Speciale BRASILE – Da Cabral a Cardoso

1500 Pedro Álvarez Cabral «scopre» il Brasile.
1501 Amerigo Vespucci esplora le coste brasiliane.
1530 Martim A. de Sousa fonda Peambuco, São Vicente, Piratininga.
1533 Istituzione di 12 capitanie: inizia la colonizzazione.
1539 Prima domanda ufficiale di importare schiavi dalla Guinea.
1548 Giovanni III nomina Tomé de Sousa governatore generale.
1549 Arriva Tomé de Sousa con sei gesuiti. Fondazione di Bahia.
1550 La tratta degli schiavi diventa sistematica.
1551 Erezione della prima diocesi brasiliana: São Salvador de Bahia. Primo vescovo è mons. F. Sardinha (muore nel 1556 divorato da cannibali).
1554 Padre Anchieta fonda São Paulo. Martirio di Pedro Correa e João de Sousa.
1567 La colonia di calvinisti francesi viene cacciata dalla baia di Rio de Janeiro.
1570 Canna da zucchero coltivata su larga scala: importazione massiccia di schiavi.
1576 Inizia l’evangelizzazione degli indios: per loro sono costruite chiese e scuole.
1576 Creazione della prelatura apostolica di São Sebastião, Rio de Janeiro.
1580 Arrivano carmelitani, benedettini e francescani, che aprono conventi e scuole.
Il regno del Portogallo passa sotto la corona spagnola; vi rimarrà fino al 1640.
1595 Seconda colonia francese si stabilisce nel Maranhão e fonda São Luis (1612).
1624 Gli olandesi iniziano l’occupazione del nord-est. Saranno cacciati nel 1654. Negli stessi anni arrivano cappuccini francesi e mercedari spagnoli.
1650 Lotta dei coloni e autorità locali ai gesuiti, espulsi da una parte del territorio.
1676-1677 Creazione di tre diocesi: São Sebastião, (già prelatura), Olinda e São Luis do Maranhão (1677).
1694 Distruzione del quilombo di Palmares.
1695 Zumbi, capo del quilombo di Palmares, è catturato: la sua testa viene esposta sulla piazza di Recife.
1696 Scoperta dell’oro in Minas Gerais.
1720-1750 La febbre dell’oro accelera il traffico negriero.
1759 Pombal espelle tutti i gesuiti (428) dalla colonia.
1800 Molti schiavi vengono affrancati: la debolezza dell’economia non ne consente il mantenimento.
1808 João VI di Portogallo si stabilisce a Rio de Janeiro.
1818 Apertura delle porte agli immigrati cattolici europei (Italia, Spagna, Germania, Polonia, Russia, Armenia, Libano).
1819 João VI torna in Portogallo; reggenza del figlio Pedro.
1820 Esplode la coltivazione del caffè.
1822 Dom Pedro proclama l’indipendenza del Brasile dal regno del Portogallo e viene coronato imperatore.
1831 Abdicazione di Pedro I in favore del figlio Pedro II.
1840 Inizia il regno di dom Pedro II: seguono 50 anni di pace e sviluppo.
1846 I gesuiti tornano in Brasile, seguiti dai lazzaristi e congregazioni femminili.
1850 Finisce la tratta negriera; ma comincia il contrabbando illecito di schiavi.
1865-1871 Guerra del Brasile contro il Paraguay.
1871 È promulgata la «legge del ventre»: tutti i nascituri da madre schiava sono liberi.
1880 Inizia la febbre del caucciù in Amazzonia; durerà fino al 1912.
1888 Abolizione definitiva della schiavitù.
1889 Cade la monarchia e viene proclamata la repubblica.
Migliorano le relazioni tra chiesa e stato; ciò permette l’entrata nel paese di molti ordini religiosi: salesiani, verbiti, spiritani, francescani tedeschi, cappuccini italiani, benedettini belgi…
1891-1895 Insurrezione dello stato di Rio Grande do Sul.
1916 Organizzazione del Fronte dei neri brasiliani.
1930 Golpe militare porta al potere Getulio Vargas.
1937 Con un nuovo colpo di stato Vargas impone la sua dittatura.
1943 Il Brasile entra in guerra a fianco degli alleati contro il nazifascismo.
1945 Pronunciamento militare costringe Vargas a dimettersi.
1950 Vargas si fa rieleggere presidente.
1954 Vargas è costretto dall’opposizione a lasciare il potere e si uccide.
1964 Un colpo di stato militare impone come presidente Castelo Branco (1964-67).
1974 Fine della dittatura e ripresa delle libertà democratiche.
1990 Con l’elezione del presidente Feando Collor trionfa il neoliberismo.
1994 Viene eletto presidente Feando Henrique Cardoso, che continua la politica neoliberista. Rieletto nel 1998, è il primo presidente a ottenere due mandati consecutivi con libere elezioni.

Benedetto Bellesi




Sul fronte della liberazione

Alcuni vescovi sono noti anche al pubblico italiano, come Helder Camara, arcivescovo di Recife e «profeta dei poveri». Morì il 28 agosto1999 nella quasi indifferenza generale.
Il 10 agosto 1996 moriva anche Adriano Hipolito, vescovo di Nova Iguaçù. La sua azione pastorale si distinse per la difesa dei diritti umani, soprattutto durante gli anni della dittatura militare. In quell’epoca dom Adriano venne sequestrato, gli fu incendiata l’automobile e una bomba esplose nella cattedrale.
Significativa fu l’azione pastorale dello statunitense Mathias Schmidt, vescovo di Ruy Barbosa, morto d’infarto nel 1992. Era considerato uno dei più convinti difensori della scelta preferenziale dei poveri. Aveva anche promosso il collegamento tra le Comunità ecclesiali di base e i movimenti popolari dell’America Latina.
Luciano Mendes de Almeida, ex presidente della Conferenza episcopale, strenuo difensore dei bambini abbandonati e degli indios. Il 23 febbraio 1990 subì un incidente stradale «sospetto», che costò la vita a due religiosi. Il vescovo di Mariana proveniva da Belo Horizonte, dove aveva espresso la sua delusione per la decisione del governo di restringere a soli 2 milioni di ettari (contro i 9 fissati dalla magistratura) la superficie del territorio yanomami. Aveva accusato il presidente Saey di cedere alle pressioni di potenti gruppi economici interessati alle terre.
Monsignor Pedro Casaldaliga, spagnolo, è «il poeta della liberazione», insignito anche di premi. Ma l’interessato precisa che la sua persona non è importante; lo è, invece, la vita delle persone a cui viene sistematicamente impedito di vivere con dignità.
Un’altra figura emergente nel post-Concilio è il cardinale PAulo Evaristo As, ex arcivescovo di São Paulo. In una intervista su «Missioni Consolata» nel 1988 dichiarava: «Sono anche cittadino onorario di Pichete, meglio conosciuta come “la città delle vedove”, perché i loro mariti vi muoiono producendo bombe. No, il Brasile non ha bisogno di produrre e commerciare armi! Durante una trasmissione radiofonica il presidente Saey ha negato che il Brasile venda armi all’Iran ed Iraq; ebbene ha mentito. Il paese sta commettendo un atto immorale, fabbricando e vendendo bombe. Come vescovo, faccio una proposta a tutti i paesi: perché la produzione e vendita di armi non vengono sottoposte ad un referendum mondiale? Se fosse il popolo a giudicare, si arriverebbe alla pace mondiale in fretta».

N el campo teologico la produzione è ricca e varia. Ricordiamo fra gli altri:
– i fratelli Leonardo e Clodovis Boff: il primo ha scritto opere famose e controverse, come «Chiesa: carisma e potere»; il secondo si è occupato del problema metodologico della Teologia della liberazione in «Come fare teologia della liberazione»;
– Frei Betto affronta temi di spiritualità e pastorale; in dialogo con il mondo politico latinoamericano, è famoso per il volume «Fidel Castro: la mia fede»;
– José Oscar Beozzo, animatore degli studi storici sulla chiesa e sull’opera di evangelizzazione nel paese;
– Carlos Mesters, un protagonista del nuovo cammino biblico ed ecumenico della comunità cristiana;
– Josè Comblin, Ivone Gebara, Maria Clara Bingermer…

Francesco Beardi




Indios, i nodi vengono al pettine – Speciale BRASILE

Fuga e resistenza

Si fugge sempre quando assale il «terremoto»…
In Brasile gli indios non hanno il tempo di capire, ma solo di reagire a cose fatte. Fin dall’inizio, con l’attestarsi dei conquistatori portoghesi sulle coste atlantiche (dal bacino del Rio delle Amazzoni a São Paulo), gli indigeni reagiscono trasferendosi all’interno del paese, cambiando territorio e invadendo quello altrui.
La fuga è una soluzione che, fino a quando è possibile, accompagna tutta la storia dei rapporti fra indios e invasori. Sotto l’incalzare dei bandeirantes, per esempio, non resta altra soluzione che rifugiarsi in luoghi inaccessibili.
È quanto accade anche nel secolo XX in risposta all’invasione delle multinazionali: solo che, a differenza dei bandeirantes (già terribili), i nuovi invasori hanno mezzi e armi sofisticati (elicotteri e defoglianti) e fuggire è una misera soluzione.
Ma non tutti gli indios fuggono. Fra quelli che restano, molti resistono alla conquista. Quasi tutte le tribù (non completamente distrutte) attraversano periodi di lotta contro gli aggressori: lottano per ritardae l’avanzata o per dissuaderli dal continuare.
Nel secolo XVI i tupí creano un movimento di resistenza, riunendosi nella confederazione detta «tamoios»; ma non ha grande esito per la violenta controffensiva dei portoghesi. Maggiore successo riscuotono le etnie tatuias nel nord-est: queste, alleatesi, per circa 50 anni (XVII secolo) impediscono l’avanzata distruttiva dei portoghesi.
Pertanto, fin dagli inizi della conquista dei bianchi, gli indigeni brasiliani oppongono resistenza… Nel 1788 è la volta degli indios del Rio Branco: parecchie tribù karibe (tra cui i macuxí) si ribellano, distruggendo un forte portoghese e mantenendo la zona per alcuni anni. Ma l’impossibilità di creare una struttura socio-politica apposita impedisce la continuazione della rivolta.

si decide di morire

Dalla conquista ad oggi, alcune tribù si lasciano sconvolgere dall’impatto con il bianco, rifiutando però l’integrazione. Diverse etnie, trasferite con la forza nelle riserve, costrette alla sedentarietà, perdono il «gusto di vivere» e cadono in una abulia senza rimedio. Un esempio.
Kosó, capo dei kaapor, dopo aver perso la moglie e l’unico figlio, vittime di un’epidemia, cadde in grande prostrazione. Un giorno, tornato dalla caccia, avrebbe raccontato di essersi incontrato con il padre defunto. Questi gli disse: «Vieni, Kosó. Dove siamo noi si sta bene». Kosó, dopo il racconto, si gettò sull’amaca e non parlò più. Il giorno seguente era morto. La gente del villaggio disse che Kosó era stanco e non voleva più vivere.
Accanto a simili reazioni personali, occorre ricordae altre rivolte, questa volta, contro la propria prole. Si tratta del rifiuto esplicito della vita nella comunità: o non nascono più bambini o vengono eliminati (aborto e infanticidio). La donna accetta il suicidio culturale.
È la terribile azione di una società che decide di morire, piuttosto che deculturarsi e integrarsi nella società dei conquistatori.

I risultati
della «civiltà cristiana»

«Fra gli indios, dove non si portò la morte violenta, fu imposta la distruzione della coscienza, della storia e della volontà di masse di uomini, senza nulla recare in cambio. Nulla significa nulla: sfumare, precisare e chiarire significa tradire i concetti». Così lo studioso J. C. Mariategui.
Parlando di distruzione, si evidenzia quella socio-culturale e la volontà del sistema occidentale di rifiutare il «diverso» perché fonte di fastidio.
«Il problema indio» nasce dall’economia dei bianchi, che affonda le radici nella proprietà individuale, che tende ad usurpare le terre indigene, a privatizzare i beni comunitari e a mutare in modo violento i meccanismi di produzione. Questi tre elementi generano influenze deleterie fra la cultura «forte» occidentale e quella «debole» india, e cioè: spopolamento del territorio, degrado ambientale e degenerazione degli individui.
Varie le imposizioni dei «forti»:
1) concentramento degli aborigeni in grandi agglomerati rurali;
2) imposizione del vestiario europeo;
3) opposizione al matrimonio secondo la tradizione indigena (missionari);
4) applicazione della legge penale europea a presunti delitti di immoralità;
5) soppressione del sistema di proprietà comunitaria e dell’autorità dei capi.
Questi tratti culturali, imposti più o meno con la forza da coloni e missionari, comportano in 500 anni di conquista quasi lo sfacelo socio-culturale degli indios.
Tuttavia il Brasile, prima dell’arrivo dei portoghesi, non è un paradiso: le guerre tra gruppi etnici sono frequenti; a determinarle è l’esigenza di sopravvivenza dei gruppi. I bianchi sfruttano le inimicizie fra i nativi.

Civilizzarli. E come?

«Gli indios vivono come bestie. Occorre vestirli, educarli, civilizzarli» dice qualche bianco. «Non esistono più indios – aggiungono altri -, ma soltanto loro discendenti che sono brasiliani come noi». Questo problema si impone con forza all’opinione pubblica brasiliana.
Oggi in Brasile, dei 5-6 milioni di indios del 1500, sopravvivono circa 330 mila persone: appartengono a 215 popoli e parlano 180 lingue differenti.
Per tanti decenni latifondisti (fazendeiros) e cercatori d’oro (garimpeiros) hanno invaso le terre indigene. La scoperta di un giacimento minerario, la possibilità di sfruttare una foresta, la presenza di campi per allevare bovini… sono diventate valide giustificazioni per condannare gli indios a morte.
Sulla rivista di Rio de Janeiro Fatos e fotos nel 1968 si leggeva: «Un piccolo aereo aveva compiuto alcuni voli sul villaggio. Gli indios, impauriti, correvano in casa; donne e bambini piangevano nel cortile senza saper dove andare. D’improvviso un’esplosione fa volare in aria paglia, legna, terra e corpi di persone. Il rombo del motore copriva il rumore degli spari, ma dal finestrino dell’aereo si scorgeva il braccio di un uomo che sparava con un mitra. Mentre la gente scappava in foresta… tutti furono uccisi. E fu sterminata una tribù di Cintas Largas nel Mato Grosso».
Misfatti del genere sono avvenuti in ogni angolo del Brasile, restando quasi sempre impuniti.

Il problema della terra

È «il» problema. La terra è indispensabile anche per la sopravvivenza culturale degli indios… Nel 1973 il governo brasiliano, con la legge 6.001, decide di demarcar i territori indigeni: tempo cinque anni. La legge rimane lettera morta.
Il bestiame dei bianchi continua ad invadere le coltivazioni degli indios e a distruggere tutto. Nel frattempo gli indigeni vivono in fazendas, recintate da filo spinato: non possono più cacciare e pescare; sono obbligati a lavorare nei latifondi del bianco come manodopera quasi gratuita. Spesso ricevono solo acquavite o addirittura alcornol puro: obbligati a bere veleno in cambio di lavoro nelle loro ex proprietà.
L’invasione risponde ad un chiaro piano governativo: concentrare le terre nelle mani di chi può sfruttarle «più razionalmente per il bene dell’economia brasiliana». Si conia uno slogan per giustificare l’operazione: «La terra senza uomini (l’Amazzonia) agli uomini senza terra (i brasiliani nordestini)». Si aprono le strade transamazzoniche, perché «i poveri coloni emigrati» possano avere un po’ di terra da lavorare.
Ma il sogno dei piccoli coloni dura poco. Infatti il governo dichiara: finora la transamazzonica ha aiutato il piccolo colono; «ma ora dobbiamo entrare nella fase delle grandi imprese».
Per realizzare ciò, si vende il Brasile a ditte straniere e a prezzi irrisori. Indios e coloni (anche i secondi hanno versato lacrime e sangue) lottano fino a morire. Vince l’interesse dei potenti.
L’Amazzonia ci rimette oltre un milione di chilometri quadrati (negli stati di Mato Grosso, Rondonia, Goiàs, Acre, Pará, Roraima). Gli indios, minacciati dall’invasione genocida dei bianchi, sono: yanomami, macuxí, wapixana, ingarikò, taurepang, deni, suruí, guajé…
Orecchi da mercante

Il 19-12-1973 il presidente brasiliano Medici firma lo «statuto dell’indio», che dovrebbe tutelare i diritti delle minoranze etniche della nazione. Però la legge penalizza gli indios. Lo stesso presidente dichiara senza mezzi termini: «Lo scopo fondamentale dello statuto è la rapida e salutare integrazione dell’indio nella civiltà».
Nell’ottobre del 1978 la situazione peggiora ancora. Il ministro degli interni Reis consegna al presidente Geisel un decreto-legge sull’integrazione obbligatoria di quasi tutti gli indios.
L’iniziativa suscita una tenace opposizione in vari settori della società: chiesa e università. Gli indios rifiutano con forza il progetto genocida e, il 19 aprile 1979, inviano a tutti i brasiliani il seguente messaggio: «Riuniti in un’assemblea nazionale, siamo portavoce anche dei gruppi indigeni che non sono potuti intervenire. Sono nostri fratelli di sangue che aspettano, come noi, di vedere i loro problemi risolti, specialmente il problema della terra… Stiamo forse chiedendo integrazione ed emancipazione nella società dei bianchi? No. Noi vogliamo solo il riconoscimento e il rispetto della nostra integrità fisica e culturale».
Le richieste trovano orecchi da mercante.

Di male in peggio?

«È in corso una guerra non dichiarata, ma calcolata e sporca: da una parte il governo brasiliano e i centri di potere economici e militari vogliono sfruttare le immense ricchezze del sottosuolo amazzonico; dall’altra la diocesi di Roraima, con la chiesa cattolica del Brasile e le associazioni filantropiche e ambientaliste, cerca di impedire il genocidio di 100 mila indios, la distruzione della flora e fauna amazzonica, l’inquinamento dell’atmosfera e dei fiumi».
È la denuncia dei missionari della Consolata di Roraima del 16 febbraio1988. Investe tutto il Brasile.
Nel paese vige la «nuova repubblica»: una dittatura (con una facciata democratica), dove operano potenti forze economiche brasiliane e multinazionali, appoggiate da settori militari. Si impone un modello di sviluppo neo-colonialista, peggiore dei precedenti: il saccheggio delle risorse forestali e minerarie dell’Amazzonia è perpetrato in modo caotico, incontrollato; provoca l’ennesimo sterminio di migliaia di indios. Secondo il piano governativo, le culture indigene devono scomparire, le comunità integrarsi nella società brasiliana e la maggior parte delle terre è da sottrarsi agli indios, per sfruttare i minerali ritenuti necessari allo sviluppo del Brasile.
Chi crede nel valore della «diversità» dell’indio insorge. I missionari della Consolata si appellano alle Nazioni Unite lanciando una campagna internazionale…
Nell’ottobre del 1988 c’è la nuova costituzione brasiliana. Si ritorna a sperare, perché si avallano i diritti degli indios: alla cultura, alla lingua, alla terra e all’usufrutto delle sue risorse. Si riconoscono 594 territori indigeni e 279 vengono registrati. La registrazione totale dovrebbe completarsi nel 1993.
Ma, nel presente 2000, non sono ancora stati delimitati 315 territori. Le terre indigene continuano ad essere depredate. Sembra davvero che in Brasile, o maior do mundo, non ci sia posto per il «diverso».

Francesco Beardi




I supermercati della religione – Speciale BRASILE

Ogni anno la Chiesa cattolica perde 600 mila fedeli, che aderiscono a movimenti pentecostali. In genere si tratta di persone povere, che tuttavia vuotano il loro modestissimo portafoglio alla nuova «chiesa», che non fa politica. E si inchina al padrone vincente e conservatore.

Il turista inesperto o il missionario impreparato, che per la prima volta mette piede in Brasile, resta sconcertato dalla molteplicità dei movimenti religiosi in cui si imbatte.
Alcuni provengono dall’Europa, come lo Spiritismo kardeciano; altri dall’Asia, come il Seicho-no-ie, la Perfetta Libertà e gli Hare Krishna; altri dal Nordamerica, come i Testimoni di Geova, i Mormoni, i vari movimenti pentecostali e la Chiesa dell’unificazione, nata in Corea e approdata negli Stati Uniti col suo fondatore Moon.
Vi sono movimenti religiosi alternativi di carattere autoctono, cioè nati in Brasile, come le Chiese cattoliche apostoliche brasiliane, Santo Daime, União Espiritualista Seta Branca, Vale do Amanhecer. Esiste il mondo dei culti afrobrasiliani (candomblé, xangò, jurema, casa de Minas, macumba, quimbanda, umbanda): raccolgono un numero enorme di persone e affondano le radici in Africa.
Nel 1930 le statistiche affermavano che il 95% dei brasiliani era cattolico. Oggi, secondo il Calendario Atlante De Agostini 2000, i cattolici si sono ridotti al 70%.
Il presente articolo affronta solo il movimento più macroscopico, che cresce in tutti i paesi dell’America Latina con una forza d’urto impressionante: è il mondo dei pentecostali. Si calcola che sottragga ogni anno al cattolicesimo brasiliano circa 600 mila membri.

L’Evoluzione
dei pentecostali

Il pentecostalismo giunge in Brasile al principio del 1900 e, precisamente, a Belém come Assembleia de Deus e a São Paulo come Congregação Cristiana no Brasil. Esso però, fino al 1930, si sviluppa lentamente senza creare allarmismo.
Con l’industrializzazione del paese e l’immigrazione intea, il movimento incomincia a mettere radici soprattutto nella fascia più povera della gente: perde il carattere di religione straniera ed assume gli elementi culturali tipici dell’ambiente, rompendo con l’élite e la dicotomia, presente nella religione ufficiale, tra chi «sa» e chi «è ignorante».
Fra i nuovi adepti si nota un fattore costante: il devozionale. Però è avvenuta la seguente trasformazione: il mezzo di comunicazione col divino non è più un santo, ma la bibbia, che nelle mani di analfabeti può diventare una sorta di amuleto e talismano.
Oggi il Brasile conta almeno un centinaio di denominazioni pentecostali. I sociologi della religione le suddividono in due categorie.
n Le chiese pentecostali più antiche, come l’Assemblea di Dio e la Congregazione cristiana in Brasile, che si presentano con una forte identità di gruppo.
n Le chiese neo-pentecostali, come la Chiesa universale del regno di Dio, Deus é Amor, Graça de Deus, che sono piuttosto di tipo clientelare. Tra i membri non vi è una forte coesione. Di regola sorgono sotto l’influenza di un leader carismatico, danno molta importanza alle guarigioni e usano molto i mezzi di comunicazione sociale, come radio e televisione.
Questi gruppi appaiono come uno specchio della società dei consumi del nostro tempo. Alcuni sociologi, anziché considerarli «chiese», li presentano come «agenzie». Secondo la logica commerciale odiea, il «tempio» diviene una specie di supermercato, dove si esibiscono «prodotti religiosi» di vario tipo.

Tre movimenti
significativi

Oggi in Brasile tre sono i movimenti pentecostali significativi, che si caratterizzano per una forte espansione: Assemblea di Dio, Congregazione cristiana in Brasile e Chiesa universale del regno di Dio.
Assemblea di Dio. Gioia e spontaneità sono espresse con canti popolari; si promuovono lunghe adunanze di preghiera con glossolalia (fenomeno già legato ai movimenti messianici: consiste nel parlare lingue sconosciute in stato di trance). Questa «chiesa» propone una morale esigente: proibisce di fumare, bere, cadere nei vizi; stimola a darsi totalmente a Cristo e impegnarsi in una attività religiosa.
Nel luogo di culto non vi è una rigida separazione dei sessi; entrando o uscendo ci si saluta calorosamente e si frateizza. Tutti si impegnano nella costruzione del tempio e nella diffusione del movimento.
La predicazione non è monopolio di una sola persona, ma può essere fatta da chiunque si senta ispirato a prendere la parola.
È ormai notorio che alcuni membri di questa «chiesa» hanno collaborato alla stesura del Documento di Santa Fé (New Mexico – USA), redatto nel maggio 1980 da esperti del Partito repubblicano quale piattaforma elettorale del presidente americano Reagan. Nella proposta n. 3 del capitolo «Sovversione intea» si legge: «La politica estera latinoamericana deve incominciare ad affrontare la teologia della liberazione, per sapere come è utilizzata in America Latina dal clero che aderisce a questa corrente teologica».
La maggior parte dei membri dei movimenti pentecostali, fino a poco fa, era costituita da gente povera. Però negli ultimi anni notiamo una tendenza inversa. Per attirare le persone benestanti non si organizzano culti, ma pranzi e cene.
Nel Mensageiro da Paz, giugno 1986, organo mensile dell’Assemblea di Dio, leggiamo: «I pranzi hanno la forza di attrarre persone danarose che in nessun’altra circostanza hanno avuto modo di ascoltare il vangelo».
Congregazione Cristiana in Brasile. È la prima chiesa pentecostale: sorge nel 1910 nel quartiere «Bras» di São Paulo per opera di un italiano, Luigi Francescon, proveniente dagli Stati Uniti. Nel barrio si parla e si predica unicamente in italiano. Nonostante che Francescon cerchi di attirare i connazionali alla sua chiesa, questi si dimostrano refrattari.
A quell’epoca l’80% degli operai di São Paulo è costituito da stranieri; di questi, il 65% è italiano. Tale classe sociale ha un atteggiamento diametralmente opposto a Francescon, perché proviene da dure lotte sociali in Europa.
A differenza di tutte le altre chiese pentecostali, la Congregazione cristiana in Brasile non è caratterizzata da un forte impegno per il proselitismo; non si serve dei mezzi di comunicazione sociale e sono rarissime le pubblicazioni. Fatto sintomatico: il movimento non ha mai permesso che fosse pubblicata la vita del fondatore, sebbene sia ritenuto santo.
È una «chiesa» che non combatte né il cattolicesimo né lo spiritismo. Al termine del culto, non pratica il rituale di benedizioni di «cura divina», come accade invece in molte comunità pentecostali; né ricorre ad esorcismi per cacciare i demoni.
Si caratterizza per una rigida separazione dei sessi durante la celebrazione del culto ed è completamente estranea ad ogni impegno di carattere sociale.
Chiesa universale del regno di Dio. Nasce nella decade 1970 ad opera del pastore Edir Macedo, che si stacca dalla Casa da Benção e si proclama «vescovo». Essa, come altri movimenti neopentecostali, dà particolare importanza alla radio e televisione; inoltre pubblica un numero impressionante di libri, riviste e giornali. Gestisce in proprio una casa editrice e una televisione di notevoli proporzioni.
Il Vangelo
secondo Macedo

Uno dei tratti fondamentali della Chiesa universale del regno di Dio è il ricorso massiccio agli esorcismi. Il fondatore Macedo è convinto che sia la maniera più efficace per combattere il male. «Nostro compito – afferma Macedo – non è solo predicare che Gesù Cristo salva e battezza nello Spirito Santo, ma innanzitutto e soprattutto che egli libera le persone che sono oppresse dal diavolo e dai suoi angeli».
Nella chiesa pentecostale di Copacabana in Rio de Janeiro, ad esempio, il venerdì è dedicato in modo speciale ai «culti di liberazione». In tale giorno gli incontri sono sette a ore diverse; quello di mezzanotte è il più importante per ottenere la liberazione dal demonio.
Nel suo impegno di «liberazione» Macedo ha trovato i «capri espiatori»: sono i culti afrobrasiliani e lo Spiritismo kardeciano. Nel libro «Dei o demoni?» (nel 1993 era già alla 13ma edizione) si legge: «Se il popolo brasiliano tenesse gli occhi ben aperti e si rendesse conto della magia e stregoneria che vengono propagandate da candomblé, umbanda, quimbanda, dallo spiritismo kardecista e da altri movimenti che stanno distruggendo molte vite e famiglie, certamente saremmo un paese molto più sviluppato».
Tra gli avversari della Chiesa universale del regno di Dio figurano anche i cattolici. Ne è prova il gesto teatrale e provocatorio, compiuto da Von Helder (da non confondersi con il vescovo cattolico dom Helder), nei confronti di una immagine della Vergine Maria, presa a calci durante una trasmissione televisiva.
La «teologia della prosperità» è un altro tema fondamentale della Chiesa universale del regno di Dio. Macedo in «La vita in abbondanza» scrive: «Non avremo mai fede sufficiente nelle promesse di Dio per riuscire a possedere quello che desideriamo, fino a che le nostre labbra parleranno unicamente di sconfitte. Per il cristiano non esiste “non posso” e neppure “questo è difficile”. No, no e no. Tu puoi avere tutte le cose, se ne sei convinto. “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Fil 4, 13) deve essere la nostra parola d’ordine».
«Prosperità» è l’argomento-chiave nelle riunioni di tutti i lunedì. Sono numerosi i templi in cui si realizza «la catena degli impresari». In simili riunioni si sottolinea con molta enfasi che «la prosperità» è un diritto di ogni cristiano. Per Macedo, essere cristiano significa essere figlio di Dio e coerede di Gesù Cristo. Questi, per eredità, è proprietario di tutte le cose che esistono sulla faccia della terra, essendo il re dell’universo. Ancora: «Dio non vuole che i suoi figli siano poveri e bisognosi». Essi sono «figli ricchi» di un «Padre ricco», perché «l’uomo fu posto sulla terra per condurre una vita nell’abbondanza. Adamo non aveva scarsità di acqua, di alimenti e non aveva bisogno di condurre sua moglie Eva dal medico. Essi godevano della perfezione di Dio, senza che gli mancasse nulla». Il paradiso terrestre in cui vivevano Adamo ed Eva non è perso del tutto. Esso è a disposizione di quanti accettano il «Gesù della Chiesa universale».
Frequentare un suo tempio significa assumere un impegno con Dio, entrare in alleanza con Lui, riprendere il cammino delle origini e ritornare nel seno della «famiglia della prosperità», nella quale vi è «una vita abbondante», garantita da Dio per mezzo di Gesù Cristo.
Secondo Macedo, l’«alleanza con Dio» deve essere intesa in questo senso: per mezzo di essa ciò che ci appartiene (vita, forza e denaro) passa in proprietà di Dio. E ciò che appartiene a Dio (benedizione, pace, prosperità, gioia) diventa proprietà dell’uomo.
Macedo non solo invita a pagare la decima, ma fa un passo avanti: oltre la decima, il fedele deve dare a Dio (cioè alla Chiesa universale del regno di Dio) tutte le cose preziose che possiede.
Nella società capitalista il denaro e le cose materiali sono le più importanti per la persona. Nell’offrire i propri beni a Dio, l’essere umano strappa, in un certo senso, le stesse sue viscere, soprattutto se offre tutto ciò che possiede. Però Macedo avverte: «Dio non vede i valori che una persona gli offre, vede invece quelli che restano nella borsa… È necessario dare anche ciò che non si vorrebbe. Il denaro, messo a frutto in una banca per realizzare un sogno futuro, questo sì che è importante e deve essere dato. Invece quel denaro che viene dato perché è superfluo, non ha valore né per il fedele e né tanto meno per Dio».
Occhio chiesa cattolica!

Un aspetto peculiare, nei movimenti pentecostali di data più antica, è l’attenzione alla persona: accoglienza calorosa di coloro che intervengono nel culto e possibilità di partecipazione come veri attori, sia nell’eseguire i canti sia nel prendere la parola durante la cerimonia.
Questo è un dato positivo e deve far riflettere i cattolici, ai quali la costituzione Lumen Gentium del Vaticano II e il documento di Puebla ricordano che la chiesa deve essere una comunità di comunione e partecipazione. Ciò che maggiormente dovrebbe preoccupare i cattolici non è la crescita dei templi pentecostali, ma l’atteggiamento di quanti vi entrano: lo fanno come se entrassero in un supermercato per acquistare beni di consumo. Preoccupa anche il loro disimpegno in campo sociale e politico.
Le comunità ecclesiali di base, che in Brasile sono una realtà consolante della Chiesa cattolica, hanno il potere di vaccinare i loro membri e di renderli guardinghi verso i metodi manipolatori praticati da numerosi movimenti pentecostali.
Moltissimi pentecostali sono poveri; ma le loro comunità, a differenza della Chiesa cattolica, non hanno mai fatto l’opzione preferenziale per i poveri. Si ebbe un esempio chiarissimo nel nordest, al tempo delle Leghe contadine, quando parecchi fedeli pentecostali furono imprigionati, ma le loro chiese non si mossero in loro difesa.
In Brasile, nelle ultime elezioni politiche, vari movimenti recenti di indirizzo pentecostale, hanno buttato la maschera e si sono schierati apertamente a favore dell’ala politica conservatrice, il cui impegno non è affatto sulla linea della promozione delle classi povere.
E questo fa paura.

Pietro Canova




CONGO – E sul muro una scatola vuota

Nei «Balcani dell’Africa» gli eserciti si fronteggiano,
soprattutto per accaparrarsi legname e caffè,
oro e diamanti. Difficile raggiungere
il paese ai «non addetti ai lavori»:
non fa eccezione la città di Isiro,
sotto il tiro degli ugandesi. Altrove sono
i rwandesi che non scherzano.
Da mesi è in ballo l’invio di 5.337
«caschi blu» delle Nazioni Unite,
per garantire il «cessate il fuoco».
Ma è solo un «ballo».
I missionari con la gente.

«Finalmente!» dico a padre Giano Benedetti. Decollato dall’aeroporto militare di Entebbe, in Uganda, viaggio con altri missionari della Consolata: i padri Enrico Casali, Celestino Marandu e Simon Tshiani. Sono le ore 15. Destinazione Isiro, nella Repubblica democratica del Congo, occupata dall’esercito dell’Uganda.
«Ti è andata molto bene!»
Giungiamo all’aeroporto di Entebbe alle 5.30 con un taxi-minibus, mentre è ancora notte. Svegliati dal rumore del veicolo, due soldati ugandesi sporgono il capo da una tenda per dire: «Aspettate». Ci dividono una rete e un cancello. Il taxi, carico delle nostre valigie, rimane sul posto.
Mezz’ora dopo, un camion supera il cancello, seguito da padre Celestino, che dichiara: «Ci vorrà tempo a caricare l’aereo». Celestino, tanzaniano, conosce l’iter burocratico per giungere ad Isiro.
Un lampo sul cielo nuvoloso, un tuono fragoroso e la pioggia inonda la campagna. «È una benedizione di Dio» commenta il taxista. Quando cessa di piovere, propone: «Perché non facciamo colazione?». C’è una bettola a due chilometri. Il taxista mangia con appetito uno spezzatino di maiale e banane fritte.
Un nuovo tuono… e le cateratte del cielo si riaprono. Piove anche sul nostro tavolo, mentre ci servono il tè. Padre Enrico sorride divertito, pur non essendo un pivello dell’Africa: conta 5 anni di Tanzania e 26 di Zaire-Congo. Ora vi ritorna, dopo un by pass al cuore e altri gravi problemi di salute. La missione è il suo dna, come pure delle sorelle Emma Piera, Aalda e Simplicia, missionarie della Consolata.
«Adesso ritorniamo all’aeroporto, perché dovreste partire» dice il taxista. «Ecco i piloti» continua per strada, additando una Mercedes con due biondoni russi a torso nudo. Attraversano il cancello; però, un quarto d’ora dopo, ritornano sui loro passi. Un’operazione compiuta tre volte… E l’orologio segna le 12.
Alle 13 appare padre Celestino: «In fretta, si va!». Scarichiamo i bagagli. Il sole dardeggia.
Ai piedi di un aereo-cargo Antonov, un soldato mi ordina: «Apra la valigia». Tremo. Sull’asfalto ribollente compaiono tre salami, una bottiglia di grappa e due pezzi di formaggio. Il militare osserva tutto e solleva un sacchetto di plastica.
– Che cos’è questo?
– Sono grani per confezionare corone del rosario.
– Ah!… Partite pure.
Ma siamo nuovamente bloccati, perché il numero dei passeggeri è diverso da quello notificato: cinque, invece di quattro. L’aereo può trasportare fino a 20 tonnellate, che sono state superate da una persona in più. «Uno deve scendere!» intima secco il comandante dell’aeroporto.
Padre Celestino si apparta con il graduato. Sostano 20 minuti sotto il sole furente, gesticolando, talora separandosi per poi riavvicinarsi… E si va! Nell’Antonov non pressurizzato padre Simon, congolese, mi grida all’orecchio: «Ti è andata molto bene! Io ho aspettato due settimane».
In aereo chi si sistema a cavalcioni di una balestra di Land Rover, chi su uno scatolone di pelati, chi su un sacco di zucchero… Noto anche un borsone di zip e bottoni. E, soprattutto, le medicine per l’ospedale della diocesi di Wamba e dei missionari della Consolata.
DOVE LE BICI SONO CAMION
Isiro, il mattino seguente, casa dei missionari della Consolata. Con la barba di cinque giorni, vorrei radermi. Ma in camera non trovo lo specchio.
«Per favore, c’è uno specchio?» chiedo a padre Rinaldo Do, il superiore. «Scusa, ci siamo dimenticati di importarlo…». Allora rivedo l’Antonov con il borsone di zip. «Qui, se perdi un bottone, o stai senza o te lo importi tu stesso… noleggiando un aereo».
Per non parlare di benzina. I missionari talora riescono ad acquistae qualche fusto dai militari ugandesi, per poi «centellinarla».
Anche monsieur Joseph ha comprato due bidoni di carburante e ha aperto «un distributore» in città. È uno sgabello con, sopra, una tanica mezza piena e una bottiglia vuota a lato come «contatore»: si fermano una-due moto per rifoirsi di tre litri. Sul lato opposto funziona un altro «distributore», gestito da un bambino: vende al dettaglio petrolio per illuminazione domestica, misurandolo con una scatoletta da sardine.
Chi si accaparra qualche fusto di carburante può diventare un commerciante a livello nazionale: lo vende ai rifornitori, che percorrono anche 700 chilometri in bicicletta con quattro taniche da 20 litri. È l’unico mezzo di trasporto anche per capre e maiali.
Un litro di benzina costa 3 milioni di nouveaux zaires (moneta locale), l’equivalente di un dollaro Usa. Questo prezzo risale al maggio scorso; un mese prima la benzina valeva 2.500.000 nouveaux zaires. Il che significa che l’inflazione è alle stelle, con sacchi e sacchi di carta-moneta. «Questa cassa – indica Dario Gramuglia, tecnico nell’ospedale di Neisu – è zeppa di grosse banconote, per un valore complessivo di 15 dollari». La cassa misura 56 centimetri di larghezza e lunghezza e 72 di altezza.
Per 3 milioni di nouveaux zaires si vende una gallina e si acquistano tre pacchetti di sigarette o una birra. Sigarette e birra, made in Rwanda, non è necessario importarle. Ma che lusso con salari da 5 dollari al mese!
«dagli atri muscosi…»
«Per pasqua mi piacerebbe essere a Pawa» confida padre Giano, consigliere generale dei missionari della Consolata, che ha lavorato in quella missione tre anni. «È già programmato» risponde padre Rinaldo. Mi accodo anch’io. Un safari di 52 chilometri in Land Rover, su una strada internazionale, della durata di tre ore. «Perché in Congo non esistono più strade, degne di tale nome».
Lasciamo, dunque, Isiro. La città conserva ancora qualche brandello d’asfalto, ma non c’è luce né acqua. Eppure, fino agli anni ’80, era vivace e festosa, con donne elegantissime, musiche e danze. Vi trovavi di tutto: dal whisky al frac per il gala raffinato. Anche se i voli non erano regolari, l’aeroporto era un viavai di commercianti. Ma il nefasto regime di Mobutu, le angherie dei funzionari pubblici, la guerra di Kabila e l’occupazione dell’Uganda… «Che tristezza, l’altro giorno, quell’aeroporto così sporco e polveroso!» conclude padre Giano.
«Dagli atri muscosi» e «dai fori cadenti» di Isiro emerge la banca, chiusa a tempo indeterminato con una catena arrugginita. Anche i missionari vi depositavano il denaro. Ma, invece di riscuotere qualche interesse, si vedevano continuamente assottigliare la somma. Tutto normale secondo il direttore della banca, che non lesinava il sarcasmo: «Dovreste esserci grati, perché custodiamo con cura i vostri capitali».
Sulla facciata del palazzo di giustizia campeggia la scritta dura lex sed lex. E padre Rinaldo commenta: «È stata proprio la mancata applicazione delle leggi a condurre il Congo-Zaire allo sfacelo».
All’uscita da Isiro, uno stop per il controllo da parte dei soldati ugandesi. Solo una formalità, per fortuna. E riprendiamo il safari.
Il territorio vanta notevoli potenzialità agricole: riso, soia, granoturco, arachidi, fagioli, frutta, come pure cotone e caffè. Negli anni ’60 il Congo produceva 60 mila tonnellate di caffè. Oggi la produzione non supera le 2 mila tonnellate. Sul mercato di Isiro il caffè (già decorticato) viene svenduto agli ugandesi a 800 lire al chilo. «È niente. Però, se protesti, non ti danno neppure questo “niente”»: è lo sfogo amaro dell’unico produttore della zona.
«PREGHIAMO PER LA PACE»
«Ferma, ferma!» grida con affanno padre Rinaldo. A 40 metri, tre soldati «esigono» un passaggio. Sono congolesi alle dipendenze di ugandesi. Hanno camminato sotto il sole molte ore e la loro meta è ancora distante.
Padre Rinaldo, dopo essersi presentato come missionario, li intrattiene con qualche domanda.
– Come stanno i vostri camerati?
– Quali? Ugandesi o congolesi?
– Entrambi.
– Il capitano ugandese non ci paga… Però gli ugandesi sono migliori dei rwandesi, che uccidono la gente, ne estraggono il cervello e lo mangiano mescolato ad erbe bollite.
I rwandesi in Congo sono armati fino ai denti. Nel 1999 il Rwanda investì in armi 141 milioni di dollari. E il Fondo monetario internazionale (così severo sugli sprechi nel sud del mondo) approvò un prestito al regime di Kigali di 33 milioni di dollari…
Sto osservando un soldato dall’aspetto giovanissimo.
– Da quanto tempo fai il militare?
– Da due mesi.
– Perché, invece di fare la guerra, non vai a scuola?
– In Congo non ci sono scuole. E poi, se ci fossero, dovrei solo zappare il campo dei maestri.
– Quanti anni hai?
– Sedici.
La risposta è troppo pronta per essere sincera. Che il ragazzo non abbia più di 12 anni traspare e dal viso e dalla statura. Certamente lo hanno imbeccato: «Ricordati che tu hai 16 anni». Tale infatti è l’età minima per l’arruolamento volontario di minorenni. L’hanno stabilito, il 21 gennaio scorso, le Nazioni Unite con un articolo sottoscritto da 70 nazioni. E ciò per smantellare l’esercito mondiale dei 300 mila bambini-soldato.
Prima di congedarci dal terzetto, padre Rinaldo afferma: «Amici, anche voi soffrite la guerra. Allora preghiamo tutti insieme per la pace».
A due chilometri da Pawa, padre Giano viene riconosciuto da due catechisti: e dire che vi mancava da 17 anni. Deve procedere a piedi, con alle spalle un corteo che l’osanna.
La missione è retta da padre Tarcisio Crestani. Gli consegno «il sacchetto dei grani del rosario», che ha «protetto» grappa e salami.
– Tarcisio, quante corone hai fatto?
– 26 mila in 26 anni di missione.
– Perché non insegni l’arte ad altri?
– Ho tentato varie volte. Ma la gente vuole solo i rosari delle mie mani. Li considera «più benedetti».
Padre Tarcisio è entusiasta del suo lavoro. E precisa: «Ci sono due missioni ad gentes: una dottrinale e una esperienziale. Credo nella prima e cerco di vivere la seconda. Ad gentes: stare con la gente ascoltando e camminando con tutti, magari anche a piedi, specie in tempo di guerra».
Una guerra economica
Ritornato ad Isiro, incontro nuovamente padre Simon Tshiani.
Padre Simon, quale congolese, come giudichi la guerra nel tuo paese?
– È una guerra soprattutto economica. Qui siamo sotto il controllo degli ugandesi: a loro non interessano i nostri problemi politici; essi mirano solo ad impadronirsi del nostro oro.
Ci sono già stati tre «cessate il fuoco». Ma la guerra continua. Perché?
– Tutte le forze in campo dicono di volere la pace, però alle loro condizioni: cioè esigono potere sul Congo, o economico o politico.
E il Congo sarà diviso?
– Questa è la grave minaccia che incombe. Però tutti i congolesi sono nettamente contrari.
In un paese vasto come il Congo, il federalismo può essere la soluzione dei problemi?
– Un governo centrale e unitario, con autonomie regionali, può essere una soluzione. Lo si è detto anche nella Conferenza nazionale, al tempo di Mobutu, per scrivere la nuova costituzione. Poi, nel 1996, le cose sono precipitate con la guerra di Kabila.
Il governo di Kabila è in grado di riprendere in mano il paese e di avere l’appoggio di tutti i congolesi?
– No, perché Kabila non è stato eletto dal popolo e perché è troppo legato alle città di Lubumbashi (con le sue ricchezze) e Kinshasa.
Allora come uscire dall’anarchia?
– Le Nazioni Unite impongano il ritiro delle forze straniere che hanno invaso il paese. Un volta sgombrato il campo, i congolesi devono prendere in mano le sorti del paese rilanciando la Conferenza nazionale con la partecipazione di tutte le forze politiche.
Come missionario della Consolata, ci tengo a dire anche questo: nonostante la guerra, noi continuiamo a lavorare. E «meritiamo» la solidarietà della Caritas italiana, di Missio e di tante persone generose…
Si fa avanti padre Rinaldo e annuncia che venerdì ci sarà l’aereo per il ritorno in Italia.
Ma venerdì non parto e neppure sabato. L’aereo sarebbe arrivato certissimamente domenica, alle ore 7 in punto. Passano le 7, le 8, le 9. A mezzogiorno il simpatico Rinaldo sorride: «Se in cielo comparirà un aereo, partirai». Compare alle ore 18.30.
Mi precipito all’aeroporto, carico la valigia nel piccolo bimotore e siedo. Poi… ritorno nella camera senza specchio di Isiro. «Signori, sono le 19.04! Troppo tardi per il decollo»: sono le parole del comandante.
Troppo tardi per quattro minuti.

Il giorno seguente, in volo verso Roma, ripenso all’aeroporto di Isiro: su una parete spicca una scatola vuota. È un orologio. Ma le lancette si sono arrestate, perché… il tempo si è fermato; poi sono addirittura scomparse, quasi a dire: in Congo il tempo non esiste più.
Intanto, sulla fertile terra rossa di Isiro e dintorni, le donne avanzano con pesanti carichi in testa.

La seconda guerra

u 1996, ottobre. I soldati dell’Alleanza delle forze democratiche di Kabila, sostenute da Rwanda, Burundi, Uganda, Stati Uniti e vari mercenari, iniziano da Uvira la conquista militare dello Zaire di Mobutu.

u 1997, 17 maggio. Le truppe dell’Alleanza occupano la capitale Kinshasa. Kabila si autoproclama capo dello stato. Lo Zaire diventa Repubblica democratica del Congo. Però sono sospesi i partiti. Il 7 settembre Mobutu muore in Marocco: lascia ai familiari 6 miliardi di dollari. Ha depredato il paese per 32 anni.

u 1998, 27 luglio. Kabila, dopo aver ringraziato Uganda e Rwanda, li invita a lasciare il paese. Ma gli ex alleati dichiarano la seconda guerra in Congo (la prima fu contro Mobutu). Kabila resiste, sostenuto da Zimbabwe, Angola e Namibia. I paesi stranieri, presenti in Congo, mirano alle risorse agricole e minerarie del paese.

u 1999, luglio. A Lusaka (Zambia) le parti coinvolte nel conflitto in Congo firmano un accordo di pace che prevede: ritiro delle truppe straniere dal paese, rispetto della sua integrità nazionale, instaurazione della democrazia. Il «cessate il fuoco» non regge. Intanto gli Stati Uniti simpatizzano per l’Uganda e il Rwanda (che però si combattono), mentre la Francia ammicca a Kabila. Gruppi di ribelli congolesi fanno sapere che se, il paese verrà diviso (come si dice), sceglieranno la strada della guerriglia.

u 2000, 14 aprile. Ancora un «cessate il fuoco», firmato a Kampala (Uganda) da tutti i contendenti. Però il 5 maggio, alla periferia di Kisangani, soldati rwandesi e ugandesi si danno battaglia. I combattimenti proseguono nelle settimane successive; viene colpita anche la cattedrale: mille morti, migliaia e migliaia di feriti e numerosi abitanti senza tetto in balia della fame e delle epidemie.
Il 17 giugno il Consiglio di sicurezza dell’Onu intima l’ennesimo «stop» ai due belligeranti e il ritiro di tutte le forze. Ma l’anarchia politico-militare continua.

>b>Gli attori della tragedia

I n Congo la seconda guerra, scoppiata nell’agosto 1998 e tuttora in corso, ha causato numerose vittime. Le cifre sono assai confuse: si va da un minimo di 100.000 morti ad un massimo di 1.700.000. È uno scontro moderno e primitivo ad un tempo: con elicotteri, armi automatiche e aerei da bombardamento, ma anche con rozzi fucili e machete, mentre i soldati (talora ragazzi) sbucano dalla foresta. È pure un conflitto interafricano e mondiale.

p L’esercito di Kabila
conta 70 mila uomini, ma poco addestrati e mal pagati; però è sostenuto dalle seguenti nazioni:
– Zimbabwe (7-11mila soldati); la ricompensa è l’accesso alle miniere di diamanti;
– Namibia, che (sull’«esempio dello Zimbabwe») ha inviato 2 mila uomini;
– Angola: è con Kabila per debellare i guerriglieri dell’Unita (un tempo protetti da Mobutu), come pure per rendere più operativa la propria compagnia petrolifera «Sonangol-Congo»;
– Sudan: offre a Kabila aerei militari per bombardare i ribelli congolesi nel nord-est; ma il governo di Khartum smentisce.

p Il fronte contro Kabila
è più contradittorio; vi militano:
– tre gruppi di ribelli congolesi (10 mila soldati di Bemba, 10-15 mila di Ilunga e 4 mila di Wamba); Bemba, Ilunga e Wamba sono «signori della guerra»;
– i guerrieri congolesi mayi-mayi: operano nel Kivu e, protetti da un’acqua magica, si ritengono invulnerabili;
– le milizie degli hutu (diverse migliaia): già responsabili di massacri di tutsi in Rwanda nel 1994, oggi hanno in mano le miniere di diamanti di Mbuji Mayi;
– 9 mila soldati ugandesi: affermano di «essere costretti» a difendere le frontiere del loro paese; in realtà sono in Congo per accaparrarsi i suoi beni; appoggiano Wamba e Bemba;
– 10 mila soldati rwandesi: anch’essi «devono» proteggere il loro paese dai fuggiaschi hutu che hanno trovato rifugio in Congo; ai rwandesi si ascrivono saccheggi di chiese e atti di cannibalismo; appoggiano Ilunga.
Lo stato di anarchia in Congo raggiunge l’apice con gli ugandesi e i rwandesi che, mentre combattono Kabila, sono pure ai ferri corti fra loro. Di qui gli scontri a Kisangani, città strategica per lo smercio di preziosi.

I n questo tragico caos, l’8 maggio scorso la Segreteria di stato del Vaticano ha inoltrato alle Nazioni Unite, all’Organizzazione per l’Unità africana, all’Unione europea, alla Corte internazionale di giustizia… un documento, redatto a Roma da otto vescovi congolesi.
Il documento denuncia l’aggressione di truppe straniere, ritenuta «una nuova colonizzazione vergognosa»; sollecita l’intervento serio ed efficace della comunità internazionale, ma non con la vendita di armi. Al riguardo, sotto accusa sono Francia, Italia, Gran Bretagna, Belgio, Stati Uniti e Israele.
I vescovi, infine, stigmatizzano il tentativo di imbrigliare la chiesa «nelle ideologie delle diverse fazioni in guerra e di impedire ad alcuni pastori di esercitare il loro ministero». Il riferimento è a monsignor Emanuel Kataliko, vescovo di Bukavu, al quale i ribelli di Ilunga impediscono di rientrare nella sua diocesi.

Francesco Beardi




COLOMBIA – La pace sotto il tallone del narcotraffico

I colloqui tra il governo di Pastrana e le Farc di Marulanda stentano a trovare sbocchi concreti. Le truppe paramilitari (circa 6 mila uomini, responsabili di 3/4 degli omicidi politici della Colombia) proseguono la loro caccia all’uomo.
I «gringos» (gli Stati Uniti), per imporre la loro «pace», continuano a inviare armi e consulenti militari. Intanto il business (enorme) del narcotraffico condiziona
pesantemente ogni contendente. In questa situazione di confusione e incertezza, la guerra «sucia» (sporca) non si ferma.

Bogotà. L’hanno soprannominata «Farclandia», terra delle Farc (Forze armate rivoluzionarie colombiane). Si estende per 42 mila chilometri quadrati, tanto quanto la Svizzera o due volte El Salvador. Comprende 5 municipi, il più importante (San Vicente del Caguán) nel Caquetá, i rimanenti 4 (La Macarena, Vistahermosa, Mesetas e Uribe) nel Meta.
Juan José Olivarez Roja e Juan Domingo Varela sono missionari della Consolata argentini ed entrambi vivono nel territorio smilitarizzato, denominato «zona di distensione». Di passaggio nella capitale, i due padri parlano della nuova situazione. Quanto José è calmo, riflessivo, diplomatico, tanto Domingo è irruento e sanguigno (ha avuto problemi sia con la guerriglia che con i militari).
UNO STATO PARALLELO
Andrés Pastrana si è battuto per la creazione della «zona di distensione» come gesto concreto di buona volontà per iniziare i dialoghi per una soluzione pacifica del conflitto.
Il presidente ha trattato direttamente con Manuel Marulanda Vélez noto come «Tirofijo», vecchio leader delle Farc. Ma il ritiro dell’esercito colombiano da una zona tanto ampia non ha convinto tutti. Si parla di uno stato parallelo…
«Se tu, come straniero – spiega padre José -, vuoi entrare (con un minimo di sicurezza) nella zona di distensione devi chiedere il permesso alle Farc. A te non sembra che viviamo in uno stato parallelo? Personalmente credo proprio di sì».
«Le Farc hanno subìto una profonda trasformazione. Io non riesco a capire se c’è ancora una colonna vertebrale. Il vecchio Marulanda è tuttora la bandiera, ma ho la sensazione che ci siano fronti e relativi comandanti con idee diverse da quelle del leader. In tutti i casi, secondo me, c’è stata una involuzione ideologica. Contaminata dal narcotraffico, la guerriglia mi pare che lotti soltanto per conquistare il potere».
«Per ora più che un dialogo ci sono stati dei monologhi, con ogni soggetto impegnato ad ascoltare se stesso più che le ragioni della controparte».
«Pastrana – si intromette padre Domingo – ha portato la bandiera della pace più per calcolo politico che per convinzione. Per parte loro, le Farc stanno approfittando della zona di distensione per rinforzarsi militarmente, politicamente ed economicamente».
«Io invece – interviene José – non azzardo previsioni. Ci sono troppe variabili in gioco. E il cammino si sta facendo giorno per giorno».
UNA DIVISA PER FUGGIRE LA MISERIA
In un paese nel quale la filosofia maschilista (il «machismo») è ancora molto diffusa, si dice che nelle Farc le donne siano dal 25 al 35% degli effettivi.
I due missionari confermano il fenomeno. «Non solo le donne sono numerose, ma pare siano le più valorose al momento dell’attacco. Probabilmente aiutate anche dalla marijuana» spiega padre Domingo.
Secondo il settimanale Semana, nelle fila della guerriglia sono sempre di più i ragazzi di 13-14 anni. «È vero – risponde José -. Ma su questo punto occorre fare qualche distinguo. In queste società contadine essere bambini non ha lo stesso significato che in Occidente. Qui i bambini cominciano ad aiutare i genitori già a 5,6,7 anni. Quando arrivano a 13-14 anni sono ormai considerati degli uomini. Con ciò non sostengo che sia giusto o normale, ma è così».
«Il problema più serio – prosegue il missionario – è quello dell’attrazione che la figura del guerrigliero esercita sui ragazzi. Essi vedono che un guerrigliero ha autorità e viene rispettato dalla gente. Molti quindi scelgono di arruolarsi. La loro è una fuga dalla miseria quotidiana».
«COCALEROS» PER FORZA
Come in tutti i paesi latinoamericani, anche in Colombia il problema agricolo ha due aspetti: quello legato al latifondo e quello legato ai prezzi dei prodotti.
Per il primo soltanto delle effettive riforme agrarie potrebbero dare risultati. Il problema dei prezzi dipende invece dalle politiche imposte ai paesi del Sud. Si tratta di politiche neoliberiste che obbligano ad aprire i mercati nazionali a beneficio esclusivo delle grandi multinazionali agroalimentari. Queste possono tollerare le fluttuazioni dei prezzi (mais, caffè, ecc.), cosa che non possono permettersi i piccoli contadini. Il risultato è di spingere i campesinos verso le coltivazioni di canapa indiana (marijuana), papaveri da oppio e, soprattutto, coca, i cui mercati sono più stabili e redditizi.
«L’80 per cento dei contadini della nostra zona vive con i proventi della coca. In genere, sono buone persone, costrette a diventare cocaleros perché non hanno alternativa. La regione è abbandonata dallo stato, che non finanzia alcuna iniziativa economica, né costruisce le infrastrutture. Se un contadino vuole portare al mercato i propri prodotti (mais, yucca, banane, caffè), non ci sono le strade. E anche quando riesce ad arrivare ai mercati, i prezzi di vendita sono troppo bassi».
LA «VACUNA», L’IMPOSTA RIVOLUZIONARIA
Sulla ipotesi che la guerriglia si sia trasformata in narcoguerriglia i pareri sono molto discordanti. Gli statunitensi ne sono sicuri, mentre sono più cauti gli altri analisti. Secondo costoro, la guerriglia non dispone di una rete propria di import-export, né gestisce laboratori di trasformazione o di un sistema di riciclaggio del denaro.
Di certo c’è che, sui territori controllati dalle Farc, vige l’obbligo della vacuna («vaccinazione»), una sorta di imposta rivoluzionaria. «Gli allevatori, i produttori di legname, tutti la debbono pagare -spiega padre Domingo -. La chiesa, almeno fino ad ora, ne è stata esentata, perché ad essa viene riconosciuto un ruolo sociale».
«Ma vedrai – interviene José – che tra poco chiederà denaro anche a noi. Comunque, il grosso delle loro entrate proviene dalla coca. Io ho partecipato a riunioni delle Farc nelle quali i comandanti ordinavano alla comunità di vendere a loro tutta la coca perché avevano un compratore. Insomma, in un modo o nell’altro, la guerriglia ha a che vedere con il narcotraffico».
LE STRAGI DEI PARAMILITARI
Nel 1999 la Colombia è stato il terzo destinatario (dopo Israele ed Egitto) di aiuti militari provenienti da Washington.
«Gli Stati Uniti – spiega José – soffrono molto le conseguenze della diffusione della droga. Aiutando l’esercito colombiano essi sperano di ridurre la produzione di droga e, al tempo stesso, di eliminare la guerriglia».
Da più parti (pur sottovoce) si parla di un possibile intervento diretto delle truppe statunitensi. Per ora gli americani sarebbero stati frenati dal timore di creare un nuovo Vietnam.
«No – interviene padre Domingo -, un’invasione non ci sarà mai. Credo invece che ci saranno sempre più paramilitari. Armare questi ultimi è per gli Stati Uniti il modo più economico e meno pericoloso per intervenire».
Presenti in 350 dei 1.070 comuni colombiani, i paramilitari sono protetti dalle frange più oltranziste delle forze armate. Possono contare su una forza di 5-6 mila uomini, che concentrano la loro attenzione sui simpatizzanti (veri e spesso presunti) della guerriglia.
Negli ultimi anni la Colombia ha visto, in media, 30 mila assassinii l’anno. E la frontiera tra violenza comune e quella di origine politica è sempre più vaga. Tuttavia, viene calcolato che il tasso di omicidi politici si situi tra il 7 e il 10% del totale. Nel 1997, la banca dati del «Centro di ricerca e di educazione popolare» (Cinep, gestito dai gesuiti) e di «Giustizia e pace» indicava che i paramilitari erano di gran lunga i maggiori responsabili di omicidi politici: l’84% contro il 14% per la guerriglia e il 2% per l’esercito.
Sui paramilitari (e parte degli ambienti militari) pesa, inoltre, la responsabilità di aver fatto fallire, 15 anni fa, il primo importante progetto di pace. Il 28 maggio 1984 fu firmato un cessate il fuoco tra il governo di Belisario Betancur e le Farc. Venne fissato un periodo di un anno per permettere al movimento armato di organizzarsi politicamente. Nel novembre 1985 nacque la coalizione di sinistra denominata Union patriotica (Unione patriottica, Up), che partecipò con successo alle elezioni del 1986, guadagnando 350 consiglieri municipali, 23 deputati e 6 senatori. Ma la festa durò poco. Uno dopo l’altro, con una precisione e una metodicità diabolica, furono ammazzati migliaia di membri del partito.
IL PERICOLO MAGGIORE: LA NARCOMENTALITÀ
I gruppi paramilitari sono confederati sotto la sigla di «Autodifese unite della Colombia» (Auc), capeggiate da Carlos Castaño. Sono finanziati da imprenditori e latifondisti e, da qualche anno, anche dai proventi del narcotraffico, che ormai rappresenta la principale fonte di reddito per tutti i contendenti (vedi Cambio, «Las finanzas de los paras», 15 maggio 2000).
«Con il narcotraffico – conclude amaro padre José – la crisi sociale, la perdita di valori si è accentuata. Oggi domina la narcomentalità: prima di tutto il denaro facile, il resto importa poco».
(Fine – Le precedenti 3 puntate sono state pubblicate in marzo, aprile e giugno.)

I DATI (CONTROVERSI)
DELLA NARCOECONOMIA

Chi guadagna veramente dal business della droga?
Certamente non i campesinos colombiani. E perché
dimenticare le gravi responsabilità delle industrie
e delle banche statunitensi?

Secondo statistiche statunitensi, nel biennio 1997-’98 le coltivazioni di coca in Colombia sono aumentate del 28% (contro una riduzione del 26% in Perù e del 17% in Bolivia). Il 75-80% dell’offerta di coca a livello mondiale proviene dalla Colombia. Nel 1998 Bogotà ha esportato prodotti commerciali (come caffè, banane, petrolio, carbone) per 11 miliardi di dollari, mentre le esportazioni illegali di cocaina avrebbero fruttato 16 miliardi di dollari.
Per contro, secondo uno studio recente (L’economia colombiana dopo 25 anni di narcotraffico, Bogotà 1999), è vero che nel paese latinoamericano la produzione annuale di cocaina è aumentata (passando da 300 a 520 tonnellate), ma è anche vero che la gran parte degli utili rimane all’estero. Secondo la ricerca, il denaro della narcoeconomia oggi partecipa alla formazione del Prodotto interno lordo (Pil) della Colombia con una percentuale pari al 2% (dato sottostimato?) contro una del 17% a metà degli anni Ottanta. A parte il balletto delle cifre, nel business della droga ci sono pochi innocenti (e molti ipocriti). È risaputo, ad esempio, che il 90% delle sostanze chimiche utilizzate per la lavorazione della droga provengono dalle industrie statunitensi (si tratta di milioni di litri di prodotti chimici all’anno) e che le industrie di armamenti degli Usa sono i principali fornitori della Colombia. Inoltre, secondo l’«Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico» (Ocse), la metà dei proventi del traffico mondiale di droga (centinaia di milioni di dollari) transita per il sistema finanziario degli Stati Uniti.
Insomma, la guerra alla droga da parte degli Stati Uniti ha molti, troppi lati oscuri, rispetto ai quali sarebbe giusto mostrare qualche attenzione in più. A meno che gli Usa non debbano essere considerati attori super partes, a cui tutto è permesso.
Pa.Mo.

L’ambiguo ruolo degli Stati Uniti

«FARCLANDIA»
DIVENTERÀ UN NUOVO VIETNAM?

Mentre proseguono i colloqui tra governo e Farc
(e, a Cuba, tra governo e Eln), anche i paramilitari si dicono disponibili a trattare.

21 giugno 1998:
arriva Pastrana
Dopo 12 anni ininterrotti di governo del Partito liberale, alla presidenza della Repubblica viene eletto Andrés Pastrana, conservatore ed ex sindaco di Bogotà.

7 novembre 1998:
nasce «Farclandia»
L’esercito colombiano si ritira da 5 municipi: San Vicente del Caguán (Caquetá), La Macarena, Vistahermosa, Mesetas e Uribe (Meta). Una zona di 42.000 chilometri quadrati, grande come la Svizzera o due volte El Salvador. Nasce la zona di despeje, subito soprannominata «Farclandia», ovvero «terra delle Farc».

7 gennaio 1999: Pastrana e Marulanda
A San Vicente del Caguán (Caquetá) si incontrano il presidente Pastrana e Manuel Marulanda detto «Tirofijo», leader delle Farc.

23 settembre 1999: gli aiuti di Washington
Il presidente Pastrana rientra da Washington con in tasca la promessa di ricevere 1,6 miliardi di dollari in tre anni per affrontare il narcotraffico. In realtà, gli aiuti servono soprattutto per sconfiggere la guerriglia.

24 ottobre 1999:
«No mas» (Basta)
È la giornata della manifestazione nazionale per la pace. Scendono in piazza milioni di colombiani per chiedere la pace.

febbraio 2000: e se l’Europa…
Una delegazione colombiana (composta da membri del governo, rappresentanti del settore privato, dal commissario per la pace Victor G. Ricardo e dal comandante Raul Reyes, numero 2 delle Farc) compie un giro di studio e conoscenza per le capitali europee, Vaticano compreso. La speranza è di trovare nuovi interlocutori che riducano l’influenza nordamericana in Colombia.

1 marzo 2000: Carlos Castaño in Tv
Carlos Castaño, leader delle «Autodifese unite della Colombia» (Auc), per la prima volta mostra il proprio volto in un’intervista televisiva e si dice disponibile a trattare con le Farc e l’Eln.

28-29 maggio 2000:
la conferenza delle Farc
Nella foresta le Farc organizzano un convegno internazionale sulla droga.

30 luglio 2000: referendum
Il governo di Pastrana chiama i colombiani a votare per una radicale riforma parlamentare.
Pa.Mo.

A RISCHIO DELLA VITA
Come in ogni parte del mondo, ci sono magistrati che servono la giustizia
e altri che servono il potere.
In Colombia, chi rientra nella prima categoria non è sicuro di arrivare alla pensione.
Per questo, una Ong tedesca…

«Sono molti i membri del sistema giudiziario colombiano che chiedono aiuto e, a volte, i tempi per attivarsi sono veramente ristrettissimi: 24 ore per fare le valigie o per ritrovarsi con una pallottola in testa o una bomba sotto l’auto. L’ultimo caso è quello di una giudice che ha sospeso un gruppo di generali per evidenti implicazioni in casi di violenza e paramilitarismo. La donna è stata immediatamente accusata di connivenza con la guerriglia. Hanno dovuto nasconderla a Bogotà e, in poche ore, farla uscire dal paese cercandole asilo politico all’estero».
Stella lavora con un’organizzazione non governativa di Bogotà che offre aiuto ai giudici e alle famiglie di giudici vittime della violenza. L’Ong si chiama «Fondo tedesco di solidarietà» (Fondo aleman de solidaridad, Fasol) ed opera dal 1989.
In principio l’associazione era soprattutto assistenzialista (accompagnamento delle vedove, reinserimento delle famiglie, ecc). Poi sono stati attivati altri programmi: recupero psicologico delle persone, borse di studio per gli orfani, credito per aprire imprese familiari. Infine, ci sono i programmi di emergenza per i giudici minacciati che debbono abbandonare il paese. Attualmente Fasol sta seguendo circa 250 famiglie.
«Tante, vero? – interviene Stella -. In Colombia, il potere giudiziario non può essere libero e autonomo. Anche perché tutti i contendenti applicano la pratica sporca delle “infiltrazioni”: militari infiltrati nelle organizzazioni civili, paramilitari infiltrati nella guerriglia, guerriglieri infiltrati nell’esercito. A questo gioco non si sottrae la magistratura. Ecco perché per un magistrato è così pericoloso servire la giustizia».
Nel direttivo dell’associazione sono presenti membri laici e clericali. Tra tutti, va segnalato il «Centro di ricerca ed educazione popolare» (Centro de investigacion y educacion popular, Cinep), una meritoria associazione fondata dai gesuiti, la cui attività è da sempre nel mirino delle forze armate e dei gruppi paramilitari.
Per parte sua, Stella è arrivata a Fasol dopo altre esperienze «forti». Prima 10 anni di lavoro tra i gamines (il corrispettivo colombiano dei meniños de rua del Brasile), poi la perdita violenta di due fratelli (uno assassinato, l’altro «scomparso») e il trasferimento a Riobamba, in Ecuador, a lavorare con i missionari della Consolata.
Per chi non conosce la gravità della situazione colombiana, è sufficiente ascoltare le parole della volontaria di Fasol: «Ho un’amica – racconta Stella – che vive nella regione di Antiochia, dove è consuetudine formare famiglie molto numerose. In casa sua sono 18 fratelli. Ebbene, dei 9 che hanno studiato diritto 6 sono stati assassinati».
Pa.Mo.

Paolo Moiola




ETIOPIA – In questo paese benedetto da Dio

Non mancano
nella storia i filosofi
che cercano l’elemento primo dell’universo.
Aria, fuoco, acqua, terra?… L’articolista,
partendo da questi elementi comuni,
offre altre considerazioni.

TERRA
«Riempite la terra, soggiogatela e dominate…» (Gn 1, 28).
In questo paese «da te benedetto», hai un bel coraggio, caro nostro buon Dio, a chiedere alla gente di soggiogare la terra!
Sono loro, credo, ad essere sottomessi all’acqua, al fuoco e al suolo che calpestano. Passano la giornata chinati, zappando, pulendo sterpaglie, preparando la semina. Sono gente che aspetta la pioggia, perché questa irrighi il suolo e faccia crescere le messi.
Aspettano a lungo. Troppe volte, perché non ha piovuto, le sementi si sono perse. Il sudore, versato per il lavoro, non è stato sufficiente a far crescere qualcosa. Tutto è stato inutile, fatica sprecata!
I soldi pagati al padrone del terreno, i semi acquistati con tanto sacrificio sono andati persi per mancanza d’acqua.
Cosa mangeranno, caro buon Dio?
È rimasto niente, la terra è riarsa. Avevano speranza di raccogliere i frutti, ma anche questa è morta per mancanza di pioggia! Hanno i piedi sporchi di polvere nera:
perché non ti fai vivo, o Cristo,
e li lavi come facesti un giorno?
Toa ancora a farlo!
Tutti i loro sforzi sono stati spesi su terra di altri, pagando per l’uso.
Aspettavano un raccolto abbondante, sufficiente per tutti… ma non rimane nulla, neanche la terra!
Essendo affittata, è pronta per altri, loro non potranno pagarla di nuovo.
Questa terra ingrata, dopo avere accettato il lavoro delle loro mani, non ha dato frutto: ha «rubato» ai poveri, ha distrutto la speranza!
Hai un bel coraggio, caro nostro buon Dio, a dire alla gente di dominare la terra!
Io vedo, invece, che la terra li mangia, inghiottisce avida i morti di fame. Li copre di polvere, li dimentica presto perché fanno paura.
Questa terra crudele, sporca, insensibile… i bambini dei morti, impudicamente li copre di polvere nera.
I piccoli, o Dio, che tu hai benedetto, proclamato intoccabili.
Come osa la terra, la terra esserti infedele? Nelle lunghe notti, per un po’ di tempo li mantiene caldi, ma quando il fuoco si spegne, li abbandona al freddo pungente e prolungato. Nella terra sporca ci sono parassiti che invadono avidi i loro corpi insonni, rendendoli pidocchiosi e indecenti.
Al mattino si svegliano con i primi rumori; accorrono curiosi se sentono estranei, visite alle quali bisogna sorridere: un sorriso triste dai volti sporchi.
In questo paese «benedetto da Dio», la terra è avara, prende e non restituisce. Produce scorpioni, ragni velenosi e viscide vipere che vi strisciano sopra.
Ma a che servono queste creature per la povera gente?
I preti benedicono campi e sementi, pretendono grazie per le loro suppliche. Implorano Iddio che venga in aiuto con pioggia abbondante e pane per tutti.
Dio non ascolta! E qui, sulla terra, si sente soltanto il silenzio.
Ma questo Dio è soltanto dalla parte dei ricchi, i quali hanno tutto e non mancano di niente?
Il Dio dei poveri è un povero dio! Rimane soltanto la terra, avara e riarsa, che accoglie i cadaveri freddi, tentando di ridare il calore
rifiutato prima, quando aveva
negato i frutti promessi, quando – crudele – aveva spento la speranza.
Dove sei, o Dio, perché taci ora?
Fuoco
È tanto utile il fuoco che purifica l’oro e trasforma i cibi rendendoli gustosi. Il fuoco lava lo sporco con mani di fiamma, con le sue lingue ardenti. Ma l’oro è dei ricchi e il fuoco pure!
Per avere il fuoco ci vuole la legna, gas o carburanti, o la forza elettrica… ma ai poveri è negato l’accesso a questi beni, ai poveri rimane lo sterco di bue.
In questo paese «benedetto da Dio», lodato dai santi dell’Antico Testamento, i poveri raccolgono lo sterco ancora fresco e, come esperti vasai, lo trasformano in zolle. Essiccato al sole, sarà pronto per l’uso; bruciando in cucina, farà bollire l’acqua e scalderà i corpi stanchi quando andranno a riposo. Si vende al mercato, si baratta per del cibo. Lavorando lo strame, si guadagna da vivere; che dico «da vivere»? Si tira solo a campare! Permette agli umili di tirare avanti per un altro giorno.
In questo paese «benedetto da Dio», ci sono le donne…
ma perché soltanto donne?
Esse raccolgono legna, caricando sulle spalle tanto quanto pesano. Curve verso il mondo che le tiene in piedi, guardano per terra, sempre questa terra! Camminano svelte, quasi senza sosta, per molti,
lunghi, infiniti chilometri.
Ruminano in mente la fiacca speranza di vendere bene, cercando di essere le prime sul posto.
Non è generoso il compratore avaro. Il poco che le donne prendono non è neanche loro. Andrà in mano a genitori avidi, al marito o ai figli affamati:
loro ne hanno bisogno.
Per lei, la madre, ci saranno soltanto le briciole. E non è che volesse acquistare un capriccio, ma soltanto migliorare il cibo.
Domani… Ci sarà un domani?
Non sarà diverso, certo!
Ho visto queste donne che portano legna, chine sotto il carico pesante dei rami. Ho sentito vergogna di essere uomo. Io passo distante, staccato dalla loro vita, sollevando polvere e aggiungendola a loro che caricano il legno pesante.
È il Cristo che carica la croce, che porta i peccati del mondo.
Io faccio parte del mondo dei ricchi, le lascio passare, la loro indigenza mi scivola via: non è il mio compito!
E sento una voce, mai sentita finora: «Dalla tua spalla ho liberato il peso… (Sal 81, 7).
Lo dicevi al tuo popolo, schiavizzato in Egitto. Ora sono altri tempi! E io passo al largo.
Anche le ragazzine… sempre donne sono! Raccolgono foglie e rametti che, generosi, lasciano
cadere gli eucalipti. Di fronte al miracolo di queste creature, dovrebbero piegarsi e offrirsi in pieno alle loro mani, così maltrattate dal lavoro che fanno.
Dovrebbero seccare e, fattisi a pezzi per loro, nascondersi dentro al loro sacco.
Mi domando se basta un sacchetto di foglie e rametti a far bollire l’acqua, con cui si prepara il tè o il caffè.
Il fuoco, Signore…
Lodato sii, per fratello fuoco…
Fratello, lo chiamava Francesco, ma in questo paese «benedetto da Dio» è un fratellastro il fuoco dei poveri!

acqua
Sorella acqua…
In questo paese «benedetto da Dio» più che una sorella è un’ossessione. L’acqua non è mai vicina, né pura, né limpida. È un bisogno che si impone per primo, l’incubo notturno di donne e bambini: «Domani, di nuovo, dovremo tornare a prenderla al fiume, sporca com’è, fra tutte le bestie; o al pozzo comune, facendo la coda per ore infinite; oppure a scavare la sabbia del letto del fiume e rubarla quando appaia agli occhi».
Nell’incubo appaiono zoccoli enormi che tutto sporcano, sollevando la melma, spargendo il letame sull’acqua da bere, l’acqua benedetta che lava le mani.
E sognano anche dispettosi ragazzi che rubano il posto, versando a terra la preziosa merce raccolta con tanto sforzo.
Si sente stanchezza nei passi pesanti, che affondano dentro la polvere nera, nella sabbia che scalda la pelle indurita dei piedi. Si vede solo una strada, scaldata dal sole, senza confini (né davanti, né ai lati).
Arriva il mattino, spariscono i sogni; ci si sveglia presto e si vede ben chiaro che era tutto un incubo. Ma, purtroppo, sogno e realtà, realtà e sogno sono così simili per tanti abitanti di questo paese «benedetto da Dio».
«Tuo padre ha bisogno»:
scatta il comando da una madre già stanca, fin dal primo mattino. Recipiente in spalle, si parte rassegnati e ci si guarda attorno, cercando qualche compagna di viaggio con cui chiacchierare.
La strada è sempre quella, nessuna diversione. Qualche macchina passa e riempie tutto di polvere. Se si urta o si cade con la tanica piena, si riprende la strada, senza fare una piega.
Benedetta la plastica che resiste a ogni colpo e, se invecchia o si buca, è possibile ancora ripararla con il fuoco. Pesa molto meno della terracotta, quasi mai si rompe e non costa tanto.
Ne parlino pure male gli ecologisti: ma loro non sanno cosa significa farsi chilometri a piedi,
tutti i giorni, con un peso d’acqua sulle spalle!
Arrivati a casa, si cerca la mamma che prepari del tè e una fetta di pane. Ma si scopre, delusi, che è andata nei campi e bisogna aspettare. Delusione e pazienza
sono gli ingredienti della vita,
di ogni giorno per tanti abitanti di questo paese «benedetto da Dio».

aria
In questo paese «benedetto da Dio» vi chiedo un po’ d’aria per fare un respiro.
Quando guardo la gente affaticata, sento mancarmi il fiato,
mi assale la vergogna per i tanti beni che non ho guadagnato con il mio sforzo, che mi sono arrivati senza merito alcuno.
Datemi un po’ d’aria, per poter capire come mai tante persone di questo paese «benedetto da Dio» stanno così male, da farmi venire, in certe occasioni, la pelle d’oca soltanto a guardarli…
Voi che avete letto fino a questo punto, datemi una mano per poter capire e fare qualcosa, pur essendo grande il desiderio di tirarli fuori da tanta miseria.
Ditemi sinceri se, di fronte a loro, così malridotti, possiamo continuare a permetterci d’invocare Dio col nome di Padre.
«Padre nostro che sei nei cieli…».
E nella terra, dove?
E nel fuoco?
E nell’acqua?
Datemi un po’ d’aria!
Datemi una mano da offrire loro,
una mano
per tirarli fuori da tanta miseria!

UNA GUERRA TUTTA PAZZA

È incomprensibile agli stessi belligeranti. Ma non si tratta di rivendicazione di confine.
Sono in gioco poteri locali, indipendenza nazionale e futuro di tutto il corno d’Africa.

I nutile domandarsi chi ha torto e chi ha ragione. L’Eritrea appare come l’aggressore; ma la verità non è così semplice. Il problema comincia negli anni ’80, quando l’Eritrean people’s liberation front (Eplf) e il Tigrayan people’s liberation front (Tplf) combattono per liberare le rispettive province dalla dittatura di Menghistu. Sono entrambi socialisti; ma l’Eplf pende verso l’Unione Sovietica, il Tplf verso l’Albania.
Nel 1985 la tensione tra i due gruppi guerriglieri è diventata tanto incandescente che gli eritrei impediscono i rifoimenti dei viveri ai soldati tigrini in Sudan.
Nel 1988, quando si accorgono che, con i loro dispetti, rischiano di perdere la guerra, le due parti s’incontrano a Khartoum e appianano le loro divergenze. I tigrini suggeriscono di fissare i confini delle due regioni, ereditati dall’occupazione coloniale italiana. Ma gli eritrei dicono che prima bisogna finire la guerra, poi si vedrà.
Nel 1991 Menghistu è sconfitto. Il Tplf conquista Addis Abeba e il presidente Meles Zenawi comincia a disegnare la nuova Etiopia, che prevede autonomie etniche e regionali. L’Eplf entra in Asmara e il leader Issayas Afeworki si affretta a prendere le distanze dall’Etiopia: stacca i contatti telefonici col resto del mondo, perché vuole un prefisso internazionale differente da quello per l’Etiopia. Poi rimanda a casa i cittadini etiopici, impiegati nell’amministrazione: in due anni ne sono espulsi 150, comprese le mogli eritree e figli.
Nel 1993 l’Eritrea opta per l’indipendenza e l’Etiopia ne rispetta la scelta, sanzionata dal referendum popolare.

N el 1997 l’Eritrea sostituisce il birr, moneta etiopica in circolazione in entrambi i paesi, con la nuova valuta nazionale, il nafka. L’Etiopia rifiuta la parità tra birr e nafka ed esige pagamenti in dollari Usa. L’Eritrea alza le tasse di transito e dogana. L’Etiopia lascia il porto di Assab per quello di Djibuti. Il commercio va a rotoli; i prezzi alle stelle; i dispetti reciproci non si contano più.
Lo stesso anno l’amministrazione etiopica in Tigray pubblica nuove mappe della regione, includendo tre aree controverse della piana di Badme; comincia a piantare cippi di confine, espellere gli eritrei dai villaggi tigrini e distruggere le loro abitazioni.
Nel maggio 1998 quattro militari eritrei, accorsi a ispezionare le frontiere e dirimere le controversie, vengono uccisi dai miliziani tigrini. I carri armati eritrei invadono la regione di Badme, poi tutte le aree contestate. Un fronte che si estenderà per quasi 1.000 km. L’Etiopia risponde con cannonate e bombardamenti aerei, facendo vittime tra i civili. La diplomazia internazionale si mette in moto; ma ottiene solo un fragile cessate il fuoco. La stagione delle piogge blocca cannoni e carri armati. Ma comincia la guerra di propaganda. Intanto l’Etiopia comincia a cacciare dal paese i cittadini eritrei; alla fine del 1999 gli espulsi saranno 62 mila.

A lla fine di febbraio 1999 l’Etiopia riconquista Badme e, più a sud, Tsorona. Addis Abeba parla di «vittoria totale», ma a che prezzo! In un mese di combattimenti, dietro le trincee eritree rimangono insepolti circa 20 soldati etiopici e 100 carri armati distrutti.
Stati Uniti, Onu, Organizzazione per l’unità africana (Oua), vari paesi europei e africani intensificano le missioni diplomatiche per presentare piani di pace, chiedere la sospensione delle ostilità, far sedere Issayas e Meles attorno al tavolo delle trattative. I due contendenti non si vogliono vedere neppure in fotografia. Se uno accetta i piani proposti, l’altro trova i cavilli per rifiutarli e viceversa. E le scaramucce continuano lungo la frontiera centrale; varie incursioni di aerei etiopici bombardano le città di Massaua, Assab, Shambuko.

I l 2000 si apre con segni di speranza. L’onorevole Rino Serri, delegato dell’Unione europea nella ricerca di una soluzione politica del conflitto, riesce a riavviare le trattative, che si svolgono ad Addis Abeba (23 febbraio – 3 marzo). Il governo eritreo si convince a firmare incondizionatamente il piano di pace proposto dall’Oua.
Ma l’Etiopia, nonostante che milioni di persone nel sud del paese stiano morendo di fame a causa dell’ennesima siccità, continua la sua guerra, decisa a risolvere militarmente la partita. Il 13 maggio, vigilia delle elezioni politiche, l’esercito etiopico sferra un decisivo attacco su tutto il fronte, distruggendo villaggi, regioni e città. Gli eritrei si attestano sull’altipiano più interno per difendere la capitale. Addis Abeba afferma che non ha intenzione di conquistare l’Eritrea e che è pronta a riprendere i negoziati; ma vuole «trattare mentre combatte e combattere mentre tratta».

I l 18 giugno, ad Algeri, dopo due settimane di trattative indirette (cioè comunicando solo attraverso i mediatori) i ministri degli esteri di Eritrea ed Etiopia si sono trovati per la prima volta faccia a faccia e, davanti alle telecamere, hanno firmato il cessate il fuoco e si sono stretti la mano. Una forza di pace dell’Onu dovrebbe dispiegarsi lungo i confini, per una fascia di 25 km in territorio eritreo. Ma non è ancora la pace.
Intanto entrambi i paesi si leccano le ferite. Nessuno dei due rilascia cifre attendibili sul costo di questa guerra stupida. Si calcola che abbia fatto circa 100 mila morti e un milione di sfollati. Tutti e due gli stati hanno dato fondo alle proprie risorse per comperare armi e munizioni, bloccando il processo di sviluppo e scoraggiando gli investitori più affezionati. Mentre Addis Abeba spende 2 miliardi di lire al giorno nella guerra, paesi occidentali e organizzazioni umanitarie fanno fatica a chiedere cibo e medicine per salvare milioni di persone che muoiono nel sud dell’Etiopia.

A quando la pace? Sarà un processo complicato. Non sono in gioco i confini maltracciati dalle mappe coloniali, ma la sovranità nazionale, l’egemonia politico-militare regionale e il futuro dei due paesi. L’Eritrea vuole affermare la sua indipendenza a 360 gradi; Addis Abeba continua a sognare la «grande Etiopia», con l’Eritrea legata in qualche modo al proprio destino e uno sbocco al mare.
Benedetto Bellesi

Dalvador Del Molino




MOZAMBICO – Protetti persino da una suora

P adre Filipe Couto, mozambicano e missionario della Consolata, è l’attuale rettore dell’università cattolica del Mozambico (Ucm). Sorta per volontà dell’episcopato del paese e inaugurata a Beira il 10 agosto del 1996, l’università, nonostante le non poche difficoltà, è in continua espansione, come ci rivela questa breve intervista.

Lo scorso agosto, l’università cattolica del Mozambico ha inaugurato una facoltà di scienze bio-mediche nella provincia di Sofala, a Beira. Come mai?
Volevamo iniziare una scuola superiore di medicina, anche se esiste già una facoltà nella nostra capitale (Maputo). Però la chiesa e il ministero della sanità hanno compreso la necessità di avee un’altra per formare più medici che potranno curare i malati nelle varie province e distretti.
Abbiamo pochissimi medici mozambicani e il nostro paese è molto esteso; troppi studenti non possono uscire dal centro e dal nord del paese per andare nella capitale. Inoltre, è necessario incominciare una scuola superiore di medicina con un tipo di istruzione molto più adeguato alle necessità. Il tirocinio accademico e pratico dovrà essere svolto tenendo conto dei bisogni degli ammalati dell’Africa Australe: Sudafrica, Botswana, Namibia, Zimbabwe, Malawi, Zambia, Tanzania…

Chi vi assiste nell’esecuzione del progetto?
Dalla scuola superiore di medicina dell’Università di Wittwatersrand (Johannesburg – Sudafrica) due professori (Peter Gray e Adriano G. Duse) si sono impegnati a foirci un’assistenza. Essi cornordineranno tutto il progetto: l’anno preparatorio, il ciclo pre-clinico e clinico; accompagneranno anche il lavoro che stiamo facendo per trasformare l’ospedale centrale della città di Beira in clinica di insegnamento per gli studenti di medicina.
Attraverso i due medici, avremo anche l’assistenza di due professori della Scuola di medicina dell’Università di West Virginia (Stati Uniti).
L’attuale ministro della sanità in Mozambico, Francisco Ferreira Songane, quando era direttore dell’ospedale centrale, aveva lavorato insieme a noi per organizzare il programma. Adesso, da ministro, si sente impegnato ad appoggiare l’inizio e lo sviluppo del progetto. Anche la facoltà di medicina dell’Università statale «Eduardo Mondlane» collabora con noi.

Disponete di mezzi finanziari per iniziare, sviluppare e continuare il progetto?
Abbiamo un credito da un banchiere tedesco, senatore e console onorario del Mozambico in Germania, nella Baviera, Siegfried Lingel. La sua banca (Merkur Bank) ci ha concesso un prestito. Questo ha dato la possibilità di incominciare. Alcuni istituti missionari ci hanno appoggiato: la provincia italiana dei missionari della Consolata, la direzione generale delle missionarie della Consolata, la regione italiana dei missionari comboniani, una parrocchia della diocesi di Milano (il cui parroco, don Antonio Colombo, ha una sorella missionaria della Consolata che lavora in Mozambico). Inoltre, contiamo sul sostegno di un gruppo di Casatenovo (LC), costituito dalla famiglia e amici della dottoressa Graziella Fumagalli, trucidata in Somalia (dove era volontaria della Caritas e responsabile di un ospedale).
L’Organizzazione mondiale della sanità (Who) in Mozambico ci ha dato un piccolo sussidio per pagare i consulenti che vengono da fuori.
Quanto al futuro: l’Ucm è opera di Dio. Confidiamo soprattutto nella provvidenza di Dio, della Madonna Consolata, di san Giuseppe e tutti i santi: includendo una suora benedettina tanzaniana, deceduta nel 1950 e sepolta a Songea (Tanzania), suor Beadette Mbawala; questa suora ha protetto e continua a proteggere l’Ucm, specialmente la rettoria.
In secondo luogo, contiamo sulle tasse scolastiche degli studenti. Ognuno dovrà pagare annualmente il corrispondente di 1.000 dollari americani. La Facoltà di scienze bio-mediche riuscirà ad automantenersi nella misura in cui riusciremo a sviluppare un sistema di tasse scolastiche che, pur non avendo intenzioni lucrative, esiga il pagamento delle spese ordinarie.
Stiamo cercando dei crediti per compensare quello che, per il momento, non riusciamo ad avere con le nostre forze: ci sono delle banche locali e inteazionali disposte a dare dei crediti bonifici, rimborsabili a lunga scadenza e con interessi non troppo alti. Stiamo dialogando con diverse fondazioni ed istituzioni bancarie per ottenere altri fondi.

Oggi si parla del condono del debito ai paesi in via di sviluppo e… voi di debiti volete fae ancora!
La faccenda del condono del debito è complessa. Noi non potremo iniziare le nostre attività senza ricorrere ai crediti. Abbiamo avuto esperienze positive con la Facoltà di agricoltura dell’Ucm, che già stà funzionando da due anni nella provincia del Niassa, a Cuamba.

Con quanti studenti e docenti avete iniziato?
Ci sono circa 100 studenti nell’anno preparatorio. Quanto ai docenti: ho già menzionato i professori di Wittwatersrand e West Virginia. Avremo anche due medici missionari comboniani: il medico-prete Elias Arroyo e la medico-suora Donata Pacini; entrambi hanno un’esperienza di molti anni nel campo sanitario in Mozambico. Dall’università del paese vicino (lo Zimbabwe) avremo altri docenti.
La Vso (Voluntary Service Overseas) dell’Inghilterra invia tre docenti e il Dog (Dienst Over Grenze) dell’Olanda altri due. Dal Ministero della sanità, dall’ospedale centrale di Beira e dall’università statale «Eduardo Mondlane» provengono dei mozambicani, che lavoreranno con gli esperti venuti da fuori.

Non sarebbe stato meglio incominciare, più modestamente, con una Scuola superiore di infermieri e agenti di sanità pubblica?
In Mozambico ci sono già degli istituti per la formazione di infermieri; ne abbiamo uno persino qui a Beira, nel recinto dell’ospedale centrale. Abbiamo anche istituti di sanità pubblica a Maputo e a livello provinciale, con corsi particolari.
Una nota: il nostro progetto si chiama «Facoltà di scienze bio-mediche». La denominazione significa che, in questa facoltà, l’approccio dell’istruzione ha componenti fondamentali di sanità pubblica. Durante i corsi alcuni studenti potranno cambiare e decidere di formarsi come infermieri. Comunque la facoltà di scienze bio-mediche dell’Ucm punta sulla formazione di medici.
Purtroppo in Mozambico ci sono moltissimi ammalati senza assistenza medica.

Giacomo Mazzotti




COLOMBIA – Quando volano missili e pallottole

La guerriglia attacca i municipi dove sono presenti distaccamenti
di polizia. Tra l’esercito
e le Farc è in corso una
guerra di logoramento che
sembra non avere mai fine.
Ma la gente, per la quale tutti dicono di combattere,
è stanca e lo fa sapere.
Come a Caldono, piccolo centro agricolo vicino
a Santander de Quilichao, dove gli abitanti hanno appeso delle bandiere bianche davanti
alle porte delle loro case. Non in segno di resa,
ma per chiedere finalmente un po’ di pace.

La stazione di polizia è come un castello medioevale di brutta fattura. La costruzione, tozza e squadrata, si trova nella parte alta del paese, sovrastando le piccole case circostanti. Al posto dei merli e del mitico fossato ci sono delle maglie metalliche che avvolgono le entrate e la terrazza, posta sul tetto. Un estraneo che veda una siffatta costruzione non può che rimanere perplesso. Almeno finché non conosce la storia.
La stazione è un «castello assediato». Gli assalitori sono i guerriglieri delle Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia. Negli ultimi due anni ci sono stati 4 attacchi. «L’ultimo è durato 15 ore ed ha fatto molti danni, ma come potete vedere ha lasciato intatto il bunker della polizia». A parlare è padre Orlando Hoyos, missionario della Consolata. Assieme a padre José Jesus Ossa, è responsabile della parrocchia di Caldono.
Con lui percorriamo le vie, apparentemente tranquillissime, di questo piccolo paese del Cauca, non distante da Santander de Quilichao. Ma chiunque si accorgerebbe che è una calma apparente. Basta guardare la filiale della Caja Agraria, la locale cassa rurale, con i muri crivellati di colpi d’arma da fuoco.
Molte delle case costruite sotto o a fianco della caserma sono ridotte in macerie, quasi avessero subìto un bombardamento. «In effetti è così – ci spiega padre Orlando -. Queste sono le conseguenze della caduta delle cosiddette pipas de gas, lanciate dai guerriglieri». Con questo nome vengono indicati dei cilindri ripieni di gas che le Farc usano come missili rudimentali e a buon mercato. «Purtroppo, le pipas non possono essere guidate sul bersaglio. Le traiettorie che esse assumono sono imprevedibili».
Nel corso dell’ultimo attacco ne sono state lanciate ben 22. Alcune di esse sono cadute su una scuola gestita dalle suore laurite. Avrebbero potuto fare una strage. Invece, è morta «soltanto» una suora, a causa di una scheggia vagante. Ora la scuola è fuori uso perché tutto il tetto è crollato. Finalmente diventa chiaro il significato di quelle maglie metalliche, poste attorno alla stazione della polizia. Servono per «respingere» le pipas dirette sul bersaglio.
Poco distante dall’istituto religioso, sopra la finestra di una casa è stato appeso uno striscione di stoffa dipinto a mano. Accanto ad una piccola colomba bianca, una grande scritta dice: Caldono unido por la paz, Caldono unito per la pace. Ma questo non è l’unico segno contro una guerra che si trascina ormai da troppi anni. Davanti alle abitazioni sventolano infatti delle bandierine bianche, quale esplicita richiesta di pace.
Come sempre, tutti dicono di combattere per il «bene» del popolo, che in effetti se la passa proprio male. «La gente – ci spiega padre Orlando – conduce un’esistenza di assoluta precarietà. Vive alla giornata. Mangia quello che coltiva. Ma ha poca terra e molti figli… Alcuni campesinos producono caffè e sisal (una fibra tessile usata per fare sacchi, stuoie, corde). Però i prezzi sono sempre molto bassi e il poco denaro che ricavano lo hanno già impegnato con i commercianti».
Il centro di Caldono è abitato in prevalenza da meticci e bianchi. La maggioranza della popolazione è india nasa, ma vive nelle campagne circostanti. «Adesso – racconta il missionario – anche lì sta arrivando la luce e l’acqua. Le famiglie indigene credono che sia un bene, ma in realtà è proprio l’opposto. I servizi costano e gli indios soldi non ne hanno».
Anche in Colombia i principi neoliberisti hanno attecchito. Chiediamo come le famiglie povere (che sono la grande maggioranza) affrontino bisogni primari quali la salute e l’educazione. «Tra gli indigeni – spiega padre Orlando – molti bambini non vanno a scuola. È vero che l’educazione pubblica costa ancora poco, ma ci sono le spese per l’uniforme, i quadei, le penne. Questa cosa li blocca e così, quando va bene, sono costretti a fare i tui tra i bambini. Per esempio, due anni per ciascuno. In pratica, un paio di figli vanno a scuola, gli altri ad aiutare nei campi o in casa. E possono avere anche soltanto 5 o 6 anni…».
Né la situazione è migliore nel campo della salute. «Sì, purtroppo anche questa rappresenta un grave problema. A volte gli indios debbono lasciare morire i figli, anche se le malattie sono curabili. A Caldono c’è una specie di ospedale, che però non ha degenza e non fa interventi chirurgici. Gli indigeni hanno diritto all’assistenza gratuita. Poi, comunque, vengono prescritte loro delle medicine, che non possono acquistare non avendo i soldi per pagarle. Quando c’è qualcosa di serio, vengono invitati ad andare all’ospedale di Cali. Ma ben pochi, nonostante la vicinanza, possono permettersi di andare in città e allora, pur malati, se ne tornano a casa…».
Intanto, presi dalla conversazione, abbiamo camminato fino all’entrata di Caldono. Qui è stato costruito un capannone industriale con tanto di piscine ed impianti chimici. Un gigantesco cartellone spiega: «Industria pilota per la trasformazione dell’agave. Progetto colombo-italiano». Non facciamo in tempo a provare un moto di simpatia e gratitudine verso l’Italia, che padre Orlando fredda ogni entusiasmo: «La fabbrica è chiusa da anni. Anzi, a dire il vero, non ha mai aperto».
Nel frattempo il mercato dell’agave (dalle cui foglie spinose si ricava il sisal) è crollato. Ma la fabbrica-fantasma è rimasta, a futura memoria, monumento allo spreco, alla corruzione e a un certo tipo di cooperazione internazionale che fa arrossire dalla vergogna.

La piazza di Caldono sta a metà tra la parte alta e quella bassa del paese. È una piazza rettangolare che al centro ospita un piccolo parco con alberi d’alto fusto. Su essa si affacciano tutte le istituzioni ufficiali. Ci sono il municipio, l’ufficio dei produttori di caffè, la compagnia dei telefoni. E c’è la chiesa dai colori pastello con a fianco la casa parrocchiale.
Sul lato della piazza tutto sembra in ordine. Ma, girato l’angolo, i danni prodotti dalle pipas de gas sono ben visibili. Il muro della casa parrocchiale è deformato, porte e finestre sono state distrutte, il tetto è crollato.
«No, non ce l’avevano con noi. Volevano colpire la caserma della polizia. Guardate com’è vicina -spiega padre Orlando facendo un cenno con la mano -. Saranno poche decine di metri… Di solito, i guerriglieri rispettano chi lavora con la gente comune. Magari non condividono una parte delle nostre idee, ma tollerano la presenza della chiesa e di noi sacerdoti».
Entriamo nella casa parrocchiale. Questa accoglie i visitatori con un bel patio verde, sulle cui pareti sono state disegnate scene evangeliche viste con gli occhi degli indigeni. Ma anche all’interno i danni del bombardamento sono ben visibili. Un’intera ala dell’edificio è inservibile perché pericolante. Anche la camera del nostro accompagnatore è andata distrutta. «Ma io non c’ero» scherza padre Orlando.
Poi ci conduce a vedere la sua nuova stanza, posta al pianoterra, sul lato della piazza. Qui è sicuro?, chiediamo. Insomma… Tempo fa una pallottola ha bucato la porta di legno e si è conficcata nel muro. «Ma non possiamo abbandonare questa gente al suo destino. Bisogna accompagnarla. È nostro dovere stare con loro». Ci sarà una nuova azione delle Farc contro il «castello» della polizia? «Questa è una certezza – risponde con tono pacato padre Orlando -. Non si conosce mai il giorno dell’attacco, tuttavia prima che esso avvenga nel paese iniziano a girare “voci”. E allora ci si prepara…».
(Terza puntata – Continua)

Paolo Moiola




COLOMBIA – Non staremo a guardare

INDIOS COOMBIANI A CONVEGNO

La Maria – Sulla collina, proprio a fianco della Panamericana, sventolano due enormi bandiere: quella della Colombia e quella rosso-verde del «Consiglio regionale indigeno del Cauca» (Cric), il principale organizzatore del convegno a «La Maria». Un convegno a cui è stato dato un bel titolo: Del silencio a la palabra, Dal silenzio alla parola.
Sulla stradina che funge da entrata è schierato un cordone di guardie indie, riconoscibili da una fascia legata al braccio. Sono armate soltanto di un bastone, lungo 40-50 centimetri. Perquisiscono tutti, perché non debbono entrare coltelli e, men che meno, armi. Compito titanico, se verrà rispettata la previsione di 10-15 mila persone al giorno.
Ci incamminiamo per i sentirneri del resguardo che ospita il convegno; fino a poco tempo fa, le terre de «La Maria» erano un latifondo. Incontriamo subito un folto gruppo di guambianos, tra i pochi indigeni ad aver conservato il loro originario modo di vestire (che, tra l’altro, prevede anche per gli uomini una sorta di gonna). Nei campi ci sono moltissime tende, quasi tutte piuttosto approssimative, coperte alla meglio con teloni di plastica. Ogni villaggio ha preso possesso di un piccolo lotto di terreno, dove ha piantato le proprie tende e sistemato i pentoloni per cucinare. Anche perché il convegno degli indigeni colombiani durerà 3 giorni.
Dopo il giro di perlustrazione, ci dirigiamo verso il luogo dove si terrà l’assemblea vera e propria. È un’ampia tettornia sotto la quale sono stati sistemati il palco e le sedie per gli invitati più importanti, protetti da un servizio d’ordine efficiente e discreto. Si inizia con il canto di due inni, quello della Colombia e quello del Cauca. Quest’ultimo parte così: «Io che sono figlio del Cauca…».
La corrente elettrica va e viene, ma per il resto l’organizzazione regge l’impatto di un pubblico, numerosissimo, ma composto, che ascolta con attenzione e partecipazione. Sul palco si alternano i dirigenti delle varie organizzazioni indigene colombiane, ma anche politici e rappresentanti dei sindacati e delle università. Sono tre le parole che ricorrono in tutti gli interventi: pace, giustizia, partecipazione. E la gente applaude, convinta.
Tra gli invitati spicca un gruppetto con delle magliette bianche, che sul retro portano una scritta in caratteri blu: «I familiari degli agenti di polizia e dei soldati detenuti dalle Farc sono presenti». Nelle mani dell’organizzazione ci sarebbero almeno 400 persone, ostaggi dei guerriglieri.

Lo raggiungiamo mentre scende dal palco. Marco Tulio Chirimuscay è il presidente del Cric. «Con questo raduno delle varie associazioni indigene – ci dice un po’ impettito, orgoglioso di avere tanti occhi addosso – vogliamo far arrivare agli organismi competenti la nostra proposta di pace per una convivenza civile di tutti i colombiani. Siamo soddisfatti per la vasta partecipazione. Ciò dimostra, ancora una volta, la preoccupazione e l’interesse di tutti che finalmente si arrivi ad un’intesa sul tema della pace».
I rappresentanti della guerriglia, pur invitati, non si sono fatti vedere al convegno de La Maria. Chiediamo a Chirimuscay come mai i rapporti tra indios e Farc siano tesi. «La guerriglia infrange i diritti delle comunità indigene, occupando i resguardos, condizionando l’autonomia, interferendo nell’organizzazione di base. Senza dimenticare di quando i guerriglieri portano via i nostri giovani per arruolarli a forza nelle loro fila».
Gli indios contestano anche il governo di Bogotà… «Noi non condividiamo la politica economica del governo colombiano. La scelta neoliberista ha generato un gran numero di cittadini senza lavoro e senza futuro. E poiché lo stato non garantisce nessuna prospettiva economica e nessuna sicurezza, crescono a dismisura la delinquenza comune, la guerriglia, i paramilitari e il narcotraffico».
A proposito di coca, marijuana ed amapola, che ne pensano i dirigenti indigeni? «Noi non giustifichiamo le coltivazioni illecite – risponde il presidente del Cric senza mutare il tono della voce -. Siamo coscienti che è un grave problema per la società. In ogni caso, esse vanno contro la cultura, etica e morale delle nostre comunità indigene. Quando dei nostri fratelli si dedicano alle coltivazioni illecite, lo fanno per pura sopravvivenza. Insomma, è una questione di povertà e niente di più».
Chirimuscay, cosa avete voluto dimostrare con questo raduno? «C’è una convinzione generalizzata in base alla quale in Colombia non ci sarebbe nessuna organizzazione sociale al di fuori di quelle riconosciute dalla politica ufficiale. Invece, e voi lo potete vedere qui a La Maria, esistono organismi di base che da tempo si battono per una soluzione non violenta di questa guerra. Quello che mi dispiace evidenziare è l’atteggiamento distaccato del governo da queste voci della società civile. Escludere la gente dal processo di pace significa perdere un’opportunità incalcolabile».
Dall’ottobre 1999 sono in corso dialoghi tra il governo Pastrana e le Farc. Poi ci sono le iniziative della società civile e le vostre. Tutto il quadro politico è in movimento. Si arriverà un giorno a pacificare la Colombia? «Sarà un processo lento, sofferto e complicato».

Comincia a imbrunire. Mentre sul palco parlano gli ultimi oratori, tutt’intorno, sotto le tende, è un fervore di attività. I più impegnati sono coloro che debbono preparare la cena. Le donne controllano i grossi pentoloni scuri in cui ribolle la zuppa, gli uomini rigirano sul fuoco gli spiedini di carne. Oggi si mangia bene, perché per gli indios colombiani è una giornata di festa.
Pa.Mo.

Paolo Moiola