Ascoltare il grido del povero – Speciale BRASILE

Il Concilio ecumenico
Vaticano II ha dato il «là» ad un coro maestoso,
a dispetto di qualche «stecca».
È partendo da questa immagine che accenniamo alla lunga e difficile «caminhada» della
chiesa brasiliana.
La voce più evangelica? Quella dei semplici.

«È questa… un’età in cui la coscienza dell’umanità interroga e scruta con ansiose e drammatiche domande il perché della povertà e il destino dei poveri: dei singoli poveri e di interi popoli poveri, che prendono consapevolezza nuova dei loro diritti… Un’età in cui la povertà di moltissimi (due terzi dell’umanità) è offesa dal confronto con la smisurata ricchezza di pochi…». Queste sono parole del cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, durante la prima sessione del Concilio ecumenico Vaticano II. Correva l’anno 1962.
Diversamente da quanto si può pensare, non è un teologo del Sud del mondo a pronunciare quelle espressioni, ma un significativo rappresentante della chiesa del Nord.
E proprio da Roma, centro della cattolicità, iniziamo il percorso della storia contemporanea della chiesa in Brasile. Strano inizio per una riflessione teologica che si farà conoscere per la sua originalità e che, con la Santa Sede, avrà anche seri motivi di incomprensione, se non di aperto scontro.

l’impatto
con i problemi sociali

Il Concilio ecumenico Vaticano II è nuovo nella sostanza e nella forma. Rompe una tradizione secondo la quale, almeno dal secolo XIII, i concili sono la sede privilegiata per affrontare i problemi della decadenza e riforma della chiesa.
Fin dal messaggio di apertura, papa Giovanni XXIII esplicita gli obiettivi speciali del Concilio: apertura al mondo moderno, unione dei cristiani e attenzione ai poveri. È veramente un evento ecumenico, universale, e guadagna nuovi attori: attori, in particolare, nell’America Latina.
Il Vaticano II vuole ridiscutere la risposta ideologica e pratica che la chiesa ha dato alla modeità. Per far questo ha bisogno del contributo di tutti: delle chiese del primo mondo sviluppato, di quelle del secondo mondo (che, all’epoca, vivono l’esperienza del «silenzio imposto»), ma anche di quelle del terzo mondo, che portano al tavolo della discussione i problemi del sottosviluppo. Le questioni sociali approdano a Roma, volenti o meno, grazie ai vescovi del Sud.
L’industrializzazione e l’urbanizzazione hanno già preso piede nell’emisfero nord, mentre in quello sud il cambiamento avverrà più tardi, imposto da regimi populisti e autoritari. È il caso dell’America Latina.
Però anche il contesto socio-ecclesiale latino-americano (che precede il Concilio) è diverso da quello occidentale: mentre, ad esempio, in Europa il cambiamento sociale è avvenuto in modo autonomo, in America Latina si ha una convergenza significativa tra mutamento sociale e rinnovamento ecclesiale.
L’America Latina è nella necessità di cambiare. La «pressione storica» obbliga i vescovi ad occuparsi di povertà e fame, che nella tradizione non sono temi dell’«agenda teologica».
Qui incomincia e prende forza la «novità brasiliana». Una novità che non è frutto di qualche teologo illuminato, ma è un prodotto specifico della realtà locale. Se, infatti, la chiesa europea negli anni ’60 è questionata dal problema «fede-scienza» ed entra in un processo di secolarizzazione, la chiesa brasiliana si confronta con il rapporto «fede-rivoluzione». E l’obiettivo è la liberazione.
In Europa la chiesa è sfidata teologicamente dall’ateismo (prodotto tipico della società modea) e dalla proclamazione della «morte di Dio». In Brasile (e, più in generale, in America Latina) la sfida teologica è rappresentata dal sottosviluppo, causa prima della «morte dell’uomo».

Pensare, volere e agire
cattolicamente

La chiesa brasiliana si interroga sulla «morte dell’uomo». Così facendo si rinnova.
Negli anni ’50 il rinnovamento si attua attraverso il coinvolgimento dei laici. L’Azione cattolica, fondata da Pio XI nel 1922 con l’obiettivo di preparare collaboratori laici della gerarchia all’evangelizzazione del mondo, arriva in Brasile già nel 1935; ma è solo nella decade ’50 che si modifica in Azione cattolica «specializzata». Si costituiscono «rami» giovanili e, per quanto riguarda gli adulti, c’è l’Azione cattolica operaia. Ai lavoratori e agli studenti, riuniti nell’Azione cattolica, la situazione sociale, politica ed ecclesiale del Brasile appare sempre più chiara.
All’inizio c’è l’appello dei vescovi, più preoccupati della loro istituzione che della partecipazione laicale; di fronte al «disordine» della devozione popolare, rispondono con la «romanizzazione» e con un «nuovo ordine» conforme alle nuove esigenze.
La parrocchia, convocando i laici obbedienti al parroco, si propone come il centro propulsore del nuovo ordine. «Dobbiamo essere presenti nelle realtà palpitanti che il mondo suscita. Presenti per realizzare integralmente il nuovo ordine, che è lo stesso ordine perenne della cristianità, riassunto nel programma ideale di Pio XII: pensare, volere, sentire, agire cattolicamente». È quanto si legge nella «Rivista ecclesiastica brasiliana» del 1941.
Ma, alla fine degli anni ’50, i laici nei vari rami di Azione cattolica non si sentono più rappresentati da questa visione e vogliono cambiare il paese reale che gli sta davanti. Anch’essi, insieme ad alcuni teologi e pastori più sensibili, obbligano in qualche maniera l’istituzione ecclesiale a cambiare: dall’«opzione per l’ordine» (nostalgia di un regime di cristianità che non c’è più) all’ «opzione per il progresso», che la modeità sta portando anche in Brasile.
A partire dagli anni ’60, il problema «sviluppo» diventa il tema principale nelle discussioni pastorali. Tema che i latino-americani – come abbiamo accennato – porteranno sul tavolo del Concilio.

In nome del progresso

La nozione di «progresso» appare già nel 1956 nella Dichiarazione dei vescovi del nordest. D’ora in avanti sarà la categoria principale, usata dall’istituzione ecclesiale, per leggere i problemi sociali.
Alla luce anche di importanti encicliche – Mater et magistra (1961), Pacem in terris (1963) e Populorum progressio (1967) -, la chiesa brasiliana, proprio per le caratteristiche sociali in cui vive, rompe i legami con la tradizione rappresentata dai fazendeiros. Finalmente, anche nelle zone rurali più intee, la parrocchia acquista una fisionomia autonoma, indipendente dai «padrini». Questi, però, non si sentono affatto rappresentati dalla «nuova morale» del progresso e dell’industrializzazione che si va espandendo.
L’opzione per il progresso è, nelle intenzioni dell’istituzione ecclesiastica, l’unica capace di spezzare le vecchie relazioni di dipendenza, soprattutto nel mondo rurale. Nello spirito conciliare (con buona pace della oligarchia locale), la chiesa brasiliana intende aderire al mondo moderno che parla di uguaglianza e diritti civili. Il progresso economico appare il treno su cui salire per costruire una società di uguali.
Il progresso non è scelto per motivi economici, bensì per la portata morale che sottornintende. In tale senso, i vescovi (con in testa Helder Camara, grande profeta della chiesa brasiliana negli anni a venire) inizialmente appoggiano il golpe militare del 1964.
I militari sono venuti – parole del segretario della Conferenza episcopale – per «superare l’ostacolo del sottosviluppo e mantenere la pace sociale». L’equivoco sta nel pensare che il mondo moderno, inteso dal regime, sia lo stesso che voglia l’uguaglianza e le pari opportunità. La chiesa, che si è liberata dal liberalismo oligarchico, si allea con lo stato autoritario fino ai primi anni ’70, quando l’alleanza diventa insostenibile.
Intanto la crociata contro il sottosviluppo si fa sempre più accesa. La chiesa vede un pullulare significativo di iniziative, prese dalle singole comunità cristiane, per combattere l’analfabetismo, ma anche per promuovere la sindacalizzazione dei lavoratori. Si crea l’Azione cattolica rurale, sorge il Movimento di educazione di base, aumentano in modo impressionante le radio locali, impegnate nella coscientizzazione di base. Queste ed altre iniziative si avvalgono del patrocinio della chiesa, quando non ne sono un’emanazione.
Insomma il lavoro pastorale deve portare alla «terra promessa» del progresso, perché là finalmente ci sono diritti uguali per tutti. Solo quando il progresso mostrerà la sua faccia elitista e autoritaria, le comunità ecclesiali di periferia prenderanno il coraggio di denunciae la falsità.

La chiesa all’opposizione

Siamo negli anni ’70. Comincia una pagina di storia esaltante per la chiesa brasiliana, che si «converte».
Mentre si assiste al rafforzamento della dittatura militare (visibile anche nella prigionia di qualche vescovo, la tortura di alcuni sacerdoti e molti agenti di pastorale), la chiesa non può più tacere di fronte alle ingiustizie perpetrate dal governo. Se questo non frena lo sviluppo, non si può accettare – scrivono i vescovi del Maranhão nel 1973 – «come vero sviluppo ciò che non rispetta la persona». La concentrazione di terre in poche mani, favorita dalla politica agraria degli anni ’70, costituisce la ragione principale della critica che la chiesa muove al governo.
Sono le comunità cristiane dell’Amazzonia che prendono la parola di fronte ad una realtà sempre più inaccettabile.
Nel 1971 Pedro Casaldaliga, da poco vescovo di São Felix de Araguaia (Mato Grosso), in «Una chiesa in Amazzonia in conflitto con il latifondo e la marginalizzazione sociale», scrive: «Quello che abbiamo visto ci ha reso evidente l’iniquità del latifondo capitalista come prestruttura sociale radicalmente ingiusta e ci ha confermati nella chiara scelta di ripudiarlo». Nell’Acre, nel 1973 la chiesa elabora «Il catechismo della terra» nel quale, basandosi anche sulla legislazione vigente, si foiscono istruzioni per la difesa dei contadini e mezzadri.
L’attacco contro l’ingiustizia non è solo la parola isolata di qualche vescovo di periferia, ma diventa il problema dell’intera Conferenza episcopale. Nel 1976, in «Comunicazione pastorale al popolo di Dio», denuncia che «la cattiva distribuzione della terra in Brasile risale al tempo coloniale. Ma il problema si è accentuato negli ultimi anni come risultato degli incentivi fiscali alle grandi imprese agropecuarie».
È in questo modo che l’opzione evangelica per i poveri, caratteristica dell’azione pastorale della chiesa brasiliana nel post-concilio, diventa scelta politica: la chiesa rompe con lo stato autoritario. Al modello economico introdotto dai militari mancano, secondo i vescovi, i diritti riconosciuti a tutti, in particolare ai poveri. Allora la comunità cristiana fa sua la missione di difenderli e di lottare per la giustizia.
Nel 1980 i vescovi, riuniti in assemblea ordinaria, affermano: «Assumiamo l’impegno di denunciare le situazioni apertamente ingiuste e violente… riaffermiamo l’appoggio a iniziative giuste e alle organizzazioni dei lavoratori… sosteniamo gli sforzi del contadino per un’autentica riforma agraria».
Minacciata dalla repressione militare che investe sempre di più gente di chiesa, l’istituzione ecclesiastica cerca legittimazione non più appoggiandosi allo stato, autoritario e antidemocratico, ma nei poveri, negli esclusi da un progresso che arriva solo per una piccola casta.

Un pullulare
di esperienze

Il cambiamento di «luogo sociale» provoca anche un mutamento nell’organizzazione ecclesiale. Si apre, così, un’altra stagione feconda, non priva di ambiguità e limiti, per la storia della chiesa in Brasile. Secondo i teologi, è una rinascita, un modo nuovo di essere chiesa.
Sorgono le Comunità ecclesiali di base: recano una ventata di freschezza non solo alla chiesa brasiliana, ma anche a quella universale.
Insieme ad esse, si strutturano altre iniziative note come «pastorali sociali»: la Commissione pastorale della terra (Cpt) per la riforma agraria; il Consiglio indigenista missionario (Cimi) in risposta all’annoso problema indigeno; il Movimento nero (Mo) per i discendenti degli schiavi. Si organizza la pastorale operaia, quella della gioventù e dell’ambiente popolare; prende corpo l’impegno per i pescatori, la donna emarginata, ecc.
Si tratta di organismi non confinati nelle strutture ecclesiali, ma, per il lavoro che si prefiggono e il contesto sociale in cui operano, destinati (alcuni più di altri) a recitare un ruolo rilevante nella storia recente del Brasile.
La conquista della democrazia, raggiunta formalmente nel 1986, è avvenuta anche grazie a questi organismi ecclesiali.

tre esperienze
significative

Fra le numerose esperienze, che caratterizzano la chiesa brasiliana del post-Concilio, ne presentiamo tre: il Centro studi biblici, le Comunità ecclesiali di base e la Teologia della liberazione.

Il Centro studi biblici (Cebi)
Il movimento biblico in Brasile (che fa da riferimento anche per la ricerca biblica latino-americana) si propone un nuovo modo di leggere la bibbia.
Dato il particolare contesto socio-politico che caratterizza la società brasiliana nel 1960-70, la parola di Dio viene letta secondo tre angoli: bibbia, realtà, comunità. In tale triangolo l’obiettivo non è interpretare la bibbia, ma, con la bibbia, interpretare la vita.
Questa novità metodologica reca in sé un modo diverso di usare la scienza esegetica. C’è la preoccupazione di cogliere il contesto del testo biblico: prima ancora di studiarlo, si cerca di conoscere i problemi della società in cui è nato quel testo. In tale modo appaiono con facilità le analogie con l’attualità. La bibbia feconda la vita dei suoi lettori e si evita la tentazione del fondamentalismo.
È così che, alla fine degli anni ’70, nasce il Cebi come centro ecumenico: riunisce cattolici e protestanti. Inizia le proprie attività con tre tipi di corsi biblici: di formazione (4 settimane a livello nazionale); di attualizzazione (2 settimane a livello regionale); di base (3-4 giorni a livello locale).
Il Cebi diventa un patrimonio importante dell’intera comunità cristiana, e non solo brasiliana. Lo prova il fatto che, pure in Italia, alcuni gruppi di lettura popolare della bibbia vi fanno riferimento.
Negli anni ’90 la lettura popolare della parola di Dio si rinnova, per rispondere alla sollecitazione di un approfondimento non tanto biblico, quanto delle fonti e della storia in cui vengono a trovarsi oggi i lettori della bibbia. Bisogna – dicono i teologi latino-americani – ritornare a «bere l’acqua del proprio pozzo».
È la riscoperta della dimensione mistica della «parola». Con questo, anche la dimensione ecumenica si fa più matura: leggere la bibbia a servizio della vita aiuta a relativizzare le differenze confessionali e riporta al centro il dialogo ecumenico. Il servizio alla vita (non all’istituzione) esige la conversione di tutti e crea un’unità profonda, senza per questo eliminare le diversità.

Le Comunità ecclesiali di base (Cebs)
Nascono nello spirito conciliare, allorché la Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb), ancora nel 1966, ne appoggia la formazione e strutturazione come importante proposta pastorale. A partire dal 1974, i vescovi le indicano come una delle priorità. Le stesse Conferenze episcopali latino-americane, a Medellin (1968) e specialmente a Puebla (1979), ne parlano in termini di assunzione istituzionale.
La chiesa cattolica conferisce alle Comunità di base un riconoscimento ufficiale quando, specie nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975), ne parla come di «una speranza per la chiesa universale».
Dal 1975 gli incontri interecclesiali delle Cebs, in Brasile, sono – al dire di alcuni teologi – dei concili di base, al punto che la stessa Conferenza episcopale afferma: «le Cebs non sono un movimento, ma una nuova forma di essere chiesa».
Oggi le Comunità ecclesiali di base non sembrano vivere più con la vivacità degli inizi, quando la loro dimensione religiosa e politica era così evidente da essere temuta e citata persino dai rapporti di geopolitica statunitensi. Tuttavia restano un’eredità ecclesiologica da annoverare tra i contributi più originali della chiesa brasiliana contemporanea.

La Teologia della liberazione (Tdl)
È doveroso ricordare la riflessione teologica che ha permesso e matura le esperienze citate. Ci riferiamo alla Teologia della liberazione. È un fenomeno che va al di là della chiesa brasiliana, ma che in essa trova una delle protagoniste della sua ideazione e realizzazione.
Anche la Teologia della liberazione non nasce per caso, ma è frutto di un processo storico. Si possono distinguere tre fasi: la preparazione (1962-68), la formulazione (1968-’75), la sistematizzazione (dal 1976).
La Tdl nasce da «un’indignazione etica di fronte alla povertà e all’emarginazione delle masse»: così il teologo Leonardo Boff. Però fin dall’inizio, essa non si pensa come la teologia politica europea, bensì come un nuovo modo di fare teologia. Il suo problema non è un «oggetto specifico» (fosse anche la povertà), ma un «orizzonte» significativo per il pensiero teologico. Da una teologia, quale funzione critica dell’azione pastorale, si vuole passare ad una teologia quale riflessione critica della realtà sociale.
Il concetto di liberazione serve, meglio di altri, ad indicare il fine del pensare e dell’agire ecclesiale. Vegliando sulla teologia per non farla divenire una semplice branchia delle scienze sociali, la Tdl rinnova la riflessione cristologica ed ecclesiologica.
Presentando la figura di Gesù, soprattutto come liberatore, la cristologia evidenzia il primato dell’essere antropologico, utopico, critico e sociale… Spostando l’interpretazione della chiesa, non più ad intra ma ad extra, l’ecclesiologia che ne deriva si preoccupa dello sviluppo, della giustizia, ecc. Un’ecclesiologia che si confronta con la propria efficacia storica, o meno, e che misura i propri risultati in rapporto al cambiamento della società.
Il che è anche discutibile.

E c’è dell’altro…

La chiesa brasiliana del dopo-Vaticano II è un dono alla chiesa universale; un dono reso più ricco dagli incontri dell’episcopato latino-americano a Medellin (1968), Puebla (1979) e Santo Domingo (1992).
Ma non è tutto. Se siamo disposti a guardare extra muros ecclesiali, incontreremo altre novità.
C’è un complesso mondo religioso (sciamanismo amazzonico, teologia e ritualità afro, religiosità popolare), che ha ancora molto da dire e offrire alla vita religiosa di tutti. Si tratta di una ricchezza che, spesso, non appare nei documenti ufficiali; eppure è parte significativa della vita spirituale e materiale di tanti brasiliani.
Un campo di ricerca ancora aperto è quello che investe la religiosità popolare: qui si balbetta appena qualche ipotesi. Non si può fare un resoconto della vita cristiana e, più in generale, religiosa del Brasile senza, almeno, ricordare il patrimonio dell’esperienza popolare.
Se esiste una teologia erudita, razionale ed ufficiale, c’è pure un pensiero teologico popolare con un’altra razionalità. Ci riferiamo al complesso mondo religioso dell’uomo e della donna brasiliani. Vi si incontra un pensiero sincretico, che non ubbidisce al «principio di identità» (proprio del filosofare occidentale), ma al «principio di partecipazione». Non esclude il «tuo», perché diverso dal «mio», ma lo incorpora, proprio perché differente.
Questa è una logica non ancora del tutto esplicitata dagli studi accademici: la logica della vita, dell’emotività, del simbolo, della simultaneità; si contrappone alla logica della ragione, della forma, della linearità. La stessa Teologia della liberazione, almeno nella sua versione ufficiale, si muove su una logica distante da quella popolare, pur volendo e avendo in mente il popolo.

Lo Spirito soffia dove vuole: anche là dove le illuminazioni teologiche non arrivano, l’organizzazione ecclesiastica è precaria e le conferenze non si fanno.
Alla comunità universale dei credenti, quella brasiliana offre qualcosa di autenticamente evangelico. Se ascoltata (ma non inquadrata), controllata e anche illuminata, la fede dei semplici è un grande contributo per costruire un’alternativa. O soltanto per continuare il cammino verso il Regno.

Marco dal Corso




Sul fronte della liberazione

Alcuni vescovi sono noti anche al pubblico italiano, come Helder Camara, arcivescovo di Recife e «profeta dei poveri». Morì il 28 agosto1999 nella quasi indifferenza generale.
Il 10 agosto 1996 moriva anche Adriano Hipolito, vescovo di Nova Iguaçù. La sua azione pastorale si distinse per la difesa dei diritti umani, soprattutto durante gli anni della dittatura militare. In quell’epoca dom Adriano venne sequestrato, gli fu incendiata l’automobile e una bomba esplose nella cattedrale.
Significativa fu l’azione pastorale dello statunitense Mathias Schmidt, vescovo di Ruy Barbosa, morto d’infarto nel 1992. Era considerato uno dei più convinti difensori della scelta preferenziale dei poveri. Aveva anche promosso il collegamento tra le Comunità ecclesiali di base e i movimenti popolari dell’America Latina.
Luciano Mendes de Almeida, ex presidente della Conferenza episcopale, strenuo difensore dei bambini abbandonati e degli indios. Il 23 febbraio 1990 subì un incidente stradale «sospetto», che costò la vita a due religiosi. Il vescovo di Mariana proveniva da Belo Horizonte, dove aveva espresso la sua delusione per la decisione del governo di restringere a soli 2 milioni di ettari (contro i 9 fissati dalla magistratura) la superficie del territorio yanomami. Aveva accusato il presidente Saey di cedere alle pressioni di potenti gruppi economici interessati alle terre.
Monsignor Pedro Casaldaliga, spagnolo, è «il poeta della liberazione», insignito anche di premi. Ma l’interessato precisa che la sua persona non è importante; lo è, invece, la vita delle persone a cui viene sistematicamente impedito di vivere con dignità.
Un’altra figura emergente nel post-Concilio è il cardinale PAulo Evaristo As, ex arcivescovo di São Paulo. In una intervista su «Missioni Consolata» nel 1988 dichiarava: «Sono anche cittadino onorario di Pichete, meglio conosciuta come “la città delle vedove”, perché i loro mariti vi muoiono producendo bombe. No, il Brasile non ha bisogno di produrre e commerciare armi! Durante una trasmissione radiofonica il presidente Saey ha negato che il Brasile venda armi all’Iran ed Iraq; ebbene ha mentito. Il paese sta commettendo un atto immorale, fabbricando e vendendo bombe. Come vescovo, faccio una proposta a tutti i paesi: perché la produzione e vendita di armi non vengono sottoposte ad un referendum mondiale? Se fosse il popolo a giudicare, si arriverebbe alla pace mondiale in fretta».

N el campo teologico la produzione è ricca e varia. Ricordiamo fra gli altri:
– i fratelli Leonardo e Clodovis Boff: il primo ha scritto opere famose e controverse, come «Chiesa: carisma e potere»; il secondo si è occupato del problema metodologico della Teologia della liberazione in «Come fare teologia della liberazione»;
– Frei Betto affronta temi di spiritualità e pastorale; in dialogo con il mondo politico latinoamericano, è famoso per il volume «Fidel Castro: la mia fede»;
– José Oscar Beozzo, animatore degli studi storici sulla chiesa e sull’opera di evangelizzazione nel paese;
– Carlos Mesters, un protagonista del nuovo cammino biblico ed ecumenico della comunità cristiana;
– Josè Comblin, Ivone Gebara, Maria Clara Bingermer…

Francesco Beardi




I supermercati della religione – Speciale BRASILE

Ogni anno la Chiesa cattolica perde 600 mila fedeli, che aderiscono a movimenti pentecostali. In genere si tratta di persone povere, che tuttavia vuotano il loro modestissimo portafoglio alla nuova «chiesa», che non fa politica. E si inchina al padrone vincente e conservatore.

Il turista inesperto o il missionario impreparato, che per la prima volta mette piede in Brasile, resta sconcertato dalla molteplicità dei movimenti religiosi in cui si imbatte.
Alcuni provengono dall’Europa, come lo Spiritismo kardeciano; altri dall’Asia, come il Seicho-no-ie, la Perfetta Libertà e gli Hare Krishna; altri dal Nordamerica, come i Testimoni di Geova, i Mormoni, i vari movimenti pentecostali e la Chiesa dell’unificazione, nata in Corea e approdata negli Stati Uniti col suo fondatore Moon.
Vi sono movimenti religiosi alternativi di carattere autoctono, cioè nati in Brasile, come le Chiese cattoliche apostoliche brasiliane, Santo Daime, União Espiritualista Seta Branca, Vale do Amanhecer. Esiste il mondo dei culti afrobrasiliani (candomblé, xangò, jurema, casa de Minas, macumba, quimbanda, umbanda): raccolgono un numero enorme di persone e affondano le radici in Africa.
Nel 1930 le statistiche affermavano che il 95% dei brasiliani era cattolico. Oggi, secondo il Calendario Atlante De Agostini 2000, i cattolici si sono ridotti al 70%.
Il presente articolo affronta solo il movimento più macroscopico, che cresce in tutti i paesi dell’America Latina con una forza d’urto impressionante: è il mondo dei pentecostali. Si calcola che sottragga ogni anno al cattolicesimo brasiliano circa 600 mila membri.

L’Evoluzione
dei pentecostali

Il pentecostalismo giunge in Brasile al principio del 1900 e, precisamente, a Belém come Assembleia de Deus e a São Paulo come Congregação Cristiana no Brasil. Esso però, fino al 1930, si sviluppa lentamente senza creare allarmismo.
Con l’industrializzazione del paese e l’immigrazione intea, il movimento incomincia a mettere radici soprattutto nella fascia più povera della gente: perde il carattere di religione straniera ed assume gli elementi culturali tipici dell’ambiente, rompendo con l’élite e la dicotomia, presente nella religione ufficiale, tra chi «sa» e chi «è ignorante».
Fra i nuovi adepti si nota un fattore costante: il devozionale. Però è avvenuta la seguente trasformazione: il mezzo di comunicazione col divino non è più un santo, ma la bibbia, che nelle mani di analfabeti può diventare una sorta di amuleto e talismano.
Oggi il Brasile conta almeno un centinaio di denominazioni pentecostali. I sociologi della religione le suddividono in due categorie.
n Le chiese pentecostali più antiche, come l’Assemblea di Dio e la Congregazione cristiana in Brasile, che si presentano con una forte identità di gruppo.
n Le chiese neo-pentecostali, come la Chiesa universale del regno di Dio, Deus é Amor, Graça de Deus, che sono piuttosto di tipo clientelare. Tra i membri non vi è una forte coesione. Di regola sorgono sotto l’influenza di un leader carismatico, danno molta importanza alle guarigioni e usano molto i mezzi di comunicazione sociale, come radio e televisione.
Questi gruppi appaiono come uno specchio della società dei consumi del nostro tempo. Alcuni sociologi, anziché considerarli «chiese», li presentano come «agenzie». Secondo la logica commerciale odiea, il «tempio» diviene una specie di supermercato, dove si esibiscono «prodotti religiosi» di vario tipo.

Tre movimenti
significativi

Oggi in Brasile tre sono i movimenti pentecostali significativi, che si caratterizzano per una forte espansione: Assemblea di Dio, Congregazione cristiana in Brasile e Chiesa universale del regno di Dio.
Assemblea di Dio. Gioia e spontaneità sono espresse con canti popolari; si promuovono lunghe adunanze di preghiera con glossolalia (fenomeno già legato ai movimenti messianici: consiste nel parlare lingue sconosciute in stato di trance). Questa «chiesa» propone una morale esigente: proibisce di fumare, bere, cadere nei vizi; stimola a darsi totalmente a Cristo e impegnarsi in una attività religiosa.
Nel luogo di culto non vi è una rigida separazione dei sessi; entrando o uscendo ci si saluta calorosamente e si frateizza. Tutti si impegnano nella costruzione del tempio e nella diffusione del movimento.
La predicazione non è monopolio di una sola persona, ma può essere fatta da chiunque si senta ispirato a prendere la parola.
È ormai notorio che alcuni membri di questa «chiesa» hanno collaborato alla stesura del Documento di Santa Fé (New Mexico – USA), redatto nel maggio 1980 da esperti del Partito repubblicano quale piattaforma elettorale del presidente americano Reagan. Nella proposta n. 3 del capitolo «Sovversione intea» si legge: «La politica estera latinoamericana deve incominciare ad affrontare la teologia della liberazione, per sapere come è utilizzata in America Latina dal clero che aderisce a questa corrente teologica».
La maggior parte dei membri dei movimenti pentecostali, fino a poco fa, era costituita da gente povera. Però negli ultimi anni notiamo una tendenza inversa. Per attirare le persone benestanti non si organizzano culti, ma pranzi e cene.
Nel Mensageiro da Paz, giugno 1986, organo mensile dell’Assemblea di Dio, leggiamo: «I pranzi hanno la forza di attrarre persone danarose che in nessun’altra circostanza hanno avuto modo di ascoltare il vangelo».
Congregazione Cristiana in Brasile. È la prima chiesa pentecostale: sorge nel 1910 nel quartiere «Bras» di São Paulo per opera di un italiano, Luigi Francescon, proveniente dagli Stati Uniti. Nel barrio si parla e si predica unicamente in italiano. Nonostante che Francescon cerchi di attirare i connazionali alla sua chiesa, questi si dimostrano refrattari.
A quell’epoca l’80% degli operai di São Paulo è costituito da stranieri; di questi, il 65% è italiano. Tale classe sociale ha un atteggiamento diametralmente opposto a Francescon, perché proviene da dure lotte sociali in Europa.
A differenza di tutte le altre chiese pentecostali, la Congregazione cristiana in Brasile non è caratterizzata da un forte impegno per il proselitismo; non si serve dei mezzi di comunicazione sociale e sono rarissime le pubblicazioni. Fatto sintomatico: il movimento non ha mai permesso che fosse pubblicata la vita del fondatore, sebbene sia ritenuto santo.
È una «chiesa» che non combatte né il cattolicesimo né lo spiritismo. Al termine del culto, non pratica il rituale di benedizioni di «cura divina», come accade invece in molte comunità pentecostali; né ricorre ad esorcismi per cacciare i demoni.
Si caratterizza per una rigida separazione dei sessi durante la celebrazione del culto ed è completamente estranea ad ogni impegno di carattere sociale.
Chiesa universale del regno di Dio. Nasce nella decade 1970 ad opera del pastore Edir Macedo, che si stacca dalla Casa da Benção e si proclama «vescovo». Essa, come altri movimenti neopentecostali, dà particolare importanza alla radio e televisione; inoltre pubblica un numero impressionante di libri, riviste e giornali. Gestisce in proprio una casa editrice e una televisione di notevoli proporzioni.
Il Vangelo
secondo Macedo

Uno dei tratti fondamentali della Chiesa universale del regno di Dio è il ricorso massiccio agli esorcismi. Il fondatore Macedo è convinto che sia la maniera più efficace per combattere il male. «Nostro compito – afferma Macedo – non è solo predicare che Gesù Cristo salva e battezza nello Spirito Santo, ma innanzitutto e soprattutto che egli libera le persone che sono oppresse dal diavolo e dai suoi angeli».
Nella chiesa pentecostale di Copacabana in Rio de Janeiro, ad esempio, il venerdì è dedicato in modo speciale ai «culti di liberazione». In tale giorno gli incontri sono sette a ore diverse; quello di mezzanotte è il più importante per ottenere la liberazione dal demonio.
Nel suo impegno di «liberazione» Macedo ha trovato i «capri espiatori»: sono i culti afrobrasiliani e lo Spiritismo kardeciano. Nel libro «Dei o demoni?» (nel 1993 era già alla 13ma edizione) si legge: «Se il popolo brasiliano tenesse gli occhi ben aperti e si rendesse conto della magia e stregoneria che vengono propagandate da candomblé, umbanda, quimbanda, dallo spiritismo kardecista e da altri movimenti che stanno distruggendo molte vite e famiglie, certamente saremmo un paese molto più sviluppato».
Tra gli avversari della Chiesa universale del regno di Dio figurano anche i cattolici. Ne è prova il gesto teatrale e provocatorio, compiuto da Von Helder (da non confondersi con il vescovo cattolico dom Helder), nei confronti di una immagine della Vergine Maria, presa a calci durante una trasmissione televisiva.
La «teologia della prosperità» è un altro tema fondamentale della Chiesa universale del regno di Dio. Macedo in «La vita in abbondanza» scrive: «Non avremo mai fede sufficiente nelle promesse di Dio per riuscire a possedere quello che desideriamo, fino a che le nostre labbra parleranno unicamente di sconfitte. Per il cristiano non esiste “non posso” e neppure “questo è difficile”. No, no e no. Tu puoi avere tutte le cose, se ne sei convinto. “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Fil 4, 13) deve essere la nostra parola d’ordine».
«Prosperità» è l’argomento-chiave nelle riunioni di tutti i lunedì. Sono numerosi i templi in cui si realizza «la catena degli impresari». In simili riunioni si sottolinea con molta enfasi che «la prosperità» è un diritto di ogni cristiano. Per Macedo, essere cristiano significa essere figlio di Dio e coerede di Gesù Cristo. Questi, per eredità, è proprietario di tutte le cose che esistono sulla faccia della terra, essendo il re dell’universo. Ancora: «Dio non vuole che i suoi figli siano poveri e bisognosi». Essi sono «figli ricchi» di un «Padre ricco», perché «l’uomo fu posto sulla terra per condurre una vita nell’abbondanza. Adamo non aveva scarsità di acqua, di alimenti e non aveva bisogno di condurre sua moglie Eva dal medico. Essi godevano della perfezione di Dio, senza che gli mancasse nulla». Il paradiso terrestre in cui vivevano Adamo ed Eva non è perso del tutto. Esso è a disposizione di quanti accettano il «Gesù della Chiesa universale».
Frequentare un suo tempio significa assumere un impegno con Dio, entrare in alleanza con Lui, riprendere il cammino delle origini e ritornare nel seno della «famiglia della prosperità», nella quale vi è «una vita abbondante», garantita da Dio per mezzo di Gesù Cristo.
Secondo Macedo, l’«alleanza con Dio» deve essere intesa in questo senso: per mezzo di essa ciò che ci appartiene (vita, forza e denaro) passa in proprietà di Dio. E ciò che appartiene a Dio (benedizione, pace, prosperità, gioia) diventa proprietà dell’uomo.
Macedo non solo invita a pagare la decima, ma fa un passo avanti: oltre la decima, il fedele deve dare a Dio (cioè alla Chiesa universale del regno di Dio) tutte le cose preziose che possiede.
Nella società capitalista il denaro e le cose materiali sono le più importanti per la persona. Nell’offrire i propri beni a Dio, l’essere umano strappa, in un certo senso, le stesse sue viscere, soprattutto se offre tutto ciò che possiede. Però Macedo avverte: «Dio non vede i valori che una persona gli offre, vede invece quelli che restano nella borsa… È necessario dare anche ciò che non si vorrebbe. Il denaro, messo a frutto in una banca per realizzare un sogno futuro, questo sì che è importante e deve essere dato. Invece quel denaro che viene dato perché è superfluo, non ha valore né per il fedele e né tanto meno per Dio».
Occhio chiesa cattolica!

Un aspetto peculiare, nei movimenti pentecostali di data più antica, è l’attenzione alla persona: accoglienza calorosa di coloro che intervengono nel culto e possibilità di partecipazione come veri attori, sia nell’eseguire i canti sia nel prendere la parola durante la cerimonia.
Questo è un dato positivo e deve far riflettere i cattolici, ai quali la costituzione Lumen Gentium del Vaticano II e il documento di Puebla ricordano che la chiesa deve essere una comunità di comunione e partecipazione. Ciò che maggiormente dovrebbe preoccupare i cattolici non è la crescita dei templi pentecostali, ma l’atteggiamento di quanti vi entrano: lo fanno come se entrassero in un supermercato per acquistare beni di consumo. Preoccupa anche il loro disimpegno in campo sociale e politico.
Le comunità ecclesiali di base, che in Brasile sono una realtà consolante della Chiesa cattolica, hanno il potere di vaccinare i loro membri e di renderli guardinghi verso i metodi manipolatori praticati da numerosi movimenti pentecostali.
Moltissimi pentecostali sono poveri; ma le loro comunità, a differenza della Chiesa cattolica, non hanno mai fatto l’opzione preferenziale per i poveri. Si ebbe un esempio chiarissimo nel nordest, al tempo delle Leghe contadine, quando parecchi fedeli pentecostali furono imprigionati, ma le loro chiese non si mossero in loro difesa.
In Brasile, nelle ultime elezioni politiche, vari movimenti recenti di indirizzo pentecostale, hanno buttato la maschera e si sono schierati apertamente a favore dell’ala politica conservatrice, il cui impegno non è affatto sulla linea della promozione delle classi povere.
E questo fa paura.

Pietro Canova




Felicita e ricchezza (ma fuori dal mondo)

Spuntano come funghi, aprendo le loro sedi negli spazi prima occupati da negozi. Hanno nomi lunghi e fantasiosi: «Chiesa internazionale della grazia di Dio», «Chiesa del vangelo quadrangolare», «Chiesa pentecostale del potere di Dio», «Chiesa battista del tabeacolo dello Spirito santo». Promettono felicità e ricchezza, ma soltanto con loro
e, soprattutto, fuori di questo mondo. A San Marco,
un quartiere povero di Salvador Bahia, abbiamo verificato
di persona la diffusione e la forza delle sètte cristiane.

Salvador Bahia – Il bairro São Marcos è conosciuto da tutti, perché ospita il più famoso (e costoso) ospedale dello stato: il São Rafael, diretta emanazione dell’istituto San Raffaele di Milano.
Vedere i solidi e modei edifici del nosocomio fa una qualche impressione, in quanto San Marco è, prima di tutto, una estesa favela di 200 mila abitanti. I numerosi tassisti che sostano vicino all’entrata confermano quanto si poteva immaginare: «L’ospedale gode di un’ottima fama, ma soltanto chi ha soldi può farsi curare qui dentro».
Siamo in compagnia di Fidéle Katsan Fodagni, giovane missionario comboniano del Togo. Per farci conoscere San Marco, Fidéle vuole percorrere a piedi la via che taglia in due il quartiere, partendo proprio dall’ospedale San Raffaele.
Il bairro è cresciuto su una serie di collinette. La strada, l’unica asfaltata, si snoda sulla cima di queste. Per vedere l’estensione e le condizioni della favela (in verità, a Salvador questo termine viene evitato), è sufficiente gettare lo sguardo oltre le case sorte lungo la strada. Agli occhi si presenta allora un ammasso disordinatissimo di casupole unifamiliari abbarbicate a un terreno scosceso e costruite con materiale di recupero.
Toati a camminare sulla via principale, accanto a un negozio notiamo una sorte di garage con la serranda azzurra alzata. È una chiesa, la Igreja pentecostal Deus é justiça. Una lavagna nera appoggiata al muro informa sugli orari delle cerimonie. Ci affacciamo sull’angusto locale. Ci sono una ventina di sedie di plastica bianca, simili a quelle dei bar. Un’anziana donna è intenta a rassettare il tavolo del celebrante, sul quale poggiano un grosso radioregistratore portatile e un vasetto di fiori. Le chiediamo se è possibile scambiare qualche parola con il pastore. Purtroppo, al momento risulta assente.
Proseguiamo allora la nostra passeggiata sulla via centrale del bairro São Marcos. Sopra una cancellata in ferro c’è l’insegna della «Chiesa del vangelo quadrangolare». È chiusa, ma un grande cartello a disegni colorati propaganda servizi e benefici. Proprio attaccata ad essa c’è un altro luogo di culto, la «Chiesa internazionale della grazia di Dio». Le serrande azzurrine sono alzate: questa chiesa è aperta. Il locale è ampio, ma completamente disadorno. Soltanto al centro è posto un tavolino attorno al quale siedono due persone di mezza età, un uomo e una donna. Ci vengono incontro sorridenti. Si presentano come obreiros. Lavorate in qualche fabbrica? «No, no. Siamo operai della Chiesa internazionale», rispondono all’unisono.

Stupiti dell’abbondanza dell’offerta religiosa, chiediamo a Fidéle: «Ma è così facile aprire una chiesa?».
«Non c’è problema – risponde il missionario -. Se una persona si alza al mattino con l’idea di fondare una sètta, lo può fare liberamente. È sufficiente che si procuri un locale». La conferma arriva dopo qualche centinaio di metri.
Quando arriviamo all’incrocio considerato la piazza di San Marco, immediatamente l’attenzione è attratta da un enorme capannone, un tempo forse adibito a supermercato. È sovrastato da una scritta rossa che recita Jesus Cristo é o Senhor e più sotto, in blu, Igreja universal do reino de Deus.
«La Chiesa universale – ci spiega Fidéle – è la sètta cristiana più grande del Brasile. Questa organizzazione ha acquistato, in tutto il paese, supermercati, sale cinematografiche e fabbriche e ne ha fatto i suoi luoghi di raduno».
Macedo, il fondatore, ha costruito un vero impero economico, che ora può disporre anche di un canale televisivo nazionale, la «Rede Record». Chiediamo al nostro accompagnatore da dove provengano tutti questi capitali. «I fedeli sono obbligati a finanziare la chiesa, ma molti sostengono che i soldi raccolti in questo modo non possono spiegare una simile potenza economica. Ci sarebbero anche vie di finanziamento più losche». Cosa predica la Chiesa universale di Macedo? «Naturalmente – risponde con un sorriso padre Fidéle – predica contro la chiesa cattolica. E poi insiste molto sulla figura di Satana».
Perché la gente cade nelle mani di queste organizzazioni? È un problema di mancanza di cultura e spirito critico? «Per me – risponde il missionario – il motivo principale è la povertà, la miseria. Quando delle persone semplici non hanno abbastanza denaro per poter vivere e non vedono soluzioni per l’esistenza, allora affidano le loro speranze all’aldilà. Quindi, seguono qualsiasi persona che prometta un futuro migliore. Ci sono sètte abilissime a fare il lavaggio del cervello».

Sul lato opposto alla «Chiesa universale del regno di Dio» e alla «Chiesa avventista del Settimo giorno», sorge il tempio della Assembleia de Deus. Scorgendo due persone al suo interno, decidiamo di entrare. È una sala lunga e stretta con i banchi disposti su due file, che si guardano. In fondo, a mo’ di altare, trova spazio un grande impianto musicale, circondato da mazzi di fiori freschi. Alle pareti e sul soffitto sono fissati numerosi ventilatori. Sui muri è dipinta la scritta «unidos por Cristo».
Le persone sono due ragazzi, poco più che ventenni. Si chiamano Jadel e Beto. Parlano volentieri: «Siamo disoccupati e allora veniamo qui ad aiutare la nostra chiesa». Fidéle, che veste bermuda e t-shirt e non ha certo l’aspetto di un prete, si presenta come missionario cattolico e chiede di parlare del rispettivo credo. I tre iniziano una discussione che si protrae per mezz’ora, cercando nella bibbia, che si passano di mano in mano, la conferma delle proprie affermazioni.

A San Marco ci sono più chiese che negozi. Nello spazio di tre chilometri abbiamo contato almeno una dozzina di sètte evangeliche: Igreja pentecostal Deus é justiça, Igreja do evangelio quadrangular, Igreja inteacional da graça de Deus, Igreja universal do reino de Deus, Templo adventista do 7.o dia, Assembleia de Deus, Igreja batista da proclamaçáo, Igreja pentecostal Deus é amor, Igreja batista tabeaculo do Espirito santo, Igreja pentecostal poder de Deus. Troppe per non dare credito a chi dice che, dietro questa proliferazione, non ci sia un business fatto sulle spalle della povera gente.
«Io, missionario cattolico – spiega Fidéle -, non avrei problemi ad accettare e a dialogare con le sètte, se queste promuovessero la vita…». Ma cosa vuol dire “promuovere la vita”? «Significa che una religione non deve essere alienante. Significa cercare di liberare la gente dalla povertà e dalla miseria».

Paolo Moiola




Danzando con gli dei – Speciale BRASILE

– Cos’è il candomblé, madre mia?
– È danza e musica, figlia mia!
Così rispose «mãe Teresinha», quando
iniziai la ricerca su questa religione
afro-brasiliana. Per comprenderne
il fascino occorre aggiungere: ricchezza
di colori e simboli, ricerca di armonia, equilibrio e consolazione, memoria storica e impegno di solidarietà.

All’inizio di tutto – racconta la leggenda – non c’era separazione tra l’orum (l’inconoscibile), sede degli orixás (dei), e l’aiê, la terra degli esseri viventi. Uomini e divinità si facevano reciprocamente visita e vivevano insieme felici.
Ma gli esseri umani, fin da allora, non rispettavano niente e nessuno: con arroganza sporcavano l’orum, infischiandosi delle raccomandazioni di Olorum, il dio supremo.
Ma un giorno, vedendo l’orum tanto mal ridotto, il Signore del cielo e della terra si adirò: scagliò il bastone sacro e divise il cielo dalla terra. Così nessun uomo poteva più raggiungere l’orum e gli orixás rimanevano nel proprio mondo. Ma questi si intristivano; avevano nostalgia dei loro incontri con gli esseri viventi. Gli uomini, a loro volta, non riuscivano più a vivere senza la gioia e allegria trasmessa dagli orixás.
Olorum, stanco di tanti lamenti e in fondo stufo della situazione, permise alle divinità di andare ogni tanto in visita alla terra. Gli esseri umani facevano offerte agli orixás, che arrivavano e danzavano, danzavano, danzavano… al suono degli atabaques (tamburi).
E toò, finalmente, armonia e felicità.

RADICI AMARE
Il racconto esprime chiaramente l’essenza del candomblé: esso è un messaggio di felicità; è ricerca degli aspetti più giorniosi della vita. La sua storia, però, non affonda le radici nella gioia, ma nel dolore: in quella tragedia immane di milioni di neri ridotti in schiavitù.
Considerati come popoli selvaggi, privi di cultura, gli africani venivano catturati dai bianchi e, una volta trasportati in Brasile, dovevano essere civilizzati, istruiti e convertiti al cristianesimo con una rapida evangelizzazione. In realtà, gli schiavi furono i principali artefici della costruzione del Brasile, non solo sotto l’aspetto economico. Alcune popolazioni possedevano un elevato grado di civiltà, come alcuni gruppi yoruba (Nigeria e Benin) eccellenti scultori in avorio e metallo.
Creazione tipicamente brasiliana, il candomblé affonda le radici nelle tradizioni africane. Esso si formò nel segreto della senzala, quando schiavi e schiave sfruttavano ogni opportunità per riorganizzare i loro culti.
Coltivato di nascosto, il candomblé ebbe grande sviluppo quando la chiesa cominciò a convogliare le varie etnie africane nelle irmandades, (confrateite). A Salvador, all’inizio del 1800, nacque la confrateita di Nossa Senhora da Boa Morte, formata da africane libere, in maggioranza provenienti da Ketu (Benin).
Il fatto di potersi ritrovare rese più facile agli schiavi liberati di riorganizzare il culto verso gli antenati. Sacerdotesse e sacerdoti con posti di rilievo nei candomblé, entravano nelle irmandades. Esisteva, infatti, un legame molto stretto fra chiesa e candomblé; spesso i preti cattolici venivano chiamati a celebrare la messa nei terreiros (centri di culto). Ancora oggi, presso alcuni candomblé, tale usanza di partecipare alla messa è in vigore come memoria storica.

RICERCA DELLE ORIGINI
Si è soliti etichettare i movimenti religiosi afro-brasiliani come sètte sincretiste, miscuglio di tradizioni religiose africane e cristiane. Ma in una riunione del 1983, le iyalorixá (sacerdotesse) più tradizionali della Bahia presero posizione contro il sincretismo e rivendicarono per il candomblé la dignità di religione. «Iansã (divinitá dei venti e lampi) non è santa Barbara» disse mãe Stella de Oxossi, leader di Axé Opô Afonjá, uno dei gruppi più conservatori. Con questa frase essa voleva dire chiaramente che il candomblé non è una sètta sincretista né dipendente dal cristianesimo.
I culti afro-brasiliani si differenziano pure dalle religioni tradizionali africane, pur avendo in esse la loro base originaria e molti punti di contatto. Nei territori yoruba ogni città aveva un antenato da tutti venerato. In Brasile, a causa dei lunghi secoli passati in schiavitù, gli afro-discendenti hanno scordato il luogo di provenienza. Per questo nei terreiros di candomblé è stata ricostruita una specie di “yorubaland” in miniatura, inserendo nel culto tutte le divinità e figure mitiche che la schiavitù non è riuscita a cancellare dalla memoria.
Nella storia di questa religione, alcune sacerdotesse delle irmandades sono diventate figure quasi mitiche, come quelle che organizzarono un terreiro di candomblé chiamato Ìyá Omi Àse Àirá Intilè. Una delle fondatrici, Iyalussô Danadana, ritoò in Africa e vi morì. La seconda, Iyanassô, fatto un viaggio nel continente d’origine, toò accompagnata da un sacerdote chiamato Bangboxé, diventato figura leggendaria del candomblé di Bahia.
Questo centro religioso ha dato origine ad altri due grandi terreiros di tradizione ketu: Iyá Omi Ase Iyámasse, comunemente conosciuto come Gantornis, il cui leader religioso fu la famosa mãe Menininha, e Axé Opô Afonjá, fondato nel 1910 da mãe Aninha e oggi guidato da mãe Stella de Oxossi, figura carismatica e simbolica per tutti gli afro-americani. Molti neri degli Stati Uniti vengono nel terreiro dell’Axé Opô Afonjá per riavvicinarsi alle proprie radici culturali e religiose.

ARMONIA CON LA NATURA
Oltre ai motivi di carattere religioso, questa comunità è diventata particolarmente famosa per avere ricostruito, col passare degli anni, un villaggio africano con abitazioni per i fedeli e case per gli stessi orixás. All’entrata degli edifici e in vari punti del terreiro crescono giganteschi alberi sacri.
Il candomblé si fonda sul culto della natura: cose, alberi, animali, persone sono sacre. Un’energia vitale, chiamata axé, circola in tutti gli esseri animati e inanimati, collegandoli insieme come una sottile onda. Questa axé può essere immagazzinata e distribuita mediante vari rituali pubblici e privati. Per questo il candomblé, come le religioni africane in generale, è stata dispregiativamente definita animista. Ma non c’è niente di negativo nel percepire la vita delle piante o persone.
Nei testi sacri yoruba, racconti tramandati oralmente, è chiaramente sottolineato che al di sopra di tutti e tutto c’è un essere supremo, chiamato Olorum o Olodumaré. Questi, col suo respiro, ha dato inizio al principio maschile (obatalá) e femminile (odudua); questi due principi hanno dato origine al mondo, alla natura e agli esseri viventi. A fare da tramite fra gli esseri viventi e Olorum sono gli orixás, divinità-energie della natura, di cui i mortali sono figli.

POSSEDUTI DALLA DIVINITÀ

Il candomblé è basato su una sofisticata conoscenza dell’animo umano: la mitologia ne descrive pregi e vizi e, al tempo stesso, spinge l’uomo a rispettare e venerare il sacro e a compiere ogni sforzo per avvicinarsi al divino. Le divinità, infatti, sono sentite vicine nel vivere quotidiano.
Tale vicinanza si manifesta in modo particolare con la «chiamata» di alcune persone da uno degli orixás. Essa può avvenire in molti modi, come sogni e malattie inspiegabili. Tale chiamata viene verificata con una lettura della situazione spirituale, eseguita con le conchiglie di Ifa, divinità della sapienza e divinazione. Ogni mãe-de-santo (sacerdotessa) ha acquisito con l’esperienza una grandissima sensibilità al riguardo e, attraverso la caduta e i disegni formati da tali conchiglie, essa rievoca eventi mitologici e analizza la situazione energetico-spirituale del consultante. In base a tale analisi, inizierà una serie di rituali per avvicinare il fedele al proprio orixá.
La comunione col divino diventa sempre più profonda col passare del tempo. Il fedele offre doni alla divinità e riceve in cambio forza vitale, energia e protezione. Se la divinità lo richiede, si passerà a una vera e propria iniziazione, che prevede un periodo di reclusione e allontanamento dal quotidiano, per entrare in più stretto contatto con l’orixá.
Non si è ancora sottolineato abbastanza come le religioni africane si fondino su un percorso mistico profondo e significativo, che si snoda per tutta la vita. Nel candomblé tale cammino è accompagnato da rituali riservati alle persone della casa e da altri che si svolgono nelle pubbliche assemblee. Così spiega Ceci, sacerdotessa iniziata da 29 anni in uno dei terreiros più tradizionali e famosi di Salvador: «La lunga preparazione delle sacerdotesse per potere ricevere le divinità culmina con la festa pubblica. Tale festa richiede una preparazione immediata di due o tre giorni, nei quali è necessario adempiere una serie di riti per i soli fedeli della casa, per dare forza alla parte spirituale e per preparare materialmente la cerimonia, il cui fulcro è la possessione».

MUSICA, CANTO, DANZA
L’unione con la divinità, seppure temporanea, avviene in momenti specifici e ritualmente organizzati tramite il trance. Anche questo fenomeno, tanto maltrattato dalle teorie psicologiche, merita rispetto. Esso è patrimonio dell’umanità: lo si incontra in vari paesi del mondo, dall’Oriente all’Africa, dalla Siberia alla… Puglia. L’antropologo De Martino ha dimostrato che il fenomeno del tarantismo è un rito di possessione, dove la musica e la danza vengono usate con scopi terapeutici, proprio come in Africa e nel candomblé. Il disprezzo verso tale fenomeno è dovuto al fatto che esso è visto come qualcosa d’«insalubre», di difficile comprensione per il mondo occidentale, sempre più lontano dal mondo della percezione sensoriale.
Il candomblé si basa sulla conoscenza di se stessi; conoscenza ottenuta attraverso vere e proprie tecniche con cui raffinare sempre più la percezione del proprio essere, delle capacità e limiti personali. Il contatto con la propria parte interiore e sacra, porta le sacerdotesse all’unione con il divino. I mezzi per arrivare a tale unione sono: musica, canto e danza. Nei suggestivi riti del candomblé le sacerdotesse diventano strumento delle divinità da cui sono state scelte per portare agli esseri umani energia, conforto e felicità.
Le sacerdotesse, la sera della festa, preparate accuratamente nei loro bellissimi vestiti, sintesi dell’incontro forzato fra Africa e Europa, aprono il rito formando la ruota sacra. Spiega ancora mãe Ceci: «Prima della festa pubblica c’è il padê, celebrazione per Exu, il dio messaggero: la sua funzione è importante; senza di lui non è possibile fare niente. Erroneamente questi è stato identificato con il diavolo dei cristiani; ma il concetto di bene e male dei yoruba non si identifica esattamente con quello della teologia cristiana.
Seguono canti e preghiere per gli antenati. Si canta e si danza tre volte in onore di tutte le divinità; infine, col suono di strumenti musicali, si invitano gli orixás a scendere tra i fedeli. E arriva il momento dell’incorporazione: le sacerdotesse indossano gli abiti sacri, ricchi di simboli e allusioni mitologiche. Da questo momento esse impersonano la divinità. Riprendono le danze sacre. Ballando, gli orixás raccontano ai fedeli la storia sacra, la mitologia e la propria funzione nel cosmo, nell’interno del pantheon e nella comunità».

RICERCA DI EQUILIBRIO
La liturgia si snoda attraverso una serie di canti con uno schema più o meno fisso, che le sacerdotesse accompagnano con specifiche gestualità del corpo e coreografie. Per i non iniziati è difficile decifrare e compredere i messaggi espressi con tale linguaggio non-verbale, come pure l’insieme dei riti e la loro ricchezza di simbolismi. Ogni casa di candomblé, infatti, possiede un proprio repertorio di 400-500 arie musicali, coreografie, simboli e colori specifici corrispondenti alle varie divinità.
Inoltre, i messaggi del trascendente espressi dal candomblé non sono affidati alla logica del ragionamento, ma all’arte e alla percezione sensoriale. Già Susan Langer aveva sottolineato: «Solo l’arte riesce a trasmettere i messaggi profondi all’anima umana. Il linguaggio verbale non è sufficiente per trasmettere tutta la gamma di sfumature e valori dei sentimenti umani, come mateità, amore, aggressività, rabbia».
Attraverso i movimenti e fluidità del corpo, le vecchie sagge percepiscono l’armonia delle persone. Il candomblé, infatti, è ricerca di armonia: prima di tutto con se stessi e poi necessariamente con gli altri. «Io sono perché tu sei» dice un detto africano, sottolineando l’importanza del gruppo. Ognuno deve adempiere a una funzione a livello spirituale-individuale e a livello di comunità; come i cerchi che si formano nell’acqua quando vi cade un sasso: tutto è collegato, dal più piccolo al più grande e viceversa.
Mãe Beata, da 28 anni leader di un terreiro, spiega: «Il candomblé è carità. Io vi sono entrata perché dovevo; dopo aver raggiunto il mio equilibrio, ho dovuto iniziare ad aiutare gli altri. Noi mãe o pãe-de-santo dobbiamo sempre dare una parola di conforto a tutti quelli che ne hanno bisogno. E non solo i brasiliani, figlia mia, tu lo sai».
Qui a Bahia, infatti, arrivano molti europei; alcuni sono alla ricerca di un contatto con il «mondo magico», con cui risolvere in un batter d’occhio ogni loro problema; altri, però, cercano un contatto più spontaneo con gli altri e con se stessi; vogliono riscoprire il proprio ritmo e equilibrio interiore e quella autenticità che hanno perso nella vita frenetica delle grandi città.
Mãe Stella non si stanca di sottolineare: «Orixá è equilibrio. Tutto inizia da lì. Tutti dobbiamo vivere con dignità e in pace».
Molti pensano che sia facile trovare la base dell’equilibrio interiore; spesso, invece, si richiede un percorso travagliato e difficile. Eppure molte persone, e non solo brasiliane, sono state aiutate a ritrovarlo; o per lo meno hanno ricevuto una spinta in questa direzione. È come se il candomblé riuscisse, attraverso il sacerdozio e l’amore per se stessi e gli altri, a riorganizzare la frammentazione umana e a dare un filo conduttore ai suoi fedeli.

MEMORIA E SOLIDARIETÀ
Il candomblé ha avuto, ed ha ancora, un’importanza fondamentale nella storia degli afro-discendenti: grazie al lavorio solerte delle sacerdotesse, essi hanno recuperato l’identità culturale e la dignità personale che la schiavitù aveva brutalmente distrutto.
«Se non ci si ricorda degli antenati, dei nostri defunti, non sappiamo chi siamo» spiega l’antropologo De Martino. È ciò che hanno fatto, per quanto hanno potuto, queste sacerdotesse: mantenendo viva la memoria degli antenati e i culti africani nelle comunità del candomblé, hanno dato a milioni di persone, distrutte dalla deportazione, la possibilità di ritrovare se stesse a livello spirituale, psicologico e politico. I fedeli delle religioni afro-brasiliane non si sono arresi alla sofferenza e al dolore, ma li hanno superati con la coscienza della propria storia.
Con l’iniziazione al candomblé, i mali del singolo vengono ri-organizzati e ri-orientati a livello spirituale-energetico; la frequenza ai riti rafforza in loro la volontà di trasformarli in punti di partenza per un nuovo passo verso una maturazione personale.
Secondo la filosofia del candomblé la vita è sacra; il nostro corpo è un tempio, a cui viene trasmessa la forza dell’orixá e con cui partecipare alla vita nella vita, cioè dando valore alle cose e alle situazioni quotidiane.
Molta importanza è data ai problemi sociali. È sempre più frequente vedere le comunità organizzarsi intorno ai problemi dell’infanzia carente e bisognosa. Il progetto «Mobilitazione sociale», per esempio, organizzato da una delle figlie dell’Axé Opô Afonjá, pone al centro dell’esperienza religiosa l’impegno personale e la creazione di nuove prospettive a favore dei bambini della comunità e del quartiere. Tale progetto ha soprattutto lo scopo di aiutare i più giovani a riavvicinarsi alle radici africane, animandoli a frequentare la biblioteca e museo del terreiro, organizzando lezioni su cultura e storia afro-brasiliana, corsi di percussione, danza e capoeira (arte marziale d’origine angolana). Tali iniziative stimolano i bambini nell’approfondimendo e riappropriazione della propria cultura e li aiutano nel processo di auto-stima e apertura all’altro.
Non si pensi, infine, che il candomblé sia frequentato solo da afro-discendenti; sono molti tra la borghesia bianca e gli intellettuali coloro che frequentano i terreiros, abbagliati dalla bellezza di riti e alla ricerca di conforto, equilibrio ed energia.

Susanna Barbara




E per il santo minacce ed improperi – Speciale BRASILE

La religiosità popolare non è superstizione, ignoranza
o fanatismo.
È manifestare la fede attraverso il vissuto personale e quotidiano.
Nel corso dei secoli si è cercato di emarginarla,
a vantaggio di un cattolicesimo più formale, dove sacro e profano rimangono distinti. Poi, grazie al Concilio Vaticano II, i pregiudizi sono venuti meno…

La tematica della religiosità popolare è avvincente. La gente comune si pone davanti al problema di Dio in modo spontaneo ed emotivo. E vuole affrontare in forma diretta e semplice i grandi interrogativi che da sempre interessano l’umanità: il senso della vita, il perché della sofferenza, come vincerla, che cosa ci attende dopo la morte.
Prima di addentrarci nel tema, dobbiamo, in primo luogo, liberarci da preconcetti e pregiudizi che, già in partenza, riducono la religiosità popolare a fenomeno impregnato di superstizione e ignoranza. Le valutazioni aprioristiche hanno sempre condizionato le riflessioni su questo argomento.
La religiosità popolare aiuta a creare e conservare l’identità individuale e collettiva, divenendo anche una risorsa di evangelizzazione originaria e tipica. In molti casi, essa ha funzionato come reazione e pretesto contro l’oppressione politica e culturale dominante. Altre volte, ha reagito a situazioni di appiattimento religioso. Certamente la religiosità popolare è stato ed è un fenomeno che alterna segni di speranza per una vita in un mondo felice ad altri caratterizzati da anacronismo e alienazione.
Per capire la fede vissuta dal popolo, è necessario ripercorrere alcune fasi storiche che seguono l’evangelizzazione dell’America Latina e capire come la religione cattolica si è diffusa nel continente.

IL CATTOLICESIMO
DELLA GENTE

È un cattolicesimo formatosi tra gli immigrati portoghesi, durante la colonizzazione del Brasile.
Esso ha avuto una presenza significativa nelle zone rurali, dato che le città ancora non esistevano. La popolazione era formata da contadini che emigravano dall’Europa verso le terre nuove: portoghesi poveri, ma anche piccoli proprietari ed ex-galeotti ai quali veniva offerta la libertà di andare a popolare le nuove colonie; più tardi, si aggiunsero indios, strappati alle loro tribù, ed ex-schiavi.
Questa mescolanza di razze ed esperienze ha dato origine a un cattolicesimo tradizionale popolare, basato su elementi specifici che non passavano attraverso un catechismo programmatico e didattico, ma su una fede vissuta e mnemonica.
Possiamo presentare alcuni elementi diventati punti base della religiosità popolare: il santo, l’oratorio, la cappella e il santuario.

IL SANTO,
L’AMICO DELLA VITA

Il santo è uno degli elementi fondamentali del cattolicesimo popolare. Tutto gira intorno a lui. È oggetto della devozione personale; è motivo di raduno del piccolo nucleo familiare (oratorio); è l’occasione per la festa patronale nei piccoli centri (cappella); è meta di pellegrinaggi per grandi moltitudini (santuario).
La vita di ogni persona ha come centro e riferimento la devozione specifica e prorompente per il santo del cuore, che comprende aspetti personali e collettivi.
Ogni fedele si relaziona per tutta la vita con il santo. Conversa con lui, gli chiede protezione, lo ringrazia per le grazie ricevute. Ma è, perfino, contemplato il momento dell’arrabbiatura: quando il santo indugia o ritarda la grazia per la quale è stato sollecitato, il devoto può passare alle minacce, girando l’immagine di spalle, oppure declassandolo nella gerarchia dei santi, riempiendolo anche di improperi.
Il santo lo si interpella attraverso l’immagine, ma non si identifica con essa. L’immagine riassume sempre un potere sacrale e per questo, dopo che è stata benedetta, non la si compra, né si vende e tanto meno la si può gettare via come qualsiasi oggetto logoro, ma solo la si può scambiare con altri oggetti affini. È segno di grande rispetto riporre l’immagine rovinata dal tempo all’entrata della cappella, affinché sia responsabilità del sacerdote determinae la… «rottamazione».

L’ORATORIO FAMILIARE

L’oratorio è un piccolo altare dove viene appoggiata l’immagine del santo. Esso occupa un posto di particolare importanza, normalmente all’entrata della casa ed è centro della devozione familiare.
Attoo all’altarino, la famiglia si riunisce per pregare o per altre devozioni, tradizioni e abitudini. Particolare enfasi viene dedicata alla recita del rosario, condotto dal capo famiglia, con le litanie e varie giaculatorie. Quasi tutte le preghiere sono registrate nella memoria delle persone, anche perché un tempo pochissimi sapevano leggere o possedevano libri appropriati.
La casa è il luogo della tranquillità e della pace e tra le mura domestiche regna la protezione del santo.

DALLE CASE ALLE STRADE

La strada porta con sé un carattere profano e presenta situazioni di grandi pericoli. Il santo, racchiuso in una nicchia speciale, domina gli incroci o sorveglia le vie principali. È una presenza rassicurante per tutti i devoti, anche per coloro che vivono più lontani dal culto ufficiale. Le persone, che vi passano davanti prima di andare al lavoro, alzano gli occhi e incrociano lo sguardo benevolo del patrono, chiedendo protezione. Al ritorno lo ringraziano per i pericoli scampati, offrendo fiori o rami decorativi. Tutta la vita pubblica quotidiana è permeata dalla figura del santo e accompagna i fedeli in tutte le loro relazioni.
A volte, vicino al santo sono raffigurate le anime del purgatorio (a ricordo dei defunti che hanno subito una morte violenta per omicidi o incidenti) o anime di persone non battezzate. Secondo il detto popolare, queste sono «anime inquiete».
La figura del santo garantisce serenità ai passanti, esorcizzando il luogo dalle dicerie popolari che incutono disagio. La giaculatoria è sempre il lasciapassare più sicuro.
Ci sono, infine, degli oratori ambulanti. Si tratta di nicchie portatili che i vari eremiti portano con sé girovagando nei vari quartieri e contrade. Ci sono pure persone che hanno fatto voto al santo di divulgare la devozione e si affidano a questo girovagare per ottenere la grazia richiesta. Il popolo, attraverso questi incontri casuali, si mette in contatto con il santo, specialmente attraverso l’elemosina, che serve per edificare altri luoghi di devozione. Il tutto sempre accompagnato dalla preghiera interiore.

LA CAPPELLA

Quando si costituisce un nucleo di case o una piccola comunità paesana nasce pure l’esigenza di uno spazio sacro: è la cappella.
È quasi sempre costruita con un lavoro d’insieme, poiché tutti i membri della comunità sono tenuti a dedicarvi del lavoro e fare donazioni. È il luogo della devozione comune, dove il popolo fa le proprie preghiere, organizza le novene, decora la cappella e le adiacenze. Nella cappella si aspetta il missionario per celebrare la messa e distribuire i sacramenti. È in essa che si trova l’immagine del patrono con più poteri divini.
Il momento più significativo arriva con la festa annuale. I preparativi cominciano molto prima, con novene e devozioni. Circolano liste di offerte secondo le possibilità di ognuno. Tutti diventano persone che al santo sanno chiedere, ma sanno anche dare. La festa rappresenta la rottura con la monotonia della quotidianità e si entra con euforia in un nuovo tempo; anche il mangiare, il bere e perfino ballare aumentano la familiarità del gruppo e fanno sentire con più forza la protezione del divino.
È un cattolicesimo poco clericale e l’organizzazione della festa è lasciata nelle mani delle confrateite laiche, elette dalla comunità di appartenenza. Normalmente e, soprattutto nel tempo coloniale, la presenza del missionario era sporadica («pastorale di visita»). Eredità che si può constatare ancora nelle comunità rurali dell’interno, dove uomini (ma soprattutto donne) cornordinano preghiere, organizzano feste patronali. La presenza del sacerdote era richiesta solo per la celebrazione della messa.

I SANTUARI

Per le devozioni di massa, esistono i centri per grandi incontri: sono i santuari. In essi si trova l’immagine più importante del santo che esige il pellegrinaggio annuale da parte dei fedeli.
Attraverso questi pellegrinaggi, molte volte compiuti a piedi, tantissima gente prima sconosciuta, a poco a poco si trasforma in compagni di cammino con una meta comune: andare a conoscere il santo. Ritrovarsi nel santuario significa dimenticare tutta la sofferenza e i sacrifici sopportati per raggiungerlo. Tutte le tristezze e i problemi sono allontanati. Arrivare in quel luogo segna la speranza per una vita che ricomincia e si rinnova.
La forza del santuario è dovuta al lavoro dei laici, riuniti in confrateite. Essi non si sentono meri assistenti del luogo sacro, ma veri promotori della fede, assumendo la responsabilità del santuario, delle feste paesane, delle preghiere tradizionali: una vera mescolanza di sacro e profano.
Le confrateite di laici, iniziate nei tempi del «patronato», sono la colonna portante nell’area religiosa. Ancora oggi, con dovute trasformazioni, sono presenti ed efficaci nelle «Comunità ecclesiali di base».

L’ETICA PERSONALE
E SOCIALE

Tra il devoto e il santo vige un’etica di comportamento. È composta da precetti e leggi che regolano lo scambio di benefici ed aiuti reciproci. In quest’ottica, esiste anche (come abbiamo spiegato) la possibilità di «rivolta», quando il santo non rispetta le promesse fatte, dopo che il fedele ha fatto vari sacrifici per ottenere le grazie richieste.
Questo cattolicesimo ha un’etica anche per regolare le relazioni sociali. Nella sua concezione di ordine, esso cerca di riprodurre, in terra, l’ordine celeste. Se in cielo i protettori sono i santi, in terra il povero cerca protezione nei grandi e potenti.
La protezione dei ricchi è data in cambio della sottomissione e obbedienza da parte dei poveri. Si constata, pertanto, che il cattolicesimo popolare tradizionale non offre un modello di società egualitaria. Secondo questa mentalità, Dio ha creato gli uomini in forma differente, ricchi e poveri. Però il ricco e il potente hanno l’obbligo di proteggere il povero e di aiutare il debole, proprio come fanno i santi dal cielo.
Lo studioso Pedro de Oliveira afferma: «Questo modello di ordine sociale, in cui i santi controllano le forze naturali e dove Dio è Signore di tutto (come un buono e grande fazendeiro), è un modello pre-capitalista. Sulla terra, i deboli si appoggiano e ricorrono al più forte e gli sono riconoscenti per la protezione che guadagnano. Questo modello mantiene l’ordine sociale com’è, sancendo la dominazione dei grandi proprietari sulla massa contadina».

LA STORIA CAMBIA

L’abolizione della schiavitù nel 1888 e la proclamazione della Repubblica nel 1889 costituiscono gli elementi basilari per la trasformazione strutturale del Brasile.
La chiesa cattolica, tradizionalmente legata alla classe signorile, deve ristrutturarsi per rendersi capace di affrontare la nuova situazione emergente del capitalismo agrario. I vescovi si allontanano dal potere del padronato e si legano più strettamente alla Santa Sede, decidendo di seguire la linea pastorale che conforma il cattolicesimo popolare tradizionale sul modello romano.
Lo stato vedeva nella tradizione una resistenza al nascente capitalismo agrario. La chiesa, pur riconoscendo certi valori, vi scorgeva troppa indipendenza; per cui decise di inviare i suoi missionari in forma più massiccia dall’Europa. L’obiettivo era di impiantare un cattolicesimo che rispondesse maggiormente alle regole che si stavano imponendo a partire dal Concilio Vaticano I, dove le varie forme tradizionali popolari erano denigrate per far spazio a catechismi ufficiali.
LA CHIESA POPOLARE
SOTTO STRETTO CONTROLLO

Il cattolicesimo romanizzato dà particolare enfasi ai sacramenti come mezzo di salvezza individuale. Poiché questi sono amministrati dal clero. A poco a poco la vita religiosa passa sotto il monopolio della gerarchia ecclesiale.
Anche il cattolicesimo popolare, decisamente più laicale nelle sue origini, viene incamerato nella struttura parrocchiale. Si rafforza lo spiritualismo attraverso una pietà privata, rivolta maggiormente alla salvezza della «propria» anima.
Le differenze sono tangibili: il cattolicesimo popolare è marcato dalla forza del santo e dell’impegno laicale; il cattolicesimo romano insiste maggiormente sulla obbligatorietà dei sacramenti e sulla presenza del padre cornordinatore.
Il popolare comincia ad essere trattato come fanatismo e frutto dell’ignoranza religiosa. Le nuove relazioni sono basate sull’impersonale nel campo religioso, denigrando tutto quello che si riferisce al popolare, mentre si continua lo sfruttamento nel campo sociale.
Si può ricordare la vicenda di Antonio Conselheiro nel sertão baiano che, con i suoi seguaci, venne represso dall’esercito, con l’appoggio del vescovo di Salvador. Più recentemente, ci sono state le sanzioni contro padre Cicero del Ceará, che sosteneva il cattolicesimo popolare creando movimenti religiosi che la chiesa ufficiale non riusciva a controllare.
Per combattere il cattolicesimo popolare, vennero importate dall’Europa devozioni per nuovi santi, legati alle congregazioni religiose. Queste proponevano una fede e stili di vita religiosa lontani dalla vita del popolo, enfatizzando più gli aspetti celestiali che le caratteristiche umane, reputate troppo banali e limitate per poter percorrere il cammino che conduce al Regno.

L’EVOLUZIONE
DELLA DEVOZIONE

Lo storico padre Oscar Beozzo fa una analisi delle devozioni facendo riferimento a tre fasi: il cattolicesimo popolare, il cattolicesimo romano e il cammino attuale della chiesa.
Si prenda, ad esempio, la devozione alla Madonna. Nella prima fase, è la madre dei dolori, Maria di Nazaret, la donna popolare incinta o con il bambino in braccio, tipico dell’essere mamma. Nel cattolicesimo romano, la Vergine diventa Madonna della gloria, Madonna delle apparizioni con vestiti celestiali, e non ha più in braccio il bambino. Diventa insomma una donna che vive fuori dalla realtà del popolo.
Oggi è ridiventata la madre morena dell’America Latina, compagna di viaggio nella vita di tutti i giorni. Riprende in braccio il suo bambino e lo presenta al mondo diventando la «stella dell’evangelizzazione».
Quanto a Gesù, nella prima fase, è il servo sofferente nella preghiera nell’orto degli olivi; il Gesù della flagellazione, che porta la croce. Nella seconda, diventa il Gesù ieratico del Sacro Cuore con una devozione che lo allontana dalla vita di tutti i giorni. E, oggi, il Gesù della liberazione, che proclama i diritti dell’umanità, spezza le catene del peccato e dell’ingiustizia.
La devozione dei santi passa per lo stesso schema. Al tempo della colonia, si incontrano i santi pellegrini che incarnano le sofferenze del popolo che vive un continuo esodo (come S. Gonçalo, S. Pietro degli zoccoli, Santiago, S. Rocco e tanti altri). Poi si passa ai santi delle congregazioni religiose, lontani dalla realtà e dal modo di vivere la fede in America Latina. Infine, nella fase attuale, si ricordano di più i martiri della fede, coloro che danno la vita per difendere i poveri della terra.
L’elemento fondamentale che differenzia il cattolicesimo popolare da quello romano è questo: il primo cerca di unire, di creare un tutt’uno tra fede e vita; il secondo cerca la dicotomia tra vita normale e vita ecclesiale, distinguendo il divino dall’umano, dividendo lo spirito dal corpo, separando il sacro dal profano. Sono elementi, che i teologi figli latino-americani sottolineano con particolare forza e cercano di far scaturire un nuovo cristianesimo adatto e incarnato nelle realtà, dove si cerca l’unità della vita vissuta in una profonda fede.
LA PRIMAVERA
DEL CONCILIO VATICANO II

Arriva il Concilio Vaticano II. Nascono le Comunità ecclesiali di base. Esse, con il loro nuovo modo di essere chiesa, rappresentano anche una rottura della devozione individuale ai santi patealisti della fase coloniale, ai quali era delegata la soluzione dei problemi personali; diventano pure rottura con la pratica individuale dei sacramenti e la dimensione privata della spiritualità, dove ognuno ha l’alibi della salvezza solitaria, senza tenere troppo in conto l’impegno comunitario.
Attraverso il nuovo modo di essere chiesa c’è, senza dubbio, un ricupero dell’elemento tradizionale cattolico e la partecipazione dei laici come agenti dell’annuncio del vangelo e animatori della comunità cristiana. Si fa strada la forza della coscienza personale per arrivare a un impegno collettivo. Una presa di coscienza e una nuova etica religiosa, dove perfino l’ordine socio-politico è contestato.
I numeri e le statistiche sono ancora lontani per un capovolgimento copeicano. La grande massa appartiene ancora al cattolicesimo che trova più comodo un impegno religioso personale rispetto a quello comunitario.

PARTENDO DAI POVERI
(E DA SANTO DOMINGO)

Molte volte la religiosità popolare è stata messa alla gogna come manifestazione di immaturità, intravvedendovi minacce di eresie e soprattutto di sincretismo, fenomeno con il quale non si è avuto il coraggio di dialogare.
Si riconosce che, a volte, alcune devozioni necessitano di una purificazione; ma si ha la percezione che proprio dal popolo derivano le possibilità più immediate e profonde per inculturare ed incarnare la fede nella vita.
Il punto di partenza di Cristo è sempre la sua «opzione per i poveri, per i piccoli, per gli ultimi del mondo…» (Lc, 18-19).
L’attualità della vita ecclesiale deve fare i conti con le sfide dell’evangelizzazione del nostro tempo. Sfide che debbono percorrere il processo di inculturazione del vangelo. È un cammino che deve includere la religiosità popolare, ma anche recuperare i valori indigeni e africani che sono componenti fondamentali dell’antropologia brasiliana.
Nel 1992, a Santo Domingo, davanti ai vescovi latinoamericani, Giovanni Paolo II parla di una nuova evangelizzazione nel suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni di fede. È una proposta che richiede immaginazione e creatività, affinché il vangelo possa arrivare a tutti in una forma appropriata e convincente. Nel terzo capitolo il documento sottolinea la necessità per ogni cristiano di conoscere e penetrare gli ambienti socio-culturali, come protagonista della propria storia alla luce del vangelo. La stessa America Latina non deve guardare solo alle proprie necessità, ma deve sempre avere la sensibilità di aprirsi e condividere la propria fede con il resto del mondo.
Ad ogni istante è necessario rifare «l’esperienza di Dio» che continua a rinnovare l’alleanza con il suo popolo attraverso un «cammino» che non rimane prigioniero nel tempio dell’immobilità, ma richiede sempre più di abitare «la tenda del divenire».
Ecco ciò che significa «camminare con gli uomini del nostro tempo».

Orazio Anselmi




Finale a più voci – Speciale BRASILE

Voi siete dentro la nostra casa. Siete dentro il cuore del nostro popolo, che è la terra che tutti state calpestando. Questa è terra nostra. Quando voi siete arrivati qui, questa terra era già nostra…
Per questo esigiamo la demarcazione dei nostri territori, il rispetto per le nostre culture, condizioni per la sopravvivenza, educazione, salute… e punizioni dei responsabili delle aggressioni ai popoli indigeni.
Siamo in lutto. Fino a quando? Non vi vergognate di questa memoria che sta nella nostra anima e nel nostro cuore? La racconteremo di nuovo per la giustizia, la terra e la libertà.
Matalawê, indio pataxó
(messa di commemorazione dei 500 anni)

Il grande errore è pensare che il Brasile abbia avuto inizio con la venuta dei portoghesi. Pare che la storia del Brasile sia cominciata nel 1500 e che, prima, ci sia solo preistoria. Purtroppo la storia ufficiale è quella dei vincitori e non dei vinti.
Dal punto di vista della mia fede, lo Spirito del Signore aveva già seminato i valori del vangelo, anche se in forma implicita, nella storia dei popoli indigeni, nelle loro sofferenze e tradizioni religiose. Quando sono arrivati i missionari, con la mentalità di quell’epoca e l’assenza dell’antropologia culturale, che ancora non era nata, essi pensarono di essere di fronte al demonio e distrussero tutto. Ma ora siamo in condizione di dire che in quei valori era già presente lo Spirito del Signore…
mons. Franco Masserdotti
vescovo di Balsas e presidente del Cimi

Nonostante gli aspetti positivi del passato, sono rimasti segni negativi, frutto anche di errori dei cristiani. Senza incolpare i nostri antenati, sentiamo la necessità di chiedere perdono per ciò che è andato contro il vangelo e ha ferito gravemente la dignità umana e molti nostri fratelli e sorelle.
Agli indios furono tolte le terre, la vita e persino la ragione di vivere. Ai neri fu negata la libertà e ostacolata la conservazione della loro cultura e della loro memoria e fino ad oggi non è stata restituita loro la condizione di piena cittadinanza.
Inoltre la situazione di estrema povertà del popolo. Essa ha radici nella storia di esclusione della società brasiliana. La popolazione povera, insieme a indios e neri, è creditrice di un immenso debito sociale, accumulato durante i secoli della formazione del nostro popolo.
Cnbb
(documento dei vescovi brasiliani)

C i sono diversi modi di vedere il fenomeno storico della conquista. Alcuni lo vedono dalle caravelle e per essi tutto è gloria… La prospettiva che io difendo consiste nel vedere il processo dalla spiaggia, integrandolo con quello che è il risultato di questo scontro di civilizzazione, che è culminato in un sincretismo, in una mescolanza di razze e religioni.
Siamo il figlio «non voluto» dell’Europa. Volevano arrivare alle Indie e ci hanno trovato sulla loro strada, accidentalmente. E forse per questo siamo i più ribelli. Siamo una mescolanza di indigeni, neri, asiatici, europei, ma ci sentiamo brasiliani e latinoamericani, non europei.
Leonardo Boff
teologo della liberazione

Indipendentemente dalle ragioni che portarono i portoghesi ad approdare in Brasile e iniziare la colonizzazione-dominazione, il fatto è che abbiamo ricevuto con essi la buona novella di Gesù Cristo.
Da loro ereditiamo un tesoro più grande di quello che portarono via di qui: ereditiamo la fede, il vangelo, l’eucaristia, la salvezza, Nostra Signora. Ed è per questo motivo che dobbiamo celebrare i 500 anni della scoperta, che sono anche 500 anni di evangelizzazione.
mons. José Edson Santana
vescovo di Eunápolis

Non è possibile tracciare il profilo storico del Brasile, senza considerare la presenza della chiesa cattolica. Chi più aiutò a civilizzare le popolazioni indigene che il lavoro missionario? Chi più ha fatto per l’istruzione del popolo che la chiesa? Chi più si è adoperato per la moralizzazione della famiglia, per la pace e la concordia dei cittadini che la stessa chiesa? Come non ricordare la chiesa come colei che ha difeso la dignità umana e i valori culturali dei popoli indigeni presenti in epoca coloniale e la sua tenace opposizione alla schiavitù? Quello che sono oggi i brasiliani lo devono alla generosa dedizione di numerosi cristiani che si sono consacrati alla causa della fede, a volte anche a costo della vita.
card. Angelo Sodano
segretario di stato del Vaticano

L a sfida è la disuguaglianza sociale. Il Brasile ha un’unità territoriale, ma non una condizione di uguaglianza. Nascondere e negare i conflitti interessa ai dominatori, non ai dominati. I conflitti rivelano che c’è insoddisfazione sociale, lotta reale o potenziale e possibilità di mutamento. A chi si avvantaggia del potere non interessa il cambiamento. Il giusto criterio per giudicare i governi e i tempi della storia dovrebbe essere: hanno essi contribuito o meno a superare le disuguaglianze nel paese?
In questi 500 anni il nostro popolo povero ha conquistato il diritto di gridare che ha fame, ma non ha ancora conquistato il diritto di mangiare.
Luis Inacio Lula da Silva
tre volte candidato alla presidenza della repubblica

aa.vv.




CONGO – E sul muro una scatola vuota

Nei «Balcani dell’Africa» gli eserciti si fronteggiano,
soprattutto per accaparrarsi legname e caffè,
oro e diamanti. Difficile raggiungere
il paese ai «non addetti ai lavori»:
non fa eccezione la città di Isiro,
sotto il tiro degli ugandesi. Altrove sono
i rwandesi che non scherzano.
Da mesi è in ballo l’invio di 5.337
«caschi blu» delle Nazioni Unite,
per garantire il «cessate il fuoco».
Ma è solo un «ballo».
I missionari con la gente.

«Finalmente!» dico a padre Giano Benedetti. Decollato dall’aeroporto militare di Entebbe, in Uganda, viaggio con altri missionari della Consolata: i padri Enrico Casali, Celestino Marandu e Simon Tshiani. Sono le ore 15. Destinazione Isiro, nella Repubblica democratica del Congo, occupata dall’esercito dell’Uganda.
«Ti è andata molto bene!»
Giungiamo all’aeroporto di Entebbe alle 5.30 con un taxi-minibus, mentre è ancora notte. Svegliati dal rumore del veicolo, due soldati ugandesi sporgono il capo da una tenda per dire: «Aspettate». Ci dividono una rete e un cancello. Il taxi, carico delle nostre valigie, rimane sul posto.
Mezz’ora dopo, un camion supera il cancello, seguito da padre Celestino, che dichiara: «Ci vorrà tempo a caricare l’aereo». Celestino, tanzaniano, conosce l’iter burocratico per giungere ad Isiro.
Un lampo sul cielo nuvoloso, un tuono fragoroso e la pioggia inonda la campagna. «È una benedizione di Dio» commenta il taxista. Quando cessa di piovere, propone: «Perché non facciamo colazione?». C’è una bettola a due chilometri. Il taxista mangia con appetito uno spezzatino di maiale e banane fritte.
Un nuovo tuono… e le cateratte del cielo si riaprono. Piove anche sul nostro tavolo, mentre ci servono il tè. Padre Enrico sorride divertito, pur non essendo un pivello dell’Africa: conta 5 anni di Tanzania e 26 di Zaire-Congo. Ora vi ritorna, dopo un by pass al cuore e altri gravi problemi di salute. La missione è il suo dna, come pure delle sorelle Emma Piera, Aalda e Simplicia, missionarie della Consolata.
«Adesso ritorniamo all’aeroporto, perché dovreste partire» dice il taxista. «Ecco i piloti» continua per strada, additando una Mercedes con due biondoni russi a torso nudo. Attraversano il cancello; però, un quarto d’ora dopo, ritornano sui loro passi. Un’operazione compiuta tre volte… E l’orologio segna le 12.
Alle 13 appare padre Celestino: «In fretta, si va!». Scarichiamo i bagagli. Il sole dardeggia.
Ai piedi di un aereo-cargo Antonov, un soldato mi ordina: «Apra la valigia». Tremo. Sull’asfalto ribollente compaiono tre salami, una bottiglia di grappa e due pezzi di formaggio. Il militare osserva tutto e solleva un sacchetto di plastica.
– Che cos’è questo?
– Sono grani per confezionare corone del rosario.
– Ah!… Partite pure.
Ma siamo nuovamente bloccati, perché il numero dei passeggeri è diverso da quello notificato: cinque, invece di quattro. L’aereo può trasportare fino a 20 tonnellate, che sono state superate da una persona in più. «Uno deve scendere!» intima secco il comandante dell’aeroporto.
Padre Celestino si apparta con il graduato. Sostano 20 minuti sotto il sole furente, gesticolando, talora separandosi per poi riavvicinarsi… E si va! Nell’Antonov non pressurizzato padre Simon, congolese, mi grida all’orecchio: «Ti è andata molto bene! Io ho aspettato due settimane».
In aereo chi si sistema a cavalcioni di una balestra di Land Rover, chi su uno scatolone di pelati, chi su un sacco di zucchero… Noto anche un borsone di zip e bottoni. E, soprattutto, le medicine per l’ospedale della diocesi di Wamba e dei missionari della Consolata.
DOVE LE BICI SONO CAMION
Isiro, il mattino seguente, casa dei missionari della Consolata. Con la barba di cinque giorni, vorrei radermi. Ma in camera non trovo lo specchio.
«Per favore, c’è uno specchio?» chiedo a padre Rinaldo Do, il superiore. «Scusa, ci siamo dimenticati di importarlo…». Allora rivedo l’Antonov con il borsone di zip. «Qui, se perdi un bottone, o stai senza o te lo importi tu stesso… noleggiando un aereo».
Per non parlare di benzina. I missionari talora riescono ad acquistae qualche fusto dai militari ugandesi, per poi «centellinarla».
Anche monsieur Joseph ha comprato due bidoni di carburante e ha aperto «un distributore» in città. È uno sgabello con, sopra, una tanica mezza piena e una bottiglia vuota a lato come «contatore»: si fermano una-due moto per rifoirsi di tre litri. Sul lato opposto funziona un altro «distributore», gestito da un bambino: vende al dettaglio petrolio per illuminazione domestica, misurandolo con una scatoletta da sardine.
Chi si accaparra qualche fusto di carburante può diventare un commerciante a livello nazionale: lo vende ai rifornitori, che percorrono anche 700 chilometri in bicicletta con quattro taniche da 20 litri. È l’unico mezzo di trasporto anche per capre e maiali.
Un litro di benzina costa 3 milioni di nouveaux zaires (moneta locale), l’equivalente di un dollaro Usa. Questo prezzo risale al maggio scorso; un mese prima la benzina valeva 2.500.000 nouveaux zaires. Il che significa che l’inflazione è alle stelle, con sacchi e sacchi di carta-moneta. «Questa cassa – indica Dario Gramuglia, tecnico nell’ospedale di Neisu – è zeppa di grosse banconote, per un valore complessivo di 15 dollari». La cassa misura 56 centimetri di larghezza e lunghezza e 72 di altezza.
Per 3 milioni di nouveaux zaires si vende una gallina e si acquistano tre pacchetti di sigarette o una birra. Sigarette e birra, made in Rwanda, non è necessario importarle. Ma che lusso con salari da 5 dollari al mese!
«dagli atri muscosi…»
«Per pasqua mi piacerebbe essere a Pawa» confida padre Giano, consigliere generale dei missionari della Consolata, che ha lavorato in quella missione tre anni. «È già programmato» risponde padre Rinaldo. Mi accodo anch’io. Un safari di 52 chilometri in Land Rover, su una strada internazionale, della durata di tre ore. «Perché in Congo non esistono più strade, degne di tale nome».
Lasciamo, dunque, Isiro. La città conserva ancora qualche brandello d’asfalto, ma non c’è luce né acqua. Eppure, fino agli anni ’80, era vivace e festosa, con donne elegantissime, musiche e danze. Vi trovavi di tutto: dal whisky al frac per il gala raffinato. Anche se i voli non erano regolari, l’aeroporto era un viavai di commercianti. Ma il nefasto regime di Mobutu, le angherie dei funzionari pubblici, la guerra di Kabila e l’occupazione dell’Uganda… «Che tristezza, l’altro giorno, quell’aeroporto così sporco e polveroso!» conclude padre Giano.
«Dagli atri muscosi» e «dai fori cadenti» di Isiro emerge la banca, chiusa a tempo indeterminato con una catena arrugginita. Anche i missionari vi depositavano il denaro. Ma, invece di riscuotere qualche interesse, si vedevano continuamente assottigliare la somma. Tutto normale secondo il direttore della banca, che non lesinava il sarcasmo: «Dovreste esserci grati, perché custodiamo con cura i vostri capitali».
Sulla facciata del palazzo di giustizia campeggia la scritta dura lex sed lex. E padre Rinaldo commenta: «È stata proprio la mancata applicazione delle leggi a condurre il Congo-Zaire allo sfacelo».
All’uscita da Isiro, uno stop per il controllo da parte dei soldati ugandesi. Solo una formalità, per fortuna. E riprendiamo il safari.
Il territorio vanta notevoli potenzialità agricole: riso, soia, granoturco, arachidi, fagioli, frutta, come pure cotone e caffè. Negli anni ’60 il Congo produceva 60 mila tonnellate di caffè. Oggi la produzione non supera le 2 mila tonnellate. Sul mercato di Isiro il caffè (già decorticato) viene svenduto agli ugandesi a 800 lire al chilo. «È niente. Però, se protesti, non ti danno neppure questo “niente”»: è lo sfogo amaro dell’unico produttore della zona.
«PREGHIAMO PER LA PACE»
«Ferma, ferma!» grida con affanno padre Rinaldo. A 40 metri, tre soldati «esigono» un passaggio. Sono congolesi alle dipendenze di ugandesi. Hanno camminato sotto il sole molte ore e la loro meta è ancora distante.
Padre Rinaldo, dopo essersi presentato come missionario, li intrattiene con qualche domanda.
– Come stanno i vostri camerati?
– Quali? Ugandesi o congolesi?
– Entrambi.
– Il capitano ugandese non ci paga… Però gli ugandesi sono migliori dei rwandesi, che uccidono la gente, ne estraggono il cervello e lo mangiano mescolato ad erbe bollite.
I rwandesi in Congo sono armati fino ai denti. Nel 1999 il Rwanda investì in armi 141 milioni di dollari. E il Fondo monetario internazionale (così severo sugli sprechi nel sud del mondo) approvò un prestito al regime di Kigali di 33 milioni di dollari…
Sto osservando un soldato dall’aspetto giovanissimo.
– Da quanto tempo fai il militare?
– Da due mesi.
– Perché, invece di fare la guerra, non vai a scuola?
– In Congo non ci sono scuole. E poi, se ci fossero, dovrei solo zappare il campo dei maestri.
– Quanti anni hai?
– Sedici.
La risposta è troppo pronta per essere sincera. Che il ragazzo non abbia più di 12 anni traspare e dal viso e dalla statura. Certamente lo hanno imbeccato: «Ricordati che tu hai 16 anni». Tale infatti è l’età minima per l’arruolamento volontario di minorenni. L’hanno stabilito, il 21 gennaio scorso, le Nazioni Unite con un articolo sottoscritto da 70 nazioni. E ciò per smantellare l’esercito mondiale dei 300 mila bambini-soldato.
Prima di congedarci dal terzetto, padre Rinaldo afferma: «Amici, anche voi soffrite la guerra. Allora preghiamo tutti insieme per la pace».
A due chilometri da Pawa, padre Giano viene riconosciuto da due catechisti: e dire che vi mancava da 17 anni. Deve procedere a piedi, con alle spalle un corteo che l’osanna.
La missione è retta da padre Tarcisio Crestani. Gli consegno «il sacchetto dei grani del rosario», che ha «protetto» grappa e salami.
– Tarcisio, quante corone hai fatto?
– 26 mila in 26 anni di missione.
– Perché non insegni l’arte ad altri?
– Ho tentato varie volte. Ma la gente vuole solo i rosari delle mie mani. Li considera «più benedetti».
Padre Tarcisio è entusiasta del suo lavoro. E precisa: «Ci sono due missioni ad gentes: una dottrinale e una esperienziale. Credo nella prima e cerco di vivere la seconda. Ad gentes: stare con la gente ascoltando e camminando con tutti, magari anche a piedi, specie in tempo di guerra».
Una guerra economica
Ritornato ad Isiro, incontro nuovamente padre Simon Tshiani.
Padre Simon, quale congolese, come giudichi la guerra nel tuo paese?
– È una guerra soprattutto economica. Qui siamo sotto il controllo degli ugandesi: a loro non interessano i nostri problemi politici; essi mirano solo ad impadronirsi del nostro oro.
Ci sono già stati tre «cessate il fuoco». Ma la guerra continua. Perché?
– Tutte le forze in campo dicono di volere la pace, però alle loro condizioni: cioè esigono potere sul Congo, o economico o politico.
E il Congo sarà diviso?
– Questa è la grave minaccia che incombe. Però tutti i congolesi sono nettamente contrari.
In un paese vasto come il Congo, il federalismo può essere la soluzione dei problemi?
– Un governo centrale e unitario, con autonomie regionali, può essere una soluzione. Lo si è detto anche nella Conferenza nazionale, al tempo di Mobutu, per scrivere la nuova costituzione. Poi, nel 1996, le cose sono precipitate con la guerra di Kabila.
Il governo di Kabila è in grado di riprendere in mano il paese e di avere l’appoggio di tutti i congolesi?
– No, perché Kabila non è stato eletto dal popolo e perché è troppo legato alle città di Lubumbashi (con le sue ricchezze) e Kinshasa.
Allora come uscire dall’anarchia?
– Le Nazioni Unite impongano il ritiro delle forze straniere che hanno invaso il paese. Un volta sgombrato il campo, i congolesi devono prendere in mano le sorti del paese rilanciando la Conferenza nazionale con la partecipazione di tutte le forze politiche.
Come missionario della Consolata, ci tengo a dire anche questo: nonostante la guerra, noi continuiamo a lavorare. E «meritiamo» la solidarietà della Caritas italiana, di Missio e di tante persone generose…
Si fa avanti padre Rinaldo e annuncia che venerdì ci sarà l’aereo per il ritorno in Italia.
Ma venerdì non parto e neppure sabato. L’aereo sarebbe arrivato certissimamente domenica, alle ore 7 in punto. Passano le 7, le 8, le 9. A mezzogiorno il simpatico Rinaldo sorride: «Se in cielo comparirà un aereo, partirai». Compare alle ore 18.30.
Mi precipito all’aeroporto, carico la valigia nel piccolo bimotore e siedo. Poi… ritorno nella camera senza specchio di Isiro. «Signori, sono le 19.04! Troppo tardi per il decollo»: sono le parole del comandante.
Troppo tardi per quattro minuti.

Il giorno seguente, in volo verso Roma, ripenso all’aeroporto di Isiro: su una parete spicca una scatola vuota. È un orologio. Ma le lancette si sono arrestate, perché… il tempo si è fermato; poi sono addirittura scomparse, quasi a dire: in Congo il tempo non esiste più.
Intanto, sulla fertile terra rossa di Isiro e dintorni, le donne avanzano con pesanti carichi in testa.

La seconda guerra

u 1996, ottobre. I soldati dell’Alleanza delle forze democratiche di Kabila, sostenute da Rwanda, Burundi, Uganda, Stati Uniti e vari mercenari, iniziano da Uvira la conquista militare dello Zaire di Mobutu.

u 1997, 17 maggio. Le truppe dell’Alleanza occupano la capitale Kinshasa. Kabila si autoproclama capo dello stato. Lo Zaire diventa Repubblica democratica del Congo. Però sono sospesi i partiti. Il 7 settembre Mobutu muore in Marocco: lascia ai familiari 6 miliardi di dollari. Ha depredato il paese per 32 anni.

u 1998, 27 luglio. Kabila, dopo aver ringraziato Uganda e Rwanda, li invita a lasciare il paese. Ma gli ex alleati dichiarano la seconda guerra in Congo (la prima fu contro Mobutu). Kabila resiste, sostenuto da Zimbabwe, Angola e Namibia. I paesi stranieri, presenti in Congo, mirano alle risorse agricole e minerarie del paese.

u 1999, luglio. A Lusaka (Zambia) le parti coinvolte nel conflitto in Congo firmano un accordo di pace che prevede: ritiro delle truppe straniere dal paese, rispetto della sua integrità nazionale, instaurazione della democrazia. Il «cessate il fuoco» non regge. Intanto gli Stati Uniti simpatizzano per l’Uganda e il Rwanda (che però si combattono), mentre la Francia ammicca a Kabila. Gruppi di ribelli congolesi fanno sapere che se, il paese verrà diviso (come si dice), sceglieranno la strada della guerriglia.

u 2000, 14 aprile. Ancora un «cessate il fuoco», firmato a Kampala (Uganda) da tutti i contendenti. Però il 5 maggio, alla periferia di Kisangani, soldati rwandesi e ugandesi si danno battaglia. I combattimenti proseguono nelle settimane successive; viene colpita anche la cattedrale: mille morti, migliaia e migliaia di feriti e numerosi abitanti senza tetto in balia della fame e delle epidemie.
Il 17 giugno il Consiglio di sicurezza dell’Onu intima l’ennesimo «stop» ai due belligeranti e il ritiro di tutte le forze. Ma l’anarchia politico-militare continua.

>b>Gli attori della tragedia

I n Congo la seconda guerra, scoppiata nell’agosto 1998 e tuttora in corso, ha causato numerose vittime. Le cifre sono assai confuse: si va da un minimo di 100.000 morti ad un massimo di 1.700.000. È uno scontro moderno e primitivo ad un tempo: con elicotteri, armi automatiche e aerei da bombardamento, ma anche con rozzi fucili e machete, mentre i soldati (talora ragazzi) sbucano dalla foresta. È pure un conflitto interafricano e mondiale.

p L’esercito di Kabila
conta 70 mila uomini, ma poco addestrati e mal pagati; però è sostenuto dalle seguenti nazioni:
– Zimbabwe (7-11mila soldati); la ricompensa è l’accesso alle miniere di diamanti;
– Namibia, che (sull’«esempio dello Zimbabwe») ha inviato 2 mila uomini;
– Angola: è con Kabila per debellare i guerriglieri dell’Unita (un tempo protetti da Mobutu), come pure per rendere più operativa la propria compagnia petrolifera «Sonangol-Congo»;
– Sudan: offre a Kabila aerei militari per bombardare i ribelli congolesi nel nord-est; ma il governo di Khartum smentisce.

p Il fronte contro Kabila
è più contradittorio; vi militano:
– tre gruppi di ribelli congolesi (10 mila soldati di Bemba, 10-15 mila di Ilunga e 4 mila di Wamba); Bemba, Ilunga e Wamba sono «signori della guerra»;
– i guerrieri congolesi mayi-mayi: operano nel Kivu e, protetti da un’acqua magica, si ritengono invulnerabili;
– le milizie degli hutu (diverse migliaia): già responsabili di massacri di tutsi in Rwanda nel 1994, oggi hanno in mano le miniere di diamanti di Mbuji Mayi;
– 9 mila soldati ugandesi: affermano di «essere costretti» a difendere le frontiere del loro paese; in realtà sono in Congo per accaparrarsi i suoi beni; appoggiano Wamba e Bemba;
– 10 mila soldati rwandesi: anch’essi «devono» proteggere il loro paese dai fuggiaschi hutu che hanno trovato rifugio in Congo; ai rwandesi si ascrivono saccheggi di chiese e atti di cannibalismo; appoggiano Ilunga.
Lo stato di anarchia in Congo raggiunge l’apice con gli ugandesi e i rwandesi che, mentre combattono Kabila, sono pure ai ferri corti fra loro. Di qui gli scontri a Kisangani, città strategica per lo smercio di preziosi.

I n questo tragico caos, l’8 maggio scorso la Segreteria di stato del Vaticano ha inoltrato alle Nazioni Unite, all’Organizzazione per l’Unità africana, all’Unione europea, alla Corte internazionale di giustizia… un documento, redatto a Roma da otto vescovi congolesi.
Il documento denuncia l’aggressione di truppe straniere, ritenuta «una nuova colonizzazione vergognosa»; sollecita l’intervento serio ed efficace della comunità internazionale, ma non con la vendita di armi. Al riguardo, sotto accusa sono Francia, Italia, Gran Bretagna, Belgio, Stati Uniti e Israele.
I vescovi, infine, stigmatizzano il tentativo di imbrigliare la chiesa «nelle ideologie delle diverse fazioni in guerra e di impedire ad alcuni pastori di esercitare il loro ministero». Il riferimento è a monsignor Emanuel Kataliko, vescovo di Bukavu, al quale i ribelli di Ilunga impediscono di rientrare nella sua diocesi.

Francesco Beardi




COLOMBIA – La pace sotto il tallone del narcotraffico

I colloqui tra il governo di Pastrana e le Farc di Marulanda stentano a trovare sbocchi concreti. Le truppe paramilitari (circa 6 mila uomini, responsabili di 3/4 degli omicidi politici della Colombia) proseguono la loro caccia all’uomo.
I «gringos» (gli Stati Uniti), per imporre la loro «pace», continuano a inviare armi e consulenti militari. Intanto il business (enorme) del narcotraffico condiziona
pesantemente ogni contendente. In questa situazione di confusione e incertezza, la guerra «sucia» (sporca) non si ferma.

Bogotà. L’hanno soprannominata «Farclandia», terra delle Farc (Forze armate rivoluzionarie colombiane). Si estende per 42 mila chilometri quadrati, tanto quanto la Svizzera o due volte El Salvador. Comprende 5 municipi, il più importante (San Vicente del Caguán) nel Caquetá, i rimanenti 4 (La Macarena, Vistahermosa, Mesetas e Uribe) nel Meta.
Juan José Olivarez Roja e Juan Domingo Varela sono missionari della Consolata argentini ed entrambi vivono nel territorio smilitarizzato, denominato «zona di distensione». Di passaggio nella capitale, i due padri parlano della nuova situazione. Quanto José è calmo, riflessivo, diplomatico, tanto Domingo è irruento e sanguigno (ha avuto problemi sia con la guerriglia che con i militari).
UNO STATO PARALLELO
Andrés Pastrana si è battuto per la creazione della «zona di distensione» come gesto concreto di buona volontà per iniziare i dialoghi per una soluzione pacifica del conflitto.
Il presidente ha trattato direttamente con Manuel Marulanda Vélez noto come «Tirofijo», vecchio leader delle Farc. Ma il ritiro dell’esercito colombiano da una zona tanto ampia non ha convinto tutti. Si parla di uno stato parallelo…
«Se tu, come straniero – spiega padre José -, vuoi entrare (con un minimo di sicurezza) nella zona di distensione devi chiedere il permesso alle Farc. A te non sembra che viviamo in uno stato parallelo? Personalmente credo proprio di sì».
«Le Farc hanno subìto una profonda trasformazione. Io non riesco a capire se c’è ancora una colonna vertebrale. Il vecchio Marulanda è tuttora la bandiera, ma ho la sensazione che ci siano fronti e relativi comandanti con idee diverse da quelle del leader. In tutti i casi, secondo me, c’è stata una involuzione ideologica. Contaminata dal narcotraffico, la guerriglia mi pare che lotti soltanto per conquistare il potere».
«Per ora più che un dialogo ci sono stati dei monologhi, con ogni soggetto impegnato ad ascoltare se stesso più che le ragioni della controparte».
«Pastrana – si intromette padre Domingo – ha portato la bandiera della pace più per calcolo politico che per convinzione. Per parte loro, le Farc stanno approfittando della zona di distensione per rinforzarsi militarmente, politicamente ed economicamente».
«Io invece – interviene José – non azzardo previsioni. Ci sono troppe variabili in gioco. E il cammino si sta facendo giorno per giorno».
UNA DIVISA PER FUGGIRE LA MISERIA
In un paese nel quale la filosofia maschilista (il «machismo») è ancora molto diffusa, si dice che nelle Farc le donne siano dal 25 al 35% degli effettivi.
I due missionari confermano il fenomeno. «Non solo le donne sono numerose, ma pare siano le più valorose al momento dell’attacco. Probabilmente aiutate anche dalla marijuana» spiega padre Domingo.
Secondo il settimanale Semana, nelle fila della guerriglia sono sempre di più i ragazzi di 13-14 anni. «È vero – risponde José -. Ma su questo punto occorre fare qualche distinguo. In queste società contadine essere bambini non ha lo stesso significato che in Occidente. Qui i bambini cominciano ad aiutare i genitori già a 5,6,7 anni. Quando arrivano a 13-14 anni sono ormai considerati degli uomini. Con ciò non sostengo che sia giusto o normale, ma è così».
«Il problema più serio – prosegue il missionario – è quello dell’attrazione che la figura del guerrigliero esercita sui ragazzi. Essi vedono che un guerrigliero ha autorità e viene rispettato dalla gente. Molti quindi scelgono di arruolarsi. La loro è una fuga dalla miseria quotidiana».
«COCALEROS» PER FORZA
Come in tutti i paesi latinoamericani, anche in Colombia il problema agricolo ha due aspetti: quello legato al latifondo e quello legato ai prezzi dei prodotti.
Per il primo soltanto delle effettive riforme agrarie potrebbero dare risultati. Il problema dei prezzi dipende invece dalle politiche imposte ai paesi del Sud. Si tratta di politiche neoliberiste che obbligano ad aprire i mercati nazionali a beneficio esclusivo delle grandi multinazionali agroalimentari. Queste possono tollerare le fluttuazioni dei prezzi (mais, caffè, ecc.), cosa che non possono permettersi i piccoli contadini. Il risultato è di spingere i campesinos verso le coltivazioni di canapa indiana (marijuana), papaveri da oppio e, soprattutto, coca, i cui mercati sono più stabili e redditizi.
«L’80 per cento dei contadini della nostra zona vive con i proventi della coca. In genere, sono buone persone, costrette a diventare cocaleros perché non hanno alternativa. La regione è abbandonata dallo stato, che non finanzia alcuna iniziativa economica, né costruisce le infrastrutture. Se un contadino vuole portare al mercato i propri prodotti (mais, yucca, banane, caffè), non ci sono le strade. E anche quando riesce ad arrivare ai mercati, i prezzi di vendita sono troppo bassi».
LA «VACUNA», L’IMPOSTA RIVOLUZIONARIA
Sulla ipotesi che la guerriglia si sia trasformata in narcoguerriglia i pareri sono molto discordanti. Gli statunitensi ne sono sicuri, mentre sono più cauti gli altri analisti. Secondo costoro, la guerriglia non dispone di una rete propria di import-export, né gestisce laboratori di trasformazione o di un sistema di riciclaggio del denaro.
Di certo c’è che, sui territori controllati dalle Farc, vige l’obbligo della vacuna («vaccinazione»), una sorta di imposta rivoluzionaria. «Gli allevatori, i produttori di legname, tutti la debbono pagare -spiega padre Domingo -. La chiesa, almeno fino ad ora, ne è stata esentata, perché ad essa viene riconosciuto un ruolo sociale».
«Ma vedrai – interviene José – che tra poco chiederà denaro anche a noi. Comunque, il grosso delle loro entrate proviene dalla coca. Io ho partecipato a riunioni delle Farc nelle quali i comandanti ordinavano alla comunità di vendere a loro tutta la coca perché avevano un compratore. Insomma, in un modo o nell’altro, la guerriglia ha a che vedere con il narcotraffico».
LE STRAGI DEI PARAMILITARI
Nel 1999 la Colombia è stato il terzo destinatario (dopo Israele ed Egitto) di aiuti militari provenienti da Washington.
«Gli Stati Uniti – spiega José – soffrono molto le conseguenze della diffusione della droga. Aiutando l’esercito colombiano essi sperano di ridurre la produzione di droga e, al tempo stesso, di eliminare la guerriglia».
Da più parti (pur sottovoce) si parla di un possibile intervento diretto delle truppe statunitensi. Per ora gli americani sarebbero stati frenati dal timore di creare un nuovo Vietnam.
«No – interviene padre Domingo -, un’invasione non ci sarà mai. Credo invece che ci saranno sempre più paramilitari. Armare questi ultimi è per gli Stati Uniti il modo più economico e meno pericoloso per intervenire».
Presenti in 350 dei 1.070 comuni colombiani, i paramilitari sono protetti dalle frange più oltranziste delle forze armate. Possono contare su una forza di 5-6 mila uomini, che concentrano la loro attenzione sui simpatizzanti (veri e spesso presunti) della guerriglia.
Negli ultimi anni la Colombia ha visto, in media, 30 mila assassinii l’anno. E la frontiera tra violenza comune e quella di origine politica è sempre più vaga. Tuttavia, viene calcolato che il tasso di omicidi politici si situi tra il 7 e il 10% del totale. Nel 1997, la banca dati del «Centro di ricerca e di educazione popolare» (Cinep, gestito dai gesuiti) e di «Giustizia e pace» indicava che i paramilitari erano di gran lunga i maggiori responsabili di omicidi politici: l’84% contro il 14% per la guerriglia e il 2% per l’esercito.
Sui paramilitari (e parte degli ambienti militari) pesa, inoltre, la responsabilità di aver fatto fallire, 15 anni fa, il primo importante progetto di pace. Il 28 maggio 1984 fu firmato un cessate il fuoco tra il governo di Belisario Betancur e le Farc. Venne fissato un periodo di un anno per permettere al movimento armato di organizzarsi politicamente. Nel novembre 1985 nacque la coalizione di sinistra denominata Union patriotica (Unione patriottica, Up), che partecipò con successo alle elezioni del 1986, guadagnando 350 consiglieri municipali, 23 deputati e 6 senatori. Ma la festa durò poco. Uno dopo l’altro, con una precisione e una metodicità diabolica, furono ammazzati migliaia di membri del partito.
IL PERICOLO MAGGIORE: LA NARCOMENTALITÀ
I gruppi paramilitari sono confederati sotto la sigla di «Autodifese unite della Colombia» (Auc), capeggiate da Carlos Castaño. Sono finanziati da imprenditori e latifondisti e, da qualche anno, anche dai proventi del narcotraffico, che ormai rappresenta la principale fonte di reddito per tutti i contendenti (vedi Cambio, «Las finanzas de los paras», 15 maggio 2000).
«Con il narcotraffico – conclude amaro padre José – la crisi sociale, la perdita di valori si è accentuata. Oggi domina la narcomentalità: prima di tutto il denaro facile, il resto importa poco».
(Fine – Le precedenti 3 puntate sono state pubblicate in marzo, aprile e giugno.)

I DATI (CONTROVERSI)
DELLA NARCOECONOMIA

Chi guadagna veramente dal business della droga?
Certamente non i campesinos colombiani. E perché
dimenticare le gravi responsabilità delle industrie
e delle banche statunitensi?

Secondo statistiche statunitensi, nel biennio 1997-’98 le coltivazioni di coca in Colombia sono aumentate del 28% (contro una riduzione del 26% in Perù e del 17% in Bolivia). Il 75-80% dell’offerta di coca a livello mondiale proviene dalla Colombia. Nel 1998 Bogotà ha esportato prodotti commerciali (come caffè, banane, petrolio, carbone) per 11 miliardi di dollari, mentre le esportazioni illegali di cocaina avrebbero fruttato 16 miliardi di dollari.
Per contro, secondo uno studio recente (L’economia colombiana dopo 25 anni di narcotraffico, Bogotà 1999), è vero che nel paese latinoamericano la produzione annuale di cocaina è aumentata (passando da 300 a 520 tonnellate), ma è anche vero che la gran parte degli utili rimane all’estero. Secondo la ricerca, il denaro della narcoeconomia oggi partecipa alla formazione del Prodotto interno lordo (Pil) della Colombia con una percentuale pari al 2% (dato sottostimato?) contro una del 17% a metà degli anni Ottanta. A parte il balletto delle cifre, nel business della droga ci sono pochi innocenti (e molti ipocriti). È risaputo, ad esempio, che il 90% delle sostanze chimiche utilizzate per la lavorazione della droga provengono dalle industrie statunitensi (si tratta di milioni di litri di prodotti chimici all’anno) e che le industrie di armamenti degli Usa sono i principali fornitori della Colombia. Inoltre, secondo l’«Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico» (Ocse), la metà dei proventi del traffico mondiale di droga (centinaia di milioni di dollari) transita per il sistema finanziario degli Stati Uniti.
Insomma, la guerra alla droga da parte degli Stati Uniti ha molti, troppi lati oscuri, rispetto ai quali sarebbe giusto mostrare qualche attenzione in più. A meno che gli Usa non debbano essere considerati attori super partes, a cui tutto è permesso.
Pa.Mo.

L’ambiguo ruolo degli Stati Uniti

«FARCLANDIA»
DIVENTERÀ UN NUOVO VIETNAM?

Mentre proseguono i colloqui tra governo e Farc
(e, a Cuba, tra governo e Eln), anche i paramilitari si dicono disponibili a trattare.

21 giugno 1998:
arriva Pastrana
Dopo 12 anni ininterrotti di governo del Partito liberale, alla presidenza della Repubblica viene eletto Andrés Pastrana, conservatore ed ex sindaco di Bogotà.

7 novembre 1998:
nasce «Farclandia»
L’esercito colombiano si ritira da 5 municipi: San Vicente del Caguán (Caquetá), La Macarena, Vistahermosa, Mesetas e Uribe (Meta). Una zona di 42.000 chilometri quadrati, grande come la Svizzera o due volte El Salvador. Nasce la zona di despeje, subito soprannominata «Farclandia», ovvero «terra delle Farc».

7 gennaio 1999: Pastrana e Marulanda
A San Vicente del Caguán (Caquetá) si incontrano il presidente Pastrana e Manuel Marulanda detto «Tirofijo», leader delle Farc.

23 settembre 1999: gli aiuti di Washington
Il presidente Pastrana rientra da Washington con in tasca la promessa di ricevere 1,6 miliardi di dollari in tre anni per affrontare il narcotraffico. In realtà, gli aiuti servono soprattutto per sconfiggere la guerriglia.

24 ottobre 1999:
«No mas» (Basta)
È la giornata della manifestazione nazionale per la pace. Scendono in piazza milioni di colombiani per chiedere la pace.

febbraio 2000: e se l’Europa…
Una delegazione colombiana (composta da membri del governo, rappresentanti del settore privato, dal commissario per la pace Victor G. Ricardo e dal comandante Raul Reyes, numero 2 delle Farc) compie un giro di studio e conoscenza per le capitali europee, Vaticano compreso. La speranza è di trovare nuovi interlocutori che riducano l’influenza nordamericana in Colombia.

1 marzo 2000: Carlos Castaño in Tv
Carlos Castaño, leader delle «Autodifese unite della Colombia» (Auc), per la prima volta mostra il proprio volto in un’intervista televisiva e si dice disponibile a trattare con le Farc e l’Eln.

28-29 maggio 2000:
la conferenza delle Farc
Nella foresta le Farc organizzano un convegno internazionale sulla droga.

30 luglio 2000: referendum
Il governo di Pastrana chiama i colombiani a votare per una radicale riforma parlamentare.
Pa.Mo.

A RISCHIO DELLA VITA
Come in ogni parte del mondo, ci sono magistrati che servono la giustizia
e altri che servono il potere.
In Colombia, chi rientra nella prima categoria non è sicuro di arrivare alla pensione.
Per questo, una Ong tedesca…

«Sono molti i membri del sistema giudiziario colombiano che chiedono aiuto e, a volte, i tempi per attivarsi sono veramente ristrettissimi: 24 ore per fare le valigie o per ritrovarsi con una pallottola in testa o una bomba sotto l’auto. L’ultimo caso è quello di una giudice che ha sospeso un gruppo di generali per evidenti implicazioni in casi di violenza e paramilitarismo. La donna è stata immediatamente accusata di connivenza con la guerriglia. Hanno dovuto nasconderla a Bogotà e, in poche ore, farla uscire dal paese cercandole asilo politico all’estero».
Stella lavora con un’organizzazione non governativa di Bogotà che offre aiuto ai giudici e alle famiglie di giudici vittime della violenza. L’Ong si chiama «Fondo tedesco di solidarietà» (Fondo aleman de solidaridad, Fasol) ed opera dal 1989.
In principio l’associazione era soprattutto assistenzialista (accompagnamento delle vedove, reinserimento delle famiglie, ecc). Poi sono stati attivati altri programmi: recupero psicologico delle persone, borse di studio per gli orfani, credito per aprire imprese familiari. Infine, ci sono i programmi di emergenza per i giudici minacciati che debbono abbandonare il paese. Attualmente Fasol sta seguendo circa 250 famiglie.
«Tante, vero? – interviene Stella -. In Colombia, il potere giudiziario non può essere libero e autonomo. Anche perché tutti i contendenti applicano la pratica sporca delle “infiltrazioni”: militari infiltrati nelle organizzazioni civili, paramilitari infiltrati nella guerriglia, guerriglieri infiltrati nell’esercito. A questo gioco non si sottrae la magistratura. Ecco perché per un magistrato è così pericoloso servire la giustizia».
Nel direttivo dell’associazione sono presenti membri laici e clericali. Tra tutti, va segnalato il «Centro di ricerca ed educazione popolare» (Centro de investigacion y educacion popular, Cinep), una meritoria associazione fondata dai gesuiti, la cui attività è da sempre nel mirino delle forze armate e dei gruppi paramilitari.
Per parte sua, Stella è arrivata a Fasol dopo altre esperienze «forti». Prima 10 anni di lavoro tra i gamines (il corrispettivo colombiano dei meniños de rua del Brasile), poi la perdita violenta di due fratelli (uno assassinato, l’altro «scomparso») e il trasferimento a Riobamba, in Ecuador, a lavorare con i missionari della Consolata.
Per chi non conosce la gravità della situazione colombiana, è sufficiente ascoltare le parole della volontaria di Fasol: «Ho un’amica – racconta Stella – che vive nella regione di Antiochia, dove è consuetudine formare famiglie molto numerose. In casa sua sono 18 fratelli. Ebbene, dei 9 che hanno studiato diritto 6 sono stati assassinati».
Pa.Mo.

Paolo Moiola




ETIOPIA – In questo paese benedetto da Dio

Non mancano
nella storia i filosofi
che cercano l’elemento primo dell’universo.
Aria, fuoco, acqua, terra?… L’articolista,
partendo da questi elementi comuni,
offre altre considerazioni.

TERRA
«Riempite la terra, soggiogatela e dominate…» (Gn 1, 28).
In questo paese «da te benedetto», hai un bel coraggio, caro nostro buon Dio, a chiedere alla gente di soggiogare la terra!
Sono loro, credo, ad essere sottomessi all’acqua, al fuoco e al suolo che calpestano. Passano la giornata chinati, zappando, pulendo sterpaglie, preparando la semina. Sono gente che aspetta la pioggia, perché questa irrighi il suolo e faccia crescere le messi.
Aspettano a lungo. Troppe volte, perché non ha piovuto, le sementi si sono perse. Il sudore, versato per il lavoro, non è stato sufficiente a far crescere qualcosa. Tutto è stato inutile, fatica sprecata!
I soldi pagati al padrone del terreno, i semi acquistati con tanto sacrificio sono andati persi per mancanza d’acqua.
Cosa mangeranno, caro buon Dio?
È rimasto niente, la terra è riarsa. Avevano speranza di raccogliere i frutti, ma anche questa è morta per mancanza di pioggia! Hanno i piedi sporchi di polvere nera:
perché non ti fai vivo, o Cristo,
e li lavi come facesti un giorno?
Toa ancora a farlo!
Tutti i loro sforzi sono stati spesi su terra di altri, pagando per l’uso.
Aspettavano un raccolto abbondante, sufficiente per tutti… ma non rimane nulla, neanche la terra!
Essendo affittata, è pronta per altri, loro non potranno pagarla di nuovo.
Questa terra ingrata, dopo avere accettato il lavoro delle loro mani, non ha dato frutto: ha «rubato» ai poveri, ha distrutto la speranza!
Hai un bel coraggio, caro nostro buon Dio, a dire alla gente di dominare la terra!
Io vedo, invece, che la terra li mangia, inghiottisce avida i morti di fame. Li copre di polvere, li dimentica presto perché fanno paura.
Questa terra crudele, sporca, insensibile… i bambini dei morti, impudicamente li copre di polvere nera.
I piccoli, o Dio, che tu hai benedetto, proclamato intoccabili.
Come osa la terra, la terra esserti infedele? Nelle lunghe notti, per un po’ di tempo li mantiene caldi, ma quando il fuoco si spegne, li abbandona al freddo pungente e prolungato. Nella terra sporca ci sono parassiti che invadono avidi i loro corpi insonni, rendendoli pidocchiosi e indecenti.
Al mattino si svegliano con i primi rumori; accorrono curiosi se sentono estranei, visite alle quali bisogna sorridere: un sorriso triste dai volti sporchi.
In questo paese «benedetto da Dio», la terra è avara, prende e non restituisce. Produce scorpioni, ragni velenosi e viscide vipere che vi strisciano sopra.
Ma a che servono queste creature per la povera gente?
I preti benedicono campi e sementi, pretendono grazie per le loro suppliche. Implorano Iddio che venga in aiuto con pioggia abbondante e pane per tutti.
Dio non ascolta! E qui, sulla terra, si sente soltanto il silenzio.
Ma questo Dio è soltanto dalla parte dei ricchi, i quali hanno tutto e non mancano di niente?
Il Dio dei poveri è un povero dio! Rimane soltanto la terra, avara e riarsa, che accoglie i cadaveri freddi, tentando di ridare il calore
rifiutato prima, quando aveva
negato i frutti promessi, quando – crudele – aveva spento la speranza.
Dove sei, o Dio, perché taci ora?
Fuoco
È tanto utile il fuoco che purifica l’oro e trasforma i cibi rendendoli gustosi. Il fuoco lava lo sporco con mani di fiamma, con le sue lingue ardenti. Ma l’oro è dei ricchi e il fuoco pure!
Per avere il fuoco ci vuole la legna, gas o carburanti, o la forza elettrica… ma ai poveri è negato l’accesso a questi beni, ai poveri rimane lo sterco di bue.
In questo paese «benedetto da Dio», lodato dai santi dell’Antico Testamento, i poveri raccolgono lo sterco ancora fresco e, come esperti vasai, lo trasformano in zolle. Essiccato al sole, sarà pronto per l’uso; bruciando in cucina, farà bollire l’acqua e scalderà i corpi stanchi quando andranno a riposo. Si vende al mercato, si baratta per del cibo. Lavorando lo strame, si guadagna da vivere; che dico «da vivere»? Si tira solo a campare! Permette agli umili di tirare avanti per un altro giorno.
In questo paese «benedetto da Dio», ci sono le donne…
ma perché soltanto donne?
Esse raccolgono legna, caricando sulle spalle tanto quanto pesano. Curve verso il mondo che le tiene in piedi, guardano per terra, sempre questa terra! Camminano svelte, quasi senza sosta, per molti,
lunghi, infiniti chilometri.
Ruminano in mente la fiacca speranza di vendere bene, cercando di essere le prime sul posto.
Non è generoso il compratore avaro. Il poco che le donne prendono non è neanche loro. Andrà in mano a genitori avidi, al marito o ai figli affamati:
loro ne hanno bisogno.
Per lei, la madre, ci saranno soltanto le briciole. E non è che volesse acquistare un capriccio, ma soltanto migliorare il cibo.
Domani… Ci sarà un domani?
Non sarà diverso, certo!
Ho visto queste donne che portano legna, chine sotto il carico pesante dei rami. Ho sentito vergogna di essere uomo. Io passo distante, staccato dalla loro vita, sollevando polvere e aggiungendola a loro che caricano il legno pesante.
È il Cristo che carica la croce, che porta i peccati del mondo.
Io faccio parte del mondo dei ricchi, le lascio passare, la loro indigenza mi scivola via: non è il mio compito!
E sento una voce, mai sentita finora: «Dalla tua spalla ho liberato il peso… (Sal 81, 7).
Lo dicevi al tuo popolo, schiavizzato in Egitto. Ora sono altri tempi! E io passo al largo.
Anche le ragazzine… sempre donne sono! Raccolgono foglie e rametti che, generosi, lasciano
cadere gli eucalipti. Di fronte al miracolo di queste creature, dovrebbero piegarsi e offrirsi in pieno alle loro mani, così maltrattate dal lavoro che fanno.
Dovrebbero seccare e, fattisi a pezzi per loro, nascondersi dentro al loro sacco.
Mi domando se basta un sacchetto di foglie e rametti a far bollire l’acqua, con cui si prepara il tè o il caffè.
Il fuoco, Signore…
Lodato sii, per fratello fuoco…
Fratello, lo chiamava Francesco, ma in questo paese «benedetto da Dio» è un fratellastro il fuoco dei poveri!

acqua
Sorella acqua…
In questo paese «benedetto da Dio» più che una sorella è un’ossessione. L’acqua non è mai vicina, né pura, né limpida. È un bisogno che si impone per primo, l’incubo notturno di donne e bambini: «Domani, di nuovo, dovremo tornare a prenderla al fiume, sporca com’è, fra tutte le bestie; o al pozzo comune, facendo la coda per ore infinite; oppure a scavare la sabbia del letto del fiume e rubarla quando appaia agli occhi».
Nell’incubo appaiono zoccoli enormi che tutto sporcano, sollevando la melma, spargendo il letame sull’acqua da bere, l’acqua benedetta che lava le mani.
E sognano anche dispettosi ragazzi che rubano il posto, versando a terra la preziosa merce raccolta con tanto sforzo.
Si sente stanchezza nei passi pesanti, che affondano dentro la polvere nera, nella sabbia che scalda la pelle indurita dei piedi. Si vede solo una strada, scaldata dal sole, senza confini (né davanti, né ai lati).
Arriva il mattino, spariscono i sogni; ci si sveglia presto e si vede ben chiaro che era tutto un incubo. Ma, purtroppo, sogno e realtà, realtà e sogno sono così simili per tanti abitanti di questo paese «benedetto da Dio».
«Tuo padre ha bisogno»:
scatta il comando da una madre già stanca, fin dal primo mattino. Recipiente in spalle, si parte rassegnati e ci si guarda attorno, cercando qualche compagna di viaggio con cui chiacchierare.
La strada è sempre quella, nessuna diversione. Qualche macchina passa e riempie tutto di polvere. Se si urta o si cade con la tanica piena, si riprende la strada, senza fare una piega.
Benedetta la plastica che resiste a ogni colpo e, se invecchia o si buca, è possibile ancora ripararla con il fuoco. Pesa molto meno della terracotta, quasi mai si rompe e non costa tanto.
Ne parlino pure male gli ecologisti: ma loro non sanno cosa significa farsi chilometri a piedi,
tutti i giorni, con un peso d’acqua sulle spalle!
Arrivati a casa, si cerca la mamma che prepari del tè e una fetta di pane. Ma si scopre, delusi, che è andata nei campi e bisogna aspettare. Delusione e pazienza
sono gli ingredienti della vita,
di ogni giorno per tanti abitanti di questo paese «benedetto da Dio».

aria
In questo paese «benedetto da Dio» vi chiedo un po’ d’aria per fare un respiro.
Quando guardo la gente affaticata, sento mancarmi il fiato,
mi assale la vergogna per i tanti beni che non ho guadagnato con il mio sforzo, che mi sono arrivati senza merito alcuno.
Datemi un po’ d’aria, per poter capire come mai tante persone di questo paese «benedetto da Dio» stanno così male, da farmi venire, in certe occasioni, la pelle d’oca soltanto a guardarli…
Voi che avete letto fino a questo punto, datemi una mano per poter capire e fare qualcosa, pur essendo grande il desiderio di tirarli fuori da tanta miseria.
Ditemi sinceri se, di fronte a loro, così malridotti, possiamo continuare a permetterci d’invocare Dio col nome di Padre.
«Padre nostro che sei nei cieli…».
E nella terra, dove?
E nel fuoco?
E nell’acqua?
Datemi un po’ d’aria!
Datemi una mano da offrire loro,
una mano
per tirarli fuori da tanta miseria!

UNA GUERRA TUTTA PAZZA

È incomprensibile agli stessi belligeranti. Ma non si tratta di rivendicazione di confine.
Sono in gioco poteri locali, indipendenza nazionale e futuro di tutto il corno d’Africa.

I nutile domandarsi chi ha torto e chi ha ragione. L’Eritrea appare come l’aggressore; ma la verità non è così semplice. Il problema comincia negli anni ’80, quando l’Eritrean people’s liberation front (Eplf) e il Tigrayan people’s liberation front (Tplf) combattono per liberare le rispettive province dalla dittatura di Menghistu. Sono entrambi socialisti; ma l’Eplf pende verso l’Unione Sovietica, il Tplf verso l’Albania.
Nel 1985 la tensione tra i due gruppi guerriglieri è diventata tanto incandescente che gli eritrei impediscono i rifoimenti dei viveri ai soldati tigrini in Sudan.
Nel 1988, quando si accorgono che, con i loro dispetti, rischiano di perdere la guerra, le due parti s’incontrano a Khartoum e appianano le loro divergenze. I tigrini suggeriscono di fissare i confini delle due regioni, ereditati dall’occupazione coloniale italiana. Ma gli eritrei dicono che prima bisogna finire la guerra, poi si vedrà.
Nel 1991 Menghistu è sconfitto. Il Tplf conquista Addis Abeba e il presidente Meles Zenawi comincia a disegnare la nuova Etiopia, che prevede autonomie etniche e regionali. L’Eplf entra in Asmara e il leader Issayas Afeworki si affretta a prendere le distanze dall’Etiopia: stacca i contatti telefonici col resto del mondo, perché vuole un prefisso internazionale differente da quello per l’Etiopia. Poi rimanda a casa i cittadini etiopici, impiegati nell’amministrazione: in due anni ne sono espulsi 150, comprese le mogli eritree e figli.
Nel 1993 l’Eritrea opta per l’indipendenza e l’Etiopia ne rispetta la scelta, sanzionata dal referendum popolare.

N el 1997 l’Eritrea sostituisce il birr, moneta etiopica in circolazione in entrambi i paesi, con la nuova valuta nazionale, il nafka. L’Etiopia rifiuta la parità tra birr e nafka ed esige pagamenti in dollari Usa. L’Eritrea alza le tasse di transito e dogana. L’Etiopia lascia il porto di Assab per quello di Djibuti. Il commercio va a rotoli; i prezzi alle stelle; i dispetti reciproci non si contano più.
Lo stesso anno l’amministrazione etiopica in Tigray pubblica nuove mappe della regione, includendo tre aree controverse della piana di Badme; comincia a piantare cippi di confine, espellere gli eritrei dai villaggi tigrini e distruggere le loro abitazioni.
Nel maggio 1998 quattro militari eritrei, accorsi a ispezionare le frontiere e dirimere le controversie, vengono uccisi dai miliziani tigrini. I carri armati eritrei invadono la regione di Badme, poi tutte le aree contestate. Un fronte che si estenderà per quasi 1.000 km. L’Etiopia risponde con cannonate e bombardamenti aerei, facendo vittime tra i civili. La diplomazia internazionale si mette in moto; ma ottiene solo un fragile cessate il fuoco. La stagione delle piogge blocca cannoni e carri armati. Ma comincia la guerra di propaganda. Intanto l’Etiopia comincia a cacciare dal paese i cittadini eritrei; alla fine del 1999 gli espulsi saranno 62 mila.

A lla fine di febbraio 1999 l’Etiopia riconquista Badme e, più a sud, Tsorona. Addis Abeba parla di «vittoria totale», ma a che prezzo! In un mese di combattimenti, dietro le trincee eritree rimangono insepolti circa 20 soldati etiopici e 100 carri armati distrutti.
Stati Uniti, Onu, Organizzazione per l’unità africana (Oua), vari paesi europei e africani intensificano le missioni diplomatiche per presentare piani di pace, chiedere la sospensione delle ostilità, far sedere Issayas e Meles attorno al tavolo delle trattative. I due contendenti non si vogliono vedere neppure in fotografia. Se uno accetta i piani proposti, l’altro trova i cavilli per rifiutarli e viceversa. E le scaramucce continuano lungo la frontiera centrale; varie incursioni di aerei etiopici bombardano le città di Massaua, Assab, Shambuko.

I l 2000 si apre con segni di speranza. L’onorevole Rino Serri, delegato dell’Unione europea nella ricerca di una soluzione politica del conflitto, riesce a riavviare le trattative, che si svolgono ad Addis Abeba (23 febbraio – 3 marzo). Il governo eritreo si convince a firmare incondizionatamente il piano di pace proposto dall’Oua.
Ma l’Etiopia, nonostante che milioni di persone nel sud del paese stiano morendo di fame a causa dell’ennesima siccità, continua la sua guerra, decisa a risolvere militarmente la partita. Il 13 maggio, vigilia delle elezioni politiche, l’esercito etiopico sferra un decisivo attacco su tutto il fronte, distruggendo villaggi, regioni e città. Gli eritrei si attestano sull’altipiano più interno per difendere la capitale. Addis Abeba afferma che non ha intenzione di conquistare l’Eritrea e che è pronta a riprendere i negoziati; ma vuole «trattare mentre combatte e combattere mentre tratta».

I l 18 giugno, ad Algeri, dopo due settimane di trattative indirette (cioè comunicando solo attraverso i mediatori) i ministri degli esteri di Eritrea ed Etiopia si sono trovati per la prima volta faccia a faccia e, davanti alle telecamere, hanno firmato il cessate il fuoco e si sono stretti la mano. Una forza di pace dell’Onu dovrebbe dispiegarsi lungo i confini, per una fascia di 25 km in territorio eritreo. Ma non è ancora la pace.
Intanto entrambi i paesi si leccano le ferite. Nessuno dei due rilascia cifre attendibili sul costo di questa guerra stupida. Si calcola che abbia fatto circa 100 mila morti e un milione di sfollati. Tutti e due gli stati hanno dato fondo alle proprie risorse per comperare armi e munizioni, bloccando il processo di sviluppo e scoraggiando gli investitori più affezionati. Mentre Addis Abeba spende 2 miliardi di lire al giorno nella guerra, paesi occidentali e organizzazioni umanitarie fanno fatica a chiedere cibo e medicine per salvare milioni di persone che muoiono nel sud dell’Etiopia.

A quando la pace? Sarà un processo complicato. Non sono in gioco i confini maltracciati dalle mappe coloniali, ma la sovranità nazionale, l’egemonia politico-militare regionale e il futuro dei due paesi. L’Eritrea vuole affermare la sua indipendenza a 360 gradi; Addis Abeba continua a sognare la «grande Etiopia», con l’Eritrea legata in qualche modo al proprio destino e uno sbocco al mare.
Benedetto Bellesi

Dalvador Del Molino