabile profilo dei capannoni della Sevmash si stagliano sulla baia di Severodvinsk. Non possiamo sostare nei paraggi o fotografare: l’Fsb è sempre presente, anche se non si vede. In Russia i servizi segreti continuano a incutere paura, nonostante la fine della guerra fredda.
Anatolij non è da meno: teme per la sua famiglia e rifiuta di dare spiegazioni convincenti. Sacha, giovane e impulsiva, non tollera tale reticenza e sbotta: «I miei genitori sono entrambi morti di cancro a 40 anni; da sola ho dovuto crescere la mia sorellina. Ho 24 anni. Non vedo l’ora di andarmene da questo posto maledetto. Non è un luogo per vivere, ma solo per morire. Qui ho quattro probabilità in più di ammalarmi di cancro che a Mosca. La radioattività strettamente sotto controllo è una fandonia. Aria, acqua, funghi e mirtilli che hai mangiato a casa di Anatolij sono contaminati. Severodvinsk non è un cantiere, ma un’immensa pattumiera nucleare e noi ci viviamo come topi. Voglio mostrarti qualcosa, a mio rischio e pericolo. Fino a quando queste cose rimarranno nascoste, qui non cambierà mai niente».
La reticenza degli abitanti di Severodvinsk non è cosa da sottovalutare. Tra il ’94 e ’95 Alexandr Nikitin, ex capitano della flotta russa, poi impiegato di un’associazione ecologista norvegese, contribuì alla stesura di un rapporto sulla drammatica situazione della costa del nord. Quando le notizie furono divulgate, Nikitin fu imprigionato, processato e condannato a morte per alto tradimento, anche se l’esecuzione rimane sospesa.
Secondo l’articolo 10 della legge sull’informazione, infatti, «è proibita la pubblicazione di documenti relativi all’ambiente o situazioni straordinarie che possano compromettere la sicurezza delle aree industriali russe».
UNA CHERNOBYL
«AL RALLENTATORE»

Secondo il rapporto menzionato, Severodvinsk rischia di diventare una delle aree più contaminate della Russia, una Cheobyl «al rallentatore». Mentre nei cantieri Sevmash si costruiscono nuovi sottomarini, la Zvezdochka procede allo smantellamento di quelli vecchi e allo stoccaggio del combustibile nucleare esausto della marina militare. Tre grandi silos all’interno dei cantieri e uno fuori città contengono 12.530 metri cubi di materiale radioattivo solido per un totale di 4.620 tonnellate.
Dall’inizio degli anni ’80 è in funzione un inceneritore, capace di bruciare 40 chili di scorie all’ora. Ma fino al 1991 buona parte delle scorie erano scaricate negli antistanti mari di Kara e Barents (quei «mari puliti» dove i pescherecci della pubblicità prendono i merluzzi più appetitosi); altre erano gettate nella discarica municipale, in barba ai regolamenti sulla sicurezza. È vero, che quando esse venivano scoperte, erano riportate nei contenitori Zvezdochka, ma nessuno saprà mai quanta immondizia nucleare sia sepolta nei dintorni della città. Tale immondizia aumenta ogni anno di 520 metri cubi e i silos sono oramai al collasso della loro capacità ricettiva.
A 12 km dalla città, sulle alture di Mirovna, un bunker sotterraneo (il misterioso «oggetto 379») racchiude 1.840 metri cubi di scorie radioattive. L’acqua piovana che entra e esce attraverso le sue crepe, secondo una verifica fatta nel 1991, contiene da 100 a 10.000 Bq al litro di cesio e 100 Bq di cobalto (Bq = becquerel, unità di misura dell’attività nucleare; corrisponde a una disintegrazione al secondo: ndr).
Durante le riparazioni delle navi e ricarica dei reattori, i cantieri Zvezdochka rilasciano 10.000 metri cubi di gas radioattivo. Una quantità incalcolabile di radiazioni viene riversata sulla costa e l’area circostante da un silos per la raccolta di scorie a elevata attività, aperto in più punti, e dagli innumerevoli fusti sforacchiati sparsi nei capannoni, pronti per essere inabissati in fondo al mare.
Infine cinque contenitori galleggianti, tra cui la vecchia nave cisterna Ossezia, ormai in disarmo, contengono 563 metri cubi di liquidi venefici e disperdono una radioattività di 83,8 giga Bq.
Sacha non esagera.
LA CASA DEL BAMBINO
Sacha affretta il passo e punta come un siluro la porta di una casa bassa, con vetri rotti, addobbati con figurine di cartone. Sullo stipite una scritta sbiadita e contraddittoria: «Dietzky Dom» (casa del bambino).
«Noi la chiamiamo casa dei mostri. Non ho mai avuto il coraggio di entrarci prima d’ora. E capirai perché» spiega Sacha, mentre m’introduce in un ufficio, dove ci accoglie una simpatica signora corpulenta, che si presenta come la direttrice.
Fa freddo. Non c’è riscaldamento. «Questo è un ospedale speciale per bambini – comincia la direttrice -. Dipendiamo dal governo. Ed è già un problema. Sono nove mesi che non riceviamo lo stipendio; le medicine sono quasi finite; non abbiamo più cibo per i bimbi. Però c’è molta solidarietà. Il personale continua a lavorare, perché ama sinceramente questi poverini. Venga! Potrà vedere e fotografare quanto vuole».
Mi viene aperta una porta a vetri smerigliati alla fine di un lungo corridoio buio. La bianca luce artificiale mi abbaglia per un attimo, come l’alba di un nuovo giorno, finché scorgo nei lettini un centinaio di creature che si agitano informi, urlando suoni terribili. Non sembrano bambini. La maledizione nucleare ha tolto loro quegli attributi che li contraddistinguono come figli di una natura buona, che dona mani per giocare, occhi per vedere i colori, gambe per correre a scuola.
Sacha piange in silenzio, con le braccia strette alla vita, mentre la direttrice spiega che sono tutti figli di genitori sani, operai e impiegati dei cantieri Sevmash e Zvezdochka.
Una tragedia per gli abitanti di Severodvinsk. Alcuni bambini nascono deformi; molti diventano presto sordi o si ammalano di cancro; altri rimangono orfani, perché i genitori, nella disperazione di non riuscire a sfamare i propri figli, si suicidano.

Il permesso dell’Fsb è scaduto da diverse ore. All’aeroporto, Sacha e Anatolij mi salutano appoggiando la testa contro la mia. È l’usanza dei nenets, le etnie nomadi di origine mongola, che abitano nella parte orientale della regione e vivono da secoli in armonia con la natura, prima che arrivassero la guerra fredda e i sottomarini nucleari.

E. Knight