CONGO – A scuola con una bottiglia d’olio

Non è più giovanissimo quando raggiunge
il malconcio Zaire di Mobutu.
Parla il francese così così, mentre ignora del tutto lo swahili. Ma il missionario
della Consolata è un marchigiano tenace.
Sul campo viene addirittura promosso vicevescovo,nonché cornordinatore di tutte le scuole
della diocesi di Wamba. E incomincia il «bello»
in un «bruttissimo» paese, che si dibatte fra due guerre: quella di Kabila nel 1996e quella contro il nuovo presidente subito dopo. Tuttora in corso,
dopo 2 milioni di morti.

passando davanti
all’ex carcere

– Padre Angelo, quando ci possiamo incontrare?
– Domani mattina in ufficio, alle otto.
È l’alba, mentre raggiungiamo a piedi l’episcopio di Wamba (nella repubblica democratica del Congo), dove padre Angelo Baruffi è vicario generale della diocesi. Passiamo di fronte alle ex prigioni in mattoni rossicci. Il primo sole investe i muri rendendoli quasi sanguigni.
All’ingresso di quel carcere, il 26 novembre 1964, fu massacrato dai simba di Mulele il vescovo belga Joseph Wittebols: il corpo, buttato in un torrente, non fu più ritrovato. Il giorno dopo furono trucidati altri sette missionari, anch’essi «perduti» per sempre. I simba non risparmiarono neppure i cattolici locali, fra cui suor Anwarite. Beatificata nel 1985, è patrona delle diocesi di Wamba e Isiro.
Nel 1964 il Congo era indipendente da soli quattro anni, però già si tingeva di sangue. Nel luglio del 1960, sotto il presidente Kasavubu e il capo di stato maggiore Mobutu, la nazione conobbe la secessione del Katanga, guidata da Ciombé, e il 18 gennaio 1961 l’assassinio del premier Lumumba. Poi sia la secessione del Katanga sia la ribellione dei simba (fra i quali militava Kabila, attuale presidente) fallirono.
Nel trentennio 1966-96 il paese fu ostaggio di Mobutu, che nel 1971 gli cambiò anche il nome: da Congo a Zaire. Ritoò ad essere Congo nel 1997, allorché le truppe di Kabila, sostenute da Rwanda, Burundi e Uganda, cacciarono il dittatore.
I guai però non erano finiti, perché nell’agosto del 1998 il Congo si rituffò nel sangue: l’esercito di Kabila, con Zimbabwe, Angola e Namibia a fianco, contro gli alleati di ieri: Uganda, Rwanda, Burundi e gruppi di ribelli congolesi. Poi gli ugandesi e i rwandesi hanno incominciato persino a prendersi a cannonate fra loro: a Kisangani, per esempio, al fine di depredare il ricco paese senza spartire il bottino con nessuno. È quanto fanno anche gli alleati di Kabila.
È sempre stato così in Congo, fin dal 1885, quando il paese divenne proprietà personale di re Leopoldo del Belgio.
un funzionario in uno stato colabrodo
«Non ti spaventare del disordine!» esclama padre Angelo allorché, un po’ guardinghi, varchiamo la porta del suo ufficio.
Sul pavimento in cemento giacciono zappe, scope, barattoli di colore, scatoloni di medicine, un set di strumenti meccanici, una motosega a diesel, un trapano elettrico. Un ufficio anomalo per un vicevescovo.
Ma Angelo Baruffi è un missionario che non rifiuta di rimboccarsi le maniche. Tuttavia, in ufficio, indossa la camicia di prete… e un berretto quadrangolare, intessuto di fibre multicolori e infiocchettato di piume. È il tradizionale copricapo dei wabudu, l’etnia della zona, dove ufficialmente si parla swahili e francese.
La nostra attenzione cade su un mucchio di cartelle. Ne prendiamo in mano una. «Quella cartella – afferma il missionario – contiene l’ultimo programma scolastico governativo. Che fatica ad averlo!».
– E che te ne fai?
– Beh… io sono un funzionario dello stato in tema di istruzione.
– Ma se lo stato è un colabrodo!
– Però non mancano i bambini che vogliono andare a scuola…
In Congo esistono «tre scuole», ma con gli stessi programmi, riconosciute dallo stato e da esso sovvenzionate (oggi solo sulla carta!):
– «scuole ufficiali», gestite direttamente dal governo;
– «scuole private», in mano a singoli individui;
– «scuole convenzionate», affidate ad enti religiosi.
«Io sono cornordinatore delle scuole cattoliche primarie e secondarie della diocesi di Wamba – dichiara padre Baruffi -. Questo servizio mi è stato sollecitato dal vescovo nel 1991: un servizio che non ho certamente chiesto io, straniero, giunto in Congo a 43 anni suonati con una modesta conoscenza del francese, mentre dello swahili ero completamente digiuno. Ma, quale missionario della Consolata che deve avere a cuore i problemi del popolo, potevo forse rifiutare l’invito del vescovo?».
– Qual è stato il tuo primo impatto con il problema-scuola?
– Preoccupante, come minimo. Nel 1991, su 138 mila possibili allievi, quelli che frequentavano la scuola erano 22 mila, di cui solo 9 mila ragazze.
DI FRONTE ALLO SCIOPERO
Se nel 1991 la situazione scolastica era preoccupante, il peggio però doveva ancora venire. Fu nel 1992-93 che si toccò quasi il fondo, allorché lo stato non pagava più gli insegnanti. I genitori, pur di mandare i figli a scuola, si tassarono per rimunerare i maestri con 19 mila lire al mese. Una miseria. Ma per i wabudu era un salasso, mentre il corrotto Mobutu spendeva e spandeva.
Nel giugno del 1993, dopo aver terminato l’anno scolastico con difficoltà, gli insegnanti dichiararono sciopero contro il governo che non pagava i salari. Vescovo, sacerdoti e capifamiglia erano solidali.
Passarono luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre… E lo stato era sempre assente.
«Io – commenta padre Angelo – non visitavo più le scuole in qualità di cornordinatore, perché non c’era alcunché da cornordinare. Un giorno, per strada, alcuni ragazzini mi hanno chiesto: “Padre, quando ci riporti a scuola?”. La stessa domanda mi è stata posta da altri bambini. Sono entrato in crisi. Ma che fare?».
Già, che cosa poteva fare un missionario… straniero?
«Ho chiesto al vescovo – riprende padre Angelo – di scrivere una lettera per natale da leggersi in tutte le comunità. Così è stato. Nella lettera raccontavo una storia, parafrasando il profeta Ezechiele (16, 6-14): è nato un bambino, ma viene gettato in strada, perché rifiutato; però qualcuno lo raccoglie, lo nutre e diventa bello… “Allora, fratelli, che facciamo dei nostri figli? Li lasciamo marcire sulla strada? Essi sono l’unica ricchezza rimastaci in questo stato ladro. Aiutarli significa salvare la speranza. Se volete, io riapro le scuole, ma con voi”».
Da gennaio 1994 i ragazzi sono ritornati in classe.
In loco si produce olio di palma: viene anche commercializzato. Serve pure a pagare gli insegnanti: circa mezzo litro al mese per allievo.
ANCHE I PIGMEI A SCUOLA
Nella diocesi di Wamba prevalgono i wabudu, ma si contano pure circa 30 mila bambuti (pigmei). Si tratta di popoli molto diversi, a prescindere dall’altezza (i pigmei sono più bassi: gli uomini raggiungono mediamente 145 centimetri e le donne 132). Ma la vera diversità è culturale: i wabudu sono bantu, a differenza dei pigmei che non sono classificabili. I bambuti sono molto più antichi delle etnie bantu. Ne parla il greco Omero nell’Iliade e, soprattutto, il faraone d’Egitto Neferkara (nel 2500 a. C. circa).
Le differenze sono vistose anche nella vita socioeconomica. I wabudu, agricoltori, lavorano specialmente nella stagione delle piogge; i pigmei, cacciatori e raccoglitori nella foresta, operano in quella asciutta.
L’insegnamento scolastico, per i pigmei, deve tenere conto della loro diversità. È assurdo programmare la scuola durante il tempo della caccia, cioè del lavoro.
Nel 1994 padre Angelo Baruffi ottenne dal governo centrale un trattamento scolastico speciale per i pigmei: speciale per programma e calendario delle lezioni. Fu un’impresa ardua, come racconta il missionario: «Quando ho accennato ai pigmei, i responsabili dell’istruzione pubblica mi hanno riso in faccia, segno di non curanza e razzismo».
Oggi a Wamba, su un totale di 7.500 ragazzi pigmei da alfabetizzare, 3.000 frequentano la scuola, di cui 1.300 ragazze. Sono distribuiti in 114 classi con 122 insegnanti.
Vi sono scuole con soli pigmei e altre miste. Ma i wabudu devono essere in minoranza, perché c’è sempre il rischio che il più forte (bantu) schiacci il più debole (bambuti).
L’accettazione dei pigmei, senza livellamenti culturali, è fondamentale, ma non facile. Al riguardo, la chiesa ha parecchio da dire. E, soprattutto, da testimoniare.
nel cuore della guerra
Nel 1991 gli studenti della diocesi di Wamba erano 22 mila. Al presente sono 44 mila. Un raddoppio miracoloso: perché, se nove anni fa lo stato era un misero «focherello», oggi è «cenere». Nel 2000 «Congo» è sinonimo di anarchia e guerra, che coinvolge eserciti di varie nazioni dal 1996. Senza dimenticare che a Wamba le «scuole convenzionate» con lo stato sono 85, ma padre Baruffi ne cornordina 247.
– Padre Angelo, i ragazzi come vanno a scuola in un clima di guerra?
– Con paura. Ma ci vanno, e l’anno inizia e termina regolarmente.
– Come cornordini l’insegnamento?
– Come posso. Al sopraggiungere di bande armate, tutti scappano in foresta. Ma, se le scuole sono aperte, si va anche al lavoro, si produce… La scuola è più che una speranza.
– Paghi i maestri sempre con una bottiglia di olio di palma?
– Anche con denaro. Però non supero le 10 mila lire mensili.
– Com’è la situazione altrove?
– Dipende. Nel Kivu, dove la gente sta meglio, gli insegnanti ricevono anche 70 mila lire al mese. Da noi ciò è impossibile.
– Comunque tu garantisci almeno 10 mila lire al mese.
– Non sempre. Dove troverei i soldi per 1.500 maestri?
– Vi sono allora insegnanti che prestano servizio gratis!
– Certamente.
Non è di poco conto in un paese stremato. Dietro il volontariato degli insegnanti, c’è sempre lo stimolo di padre Angelo: «Se non lo fate voi, nessun altro lo fa. I ragazzi, cui consentite di studiare, sono i vostri figli, i vostri fratelli!…». La diocesi, però, fornisce libri, quadei e tutto il materiale didattico, grazie alla solidarietà della chiesa italiana.
Non mancano le rotture fra i genitori degli studenti e i professori: sempre per ragioni economiche. In tali frangenti il missionario ricuce gli strappi. È un mediatore autorevole perché, pur essendo un funzionario dello stato ad alto livello, non percepisce una lira. Inoltre tutti sanno che «il padre» non si risparmia, rischiando anche la vita.
N el 1996, quando Kabila iniziò la conquista del Congo e i soldati di Mobutu battevano in ritirata saccheggiando le parrocchie, i missionari furono costretti ad andarsene. Lasciarono il campo anche i vescovi di Wamba, Dungu-Doruma, Isiro e di altre diocesi. Padre Angelo no. Ricercato dai soldati, si dava alla macchia. Ma era là. Con la gente, i «suoi» ragazzi.

«SUONATE QUELLA CAMPANA PER DIO!»

In Congo gli eserciti si stanno combattendo da quattro anni. Quattro anni (destinati ad aumentare, purtroppo), che non potrò mai scordare. L’anno che, finora, mi ha maggiormente «segnato» è stato il 1997, durante il quale ho trascorso mesi interminabili da fuggiasco. A parte le distruzioni, il sangue, la morte.
Restando sul «campo di battaglia», ho capito che cosa significhi vivere da solo con la gente. All’inizio, quando si sentiva la mia auto, tutti scappavano, perché pensavano che fossero arrivati i soldati per razziare; poi, riconoscendo il mio braccio bianco dal finestrino o il mio vecchio cappello kibudu, gridavano di contentezza.
In Congo, prima dell’attuale conflitto bellico, ho giornito della spontanea vivacità della gente: le sonore risate degli uomini, i trilli acuti delle donne, i giochi dei bambini, i canti e balli al ritmo di tamburi o al battito di mani… Ma, con la guerra, impera il silenzio anche in pieno giorno. Un silenzio che impressiona quanto il crepitio delle pallottole.
Allora nel 1997, passando di villaggio in villaggio, se c’era una campana o un cerchione d’auto (appeso ad un albero) che funge da gong, quasi gridavo: «Suonate quella campana, perdio! Battete quel gong! Rompete il silenzio!…». Il silenzio in guerra è allucinante. L’ho vissuto anche con padre Edward Olali, missionario della Consolata kenyano: io «silenzioso» da una parte e lui da un’altra.
In tale contesto ho toccato con mano quanto il prete sia un punto di riferimento per la popolazione. In guerra le differenze svaniscono, anche quelle tra bianco e nero. Tutti diventano uguali, perché tutti hanno paura allo stesso modo. Però se il prete è «là», la gente (non solo cattolica) appare più tranquilla. È per questo che, come responsabile della diocesi di Wamba, in assenza del vescovo, raccomandavo a tutti i sacerdoti di celebrare la messa, di suonare ogni giorno le campane. Al mattino, se si udiva il loro suono, si andava in chiesa, e chi vedeva le persone uscire di casa ritrovava la voglia di lavorare.
Anche i sacerdoti, in tempo di guerra, hanno bisogno di un riferimento. Io mi trovavo in un’area che comprende cinque diocesi, senza un vescovo. Erano rimasti solo i preti africani; ma erano «pecore senza pastore». Tutti giovani, ed io con i capelli bianchi. Sono diventato il loro «pastore». Ecco perché non ho voluto lasciare il Congo.
Sono passato di missione in missione (anche per fuggire dai soldati che mi cercavano) e vi trascorrevo 15-20 giorni. Dalle parrocchie poi, grazie alla radiofonia, tenevo i contatti con tutti. Mai, come in quei momenti, mi sono sentito missionario della «Consolata», pur essendo un fuscello in balia dell’uragano. Sono stato anche un incosciente, rischiando grosso. Ma ne è valsa la pena.
Oggi sono ancora vicario generale, oltre che cornordinatore delle scuole. Avverto la mia scomoda posizione di straniero, mentre infuria una guerra voluta soprattutto da… stranieri (rwandesi, angolani, ecc.) con armi… straniere: francesi, statunitensi, ecc.
Credo nel servizio. Agli altri il giudizio sul mio operato.

p. Angelo Baruffi

Francesco Beardi




Incontro con Luciano Violante

Globalizzare i diritti…
la frontiera
degli onesti

Signor presidente, lei ha recentemente affermato (citando Norberto Bobbio) che «i diritti umani sono la religione civile del nostro tempo». Il fenomeno della globalizzazione dovrebbe favorire tale «religione». È veramente così?

Sinora la globalizzazione ha riguardato la finanza, l’economia e la comunicazione. Non ha riguardato ancora i diritti umani fondamentali. Anzi, sono aumentate le diseguaglianze tra gli uomini, tra le nazioni e tra i continenti. Dobbiamo impegnarci per la globalizzazione dei diritti; questa è la frontiera degli uomini onesti.
È importante che i vertici inteazionali comincino a porre il problema della globalizzazione responsabile: lo ha fatto l’Unione Europea durante il semestre di presidenza portoghese e l’hanno fatto ad Okinawa (Giappone) i capi di stato e governo del «G 8», il gruppo delle otto nazioni più industrializzate.

Le democrazie occidentali spesso si ritengono i paladini dei diritti umani… e lo dimostrano intervenendo anche manu militari in Kosovo o Timor Est. È questo il modo migliore per garantire la pace?

Con la guerra non si garantisce la pace. Ma in entrambi i casi, da lei citati, l’intervento militare si è reso necessario per impedire che continuasse la persecuzione di popolazioni povere e incolpevoli. Bisogna sempre più sviluppare, partendo dalle zone a rischio presenti nel mondo, operazioni di peace building e peace keeping, che servano appunto a costruire e mantenere la pace e a prevenire la guerra.
L’Italia in questo è all’avanguardia; tanto che, a Torino, è già operativa una scuola di peace keeping delle Nazioni Unite.

La povertà è una grave minaccia dei diritti umani: essa attenta al primo dei diritti, quello alla vita. La miseria, non raramente, coesiste con la ricchezza: le baraccopoli dell’America Latina (e non solo) insegnano. Questo è solo un paradosso?

Non è solo un paradosso. È una vergogna, frutto della diseguaglianza tra gli uomini. Ma intendo rispondere con precisione.
Oggi, a fronte di un crescente sviluppo economico globale, che ha fatto registrare negli ultimi 50 anni un aumento del prodotto interno lordo mondiale di dieci volte (da 3 mila miliardi a 30 mila miliardi di dollari), assistiamo (anche per effetto della globalizzazione) ad un preoccupante allargamento della forbice economica, già esistente tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo.
Secondo l’ultimo Rapporto sul programma di sviluppo delle Nazioni Unite, sono ancora oltre 80 i paesi che hanno redditi pro capite più bassi rispetto ad un decennio fa o più. In particolare, a partire dal 1990, solo 40 paesi hanno ottenuto una crescita media del reddito pro capite di oltre il 3% l’anno, mentre 55 paesi (soprattutto nell’Africa sub-sahariana, ma anche nell’Europa dell’est e nella Comunità degli stati indipendenti – Csi), si sono ulteriormente impoveriti. La povertà costituisce ancora oggi, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, la principale causa di morte nel mondo. Il 40% dei decessi è dovuto alle malattie contagiose, il 99% delle quali si verifica nei paesi meno sviluppati.
Come vede, la povertà non è una questione sociale. La povertà è una questione politica, che va affrontata come tale.
In coincidenza anche con il Giubileo dei cristiani, oggi si discute molto sulla cancellazione del debito estero dei paesi poveri. L’Italia ha deciso di cancellare 6 mila miliardi di lire. Come giudicare tale scelta?

L’Italia ha già approvato la legge sulla cancellazione del debito dei paesi poveri. In questo siamo più avanti di altri. Ma non basta. Bisogna lavorare per portare istruzione, sanità e sviluppo nei paesi poveri.

Circa la cancellazione del debito, qualcuno ha affermato che siamo di fronte alla «mano destra che dona, seguita però dalla sinistra che toglie». È questa solo una battuta maliziosa?

Non è questa l’intenzione italiana; né è questa una nostra abitudine.
Quest’anno il Brasile celebra i 500 anni della sua nascita. Ma è una celebrazione contestata dagli indios, dai discendenti degli schiavi neri e da vasti settori popolari impoveriti… mentre l’Amazzonia, polmone del mondo, è inquinata. Eppure il Brasile è l’ottava potenza del mondo!
Coniugare sviluppo economico e valori umani è un’impresa particolarmente difficile; ma, a mio avviso, è una delle ragioni fondamentali per le quali è necessario impegnarsi nell’attività politica.

In Brasile (ma anche in Colombia, Perù, Messico…), da circa 40 anni risuona il ritornello «i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri». Allora «c’è del marcio», e non solo nella «Danimarca di Amleto». Quale marcio?

Il marcio dell’ingiustizia sociale. La distanza tra le nazioni più ricche e quelle più povere era di circa 3 a 1 nel 1820, di 11 a 1 nel 1913, di 35 a 1 nel 1950, di 44 a 1 nel 1973 e di 72 a 1 nel 1992. Ecco la «forbice» di cui parlavo.
Aggiungo che circa 550 milioni di donne, oltre la metà della popolazione rurale del mondo, vivono sotto la soglia di povertà. La donna povera è più soggetta a violenze da parte degli uomini, partorisce figli ammalati o indeboliti, ai quali non riesce a fornire il nutrimento necessario. Ogni anno muoiono nel mondo 13 milioni di bambini sotto i cinque anni, a causa di malnutrizione o di malattie legate alla povertà. Almeno 5 milioni di bambini sotto i cinque anni, pari al 36% del totale in questa fascia d’età, sono gravemente malnutriti. La povertà costringe sino a 160 milioni di giovani al lavoro minorile e circa 2 milioni a prostituirsi.
Contro questo «marcio» bisogna combattere con la massima determinazione.

Signor presidente, so che lei ha incontrato alcuni missionari. Chi è per lei il missionario oggi?

Un uomo che lotta contro l’ingiustizia sociale, con gli strumenti della fede, della pace e del rigore morale.

Il dramma dell’africa è la sua ricchezza

L o squilibrio tra i paesi meno sviluppati e le nostre nazioni si traduce, oltre che in disperazione umana, in massicci movimenti migratori che provocano nei paesi ricchi ondate razziste, difficilmente controllabili. È necessario che i nostri paesi rafforzino il loro impegno, a livello nazionale e internazionale, per garantire a tutti la libertà dal bisogno, alcune condizioni minime di vita e il diritto allo sviluppo…

I governi delle nazioni industrializzate compiano un passo ulteriore nella strategia di promozione dello sviluppo dei paesi poveri, che vada oltre la cancellazione del debito estero. Il diritto allo sviluppo dei paesi poveri deve costituire per quelli ricchi un preciso dovere a non adottare politiche economiche ingiustamente dannose per questi paesi.
Un forte richiamo a questo dovere degli stati ci viene oggi rivolto con particolare urgenza dai missionari, da quegli uomini e donne quotidianamente impegnati sul terreno, spesso a rischio della propria vita, in aiuto dei più deboli. Anche alla luce delle loro importanti segnalazioni, ritengo che i governi dei paesi ricchi debbano agire in due direzioni principali:
– abbattere le barriere al commercio internazionale e fare in modo che anche i paesi poveri possano avvalersi dei benefici della globalizzazione; questi paesi non avranno, infatti, un vero sviluppo se non riusciranno ad entrare liberamente con i loro prodotti nei nostri mercati, come avviene per i nostri prodotti nei loro mercati;
– contrastare la politica neocolonialista adottata da alcune grandi industrie occidentali verso i paesi poveri, dell’Africa in particolare, che sta creando nuove e pericolose forme di sfruttamento e dipendenza.
Faccio due esempi.
1/ Il Nord del mondo sarebbe oggi debitore verso i paesi poveri, donatori di materia prima, di oltre 300 milioni di dollari per diritti di sfruttamento non pagati, relativi a sementi per coltivazioni agricole. Alcune sementi, geneticamente modificate, non riproducibili e imposte sul mercato da varie industrie, minacciano seriamente ogni strategia di sicurezza alimentare di un paese povero, impedendo la diversificazione delle fonti di approvvigionamento dell’alimentazione umana. Siamo così arrivati al paradosso che il dramma del continente africano non è tanto la sua povertà, quanto la sua enorme ricchezza!
2/ La sicurezza alimentare dei paesi poveri e il loro diritto alla sopravvivenza sono oggi seriamente minacciati dalla penuria d’acqua e dalla sua iniqua distribuzione nel mondo. Il diritto all’acqua costituisce uno dei diritti maggiormente invocati da questi popoli, a fronte dei dati che vedono meno di 10 paesi (tra cui, in testa, Brasile, Russia, Cina, Canada, Indonesia e Stati Uniti) dividersi il 60% delle risorse idriche del pianeta. Per alcuni paesi le previsioni sono particolarmente allarmanti. Nei prossimi 10 anni le risorse pro capite si ridurranno del 30% in Egitto, del 40% in Nigeria e del 50% in Kenya.
L’allarme tuttavia non riguarda solo queste nazioni, ma l’intero pianeta…

L a ricorrenza del Giubileo rappresenta un grande evento spirituale per la comunità cristiana nel mondo. La portata di tale evento non può, tuttavia, essere circoscritta alla sola comunità dei credenti.
Il suo profondo significato etico, tradizionalmente ispirato (oltre che a valori religiosi) anche a quelli sociali di equità, uguaglianza e pace, fa sì che il Giubileo rappresenti anche per la comunità laica e per quella politica, in particolare, un’occasione importante di riflessione sui problemi relativi alla giustizia sociale e alla tutela dei diritti dell’uomo.
Il primato dei diritti umani rende assoggettabili a responsabilità gli stati e le persone che, in ragione dell’esercizio di pubblici poteri, si rendono responsabili delle violazioni di tali diritti. È ormai possibile fare in modo che, accanto ai diritti universali degli uomini, corrispondano anche i doveri universali degli stati.
Credo che l’Italia debba porsi tra i suoi obiettivi prioritari l’adozione di una Carta dei doveri universali degli stati che integri la tradizionale frontiera dei diritti umani. Lavorare per questa Carta può costituire uno degli impegni più nobili di ogni paese civile, libero e democratico.
Luciano Violante
(dall’intervento all’inaugurazione
dell’«Expo missio 2000», Roma 9 giugno)

Francesco Beardi




MOZAMBICO – Chi la dura la vince

Il 30 ottobre 1925 i primi missionari
della Consolata sbarcarono
in Mozambico.
Seguirono anni caratterizzati da eroismi e conflitti
di vario genere.
Una storia da non dimenticare, anche perché la sfida raccolta (o lanciata) tanti anni fa non è finita.

L’ iniziativa di estendere al Mozambico il campo di evangelizzazione dei missionari della Consolata partì dall’allora superiore generale mons. Filippo Perlo. In una vecchia cartina geografica della colonia portoghese, conservata nell’archivio dell’istituto, si possono vedere i cerchietti da lui tracciati per indicare i posti delle missioni da erigere nella regione del Niassa, in cui nessun missionario cattolico aveva ancora messo piede.
Sondata la curia romana, mons. Perlo incaricò suo fratello Luigi, responsabile della procura di Nairobi, di negoziare tale progetto con mons. Rafael de Assunção, prelato di tutto il Mozambico. Nell’incontro avvenuto il 6 aprile 1925 a Lourenço Marques (oggi Maputo), il vescovo offrì la missione di Miruru nell’alta Zambezia.
Non era il campo adocchiato da Torino. «Prendere o lasciare» diceva mons. Rafael. Il superiore generale accettò l’offerta, in attesa del momento propizio per mandare i suoi missionari anche nel Niassa. Nel frattempo chiese a Propaganda fide il permesso d’inviare un primo drappello di missionari in Mozambico. Il cardinale Van Rossum, prefetto del dicastero missionario, non si oppose alla nuova apertura, «purché le missioni affidate da Propaganda a cotesto Istituto non ne abbiano a soffrire nella loro cura e sviluppo».
COMINCIA L’AVVENTURA
Il 30 di ottobre 1925, provenienti da Torino, sbarcano a Beira due giovani missionari, i padri Lorenzo Sperta e Paolo Borello, e il diacono Secondo Ghiglia, che così scrive nel suo diario: «È l’alba. La bella cittadina sorride all’orizzonte, indorata dalla brezza marina che l’oceano incessantemente evapora. Dopo la verifica dei passaporti, finalmente possiamo scendere. Entriamo in una chiesa per salutare il Signore e la beata Vergine Maria e ringraziarli dell’ottimo viaggio. La Consolata si degni di benedire i suoi alfieri che per primi toccano questa terra, già percorsa da stuoli eletti di apostoli, e voglia rendere fecondo il nostro apostolato».
Il 14 novembre, provenienti dal Kenya, arrivano altri cinque sperimentati missionari, che completano il gruppo della spedizione: i padri Vittorio Sandrone, Giulio Peyrani, Pietro Calandri, Giovanni Chiomio e fratel Giuseppe Benedetto.
Per la mancanza di battelli in servizio sul fiume Zambezi, i missionari devono rimanere a Beira per varie settimane, ospiti dei padri francescani. Ne approfittano per studiare la lingua portoghese, mentre padre Chiomio raccoglie informazioni su strade, tariffe, dogane… Padre Sperta, colpito da febbre reumatica, è ricoverato nell’ospedale e poi, accompagnato da padre Calandri, torna in Kenya.
Il 7 dicembre gli altri sei missionari salgono sul treno e, dopo due giorni di viaggio, raggiungono l’antica missione gesuitica di Chupanga sul fiume Zambezi. Qui dovranno ancora aspettare fino al 28 dicembre prima di imbarcarsi sul battello Zambezi: una grande casa a veranda costruita sopra una chiatta con una ruota motrice. Per la scarsità d’acqua in quel periodo dell’anno, l’imbarcazione procede adagio e con cautela. «Oggi sono le delizie dell’incaglio – scrive il diacono il 30 dicembre -. Delizie che non auguro a nessuno, per quanto vi sia da divertirsi. La ruota mulinava disperatamente; il fuochista cacciava tronchi interi nel foo della caldaia e non si faceva un pollice di strada; e si era sempre lì a guardare le stesse punte degli alberi e l’acqua azzurra fuggire indietro».
Il viaggio si rivela più scomodo del previsto, sia per la difficile navigazione, sia per il caldo torrido. Indifferente a ogni disagio, padre Chiomio prende appunti su tutto quello che guarda e sente. «Fa un caldo da salina in evaporazione – continua il diario il 2 gennaio 1926 -. Non si parla più tanto. Si è a disagio. Si suda terribilmente. Padre Chiomio, invece, l’inseparabile bussola a tracolla, la maiuscola borsa da commesso viaggiatore gonfia di scartafacci, mappe, ritagli di giornali, è instancabile. Carta geografica alla mano, chiede informazioni su strade, luoghi, distanze e scrive tutto su un taccuino, fissando indicazioni e rilievi».
PASSAGGIO DEL «MAR ROSSO»
Il 10 gennaio arrivano a Tete, capitale della Zambezia. Scendono dal battello e si avviano alla parrocchia di s. Tiago per celebrare la messa. Due giorni dopo, partono alla volta di Boroma, ultima tappa prima di raggiungere la lontana missione di Miruru.
Viaggiano a bordo di un camion, che corre all’impazzata. La strada è accidentata e dissestata dalle piogge. «Ci teniamo uno coll’altro per maggiore sicurezza, per non perdere l’equilibrio. L’autista, a ogni svolta o sobbalzo improvviso che mette a scompiglio i passeggeri, chiede con serietà e ironia: “Non manca nessuno?”; e rilancia la vettura a tutto gas. Grazie a Dio non vi sono stati incidenti, ma che acrobatismo!».
A un certo punto, le ruote sprofondano in una pozzanghera. Niente da fare: devono continuare il viaggio a piedi fino alla missione di Boroma, dove i missionari sono obbligati a un mese di riposo forzato per mancanza di portatori. Quando questi arrivano non sono in numero sufficiente. Si decide di frammentare la spedizione in due carovane. Il 4 di febbraio partono per Miruru i padri Sandrone e Chiomio; in seguito padre Borello e chierico Ghiglia; padre Peyrani rimane a Boroma come procuratore, insieme a fratel Benedetto.
Il percorso è lungo; la pista quasi impraticabile a causa delle piogge. «Oggi è il passaggio del mar Rosso, non però a piedi asciutti – scrive il diacono in data 21 febbraio -. La strada è tutta una pozzanghera; a tratti l’acqua arriva al ginocchio. I canneti alti e fittissimi, terribilmente aggrovigliati, c’impediscono di avanzare e ci obbligano a tenere le braccia continuamente impegnate in una ginnastica durissima ed estenuante».
Le due carovane, separate da alcuni giorni, seguono il margine sinistro del fiume Zambezi fino a Cachomba. A questo punto attraversano il fiume in barca e proseguono il viaggio lungo la riva destra. Il terreno comincia a salire leggermente con gibbosità lente e continue. Il suolo è meno sabbioso, ma la foresta sempre più fitta. Il viaggio è difficile per tutti. Chi soffre di più è il padre Sandrone, colpito da dissenteria e febbre.
TERRA PROMESSA
Il 2 marzo 1926 i missionari raggiungono la meta. Continua il racconto del diacono Ghiglia: «Miruru! Miruru! Grida con entusiasmo chi scorge per primo i fabbricati della missione. La voce si ripete come parola d’ordine lungo la colonna serpeggiante dei nostri uomini. Un soffio di corrente elettrica pare dia forza a quei corpi indolenziti dal lungo viaggio. Acceleriamo il passo al ritmo d’una nenia monotona. Ci pare di avere raggiunto una terra promessa».
Miruru fu fondata dai gesuiti nel 1892; questi vennero espulsi nel 1911 e sostituiti dai verbiti tedeschi, cacciati a loro volta nel 1915. «Con l’aiuto della Consolata – prosegue il diario – ne saremo emuli e continuatori. Voglia la Madonna benedire e confermare volontà e propositi dei suoi alfieri! Il lavoro sarà arduo, lungo e faticoso: raccogliere il gregge disperso dopo tanti anni di abbandono; continuare l’opera costruttrice che la guerra ha troncato con l’espulsione degli ultimi missionari. Forti della benedizione di Dio e della Consolata si rialzeranno le pianticelle che il soffio impuro del male ha guastato e perduto».
I missionari cominciano subito a prendere visione di Miruru e dintorni, studiare la lingua, usi e costumi della popolazione. Dopo dieci anni di abbandono, delle 15 succursali dipendenti dalla missione ne rimangono attive solo due. Tra i cristiani, circa 1.800 come risulta dai registri, la poligamia ha fatto strage; in molta gente di cristiano è rimasto solo il nome.
Per quanto riguarda le strutture, invece, la magnifica chiesa a tre navate e la casa dei padri sono in buono stato; quella delle suore è abitabile; alcuni fabbricati dell’inteato sono in rovina, altri ancora in buona salute. Nel cimitero riposano una dozzina di missionari, morti quasi tutti di malaria.
ALLA CONQUISTA DEL NIASSA
A mons. Filippo Perlo interessa il Niassa, territorio missionario ancora vergine, e non quella sperduta missione della Zambezia, per di più fondata da altri. E bisogna fare in fretta, prima che vi arrivino altre congregazioni missionarie. Ma come superare il divieto del prelato del Mozambico? Prendere tempo e mettere il vescovo di fronte al fatto compiuto!
A pochi giorni dall’arrivo dei missionari a Miruru, torna a Beira padre Calandri, insieme a padre Giuseppe Amiotti: anziché raggiungere i confratelli a Miruru, hanno l’ordine di recarsi nel Niassa; nel frattempo i superiori penseranno a ottenere dal prelato i permessi necessari.
Partiti da Beira il 22 giugno 1926, i due padri arrivano a Mandimba, ai confini con l’attuale Malawi, il 10 luglio e si mettono subito al lavoro: si prendono cura di una ventina di orfani meticci, esplorano il territorio, con l’aiuto di padre Chiomio, giunto appositamente da Miruru per scegliere i posti dove fondare le nuove missioni. L’armamentario e il fare inquisitivo dell’esploratore destano i sospetti delle autorità coloniali e il padre è consigliato di tornare subito in Italia, per non compromettere la presenza degli altri missionari in Mozambico. Tanto più che la spedizione nel Niassa rischia di sfociare in un incidente diplomatico.
Mons. Rafael si trova tra l’incudine e il martello: a Roma si dice che il Mozambico è una macchia nera nella storia delle missioni, arretrate di 300 anni; in Portogallo il vescovo è oggetto di furibonde campagne anticlericali e il governo vede gli stranieri, missionari compresi, come avanguardie di potenze europee che vogliono mettere le mani sulle sue colonie. Gli italiani, soprattutto, sono sospettati di lavorare per Mussolini.
Mons. Rafael si sente costretto a disapprovare la presenza dei missionari italiani nel Niassa. Anzi, il 27 marzo 1927, arriva a Mandimba un suo decreto che ordina ai due padri di lasciare il paese entro due mesi, dopo i quali scatterà automaticamente la sospensione da ogni attività religiosa.
Tra l’incudine e il martello ora ci sono i padri Calandri e Amiotti: il vescovo comanda di uscire e scaglia interdetti; Torino ordina di restare, in attesa di aggiustare la frittata. Per sei mesi i due missionari coltivano tabacco per occupare il tempo e ogni settimana passano il confine per confessarsi a vicenda nel Malawi
DA UNA TEMPESTA ALL’ALTRA
Il 1° maggio 1928 un fattorino porta dal Malawi un telegramma con cui si comunica la revoca della sospensione. Padre Calandri raduna gli orfanelli e organizza una carovana per trasferire baracca e burattini a Massangulo, 60 km da Mandimba. Vi giungono il 20 maggio, data ufficiale della nascita della prima missione del Niassa. In pochi mesi vengono costruiti i fabbricati essenziali; alla fine dell’anno arrivano le prime suore della Consolata e altro personale dall’Italia e da Miruru. Iniziano le scuole e le visite ai villaggi.
Tutto procede con coraggio ed entusiasmo, quando una tremenda tempesta squassa l’Istituto dei missionari della Consolata da capo a piedi: l’8 maggio 1928 mons. Pasetto inizia la visita apostolica, chiudendo alcuni campi di evangelizzazione (Somalia e India) appena avviati. Si teme che anche l’apertura nel Niassa, visto il modo un po’ spericolato in cui è avvenuta, possa subire la stessa sorte.
Infatti, nel giugno 1930, padre Calandri è chiamato urgentemente a Beira da mons. Hinsley, vicario apostolico dell’Africa Orientale. Questi gli ordina di sospendere ogni lavoro, perché Massangulo sarà chiusa. Il missionario scoppia in un pianto dirotto; quando si riprende, racconta ciò che è stato fatto nella missione, i lavori in corso e i progetti ancora in mente. «Se è così, è un’altra cosa – dice il monsignore -. Lei, padre Calandri, continui con la costruzione del collegio iniziato e io le manderò i mezzi. Bisogna dare molta importanza a scuole e collegi».
Ad essere chiusa è invece la stazione di Miruru (1930); alcuni dei missionari passano al Niassa. Massangulo si rafforza, con l’avvio dei corsi di arti e mestieri; ma è proibito aprire nuove missioni nella regione. Solo quando mons. Rafael sarà sostituito da mons. De Gouveia, come prelato apostolico del Mozambico, sarà possibile dar vita a Mepanhira (1938), Maua (1939), Mitucué (1940).
L’espansione missionaria segna il passo durante la seconda guerra mondiale, per l’impossibilità d’inviare altro personale. Finito il conflitto, l’evangelizzazione riprende con nuovo vigore dentro e fuori del Niassa. Nel 1946, infatti, il card. De Gouveia, vescovo di Lourenço Marques (Maputo), vuole i missionari della Consolata anche nella regione di Inhambane e alla periferia della capitale.
LA SFIDA CONTINUA
Dopo 75 anni di presenza in Mozambico si può fare un bilancio. La scelta, fatta fin dagli inizi, di concentrare gli sforzi nella scuola e formazione dei laici, ha formato comunità cristiane resistenti alle bufere che si sono scatenate per quasi 30 anni sulla popolazione del paese: guerra per l’indipendenza, persecuzione marxista e nazionalizzazione delle strutture, guerra civile, catastrofi naturali. Molte comunità, portate a maturazione, sono state affidate al clero locale. Buona parte dei leaders che guidano oggi le sorti del paese sono usciti dalle scuole cattoliche. La chiesa mozambicana chiede ai missionari della Consolata nuove presenze qualificate, come la guida di seminari diocesani e formazione del clero locale.
Tali attestati di stima, guadagnati con tanti anni di tenacia ed eroici sacrifici, sono motivo di orgoglio; ma il loro numero (53 missionari di varie nazionalità, presenti in 5 diocesi) è del tutto insufficiente per fronteggiare le sfide sociali e religiose in cui si dibattono ancora le popolazioni loro affidate. Prima di assumere nuove responsabilità, essi vogliono fare un serio cammino di discernimento. Tanto più che i posti segnati da mons. Perlo sulla vecchia mappa, nell’estremo nord del Niassa, attendono ancora il primo annuncio del vangelo. La sfida lanciata 75 anni fa è sempre aperta.

Diamantino Antunes




Un po’ di dinamite e tanta pace

Un autodidatta che parlava svedese, russo, francese, inglese e tedesco.
Chimico, industriale, scienziato.
E inventore della dinamite.
«La mia casa è il lavoro e il lavoro è dappertutto» diceva. Ricco ma non felice, destinò 300 miliardi
di lire al bene dell’umanità.

Il personaggio

Poche personalità svedesi sono conosciute nel mondo come lui, almeno per quanto concee il nome. Il grande pubblico, forse, non conosce la sua storia in dettaglio; ma sa del premio… Nobel.
Stiamo parlando proprio di Alfred Behard Nobel, chimico, industriale e scienziato svedese, nato a Stoccolma il 21 ottobre 1833. La sua famiglia discendeva da agricoltori della Scania, una regione all’estremo sud della Svezia. Il cognome originario era Nobelius, successivamente abbreviato in Nobel.
Ultimo di tre figli, Alfred era di vivace intelligenza fin da bambino. Ma non frequentò mai regolarmente la scuola, costretto a seguire il padre prima in Russia (dove il genitore aveva alcune aziende meccaniche) e poi viaggiando in Inghilterra, Francia, America.
Autodidatta, a 20 anni era già un buon chimico e parlava correntemente svedese, francese, inglese, tedesco e russo. Amante della solitudine (sovente spariva per lunghi periodi e nessuno sapeva dove fosse), era un sognatore introspettivo.
Professionalmente Alfred crebbe all’ombra del padre fino alla sua prima e importante scoperta nel 1862, quando brevettò un detonatore a percussione, che utilizzò nella fabbrica di nitroglicerina a Heleneborg presso Stoccolma.
Era cortese, soprattutto con la baronessa Bertha von Suttner (la prima donna ad essere insignita del premio Nobel per la pace nel 1905), che così lo descrisse: «Aveva 43 anni, piuttosto basso di statura, la barba nera; i lineamenti non erano né belli né brutti; il tono della voce era malinconico e il volto triste, però illuminato da occhi azzurri che esprimevano un’infinita bontà d’animo». Con Bertha Alfred ebbe un legame tormentato: durò circa 20 anni, trascorsi spesso lontani l’uno dall’altra.
Con il passare del tempo, Alfred si incupì. Rigettò ogni ostentazione. Ebbe pochi onori pubblici, anche perché non li cercava. «So di non aver meritato la celebrità – dichiarò – e non ho alcun amore per il chiasso. In questi tempi di rumorosa e sfrontata pubblicità, solo chi ha particolari tendenze per queste cose deve permettere ai giornali di riportare le proprie dichiarazioni o di pubblicare la sua foto».
Non si fece mai ritrarre. Di lui esiste un solo quadro, eseguito dopo la morte.
Nobel, però, fu molto generoso, aiutò gli altri in maniera consistente e fu religioso a modo suo. «Circa le mie idee religiose – disse -, ammetto che escano dalle vie comunemente battute. Proprio perché questi problemi sono infinitamente superiori a noi, rifiuto di accettare le soluzioni proposte dall’intelligenza umana. Sapere che cosa dobbiamo credere mi pare impossibile come la quadratura del cerchio».
Nonostante le notevoli qualità (era colto, profondo, spirituale e ricco), Alfred Nobel non fu mai felice e non ebbe molto successo nelle relazioni umane. Per esempio, non si formò una famiglia. «La mia casa – diceva – è il lavoro, e il lavoro è dappertutto».
attività e invenzioni
A 31 anni Alfred si trovò solo a dover fronteggiare ogni difficoltà, dopo l’ennesimo fallimento economico del padre. Inoltre la fabbrica di nitroglicerina era saltata in aria, uccidendo il fratello Emil e alcuni lavoratori.
Pur nel dolore, Alfred non si scoraggiò e quasi subito organizzò una Compagnia svedese per la fabbricazione di una glicerina meno pericolosa, facendola brevettare in tutta Europa. Si trattava di un miscuglio di glicerina ed estere trinitrico, inventato nel 1847 da Ascanio Sobrero: un modesto medico piemontese che, a Torino, insegnava chimica alla Scuola di meccanica e chimica applicata alle arti. Nobel rese più stabile la nitroglicerina mescolandola con materiale neutro.
Ottenne così nel 1867 la dinamite: tale prodotto avrebbe rivoluzionato il lavoro in miniera, la costruzione di strade e gallerie. Alcuni anni dopo, realizzò la «polvere pirica Nobel», che costituì la base di partenza per altre scoperte. Cominciarono esperienze e studi che portarono lo svedese a brevettare oltre 300 invenzioni, fruttandogli una immensa fortuna. In pochi anni divenne ricchissimo.
Più armi… più pace?
Allorché Bertha von Suttner (ispiratrice del premio Nobel per la pace) tentò di convincere Alfred a partecipare a un convegno sulla pace, questi rispose: «Le mie fabbriche possono mettere fine alle guerre più rapidamente dei vostri incontri. Il giorno in cui gli eserciti si annienteranno reciprocamente in un secondo, tutte le nazioni (dobbiamo almeno sperarlo) eviteranno la guerra e smobiliteranno i loro arsenali. Più le armi saranno apocalittiche, più gli uomini eviteranno la guerra. Forse il modo per scongiurarla è di costringere tutti i paesi a punire severamente chi pone fine alla pace e dichiara guerra».
Questa dichiarazione del dicembre 1895 (un anno prima della morte) racchiude l’ideale di Nobel: non distruggere il genere umano; eliminare le ingiustizie, ereditate da epoche di oscurantismo; favorire lo sviluppo e la scienza per vincere la battaglia contro tutti i mali fisici che affliggono l’uomo.
E fu proprio per vincere questa battaglia che Alfred Nobel decise di destinare la maggior parte delle sue fortune «a un fondo i cui interessi si distribuiranno ogni anno come premio a coloro che, durante l’anno precedente, abbiano maggiormente contribuito al benessere dell’umanità…».
«Una parte del premio andrà a chi abbia fatto l’invenzione più importante o recato il più grosso contributo nella chimica; un’altra parte alla persona con la maggiore scoperta nel campo della fisiologia o della medicina; una parte ancora a chi, nella letteratura, abbia scritto l’opera ideale più notevole; una parte, infine, all’individuo che più si sia prodigato o abbia realizzato il miglior lavoro ai fini della frateità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione degli eserciti permanenti».
È la parte finale del testamento che Alfred Nobel redasse a Parigi nell’agosto 1896, qualche mese prima di trasferirsi a Sanremo, dove morì il 10 dicembre in grande solitudine.
La «Fondazione Nobel»
Dopo la morte di Alfred Nobel, venne formato un Organo che avviasse le procedure per il riconoscimento del testamento (solo 300 parole), soprattutto per l’uso migliore del patrimonio lasciato: 31 milioni di corone svedesi, pari a circa 300 miliardi di lire italiane attuali.
Poiché Nobel aveva previsto dei premi inteazionali (senza tuttavia precisare competenze e criteri di scelta), il 29 giugno 1900 (dopo quattro anni di battaglie legali tra eredi e stato) un decreto del Consiglio reale svedese approvò lo statuto della Fondazione Nobel, confermato il 10 aprile 1905 con disposizioni valide tutt’oggi.
Così iniziava l’«avventura» della Fondazione Nobel, cui sono collegate:
– l’Accademia reale svedese delle scienze (275 membri, scelti fra i più prestigiosi centri scientifici del paese): assegna il Nobel per la chimica e fisica;
– l’Assemblea del Karolinska Institutet (150 membri del massimo centro medico della Svezia e uno dei migliori del mondo): nomina i Nobel della fisiologia o medicina;
– l’Accademia di Svezia (con 24 fra i più autorevoli scrittori locali): designa il Nobel della letteratura;
– la Banca di Svezia (con 48 qualificati economisti): sceglie il vincitore del Nobel in economia istituito, a differenza degli altri, nel 1969;
– la Commissione Nobel, formata da cinque parlamentari norvegesi (poiché fino al 1905 Svezia e Norvegia costituivano un unico regno): assegna il premio per la pace.
La consegna dei cinque premi avviene a Stoccolma e a Oslo il 10 dicembre di ogni anno, anniversario della morte di Alfred Nobel. Con ogni probabilità la mondanità della cerimonia fa rivoltare nella tomba l’ideatore di un premio tanto significativo.

Eesto Bodini




SPECIALE BRASILE – Tra farsa e disprezzo – Introduzione generale

Si è vista prima la nave di Cabral o la terra su cui è sbarcato? Ha visto, per primo, il portoghese o l’indio? È certo che gli indigeni erano già sulla costa di Porto Seguro quando i portoghesi riuscirono a scorgerla.
Però non è importante sapere chi fu il primo a vedere la nuova realtà. Fondamentale è conoscere l’«altro lato» della storia non scritta, tanto più quando si è in presenza di visioni antagoniste, cristallizzate nella frattura socio-nazionale del Brasile. I vinti di ieri sono gli esclusi di oggi. Rappresentano la stragrande maggioranza, resa però minoranza senza voce.
La perplessità è presente nella storia del Brasile fin dal principio. «Perplessità» è la parola che meglio riassume la sensazione degli indios quando i portoghesi conquistarono la loro terra. Chi aveva incontrato, prima di allora, individui… così pelosi, così pallidi, così carichi di vestiti? Uomini senza donne, parlano una lingua incomprensibile, guidano «case» sulle acque come fossero canoe. Chi sono e cosa vogliono?
La perplessità e i suoi sottoprodotti (curiosità, sfiducia, paura) segnarono i primi incontri nel 1500. La diffidenza era reciproca. Indios e portoghesi non sfuggirono alla regola seguente: quando persone o gruppi forestieri si vedono per la prima volta, non si mettono a giocare abbracciandosi uno con l’altro. Non fu quindi un incontro idilliaco.
Seguì lo spavento, allorché gli indios, accanto alla propria schiavitù, videro anche quella degli uomini neri portati a forza dall’altra parte del mare con il sequestro e lo stupro delle donne. Poi nacquero i mulatti, che furono aggregati al sistema con violenza…
La conquista fu un cataclisma per gli uomini e la natura. Il mondo non era più lo stesso. I bianchi annientarono la cultura indigena. L’oppressione costante, le separazioni lancinanti delle persone, i demoni dei missionari… si installarono in un clima di terrore. Quelli che non riuscirono a fuggire all’invasore bianco sprofondarono in uno stato di rassegnazione e resistenza muta, paralizzati per il disgusto, resi schiavi dalla paura.
Seguirono 500 anni di disperata pazienza, inframezzata da rivolte. Si fece silenzio. La sua eco è arrivata fino a noi, oggi, attraverso l’umiliazione della gente contadina senza terra.

N el festeggiare il quinto centenario del Brasile, lo stato, abituato al disprezzo del popolo, non ha accettato il confronto con la storia. Celebrando «la portoghesità» e non «la brasilianità», ha agito come i colonizzatori e i loro eredi. Per rendere più concreta l’impostura ha creato un «museo aperto», la cui definizione tecnica è spregevole.
Ma la contestazione non si è fatta attendere. L’attacco è stato diretto contro «la portoghesità». Si sa che, dal punto di vista europeo, la «trovata» portoghese non esiste: infatti Colombo ha preceduto Cabral nel 1492 e nel 1498, quando ha individuato il continente americano. Qualunque altra «scoperta» è subordinata a quella spagnola.
Il popolo brasiliano scopre, perplesso, che i 500 anni della sua storia si appoggiano su una farsa. La storia del suo paese comincia con una scoperta che non c’è stata.
Infine come mettere insieme una nazione, tronfia di una scoperta, che esclude la maggior parte della popolazione? Come far progredire un paese la cui storia ha per base l’irrazionalità e perpetua il mal governo?

C inquecento anni dopo la conquista-colonizzazione, il Brasile è un paese ancora diviso e deturpato, dove gli eredi dei colonizzatori continuano a sfruttare i discendenti dei colonizzati. Il popolo vive nella miseria, ed è quotidianamente discriminato ed umiliato. La cordialità e la democrazia razziale, che si accreditano al brasiliano, sono solo simulacri segnati dall’esclusione sociale.
Come la conquista è avvenuta nell’ambito di tribù che si distinguevano anche per caratteri biologici, l’intero processo di colonizzazione si è avvalso del tribalismo, sfruttandolo e sovrapponendolo ai problemi economici. L’odiea esclusione sociale ha pertanto basi etniche: ne fanno le spese indios, neri, contadini senza-terra.
I mali del paese non sembrano avere soluzioni, perché le classi dirigenti, i partiti, gli intellettuali e persino la sinistra fingono di non conoscere questa dolorosa realtà. Ma come è possibile estraniarsi? Come si può vivere dentro un’apartheid senza vederla? Si può parlare a nome del popolo brasiliano e, nello stesso tempo, identificarsi con i conquistatori? È quanto sta accadendo in Brasile.
La situazione stagnante ha impressionato il mondo intero: il Brasile è probabilmente il paese più disuguale del pianeta.
Ma il quinto centenario della storia del Brasile può offrirci l’opportunità di un cambiamento. Abituato al disprezzo per il popolo, il governo si tradisce. L’abito del disprezzo condanna i tiranni. Nel Brasile la cosa non sarà diversa.
Allora il paese uscirà dalla perplessità, dalla sudditanza, dell’esclusione. E incomincerà finalmente ad esistere nella storia.

Celene Fonseca




Speciale BRASILE – Da Cabral a Cardoso

1500 Pedro Álvarez Cabral «scopre» il Brasile.
1501 Amerigo Vespucci esplora le coste brasiliane.
1530 Martim A. de Sousa fonda Peambuco, São Vicente, Piratininga.
1533 Istituzione di 12 capitanie: inizia la colonizzazione.
1539 Prima domanda ufficiale di importare schiavi dalla Guinea.
1548 Giovanni III nomina Tomé de Sousa governatore generale.
1549 Arriva Tomé de Sousa con sei gesuiti. Fondazione di Bahia.
1550 La tratta degli schiavi diventa sistematica.
1551 Erezione della prima diocesi brasiliana: São Salvador de Bahia. Primo vescovo è mons. F. Sardinha (muore nel 1556 divorato da cannibali).
1554 Padre Anchieta fonda São Paulo. Martirio di Pedro Correa e João de Sousa.
1567 La colonia di calvinisti francesi viene cacciata dalla baia di Rio de Janeiro.
1570 Canna da zucchero coltivata su larga scala: importazione massiccia di schiavi.
1576 Inizia l’evangelizzazione degli indios: per loro sono costruite chiese e scuole.
1576 Creazione della prelatura apostolica di São Sebastião, Rio de Janeiro.
1580 Arrivano carmelitani, benedettini e francescani, che aprono conventi e scuole.
Il regno del Portogallo passa sotto la corona spagnola; vi rimarrà fino al 1640.
1595 Seconda colonia francese si stabilisce nel Maranhão e fonda São Luis (1612).
1624 Gli olandesi iniziano l’occupazione del nord-est. Saranno cacciati nel 1654. Negli stessi anni arrivano cappuccini francesi e mercedari spagnoli.
1650 Lotta dei coloni e autorità locali ai gesuiti, espulsi da una parte del territorio.
1676-1677 Creazione di tre diocesi: São Sebastião, (già prelatura), Olinda e São Luis do Maranhão (1677).
1694 Distruzione del quilombo di Palmares.
1695 Zumbi, capo del quilombo di Palmares, è catturato: la sua testa viene esposta sulla piazza di Recife.
1696 Scoperta dell’oro in Minas Gerais.
1720-1750 La febbre dell’oro accelera il traffico negriero.
1759 Pombal espelle tutti i gesuiti (428) dalla colonia.
1800 Molti schiavi vengono affrancati: la debolezza dell’economia non ne consente il mantenimento.
1808 João VI di Portogallo si stabilisce a Rio de Janeiro.
1818 Apertura delle porte agli immigrati cattolici europei (Italia, Spagna, Germania, Polonia, Russia, Armenia, Libano).
1819 João VI torna in Portogallo; reggenza del figlio Pedro.
1820 Esplode la coltivazione del caffè.
1822 Dom Pedro proclama l’indipendenza del Brasile dal regno del Portogallo e viene coronato imperatore.
1831 Abdicazione di Pedro I in favore del figlio Pedro II.
1840 Inizia il regno di dom Pedro II: seguono 50 anni di pace e sviluppo.
1846 I gesuiti tornano in Brasile, seguiti dai lazzaristi e congregazioni femminili.
1850 Finisce la tratta negriera; ma comincia il contrabbando illecito di schiavi.
1865-1871 Guerra del Brasile contro il Paraguay.
1871 È promulgata la «legge del ventre»: tutti i nascituri da madre schiava sono liberi.
1880 Inizia la febbre del caucciù in Amazzonia; durerà fino al 1912.
1888 Abolizione definitiva della schiavitù.
1889 Cade la monarchia e viene proclamata la repubblica.
Migliorano le relazioni tra chiesa e stato; ciò permette l’entrata nel paese di molti ordini religiosi: salesiani, verbiti, spiritani, francescani tedeschi, cappuccini italiani, benedettini belgi…
1891-1895 Insurrezione dello stato di Rio Grande do Sul.
1916 Organizzazione del Fronte dei neri brasiliani.
1930 Golpe militare porta al potere Getulio Vargas.
1937 Con un nuovo colpo di stato Vargas impone la sua dittatura.
1943 Il Brasile entra in guerra a fianco degli alleati contro il nazifascismo.
1945 Pronunciamento militare costringe Vargas a dimettersi.
1950 Vargas si fa rieleggere presidente.
1954 Vargas è costretto dall’opposizione a lasciare il potere e si uccide.
1964 Un colpo di stato militare impone come presidente Castelo Branco (1964-67).
1974 Fine della dittatura e ripresa delle libertà democratiche.
1990 Con l’elezione del presidente Feando Collor trionfa il neoliberismo.
1994 Viene eletto presidente Feando Henrique Cardoso, che continua la politica neoliberista. Rieletto nel 1998, è il primo presidente a ottenere due mandati consecutivi con libere elezioni.

Benedetto Bellesi




Indios, i nodi vengono al pettine – Speciale BRASILE

Fuga e resistenza

Si fugge sempre quando assale il «terremoto»…
In Brasile gli indios non hanno il tempo di capire, ma solo di reagire a cose fatte. Fin dall’inizio, con l’attestarsi dei conquistatori portoghesi sulle coste atlantiche (dal bacino del Rio delle Amazzoni a São Paulo), gli indigeni reagiscono trasferendosi all’interno del paese, cambiando territorio e invadendo quello altrui.
La fuga è una soluzione che, fino a quando è possibile, accompagna tutta la storia dei rapporti fra indios e invasori. Sotto l’incalzare dei bandeirantes, per esempio, non resta altra soluzione che rifugiarsi in luoghi inaccessibili.
È quanto accade anche nel secolo XX in risposta all’invasione delle multinazionali: solo che, a differenza dei bandeirantes (già terribili), i nuovi invasori hanno mezzi e armi sofisticati (elicotteri e defoglianti) e fuggire è una misera soluzione.
Ma non tutti gli indios fuggono. Fra quelli che restano, molti resistono alla conquista. Quasi tutte le tribù (non completamente distrutte) attraversano periodi di lotta contro gli aggressori: lottano per ritardae l’avanzata o per dissuaderli dal continuare.
Nel secolo XVI i tupí creano un movimento di resistenza, riunendosi nella confederazione detta «tamoios»; ma non ha grande esito per la violenta controffensiva dei portoghesi. Maggiore successo riscuotono le etnie tatuias nel nord-est: queste, alleatesi, per circa 50 anni (XVII secolo) impediscono l’avanzata distruttiva dei portoghesi.
Pertanto, fin dagli inizi della conquista dei bianchi, gli indigeni brasiliani oppongono resistenza… Nel 1788 è la volta degli indios del Rio Branco: parecchie tribù karibe (tra cui i macuxí) si ribellano, distruggendo un forte portoghese e mantenendo la zona per alcuni anni. Ma l’impossibilità di creare una struttura socio-politica apposita impedisce la continuazione della rivolta.

si decide di morire

Dalla conquista ad oggi, alcune tribù si lasciano sconvolgere dall’impatto con il bianco, rifiutando però l’integrazione. Diverse etnie, trasferite con la forza nelle riserve, costrette alla sedentarietà, perdono il «gusto di vivere» e cadono in una abulia senza rimedio. Un esempio.
Kosó, capo dei kaapor, dopo aver perso la moglie e l’unico figlio, vittime di un’epidemia, cadde in grande prostrazione. Un giorno, tornato dalla caccia, avrebbe raccontato di essersi incontrato con il padre defunto. Questi gli disse: «Vieni, Kosó. Dove siamo noi si sta bene». Kosó, dopo il racconto, si gettò sull’amaca e non parlò più. Il giorno seguente era morto. La gente del villaggio disse che Kosó era stanco e non voleva più vivere.
Accanto a simili reazioni personali, occorre ricordae altre rivolte, questa volta, contro la propria prole. Si tratta del rifiuto esplicito della vita nella comunità: o non nascono più bambini o vengono eliminati (aborto e infanticidio). La donna accetta il suicidio culturale.
È la terribile azione di una società che decide di morire, piuttosto che deculturarsi e integrarsi nella società dei conquistatori.

I risultati
della «civiltà cristiana»

«Fra gli indios, dove non si portò la morte violenta, fu imposta la distruzione della coscienza, della storia e della volontà di masse di uomini, senza nulla recare in cambio. Nulla significa nulla: sfumare, precisare e chiarire significa tradire i concetti». Così lo studioso J. C. Mariategui.
Parlando di distruzione, si evidenzia quella socio-culturale e la volontà del sistema occidentale di rifiutare il «diverso» perché fonte di fastidio.
«Il problema indio» nasce dall’economia dei bianchi, che affonda le radici nella proprietà individuale, che tende ad usurpare le terre indigene, a privatizzare i beni comunitari e a mutare in modo violento i meccanismi di produzione. Questi tre elementi generano influenze deleterie fra la cultura «forte» occidentale e quella «debole» india, e cioè: spopolamento del territorio, degrado ambientale e degenerazione degli individui.
Varie le imposizioni dei «forti»:
1) concentramento degli aborigeni in grandi agglomerati rurali;
2) imposizione del vestiario europeo;
3) opposizione al matrimonio secondo la tradizione indigena (missionari);
4) applicazione della legge penale europea a presunti delitti di immoralità;
5) soppressione del sistema di proprietà comunitaria e dell’autorità dei capi.
Questi tratti culturali, imposti più o meno con la forza da coloni e missionari, comportano in 500 anni di conquista quasi lo sfacelo socio-culturale degli indios.
Tuttavia il Brasile, prima dell’arrivo dei portoghesi, non è un paradiso: le guerre tra gruppi etnici sono frequenti; a determinarle è l’esigenza di sopravvivenza dei gruppi. I bianchi sfruttano le inimicizie fra i nativi.

Civilizzarli. E come?

«Gli indios vivono come bestie. Occorre vestirli, educarli, civilizzarli» dice qualche bianco. «Non esistono più indios – aggiungono altri -, ma soltanto loro discendenti che sono brasiliani come noi». Questo problema si impone con forza all’opinione pubblica brasiliana.
Oggi in Brasile, dei 5-6 milioni di indios del 1500, sopravvivono circa 330 mila persone: appartengono a 215 popoli e parlano 180 lingue differenti.
Per tanti decenni latifondisti (fazendeiros) e cercatori d’oro (garimpeiros) hanno invaso le terre indigene. La scoperta di un giacimento minerario, la possibilità di sfruttare una foresta, la presenza di campi per allevare bovini… sono diventate valide giustificazioni per condannare gli indios a morte.
Sulla rivista di Rio de Janeiro Fatos e fotos nel 1968 si leggeva: «Un piccolo aereo aveva compiuto alcuni voli sul villaggio. Gli indios, impauriti, correvano in casa; donne e bambini piangevano nel cortile senza saper dove andare. D’improvviso un’esplosione fa volare in aria paglia, legna, terra e corpi di persone. Il rombo del motore copriva il rumore degli spari, ma dal finestrino dell’aereo si scorgeva il braccio di un uomo che sparava con un mitra. Mentre la gente scappava in foresta… tutti furono uccisi. E fu sterminata una tribù di Cintas Largas nel Mato Grosso».
Misfatti del genere sono avvenuti in ogni angolo del Brasile, restando quasi sempre impuniti.

Il problema della terra

È «il» problema. La terra è indispensabile anche per la sopravvivenza culturale degli indios… Nel 1973 il governo brasiliano, con la legge 6.001, decide di demarcar i territori indigeni: tempo cinque anni. La legge rimane lettera morta.
Il bestiame dei bianchi continua ad invadere le coltivazioni degli indios e a distruggere tutto. Nel frattempo gli indigeni vivono in fazendas, recintate da filo spinato: non possono più cacciare e pescare; sono obbligati a lavorare nei latifondi del bianco come manodopera quasi gratuita. Spesso ricevono solo acquavite o addirittura alcornol puro: obbligati a bere veleno in cambio di lavoro nelle loro ex proprietà.
L’invasione risponde ad un chiaro piano governativo: concentrare le terre nelle mani di chi può sfruttarle «più razionalmente per il bene dell’economia brasiliana». Si conia uno slogan per giustificare l’operazione: «La terra senza uomini (l’Amazzonia) agli uomini senza terra (i brasiliani nordestini)». Si aprono le strade transamazzoniche, perché «i poveri coloni emigrati» possano avere un po’ di terra da lavorare.
Ma il sogno dei piccoli coloni dura poco. Infatti il governo dichiara: finora la transamazzonica ha aiutato il piccolo colono; «ma ora dobbiamo entrare nella fase delle grandi imprese».
Per realizzare ciò, si vende il Brasile a ditte straniere e a prezzi irrisori. Indios e coloni (anche i secondi hanno versato lacrime e sangue) lottano fino a morire. Vince l’interesse dei potenti.
L’Amazzonia ci rimette oltre un milione di chilometri quadrati (negli stati di Mato Grosso, Rondonia, Goiàs, Acre, Pará, Roraima). Gli indios, minacciati dall’invasione genocida dei bianchi, sono: yanomami, macuxí, wapixana, ingarikò, taurepang, deni, suruí, guajé…
Orecchi da mercante

Il 19-12-1973 il presidente brasiliano Medici firma lo «statuto dell’indio», che dovrebbe tutelare i diritti delle minoranze etniche della nazione. Però la legge penalizza gli indios. Lo stesso presidente dichiara senza mezzi termini: «Lo scopo fondamentale dello statuto è la rapida e salutare integrazione dell’indio nella civiltà».
Nell’ottobre del 1978 la situazione peggiora ancora. Il ministro degli interni Reis consegna al presidente Geisel un decreto-legge sull’integrazione obbligatoria di quasi tutti gli indios.
L’iniziativa suscita una tenace opposizione in vari settori della società: chiesa e università. Gli indios rifiutano con forza il progetto genocida e, il 19 aprile 1979, inviano a tutti i brasiliani il seguente messaggio: «Riuniti in un’assemblea nazionale, siamo portavoce anche dei gruppi indigeni che non sono potuti intervenire. Sono nostri fratelli di sangue che aspettano, come noi, di vedere i loro problemi risolti, specialmente il problema della terra… Stiamo forse chiedendo integrazione ed emancipazione nella società dei bianchi? No. Noi vogliamo solo il riconoscimento e il rispetto della nostra integrità fisica e culturale».
Le richieste trovano orecchi da mercante.

Di male in peggio?

«È in corso una guerra non dichiarata, ma calcolata e sporca: da una parte il governo brasiliano e i centri di potere economici e militari vogliono sfruttare le immense ricchezze del sottosuolo amazzonico; dall’altra la diocesi di Roraima, con la chiesa cattolica del Brasile e le associazioni filantropiche e ambientaliste, cerca di impedire il genocidio di 100 mila indios, la distruzione della flora e fauna amazzonica, l’inquinamento dell’atmosfera e dei fiumi».
È la denuncia dei missionari della Consolata di Roraima del 16 febbraio1988. Investe tutto il Brasile.
Nel paese vige la «nuova repubblica»: una dittatura (con una facciata democratica), dove operano potenti forze economiche brasiliane e multinazionali, appoggiate da settori militari. Si impone un modello di sviluppo neo-colonialista, peggiore dei precedenti: il saccheggio delle risorse forestali e minerarie dell’Amazzonia è perpetrato in modo caotico, incontrollato; provoca l’ennesimo sterminio di migliaia di indios. Secondo il piano governativo, le culture indigene devono scomparire, le comunità integrarsi nella società brasiliana e la maggior parte delle terre è da sottrarsi agli indios, per sfruttare i minerali ritenuti necessari allo sviluppo del Brasile.
Chi crede nel valore della «diversità» dell’indio insorge. I missionari della Consolata si appellano alle Nazioni Unite lanciando una campagna internazionale…
Nell’ottobre del 1988 c’è la nuova costituzione brasiliana. Si ritorna a sperare, perché si avallano i diritti degli indios: alla cultura, alla lingua, alla terra e all’usufrutto delle sue risorse. Si riconoscono 594 territori indigeni e 279 vengono registrati. La registrazione totale dovrebbe completarsi nel 1993.
Ma, nel presente 2000, non sono ancora stati delimitati 315 territori. Le terre indigene continuano ad essere depredate. Sembra davvero che in Brasile, o maior do mundo, non ci sia posto per il «diverso».

Francesco Beardi




Missionari e indios di Roraima nella bufera – Speciale BRASILE

La testa sul vassoio
Testimonianza di un vescovo

Sono stato vescovo di Roraima
dal 1975 al 1996, in uno degli stati più «caldi» del Brasile, con scontri tra bianchi e indios. Durante i 20 anni di servizio, politici, giornali e radio locali hanno giocato al tiro a segno contro la chiesa di Roraima, scagliando contro il vescovo e i missionari della Consolata le critiche più velenose e le calunnie più spudorate.
L’apice della tensione si raggiunse nel 1993. Un sicario, telefonando ad una radio, si offrì di uccidere il vescovo, porre la sua testa su un vassoio e deporla ai piedi del monumento al garimpeiro (cercatore d’oro) di Boa Vista. La telefonata, ripresa da altre radio, fu udita da tutti e causò grande spavento.
Decisi di ricorrere a Brasilia, capitale federale, per presentare il caso al Ministero di giustizia e chiedere aiuto alla Conferenza episcopale (Cnbb). I vescovi promossero un giorno di mobilitazione, il 16 aprile 1993. La manifestazione si svolse a Boa Vista, con la partecipazione del presidente e vicepresidente della Cnbb, di altri vescovi, del Consiglio indigenista missionario (Cimi), della Commissione pastorale per la terra e di alcuni deputati. Il Ministero di giustizia inviò alcuni poliziotti per difendere la casa del vescovo.
Da allora la televisione di Roraima ha ignorato l’azione della chiesa: non più attacchi, ma neppure interviste. Il programma, che tenevo ogni venerdì, fu abolito.
Contro le accuse e discriminazioni la chiesa ha quasi sempre risposto col silenzio e perdono, mentre spiegava con lettere e messaggi il suo comportamento. Però una volta ha denunciato due radio (1993), ma le autorità hanno lasciato di proposito che il caso cadesse in prescrizione.

Potrei sintetizzare i miei 20 anni di episcopato
parafrasando san Paolo: una volta ho rischiato di avere la casa devastata dai garimpeiros; in tre occasioni ho avuto la polizia federale schierata davanti alla casa a protezione della mia vita; la chiesa di Roraima, accusata di ogni misfatto, è stata per due volte (1989-9O) indagata da due commissioni d’inchiesta, senza trovare la minima prova a carico; per tanti anni i missionari e il sottoscritto siamo stati spiati dalla polizia, senza mai trovare la minima illegalità nel nostro comportamento. Poi innumerevoli denunce di essere seminatori di zizzania.
Uno degli ultimi casi capitò nel 1995. Un delegato della polizia federale fu incaricato di indire il processo su un episodio di violenza contro gli indios macuxí; prima ancora di ascoltare le deposizioni delle vittime, il delegato accusò la chiesa di essere l’istigatrice dell’accaduto. La notizia rimbalzò su tutti i mass media nazionali, con le false testimonianze per provare l’accusa. Naturalmente eravamo estranei alla vicenda. E il caso si sgonfiò come una bolla di sapone.
Mentre certi settori della società e del governo
si scagliavano contro la chiesa di Roraima, questa riceveva onorificenze nazionali e inteazionali. Il 9 agosto 1990, a Brasilia, il presidente della camera e deputati di vari partiti elogiarono in assemblea il mio operato… Nel giugno 1994, a Rio de Janeiro, mi fu consegnato il premio «Alceu Amoroso Lima» per il lavoro a favore degli indios. Il 31 dicembre 1994 lo stesso governo di Roraima riconobbe i meriti della chiesa, concedendomi il grado di «grande ufficiale dell’ordine di Forte São Joaquim».
Ebbene, come spiegare il comportamento schizofrenico? Era chiaro che gli attacchi venivano da un ristretto gruppo di politici, detentori del potere, per i quali il bene della nazione s’identificava con i vantaggi personali, testardamente ostinati a negare i diritti della popolazione indigena.
Inoltre una parte dell’élite di Roraima (e del Brasile) conserva ancora una mentalità colonialista. In tempo di elezioni, il governo federale sfrutta tale mentalità, usando gli indios come merce di scambio e ricatto, per ottenere l’appoggio delle classi potenti.
Nel decennio 1975-85 i potenti erano contrari a qualsiasi demarcazione delle terre indigene. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato: il diritto degli indios all’identità culturale e al possesso della terra fa parte della nuova costituzione; la demarcazione delle terre, destinate alle varie etnie, è stata fissata sulle mappe catastali, anche se non sono state soddisfatte tutte le aspettative degli interessati. Ma talora si ha la netta sensazione di essere «ritornati indietro».

A questo punto un chiarimento.
Contrariamente a quanto alcuni vogliono far credere, la demarcazione delle terre non ha affatto lo scopo d’isolare gli indios dalla società bianca e mantenerli nella povertà, ma garantire loro uno spazio geografico e sociale in cui crescere senza traumi e organizzarsi secondo la propria identità culturale.
La chiesa di Roraima ha cercato di aiutare i nativi a progredire in tutti i settori, senza fare tabula rasa dei valori culturali. Inoltre essa è convinta che uno dei meccanismi più importanti per lo sviluppo dei popoli sia il confronto con altre culture e l’assorbimento di nuovi modelli; ma è pure consapevole che, quando un gruppo culturalmente «debole» (come gli indios) viene inserito con violenza in una cultura «forte», il debole viene annichilito.
Proponendo alle comunità indigene di richiedere la demarcazione delle terre e appoggiando le loro aspirazioni, la chiesa non intende creare fratture sociali tra indios e bianchi, ma vuole promuovere una cooperazione rispettosa tra le diverse identità storiche e culturali della popolazione di Roraima. L’errata interpretazione di tali obiettivi spiega in parte l’ostilità incontrata in questi anni. Ma la vera causa è di natura economica e politica.
I risultati provano la validità delle scelte fatte: gli indios hanno riconquistato la fiducia in se stessi e lottano per occupare un posto degno nel contesto sociale di Roraima; i capi indigeni hanno preso coscienza delle proprie responsabilità; le comunità hanno imboccato la strada dell’autosostentamento. I ripetuti interventi per salvare i yanomami sono il fiore all’occhiello dell’azione della chiesa. La testimonianza dei missionari ha reso credibile il messaggio evangelico. Il progetto «una mucca per l’indio» è stato un miracolo, una benedizione.
Ma la strada da percorrere è ancora molto lunga.
Aldo Mongiano

La sfida del Nano
O di padre Giorgio Dal Ben

L’ansia e la fretta lo consumano.
Ecco perché, più che camminare, trotta. Anche il suo linguaggio è spumeggiante: una raffica di pensieri che rotolano su ogni dove con una logica che logica non è. E l’altro ascolta, ascolta, ascolta. Il ragionamento è una spirale che gira e rigira interminabile. Quando l’«oratore» finalmente si concede una sosta, l’ascoltatore ha capito poco, ma quanto basta. E cioè:
– che la situazione degli indios yanomami, macuxí, wapixana, ingarikó e taurepang è drammatica;
– che demarcar le loro terre è questione di vita o morte;
– che a luta continua: uno scontro tra nani e giganti.
Nano è un po’ anche lui, perché non supera i 160 centimetri di altezza.

Scriviamo di padre Giorgio Dal Ben,
da oltre 30 anni missionario della Consolata nella surriscaldata terra di Roraima. È forse il missionario italiano più europeo, perché è noto non solo nella nostra penisola, ma anche in Spagna, Portogallo, Inghilterra, Germania, Francia, Belgio. Quando parla in questi paesi i suoi discorsi sono pure interminabili, avvolgenti.
Ma tutti capiscono che padre Giorgio si impegna fino allo spasimo: perché gli indios non si vergognino più di essere tali e parlino la loro lingua; perché i tuxawa (capi) riprendano il loro ruolo di guide sociali e culturali insieme agli sciamani; perché i bambini vadano a scuola e imparino a scrivere anche in macuxí oltre che in portoghese.
Bisogna soprattutto – martella padre Giorgio – spezzare la dipendenza economica dal bianco e dalla sua cachaça (acquavite). Il progetto «una mucca per l’indio» (che ha affascinato persino Giovanni Paolo II e il cardinale Ersilio Tonini) mira a riconquistare le terre indigene usurpate dai fazendeiros e crea autosostentamento. Così pure i piccoli allevamenti di maiali e polli.
Con uma vaca para o indio, il missionario ha varcato i cancelli del palazzo di vetro delle Nazioni Unite, imponendo all’attenzione del mondo i problemi indigeni.

Giorgio non è come il biblico Davide,
piccolo e solo davanti al gigante Golia; è un po’ nano, sì, ma un nano «lillipuziano» contro «il mostro Gulliver»: le sue «fiondate», grazie ad una vasta cerchia di collaboratori, piovono da ogni parte sugli sfruttatori degli indios.
Numerosi missionari della Consolata, che a Roraima hanno sposato la causa indigena, vivono nell’occhio del ciclone: minacce da parte dei bianchi e dei loro manutengoli, calunnie e attentati sono stati e sono pane quotidiano. Ma l’aggressività nei confronti di padre Giorgio Dal Ben non ha paragoni. È accusato di ledere la sovranità del Brasile: è a capo di un esercito di 2 mila indios, comanda azioni di guerriglia contro i cercatori d’oro, invade le proprietà altrui, circola armato, si traveste da donna, sfrutta gli indios in miniere d’oro e diamanti, preziosi che poi vengono inviati in Italia. Lo ha scritto la rivista Istoé, maggio 2000.
Ma una «rete lillipuziana», composta da tanti amici, ha subito fatto quadrato attorno al missionario con stima ed affetto. A Roraima la Commissione «giustizia e pace» dei missionari della Consolata, il 2 maggio scorso, ha denunciato la rivista Istoé, i giornalisti Pedrosa e Stuckert, il governatore di Roraima Campos, il deputato Feijão e il fazendeiro Bezerra di attaccare padre Giorgio e i popoli indigeni con «affermazioni false e perverse».
«L’aggressione – scrivono padre Lirio Girardi e suor Giuseppina Morelli – vuole impedire la demarcazione della terra indigena di Raposa Serra do Sol, demarcazione in linea con il decreto n. 820, sottoscritto dal ministro della giustizia Calheiros l’11 dicembre 1998… I responsabili dell’attacco non temono di ricorrere a mezzi turpi, fino a minaccia di morte, per aizzare l’opinione pubblica contro gli indios, dividere i loro capi e spaventare i loro alleati».
Non sono mancati pistoleros pronti a sparare. Finora padre Giorgio Dal Ben e i colleghi missionari sono scampati alla morte, spesso fuggendo. Ma i rischi aumentano.
Tuttavia la spada di Damocle pende soprattutto sugli indios. Anzi si è già abbattuta seminando numerose vittime. Incursioni a mano armata nei villaggi indigeni, malattie mortali provocate, incendi criminali, garimpeiros predoni… hanno decimato i popoli indigeni.
Inoltre, nell’arco di alcuni anni, centinaia di migliaia di chilometri quadrati di foresta amazzonica sono stati selvaggiamente disboscati, molti fiumi inquinati e intere aree sommerse artificialmente con la costruzione di grandi centrali idroelettriche.
«L’indio perde sempre: nel riconoscimento del proprio territorio, nei progetti agricoli, nell’assistenza sanitaria, nella dotazione di scuole per i nostri bambini e i nostri giovani, che continuano a sperare in una preparazione per il futuro». Lo sostiene Aniceto Cacique, indio xavante del Mato Grosso. Sarà sempre così?
Gli indios di Roraima continuano a gridare: «Noi vogliamo vivere».
Francesco Beardi

finalmente La veritÀ
Sul massacro di padre Giovanni Calleri

«Giovanni Calleri, missionario della Consolata,
nel 1968 fu scelto dal governo brasiliano a dirigere la spedizione di pacificazione di una tribù indigena per la sua esperienza tra gli indios yanomami, ma anche per la sua ricca personalità. Un dirigente governativo, Verìssimo da Silveira, ne rimase conquiso al primo incontro. “Era una figura che impressionava – testimoniò -. Bello, alto, forte, spiritoso, estroverso, con una carica che ispirava fiducia a prima vista. Le persone che lo incontravano per strada o in una riunione lo definivano uno sportivo o un artista. E vedevano giusto»…
«Nel 1965 padre Calleri partì per il Brasile e raggiunse il territorio di Roraima. Le sue lettere del 1966-67 rivelano un uomo determinato e metodico, che riesce a convivere con gli indios imparandone la lingua e instaurando un buon rapporto. Scrisse: “Quando giunsi in Brasile non mi importava di morire. Ora no, voglio vivere per amore degli indios. Mie compagne sono a volte la fame, e sempre tanta solitudine”»…
«L’organizzazione della missione del Catrimani mise in luce un missionario con una straordinaria sensibilità. I suoi piani grandiosi non sempre furono approvati dai superiori locali. Sarà il superiore generale ad assecondare le iniziative del focoso missionario»…

Sono alcuni capoversi del libro «Massacre».
Ne è autore padre Silvano Sabatini, missionario della Consolata pioniere in Brasile. «Massacre» descrive la spedizione diretta da padre Giovanni Calleri, che aveva lo scopo di pacificare gli indios waimiri-atroari. L’avventura culminerà in un eccidio. Padre Giovanni aveva 34 anni.
«Massacre» non è di facile lettura. Scritto in portoghese, racconta una tragedia nell’impervia foresta amazzonica, intersecata da fiumi grandi e piccoli dai nomi più strani; coinvolge gli indios, che intendono vivere alla loro maniera e si ribellano alla costruzione della strada BR-174; l’autore sembra giocare a nascondino con l’inesperto lettore nell’immensa foresta, andando a zig zag nel tempo e nello spazio.
Di più: la raccolta di documentazione e testimonianze avviene «con le pinze» per gli indios che partecipano all’eccidio (waimiri-atroari e wai wai) e con «i grimaldelli» per i forzieri del potere politico brasiliano, allora in mano ai militari, tutti presi dalla «sicurezza nazionale». Ancora: le testimonianze sono estratte dalle «pozzanghere» della Missione evangelica dell’Amazzonia (Meva), legata agli Stati Uniti, troppo interessata (come protestante) che la spedizione diretta da un prete cattolico fallisse.

L’intento dell’autore è di scoprire mandanti
ed esecutori dell’eccidio a 30 anni di distanza. Procedendo in ordine logico e cronologico, le cose andarono in questo modo. Il massacro della spedizione, costituita da dieci persone (comprese due donne), avvenne nella foresta il 1° novembre 1968 e fu sempre attribuito agli indios. Lo scopo della spedizione risulta chiaro. Al governo interessava pacificare gli indios che si opponevano alla costruzione della strada BR-174 che, attraverso la foresta dell’Amazzonia, doveva collegare Manaus e Boa Vista a Caracas (Venezuela). I lavori, iniziati nel 1964, terminarono nel 1971.
Pure chiare le ragioni che spingevano il governo brasiliano ad intersecare l’Amazzonia di strade: integrare la vasta regione al paese, valorizzandone le immense ricchezze sulle quali gli Stati Uniti erano interessati (esportazione clandestina di oro e diamanti, vendita di terreni, ecc.). Né mancavano motivi militari, poiché l’Amazzonia a nord confina con sei nazioni in rapporti non sempre pacifici.
Per attuare il programma occorreva, però, fare i conti con gli indios che si ritenevano, a diritto, padroni della regione e non intendevano rinunciare al loro sistema di vita.

Chi è padre Calleri?
Perché la scelta di dirigere la spedizione cadde su di lui? «Massacre» risponde bene e con passione a queste domande.
La spedizione venne preparata seriamente e il piano fu presentato al governo che l’approvò. Il piano consisteva nell’adottare una tattica di «avvicinamento indiretto»: cioè accostare prima indios non irritati contro i bianchi, per farli mediatori presso gli altri sul piede di guerra, perché vicini allo sconquasso prodotto dai lavori della strada. Il piano, perché indiretto, fu ritenuto da qualcuno troppo lento: per non fermare i lavori, bisognava confrontarsi subito con i ribelli waimiri-atroari, che in quanto ad imboscate sapevano il fatto loro.
All’ultimo momento il piano fu accantonato e padre Calleri dovette accettare, anche sotto minacce, di portare la spedizione su un altro luogo. È l’aspetto più misterioso della faccenda, perché con il cambiamento i rischi di fallimento e di morte risultavano enormemente aumentati.
La spedizione dovette essere ricomposta anche nei membri: venne inserito come elemento principale Alvaro Paulo da Silva, espertissimo della foresta, ma ambiguo e senza scrupoli, legato alla missione protestante Meva, con residenza in Guaiana, interessata a sua volta a far fallire la spedizione guidata da padre Calleri.
Va detto che l’azione della Meva, diretta dal pastore statunitense Robert Hawkins, nella doppia attività di evangelizzazione e ricerca di miniere, non coinvolge nelle sue brutture le altre chiese protestanti, specie per l’attività criminale dello statunitense Claude Leawitt.

La tesi sostenuta da padre Sabatini
con innumerevoli testimonianze (l’autore si avvale di 300 ore di registrazioni) è che la spedizione-Calleri fu massacrata da alcuni indios waimiri-atroari e wai wai, istigati però da un manipolo di bianchi, in particolare da Alvaro Paulo (l’unico che sfuggì al massacro) e da Claude Leawitt. I due poi imposero agli indios, sotto terribili minacce, un assoluto silenzio.
Nel 1987 padre Sabatini, dopo una grave malattia, giurò a se stesso di far luce su fatti e persone che la Commissione d’inchiesta sul «caso Calleri» non svolse. Il quadro che ne risulta è fosco. Contro gli indios, prima e dopo il 1968, furono commessi crimini orribili: i waimiri-atroari, circa 3 mila nel 1968, nel 1982 erano ridotti a qualche centinaio. Padre Sabatini sostiene, con una denuncia sferzante, che la BR-174 fu condotta a termine, dopo il massacro della spedizione, con la decimazione degli indios.
«Massacre» vuole essere, oltre che una denuncia profetica (e i profeti non scherzano), anche «una risposta al trionfalismo dei 500 anni dalla scoperta del Brasile». Non fu una scoperta, ma un’invasione imbrattata di sangue.
Igino Tubaldo
(traduttore in italiano ad usum privatum di «Massacre»)

Aldo Mongiano




I neri, ancora incatenati – Speciale BRASILE

Il conto è presto fatto: tre secoli
di schiavitùe uno di libertà, fanno
quattrocento anni di sfruttamento. Cosìi neri brasiliani riassumono la loro storia… in attesa di riscatto.

AFRICA ADDIO
All’inizio sono gli indios a essere costretti a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Poi qualche colono importa illegalmente alcuni schiavi neri. Forti e muscolosi, danno risultati eccellenti. Le poche gocce diventano un diluvio.
Nel 1539 è inoltrata a Lisbona la richiesta di schiavi africani. Nel 1550 la tratta dei neri diventa sistematica, con tutti i timbri dell’ufficialità. Nel 1570 inizia l’importazione in massa.
A mano a mano che si sviluppano industria zuccheriera e coltivazione del tabacco, industrie minerarie e piantagioni di caffè, il traffico negriero aumenta di anno in anno con un crescendo vertiginoso. In tre secoli arrivano in Brasile quasi 4 milioni di africani. Nella tabella seguente sono riportate le cifre più attendibili, calcolate per difetto.
Africa-Bahia, viaggio diretto, ma terribile: metà degli schiavi periscono in alto mare. Solo i più giovani e forti sopravvivono alle burrasche della traversata, con poco cibo e acqua rancida. «Ne muoiono troppi sulle navi negriere. Sotto sotto non ci sarà un imbroglio?» si lamentano i sovrani portoghesi; non per compassione, ma perché riscuotano le tasse per ogni nero che sbarca vivo.
I neri sbarcati in Brasile appartengono a due gruppi principali: bantu e sudanesi. Il primo proviene dal Mozambico (angico), Congo e Angola (cabinda, bakongo, benguela). Il secondo è composto da etnie e regni affacciati sul Golfo di Guinea: minas, jeje, ewe, nagô (di lingua youruba, Nigeria), haussá e tapa. Gli ultimi tre gruppi sono islamizzati, per cui sono detti muçulmis o più comunemente malês.
Portati al mercato, gli schiavi sono subito sottoposti al processo di distruzione d’identità e memoria storica: i preti li battezzano per farli cristiani; i compratori li dividono: marito dalla moglie, genitori dai figli; quelli di una stessa cultura sono mescolati in altri gruppi etnici; così non avranno la possibilità di fare combutta e ribellarsi.

A SUON DI FRUSTA
Una certa letteratura brasiliana parla di «schiavitù soave» e «signori buoni». La schiavitù è crudele per natura; se cessa di esserlo, non è perché il padrone diventa migliore, ma perché il servo si rassegna all’annullamento della sua personalità. Di fatto la giornata non ha nulla di «soave» per i neri brasiliani: lavorano dalle quattro del mattino fino a tarda sera. Toati alla senzala trovano altri lavori da sbrigare. Alle nove vanno a dormire: le porte sono chiuse; chi ha grilli per la testa viene incatenato.
Disobbedienza e impertinenza sono pagate a colpi di chicote (frusta). Legati al pelourinho (palo della gogna), i colpevoli vengono fustigati in pubblico, perché gli altri schiavi imparino la lezione. A volte essi vengono consegnati al calabouço, luogo di tortura istituzionale, dove altri fanno il lavoro sporco: il padrone deve solo stabilire il numero di frustate e avrà la coscienza a posto.
Se il servo alza la mano contro il padrone o un familiare, gli può essere tagliata una o tutte e due le mani, o subire torture ancor più sadiche, secondo le Ordenações Filipinas (1603). Un editto reale del 1741 ordina che lo schiavo fuggitivo sia marchiato con una grande F sulle spalle, impressa con un ferro rovente; di tagliargli un orecchio se recidivo.
Di fatto il signore ha sullo schiavo potere assoluto, compreso quello di vita o di morte. Lo può vendere, torturare o liberare. La legge lo protegge in ogni caso. Agli schiavi, invece, considerati come cose o bestie da soma, non è riconosciuto alcun diritto; neppure quello di fondare una famiglia. La proibizione di separare i coniugi e le madri dai figli minorenni arriverà solo nel 1871, 17 anni prima dell’abolizione della schiavitù.
Naturalmente tutto dipende dal buon cuore del padrone. In generale, però, i signori sono pomposi e ignoranti; spesso più ignoranti di certi schiavi, come i malês: poliglotti e matematici, contabili maliziosi, essi tengono i conti e fanno da precettori ai figli del padrone.

RESISTENZE
Molti neri portati in Brasile sono guerrieri e figli di re: nessun castigo può piegare la loro fierezza. La maggioranza fa finta di sottomettersi; ma poi, lontana dall’occhio del padrone, estrae dalla memoria riti e feticci per riaffermare la propria cultura e gettare il malocchio sugli oppressori.
Le forme di resistenza alla schiavitù sono molte e variegate: dall’assassinio del padrone e suoi attendenti al suicidio individuale e collettivo, al banzo, tragica nostalgia che approda alla morte. Con la propria fine lo schiavo sa di privare il padrone di un importante capitale.
La forma di protesta più frequente, però, è la fuga per rifugiarsi nei quilombos: villaggi fondati nel cuore della foresta per riconquistare la propria libertà. Ne sorgono a migliaia, dappertutto e di ogni dimensioni. Spesso vi confluisce tutta la gamma degli oppressi della società schiavista: indios, meticci, bianchi impoveriti, giovani che fuggono il servizio militare. Nei villaggi più consistenti i neri organizzano tutti gli aspetti della vita: sociale, politica, economica, religiosa e militare, soprattutto per respingere i tentativi di riportarli in cattività.
Il quilombo più famoso è quello di Palmares. Iniziato prima del 1600, tra i monti della Serra Barriga, nell’attuale stato di Alagoas, raggiunge il massimo splendore verso il 1630, quando gli olandesi occupano Peambuco. Palmares si organizza in repubblica confederale di 18 villaggi, presieduta da un capo, chiamato «re», e da un consiglio. Lo sviluppo agricolo permette di vendere il surplus ai bianchi circostanti.
Espulsi gli olandesi (1654), per quasi 70 anni il governo di Peambuco e i signori dello zucchero cercano inutilmente di distruggere Palmares. Nel 1695 il quilombo viene spazzato via da un’armata di 11 mila uomini, il più grande esercito organizzato in periodo coloniale.
Nella resistenza si distingue il capo Zumbi. Nato libero a Palmares, egli rifiuta di barattare la libertà e indipendenza del suo popolo col perdono e terre, offertegli dal governatore di Peambuco e dallo stesso re del Portogallo, a patto che cessi di difendere la causa degli schiavi.
Tradito dai collaboratori, Zumbi è catturato e decapitato a Recife il 20 novembre 1695. Oggi egli è una bandiera per tutti gli emarginati brasiliani, simbolo di lotta per la libertà e la costruzione di una nazione senza padroni e senza schiavi.
Intanto le rivolte dei neri si propagano anche alle città. Le più note scoppiano a Salvador de Bahia: nel 1807, 1809, 1813 si ribellano gli haussás islamizzati; nel 1826-30 si rivoltano i nagôs, che finiscono in un bagno di sangue; nel 1835 ancora gli haussás: sono massacrati tutti, dai bambini appena nati ai vecchi cadenti. Non minore sconcerto suscita la rivolta di Tupá (São Paulo, 1813), dove 600 neri attaccano tutte le proprietà della regione e vengono eliminati senza misericordia.
PADRONI «LIBERATI»

Nel secolo XIX la condizione disumana degli schiavi è denunciata con veemenza in tutto il mondo. Le motivazioni umanitarie si mescolano a quelle di pura convenienza. José Bonifacio de Andrada, «padre dell’indipendenza» del Brasile, dimostra come la schiavitù sia un’assurdità economica e causa di corruzione sociale: «Venti schiavi richiedono 20 zappe, che si possono risparmiare con un solo aratro… Colui che vive del sudore degli schiavi, vive nell’indolenza e l’indolenza porta al vizio».
Sotto le pressioni intee e inteazionali, nel 1850 il Brasile proibisce la tratta degli schiavi (legge Eusebio de Queiroz). Questi vengono importati di contrabbando; ma i prezzi sono proibitivi. Inoltre, nell’economia capitalista, il lavoro salariale è ormai più conveniente della schiavitù, che comporta il mantenimento di africani tristi e ribelli, di «merce» improduttiva come vecchi e bambini.
Ci pensa il governo a «liberare» i padroni dal mantenere tante bocche «inutili»: nel 1871 la «legge del ventre libero» affranca tutti i nati dopo tale data; nel 1885 è la volta degli schiavi sessantenni. Nel 1888, quando la regina Isabella firma la «legge aurea», che abolisce definitivamente la schiavitù, appena il 5,6% della popolazione nera beneficia di tale evento. Ormai di veri schiavi ne sono rimasti pochi: molti sono già affrancati, altri si sono liberati da soli, con la fuga.

RAZZISMO ALLA BRASILIANA
La «legge aurea» introduce il Brasile nel consesso delle nazioni civili; ma non cambia nulla per i neri. A suo tempo José Bonifacio aveva suggerito come procedere all’affrancamento: «Fate dei neri degli uomini liberi e fieri; offrite loro incentivi, proteggeteli, ed essi si riprodurranno e diventeranno cittadini preziosi».
I neo-liberti, invece, restano senza casa, né terra, né famiglia (0,8% di sposati). Per loro non c’è nessuno degli incentivi concessi agli immigrati. Analfabeti al 99%, buttati senza alcuna preparazione nel mondo competitivo del capitalismo, i neri costituiscono da subito un serbatornio di manodopera usa e getta, in balia del mercato del lavoro e della miseria più nera: cessano di essere schiavi e diventano «il problema» del Brasile, da rimuovere al più presto.
La società brasiliana pensa di risolvere «il problema» con lo «sbiancamento» della popolazione, favorendo l’entrata massiccia di immigrati europei dalla pelle più chiara possibile. L’idea è bene illustrata da Roosvelt, presidente Usa, in visita al paese nel 1914: «In Brasile l’ideale principale è la scomparsa del nero, gradualmente assorbito nella razza bianca. L’enorme immigrazione europea tende, decenni dopo decenni, a rendere il sangue nero un elemento insignificante in tutta la nazione».
Qualcuno calcola il tempo necessario per completare tale processo di sbiancamento. Così scrive, e prega, Afrânio Peixoto nel 1923: «Forse impiegheremo 300 anni per mutare l’anima e sbiancare la pelle… per depurare questo immane miscuglio umano. Avremo albumina sufficiente a raffinare tutta codesta scoria? Dio ci assista, se è brasiliano».
La preghiera è rimandata al mittente: i brasiliani di pelle nera aumentano di anno in anno, fino a formare oggi il 70% della popolazione del paese; e non hanno intenzione di sbiancarsi, né di continuare a essere dominati.
Per spezzare le catene dei meccanismi di oppressione e rivendicare i loro diritti, i neri si organizzano: nel 1931 nasce il Fronte brasiliano nero e promuove una forte presa di coscienza economica e politica. Il dittatore Vargas lo sopprime nel 1937.
Negli anni ’70 sorgono altri movimenti di «coscientizzazione» della gente di colore e della società brasiliana in generale: Unione e coscienza nera, Movimento nero unificato, gruppi di agenti pastorali neri… Arriva qualche risultato: i primi deputati neri entrano in parlamento; a scuola, radio, televisione e nei giornali vengono dibattuti i problemi della popolazione di colore.
Matura così una duplice presa di coscienza: la popolazione nera, da una parte, riacquista la memoria del ruolo storico giocato nello sviluppo del paese e rivendica il proprio posto nella situazione presente. Dall’altra parte, i brasiliani nel loro insieme prendono coscienza che, senza i neri, il Brasile non sarebbe il Brasile.
Da decenni si parla di «democrazia razziale»; a cento anni dall’abolizione della schiavitù il paese ha riscritto la costituzione, affermando che «la pratica del razzismo costituisce un crimine imprescrittibile, soggetto alla pena di reclusione»; ma il nero continua a essere discriminato in tutti i campi della vita sociale, politica, economica e religiosa.
«Il Brasile resta uno dei paesi più razzisti del mondo – afferma José de Souza Martins, docente di sociologia -. È un razzismo diverso da quello nordamericano; non si vede; la gente tace, ma discrimina. I ghetti sono sempre neri. Nelle università pochi neri e tanti bianchi; il rapporto si rovescia nelle prigioni. E quando un nero ce la fa, diventa campione di calcio o re del samba, ripetono quello che dicevano di Pelé: “Ha tanto buonsenso che sembra un bianco”».

Benedetto Bellesi




Se nero significa brutto – Speciale BRASILE

Salvador Bahia – È bella la città di Jorge Amado. Le chiese, i palazzi barocchi, le case dalle tonalità pastello, le piazze linde e ben pavimentate richiamano folle di turisti, muniti di shorts e macchine fotografiche. Ma forte è l’impressione che tutto sia ad uso e consumo del visitatore. Un persona questa che quasi sempre ignora la vastità delle favelas che circondano la città vecchia (nota come «città alta»), quella sulla quale si sono riversati finanziamenti miliardari.
La Salvador non turistica deve fronteggiare problemi giganteschi: disoccupazione, povertà, analfabetismo. Tutto questo genera un forte clima di violenza. Non nasconde i problemi dom Gilio Felicio, dal 1998 vescovo ausiliare di Salvador. Lo incontriamo al «Centro di formazione per leaders» dell’arcidiocesi. Volto sorridente e coinvolgente simpatia, monsignor Felicio è un vescovo dalla pelle nera.

Nello stato di Bahia gli afro-brasiliani rappresentano più del 70 per cento dei 13 milioni di abitanti. E sono di gran lunga i più poveri ed emarginati. «Sulla popolazione nera – spiega mons. Felicio – ricade tutta l’ampia gamma dei problemi brasiliani. Molti di questi hanno una motivazione storica. Infatti, 300 anni di schiavitù e 100 di sottomissione alla cultura del “bianco” hanno lasciato il segno. Perché nella testa dei neri si è sedimentato un pesante senso di inferiorità».
È vero – chiediamo – che molti afro-brasiliani usano una terminologia particolare per nascondere la propria identità? «Purtroppo è proprio così. A volte, si arriva a situazioni assurde, ridicole. Quando un afro-brasiliano fa un buon lavoro, può accadere che lui stesso dica di avere fatto un lavoro… “da bianco”. La negritudine, l’essere neri non è assunto come un valore in sé, come esempio di vero, di bene o di bello. Anzi, è proprio il contrario: nero è brutto».
Lei è ottimista riguardo alla pastorale afro-brasiliana? «Vedo un lungo cammino ancora da percorrere, ma continuo ad essere ottimista. La chiesa cattolica, partendo dal Concilio Vaticano II, ha guardato in modo speciale al concetto del popolo di Dio, cercando di valorizzare le qualità di ogni soggetto. Nel passato la chiesa ha sempre avuto un occhio privilegiato per la misericordia e l’assistenza al povero, ma è stata più restia a considerare l’elemento culturale dei popoli. Giovanni Paolo II, nella conferenza dei vescovi latinoamericani di Santo Domingo, parlando agli indigeni e agli afro-americani, li ha invitati a coltivare e celebrare degnamente la propria identità e cultura. Credo che si stiano facendo grandi passi su questa strada. In Brasile la pastorale cerca di rispondere alle necessità della popolazione afro-brasiliana: essere riconosciuta per la cultura di cui è portatrice ed avere piena cittadinanza nella chiesa».
Nelle favelas di Salvador si tocca con mano un’offerta religiosa molto diversificata. Domandiamo a monsignor Felicio se il sentire dell’afro-brasiliano è quello del candomblé (nel quale confluisce la tradizione religiosa africana), della chiesa cattolica o delle sètte. «Su questa terra – risponde il prelato – c’è stata una confluenza, un incontro di diverse religiosità: quella indigena, quella europea e quella degli afro-discendenti. Questi elementi si sono accavallati, formando una specie di simbiosi religiosa che alcuni chiamano sincretismo, ma che in realtà è qualcosa di unico. Questo crea, non si può negarlo, delle difficoltà. Tuttavia, la chiesa cattolica ha riconosciuto l’importanza di vari aspetti del candomblé. Attraverso il dialogo si sta costruendo una nuova via per l’inculturazione del messaggio cristiano».

Nel 1995 sono stati commemorati i 400 anni del martirio di Zumbì, l’eroe per antonomasia della popolazione afro-brasiliana. La chiesa cattolica ha partecipato alle celebrazioni, riconoscendo l’importanza di questo schiavo nero nella storia del Brasile. «È stato un gesto carico di significati. Però non è stato né l’unico né l’ultimo. Oggi abbiamo gruppi di lavoro e movimenti di sacerdoti, vescovi e diaconi neri. Lo scopo è di studiare la spiritualità afro-brasiliana e valorizzare la presenza e la cultura dei neri in questo grande paese».
Ma quanti sono i vescovi afro-brasiliani nella Conferenza episcopale del Brasile? «Sei su 400 prelati». Non sono molti, monsignore. Il sorriso di dom Gilio Felicio vale più di qualsiasi risposta.
Paolo Moiola

Paolo Moiola