BURUNDI – Via dalla mia terra

Nel calderone dei Grandi Laghi africani, il Burundi continua a mietere le sue vittime. Anche tra i missionari italiani. In quattro mesi, due sono stati uccisi (Antonio Bargiggia e suor Gina Simionato) e un terzo gravemente ferito (don Carlo Masseroni). Chi resta si domanda perché e chiede giustizia. Nel frattempo, l’assassinio di Kabila (16 gennaio), presidente del vicino Congo (rd), ha reso più instabile tutta la regione. Qualcuno parla anche di una «Repubblica dei Grandi Laghi», sotto controllo ruandese…

Quel mattino stavo andando a Murayi a 25 chilometri da Gitega, la seconda città del Burundi. Un amico mi chiama sul telefono portatile: «Pare ci sia stato un attacco vicino a Kibimba, ne sai niente?». Ero a tre chilometri dal posto.
Cerco di informarmi e mi accosto alla posizione militare di un campo di déplacés (sfollati, a maggioranza tutsi, che vivono in villaggi artificiali lungo le strade principali). Il soldato conferma: «Sì, è successo qualcosa, ma non c’è problema, non ci sono scontri in corso nella zona. Continuate pure. Nessun rischio». Sta per proseguire a piedi quando, tornato in dietro, in modo un po’ beffardo mi guarda e rivela: «È stato ucciso un muzungu (bianco), ma la situazione è sotto controllo».
In Burundi muoiono ogni giorno decine di persone a causa della guerra. Civili uccisi dalla guerriglia; contadini che cadono nelle rappresaglie dell’esercito regolare, altri presi tra i due fuochi. Ma, quando la vittima è uno straniero, il significato è molto più forte. È un messaggio che qualcuno vuole mandare.

È il tre ottobre scorso, quando Antonio Bargiggia, volontario laico consacrato, si ferma ad una barriera sulla strada che ogni settimana percorre per raggiungere la capitale.
Qualche discussione con i quattro uomini che lo hanno fermato. Poi uno finge di andare verso la parte posteriore dell’auto, si gira e gli spara un colpo alla nuca. I suoi compagni di viaggio (tre burundesi) fuggono incolumi.
Fratel Antonio (così era conosciuto in Burundi) era nel paese da 20 anni. Apparteneva a «Fratelli dei poveri», gruppo di religiosi e laici di Milano riconosciuto dal cardinal Martini. Da alcuni anni viveva a Buterere, uno dei quartieri più poveri della capitale. Zona di case di fango e lamiera, che ogni sera alle sei viene «chiusa»: nessuno può entrare o uscire fino al mattino dopo. Abitava in una casa burundese, come i burundesi più umili. Caso unico per un muzungu in questo paese.
«Antonio era una persona che mi incantava per la sua umiltà e per il saper stare con i locali. Era l’unico a preoccuparsi anche dei soldati. Diceva: “Poveri ragazzi, anche loro soffrono ma nessuno li considera”. Come apostolato, seguiva all’ospedale militare i feriti senza parenti, portando loro conforto». È la testimonianza di un volontario italiano, subito dopo l’accaduto. Eppure sono stati quattro giovani militari sui vent’anni gli esecutori.
Fuggiti con la sua macchina (strano errore, forse erano certi dell’impunità garantita dal loro mandante), sono stati arrestati un’ora dopo. Il governo si è subito preoccupato di affermare che erano disertori. Dopo un processo sommario, uno di loro (quello che aveva premuto il grilletto), è stato fucilato davanti ai suoi compagni e alla gente di Gitega.

Quindici ottobre. Verso le sette del mattino, la macchina delle suore Dorotee di Venezia lascia il seminario maggiore di Songa, nei pressi di Gitega, per dirigersi alla parrocchia di Gihiza dove le suore abitano. Il giorno prima erano venute a dormire al seminario, perché c’erano «strani movimenti» intorno alla missione. Poco prima di arrivare vedono un gruppo di persone sulla strada. Partono alcune raffiche di mitra che investono suor Gina Simionato, unica italiana, al volante. La suora trevigiana è colpita al volto e muore sul colpo. Delle tre consorelle burundesi che la accompagnano, una si fa un graffio. Si dirà che la macchina è caduta in un attentato dei ribelli che hanno sparato all’impazzata. Osservando la vettura, risulta invece chiaro che i colpi erano tutti indirizzati al guidatore muzungu. Un proiettile ha lasciato un buco molto grosso nella carrozzeria posteriore: non si trattava forse di un semplice kalashnikov.
Al contrario dell’attacco di Kibimba, qui non si scopre chi sia l’autore. L’accusa cade subito sui ribelli che da alcuni giorni girano nella zona. Ma l’attentato è avvenuto a circa cinque chilometri da una posizione militare e le testimonianze lasciano molti dubbi sulla cronologia esatta dei fatti. «Non sembra lo schema utilizzato dalla ribellione», confida un giornalista della capitale. Possono essere stati i militari, ma anche le bande di estremisti tutsi, già famose a Gitega, pilotate da un potere nascosto ma presente ed efficace, che forse sta riacquistando consensi a causa della situazione politica.
Il Burundi è devastato da una guerra civile dal 21 ottobre del 1993, quando il primo presidente democratico, l’hutu Melchior Ndadaye, fu arrestato e ucciso da un gruppo di militari estremisti. Da allora l’esercito, a maggioranza tutsi (oggi però, per mancanza di forze, esso impiega anche molti giovani hutu), e diversi gruppi armati ribelli a dominante hutu, si scontrano. O meglio, saccheggiano e massacrano la popolazione civile dei due campi.
Dopo diversi tentativi di pacificazione, Nelson Mandela, mediatore della crisi burundese dal dicembre 1999 (succeduto allo scomparso Julius Nyerere), è riuscito a portare 19 partiti burundesi a siglare un accordo-quadro il 28 agosto scorso ad Arusha, in Tanzania. La debolezza di questa firma sta nel fatto che molti partiti (soprattutto quelli legati all’estremismo tutsi) hanno firmato con riserve. Questo vuol dire che tutti i passi più importanti sono da ridiscutere e negoziare (presidenza di transizione, rappresentanza etnica nell’esercito, nella giustizia e nell’amministrazione). Ancor peggio: nonostante gli sforzi di Mandela, i due maggiori gruppi ribelli hutu, le «Forze per la difesa della democrazia» (Fdd) e le «Forze nazionali di liberazione» (Fnl), quelli che hanno gli eserciti sul campo, non erano presenti ai negoziati che hanno portato alla firma.
Incontri diretti tra il presidente della repubblica, il maggiore Pierre Buyoya, e il leader dell’Fdd, Jean-Bosco Ndayikengurukiye sono in corso in Sudafrica e potrebbero portare a qualche passo positivo. Nel paese, però, domina la paura. Paura dei tutsi che, come minoranza, temono un esercito misto, perché le forze armate burundesi, guidate da ufficiali tutsi, soprattutto del sud, sono la loro unica vera garanzia di non essere prevaricati dall’80-85% hutu e di mantenere i loro privilegi. Paura del popolo contadino a maggioranza hutu, che subisce sempre più i saccheggi della guerriglia e le rappresaglie dei militari. Paura dei pochi intellettuali hutu delle città, che rischiano di essere presi di mira, come è già successo in passato.
Per questo, dal 28 agosto le azioni di guerra, invece che diminuire, si sono intensificate. Da un lato i guerriglieri sono tornati a far sentire le armi, per mostrare il loro potere negoziale, dall’altro cresce il malcontento tra gli ufficiali dell’esercito che si oppongono alla firma e le frange estremiste tutsi hanno ripreso a organizzarsi. «Il tempo è poco – racconta un membro della delegazione governativa ad Arusha – il presidente potrebbe avere problemi a tenere calmi i vertici militari ancora per molto. D’altro lato i ribelli sono ben equipaggiati anche grazie al loro intervento in Congo e non hanno tutta questa voglia di scendere a patti». Kinshasa fornisce all’Fdd di Jean-Bosco armi e protezione, in cambio l’armata ribelle difende il fronte a Lubumbashi (capitale dello Shaba, nel sud) contro l’avanzata dell’esercito regolare burundese. Una guerra con caratteristiche sempre più regionali.
L’assassinio di Kabila, in Congo, il 16 gennaio scorso, ha l’effetto di sbilanciare ancora di più l’instabile equilibrio dei Grandi Laghi. Gli alleati burundesi del defunto presidente congolese si trovano ora in una posizione di svantaggio, perché viene loro a mancare un partner importante. Sentendosi meno forti potrebbero essere più disponibili a trattare. D’altro lato, il governo del Burundi (ma soprattutto gli estremisti tutsi) si irrigidiranno, forti della scomparsa del nemico di Kinshasa. Andando oltre, gli eserciti ruandese, ugandese e burundese, che occupano e saccheggiano quasi la metà della Repubblica democratica del Congo, potrebbero, ancora una volta, avanzare verso la capitale, oppure tentare l’annessione formale dei vasti territori occupati.
Già da tempo si parla di una fantomatica «Repubblica dei Grandi Laghi», sotto il controllo ruandese.

Intanto, in Burundi, si cercano ancora delle risposte. «Ma perché questi attacchi a religiosi italiani?». Si chiede un missionario da anni nel paese. «Se contiamo anche la pallottola sparata a freddo in faccia a don Carlo Masseroni (missionario fidei donum di Novara), vivo solo per miracolo, a luglio, siamo già a tre: tutti con modalità simili». Già, perché? Non è la prima volta (nel settembre 1995 due padri saveriani e una volontaria furono giustiziati a casa loro dai militari). Perché sono testimoni scomodi, perché lavorano a fianco della popolazione più abbandonata e sono tra i pochi a sapere e, a volte, a denunciare, in questo paese dove la stampa è ancora imbavagliata. Ma anche perché spesso sono gli obiettivi più facili e indifesi.
Fratel Antonio era a conoscenza di molti problemi di Buterere, tra cui questioni di terra. Don Carlo aveva riconosciuto i militari che, per la seconda volta in pochi mesi, erano tornati a rubare alla missione. Chi ha ucciso fratel Antonio era stato visto il giorno prima, nello stesso luogo, a informarsi sui movimenti dell’italiano. Allo stesso modo, alcuni sconosciuti chiedevano quando sarebbero tornate le suore, i giorni precedenti all’imboscata di Gihiza.
Ma secondo altri (per prima la comunità internazionale) «sono casi isolati di banditismo, senza nessuna relazione tra loro»; a scopo di furto, è la tesi più accreditata, quando invece i religiosi non avevano soldi addosso. Addirittura si sente dire: «Le vittime viaggiavano a orari non conformi alle norme di sicurezza, nei quali il governo burundese non può garantire la protezione degli stranieri».
Questi sono i ragionamenti di chi vuole archiviare il caso e non creare problemi ai propri partner governativi. I media locali non danno spazio a questi gravi fatti (soprattutto il secondo passa sotto silenzio) e gli operatori umanitari di Nazioni Unite e organismi inteazionali non ricevono (tranne quelli italiani) particolari consegne di sicurezza.

Tra i religiosi e volontari italiani si accusa il colpo. Molta tristezza, condivisione, ma anche un po’ di remissione: «È la vita dei missionari», confida un’anziana suora. «Vanno bene i martiri, ma vogliamo pure giustizia», replica un missionario laico.

Marco Bello




ECUADOR – Un “alito” di salute

È arrivato a buon termine il sogno
di un ospedale,
nato per gli indigeni
e costruito grazie
a un medico generoso.
Piccoli miracoli di ordinaria «provvidenza».

È stato finalmente inaugurato, nel mese di giugno 2000, nella missione di Punín (Ecuador), alla presenza di varie autorità, missionari e indios delle diverse comunità, l’ospedale «La Consolata». E ha avuto pure l’onore della cronaca di vari giornali locali.
Prima della cerimonia, il vescovo, monsignor Victor Corral, ha celebrato l’eucaristia come ringraziamento per la creazione di questa opera veramente necessaria.
Padre Davide Manca, missionario della Consolata, ha spiegato come il progetto, ideato nel 1996, sia diventato realtà grazie alla collaborazione del dottor Riccardo Grifoni. Questi, «scosso» da un articolo pubblicato su una rivista missionaria, si è dato da fare… e sono arrivati i finanziamenti dell’Associazione di volontariato «Alito» di Ancona. I lavori, iniziati nell’aprile 1999, si sono conclusi alcuni giorni prima della festa della Consolata e dell’inaugurazione (20 giugno 2000).
La costruzione, che ha avuto un costo di 65.000 dollari, verrà in aiuto non solo agli indigeni di Punín, ma anche a quelli di San Luis, Cebada, Flores e di altre comunità dei dintorni. Costoro avranno, d’ora in poi, l’opportunità di tenere sotto controllo la propria salute e a costi piuttosto contenuti; inoltre, come ha detto il dottor Carlos Torres, uno degli ideatori dell’opera, «saranno firmati accordi con altre istituzioni per puntare l’attenzione non solo sui malati, ma anche sulla prevenzione delle malattie».
Questi i dati scai di cronaca. Ma, per arrivare al giorno dell’inaugurazione, occorre partire un po’ più da lontano…

I n quel tempo (cioè all’inizio degli anni ’90) a Punín alcune situazioni, tra pazienti e medico, erano un po’ strane. Per ogni sorta di malattia, la meta obbligatoria era Riobamba, capitale del distretto. E lì succedeva che qualche medico, per farsi pagare, qualunque fosse la malattia del malato, riuscisse a far vendere ai poveri indigeni la stessa quantità di animali (unica fonte di sostentamento).
C’è stato chi, venuto in contatto con un anziano di una comunità, malato di cancro allo stadio terminale (e, peraltro, già visitato da un medico locale che gli aveva diagnosticato pochi giorni di vita), lo aveva operato lo stesso; con il risultato che il paziente, poche ore dopo era già spirato, ma intanto aveva sborsato un milione e mezzo di sucres (circa 500 dollari).
Lo stato di cose mi ha fatto pensare alla necessità non di un vero e proprio ospedale, quanto ad un piccolo centro sanitario che avesse funzione di «filtro».
Nel frattempo il medico di Punín, Carlos Torres, e io abbiamo discusso seriamente la questione e ci siamo trovati d’accordo su un punto: bisognava fare qualcosa per quella povera gente, che aveva tutto il diritto (sulla carta) alla salute, come qualunque cittadino di Quito o di Guayaquil. Siamo rimasti d’accordo che, al ritorno dal mio viaggio in Italia, nell’ottobre del 1996, avremmo ripreso le fila del discorso.
In realtà non ho aspettato il rientro in Ecuador. Soggioando in Svizzera, dove vive un mio fratello, ho condiviso con lui la seria preoccupazione per questo problema: e anch’egli ne ha fatto una causa propria, richiedendo il progetto della costruzione (poi modificato) e assumendo accordi con il comune di Losanna per ottenere un finanziamento di circa 5.000 franchi, da inviare a metà dell’opera.
Toai in Ecuador con il piccolo progetto in mano, ma che necessitava qualcosa di più che i 5.000 franchi, pur preziosi. Era necessario continuare a cercare…
La meta fu Quito, la capitale. Il primo tentativo lo feci alla Swissaid, associazione dipendente dall’ambasciata Svizzera; ma, per quell’anno, non erano previste spese per progetti sulla salute e la risposta mi venne data al terzo viaggio che facevo. Altre vie: Fepp, Coopi, Comité Economico de Proyectos, Mlal: tante sigle importanti, ma il tutto si concretizzò solo in una lunga serie di indirizzi e niente di più.
La salvezza arrivò invece (lo credereste?) dall’Africa. O, meglio, da un medico italiano, assolutamente sconosciuto, che ci chiedeva «il favore» di poter collaborare per la costruzione dell’ospedale.
Tutto ci sembrò un miracolo.

L a cosa era andata così. Nel febbraio del 1997, erano venuti a trovarci i genitori di padre Giannantonio Sozzi, missionario mio confratello, oggi in Colombia. La visita in Ecuador li aveva particolarmente colpiti. Pertanto, al loro rientro in Italia, avevano pubblicato le proprie impressioni sul bollettino parrocchiale. A quanto pare, quel resoconto piacque a molti. Fu anche riprodotto sulla rivista Missioni Consolata e, guarda caso (il mondo è davvero piccolo), una copia del giornale arrivò perfino in Kenya.
Fu così che il medico Riccardo Grifoni, che si trovava in quel paese, in un momento di pausa si era messo a leggere la rivista con interesse (il dottore è un volontario che, in certi periodi, ama «spendere» le sue vacanze, lavorando in diverse parti del mondo, a beneficio dei più disagiati)… Toando dall’Africa, si mise in contatto con i genitori del missionario, i quali a loro volta gli dissero che bisognava farsi sentire dai missionari di Punín.
Qui (gennaio 1998) incominciò la serie di contatti, che portò ad un accordo di collaborazione tra due associazioni: la prima, «Alito» (cui appartiene il dottor Grifoni), e la seconda, «Fundacíon la Consolata».
Si decise, dunque, che rappresentanti dell’associazione italiana (di Ancona) venissero a Punín per constatare personalmente la situazione: cosa che si realizzò nel novembre del 1998, mentre a dicembre giungeva l’approvazione del progetto da parte loro.

I lavori di costruzione dell’ospedale La Consolata cominciarono il 12 aprile del 1999 e tutto filò per il meglio.
Ma la finale della storia… la conoscete già.

Davide Manca




BELGIO – Nella stanza dei bottoni

Le decisioni prese nel Nord si riflettono
sui poveri del Sud del mondo.
Le congregazioni missionarie operanti in Africa hanno costituito la «Rete fede e giustizia Europa-Africa» (Aefjn), per far risuonare la «voce dei senza voce» nei parlamenti dell’Unione europea e dei singoli paesi
che la compongono, stimolando iniziative che promuovano rapporti più giusti ed equi con i popoli africani.

I n un secolo siamo passati dal nazionalismo all’inteazionalismo, alla globalizzazione. Principale veicolo di cambiamento è stato, ed è tuttora, l’ideologia neoliberista: essa penetra ogni aspetto della vita quotidiana della gente in tutto il mondo: economia, comunicazione e informazione, sviluppo tecnologico, cultura, modelli di consumo, crimine, conflitti, epidemie, ecologia, migrazione, politica.
Di fronte a tali mutamenti di cultura e valori, i cristiani devono essere presenti nei dibattiti, non come sociologi o economisti, ma come testimoni dei valori evangelici. È in gioco il nostro ruolo profetico, non solo per indicare le deficienze nella società, ma anche per mostrare, come gli antichi profeti, la strada della riconciliazione col Creatore.
POLITICA SFIDUCIATA
Il mondo ha subìto un cambiamento epocale, ma le istituzioni e l’immagine del mandato politico sono mutati pochissimo. Negli ultimi due secoli, fino ai primi anni ’70, tale mandato era considerato uno dei più alti e nobili servizi al paese. La gente aveva fiducia nei politici e affidava loro il proprio destino, inviandoli come delegati ai parlamenti e governi. La fede nel sistema democratico parlamentare era così forte che né guerre né crisi sono riuscite a cambiarla.
Negli ultimi 40 anni si è capito che la politica non è così pulita e nobile come si voleva far credere. Tre fattori hanno scosso tale fede politica.
– La colonizzazione. La gente ha cominciato ad essere sfiorata dal senso di colpa quando gli storici, basandosi su documenti, hanno dimostrato che la colonizzazione dei paesi africani, presentata come nobile «missione di civilizzazione», era in realtà uno spietato sfruttamento delle loro risorse umane, culturali e materiali per accrescere il benessere dell’Occidente.
– La povertà nel terzo mondo. Dopo due decenni di appelli alla generosità per contribuire ai progetti di cooperazione internazionale, la gente è delusa, vedendo che il divario tra i paesi poveri e quelli industrializzati ha continuato a crescere.
– La corruzione. La lista di scandali in cui sono coinvolti i politici è infinita; con somme da capogiro gli industriali hanno sponsorizzato i partiti politici, fino a renderli strumenti di legittimazione dei propri interessi economici.
Nessuna meraviglia se, negli ultimi 15 anni, la gente è cresciuta nella disillusione e nel disinteresse per la politica: ne è una prova lampante la bassa partecipazione alle elezioni. Il sistema politico è in crisi. In questa confusione, gli unici vincitori sono i protagonisti del mercato globale.
NUOVO CREDO UNIVERSALE
Competizione e mercato è la fede professata dalla globalizzazione. Essa provoca una visione unilaterale della natura e relazioni umane, trasformando la società in un grande palco d’asta, dove perfino le cose sacre, come sangue, organi umani e biodiversità, possono essere comprati o venduti e i cui valori sono rimpiazzati dai prezzi. Tale società richiama la visione raccapricciante dell’Apocalisse: «Essa è diventata covo di demoni e carcere per ogni spirito immondo, carcere per ogni uccello impuro e aborrito» (Ap 18,2). Il credo della globalizzazione è veramente una sfida spirituale e culturale, che i politici non hanno affrontato, o non lo hanno fatto a sufficienza, e oggi ne pagano le conseguenze a caro prezzo.
Il meccanismo del mercato globale rafforza nel ricco un falso senso di «popolo eletto», più preoccupato della conquista del potere che delle necessità della gente e della terra. L’ideologia neoliberista, su cui si fonda la globalizzazione, ha addormentato la gente: il motto di buona parte dei popoli occidentali non è «l’opzione preferenziale per i poveri», ma «opzione preferenziale per chi ha di più». Delusi dai politici, essi si sono innamorati di una società in cui produzione e consumo sono in continua espansione e il potere è in mano a una ristretta e forte élite economica, capace di facilitare il processo di produzione-consumo da cui ci si aspetta tutto il bene della vita.
Ma in un mondo del genere la maggioranza della gente, beata nel suo consumismo, non ha alcuna voce nel modellare la società in cui vive. Ruoli di guida e istituzioni sono ridotti a puri strumenti di convalida di politiche decise molto lontano da potenti corporazioni transnazionali. E così i diritti umani possono essere erosi, la dignità umana calpestata, lo sviluppo impedito e l’ambiente sfruttato indiscriminatamente.
INGIUSTIZIE STRUTTURALI
I mercati possono essere molto utili; la globalizzazione è una spada a due tagli: produce effetti buoni e cattivi. Per la prima volta nella storia, le istituzioni inteazionali (Unione europea, Nazioni Unite, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale) danno veramente la possibilità di provvedere pacificamente a un mondo più equo e giusto; ma è un errore pretendere di costruirlo basandosi solo sul mercato.
Negli ultimi 50 anni la speranza di vita, in generale, è salita più che nei precedenti 4.000; trasporto, comunicazione, competitività hanno facilitato la nostra esistenza. Eppure il divario tra ricchi e poveri continua a crescere, sia globalmente che all’interno degli stati. Nel mondo ci sono 360 plurimiliardari che, insieme, possiedono una ricchezza pari alle entrate di 2,5 miliardi di gente più povera del mondo. Quale struttura permette e giustifica tale disparità?
Europei e americani spendono ogni anno oltre 400 mila miliardi di lire in medicine; ma difficilmente trovate nelle farmacie occidentali quelle per curare la malaria, cecità da fiume, malattia del sonno, perché c’è poca domanda. Entrate in un dispensario del Benin, per esempio, e scoprite che tali farmaci sono scarsi anche lì, non perché non ce ne sia bisogno, ma perché nessuno può permetterseli (Si veda «Come sta Fatou?» gennaio 2001).
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) calcola che si spendono oltre 120 mila miliardi di lire l’anno nella ricerca sanitaria, ma meno del 10% di tale somma riguarda le malattie che colpiscono il 90% della popolazione mondiale, come malaria, tubercolosi, Aids. E migliaia di africani muoiono ogni giorno perché mancano le medicine più comuni.
Il Nord impone ai paesi del Sud di aprire i loro mercati; eppure gli stati ricchi adottano sistemi protezionisti in molti settori in cui i paesi poveri sono più competitivi, come agricoltura e tessili. Una politica che impedisce la crescita economica in Africa, nega posti di lavoro nelle città e taglia le entrate delle famiglie.
L’Unione europea (Ue) è stata costretta ad abbandonare il regime d’importazione di banane favorevole ai piccoli produttori africani: le grandi compagnie degli Stati Uniti, infatti, sono riuscite a convincere l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) che favorire i piccoli produttori è contro le regole del libero mercato. Chiquita e compagni hanno vinto, a scapito degli agricoltori poveri di Ghana, Costa d’Avorio, Benin o Togo, la cui sopravvivenza dipende dalla produzione di banane. Lo stesso vale per l’uso di olii diversi da quelli del cacao nella produzione di cioccolato.
L’indebitamento di 38 paesi africani è tale che questi non riusciranno mai a restituire i prestiti. Le istituzioni finanziarie inteazionali continuano a domandare loro di spendere il 20-40% degli introiti provenienti dalle esportazioni annuali per ripagare gli interessi. Nel 1951, quando alla Germania fu chiesto d’impiegare il 10% delle esportazioni per pagare i suoi debiti di guerra, si disse che era insostenibile e fu abbassato al 3,5%; per i prestiti di guerra del Regno Unito la quota fu elevata al 4%. Politiche del genere, con due pesi e due misure, mantengono coscientemente e volutamente i paesi poveri dell’Africa in stato di schiavitù.
L’Onu sta preparando una conferenza per studiare il commercio illegale di armi leggere in tutti gli aspetti. Titti sanno che una stretta regolamentazione internazionale di tale commercio è un imperativo per arginare conflitti e violenza in Africa. Eppure, negli incontri preparatori, vari paesi ostacolano una nuova convenzione internazionale; dicono che bastano le regole attuali. Così il traffico legale e illegale continua.
Sono solo alcuni esempi di ingiustizie perpetrate dal Nord contro l’Africa. Ma bisogna ricordare che tutte le regole che puntellano tali ingiustizie sono ratificate nei nostri parlamenti e governi dai politici che abbiamo democraticamente eletti come nostri rappresentanti.
NUOVA COSCIENZA CIVILE
Ma non tutti sono pronti a professare il credo del libero mercato. Negli ultimi due anni vari gruppi di pressione hanno organizzato enormi proteste contro i vertici delle organizzazioni inteazionali (G7, Wto, Fmi…) per contestare il modo in cui prendono decisioni senza il coinvolgimento e consenso della gente.
Tali proteste sono troppo estese per essere etichettate come opera di pochi teppisti e teste calde. Sono appena la punta dell’iceberg del crescente scontento della gente. Da due decenni, persone ordinarie, ma bene informate, si uniscono a livello nazionale e internazionale per domandare ai governanti trasparenza, responsabilità e partecipazione nelle decisioni politiche.
È un imperativo morale per i governanti ascoltare tutte le voci della società, indipendentemente dall’affiliazione politica. Se i politici devono rispettare l’opinione del proprio collegio elettorale, hanno pure il dovere d’informare e mettere in guardia gli elettori sulle implicazioni e conseguenze che certe scelte politiche hanno sulla nostra vita e su quella del prossimo.
La voce di organizzazioni non governative, gruppi di pressione, organismi della società civile è un grido profetico per salvare la democrazia; quasi un aiuto divino per i politici nel momento di maggiore bisogno. Voci che indicano come dignità, lavoro, ambiente, valori culturali, trasparenza, corresponsabilità e partecipazione sono parte integrante del benessere e dello sviluppo.
La liberalizzazione sfrenata tende solo al profitto: è inaccettabile sia per la società occidentale che per i nostri fratelli e sorelle del Sud del mondo.
NOSTRA PRESSIONE POLITICA
È finito il tempo in cui analizzare e commentare argomenti conceenti la società era privilegio di accademici, politici e leaders religiosi. Anche noi missionari, con la «Rete fede e giustizia Europa-Africa» (Aefjn), ci siamo organizzati per raggiungere e informare i nostri rappresentanti, funzionari e partiti politici sulle conseguenze di certe politiche che devono votare.
Operiamo a Bruxelles, in sede di Commissione, dove nascono molte iniziative delle istituzioni europee. È il momento ideale: mentre esse sono in stato di progettazione, ci sediamo accanto ai funzionari disposti ad ascoltare i nostri punti di vista.
Quando le proposte della Commissione passano all’esame del Consiglio dei ministri e al Parlamento europeo, le Reti dislocate nei singoli paesi dell’Ue bombardano parlamentari, ministri, funzionari coinvolti nei vari progetti legislativi.
La nostra pressione continua a Bruxelles, quando le proposte passano alla Commissione permanente specifica, incaricata della revisione: presentiamo i nostri suggerimenti ai parlamentari e delegazioni, perché introducano eventuali emendamenti e dibattano e votino tali proposte in prima e seconda lettura.
Tutti questi momenti, a Bruxelles e nei paesi membri, sono occasioni per restituire alla democrazia il valore e l’importanza che merita. Ma non è un messaggio da far digerire facilmente: solidarietà con i poveri implica un cambiamento di stile di vita.
Sappiamo però, e lo sanno anche i politici, che questa è l’unica via per promuovere la giustizia, la pace e una più equa distribuzione dei doni della terra per questa generazione e quelle future.
Come cristiani e missionari, non possiamo fare a meno di essere coinvolti nelle politiche della stanza dei bottoni. Noi non tiriamo pietre, non ci incateniamo ai cancelli delle banche. Facciamo semplicemente ciò che ci dice il vangelo: amare il nostro prossimo come noi stessi. E lo facciamo affermando il diritto di partecipare creativamente nel processo decisionale, soprattutto quando sono in gioco i valori evangelici: i soli che possono portare pace vera e felicità alla società in cui viviamo. Una società non è solo la mia città, provincia o paese, ma il mondo intero.

* Luc Coppejans, della congregazione dei missionari per l’Africa (padri bianchi), è direttore responsabile del Segretariato della Rete fede e giustizia Africa-Europa (Aefjn).

Luc Copeejans




CONGO – Dopo cena, sotto la “pailotte” e altrove

Il fiore all’occhiello della diocesi di Wamba?
Senz’altro il Centro di pastorale:
perché radica la fede cristiana nel contesto africano,
sprona la persona allo sviluppo integrale,
educa alla pace in un paese in guerra…
Il Centro si avvale del contributo della tedesca «Missio»,
ma anche della solidarietà di amici italiani e colombiani.
Fra i colombiani, tanto di cappello ad Alonso, missionario della Consolata.
Il quale ha lanciato pure «Radio Nepoko».

A Wamba, nel nord del Congo, mi sono sistemato in una cameretta infestata da mosconi. Ho subito scambiato due battute con i missionari: l’infaticabile Enrico Casali (a dispetto dei by pass al cuore e della rimozione di un rene) e il vulcanico Angelo Baruffi. «Alonso dov’è?» domando, mentre i padri mi intrattengono con una tazza di tè. «Lo vedrai a pranzo».
L’orologio segna le 11. In attesa della chakula (cibo) di mezzogiorno, mi aggiro nei dintorni della missione… quand’ecco apparire, su un viale in terra rossa, una moto. Mi fermo e, quasi subito, dico: «Tu sei Alonso, suppongo». «In persona». Ci abbracciamo come vecchi amici, anche se è la prima volta che ci incontriamo.
Alonso Jesús Alvarez, 38 anni, in t-shirt verde e jeans marrone, è un missionario della Consolata colombiano. È in Congo da sette anni e prete da otto. A Roma si è specializzato in tecniche della comunicazione e giornalismo.
«Quella è senz’altro l’antenna di Radio Nepoko – affermo puntando il dito, mentre camminiamo verso casa -. Come va?». «Caro collega, non sarà meglio parlarne, seduti, dopo pranzo?».
Non solo catechismo
Causa imprevisti, non ci incontriamo dopo pranzo, bensì dopo cena, all’aperto, sotto la paillote (tettornia di paglia), fra il ronzio di non pochi insetti, attratti dalla luce di una lampadina. «Temi le zanzare?» mi provoca Alonso. «E tu no?» replico prontamente. Ne scaturisce una risata cordiale e fragorosa, specie nel colombiano.
Prima dell’incontro, ho raccolto alcune informazioni su Wamba, sede dell’omonima diocesi (con la presenza del vescovo Janvier Kataka) e l’annesso Centro di pastorale, di cui Radio Nepoko è parte integrante.
«Al mio arrivo in Congo – spiega padre Alonso – il Centro era solo una scuola per catechisti. Ogni parrocchia inviava qualche candidato; questi risiedeva al Centro, con moglie e figli, e apprendeva il “mestiere”; terminato il curriculum, ritornava alla propria comunità».
Ma in Africa i catechisti non si limitano solo all’insegnamento della dottrina cristiana. Essi sono i factotum nel villaggio: organizzano e presiedono la liturgia domenicale senza il sacerdote, seguono i catecumeni, controllano i ragazzi della scuola, visitano i malati, dirimono le contese. Di fronte a tante mansioni ed esigenze, il «Centro di catechesi» ha mutato identità, per divenire «Centro di pastorale». Una struttura più articolata e complessa.
La svolta risale al 1995, quando la diocesi ha effettuato un’analisi accurata della realtà, in preparazione anche al suo centenario del 2004… Al presente il Centro di pastorale, mentre continua a formare catechisti, attende pure alle comunità di base, ai movimenti laicali, allo sport, nonché ai ritiri ed esercizi spirituali dei sacerdoti congolesi, dei missionari, delle suore. Il Centro è un laboratorio di idee: organizza e stimola le attività delle commissioni diocesane per «l’inculturazione del vangelo», «la giustizia e pace», «l’impegno dei giovani».
Il Centro spalanca le porte a tutti, offrendo le sue strutture: un salone per le assemblee generali e diverse aule per i lavori di gruppo; in alcune casette, indipendenti, possono peottare fino a 50 persone.
La struttura si avvale del finanziamento dell’organizzazione cattolica tedesca Missio e di alcuni gruppi di solidarietà italiani e colombiani. Ma i congolesi che se ne servono non si presentano a mani vuote: foiscono il fabbisogno di riso e olio.
Direttore del Centro di pastorale di Wamba è padre Alonso Jesús Alvarez.
voglia di formazione
Gli zairesi-congolesi hanno stornicamente sopportato la trentennale e barbara dittatura di Mobutu. Inoltre hanno patito due guerre; la seconda (che dall’agosto 1998 ha mietuto circa 2 milioni di vittime) è in corso. «Nonostante le difficoltà – afferma padre Alonso -, la gente ha capito che una risposta ai suoi mali è la formazione. In tale senso il Centro di pastorale è prezioso».
«Qual è la frequenza ai corsi di formazione proposti dal Centro?».
«Se inviti, per esempio, gli infermieri ad un recyclage – risponde il colombiano -, li hai tutti: camminano magari per 50-100 chilometri… anche per fermarsi solo pochi giorni».
È così grande la voglia di formazione che si supera ogni ostacolo. Neppure la guerra ferma i corsisti del Centro. Un catechista (con moglie e tre figli) ha percorso a piedi 280 chilometri, pur di attendere ad alcune settimane di studio.
D’altro canto, anche il personale del Centro raggiunge i villaggi. Vi sono maestri, colpiti da malaria o reumatismi, che si sobbarcano 40 chilometri: pedibus calcantibus naturalmente, perché le auto sono come… l’iperuranio di Platone. Si è fortunati, c’è il vélo, la bici, che è sempre più veloce dell’«asino di san Francesco».
«Padre Alonso, circa l’evangelizzazione, ci sono iniziative particolari?».
«Tutto il Centro è evangelizzatore. Tuttavia in diocesi, per parecchio tempo, è mancato un vero progetto di evangelizzazione. Oggi qualcosa sta muovendosi, grazie alla presenza di persone più qualificate: alcuni preti congolesi hanno studiato in Europa; gli ultimi missionari recano nuove idee. Si sta passando da una pastorale formalista ad una più contestualizzata: ecco l’importanza dell’analisi della realtà socioculturale, della promozione integrale dell’uomo».
A Wamba la chiesa sta diventando «famiglia di Dio», come ha raccomandato il Sinodo per l’Africa. E i risultati si vedono: i giovani, ad esempio, parlano maggiormente di Gesù quale loro compagno di viaggio e maestro di vita… La diocesi ha anche una commissione per lo sviluppo. Ieri il catechista era l’«esperto» su Dio; oggi conosce pure i problemi dell’uomo.
L’impotenza della gente
In un villaggio ho visto un ragazzo attaccato ad una scassata e gracchiante transistor; e ripeteva a voce alta ad alcuni anziani le notizie sull’andamento della guerra.
«La popolazione segue le vicende del conflitto con angoscia e fatalismo – commenta padre Alonso -. I mezzi di informazione sono scarsissimi. Ciò nonostante, la politica del governo di Kinshasa, l’azione dei ribelli, la presenza delle truppe straniere… sono temi su cui tutti discutono. Se chiedi alla gente che cosa è capitato durante la settimana, ottieni risposte precise: mi riferisco in particolare agli insegnanti. Spesso (è vero) si tace: come il malato che non ama parlare del suo male, pur avvertendone il dolore. Il popolo è stanco della violenza. C’è una grande sfiducia, ma anche un’enorme attesa. La gente aspetta, aspetta…».
«Aspetta che cosa?».
«Ovviamente la fine delle ostilità, la pace. Alcuni dicono: siamo poveri e impotenti, non abbiamo fucili, non sappiamo fare la guerra, stiamo a vedere…».
Non scorgo più il viso intenso dell’interlocutore, né il corrugarsi della sua fronte preoccupata. La foltissima capigliatura nera di Alonso si confonde con la notte. La lampadina della paillote è stata spenta, perché bisogna risparmiare il diesel che alimenta il generatore elettrico.
Con l’oscurità, gli insetti si sono allontanati, ma sono aumentate le malariche zanzare. Alonso si schiaffeggia le braccia nude per acchiappae qualcuna, ebbra del suo sangue. Dopo un istante di silenzio, il missionario quasi intima: «Entriamo in casa».
«Buona notte».
«Di già? Sono appena le 21!» risponde Alonso illuminando l’orologio con una torcia a pile.
la nuova avventura
Il colombiano sorseggia una spremuta di arancio nel suo ufficio, alla luce di una lampadina di pochi volt, alimentata da batteria. E prosegue: «Non volevi sapere qualcosa anche su Radio Nepoko?».
Nella regione funzionava una radio importante, gestita dalla chiesa cattolica. Ma il regime dispotico di Mobutu ne fece un boccone… Oggi che Wamba abbia una «sua» emittente è un avvenimento straordinario. L’avventura è iniziata con un apparecchio di 250 volt, che copriva solo un quarto della diocesi.
«Io sono giunto a Wamba subito dopo l’inizio della radio – racconta padre Alonso – con l’incarico di allargae il raggio di ricezione. Mi sono messo al lavoro con 8 persone, che non sapevano neppure che cosa fosse un microfono. Ancora una volta si imponeva il problema della formazione. Lentamente abbiamo creato una rete di 70-80 volontari, divenuti presto allievi di radiofonia e comunicazione. Dopo tre mesi di studio faticoso, abbiamo elaborato il progetto organico di Radio Nepoko».
Il progetto si articola in quattro sezioni: evangelizzazione, sviluppo, cultura e spettacolo. Ogni sezione si prefigge obiettivi precisi da raggiungere con programmi adeguati.
«Con quali risultati?».
«Buoni, sia a livello tecnico che di contenuto. Abbiamo fatto miracoli. Senza elettricità, si lavora con un gruppo elettrogeno. Ma i costi sono elevatissimi, perché dobbiamo importare il carburante personalmente par avion».
L’emittente Nepoko è soprattutto la radio della comunità.Tutti vi possono accedere, per discutere di tutto. I giornalisti (si fa per dire) partono con i poveri mezzi a disposizione e raggiungono i villaggi: intervistano donne e uomini, vecchi e bambini; colgono i rumori della foresta, il canto degli uccelli, le danze dei giovani, le preghiere di tutti.
«Così siamo giunti a cinque ore di trasmissione al giorno: due al mattino e tre nel pomeriggio. Abbiamo documentato e commentato tre anni di vita zairese-congolese, durante i quali abbiamo vissuto due guerre».
«Alonso, soffermati sul tuo ruolo a “Radio Nepoko”…».
«Mah! Io sono come lo Spirito Santo, che soffia ovunque… senza farsi vedere. All’inizio ero il direttore. Ora non più: ho passato la mano ad un congolese. Oggi, se andassi via, Radio Nepoko sarebbe in grado di continuare con una buona resa. I “miei” ragazzi sanno montare trasmissioni a sette voci su altrettante piste. Hanno sputato sangue, all’inizio, perché il lavoro non era facile ed io molto esigente. Però oggi sorridiamo tutti».
La politica no
«Qual è il rapporto della radio con l’autorità politica?».
«Noi siamo stati sempre critici sia verso Mobutu sia verso Kabila. Con lo scomparso dittatore abbiamo avuto problemi seri, ma abbiamo resistito alle sue pressioni… Allo stato concediamo 20 minuti per parlare di amministrazione, non di politica. Pertanto abbiamo dato la parola al sindaco, il quale però sapeva che altre persone gli avrebbero replicato… Devo dire che, dopo la prima guerra (sotto il governo di Kabila), non abbiamo avuto grossi problemi con lo stato».
«Tuttavia 200 soldati di Kabila hanno disturbato l’emittente!».
«E noi abbiamo denunciato il fatto, rischiando la galera e la chiusura della radio. Dicevamo a tutti: “Se ci succede qualcosa, tutte le radio del mondo lo sapranno. State attenti!”. Ci è andata bene».
Radio Nepoko è ascoltata anche da militari. Chi vi si sintonizza coglie trasmissioni ad hoc sui diritti umani, sulle torture, oltre che sull’evangelizzazione, attraverso piccole drammatizzazioni con musiche congolesi. «Per fare questo, abbiamo dovuto conoscere la vita militare: siamo andati in caserma a parlare con il comandante. E, siccome costui era orgoglioso e gli piaceva sentirsi alla radio, ha accettato di rispondere alle nostre domande. C’è stato una conseguenza interessante: la rimozione di un graduato, che censurava quanto i soldati dicevano alla radio».
Ebbene: i militari congolesi parlano alla radio, il sabato pomeriggio, con messaggi e petizioni. Forse se ne sono persino un po’ innamorati, se è vero che l’hanno difesa dal saccheggio dei soldati rwandesi all’inizio della seconda guerra.

N el corso del 1998 un fulmine si è schiantato sull’antenna di Radio Nepoko e l’ha zittita… proprio quando stava per potenziarsi ulteriormente. La nuova strumentazione era già arrivata dall’Italia nella capitale Kinshasa. E là è rimasta, perché imperversava la seconda guerra e i soldati del Rwanda avevano occupato Wamba.
Chissà! Forse (una volta tanto!) non tutto il male è venuto per nuocere, almeno per quanto riguarda la radio. Sì, perché i soldati rwandesi se la sono subito presa… mollando poi la «preda malata». Se la radio fosse «sana», in mano a militari stranieri oggi non sarebbe più libera!
Quando i congolesi riascolteranno il familiare e libero «buon giorno» di Radio Nepoko?

L’articolista ha incontrato padre Alonso J. Alvarez e il signor Joseph Mandi prima dell’uccisione di Laurent D. Kabila, avvenuta il 16 gennaio scorso.

Francesco Beardi




TANZANIA – Alunno con gli alunni

Mettersi a scuola dei propri discepoli
può diventare un’esperienza simpatica e arricchente.
Ce la racconta un missionario.

«Mkwawa» è il nome di una delle molte scuole superiori nella città di Iringa, che la rendono quasi una piccola capitale dell’educazione. Ai tempi coloniali si chiamava «Scuola di Sant’Alberto e San Giorgio»: due nomi di tipica connotazione inglese. Ma, con l’indipendenza, era giusto che fosse battezzata col nome di «Mkwawa», un soldato che a Lugaro, vicino ad Iringa, il 17 agosto 1891 sconfisse i tedeschi e per parecchi anni li tenne in scacco.
Mkwawa, straordinario eroe dell’etnia dei wahehe, tutto scaltrezza e audacia, tradito, non aspettò la morte da parte dei suoi nemici, ma se la inflisse lui stesso. Oggi è lui il padrino dell’omonima grande scuola, dai molti fabbricati, che conta 1.705 studenti, tra ragazzi e ragazze. Poiché (per costruire unità nel paese) è prassi del governo mescolare studenti di tutte le tribù e di ogni provenienza e chiesa, qui ogni zona del Tanzania è sicuramente rappresentata. Sono fieri i ragazzi, per i buoni risultati scolastici, di essere stati scelti per questa scuola di reputazione nazionale che li prepara all’università o ad altre istituzioni di alto livello.
Sorprendentemente, metà degli alunni sono cattolici. Da alcuni mesi, nel desiderio di avere un contatto pastorale diretto, sono il loro cappellano. Sono giovani svegli ed è una gioia celebrare la messa con loro.
Organizzati in vari gruppi e associazioni, discutono volentieri (e a lungo) nei loro dibattiti. Per conoscere meglio la realtà giovanile, esservi sensibile e «aderente» nelle omelie, mi venne l’idea di impegnarli in un’intervista. Il suggerimento fu accolto con entusiasmo. Subito si trovarono 5 ragazze e altrettanti ragazzi disposti al martellamento delle mie domande. E così, in due sedute, potei raccogliere opinioni, riflessioni e sentimenti.
Non fui deluso nelle mie aspettative. Nessuna reticenza, ma loquacità, forza, convinzioni. E così, la scuola che frequento… divenne maestra anche per me, proprio come desideravo.
Dieci gli interlocutori: Edgar, Renalda, Anna, Yohane, Anastazia, Edward, Beatrice, Catherine, Joseph e Shukran (quest’ultimo nome significa «ringraziamento»), dai 19 ai 22 anni. La loro provenienza: dalla zona del Kilimanjaro a quella del Ruvuma, cioè dal nord al sud, specchio della scuola stessa.
Ecco alcune delle domande poste.

Cosa ne pensi della scuola?
Le risposte si ripetono.
L’ambiente è bello e piacevole, con piante e fiori. Buone le relazioni degli studenti tra di loro e con i maestri. Questi si impegnano, tuttavia sono solo 51, mentre al minimo dovrebbero essere 78. Gli alunni hanno un vero desiderio di studiare. Sono molti però i problemi strutturali: costruzioni vecchie, mancanza di libri, biblioteca inadeguata, laboratori per le materie scientifiche non equipaggiati, ecc. L’acqua (purtroppo non pulita) scarseggia e, spesse volte, si prende il tifo!

Com’è la relazione dei cattolici con gli studenti delle altre chiese e religioni?
I giudizi sono convergenti e rispecchiano la realtà, in generale, del paese.
La relazione è facile e bella. Si instaurano buoni rapporti di cooperazione e condivisione, anche nella preghiera, con gli studenti della comunità luterana e anglicana, raccolti in un’unica associazione. Faticoso è, invece, il rapporto con i gruppi di estrazione pentecostale e fondamentalista, che continuano ad accusare i cattolici delle stesse cose: culto della croce, adorazione della vergine Maria, ecc.
Più difficile ancora con i musulmani, che sono circa 150-200. Il problema non è a livello personale, ma di gruppo: si sente che è una fede diversa; per cui sono piuttosto appartati, non partecipano alle attività extracurriculari, si considerano i soli e veri credenti, manifestano disprezzo per i cristiani. Non desiderano che ci si avvicini alla loro moschea e che si partecipi alle loro attività; si aiutano tra di loro, ma tutti gli altri ne sono esclusi.

A «Mkwawa», l’aspetto «tribale» fa problema?
Una risposta è corale: «Non c’è tribalismo né tra gli studenti né da parte degli insegnanti. Ci aiutiamo a vicenda in tutte le nostre difficoltà, senza considerare la tribù o il posto di provenienza. Ci sentiamo una sola famiglia e nazione».
Ma anche nel coro ci può essere una voce stonata. Ed ecco uno affermare che gli studenti di una certa regione hanno costituito il loro gruppo: lo vede come un’espressione tribale.

Quali sono i maggiori problemi del nostro Tanzania?
Non è facile confessare le proprie povertà, sia a livello personale che comunitario. Ma gli studenti lo hanno fatto con molta schiettezza e «compassione». Sono i problemi che vivono le loro famiglie, le difficoltà vere del loro quotidiano e riscontrabili, purtroppo, ovunque.
«Il nostro paese è povero, non produce, non ha risorse. Ha un grande debito internazionale, che mortifica i suoi sforzi di sviluppo. È molto indietro nel campo della tecnologia e telematica e questo ci fa chiedere come sarà il futuro per noi. Mancano strade e quelle che ci sono non ricevono la dovuta manutenzione; per cui comunicazioni e trasporti sono difficili. La disoccupazione è preoccupante, le prospettive di impiego quasi nulle… Molti genitori non possono far studiare i loro figli. L’area della salute è a rischio; non si trovano medicine e il servizio ospedaliero è carente. Molte le malattie che imperano: malaria e tifo; a volte esplode il colera. L’Aids causa un alto numero di orfani e depaupera il paese di forze giovani.
Quanto alla politica, non è ancora chiaro ed efficace il sistema pluripartitico come strumento di vera democrazia».

Quali le caratteristiche «positive» del nostro paese?
Alla litania dei problemi e delle sfide, segue quella degli aspetti positivi.
E sono tanti: «Pace, accoglienza, uguaglianza, assenza di guerre tribali e fratricide. Frateità e condivisione, particolarmente nei momenti di festa e lutto. Si sono pure svolte due elezioni politiche con il sistema di più partiti e non ci sono state difficoltà rilevanti; tanto meno c’è stato spargimento di sangue. È assicurata la libertà di azione e appartenenza ai vari partiti e chiese. Le relazioni con i paesi confinanti sono ottime. Il Tanzania, per decenni, è stato generoso nell’accogliere rifugiati. La chiesa cattolica è numerosa e forte nella fede. Gode di stima, è impegnata nel sociale e nello sviluppo. Possiede una buona leadership e mantiene rapporti di cooperazione con le altre chiese, religioni e governo».
È stato certamente un grande dono del Tanzania, fin dall’indipendenza, il non avere avuto significative divisioni. Anche il futuro sembra incamminato in tale direzione. Le parole più ricorrenti durante le ultime elezioni politiche erano: pace, frateità e sviluppo. A volte, però, ci si chiede se non sia una pace… troppo pacifica. Non sarebbe meglio dare più voce alle proprie sofferenze, ingiustizie sociali e diritti? La pazienza e la sopportazione in Tanzania sono smisurate.

Gli studenti di «Mkwawa» sono passivi o dinamici?
Dovuto anche al loro numero, a dire di tutti gli intervistati, gli studenti cattolici sono una vera forza. Organizzati in varie associazioni (Tanzania Young Catholic Students, Legio Mariae, Terziari francescani, Gruppo vocazionale, Coro…), sono in prima linea nella carità: visitare gli ammalati e i prigionieri ogni domenica. Appaiono sempre là dove l’aiuto e la solidarietà sono richiesti: pulizia nei vari posti, donazioni di sangue, interventi di emergenza.
«Ci vogliamo bene. Ci aiutiamo. Siamo additati agli altri come esempio. Ci sono giovani veramente maturi nella fede come persone»: sono le loro espressioni. È la loro percezione di se stessi.
Vi aspettereste risposte diverse? Un pizzico di orgoglio per la propria identità ci vuole pure! Ma (e sarà orgoglio anche il mio?) so che queste affermazioni sono la verità. L’avevo notato fin dall’inizio: molti incontri e attività caritative, sempre ben preparate e organizzate, con molti che vi partecipano.

Che cosa farai nella vita?
«Difficile prevedere il futuro: è nelle mani di Dio. Inoltre il nostro paese nella sua povertà offre poco e la vita è veramente difficile. Ma non mancherà l’aiuto di Dio per disceere, scegliere e agire».
Nonostante titubanze e incertezze, alcuni si esprimono chiaramente circa il proprio futuro. Yohane ed Edgar desiderano essere medici. Joseph non lo sa; chiede luce al Signore, ma di una cosa è certo: vuole proclamare il vangelo con tutta la sua vita. Anche Renalda ancora non ha scelto una professione, ma si propone di essere una buona laica. Anna e Beatrice pensano alla consacrazione religiosa. Catherine: la sua passione è essere ingegnere e buona madre di famiglia. Anastazia mira ad essere maestra o avvocato. Edward e Shukran contemplano il sacerdozio.

C’è una connotazione lodevole nelle risposte di tutti: una dimensione apostolica in qualsiasi professione. Tutti qualificano la loro risposta, dicendo che vogliono essere testimoni della parola di Dio, annunciarla nella vita e nell’aiuto agli altri.
Sono soltanto parole, buoni propositi al vento, o frutto di una vera maturità, acquisita nella frateità, nell’aiuto vicendevole e con la formazione in varie associazioni? C’è di tutto, e ci sarà di tutto. Ma non sono sicuro che in questi giovani (rappresentanti di tutti gli altri) c’è un seme vero e fecondo. Lo dicono il loro impegno e serietà.
C i sono state altre domande e risposte, ma queste bastano per dare un’idea del clima della scuola.
A titolo di informazione: mi hanno chiesto di continuare a «stimolarli» con dibattiti simili, per non «accontentarsi» ed essere sempre critici con la realtà e se stessi. Lo farò. Non è comune una richiesta del genere. I giovani hanno bisogno di coltivare i semi di bene che portano dentro. L’alba promettente di Mkwawa può diventare una piccola luce per il paese e la chiesa.

Giuseppe Inverardi




ALBANIA – Altan ha gli occhi di miele

Almeno un milione allo scafista albanese, altre 300 mila lire al taxista italiano e poi via verso le grandi
città della speranza. Molti sono i minori arrivati senza famiglia. I più fragili sono facile preda della criminalità, sempre alla ricerca di nuova «manodopera».
I più fortunati trovano una comunità di accoglienza, dove il volontariato (cattolico o laico) svolge un lavoro
mai abbastanza valorizzato.

Altan ha 15 anni, è biondo e ha gli occhi color del miele. Il suo viso di bambino sfugge allo sguardo dei «grandi». È arrivato un paio d’anni fa dal nord dell’Albania. A bordo di un gommone, insieme a tanti suoi connazionali, ha attraversato l’Adriatico ed è sbarcato sulle coste pugliesi.
I suoi occhi esprimono ancora paura mentre descrive il viaggio: un vero inferno, tra decine e decine di corpi che si aggrappano ai bordi dello scafo, si legano, si stringono l’uno all’altro, per non cadere tra i flutti. Donne, bimbi, neonati, vecchi e giovani, terrorizzati dalla folle velocità con cui lo scafista conduce il veicolo tra le onde gelide del mare. Spaventati da ciò che li aspetta: attraversare a nuoto un lungo tratto d’acqua profonda e fredda, qualcuno da solo, altri con figli piccoli tra le braccia; alcune donne agli ultimi mesi di gravidanza, altre vecchie e senza forza. Gruppi umani accatastati come bestie e come bestie gettati nell’acqua aperta non appena la guardia costiera o i carabinieri appaiono all’orizzonte. Bimbi usati come scudi o come ostaggi da uomini senza più emozioni.
Per questo viaggio allucinante, ogni persona ha pagato almeno un milione di lire allo scafista.
Nel suo italiano appreso nei centri di formazione per stranieri, Altan continua: «Raggiunta la costa a nuoto, si cammina per due o tre ore, a piedi, per arrivare al punto stabilito per l’incontro con i tassisti (generalmente italiani), che ci condurranno nelle varie città pugliesi».
A questi tassisti nostrani pagano circa 300 mila lire a testa. Una volta giunti in prossimità di una stazione ferroviaria, salgono su treni diretti verso le maggiori città italiane. Milano e Torino sono tra le mete preferite.
D’estate invece si fermano nella provincia di Foggia, dove vengono impiegati nei lavori agricoli. Con la somma guadagnata possono presto saldare i debiti contratti con familiari e amici, che sono serviti loro a pagare il viaggio.

Perché scelgono l’Italia? «Molti di noi, nel passato, si sono diretti in Grecia. Adesso, però, non è più possibile entrarvi e quindi non rimane che l’Italia, le cui frontiere costiere sono molto più aperte e accessibili. La destinazione desiderata, comunque, rimane la Gran Bretagna o il nord Europa».
Molti degli albanesi approdati nel nostro paese provengono da zone rurali o montane dell’Albania. Aree molto depresse, dove il livello di vita è bassissimo, la povertà economica e sociale molto forte.
La prima tappa della loro emigrazione (o emigrazione intea) consiste, in genere, nel discendere dai villaggi di montagna verso le periferie delle città più importanti – Tirana, Durazzo, Valona – e nel trovare una misera collocazione in baracche senz’acqua, senza luce e senza impianto fognario. Vivono per qualche tempo in tanti, membri di una stessa famiglia allargata con numerosa prole. Vendono le poche bestie in loro possesso e cercano di emigrare all’estero.
A questo punto inizia la seconda fase del percorso migratorio. Forse il più doloroso e il più rischioso. Certamente quello su cui sono investite enormi speranze.
Ma cosa succede ad uno dei tanti ragazzini albanesi emigrati, una volta arrivato nelle grandi metropoli italiane? Ad esempio, a Torino?
«In genere, appena scesi dal treno, c’è qualche amico o parente che ci aspetta e ci porta a casa sua. Chi però non conosce nessuno, se ne sta in mezzo alla strada, al freddo, senza cibo, facile preda di bande criminali».
Grazie ad un vero e proprio «passa-parola», molti minori arrivano all’Ufficio stranieri, dove ricevono buoni mensa, buoni doccia, e in certi casi una sistemazione in qualche comunità d’accoglienza.
Nel 2000 a Torino sono arrivati più di un centinaio di ragazzini albanesi e, di questi, circa 40 dormono ancora all’aperto, in vagoni ferroviari vuoti, nelle fabbriche, nei magazzini abbandonati, ecc.
Al mattino si alzano e vanno a fare colazione in via Nizza, dalle suore della San Vincenzo; a pranzo sono invece al Cottolengo, dove li attende la lunga fila per il pasto; per la cena si recheranno in via Le Chiuse. Alcuni tra i più fortunati trovano ospitalità presso comunità, parrocchie o associazioni: al Sermig; da don Matteo, nella parrocchia di San Luca; all’Asai; dai camilliani; alla Caritas; alla Nuova Aurora.
Il freddo dell’inverno avrebbe probabilmente ucciso i 15 ragazzini albanesi che avevano trovato un precario riparo alle fermate degli autobus e negli ex ospedali psichiatrici, se qualcuno non li avesse soccorsi. Il gelo li aveva sorpresi a Torino, città che, per loro, significava lavoro e benessere.

Comunità «Nuova Aurora», via Vigone. La struttura, una vecchia casa completamente restaurata, è accogliente e spaziosa, e i volontari del gruppo vincenziano, ben organizzati e molto motivati.
Tra loro, Edison Doci, educatore e interprete albanese, in Italia da un decennio, vive in un appartamento all’interno della struttura e si occupa dei ragazzi a tempo pieno.
Dal ’98 i responsabili della comunità non solo ospitano minori albanesi (che attualmente arrivano a 25), ma si spingono ben oltre l’accoglienza: ne sono i tutori a tutti gli effetti, sia dal punto di vista legale e sociale, che da quello affettivo e psicologico. Sono una ventina di adulti, spesso padri e madri di famiglia, che hanno deciso di prendersi carico di uno o più ragazzini e di seguirli, come si fa con i propri figli, in tutti gli ambiti della vita, dallo studio, al lavoro, al tempo libero, ai legami con la famiglia d’origine. Se ne curano sino e oltre la maggiore età, finché questi trovano un lavoro stabile e un’abitazione fuori della comunità dove vivono, e possono così ricevere un permesso di soggiorno permanente.
Una strada diversa, innovativa, rispetto alle tradizionali comunità per minori gestite da cornoperative e seguite da personale educatore. Si tratta di rivestire più che altro il ruolo del tutore-genitore, una figura di cui i ragazzi immigrati senza famiglia hanno molto bisogno. E che, a quanto pare, funziona sia per loro, sia per le istituzioni e le forze dell’ordine: la tutela è infatti concessa in base alle credenziali presentate da ogni volontario e alle garanzie educative e di continuità – e di controllo – da loro foite.
La vita di comunità, per questi adolescenti, è ritmata dalle ore di lavoro presso fabbriche, cornoperative, magazzini, dai corsi di alfabetizzazione e di formazione professionale in idraulica, edilizia, falegnameria, industria, ecc., dai toei di calcetto e di calcio, dalle discussioni di gruppo, dalla musica. Una quotidianità austera, se confrontata con quella di migliaia di giovani torinesi loro coetanei, ma certamente più dignitosa e serena di quella che si sono lasciati alle spalle nei villaggi montani o nelle baraccopoli di Durazzo o Tirana.

Molti nostri nonni, ancora ragazzini, emigrarono in massa verso le Americhe, con pochi stracci e una grande speranza nelle valige di cartone.
Come quegli emigrati italiani rincorrevano il sogno di un lavoro decoroso con cui mantenere se stessi e le famiglie lasciate in patria, così oggi questi giovanetti in cerca di lavoro si dirigono su gommoni infeali verso le terre della nuova America: un’Europa ricca, conservatrice, smemorata e un po’ razzista.

OLTRE IL PASSATO

Nel grande magazzino della cornoperativa torinese «Tenda Servizi», che ha sede in via Pinerolo 50/B, ferve il lavoro: scatoloni, carrelli e tavoli traboccano di giocattoli che vengono assemblati e confezionati da giovani provenienti da tutto il mondo. Italiani, marocchini, albanesi, cinesi, aivoriani, rumeni, ecc. lavorano, fianco a fianco, in quello che pare un interessante progetto di recupero del disagio e di educazione alla convivenza e alla solidarietà.
«Tenda Servizi», fondata nel ’94 da un gruppo di volontari, è una cornoperativa sociale che dà lavoro a una cinquantina di persone – di cui 12 extracomunitari -, e che ha saputo fondere qualità e competitività dei servizi, imprenditorialità e dignità umana. «La centralità della persona è per noi un’esigenza morale prima ancora di una strategia aziendale. Infatti, non abbiamo cercato di creare semplicemente una struttura che offrisse lavoro e che fosse concorrenziale sul mercato – racconta il presidente, Bruno Ferragatta -. Abbiamo voluto soprattutto stimolare le capacità professionali di ciascun dipendente, aiutandolo a far emergere le proprie potenzialità. Ognuno di loro proviene da situazioni o esperienze problematiche; si tratta, cioè, di persone uscite dal mondo della droga, e spesso del carcere, della prostituzione, dell’alcolismo, della violenza, del disagio psichico. Proprio per questo, il nostro obiettivo è aiutarli a valorizzare la vita personale e lavorativa, incoraggiandoli ad andare oltre il proprio passato e a ritrovare fiducia in se stessi».
Reintegrazione sociale e psicologica, dunque, attraverso il lavoro, le relazioni sociali, e la solidarietà: ogni dipendente partecipa, mensilmente, attraverso una minima parte dello stipendio, alla costituzione di un fondo di assistenza per i membri della cornoperativa che sono in difficoltà.

Un’altra attività della cornoperativa, che impegna 12 ragazzi, è quella della raccolta differenziata di indumenti usati, attraverso i 750 contenitori distribuiti su tutto il Piemonte. «Il potenziale di raccolta su cui si basano le nostre stime – continua Bruno Ferragatta – è di 7 chilogrammi di abiti all’anno, per ogni abitante, buttati nei cassonetti. Il nostro obiettivo è di raccogliee il 40 per cento circa. In questo modo, preserviamo l’ambiente evitando che ingenti quantità di materiali di rifiuto confluiscano nelle discariche; offriamo un servizio ai cittadini, che possono così depositare i vecchi indumenti in prossimità delle abitazioni; contribuiamo alla realizzazione di progetti Unicef; creiamo nuovi posti di lavoro e diamo la possibilità ad aziende specializzate di recuperare gli abiti usati rigenerandone il materiale». Dopo lo smistamento nei centri di raccolta, i vestiti ancora in buono stato sono destinati all’esportazione, gli altri vengono trasformati in stracci, in matasse di filo e in materie isolanti destinate alle automobili e alle costruzioni.
A.La.

OSPITI DI SUOR PALMINA

Suor Palmina ci accoglie con un simpatico sorriso di benvenuto, lo stesso, forse, con cui gioalmente apre le porte dei 13 alloggi (tutti nello stesso condominio) che compongono la comunità e in cui vengono ospitate famiglie con bambini gravemente malati.
Ha una grande forza interiore, questa piccola donna che ha dedicato la vita ad alleviare angoscianti tragedie familiari offrendo il tepore d’un focolare casalingo. Sulle pareti di una delle allegre camerette, un’ampia coice raccoglie foto di bimbi e adolescenti malati di cancro, passati di lì. L’anno scorso ne sono arrivati, uno dopo l’altro, oltre un centinaio, e più di 600 in 11 anni di attività.
Fondata nel 1989, l’associazione «Casa Amica» è nata da una filiazione dell’«Associazione zonale accoglienza stranieri», creata, nel 1985, da don Beppe Cerino e da altri sacerdoti e laici. Ora conta più di cento soci e molti sostenitori. Sono la «mano» della Provvidenza, quella su cui suor Palmina, suor Francesca e don Beppe fanno grande affidamento per la loro missione di accoglienza e solidarietà.
Inizialmente, l’Associazione zonale si occupava di giovani studenti stranieri: «L’immigrazione è molto cambiata negli ultimi 10 anni – racconta suor Palmina -. A Torino arrivavano ragazzi soli, per studiare, e, nel giro di qualche anno, ritornavano in patria. Ora chi emigra è per cercare un lavoro e per fermarsi. Siamo passati, infatti, all’ospitalità di intere famiglie, che vanno aiutate nella ricerca di un’occupazione, di una casa. Attualmente, abbiamo sistemato una quindicina di immigrati in case trovate dagli amici che gravitano intorno all’associazione. Foiamo loro anche una borsa con alimenti».

«Casa Amica» accoglie, invece, nuclei familiari i cui figli sono ricoverati nei vicini ospedali, soprattutto il «Regina Margherita». «Dieci anni fa venimmo a sapere che proprio all’ospedale infantile – continua la suora – una mamma, da tempo vicina al suo bimbo gravemente ammalato, aveva dovuto passare ben 12 notti su una sedia a sdraio, perché mancavano le strutture di accoglienza per i parenti dei malati. Riflettemmo su ciò: come potevamo dirci fratelli se non avessimo fatto qualcosa per quelle situazioni che ci toccavano da vicino? Così iniziammo a darci da fare».
Ecco allora che negli alloggi, acquistati nel corso degli anni grazie alla solidarietà di sostenitori e amici, trovano ospitalità persone provenienti da tutta Italia e anche dall’estero, costrette a fermarsi a Torino anche per molto tempo, e per le quali i costi e la permanenza in un albergo sarebbero improponibili, oltreché un’ulteriore fonte di desolazione e di solitudine.
Ed è proprio per alleviare quel senso di impotenza, di lontananza dai propri parenti e amici, che «Casa Amica» è nata e continua la sua battaglia giornaliera contro gli ostacoli – primo fra tutti la mancanza di soldi –, trovando la forza nella genuina fede in una Provvidenza che giunge sempre, anche quando nessuno ci spera più.
«In questi anni di attività, abbiamo visto tante volte la disperazione dipinta sui volti di padri e madri. Ma questo smarrimento spesso si trasforma in fiducia e speranza, e in gratitudine, per aver trovato un porto ospitale. Tuttavia, il lavoro è tanto e noi iniziamo ad invecchiare: abbiamo bisogno di forze nuove. Speriamo che qualcuno accolga il nostro appello».
A.La.

Angela Lano




CONGO – L’amore grande di Anghele

Entusiasta e irruente come sempre,
padre Antonello è ritornato a Neisu,
la missione dove aveva lavorato 15 anni fa,
per rimettersi al servizio di un paese
spaccato in due e sommerso da problemi infiniti.
Annunciando l’amore di un Dio («Anghele»)
che ci salva con la croce
e vuole una vita migliore per tutti.

Dopo 15 anni, sono tornato in Congo con un sentimento di grande gioia, anche se offuscata dal fatto che non avrei più incontrato padre Oscar (vedi inserto), con il quale avevamo iniziato la missione di Neisu in piena foresta…
Ricominciare non è stato facile.

UNA povertà…
troppo visibile

Avevo lasciato lo Zaire. Mi ritrovo nel Congo (repubblica democratica), in una zona staccata dal resto del paese e occupata dai soldati dell’Uganda. Vigono ancora le vecchie cariche politiche, ma mancano i fondi. L’Uganda, occupando queste terre, porta via diamanti, oro, legname, senza investire. Ne consegue che l’intera classe politica (dai governatori ai commissari zonali), polizia, insegnanti, infermieri… non sono pagati. Gli unici che hanno qualcosa sono i missionari e pochi commercianti.
Chi ne patisce le conseguenze è, naturalmente, il popolo, oppresso da multe fantomatiche, requisizioni arbitrarie, imprigionamenti senza processo. Per esempio: un lavoratore della missione di Neisu è stato imprigionato per un litigio in famiglia; oltre un mese di assenza, senza processo, perché nel frattempo doveva lavorare… per il capo!
Avevo lasciato uno Zaire che, comunque, tirava avanti, e ho ritrovato una repubblica solo di nome e allo sfascio.
Nella nostra brousse (60 mila abitanti), 15 anni fa, esistevano una ventina di piantagioni di caffè, due fabbriche per l’olio e una per il cotone. Chi gestiva le piantagioni si preoccupava poco della gente, però assicurava l’assistenza medica agli operai e un salario: non molto alto, ma garantiva un minimo di liquidità per acquistare un vestito, pagare le tasse scolastiche ai figli, curarsi in caso di malattia, ecc.
Dopo la stagione del caffè, venivano le arachidi e, in dicembre, il riso. L’economia funzionava, perché si commercializzavano i prodotti. Alludo, per esempio, alla produzione di riso, a Isiro: i contadini non solo ne avevano per il loro fabbisogno, ma potevano venderlo alla brasserie (fabbrica di birra). E la gente aveva qualche soldo.
Ora, di quelle 20 piantagioni non ne esiste più una. Abbiamo una cappella, che si chiama Noula Huilerie; ma bisognerà cambiarle il nome, perché dell’oleificio esistono solo i muri, giacché hanno rubato anche le lastre zincate.
Funzionava pure la ferrovia: molti sacchi di cemento, per la costruzione del nostro ospedale, sono arrivati in treno. Oggi è solo un triste ricordo.
Ho trovato una povertà estrema, e stento a capirla.
Un giorno scaricavamo la macchina con delle mercanzie. C’era un ragazzo a torso nudo (è raro qui vedere, pur nella povertà, gente che viaggia senza camicia, a meno che siano bambini). L’ho rimproverato. Lui mi ha detto: «Padre, io ho una sola camicia e la uso per la scuola; l’ho lavata e sta asciugando al sole!».
Alla missione non mancano i bambini. Ciò che più mi impressiona è che non cercano più soldi, ma lavoro: tutti ragazzini delle elementari alla ricerca di un po’ di denaro per pagare la scuola. Uno mi ha detto: «Sono stato cacciato, perché non ho pagato la tassa scolastica».
– Chiama papà o mamma e digli che il padre vuole conoscerli per sapere come stanno le cose!
– Papà e mamma sono morti di aids…
Il catechista di un villaggio ha nove figli, quattro suoi e cinque del fratello morto, e li mantiene tutti. Nonostante la pena, i bambini sono accolti da altre famiglie… solo che la situazione diventa sempre più drammatica. Allora i bambini disertano la scuola. Non è colpa loro, come non lo è dei genitori, che stentano a sopravvivere. Le mamme non ce la fanno più. Mancando in casa di un salario, devono arrangiarsi, magari inseguendo i mercatini per racimolare due soldi.
Eppoi basta che ci sia un lutto in casa e tutti i risparmi se ne vanno: perché si deve ospitare le famiglie che arrivano, comprare un lenzuolo per avvolgere il cadavere, costruire la bara per non far torto al morto… Ho ricevuto, da una signora non vedente della Brianza, un pacco di lenzuola, ma stanno andando tutte per i morti, perché bisogna rispettare le tradizioni.
Quando sono arrivato nel dicembre 1999, un dollaro veniva cambiato a 900 mila nouveaux zaires. Oggi ne occorrono 7 milioni! Invitare al risparmio è assurdo, perché non esistono banche.
Facciamo un’opera educativa, per coinvolgere la gente nella gestione delle scuole e dell’ospedale. Infatti la scuola funziona, perché i genitori degli allievi pagano gli insegnanti; pagano pure l’ospedale. Interviene anche la missione per i casi pietosi.
Però mi chiedo di che cosa la gente deve ancora farsi carico, quando è abbandonata dallo stato e abita in un paese ricchissimo senza godee assolutamente nulla.

L’ultimo stregone

Sotto l’aspetto religioso, mi ha favorevolmente impressionato la crescita del clero locale. Anche noi, a Neisu, lavoriamo con un missionario della Consolata congolese: un segno che i tempi stanno cambiando.
Un’altra novità: un tempo si battezzavano quasi tutti adulti; ora il catecumenato è seguito in maggioranza da bambini. L’evangelizzazione di massa è stata fatta; oggi si tratta di approfondire la fede, che in molti è abbastanza marcata.
Un grosso aiuto ci viene dal movimento carismatico, soprattutto a livello familiare: fare ordine nelle famiglie dei poligami e in quelle che hanno difficoltà per la dote matrimoniale. Ci è venuta un’idea: scrivere una lettera (con i protestanti) e proporre ai parenti di chi è sposato già da sette anni di «condonare» la dote, anche se non è stata pagata tutta, e permettere ai figli-nipoti di celebrare il matrimonio religioso.
L’anno santo è stato un forte momento di evangelizzazione. Convinti che il cuore del vangelo è la croce di Gesù Cristo, abbiamo visitato tutte le cappelle, portando il grande crocifisso della chiesa parrocchiale. Abbiamo annunciato in kimgbetu che il compendio della bibbia è la morte di Cristo e che Anghele (Dio) ci ha amati fino alla fine.
L’amore di Dio sono in tanti a conoscerlo, ma un Dio che ci ami fino a morire… Non è buono solo perché ci dà i frutti della foresta o i figli, o perché ci fa felici qualche giorno e poi ci castiga quando le cose vanno male. No, Dio è sempre buono perché è morto per noi!
E non mancano «le conversioni». Un giorno padre Richard è tornato dalla brousse con lo strumento di divinazione di uno stregone. Ha voluto convertirsi al vangelo e, per questo, ha rinunciato ai suoi «strumenti di lavoro», causando dei problemi al capovillaggio, che diceva: «Se costui si fa cristiano, non so più dove mandare la gente a risolvere i problemi, perché è l’ultimo stregone».
Era… potente, perché con la sua soroka (pietra magica) riusciva perfino a mandare i fulmini su chi voleva! Un vecchietto furbo. Eppure si è convertito, non perché vicino alla morte, ma perché davanti alla croce di Gesù ha intuito quanto grande è l’amore del Padre per gli uomini, per lui. È stato un grande segno per tutta la popolazione.
Però la nostra gente non ha il senso dell’eucaristia. Questo ci richiede un grande impegno: la missione non arriva al suo fine se non giunge all’eucaristia. L’eucaristia è il crinale, è l’amore di un Dio che vuole vivere con noi nella storia. Oltre a dispensari e scuole, vorremmo allora costruire chiese in muratura, nei grossi centri, per celebrare e distribuire l’eucaristia la domenica: è attorno ad essa che si consolideranno le comunità cristiane, legate dalla stessa fede e impegnate a cambiare in meglio la realtà.
Puntiamo anche sulle comunità di base, come mezzo di inculturazione del vangelo: pensare ai problemi locali, ma dal punto di vista cristiano. Ad esempio, la morte.
Quando un mangbetu muore, arrivano parenti e amici. Allora sorgono i problemi, perché – dicono – la morte è stata causata da uno della famiglia (anche se il decesso è avvenuto all’ospedale). Con padre Oscar, avevo scritto un libretto, Nella sofferenza ti ho cercato, per evangelizzare il dolore e la morte: un piccolo tentativo per condurre la cultura locale (che di fronte alla sofferenza si ribella in modo violento) alla fede in Gesù salvatore e alla speranza cristiana.
Un messaggio che, se compreso, può allargare il cuore alla speranza e spingere a lottare, senza stancarsi, per costruire un paese e una comunità dove trionfi finalmente la vita.

Il «cuore» Nella missione del «cuore»
padre Oscar Goapper, missionario e medico

Missione di Neisu. Vi si arriva attraverso una via sterrata di 30 chilometri, tra le palme e i bambù della fitta foresta. Tempo, un’ora e mezza di Land Rover, se non piove.
Neisu, in lingua mangbetu, significa «cuore». Un cuore che oggi batte soprattutto nell’ospedale. È sorto in una notte di natale senza stelle, allorché i padri Antonello Rossi e Oscar Goapper si sono visti morire fra le braccia una bambina. «Che evangelizzatori siamo – si sono chiesti i due missionari – se non compiamo le opere del vangelo? Gesù curava gli ammalati. E noi? Quanti bambini moriranno stanotte di malaria! E domani, dopodomani?».
L’ospedale è stato, soprattutto, il capolavoro del genio di padre Oscar in un crescendo irresistibile: pediatria, chirurgia, medicina generale; sala operatoria, farmacia, gabinetto dentistico, laboratorio di analisi, raggi X, orto con piante medicinali locali per produrre, ad esempio, l’artimisia contro la malaria. A Neisu il dottor Oscar ha effettuato la prima ecografia di tutto l’Alto Zaire. Oggi vi si compie anche l’osmosi inversa, ossia la distillazione dell’acqua per ottenere un liquido epirogeno per le flebo.

I mprovvisamente, il 18 maggio 1999, il cuore-tornado di padre Oscar si è schiantato. Troppo lavoro, troppa fatica, troppa tensione in un paese maledetto dalle guerre. Al funerale, i suoi pazienti sono corsi a migliaia: vecchi, donne e bambini sbucavano da ogni spiraglio della foresta, dopo aver inseguito sentirneri anche di 50 chilometri. La scena si è ripetuta, 40 giorni dopo, per la tradizionale matanga (fine del lutto).
Secondo il costume dei mangbetu, padre Oscar è stato sepolto in casa, cioè nel cortile dell’ospedale. Così, di fronte a quella tomba, i nonni racconteranno ai nipoti la storia di mupe Oscari: (padre Oscar): un missionario della Consolata argentino che nel 1994, a 43 anni, si è pure laureato a pieni voti in chirurgia e medicina a Milano, dopo aver fatto la spola tra Africa ed Europa.

G iungiamo a Neisu una domenica, all’alba. E ci imbattiamo subito in… Oscar, «nel cuore della missione del cuore». Il cortile dell’ospedale è deserto. Sulla tomba del missionario si staglia una croce in ferro. Dopo alcuni istanti di preghiera, scorgiamo una decina di persone a pochi metri di distanza, in silenzio.
Un anziano ci invita a seguirlo, per introdurci in tutte le stanze dell’ospedale, zeppe di ammalati: ovunque campeggia il ritratto del grand docteur. Da ultimo, apre la porta di uno studio. «Padre Oscar è ancora qui – afferma -. Questo è il suo microscopio, come lui l’ha lasciato. Ecco perché l’attuale dottor Norbert, congolese, non ha voluto prendere posto in questo ufficio. Però, per fronteggiare le esigenze, sarebbe necessario almeno un altro medico. Le docteur Oscar lavorava per quattro».
Su una parete l’ennesima foto di padre Oscar Goapper, sorridente, che abbraccia un bambino.
Francesco Beardi

Antonello Rossi




KENYA – Uniti dalla croce

Per celebrare il grande giubileo, una pesante croce è stata portata
in processione attraverso le 22 parrocchie
della diocesi di Marsabit. Una iniziativa efficace per aiutare le comunità a crescere nell’impegno per la giustizia e pace
e promuovere
la riconciliazione
tra le varie popolazioni della diocesi.

A Baragoi fu deciso di portare la grande croce in tutte le cappelle della parrocchia. Per ogni tappa furono fissate alcune celebrazioni liturgiche comuni: via crucis o rosario; esortazione del diacono o della suora; sacramento della riconciliazione e celebrazione dell’eucaristia. Fu dato spazio anche ad altre manifestazioni religiose, secondo la creatività della comunità locale.
La prima cappella ad accogliere la croce, proveniente dalla parrocchia di Sererit, fu quella di Ngilai. C’era tutta la popolazione, maestri e alunni, bambini e adulti, guidati dal parroco, padre Giuseppe Da Fré, e vice-parroco, padre Giovanni Pronzalino. Era l’11 luglio 2000.
Lo scambio avvenne a un incrocio stradale, confine tra le due parrocchie. Padre Aldo Giuliani, parroco di Sererit, la consegnò solennemente dicendo: «Ecco la croce di Cristo! Prendetela: sono certo che vi farà del bene!». Consegna e accoglienza avvennero tra un tripudio di canti e danze delle due comunità.
Il giorno dopo, i cristiani di Ngilai passarono la croce a quelli di Bendera; questi, il mattino seguente, la consegnarono alla comunità di Marti. In ogni tappa i fedeli la onorarono con commoventi preghiere e danze giorniose.

A Marti, però, nutrivamo non poca apprensione. Il posto è tristemente famoso per una serie di scontri tra samburu e turkana che hanno lasciato profonde ferite nella popolazione. Fu, invece, un incontro sereno e tranquillo. Di fronte alla croce cantarono tutti di cuore la misericordia di Dio, meditarono attenti i misteri del rosario e, durante la messa, ascoltarono commossi la lettura della passione di Cristo.
Significativi furono i commenti della gente. «Ascoltare quanto Gesù ha sofferto per noi ci riempie il cuore di grande dolore» disse Peter Logilae. «Eppure, in un secondo tempo, eravamo pieni di gioia» incalzò Petro Echuka. «Le sofferenze di Cristo ci guariscono da odio e risentimento» concluse Augustine Nakio.
Da Marti la croce sarebbe dovuta andare a Nachola. All’ultimo momento gli organizzatori decisero di spendere un paio d’ore a Naturkan, una comunità appena nata nella valle di Suguta. «In questa zona – mi informò il catechista Andrea Dida – abbiamo circa 20 catecumeni e pochi cristiani provenienti da Marti, Kawop e Parkati».
Sembrava di essere fuori del tempo e in un altro mondo: sole caldissimo, pietre, spine dappertutto. Una visione impressionante. Dalla collinetta su cui si radunò la piccola comunità si vedevano in basso Ter-Ter, Nakupurat, Lochootom e, in lontananza, Lomaro e la valle di Suguta. Eravamo sulle pendici di quell’ampia e lunga spaccatura della terra chiamata Rift Valley.
Per raggiungere questa zona non esistono strade, eccetto una pista che la missione ha fatto tracciare, impiegando la gente del posto, compensandola col «cibo in cambio di lavoro». La popolazione vive col minimo necessario, che è sempre scarso. Abituato ad altre parti del Kenya, dove le comodità modee sono abbastanza diffuse, mi venne il dubbio che questo pezzo di terra non facesse parte della stessa nazione.
Mentre contemplavo tanta bellezza intatta e selvaggia, si avvicinò un bambino di circa sette anni, magrissimo, la pancia gonfia e ferite fresche e da poco medicate sulla testa e sulle braccia. Guardai con sorpresa padre Da Fré, che mi spiegò cosa era capitato: «Mentre stava mungendo una cammella per mettere qualcosa nello stomaco, fu battuto a colpi di panga (coltellaccio). Ora vive con il catechista. Sarà un nostro futuro seminarista!» concluse il padre accarezzando il bimbo.
Rimasi impressionato nel vedere la gente di quella zona così povera accogliere la croce con tanta gioia, che emanava dai volti sorridenti: sembrava non avere alcun problema.

D a Naturkan la croce proseguì per Nachola, come stabilito; il giorno seguente raggiunse Baragoi, sede parrocchiale.
Nel mese di maggio, questa comunità aveva programmato la celebrazione del proprio giubileo. Come momento culminante e a ricordo dell’evento, era stato deciso di piantare una croce, con la scritta «2000 anni di Redenzione», in cima alla collina di Logeterni, a circa 5 chilometri dal centro abitato. Ma i rischi contro la sicurezza delle persone, causati dalla tensione tra turkana e samburu, consigliarono di rimandare tutto a tempi migliori.
La peregrinazione della croce attraverso la diocesi e il suo arrivo a Baragoi offrirono l’occasione per concretizzare tale desiderio. Al suono della campana, tutti i cattolici e molti non-cattolici si radunarono nell’Huruma Village (villaggio della misericordia), la casa per anziani costruita dalla parrocchia.
Poiché la maggioranza della gente che vive vicino a questa casa è turkana, si temeva che potesse sorgere qualche problema con i samburu, poiché la tensione non era ancora del tutto smaltita. Ma non ci furono problemi: turkana e samburu si radunarono insieme pacificamente, consapevoli che Cristo è al di sopra di ogni differenza.
La croce preparata dalla parrocchia, portata a spalle da giovani, apriva la processione; seguiva lo stendardo parrocchiale, sostenuto da due donne: l’una turkana e l’altra samburu. I vari gruppi della comunità intercalarono canti, ognuno nella propria lingua. Mentre la fiumana di gente guadava il fiume Baragoi e il torrente che scende da Logeterni, pensavo al passaggio degli israeliti attraverso il Mar Rosso.
In cima alla collina la comunità di Logeterni aveva fatto un bel lavoro: strade pulite, altare addobbato, area circostante decorata con pietre bianche. Piantata la croce, fu celebrato il sacrificio eucaristico.
Al termine Thomas Lolkirik mi sussurrò: «Mi ha molto impressionato vedere quelle due madri, rivestite degli oamenti caratteristici delle rispettive etnie, portare lo stendardo in processione in perfetta armonia. Un fatto che ha commosso molta gente: ho visto persone versare qualche lacrima. Due donne semplici, che non hanno mai messo piede in un’aula scolastica, sono state una testimonianza di ciò che la fede cristiana può operare. Un bellissimo esempio per la comunità di Baragoi; uno stimolo per lavorare insieme, mettendo da parte le rivalità tribali che da troppo tempo provocano sanguinosi conflitti».
È pure la speranza di noi missionari: possa la celebrazione giubilare portare a tutti gli abitanti di Baragoi, cattolici e non cristiani, pace e unità, amore e fiducia reciproca!

Daniel Lorunguya




Un calcio al “resistol”

Le storie di Kelvin, Nelly, Carla, Jimmi, Juan Carlos si assomigliano tutte. Sono bambini cresciuti
sulle strade di Tegucigalpa, tra indifferenza e fastidio, vivendo di espedienti, spesso inalando
il «resistol», la terribile droga dei poveri. Poi la sorte li ha portati a «Casa Asti», un centro di amicizia, solidarietà, tenerezza e integrità, diretto da Susanna Arrighi,una psicologa astigiana.

Avevo percorso la calle Real con Susanna, ma quella era la prima volta in cui camminavo da sola per le strade di Tegucigalpa, la capitale dell’Honduras. In quel momento, la città mi parve racchiudere una realtà ancora più tragica.
Bambini addormentati sui marciapiedi sopra i cartoni (1), uomini e donne, con mutilazioni e deformazioni di ogni genere, seduti ai margini della strada a chiedere l’elemosina. E ancora: venditori ambulanti (soprattutto donne e bambini), che urlavano in cerca di clienti; bambini che inalavano resistol, la droga dei poveri (2), fermi davanti alle vetrine di locali nella speranza di poter rubare immagini di vita felice dalla televisione; macchine e pullman che correvano all’impazzata sulle strade, indifferenti a tutto e a tutti.
Mi soffermai a guardare un grande albero secco, situato sulla riva del fiume, sul quale si erano posati grossi rapaci neri (zopilotes) e mi chiesi in quale razza di posto fossi finita. Mi voltai e, per concludere lo scenario, lo sguardo cadde su rifiuti, detriti, macerie risalenti ancora all’uragano Mitch (1998) e bambini scalzi che frugavano nell’immondizia. Erano le 8 del mattino e la città era nel pieno della vita.

Ero triste pensando a quei bambini, ai loro diritti e all’impossibilità di farli valere. Presa da questi pensieri, improvvisamente mi sentii chiamare: «Profesora, profesora».
Era Kelvin, un niño de la calle, che frequentava saltuariamente «Casa Asti».
– Hola! – gli dissi -. Vieni con me al centro?
– No – rispose secco.
Conoscevo bene la motivazione. Il suo capogruppo apparteneva alla squadra che abitava sotto il ponte e gli aveva detto di non andare a «Casa Asti», in quanto avrebbe dovuto guadagnare qualche lempira (la moneta locale) per comprare il resistol.
Io allora dissi a Kelvin che mi sarei fermata un po’ a fargli compagnia. Che gioia provai quando vidi i suoi occhi illuminarsi. Stetti con lui cercando di farmi capire (era solo una settimana che stavo in Honduras e a mala pena conoscevo lo spagnolo). Gli mostrai alcune cartoline dell’Italia, raccontando come si vive nel nostro paese. Dopo un’ora, ci salutammo con la promessa che sarebbe venuto a «Casa Asti».
Ero felice. Tutti i pensieri tristi dell’inizio-mattinata erano spariti. Ancora oggi, pensando a Kelvin, ho impresso il sorriso di quel giorno. Kelvin incominciò a frequentare regolarmente il centro. Diceva agli altri niños: «L’ho promesso alla profesora».
Con il tempo incominciò ad aprirsi, a dialogare raccontando di sé e della sua famiglia. Adorava disegnare, ma preferiva farlo da solo, in una stanza tutta per lui. Era uno dei pochi momenti in cui poteva avere un luogo «suo».
Si prendeva un peluche sulle gambe e dava libero sfogo alle emozioni: disegnava sempre una casa e un albero (è facile intuire quale forte desiderio comunicavano queste raffigurazioni). All’inizio, nei suoi disegni, il cielo era coperto da nuvole e pioveva; poi incominciò a spuntare il sole e, infine, quest’ultimo brillava alto nel cielo.
Un giorno mi venne vicino e felice mi disse: «Emanuela, sono tornato a casa!».
Andai a trovarlo. Viveva in una guarderia, una grande baracca fatta di tavole di legno e lamiera nella quale si ricavano quartos (stanze). Ho ancora presente l’odore di quei locali. Sono un po’ come le cantine dei nostri alloggi. Eppure Kelvin era orgoglioso della sua stanza.
Mi presentò la sua famiglia: la mamma, le sorelle, la zia. Raccontò loro che era mio amico e che io abitavo in un paese lontano (dovevo prendere ben tre aerei!).

Kelvin è uno dei tanti niños de la calle che ho conosciuto: ma ci sono anche Freddy, Nelly, Carla, Jimmi, Juan Carlos e tanti altri. Tutti hanno in comune il forte desiderio di trovare qualcuno che gli dia un po’ d’amore e affetto.
E tutto questo è ciò che Susanna Arrighi, una mia concittadina, sta cercando di fare con il progetto che, da più di un anno, è nato in Honduras.
Il progetto si chiama «Casa Asti» perché Susanna è un’astigiana. Ma «Asti» è anche un acronimo: a come amistad (amicizia), s come solidaried (solidarietà), t come tenuria (tenerezza) e i come integridad (integrità).
Il lavoro si rivolge ai «niños de la calle» (con l’ambizione di estendersi anche alle famiglie che si sono trovate a dover vivere per strada, dopo il disastro provocato dall’uragano Mitch e le false promesse di aiuto da parte del governo). Moltissimi bambini vivono, dormono, vagabondano, rubano, chiedono l’elemosina… Tutta la loro vita si svolge sulle strade della città, tra l’indifferenza generale.
Sono come un fenomeno di costume, fanno parte del paesaggio, nessuno si ferma a parlare con loro, la gente li evita, ha paura e ribrezzo. Eppure sono bambini!
Non aspettano che una parola buona, che qualcuno li consideri, li veda, dia loro un po’ di attenzione. E Susanna cerca di dare tutto ciò. «Casa Asti» è un rifugio dove poter vivere una giornata da bambini normali. Possono giocare, dormire, studiare, guardare un po’ di televisione, fare – perché no? – anche i capricci.

I niños de la calle vengono avvicinati per le strade. Si offre loro qualcosa da mangiare, vengono medicate le ferite, spiegato brevemente cos’è «Casa Asti», dove si trova, come arrivarci.
Se decidono di conoscerla subito, li si accompagna, in bus o camminando, approfittando del momento per conoscersi un po’ di più. Una volta giunti, li si presenta agli altri, li si invita a lavarsi e cambiare la roba che indossano. Viene offerta loro la colazione e vengono integrati alle varie attività che si sviluppano nel progetto, rispettando tempi, gusti, preferenze di ciascuno. Possono leggere, scrivere, disegnare, giocare, guardare la televisione, fare lavoretti di manualità, dormire, imparare a lavorare il vimini, discutere in gruppo, avere un supporto terapeutico; essi stessi possono suggerire argomenti ed attività agli educatori. Quando le loro condizioni fisiche lo richiedono, vengono accompagnati alle visite mediche, generiche o specialistiche (del cui costo si fa carico «Casa Asti»).
Non esistono regole rigide, a parte il rispetto reciproco e gli orari dei pasti, nonché la condivisione dei compiti (come aiutare nelle faccende domestiche: scopare, lavare i pavimenti, spolverare, ecc.). I niños possono venire all’ora che vogliono ed andare via all’ora che vogliono, o fermarsi tutto il tempo.

Il progetto si rivolge anche alle famiglie aiutandole in interventi di natura burocratica (fare i documenti, iscrivere i bambini a scuola, ecc.), medica (visite, vaccinazioni, medicinali, ecc.), socio-assistenziale (ricerca di un lavoro o di un impiego migliore e meglio retribuito, o di una casa più dignitosa, acquisto di mobilio di base, ricerca di un hogar dove eventualmente ospitare i bambini, ecc.), legale (denunce per maltrattamenti, violenza domestica e familiare, dichiarazioni di stato di abbandono o negligenza, ecc.), psicologica (supporto terapeutico, gruppi di auto-aiuto, ecc.), religiosa (battesimi, cresime, matrimoni, ecc.).
Tutti questi interventi richiedono molto tempo per la loro esecuzione, sia per la cultura imperante (un machismo esasperato, una autostima femminile bassissima) sia per il livello di ignoranza di molte famiglie. Senza dimenticare la grande diffidenza verso gli estranei e i problemi burocratici e legali, per lo scarso appoggio da parte degli enti governativi. C’è, infine, l’esiguità dei mezzi economici di cui «Casa Asti» dispone.

Il cammino è ancora lungo, la sfida è grande, le difficoltà sono tante. I problemi, a volte, paiono insuperabili, ma la consapevolezza di fare qualcosa, per poco che sia, per qualcuno di questi bambini, costituisce lo stimolo più forte per andare avanti.
Il sorriso dei bambini che, dopo mesi di vita di strada, hanno trovato la forza di lasciare il ponte sotto il quale vivevano e soprattutto il barattolo di resistol, è una ricompensa che ripaga le sofferenze e le fatiche di un progetto così grande.

NON MANCAVA CHE L’URAGANO

L’Honduras è una delle sei repubbliche che costituiscono l’istmo che lega America settentrionale ed America meridionale. Zona equatoriale dunque, tra i due oceani, l’Atlantico e il Pacifico.
Come superficie è un terzo dell’Italia, con una popolazione stimata di 6 milioni di persone. La parte nord, quella sull’oceano Atlantico, è la più sviluppata. Nelle pianure intee ci sono le grandi coltivazioni di banane, caffè, mais, tabacco, ananas. Il suolo, ove non presenta rocce o colline brulle e di non facile accesso, è generoso dal punto di vista agricolo. I raccolti dipendono molto dalle condizioni atmosferiche. Si sono alternati negli anni periodi di siccità forti e prolungati a periodi di allagamenti ed inondazioni. L’ultima, forse la più catastrofica, si abbattè con la violenza dell’uragano «Mitch» (fine ottobre 1998). Tutto il paese fu toccato brutalmente dalle forze della natura coalizzatesi nei turbini prodotti da venti ed acque fluviali terrificanti.
Il 51% degli honduregni è costituito da bambini e adolescenti. La popolazione dell’Honduras è dunque molto giovane. Il 46% dimora nelle aree urbane (la capitale Tegucigalpa conta circa un milione di abitanti) ed il restante 54% in zone rurali. Le famiglie in situazione di povertà sono ben il 76%, delle quali il 45% in condizioni di autentica miseria. Considerando la sola popolazione dei minori di anni 18, ben il 61% vive in stato di povertà estrema. E, come avviene in tutti i paesi in via di sviluppo, l’incremento demografico è dell’ordine del 3% annuo.
Secondo l’«Organizzazione degli stati americani» (Osa), tra tutti i paesi del continente per qualità e durata della vita l’Honduras è penultima, precedendo la sola Haiti.
Per ciò che riguarda la sanità, le condizioni sono ritenute «inadeguate» in termini di abitazioni, controllo igienico della persona e degli alimenti, acqua potabile, strutture ospedaliere ed ambulatoriali, fognature e raccolta di rifiuti.

Se vogliamo dare uno sguardo alle problematiche infantili, ne ricaviamo un quadro disastrato. Si stima che migliaia di ragazze, tra i 14 e i 17 anni, siano madri (madres solteras): esse, per le condizioni in cui vivono, sono esposte ad aborti o a procreare figli che nascono sotto peso. Abbandonate dalle famiglie d’origine, a loro volta queste ragazze, con una certa frequenza, abbandonano i figli.
Quanto all’educazione scolastica, 7 bimbi su 10 non ricevono attenzione prescolare, soltanto 3 su 10 terminano le elementari (durano 6 anni), il 24% dei bimbi in età dai 6 ai 13 anni non frequentano nulla. L’analfabetismo si aggira attorno al 45-50%.
E questo a confermare l’ennesimo fallimento dell’Onu. La «Convenzione sui diritti del bambino» era stata votata all’umanità dall’assemblea generale delle Nazioni Unite alla fine del 1989. Dopo 10 anni, la situazione è notevolmente peggiorata. In Honduras e in tutti i paesi del cosiddetto «Terzo mondo».

Nel 1990 quando conobbi Emanuela, essa frequentava le scuole superiori ad Asti. Con altri compagni di classe, si era impegnata nel finanziare un’adozione a distanza in Honduras, dove io nacqui nel 1922. Nello stesso anno (1990) ero ritornato a Tegucigalpa, la capitale, per occuparmi di bambini, i niños de la calle.
Così Emanuela incominciò ad accostarsi a quel paese. Sono trascorsi 10 anni ed Emanuela, come raccontato nell’articolo, ha trascorso le ferie a «Casa Asti». Durante queste vacanze ha anche visitato l’Hogar don Bosco, nato nel 1990 per iniziativa di un missionario salesiano, padre Ottavio Sabbatin, e sviluppato fino ad ospitare 50 bambini interni ed altrettanti estei nell’asilo nido (guarderia). Oggi è gestito da una associazione honduregna presieduta da un missionario salesiano spagnolo, padre Edoardo Martin, e ha l’appoggio economico di un nutrito gruppo di benefattori veneti. Per fortuna, l’uragano Mitch ne ha risparmiato le strutture.

(*) A «Casa Asti» è volontaria la figlia di Edoardo Arrighi, Susanna, psicologa. Per informazioni contattare l’autore al numero telefonico 0141.215051.

Emanuela Musso




ISOLE COOJ – Fra i marosi dell’oceano blu

«Reportage» dal remoto sud dell’Oceano Pacifico,
tra palmi di terra corallina e vulcanica,
dove le persone si contano sulle dita.
Sfidano le onde, ieri come oggi.
Cantano e danzano in una natura da favola.
Ma occhio al ciclone!

QUEI CATTOLICI…EXTRA LARGE
Manca ancora mezzora all’inizio della messa, e la chiesa è già gremita. Tutti i banchi sono pieni; ne sono stati disposti altri, per l’occasione, sul prato antistante la chiesa, anch’essi tutti occupati. Solo i fedeli ritardatari rimangono in piedi, dietro gli ultimi che hanno trovato posto. La celebrazione è, dunque, affollata e seguita con attenzione da tutti.
Siamo a Rarotonga, l’isola principale dell’arcipelago di Cook, nel remoto sud dell’Oceano Pacifico.
Padre Kevin, neozelandese, celebra la liturgia alternando l’inglese e la lingua locale, uno degli idiomi polinesiani. È una lingua priva di aspirate, utilizza molto le vocali e ripete spesso le sillabe. Ciò fa sì che sia molto dolce e particolarmente adatta ai canti, che si susseguono numerosi. In chiesa i testi da cantare vengono proiettati su una parete bianca, mentre il coro è sostenuto da una tastiera modea, dotata di accompagnamenti.
Il ritrovo è anche un’occasione per osservare le caratteristiche della popolazione e i suoi costumi. Le persone, uomini e donne, sono generalmente di struttura fisica robusta e persino poderosa. In seguito constateremo che le taglie delle camicie e delle T-shirt sono di dimensione abbondantemente extra… extra large!
Le signore indossano i vestiti migliori. Ma la nota più caratteristica è il loro cappello, a falda abbastanza larga, realizzato in fibra di pandano e decorato con fiori, anch’essi di pandano. Fra le chiome delle ragazze spicca, spesso, un fiore vero.
I cattolici nelle Isole Cook rappresentano solo il 4% della popolazione, che per il 90% circa segue la Cook Islands Christian Church (Cicc), fondata dalla London Missionary Society. La Cicc è una comunità tendenzialmente anglicana con influenze di altre chiese protestanti. Il resto della gente appartiene a sètte e ai mormoni. I fedeli della Cicc, di domenica, vestono spesso in bianco, sia uomini che donne. Si tratta di una sorta di divisa, obbligatoria in certi eventi.
Un tratto comune delle varie denominazioni religiose è il canto corale di composizione locale. Si vendono pure CD con musica sacra, e non solo.

L’uomo meglio del maiale
Gli abitanti delle Isole Cook non superano le 20 mila unità, e altrettanti risiedono all’estero, principalmente in Nuova Zelanda. Vivono su un arcipelago formato da isolotti piccoli e piccolissimi, dispersi nell’Oceano Pacifico, ad enormi distanze fra loro, tra l’equatore e il tropico del capricorno: sono di origine vulcanica e corallina.
Rarotonga, l’isola più grande, ha un perimetro di circa 30 chilometri e conta 10 mila abitanti, mentre a Palmerston (tanto per fare un esempio) ne vivono 50 e 6 a Suwarrow.
Etnicamente la popolazione fa parte dei popoli polinesiani emigrati dalla Papua parecchi millenni a.C.: occuparono progressivamente le isole del Pacifico, fino alle Hawai e alla Nuova Zelanda. Allorché entrarono in contatto duraturo con gli europei, nel secolo XVIII, i rapporti furono amichevoli e ostili ad un tempo. Lo stesso capitano James Cook (da lui il nome delle isole) fu ucciso nel 1779 durante una zuffa con i locali che aveva già visitato.
Ebbene, i rapporti con i bianchi non furono sempre idilliaci. I missionari furono negativamente impressionati dal paganesimo imperante nell’arcipelago e da pratiche saltuarie di cannibalismo.
Un missionario dell’epoca, William Gill, trascorse la maggior parte della sua vita sulle Isole Cook e nel 1892 pubblicò un libro, descrivendo gli usi dei nativi. Illustrò parecchi riti, come quello del trattamento del corpo dei nemici uccisi. Il missionario raccolse da un indigeno (cannibale) l’affermazione che «la carne dell’uomo è assai migliore di quella del maiale». Però il cannibalismo veniva praticato sporadicamente con lo scopo di acquisire gli eventuali poteri del nemico, ma anche per infliggergli l’estremo oltraggio.
In ogni caso i missionari inglesi non seppero percepire la complessità delle regole dei rapporti sociali di quei popoli. Cercarono di sradicare completamente la loro cultura tradizionale. E quasi ci riuscirono.
Una significativa manifestazione socioculturale (tuttora viva) era rappresentata dalla danza, eseguita da uomini e donne. Le movenze sono diversificate, probabilmente più variate quelle maschili di quelle femminili. Le donne si destreggiano bene con gesti delle mani e con l’ondulare ritmico delle anche, spesso cinte da un serto di fiori. Forse, per questo, padre Gill scrisse: «Circa la moralità dei loro balli, meno se ne parla meglio è; la danza upaupa, introdotta da Tahiti, è proprio oscena».

Perché non adottare
una balena?
Oggi sulle Isole Cook la vita scorre tranquilla, ma non pigra, in un ambiente curato e ordinato. Una piacevole abitudine della gente di Rarotonga, che si incontra al mattino, è quella di scambiarsi non solo il buongiorno, ma anche di chiedere: «Come ti senti stamattina?». Oppure: «La notte passata è stata gradevole?». Questo succede anche incrociando, in bici, la signora sconosciuta che sta tagliando, al mattino presto, la siepe del suo giardino. La bicicletta è il mezzo migliore per visitare Rarotonga, date le sue modeste dimensioni.
Solo una volta siamo stati salutati secondo il costume tradizionale, che consiste nel pronunciare una frase di benvenuto piegando la testa all’indietro e innalzando le sopracciglia. Ma i costumi cambiano.
Un altro aspetto caratteristico di Rarotonga sono le tombe. Queste sono raccolte, generalmente in piccolo numero, in luoghi che sembrano abbandonati o in vicinanza di edifici religiosi. Ma se ne trovano anche nei campi o in un angolo del giardino di casa; in questo caso le tombe sono molto curate.
Un fenomeno inatteso (per il visitatore) è il continuo rombo del mare, generato dal fluire della risacca sulla superficie superiore della barriera corallina: rombo a cui si sovrappongono i tonfi cadenzati dei frangenti più vicini. Qui il padrone di tutto è moana, l’oceano.
La barriera corallina separa il mare aperto, immenso e possente, dalla laguna con acque calme e trasparenti. Però basta la presenza contemporanea dell’alta marea e di un soffio di vento per trovare, al mattino seguente, la strada litoranea attraversata da ampie strisce di sabbia: l’oceano scavalca facilmente il piccolo ostacolo rappresentato dalla barriera corallina.
Nell’inverno locale le tempeste si ripetono regolari; ogni 15-20 anni diventano veri e propri cicloni. In ogni dove si leggono le istruzioni da seguire in caso di cicloni. Il fenomeno viene osservato da molta distanza e le informazioni relative sono date con grande frequenza alla radio.
Quando il ciclone si avvicina ad un’isola, le istruzioni prevedono l’obbligo di stare chiusi in casa, dopo aver fatto passare sul tetto dell’abitazione alcune corde, da legarsi al tronco di alberi robusti più vicini. Il ciclone sull’arcipelago è un evento «normale», anche se catastrofico: può durare giorni. Le isole coralline, assai basse, vengono interamente spazzate dal mare con una forza smisurata.
Ma gli abitanti delle Isole Cook sanno «gestire» l’oceano con bravura. L’hanno imparato fin da bambini, anche attraverso le favole della nonna. La dimestichezza col mare è evidente in tante leggende. In una si racconta di un ragazzo che aveva adottato come animale domestico una balena!

un paradiso terrestre?
L’arcipelago Cook appartiene a quelle terre spesso sognate da chi abita in climi temperati, contraddistinti dall’alternarsi di stagioni diversificate. Ci sono spiagge bianche, con palme che si chinano fin sul bagnasciuga, lagune dalle acque limpide e gremite di pesci coloratissimi. Il mare è blu cupo.
La temperatura è stabile e, nella stagione secca, si aggira fra i 26/28 gradi. Il tempo però è estremamente variabile: il cielo terso del mattino può, ad un certo istante, offuscarsi di nuvole che d’un tratto coprono le isole. Ne possono scaturire brevi pioggerelle.
La flora ha la tipica esuberanza della natura tropicale con grande varietà di fiori, coltivati spesso anche nei giardini delle abitazioni.
Un paradiso terrestre? Non è detto. Ogni paese ha i suoi vantaggi e svantaggi. La serenità esiste. Ma è un fatto interiore.

Pier Giorgio Motta