MOZAMBICO – A riflettori spenti

Passata l’emergenza causata dalle inondazioni che hanno devastato il Mozambico,
le telecamere straniere
si sono ritirate, ma la tragedia del popolo mozambicano continua. La gente vuole ritornare a vivere e ricostruire il paese; ma ha bisogno
di aiuto e solidarietà.

I dati ufficiali parlano di oltre 2 milioni di sfollati e 650 morti, travolti dalle alluvioni. Passati i giorni di emergenza, 400 mila continuano a vivere nei centri di accoglienza. A Chihaquelane, villaggio a 170 chilometri a nord di Maputo, tra Chókwé e la statale n.1, c’è uno dei maggiori centri di raccolta: circa 80 mila persone, stipate in tende e ripari improvvisati. Ciò che hanno perso può essere considerato poca cosa, ma era tutto quello che possedevano per vivere.
DRAMMA (MALE) ANNUNCIATO
La radio aveva annunciato che Chókwé sarebbe stata raggiunta da un’onda di piena il lunedì 14 febbraio. «Il servizio metereologico era alquanto vago – racconta padre Sebastiano, parroco di Chókwé -. Diceva che saremmo stati raggiunti da una seconda piena, senza alcuna informazione sulla quantità d’acqua, né sulla velocità con cui ci avrebbe raggiunti. Nell’inondazione avvenuta tre giorni prima le acque erano salite molto adagio, permettendo una fuga graduale».
Alle prime ore di domenica 13 febbraio un’onda di enormi proporzioni sommerse in pochi minuti tutta la città. Le autorità locali si erano già ritirate e gli abitanti rimasero disorientati, ingannati dalla disinformazione e dall’esperienza anteriore.
Alcune persone prestarono i primi soccorsi con le proprie barchette. «Ciò che è capitato può essere definito criminale. La prima settimana non abbiamo avuto nessun aiuto» si sfoga suor Anna Rosa, responsabile dell’ospedale di Chókwé e rimasta sul posto fino a quando un elicottero non ebbe portato in salvo gli ultimi pazienti.
Secondo la giornalista della Bbc, Maria de Lourdes, il Sudafrica è stato il primo ad accorrere in aiuto con gli elicotteri, perché sapeva esattamente la quantità dell’acqua trasportata dai fiumi mozambicani. «I sudafricani avevano tutto l’interesse nel mobilitare i giornalisti di altri paesi, per sensibilizzare il mondo e non dover portare da soli l’impegno di affrontare la catastrofe del paese confinante. I giornalisti mozambicani, invece, dotati di scarsi mezzi, poterono mettersi in moto quando ormai le immagini della tragedia avevano fatto il giro del mondo».
Le piogge torrenziali avevano contribuito a ingrossare il fiume Limpopo; ma la rapidità con cui le città di Chókwé e Xaixai vennero sommerse fu provocata dall’apertura delle dighe in territorio sudafricano. Ma di questo non si è parlato, per non danneggiare le buone relazioni tra Sudafrica e Mozambico. Invece la disgrazia sarebbe stata certamente minore, se le informazioni fossero state più precise e tempestive.
RISCHIO EPIDEMIE
Per iniziativa e col finanziamento della cooperazione spagnola, la forza aerea iberica ha allestito a Chihaquelane un ospedale da campo. Ogni giorno vi sono ricoverati 50 persone colpite da malaria, tubercolosi, anemia, denutrizione, infezioni e traumi vari. Di esse solo una decina recuperano la salute e ritornano all’accampamento. Le altre sono trasferite in elicottero agli ospedali di Chicumbane e Maputo.
Quando la forza aerea lascerà il paese, l’équipe medica spagnola continuerà a prendersi cura dell’unità sanitaria, insieme a infermieri e dottori mozambicani. L’arrivo di «medici senza frontiere», Croce Rossa e dottori sudafricani ha permesso la creazione di altri tre centri di soccorso, che danno assistenza giornaliera a centinaia di persone.
I decessi, principalmente di bambini, raggiungono una media di otto casi al giorno. La Caritas nazionale ha organizzato sul posto un centro per l’alimentazione di bimbi denutriti. Suore, infermiere e volontari sono venuti da Maputo a tui, per lavorare in tale programma di alimentazione. Ne usufruiscono circa 120 bambini al giorno. I casi più gravi vengono portati nell’ospedale da campo. Il centro accoglie anche bambini smarriti: 64 di essi non sanno più nulla della propria famiglia.
Il grande magazzino del centro profughi provvede anche alla gente rimasta nei sobborghi, distribuendo viveri, coperte, sapone, vestiti e scarpe a quanti hanno perso tutto nelle acque dell’inondazione.
Il problema maggiore del centro profughi e della città è la scarsità di acqua potabile e di servizi igienici. La mancanza di igiene può far scoppiare da un momento all’altro un’epidemia di colera. L’acqua potabile, trattata con cloro, è foita mediante alcune autobotti; ma l’attesa per avere cinque litri del prezioso liquido può durare ore e ore. Molte donne attingono dagli stagni più vicini.
Gli ingegneri della Oxfam stanno scavando pozzi artesiani; la Croce Rossa si interessa per la costruzione di nuovi servizi igienici nei vari quartieri della città, poiché quelli esistenti sono pochi o fuori uso.
VOGLIA DI RICOMINCIARE
L’acqua va lentamente ritirandosi e prosciugandosi, ma Chókwé rimane una città fantasma, con un fetore insopportabile. Alcune persone si avventurano nel fango, per ricominciare la vita con ciò che riescono a recuperare. Pezzi di mobilia e altre cianfrusaglie sono messe ad asciugano sopra i tetti. Le botteghe cominciano a esporre le loro mercanzie in mezzo all’umidità, quasi per invitare la gente a ritornare alle proprie case.
Quattro suore vincenziane, con l’aiuto di alcuni operai, hanno iniziato a ripulire l’ospedale e vi hanno portato 95 letti. Sulle pareti si vedono i segni lasciati dalle acque limacciose. Per terra mobili e strumenti di lavoro, documenti e archivi, si mescolano al fango puzzolente. Un falegname cerca di mettere in sesto porte e finestre tutte sgangherate.
Suor Maria Elisa continua a raccontare: «Quando abbiamo sentito il rombo delle acque e visto la rapidità con la quale si alzavano, abbiamo trasportato i 60 pazienti al primo piano. Non c’è stato concesso il tempo di salvare nulla, eccetto i ricoverati».
Una giovane mamma, con sulle spalle tre gemelle gravemente denutrite, batte alla porta del convento per chiedere aiuto. Ha attraversato un terreno ancora inondato con l’acqua fino al collo, lasciando indietro il marito e altri figli. La famiglia si è salvata restando per tre giorni su un albero e legando i figli ai rami, perché non cadessero nell’acqua.
Pur nelle misere condizioni in cui è stato ridotto, l’ospedale di Chókwé comincia a funzionare, prestando assistenza ad ammalati e affamati. Nel centro profughi di Chihaquelane molti desiderano ritornare quanto prima ai loro villaggi. Ma le autorità locali non sollecitano tale ritorno prima che venga effettuata la disinfestazione di tutto il territorio e della valle del Limpopo.
Sarmento Miocha aveva 10 ettari di riso nel villaggio di Inconhane e non vede l’ora di ritornare al suo campo. «La mia vita è là, nella terra che ho lasciato coperta di acqua. Sono stato a vedere ciò che è rimasto; ma l’aria tossica e insopportabile non mi permette di starvi».
Come Sarmento, tutta la gente sa che nei prossimi mesi dovrà affrontare grandi difficoltà per sopravvivere e spera negli aiuti, almeno fino a quando sarà possibile riprendere a coltivare la terra.
Intanto bisogna preparare la gente al ritorno ai propri villaggi. Per quanti disagi debbano affrontare, nei campi profughi sono tutti bene assistiti; ma non si vuole creare atteggiamenti di passività e dipendenza. Le assistenti sociali stanno lavorando in questa direzione, preoccupandosi della salute mentale degli sfollati. Molti bambini, traumatizzati dalle inondazioni e dallo sradicamento dall’ambiente naturale, rifiutano di parlare e prendere cibo.
Soprattutto bisogna dire chiaramente a tutti che nei loro villaggi non troveranno più niente; che dovranno incominciare da zero; che i riflettori delle telecamere sono spenti: d’ora in poi, dovranno contare sulle proprie forze.

Jaime Carlos Paitas




TANZANIA – Cotolette e “contorno”

La vita missionaria non balza, in genere, agli onori delle cronache,ma è fatta di tanti gesti: giornalieri, pazienti, concreti.
Per costruire comunità cristiane e aiutare la gente a vivere… un po’ meglio.

L a mia parrocchia di Ng’ingula (diocesi di Iringa) sorge a 2 mila metri di altitudine tra nebbia, freddo e pioggia. Quando non piove (e succede raramente), è un posto splendido, impreziosito da grandi colline e verdi vallate. La terra è fertile: si coltivano granoturco, fagioli, patate, piselli e un po’ di frumento. Quanto a frutta, maturano bene pere e pesche.
Un grave problema è rappresentato dai trasporti. Per fare gli 85 chilometri che ci separano dalla città di Iringa, si impiegano due-tre ore di auto, perché la strada è dissestata e scorre tutta sulla cresta delle colline.
In precedenza ho lavorato a Matembwe, una missione con numerose attività: c’erano 20 operai, una falegnameria, una segheria e un’officina meccanica, una stalla e un’estesa campagna da coltivare. Lì facevo anche l’amministratore.
A Ng’ingula ci sono gli stessi operai, ma non tutto quel lavoro. E, mentre a Matembwe riuscivo a pagarli con le entrate dalle varie attività, qui è un grosso problema retribuire tutte le persone che vi operano.
fattorie… missionarie
In Tanzania le fattorie si sono sviluppate per venire incontro alle necessità concrete della gente. Oggi non ce n’è più bisogno come in passato. Si tratta, allora, di rivedere le attività, preparando persone capaci di gestirle da sole.
Ma non è facile. A volte si richiede la cessazione di alcuni lavori o la riduzione del personale. E questo è malvisto dalla gente. La stessa chiesa africana considera ancora necessarie le attività materiali, per aiutare la popolazione. Quindi non è favorevole alla loro eliminazione. Ma tutto ciò «lega le mani».
A Ng’ingula funzionano una piccola officina e una scuola di falegnameria con sette-otto allievi che iniziano il corso ogni anno; sotto la guida di due istruttori e un catechista, imparano il mestiere. Funzionano pure il mulino (che non offre guadagni: serve solo ad aiutare la gente) e un piccolo dispensario, che manteniamo fornito di medicine.
Abbiamo anche un piccolo allevamento di maiali: macellandone due-tre al mese, offriamo per pochi denari un po’ di carne alla popolazione.
Partendo dalla «base»
Non vorrei dare l’impressione che il lavoro missionario sia fatto solo di macchine e animali domestici.
Ng’ingula conta, soprattutto, nove chiese-cappelle, di cui sette al centro di veri e propri centri abitati. In ognuna operano almeno due o tre catechisti, il Consiglio dei laici (debitamente eletto), il gruppo dei giovani e quello delle donne cristiane.
I catechisti preparano ai sacramenti, presiedono i funerali, insegnano religione nella scuola, celebrano la parola di Dio la domenica, quando il sacerdote non può essere presente. Sono anche un po’ retribuiti: la ricompensa si aggira sulle 7 mila lire al mese (mentre un operaio ne guadagna 62 mila). Ma non si tratta di un vero salario. La diocesi copre un terzo della somma e il resto spetta la parrocchia. «Fare il catechista è una vocazione», non un mestiere. Noi missionari cerchiamo di inculcare questo pensiero in chi vi si impegna. Il denaro ricevuto è solo un segno, un piccolo aiuto.
Significativo è il compito degli animatori: essi sono i «capi» o delle Comunità di base o del Consiglio dei laici. Il Consiglio è guidato da cinque animatori (presidente, vice, segretario…): suo compito è di cornordinare le attività dei cristiani a livello parrocchiale.
Le Comunità di base sono una sessantina in tutta la parrocchia. A differenza dell’America Latina dove sono sorte… dalla base, qui sono state introdotte dal vescovo e raggruppano generalmente i cristiani del vicinato o del rione. Si ritrovano una volta la settimana (o ogni 15 giorni), al mattino presto, per pregare prima di andare a lavorare nei campi. Dopo la preghiera, spesso, parlano dei problemi concreti e decidono cosa fare per risolverli.
Le Comunità di base sono abbastanza autonome: sanno gestirsi anche senza la presenza del sacerdote. Questo dimostra che c’è un fondo religioso valido. Il lavoro principale consiste nel preparare i leaders, curandone l’aspetto religioso, culturale e, soprattutto, umano.
Le comunità di base rappresentano una opzione della chiesa del Tanzania e di tutta l’Africa orientale, decisa una quindicina di anni fa dalle Conferenze episcopali. Essa si basa sulla valorizzazione del senso africano della famiglia: ujamaa, tradotto, nel passato, anche in scelta politica. La presenza e il funzionamento di queste comunità costituiscono una parte qualificante del programma pastorale delle diocesi, oggetto di verifica annuale e di iniziative varie per mantenerle vive e attive.
per vincere la paura
La partecipazione alla vita comunitaria è il segno visibile della maturità cristiana dei fedeli. Spesso si richiede ai genitori la frequenza come condizione per battezzare i figli. In tale senso, la comunità diventa la palestra di formazione di chi desidera ricevere il battesimo o gli altri sacramenti.
Sono parecchi coloro che non hanno ancora ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana. A Ng’ingula è attivo un buon catecumenato, della durata di due anni, dove ragazzi e giovani si preparano al battesimo. Circa la didattica, molto è lasciato alla libertà… dell’iniziativa personale, giacché scarseggiano i sussidi (anche se qualche diocesi ha stampato catechismi e manuali).
Da parte mia, mi baso sulla cultura del luogo, sui racconti e proverbi, per trasmettere una catechesi inculturata. Ho organizzato una ventina di incontri formativi.
La popolazione dell’etnia hehe è ancora attratta dalla religiosità tradizionale, dove l’aspetto magico incide in modo rilevante.
Ritengo che uno dei compiti più importanti dell’annuncio cristiano sia quello di liberare la persona dalla paura della magia, della stregoneria e di tutto che concee questo fenomeno complesso e oscuro.
La chiesa è frequentata soprattutto da donne e giovani. Ma, in una cultura dove chi decide sono gli uomini, è importante la loro presenza, altrimenti la comunità cristiana rischia di non «avere peso» e, specialmente, di non incidere sulla società.
Faticare insieme
Ng’ingula è abbastanza fuori mano. Pertanto l’influsso del «moderno» è limitato. Qualche giovane, che ha frequentato la città, si fa vedere con scarpe da tennis o jeans all’ultimo grido. Ma si tratta di pochi casi. Tuttora, nel paese, le prospettive di vita sono molto povere; non c’è altro se non il lavoro dei campi. Però i giovani sognano di andarsene in città, per un qualsiasi lavoretto.
Se la stagione delle piogge è buona, la terra garantisce un raccolto sufficiente per vivere e vendere un po’ di prodotti. Resta, però, il problema del trasporto delle merci in città. Il camion della missione viene impiegato anche per questo genere di servizi.
Quanti ragazzi frequentano il liceo? Molto pochi. C’è una scuola superiore privata a circa 30 chilometri da Ng’ingula. Ma le famiglie non hanno la possibilità di pagare la retta. C’è il progetto di cercare «adozioni a distanza», per aiutare gli studenti. Di per sé il governo è arrivato con la scuola un po’ dappertutto; quindi non si tratta di creare nuove strutture… Le difficoltà riguardano i trasporti, le tasse scolastiche e il livello d’insegnamento.
La strada è sempre un disastro a causa delle piogge. L’autobus, ad esempio, non arriva fino alla parrocchia, ma si ferma 20 chilometri prima. La gente, quindi, ha difficoltà a muoversi. Problematico, soprattutto, è il trasporto degli ammalati all’ospedale, servizio per il quale ci si rivolge immancabilmente alla missione.
Padre Salvador Del Molino (mio compagno di missione, oggi in Etiopia) ha svolto un ottimo lavoro di rettifica e sistemazione della strada. Ora si tratta di mantenerla.
In Tanzania esiste la tradizione del maendeleo (progresso): ossia offrire una giornata di lavoro per la comunità. Così, nell’omilia domenicale, insisto perché la gente partecipi e si dia da fare per aggiustare le sue strade. Io stesso mi metto a lavorare con loro. Al di là di tante prediche, è il faticare insieme che fa crescere il senso di comunione e solidarietà fra i cristiani di Ng’ingula.

Remo Villa




PERU’ – I terroristi di san Tommaso

Una rivista scritta a mano
e disegnata a pastello
per celebrare il giubileo.
La scrivono un gruppo di detenuti
del «Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru», rinchiusi nel carcere di massima sicurezza di Yanamayo e raccolti in una comunità cristiana di base. Sperano che il 9 luglio, giorno dedicato al giubileo dei prigionieri, qualcuno si ricordi di loro.

La notizia può destare stupore: tra i detenuti di Yanamayo esiste una comunità cristiana di base. Ne fanno parte un gruppo di prigionieri appartenenti al «Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru» (Mrta) e accusati di terrorismo. Queste persone sono rinchiuse a Yanamayo, carcere di massima sicurezza posto a quasi 5.000 metri sopra il livello del mare, nella provincia di Puno. Lo stupore non può che aumentare apprendendo che questa comunità di base ha iniziato, alcuni mesi fa, la «pubblicazione» di una rivista.
Due domande sorgono spontanee: che cosa ci fa una comunità cristiana di base fra persone accusate di terrorismo? Che senso ha pubblicare una rivista?

Una breve riflessione su che cosa si intenda per terrorismo in questo contesto può aiutarci a trovare delle risposte. Il delitto di terrorismo, dal punto di vista legale, come è attualmente concepito in Perù, è stato formulato nella costituzione redatta nel 1992 in seguito al cosiddetto autogolpe messo in atto dal presidente Fujimori. Il Perù si trovava allora nel pieno di una guerra civile, che durava da più di dieci anni e che vedeva contrapposti all’esercito peruviano due movimenti guerriglieri: Sendero Luminoso e l’Mrta. Per questo il problema della sicurezza nazionale era al primo posto nell’agenda del governo.
Nella nuova costituzione (che su questo tema presenta delle analogie importanti con la legislazione italiana anti-terrorismo varata negli «anni di piombo») il delitto di terrorismo è stato esteso a tutte le azioni sovversive contro lo stato. Rispetto alla legislazione precedente, in vigore dalla caduta della dittatura militare, non si riconosce alcuna attenuante. Ad esempio, per aver agito per un particolare scopo morale (cioè il diritto di ribellarsi a un tiranno che già San Tommaso considerava legittimo). Nella nuova legge queste azioni sono squalificate al livello di delinquenza comune con l’aggravante di quella che in Italia si chiamerebbe «banda armata». È superfluo specificare l’aumento della durata delle pene da scontare.
Questa era quindi l’idea del governo che, attraverso i mezzi di comunicazione, si è diffusa a tutta l’opinione pubblica: in Perù non ci sono guerriglieri che combattono spinti da nobili ideali, bensì sanguinari terroristi la cui unica differenza dai delinquenti comuni è l’organizzazione militare. Essi sono i responsabili delle pene e delle sofferenze del popolo peruviano e, pertanto, vanno combattuti con tutti i mezzi. Certamente alcune pratiche, in particolare quelle di Sendero Luminoso, hanno contribuito a confermare questa tesi. Un interessante corollario di questa situazione è che, tuttavia, di terrorismo non possono essere accusati, in nessun caso, membri dell’esercito.
Questa ovviamente è solamente una faccia della medaglia. Infatti, se vediamo le cose dall’altro punto di vista, quello dell’Mrta dalle cui fila provengono i fondatori di questa comunità cristiana di base, abbiamo una percezione assolutamente diversa: si definiscono lottatori sociali. In pratica si percepiscono proprio nel ruolo che la Costituzione del 1992 nega loro, cioè di persone che agiscono per ottenere una società migliore, più giusta, più equa. La lotta armata è quindi la risposta a una situazione di violenza non esplicita, ma comunque opprimente: la violenza della fame, della povertà al limite dell’indigenza, della mancanza di quasi ogni tipo di protezione sociale.
La lotta armata nasce anche da un secondo elemento: l’impossibilità di protestare attraverso canali istituzionali, o comunque di farlo con ragionevoli speranze di successo. Certamente questo è uno dei punti più critici, in quanto dal 1979 il Perù è, almeno formalmente, un paese democratico. Questo significa che, teoricamente, c’è la possibilità di presentare un progetto politico alternativo. Evidentemente l’analisi politica dei due gruppi guerriglieri aveva almeno un punto in comune: l’impossibilità di cambiare la realtà attraverso una via democratica.

Al di là delle considerazioni che si possono fare sulla legittimità di questa posizione è chiaro che chi intraprende la via della lotta armata non si percepisce come un terrorista. Al contrario, vede questo cammino come l’unica soluzione praticabile per una trasformazione della società in senso più equo; secondo la sua ottica, quella della lotta armata è una scelta non libera, vissuta come un’imposizione e quindi anche dolorosa. Da questo punto di vista si può capire perché, per chi si considera un lottatore sociale, la scelta della violenza rappresenta solo un altro mezzo, obbligato, per raggiungere un fine superiore, un bene che giustifica il ricorso a qualsiasi mezzo pur di conseguirlo; certamente si può obiettare che un uomo non ha il diritto di scegliere quale sia il bene per gli altri uomini e imporre le sue scelte.
Un lottatore sociale, dal suo punto di vista, assume integralmente l’opzione per i poveri ed è qui che alcune tematiche religiose vengono recuperate soprattutto alla luce dell’elaborazione teorica della teologia della liberazione. In un continente, l’America Latina, dove non colpisce tanto la povertà quanto l’assoluta diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza, la scelta di schierarsi con i poveri porta a trovare sullo stesso versante persone che sono guidate da idee molto diverse come possono essere cattolici e militanti dell’estrema sinistra, ma con questo punto in comune: l’opzione per i poveri.
Per questo vediamo ripetersi, in un remoto carcere del Perù, un’esperienza originale. Originale soprattutto per noi europei che viviamo in un contesto sociale e politico che ha mantenuto fino a poco tempo fa una radicale opposizione fra la chiesa e l’ideologia marxista, ma è interessante vedere come anche da noi ci siano curiosi riavvicinamenti, per esempio sul fronte dell’opposizione al neoliberismo.
Esperienza, tuttavia, che non è particolarmente innovativa per l’America Latina: basti pensare alla Colombia dove una delle organizzazioni guerrigliere ancora attive, l’Eln («Esercito di liberazione nazionale»), è stata fondata da un prete, padre Camillo Torres, e ha annoverato nelle sue file, anche con incarichi di responsabilità, diversi religiosi.
Questa esperienza colombiana, sebbene in misura minore, si è ripetuta in Perù, in modo che diverse persone di fede cattolica, certamente un cattolicesimo vicino alle posizioni della teologia della liberazione, si sono trovate a scontare severe condanne per terrorismo.
In questo contesto molto difficile, fosse solo per la prolungata privazione della libertà e per la mancanza di prospettive di liberazione a breve termine, non è più tanto sorprendente un recupero delle esperienze più significative, dei valori più sacri per ogni persona, di tutto ciò che può dare un senso alla propria vita passata, presente e futura. Infatti tutte queste persone sono condannate a 20, 30 anni di reclusione o addirittura all’ergastolo. Inevitabilmente sorgono angosciosi quesiti esistenziali ai quali si deve dare risposta per evitare di cadere in preda alla disperazione e cercare, per quanto è possibile, di mantenere un certo equilibrio fisico e psichico.
Un’idea a cui essi non possono rinunciare è quella di essere portatori della verità: che in fondo era giusto lottare per i poveri, per la giustizia, per i diritti umani, per denunciare la situazione di violenza e oppressione nella quale vive la maggioranza del popolo peruviano, anche se per farlo è stato necessario ricorrere alle armi. Per questo motivo la comunità ha scelto per se stessa un nome molto significativo: quello di monsignor Juan Girardi, il vescovo di Città del Guatemala assassinato nell’aprile 1998, dopo aver presentato un rapporto sulle violazioni dei diritti umani nel suo paese. In questo modo i detenuti desiderano sottolineare il loro legame con un simbolo di verità e di coerenza tra pensiero e azione.
Per chi ha dedicato tutta la vita a una causa e ha messo in gioco la propria vita per quella causa essere condannati al silenzio è una grande sconfitta. Quindi, scrivere una rivista, dire la propria opinione, dopo anni di silenzio forzato, è una «liberazione».
L’articolo con cui si apre il primo numero della pubblicazione trasmette bene questa emozione di poter tornare (finalmente!) a dialogare con il resto del mondo, segno evidente di una necessità negata per troppo tempo anche in violazione agli standard inteazionali sulle norme di detenzione.
Bisogna precisare tuttavia che questa è una possibilità più che altro teorica. Questa rivista è scritta a mano e disegnata a pastello; il numero delle copie non può superare cifre evidentemente irrisorie a causa della mancanza degli strumenti tecnici necessari per la redazione e, ovviamente, delle restrizioni a cui sono sottoposti questi detenuti di «alta pericolosità sociale». Tuttavia non bisogna trascurare il significato simbolico di questo passo: una rivista è un mezzo di comunicazione importante, che permette di tornare a parlare, di partecipare, seppure in modo sui generis, a un evento importante per un cattolico com’è il giubileo. Rompe l’isolamento al quale sono condannati, in un caso in cui il concetto di pena è equivalente a quello di castigo e vendetta, ed esclude a priori qualsiasi possibilità di recupero.
Evidentemente il momento della «pubblicazione» di questa rivista non è casuale, come viene scritto esplicitamente; è una tappa di avvicinamento al giubileo (il primo numero è uscito nel luglio del 1999), un modo per non restare esclusi da questo avvenimento che per un prigioniero politico assume un significato ancora più importante: la speranza di poter beneficiare personalmente di questo anno santo, di poter riacquistare la libertà, se è vero che il significato originario di giubileo è quello di condonare debiti e restituire la libertà.
C’è quindi la necessità di partecipare a questo momento per tenere viva la speranza della libertà, speranza forse non ragionevolmente fondata, ma che non può e non deve essere abbandonata.

Lorenzo de Ambrois




BRASILE – Una gatta da pelare

Consacrato vescovo della prelazia di Itacoatiara
il 19 marzo scorso, padre Carillo Gritti, missionario della Consolata, non nasconde le difficoltà
e responsabilità che dovrà affrontare come pastore
di una chiesa povera di risorse e personale,
dispersa su un territorio vasto e impervio.
Una sfida accettata con fede,
cui intende rispondere con coraggio,
pazienza e simpatia.

Il nome stesso, Itacoatiara, per abituarsi a pronunciarlo senza inciampare o balbettare, richiede non poca ginnastica di mascelle e muscoli facciali. Ritagliata dal territorio della diocesi di Manaus, la prelazia fu eretta nel 1963 da Paolo VI. Misura 92.000 kmq di estensione, poco meno di un terzo dell’Italia. Conta appena 153.000 abitanti, in buona parte raccolti in villaggi disseminati, per 600 km, lungo il Rio delle Amazzoni; il resto è sparso in un territorio vastissimo e ricoperto di foresta tropicale.
La sede della prelazia, Itacoatiara, è unita a Manaus da 300 km di asfalto in pessime condizioni. Gli altri centri abitati, sia lungo il fiume che nell’interno, sono raggiungibili solo mediante imbarcazioni. In tempo di secca i corsi dei fiumi sono chiaramente delineati; durante il periodo delle piogge le acque ricoprono chilometri e chilometri di foresta, e gli itinerari sono tutti da inventare, zigzagando tra gli alberi, alla ricerca di percorsi navigabili; spesso bisogna abbandonare la barca per proseguire a piedi e a cavallo.
La gente è molto povera: vive quasi esclusivamente di pesca, grazie ai numerosi affluenti del Rio delle Amazzoni che solcano il territorio. L’agricoltura è quasi inesistente. Ad aggravare la situazione sono sopraggiunte varie compagnie che monopolizzano il commercio del pesce e hanno ridotto i pescatori a semplici braccianti. Coloro che continuano a svolgere la loro attività in modo indipendente sono spesso vittime di pressioni e ricatti mafiosi: per non ributtare il pesce in acqua, devono svenderlo a basso prezzo.
Molte comunità mancano di scuole e servizi sanitari. La chiesa è l’unica organizzazione che si interessa dei loro problemi. Ma anche la prelazia è povera in canna. Divisa in 10 zone pastorali, ha appena sette preti: un brasiliano proveniente dal sud del paese, un canadese, due spagnoli e tre messicani. Neppure un prete locale. Alla scarsità del personale si aggiunge quella delle strutture: la liturgia del mercoledì delle ceneri fu celebrata all’aperto, perché la chiesetta che funge da cattedrale è troppo piccola.
Padre Carillo ha avuto bisogno di un forte soffio dello Spirito Santo per accettare la guida di una prelazia così scomoda e difficile; e ne avrà bisogno ancora di più quando inizierà la sua nuova missione.

E lo Spirito deve essere disceso con abbondanza durante la liturgia della consacrazione episcopale. La gente che gremiva la cattedrale di Manaus lo ha invocato con entusiasmo, insieme alla protezione di tutti i santi, mentre il neo eletto giaceva prostrato a terra. Sul suo capo i vescovi consacranti hanno premuto forte e a lungo le loro mani.
Prostrazione, unzione del capo col sacro crisma, consegna del libro dei vangeli, dell’anello episcopale e del pastorale sono stati riti pieni di suggestione, che la gente ha seguito con gli occhi fissi, con attenzione e commozione, per esplodere in un applauso finale, quando tutti i vescovi presenti hanno accolto il neo consacrato con un abbraccio festoso e caloroso, con sonore pacche sulle spalle, secondo lo stile brasiliano.
Con altrettanta commozione sono state accolte la benedizione e le parole pronunciate da mons. Carillo alla fine della cerimonia. Ricordando Elia, stanco e sfiduciato, seduto all’ombra di un ginepro, mons. Carillo ha accennato alle croci che lo attendono nella nuova missione episcopale, alla guida della chiesa di Itacoatiara. «A differenza di Elia – ha concluso – il missionario non ha tempo né può permettersi il lusso di stancarsi».
La croce figura anche nello stemma episcopale. Sulla sua lunga asta poggia uno scudo in cui è raffigurata una grande barca, sospinta dallo Spirito Santo, che soffia su una vela a forma di Cristo dalle braccia spalancate. Ai piedi dell’asta il motto: «Memoria Jesu dulcis».
Mons. Carillo ne spiega il significato: «La memoria degli apostoli, ricordo vivo e affettuoso del Cristo risorto, è radice e ragione della chiesa. Memoria che lo Spirito mantiene viva e dilata fino agli estremi confini della terra e fino agli ultimi tempi, quando la chiesa entrerà nella comunione definitiva col Padre, il Figlio e lo Spirito Santo».
Alla fine della cerimonia, quando depone i paramenti episcopali, la talare bordata di rosso di mons. Carillo è zuppa di sudore, da capo a piedi, come se fosse uscito dal Rio delle Amazzoni.

È sera. Complimenti e festeggiamenti sono terminati. Finalmente posso incontrare il nuovo vescovo a quattrocchi e carpire qualche notizia sulle sfide della prelazia e i progetti per affrontarle.
– Le informazioni prese prima di accettare la nomina mi dicono che avrò una bella “gatta da pelare”.
– Il personale soprattutto: sette preti per quante parrocchie?
– La prelazia non è organizzata in parrocchie, ma in comunità: ce ne sono 242. Tutto il lavoro burocratico “parrocchiale”, come la registrazione di battesimi, è fatto nella curia. Ufficialmente i preti risiedono a Itacoatiara, da cui si spostano per servire la varie comunità. Inoltre, ci sono tre suore impegnate nella pastorale e un monastero di benedettine, che rischiano di chiudere i battenti perché non riescono a mantenersi. Farò di tutto perché la chiesa di Itacoatiara non perda una testimonianza forte, in cui credo fermamente.
– Si dice che c’è tutto da rifare.
– La prelazia è poverissima. Le strutture quasi inesistenti. L’amministratore mi ha detto che lo scorso anno si è chiuso in pareggio; ma rimane qualche “debituccio”. La maggior parte del bilancio è prosciugato dagli spostamenti dei missionari. Per tale scopo la prelazia ha i due barconi, con elevati costi di manutenzione e carburante. Alcuni fedeli mi hanno già chiesto di costruire subito la cattedrale. Nella situazione attuale sarebbe un suicidio economico, di tempo e personale.
– E sotto l’aspetto pastorale?
– Non partirò da zero. Il mio predecessore, il canadese mons. George Marskell, morto di tumore due anni fa, era un uomo di Dio, venerato da quanti lo hanno conosciuto. Mi sembra, però, che anche lui sia rimasto in qualche modo ostaggio della mentalità creata dalla cosiddetta «teologia della liberazione», che ha influenzato le linee pastorali della chiesa brasiliana. Per cui, anche a Itacoatiara, l’evangelizzazione ha assunto una tinta ideologica e politicizzata. Mi è stato riferito che, in prossimità delle ultime elezioni presidenziali, un prete della prelazia abbia iniziato la predica sbattendo sul leggio un ciclostilato del partito dei lavoratori, dicendo: «Oggi è questa la parola di Dio». Una forma certamente estrema, ma indice di una certa mentalità.
– Ha progetti in proposito?
– Per un anno vorrò conoscere il clero e gli altri collaboratori pastorali; parlare poco e ascoltare molto. Per cui non ho in tasca né progetti né soluzioni prefabbricate. Però ho qualche idea.
– Per esempio?
– Vorrei costruire un certo presbiterio, anche se non sarà possibile radunare insieme tutti i preti. Cercherò di stare loro il più vicino possibile, per dare coraggio, sostanza e maggiore spiritualità. Voglio che i preti lo capiscano: tutti i ministeri sono importanti; nessuno è escluso, ma nessuno è privilegiato.
– Niente privilegio per il sociale?
– È mia intenzione impegnarmi nel sociale, come ho fatto qui a Manaus, organizzando corsi non di formazione ideologica, ma di specializzazione in informatica, riparazione di condizionatori d’aria, parrucchieri e manicure… Preparare, cioè, professionisti in grado di entrare nel nuovo mondo del lavoro, quando anche a Itacoatiara arriveranno industrie, commercio e mode.
– Ci sono prospettive di sviluppo?
– Oggi il pesce è ritenuto un prodotto industrializzabile al cento per cento. Non sarà la chiesa a costruire industrie; ma dobbiamo aiutare la gente a guardare al futuro, frenare la corsa verso la città e accogliere coloro che ne ritornano delusi. Per fare questo bisogna rendere l’ambiente vivibile con scuola, sanità, lavoro. Tanti piccoli centri ne sono totalmente sprovvisti. Mi sono incontrato col governatore dello stato dell’Amazzonia e mi ha promesso tutti gli aiuti di carattere sociale di cui avrò bisogno. Confidandomi che ormai ha fiducia solo della chiesa, perché spende i soldi negli scopi cui sono destinati e ne rende conto, ha concluso: «Qui sono tutti dei grandi ladroni». Parole testuali del governatore; non so se alludesse anche a se stesso.
– Buona notizia. Ce ne sono altre?
– Troverò un popolo buono, semplice, cordiale, come sono le comunità di pescatori. Me l’hanno garantito in molti. Farò di tutto per non deluderlo. Provo già una profonda simpatia per questa gente e prego Dio che me la conservi, perché la ritengo importante per una convivenza cordiale e costruttiva.
– A proposito di simpatia, hai piuttosto fama di “duro”.
– Il più grande sacrificio che dovrò affrontare è tenere a freno il mio carattere. Non ho mai avuto un grande bagaglio di pazienza. Vuol dire che, d’ora in poi, dovrò recuperae qualche dose, sperando di riuscirvi. Cercherò di tenere i miei problemi per me stesso, di diluirli nella preghiera e nell’amicizia con i miei preti. E poi non sono così “duro”. È vero che quando mi saltano i nervi volano parolacce; ma è altrettanto vero che sono capace di giocare con i bambini.

Benedetto Bellesi




La padrona degna del padrone

La fiducia del beato Giuseppe Allamano nella provvidenza è totale: scaturisce
da uno spirito di fede, rafforzato
da un autentico atteggiamento
di povertà. Il fondatore
dei missionari della Consolata
non si attribuisce nulla
di ciò che appartiene a Dio.
È convinto di essere solo uno strumento. Il «padrone» è Lui.
E la Consolata la «padrona».

Il linguaggio impressiona anche per la sua arditezza. Specialmente durante la prima guerra mondiale, il beato Giuseppe Allamano ripeteva che «Dio deve aiutarci», che non lascerà mancare nulla, perché l’Istituto dei missionari della Consolata è opera sua, l’ha voluta Lui: quindi è obbligato a pensarci. Manifestava spesso tale fede così: «Questa casa l’ha posseduta il Signore fin dall’inizio».
Però, se Dio è il padrone, la Consolata è la padrona, ed è lei che tiene la borsa.
Il beato Allamano, fondatore dei missionari e missionarie della Consolata, poté dire che per le spese ingenti dell’Istituto e delle sue opere non ha mai perso né il sonno né l’appetito. Affidava ogni preoccupazione alla Consolata affermando: «Pensaci tu! Se fai bella figura, sei tu!».
«HA FATTO NEVICARE
DENARI»
Il beato Allamano dimostrò fiducia in Dio e nella Consolata soprattutto nelle situazioni difficili.
Agli inizi del 1899, quando si trattava di ristrutturare il santuario della Consolata di Torino, il rettore Allamano presentò il progetto all’ingegnere Carlo Ceppi. Ma questi si spaventò.
– Reverendo, lei vuole un miracolo!
– E il miracolo verrà! – rispose tranquillamente l’Allamano.
– Ma un milione non basterà? – ribatté l’ingegnere.
– Se non basta, ne spenderemo due e anche più, purché la Madonna abbia un santuario degno di lei…
Durante la costruzione della casa madre dei missionari della Consolata, una volta il fondatore ebbe difficoltà a saldare un conto. L’impresario chiedeva il denaro per il sabato. Era mercoledì, ma l’Allamano assicurò: «Adesso non ce l’ho e non saprei nemmeno dove prenderlo. Però c’è ancora oggi, tutto domani, venerdì e poi viene sabato. Sì, la Madonna per sabato li avrà trovati i soldi». E così avvenne.
In una conferenza alle suore missionarie, dopo aver parlato dei disagi della guerra mondiale e delle spese per la costruzione della loro nuova casa, aggiunse: «Alcune persone mi domandano: “Come va? Con questi chiar di luna!…”. Ebbene, è anche per carità, per dar lavoro a quei poveri muratori, che altrimenti non ne troverebbero… però ci vogliono anche i mezzi… e a questo penserà la divina provvidenza».
Nel 1924, in un incontro con alcuni diaconi prossimi all’ordinazione sacerdotale, si confidava: «Una volta vi facevo qualche regaluccio, ora non più, ci vuole pane!… Ma, se è volontà di Dio che si accettino tanti individui e che questi corrispondano bene, Iddio deve fare miracoli, come li fa al Cottolengo. Là ci sono poveri uomini che vengono sollevati; per noi si tratta di salvare povere anime! Senza questa fede nella divina provvidenza, ci sarebbe da rompersi la testa. Vivete di fede e poi il Signore farà anche dei miracoli, anzi sarà obbligato a farli».
L’assoluta fiducia dell’Allamano in Dio e nella Consolata non andò mai delusa. Durante la novena della Consolata nel 1915 confidava: «Non v’è dubbio che tutto quello che si è fatto qui è tutto della Consolata. La Consolata ha fatto per questo Istituto dei miracoli quotidiani: ha fatto parlare le pietre… ha fatto nevicare denari. Nei momenti dolorosi la Madonna interveniva in modo straordinario. Ho visto molto, molto».
«Non morrete di fame»
Nel corso del 1916 l’Allamano, riferendosi ancora alle tristi condizioni causate dalla guerra, accennava ad interventi straordinari di Dio: «Tutto costa caro; siamo sempre con lo spavento, nel timore di qualcosa di nuovo. Bisogna disporsi a mangiare pan nero. Ma il Signore ci fa sempre il miracolo, ha sempre provveduto, ci vuole bene». E, dopo avere raccontato qualche caso speciale di offerte ricevute, proseguiva: «Questo è per dire come il Signore ci vuole bene: siamo, direi, la pupilla dei suoi occhi».
Una volta il fondatore doveva fare una grossa spesa per l’Istituto, ma non aveva il denaro necessario. Però «mentre uscivo dal duomo (di Torino) – raccontò egli stesso -, una vecchietta che non conoscevo mi si avvicina e, dandomi una busta, mi disse che erano i suoi risparmi e che li impiegassi come volevo… La busta conteneva quanto di cui abbisognavo in quel momento».
Varie volte, nelle conferenze formative ai missionari, L’Allamano ricordava san Paolo eremita, nutrito per molti anni da un corvo con mezzo pane. Il giorno in cui sant’Antonio lo andò a trovare, il corvo portò un pane intero. E l’Allamano proseguì: «Se è necessario il Signore manderà un corvo nella bottega del panettiere… ma non andiamo a insegnare a nostro Signore dove pigliarlo (il pane), sa lui!».
Ai missionari partenti ricordava: «Il Signore penserà a voi, come ha pensato agli apostoli quando li inviò a predicare sine pera (senza bisaccia), senza niente… e poi li interrogò se era mancato loro qualcosa, ed essi risposero che non era mai mancato niente… Così sarà di voi. Non morrete di fame, state certi, quantunque il missionario debba essere disposto al martirio».
Intraprendenza
e discrezione
Le parole del vangelo sulla confidenza nel padre celeste, che nutre gli uccelli del cielo e veste il creato in modo insuperabile, non sono una metafora. Le opere dei santi testimoniano la potenza della fede. Senza ricorrere ai compromessi tanto facili in materia economica, essi però non trascurarono di mettere in atto i mezzi cui si può fare ricorso.
Per l’Allamano «la fiducia nella divina provvidenza non esclude il pensare all’avvenire… Al Cottolengo non si sta colle mani conserte… Dio dice “aiutati che ti aiuto”. Nelle comunità mi sembra che in generale vi sia il vizio contrario: si prende tutto come cosa dovuta. Non così nel mondo, specie in questi tempi di carestia, dove ognuno s’industria per tirare innanzi».
La fiducia nella provvidenza va unita all’intraprendenza personale. Ma nell’Allamano c’è qualcosa di tipico. Rispetto agli altri santi piemontesi (Cottolengo, Bosco, Murialdo…), l’Allamano fu quello che forse si lasciò meno angustiare dal problema finanziario. Disse più volte che per le missioni era disposto anche a chiedere l’elemosina e che, se avesse avuto bisogno di aiuto, «avrebbe saputo a chi rivolgersi, sicuro non solo che non gli sarebbe stato negato, ma neppure differito».
«Naturalmente – aggiungeva – se il Signore me li manda (i denari) senza che io vada a cercarli, è meglio, così non vado ad importunare la gente». In ogni caso ci vuole grande discrezione.
Anche in questo l’Allamano attuò il principio del «bene fatto bene». Secondo lui, «andare avanti a suon di tamburo non va per le opere di Dio. Non siamo noi che ci procuriamo i mezzi; è la divina provvidenza che ce li manda, ed essa non ha bisogno della nostra reclame».
Abbonarsi
a «Missioni Consolata»
In occasione del citato restauro del santuario della Consolata, scrisse che la «Direzione del santuario… non vedeva bene che si andasse in giro a squattrinare il pubblico, anche se per opere buone. Perciò, non sarebbe ricorso alla pratica di andare di porta in porta ad importunare i devoti, ma si sarebbe accontentato di quanto l’amore alla Consolata avrebbe suggerito a ciascuno di portare alla sagrestia del santuario».
Così per le missioni. Però anche era dell’idea che si dovesse «mettere la grande famiglia dei benefattori al corrente del lavoro che si fa nelle missioni e delle loro necessità, senza forzare nessuno, lasciando al Signore muovere i cuori secondo la sua volontà».
Fu questo lo stile del periodico La Consolata (divenuto poi Missioni Consolata): far conoscere il lavoro missionario. Questo, anche senza appariscenti appelli, è già uno stimolo alla cooperazione.
Di qui, pure, lo straordinario significato assunto dalla rivista. Fu uno dei principali mezzi per animare missionariamente il popolo di Dio e per sostenere l’attività missionaria. L’abbonamento e la diffusione del mensile furono proposti come una forma di cooperazione alla missione: «Si fa una vera carità ai missionari inviando con sollecitudine il proprio abbonamento, e specialmente adoperandosi a diffondere la lettura del periodico stesso e a procurare in tal modo qualche nuovo abbonato». Un Allamano efficace, dunque, e sempre discreto. Per questo «raccomandava di non aggravare i benefattori delle missioni con indiscrete richieste di aiuti» e disapprovava l’eccessivo affarismo.
Era spietato di fronte ai sacerdoti che si perdevano in affari temporali. Diceva: «Sarebbe rapire il tempo alle anime, danneggiare i poveri e la chiesa e avvelenare la nostra vita». E ancora: «I beni della chiesa lasciati ai parenti sono come il sangue dei poveri che grida vendetta al cospetto di Dio». Di fronte a qualche iniziativa missionaria poco opportuna, intervenne: «Non voglio preti mercanti, ci sono già di quelli della diocesi che fanno questo mestiere; non voglio che voi, miei figli, facciate questo lavoro… Il Signore ha sempre provveduto al suo Istituto e lo farà sempre se sarete buoni. È non lascia mancare il pane ai suoi figli».

Gottardo Pasqualetti




BURUNDI – Severin si sveglia ll’alba

A spiegare la divisione etnica si rischia sempre
di cadere in facili
schematizzazioni:
gli hutu-agricoltori contro i tutsi-allevatori, i primi in maggioranza
ma senza potere,
i secondi privilegiati
dai colonizzatori.
Ma la divisione è reale
e si riproduce anche
nella chiesa locale.
Dicono molti burundesi: «Noi siamo figli
della nostra terra,
prima siamo hutu e tutsi
e poi cristiani».
Per capire di più,
abbiamo seguito Severin, di professione catechista, lungo le strade
del piccolo e martoriato paese africano.

Come ogni mattino Severin Ndikundana si sveglia all’alba. Alle cinque il sole sta già sorgendo sulle colline del Burundi e i contadini, da sempre, scandiscono il ritmo delle loro giornate sulle ore di luce. Severin saluta la moglie e i figli e parte, a piedi, percorrendo le scorciatornie che lo porteranno dopo una decina di chilometri, dalla sua collina, nei pressi di Gishora, alla seconda città del Burundi: Gitega.
Severin è uno dei catechisti dell’antica parrocchia di Rukundo (amore, in kirundi), che, trovandosi ai margini della città, copre un vasto territorio circostante. I fedeli sono i contadini dell’interno più che la gente di Gitega.
È catechista dal 1980, mostra orgoglioso il tesserino della diocesi sul quale sono riportati i suoi dati e il giorno di inizio del servizio. Perché sei diventato catechista? «Per vocazione» risponde con molta semplicità. Magro, con il volto scavato, osserva con due occhi intelligenti. Difficile definire la sua età, ma in un paese dove la speranza di vita è di 43 anni, lui è sicuramente considerato un anziano. Quindi, in Africa, un saggio.
«Diventare catechisti è una vocazione. Bisogna, però, frequentare dei movimenti cattolici da giovani per stimolarla».
Severin insegna religione in una scuola elementare, segue i catecumeni per prepararli al battesimo, impartisce una formazione di due mesi a chi si è allontanato dai sacramenti e vuole riconvertirsi. Come altri catechisti è coinvolto in attività di alfabetizzazione: insegna a leggere, scrivere e contare agli adulti che non hanno potuto frequentare la scuola.
A Rukundo ci sono 28 catechisti «ufficiali», che svolgono questa attività come lavoro, in cambio di un piccolo salario. Altri 121 sono gli aiuto-catechisti volontari. I primi si incontrano ogni venerdì mattina per seguire la formazione, aggioarsi e scambiarsi impressioni.
LA CHIESA, SPECCHIO DELLA SOCIETÀ
Il paese sta attraversando una crisi che si trascina dal 21 ottobre 1993, all’indomani dell’assassinio del neopresidente (il primo democraticamente eletto) Melchior Ndadaye. Le elezioni avevano segnato una svolta portando al potere un partito a maggioranza hutu. Più di sei anni di guerra civile, causata dalla lotta intea per il potere e influenzata dall’instabile situazione geopolitica regionale dei Grandi Laghi. Un conflitto con evidenti connotazioni etniche, che ha causato, oltre ad alcune centinaia di migliaia di morti e più di un milione di sfollati e rifugiati, la catastrofe economica del piccolo paese centrafricano.
«La chiesa del Burundi è lo specchio della società» si sente spesso dire, e la società burundese è attraversata, oltre che dalle divisioni economiche e di potere, anche dalla problematica etnica. «La questione etnica non è compresa dall’opinione pubblica straniera» spiega un missionario esperto in comunicazioni sociali, che chiede di mantenere l’anonimato (perché in Burundi nessuno parla e chi accetta di farlo non vuole essere citato). «Viene spesso assimilata alla divisione in partiti politici e catalogata in categorie chiuse, mentre ha assunto un significato molto più… sentimentale». Bisogna esaminare le componenti culturali e storiche, ci spiega. Le culture di base degli allevatori (tutsi) e degli agricoltori (hutu) non delimitavano una divisione così netta tra le due etnie.
L’imposizione di una struttura estea (quella coloniale) che si appoggiava di più a un gruppo (i tutsi), foendogli educazione e dandogli peso economico e infine politico, è stato uno shock culturale e ha enfatizzato il problema. Così da un complesso tessuto socio-politico, composto da clan, lignaggi e discendenze regali, il colonialismo ha realizzato una tremenda semplificazione storica banalizzando la divisione in due gruppi precisi: hutu e tutsi.
La mancanza di una cultura della condivisione del potere ha fatto il resto.
CLERO INDIGENO E CLERO COLONIALE

Per un altro religioso, burundese, si può parlare di un vero cristianesimo coloniale: «Nel catechismo veniva insegnato che, incontrando per strada il parroco e il capo villaggio, il curato doveva essere salutato prima».
Con l’indipendenza (1962) si è costituito un clero «indigeno», che ha subito puntato a rimpiazzare i missionari e ad ottenere una posizione politica, mentre restava un clero «coloniale», che cercava di resistere. Si creò questa ambiguità in seno alla stessa chiesa; ambiguità che oggi ereditano religiosi, preti e vescovi.
«Gli avvenimenti del ’72 (massacri a sfondo etnico) consacrano la divisione in tre chiese – sostiene il nostro interlocutore -; oltre a quella coloniale (missionaria, ndr.), il clero indigeno si posiziona sui due gruppi etnici e di colpo la chiesa ha l’immagine del paese traducendone esattamente gli stessi conflitti sociali». È Bagaza (1976-’87) che rompe il meccanismo togliendo potere alla chiesa, ma con Buyoya (presidente dal 1987 al 1993 e poi dal ’96 a oggi) si ritorna a un matrimonio ambiguo tra chiesa e stato.
SPIRITUALITÀ ANCESTRALE
Una società che, secondo un missionario belga, «dal ’62 si bagna nella violenza, e così anche i cristiani. Una vera strategia politica». Il religioso vede una chiesa di massa, «sacramentale», nella quale cioè si da molta importanza ai sacramenti nella loro esteriorità, ma che ha poco impatto sulla trasformazione della società. Basta guardare le statistiche dei battesimi e l’assidua frequentazione delle messe.
«Non c’è corrispondenza tra la fede che deve determinare comportamenti di misericordia, di tolleranza, e le azioni del cristiano». C’è poi ancora molta sovrapposizione con il magico, le credenze tradizionali.
Anche il padre burundese è d’accordo: «La chiesa non è mai stata una parte integrante della nostra cultura, ma sempre qualcosa di esterno. Non c’è mai stato niente che ci abbia fatto identificare in essa». Questa è una caratteristica comune a tutta l’Africa, dove l’evangelizzazione si è innestata su una cultura che aveva già una spiritualità profonda. Spiritualià il più delle volte negata e proibita (come nel caso del Burundi). Il cristiano africano mantiene questa ambiguità, in cui spesso i valori ancestrali, come quelli di appartenenza, sono più profondi di quelli del vangelo. «Noi siamo figli della nostra terra, prima siamo hutu e tutsi e poi cristiani» si dice in Burundi.
C’È CHIESA E CHIESA
Il capannone scuro della parrocchia di Rukundo è ancora trabordante di persone alla terza messa domenicale. Vi saranno almeno un migliaio di fedeli, stipati su dei piccoli banchi costituiti da un asse inchiodato su due sostegni. In fondo, lontanissimo, su un’alta base di cemento, siede il sacerdote. Dietro di lui un ampio altare e, sul muro, un grosso tamburo in bassorilievo, simbolo del potere regale, che ospita il tabeacolo. La messa in kirundi (la lingua del popolo barundi) dura circa due ore. La maggior parte dei presenti vive sulle colline, anche a molti chilometri di distanza. Sono venuti in città per il mercato e la messa. Spesso sono scalzi o portano consumate ciabatte infradito. Le donne sono avvolte in sgargianti tessuti, hanno in testa il tipico foulard colorato e portano il figlioletto sulla schiena.
Diversa è l’atmosfera alla parrocchia del Buon Pastore, nel cuore del quartiere dei funzionari. Il locale è più piccolo, ma c’è meno gente e non si sta accalcati sugli ampi banchi con inginocchiatornio. C’è anche la messa in francese. Rare sono le donne in vestiti africani. Normalmente qui si sfoggia l’ultimo abito all’europea acquistato in capitale e l’elaborata acconciatura che obbliga le signore a intere giornate dal parrucchiere. Anche i bambini hanno le scarpe lucide. La messa dura solo un’ora. I volti sono diversi: sembra di essere in un altro paese. Ma anche qui dietro all’altare c’è un tabeacolo a forma di tamburo.
Cyprien lavora assieme a Severin alla parrocchia di Rukundo. Ha fatto un corso da catechista che dura quattro anni. Adesso svolge un anno di prova e alla fine dovrà presentare una sintesi delle attività di questo periodo, per diventare, si può dire, un catechista diplomato. «Mi piacerebbe cambiare il cuore dei fedeli – spiega -, fare in modo che aprano la loro mente e partecipino al loro sviluppo». Cyprien vorrebbe essere una guida per un reale miglioramento della vita dei cristiani. Una liberazione che passa attraverso il vangelo.
La suora che li accompagna (anch’essa burundese) è più esplicita: «Abbiamo la fede, ma non si manifesta dentro di noi. L’odio e l’ingiustizia regnano in noi, a partire dalle autorità, fino ai consacrati, e tutti i cristiani».
«Molta gente non dice la verità, ruba. Non è la carenza di cose; è il non saper vivere con quello che c’è». È una chiesa che deve convertirsi, e conclude: «Pregate perché ciò avvenga».
Cyprien ci racconta il compito più importante dei catechisti. «La domenica, nelle succursali (cappelle legate alla parrocchia, ndr) sulle colline, ci incontriamo con i cristiani e li aiutiamo in celebrazioni semplici, non eucaristiche». Fondamentali perché il sacerdote è costretto, dalla vastità del territorio parrocchiale, a visitare a tuo le comunità.
VESCOVI E PRETI LONTANI DAL POPOLO
La frattura tra il popolo e la gerarchia ecclesiastica è ancora grande. La gestione della diocesi è spesso autoritaria. «Il vescovo è un capo tribale, così i preti a livello più basso – spiega un missionario studioso di ecclesiologia -; esiste una netta separazione tra gli ecclesiastici e il popolo. I preti non vogliono perdere i loro privilegi, il loro potere». Secondo lui siamo di fronte a una chiesa pre-Concilio Vaticano II. I motivi sono anche storici, perché nel ’65 il Burundi veniva dilaniato da massacri post-indipendenza che portarono alla prima repubblica con il consolidamento del potere tutsi. Le tensioni politiche e sociali impedirono la penetrazione delle idee del Concilio.
Secondo il missionario esperto in comunicazione, invece, c’è una condivisione di responsabilità tra laici e clero. Il responsabile della commissione «giustizia e pace» della conferenza episcopale, l’addetto stampa della stessa e altre posizioni di responsabilità sono assunte da laici.
Severin e Cyprien raccontano di avere poco contatto con il loro vescovo: «Non è facile incontrarlo. Arriviamo a lui tramite la nostra responsabile. Da quando è stato nominato (marzo ’97, ndr) non è mai venuto a farci visita». Eppure alcuni vescovi burundesi sono sempre in viaggio. Passano due mesi in Burundi e uno in Europa. Lo stesso pontefice, secondo indiscrezioni, li avrebbe ripresi nell’ultima visita ad limina.
Andarlo a cercare? Troppo timore reverenziale. «L’ufficio pastorale della diocesi è come la presidenza (della repubblica, ndr) per noi. Ci andiamo solo se il parroco ci dà il permesso». In questo senso si capiscono le parole di un altro missionario: «I vescovi fanno i padroni della loro gente, non si mischiano e non soffrono con il popolo».
IL DRAMMA DEI «RAGGRUPPATI»
Nessun vescovo ha visitato, ufficialmente, uno dei cinquanta campi di raggruppamento, nei quali sono stati concentrati a forza, a partire da metà settembre, almeno 350 mila persone, sulle colline intorno alla capitale.
Atteggiamento che non è piaciuto a molti cristiani, questo «non mischiarsi nella miseria», necessario, specie per un pastore, perché siamo fatti di sentimenti, non solo di conoscenza intellettuale.
Un grido di denuncia è arrivato dall’arcivescovo di Gitega, mons. Ntamwana, al rientro da un incontro con i vescovi di Rwanda e Congo, in Kenya. Ma nelle dichiarazioni di fine anno nessun riferimento ai campi, dove la gente muore di stenti e sono violati i diritti umani più elementari. «Era chiaro che non ci sarebbe stato un atto congiunto. Da un lato, perché non sarebbero stati tutti d’accordo e, dall’altro, perché qui le denunce si fanno in modo silenzioso». Molte situazioni si risolvono sulla base di relazioni personali. Non bisogna quindi offendere la sensibilità di qualcuno e rovinare i rapporti, ma piuttosto cercare di agire con diplomazia (caratteristica questa molto sviluppata nei burundesi) sfruttando contatti diretti.
Ma non a tutti questi metodi vanno bene: mancano le critiche e le prese di posizione. «Sono rari gli interventi profetici, che puntino a sganciarsi dalla problematica etnica e diano voce ai senza voce – dice un missionario italiano -; non vogliono mettersi contro il presidente, cattolico e moderato». Il religioso burundese insiste: «Ci mancano profeti e testimoni. Si ha paura di dire la verità e assumerla. I missionari possono gridare un po’ di più. Ma devono stare attenti». I religiosi stranieri spesso parteggiano a fianco «della massa che soffre» (ovvero gli hutu, 85% della popolazione, quasi totalmente esclusi dal potere politico, economico e militare) e questo prende subito una connotazione etnica. Da qui le accuse da parte di preti, vescovi ed estremisti di appoggiare la ribellione (a maggioranza hutu).
Ancora una volta sono i catechisti che si espongono di più. Anche nei campi di raggruppamento, mettendo in pericolo la loro vita, continuano a portare la testimonianza del vangelo, ad aiutare la gente. «Questo fa sperare: al di là della debolezza dei preti, c’è una presenza popolare fatta di fede, che prova che la chiesa non sparirà» continua il missionario.
TEOLOGIA SENZA TESTIMONIANZE
In Burundi ci sono circa 1.300 religiosi, tra cui più di 1.000 suore. L’«Assemblea dei superiori maggiori» (Asuma) cornordina le 16 congregazioni di uomini e le 32 di donne. Nazionali e stranieri insieme. È qui che si legano maggiormente la chiesa missionaria e quella locale, pur partendo da basi culturali molto lontane. Le congregazioni burundesi sono state create dai vescovi, che le vogliono al loro servizio. «Cerchiamo di far passare il messaggio che, in quanto religiosi, siamo parte della chiesa, abbiamo le nostre opere, una nostra missione e un ruolo specifico», racconta un ex presidente dell’assemblea. Questo per ridurre la dipendenza gerarchica. «Pensate che nelle convenzioni che facciamo con i vescovi non possiamo usare la parola “partenariato”, perché presume un accordo tra parti uguali. È una teologia che stiamo formando, poco a poco». Ma molto resta il cammino da fare.
Allo stesso modo l’Asuma cerca di far aprire le congregazioni locali all’impegno verso il popolo: «Abbiamo cercato di motivarli nei confronti dei raggruppati. Problema che loro non sentivano come prioritario. Siamo riusciti a organizzare raccolte di fondi e distribuzioni di viveri con l’impegno diretto di religiosi e religiose». Purtroppo, spiega il padre, il vangelo sociale non è ancora compreso, molto spesso a causa della formazione nei seminari che non prevede i concetti di «servizio», «responsabilizzazione» e «partecipazione popolare».
Ad esempio c’è molta ignoranza sull’importanza, della giustizia nell’evangelizzazione.
Conferma, ancor più duro, il religioso burundese: «È una chiesa senza pensiero teologico, dove dominano i buoni parlatori e i buoni strateghi. Manca uno spazio di espressione sulla fede». Vede però uno spiraglio. «Esiste tuttavia una riflessione teologica che parte dalla base, fatta di testimonianze».
E I MISSIONARI?
Ha dunque ancora un senso la permanenza dei missionari in Burundi? «Sì. Perché la chiesa è missionaria per natura. Per l’apertura agli altri e per lo scambio», ci risponde qualcuno. «Per la varietà e l’universalità della chiesa. Perché la presenza di missionari, specie nei momenti più bui, ha dato fiducia. Abbiamo ancora bisogno di collaborare, non con posti di responsabilità, ma con una presenza efficace, con libertà di analisi e di suggerire», dice qualcun altro. «Sì, ma in modo diverso da oggi. Come poveri, contemplativi, per diffondere il messaggio di Cristo a tutti andando in profondità, per incarnarlo in questa cultura», sostiene chi rigetta il modello di clero «coloniale», ancor oggi presente.
È difficile descrivere la complessità della chiesa di un paese. Ci accontentiamo di una frase di Cyprien, catechista di Mugutu, parrocchia di Rukundo: «Vorrei che il nostro popolo uscisse dall’oscurità e partecipasse, lui stesso, al suo sviluppo. Per questo ha bisogno di guide».

Hubert Dubo




TIBET – Poi il piccolo Budda è fuggito

Lo chiamano così perché ha solo 15 anni. Più giustamente, è conosciuto come «Karmapa». L’abbiamo incontrato in Tibet in ottobre, ma all’inizio di gennaio
è fuggito in India.
Non ancora chiare le ragioni che l’hanno spinto a tale gesto. Il ragazzo, numero tre della gerarchia buddista tibetana dopo il Dalai Lama
e il Panchem Lama,
ha detto: «I buddisti devono avere la libertà di praticare la loro religione».
Un problema
per la Cina.

L’ultimo raccolto

Da Lhasa, capitale del Tibet, ci avviamo verso il monastero buddista di Tsurpu, che dista circa 80 chilometri in direzione ovest. La strada che si inoltra nella valle è una pista sterrata, che diventa subito assai sconnessa; in alcuni punti il fondo è così accidentato da richiedere all’auto uno sforzo particolare per avanzare.
È la fine di ottobre. Nella notte una leggera nevicata ha imbiancato le cime delle montagne. Il tempo è incerto; le nuvole si rincorrono e, spesso, ricoprono il sole. La temperatura è decisamente fresca.
Risalendo la valle, ci fermiamo ad osservare alcune casette, costruite a cavallo del torrente dalle acque limpide. Si vedono anche mulini, azionati dall’acqua corrente, che servono a macinare l’orzo prodotto nella valle. Raggiungiamo un villaggio che, per gli standard di vita locali, non appare particolarmente povero: infatti presenta case dignitose, mentre la campagna è intensamente coltivata.
È il momento della raccolta dell’orzo. Le donne hanno il compito di tagliare le pianticelle e formare i covoni, che poi gli uomini portano a casa impiegando, generalmente, yak e muli come animali da soma. Una curiosità: le donne operano indossando vestiti che non sembrano da lavoro; esibiscono giornielli, specialmente collane ed orecchini. Le sposate indossano anche sgargianti grembiuli, formati dalla giunzione di strisce variopinte, tessute in casa su stretti telai.
La scena è corale e bucolica. È anche un momento di festa, perché rappresenta l’ultimo raccolto agricolo dell’anno, prima della inattività invernale.
il numero tre
Proseguiamo fino a raggiungere una stazione di polizia, posta circa ad un chilometro dal monastero. La caserma è dotata anche di un’enorme antenna satellitare; serve per ricevere ordini dal comando centrale, oltre a tenerlo informato sulla situazione locale.
L’attenzione della polizia cinese al monastero di Tsurpu è particolare, in quanto vi risiede il Karmapa. Egli è un «incarnato» e rappresenta quindi un alto grado nella gerarchia buddista del Tibet: è terzo nella graduatoria, inferiore solamente al Dalai Lama e al Panchem Lama.
Secondo la tradizione tibetana, l’esistenza del Karmapa era stata prevista sia dal Budda Sakyamuni sia da Padmasambhava, che fu il missionario indiano ad introdurre il buddismo nel paese, sovrapponendolo alla religione bon allora esistente.
Il Karmapa è una personificazione della misericordia e si è incarnato per 17 generazioni, a partire dal XV secolo. Le storie delle varie incarnazioni mostrano i Karmapa come persone ascetiche, dedicate agli studi, ma capaci pure di creare espressioni artistiche, specialmente poetiche.
Il Karmapa in Tibet esprime la continuità della dottrina del Vajrayana (il veicolo di diamante), una scuola originata dal filone principale del Mahajana, che rappresenta il buddismo tibetano…
Raggiungiamo il monastero a 4.400 metri di altitudine. Gli edifici furono, a suo tempo, distrutti dai comunisti cinesi. Solo i padiglioni costruiti molto in alto, su rocce a strapiombo, furono risparmiati, essendo irraggiungibili.
Questi padiglioni servivano (e servono) per ritiri spirituali. I monaci vi si chiudono in meditazione per periodi anche lunghi; durante tali segregazioni pregano per «il bene di tutti gli esseri viventi» e sono serviti da altri colleghi che, periodicamente, portano loro il necessario per la sopravvivenza.
Gli attuali edifici principali del monastero sono stati ricostruiti. Una comunità di religiosi è tuttora operante nel grande complesso.
Sembra impassibile
Siamo ricevuti con molta cordialità dai monaci; non ci pongono limiti per fotografare o riprendere con le videocamere… ricordandoci però di lasciare una piccola offerta. Così partecipiamo alle loro preghiere, anche cantate, che si succedono per un paio di ore, spesso accompagnate dal suono di strumenti a percussioni: conchiglie soffiate come trombe e altri strumenti a fiato, simili a grandi oboi.
Successivamente i monaci, seduti in fila a gambe incrociate sui propri scranni, ricevono dai giovani novizi una tazza, in cui viene versato del te. Bevuto il te, nella stessa tazza si versa una determinata dose di farina di tsampa (orzo macinato e abbrustolito), si aggiunge altro te in modo da formare una «polentina» e ciascun religioso consuma il tutto. È il pasto di mezzogiorno, indubbiamente frugale.
Al termine, tutti i monaci e novizi si alzano ed escono dal tempio: passeggiano e chiacchierano fra loro, e anche con noi.
Prima di essere ricevuti dal Karmapa, trascorre una mezz’ora. Nel frattempo si radunano altri pellegrini tibetani, anch’essi in attesa dell’udienza. Tutti siamo dotati, come minimo, di una sciarpa bianca da lasciare in dono al Karmapa, secondo l’usanza da rispettare quando si incontrano monaci di alto grado.
Finalmente inizia la processione di avvicinamento al Karmapa. Però ad un certo punto, già all’interno dell’edificio, alcuni monaci atletici dall’aria decisa ci sottopongono ad accurata perquisizione. Evidentemente la diffidenza verso i cinesi e la paura di attentati rendono necessarie queste precauzioni.
Dopo aver attraversato altre sale, siamo di fronte al «piccolo Budda», che siede su un tronetto in posizione elevata. Ci appare veramente un ragazzo, ma dall’aspetto serio e dall’espressione matura. Osserva ciascuno dei presenti con uno sguardo profondo, ma anche impassibile: riceve la sciarpa e impone le mani sul capo di tutti in segno di benedizione.
Poi usciamo frettolosamente, sospinti dalla folla e dal servizio d’ordine che cerca di sveltire al massimo la cerimonia. E ci ritroviamo sul cortile del monastero tra radi fiocchi di neve gelata.
Risaliamo sulla nostra vettura per rientrare a Lhasa.
L’imbarazzo della Cina
Abbiamo pensato spesso a quel ragazzo, che svolge un ruolo di capo spirituale gravoso e, apparentemente, al di sopra delle possibilità della sua età. In realtà la capacità del Karmapa di gestirsi, sorretto dai consiglieri, è stata tale da permettergli di rendere tollerabili i rapporti con le autorità cinesi e di… organizzare la sua fuga dal Tibet. È avvenuta nel gennaio scorso.
Ugyen Trinley Dorje (questo il nome del Karmapa), dopo un viaggio di circa 1.500 chilometri attraverso i passi himalayani, nonostante la stagione invernale, è apparso a Dharamsala (India), dove risiede il Dalai Lama. Probabilmente il viaggio è stato compiuto in prevalenza a piedi, utilizzando in qualche tratto un camion.
Dal suo giungere in India, il Karmapa non è mai apparso in pubblico, ma ha delegato alcuni monaci a dichiarare che il suo viaggio ha come fine solo quello di ritrovare sacre reliquie.
La fuga clamorosa sta scottando l’orgoglio del governo cinese, che si è visto beffato, nonostante le precauzioni assunte. Quel ragazzo se n’è andato «senza il permesso del regime di Pechino».
Nel contempo la Cina sta facendo forti pressioni sull’India, perché non conceda lo stato di asilo politico al fuggitivo, mentre l’India stessa sta cercando una soluzione politica. Ma di una restituzione del Karmapa non se ne parla.
Sia in Tibet che in Cina è stretto il controllo sulle comunità religiose. Ne fa le spese soprattutto la chiesa cattolica «clandestina», fedele alla Santa Sede che rifiuta, tra l’altro, di riconoscere l’ultimo vescovo nominato dal governo cinese.
Pechino, in ogni caso, deve affrontare la crescente «fame» di religiosità che si sta diffondendo nel grande paese. Ma, per il momento, ricorre ancora alla repressione.

Giorgio Motta




MOZAMBICO – E il mare si è ripreso il sale

Quasi un milione le persone colpite da inondazioni. Piogge torrenziali e dighe aperte nei paesi confinanti le cause del disastro. Ingenti i danni materiali.
Incalcolabile il numero delle vittime. L’acqua stagnante ha quadruplicato i casi di malaria.
E c’è il colera. Travolta anche la missione
di Mambone, dove opera padre Marchiol,
la persona più ricercata dai giornalisti italiani durante l’alluvione. Ora che i giornalisti
se ne sono andati, con i senza-tetto
sono rimasti i missionari e volontari.

Un parto sull’albero

Maputo, capitale del Mozambico. La stagione delle piogge arriva puntuale. Ma, quest’anno, si capisce subito che sta succedendo qualcosa di speciale.
Le prime voci arrivano dal Sudafrica. Enormi pianure si stanno allagando; l’acqua sembra decisa a travolgere tutto con una forza inaudita. Di più: i meternorologi preannunciano l’arrivo di un ciclone; e il ciclone arriva.
In Europa nessuno sa ancora che cosa si stia abbattendo sul Mozambico. Da Maputo arrivano i primi messaggi di allarme: sono telefonate, notizie confuse. Si sa che nella capitale quasi tutto è allagato, l’elettricità è andata in tilt per giorni, il traffico è paralizzato e la popolazione cerca di cavarsela come può. Però nessuno si rende ben conto di quello che sta accadendo.
Un pomeriggio incomincia a soffiare un vento impetuoso: le case in muratura sembrano non resistere, i vetri tremano e qualcuno si rompe, si sente il rumore delle piante che vengono sradicate e tutti cominciano ad avere paura. Il vento tremendo del ciclone dura un’intera notte, con pioggia battente. Poi il vento si placa, ma la pioggia non molla neppure per un momento.
Nella capitale si incomincia a vivere con l’acqua ovunque, cercando di fare un primo bilancio dei danni. Ed è solo a questo punto che si inizia a pensare a quello che deve essere accaduto fuori di Maputo, nelle campagne e pianure del paese attraversate dai grandi fiumi Incomati, Limpopo, Save.
È davvero un disastro. I tre grandi corsi d’acqua sono usciti dagli argini e hanno invaso le terre per chilometri. Acqua e fango non hanno risparmiato nulla: hanno travolto capanne, interi villaggi. Mandrie di bestiame e, soprattutto, tantissime persone non ce l’hanno fatta a fuggire. Il ciclone ha sorpreso molti nel sonno e l’acqua si è rovesciata violenta senza lasciare alcun scampo. Ora tutti sanno che si è consumata una tragedia.
Il governo decide di chiedere aiuto alla comunità internazionale. Il primo a rispondere è il vicino Sudafrica: con sette elicotteri i soldati sudafricani sorvolano le zone dell’inondazione e si rendono conto in fretta che li attende un lavoro immenso.
Le pianure attraversate dall’Incomati, dal Limpopo e dal Save non ci sono più. Sotto gli occhi dei militari si estendono enormi paludi: galleggiano avanzi di capanne, carcasse di animali, oggetti di ogni tipo e persino mine, residuo della recente guerra civile.
Su qualche altura, non raggiunta dall’acqua, sono radunati gruppi di persone che chiamano e chiedono aiuto. Alcuni cercano scampo su un tetto, altri tra le fronde di un albero.
Ed è proprio su un albero, in attesa di soccorsi, che nasce una bimba: si chiama Rosita Pedro, è figlia di Sofia, una donna di 23 anni. Rosita, la bimba nata tra le foglie e i rami di una grande pianta, è destinata a diventare un simbolo di speranza nel dramma che la circonda.
«Arrivano i nostri…»
Dalla notte della grande paura sono ormai passate due settimane. Solo adesso il resto del mondo decide di ascoltare il grido di aiuto del Mozambico. Sono trascorsi 15 giorni, durante i quali i più deboli non sono sopravvissuti e molti hanno perso tutto, forse anche la speranza.
Tra mille esitazioni e tentennamenti, alla fine la comunità internazionale decide di scendere in campo per dare una mano alla gente del Mozambico. Però in loco, accanto alla popolazione, erano già all’opera i missionari e pochissime organizzazioni umanitarie, per combattere contro la forza del ciclone.
Dunque, la grande macchina degli aiuti si mette in moto. Arrivano 700 uomini dagli Stati Uniti, elicotteri delle Forze speciali britanniche, aerei cargo e soldati tedeschi, velivoli portoghesi e spagnoli. Ci sono tutti, compresi gli italiani. Gli addetti del Programma mondiale per l’alimentazione, la Croce Rossa e i Medici senza frontiere c’erano già. Ora anche i missionari, che vivono nelle regioni del disastro, si sentono un po’ meno soli.
Gli elicotteri dei soccorsi compiono tui massacranti; volano 10-12 ore al giorno in una disperata lotta contro il tempo, cercando di recuperare le ore e i giorni perduti in precedenza. Per molti piloti e i loro assistenti è il primo impatto con l’Africa. Per qualcuno è uno shock.
Le operazioni sono tutte per mettere in salvo la popolazione. Poi, poco per volta, incomincia la distribuzione di cibo fra i senza casa, raccolti in campi allestiti un po’ ovunque. La gente nel frattempo si raduna sulle terre più alte, quelle meno inondate, e lì le organizzazioni umanitarie attendono alla distribuzione di aiuti.
L’EMERGENZA A MAMBONE
Il ciclone arriva a Mambone violento, senza preavviso, come nel resto del Mozambico. Dopo una notte passata ad ascoltare la furia del vento che sembra voler spazzare via ogni cosa, padre Amadio Marchiol, fratel Pietro Bertoni e le suore pallottine credono che sia tutto finito, che sia tornata la calma. Invece il peggio deve ancora venire.
La mattina seguente, la pioggia continua ad aumentare. Ad un certo punto l’acqua comincia ad invadere tutto: non è più solo pioggia; sono le acque del fiume Save che, rotti gli argini, invadono l’intera pianura.
Sotto la pioggia battente giungono alla missione decine di persone, poi centinaia. Tutti raccontano la stessa storia: l’acqua ha travolto le loro case, i loro animali, le loro cose, tutto. Sono scappati verso le terre più alte, sono arrivati alla missione in cerca di un rifugio, un riparo.
Nel giro di poche ore Mambone si trasforma in un campo di accoglienza. La chiesa diventa dormitorio, dove i missionari della Consolata e le suore pallottine fanno riposare le donne, i vecchi e bambini. Ma non c’è cibo a sufficienza per tutti e, fuori, continua maledettamente a piovere.
Padre Marchiol usa il suo telefono satellitare per lanciare grida di aiuto. Chiama l’Italia, chiama i confratelli a Maputo. Ora le persone da sfamare sono migliaia. Non c’è tempo da perdere. Sopraggiungono a dare una mano preziosa tre missionarie della Consolata: Josenilde, Jane, Salome.
In attesa di aiuti alimentari, le scorte di cibo vengono razionate: un pugno di riso per famiglia, qualche biscotto per i bambini. Le ore passano lente, interminabili. Smettesse almeno di piovere! Trascorrono giorni interi. Finalmente la prima schiarita!
Quando spunta il sole, giungono anche gli elicotteri che trasportano riso, pappe per i neonati e medicinali. È l’indispensabile per superare l’emergenza.
Intanto la gente che ha lasciato i villaggi è sempre alla missione, con padre Marchiol e gli altri missionari, e racconta. Ognuno manifesta la sua immensa paura; qualcuno si interroga sul destino di quelli che ha perso di vista. Altri invece sono travolti dalla tragedia.
C’è una madre che si è vista strappare dalla corrente limacciosa i suoi tre figli. Continua a fissare il vuoto. Nulla è in grado di consolarla. I missionari l’avvicinano, tentano di parlarle; lei sembra non udire, come se la sua mente fosse rimasta altrove.
Ma né padre Amadio, né fratel Pietro, né le missionarie possono fermarsi. Il lavoro da fare è moltissimo. Tanta la gente da aiutare. Ora bisogna ricominciare da zero.
Il ciclone ha cancellato il frutto di anni di lavoro, distruggendo la salina che i missionari avevano costruito e che dava lavoro a una cinquantina di persone. Nei capannoni giacevano 2 mila tonnellate di sale… ora ritornate in mare. E con il sale se n’è andata anche la possibilità di aiutare chi veramente ha bisogno. Per i missionari e la popolazione il sale era diventato la principale fonte di reddito.
Due mesi dopo
Dopo circa due mesi dalla grande alluvione, la strada per raggiungere Mambone è stata riaperta. Ora gli aiuti possono arrivare regolarmente via terra. In quasi tutto il Mozambico sono stati ripristinati i collegamenti principali e la «ricostruzione» è faticosamente cominciata.
Una sola è la vera grande paura dei mozambicani e di chi lavora con loro: finire nel dimenticatornio, scomparire dalle pagine dei giornali. Se questo accadesse, allora il ciclone avrebbe vinto davvero.

(*) Monica Maggioni, giornalista Rai – Tg 1 , ha visitato il Mozambico durante l’alluvione.

C’E’ PURE CHI PESCA NEL TORBIDO

I l 23 febbraio scorso, mentre l’aereo si stava preparando ad atterrare, dai finestrini vedevo intere zone allagate. Era difficile distinguere dove finiva la terraferma e dove incominciava il mare: solo il tetto delle abitazioni e le fronde degli alberi (che sembravano cespugli) mi lasciavano intuire che ero alla periferia di Maputo.
Quello che ho visto dall’aereo era solo una piccola parte della tragedia che ha sconvolto il Mozambico nel febbraio-marzo scorso. Piogge torrenziali e, soprattutto, lo straripamento di fiumi hanno determinato allagamenti di interi villaggi.
Ma le responsabilità del disastro non sono solo atmosferiche; bisogna chiamare in causa anche il Sudafrica e lo Zimbabwe, paesi confinanti, che hanno aperto le dighe dei loro fiumi, le cui acque si sono riversate in massa in Mozambico.
Inoltre sul paese, già colpito dall’inondazione (la più grande negli ultimi 50 anni), si è abbattuto anche il ciclone «Eline», proveniente dall’Oceano Indiano. Così distruzioni si sono aggiunte a distruzioni.

L a principale strada asfaltata «AN 1», che collega Maputo al nord del paese, era allagata e interrotta in più parti. Il Mozambico, geograficamente lungo e stretto, era tagliato in due. I collegamenti si potevano effettuare solo per via aerea.
La cittadina di Xaixai, alla foce del fiume Limpopo, è stata una delle più colpite; nel centro abitato l’acqua in un’ora è salita di 1 metro e, in poco tempo, ha raggiunto il primo piano degli edifici. La cattedrale e la casa del vescovo sono state le prime ad essere allagate.
La gente non ha fatto in tempo a salvare le proprie cose. Già possono dirsi fortunati coloro che sono riusciti a salire sugli alberi e trovare rifugio dalla furia impietosa delle acque limacciose. Tante, purtroppo, le vittime. Sarà difficile conoscere il numero esatto di coloro che hanno perso la vita. Molti resteranno per sempre sepolti nel fango.
Drammatica è anche la situazione nei villaggi lungo il fiume Limpopo.

L’uragano ha travolto anche Mambone, dove lavora padre Amadio Marchiol, missionario della Consolata. È un pioniere. È in Mozambico da 47 anni; neppure il sanguinoso conflitto fra Renamo e Frelimo lo aveva indotto a lasciare il paese. In questo momento di emergenza ha preso in mano la situazione e, con fratel Pietro Bertoni e tre missionarie pallottine, sta prestando i primi aiuti alle popolazioni di Mambone e delle zone limitrofe.
Ogni giorno occorre provvedere ai rifugiati che approdano alla missione in numero crescente. Mentre scrivo sono oltre 7 mila.
Nei dintorni di Mambone un numero imprecisato di persone ha trovato rifugio su alcune isole: si tratta di collinette non raggiunte dall’acqua. Anche qui la gente attende soccorso; finora è sopravvissuta con il poco granoturco che è riuscita a salvare.
La gente, divisa in piccoli gruppi, cucina su bidoni tagliati a metà e trasformati così in pentole capienti. I missionari hanno disinfettato l’acqua con pastiglie di amuchina, scongiurando per ora il pericolo di epidemie.
Da Maputo, intanto, padre Manuel Tavares è in contatto giornaliero con i missionari di Mambone e cerca di inviare aiuti in collaborazione con i confratelli di Beira, la comunità di sant’Egidio e la Caritas.
Da Beira si sta organizzando il trasporto di generi di prima necessità e di medicinali. Ma si incappa nell’apparato burocratico, che è sempre senz’anima e, in questa situazione di emergenza, appare addirittura spietato. Ed è triste… La nave, che sarebbe già dovuta partire da giorni, è ancora ferma nel porto di Beira, e non se ne conosce il motivo.

L’emergenza provocata dall’inondazione non termina solo con il salvataggio di persone e l’invio di aiuti. Infatti non si possono ignorare i danni provocati dalla piena: raccolti agricoli perduti, edifici distrutti o danneggiati, strade interrotte e, soprattutto, uno stato di precarietà per la salute delle persone. L’acqua stagnante ha quadruplicato i casi di malaria e lo spettro del colera è alle porte.
A Maputo come a Beira, è difficile reperire fagioli; pare che siano scomparsi dal mercato. Qualcuno sospetta (non a torto) che giacciano in qualche magazzino, in attesa che il loro prezzo salga.
È l’altra faccia della medaglia. Anche nelle tragedie c’è sempre qualcuno che cerca di trarre profitto, pescando nel torbido.
Che dire poi dei sacchi di riso, esposti fuori di un negozio indiano alla periferia di Maputo, con la scritta a caratteri cubitali «dono del popolo italiano al Mozambico»?
Di fronte a questo fatto curioso, qualcuno ha chiesto delle spiegazioni. Ecco la risposta: «È tutto legale. La gente non può vivere solo di riso, ma ha bisogno di una dieta equilibrata e differenziata. Allora è giusto che si sottragga un po’ di riso alla distribuzione».
Una barzelletta, un insulto, un furto?
Caterina Fassio, missionaria laica di Vercelli

Monica Maggioni




ISRAELE – Un’oasi di pace per la pace

Bruno Hussar, ingegnere ed esperto nel costruire ponti,s’accorge che in Israele i collegamenti più importantiriguardano i popoli e le religioni.
Sogna e realizza l’«oasi di pace». In silenzio.

M itròvitza, città simbolo degli ostacoli ad una pacificazione fra serbi e albanesi del Kosovo: pacificazione che pare difficile se non impossibile. Un fiume divide le due comunità in lotta. Un ponte, che dovrebbe unire le sponde, è in realtà luogo di scontro fra le due entità etniche, con le truppe del Kfor che fanno da… «terzo» fra i due litiganti.
Nella parte nord di Mitròvitza (il settore serbo) scoppia un grosso incendio, uno dei tanti. I vigili del fuoco serbi sono in seria difficoltà. I colleghi albanesi del settore sud partono per dare una mano. Passato il ponte, sono fatti oggetto di insulti e sassaiole da parte dei serbi. Nulla di strano, purtroppo! Siamo abituati a simili racconti balcanici.
IL SOGNO DI ISAIA
Dai Balcani (e capiremo presto il perché) spostiamoci in Israele.
Il Medio Oriente è un’altra zona «calda», geograficamente più lontana, ma forse più vicina a noi sul piano della cultura e dei sentimenti rispetto ai territori aldilà dell’Adriatico.
Chi in Israele percorre la superstrada Tel Aviv – Gerusalemme, là dove la pianura costiera comincia a corrugarsi per diventare montagna, incontra un’area che racchiude in pochi chilometri quadrati alcune testimonianze di un passato plurimillenario:
– il biblico Tel Gèzer, traccia dell’antichissima città cananea portata in dote dalla figlia del Faraone allo sposo Salomone, figlio di Davide;
– le colonne e l’abside della grande basilica costantiniana di Emmaus Nicopoli, distrutta nel V secolo da un’incursione samaritana;
– le rovine della fortezza di Toròn, simbolo dell’orgoglio dei crociati in Outremer;
– l’abbazia di Latrùn, teatro con il vicino fortino inglese di terribili scontri nella guerra del 1948-49 fra la haganah (1) ebraica e le agguerrite truppe transgiordane.
Oggi l’abbazia è ritornata al silenzio, alla preghiera e al lavoro di una comunità trappista che ne aveva cura anche in passato. E, proprio sui terreni dell’abbazia, in cima ad un’altura, sorge un villaggio. È costituito da una manciata di case bianche ed è simile ai kibbùtz e moshàv (2) che costellano la pianura e le colline d’intorno.
Il villaggio ricorda al visitatore che un sogno può realizzarsi e che la pace è possibile. Si chiama Nevè shalom/Wahat as-salam, ossia «oasi di pace», rispettivamente in lingua ebraica e araba. Non lontano, nel secolo VIII a. C., il profeta Isaia sognò il giorno in cui «il popolo abiterà in una dimora di pace» (Is 32, 18).
È stato pure il sogno di Bruno Hussar, nato nel 1913 in Egitto e morto in Israele tre anni orsono.
Figlio di genitori ebrei, cittadino austrungarico prima, poi italiano, francese e infine israeliano, Bruno è un ingegnere. Vissuto nell’agnosticismo fino all’adolescenza e chiamato alla fede cattolica in età ormai adulta, alla vita religiosa e al sacerdozio, lui, ebreo inconscio, riscopre la propria ebraicità quando è frate domenicano e prete in terra di Israele tra i suoi fratelli.
La volontà di riconciliazione fra nemici gli fa creare Nevè shalom/ Wahat as-salam. Oggi nel villaggio abitano e lavorano insieme, da 30 anni, famiglie di ebrei, musulmani e cristiani.
La «pace possibile» è fra ebrei ed arabi, impegnati in un conflitto sanguinoso, ancorché dalle radici recenti. È però anche, in senso generale, la pace fra uomo e uomo in tutte le situazioni di conflitto armato o ideologico, anche là dove le radici del male affondano nei secoli, come nell’Irlanda del Nord e in quella che fino a ieri si chiamava Jugoslavia.
A SCUOLA DI PACE
La comunità di Nevè shalom/ Wahat as-salam «vive in pace» nella diversità dei propri membri, che condividono giornie, dolori, feste e preoccupazioni; essa inoltre lavora per la pace con un’apposita «scuola», in funzione da anni all’interno del villaggio. È una iniziativa che promuove la conoscenza approfondita fra gli studenti (ebrei ed arabi) delle ultime classi delle superiori di Israele, incontri di insegnanti e docenti universitari locali.
Ora la scuola ha allargato la propria attività ai territori dell’Autonomia palestinese. Si contano 280 presenze agli incontri tra giovani israeliani e palestinesi, organizzati in collaborazione con centri culturali e promotori di pace; 80 incontri con gli studenti dei territori palestinesi.
Fuori dell’ambiente scolastico, nel 1999 si è tenuto anche un corso per donne arabe ed ebree, organizzato con la Scuola di servizi sociali dell’università di Tel Aviv, con ben 90 presenze. Circa 700 adulti (giornalisti, funzionari, universitari) delle due etnie hanno partecipato a corsi e seminari.
L’esperienza ed attività di Nevè shalom/Wahat as-salam si sono estese negli anni ad altre aree di conflitto: ad esempio, nell’Irlanda del Nord e in Bosnia.
Al presente la comunità è chiamata ad operare (possiamo immaginare con quali difficoltà) proprio in Kosovo, a Mitròvitza. L’invito è giunto dal sindaco, proprio in conseguenza dell’episodio dei vigili del fuoco presi a sassate. Occorre stabilire, mediante tecniche di contatto già collaudate in Israele, un dialogo fra le due etnie lacerate dal risentimento e dalla paura.
UN INGEGNERE SPECIALE
Nevè shalom/Wahat as-salam è l’ultima e più nota realizzazione di padre Bruno. Oggi la comunità è avviata ad una crescita notevole. Lo scopo è di raggiungere i 160 nuclei familiari e le candidature di ebrei ed arabi non mancano.
Di recente nubi minacciose hanno oscurato l’orizzonte del villaggio: da un lato, i monaci di Latrùn avevano ricevuto disposizioni superiori di alienare una parte dei terreni dell’abbazia, compresi quelli affittati a Nevè shalom/Wahat as-salam; dall’altro, si stava attuando il progetto di costruire nelle immediate vicinanze due grandi insediamenti ebraici, che avrebbero alterato (se non demolito) la peculiarità della comunità.
La Provvidenza, per intercessione del «fratello Bruno», sulla cui assistenza i membri della comunità non hanno dubbi, ha fatto sì che le cose andassero diversamente. L’abbazia ha donato al villaggio buona parte dei terreni che occupa e… i progetti d’insediamento sono tramontati.
Nel corso della sua vita in Israele, padre Bruno ha portato avanti, per quasi mezzo secolo, la vocazione di costruttore di ponti fra le religioni, le culture e i cuori. «Sono ingegnere – diceva – e come tale ho imparato a costruire ponti. Ora sono chiamato a lanciare ponti fra gli uomini».
Durante il Concilio ecumenico Vaticano II, aveva promosso il dialogo fra cristiani ed ebrei e l’abbattimento del muro millenario costituito dalla «teologia del disprezzo», mentre alle Nazioni Unite aveva difeso i diritti del popolo d’Israele.
Padre Bruno non ha mai tentato di convertire musulmani o ebrei. Invece, per iniziativa del frate, la comunità giudeo-cristiana in Israele, che con mille difficoltà porta avanti un’ardua convivenza fra il proprio ebraismo e la fede cristiana, conta oggi centri di ritrovo in diverse città del paese, assistenza religiosa, nonché una sua liturgia in ebraico. Sono poche centinaia di fedeli: vivono il loro credo in semiclandestinità.
Ma sono un segno dei tempi nuovi, un seme per la riappropriazione, da parte del popolo ebraico (nel rispetto della propria cultura e religione) della persona e dell’insegnamento di Gesù di Nazaret. E, forse, preludono a qualcosa di più grande, se è nei disegni di Dio.
UN INVITO NEL 2000
Nevè shalom/Wahat as-salam è tutt’altro che un idillio. Le difficoltà fra ebrei, cristiani e musulmani permangono, come pure le tensioni fra le etnie. I ragazzi ebrei sono chiamati alle armi e si sentono impegnati a rispondere alla leva, anche se con dei dubbi. I coetanei arabi, compagni di gioco, studio e lavoro, li vedono allontanarsi con preoccupazione e, da parte loro, subiscono il richiamo dell’appartenenza al loro popolo, diviso fra Israele e territori dell’Autonomia palestinese. Sono tensioni forti, che non si dissolvono da sole, ma vengono risolte giorno per giorno nell’amore reciproco e nel dialogo sincero.
Il piccolo cimitero di Nevè shalom/Wahat as-salam accoglie già due tombe: quella di padre Bruno e di Tom Kitain, 23 anni, un figlio del villaggio, morto in un incidente aereo durante il servizio militare. Per contro, sbocciano nuove vite nelle famiglie arabe ed ebraiche, a mantenere viva la fede e la speranza.
Per il duemila la comunità propone a tutti di salire all’«oasi di pace» per incontrare le «pietre viventi». Lo spirito dell’invito è provocatorio, perché «Gesù di Nazaret non appartiene a nessuno: ebreo nel senso pieno del termine, egli riunisce i cristiani e appare a più riprese nel corano. Il suo messaggio è unico: l’amore fraterno e il servizio dell’altro, la pace fra tutti gli uomini di buona volontà» (Lettera dalla Collina, 15, 1999).
È il richiamo non solo a udire il racconto delle «pietre viventi», ma anche a porsi in ascolto del proprio silenzio, cioè dumìah.
Dumìah (termine ebraico che significa silenzio) è l’unico edificio sacro del villaggio, voluto da Bruno Hussar e dai membri della comunità; è un emisfero bianco, spoglio, modesto di dimensione, punto di preghiera silenziosa e meditazione per ebrei, cristiani, musulmani e agnostici.
Nevè shalom/Wahat as-salam, anomalo kibbùtz nato come utopia e vissuto come miracolo, opera per la pace, che non è solo silenzio di armi, ma fratellanza di cuori, somma di ogni benedizione che solo la parola shalom/salam riesce a contenere: tocca le nazioni, ma parte dallo slancio di tutti, nutrito di profondo silenzio interiore. Dumìah appunto.
1) Haganah: esercito ebraico, formatosi durante il Mandato britannico, precursore dell’odiea Forza di difesa di Israele (IDF).
2) Kibbùtz e moshàv: insediamenti di gruppi israeliani a forma di cornoperativa; nel kibbùtz i beni sono in comune.

Guido Angela




Le multinazionali all’assalto del mondo

«Chiquita», la multinazionale statunitense delle banane,
è riuscita a mettere in crisi l’Unione europea. I sostenitori di un sistema
fatto a misura di multinazionali affermano:
meno vincoli statali significa più libertà e di conseguenza più benessere per tutti. Ma questo proclama neoliberista crolla davanti ai fatti:
disoccupazione crescente nei paesi industrializzati, condizioni lavorative
indegne nei paesi poveri. E tutto mentre i mercati finanziari sono drogati
dalla speculazione e il cancro del debito avvelena il mondo.

C hi comanda oggi nel mondo? La risposta è chiara: comandano le multinazionali.
Le Nazioni Unite definiscono multinazionali tutte le imprese che detengono la proprietà di altre società dislocate all’estero. Per cui basta che una azienda ne possegga un’altra al di là dei confini nazionali ed è classificata come multinazionale. Le multinazionali censite nel mondo sono oltre 40 mila; forse oggi sono diventate 50 o 60 mila. Il loro numero va crescendo. La quantità di imprese che esse controllano si aggira intorno a 400 mila.
Ma, detto questo, si rischia di essere portati fuori strada, perché le multinazionali che contano davvero non arrivano a 600; qualcuno dice addirittura che non giungono a 200. Si stima che 500 multinazionali siano responsabili del 25% del prodotto lordo mondiale; quindi il potere economico si sta concentrando sempre di più nelle mani di poche strutture.
Va data anche un’altra definizione di multinazionale, legata alle dimensioni: le multinazionali sono enormi; sono così grandi che nessuna nazione contiene un numero di consumatori sufficienti ad assorbire i loro prodotti.
Si pensi a Coca Cola, Nike, Reabock, Philips Morris, Nestlé e tante altre. Ebbene, per tutte queste imprese, i confini di casa loro sono troppo stretti. Di qui la necessità di espandersi a livello mondiale, di qui la globalizzazione.
INTERESSI COMMERCIALI E LIBERTÀ DI PROFITTO
La globalizzazione è nata perché le imprese affermatesi sono multinazionali. Noi non siamo dentro ad una globalizzazione qualsiasi, ma ad una globalizzazione che ha connotati precisi, per servire interessi precisi.
Il primo interesse è commerciale: la commercializzazione dei prodotti in ogni angolo del mondo; la libertà di collocare le merci ovunque, sia a New York che a Kathmandù, a Hong Kong come in qualsiasi altro paese.
La seconda libertà che le multinazionali rivendicano è di poter trasformare ogni risorsa naturale in merce. Che si tratti di legname tropicale, minerali, petrolio o qualsiasi altra risorsa con un ruolo fondamentale per i meccanismi vitali del pianeta, ebbene le imprese multinazionali rivendicano il diritto di trasformare le risorse in merce. Vale a dire di sfruttarle, di poterle esaurire pur di ottenere dei profitti.
La terza libertà, rivendicata dalle imprese a livello mondiale, è di usare qualsiasi tecnologia, non ultima quella che scardina i meccanismi intimi della vita. Ecco allora le biotecnologie, gli organismi geneticamente modificati, la clonazione dell’essere umano.
Per ottenere questo, le imprese hanno bisogno che gli stati si mettano d’accordo su trattati precisi che garantiscano il liberismo.
PER UN MONDO SENZA OSTACOLI
Esistono alcuni organismi importanti (come l’Organizzazione mondiale del commercio), che si muovono secondo due logiche di fondo.
In primis affermano che il commercio è al di sopra di tutto. Quindi si comincia ad affermare l’egemonia del commercio sopra ogni valore sociale e ambientale. Questa è la nuova dottrina che si sta tentando in tutti i modi di affermare all’inizio del terzo millennio.
La seconda strategia è quella di fare in modo che gli stati perdano sempre di più potere.
Le multinazionali hanno bisogno di un mondo senza ostacoli. Hanno bisogno che gli stati non solo perdano la possibilità di legiferare, in modo da sottoporre gli interessi collettivi a quelli commerciali, ma addirittura che gli stati cancellino le leggi che antepongono gli interessi sociali a quelli commerciali.
Di qui l’importanza di un meccanismo giudicante nell’Organizzazione mondiale del commercio. Esso interviene qualora gli stati membri pensino che altri stiano ledendo gli interessi di una loro multinazionale. Ci sono esempi concreti.
Recentemente l’Unione europea è stata portata in giudizio dal governo degli Stati Uniti a causa di una regolamentazione nel settore delle banane. La regolamentazione europea non ledeva gli interessi degli Stati Uniti (giacché essi non sono un esportatore di banane), bensì quelli della Chiquita, che è una multinazionale di origine statunitense.
L’Unione europea è stata trascinata in giudizio e condannata. Essa si è trovata di fronte a due scelte: o mantenere la sua regolamentazione e accettare di essere sottoposta a ritorsioni commerciali equivalenti al danno inflitto a Chiquita, oppure cancellare la regolamentazione e fae un’altra.
Ovviamente l’Unione europea ha scelto la seconda strada.
LA GLOBALIZZAZIONE PRODUTTIVA
Con la globalizzazione commerciale, si è sviluppata anche una globalizzazione produttiva: il mondo intero, cioè, si sta trasformando in un unico villaggio produttivo. Questo perché le multinazionali hanno fatto un’amara scoperta.
Esse hanno scoperto che il mondo è vasto da un punto di vista geografico e demografico (siamo oltre 6 miliardi di individui), ma il numero di persone con la possibilità di comprare, all’interno del mercato mondiale, è piccolo.
In altre parole, i consumatori che hanno soldi sufficienti, per comprare ciò che il sistema produttivo (altamente tecnologico) mette sul mercato, sono molto scarsi. Il loro numero non va oltre il 30-35% della popolazione mondiale. Insomma, il numero degli «eletti» è molto piccolo. Tutti gli altri sono stati esclusi a causa di cinque secoli di colonialismo, che hanno creato una massa di poveri enorme.
Non dobbiamo dimenticare che un miliardo e mezzo di persone vive in povertà assoluta: sono quelle che vivono con meno di un dollaro al giorno. I poveri assoluti sono coloro che campano nella precarietà massima, che dormono di notte sui marciapiedi e si alzano al mattino con la loro famiglia senza sapere se mangeranno un piatto di minestra durante il giorno; non sanno se troveranno il lavoro che gli permetterà di guadagnare quel famoso dollaro al giorno. Non riescono ad offrire ai loro figli la possibilità di andare a scuola, tanto meno di comprare una medicina o di entrare in un ospedale. Non riusciranno mai a garantire a se stessi neanche l’acqua potabile.
È veramente uno scandalo enorme, che grida contro di noi e il nostro sistema economico.
Ebbene tutto questo si sta ritorcendo contro. In un mondo squilibrato, con grandi sacche di povertà, i nodi sono venuti al pettine.
PER LA DIMINUZIONE DEI COSTI
In un mercato con pochi acquirenti e tanti venditori, si scatena una concorrenza feroce tra le imprese, per strapparsi i clienti a vicenda.
Osserviamo i mercanti che vanno alla fiera del mattino. Essi pensano di essere in pochi a mettere la propria bancarella in una piazza, dove passeranno tanti clienti facoltosi; invece scoprono che le bancarelle sono molte e che la gente è tanta, ma la maggior parte è stracciona e non ha la possibilità di comprare.
Allora… con un megafono enorme si cerca di richiamare l’attenzione dei passanti. Ecco la pubblicità che incalza e assume tante forme.
Non è solo pubblicità quella in televisione o sui giornali. La pubblicità è sempre più strisciante e subdola, con numerose sponsorizzazioni: non solo sportive, ma anche sociali. Sono tantissime le società che cercano di associare al loro marchio anche entità che si contraddistinguono per la propria finalità sociale. Perfino l’Unicef si fa sponsorizzare dalle imprese!
E le imprese non fanno nulla gratuitamente. Esse non conoscono il verbo «regalare». Le imprese danno quando sanno che il ritorno è il doppio o triplo.
E, siccome sanno di essere in una società dove la sensibilità dei consumatori per alcuni problemi va crescendo, accettano volentieri di associare il loro nome a quello di enti caritatevoli. Questo perché gli farà avere un ritorno di immagine, che riuscirà ad aumentare le loro vendite.
Dopo la pubblicità, la seconda strategia per vendere è legata ai prezzi. Basta che un prodotto costi una lira di meno per attirare subito i consumatori. Poi si fanno altre valutazioni; però quella del prezzo è fondamentale.
Poiché la concorrenza è feroce, i prezzi diminuiscono: questa è una delle vie per accaparrarsi i clienti. Ma se i prezzi diminuiscono, diminuiscono pure i ricavi e i profitti. Allora bisogna trovare altre strategie che facciano sì che i guadagni rimangano stazionari o, addirittura, aumentino.
A tale scopo, le imprese si sono impegnate a diminuire «altri» costi di produzione: come al solito, ciò che ha attirato la loro attenzione è stato il mondo del lavoro. Le strategie per diminuire i costi del lavoro sono tante. Una fra tutte: la sostituzione dell’uomo con la macchina. La disoccupazione odiea è sostanzialmente tecnologica.
Si è instaurata anche un’altra strategia, soprattutto nei settori che ricorrono ancora alla manovalanza. Essa consiste nel trasferire la produzione in quelle parti del mondo dove la gente, a causa di una povertà secolare, accetta di lavorare per un tozzo di pane.
È cominciato il trasferimento della produzione in paesi come la Corea del sud, Taiwan. Poi, quando tali paesi hanno raggiunto un certo standard di vita, sono state chiuse le fabbriche là, per trasferire la produzione in Indonesia, Thailandia… E, quando anche in queste nazioni, i lavoratori reclameranno migliori condizioni di lavoro, là pure si chiuderanno le fabbriche per trasferirsi in altre parti del mondo.
Già oggi si vedono nuovi paesi di approdo, come il Vietnam e la Cina. Anche l’Africa comincia a richiamare questo tipo di produzioni. Il processo di trasferimento della produzione è continuo.
Nelle loro fabbriche di scarpe, tessili e giocattoli le condizioni di lavoro sono facilmente immaginabili: i salari sono tanto infami che non riescono neanche a garantire il soddisfacimento dei bisogni primari. In Indonesia i salari delle ragazze che lavorano nelle fabbriche di scarpe coprono a mala pena il 70% del loro fabbisogno di base.
Ci sono poi orari di lavoro lunghissimi, per tentare di guadagnare qualche spicciolo in più. Le libertà sindacali sono inesistenti e, dulcis in fundo, si diffonde il lavoro minorile, che è un compenso a situazioni in cui gli adulti non guadagnano abbastanza. In alcuni casi il lavoro minorile si trasforma in schiavitù, come ad esempio nella produzione di tappeti in India o Nepal.
La globalizzazione produttiva sta portando le condizioni di lavoro sempre di più verso il basso. Lo si vede chiaramente in Asia e America centrale. Ma anche i nostri paesi sono trascinati in questo abisso.
L’ACCORDO SUGLI INVESTIMENTI
L’esigenza di produrre in ogni parte del mondo ha spinto le multinazionali ad ottenere una regolamentazione che, ancora una volta, riconoscesse loro tutti i diritti e nessun dovere: diritti di entrare in ogni paese e di uscie, quando ne sentivano il bisogno, senza alcun obbligo nei confronti della collettività o del governo; addirittura il diritto di un trattamento migliore di quello garantito alle imprese nazionali.
Questi diritti facevano parte del famigerato «accordo sugli investimenti», che per fortuna non è passato. Si è tentato il colpo in segreto a Parigi, all’interno dell’Ocse, affinché l’economia sia gestita sempre di più in maniera liberista. Dopo cinque anni, finalmente, qualcuno ha avvistato i pericoli; e, pur facendo parte della delegazione ufficiale, ha tirato fuori la notizia e l’ha data in pasto ad alcune organizzazioni non governative.
Il clamore suscitato è stato tale che il governo francese si è ritirato, facendo crollare tutta la costruzione.
Nell’accordo c’era una clausola, legata agli espropri, che diceva: le multinazionali, che investono in un paese estero, hanno il diritto di essere rimborsate ogni qual volta vengano espropriate di attività, terre o fabbriche; non solo, hanno diritto di essere risarcite anche nel caso in cui uno stato emani una legge che, in qualche modo, comprometta le possibilità dell’impresa di vendite future.
Che cosa significa? Se una fabbrica produce una sostanza chimica dannosa e viene promulgata una legge che la proibisce, la fabbrica può fare i conti di quanto avrebbe guadagnato nei prossimi dieci anni e spedire il conto allo stato!
Non sono cose campate per aria, perché nel Nord America, all’interno dell’accordo del Nafta (stipulato tra Stati Uniti, Canada e Messico), questa clausola esiste già. Il Canada è già stato portato in giudizio per un fatto del genere. Siccome intravvedeva la possibilità di essere condannato, è arrivato a patti con l’impresa che l’aveva citato in giudizio e ha pagato 13 milioni di dollari pur di chiudere il caso.
Siamo di fronte ad una situazione in cui tutto il potere è delle imprese, e le nazioni (vale a dire la gente) hanno soltanto doveri: doveri persino di risarcire le multinazionali anche del loro mancato guadagno.
IL DEBITO
Accanto alla globalizzazione produttiva e commerciale, c’è la globalizzazione finanziaria, incominciata 30 anni fa con il fenomeno del debito dei paesi poveri.
Esso nacque perché le banche inteazionali si trovavano con una grande quantità di denaro, derivante soprattutto dai guadagni degli emiri arabi con il rincaro del petrolio. Le banche non sapevano che fare dei petrodollari, perché Europa, Stati Uniti e l’intero mondo industrializzato stavano attraversando un periodo di recessione.
Le banche, non sapendo dove collocare il denaro (esse guadagnano solo se collocano i depositi che ricevono), hanno cominciato a offrire soldi a condizioni agevolate ai governanti del Sud del mondo, prospettandogli la possibilità di usarlo per i loro sogni. Purtroppo non erano sogni che miglioravano le condizioni di vita della gente; anzi, quasi sempre erano sogni volti a rafforzare il potere personale e gli eserciti dei dittatori sparsi nel mondo.
Poi una quantità di soldi è stata sprecata per realizzare «cattedrali nel deserto», progetti che non avrebbero prodotto niente, ma che servivano esclusivamente per fornire appalti alle imprese del Nord. E queste ricompensano i governanti con laute bustarelle, alimentando una paurosa corruzione.
Il debito scellerato non è stato contratto per consentire alla gente di vivere meglio, per fare investimenti produttivi e sociali, ma per rafforzare posizioni di potere.
Intanto, finita la fase dei tassi agevolati, gli interessi sui prestiti hanno incominciato a salire. Il debito è cresciuto a dismisura. I paesi, non riuscendo a pagare le rate, sono stati costretti a chiedere altri prestiti e il debito è aumentato come una valanga. Oggi siamo arrivati a circa 2.500 miliardi di dollari di debito complessivo.
Ogni anno i paesi del Sud versano alle casse del Nord qualcosa circa 290 miliardi di dollari: sono sudore della gente, sono materie prime che passano gratuitamente dal Sud verso il Nord, anno dopo anno.
Se si vuole guadagnare da un paese, basta indebitarlo. Il debito è un meccanismo scientifico, studiato a tavolino, proprio per avere un travaso di risorse dal Sud verso il Nord.
IL RICATTO DELLE ISTITUZIONI
La scelleratezza è diventata via via più immane. Le istituzioni inteazionali concedevano nuovi prestiti ai paesi indebitati, ponendo condizioni ben precise: «Noi ti diamo un ennesimo prestito, a patto che tu ristrutturi l’economia nazionale esclusivamente per ripagare il debito».
La logica che sta sotto è semplice. Cosa chiede una persona a un suo debitore? Di lavorare tanto e tirare la cinghia, in modo che egli avanzi una quantità sufficiente di risorse per restituire il debito. È questa la logica che applica il Fondo monetario internazionale.
Non c’è niente di complicato quando si parla di «aggiustamento strutturale» dell’economia per favorire il pagamento del debito. In base a questa logica, i paesi del Sud sono spronati a fare sempre di più man bassa delle loro risorse, a sfruttare maggiormente il lavoro dei loro popoli, a orientare la loro economia verso l’esportazione. Infatti solo così si procurano i dollari per restituire il debito.
Il meccanismo infeale implica, nel contempo, una drastica riduzione dei bilanci pubblici: meno fondi per il pubblico significa più soldi per ripagare il debito. Ecco, allora, che vengono tagliati i sussidi a sanità, istruzione, alimentazione: insomma tutte le spese sociali.
Sicuramente, però, i risparmi non vengono fatti sulle spese destinate agli armamenti, che (guarda caso) si comprano da noi.
Questa è la logica dell’«aggiustamento strutturale». Oggi la gente del Sud del mondo sta morendo, intrappolata nel sistema diabolico descritto.
LA SPECULAZIONE FA MALE AI LAVORATORI
Nell’ambito della globalizzazione finanziaria trova sempre di più spazio la speculazione sui cambi delle valute e sul valore dei titoli.
La finanza sta andando in questa direzione per due ragioni. In primo luogo, perché i tassi di interessi sono diminuiti considerevolmente e, di conseguenza, non c’è più stimolo a depositare il denaro in banca o acquistare titoli di stato.
L’altra ragione è che si stanno rafforzando nuove istituzioni finanziarie, ancora una volta legate alle scelte liberiste dei governi. Quanto più lo stato rinuncia al suo compito in ambito sociale, tanto più esso viene assorbito da istituzioni private che, naturalmente, hanno bisogno di guadagnare. Si tratta, in particolare, di società che gestiscono i fondi pensione e delle assicurazioni.
Poiché le istituzioni private devono mostrare ai loro clienti che sanno far fruttare i soldi, mettono in atto strategie che puntano al profitto immediato. Un miliardo e mezzo di dollari transita ogni giorno da un computer all’altro per tentare di guadagnare sulle variazioni delle valute straniere e sul valore dei titoli azionari!
Due anni fa, in Thailandia, la borsa crollò del 10-15% dall’oggi al domani, mettendo in moto un processo di recessione che provocò il licenziamento di migliaia di persone. Occorre essere più consapevoli del fatto che l’economia finanziaria si ripercuote su quella reale. Dunque, sulla vita quotidiana della gente comune.

Francesco Gesualdi