NAIROBI (KENYA) – «Polepole»… entra in episcopio

Anthony Ireri Mukobo,
primo missionario
della Consolata kenyano
e vescovo ausiliare
di Nairobi dal 18 marzo,
è entrato in servizio
in punta di piedi,
ossia «polepole».
Una vita semplice la sua,
ma con un’idea chiara della nuova responsabilità:
imprimere maggiore spirito missionario
alla chiesa del Kenya.

È la prima volta. Non mi era mai capitato di intervistare un nuovo vescovo africano. Temevo che il compito non mi sarebbe riuscito, sia per la mia mancanza di esperienza, sia per la naturale circospezione dell’interessato. Invece tutto è filato liscio, con soddisfazione per entrambi.
Seduti attorno ad un tavolo, monsignor Anthony Ireri Mukobo, missionario della Consolata, consacrato vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Nairobi (Kenya) il 18 marzo scorso, mi ha raccontato la sua storia in modo semplice e cordiale.
È una storia che non ha nulla di straordinario, ma profondamente intessuta dell’eroismo del dovere quotidiano e della ricerca serena della volontà di Dio.
Ve la offro come il protagonista me l’ha raccontata.
Non cristiano
fino a 16 anni
Sono nato il 23 settembre 1949 in un piccolo villaggio chiamato Mufu, nei dintorni di Kyeni. Mio papà seguiva la religione tradizionale. È voluto diventare cattolico soltanto dopo la mia ordinazione sacerdotale. Io stesso ho avuto la grande gioia di battezzarlo, con il nome significativo di Paolo. Mia madre Maria, invece, era cattolica. È morta quando ero bambino. Ho due fratelli e due sorelle maggiori di me. Il papà è morto mentre mi trovavo missionario in Colombia.
Io non ero ancora cristiano quando frequentavo la scuola elementare a Kyeni e poi la Kangaru secondary school di Embu. È stato alla fine del ciclo scolastico che ho deciso di entrare nella chiesa cattolica: ho frequentato per due anni il catecumenato e, nel natale del 1965, padre Livio Tessari mi ha battezzato nella parrocchia di Kyeni.
Approfondendo la mia fede e vivendo con i missionari, sentivo sorgere in me il desiderio di diventare sacerdote, stupito com’ero dalla vita che conducevano queste persone venute da lontano. Avevano lasciato tutto e tutti per evangelizzare e rendere migliore la mia gente, sia a Kyeni sia nelle missioni vicine.
All’inizio non li conoscevo bene; ma mi impressionavano molto per dedizione, spirito di sacrificio e disponibilità giorno e notte. Oltre a padre Livio, ricordo con riconoscenza i padri Giuseppe Maggioni e Bruno Porcu. Quest’ultimo lavorava molto bene nella promozione spirituale e sociale tra la gente di Kyeni.
Verso il termine delle scuole secondarie ho manifestato il desiderio di diventare sacerdote al padre Angelo Dwera, incaricato per la pastorale vocazionale del seminario di Nyeri. Ma i parenti non erano molto contenti della mia decisione.
Intanto, però, la Provvidenza mi apriva un’altra strada facendomi incontrare padre Giuseppe Demarie. Questi, con pazienza e saggezza, mi spiegava le diversità tra il prete diocesano e il religioso-missionario. Mi raccomandava di chiedere luce al Signore nella preghiera.
Un kenyano
in Colombia
Finita la scuola, ho scelto di diventare anch’io come uno dei missionari che avevo conosciuto. Molti sacerdoti diocesani e studenti del seminario di Nyeri hanno cercato di dissuadermi, dicendo: «Un giorno te ne andrai e ci lascerai, mentre qui c’è tanto lavoro!». Ma la chiamata alla missione era più forte di me. Così ho fatto domanda di entrare tra i missionari della Consolata e sono stato accolto nel seminario di Langata (Nairobi). Era il 1972.
Eravamo in otto. Frequentavamo i corsi di filosofia nel vicino seminario diocesano di St. Thomas Aquinas. Al termine degli studi, nel 1974 entrai in noviziato. Ma ero rimasto solo. Gli altri avevano lasciato.
L’anno di noviziato è stato determinante per la mia vita. Avevo il maestro, padre Luigi Tempini, tutto per me: sotto la sua guida ho conosciuto lo «stile» dei missionari della Consolata, ho sciolto dubbi e difficoltà e sono entrato «ufficialmente» nella nuova famiglia.
Finiti gli studi di teologia ho esercitato per un anno il diaconato a Karima e il 5 gennaio 1980 sono stato ordinato prete a Nairobi da monsignor Njiru Silas, vescovo di Meru.
H o vissuto le prime esperienze di sacerdote nella parrocchia di Kyeni e Karima, dove ho lavorato per due anni. Poi sono stato inviato a Roma, per frequentare il pontificio istituto di spiritualità Teresianum.
Nel 1983, conseguita la licenza in spiritualità, sono partito per le missioni della Colombia. Gli inizi sono stati difficili: l’impatto con una nuova lingua e cultura è stato faticoso.
La gente non era abituata a vedere un sacerdote nero. Più di una volta ho raggiunto a cavallo varie comunità sconosciute per celebrare la messa, ma la gente continuava ad aspettare il sacerdote. Si accorgeva che ero io soltanto quando avevo indossato i paramenti…
Superate a poco a poco le difficoltà, si è creato un clima amichevole. Sono rimasto in Colombia sette anni, lavorando nel Caquetá (Puerto Rico), nel Cauca (El Tambo) e a Manizales come incaricato della pastorale vocazionale.
Richiamato in Kenya, sono stato destinato al seminario filosofico di Langata, addetto alla formazione dei seminaristi (1991-93). Poi sono nuovamente ritornato al lavoro pastorale, prima come viceparroco a Timau e poi come parroco a Karima (1995).
Insegnavo anche missiologia e spiritualità nel seminario maggiore di Nyeri.
Per una chiesa africana
più missionaria
Tutto ciò fino a quando mi è arrivata la nomina a vescovo ausiliare di Nairobi.
Ora inizia una nuova fase della mia vita. L’arcidiocesi di Nairobi ha problemi immensi. Una grossa croce mi è caduta sulle spalle. Ma, come ogni altra incombenza precedente, è una croce che viene dal Signore: Egli mi darà anche la forza per portarla. Spero di trovarmi bene e di aiutare con tutte le energie l’arcivescovo, monsignor R. Ndingi.
Cosa farò adesso? Prima di tutto, sarà necessario sedersi attorno ad un tavolo con l’arcivescovo, l’altro vescovo ausiliare, D. Kamau, e i diversi incaricati della pastorale, sacerdoti e laici, per pianificare il lavoro e camminare insieme.
Il fatto che io sia missionario della Consolata è molto positivo: i confratelli in Kenya non mi faranno sentire solo. Essi continueranno a essere la mia famiglia.
Penso, inoltre, d’impegnarmi per infondere lo spirito missionario nella chiesa locale, affinché alcuni sacerdoti e laici diventino evangelizzatori in altri paesi del mondo, come 99 anni fa i missionari della Consolata. Sono partiti da Torino per venire ad evangelizzare il Kenya…

G razie, monsignor Anthony, per la sua disponibilità. Auguri sinceri per il suo nuovo e non facile lavoro missionario.

Achille Da Ros




ECUADOR – La partita del cuore

Un giorno padre Felice prese il bus e andò a Guayaquil.
Si trovò nella favela El Fortín, stipata da 50 mila persone e disse:
«Questo posto fa per me, perché sono i più poveri tra i poveri».
Così iniziò la presenza dei missionari della Consolata nella periferia
di una delle più grandi città dell’Ecuador.

GENESI DI UN PROGETTO

Nel 1997, per celebrare i 50 anni di lavoro dei missionari della Consolata in Colombia, fu deciso di aumentare la nostra presenza in Ecuador. Si pensava di aprire una parrocchia nella capitale, Quito, come punto di appoggio per i padri operanti nella diocesi di Riobamba e preoccupati di prestare la loro assistenza religiosa agli indios emigrati dalle parrocchie di Licto e Punin.
Prima di dire l’ultima parola sulla scelta del nuovo campo missionario, feci un giro a Guayaquil, diocesi scarsa di sacerdoti, con una periferia di mezzo milione di persone poverissime, ammassate nelle «invasioni», i terreni occupati abusivamente da poveri diavoli.
Avevo in tasca alcuni indirizzi di preti e suore e, presentandomi, dicevo loro: «Vorremmo, avremmo intenzione di…». Qualcuno mi disse: «Al di là della circonvallazione c’è tutto quello che vuoi. Prendi il bus e vai a vedere». Trovai una favela immensa e spaventosa: una marea di baracche con pareti di canne. «È il posto che fa per noi – mi dissi senza esitazione -. Poveri così non ne ho mai visti».
Mi recai dal vescovo e gli dissi: «Siamo missionari. Cerchiamo un posto dove nessun prete ha messo piede e bisogna incominciare da zero». Il presule mi parlò di El Fortín, la favela che avevo appena visto, e aggiunse: «Prendete una parrocchia in città e da lì potrete iniziare a lavorare tra i baraccati». «È un impegno che assorbirebbe troppo tempo ed energie, monsignore – risposi -. Meglio inserirci subito e a tempo pieno nella favela».
Il vescovo si arrese e mi concesse ospitalità in una casetta, in un quartiere non lontano da El Fortín, dove abitava già un diacono. Arrivò padre Claudio Brualdi, superiore regionale, per vedere il nuovo campo di lavoro e approvò la scelta. Toammo dal vescovo e firmammo un contratto di lavoro per tre anni.
PRIMO APPROCCIO
Avevo in mente già qualche progetto. Dissi al vescovo: «Monsignore, conosce qualcuno in quella zona che potrebbe regalarci un pezzo di terra o venderla a basso prezzo?». «Ma tu non sei missionario?». Capii subito l’antifona: dovevo cavarmela da solo.
Il giorno seguente cominciai a percorrere la favela in lungo e in largo, bussando alle baracche e presentandomi: «Buon giorno! Sono il nuovo parroco. Siete contenti?». Le esclamazioni di sorpresa, curiosità e meraviglia si sprecavano. Qualcuno rispondeva: «Io sono evangelico. Io sono mormone…». La favela è zeppa di sètte. La domenica seguente mi piazzai con un megafono in un crocicchio nel centro del quartiere, gridando: «Santa messa nel blocco numero sei, alle undici del mattino: siete tutti invitati!». Il padrone della casa, vicina a quell’incrocio, mi permise di celebrare l’eucaristia nel cortiletto. Arrivarono una cinquantina di persone, soprattutto bambini. Il ghiaccio era rotto. In seguito mi feci amico di alcuni giovani e insieme preparammo e distribuimmo a tutte le case un volantino con l’orario della messa e l’invito a parteciparvi.
Per oltre un mese continuai a passare di casa in casa, per incontrare la gente e farmi conoscere. Poi lanciai i programmi di preparazione al battesimo, prima comunione e cresima. Finalmente riuscii a comprare sei piccoli lotti di terreno, proprio sul luogo dove avevo celebrato la prima messa, rimborsando la gente e aiutandola a sistemarsi in un’altra parte della favela.
OPERE SOCIALI
Per essere visibili e fare qualcosa di concreto a favore della gente, cominciai a costruire le strutture di base: chiesa, casa parrocchiale e dispensario. Quest’ultimo, soprattutto, mi stava tanto a cuore: ora un medico spagnolo, missionario laico residente in città, viene tre o quattro volte la settimana per visitare gli ammalati.
Il problema dei bambini si è imposto subito con urgenza e gravità. Nella maggioranza delle famiglie è assente la figura del padre; le mamme sono costrette ad andare in città per lavorare, lasciando i bambini soli in casa. A volte le baracche prendono fuoco e i bambini muoiono bruciati. Decisi di costruire un asilo.
Ed è riuscito bene. È stato sovvenzionato con una parte dei proventi raccolti nella «Partita del cuore», giocata a Cagliari tra cantanti e politici e trasmessa da Rai2. Poco tempo dopo il mio arrivo, alcuni tecnici della Rai erano venuti a fare delle riprese nella favela; colsi l’occasione per esporre il progetto dell’asilo. Commossi e impressionati, promisero di aiutarmi: hanno presentato il mio sogno all’associazione «Amici dei bambini»; questi mi hanno aiutato con i proventi della famosa «Partita del cuore»; poi sono venuti a visitare l’opera compiuta e ne sono rimasti felicemente impressionati sia per i fabbricati che per la gestione dell’opera, affidata a due laiche italiane, coadiuvate da alcune maestre locali.
Dato che l’asilo è stato totalmente finanziato, ho potuto investire i risparmi ad esso destinati nella costruzione di una scuola elementare. Il mio sogno era di avviare una scuola di arti e mestieri; ma le finanze del missionario non sono mai proporzionate alla grandezza dei suoi sogni. Consigliato da altre congregazioni, mi sono dovuto accontentare della scuola elementare.
Tanto più che nella favela non ci sono scuole statali: in un quartiere d’«invasione» è tutto illegale. Qualcuno organizza piccole scuole private a livello familiare, ma valgono poco. Per assicurare una vera istruzione ai bambini, mi sento obbligato a costruire una scuola come Dio comanda, anche se per lo stato è «illegale».
Ma il sogno della scuola di arti e mestieri e per la promozione della donna non è abbandonato: ho presentato il progetto alla Comunità europea (Ce), con la speranza che fosse finanziato, come è avvenuto per altri progetti. Durante l’emergenza provocata dal «fenomeno del niño» la Ce promise un aiuto, ma l’approvazione avvenne quando la situazione di emergenza era ormai passata. Ho chiesto e ottenuto il permesso di usare il finanziamento per ampliare il dispensario medico con un laboratorio di analisi.
Seguire tanti progetti è molto impegnativo. A volte le preoccupazioni mi tolgono il sonno, specialmente durante il periodo in cui, a causa della crisi economica, il governo congelò per un anno tutti i fondi bancari. Non sapevo dove sbattere la testa. Ora mi sento più tranquillo, da quando è arrivato padre Tiziano Viscardi, esperto in amministrazione e con notevole esperienza nel seguire i progetti.
PASTORALE E CARITÀ
Ben più assillanti e gravi sono le preoccupazioni derivanti dalla situazione generale della favela, che rende difficile un lavoro specificamente missionario. All’inizio molta gente era prevenuta e restava a guardare ciò che dicevo e facevo. Ora qualcosa è cambiato; ho stretto amicizie con tante persone. Tuttavia poter contare su di loro, convincerle a partecipare a progetti di formazione e impegnarsi a diventare fermento nella comunità… non c’è niente di tutto questo! Ho provato un’infinità di iniziative per smuovere la gente, radunarla e organizzarla, ma con scarsi risultati. Si notano piccoli segni, ma niente di esaltante.
Ma non ho tempo di annoiarmi. Mi reco tutti i giorni in una casa di malati terminali di cancro e Aids; sono cappellano di due collegi privati: un incarico che ci consente di mantenerci. Seguo le varie attività, scorrazzando per la favela giorno e notte. Tutte le sere partecipo a incontri di vario genere: catechisti, neo-catecumenali, carismatici e altri gruppi. Raduni protratti fino a notte fonda.
E poi i vari problemi della gente. Prima di natale, per esempio, il fuoco ha gettato tre famiglie sul lastrico. Sono riuscito a procurare loro, gratuitamente, casette prefabbricate con canne di bambù, come si usa nella favela. E che dire degli ammalati, spesso «immaginari»? Vengono al dispensario con la «ricetta» del medico a chiedere soldi: abbiamo risolto il problema proponendo loro di sottoporsi alla visita del nostro medico: se sono veramente malati ricevono gratis medicine e trattamento. Gli approfittatori sono diminuiti, ma molti, son sicuro, riescono a raggirarmi. Tuttavia preferisco peccare d’ingenuità, piuttosto che rifiutare un aiuto a chi si trova veramente nel bisogno.
C’È POCO DA RIDERE
I più «ricchi» che si vedono nei dintorni (fatto curioso) sono gli indigeni, che hanno in mano tutto il commercio; vengono dalla Sierra, le zone intee e montagnose del paese, dove producono frutta e ortaggi che vendono nelle periferie della città. Gli abitanti della favela sono poveri e bisognosi di tutto: è una popolazione costituita da bianchi e negri, scappati dalla provincia di Esmeralda, regione di afroamericani al nord dell’Ecuador, ai confini con la Colombia.
La miseria è causata dalla disoccupazione e aggravata da una infinità di problemi: violenza e delinquenza, droga e insicurezza. Per sopravvivere alcune donne hanno trovato un lavoro come domestiche in città. La maggioranza sbarca il lunario con piccoli espedienti o lavoretti. Per gli uomini il lavoro più diffuso è quello di vigilante o muratore, occupazioni saltuarie, che non durano più di qualche settimana. Allora vendono biglietti della lotteria, magliette, cianfrusaglie, frutta e caramelle alle fermate dei bus. Alcuni sfaccendati salgono sui bus, raccontano barzellette, poi chiedono l’elemosina: ma c’è poco da ridere.
La famiglia praticamente non esiste. A 15-16 anni le ragazze si ritrovano con un figlio da sfamare. Da sole. «Questo è il figlio del mio primo “compromesso” (promesso sposo) – spiegano molte donne indicandomi i loro bambini -. Quest’altro è figlio del secondo; questo del terzo». E così via. Il matrimonio rimane sempre una promessa vuota.
Anche sotto l’aspetto fisico la favela è un disastro: viviamo nel fango; non essendoci acquedotto, compriamo l’acqua dalle autobotti che passano e la conserviamo nel «bidone dell’acqua». Rubiamo la luce dalla linea che corre lungo la circonvallazione che divide la favela dalla città. Ma non è gratuita: per l’allacciamento bisogna pagare la mafia locale.
MAFIA E POLITICA
Anche le cosiddette «invasioni» (occupazioni di terre per costruire la favela) sono frutto di mafia genuina e giochetti dei politici. Costoro si mettono d’accordo con bande mafiose per scegliere il settore da occupare. Quindi un gruppo di persone comincia a costruirvi le baracche. La polizia interviene per distruggerle, ma il giorno seguente ricomincia la ricostruzione, finché la polizia si stanca e lascia tutti in pace.
Quando la situazione è tranquilla, intervengono i «dirigenti», cioè i supervisori dell’invasione: dividono il territorio in piccoli lotti e li vendono agli immigrati. Parte del ricavato finisce nelle tasche dei politici, i quali, oltre al guadagno, si assicurano un feudo elettorale.
Il terreno dove sorgono le nostre opere, per esempio, era stato invaso da una donna che oggi siede nel consiglio municipale. Non aveva speso un soldo per averlo; ma ce l’ha venduto senza sconti.
Anche altri servizi, come l’allacciamento abusivo alla linea elettrica, è in mano ai cosiddetti «dirigenti». Per avere la corrente ho voluto fare il furbo, col metodo «fai-da-te». Mi hanno tagliato i fili. Ho risposto facendo un gran baccano, per svegliare la gente: «Qui stiamo facendo opere sociali – ho detto ai parrocchiani della zona -. Se le volete datevi da fare per avere la luce, altrimenti chiudo baracca e burattini e vado a costruirle altrove». E la corrente ritoò immediatamente.
Tutta la vita sociale della favela è sottoposta a vessazioni mafiose, come quella di sborsare ai «dirigenti» due mila sucre (1.000 lire) la settimana per la «vigilanza nottua». Da me stanno alla larga. Finora non hanno osato chiedermi niente. Ho cercato a più riprese di stimolare la gente perché si organizzi e si ribelli a questa forma di oppressione e sfruttamento perpetrati alla luce del sole, ma ha paura di essere cacciata e subisce supinamente. Di fatto, alcuni che non hanno pagato sono stati costretti ad allontanarsi: in varie circostanze sono dovuto intervenire per difendere questi sfortunati.
GUARDANDO AVANTI
Per l’immediato futuro non vedo prospettive molto rosee. Sto formando un gruppetto di catechisti, che curo come una chioccia, ma sono ancora «pulcini bagnati», incapaci, per ora, di assumersi delle responsabilità. Avevo trovato un ragazzo di 21 anni, che mi sembrava superiore a tutti gli altri: frequentava la chiesa, parlava bene, era pieno di iniziative. Lo vedevo già un ottimo catechista. Ma un giorno arrivò suo padre trafelato per dirmi che il ragazzo era in prigione: la polizia lo aveva arrestato in centro città, mentre assaltava la gente con la pistola in pugno. Nonostante le delusioni, devo riconoscere che la parrocchia comincia ad essere pervasa da un certo fermento, provocato da vari gruppi di carismatici, neo-catecumenali, catechisti e da un buon numero di persone sempre più coinvolte nella vita della comunità. Tutto fa sperare per un futuro più consolante.
Quando annunciai, durante l’ultima messa a El Fortín, che mi sarei assentato un paio di mesi per le vacanze in Italia, provai un’emozione indimenticabile: dopo la celebrazione mi si avvicinarono tutti in massa per abbracciarmi e salutarmi. Un gesto di amicizia e un segno che qualcosa di buono è stato seminato. E se sono rose fioriranno.

Felice Prinelli




Il “college” degli indios

Si estende su 72 ettari.
Ospita 500 alunni che ricevono
un’educazione multidisciplinare, ma sempre legata
al territorio e alla cultura di provenienza.
Tra gli studenti e le comunità locali si cerca una simbiosi
che faccia crescere entrambi. Questo è il «Cecidic»,
un istituto esemplare, cresciuto sulla terra
che appartenne a un latifondista. Di pessima fama.

Toribio. Sembra un campus universitario nordamericano. Forse per la natura che lo circonda: alberi, colline coltivate, addirittura un torrente. Forse per quelle costruzioni spartane, ma funzionali. O forse per quei mattoncini rossi che ingentiliscono la struttura. Invece, è un istituto superiore creato dalle comunità nasa del Cauca.
Il centro, posto tra Toribio e San Francisco, porta un nome impegnativo: «Centro di educazione, abilitazione e ricerca per lo sviluppo integrale della comunità». In breve, Cecidic.
La prima costruzione che si incontra, oltrepassata l’entrata dell’istituto, è una palazzina a due piani. Ospita la direzione e gli uffici; a destra di essa ci sono case d’abitazione; a sinistra, un salone per le riunioni e le feste; a fianco di questo, un altro edificio, con i due lati più lunghi senza pareti, funge da sala mensa.
Su un lato della grande sala c’è uno spaccio. «Assaggiate un bicchiere di malta (una bevanda analcolica ricavata dai cereali, ndr)», ci dice padre Antonio Bonanomi, missionario della Consolata, in Colombia dal 1978. «A parte le bevande, tutto il resto si produce qui: pane e dolci, yogurt, succhi di frutta e gelati».
Mentre stiamo sorseggiando la bevanda, al bancone si avvicina una persona per salutare padre Antonio. È un professore di lingua nasa. Il Cecidic è nato proprio perché la scuola statale non teneva in alcun conto la cultura autoctona, a partire dalla lingua. «L’idea di partenza – racconta padre Bonanomi – era di recuperare tutti i valori propri della tradizione indigena, inserendoli in un contesto moderno. Non aggiungere una cosa all’altra, ma tentare di far vivere la tradizione nella modeità».
Sull’altro lato della sala mensa c’è la cucina. Alcune signore stanno pulendo delle bellissime verdure: carote, patate, cavoli, insalata, cipolle, mais. «Tutti questi prodotti – spiega soddisfatto padre Antonio mentre curiosa nei pentoloni – provengono dai nostri orti. Non solo ne abbiamo a sufficienza per il consumo interno, ma riusciamo anche a vendee all’esterno. Senza dire dei nostri alberi da frutto. Ora stiamo provando con la coltivazione del caffè: abbiamo piantato 10 mila piantine».
Al Cecidic tutto è coltivato senza usare concimi chimici. «Il vero indio – spiega padre Antonio – si rifiuta di utilizzare questi mezzi innaturali per non violentare la terra, per non rompee la sacralità».
A poca distanza dalla cucina, c’è un’officina da fabbro. «Qui i ragazzi imparano a tagliare e saldare i metalli. Sono loro che hanno costruito tutte le porte, le finestre, i tralicci della scuola. L’idea è di aumentare e migliorare la produzione. Per ora, infatti, facciamo soltanto cose normali, mentre vorremmo fare cose più artistiche: finestre con fiori in rilievo, porte oate, ecc.».
Ci incamminiamo verso il torrente che attraversa la proprietà. «Davanti a noi ci sono i vivai. Da lì sono già uscite 120-130 mila piante, tutti alberi da frutto o da legna. Piante originarie del luogo; non abbiamo importato niente da altre zone». Ma che ne fate?, domandiamo. «Le usiamo per riforestare le nostre montagne. Nel piano di sviluppo delle varie comunità c’è un progetto di riforestazione. Questo progetto viene realizzato dalla scuola».
La deforestazione di queste valli iniziò negli anni ’30 quando i coloni distrussero i boschi per far posto ai pascoli per le loro mandrie. Poi, a partire dagli anni ’70, gli indios cominciarono a recuperare le terre. Negli ultimi anni, però, il problema della deforestazione si è di nuovo aggravato a causa dell’amapola, la cui coltivazione si è rapidamente diffusa.
Mentre attraversiamo il piccolo ponte che supera il torrente San Francisco, sul nostro registratore annotiamo: autosostentamento della struttura e ricadute immediate sulle comunità locali.
«I ragazzi – spiega padre Antonio – mettono in pratica nelle proprie famiglie le nozioni apprese a scuola. Soprattutto le tecniche agricole e di allevamento. Spesso i genitori giudicano con più severità dei professori. Agli studenti più bravi diamo regali in natura: un maialino o una coppia di conigli da portare a casa».
La prima pietra del Cecidic fu posta nel 1992. Da allora il centro è cresciuto senza sosta. Oggi non è solo scuola di arti e mestieri e scuola agropastorale, ma anche istituto per animatori comunitari e scuola di comunicazione. E l’espansione continua tuttora. Come dimostra il fervore dei lavori in corso.
I carpentieri stanno completando gli edifici che ospiteranno altre aule e i laboratori di chimica ed informatica. «Dove lavorano con il bulldozer si scava per fare una piscina. Ai ragazzi piace moltissimo bagnarsi. Una volta si buttavano nel torrente, ma poi abbiamo dovuto proibirlo perché l’acqua è contaminata dalle coltivazioni di agave. Quando sarà pronta la piscina, potranno venire qui con le loro famiglie».
Per il momento le famiglie debbono accontentarsi di riunirsi attorno ai laghetti dell’istituto e, magari, di praticare la pesca sportiva. Nei piccoli bacini d’acqua dolce sono infatti allevati tre tipi di pesce. «I ragazzi che seguono l’allevamento vanno nelle comunità per portare gli avannotti e aiutare la gente ad allevarli».
Mentre visitiamo il centro, notiamo che tutte le aule presentano grandi aperture: le finestre sono strutture metalliche (costruite, ovviamente, nell’officina dell’istituto) senza vetri. Come mai?, chiediamo a padre Antonio. «Ci sono ragioni culturali. I nasa non amano i luoghi chiusi. Molte volte si fa scuola all’aperto».

Piccolo di statura, capelli bianchi, una faccia da buono che non lascia prevedere la vigoria dell’uomo. Nonostante si scheisca, senza Antonio Bonanomi il Cecidic non sarebbe quello che è. Vale a dire una struttura che, tra maschi e femmine, oggi è frequentata da 450 studenti. Un centinaio di essi, quelli che abitano più lontani, sono ospitati dalla scuola. Anche gli insegnanti e le rispettive famiglie vivono all’interno dell’istituto, in abitazioni costruite ad hoc per loro.
Il missionario, facendo leva su perseveranza, tenacia e… capacità di convincimento, ha personalmente raccolto la gran parte dei soldi necessari per costruire e far crescere l’istituto. In Italia soprattutto, ma anche nelle stanze dell’Unione europea.
Fino al dicembre 1998, padre Antonio ne era il cornordinatore generale. Poi si è fatto volontariamente da parte, lasciando l’incarico a Gilberto Muñoz, ex alcalde (sindaco) di Toribio. Padre Bonanomi siede ancora nel consiglio di amministrazione del Cecidic, assieme ai tre governatori di Toribio, San Francisco e Tacueyo. «Ma – precisa subito il missionario, quasi per scusarsi – è un organo più teorico che reale».
Il Cecidic è una realizzazione incredibile, soprattutto quando si rammenta che ci troviamo in una sperduta regione della Colombia. Ma da buoni giornalisti dobbiamo scoprire qualcosa che non funziona. Finalmente, ecco una pecca: l’istituto ha dimenticato tutte quelle persone che si sono ritrovate adulte senza aver mai avuto l’opportunità di studiare. «A dire il vero – precisa padre Bonanomi – abbiamo pensato anche a loro. Ci sono 6 centri per adulti sparsi sul territorio. Alle lezioni serali che si tengono a Toribio e Tacueyo ci sono più di 200 iscritti. Altre centinaia di adulti, più giovani, vengono al Cecidic dopo le lezioni dei ragazzi. Seguono corsi più brevi, ma hanno anch’essi la possibilità di utilizzare i laboratori, i computers, le attrezzature della scuola».
Padre Antonio, ancora una curiosità: la guerriglia che sta sulle montagne qui attorno non ha mai attaccato il centro? «No, mai. È passata, si è fermata, ma non ha mai colpito la scuola, perché apprezza il nostro lavoro. Piuttosto, chi ci fa un po’ di paura sono i paramilitari». Cosa potrebbero fare? «Non lo so. Ma certamente tutto questo è un pugno in un occhio per loro. Che una comunità indigena riesca a fare qualcosa che lo stato non ha mai voluto o potuto o saputo fare…».
Dall’alto della collina padre Antonio ci mostra con orgoglio quanto il Cecidic sia grande. «Il centro si estende su 72 ettari. Ma la cosa più interessante è che tutta questa valle era di proprietà di un solo possidente, uno dei nemici più accaniti di padre Alvaro (ucciso da sicari il 10 novembre 1984, ndr). Dove ora c’è la direzione un tempo c’era la sua casa».
Anche noi torniamo verso la palazzina della direzione, dato che abbiamo appuntamento con un professore della scuola.

Alto e magro, Nestor Wilson Calderon porta dei grandi occhiali sul viso giovanile. È professore di religione, etica e morale. Ma è anche conosciuto per essere il mago della videoregistrazione e nel suo studio lo incontriamo.
«I governi che si sono susseguiti fino ad ora – esordisce Nestor – non hanno mai investito in educazione. E le conseguenze si vedono: la scuola pubblica è meno che mediocre; gran parte dei ragazzi pensa soltanto ad ottenere il pezzo di carta senza riguardo per i contenuti».
Quindi, l’obiettivo del Cecidic è quello di colmare queste lacune? «Siamo nati per tentare di cambiare un po’ questa situazione. Ma soprattutto per dare una svolta alla comunità indigena attraverso un’educazione più partecipativa, più cosciente, più aperta».
E che risposte avete avuto? «Abbiamo giovani molto coscienti. Tuttavia, ancora troppi non vanno a scuola o abbandonano presto. Saltano l’adolescenza e diventano subito adulti con un lavoro e magari una famiglia».
Dei 450 alunni quanti appartengono al gruppo nasa? «Circa il 90 per cento è nasa, mentre i rimanenti sono meticci».
In generale, com’è la situazione delle famiglie da cui i ragazzi provengono? «C’è povertà, ma è una povertà sopportabile. La terra, pur poca rispetto alle necessità, dà di che mangiare: yucca, patate, fagioli, mais».
Povertà, guerriglia, narcotraffico: chiediamo a Nestor quale, a suo dire, sia il problema più grave. «Il narcotraffico – risponde deciso il giovane professore – è come un’erbaccia che strappi qui e torna a crescere là. È un problema molto grave perché divide la comunità tra quelli che hanno i soldi e quelli che non li hanno. E poi crea bisogni nuovi: gli elettrodomestici, i vestiti, l’auto…».
Il lavoro del Cecidic ha attratto l’attenzione di molte università (del Cauca, la xaveriana, la San Bonaventura di Cali, la pontificia di Medellin), che hanno iniziato ad interessarsi alle attività dell’istituto e anche a collaborare. Ma Nestor rimane con i piedi per terra.
«C’è un proverbio che recita più o meno così: “la fama ti mette a letto”. Noi misuriamo il successo del Cecidic con altri parametri, come il crescente numero di iscritti. Questo significa che la gente india ha preso coscienza che l’educazione può migliorare le nostre condizioni di vita».
Nestor non è di etnia nasa, ma è come lo fosse diventato, tanto si è immedesimato nella società indigena.
«Io ho studiato a Bogotà. Ora seguo un corso di scienze sociali con indirizzo antropologico. Conosco bene i missionari della Consolata. Con loro, qui nel Cauca, ho trovato uno spazio particolare, molto importante per la mia vita. Sono convinto della strada che stiamo tracciando: insegnare alla gente a costruire una nuova società che collabori con gli altri, ma non dipenda da essi. Perché se si dipende, si torna schiavi. Credo che il progetto fatto con il popolo nasa sia un modello da imitare per le altre comunità indigene della Colombia, ridotte a vivere in condizioni deplorevoli».

Sono le cinque del pomeriggio. Anche per gli studenti del Cecidic è giunta l’ora di tornare a casa. Chi abita più lontano sale sul vecchio autobus della scuola, che in pochi minuti si riempie fin sopra il tetto di ragazze e ragazzi festanti.
Rombando e suonando il clacson, il mezzo si avvia pian piano verso l’uscita del Cecidic, il «college degli indios» nato sulla terra che fu di un latifondista. Un’altra piccola rivincita per gli indios di Toribio, San Francisco e Tacueyo.

IL CABILDO AUTORITA’ INDIGENA”

Rappresenta l’autorità civile e giudiziaria delle comunità indigene,
Organo collegiale ed elettivo, il cabildo si è guadagnato un ruolo fondamentale,
riconosciuto dalla legge colombiana.
Ma i problemi da affrontare sono molti:
la narcoeconomia, i rapporti con la guerriglia, la questione della terra.
Ne abbiamo parlato con il governatore del cabildo di Toribio.

Toribio. La sede del cabildo si trova quasi all’entrata del paese. È una modesta casa ad un piano con una grande scritta murale: «cabildo indigena resguardo de Toribio». Il cabildo è l’autorità indigena, collegiale ed elettiva, che ha giurisdizione su un resguardo; il resguardo è l’ambito territoriale su cui vive una determinata comunità.
Bussiamo e ci apre un giovane che si presenta come il custode. Dice che non c’è alcun rappresentante del cabildo, però acconsente a farci dare un’occhiata all’ambiente. Sul piccolo e spoglio cortile interno si aprono le porte di alcuni uffici, compreso quello del governatore, la carica più alta tra i membri del cabildo.
Non vi sarebbe nulla di particolare se non fosse per la presenza, su un lato del cortile, di una grata in ferro che chiude dei loculi verticali, piuttosto stretti. È il «calabozo», una sorta di prigione dove il condannato è costretto a rimanere in piedi per un certo numero di ore. Non si tratta dell’unica punizione che il cabildo può comminare. Ci sono anche il «cepo», i ceppi legati al reo; il «latigo», vale a dire le frustate; i lavori forzati nei campi appartenenti al cabildo; infine, il «destierro», l’espulsione dalla comunità, che costituisce, probabilmente, la condanna più temuta.
In effetti, tra le tante funzioni assegnate al cabildo dalla legge 89 del 1890 e dalle norme costituzionali del 1991, c’è anche l’amministrazione della giustizia.
Per sapee di più, chiediamo di poter parlare con il governatore. Ci spiegano che lo possiamo incontrare alla festa del «Tablazo», una località posta pochi chilometri sopra Toribio. Decidiamo di andarvi il giorno dopo.

«Bienvenidos al Tablazo» recita lo striscione. Come lo stesso nome suggerisce, il luogo è un altipiano, una radura aperta tra il verde della valle. È ancora presto e la festa non è ancora entrata nel vivo. Non abbiamo difficoltà a rintracciare il governatore di Toribio, Marcos Yule Yatacuè. Tarchiato, capelli neri e lisci, Marcos è con gli amici Martin, Ricardo e Marino. La funzione del governatore è quella di «servire e orientare» la comunità, tenere le relazioni con le autorità statali, vigilare sul territorio, amministrare i fondi che arrivano dallo stato, cornordinare il lavoro dei 40 membri del cabildo. «Ma – precisa Marcos – sopra di noi c’è il medico tradizionale, l’autorità spirituale da cui tutto muove».
Nella vita Marcos Yule Yatacuè è un linguista, che insegna ad altri professori. È faticoso fare il governatore?, domandiamo. «Sì, perché è un lavoro quotidiano, che ti impegna costantemente, dal lunedì alla domenica. La comunità si rivolge a te per ogni problema». Marcos lamenta che la sua posizione lo costringe a trascurare i 3 figli, ma si vede che è orgoglioso di ricoprire la carica (elettiva, annuale e gratuita).
Chiediamo quali siano le condizioni economiche della comunità. «L’economia è di sussistenza: si produce per mangiare. La terra è poca rispetto alle necessità: molte zone sono impraticabili, altre sono ancora in mano ai latifondisti. E poi non c’è sbocco di mercato per i nostri prodotti. Per questo molti giovani indigeni decidono di seminare amapola, coca o canapa. Sono coltivazioni molto più redditizie».
Raccontiamo a Marcos di aver visitato la sede del cabildo e di aver visto, con un po’ di stupore, la punizione del calabozo. «Il cabildo – spiega tranquillo il governatore – amministra la giustizia ed applica le relative sanzioni. I problemi della giustizia sono attesi da un “consiglio di investigazione” di 4 persone. Queste raccolgono le dichiarazioni e accertano i fatti. Poi sarà l’assemblea della comunità a determinare le punizioni: il numero di frustate, i mesi (o gli anni) di lavoro forzato nella finca del cabildo, fino alla sanzione estrema dell’espulsione. Ora stiamo discutendo su come sanzionare gli indigeni che sono coinvolti nel narcotraffico».
Ancora una volta, dunque, il discorso torna sul problema della droga. «La narcoeconomia produce una decomposizione a livello sociale. Genera vizi e invidia. Chi ha di più umilia chi ha di meno. Proprio il contrario di ciò che dovrebbe essere l’economia indigena: solidale e comunitaria».

In ottobre sono partiti i negoziati di pace tra le Farc e il governo del presidente Pastrana. Che ne pensa il governatore di Toribio? «È un negoziato in cui mancano i rappresentanti della società civile» taglia corto Marcos.
E i rapporti con la guerriglia? «I gruppi armati, le Farc in particolare, contestano la nostra autonomia. Dicono che dobbiamo essere inclusi in una sola forma di società, che le differenze e le pluralità culturali non hanno importanza. Affermano che il territorio non ci appartiene. Non rispettano l’autorità del cabildo».
Però – obiettiamo – come indigeni non potete lamentarvi: la costituzione colombiana vi dà ampie garanzie di autonomia. «Noi indigeni di Colombia abbiamo molti diritti. Ma sono più teorici che reali. Davanti ai nostri progetti rispondono che non c’è denaro. Però, lo trovano subito quando si tratta della guerra o del narcotraffico. Insomma, per ora il cambiamento non si vede. Ma noi dobbiamo insistere e spingere in quella direzione».
Pa.Mo.

Paolo Moiola




VIETNAM – Hanoi pedala nel passato

Dopo alcuni anni di rapida crescita, oggi il paese asiatico è in difficoltà.
Nonostante i divieti, i vietnamiti abbandonano
le campagne per trovare precari lavori nelle città.
Mentre la salute e l’educazione sono privilegio di pochi,
il corrotto apparato comunista mira soltanto a preservare il potere, indipendentemente dal consenso popolare.
Riprenderanno le fughe come ai tempi dei «boat people»?

Phuong è un nome dal suono dolce, perfetto per una giovane vietnamita. La Phuong che conosco ad Hanoi è carina e molto fortunata. Un corpo flessuoso, occhi a mandorla, Phuong è sposata da un anno e oggi mi ha confidato di aspettare un bimbo.
La fortuna le viene dal nonno, eroe di guerra, ucciso a Diem Bien Phu dai francesi. Il padre di Phuong non fece a tempo a conoscerlo, ma, quando arrivò il momento di fare il militare, fu esentato perché capofamiglia e mandato a studiare economia all’università. Ora lavora al ministero del turismo. La moglie è all’agenzia di stato e i figli sono tutti sistemati. Phuong si è laureata in russo e inglese, ha ancora poca esperienza, ma sa già come comportarsi quando le fanno domande indiscrete sul suo paese.
In Vietnam il partito è unico. Non solo, è a numero chiuso. Non ci si può iscrivere al partito comunista vietnamita. Se ci sei, perché tuo nonno ha fatto la guerra con Ho o era nel gruppo di intellettuali comunisti che lo fondarono, allora puoi stare tranquillo: tu e i tuoi figli avrete sempre un posto di lavoro con le ferie e la pensione. Altrimenti sei costretto a sopravvivere, come tutti gli altri. Come le donne che stasera vedo correre a casa, sotto la pioggia sottile, col loro carico ancora integro, bilanciato sulle spalle dal bastone di bambù. Hanno percorso le vie della città tutto il giorno, cercando di vendere qualcosa. Si sono fermate a cucinare per i passanti, arrostire pannocchie o friggere patate sul loro fornello portatile, sul marciapiede. Molte non indossano neppure i sandali di plastica, hanno il cappello conico di paglia che le protegge e un’uniforme che sembra un pigiamino.
La gente in campagna non ce la fa più e si sposta in città, nonostante i divieti. Le ragazze di campagna le vedi arrivare la mattina alle cinque e mezza; magari hanno fatto due ore di bici per arrivare nelle zone residenziali, dove è più facile trovare lavoro alla giornata.
SE MANCANO I SOLDI
L’abitudine dei vietnamiti è di rispondere «no» a qualsiasi richiesta, che sia un servizio o un’informazione. Così sono stati educati: loro non sanno, non possono, non rispondono. Jeanine invece parla, ora che è in pensione. Prima, non poteva neppure andare in chiesa: avrebbe perso il posto. Jeanine è cattolica e viene da Thai Bin, una città del delta a 120 km da Hanoi, dove c’è una grande chiesa.
Jeanine ha un grande rimpianto. Nata in Nuova Caledonia, dove il padre era emigrato durante l’ultima guerra mondiale (nel 1945 ci fu la fame nel nord, con 2 milioni di morti, mentre nel sud si gettava via il riso). Arrivò in Vietnam nel 1964, quando il genitore si lasciò convincere a rientrare in patria insieme ad altri emigrati. I vietnamiti hanno forte il senso della famiglia e della patria. Ma alcuni di loro si suicidarono, quando si resero conto dell’errore commesso lasciando la tranquilla e ricca colonia francese. Dopo 30 anni di lavoro come stenografa, ora Jeanine fa la domestica in casa di una famiglia danese, in una di quelle villette alte e strette che sono sorte come funghi 4-5 anni fa intorno al lago dell’ovest, la zona residenziale di Hanoi.
Jeanine ha modi signorili, grande dignità e parla un ottimo francese. Per me è stata una compagnia e un aiuto prezioso per comprendere questo paese. «Sono vecchia e stanca, ma non posso vivere coi 20 dollari di pensione al mese. Mio figlio studia all’università e ho anche dei debiti da pagare, a causa di un incidente che lo ha coinvolto».
I FALLIMENTI
DELLA SCUOLA
Alle cinque del mattino Jeanine va al mercato, che si estende lungo l’argine fino alla strada che porta in centro. Oggi è mistress day, la festa degli insegnanti e io l’accompagno, compreremo dei fiori, scegliendo tra i tanti mazzi di crisantemi gialli e bianchi. All’incrocio vedo giovani dall’aspetto grigio, arrivati dalla campagna per trovare un lavoro. «A volte passa la polizia e li scaccia tutti via – mi spiega Jeanine-. È uno spettacolo che il governo non vuole mostrare agli stranieri. Inoltre, vogliono scoraggiare i contadini a trasferirsi in città. Ma la vita in campagna è un inferno».
Hanno montato un palco con il busto di Ho Chi Min nel cortile della scuola. I bambini arrivano ben vestiti, con il loro mazzo di fiori, accompagnati dalle mamme, orgogliose e timide. Forse loro non sono mai andate a scuola e questa volta vogliono fare bella figura. Jeanine scuote il capo e mi dice: «Qui i maestri promuovono se ricevono regali. Sono mal pagati dal governo e l’insegnamento è di basso livello». Incontriamo due donne lungo il viale fiorito, che porta all’esclusivo club della pesca, sulle rive del lago. Thoa e Hung per oggi un lavoro l’hanno trovato: stanno zappettando le aiuole e stasera si porteranno a casa un dollaro prezioso, dopo 8 ore di lavoro e 4 di bicicletta.

STRANIERI, PRIVILEGIATI
MA ESCLUSI
Il centro di Hanoi ha conservato il fascino degli anni coloniali francesi, anche nei locali che sono stati restaurati. Davanti alla cattedrale, costruita sul modello di Notre Dame di Parigi, i ragazzini giocano al pallone, mentre un traffico di ciclò e motorette non disturba la tranquilla vita dei commercianti.
Nei quartieri residenziali periferici molte ville, costruite qualche anno fa per gli stranieri, sono sfitte. Anche i lussuosi alberghi del centro sono vuoti. Dopo aver attirato investimenti e joint ventures, i contratti sono stati modificati su iniziativa governativa, a danno degli investitori stranieri.
Frits Jepsen è un funzionario danese che lavora da anni nel campo delle fisheries, la pesca. Il governo danese è presente in Vietnam con progetti di aiuto e sviluppo, ma questi devono essere costantemente verificati, perché la corruzione è altissima. «In Vietnam la situazione è peggiore che in Sierra Leone, dove ho lavorato anni fa – mi dice Frits -. In Africa c’è molta corruzione, ma qui è stata addirittura codificata dal regime comunista. Non c’è via di uscita».
Anche la vita culturale di Hanoi è pesantemente influenzata da un regime legato ai vecchi schemi comunisti e nazionalisti. «Hanno speso 70 miliardi per ristrutturare l’Opera di Hanoi con l’aiuto di sponsors stranieri – interviene la signora Jepsen, che rimpiange molto l’Europa -. Ma sono obbligati a mettere in scena opere di Gluck e Mozart tradotte in vietnamita. Con risultati disastrosi».
Lisa Jepsen mi fa conoscere le amiche di Hanoi, che lavorano nelle organizzazioni umanitarie. Come la Iom (Inteational Organization for Migration), dove una signora danese si occupa delle donne vietnamite costrette a prostituirsi o a sposare cinesi che a casa loro non trovano moglie, a causa della politica del figlio unico e dell’aborto selettivo. Una ginecologa danese è arrivata da poco con il marito, funzionario dell’ambasciata. Sta cercando di rendersi utile, ma non è facile, data la chiusura che dimostra la burocrazia vietnamita. Mi confida: «C’è molto da fare nel mio campo. Le donne, specialmente le giovani madri, hanno bisogno di essere aiutate e informate. L’assistenza sanitaria nazionale è praticamente inesistente, per chi non può pagare».
La chiesa cattolica del quartiere apre la sera dopo le cinque. La donna che tiene le chiavi si scusa per lo stato d’abbandono in cui versa il minuscolo edificio. Il rosario di stasera, recitato da pochi, mi pare un lamento. Quando rientro a casa, la donnina che lavora nel cantiere vicino agli Jepsen è ancora occupata a caricare e trasportare sabbia e mattoni sul carretto. Va avanti e indietro, dal mattino alle 6 fino alle 10 di sera, col suo pigiamino grigio, il cappello conico e la mascherina di pezza. Come si può vivere in queste condizioni?
BICICLETTE
COME CAMION
È domenica: andiamo in campagna. Attraversiamo il Fiume Rosso e prendiamo la strada dell’argine. Non vi è traccia di fabbriche nei dintorni della capitale; solo presso l’aeroporto ho visto i lavori in corso, per creare un’area di insediamenti industriali.
La campagna è bella. Hanno terminato la raccolta del riso. Le case in mattoni sono spesso raccolte intorno a una chiesa, ma le campane non suonano più la domenica. Oggi è festa solo per gli impiegati di Hanoi, che da ottobre ’99 hanno ottenuto il sabato libero.
Proseguiamo per Bat Trang, un antico villaggio a ridosso del primo argine, dove pare d’essere in un girone infeale. Nelle vie fangose, interrotte da vaste pozzanghere, tutti sono al lavoro, anche i bambini. Da 500 anni qui si fabbricano vasi di ceramica di tutti i tipi. I più belli sono grandi, pesantissimi, smaltati e decorati a mano. Poi le teiere e le ciotole bianche a disegni azzurri, come quelle antiche, cinesi.
Ogni casa ha il suo foo a carbone e sono le bambine che impastano la polvere nera con acqua per fare le forme rotonde, da seccare sul muro. Le infeali e rudimentali macchine per lavorare il caolino fanno un rumore assordante. Cerco inutilmente una bottega che ci venda qualcosa da bere. Trovo solo qualche contadina con il suo cesto per terra con le verdure, qualche pesce e le pannocchie da arrostire. Gli uomini passano spingendo a mano le bici, con due pali per tenerle in equilibrio. Portano due cesti enormi con decine di grossi vasi. Durante la guerra venivano utilizzate le bici per il trasporto di armi, fino a 300 chili. Chi le sa riparare è uno dei più abbienti, in questa società di diseredati.
CESTE COME BARCHE
Un volo diretto da Hanoi ci permette di superare la zona colpita dal tifone, dove centinaia di persone sono morte, spazzate via nelle loro capanne di bambù su palafitte. La costa sul Mar della Cina è soggetta a tifoni, che fanno crollare ponti e dighe, distruggendo i raccolti. Mentre atterriamo a Nha Trang, vedo la grande baia e le isole che la circondano: pare un bacino di fango, tanti sono i detriti che riempiono il mare.
Un promontorio boscoso nasconde le ville di Bao Dai, l’ultimo imperatore. Sulla spiaggia ci sono le casette dei pescatori, gente cordiale e robusta che mi accoglie con simpatia. Un gruppo di ragazzine sta caricando taniche di combustibile su un piroscafo. Vanno e vengono sulla spiaggia, con la basculla di bambù sulle spalle che porta almeno 40 chili. Qualcuno ripara le reti, le donne puliscono il pesce, i giovani manovrano le sorprendenti barchette, cesti rotondi che possono portare anche 3-4 persone.
Una pioggia improvvisa mi costringe a fermare un ciclò e ripararmi sotto la cerata. Mi farò portare da questo magro signore (che ha forse passato la notte accoccolato sul sedile) sul bel lungomare, fino all’estremo opposto della baia di Nhga Trang. Una città tranquilla, con le sue chiese, le pagode e le torri cham che ricordano l’India, dove la vita è più facile e persino la guerra non si è fatta sentire. Qui si rifugiarono molti cattolici nel ’54, dopo la caduta di Dien Bien Phu, durante i 300 giorni concessi dagli accordi di Ginevra per poter passare la linea di demarcazione posta sul 17° parallelo. Nel 1954 la Polonia aveva partecipato, con Indonesia e altri paesi neutrali, all’evacuazione dei vietnamiti che volevano fuggire dal comunismo del nord.
Mi fermerò nel ristorante di Nam, buon amico del dottor Falcone, il medico italiano responsabile di Medici senza frontiere (Msf), che in città ha un ambulatorio per la cura e la prevenzione dell’Aids. Nam e la sua famiglia sono cattolici, originari di Hanoi. Apprendo così che a Nha Trang ci sono 3 diocesi, un nuovo seminario, 6 parrocchie e diverse comunità religiose.

A SAIGON
SOGNANO L’AMERICA
L’ultima mattina a Saigon, davanti alla bella cattedrale, incontro Cuong. L’aria è festosa, il clima caldo e rilassato, i negozi modei hanno un aspetto occidentale. Cuong vorrebbe che mi fermassi: «Avrei ancora molte cose da raccontare» mi dice. Figlio di un intellettuale comunista di Hanoi che ha scelto il sud per vivere, Cuong ha potuto studiare all’università e ora guida i gruppi di reduci americani in visita. «Ho avuto la fortuna di avere entrambi i genitori impegnati nella lotta contro i francesi e gli americani. Siamo stati spietati con i nostri connazionali che aiutavano il nemico, ma solo con chi uccideva. Sapevamo tutto, avevamo degli infiltrati ovunque. Nel governo filoamericano avevamo anche un ministro vietcong».
Vedo un giovane deciso, sicuro di sé, che non toerebbe mai al nord, la terra dei suoi. «Ma tu, che hai scelto di vivere in questa, che è la città più “americana” del paese, – gli chiedo infine – cosa preferisci, l’America e il suo stile di vita, o il comunismo?». Cuong risponde senza esitazione: «L’America»!

LA STORIA DI QUY, FRATE VIETNAMITA

Nha Trang (costa meridionale). Raggiungo la chiesa di Sant’Antonio su una bici arrugginita, nel traffico impazzito del pomeriggio. In queste città vietnamite bisogna viaggiare in mezzo alla strada, per lasciare posto alle moto e alle bici che vogliono attraversare contromano. Basta fidarsi, continuare a pedalare diritto senza cambiare il ritmo e la velocità: sono gli altri che ti evitano. Sfioro donne che corrono scalze con enormi carichi bilanciati sulle spalle e ho il cuore in gola, per la paura e la fatica.
Padre Quy’, un frate minore dal viso tondo e il sorriso asimmetrico, è parroco di S. Antonio. Mi parla a lungo del suo paese e mi fa conoscere situazioni e persone. Nato nel ’46 a Phu Gia, villaggio cattolico a 10 km da Hanoi, la sua è una famiglia molto devota, come tante nel nord. Nel ’54 sono costretti ad abbandonare il paese e raggiungono Nha Trang, sulla costa meridionale del paese, su una nave polacca. Quy’ entra nel seminario di Dalat e nel ’71 fa la sua professione a Saigon. Nel ’75 viene inviato in un remoto villaggio di campagna. Vi passerà i successivi 18 anni, lavorando la terra e cercando di rivitalizzare le parrocchie, abbandonate dai preti durante la guerra. La polizia provinciale lo sorveglia e lo autorizza a continuare perché ne apprezza l’opera, che non si limita al catechismo. Quy’ infatti incoraggia la popolazione a lavorare per migliorare le condizioni di vita. Dal ’79 all’’81 la regione soffre una terribile carestia: i contadini muoiono di fame a causa della collettivizzazione forzata. Sono gli anni della fuga, dei «boat people», che tentano con ogni mezzo di fuggire da un paese allo stremo. Molti di costoro sono cattolici, perseguitati dal regime. L’apertura arriverà solo con la «perestroika» di Gorbaciov, nel 1986.

Padre Quy’ è arrivato col suo motorino. Salgo e partiamo. Attraversiamo la città, dominata dalla bella cattedrale, costruita su un rilievo, in pieno centro. Saliamo sulla collina che chiude la baia verso nord, dove ho notato un edificio di stile italiano. È un convento francescano. Chiuso da anni, ha i vetri rotti alle finestre e una bandiera rossa appesa sulla porta. Sulla strada sterrata c’è la statua di San Francesco e, seminascosto da baracche di lamiera ondulata, il monumento funebre di Maurice Bertin, il missionario francese che fondò la missione di Nha Trang e fece costruire i primi conventi dei frati minori in Vietnam.
Gli abitanti del villaggio di Ba Lang, nella provincia di Than Hoa, arrivarono qui nel ’54, sfuggendo al massacro ordinato dal governo per impedie la partenza. Qualcuno dei familiari restò, per custodire la casa nella speranza di un ritorno. Than Hoa subì poi i devastanti bombardamenti americani, testimoniati dalle migliaia di crateri che segnano il suo territorio. I rifugiati di Than Hoa erano tutti pescatori e si installarono lungo questa baia, già occupata da comunità cattoliche. Nel ’79 i religiosi persero le scuole e parte dei terreni, requisiti dal governo che vi costruì una stazione di polizia e le caserme. Restano le chiese, una piccola comunità di carmelitane di clausura e una casa per le novizie delle suore francescane di Maria. Suor Claire, la superiora, è una donna stupenda, di grande esperienza, che ha fatto aggiungere la cappella (dopo i controlli governativi) sul tetto, per non dare nell’occhio. La parrocchia è guidata da padre Pierre Trai, un personaggio interessante, grande amico di Quy’. «Al tempo del presidente cattolico Diem, padre Pierre era segretario del vescovo di Saigon – mi dice Quy’ -. Gli americani fecero uccidere Diem perché si opponeva al loro intervento. Fu un grave errore. Del suo governo si ricorda solo la corruzione e il nepotismo. In realtà Diem, che apparteneva a una grande famiglia di mandarini del re, era stimato anche da Ho Chi Min. Entrambi non si erano sposati e avevano dedicato la loro vita al paese». Padre Pierre ha subìto la prigionia e deve sapere molte cose, che nasconde dietro un sorriso intelligente.

L’ultima visita è forse la più interessante. Padre Phuc fa parte del movimento patriottico. «Sono anch’io francescano, quindi perché non comunista?», mi dice, sorridendo dietro le lenti spesse. Phuc è seduto alla scrivania della sua stanzetta, ingombra di carte, radio e oggetti di ogni tipo. Quy’ mi spiega: «Abbiamo bisogno di essere rappresentati nel governo provinciale e Phuc è il nostro uomo. Hanno cercato di dividere le comunità cristiane, come è stato fatto in Cina, ma qui non ci sono riusciti».
La finestra è aperta sul sagrato, dove stanno lavorando alcuni operai. Parliamo della chiesa vietnamita. «La religione deve essere gestita e controllata dallo stato, che ha creato i movimenti patriottici, buddista e cristiano. Essi sono strumento del partito, ma, mentre la maggioranza dei buddisti è favorevole a questo governo, i cattolici no». La polizia segreta è tuttora onnipresente. La logica dei comunisti nel governare il paese è: opprimere, reprimere, prevenire i movimenti di opposizione. Ho visto i cartelli che invitano a partecipare al voto, con immagini femminili. «Il rinnovamento deve necessariamente partire dall’interno del partito – aggiunge Quy’, che mi pare il più pessimista -. Il comunismo vietnamita è senz’anima. Concussione e corruzione regolano la vita economica, ma il male peggiore è stato fatto all’uomo. La menzogna domina oramai le relazioni personali».
Devo partire. Padre Phuc e Quy’ sorridono, ma si sente amarezza nelle loro parole. «Abbiamo dei giovani intelligenti, che vorremmo continuassero gli studi, ma sono poveri…».
C.C.

Claudia Caramanti




KENYA & TANZANIA – Dialogare… da dove cominciamo?

Il fenomeno delle sètte costituisce una sfida
per le giovani chiese in Africa. Alcune di esse vorrebbero azzerare un secolo di evangelizzazione.
Eppure è urgente aprire un dialogo anche con loro: un nuovo fronte missionario di non facile attuazione.

«Lodiamo il Signore, fratelli, prima di continuare il nostro viaggio! Preghiamo!». Con voce forte e suasiva, il predicatore di strada John Mwangi si fa largo tra la folla alla stazione degli autobus di Nairobi, abborda un gruppo di persone in attesa di partire per Ngong, sale sul bus e continua il suo sermone.
La sua predicazione è basata su un versetto della bibbia, quasi sempre lo stesso. Finita la predica, chiede ai passeggeri un minuto di preghiera, in silenzio, occhi chiusi e testa bassa. E conclude con la terza parte, la più lunga e importante: «E ora, fratelli, prima di lasciarvi, se qualcuno vuole donare uno scellino per la parola di Dio, può farlo».
È così che, da due anni, Mwangi si guadagna da vivere; lo confessa candidamente e giura di essere un predicatore convinto e genuino. Ma ammette che altri usano la parola di Dio per i loro interessi.

A Githuri, sobborgo di Nairobi, sta prendendo piede una setta anticristiana per soli uomini. Ispirandosi alle tradizioni ataviche, lo sguardo rivolto al monte Kenya, gli adepti cantano in kikuyu le lodi di Ngai (Dio).
Kimani, un membro della setta, dice che la religione tradizionale è l’unico mezzo per unire la gente, mentre il cristianesimo, secondo lui, è causa di divisione. «Guarda a quante sètte ha dato origine: tutte in guerra tra di loro» aggiunge.
Il movimento non ha leader, perché davanti a Dio sono tutti uguali. Non credono in Cristo; ma buona parte del loro insegnamento si rifà all’Antico Testamento. Si considerano dei «Sansoni» redivivi, col compito di salvare il mondo dai «filistei» cristiani. Non si tagliano i capelli e temono le donne: potrebbero diventare potenziali Dalila.
L’identità più segreta è svelata solo ai nuovi adepti. La disciplina è molto rigida; chi disubbidisce è punito severamente. Sembra, tuttavia, che tra i loro ideali ci sia quello di servire la gente. Per esempio, si danno da fare per ridurre borseggi alla stazione degli autobus. Sono convinti che, con l’aiuto di Dio, cambieranno il mondo in un luogo di delizie.

A vvolti in tuniche multicolori, i seguaci della setta Thai invadono le strade di Nairobi; in nome di Mugeka, creatore e protettore di tutti, predicano la fedeltà coniugale. Se la prendono con i contracettivi, ma chiudono un occhio per i condom.
Molti aderenti a questa setta sono giovani e fanatici: arrivano con grandi altoparlanti; predicano anche quando la gente è poca o indifferente. Le zone residenziali, soprattutto, sono oggetto delle loro crociate.

S iamo a Nyeri, nel cuore della terra dei kikuyu. Poco lontano dalla città l’Outspan Hotel è pieno di turisti. Oltre il fiume Chania si estende il Mathari, dove i missionari della Consolata hanno costruito una roccaforte cristiana, con ospedale, scuole, seminario, istituti tecnici, tipografia, casa madre di una congregazione di suore africane.
Eppure, in città, all’ombra di un mugumo, pianta sacra per i kikuyu, in una piccola capanna-santuario, alcuni anziani discutono della loro religione tradizionale, incuranti delle beffe ironiche degli abitanti della zona. Uno di loro legge una vecchia bibbia. Per terra ci sono coa di animali differenti, teschi di capre, lattine di plastica, zucche svuotate.
Un uomo vestito di bianco sostiene che quel luogo è la fonte della loro antica fede religiosa: è la «chiesa» di Gikuyu e Mumbi, la coppia che ha dato origine all’etnia kikuyu.
Chege Kibiro, l’uomo vestito di bianco, è il «prete» del santuario, un esperto di tradizioni locali. Spiega con orgoglio che tale santuario fu costruito da alcuni vecchi mau mau, i guerriglieri del Kenya che hanno lottato per liberare il paese dal governo inglese e missionari cristiani. «La nostra religione – afferma Kibiro – è stata dispersa dall’uomo bianco. Con l’indipendenza va rivitalizzata. Fa parte della libertà per cui abbiamo combattuto».
La decisione di creare tale santuario fu presa il 14 aprile 1989, durante un raduno di ex combattenti. Vicino dovrebbe sorgere un istituto tecnico, dedicato a un eroe della lotta per l’indipendenza. È già stata inoltrata all’amministrazione governativa la richiesta di un pezzo di terra per tale costruzione, vicino a un grande mugumo naturalmente.
Kibiro è stato scelto come sacerdote in virtù dei suoi poteri straordinari, che risalgono al leggendario Mugo wa Kibiro, il profeta kikuyu che aveva previsto un’invasione della loro terra da parte di gente «con la pelle come quella di un rospo» (sarebbero i colonialisti e i missionari).
Il santuario è molto frequentato, spiega il custode della tradizione. Vengono anche alcuni politici per consultare la divinità tradizionale. All’ombra dell’albero sacro, si sacrifica una capra e si gettano i dadi: così si rivela la volontà divina.
E tutto questo avviene a pochi chilometri da Tetu e da Mathari, dove i missionari della Consolata hanno cominciato la loro attività nel lontano 1902. Quasi cent’anni fa!
Una grande sfida per la giovane chiesa di Nyeri e per i missionari.

Mtoto wa Siasa

Alessandro Di Martino




SUDAN – Sangue e petrolio sui monti Nuba

Il paese più vasto dell’Africa,
spaccato fra genti arabizzate e musulmane nel nord
ed etnie autoctone e cristiane nel sud. Ed è guerra fra i due «schieramenti»:
fra il regime di Khartoum e l’esercito popolare di liberazione,
fra il presidente al-Bashir e il colonnello Garang.
Con l’aggravante della fame e il blocco degli aiuti alimentari ai morenti,
con la razzia di schiavi e il genocidio del popolo nuba.
Impera la «legge islamica», detestata dal sud. E zampilla pure il petrolio.
Allora l’occidente apre gli occhi. A favore di chi?

Nell’aprile 1995 un gruppo di associazioni e organi di stampa italiani (Pax Christi, Acli, Amani, Arci, Caritas, Cesvi, Cuore Amico, Mani Tese, Nigrizia) lanciò la Campagna «Sudan, un popolo senza diritti», raccogliendo circa 50 mila firme per avviarla.
In questi ultimi anni la Campagna ha cercato, con una informazione corretta sulla «guerra dimenticata» del Sudan, di sensibilizzare l’opinione pubblica e di attuare una pressione politica sul governo italiano. A tale scopo ha organizzato incontri sul paese e ha promosso iniziative di solidarietà verso la popolazione, provata dalla guerra, dei Monti Nuba.
Nel forum «Sudan, un popolo senza diritti» (Milano, settembre 1999) i problemi sono ritornati alla ribalta. Sono intervenuti, fra gli altri, Richard Gray, professore di storia africana all’università di Londra e docente di storia all’università di Khartoum (1959-1961), Mel Middleton, cornordinatore della Campagna contro Talisman (compagnia petrolifera canadese in Sudan), Johannes Ajawin, sudanese del sud, avvocato e autore di rapporti sui diritti umani per African Rights, e Joseph Gazi Abanjite, vescovo e rappresentante della Conferenza episcopale del Sudan.
Prof. Richard Gray:
Colonialismo e guerra
Il professore Gray ha delineato con chiarezza le cause della guerra in corso in Sudan da tanti anni, dovuta soprattutto a situazioni economiche e politiche, «che si sono gradualmente confuse con i fattori delle identità religiose».
L’impero britannico occupò l’Egitto nel 1882, ma solo dal 1899 amministrò il Sudan insieme all’Egitto, dopo aver sconfitto il «Mahdi», eroe della rivolta islamica che, nel 1885, aveva debellato il generale inglese Gordon e si era insediato a Khartoum. Il governo di Londra non aveva interesse nel Sudan per sé, ma, occupandolo, negava «ad altre potenze il controllo sull’Egitto e sul Canale di Suez, all’epoca cordone ombelicale per l’India».
Con il timore di un’altra rivolta islamica, nel 1920 il governo britannico stabilì un modus vivendi con i sudanesi più influenti, permettendo al nord di vivere in pace e godere di benefici economici. Invece «il sud, insieme alla maggior parte del popolo nuba, rimase tagliato fuori dallo sviluppo fino al 1839, quando Muhammad Alì inviò una spedizione per esplorare il Nilo Bianco».
Mercanti europei, egiziani e levantini cercarono fortuna in queste regioni con il commercio dell’avorio e, ben presto, iniziarono la tratta degli schiavi. «Per tre decenni il governo britannico continuò questa violenza, usando anche aerei da bombardamento contro il sud, dal quale i pochi missionari cattolici si erano ritirati da tempo». Solo più tardi il Comboni e i suoi missionari raggiunsero i Monti Nuba.
Nel 1930 si riuscì a stabilire un modus vivendi anche con i popoli del sud. Per una generazione i britannici vi assicurarono la pace. «Per mantenere la stabilità, il governo di Londra escluse ogni influenza del nord, compreso il nazionalismo arabo».
Al termine della seconda guerra mondiale il governo britannico capì (tardi, in verità) che non si poteva conservare l’isolamento socioeconomico. Nel 1948 fu aperta la prima scuola superiore nel sud.
Nel 1956 il Sudan divenne indipendente. Gli amministratori coloniali, dopo i negoziati anglo-egiziani, lasciarono il paese e i loro posti di potere passarono nelle mani dei sudanesi del nord. Questo fece capire al sud che «si era passati da un regime coloniale ad un altro».
Scoppiò quindi la guerra civile, interrotta dal 1972 al 1983 per volontà del presidente Nimeiry. Egli stesso, però, ruppe la tregua quando furono scoperti giacimenti di petrolio nelle regioni settentrionali. La guerra riprese nel 1983, più cruenta che mai. Nel settembre 1983 Nimeiry ripristinò la sharia (legge islamica).
Dal 1989, con il presidente Omar al-Bashir, il potere si è consolidato nelle mani del Fronte islamico nazionale di Hassan al-Turabi, mentre il colonnello John Garang ha continuato a guidare l’Esercito popolare di liberazione (Spla).
Anche se l’attuale regime cerca di mobilitare tutti in una «guerra santa» soprattutto contro i nuba, «la guerra civile investe questioni economiche e politiche».
Coord. Mel Middleton:
L’ARMA DEL PETROLIO
La guerra contro il sud-Sudan si avvale anche dell’arma del petrolio. Da più di sei anni alcune imprese straniere lavorano nel paese per estrarre greggio.
Arakis fu la prima società del Canada ad operare con il governo sudanese nel settore petrolifero, con la presenza di imprese statali di Cina e Malesia. La compagnia canadese ha ammesso di aver fornito 10 mila barili di greggio al giorno alla raffineria di El Obeid. In questa città esiste una base militare aerea, che bombarda i Monti Nuba e le popolazioni del sud-Sudan.
Nel 1998 Talisman, un’altra impresa famosa in Canada, acquistò Arakis, legandosi anch’essa al governo di Khartoum. Le chiese del Canada e associazioni di difesa dei diritti umani hanno denunciato il fatto. Però Jim Buckee, direttore di Talisman, ha dichiarato: «Non c’era nulla che potesse far pensare che la nostra società sostenesse un regime malvagio».
Mel Middleton, cornordinatore canadese della Campagna contro Talisman, ha commentato: «I responsabili della società non hanno mai visitato le regioni meridionali del Sudan, colpite dal divieto dei voli umanitari per recare aiuto alle genti sottoposte a carestie “provocate”, traffico di schiavi e atti di genocidio. Il petrolio estratto è un’arma strategica del regime contro il popolo del sud».
Lo stesso Buckee nel 1998 ammise che una parte dei 250 milioni di dollari investiti da Talisman è finita in mano al presidente al-Bashir e compagni. Il vicepresidente ha detto: «Con l’esportazione di petrolio, otterremo una vittoria decisiva contro i ribelli del sud».
Il denaro del petrolio è il prezzo del sangue.
Avv. Johannes Ajawin:
chiese e moschee distrutte
La guerra civile ha comportato il genocidio, ancora in corso, dei nuba. Lo ha ricordato Ajawin, avvocato sudanese del sud e membro del movimento African Rights. Già nel 1995 African Rights accusò il governo di Khartoum di annientare il popolo nuba.
Il movimento ha come programma la verifica del rispetto dei diritti umani sui Monti Nuba: è un programma gestito da 11 volontari sul campo, collegati a Londra. Rigorose descrizioni documentano le atrocità e barbarie (bombardamenti, mine anti-uomo, razzie, sequestri) commesse contro i nuba, cristiani e musulmani.
In una relazione dell’agosto 1997 si legge: «L’incendio di chiese è divenuto prassi comune. Tutti i luoghi di culto nei villaggi e molti altri ancora sono stati distrutti: a Tandiri, Tabari, Regifi Um Dulu, Karkaraya, Nagorban, Nakur; anche la chiesa di Achiron è stata bombardata».
Si contano pure moschee distrutte. Questo è, per molti, uno degli aspetti più sorprendenti della guerra sui Monti Nuba, poiché gli autori dei misfatti sono musulmani. Il fatto fu documentato per la prima volta da African Rights tre anni fa. Però nulla è cambiato.
Il Consiglio islamico del Kordofan, nel sud, ha continuato il triste compito di elencare le moschee distrutte. La moschea di Kauda è una struttura solida, difficile da abbattere. Ma, nel marzo 1996, l’esercito vi lasciò solo i muri. Su una parete, vicino alla moschea, fu scritto il seguente versetto del corano: «Coloro che morirono in battaglia non sono realmente morti. Dio li benedirà più tardi».
Questo per indicare che non importa se un uomo ha ucciso qualcuno, perché Dio ne avrà cura.
Mons. Joseph Gazi Abanjite:
Per una pace giusta
Il vescovo ha rappresentato la Conferenza episcopale del Sudan, che si era incontrata a Nairobi il 12-27 agosto 1999 e aveva stilato il documento «Verso una pace giusta». Ne sono stati citati alcuni passi significativi.
«Giustizia e pace devono camminare mano nella mano e divenire parte integrante del nostro ministero pastorale. Vogliamo che le nostre diocesi e parrocchie (fino alle più piccole comunità) siano seriamente coinvolte nel creare e mantenere un’atmosfera in cui giustizia e pace possano prosperare… Perciò abbiamo deciso di allestire alcune strutture, di intraprendere iniziative, di raccogliere e divulgare informazioni per lavorare più efficacemente per la giustizia e la pace».
Al riguardo sarà formato un comitato speciale, con diversi gruppi di lavoro, per attuare programmi di pace insieme ad associazioni, altre conferenze episcopali, istituti religiosi, agenzie ed esperti vari.
«Faremo tutto il possibile – affermano i vescovi del Sudan – per espandere e rafforzare le iniziative ecumeniche esistenti per la riconciliazione tra i gruppi. Incoraggeremo le etnie e gli anziani locali ad usare i loro metodi tradizionali per risolvere i conflitti, quale valido contributo al processo di pace».
«Continueremo ad esercitare la non-violenza attiva denunciando le ingiustizie, gli affronti alla dignità e le violazioni dei diritti umani; resisteremo alle intimidazioni; entreremo in dialogo, scrivendo lettere e usando i mass media. Consideriamo la non-violenza attiva un mezzo di resistenza agli oppressori per renderli consapevoli del male che causano ai loro fratelli e sorelle».
«Cercheremo di avere informazioni accurate sulla propaganda e le politiche del governo sudanese e dello Spla, per renderle accessibili ai vescovi, alle ambasciate straniere, ai gruppi dei diritti umani, ai mass media stranieri».
I vescovi pregano e si augurano, un giorno non lontano, di poter dire con il salmista: «Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo; nell’andare se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma, nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni» (Sal 126, 5-6).
Pace in Sudan!

Silvana Bottignole




Lo sciamano, messaggero di Dio

Sono 82 le etnie indigene della Colombia. Un milione di indios (su un totale di 37 milioni
di colombiani) che occupano l’ultimo gradino nella scala sociale del paese.
Eppure, a differenza degli altri stati latinoamericani,
la Colombia dispone di una legislazione molto avanzata in questo campo.
La Costituzione del 1991 ha ufficializzato un paese plurietnico e multiculturale,
riconoscendo alle popolazioni indigene il diritto all’autonomia
(territoriale, politica, economica e culturale).
In questi inserti, cercheremo di descrivere alcuni aspetti della cosmogonia, antropologia
e vita quotidiana degli indigeni colombiani, con particolare riferimento all’etnia nasa-paez.
Cominciamo con la figura dello sciamano o medico tradizionale.

In lingua nasa si chiama «tke» (si legge: thè), che significa «tuono» e dunque «messaggero di Dio». Lo sciamano o medico tradizionale è l’uomo dell’armonia con la madre terra, è colui che conosce il mondo degli spiriti e di conseguenza il modo per entrare in contatto con loro. Egli è l’intermediario tra l’uomo e l’aldilà e quindi ha una funzione sacrale, sacerdotale.
All’interno della comunità lo sciamano è investito di molteplici funzioni. Conoscendo i segreti della natura, sa curare le malattie attraverso le erbe. Conoscendo l’aldilà, può prevedere la morte e i pericoli. Sa purificare, liberando le persone dagli spiriti cattivi. Il medico tradizionale è dunque il centro della vita nasa, più importante del cabildo (l’organo collegiale e decisionale della comunità) e del governatore. «Quando – spiega padre Roattino – si decidono gesti importanti, per esempio l’occupazione della Panamericana, mai si procede senza il preventivo permesso dello sciamano».
Ma come si diventa medico tradizionale? «Per tradizione o per vocazione. C’è una sorta di “chiamata” o un sogno che indica la strada. Poi, i chiamati si mettono nelle mani di un medico tradizionale che, nel giro di qualche anno, con determinati rituali fa uscire allo scoperto i loro poteri».
Naturalmente non tutti rivestono con merito questo ruolo. «È innegabile – scrive Luz Marina Quiguanas Conda, rappresentante nasa – che non tutti gli sciamani sono stati o sono buoni medici: alcuni si sono venduti al nemico di tuo, si sono lasciati ingannare o comprare o hanno lavorato contro l’armonia della comunità; altri chiedono soldi per il loro servizio o vogliono competere con i medici occidentali, approfittando dei poteri curativi delle piante medicinali, diventando così dei semplici “curanderos”».
Ci sono donne medico? «Sono rare, ma quelle poche hanno poteri molto forti. Va ricordato che gli sciamani non sono tutti uguali. In America Latina quelli dell’Amazzonia sono i più noti e rispettati. Qui, in Colombia, i più conosciuti sono quelli provenienti dal Putumayo, regione confinante con l’Amazzonia».
L’iconografia dello sciamano parla di gesti e rituali particolari. È vero? «Sì, lo sciamano ha tutto un suo alfabeto. Così, se sente lo spirito salire dalla mano destra e scendere dalla sinistra, è un buon segno, mentre è cattivo se avviene il contrario. Poi ci sono i riti che utilizzano la coca, le erbe, l’acqua…».
A prima vista, sacerdote e medico tradizionale sembrerebbero figure in competizione, entrambe intermediarie tra il mondo umano e quello spirituale… «Un tempo lo sciamano era demonizzato o ridicolizzato anche dalla chiesa cattolica. Oggi, per fortuna, le cose sono molto cambiate.
Il nostro rapporto con i medici tradizionali è più che buono. Essi riconoscono la figura del sacerdote e i sacramenti. Sono battezzati e vengono a messa. Nei loro rituali hanno assunto simboli ed elementi della tradizione cattolica. Quando, ad esempio, sono chiamati al “refresco”, una sorta di benedizione del nuovo cabildo e del bastone del governatore, molte volte gli sciamani chiedono la presenza del sacerdote, che benedirà l’acqua che essi useranno nel rito. E sulle loro insegne ci sono spesso immagini cristiane».
Rispetto a voi, le sètte evangeliche si comportano diversamente… «Altro che! Per gli evangelici gli sciamani sono l’incarnazione del diavolo».
Pa.Mo.

Paolo Moiola




Mozambico – Cantare la fede

La versione del libro dei Salmi in lingua macua
costituisce un importante contributo all’inculturazione
della fede in una delle più popolose etnie del Mozambico. Un lavoro che supera la semplice traduzione, per diventare un’autentica fusione tra messaggio biblico e cultura locale.

D a oltre cinque anni condivido la sfida dell’evangelizzazione che i missionari della Consolata stanno affrontando nel Niassa, nel nord del Mozambico, per esprimere e trasmettere il vangelo con metodi e linguaggi comprensibili alla cultura ed esperienza umana del popolo macua. Si tratta di una evangelizzazione inculturata che abbraccia vari settori dell’attività missionaria: modo di apprendere la fede (catechesi), di pregare (liturgia), di vivere quotidianamente il vangelo (spiritualità) e di organizzare l’apostolato (pastorale).
Fin dal primo arrivo nel Niassa sono rimasto impressionato dal desiderio dei cristiani di «tenere» nelle proprie mani la parola di Dio e dall’interpretazione creativa che ne fanno. Per soddisfare questa sete, padre Giuseppe Frizzi sta lavorando da molti anni alla traduzione della bibbia e libri liturgici in lingua macua-scirima. Una mole di lavoro che egli porta avanti con ottimi risultati, grazie alla sua preparazione biblica, alla profonda conoscenza della lingua e cultura locale e alla preziosa collaborazione di vari animatori di comunità. Tale traduzione è guidata da una duplice preoccupazione: fedeltà al testo originale e sforzo di rivestire e trasmettere il messaggio biblico con gli elementi linguistici e culturali della gente.
Dopo la pubblicazione del Nuovo Testamento (Watana wa Nanano) nel 1998, in questi mesi ha visto la luce il Libro dei salmi (Masalmu. Eyinlo y’Ekristu). Intanto continua la traduzione degli altri libri dell’Antico Testamento, in modo da riuscire presto a pubblicare una edizione completa della bibbia in lingua macua.
Per quanto riguarda il libro dei salmi, non si tratta di una semplice traduzione del testo sacro, ma di una edizione a uso liturgico. Già da molti anni, infatti, le comunità del Niassa pregano con i salmi. Con questa nuova pubblicazione si è voluto mettere nelle mani dei cristiani di lingua macua-scirima uno strumento di preghiera e formazione personale e comunitaria, da usare in famiglia e nei vari raduni e incontri parrocchiali.
«È un prezioso contributo per la celebrazione dei 500 anni del primo annuncio del vangelo in Mozambico – afferma mons. Luís Ferreira da Silva, vescovo di Lichinga, nella prefazione del libro – e un nuovo strumento per cantare la lode di Dio nel grande giubileo dei 2000 anni dalla nascita di Cristo».

T enendo presente lo scopo e la destinazione del libro, sono stati introdotti speciali accorgimenti redazionali, che accompagnano ogni salmo: introduzione, illustrazione, citazioni bibliche, proverbi macua, ritoelli, proposte di canti e preghiera finale. Un indice speciale suddivide i salmi per temi e per settimane, secondo la struttura della liturgia delle ore.
Nella breve sintesi introduttiva viene presentato il tema del salmo e i suoi addentellati con il Nuovo Testamento, soprattutto con la persona e la missione di Cristo. Le citazioni bibliche ne permettono l’approfondimento. La preghiera finale aiuta a trasformare l’incontro con la parola di Dio in comunione e contemplazione.

N ovità assoluta di tale edizione: accanto a ogni salmo sono riportati vari proverbi macua, sempre in sintonia con il tema. «I proverbi – afferma padre Frizzi – sono “semi del Verbo”, “riflessi della Verità eterna” che illuminano i macua nel loro cammino verso Dio. Essi contengono tutta la sapienza di questo popolo e ne manifestano la profondità della ricchezza culturale, morale e religiosa, spaziando dalla pratica del diritto all’amore e alla verità, dallo spirito di generosità all’attenzione per il prossimo, dalla serenità nelle difficoltà all’aiuto reciproco, dalla fede in Dio nelle avversità alla speranza nella sua giustizia incorruttibile. La gente si serve dei proverbi per sottolineare e rafforzare il proprio pensiero e la propria presa di posizione».
Fin dall’inizio del suo lavoro nel Niassa, padre Frizzi, insieme a un’équipe di collaboratori, ha raccolto e catalogato migliaia di proverbi macua, mettendo insieme un materiale etnografico vasto e di grande valore. E conoscendone il potere pedagogico, padre Giuseppe li usa abbondantemente nella predicazione e nella catechesi. Per questo, ogni salmo è accompagnato da quattro o cinque proverbi, che aiutano il lettore a comprendere e ricordare il messaggio del salmo.

L a traduzione dei salmi rispetta con estrema fedeltà il testo ebraico. È evidente, tuttavia, il grande sforzo di far convivere due mondi in un legame concreto: quello biblico, già palese nella cultura macua, e quello locale, già incluso nel mondo biblico, grazie a somiglianze di idee, concetti ed espressioni verbali.
La traduzione della parola di Dio è la prima tappa del processo di inculturazione del messaggio evangelico in una determinata cultura. Ma non basta la versione letterale del testo in un’altra lingua; occorre tradurlo nella rispettiva cultura, attraverso un’operazione linguistica, interpretativa e di comunicazione, per far sì che il Verbo si reincai nella nuova cultura. Avviene così un processo di scambio reciproco tra la parola di Dio e la lingua-cultura che la riceve. La parola di Dio rimane sempre la stessa, ma acquisisce connotazioni nuove e si apre a prospettive simboliche legate alla cultura.
Il lavoro di padre Frizzi per tradurre e inculturare i salmi è stato facilitata dal fatto che queste composizioni sacre, sia nella struttura letteraria sia nei contenuti concettuali, presentano molte analogie con la cultura macua: immagini e simbolismo espressivo, caratteri propri della trasmissione orale, riferimento alla tradizione degli antenati, legami di parentela, unità tra sacro e profano, concezione di Dio creatore, trascendente, onnipresente, misericordioso.

I l canto religioso è uno degli strumenti di evangelizzazione più semplici ed efficaci nelle comunità cristiane del Niassa. Per questo a ogni salmo vengono suggeriti dei canti popolari in sintonia con il testo sacro, che aiutino ad approfondire il messaggio di Dio e rispondere a lui con la gioia del cuore.
Tali canti sono contenuti nel libro di preghiere (Mavekelo ni itxipo) che padre Frizzi ha compilato e pubblicato vari anni fa. Esso contiene 741 inni, composti dalle comunità cristiane del luogo, ispirati alla bibbia e alla vita quotidiana, che costituiscono un compendio di teologia informale.
Quasi un catechismo cantato e ritmato, in piena sintonia con la metodologia pedagogica e comunicativa tradizionale macua.

I nfine ogni salmo è corredato da un disegno, opera di artisti locali, che ne ripresenta e illustra visivamente il contenuto.
È una tradizione affermatasi dappertutto accompagnare le pubblicazioni catechetiche e liturgiche con disegni e immagini. Spesso si ricorre a materiale importato. Le pubblicazioni del Nuovo Testamento e del Libro dei salmi in lingua macua sono corredate da centinaia di disegni di João Torchio, Luís Prisciliano e Ivandro Artur, artisti della scuola d’arte di Maua-Nipepe. Anche questa è una novità scaturita dall’iniziativa di padre Frizzi.
Lo studio della letteratura orale macua-scirima lo ha spinto a interessarsi di altri aspetti complementari di questa cultura, come pittura, scultura e musica. È sorta così la scuola d’arte di Maua-Nipepe, dove si stanno facendo interessanti esperienze in questo settore. La decorazione dei luoghi di culto, per esempio, ha adottato motivi macua per rappresentare i misteri cristiani. Tale scelta non risponde solo a necessità di carattere didattico e catechetico, ma a una teologia dell’incarnazione.
Le illustrazioni e disegni che accompagnano i singoli salmi, oltre a essere un commento visivo al testo biblico e una «lettura biblica visualizzata», rappresentano uno strumento con cui lo Spirito rivela il suo messaggio di vita e di bellezza, adattandosi al genio della cultura macua. E il popolo ne è fiero.

Rogerio Alarcon




Sulle ali di un jumbo

«In volo verso l’Italia per le vacanze, agevolato dalla quiete nottua nell’aereo, penso ai missionari che, continuamente, attraversano oceani e continenti obbedendo all’imprescindibile comando di Gesù: “Andate e annunciate…”.
Rifletto sul mio “andare”. Colgo alcuni segni legati
al “viaggio del missionario”».

Il ponte

Come l’aereo collega due aeroporti, due paesi, due culture, così il missionario è un ponte che collega la sua patria con la povertà e le sofferenze dei popoli presso i quali lavora. Inoltre egli diventa il testimone e il portavoce della ricchezza culturale e spirituale di tante giovani chiese sparse nei vari continenti…
Lavoro tra i pastori seminomadi del deserto (samburu e turkana), nel nord del Kenya. Niente città, niente agglomerati come nelle baraccopoli delle grandi periferie urbane, ma gente sparsa un po’ dovunque che vive nella propria capanna in perfetta sintonia con le greggi. Il bestiame è l’unica fonte di sostentamento ordinario.
Un contesto sociale che potremmo chiamare arcaico. Certamente, nel mondo d’oggi, ce ne sono pochi più precari. Basta una siccità prolungata, e il bestiame soffre e muore per mancanza di pascolo e acqua. Le conseguenze sono denutrizione e fame, debolezza fisica, malaria e tubercolosi. Alla siccità è legato anche il fenomeno del nomadismo, inteso come dispersione in luoghi lontani, con l’affievolimento o la scomparsa temporanea delle tradizioni sociali e religiose che sostengono alla base la cultura.
Nonostante la durezza e precarietà della loro esistenza, le popolazioni fra cui vivo non perdono mai la fiducia nella provvidenza divina. Il pastore nomade continua a pregare il «suo» Dio anche nelle situazioni più drammatiche. Nella prosperità o nella miseria, Dio non viene mai mandato in esilio. E, così, rabbia e maledizione non esistono.
Questi pastori sono l’icona biblica e vivente di Giobbe, che riscopre Dio nelle difficoltà e nell’ostilità.
La fusoliera
La fusoliera dell’aereo unisce un gruppo di persone che si mettono insieme per realizzare lo stesso progetto: raggiungere una meta…
Nella missione, la fusoliera è rappresentata dalla cappellina che il missionario si preoccupa sempre di allestire come luogo d’incontro, dove le persone si riuniscono con la stessa motivazione: vivere la propria fede nella preghiera e la celebrazione dei sacramenti.
Questa fede può esprimersi nella forma cristiana o delle religioni tradizionali, a seconda della gente presente. Per i cristiani il centro della preghiera è rappresentato dall’eucaristia. Il primato dello spirituale è indiscutibile. Tuttavia si fa grande attenzione a non cadere in uno spiritualismo disincarnato, incapace di cogliere i problemi di tutti i giorni della popolazione. La preghiera deve avere una dimensione sociale.
Quindi i missionari parlano sempre di più di «spiritualità politica». Sembrano termini contraddittori, quasi blasfemi, ma non lo sono. La preghiera biblica e la vera eucaristia ci portano sempre a imitare il Dio liberatore del suo popolo, ci fanno aprire gli occhi sulle sofferenze, le problematiche, le alienazioni della gente e spronano a risolverle.
Il missionario, se crede nella «fusoliera-cappella», si dà da fare anche per l’asilo, la scuola, le strade, le case, l’acqua, la dieta, la salute.
La mia missione comprende una quindicina di villaggi distanti anche 60 chilometri, spesso con grosse difficoltà per raggiungerli: a volte occorrono tre ore di viaggio. Di villaggio in villaggio, di cappella in cappella, di scuoletta in scuoletta, c’è sempre un bisogno, una situazione che richiede il mio tempo, il mio impegno, la mia carità di missionario.
Il radar
L’aereo viene guidato dal radar, che indica la rotta per giungere a destinazione…
Il radar che orienta l’andare del missionario è il vangelo predicato con la vita. Si tratta di un libro iniziato tanto tempo fa, ma che continua ad essere scritto con la vita e, talora, con il sangue diventando un martirologio. In esso sono scritti i nomi dei primi cristiani fino alla lunga lista dei missionari uccisi ai nostri giorni. Agli occhi del mondo – dice il libro della Sapienza – questi individui appaiono irresponsabili, stolti, incoscienti, ma agli occhi di Dio vivono nella pace e nell’immortalità.
Persone come padre Luigi Graiff, martirizzato nel 1981, e padre Luigi Andeni, ucciso nel 1998, hanno avuto come radar il vangelo. Con padre Graiff ho anche lavorato e di padre Andeni ho ereditato la missione di Archer’s Post.
Il carburante
L’aereo vola per la spinta dei motori che bruciano carburante…
Il carburante, per il missionario, è il fuoco della carità che, alimentato dallo Spirito Santo, diventa scintilla che deve contagiare ogni comunità cristiana.
Carità esige attenzione e rispetto per le altre culture e tradizioni religiose; accoglienza degli stranieri e degli immigrati; tensione missionaria che si esprime nel desiderio di condividere le proprie ricchezze spirituali e materiali con i poveri del terzo mondo.
L’«équipe»
Durante il volo l’aereo viene manovrato da uno staff di piloti e tecnici che formano un’équipe.
Così l’attività missionaria. Oggi non si esprime più attraverso «navigatori solitari», ma in gruppi pastorali composti da sacerdoti, religiosi e laici che fanno vita comunitaria.
Nelle varie missioni dove ho lavorato ho cercato di realizzare una pastorale in équipe con l’aiuto dei catechisti della zona e alcuni laici. Ci si spostava sempre insieme. Giunti a destinazione, ognuno svolgeva il suo ruolo particolare: convocatori dell’assemblea, incaricati di mantenere l’ordine e il decoro, animatori dei canti, lettori della parola, traduttori nei vari dialetti, catechisti preparati per offrire ai bambini una pastorale loro adatta.
L’équipe si rendeva più facilmente conto della realtà religiosa e sociale dell’ambiente, ne coglieva gli aspetti positivi e negativi. E, al termine di ogni mese, in occasione del ritiro, i problemi venivano affrontati insieme per cercare delle soluzioni; quindi si programmava per il mese successivo.
La leggerezza
Infine, come l’aereo solca il cielo «distaccato» da ogni struttura e vola tanto più veloce quanto più è leggero, così il missionario deve puntare alla leggerezza, all’essenziale…
Una sola struttura, un solo strumento, un solo libro: il vangelo vissuto e annunciato.
Ciò che sa di «struttura» può servire a chi annuncia, ma non a chi ascolta il messaggio e, meno ancora, al messaggio stesso, che deve emergere con tutta la sua forza di convinzione dalla testimonianza di vita del missionario. E non dai mezzi materiali che possiede…
L’aereo vola quasi alla perfezione. E come procede il missionario?

Coelio Dalzocchio




Novanta minuti intensi

Kenya: celebrazione in swahili e samburu

N el villaggio di Serolevi, diocesi di Marsabit (Kenya), la messa è finita alle 12,30… «Attraversiamo il ponte e troveremo un po’ d’ombra per mangiare un boccone» mi dice padre Coelio Dalzocchio. Il ponte è quello che il niño del 1997 ha inclinato di 30 gradi. Lo è tuttora, e tutti si chiedono come faccia a reggere con i pesanti camion che vi transitano da Nairobi o dall’Etiopia. «Imezoea sasa» (ormai si è abituato) mi disse un giorno uno dei poliziotti che controllano il passaggio degli automezzi.
Proseguiamo di qualche chilometro verso Marsabit e ci sistemiamo sotto una pianta spinosissima. Mentre mangio, non faccio che pensare alla catechesi e alla messa testé terminate. Sono quasi 30 anni che conosco padre Coelio, ma non avevo mai avuto l’occasione di assistere ad una sua liturgia.
Dico a me stesso: «Se un missionario avesse le qualità distribuite fra i miei confratelli sessantenni, sarebbe un evangelizzatore perfetto. Se avesse, ad esempio, l’interiorità di padre Gallina, la concretezza pastorale di padre Tallone, la giovialità di padre Davoli (novantenne), l’amore allo studio di padre Gasparini, le capacità tecniche di padre Giuliani, il cuore generoso di padre Vettori, la conoscenza della lingua e dei costumi di padre Pedenzini, il senso del dovere di padre Pronzalino, il rapporto con la gente di padre Da Fre’, la tenacia di padre Gorzegno…».
Mi fermo, perché, se ricordassi anche i più giovani e quelli trasferiti altrove o andati in paradiso, si avrebbe non solo un missionario straordinario, ma un santo.
Padre Coelio non sa che sto pensando anche a lui, al suo impegno liturgico e catechetico, al suo volto affilato con il naso aquilino che si confà al suo abito austero: camicia e pantaloni lisi, sandali rozzi e l’inseparabile crocetta di legno sul petto.
Stamane l’ho osservato mentre celebrava l’eucaristia e commentava la parola di Dio. Ero seduto al fondo della chiesetta tra la gente che arrivava lentamente: i marmocchi dell’asilo, una nutrita scolaresca delle elementari, le donne che, compatte, prendevano posto a destra nei loro vestiti sgargianti, multicolori e un’abbondanza di collane variopinte, orecchini, pendagli e altri oamenti in testa e sulle braccia. Un po’ più tardi sono arrivati gli educated people, maestri e studenti in vacanza, non ricchi, ma ben messi. Infine le maestre, le studentesse e altre donne vestite all’europea, qualcuna decisamente elegante. Tutti si sono sistemati sulla sinistra.

M entre padre Coelio e il catechista preparano l’altare, le donne attaccano ex abrupto (un grido improvviso che mi fa quasi sobbalzare) un canto robusto (chiaramente un ritmo tradizionale) con una solista: alta e squillante la voce dell’assolo; ben armonizzato il coro. Al canto delle donne segue un breve silenzio. Poi, dalla parte opposta, è la volta delle ragazze delle scuole, cui si uniscono i ragazzi: un canto in swahili, più misurato e dal ritmo meno tribale del precedente; uno dei canti ormai diffusi in tutte le chiese cattoliche del Kenya e raccolti in un libro.
Non posso fare a meno di pensare che, pure in un remoto angolo del mondo quale Serolevi, si alternano già due generi musicali: quello in swahili, pacato e lineare, e quello tribale, più andante e variamente armonizzato.
Alle 11 padre Coelio, dopo una breve preghiera, inizia la catechesi: voce forte e chiara; swahili semplice e corretto; soprattutto un filo logico nel discorso, con un tema preparato con cura.
Il discorso è sul «credo». Il sacerdote spiega la morte di Gesù Cristo e, più precisamente, i motivi della sua morte redentrice. Gesù fu rifiutato – dice – dai capi e sacerdoti del popolo, perché non capirono che egli non era venuto a «distruggere», ma a «completare». Il missionario si sofferma su questa verità, sottolineando che oggi molti samburu non accettano il vangelo perché «non comprendono che Gesù non è venuto a cancellare quanto di valido c’è nella loro cultura, bensì a correggere quanto è contrario alla legge naturale, ad elevare con la grazia la nostra volontà di bene e completare con la rivelazione divina quanto era già conosciuto nel passato».
Il tema è svolto con ampiezza. I presenti seguono con attenzione. Ne resto ammirato: una catechesi di oltre 40 minuti, così aderente ai problemi vivi, preparata con cura e svolta prima della messa, non l’avevo più sentita da tempo in Kenya. E faccio un serio esame di coscienza su di me, sulle mie prediche inserite nella messa: perciò brevi e, purtroppo, poco preparate.

A lle 11,45 l’eucaristia. Ancora una volta padre Coelio dimostra idee chiare. Ha abituato i fedeli a seguire lui, che presiede davvero la celebrazione. Capisco ora come possa dilungarsi nella catechesi prima della messa: infatti non permette che la celebrazione seguente si prolunghi con elementi non essenziali, tendenti a sfuggire alla direzione di chi è il primo responsabile della liturgia, cioè il sacerdote. Egli stesso canta con voce suadente, quasi monastica, le preghiere e il prefazio. Anche i saluti sono cantati con accenti raccolti.
I canti dell’assemblea sono pochi e appropriati, non lasciati al caso e senza quelle processioni danzate (a volte persino tre), spesso eseguite con movenze per nulla africane, miranti solo ad accontentare la vanità di singoli o gruppi, incuranti delle lungaggini. Questo costringe il prete ad accorciare l’omelia, affinché la celebrazione (che già si aggira su un’ora e mezza) non si prolunghi ad infinitum.
Anche la celebrazione di padre Coelio dura 90 minuti, ma oltre 40 sono dedicati alla catechesi e i rimanenti alla messa. La parola di Dio viene proclamata dal catechista in lingua samburu, preceduta da una presentazione in swahili del celebrante. Le preghiere dei fedeli sono pure sobrie. Dal prefazio in avanti tutto è in samburu.
È la prima volta che partecipo ad una eucaristia in samburu. Non capisco le parole, ma ne conosco il contenuto e, soprattutto, mi aiuta la voce raccolta (e capace di creare raccoglimento) del celebrante. Seguo la liturgia con animo pensoso e commosso ad un tempo.
Al termine ringrazio padre Coelio e gli dico: «Se mi permetti, su questa catechesi e messa vorrei scrivere qualcosa». Interpreto «ma va’ là» del missionario come un «sì».
Paolo Tablino

Paolo Tablino