Un po’ di dinamite e tanta pace

Un autodidatta che parlava svedese, russo, francese, inglese e tedesco.
Chimico, industriale, scienziato.
E inventore della dinamite.
«La mia casa è il lavoro e il lavoro è dappertutto» diceva. Ricco ma non felice, destinò 300 miliardi
di lire al bene dell’umanità.

Il personaggio

Poche personalità svedesi sono conosciute nel mondo come lui, almeno per quanto concee il nome. Il grande pubblico, forse, non conosce la sua storia in dettaglio; ma sa del premio… Nobel.
Stiamo parlando proprio di Alfred Behard Nobel, chimico, industriale e scienziato svedese, nato a Stoccolma il 21 ottobre 1833. La sua famiglia discendeva da agricoltori della Scania, una regione all’estremo sud della Svezia. Il cognome originario era Nobelius, successivamente abbreviato in Nobel.
Ultimo di tre figli, Alfred era di vivace intelligenza fin da bambino. Ma non frequentò mai regolarmente la scuola, costretto a seguire il padre prima in Russia (dove il genitore aveva alcune aziende meccaniche) e poi viaggiando in Inghilterra, Francia, America.
Autodidatta, a 20 anni era già un buon chimico e parlava correntemente svedese, francese, inglese, tedesco e russo. Amante della solitudine (sovente spariva per lunghi periodi e nessuno sapeva dove fosse), era un sognatore introspettivo.
Professionalmente Alfred crebbe all’ombra del padre fino alla sua prima e importante scoperta nel 1862, quando brevettò un detonatore a percussione, che utilizzò nella fabbrica di nitroglicerina a Heleneborg presso Stoccolma.
Era cortese, soprattutto con la baronessa Bertha von Suttner (la prima donna ad essere insignita del premio Nobel per la pace nel 1905), che così lo descrisse: «Aveva 43 anni, piuttosto basso di statura, la barba nera; i lineamenti non erano né belli né brutti; il tono della voce era malinconico e il volto triste, però illuminato da occhi azzurri che esprimevano un’infinita bontà d’animo». Con Bertha Alfred ebbe un legame tormentato: durò circa 20 anni, trascorsi spesso lontani l’uno dall’altra.
Con il passare del tempo, Alfred si incupì. Rigettò ogni ostentazione. Ebbe pochi onori pubblici, anche perché non li cercava. «So di non aver meritato la celebrità – dichiarò – e non ho alcun amore per il chiasso. In questi tempi di rumorosa e sfrontata pubblicità, solo chi ha particolari tendenze per queste cose deve permettere ai giornali di riportare le proprie dichiarazioni o di pubblicare la sua foto».
Non si fece mai ritrarre. Di lui esiste un solo quadro, eseguito dopo la morte.
Nobel, però, fu molto generoso, aiutò gli altri in maniera consistente e fu religioso a modo suo. «Circa le mie idee religiose – disse -, ammetto che escano dalle vie comunemente battute. Proprio perché questi problemi sono infinitamente superiori a noi, rifiuto di accettare le soluzioni proposte dall’intelligenza umana. Sapere che cosa dobbiamo credere mi pare impossibile come la quadratura del cerchio».
Nonostante le notevoli qualità (era colto, profondo, spirituale e ricco), Alfred Nobel non fu mai felice e non ebbe molto successo nelle relazioni umane. Per esempio, non si formò una famiglia. «La mia casa – diceva – è il lavoro, e il lavoro è dappertutto».
attività e invenzioni
A 31 anni Alfred si trovò solo a dover fronteggiare ogni difficoltà, dopo l’ennesimo fallimento economico del padre. Inoltre la fabbrica di nitroglicerina era saltata in aria, uccidendo il fratello Emil e alcuni lavoratori.
Pur nel dolore, Alfred non si scoraggiò e quasi subito organizzò una Compagnia svedese per la fabbricazione di una glicerina meno pericolosa, facendola brevettare in tutta Europa. Si trattava di un miscuglio di glicerina ed estere trinitrico, inventato nel 1847 da Ascanio Sobrero: un modesto medico piemontese che, a Torino, insegnava chimica alla Scuola di meccanica e chimica applicata alle arti. Nobel rese più stabile la nitroglicerina mescolandola con materiale neutro.
Ottenne così nel 1867 la dinamite: tale prodotto avrebbe rivoluzionato il lavoro in miniera, la costruzione di strade e gallerie. Alcuni anni dopo, realizzò la «polvere pirica Nobel», che costituì la base di partenza per altre scoperte. Cominciarono esperienze e studi che portarono lo svedese a brevettare oltre 300 invenzioni, fruttandogli una immensa fortuna. In pochi anni divenne ricchissimo.
Più armi… più pace?
Allorché Bertha von Suttner (ispiratrice del premio Nobel per la pace) tentò di convincere Alfred a partecipare a un convegno sulla pace, questi rispose: «Le mie fabbriche possono mettere fine alle guerre più rapidamente dei vostri incontri. Il giorno in cui gli eserciti si annienteranno reciprocamente in un secondo, tutte le nazioni (dobbiamo almeno sperarlo) eviteranno la guerra e smobiliteranno i loro arsenali. Più le armi saranno apocalittiche, più gli uomini eviteranno la guerra. Forse il modo per scongiurarla è di costringere tutti i paesi a punire severamente chi pone fine alla pace e dichiara guerra».
Questa dichiarazione del dicembre 1895 (un anno prima della morte) racchiude l’ideale di Nobel: non distruggere il genere umano; eliminare le ingiustizie, ereditate da epoche di oscurantismo; favorire lo sviluppo e la scienza per vincere la battaglia contro tutti i mali fisici che affliggono l’uomo.
E fu proprio per vincere questa battaglia che Alfred Nobel decise di destinare la maggior parte delle sue fortune «a un fondo i cui interessi si distribuiranno ogni anno come premio a coloro che, durante l’anno precedente, abbiano maggiormente contribuito al benessere dell’umanità…».
«Una parte del premio andrà a chi abbia fatto l’invenzione più importante o recato il più grosso contributo nella chimica; un’altra parte alla persona con la maggiore scoperta nel campo della fisiologia o della medicina; una parte ancora a chi, nella letteratura, abbia scritto l’opera ideale più notevole; una parte, infine, all’individuo che più si sia prodigato o abbia realizzato il miglior lavoro ai fini della frateità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione degli eserciti permanenti».
È la parte finale del testamento che Alfred Nobel redasse a Parigi nell’agosto 1896, qualche mese prima di trasferirsi a Sanremo, dove morì il 10 dicembre in grande solitudine.
La «Fondazione Nobel»
Dopo la morte di Alfred Nobel, venne formato un Organo che avviasse le procedure per il riconoscimento del testamento (solo 300 parole), soprattutto per l’uso migliore del patrimonio lasciato: 31 milioni di corone svedesi, pari a circa 300 miliardi di lire italiane attuali.
Poiché Nobel aveva previsto dei premi inteazionali (senza tuttavia precisare competenze e criteri di scelta), il 29 giugno 1900 (dopo quattro anni di battaglie legali tra eredi e stato) un decreto del Consiglio reale svedese approvò lo statuto della Fondazione Nobel, confermato il 10 aprile 1905 con disposizioni valide tutt’oggi.
Così iniziava l’«avventura» della Fondazione Nobel, cui sono collegate:
– l’Accademia reale svedese delle scienze (275 membri, scelti fra i più prestigiosi centri scientifici del paese): assegna il Nobel per la chimica e fisica;
– l’Assemblea del Karolinska Institutet (150 membri del massimo centro medico della Svezia e uno dei migliori del mondo): nomina i Nobel della fisiologia o medicina;
– l’Accademia di Svezia (con 24 fra i più autorevoli scrittori locali): designa il Nobel della letteratura;
– la Banca di Svezia (con 48 qualificati economisti): sceglie il vincitore del Nobel in economia istituito, a differenza degli altri, nel 1969;
– la Commissione Nobel, formata da cinque parlamentari norvegesi (poiché fino al 1905 Svezia e Norvegia costituivano un unico regno): assegna il premio per la pace.
La consegna dei cinque premi avviene a Stoccolma e a Oslo il 10 dicembre di ogni anno, anniversario della morte di Alfred Nobel. Con ogni probabilità la mondanità della cerimonia fa rivoltare nella tomba l’ideatore di un premio tanto significativo.

Eesto Bodini




Missionari e indios di Roraima nella bufera – Speciale BRASILE

La testa sul vassoio
Testimonianza di un vescovo

Sono stato vescovo di Roraima
dal 1975 al 1996, in uno degli stati più «caldi» del Brasile, con scontri tra bianchi e indios. Durante i 20 anni di servizio, politici, giornali e radio locali hanno giocato al tiro a segno contro la chiesa di Roraima, scagliando contro il vescovo e i missionari della Consolata le critiche più velenose e le calunnie più spudorate.
L’apice della tensione si raggiunse nel 1993. Un sicario, telefonando ad una radio, si offrì di uccidere il vescovo, porre la sua testa su un vassoio e deporla ai piedi del monumento al garimpeiro (cercatore d’oro) di Boa Vista. La telefonata, ripresa da altre radio, fu udita da tutti e causò grande spavento.
Decisi di ricorrere a Brasilia, capitale federale, per presentare il caso al Ministero di giustizia e chiedere aiuto alla Conferenza episcopale (Cnbb). I vescovi promossero un giorno di mobilitazione, il 16 aprile 1993. La manifestazione si svolse a Boa Vista, con la partecipazione del presidente e vicepresidente della Cnbb, di altri vescovi, del Consiglio indigenista missionario (Cimi), della Commissione pastorale per la terra e di alcuni deputati. Il Ministero di giustizia inviò alcuni poliziotti per difendere la casa del vescovo.
Da allora la televisione di Roraima ha ignorato l’azione della chiesa: non più attacchi, ma neppure interviste. Il programma, che tenevo ogni venerdì, fu abolito.
Contro le accuse e discriminazioni la chiesa ha quasi sempre risposto col silenzio e perdono, mentre spiegava con lettere e messaggi il suo comportamento. Però una volta ha denunciato due radio (1993), ma le autorità hanno lasciato di proposito che il caso cadesse in prescrizione.

Potrei sintetizzare i miei 20 anni di episcopato
parafrasando san Paolo: una volta ho rischiato di avere la casa devastata dai garimpeiros; in tre occasioni ho avuto la polizia federale schierata davanti alla casa a protezione della mia vita; la chiesa di Roraima, accusata di ogni misfatto, è stata per due volte (1989-9O) indagata da due commissioni d’inchiesta, senza trovare la minima prova a carico; per tanti anni i missionari e il sottoscritto siamo stati spiati dalla polizia, senza mai trovare la minima illegalità nel nostro comportamento. Poi innumerevoli denunce di essere seminatori di zizzania.
Uno degli ultimi casi capitò nel 1995. Un delegato della polizia federale fu incaricato di indire il processo su un episodio di violenza contro gli indios macuxí; prima ancora di ascoltare le deposizioni delle vittime, il delegato accusò la chiesa di essere l’istigatrice dell’accaduto. La notizia rimbalzò su tutti i mass media nazionali, con le false testimonianze per provare l’accusa. Naturalmente eravamo estranei alla vicenda. E il caso si sgonfiò come una bolla di sapone.
Mentre certi settori della società e del governo
si scagliavano contro la chiesa di Roraima, questa riceveva onorificenze nazionali e inteazionali. Il 9 agosto 1990, a Brasilia, il presidente della camera e deputati di vari partiti elogiarono in assemblea il mio operato… Nel giugno 1994, a Rio de Janeiro, mi fu consegnato il premio «Alceu Amoroso Lima» per il lavoro a favore degli indios. Il 31 dicembre 1994 lo stesso governo di Roraima riconobbe i meriti della chiesa, concedendomi il grado di «grande ufficiale dell’ordine di Forte São Joaquim».
Ebbene, come spiegare il comportamento schizofrenico? Era chiaro che gli attacchi venivano da un ristretto gruppo di politici, detentori del potere, per i quali il bene della nazione s’identificava con i vantaggi personali, testardamente ostinati a negare i diritti della popolazione indigena.
Inoltre una parte dell’élite di Roraima (e del Brasile) conserva ancora una mentalità colonialista. In tempo di elezioni, il governo federale sfrutta tale mentalità, usando gli indios come merce di scambio e ricatto, per ottenere l’appoggio delle classi potenti.
Nel decennio 1975-85 i potenti erano contrari a qualsiasi demarcazione delle terre indigene. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato: il diritto degli indios all’identità culturale e al possesso della terra fa parte della nuova costituzione; la demarcazione delle terre, destinate alle varie etnie, è stata fissata sulle mappe catastali, anche se non sono state soddisfatte tutte le aspettative degli interessati. Ma talora si ha la netta sensazione di essere «ritornati indietro».

A questo punto un chiarimento.
Contrariamente a quanto alcuni vogliono far credere, la demarcazione delle terre non ha affatto lo scopo d’isolare gli indios dalla società bianca e mantenerli nella povertà, ma garantire loro uno spazio geografico e sociale in cui crescere senza traumi e organizzarsi secondo la propria identità culturale.
La chiesa di Roraima ha cercato di aiutare i nativi a progredire in tutti i settori, senza fare tabula rasa dei valori culturali. Inoltre essa è convinta che uno dei meccanismi più importanti per lo sviluppo dei popoli sia il confronto con altre culture e l’assorbimento di nuovi modelli; ma è pure consapevole che, quando un gruppo culturalmente «debole» (come gli indios) viene inserito con violenza in una cultura «forte», il debole viene annichilito.
Proponendo alle comunità indigene di richiedere la demarcazione delle terre e appoggiando le loro aspirazioni, la chiesa non intende creare fratture sociali tra indios e bianchi, ma vuole promuovere una cooperazione rispettosa tra le diverse identità storiche e culturali della popolazione di Roraima. L’errata interpretazione di tali obiettivi spiega in parte l’ostilità incontrata in questi anni. Ma la vera causa è di natura economica e politica.
I risultati provano la validità delle scelte fatte: gli indios hanno riconquistato la fiducia in se stessi e lottano per occupare un posto degno nel contesto sociale di Roraima; i capi indigeni hanno preso coscienza delle proprie responsabilità; le comunità hanno imboccato la strada dell’autosostentamento. I ripetuti interventi per salvare i yanomami sono il fiore all’occhiello dell’azione della chiesa. La testimonianza dei missionari ha reso credibile il messaggio evangelico. Il progetto «una mucca per l’indio» è stato un miracolo, una benedizione.
Ma la strada da percorrere è ancora molto lunga.
Aldo Mongiano

La sfida del Nano
O di padre Giorgio Dal Ben

L’ansia e la fretta lo consumano.
Ecco perché, più che camminare, trotta. Anche il suo linguaggio è spumeggiante: una raffica di pensieri che rotolano su ogni dove con una logica che logica non è. E l’altro ascolta, ascolta, ascolta. Il ragionamento è una spirale che gira e rigira interminabile. Quando l’«oratore» finalmente si concede una sosta, l’ascoltatore ha capito poco, ma quanto basta. E cioè:
– che la situazione degli indios yanomami, macuxí, wapixana, ingarikó e taurepang è drammatica;
– che demarcar le loro terre è questione di vita o morte;
– che a luta continua: uno scontro tra nani e giganti.
Nano è un po’ anche lui, perché non supera i 160 centimetri di altezza.

Scriviamo di padre Giorgio Dal Ben,
da oltre 30 anni missionario della Consolata nella surriscaldata terra di Roraima. È forse il missionario italiano più europeo, perché è noto non solo nella nostra penisola, ma anche in Spagna, Portogallo, Inghilterra, Germania, Francia, Belgio. Quando parla in questi paesi i suoi discorsi sono pure interminabili, avvolgenti.
Ma tutti capiscono che padre Giorgio si impegna fino allo spasimo: perché gli indios non si vergognino più di essere tali e parlino la loro lingua; perché i tuxawa (capi) riprendano il loro ruolo di guide sociali e culturali insieme agli sciamani; perché i bambini vadano a scuola e imparino a scrivere anche in macuxí oltre che in portoghese.
Bisogna soprattutto – martella padre Giorgio – spezzare la dipendenza economica dal bianco e dalla sua cachaça (acquavite). Il progetto «una mucca per l’indio» (che ha affascinato persino Giovanni Paolo II e il cardinale Ersilio Tonini) mira a riconquistare le terre indigene usurpate dai fazendeiros e crea autosostentamento. Così pure i piccoli allevamenti di maiali e polli.
Con uma vaca para o indio, il missionario ha varcato i cancelli del palazzo di vetro delle Nazioni Unite, imponendo all’attenzione del mondo i problemi indigeni.

Giorgio non è come il biblico Davide,
piccolo e solo davanti al gigante Golia; è un po’ nano, sì, ma un nano «lillipuziano» contro «il mostro Gulliver»: le sue «fiondate», grazie ad una vasta cerchia di collaboratori, piovono da ogni parte sugli sfruttatori degli indios.
Numerosi missionari della Consolata, che a Roraima hanno sposato la causa indigena, vivono nell’occhio del ciclone: minacce da parte dei bianchi e dei loro manutengoli, calunnie e attentati sono stati e sono pane quotidiano. Ma l’aggressività nei confronti di padre Giorgio Dal Ben non ha paragoni. È accusato di ledere la sovranità del Brasile: è a capo di un esercito di 2 mila indios, comanda azioni di guerriglia contro i cercatori d’oro, invade le proprietà altrui, circola armato, si traveste da donna, sfrutta gli indios in miniere d’oro e diamanti, preziosi che poi vengono inviati in Italia. Lo ha scritto la rivista Istoé, maggio 2000.
Ma una «rete lillipuziana», composta da tanti amici, ha subito fatto quadrato attorno al missionario con stima ed affetto. A Roraima la Commissione «giustizia e pace» dei missionari della Consolata, il 2 maggio scorso, ha denunciato la rivista Istoé, i giornalisti Pedrosa e Stuckert, il governatore di Roraima Campos, il deputato Feijão e il fazendeiro Bezerra di attaccare padre Giorgio e i popoli indigeni con «affermazioni false e perverse».
«L’aggressione – scrivono padre Lirio Girardi e suor Giuseppina Morelli – vuole impedire la demarcazione della terra indigena di Raposa Serra do Sol, demarcazione in linea con il decreto n. 820, sottoscritto dal ministro della giustizia Calheiros l’11 dicembre 1998… I responsabili dell’attacco non temono di ricorrere a mezzi turpi, fino a minaccia di morte, per aizzare l’opinione pubblica contro gli indios, dividere i loro capi e spaventare i loro alleati».
Non sono mancati pistoleros pronti a sparare. Finora padre Giorgio Dal Ben e i colleghi missionari sono scampati alla morte, spesso fuggendo. Ma i rischi aumentano.
Tuttavia la spada di Damocle pende soprattutto sugli indios. Anzi si è già abbattuta seminando numerose vittime. Incursioni a mano armata nei villaggi indigeni, malattie mortali provocate, incendi criminali, garimpeiros predoni… hanno decimato i popoli indigeni.
Inoltre, nell’arco di alcuni anni, centinaia di migliaia di chilometri quadrati di foresta amazzonica sono stati selvaggiamente disboscati, molti fiumi inquinati e intere aree sommerse artificialmente con la costruzione di grandi centrali idroelettriche.
«L’indio perde sempre: nel riconoscimento del proprio territorio, nei progetti agricoli, nell’assistenza sanitaria, nella dotazione di scuole per i nostri bambini e i nostri giovani, che continuano a sperare in una preparazione per il futuro». Lo sostiene Aniceto Cacique, indio xavante del Mato Grosso. Sarà sempre così?
Gli indios di Roraima continuano a gridare: «Noi vogliamo vivere».
Francesco Beardi

finalmente La veritÀ
Sul massacro di padre Giovanni Calleri

«Giovanni Calleri, missionario della Consolata,
nel 1968 fu scelto dal governo brasiliano a dirigere la spedizione di pacificazione di una tribù indigena per la sua esperienza tra gli indios yanomami, ma anche per la sua ricca personalità. Un dirigente governativo, Verìssimo da Silveira, ne rimase conquiso al primo incontro. “Era una figura che impressionava – testimoniò -. Bello, alto, forte, spiritoso, estroverso, con una carica che ispirava fiducia a prima vista. Le persone che lo incontravano per strada o in una riunione lo definivano uno sportivo o un artista. E vedevano giusto»…
«Nel 1965 padre Calleri partì per il Brasile e raggiunse il territorio di Roraima. Le sue lettere del 1966-67 rivelano un uomo determinato e metodico, che riesce a convivere con gli indios imparandone la lingua e instaurando un buon rapporto. Scrisse: “Quando giunsi in Brasile non mi importava di morire. Ora no, voglio vivere per amore degli indios. Mie compagne sono a volte la fame, e sempre tanta solitudine”»…
«L’organizzazione della missione del Catrimani mise in luce un missionario con una straordinaria sensibilità. I suoi piani grandiosi non sempre furono approvati dai superiori locali. Sarà il superiore generale ad assecondare le iniziative del focoso missionario»…

Sono alcuni capoversi del libro «Massacre».
Ne è autore padre Silvano Sabatini, missionario della Consolata pioniere in Brasile. «Massacre» descrive la spedizione diretta da padre Giovanni Calleri, che aveva lo scopo di pacificare gli indios waimiri-atroari. L’avventura culminerà in un eccidio. Padre Giovanni aveva 34 anni.
«Massacre» non è di facile lettura. Scritto in portoghese, racconta una tragedia nell’impervia foresta amazzonica, intersecata da fiumi grandi e piccoli dai nomi più strani; coinvolge gli indios, che intendono vivere alla loro maniera e si ribellano alla costruzione della strada BR-174; l’autore sembra giocare a nascondino con l’inesperto lettore nell’immensa foresta, andando a zig zag nel tempo e nello spazio.
Di più: la raccolta di documentazione e testimonianze avviene «con le pinze» per gli indios che partecipano all’eccidio (waimiri-atroari e wai wai) e con «i grimaldelli» per i forzieri del potere politico brasiliano, allora in mano ai militari, tutti presi dalla «sicurezza nazionale». Ancora: le testimonianze sono estratte dalle «pozzanghere» della Missione evangelica dell’Amazzonia (Meva), legata agli Stati Uniti, troppo interessata (come protestante) che la spedizione diretta da un prete cattolico fallisse.

L’intento dell’autore è di scoprire mandanti
ed esecutori dell’eccidio a 30 anni di distanza. Procedendo in ordine logico e cronologico, le cose andarono in questo modo. Il massacro della spedizione, costituita da dieci persone (comprese due donne), avvenne nella foresta il 1° novembre 1968 e fu sempre attribuito agli indios. Lo scopo della spedizione risulta chiaro. Al governo interessava pacificare gli indios che si opponevano alla costruzione della strada BR-174 che, attraverso la foresta dell’Amazzonia, doveva collegare Manaus e Boa Vista a Caracas (Venezuela). I lavori, iniziati nel 1964, terminarono nel 1971.
Pure chiare le ragioni che spingevano il governo brasiliano ad intersecare l’Amazzonia di strade: integrare la vasta regione al paese, valorizzandone le immense ricchezze sulle quali gli Stati Uniti erano interessati (esportazione clandestina di oro e diamanti, vendita di terreni, ecc.). Né mancavano motivi militari, poiché l’Amazzonia a nord confina con sei nazioni in rapporti non sempre pacifici.
Per attuare il programma occorreva, però, fare i conti con gli indios che si ritenevano, a diritto, padroni della regione e non intendevano rinunciare al loro sistema di vita.

Chi è padre Calleri?
Perché la scelta di dirigere la spedizione cadde su di lui? «Massacre» risponde bene e con passione a queste domande.
La spedizione venne preparata seriamente e il piano fu presentato al governo che l’approvò. Il piano consisteva nell’adottare una tattica di «avvicinamento indiretto»: cioè accostare prima indios non irritati contro i bianchi, per farli mediatori presso gli altri sul piede di guerra, perché vicini allo sconquasso prodotto dai lavori della strada. Il piano, perché indiretto, fu ritenuto da qualcuno troppo lento: per non fermare i lavori, bisognava confrontarsi subito con i ribelli waimiri-atroari, che in quanto ad imboscate sapevano il fatto loro.
All’ultimo momento il piano fu accantonato e padre Calleri dovette accettare, anche sotto minacce, di portare la spedizione su un altro luogo. È l’aspetto più misterioso della faccenda, perché con il cambiamento i rischi di fallimento e di morte risultavano enormemente aumentati.
La spedizione dovette essere ricomposta anche nei membri: venne inserito come elemento principale Alvaro Paulo da Silva, espertissimo della foresta, ma ambiguo e senza scrupoli, legato alla missione protestante Meva, con residenza in Guaiana, interessata a sua volta a far fallire la spedizione guidata da padre Calleri.
Va detto che l’azione della Meva, diretta dal pastore statunitense Robert Hawkins, nella doppia attività di evangelizzazione e ricerca di miniere, non coinvolge nelle sue brutture le altre chiese protestanti, specie per l’attività criminale dello statunitense Claude Leawitt.

La tesi sostenuta da padre Sabatini
con innumerevoli testimonianze (l’autore si avvale di 300 ore di registrazioni) è che la spedizione-Calleri fu massacrata da alcuni indios waimiri-atroari e wai wai, istigati però da un manipolo di bianchi, in particolare da Alvaro Paulo (l’unico che sfuggì al massacro) e da Claude Leawitt. I due poi imposero agli indios, sotto terribili minacce, un assoluto silenzio.
Nel 1987 padre Sabatini, dopo una grave malattia, giurò a se stesso di far luce su fatti e persone che la Commissione d’inchiesta sul «caso Calleri» non svolse. Il quadro che ne risulta è fosco. Contro gli indios, prima e dopo il 1968, furono commessi crimini orribili: i waimiri-atroari, circa 3 mila nel 1968, nel 1982 erano ridotti a qualche centinaio. Padre Sabatini sostiene, con una denuncia sferzante, che la BR-174 fu condotta a termine, dopo il massacro della spedizione, con la decimazione degli indios.
«Massacre» vuole essere, oltre che una denuncia profetica (e i profeti non scherzano), anche «una risposta al trionfalismo dei 500 anni dalla scoperta del Brasile». Non fu una scoperta, ma un’invasione imbrattata di sangue.
Igino Tubaldo
(traduttore in italiano ad usum privatum di «Massacre»)

Aldo Mongiano




Felicita e ricchezza (ma fuori dal mondo)

Spuntano come funghi, aprendo le loro sedi negli spazi prima occupati da negozi. Hanno nomi lunghi e fantasiosi: «Chiesa internazionale della grazia di Dio», «Chiesa del vangelo quadrangolare», «Chiesa pentecostale del potere di Dio», «Chiesa battista del tabeacolo dello Spirito santo». Promettono felicità e ricchezza, ma soltanto con loro
e, soprattutto, fuori di questo mondo. A San Marco,
un quartiere povero di Salvador Bahia, abbiamo verificato
di persona la diffusione e la forza delle sètte cristiane.

Salvador Bahia – Il bairro São Marcos è conosciuto da tutti, perché ospita il più famoso (e costoso) ospedale dello stato: il São Rafael, diretta emanazione dell’istituto San Raffaele di Milano.
Vedere i solidi e modei edifici del nosocomio fa una qualche impressione, in quanto San Marco è, prima di tutto, una estesa favela di 200 mila abitanti. I numerosi tassisti che sostano vicino all’entrata confermano quanto si poteva immaginare: «L’ospedale gode di un’ottima fama, ma soltanto chi ha soldi può farsi curare qui dentro».
Siamo in compagnia di Fidéle Katsan Fodagni, giovane missionario comboniano del Togo. Per farci conoscere San Marco, Fidéle vuole percorrere a piedi la via che taglia in due il quartiere, partendo proprio dall’ospedale San Raffaele.
Il bairro è cresciuto su una serie di collinette. La strada, l’unica asfaltata, si snoda sulla cima di queste. Per vedere l’estensione e le condizioni della favela (in verità, a Salvador questo termine viene evitato), è sufficiente gettare lo sguardo oltre le case sorte lungo la strada. Agli occhi si presenta allora un ammasso disordinatissimo di casupole unifamiliari abbarbicate a un terreno scosceso e costruite con materiale di recupero.
Toati a camminare sulla via principale, accanto a un negozio notiamo una sorte di garage con la serranda azzurra alzata. È una chiesa, la Igreja pentecostal Deus é justiça. Una lavagna nera appoggiata al muro informa sugli orari delle cerimonie. Ci affacciamo sull’angusto locale. Ci sono una ventina di sedie di plastica bianca, simili a quelle dei bar. Un’anziana donna è intenta a rassettare il tavolo del celebrante, sul quale poggiano un grosso radioregistratore portatile e un vasetto di fiori. Le chiediamo se è possibile scambiare qualche parola con il pastore. Purtroppo, al momento risulta assente.
Proseguiamo allora la nostra passeggiata sulla via centrale del bairro São Marcos. Sopra una cancellata in ferro c’è l’insegna della «Chiesa del vangelo quadrangolare». È chiusa, ma un grande cartello a disegni colorati propaganda servizi e benefici. Proprio attaccata ad essa c’è un altro luogo di culto, la «Chiesa internazionale della grazia di Dio». Le serrande azzurrine sono alzate: questa chiesa è aperta. Il locale è ampio, ma completamente disadorno. Soltanto al centro è posto un tavolino attorno al quale siedono due persone di mezza età, un uomo e una donna. Ci vengono incontro sorridenti. Si presentano come obreiros. Lavorate in qualche fabbrica? «No, no. Siamo operai della Chiesa internazionale», rispondono all’unisono.

Stupiti dell’abbondanza dell’offerta religiosa, chiediamo a Fidéle: «Ma è così facile aprire una chiesa?».
«Non c’è problema – risponde il missionario -. Se una persona si alza al mattino con l’idea di fondare una sètta, lo può fare liberamente. È sufficiente che si procuri un locale». La conferma arriva dopo qualche centinaio di metri.
Quando arriviamo all’incrocio considerato la piazza di San Marco, immediatamente l’attenzione è attratta da un enorme capannone, un tempo forse adibito a supermercato. È sovrastato da una scritta rossa che recita Jesus Cristo é o Senhor e più sotto, in blu, Igreja universal do reino de Deus.
«La Chiesa universale – ci spiega Fidéle – è la sètta cristiana più grande del Brasile. Questa organizzazione ha acquistato, in tutto il paese, supermercati, sale cinematografiche e fabbriche e ne ha fatto i suoi luoghi di raduno».
Macedo, il fondatore, ha costruito un vero impero economico, che ora può disporre anche di un canale televisivo nazionale, la «Rede Record». Chiediamo al nostro accompagnatore da dove provengano tutti questi capitali. «I fedeli sono obbligati a finanziare la chiesa, ma molti sostengono che i soldi raccolti in questo modo non possono spiegare una simile potenza economica. Ci sarebbero anche vie di finanziamento più losche». Cosa predica la Chiesa universale di Macedo? «Naturalmente – risponde con un sorriso padre Fidéle – predica contro la chiesa cattolica. E poi insiste molto sulla figura di Satana».
Perché la gente cade nelle mani di queste organizzazioni? È un problema di mancanza di cultura e spirito critico? «Per me – risponde il missionario – il motivo principale è la povertà, la miseria. Quando delle persone semplici non hanno abbastanza denaro per poter vivere e non vedono soluzioni per l’esistenza, allora affidano le loro speranze all’aldilà. Quindi, seguono qualsiasi persona che prometta un futuro migliore. Ci sono sètte abilissime a fare il lavaggio del cervello».

Sul lato opposto alla «Chiesa universale del regno di Dio» e alla «Chiesa avventista del Settimo giorno», sorge il tempio della Assembleia de Deus. Scorgendo due persone al suo interno, decidiamo di entrare. È una sala lunga e stretta con i banchi disposti su due file, che si guardano. In fondo, a mo’ di altare, trova spazio un grande impianto musicale, circondato da mazzi di fiori freschi. Alle pareti e sul soffitto sono fissati numerosi ventilatori. Sui muri è dipinta la scritta «unidos por Cristo».
Le persone sono due ragazzi, poco più che ventenni. Si chiamano Jadel e Beto. Parlano volentieri: «Siamo disoccupati e allora veniamo qui ad aiutare la nostra chiesa». Fidéle, che veste bermuda e t-shirt e non ha certo l’aspetto di un prete, si presenta come missionario cattolico e chiede di parlare del rispettivo credo. I tre iniziano una discussione che si protrae per mezz’ora, cercando nella bibbia, che si passano di mano in mano, la conferma delle proprie affermazioni.

A San Marco ci sono più chiese che negozi. Nello spazio di tre chilometri abbiamo contato almeno una dozzina di sètte evangeliche: Igreja pentecostal Deus é justiça, Igreja do evangelio quadrangular, Igreja inteacional da graça de Deus, Igreja universal do reino de Deus, Templo adventista do 7.o dia, Assembleia de Deus, Igreja batista da proclamaçáo, Igreja pentecostal Deus é amor, Igreja batista tabeaculo do Espirito santo, Igreja pentecostal poder de Deus. Troppe per non dare credito a chi dice che, dietro questa proliferazione, non ci sia un business fatto sulle spalle della povera gente.
«Io, missionario cattolico – spiega Fidéle -, non avrei problemi ad accettare e a dialogare con le sètte, se queste promuovessero la vita…». Ma cosa vuol dire “promuovere la vita”? «Significa che una religione non deve essere alienante. Significa cercare di liberare la gente dalla povertà e dalla miseria».

Paolo Moiola




I neri, ancora incatenati – Speciale BRASILE

Il conto è presto fatto: tre secoli
di schiavitùe uno di libertà, fanno
quattrocento anni di sfruttamento. Cosìi neri brasiliani riassumono la loro storia… in attesa di riscatto.

AFRICA ADDIO
All’inizio sono gli indios a essere costretti a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Poi qualche colono importa illegalmente alcuni schiavi neri. Forti e muscolosi, danno risultati eccellenti. Le poche gocce diventano un diluvio.
Nel 1539 è inoltrata a Lisbona la richiesta di schiavi africani. Nel 1550 la tratta dei neri diventa sistematica, con tutti i timbri dell’ufficialità. Nel 1570 inizia l’importazione in massa.
A mano a mano che si sviluppano industria zuccheriera e coltivazione del tabacco, industrie minerarie e piantagioni di caffè, il traffico negriero aumenta di anno in anno con un crescendo vertiginoso. In tre secoli arrivano in Brasile quasi 4 milioni di africani. Nella tabella seguente sono riportate le cifre più attendibili, calcolate per difetto.
Africa-Bahia, viaggio diretto, ma terribile: metà degli schiavi periscono in alto mare. Solo i più giovani e forti sopravvivono alle burrasche della traversata, con poco cibo e acqua rancida. «Ne muoiono troppi sulle navi negriere. Sotto sotto non ci sarà un imbroglio?» si lamentano i sovrani portoghesi; non per compassione, ma perché riscuotano le tasse per ogni nero che sbarca vivo.
I neri sbarcati in Brasile appartengono a due gruppi principali: bantu e sudanesi. Il primo proviene dal Mozambico (angico), Congo e Angola (cabinda, bakongo, benguela). Il secondo è composto da etnie e regni affacciati sul Golfo di Guinea: minas, jeje, ewe, nagô (di lingua youruba, Nigeria), haussá e tapa. Gli ultimi tre gruppi sono islamizzati, per cui sono detti muçulmis o più comunemente malês.
Portati al mercato, gli schiavi sono subito sottoposti al processo di distruzione d’identità e memoria storica: i preti li battezzano per farli cristiani; i compratori li dividono: marito dalla moglie, genitori dai figli; quelli di una stessa cultura sono mescolati in altri gruppi etnici; così non avranno la possibilità di fare combutta e ribellarsi.

A SUON DI FRUSTA
Una certa letteratura brasiliana parla di «schiavitù soave» e «signori buoni». La schiavitù è crudele per natura; se cessa di esserlo, non è perché il padrone diventa migliore, ma perché il servo si rassegna all’annullamento della sua personalità. Di fatto la giornata non ha nulla di «soave» per i neri brasiliani: lavorano dalle quattro del mattino fino a tarda sera. Toati alla senzala trovano altri lavori da sbrigare. Alle nove vanno a dormire: le porte sono chiuse; chi ha grilli per la testa viene incatenato.
Disobbedienza e impertinenza sono pagate a colpi di chicote (frusta). Legati al pelourinho (palo della gogna), i colpevoli vengono fustigati in pubblico, perché gli altri schiavi imparino la lezione. A volte essi vengono consegnati al calabouço, luogo di tortura istituzionale, dove altri fanno il lavoro sporco: il padrone deve solo stabilire il numero di frustate e avrà la coscienza a posto.
Se il servo alza la mano contro il padrone o un familiare, gli può essere tagliata una o tutte e due le mani, o subire torture ancor più sadiche, secondo le Ordenações Filipinas (1603). Un editto reale del 1741 ordina che lo schiavo fuggitivo sia marchiato con una grande F sulle spalle, impressa con un ferro rovente; di tagliargli un orecchio se recidivo.
Di fatto il signore ha sullo schiavo potere assoluto, compreso quello di vita o di morte. Lo può vendere, torturare o liberare. La legge lo protegge in ogni caso. Agli schiavi, invece, considerati come cose o bestie da soma, non è riconosciuto alcun diritto; neppure quello di fondare una famiglia. La proibizione di separare i coniugi e le madri dai figli minorenni arriverà solo nel 1871, 17 anni prima dell’abolizione della schiavitù.
Naturalmente tutto dipende dal buon cuore del padrone. In generale, però, i signori sono pomposi e ignoranti; spesso più ignoranti di certi schiavi, come i malês: poliglotti e matematici, contabili maliziosi, essi tengono i conti e fanno da precettori ai figli del padrone.

RESISTENZE
Molti neri portati in Brasile sono guerrieri e figli di re: nessun castigo può piegare la loro fierezza. La maggioranza fa finta di sottomettersi; ma poi, lontana dall’occhio del padrone, estrae dalla memoria riti e feticci per riaffermare la propria cultura e gettare il malocchio sugli oppressori.
Le forme di resistenza alla schiavitù sono molte e variegate: dall’assassinio del padrone e suoi attendenti al suicidio individuale e collettivo, al banzo, tragica nostalgia che approda alla morte. Con la propria fine lo schiavo sa di privare il padrone di un importante capitale.
La forma di protesta più frequente, però, è la fuga per rifugiarsi nei quilombos: villaggi fondati nel cuore della foresta per riconquistare la propria libertà. Ne sorgono a migliaia, dappertutto e di ogni dimensioni. Spesso vi confluisce tutta la gamma degli oppressi della società schiavista: indios, meticci, bianchi impoveriti, giovani che fuggono il servizio militare. Nei villaggi più consistenti i neri organizzano tutti gli aspetti della vita: sociale, politica, economica, religiosa e militare, soprattutto per respingere i tentativi di riportarli in cattività.
Il quilombo più famoso è quello di Palmares. Iniziato prima del 1600, tra i monti della Serra Barriga, nell’attuale stato di Alagoas, raggiunge il massimo splendore verso il 1630, quando gli olandesi occupano Peambuco. Palmares si organizza in repubblica confederale di 18 villaggi, presieduta da un capo, chiamato «re», e da un consiglio. Lo sviluppo agricolo permette di vendere il surplus ai bianchi circostanti.
Espulsi gli olandesi (1654), per quasi 70 anni il governo di Peambuco e i signori dello zucchero cercano inutilmente di distruggere Palmares. Nel 1695 il quilombo viene spazzato via da un’armata di 11 mila uomini, il più grande esercito organizzato in periodo coloniale.
Nella resistenza si distingue il capo Zumbi. Nato libero a Palmares, egli rifiuta di barattare la libertà e indipendenza del suo popolo col perdono e terre, offertegli dal governatore di Peambuco e dallo stesso re del Portogallo, a patto che cessi di difendere la causa degli schiavi.
Tradito dai collaboratori, Zumbi è catturato e decapitato a Recife il 20 novembre 1695. Oggi egli è una bandiera per tutti gli emarginati brasiliani, simbolo di lotta per la libertà e la costruzione di una nazione senza padroni e senza schiavi.
Intanto le rivolte dei neri si propagano anche alle città. Le più note scoppiano a Salvador de Bahia: nel 1807, 1809, 1813 si ribellano gli haussás islamizzati; nel 1826-30 si rivoltano i nagôs, che finiscono in un bagno di sangue; nel 1835 ancora gli haussás: sono massacrati tutti, dai bambini appena nati ai vecchi cadenti. Non minore sconcerto suscita la rivolta di Tupá (São Paulo, 1813), dove 600 neri attaccano tutte le proprietà della regione e vengono eliminati senza misericordia.
PADRONI «LIBERATI»

Nel secolo XIX la condizione disumana degli schiavi è denunciata con veemenza in tutto il mondo. Le motivazioni umanitarie si mescolano a quelle di pura convenienza. José Bonifacio de Andrada, «padre dell’indipendenza» del Brasile, dimostra come la schiavitù sia un’assurdità economica e causa di corruzione sociale: «Venti schiavi richiedono 20 zappe, che si possono risparmiare con un solo aratro… Colui che vive del sudore degli schiavi, vive nell’indolenza e l’indolenza porta al vizio».
Sotto le pressioni intee e inteazionali, nel 1850 il Brasile proibisce la tratta degli schiavi (legge Eusebio de Queiroz). Questi vengono importati di contrabbando; ma i prezzi sono proibitivi. Inoltre, nell’economia capitalista, il lavoro salariale è ormai più conveniente della schiavitù, che comporta il mantenimento di africani tristi e ribelli, di «merce» improduttiva come vecchi e bambini.
Ci pensa il governo a «liberare» i padroni dal mantenere tante bocche «inutili»: nel 1871 la «legge del ventre libero» affranca tutti i nati dopo tale data; nel 1885 è la volta degli schiavi sessantenni. Nel 1888, quando la regina Isabella firma la «legge aurea», che abolisce definitivamente la schiavitù, appena il 5,6% della popolazione nera beneficia di tale evento. Ormai di veri schiavi ne sono rimasti pochi: molti sono già affrancati, altri si sono liberati da soli, con la fuga.

RAZZISMO ALLA BRASILIANA
La «legge aurea» introduce il Brasile nel consesso delle nazioni civili; ma non cambia nulla per i neri. A suo tempo José Bonifacio aveva suggerito come procedere all’affrancamento: «Fate dei neri degli uomini liberi e fieri; offrite loro incentivi, proteggeteli, ed essi si riprodurranno e diventeranno cittadini preziosi».
I neo-liberti, invece, restano senza casa, né terra, né famiglia (0,8% di sposati). Per loro non c’è nessuno degli incentivi concessi agli immigrati. Analfabeti al 99%, buttati senza alcuna preparazione nel mondo competitivo del capitalismo, i neri costituiscono da subito un serbatornio di manodopera usa e getta, in balia del mercato del lavoro e della miseria più nera: cessano di essere schiavi e diventano «il problema» del Brasile, da rimuovere al più presto.
La società brasiliana pensa di risolvere «il problema» con lo «sbiancamento» della popolazione, favorendo l’entrata massiccia di immigrati europei dalla pelle più chiara possibile. L’idea è bene illustrata da Roosvelt, presidente Usa, in visita al paese nel 1914: «In Brasile l’ideale principale è la scomparsa del nero, gradualmente assorbito nella razza bianca. L’enorme immigrazione europea tende, decenni dopo decenni, a rendere il sangue nero un elemento insignificante in tutta la nazione».
Qualcuno calcola il tempo necessario per completare tale processo di sbiancamento. Così scrive, e prega, Afrânio Peixoto nel 1923: «Forse impiegheremo 300 anni per mutare l’anima e sbiancare la pelle… per depurare questo immane miscuglio umano. Avremo albumina sufficiente a raffinare tutta codesta scoria? Dio ci assista, se è brasiliano».
La preghiera è rimandata al mittente: i brasiliani di pelle nera aumentano di anno in anno, fino a formare oggi il 70% della popolazione del paese; e non hanno intenzione di sbiancarsi, né di continuare a essere dominati.
Per spezzare le catene dei meccanismi di oppressione e rivendicare i loro diritti, i neri si organizzano: nel 1931 nasce il Fronte brasiliano nero e promuove una forte presa di coscienza economica e politica. Il dittatore Vargas lo sopprime nel 1937.
Negli anni ’70 sorgono altri movimenti di «coscientizzazione» della gente di colore e della società brasiliana in generale: Unione e coscienza nera, Movimento nero unificato, gruppi di agenti pastorali neri… Arriva qualche risultato: i primi deputati neri entrano in parlamento; a scuola, radio, televisione e nei giornali vengono dibattuti i problemi della popolazione di colore.
Matura così una duplice presa di coscienza: la popolazione nera, da una parte, riacquista la memoria del ruolo storico giocato nello sviluppo del paese e rivendica il proprio posto nella situazione presente. Dall’altra parte, i brasiliani nel loro insieme prendono coscienza che, senza i neri, il Brasile non sarebbe il Brasile.
Da decenni si parla di «democrazia razziale»; a cento anni dall’abolizione della schiavitù il paese ha riscritto la costituzione, affermando che «la pratica del razzismo costituisce un crimine imprescrittibile, soggetto alla pena di reclusione»; ma il nero continua a essere discriminato in tutti i campi della vita sociale, politica, economica e religiosa.
«Il Brasile resta uno dei paesi più razzisti del mondo – afferma José de Souza Martins, docente di sociologia -. È un razzismo diverso da quello nordamericano; non si vede; la gente tace, ma discrimina. I ghetti sono sempre neri. Nelle università pochi neri e tanti bianchi; il rapporto si rovescia nelle prigioni. E quando un nero ce la fa, diventa campione di calcio o re del samba, ripetono quello che dicevano di Pelé: “Ha tanto buonsenso che sembra un bianco”».

Benedetto Bellesi




Danzando con gli dei – Speciale BRASILE

– Cos’è il candomblé, madre mia?
– È danza e musica, figlia mia!
Così rispose «mãe Teresinha», quando
iniziai la ricerca su questa religione
afro-brasiliana. Per comprenderne
il fascino occorre aggiungere: ricchezza
di colori e simboli, ricerca di armonia, equilibrio e consolazione, memoria storica e impegno di solidarietà.

All’inizio di tutto – racconta la leggenda – non c’era separazione tra l’orum (l’inconoscibile), sede degli orixás (dei), e l’aiê, la terra degli esseri viventi. Uomini e divinità si facevano reciprocamente visita e vivevano insieme felici.
Ma gli esseri umani, fin da allora, non rispettavano niente e nessuno: con arroganza sporcavano l’orum, infischiandosi delle raccomandazioni di Olorum, il dio supremo.
Ma un giorno, vedendo l’orum tanto mal ridotto, il Signore del cielo e della terra si adirò: scagliò il bastone sacro e divise il cielo dalla terra. Così nessun uomo poteva più raggiungere l’orum e gli orixás rimanevano nel proprio mondo. Ma questi si intristivano; avevano nostalgia dei loro incontri con gli esseri viventi. Gli uomini, a loro volta, non riuscivano più a vivere senza la gioia e allegria trasmessa dagli orixás.
Olorum, stanco di tanti lamenti e in fondo stufo della situazione, permise alle divinità di andare ogni tanto in visita alla terra. Gli esseri umani facevano offerte agli orixás, che arrivavano e danzavano, danzavano, danzavano… al suono degli atabaques (tamburi).
E toò, finalmente, armonia e felicità.

RADICI AMARE
Il racconto esprime chiaramente l’essenza del candomblé: esso è un messaggio di felicità; è ricerca degli aspetti più giorniosi della vita. La sua storia, però, non affonda le radici nella gioia, ma nel dolore: in quella tragedia immane di milioni di neri ridotti in schiavitù.
Considerati come popoli selvaggi, privi di cultura, gli africani venivano catturati dai bianchi e, una volta trasportati in Brasile, dovevano essere civilizzati, istruiti e convertiti al cristianesimo con una rapida evangelizzazione. In realtà, gli schiavi furono i principali artefici della costruzione del Brasile, non solo sotto l’aspetto economico. Alcune popolazioni possedevano un elevato grado di civiltà, come alcuni gruppi yoruba (Nigeria e Benin) eccellenti scultori in avorio e metallo.
Creazione tipicamente brasiliana, il candomblé affonda le radici nelle tradizioni africane. Esso si formò nel segreto della senzala, quando schiavi e schiave sfruttavano ogni opportunità per riorganizzare i loro culti.
Coltivato di nascosto, il candomblé ebbe grande sviluppo quando la chiesa cominciò a convogliare le varie etnie africane nelle irmandades, (confrateite). A Salvador, all’inizio del 1800, nacque la confrateita di Nossa Senhora da Boa Morte, formata da africane libere, in maggioranza provenienti da Ketu (Benin).
Il fatto di potersi ritrovare rese più facile agli schiavi liberati di riorganizzare il culto verso gli antenati. Sacerdotesse e sacerdoti con posti di rilievo nei candomblé, entravano nelle irmandades. Esisteva, infatti, un legame molto stretto fra chiesa e candomblé; spesso i preti cattolici venivano chiamati a celebrare la messa nei terreiros (centri di culto). Ancora oggi, presso alcuni candomblé, tale usanza di partecipare alla messa è in vigore come memoria storica.

RICERCA DELLE ORIGINI
Si è soliti etichettare i movimenti religiosi afro-brasiliani come sètte sincretiste, miscuglio di tradizioni religiose africane e cristiane. Ma in una riunione del 1983, le iyalorixá (sacerdotesse) più tradizionali della Bahia presero posizione contro il sincretismo e rivendicarono per il candomblé la dignità di religione. «Iansã (divinitá dei venti e lampi) non è santa Barbara» disse mãe Stella de Oxossi, leader di Axé Opô Afonjá, uno dei gruppi più conservatori. Con questa frase essa voleva dire chiaramente che il candomblé non è una sètta sincretista né dipendente dal cristianesimo.
I culti afro-brasiliani si differenziano pure dalle religioni tradizionali africane, pur avendo in esse la loro base originaria e molti punti di contatto. Nei territori yoruba ogni città aveva un antenato da tutti venerato. In Brasile, a causa dei lunghi secoli passati in schiavitù, gli afro-discendenti hanno scordato il luogo di provenienza. Per questo nei terreiros di candomblé è stata ricostruita una specie di “yorubaland” in miniatura, inserendo nel culto tutte le divinità e figure mitiche che la schiavitù non è riuscita a cancellare dalla memoria.
Nella storia di questa religione, alcune sacerdotesse delle irmandades sono diventate figure quasi mitiche, come quelle che organizzarono un terreiro di candomblé chiamato Ìyá Omi Àse Àirá Intilè. Una delle fondatrici, Iyalussô Danadana, ritoò in Africa e vi morì. La seconda, Iyanassô, fatto un viaggio nel continente d’origine, toò accompagnata da un sacerdote chiamato Bangboxé, diventato figura leggendaria del candomblé di Bahia.
Questo centro religioso ha dato origine ad altri due grandi terreiros di tradizione ketu: Iyá Omi Ase Iyámasse, comunemente conosciuto come Gantornis, il cui leader religioso fu la famosa mãe Menininha, e Axé Opô Afonjá, fondato nel 1910 da mãe Aninha e oggi guidato da mãe Stella de Oxossi, figura carismatica e simbolica per tutti gli afro-americani. Molti neri degli Stati Uniti vengono nel terreiro dell’Axé Opô Afonjá per riavvicinarsi alle proprie radici culturali e religiose.

ARMONIA CON LA NATURA
Oltre ai motivi di carattere religioso, questa comunità è diventata particolarmente famosa per avere ricostruito, col passare degli anni, un villaggio africano con abitazioni per i fedeli e case per gli stessi orixás. All’entrata degli edifici e in vari punti del terreiro crescono giganteschi alberi sacri.
Il candomblé si fonda sul culto della natura: cose, alberi, animali, persone sono sacre. Un’energia vitale, chiamata axé, circola in tutti gli esseri animati e inanimati, collegandoli insieme come una sottile onda. Questa axé può essere immagazzinata e distribuita mediante vari rituali pubblici e privati. Per questo il candomblé, come le religioni africane in generale, è stata dispregiativamente definita animista. Ma non c’è niente di negativo nel percepire la vita delle piante o persone.
Nei testi sacri yoruba, racconti tramandati oralmente, è chiaramente sottolineato che al di sopra di tutti e tutto c’è un essere supremo, chiamato Olorum o Olodumaré. Questi, col suo respiro, ha dato inizio al principio maschile (obatalá) e femminile (odudua); questi due principi hanno dato origine al mondo, alla natura e agli esseri viventi. A fare da tramite fra gli esseri viventi e Olorum sono gli orixás, divinità-energie della natura, di cui i mortali sono figli.

POSSEDUTI DALLA DIVINITÀ

Il candomblé è basato su una sofisticata conoscenza dell’animo umano: la mitologia ne descrive pregi e vizi e, al tempo stesso, spinge l’uomo a rispettare e venerare il sacro e a compiere ogni sforzo per avvicinarsi al divino. Le divinità, infatti, sono sentite vicine nel vivere quotidiano.
Tale vicinanza si manifesta in modo particolare con la «chiamata» di alcune persone da uno degli orixás. Essa può avvenire in molti modi, come sogni e malattie inspiegabili. Tale chiamata viene verificata con una lettura della situazione spirituale, eseguita con le conchiglie di Ifa, divinità della sapienza e divinazione. Ogni mãe-de-santo (sacerdotessa) ha acquisito con l’esperienza una grandissima sensibilità al riguardo e, attraverso la caduta e i disegni formati da tali conchiglie, essa rievoca eventi mitologici e analizza la situazione energetico-spirituale del consultante. In base a tale analisi, inizierà una serie di rituali per avvicinare il fedele al proprio orixá.
La comunione col divino diventa sempre più profonda col passare del tempo. Il fedele offre doni alla divinità e riceve in cambio forza vitale, energia e protezione. Se la divinità lo richiede, si passerà a una vera e propria iniziazione, che prevede un periodo di reclusione e allontanamento dal quotidiano, per entrare in più stretto contatto con l’orixá.
Non si è ancora sottolineato abbastanza come le religioni africane si fondino su un percorso mistico profondo e significativo, che si snoda per tutta la vita. Nel candomblé tale cammino è accompagnato da rituali riservati alle persone della casa e da altri che si svolgono nelle pubbliche assemblee. Così spiega Ceci, sacerdotessa iniziata da 29 anni in uno dei terreiros più tradizionali e famosi di Salvador: «La lunga preparazione delle sacerdotesse per potere ricevere le divinità culmina con la festa pubblica. Tale festa richiede una preparazione immediata di due o tre giorni, nei quali è necessario adempiere una serie di riti per i soli fedeli della casa, per dare forza alla parte spirituale e per preparare materialmente la cerimonia, il cui fulcro è la possessione».

MUSICA, CANTO, DANZA
L’unione con la divinità, seppure temporanea, avviene in momenti specifici e ritualmente organizzati tramite il trance. Anche questo fenomeno, tanto maltrattato dalle teorie psicologiche, merita rispetto. Esso è patrimonio dell’umanità: lo si incontra in vari paesi del mondo, dall’Oriente all’Africa, dalla Siberia alla… Puglia. L’antropologo De Martino ha dimostrato che il fenomeno del tarantismo è un rito di possessione, dove la musica e la danza vengono usate con scopi terapeutici, proprio come in Africa e nel candomblé. Il disprezzo verso tale fenomeno è dovuto al fatto che esso è visto come qualcosa d’«insalubre», di difficile comprensione per il mondo occidentale, sempre più lontano dal mondo della percezione sensoriale.
Il candomblé si basa sulla conoscenza di se stessi; conoscenza ottenuta attraverso vere e proprie tecniche con cui raffinare sempre più la percezione del proprio essere, delle capacità e limiti personali. Il contatto con la propria parte interiore e sacra, porta le sacerdotesse all’unione con il divino. I mezzi per arrivare a tale unione sono: musica, canto e danza. Nei suggestivi riti del candomblé le sacerdotesse diventano strumento delle divinità da cui sono state scelte per portare agli esseri umani energia, conforto e felicità.
Le sacerdotesse, la sera della festa, preparate accuratamente nei loro bellissimi vestiti, sintesi dell’incontro forzato fra Africa e Europa, aprono il rito formando la ruota sacra. Spiega ancora mãe Ceci: «Prima della festa pubblica c’è il padê, celebrazione per Exu, il dio messaggero: la sua funzione è importante; senza di lui non è possibile fare niente. Erroneamente questi è stato identificato con il diavolo dei cristiani; ma il concetto di bene e male dei yoruba non si identifica esattamente con quello della teologia cristiana.
Seguono canti e preghiere per gli antenati. Si canta e si danza tre volte in onore di tutte le divinità; infine, col suono di strumenti musicali, si invitano gli orixás a scendere tra i fedeli. E arriva il momento dell’incorporazione: le sacerdotesse indossano gli abiti sacri, ricchi di simboli e allusioni mitologiche. Da questo momento esse impersonano la divinità. Riprendono le danze sacre. Ballando, gli orixás raccontano ai fedeli la storia sacra, la mitologia e la propria funzione nel cosmo, nell’interno del pantheon e nella comunità».

RICERCA DI EQUILIBRIO
La liturgia si snoda attraverso una serie di canti con uno schema più o meno fisso, che le sacerdotesse accompagnano con specifiche gestualità del corpo e coreografie. Per i non iniziati è difficile decifrare e compredere i messaggi espressi con tale linguaggio non-verbale, come pure l’insieme dei riti e la loro ricchezza di simbolismi. Ogni casa di candomblé, infatti, possiede un proprio repertorio di 400-500 arie musicali, coreografie, simboli e colori specifici corrispondenti alle varie divinità.
Inoltre, i messaggi del trascendente espressi dal candomblé non sono affidati alla logica del ragionamento, ma all’arte e alla percezione sensoriale. Già Susan Langer aveva sottolineato: «Solo l’arte riesce a trasmettere i messaggi profondi all’anima umana. Il linguaggio verbale non è sufficiente per trasmettere tutta la gamma di sfumature e valori dei sentimenti umani, come mateità, amore, aggressività, rabbia».
Attraverso i movimenti e fluidità del corpo, le vecchie sagge percepiscono l’armonia delle persone. Il candomblé, infatti, è ricerca di armonia: prima di tutto con se stessi e poi necessariamente con gli altri. «Io sono perché tu sei» dice un detto africano, sottolineando l’importanza del gruppo. Ognuno deve adempiere a una funzione a livello spirituale-individuale e a livello di comunità; come i cerchi che si formano nell’acqua quando vi cade un sasso: tutto è collegato, dal più piccolo al più grande e viceversa.
Mãe Beata, da 28 anni leader di un terreiro, spiega: «Il candomblé è carità. Io vi sono entrata perché dovevo; dopo aver raggiunto il mio equilibrio, ho dovuto iniziare ad aiutare gli altri. Noi mãe o pãe-de-santo dobbiamo sempre dare una parola di conforto a tutti quelli che ne hanno bisogno. E non solo i brasiliani, figlia mia, tu lo sai».
Qui a Bahia, infatti, arrivano molti europei; alcuni sono alla ricerca di un contatto con il «mondo magico», con cui risolvere in un batter d’occhio ogni loro problema; altri, però, cercano un contatto più spontaneo con gli altri e con se stessi; vogliono riscoprire il proprio ritmo e equilibrio interiore e quella autenticità che hanno perso nella vita frenetica delle grandi città.
Mãe Stella non si stanca di sottolineare: «Orixá è equilibrio. Tutto inizia da lì. Tutti dobbiamo vivere con dignità e in pace».
Molti pensano che sia facile trovare la base dell’equilibrio interiore; spesso, invece, si richiede un percorso travagliato e difficile. Eppure molte persone, e non solo brasiliane, sono state aiutate a ritrovarlo; o per lo meno hanno ricevuto una spinta in questa direzione. È come se il candomblé riuscisse, attraverso il sacerdozio e l’amore per se stessi e gli altri, a riorganizzare la frammentazione umana e a dare un filo conduttore ai suoi fedeli.

MEMORIA E SOLIDARIETÀ
Il candomblé ha avuto, ed ha ancora, un’importanza fondamentale nella storia degli afro-discendenti: grazie al lavorio solerte delle sacerdotesse, essi hanno recuperato l’identità culturale e la dignità personale che la schiavitù aveva brutalmente distrutto.
«Se non ci si ricorda degli antenati, dei nostri defunti, non sappiamo chi siamo» spiega l’antropologo De Martino. È ciò che hanno fatto, per quanto hanno potuto, queste sacerdotesse: mantenendo viva la memoria degli antenati e i culti africani nelle comunità del candomblé, hanno dato a milioni di persone, distrutte dalla deportazione, la possibilità di ritrovare se stesse a livello spirituale, psicologico e politico. I fedeli delle religioni afro-brasiliane non si sono arresi alla sofferenza e al dolore, ma li hanno superati con la coscienza della propria storia.
Con l’iniziazione al candomblé, i mali del singolo vengono ri-organizzati e ri-orientati a livello spirituale-energetico; la frequenza ai riti rafforza in loro la volontà di trasformarli in punti di partenza per un nuovo passo verso una maturazione personale.
Secondo la filosofia del candomblé la vita è sacra; il nostro corpo è un tempio, a cui viene trasmessa la forza dell’orixá e con cui partecipare alla vita nella vita, cioè dando valore alle cose e alle situazioni quotidiane.
Molta importanza è data ai problemi sociali. È sempre più frequente vedere le comunità organizzarsi intorno ai problemi dell’infanzia carente e bisognosa. Il progetto «Mobilitazione sociale», per esempio, organizzato da una delle figlie dell’Axé Opô Afonjá, pone al centro dell’esperienza religiosa l’impegno personale e la creazione di nuove prospettive a favore dei bambini della comunità e del quartiere. Tale progetto ha soprattutto lo scopo di aiutare i più giovani a riavvicinarsi alle radici africane, animandoli a frequentare la biblioteca e museo del terreiro, organizzando lezioni su cultura e storia afro-brasiliana, corsi di percussione, danza e capoeira (arte marziale d’origine angolana). Tali iniziative stimolano i bambini nell’approfondimendo e riappropriazione della propria cultura e li aiutano nel processo di auto-stima e apertura all’altro.
Non si pensi, infine, che il candomblé sia frequentato solo da afro-discendenti; sono molti tra la borghesia bianca e gli intellettuali coloro che frequentano i terreiros, abbagliati dalla bellezza di riti e alla ricerca di conforto, equilibrio ed energia.

Susanna Barbara




Se nero significa brutto – Speciale BRASILE

Salvador Bahia – È bella la città di Jorge Amado. Le chiese, i palazzi barocchi, le case dalle tonalità pastello, le piazze linde e ben pavimentate richiamano folle di turisti, muniti di shorts e macchine fotografiche. Ma forte è l’impressione che tutto sia ad uso e consumo del visitatore. Un persona questa che quasi sempre ignora la vastità delle favelas che circondano la città vecchia (nota come «città alta»), quella sulla quale si sono riversati finanziamenti miliardari.
La Salvador non turistica deve fronteggiare problemi giganteschi: disoccupazione, povertà, analfabetismo. Tutto questo genera un forte clima di violenza. Non nasconde i problemi dom Gilio Felicio, dal 1998 vescovo ausiliare di Salvador. Lo incontriamo al «Centro di formazione per leaders» dell’arcidiocesi. Volto sorridente e coinvolgente simpatia, monsignor Felicio è un vescovo dalla pelle nera.

Nello stato di Bahia gli afro-brasiliani rappresentano più del 70 per cento dei 13 milioni di abitanti. E sono di gran lunga i più poveri ed emarginati. «Sulla popolazione nera – spiega mons. Felicio – ricade tutta l’ampia gamma dei problemi brasiliani. Molti di questi hanno una motivazione storica. Infatti, 300 anni di schiavitù e 100 di sottomissione alla cultura del “bianco” hanno lasciato il segno. Perché nella testa dei neri si è sedimentato un pesante senso di inferiorità».
È vero – chiediamo – che molti afro-brasiliani usano una terminologia particolare per nascondere la propria identità? «Purtroppo è proprio così. A volte, si arriva a situazioni assurde, ridicole. Quando un afro-brasiliano fa un buon lavoro, può accadere che lui stesso dica di avere fatto un lavoro… “da bianco”. La negritudine, l’essere neri non è assunto come un valore in sé, come esempio di vero, di bene o di bello. Anzi, è proprio il contrario: nero è brutto».
Lei è ottimista riguardo alla pastorale afro-brasiliana? «Vedo un lungo cammino ancora da percorrere, ma continuo ad essere ottimista. La chiesa cattolica, partendo dal Concilio Vaticano II, ha guardato in modo speciale al concetto del popolo di Dio, cercando di valorizzare le qualità di ogni soggetto. Nel passato la chiesa ha sempre avuto un occhio privilegiato per la misericordia e l’assistenza al povero, ma è stata più restia a considerare l’elemento culturale dei popoli. Giovanni Paolo II, nella conferenza dei vescovi latinoamericani di Santo Domingo, parlando agli indigeni e agli afro-americani, li ha invitati a coltivare e celebrare degnamente la propria identità e cultura. Credo che si stiano facendo grandi passi su questa strada. In Brasile la pastorale cerca di rispondere alle necessità della popolazione afro-brasiliana: essere riconosciuta per la cultura di cui è portatrice ed avere piena cittadinanza nella chiesa».
Nelle favelas di Salvador si tocca con mano un’offerta religiosa molto diversificata. Domandiamo a monsignor Felicio se il sentire dell’afro-brasiliano è quello del candomblé (nel quale confluisce la tradizione religiosa africana), della chiesa cattolica o delle sètte. «Su questa terra – risponde il prelato – c’è stata una confluenza, un incontro di diverse religiosità: quella indigena, quella europea e quella degli afro-discendenti. Questi elementi si sono accavallati, formando una specie di simbiosi religiosa che alcuni chiamano sincretismo, ma che in realtà è qualcosa di unico. Questo crea, non si può negarlo, delle difficoltà. Tuttavia, la chiesa cattolica ha riconosciuto l’importanza di vari aspetti del candomblé. Attraverso il dialogo si sta costruendo una nuova via per l’inculturazione del messaggio cristiano».

Nel 1995 sono stati commemorati i 400 anni del martirio di Zumbì, l’eroe per antonomasia della popolazione afro-brasiliana. La chiesa cattolica ha partecipato alle celebrazioni, riconoscendo l’importanza di questo schiavo nero nella storia del Brasile. «È stato un gesto carico di significati. Però non è stato né l’unico né l’ultimo. Oggi abbiamo gruppi di lavoro e movimenti di sacerdoti, vescovi e diaconi neri. Lo scopo è di studiare la spiritualità afro-brasiliana e valorizzare la presenza e la cultura dei neri in questo grande paese».
Ma quanti sono i vescovi afro-brasiliani nella Conferenza episcopale del Brasile? «Sei su 400 prelati». Non sono molti, monsignore. Il sorriso di dom Gilio Felicio vale più di qualsiasi risposta.
Paolo Moiola

Paolo Moiola




E per il santo minacce ed improperi – Speciale BRASILE

La religiosità popolare non è superstizione, ignoranza
o fanatismo.
È manifestare la fede attraverso il vissuto personale e quotidiano.
Nel corso dei secoli si è cercato di emarginarla,
a vantaggio di un cattolicesimo più formale, dove sacro e profano rimangono distinti. Poi, grazie al Concilio Vaticano II, i pregiudizi sono venuti meno…

La tematica della religiosità popolare è avvincente. La gente comune si pone davanti al problema di Dio in modo spontaneo ed emotivo. E vuole affrontare in forma diretta e semplice i grandi interrogativi che da sempre interessano l’umanità: il senso della vita, il perché della sofferenza, come vincerla, che cosa ci attende dopo la morte.
Prima di addentrarci nel tema, dobbiamo, in primo luogo, liberarci da preconcetti e pregiudizi che, già in partenza, riducono la religiosità popolare a fenomeno impregnato di superstizione e ignoranza. Le valutazioni aprioristiche hanno sempre condizionato le riflessioni su questo argomento.
La religiosità popolare aiuta a creare e conservare l’identità individuale e collettiva, divenendo anche una risorsa di evangelizzazione originaria e tipica. In molti casi, essa ha funzionato come reazione e pretesto contro l’oppressione politica e culturale dominante. Altre volte, ha reagito a situazioni di appiattimento religioso. Certamente la religiosità popolare è stato ed è un fenomeno che alterna segni di speranza per una vita in un mondo felice ad altri caratterizzati da anacronismo e alienazione.
Per capire la fede vissuta dal popolo, è necessario ripercorrere alcune fasi storiche che seguono l’evangelizzazione dell’America Latina e capire come la religione cattolica si è diffusa nel continente.

IL CATTOLICESIMO
DELLA GENTE

È un cattolicesimo formatosi tra gli immigrati portoghesi, durante la colonizzazione del Brasile.
Esso ha avuto una presenza significativa nelle zone rurali, dato che le città ancora non esistevano. La popolazione era formata da contadini che emigravano dall’Europa verso le terre nuove: portoghesi poveri, ma anche piccoli proprietari ed ex-galeotti ai quali veniva offerta la libertà di andare a popolare le nuove colonie; più tardi, si aggiunsero indios, strappati alle loro tribù, ed ex-schiavi.
Questa mescolanza di razze ed esperienze ha dato origine a un cattolicesimo tradizionale popolare, basato su elementi specifici che non passavano attraverso un catechismo programmatico e didattico, ma su una fede vissuta e mnemonica.
Possiamo presentare alcuni elementi diventati punti base della religiosità popolare: il santo, l’oratorio, la cappella e il santuario.

IL SANTO,
L’AMICO DELLA VITA

Il santo è uno degli elementi fondamentali del cattolicesimo popolare. Tutto gira intorno a lui. È oggetto della devozione personale; è motivo di raduno del piccolo nucleo familiare (oratorio); è l’occasione per la festa patronale nei piccoli centri (cappella); è meta di pellegrinaggi per grandi moltitudini (santuario).
La vita di ogni persona ha come centro e riferimento la devozione specifica e prorompente per il santo del cuore, che comprende aspetti personali e collettivi.
Ogni fedele si relaziona per tutta la vita con il santo. Conversa con lui, gli chiede protezione, lo ringrazia per le grazie ricevute. Ma è, perfino, contemplato il momento dell’arrabbiatura: quando il santo indugia o ritarda la grazia per la quale è stato sollecitato, il devoto può passare alle minacce, girando l’immagine di spalle, oppure declassandolo nella gerarchia dei santi, riempiendolo anche di improperi.
Il santo lo si interpella attraverso l’immagine, ma non si identifica con essa. L’immagine riassume sempre un potere sacrale e per questo, dopo che è stata benedetta, non la si compra, né si vende e tanto meno la si può gettare via come qualsiasi oggetto logoro, ma solo la si può scambiare con altri oggetti affini. È segno di grande rispetto riporre l’immagine rovinata dal tempo all’entrata della cappella, affinché sia responsabilità del sacerdote determinae la… «rottamazione».

L’ORATORIO FAMILIARE

L’oratorio è un piccolo altare dove viene appoggiata l’immagine del santo. Esso occupa un posto di particolare importanza, normalmente all’entrata della casa ed è centro della devozione familiare.
Attoo all’altarino, la famiglia si riunisce per pregare o per altre devozioni, tradizioni e abitudini. Particolare enfasi viene dedicata alla recita del rosario, condotto dal capo famiglia, con le litanie e varie giaculatorie. Quasi tutte le preghiere sono registrate nella memoria delle persone, anche perché un tempo pochissimi sapevano leggere o possedevano libri appropriati.
La casa è il luogo della tranquillità e della pace e tra le mura domestiche regna la protezione del santo.

DALLE CASE ALLE STRADE

La strada porta con sé un carattere profano e presenta situazioni di grandi pericoli. Il santo, racchiuso in una nicchia speciale, domina gli incroci o sorveglia le vie principali. È una presenza rassicurante per tutti i devoti, anche per coloro che vivono più lontani dal culto ufficiale. Le persone, che vi passano davanti prima di andare al lavoro, alzano gli occhi e incrociano lo sguardo benevolo del patrono, chiedendo protezione. Al ritorno lo ringraziano per i pericoli scampati, offrendo fiori o rami decorativi. Tutta la vita pubblica quotidiana è permeata dalla figura del santo e accompagna i fedeli in tutte le loro relazioni.
A volte, vicino al santo sono raffigurate le anime del purgatorio (a ricordo dei defunti che hanno subito una morte violenta per omicidi o incidenti) o anime di persone non battezzate. Secondo il detto popolare, queste sono «anime inquiete».
La figura del santo garantisce serenità ai passanti, esorcizzando il luogo dalle dicerie popolari che incutono disagio. La giaculatoria è sempre il lasciapassare più sicuro.
Ci sono, infine, degli oratori ambulanti. Si tratta di nicchie portatili che i vari eremiti portano con sé girovagando nei vari quartieri e contrade. Ci sono pure persone che hanno fatto voto al santo di divulgare la devozione e si affidano a questo girovagare per ottenere la grazia richiesta. Il popolo, attraverso questi incontri casuali, si mette in contatto con il santo, specialmente attraverso l’elemosina, che serve per edificare altri luoghi di devozione. Il tutto sempre accompagnato dalla preghiera interiore.

LA CAPPELLA

Quando si costituisce un nucleo di case o una piccola comunità paesana nasce pure l’esigenza di uno spazio sacro: è la cappella.
È quasi sempre costruita con un lavoro d’insieme, poiché tutti i membri della comunità sono tenuti a dedicarvi del lavoro e fare donazioni. È il luogo della devozione comune, dove il popolo fa le proprie preghiere, organizza le novene, decora la cappella e le adiacenze. Nella cappella si aspetta il missionario per celebrare la messa e distribuire i sacramenti. È in essa che si trova l’immagine del patrono con più poteri divini.
Il momento più significativo arriva con la festa annuale. I preparativi cominciano molto prima, con novene e devozioni. Circolano liste di offerte secondo le possibilità di ognuno. Tutti diventano persone che al santo sanno chiedere, ma sanno anche dare. La festa rappresenta la rottura con la monotonia della quotidianità e si entra con euforia in un nuovo tempo; anche il mangiare, il bere e perfino ballare aumentano la familiarità del gruppo e fanno sentire con più forza la protezione del divino.
È un cattolicesimo poco clericale e l’organizzazione della festa è lasciata nelle mani delle confrateite laiche, elette dalla comunità di appartenenza. Normalmente e, soprattutto nel tempo coloniale, la presenza del missionario era sporadica («pastorale di visita»). Eredità che si può constatare ancora nelle comunità rurali dell’interno, dove uomini (ma soprattutto donne) cornordinano preghiere, organizzano feste patronali. La presenza del sacerdote era richiesta solo per la celebrazione della messa.

I SANTUARI

Per le devozioni di massa, esistono i centri per grandi incontri: sono i santuari. In essi si trova l’immagine più importante del santo che esige il pellegrinaggio annuale da parte dei fedeli.
Attraverso questi pellegrinaggi, molte volte compiuti a piedi, tantissima gente prima sconosciuta, a poco a poco si trasforma in compagni di cammino con una meta comune: andare a conoscere il santo. Ritrovarsi nel santuario significa dimenticare tutta la sofferenza e i sacrifici sopportati per raggiungerlo. Tutte le tristezze e i problemi sono allontanati. Arrivare in quel luogo segna la speranza per una vita che ricomincia e si rinnova.
La forza del santuario è dovuta al lavoro dei laici, riuniti in confrateite. Essi non si sentono meri assistenti del luogo sacro, ma veri promotori della fede, assumendo la responsabilità del santuario, delle feste paesane, delle preghiere tradizionali: una vera mescolanza di sacro e profano.
Le confrateite di laici, iniziate nei tempi del «patronato», sono la colonna portante nell’area religiosa. Ancora oggi, con dovute trasformazioni, sono presenti ed efficaci nelle «Comunità ecclesiali di base».

L’ETICA PERSONALE
E SOCIALE

Tra il devoto e il santo vige un’etica di comportamento. È composta da precetti e leggi che regolano lo scambio di benefici ed aiuti reciproci. In quest’ottica, esiste anche (come abbiamo spiegato) la possibilità di «rivolta», quando il santo non rispetta le promesse fatte, dopo che il fedele ha fatto vari sacrifici per ottenere le grazie richieste.
Questo cattolicesimo ha un’etica anche per regolare le relazioni sociali. Nella sua concezione di ordine, esso cerca di riprodurre, in terra, l’ordine celeste. Se in cielo i protettori sono i santi, in terra il povero cerca protezione nei grandi e potenti.
La protezione dei ricchi è data in cambio della sottomissione e obbedienza da parte dei poveri. Si constata, pertanto, che il cattolicesimo popolare tradizionale non offre un modello di società egualitaria. Secondo questa mentalità, Dio ha creato gli uomini in forma differente, ricchi e poveri. Però il ricco e il potente hanno l’obbligo di proteggere il povero e di aiutare il debole, proprio come fanno i santi dal cielo.
Lo studioso Pedro de Oliveira afferma: «Questo modello di ordine sociale, in cui i santi controllano le forze naturali e dove Dio è Signore di tutto (come un buono e grande fazendeiro), è un modello pre-capitalista. Sulla terra, i deboli si appoggiano e ricorrono al più forte e gli sono riconoscenti per la protezione che guadagnano. Questo modello mantiene l’ordine sociale com’è, sancendo la dominazione dei grandi proprietari sulla massa contadina».

LA STORIA CAMBIA

L’abolizione della schiavitù nel 1888 e la proclamazione della Repubblica nel 1889 costituiscono gli elementi basilari per la trasformazione strutturale del Brasile.
La chiesa cattolica, tradizionalmente legata alla classe signorile, deve ristrutturarsi per rendersi capace di affrontare la nuova situazione emergente del capitalismo agrario. I vescovi si allontanano dal potere del padronato e si legano più strettamente alla Santa Sede, decidendo di seguire la linea pastorale che conforma il cattolicesimo popolare tradizionale sul modello romano.
Lo stato vedeva nella tradizione una resistenza al nascente capitalismo agrario. La chiesa, pur riconoscendo certi valori, vi scorgeva troppa indipendenza; per cui decise di inviare i suoi missionari in forma più massiccia dall’Europa. L’obiettivo era di impiantare un cattolicesimo che rispondesse maggiormente alle regole che si stavano imponendo a partire dal Concilio Vaticano I, dove le varie forme tradizionali popolari erano denigrate per far spazio a catechismi ufficiali.
LA CHIESA POPOLARE
SOTTO STRETTO CONTROLLO

Il cattolicesimo romanizzato dà particolare enfasi ai sacramenti come mezzo di salvezza individuale. Poiché questi sono amministrati dal clero. A poco a poco la vita religiosa passa sotto il monopolio della gerarchia ecclesiale.
Anche il cattolicesimo popolare, decisamente più laicale nelle sue origini, viene incamerato nella struttura parrocchiale. Si rafforza lo spiritualismo attraverso una pietà privata, rivolta maggiormente alla salvezza della «propria» anima.
Le differenze sono tangibili: il cattolicesimo popolare è marcato dalla forza del santo e dell’impegno laicale; il cattolicesimo romano insiste maggiormente sulla obbligatorietà dei sacramenti e sulla presenza del padre cornordinatore.
Il popolare comincia ad essere trattato come fanatismo e frutto dell’ignoranza religiosa. Le nuove relazioni sono basate sull’impersonale nel campo religioso, denigrando tutto quello che si riferisce al popolare, mentre si continua lo sfruttamento nel campo sociale.
Si può ricordare la vicenda di Antonio Conselheiro nel sertão baiano che, con i suoi seguaci, venne represso dall’esercito, con l’appoggio del vescovo di Salvador. Più recentemente, ci sono state le sanzioni contro padre Cicero del Ceará, che sosteneva il cattolicesimo popolare creando movimenti religiosi che la chiesa ufficiale non riusciva a controllare.
Per combattere il cattolicesimo popolare, vennero importate dall’Europa devozioni per nuovi santi, legati alle congregazioni religiose. Queste proponevano una fede e stili di vita religiosa lontani dalla vita del popolo, enfatizzando più gli aspetti celestiali che le caratteristiche umane, reputate troppo banali e limitate per poter percorrere il cammino che conduce al Regno.

L’EVOLUZIONE
DELLA DEVOZIONE

Lo storico padre Oscar Beozzo fa una analisi delle devozioni facendo riferimento a tre fasi: il cattolicesimo popolare, il cattolicesimo romano e il cammino attuale della chiesa.
Si prenda, ad esempio, la devozione alla Madonna. Nella prima fase, è la madre dei dolori, Maria di Nazaret, la donna popolare incinta o con il bambino in braccio, tipico dell’essere mamma. Nel cattolicesimo romano, la Vergine diventa Madonna della gloria, Madonna delle apparizioni con vestiti celestiali, e non ha più in braccio il bambino. Diventa insomma una donna che vive fuori dalla realtà del popolo.
Oggi è ridiventata la madre morena dell’America Latina, compagna di viaggio nella vita di tutti i giorni. Riprende in braccio il suo bambino e lo presenta al mondo diventando la «stella dell’evangelizzazione».
Quanto a Gesù, nella prima fase, è il servo sofferente nella preghiera nell’orto degli olivi; il Gesù della flagellazione, che porta la croce. Nella seconda, diventa il Gesù ieratico del Sacro Cuore con una devozione che lo allontana dalla vita di tutti i giorni. E, oggi, il Gesù della liberazione, che proclama i diritti dell’umanità, spezza le catene del peccato e dell’ingiustizia.
La devozione dei santi passa per lo stesso schema. Al tempo della colonia, si incontrano i santi pellegrini che incarnano le sofferenze del popolo che vive un continuo esodo (come S. Gonçalo, S. Pietro degli zoccoli, Santiago, S. Rocco e tanti altri). Poi si passa ai santi delle congregazioni religiose, lontani dalla realtà e dal modo di vivere la fede in America Latina. Infine, nella fase attuale, si ricordano di più i martiri della fede, coloro che danno la vita per difendere i poveri della terra.
L’elemento fondamentale che differenzia il cattolicesimo popolare da quello romano è questo: il primo cerca di unire, di creare un tutt’uno tra fede e vita; il secondo cerca la dicotomia tra vita normale e vita ecclesiale, distinguendo il divino dall’umano, dividendo lo spirito dal corpo, separando il sacro dal profano. Sono elementi, che i teologi figli latino-americani sottolineano con particolare forza e cercano di far scaturire un nuovo cristianesimo adatto e incarnato nelle realtà, dove si cerca l’unità della vita vissuta in una profonda fede.
LA PRIMAVERA
DEL CONCILIO VATICANO II

Arriva il Concilio Vaticano II. Nascono le Comunità ecclesiali di base. Esse, con il loro nuovo modo di essere chiesa, rappresentano anche una rottura della devozione individuale ai santi patealisti della fase coloniale, ai quali era delegata la soluzione dei problemi personali; diventano pure rottura con la pratica individuale dei sacramenti e la dimensione privata della spiritualità, dove ognuno ha l’alibi della salvezza solitaria, senza tenere troppo in conto l’impegno comunitario.
Attraverso il nuovo modo di essere chiesa c’è, senza dubbio, un ricupero dell’elemento tradizionale cattolico e la partecipazione dei laici come agenti dell’annuncio del vangelo e animatori della comunità cristiana. Si fa strada la forza della coscienza personale per arrivare a un impegno collettivo. Una presa di coscienza e una nuova etica religiosa, dove perfino l’ordine socio-politico è contestato.
I numeri e le statistiche sono ancora lontani per un capovolgimento copeicano. La grande massa appartiene ancora al cattolicesimo che trova più comodo un impegno religioso personale rispetto a quello comunitario.

PARTENDO DAI POVERI
(E DA SANTO DOMINGO)

Molte volte la religiosità popolare è stata messa alla gogna come manifestazione di immaturità, intravvedendovi minacce di eresie e soprattutto di sincretismo, fenomeno con il quale non si è avuto il coraggio di dialogare.
Si riconosce che, a volte, alcune devozioni necessitano di una purificazione; ma si ha la percezione che proprio dal popolo derivano le possibilità più immediate e profonde per inculturare ed incarnare la fede nella vita.
Il punto di partenza di Cristo è sempre la sua «opzione per i poveri, per i piccoli, per gli ultimi del mondo…» (Lc, 18-19).
L’attualità della vita ecclesiale deve fare i conti con le sfide dell’evangelizzazione del nostro tempo. Sfide che debbono percorrere il processo di inculturazione del vangelo. È un cammino che deve includere la religiosità popolare, ma anche recuperare i valori indigeni e africani che sono componenti fondamentali dell’antropologia brasiliana.
Nel 1992, a Santo Domingo, davanti ai vescovi latinoamericani, Giovanni Paolo II parla di una nuova evangelizzazione nel suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni di fede. È una proposta che richiede immaginazione e creatività, affinché il vangelo possa arrivare a tutti in una forma appropriata e convincente. Nel terzo capitolo il documento sottolinea la necessità per ogni cristiano di conoscere e penetrare gli ambienti socio-culturali, come protagonista della propria storia alla luce del vangelo. La stessa America Latina non deve guardare solo alle proprie necessità, ma deve sempre avere la sensibilità di aprirsi e condividere la propria fede con il resto del mondo.
Ad ogni istante è necessario rifare «l’esperienza di Dio» che continua a rinnovare l’alleanza con il suo popolo attraverso un «cammino» che non rimane prigioniero nel tempio dell’immobilità, ma richiede sempre più di abitare «la tenda del divenire».
Ecco ciò che significa «camminare con gli uomini del nostro tempo».

Orazio Anselmi




Le favelas, le antenne sulle baraccopoli – Speciale BRASILE

Pigramente sdraiato su una spiaggia
di Rio de Janeiro, in auto sull’interminabile ponte «Niteroi», tifando nella calca
dello stadio «Maracaná»…
O a passeggio per la trafficata via Rio Branco, intimorito dai grattacieli e abbagliatodai flash pubblicitari…
Poi ti volti e scopri le «favelas». Un’altramegacontraddizione
nel paese «maior do mundo».

Delusione a Rio de Janeiro! Avevo sognato, atterrando sulla metropoli brasiliana, che i morros (colline) che ne vivacizzano il panorama scattassero sull’attenti, che il jumbo mi scodellasse dolcemente sulla baia dell’Atlantico, decantata dai manuali turistici come la più pittoresca del mondo. E il Cristo del Corcovado? Avevo sperato d’incontrae subito l’abbraccio nella luce smagliante del sole. Invece sono catapultato sul cemento ribollente senza troppi complimenti. Foschia, fracasso, afa.
All’aeroporto cerco padre Ivanilson, brasiliano, che non c’è. Diventa un’impresa galleggiare sull’onda travolgente dei viaggiatori frettolosi e dei facchini ossessivi. Una dozzina di taxisti, nell’arco di altrettanti minuti, mi «offre» il carro. È tanta l’insistenza che… Però la mano amica di Ivanilson mi «salva».
Padre Ivanilson guida una sgangherata Volkswagen alla «Rio de Janeiro»: sorpassi da brivido, slalom acrobatici fra le auto in corsa, frenate precipitose sul filo del… paraurti. «Se non fai così non ti muovi!» si scusa l’autista gridandomi all’orecchio.
Di fronte all’occhio intransigente del semaforo rosso, la Volkswagen si arresta e cessa di sferragliare. Allora ci si intende. «Vedi il colle Pão de açucar? Devi salirci. Di lassù gusterai uno spettacolo unico. Una geografia da favola nel paese maior do mundo: colline che si ammirano a vicenda da ogni versante, spiagge dorate sorvolate da decine di alianti…». Padre Ivanilson parla proprio come un libro stampato.
Ma, al verde del semaforo, l’autista ingrana subito la quarta e la poetica descrizione sfuma. Nuovo semaforo: siamo circondati da alcuni ragazzetti, che si aggrappano ai finestrini e ci sollecitano di comprare un infilato di arance, un mazzetto di fiori, un cartoccio di verdura, una gabbietta per uccelli.
– Chi sono?
– Favelados.
non esistono, ma lavorano

Fra le sue «attrattive» Rio de Janeiro ostenta anche le favelas. O baraccopoli. Se ne contano 375 con circa 3 milioni e mezzo di individui. La Rocinha ospita 350 mila baraccati. A Rio tre persone su otto sono favelados.
I primi insediamenti incominciarono nel secolo XVII, allorché alcuni schiavi neri in fuga si rifugiarono sui morros di Rio, costituendo delle vere comunità: è il caso della favela di San Carlos. In seguito vi entrarono altri gruppi, compresi dei delinquenti. Di qui l’idea che le favelas siano spelonche di ladri: il che corrisponde a verità, ma non è «la» verità. Nella favela le persone equivoche sono una minoranza, rispetto ad una maggioranza onesta.
Dal 1950 le favelas sono aumentate a causa del massiccio esodo dalle campagne: molti brasiliani poveri del nordest si sono inurbati, sognando di trovare l’«eldorado» in città. E i morros si sono trasformati in accampamenti di nullatenenti. I braccianti non avevano altra scelta che installarsi in una favela, dove potevano costruirsi una baracca senza pagare il terreno e con il vantaggio di trovarsi a due passi da un lavoro in città.
Un’altra ragione per rifugiarsi nelle baraccopoli erano i bassi stipendi, erosi pure da un’inflazione alle stelle (ha raggiunto persino il 950% annuo). Oggi la moneta real è abbastanza stabile. Ma i lavoratori, dati i salari da fame, sono presto al verde.
Da anni ormai i baraccati di Rio de Janeiro assorbono una grande fetta della manodopera nel settore dei servizi: autisti, meccanici, elettricisti, spazzini e muratori, come pure domestiche, portinaie, camerieri, sarte, impiegati nelle banche, poliziotti. Rappresentano un grosso potenziale economico e politico, ma le baraccopoli non esistono legalmente. Gli stessi residenti «non esistono».
Il governo vi buttò l’occhio solo per decretare la fine di alcune favelas attraverso il trasferimento forzato dei favelados. Ciò avvenne negli anni ’30. Fuori Rio sorsero quartieri di Santa Croce, Mesquita e Città di Dio, che però non offrirono alcuna possibilità di lavoro, scuola, strutture sanitarie. Per accedere a tali servizi (lontani), si esigeva tempo, denaro e resistenza fisica. Inoltre, nei nuovi barrios, con la disoccupazione e l’anonimato, la criminalità toccò indici elevati.
Fu così che molti ritornarono sui morros precedenti, perché «Città di Dio» non era affatto tale e «Santa Croce» era davvero un calvario. E, tuttavia, alcuni restarono trasformando il barrio in favela!

sono davvero Banditi?

Favela della Mangueira. Entro in una «casa monostanza», abitata da una donna con sette bambini, più un altro marmocchio che non è suo, ma non sa dove rifugiarsi. Poi attraverso un ponticello di bastoni sconnessi e scricchiolanti per affacciarmi su un vano dalle pareti «multicolori»: una di fango, una di latta, una di compensato, mentre la quarta parete è… l’ingresso senza porta. Ci vive una ragazza di 17 anni con due figli.
Costeggio un muro, abbastanza alto, di cemento armato. La costruzione fa da disco rosso all’avanzare della favela: al di là del muro è proprietà privata di un grileiro, che affitta il terreno a caro prezzo. È triste rilevare come il povero sfrutti il più povero…
Esuberanti, creativi, innamorati della samba… i baraccati della Mangueira. Gente quasi tutta nera, proveniente dal nordest del Brasile, dove, quattro secoli fa, furono deportati schiavi razziati dall’Africa. Nel 1888 cessò la schiavitù, ma non gli schiavi.
Eccoli oggi ancora alla Mangueira. Un favelado è esplicito: «Da oltre 100 anni siamo liberi solo sulla carta. I nostri bisnonni, pur discriminati dal padrone bianco, lavoravano e mangiavano. Noi lavoriamo e tiriamo cinghia. Se non ci dessimo da fare, avremmo solo la libertà di morire affamati e…».
L’interlocutore interrompe il discorso, attratto da due ragazzi che scappano per scomparire in uno dei mille meandri dell’ambiente. Poco dopo, sulla via, compare la polizia: un’occhiata qua e là, qualche parola… e gli uomini in divisa ritornano sui loro passi.
«I ragazzi fuggiti – riprende il favelado – sono piccoli spacciatori di droga. Fanno un lavoro che scotta; però garantisce sicurezza economica all’intera famiglia. Prima o poi cadranno in trappola; tuttavia preferiscono vivere un giorno da leone che cento da pecora. Per lo stato sono banditi. Per noi sono anche amici, perché finanziano le nostre feste popolari, regalano fiori e caramelle ai bambini…».
Mentre lo stato esige dalla favela «ordine» e «moralità», senza muovere un dito per sanare le piaghe della disoccupazione, dell’analfabetismo e dell’igiene, i «banditi» assicurano almeno un giorno di allegra evasione. Ma fino a quando il gioco vale la candela?

quale soluzione
per le baraccopoli?

La favela lotta ogni giorno per sopravvivere. Il principale problema è l’insicurezza: la paura dello sfratto, il terrore che il terreno frani e seppellisca tutti. Sono pochissimi i proprietari legalmente riconosciuti del fazzoletto di terra dove vivono, spesso, da generazioni. I favelados nella quasi totalità sono abusivi.
Non mancano i grileiros: individui che, invasa la terra e impadronitisene con documenti falsi, speculano sugli affitti e giungono perfino a farsi pagare una sorta di tassa demaniale. In favela le baracche sono abitazioni clandestine e, di conseguenza, gli affitti sono insindacabili dalla legge. Di più: se i favelados sono fuorilegge, lo sono altresì i fittavoli. Tutto questo perché il mondo della favela è «inesistente» per la legge brasiliana.
C’è una soluzione al problema? È evidente che la questione cesserà solo quando in Brasile si risolverà, con giustizia, il cruciale problema della terra. Ma questo, purtroppo, non è in vista.
Intanto è urgente che le comunità dei favelados e gli organismi governativi si accordino su alcuni punti scottanti: legalizzare la favela, riconoscere agli abitanti la proprietà del terreno, affrontae gli aspetti logistici secondo i suggerimenti dei residenti. Nessuno meglio di loro (che hanno costruito abitazioni con miracoli di ingegneria spicciola) conosce le soluzioni urbanistiche più idonee. Si erigano asili, scuole professionali, centri sanitari e sportivi.
Si devono prevedere piccoli progetti, che il governo appoggerà foendo assistenza tecnica e mezzi finanziari, mentre gli «ex favelados» presteranno il lavoro.
Forse qualcosa sta muovendosi nel verso giusto. Fino agli scorsi anni ’80 dominava l’idea che le baraccopoli fossero un’anomalia, che il progresso avrebbe riassorbito. Ma con l’attuale modello di sviluppo il disagio, anziché diminuire, cresce. Di conseguenza incomincia a cambiare l’atteggiamento dei governi e delle agenzie finanziarie inteazionali.
Invece di espellere, si inizia a vagliare quanto i favelados hanno prodotto, investendo risorse per dotare gli insediamenti spontanei dei servizi essenziali, regolarizzando la proprietà, integrando gradualmente le aree e i loro abitanti nel contesto urbano normale. Questo pure in sintonia con la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla casa, Habitat II, svoltasi a Istanbul nel 1996.
Però la soluzione del problema «baraccopoli» non è dietro l’angolo, perché troppi remano contro. Inclusa la tivù.

R incaso con padre Ivanilson dopo una visita in favela. È il tramonto. Tra poco moltissimi favelados si legheranno al tubo catodico per l’ennesima telenovela. Invidieranno palazzi sfarzosi e abiti firmati, sogneranno avventure e amori impossibili con uomini aitanti e donne procaci. Tutti individui raggianti quanto falsi, opulenti quanto bugiardi. Infatti la telenovela è una gigantesca alienazione, peggiore di quella che si consuma allo stadio Maracaná nella calca di 220 mila tifosi scatenati. È così che in Brasile «la telenovela continua».
Tra le tante antenne televisive che imperano sulle bidonvilles di Rio de Janeiro, São Paulo, Salvador, Manaus… ho adocchiato pure qualche parabolica. C’è da augurarsi che, almeno questa, non serva a propinare un’insulsa soap opera in inglese o italiano.

Francesco Beardi




Finale a più voci – Speciale BRASILE

Voi siete dentro la nostra casa. Siete dentro il cuore del nostro popolo, che è la terra che tutti state calpestando. Questa è terra nostra. Quando voi siete arrivati qui, questa terra era già nostra…
Per questo esigiamo la demarcazione dei nostri territori, il rispetto per le nostre culture, condizioni per la sopravvivenza, educazione, salute… e punizioni dei responsabili delle aggressioni ai popoli indigeni.
Siamo in lutto. Fino a quando? Non vi vergognate di questa memoria che sta nella nostra anima e nel nostro cuore? La racconteremo di nuovo per la giustizia, la terra e la libertà.
Matalawê, indio pataxó
(messa di commemorazione dei 500 anni)

Il grande errore è pensare che il Brasile abbia avuto inizio con la venuta dei portoghesi. Pare che la storia del Brasile sia cominciata nel 1500 e che, prima, ci sia solo preistoria. Purtroppo la storia ufficiale è quella dei vincitori e non dei vinti.
Dal punto di vista della mia fede, lo Spirito del Signore aveva già seminato i valori del vangelo, anche se in forma implicita, nella storia dei popoli indigeni, nelle loro sofferenze e tradizioni religiose. Quando sono arrivati i missionari, con la mentalità di quell’epoca e l’assenza dell’antropologia culturale, che ancora non era nata, essi pensarono di essere di fronte al demonio e distrussero tutto. Ma ora siamo in condizione di dire che in quei valori era già presente lo Spirito del Signore…
mons. Franco Masserdotti
vescovo di Balsas e presidente del Cimi

Nonostante gli aspetti positivi del passato, sono rimasti segni negativi, frutto anche di errori dei cristiani. Senza incolpare i nostri antenati, sentiamo la necessità di chiedere perdono per ciò che è andato contro il vangelo e ha ferito gravemente la dignità umana e molti nostri fratelli e sorelle.
Agli indios furono tolte le terre, la vita e persino la ragione di vivere. Ai neri fu negata la libertà e ostacolata la conservazione della loro cultura e della loro memoria e fino ad oggi non è stata restituita loro la condizione di piena cittadinanza.
Inoltre la situazione di estrema povertà del popolo. Essa ha radici nella storia di esclusione della società brasiliana. La popolazione povera, insieme a indios e neri, è creditrice di un immenso debito sociale, accumulato durante i secoli della formazione del nostro popolo.
Cnbb
(documento dei vescovi brasiliani)

C i sono diversi modi di vedere il fenomeno storico della conquista. Alcuni lo vedono dalle caravelle e per essi tutto è gloria… La prospettiva che io difendo consiste nel vedere il processo dalla spiaggia, integrandolo con quello che è il risultato di questo scontro di civilizzazione, che è culminato in un sincretismo, in una mescolanza di razze e religioni.
Siamo il figlio «non voluto» dell’Europa. Volevano arrivare alle Indie e ci hanno trovato sulla loro strada, accidentalmente. E forse per questo siamo i più ribelli. Siamo una mescolanza di indigeni, neri, asiatici, europei, ma ci sentiamo brasiliani e latinoamericani, non europei.
Leonardo Boff
teologo della liberazione

Indipendentemente dalle ragioni che portarono i portoghesi ad approdare in Brasile e iniziare la colonizzazione-dominazione, il fatto è che abbiamo ricevuto con essi la buona novella di Gesù Cristo.
Da loro ereditiamo un tesoro più grande di quello che portarono via di qui: ereditiamo la fede, il vangelo, l’eucaristia, la salvezza, Nostra Signora. Ed è per questo motivo che dobbiamo celebrare i 500 anni della scoperta, che sono anche 500 anni di evangelizzazione.
mons. José Edson Santana
vescovo di Eunápolis

Non è possibile tracciare il profilo storico del Brasile, senza considerare la presenza della chiesa cattolica. Chi più aiutò a civilizzare le popolazioni indigene che il lavoro missionario? Chi più ha fatto per l’istruzione del popolo che la chiesa? Chi più si è adoperato per la moralizzazione della famiglia, per la pace e la concordia dei cittadini che la stessa chiesa? Come non ricordare la chiesa come colei che ha difeso la dignità umana e i valori culturali dei popoli indigeni presenti in epoca coloniale e la sua tenace opposizione alla schiavitù? Quello che sono oggi i brasiliani lo devono alla generosa dedizione di numerosi cristiani che si sono consacrati alla causa della fede, a volte anche a costo della vita.
card. Angelo Sodano
segretario di stato del Vaticano

L a sfida è la disuguaglianza sociale. Il Brasile ha un’unità territoriale, ma non una condizione di uguaglianza. Nascondere e negare i conflitti interessa ai dominatori, non ai dominati. I conflitti rivelano che c’è insoddisfazione sociale, lotta reale o potenziale e possibilità di mutamento. A chi si avvantaggia del potere non interessa il cambiamento. Il giusto criterio per giudicare i governi e i tempi della storia dovrebbe essere: hanno essi contribuito o meno a superare le disuguaglianze nel paese?
In questi 500 anni il nostro popolo povero ha conquistato il diritto di gridare che ha fame, ma non ha ancora conquistato il diritto di mangiare.
Luis Inacio Lula da Silva
tre volte candidato alla presidenza della repubblica

aa.vv.




L’immondezzaio di Elena

Strada Manaus-Itacoatiara, chilometro 10. Fino a qualche tempo fa c’era soltanto un immondezzaio. La puzza, acuita dal calore, era percepibile a chilometri di distanza. Gli urubú (avvoltorni) volteggiavano sulla discarica, attratti dalle sostanze organiche in decomposizione. Il personale tecnico del vicino aeroporto era preoccupato, perché i rapaci (che volano altissimi) erano risucchiati dalle turbine delle aeronavi causando danni irreparabili e persino tragici incidenti.
Attoo alla discarica, enorme, si stabilirono alcuni individui: sopravvivevano raccogliendo bottiglie, pezzi di metallo, mobili vecchi, carta stagnola. Quando le autorità locali si resero conto della situazione, circa 2 mila famiglie, provenienti dall’interno dell’Amazzonia, si erano già insediate presso il grande letamaio. Era sorto un paese, battezzato Nuovo Israele.

Tutto è improvvisato.
Non ci sono strade, fognature, acqua, elettricità. La miseria, tipica dell’interno dell’Amazzonia, si è riprodotta anche qui, ma con una differenza: prima era possibile procurarsi pesce, farina di manioca e acqua non inquinata; ora si muore di fame, se nessuno della famiglia trova lavoro. Poiché la maggioranza sa solo pescare e piantare manioca, si possono comprendere i problemi dei… profughi.
«Perché non siete rimasti nell’interno?» domando. «Perché si è lontani da tutto. Non ci sono né medici né medicine. Per non parlare della scuola!».
«Ma, invece di affrontare questa terribile situazione a Manaus, non sarebbe stato meglio restare nei luoghi di origine?». «No. Qui almeno c’è la speranza che le cose migliorino. Là neppure questo. Qui la gente può darci una mano, mentre nell’interno eravamo isolati e soli. Dal luogo dove abitavo io, ci volevano tre giorni di viaggio, in canoa, per giungere al primo centro abitato e trovare qualcosa!».

A Nuovo Israele
le case sono simili più a pollai che ad abitazioni umane: si aggrappano al terreno scosceso come muli testardi. Su pochi pali e alcune assi poggia la casa, ricoperta da foglie di palma e sacchi di plastica o, per i ricchi, da lastre zincate. È necessario avere almeno un bugigattolo, altrimenti si viene cacciati. In seguito si può diventare proprietari di quel palmo di terra.
Vicino alla casa, una fossa per i servizi igienici. Sul fondo del terreno collinoso e ricco di acqua, a causa delle abbondanti piogge, si scavano altri buchi (cacimbas): sono il bagno, la lavanderia per i vestiti e la fonte d’acqua per uso domestico.
È uno spettacolo deprimente vedere donne, bambini e anziani arrampicarsi sui sentirneri, verso le proprie case, carichi di recipienti d’acqua, sbuffando al cocente sole. Ci ho provato anch’io, con una tanica d’acqua in spalla: arrivato in cima, le gambe non mi reggevano più. Loro quei sentirneri li fanno decine di volte a stomaco vuoto!

In questa città da incubo
rivolgo ad un tale l’ingenua domanda se, una volta a casa, avrebbe filtrato o fatto bollire l’acqua. La risposta mi colpisce come una sberla in faccia: «Il povero filtra l’acqua in pancia!». Avrei voluto scomparire all’istante, tanta è stata la vergogna nell’avere offeso, sia pure involontariamente, la sensibilità di un povero.
Avvicinatomi ad una casupola, vi trovo quattro bambini. Una bambina di sette anni si prende cura degli altri tre, più piccoli, mentre i genitori sono a cercare un po’ di cibo. Il giorno prima si erano accontentati di chibé (farina di manioca, rammollita in acqua calda e sale); oggi non hanno neppure una goccia d’acqua da bere.
Eppure questa gente è ancora capace di sorridere. Forse per inerzia. O per fede.

C’è anche una missionaria.
Nera come il carbone, i capelli crespi e brizzolati, suor Elena è chiamata da tutti «angelo nero». Originaria dell’isola di Barbados (Antille), la religiosa vive come la gente occupandosi dei più miseri e abbandonati. Se qualche povero ha bisogno di legalizzare la proprietà o di una visita medica, è sempre lei che si fa in quattro.
Ha costruito una cappella di legno che serve da scuola, centro di assistenza sociale e luogo di culto alla domenica. Nelle rivendicazioni sociali lei è sempre in testa. Per questo è stata arrestata varie volte e anche bastonata dalla polizia. Ma Elena non si ferma, sorretta soprattutto da Colui che ha detto: «Beati i perseguitati per amore della giustizia».
A Nuovo Israele incontro anche un giovanotto. Dice di essere cattolico, però non praticante; prega, ma vive lontano dalla chiesa, perché – dichiara – troppo distante dai poveri. E prosegue: «A Nuovo Israele e in situazioni simili la chiesa deve scendere dal piedestallo e fare molto di più per chi vive nella miseria».
Penso a suor Elena.
p. Paulo Gomes

Paulo Gomes