Brasile. Un mondo senza carceri


Dentro la pastorale carceraria, con padre Gianfranco Graziola

La prigione non ha mai risolto i problemi sociali. Diventa una forma di controllo della società stessa e della povertà. La Chiesa cerca di dare risposte con la pastorale carceraria. In Brasile c’è un esempio unico al mondo di lavoro di squadra.

Padre Gianfranco Graziola, missionario della Consolata, trentino, da trent’anni in Brasile, fa parte del Coordinamento nazionale della pastorale carceraria (Cnpc). Si tratta di un organo della Chiesa brasiliana che ha appena compiuto cinquant’anni, come pure il Consiglio indigenista missionario (Cimi). Entrambe le strutture sono nate sulla scia delle conferenze dell’episcopato latino-americano di Medellin (1968) e di Puebla (1979).
«È un ente unico al mondo. Da noi non esiste la figura del cappellano delle carceri. Si tratta di una pastorale vera e propria, portata avanti da una équipe». Così ci racconta padre Gianfranco, che incontriamo di passaggio a Torino.

Lui «alle carceri» è arrivato un po’ per caso. Ci racconta: «Lavoravo a Roraima, nel Nord del Brasile, ed ero in missione a Catrimani, in foresta amazzonica, con gli Yanomami. Monsignor Roche Paloschi, all’epoca vescovo di Roraima, chiese ai missionari della Consolata qualcuno che andasse a occuparsi di diritti umani, di migranti e di pastorale sociale in seno alla diocesi. Tra le tante pastorali sociali, c’era quella carceraria, ma non stava passando un buon momento. Così chiesero a me, e dalla selva andai a Boa Vista, la capitale. Subito si stabilì un’ottima sintonia con il vescovo. Un giorno, ricordo, un gruppo di donne carcerate durante un evento fece dei cori, e poi mi disse: “Una volta c’era la pastorale carceraria”. «C’è ancora!», risposi con risolutezza, e da allora siamo ripartiti».

Un approccio unico

La pastorale carceraria in Brasile lavora su tre livelli: il coordinamento nazionale, i coordinamenti statali (è un paese federale di 26 stati più la capitale Brasilia) e quelli a livello delle diocesi. È portata avanti dagli agenti di pastorale: preti, suore, vescovi e anche laici, uomini e donne, di tutte le età. Visitano le carceri in tutto il paese settimanalmente, due volte al mese, oppure ogni mese.

Il coordinamento nazionale si trova a São Paulo, perché è lo stato con la maggiore popolazione carceraria del Brasile, 22mila detenuti solo nell’arcidiocesi della metropoli.

Esso si occupa anche dell’approccio politico, dell’intervento in caso di denunce, e di pressione su chi governa (lobbying), oltre che delle visite pastorali.

Padre Gianfranco allarga la visuale a livello continentale: «A livello di  America Latina, di Celam (Consiglio episcopale latinoamericano e caraibico), il nostro slogan è “Un mondo senza carceri”.

Ci sono state varie riunioni tra tutte le conferenze episcopali, e c’è questo sogno. Noi non crediamo che il carcere sia la soluzione ai problemi del nostro mondo, al contrario. Infatti, il carcere è fonte di tortura, è una sua espressione moderna, perché un carcerato o una carcerata, secondo la Costituzione brasiliana, dovrebbe perdere il diritto di muoversi liberamente e i diritti politici solo una volta avvenuta la condanna definitiva, ma questo non accade.

Si verifica una serie di violazioni di diritti: tortura (nel senso classico), sovraffollamento, cattiva alimentazione, scarsa cura della salute, pessime condizioni di vita.

Lo stato ci risponde dicendo: allora costruiamo nuovei carceri. Noi sosteniamo, però, che quantie più prigioni si costruiscono, tanto più aumenta il numero della popolazione detenuta.

Per fare un esempio, nei due anni di pandemia, siamo passati da 800mila carcerati a 930mila (in Italia siamo a circa 52mila, nda), di cui circa 50mila sono donne. Queste normalmente hanno a che fare con il traffico di stupefacenti, sono chiamate mule (corrieri, nda)».

Il peso delLa droga

Padre Gianfranco specifica che il riempimento delle carceri è direttamente legato alla legislazione sulla droga: «La grande questione che proponiamo è di non considerare la droga una questione di polizia, ma di salute. In Brasile, se ti trovano con un grammo di droga, anche la più leggera, vai in carcere. Perché stanno seguendo l’approccio di guerra totale agli stupefacenti. È uno degli elementi importanti che oggi alimenta la popolazione carceraria».

Poi la cocaina circola nelle feste di privati a un certo livello, e non c’è il problema morale di consumarla. Inoltre, negli incontri delle élite la polizia non entra.

Il missionario ci ricorda che l’incarceramento in Brasile ha un colore e uno status sociale: finiscono in prigione i neri, i poveri delle periferie, e i giovani. C’è un’alta percentuale di questi ultimi, quasi il 50% ha tra i 18 e i 29 anni. Sotto i 18 è previsto un sistema diverso, chiamato socioeducativo, che non dipende dal sistema penitenziario, ma è simile al carcere minorile.

(Photo by ANDRESSA ANHOLETE / AFP)

L’organizzazione

Chiediamo a padre Gianfranco come è organizzata la pastorale carceraria.

«Abbiamo una coordinatrice, la suora tedesca Petra Silvia Pfaller, un vicecoordinatore, padre Almir Ramos, di Santa Catarina, e una coordinatrice della questione delle donne in carcere, Rosilda Ribiero Rodrigues Salamão, perché a livello femminile il carcere ha prerogative particolari. Ad esempio, dal 2014 a oggi, abbiamo avuto un aumento del 700% di incarceramento femminile».

Padre Graziola racconta poi che c’è un nucleo di dipendenti che lavorano nella gestione economica, nell’amministrazione dei progetti e nel settore giuridico, ad esempio per le denunce di tortura, e, infine, sulla comunicazione. «Per la tortura, si lavora non tanto su casi singoli, ma sulla politica. In tempo di pandemia le denunce di tortura sono raddoppiate. Sul nostro sito si può fare denuncia anonima e non anonima. Il settore giuridico, in coordinamento con ogni stato, interpella i giudici, il difensore civico, chiedendo loro di intervenire. Ma non sempre si muovono, a volte danno risposte evasive».

La struttura prevede poi una serie di coordinamenti, con il coinvolgimento di periti. Padre Gianfranco è nella sezione teologica, dopo essere stato il vicecoordinatore nazionale. Lui fa anche parte della presidenza dell’associazione che gestisce i progetti per finanziare la struttura.

L’associazione ha alcuni finanziatori internazionali, come la tedesca Misereor, e altri nazionali. Anche se il missionario non nasconde che trovare finanziamenti è diventato sempre più difficile.

«Le altre conferenze episcopali in America Latina non hanno questa organizzazione. Qualcuna ha il cappellano, stipendiato dallo stato. Noi abbiamo scelto di non dipendere dallo stato».

La pastorale carceraria prevede poi gli agenti di pastorale, tutti volontari. Secondo una ricerca recente, sono circa 5mila.

Giustizia e altri temi

«Uno dei grandi temi su cui lavoriamo, con forte connotazione politica, è quello della giustizia riparativa, o restaurativa, come diciamo in Brasile (cfr. MC dicembre 2013).

Lavoriamo in rete con Espere (la scuola di pace di padre Lionel Narváez Goméz in Colombia, cfr. MC agosto 2018), sulle pratiche di giustizia riparativa. Ma utilizziamo anche la filosofia clinica, che tratta la questione dell’identità e dell’unicità. Un filosofo brasiliano, Lucio Packter, fa un lavoro sulla storia della persona e la sua unicità. Per esempio, in merito alla convinzione: “sono nato delinquente e resto tale”, noi diciamo di no. E ancora lavoriamo sul linguaggio nonviolento.

Sono tutti temi sui quali abbiamo lavorato molto in questo ultimo periodo e, data la pandemia, abbiamo anche dato un’attenzione particolare alle persone stesse che operano nella pastorale. Si tratta di avere cura di chi opera, di chi si prende cura».

AFP PHOTO / NELSON ALMEIDA (Photo by NELSON ALMEIDA / AFP)

L’agenda

Padre Gianfranco si entusiasma quando spiega l’approccio della pastorale con le famiglie dei carcerati. «È molto cresciuto il lavoro che facciamo con i parenti dei detenuti. Appoggiamo le famiglie, cercando di dare loro più margine di manovra per difendere i congiunti (impoderamento, in brasiliano, ndr). Le accompagniamo in un processo che porti a “un mondo senza carceri”. Per questo abbiamo creato un’agenda per il “desencaceramento” in dieci punti, che è stata sottoscritta da cinquanta entità impegnate nel settore (vedi box).  È nata nel 2013 dal fatto che visitavamo il carcere, vedevamo, denunciavamo, ma non succedeva nulla. Da lì si è originata una riflessione e poi questo decalogo.

Oggi è una rete molto grande che va avanti in un lavoro di squadra. E sono i parenti che portano avanti questa agenda. Noi stiamo nella retroguardia. All’inizio ci davano dei pazzi, ma da questa agenda è nato un meccanismo, riconosciuto dallo stato, di lotta alla tortura. Si tratta del Comitato nazionale e statale: ci sono periti indipendenti a livello nazionale che sistematicamente visitano le carceri e verificano se ci sono casi di tortura. È pagato dallo stato federale, è un ente governativo, ma è stato proposto da noi. Nel comitato c’è un rappresentante delle famiglie. Questo strumento si è affermato dopo l’eccidio del 2019 a Manaus (morirono 55 detenuti, nda)».

Uno dei punti concerne la droga, e propone non solo la depenalizzazione, ma la decriminalizzazione. Questo non vede tutti d’accordo neppure all’interno della chiesa brasiliana, perché c’è una questione morale.

Quando fare lobbying

Chiediamo a padre Gianfranco come funziona quando c’è una denuncia. «Ad esempio, c’è un problema e ci arriva una denuncia. Gli avvocati entrano in contatto con il coordinatore della pastorale carceraria in quello stato e si cerca di indagare. A livello centrale abbiamo relazioni con molte altre entità nazionali e internazionali che lavorano per i diritti umani. Facciamo lobbying di tipo politico. C’è stata la visita dell’alto commissariato per i diritti umani dell’Onu, per denunce. La stessa Suprema corte brasiliana dice che il carcere in Brasile è anticostituzionale.

Si lavora sui diversi livelli, diocesano, statale e federale. Si fanno pressioni.

Noi, rispetto ad altre istituzioni, ci siamo costruiti una credibilità molto grande. Se c’è qualche problema, ci chiamano.

Ma oltre alla parte che riguarda i diritti umani, c’è l’impegno pastorale. La promozione umana e l’evangelizzazione sono parte della cura della persona. Quindi facciamo celebrazioni, diamo sacramenti, abbiamo agenti di pastorale presenti».

Prigioni private

In Brasile si sta diffondendo la privatizzazione delle carceri. Ne esistono due forme: la cogestione e la privatizzazione totale.

Nel primo caso, il penitenziario esiste già, viene mantenuto il direttore che, di norma, è un militare, e tutto il resto viene appaltato a privati (cibo, sanità, agenti penitenziari, ecc.). La guardia esterna, invece, non può mai essere data a privati.

Nel secondo caso, lo stato assegna un terreno a un’impresa. Su questo, il privato costruisce l’infrastruttura. Il direttore è appannaggio dello stato, ma tutto il resto è del privato.

Nella cogestione c’è super affollamento, mentre nel secondo caso no. Si tratta però di penitenziari disumani, molto tecnologici, nei quali non ci sono contatti tra detenuti. Ci racconta padre Gianfranco: «Ad esempio, ho incontrato in una di queste strutture una persona paraplegica abbandonata in una situazione tale da non potersi muovere. Ha insultato il direttore in mia presenza, chiedendo di tornare al sistema superaffollato, dicendo che “almeno ho qualcuno con cui stare”. Sono quasi dei lager».

Carandiru

Il 2 ottobre scorso ricorreva il trentennale del maggiore eccidio accaduto in un carcere brasiliano. Avvenne a Carandiru, a São Paulo. I morti ufficiali furono 111, ma si sa che furono molti di più. Furono portati via con i camion dell’immondizia. A tutt’oggi gli autori sono impuniti. «Carandiru è un po’ il simbolo della lotta contro il carcere. Nel 2017, negli stati di Roraima, Amazonas e Rio Grande do Norte ci furono quasi 200 morti per scontri nelle prigioni. Nel 2019 a Manaus morirono 55 detenuti. I funzionari dicono che sono le fazioni interne in lotta tra di loro. Ma noi rispondiamo: guardate che i responsabili siete voi, il sistema giudiziario. Durante la presidenza Bolsonaro, inoltre, gli agenti penitenziari sono stati autorizzati a portare le armi, per cui abbiamo assistito a una militarizzazione delle carceri», il che può ulteriormente peggiorare la situazione. Chiediamo a padre Gianfranco quali siano le maggiori difficoltà incontrate oggi dalla pastorale carceraria.

«Stiamo vivendo un momento difficile, perché molti agenti di pastorale si sono dovuti ritirare perché anziani e non se la sentono più.

Inoltre, ci sono difficoltà di relazione con i movimenti pentecostali e neo pentecostali. Stanno entrando nella pastorale, vogliono convertire tutti e hanno un aspetto moralistico che noi non abbiamo. Vanno a predicare, in modo molto emotivo, creando un po’ di conflitto, non ascoltano la gente. Noi siamo una pastorale di ascolto della persona, sulla quale c’è la nostra attenzione. È un approccio che parte dalla giustizia riparativa».

Marco Bello

Le richieste dei movimenti della società civile e della Chiesa

Agenda nazionale per il «descarceramento

Il decalogo, scritto inizialmente nel novembre 2013 da movimenti e organizzazioni sociali, allo scopo di promuovere la modifica del sistema carcerario, era centrato sull’esigenza di un programma per la riduzione concreta e rapida della popolazione detenuta. Nel 2016, tale agenda è stata attualizzata e ha ricevuto ulteriore appoggio da collettivi, organizzazioni e pastorali sociali. Nel primo incontro nazionale per il «desencarceramento» (traducibile come riduzione del peso delle carceri nella società), realizzato a São Paulo l’8 ottobre 2016, gli enti che assumevano l’agenda erano 30, mentre al secondo incontro, l’anno successivo, è stata sottoscritta da oltre 40.

Di seguito la sintesi del decalogo. Per approfondire si veda sul sito carceraria.org.br le versioni in portoghese, inglese e tedesco.

  1. Sospensione di qualsiasi costruzione di nuove carceri o struttura detentiva.
  2. Esigenza di riduzione massiccia della popolazione carceraria e della violenza prodotta nelle prigioni.
  3. Modifiche legislative per limitare al massimo la prigione preventiva.
  4. Contro la criminalizzazione dell’uso e del commercio di droga.
  5. Riduzione massima del sistema penale e recupero della autonomia comunitaria per la risoluzione nonviolenta dei conflitti.
  6. 6. Aumentare le garanzie della Legge di esecuzione penale (Lep).
  7. Apertura del carcere e creazione di meccanismi di controllo popolare (sempre in ambito della Lep).
  8. Proibizione della privatizzazione del sistema carcerario.
  9. Prevenzione e lotta alla tortura.
  10. Smilitarizzazione della polizia e della società.

Ma.Bel.

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La versione integrale è disponibile sul sito: carceraria.org.br/agenda-nacional-pelo-desencarceramento.




Montenegro. L’altopiano della discordia


Una diversità bioculturale da salvare nel cuore dei Balcani

L’altopiano di Sinjajevina ha una biodiversità unica. Si è costituita grazie a secoli di gestione come «bene comune» da parte delle comunità pastorali native. Da alcuni anni è minacciato da un centro militare installato dal governo. Ma attivisti di tutto il mondo vogliono salvarlo.

La catena montuosa Sinjajevina-Durmitor del Montenegro è il secondo alpeggio più grande d’Europa, un altopiano calcareo di quasi mille km2 tra 1.600 e 2mila metri di altitudine, con una biodiversità unica, costruita e conservata attraverso millenni di usi pastorali, e alcuni dei paesaggi alpini più straordinari del continente.

L’area è stata riconosciuta di particolare valore per la sua biodiversità. La creazione di numerose aree naturali e culturali protette ne fanno probabilmente la regione più ricca del suo genere in tutto il Montenegro (paese di 600mila abitanti su una superficie  pari al Trentino Alto Adige, ndr).

Uno stile di vita antico

La diversità bioculturale di Sinjajevina non è solo un prodotto della natura, ma l’eredità di secoli di comunità pastorali locali, una simbiosi di società e ambiente e un’eredità di storia sociale sostenibile. Questi ecosistemi autentici esistono grazie all’uso ponderato e alla gestione concertata del territorio, generazione dopo generazione.

Pertanto, l’ecosistema stesso dipende dalla presenza e dalle attività di queste comunità. Gli insediamenti pastorali dell’altopiano, detti katun, dispersi nel territorio di Sinjajevina, appartengono a otto grandi gruppi etnici, ciascuno con le proprie regole di governo dei beni comuni (o commons) riguardanti i tempi di accesso ai pascoli e le modalità di utilizzo per garantirne la rigenerazione.

Tuttavia, un progetto per costruire un poligono di addestramento militare, che occuperebbe gran parte della sua area, minaccia non solo la biodiversità ma anche le attività di pastorizia, i mezzi di sussistenza di migliaia di persone intorno a essa, e paesaggi unici che sono un patrimonio europeo comune.

Installazioni militari

In diretta contraddizione con la raccomandazione emersa da uno studio del 2018 cofinanziato dall’Unione europea che prevedeva di creare un’area protetta a Sinjajevina entro 18 mesi – e contro ogni apparente logica di sviluppo rurale, turistico, agroalimentare e ambientale -, nel settembre 2019 il governo montenegrino ha inaugurato un’area di addestramento militare e test per gli armamenti proprio nel cuore di questi pascoli abitati, all’interno della Riserva della biosfera riconosciuta dall’Unesco e a metà del processo di dichiarazione di Sinjajevina come parco naturale regionale. Questa decisione è stata presa senza alcuna valutazione di impatto ambientale, nessuna valutazione sanitaria e nessuno studio di impatto economico pubblicamente disponibile, né alcun negoziato coerente con le comunità pastorali colpite. Infatti, né i pastori, né alcuna organizzazione della società civile dei sette comuni interessati hanno tuttora una chiara idea dell’esatto perimetro del poligono militare, del suo scopo, della natura dei suoi rischi per la popolazione. Ciò che è noto pubblicamente è che è previsto un poligono di oltre 10mila ettari (100 km2, poco meno dell’intera città di Torino).

Si tratta di terre che che conservano testimonianze storiche del governo comunitario del territorio e del suo uso pastorale fino al XIX secolo, con un utilizzo dimostrabile continuo e ininterrotto per almeno gli ultimi 140 anni. Tuttavia, storici e archeologi ritengono che questa data dovrebbe essere spostata molto più indietro, probabilmente a diversi millenni. Sono necessarie ulteriori ricerche su date più esatte, ma nulla toglie al fatto che il poligono militare debba essere sottoposto a uno studio di impatto sociale e ambientale approfondito e indipendente, nonché a una revisione legale delle procedure seguite sia a livello nazionale che internazionale in quanto il Montenegro è firmatario di numerosi accordi interstatali.

I problemi legati alla costruzione e all’uso di un sito di artiglieria in questi ecosistemi non riguarda solo i diritti tradizionali delle popolazioni locali alla natura da un punto di vista giuridico. Anche da quello scientifico è comprovato che lo stesso ecosistema pastorale e i servizi ecosistemici che esso fornisce dipendono dalla presenza e dall’attività in sicurezza delle comunità pastorali minacciate dal poligono militare.

Conseguenze ambientali

Il poligono militare è stato solennemente inaugurato il 27 settembre 2019 con operazioni in collaborazione con altre forze militari della Nato (Usa, Austria, Italia, Slovenia, per ricordarne alcune). Ciò è avvenuto prima che i pastori con le loro greggi avessero iniziato la transumanza, la discesa dalle montagne ai loro masi invernali nelle valli più basse, il che ha provocato diverse perdite nel bestiame.

Dal punto di vista ambientale, risulta preoccupante il fatto che l’epicentro del poligono militare sia Savina Vode, la più importante fonte d’acqua della zona. Le attività militari rischiano di contaminare la sorgente e di danneggiare la salute degli esseri umani e degli animali che la bevono. Lo stesso varrebbe per le piante di cui gli esseri umani e gli animali si cibano, mettendo in pericolo anche il mercato della carne e dei latticini. Sinjajevina produce uno dei formaggi e prodotti lattiero caseari più pregiati del paese, come ad esempio i tradizionali formaggi skorup, venduti a 25 euro al chilo, che rappresentano un’autentica fortuna se si pensa che nel paese lo stipendio medio è di 300 euro al mese.

La contaminazione dell’acqua, poi, potrebbe estendersi ben oltre il sito stesso, ed espandersi attraverso i ruscelli sotterranei, specialmente nei villaggi intorno a Lipovo, appena sotto il lago Savina Voda. Qui è in funzione una fabbrica di imbottigliamento di acqua minerale, (finora) reputata pulita e altamente curativa.

Proprio per il suo valore strategico idrologico e pastorale, questo territorio era particolarmente protetto e conservato da importanti norme consuetudinarie. I membri delle diverse etnie di pastori da tempo hanno deciso il divieto di costruzione di infrastrutture o blocchi abitativi nel raggio di diversi chilometri e stabilito il diritto a soli 15 minuti di abbeveraggio per gregge o mandria oltre a spazi limitati molto ristretti per il pascolo di ogni gruppo. Ed è proprio la coscienza dell’unicità di questa area che è riuscita a conservare, generazione dopo generazione, un paesaggio straordinariamente produttivo e ricco dal punto di vista bioculturale e agroeconomico.

Naturalmente, un’altra grande paura tra i locali è il pericolo fisico di essere colpiti dall’artiglieria in azione o da ordigni abbandonati inesplosi.

La campagna internazionale

Di fronte all’azione del governo, che considera questa come una «terra di nessuno» aperta allo sfruttamento, le comunità locali e attivisti in tutto il Montenegro e in altri paesi europei, hanno iniziato a unirsi e pianificare azioni per denunciare il crimine del governo nei confronti del proprio popolo. Centinaia sono le pubblicazioni nella stampa, interviste televisive e radiofoniche in difesa della Sinjajevina. Molte le mobilitazioni, quasi dieci nell’ultimo anno, e alcune hanno visto la partecipazione di oltre trecento persone. Il movimento ha l’appoggio di un grande pubblico, sia a livello nazionale che internazionale.

All’inizio del 2019, questa mobilitazione ha anche portato alla creazione di un’alleanza per la salvaguardia dell’ambiente in tutto il paese. La Coalizione per lo sviluppo sostenibile (Kor, in montenegrino), è stata fondata a partire dall’unione di diverse organizzazioni locali, tra cui il Movimento ecologico Ozon, che da due decenni si battono per l’ecologia in Montenegro e sostengono le comunità locali nella loro lotta. La Coalizione per lo sviluppo sostenibile riunisce le persone che lottano per la protezione di fiumi, foreste, montagne, laghi e tutte le altre risorse naturali che sostengono la vita degli abitanti del Montenegro, oltre a Sinjajevina.

Qualche mese più tardi, l’Iniziativa civica save Sinjajevina il 6 giugno 2019 ha lanciato una petizione online per dichiarare la Sinjajevina area protetta. La firma della petizione è durata fino al 5 agosto 2019 e, durante la raccolta delle firme, ha dovuto affrontare numerose sfide. Quindici persone sono state coinvolte nella sua promozione, ma i cittadini non hanno potuto votare perché il portale pubblico dello stato si rifiutava di accettare molte firme e il sito delle petizioni era molto spesso non disponibile. I promotori però non si sono fermati e hanno iniziato a raccogliere firme, di persona, nei villaggi intorno alla Sinjajevina. Hanno anche organizzato visite nelle città raccogliendo firme per Sinjajevina fino a ottenerne più di tremila, il minimo necessario perché il parlamento montenegrino accetti di discutere la questione.

La risposta del governo

Tuttavia, il 5 settembre 2019, ignorando questa petizione e limitandosi a «prenderne atto», il governo ha deciso unilateralmente la creazione del campo di addestramento militare a Sinjajevina. A seguito delle proteste, il ministro della Difesa ha ordinato la posizione di segnali di confine sull’area e l’interruzione di alcuni percorsi e ha lanciato un’esercitazione militare sul territorio del comune di Kolašin e Sinjajevina denominata «Joint challenge 2019», che ha riunito i soldati della Nato dalla Macedonia del Nord, Austria, Italia, Slovenia, Stati Uniti e Montenegro. Gli abitanti del villaggio si sono lamentati di molestie e danni alla proprietà, ma non è stata concessa loro alcuna attenzione.

Lo stato balcanico è in trattativa di adesione con l’Ue, e il parlamento europeo ha dichiarato, lo scorso 23 giugno, il suo rammarico perché, nonostante i progressi iniziali, la questione di Sinjajevina non è ancora risolta. Dalla campagna Save Sinjajevina si chiedono: «Perché si dimenticano della Costituzione del Montenegro, delle convenzioni internazionali sulla conservazione degli habitat e sull’accesso dei cittadini delle informazioni? Dove sono i principi democratici e la partecipazione dei cittadini nelle decisioni su questioni vitali?».

In tutta risposta, il nuovo ministro della Difesa del Montenegro, dopo il vertice della Nato a Madrid, ha annunciato il 4 luglio scorso che si prepareranno per nuove esercitazioni militari a Sinjajevina. Decisione che sembra non concorde con la posizione del primo ministro Dritan Abazović che si è più volte dichiarato contrario alla militarizzazione del sito, o del ministro dell’Ecologia che apertamente sostiene l’idea che Sinjajevina venga dichiarata area protetta.

Saperi locali e saperi scientifici

Alla società civile internazionale si è unita anche la comunità scientifica, che da allora dedica il giorno 18 giugno a mobilitazioni coordinate in Montenegro e online. Nell’ambito della giornata per Sinjajevina dell’anno scorso, i beni comuni creati e mantenuti dalla pastorizia montana sono stati al centro di una mostra fotografica dal titolo: «Territories of life on the margins. Mediterranean pasture commons in the 21st century», con esperienze da Spagna, Marocco, Turchia e, appunto, Montenegro.

La mostra è stata inizialmente lanciata online nell’aprile 2021 dal museo virtuale di ecologia umana ed è coordinata da Pablo Dominguez (ecoantropologo al Centre national de la recherche scientifique, Cnrs in Francia, laboratorio Geode), con il supporto di oltre venti coautori e collaboratori. Versioni online ampliate sono state poi realizzate con la collaborazione dell’economista Bruno Romagny, e successivamente la mostra e stata presentata in formato fisico al congresso mondiale dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) a Marsiglia, e continua a essere esposta in diversi paesi del Mediterraneo. La mostra vuole ribadire l’importanza dei beni comuni (o commons in inglese) come pratiche e congiunzione di saperi da preservare alla pari della biodiversità. Come ricordano i creatori della mostra, l’economista Gaël Giraud, gesuita autore di Transizione ecologica, ha definito i commons come «risorse, simboliche o materiali, che una comunità sceglie di amministrare fornendo regole a loro volta sottoposte a deliberazione. Ciò che definisce i commons non è quindi la natura della risorsa, ma l’azione politica collettiva che sottopone al giudizio permanente della comunità le proprie modalità di azione nella tutela e nella promozione di ciò che le sta a cuore».

Infine, ricordano come i commons pastorali montani descritti dimostrano l’importanza di tre principi fondamentali correlati tra loro, che ricordano quelli elaborati da Elinor Ostrom, prima donna a ricevere nel 2009 il Premio Nobel per le scienze economiche: una comunità locale che mantiene legami forti e profondi con un territorio; questa comunità è un attore chiave nel processo decisionale relativo alla governance territoriale delle risorse; questa governance contribuisce a una gestione responsabile e sostenibile degli ecosistemi e del patrimonio materiale e immateriale delle comunità.

Opporsi dunque al poligono militare in Sinjajevina non è solo preservare un tipo di ambiente naturale e i suoi usi tradizionali, ma implica anche un’azione di difesa di questi principi, che hanno retto per lunghissimo tempo la convivenza umana all’interno di ecosistemi che ne fornivano le basi di sostentamento. E che ci continuano a ispirare per trasformare le nostre economie ed affrontare i profondi cambiamenti che stiamo vivendo.

Daniela Del Bene


Per approfondire

• Pagina FB del movimento: www.facebook.com/sacuvajmosinjajevinu/.
• Sito della mostra fotografica: cpm.osupytheas.fr/index.php/en/montenegro/
• Sito del consorzio Territori di vita: www.iccaconsortium.org/index.php/2022/08/19/mountains-sinjajevina-face-threats-support-uk

Atlante della Giustizia Ambientale

Questo articolo fa parte di una collaborazione fra Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental Justice Atlas) nell’ambito della quale portiamo a conoscenza dei nostri lettori storie e analisi riguardanti alcuni dei conflitti ambientali presenti nell’Atlante. Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.
www.ejatlas.org
www.envjustice.org
http://cdca.it (Atlante conflitti ambientali Italia).

 




Mosca soffre (ma non piange)


Anche nella capitale russa la guerra in Ucraina (già «operazione speciale») si fa sentire, ma il popolo russo è abituato alle privazioni. Che però pesano molto su istituzioni prestigiose come l’Accademia delle scienze.

Mosca è una città tranquilla. Passando per le sue vie affollate di gente, quasi non ci accorgiamo che è la capitale di una nazione in guerra. Di guerra, anzi, non se parla quasi più. Un segno che il conflitto ucraino è entrato nella vita quotidiana di molti cittadini; una delle molte scocciature a cui ormai sono abituati, come la corruzione, la burocrazia, le difficoltà economiche.

A differenza delle ultime visite*, però, ci accorgiamo della moltiplicazione di manifesti a sfondo bellico: soldati in assetto di guerra, inviti all’arruolamento volontario (e non), esortazioni a non abbandonare il proprio paese (e Putin) nell’ora del bisogno, a combattere i neonazisti (alias gli ucraini).

La stessa parola «guerra» è stata sdoganata, oltre che da molti politici, anche tra la gente di strada dopo che per mesi era stata abolita dal vocabolario a favore di una indefinita e più neutra «operazione speciale».

Mosca non è alle strette, come spesso si vuole far intendere nei talk show televisivi nostrani: l’economia del paese, dopo aver subito il colpo delle sanzioni con stime di una preoccupante recessione, ha reagito con una contrazione inferiore alle prime aspettative. Di fronte a una diminuzione del Prodotto interno lordo (Pil) pari al 7-12% stimata dal ministero dell’Economia, oggi le cifre dello stesso dicastero parlano di un calo del 4,2%. Probabilmente la verità sta nel mezzo e gli stessi organismi internazionali (Oecd, Fmi, Banca mondiale) assestano la contrazione tra il 6 e il 9%. Male, ma non malissimo. La Russia può aggirare parte delle sanzioni avvalendosi delle sue relazioni con i paesi che non vi hanno aderito (Cina, Iran, Pakistan, Kazakhstan, Armenia, Serbia, Turchia).

Cartelloni di propaganda dell’esercito russo per le strade della capitale. Foto Yuri Kadobnov – AFP.

Prodotti e ricambi

Sugli scaffali dei supermercati mancano i prodotti stranieri di cui i russi si rifornivano con piacere e abbondanza. Non c’è più il whiskey, le birre ceche e irlandesi, i vini francesi, la pasta italiana, i formaggi. Mancano anche gli abiti firmati e, cosa ben più impattante, i pezzi di ricambio delle auto. Ma questi sono gli effetti secondari delle sanzioni, quelli che meno interessano ai paesi che le hanno imposte. Già, perché, a parte i proclami propagandistici e trionfanti lanciati dai media italiani (quelli europei sono sempre stati meno «ottimisti»), l’embargo non è tanto diretto a colpire l’economia «spicciola» della Russia. Nessuno si era illuso che gli oligarchi subissero danni così ingenti da convincere, con le buone o con le cattive, Putin a fermare la sua pazza impresa in Ucraina. Del resto, la stragrande maggioranza della popolazione vive di sussistenza, dei prodotti del loro lavoro nei campi, di pastorizia, di servizi. È un popolo, quello russo, abituato alle privazioni, alla durezza della vita che la stessa geografia del territorio aggrava. E Putin lo sa bene, visto che proprio da questa fetta di popolazione riceve la più assoluta abnegazione e fedeltà. Le sanzioni sono invece dirette a danneggiare la produzione bellica. E su questo hanno fatto centro.

L’arresto dell’avanzata russa e, anzi, l’arretramento delle proprie forze dai territori già conquistati, è in gran parte dovuto a una mancanza di ricambi che hanno costretto l’esercito a cannibalizzare i propri mezzi. Carri armati, camion, velivoli, artiglieria che necessitano di riparazioni devono ottenere i pezzi necessari da altri mezzi funzionanti che, arrivati in Ucraina per essere utilizzati sul campo, ora fungono da magazzino di ricambi. Le industrie militari, prive di scorte, lavorano a singhiozzo utilizzando materiali scadenti. La Cina, a cui Putin guardava sperando fungesse da arsenale militare, a parte le dichiarazioni formali in appoggio a Mosca, non ha mai trasformato le parole in fatti. Xi Jinping sa di non aver bisogno di Putin e, anzi, di lui proprio non si fida, continuando la consuetudine di amore-odio iniziata sin dai tempi di Mao e Stalin.

La polizia moscovita ferma una donna che protesta contro la mobilitazione parziale decretata da Putin lo scorso 21 settembre. Foto AFP.

La minaccia nucleare

Più volte è stato detto che un Putin messo alle strette è molto più pericoloso di un Putin libero di agire, anche impunemente, nel campo d’azione che storicamente è legato alla vecchia Rus’ (l’entità politica sviluppatasi nel X-XI secolo e da cui sono nati Ucraina, Bielorussia e Russia, ndr). Molti temono che il leader del Cremlino, vistosi braccato e senza via d’uscita, non esisterebbe a lanciare l’ultimo suo messaggio al mondo: una testata nucleare.

Ma nell’universo politico non tutto è lineare: vi sono richieste che vengono espresse in forma fittizia, così come vi sono azioni già da tempo decise (come, ad esempio, l’invasione dell’Ucraina), che vengono celate da frasi concilianti fino a pochi minuti dalla loro attuazione. Sono in molti, quindi, a credere che sotto le minacce nucleari vi sia invece una disperata ricerca di dialogo da parte del governo russo che permetta di raggiungere un accordo (o un armistizio) che possa salvare la faccia a Mosca.

Putin sa molto bene che le sue armi sono tecnologicamente poco affidabili e che molti dei vettori che dovrebbero lanciare le bombe atomiche custodite nei suoi arsenali sono inutilizzabili. I sistemi di sorveglianza degli Stati Uniti e della Nato sono sufficientemente sofisticati da poter individuare ogni singolo movimento sospetto e allertare il sistema di difesa. Naturalmente nessuna rete potrebbe garantire la copertura totale, ma lo scoppio anche di una singola bomba nucleare, tattica o strategica che sia, segnerebbe la fine di Putin e del suo governo.

Inoltre, i codici di lancio sono conservati nelle valigette di tre diverse persone: oltre allo stesso presidente della Russia, le chiavi sono in mano al ministro della Difesa (Sergei Shoigu) e al capo di Stato maggiore, il generale Valery Gerasimov. Quest’ultimo è ben conosciuto dai comandi Nato che ne stimano la volontà di dialogo. È stato Gerasimov, proprio nei giorni più travagliati della minaccia nucleare (ottobre 2022), a chiedere un colloquio telefonico con la controparte britannica per cercare di evitare un’escalation del conflitto.

Un eventuale coinvolgimento di armi nucleari nella contrapposizione Est Ovest (termini che si pensava ormai desueti, ma che l’invasione ucraina ha rispolverato) rischierebbe di coinvolgere anche la Cina, assolutamente restia a una destabilizzazione che stravolgerebbe i suoi piani di sviluppo economico.

Cupole ortodosse a Mosca; la Chiesa guidata dal patriarca Kirill è schierata con Putin e per la guerra. Foto Vadim Danilov – Unsplash.

Putin e gli scienzati

Gennady Krasnikov, uomo di Putin, nuovo presidente dell’Accademia delle scienze russa. Foto Wikimedia.

All’Accademia delle scienze incontriamo diversi scienziati, tecnici, ingegneri. La questione nucleare viene proposta regolarmente nelle discussioni informali, a pranzo, a cena, durante le pause di lavoro. Pochi sono coloro che credono a una reale volontà da parte di Mosca di innalzare la tensione del conflitto inviando su un territorio considerato ostile (dai politici) un ordigno atomico. Qui l’Occidente, l’Europa, gli Stati Uniti, sono visti con rispetto per il loro contributo alla scienza e la proficua collaborazione con la Russia avuta fino al 24 febbraio 2022. È proprio nelle stanze e nelle aule di questa prestigiosa istituzione (nel 2025 compirà 300 anni), che è nato il primo nucleo della resistenza alla guerra contro l’Ucraina. Pochi giorni dopo l’invasione, alcuni membri della dirigenza hanno compilato una lettera in cui si chiedeva a tutti gli scienziati di lasciare da parte «posizioni e azioni dettate non dagli interessi della scienza». Accanto a questa, un’altra lettera redatta da «studiosi, scienziati ed esponenti del giornalismo scientifico russi» e rivolta direttamente alla dirigenza nazionale, chiedeva a Putin di fermare un’azione priva di senso affermando che «la responsabilità dell’avere scatenato una nuova guerra in Europa è tutta della Russia».

Lo scontento nelle istituzioni scientifiche è emerso il 20 settembre 2022, quando il fisico Alexander Sergeev, fino ad allora presidente dell’Accademia delle scienze e dato per riconfermato, ha ritirato la sua candidatura alla nuova presidenza a causa di «pressioni amministrative», aggiungendo che la sua era stata una «decisione forzata». Al suo posto è subentrato Gennady Krasnikov, Ceo della Mikron, la più grande industria produttrice di microchip russa, che con 871 voti ha surclassato il diretto rivale, Dmitriy Markovich, direttore dell’Istituto di ricerca termofisica di Novisibirsk, a cui hanno dato fiducia 397 elettori.

Gennady Krasnikov ha la stima di Putin, in particolare dopo che nel 2014, a seguito dell’annessione della Crimea alla Russia, ottenne dal leader l’incarico di priorità assoluta nella produzione di chip per l’industria nazionale. Nel suo primo discorso da presidente, Krasnikov ha introdotto il concetto, caro a Putin, di «sovranità tecnologica» collegando la crisi che sta gravando sulla scienza russa, non all’ingerenza del governo di Mosca, ma alle sanzioni internazionali. È stato ancora Putin, nel 2013, a legare ancora di più l’Accademia delle scienze al governo, privandola del controllo sugli istituti di ricerca a essa collegati.

familiari salutano gli uomini in partenza per il fronte ucraino (4 ottobre). Foto Sefa Karacan – Anadolu Agency – AFP.

Le conseguenze

Subito dopo l’invasione dell’Ucraina diversi stati hanno congelato le loro collaborazioni con le istituzioni di ricerca russe, isolando il mondo scientifico, un tempo vanto della nazione.

Le sanzioni hanno rallentato, se non addirittura fermato, alcuni studi ed esperimenti scientifici: molti macchinari sono ormai inutilizzabili perché privi di manutenzione o di pezzi sostitutivi di quelli guasti.

La spesa per la ricerca e sviluppo, già bassa nel 2020 (1,1% del Pil), nel 2022 si prevede crollerà sotto l’1%. Il colpo è stato duro e la ricerca russa ne subirà le conseguenze per diversi anni, se non per decenni.

La guerra non ha solo falcidiato vite umane e distrutto infrastrutture, ma ha congelato i programmi di sviluppo scientifico di un intero paese scavando una formidabile trincea che rischia di separare la Russia dallo sviluppo in atto nelle nazioni mondiali, Cina e India in primis.

Piergiorgio Pescali*

 * L’autore, storica firma di MC, frequenta Mosca e l’Accademia delle scienze russe in qualità di collaboratore scientifico per alcuni suoi istituti.

 




Chi gioca alla guerra, chi crede nella pace


Incontro con uno dei promotori di Stop #Stopthewarnow

Una rete di 175 enti italiani porta in Ucraina aiuti contro fame e freddo, mette in salvo i più fragili, realizza progetti per l’acqua potabile, ma soprattutto stabilisce relazioni con persone e società civile locale per far crescere la pratica della pace. In Ucraina come in Italia ed Europa.

«Le armi non sono mai state la soluzione», recita un post dell’11 ottobre scorso sul profilo Facebook di «#Stopthewarnow» («ferma la guerra ora»), rete di 175 enti italiani impegnati in azioni nonviolente e umanitarie in Ucraina. Il giorno prima c’era stata la rappresaglia russa per l’attentato ucraino al ponte di Crimea, simbolo del potere del Cremlino: «In poche ore, 83 razzi e 17 droni colpiscono 14 regioni ucraine», prosegue il post. Solo una settimana prima, gli attivisti della rete erano stati a Kiev, nei luoghi che poi sarebbero stati bombardati. «Dopo mesi di terrore […] la guerra continua senza sosta […] – conclude il post -. Chiediamo con forza ai governi e a tutti noi cittadini di mobilitarsi, con ogni azione possibile, a favore di un immediato cessate il fuoco. Ora, prima che sia troppo tardi».

Un rete per la pace

La rete #Stopthewarnow, dal marzo scorso, ha organizzato quattro carovane della pace nei territori ucraini coinvolgendo in totale più di 500 volontari. Ha portato decine di tonnellate di beni alla popolazione; aiutato profughi a fuggire, soprattutto poveri che non ne avrebbero avuto i mezzi; ha portato in salvo decine di orfani e persone con disabilità; ha stabilito una presenza permanente a poca distanza dal fronte per dare aiuto, ad esempio con l’attivazione di dissalatori per fornire acqua potabile a Mykolaïv; ha avviato relazioni con realtà locali impegnate nell’assistenza alle vittime, nella resistenza nonviolenta e nel sostegno agli obiettori di coscienza, sia ucraini che russi.

Fin dai primi giorni della guerra, la rete ha proposto una lettura del conflitto diversa rispetto a quella dominante che vede nelle armi (sempre più potenti) l’unica modalità di difesa, e considera la resistenza nonviolenta una resa.

«La rete è nata per lanciare un messaggio di solidarietà e di opposizione al conflitto in Ucraina e per costruire un’alternativa alla follia della guerra – si legge nella home di stopthewarnow.eu -. È coordinata da una cabina di regia composta dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, Pro civitate christiana e dalle reti nazionali Focsiv, Aoi, Rete Italiana Pace e Disarmo, Libera contro le mafie, in rappresentanza delle associazioni aderenti».

Sentiamo Gianpiero Cofano, uno dei promotori della rete, per farci dire com’è nata, cosa fa e con quali obiettivi.

In prima persona

StopTheWarNow, carovana Mykolaiv

«Io sono il segretario generale dell’Associazione comunità papa Giovanni XXIII (in sigla, Apg23, ndr.), nata nel 1968 da don Oreste Benzi e presente oggi in cinquanta paesi del mondo», si presenta Cofano, classe 1975.

«Ho iniziato la mia esperienza come obiettore di coscienza 28 anni fa. Ho vissuto per sei anni in zone di guerra: sono stato nei Balcani, in Kosovo, in Chiapas e altrove. L’Apg23, infatti, ha un corpo specializzato, l’Operazione Colomba, che interviene in situazioni di conflitto».

Quando è iniziata la guerra in Ucraina il 24 febbraio, l’Apg23 aveva una sua famiglia in missione a Leopoli. «Mi chiedevano di evacuare. Allora mi sono mosso per aiutarli, e quella è stata l’occasione per decidere di andare direttamente in Ucraina.

Da lì a una settimana, ci siamo messi in macchina per Leopoli. Era uno dei momenti più drammatici: scappavano dal paese in centinaia di migliaia. Tant’è che quando abbiamo tentato di entrare, le autorità polacche non ce lo consentivano: “Dove volete andare? Questa è una guerra”; e noi: “Sì, ma noi lo facciamo per lavoro”, e dopo il primo giorno di trattative, siamo riusciti a passare.

Si può dire che quello è stato il primo atto di #Stopthewarnow. E vedendo tutte quelle persone scappare, ho pensato: “In centomila scappano, sarebbe bello che in centomila venissero qui a implorare la pace”».

Parlamentari in Ucraina

Dopo i primi giorni concitati, Cofano e il gruppo di Apg23 hanno iniziato a prendere contatti e incontrare i vescovi, la Caritas, le Ong locali e, soprattutto, la gente: «Abbiamo passato diverse notti nei rifugi con la popolazione quando scattavano gli allarmi antiaereo – ci dice -, e così abbiamo sentito i primi racconti della gente che scappava dal fronte dove c’erano state già le prime uccisioni e distruzioni».

Nel frattempo, l’idea di portare 100mila persone in Ucraina, accompagnata dal ricordo delle marce per la pace di Sarajevo, si rafforzava. Ma far arrivare anche solo 10mila persone in quel contesto era impossibile: «Allora ho pensato: “Chiamo i rappresentanti dei cittadini, i parlamentari, per invitarli a venire con noi in Ucraina, e al ritorno portiamo alcuni bambini orfani sfollati dal fronte”. Hanno aderito più di quaranta parlamentari di ogni schieramento: un fatto straordinario! Poi, però, il ministero degli Affari esteri, e l’allora ministro Di Maio, ci hanno bloccati. L’unità di crisi mi convoca per dirmi che “no, voi siete matti, rischiate di far esplodere una guerra mondiale. Se qualcuno dovesse bombardare una delegazione di politici, saremmo costretti a entrare in guerra. È troppo pericoloso, non giocate alla guerra”, io ho risposto che, al massimo, noi crediamo nella pace, non giochiamo alla guerra».

«Toccare la carne viva»

#Stopthewarnow è una rete, a oggi, tra le più grandi in Europa. «Sono 175 enti di qualsiasi tipo – precisa Cofano -. Hanno aderito anche aziende, cooperative, sindacati, fino a tanti movimenti, anche della Chiesa cattolica, associazioni, e così via. Il fattore comune è quello di voler fare azioni di pace, di guardare questo conflitto da un altro punto di vista che non sia soltanto quello dell’invio delle armi, e quindi di sognare una pace nella quale siano protagonisti anche i civili».

Dopo un mese dall’inizio della guerra, #Stopthewarnow ha organizzato una prima carovana: «Ci siamo detti: “Ci sono organizzazioni umanitarie molto più strutturate di noi, però in questo momento non se ne vedono, e gli ucraini hanno bisogno».

Trentadue tonnellate di aiuti, 221 volontari, 67 automezzi, sono partiti il primo aprile da Gorizia per raggiungere Leopoli. «C’erano lunghissime code alla frontiera con la Polonia per uscire dall’Ucraina. Quasi nessuno in ingresso. E gli ucraini dicevano: “Ma cosa fate?”. E noi: “Veniamo a capire cosa state vivendo, a portare un messaggio di pace, stringere, abbracciare, toccare la carne viva”, come dice il papa nel suo ultimo libro sulla pace».

Non lasciamoli soli

All’inizio della guerra, chi aveva i mezzi economici è potuto scappare. Chi, invece, non li aveva, è dovuto rimanere sotto le bombe.

#Stopthewarnow, dopo aver consegnato gli aiuti, ha portato in Italia circa 300 tra bambini, anziani, persone con disabilità, poveri evacuati dalle regioni bombardate di Kramators’k e Mariupol. «Nei mesi successivi abbiamo fatto evacuare altre mille persone, sempre andando a scegliere quelli che non avrebbero avuto nessuna chance», continua Cofano. «La popolazione locale si domanda perché rischiamo la nostra vita per loro. Ma io penso che noi non possiamo preoccuparci di questa guerra solo perché si alza la bolletta energetica. Noi abbiamo il dovere di non lasciarli da soli».

Presenza

Tra le iniziative della rete in Ucraina, c’è anche quella di una presenza permanente a Mykolaïv. «La città si trova a cinque chilometri dal fronte. Durante il giorno passi più tempo nei rifugi antiaereo che fuori. Per noi l’obiettivo più grande è non lasciare nessuno da solo in questo momento in cui la sofferenza e la solitudine possono ammazzare più delle bombe».

Nel mondo, le presenze stabili di operatori nonviolenti sono diverse. L’Operazione Colomba, ad esempio, è presente in Palestina (cfr MC, gennaio 2021, p. 21), in Colombia e altrove.

Dall’inizio di questa guerra, #Stopthewarnow ha deciso di crearne una anche in Ucraina, persone che stanno lì per alcuni mesi, alternandosi, in modo da essere sempre almeno 5 o 6. «Sono piccoli gruppi di giovani selezionati e formati. A Mykolaïv, che è una città industriale sul mare, stiamo sviluppando dei progetti per affrontare il problema dell’acqua. Nei mesi scorsi sono scappate 250mila persone e ne sono rimaste 200mila, di cui l’80% anziani che vivono con i pasti offerti dalle mense di piccole organizzazioni locali. E non c’è acqua, perché l’acquedotto che arriva da Cherson è interrotto, e il sistema che filtrava l’acqua del mare è distrutto. L’acqua potabile arriva soltanto con le autobotti. Allora abbiamo iniziato a costruire dei dissalatori. Ce ne vorrebbero trenta per tutta la città. L’ultimo che abbiamo installato soddisfa circa 5mila persone al giorno».

Oltre all’aiuto materiale, lo scopo della presenza del gruppo a Mykolaïv è la vicinanza con la popolazione. «Andiamo anche nelle zone del fronte. Lì incontriamo anziani che non lasciano i villaggi nei quali hanno vissuto magari 70 anni. Quando andiamo, ci dicono: “State con noi, non fateci morire da soli, non dimenticateci. La vostra presenza ci dà speranza, coraggio”».

«Questa è la pace!»

Nei mesi, la rete ha portato in Ucraina più di 500 civili italiani. «Molti sono membri delle associazioni, ma altri no, come, ad esempio, un ex operaio di 74 anni che è già venuto due volte.

Alla prima carovana avevano aderito 1.250 persone. Poi, per ragioni logistiche e di sicurezza, anche perché in Ucraina c’è la legge marziale e sono vietati gli assembramenti, abbiamo scelto di portarne solo 220. Questo per dire che nel popolo, nella gente semplice, c’è una forte volontà di pace. Un altro esempio è quello di una famiglia: sono venuti a Mykolaïv due genitori e le loro due figlie di 18 e 19 anni. Su un pulmino stracarico, un papà e una mamma si sono assunti la responsabilità di portate sotto le bombe le loro figlie. È straordinario. Una famiglia per la pace che, quando è tornata indietro, ha portato con sé diversi ragazzi con disabilità che ora vivono con loro. Questa è la pace».

La carovana «politica»

L’ultima carovana ufficiale di #Stopthewarnow in ordine di tempo, tra il 26 settembre e il 3 ottobre, è stata quella più «politica»: accanto alla consegna di aiuti alla città di Chernivtsi, dove i volontari hanno constatato l’urgenza di far arrivare aiuti dall’estero a causa della riduzione del sostegno alla popolazione da parte del governo centrale, infatti, la carovana aveva lo scopo principale «di tessere rapporti di cooperazione con la locale società civile, a partire da due temi chiave – si legge in un articolo del 6 ottobre sul sito di Focsiv, la Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana che è tra i promotori della rete -: la necessità di tornare a pensare e costruire la pace in tempo di guerra, ed il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, messo in discussione tanto in Russia quanto in Ucraina».

Il programma della carovana si è snodato tra l’università di Chernivtsi e Kiev, tra incontri con studenti universitari, organizzazioni di volontariato, sindacati, resistenti nonviolenti provenienti dai territori occupati, obiettori, pacifisti, istituzioni diplomatiche, la nunziatura apostolica e professionisti del peace building.

Il tema dell’obiezione è stato uno di quelli trasversali. Quando è scattata la legge marziale con l’inizio della guerra, la legge per l’obiezione di coscienza è stata subito sospesa. I 5mila ragazzi che avevano fatto domanda prima del 24 febbraio ed erano in attesa di una risposta per il servizio civile si trovano oggi in una situazione incerta: sono tutti richiamabili, ma chiedono al governo di svolgere il loro servizio alla nazione in ambito civile.

«C’è chi vuole mettere in atto forme di resistenza nonviolenta in Ucraina – prosegue il nostro interlocutore -. Però in questo momento tu sei obbligato ad andare al fronte se non vuoi rischiare una condanna. Noi cerchiamo di aprire vie di dialogo per sostenere, attraverso atti di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, soprattutto europea, coloro che non credono nelle armi, e vogliono percorrere, invece, altre strade. Sia in Ucraina che in Russia gli obiettori sono di più di quelli che si palesano, ma quando c’è la legge marziale da una parte e il controllo totale dell’informazione dall’altra, è difficile capire quanti sono davvero».

Tra le conseguenze concrete della quarta carovana, c’è l’attivazione di «gemellaggi» e supporti a distanza tra realtà affini in Italia e Ucraina. Ad esempio, tra il Movimento nonviolento italiano e il Movimento pacifista ucraino per il pagamento delle spese legali a favore degli obiettori incriminati, o l’avvio di partnership tra università ucraine e i dipartimenti universitari che in Italia ed Europa si occupano dello studio delle strategie della pace.

Operatori di pace

#Stopthewarnow, oltre a operare in Ucraina, cerca di costruire consenso sulla pace e le sue strategie nonviolente in Italia e in Europa. Uno dei segni di questo, sono le manifestazioni per la pace che hanno portato 30mila persone in più di 100 piazze italiane tra il 21 e il 23 ottobre, e la marcia di 100mila del 5 novembre a Roma, promossa dalla rete Pace e Disarmo tramite Europe for Peace, cartello di più di 600 realtà della società civile Europea, a cui anche i missionari italiani e le loro riviste hanno aderito. «Uno degli obiettivi delle carovane in Ucraina è quello di far sì che questa non diventi l’ennesima guerra dimenticata nel mondo – chiosa Cofano -. In uno degli ultimi viaggi fatti a Mykolaïv, ho detto ai volontari: “Voi pensate di essere venuti qui per scaricare i vostri pulmini, come per scaricare le vostre coscienze: ‘Ho portato gli aiuti ai bambini che soffrono e agli anziani’, e quindi di tornare belli leggeri a casa”. Ho detto: “No, mi dispiace, tornerete ancora più pesanti, perché portate a casa l’angoscia, la violenza, il pianto delle persone che avete incontrate. Il nostro vero lavoro comincia adesso, condividendo, testimoniando in Italia quello che abbiamo vissuto”. Io sogno che, quando organizzeremo altre carovane, ci saranno sempre più persone. Allora sì che avremo fatto politica, e che i politici ci terranno in considerazione. Qualcuno mi dice che bisognerebbe parlare con loro, ma io rispondo che dovrebbero venire loro a chiederci cosa abbiamo visto. Perché della guerra non sanno niente, non ci sono mai stati, e hanno votato cose senza conoscere la realtà del paese».

Prossime tappe

Mentre scriviamo queste righe, #Stopthewarnow continua a ideare iniziative per i prossimi tempi: «In questi giorni stiamo valutando una proposta con un’organizzazione americana di andare a fare gli scudi umani a Zaporižžja, attorno alla centrale nucleare. Scudi umani internazionali a protezione della centrale nucleare, in un territorio controllato dai russi, sperando di fare da deterrente al bombardamento. Stiamo cercando un accordo anche con l’Aiea, l’agenzia atomica internazionale, che sta monitorando il sito. Abbiamo poi già deciso di compiere una nuova carovana in Ucraina: vogliamo continuare sulla scia delle precedenti, anche perché creano un effetto moltiplicatore di sensibilizzazione in Italia.

Continuiamo, poi, la nostra presenza a Mykolaïv, nonostante stia diventando sempre più dura anche per noi. Con la campagna per l’acqua in quella città dobbiamo fare presto, perché non si può trivellare con il ghiaccio.

Il comune denominatore delle realtà che compongono #Stopthewarnow è di partire dai bisogni rilevati dal basso nei luoghi della guerra, e poi quello di abitare il conflitto. Quindi vivremo con loro anche questo duro inverno. Staremo con loro: questa è la scelta di fondo. Non faremo tanto? Faremo nulla? Però saremo lì con loro. Sarà utile o non utile? Non dimenticarli sarà già una cosa utile».

Luca Lorusso

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Brasile. Voci di donne dalle favelas


Povertà, criminalità e promiscuità: di solito, sono queste le parole che descrivono le «favelas», luogo simbolico del Brasile. Proviamo a capirle attraverso donne di favela come Carolina Maria de Jesus (morta nel 1977) e Marielle Franco (assassinata nel 2018). Oggi altre donne seguono il loro esempio di lotta e speranza.

Delle favelas si parla molto, e forse ancora di più è stato scritto: libri, articoli e indagini accademiche. Ma quante voci hanno parlato della favela dalla favela? Quante volte abbiamo avuto la possibilità di ascoltare, direttamente e senza filtri, un racconto autentico proveniente da quel luogo «non luogo», incastonato nell’immaginario collettivo e diventato sinonimo, per molti, di povertà, criminalità e promiscuità? Si potrebbe rispondere poche, o quantomeno poche sono quelle arrivate dal Brasile fino alle nostre latitudini, permettendoci di aprire una finestra su quel mondo. Un mondo troppo spesso raccontato proprio da coloro che hanno contribuito a creare e alimentare l’emarginazione sociale materializzata nelle favelas.

Un nome che ha brillato negli ultimi anni per averle raccontate dal di dentro è sicuramente quello della compianta Marielle Franco: donna appartenente al collettivo Lgbtiq+, afrobrasiliana, madre single, politica, attivista per i diritti delle donne e baluardo contro tutte le discriminazioni del sistema capitalista, colonialista e patriarcale ben personificate dal presidente Jair Bolsonaro.

Ricordando Marielle Franco (1979-2018), durante una delle ricorrenti manifestazioni popolari celebrate a Rio in suo onore e per chiedere giustizia. Foto Mauro Pimentel – AFP.

Marielle, favelada di Rio de Janeiro

Marielle Franco, cria da favela da Maré (figlia della favela Maré) con una laurea in sociologia in tasca, ha rappresentato per molti anni una voce forte e determinata contro i soprusi vissuti dai favelados (abitanti della favela) di Rio de Janeiro.

Le parole di Marielle, prima come attivista, poi come consigliera comunale (vereadora) di Rio de Janeiro, avevano colpito l’apparato di repressione della polizia che, fino a quel momento, aveva operato quasi completamente nel silenzio delle autorità amministrative (e spesso con il loro beneplacito). Parole tanto forti da essere silenziate con 13 colpi di pistola. Era il 14 marzo del 2018. Quella notte, in un vile attentato le cui responsabilità sono ancora da chiarire, Marielle è stata uccisa insieme al suo autista Anderson Gomes.

Si spegneva dunque un baluardo delle rivendicazioni di una popolazione emarginata, non solo a Rio de Janeiro e non solo nelle favelas. Allo stesso tempo, però, fiorivano migliaia di altre Marielle che dal sangue del suo martirio hanno trovato forza, ispirazione e coraggio.

Carolina, favelada di São Paulo

Lo stesso giorno in cui Marielle Franco veniva uccisa, si celebravano i 114 anni della nascita (14 marzo 1914) di Carolina Maria de Jesus, la prima voce afrobrasiliana delle favelas a ottenere rilevanza mondiale. Un filo conduttore, dunque, ci porta da Rio de Janeiro a São Paulo e lega due donne afrobrasiliane che hanno vissuto la favela ma soprattutto hanno usato la loro voce come strumento di lotta politica, denuncia sociale e rivendicazione di diritti umani fondamentali. Negli anni Sessanta,
Carolina ha preso «a pugni» il Brasile e il mondo squarciando il velo che copriva le reali condizioni di vita dei favelados. Dal cuore della favela Canindé, sulla riva del Tietê nella metropoli di São Paulo, la voce di Carolina è emersa in modo prepotente raccontando senza filtri il dolore e la fame.

Nata il 14 marzo del 1914 a Sacramento, nello stato di Minas Gerais, successivamente emigrata nella metropoli paulense per lavorare come domestica e raccoglitrice di carta e ferro per la strada (lavoro ancora molto comune), Carolina ha vissuto di stenti e patimenti, lottando ogni giorno contro un mondo ostile, fatto di difficoltà, discriminazione, violenza e precarietà. Il suo unico rifugio era la scrittura, passione alla quale dedicava il poco tempo nel quale non lavorava, non doveva preoccuparsi dei suoi figli e non era così stanca da crollare sul giaciglio della sua baracca.

Carolina ha coltivato sempre la speranza di vedere un giorno pubblicati i suoi scritti e di poter abbandonare la favela, luogo del suo quotidiano supplizio, un vero e proprio inferno in terra. Sapeva di non essere una raffinata ed erudita intellettuale, non aveva avuto accesso alle migliori scuole dell’élite bianca che governava (e che governa) quel Brasile in piena rivoluzione modernista, ma lei sapeva leggere e scrivere quanto bastava per consegnare a un diario le sue riflessioni, paure, speranze e sogni. Dopo alcuni tentativi falliti di pubblicizzare il suo lavoro di scrittrice, è stata scoperta dal giornalista Audálio Dantas che stava lavorando a un articolo sulle favelas. Quell’articolo, dove si parlava di Carolina e si faceva cenno ai suoi scritti, è stato poi pubblicato sul giornale O cruzeiro il 10 giugno 1959: Carolina Maria de Jesus aveva 45 anni e finalmente aveva realizzato il suo sogno. Ciò però che lei ancora non sapeva era che quello sarebbe stato solo l’inizio del suo viaggio. Infatti, tutto il suo diario, pubblicato inizialmente suddiviso in articoli sullo stesso giornale, sarebbe poi stato redatto in forma di libro nel 1960, causando un vero terremoto letterario.

Il sorriso di Carolina Maria de Jesús (1914-1977), favelada di San Paolo e scrittrice.

La fame è questa

Preso il titolo di Quarto de despejo: Diário de uma favelada («Stanza della discarica: diario di un’abitante della favela»), l’opera di Carolina è stata tradotta in più di dieci lingue, arrivando a vendere oltre 100mila copie.

Il libro è di una crudezza che ferisce, le parole vengono usate con una ingenuità che lacera e stordisce. I messaggi sono diretti, essenziali, ma di una forza che obbliga molte volte a distogliere gli occhi dal libro, prendere fiato e lasciare che i sentimenti prendano il sopravvento. Carolina scrive e parla all’altro Brasile, quello che non vive nella favela e che non la conosce, il Brasile bianco, «educato», che non deve preoccuparsi ogni giorno di procurarsi un pezzo di pane.

Racconta la sua vita, la sua quotidianità, la fame. Questa parola, «fame», ritorna in modo costante, scandendo le giornate che si susseguono nel diario, quasi fosse la routine di una condannata: una litania che ci accompagna tra le pagine che raccontano la favela di Canindé, a São Paulo, tra gli anni 1955 e 1959.

Sono riflessioni asciutte, a volte semplici ma taglienti e penetranti, come le seguenti:

«21 luglio 1955 – Quando sono tornata a casa erano le 22:30. Ho acceso la radio. Ho fatto una doccia. Ho scaldato il cibo. Ho letto un po’. Non so dormire senza leggere. Mi piace avere tra le mani un libro. Il libro è la migliore invenzione dell’uomo».

«8 maggio 1958 – È necessario conoscere la fame per saperla descrivere».

«10 maggio 1958 – Il Brasile ha bisogno di essere gestito da una persona che ha già provato la fame. La fame è una grande maestra. Chi soffre la fame impara a pensare agli altri e ai bambini».

«13 maggio 1958 – Sono andata a chiedere del lardo alla signora Alice. Mi ha dato il lardo e il riso. Erano le 21 quando finalmente ho potuto mangiare. E così il 13 maggio 1958 (settantesimo anniversario dell’abolizione della schiavitù in Brasile, ndr) io ho combattuto contro l’attuale schiavitù, la fame!».

Uno dei tanti murales in ricordo di Marielle Franco. Foto Diego Battistessa.

«Esiste una favela in paradiso?»

Carolina era molto credente, anche Dio è spesso presente nelle sue riflessioni che provano a giustificare una situazione difficile, di estrema povertà e abbandono da parte delle istituzioni. I suoi sentimenti, tracciati esplicitamente nelle pagine del diario o comprensibili attraverso ciò che non è scritto ma che traspare dalle parole da lei usate, sono altalenanti. Passa da una fiducia cieca nella Divina Provvidenza a uno sconforto profondo che le fa pensare al suicidio. Uno dei passaggi più duri ed eloquenti su questo tema si trova alla data del 3 giugno 1958: «Quando sono a corto di soldi, cerco di non pensare ai miei bambini che chiederanno pane, ancora pane e caffè. Devio i miei pensieri al paradiso. Penso: ci sono persone lassù? Sono migliori di noi? Il loro dominio supererà il nostro? Ci sono nazioni così varie come qui sulla terra? O è un’unica nazione? Esiste una favela? E se c’è una favela lì, io vivrò nella favela anche quando morirò?».

Il diario di Carolina è stato ripubblicato più volte. In Italia, è famosa l’edizione del 1962 di Bompiani, con la prefazione di uno dei più importanti intellettuali italiani del XX secolo, Alberto Moravia.

Dopo Stanza della discarica, Carolina ha pubblicato altri testi che, seppur ben accolti dalla critica e dal pubblico, non hanno replicato il successo del primo.

Carolina, scrittrice afrobrasiliana, donna coraggiosa e insorgente, è scomparsa all’età di 62 anni (era il 13 febbraio del 1977) senza aver mai potuto abbandonare del tutto la povertà e la precarietà.

La notorietà acquisita con Quarto de despejo non le ha procurato la ricchezza sperata, anche se le ha permesso di migliorare la sua condizione e di lasciare la favela di Canindé nel 1963, dove era arrivata 16 anni prima, nel 1947, all’età di 33 anni e incinta.

«Cenerentola negra»

Dopo la sua morte, sono stati pubblicati postumi una serie di lavori editoriali che raccoglievano il materiale prodotto da Carolina e che non aveva ancora visto la luce in forma di libro. Carolina Maria de Jesus ha inaugurato un nuovo filone nella tradizione nella letteratura brasiliana, partendo dall’appropriazione della lettura da parte delle classi popolari. Il suo lavoro è stato una grande fonte d’ispirazione per altre donne non appartenenti alle classi agiate, che hanno cominciato a scrivere sotto l’influenza di Carolina.

Un elemento che colloca la sua voce tra le grandi personalità della letteratura brasiliana, come riconosciuto nel 2021 anche dall’Università federale di Rio de Janeiro che ha concesso alla scrittrice afrobrasiliana il titolo di dottore honoris causa postumo.

São Paulo e il Brasile riconoscono oggi il valore storico, culturale, antropologico e simbolico di quelle parole arrivate dalla Stanza della discarica. Parole che mostravano una «razzializzazione» della povertà (una povertà cioè che aumenta di pari passo con la tonalità più scura della pelle) e che, per la prima volta, provenivano da dentro la favela, aggirando le fredde analisi urbanistiche, statistiche e sanitarie di giornalisti, politici e specialisti.

Diversi sono stati gli omaggi riservati a Carolina Maria de Jesus in questo 2022. Uno dei più importanti è stato sicuramente la mostra ospitata dal prestigioso Instituto Moreira Salles, che si trova nell’Avenida Paulista, luogo simbolo del potere economico brasiliano: «Carolina Maria de Jesus: un Brasile per brasiliani».

L’istituto Moreira Salles aveva già contribuito in passato a riconoscere l’importanza della figura di Carolina Maria de Jesus, quando ad esempio, il 14 marzo 2014 (per il centenario della sua nascita) proiettò per la prima volta in Brasile un documentario, realizzato nel 1975 dalla televisione tedesca West Germans intitolato «Favela: la vita in povertà», con la stessa Carolina protagonista.

Altro omaggio è stato fatto il 23 aprile, durante il primo carnevale post pandemia di São Paulo, nel quale la sua figura è stata onorata dalla scuola Colorado do Brás con il tema: «Carolina, a Cenerentola Negra do Canindé». La scuola ha raccontato, in un corteo emozionante, la storia della scrittrice di Sacramento, passando per la città di Franca (dove Carolina aveva iniziato a vivere con un gruppo circense) e arrivando poi a São Paulo nella favela di Canindé. Svelando un volto doloroso del Brasile, la vita di Carolina è stata raccontata con serietà e rispetto dalla scuola, cosa che non ha impedito al corteo di essere colmo di bellezza e colori.

Diego Battistessa

Veduta di una favela a San Paolo. Foto Danilo Alvesd – Unsplash.


Nascita del termine «favela»

All’inizio era (soltanto) una pianta

Forse pochi sanno che favela è il nome dato in Brasile a una pianta endemica (cnidoscolus quercifolius) e che la diffusione di questo termine in ambito urbano si relaziona con la «Guerra de Canudos» (1896-1897) che ebbe luogo nel sertão di Bahia. La città di Canudos, scenario di uno scontro politico religioso si ergeva in mezzo ad alcune colline, tra le quali vi era il Morro da Favela (Collina della Favela), così battezzato perché ricoperto dall’omonima pianta.

Dopo la guerra, una parte dei soldati reduci dal conflitto, fecero ritorno a Rio de Janeiro ma, trovatisi senza stipendio, decisero di stabilirsi dentro alloggi precari da loro costruiti nel Morro da Providência (Collina della Provvidenza). Data una certa similitudine tra lo scenario di questa nuova sistemazione e la Collina della Favela vista a Canudos, i soldati battezzarono il nuovo insediamento Morro da Favela.

È da quel momento che gli insediamenti di alloggi e case di fortuna, dove risiedono persone con un basso (o quasi nullo) potere d’acquisto, passarono a essere chiamati favelas. Le favelas sono presenti in tutto il Brasile (circa 800 solo a Rio de Janeiro) e si stima che siano abitate da 15-20 milioni di persone.

WIKIFAVELA

Considerati questi numeri non c’è da stupirsi che si parli tanto di favelas brasiliane. Vale la pena di segnalare un progetto dedicato a Marielle Franco, ovvero il portale «Wikifavela», un dizionario virtuale che combatte la discriminazione in Brasile. Proprio dal sito, disponibile in portoghese, inglese e spagnolo, possiamo leggere che: «Il Dizionario della favela è una piattaforma virtuale ad accesso pubblico per la produzione e la diffusione della conoscenza delle favelas e delle loro periferie. Mira a stimolare e consentire la raccolta e la costruzione delle conoscenze esistenti sulle favelas, collegando una rete di partner nelle università e nelle istituzioni e collettivi esistenti in questi territori. Il Dizionario della favela continua la lotta della consigliera comunale di Rio de Janeiro Marielle Franco e di molti altri leader della comunità contro il pregiudizio e l’esclusione, costruendo una società più giusta ed egualitaria».

Importante ricordare anche l’Instituto Marielle Franco, uno spazio creato dalla famiglia della defunta attivista che vuole continuare a lottare per la giustizia, difendendo la sua memoria, moltiplicando la sua eredità e annaffiando i suoi semi.

D.B.

L’attivista e politica Renata Souza per le strade della favela Maré, a Rio de Janeiro (2 settembre 2022). Foto Andre Borges – AFP.

Chi è la possibile erede

«Mi chiamo Renata Souza»

Renata Souza è già un simbolo. Lei è una «favelada» della Maré, figlia cioè dello stesso complesso di favelas al Nord di Rio de Janeiro dove è nata e cresciuta Marielle Franco, sua grande amica e fonte di ispirazione. Souza, 40 anni, deputata dell’Assemblea legislativa di Rio de Janeiro dal 2018, è già una figura politica di spicco, un grimaldello che apre i palazzi del potere e che permette l’accesso della periferia marginalizzata ed esclusa nelle sale dove si prendono le decisioni importanti.

Niente è stato facile (e non lo è tutt’ora) per Souza, nel Brasile governato da Jair Bolsonaro dove razzismo, classismo e machismo sono all’ordine del giorno. Renata ricorda che una delle decisioni più importanti della sua vita la prese quando aveva solo 15 anni: decise che sarebbe diventata giornalista perché voleva raccontare la favela in modo diverso da come i media la dipingevano, senza pregiudizi, senza spettacolarizzazione della povertà e della violenza.

Nel percorso universitario conobbe Marielle, e tra le due nacque un’amicizia forte, mischiata a militanza, attivismo e lotta politica. Nel 2006 Souza, che già svolgeva il suo lavoro/missione di reporter dalla favela, accettò di unirsi alla campagna elettorale di Marcelo Freixo (il 3 ottobre candidato di sinistra a governatore di Rio de Janeiro). Da quel momento non lasciò più la politica accompagnando la sua amica Marielle durante le elezioni e diventando il suo capo di gabinetto. Fino al 14 marzo del 2018, quando per lei il mondo cambiò completamente. L’omicidio di Marielle le provocò una ferita che ancora non si è rimarginata. Il dolore fu enorme, il più grande della sua vita, ripete Souza nelle interviste, ma la spinse a fare un ulteriore passo in avanti. Nelle elezioni del 2018 fu la candidata di sinistra più votata e da quel momento è stata una delle voci più determinate nell’emiciclo dell’assemblea di Rio de Janeiro.

Per il suo impegno ha ricevuto minacce di morte da gruppi affini al «bolsonarismo» e ha dovuto abbandonare la favela. Da deputata ha promosso una legge per dare priorità alle indagini sugli omicidi di bambini e adolescenti oltre a varie misure per combattere «la violenza ostetrica» contro le donne afrodiscendenti. Alle elezioni dello scorso 3 ottobre è stata eletta deputata statale di Rio de Janeiro con 174.132 preferenze. In questo ruolo cercherà di portare ancora più in alto la voce della favela, le rivendicazioni del femminismo afrodiscendente e la lotta per i diritti umani.

D.B.

Una vista panoramica della favela di Rocinha, sempre a Rio de Janeiro. Foto Helena Masson – Unsplash.




Maralal. Servire con «gioia»


Una storia da uomo tranquillo, ma costantemente in ricerca. Il che lo mette di fronte a scelte importanti. Un passo dopo l’altro diventa missionario, poi, con la forza della mitezza, continua il suo servizio a vari livelli. E non smette mai di formarsi. Fino a quando papa Francesco lo chiama.

La diocesi di Maralal occupa una superficie di 20.800 chilometri quadrati, di territorio in prevalenza desertico. Vi sono alcune montagne, sulle quali le precipitazioni rendono il clima un po’ più umido e la zona più arborata. In questo lembo di terra nel centro Nord del Kenya vivono diversi popoli, in prevalenza allevatori nomadi: Samburu, Turkana, Pokot, Rendille, Gabbra, a cui si sono uniti, specialmente nei centri principali, Somali, Kikuyu, Luo e Akamba.

Una diocesi relativamente giovane, creata nel 2001 scindendo in due quella di Marsabit. Le uniche cittadine sono l’omonima Maralal, Wamba e Baragoi. Il primo vescovo è stato monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata, uomo molto attivo e presente sul territorio. Nel luglio scorso papa Francesco ha nominato padre Hieronymus Joya (pronuncia: gioia), 57 anni, come successore di monsignor Pante. Il 22 ottobre monsignor Joya è stato consacrato.

Pure lui missionario della Consolata, è originario della diocesi di Bongoma, nell’Ovest del Kenya, in particolare di un villaggio, Asinge, a pochi chilometri dalla frontiera con l’Uganda. Ha un parlare pacato e riflessivo il neo vescovo, che raggiungiamo telefonicamente. Si rivela subito molto disponibile.

«Vengo da una famiglia molto cattolica», ci dice, «i miei nonni ebbero difficoltà a essere battezzati, perché durante il periodo coloniale non c’erano missioni nella nostra zona, quindi dovettero andare nella vicina Uganda. Poi i coloni decisero che la gente non poteva più passare la frontiera liberamente. Così il mio villaggio fu unito alla parrocchia di Kakamega, a circa 100 km da casa. I miei genitori furono battezzati lì. In seguito, nel 1926, fu aperta una parrocchia a Nangina, a circa 50 km dal nostro villaggio. Si andava a piedi, e talvolta occorrevano quattro settimane per andare, restare per il catechismo e poi tornare».

Nel 1948 alcuni missionari aprirono la missione di Chakol, a sette km dal villaggio. Una parrocchia ancora attiva oggi.

Monsignor Joya ci racconta che fu lì a Chakol che partecipò al catechismo e poi divenne chierichetto quando frequentava la scuola primaria. Durante l’ultimo anno il parroco chiese a lui e agli altri bambini se fossero interessati a proseguire gli studi nel seminario minore.

«Nel dicembre 1981 feci domanda con altri quattro chierichetti. Passammo un colloquio, così nel 1982 iniziammo il seminario. Avevo passato il test anche in tre scuole pubbliche, ma scelsi il seminario: forse si può dire che è qui che comincia la mia vocazione».

Il neovescovo ci racconta un aneddoto famigliare: «Anche mio padre aveva fatto il seminario, ma non aveva potuto continuare, perché era l’unico maschio di cinque figli, quindi i suoi genitori preferirono che restasse a casa per occuparsi delle questioni di famiglia. Le figlie, nella tradizione, si sposano e lasciano la famiglia di origine. Così mio padre dovette lasciare il seminario. Poi si sposò e nascemmo noi, tre sorelle e cinque fratelli».

E, sospirando, aggiunge: «Penso che sia stata la volontà di Dio, che uno dei suoi figli diventasse prete. E sono stato scelto io».

Dopo la messa con le donne di Azione Cattolica s Maralal.

La chiamata

Poi ci racconta il suo primo incontro con i missionari della Consolata: «Nel 1985 eravamo in seminario, e, con i compagni, andavamo a leggere nella biblioteca. Padre Luigi Bruno della Consolata, portava la rivista The Call, e noi la leggevamo con interesse. Era il direttore vocazionale della Consolata. Noi eravamo curiosi. Gli scrivemmo una lettera per capire meglio chi fossero questi missionari della Consolata. Lui ci rispose, ma la sua lettera fu intercettata dal rettore del seminario che ci chiese perché avevamo scritto alla Consolata e se, quindi, avevamo rinunciato a diventare diocesani».

Alla fine del periodo di studi, la scelta di fronte al giovane Joya era tra continuare per due anni la scuola superiore e diplomarsi, oppure andare in seminario a studiare teologia. Ma i suoi genitori gli dissero che non avevano abbastanza risorse e che avrebbe dovuto trovare un lavoro per aiutare a pagare gli studi alle sorelle e ai fratelli più piccoli. Nel frattempo, padre Bruno lo aveva invitato al seminario di Kisumu per una settimana di conoscenza per aspiranti missionari. Hieronymus riuscì a parteciparvi, ma poi dovette scegliere il lavoro.

Alla St. Theresa Secondary School

La strada in salita

«Andai a Kisumu, da uno zio, e iniziai a lavorare in una stazione di benzina. In questo modo misi da parte dei soldi e mi pagai il college, dove studiai marketing e strategie di vendita. Continuai gli studi anche grazie a un insegnante che mi pagò la metà dei costi d’iscrizione. Una volta finito, nel 1987, trovai subito lavoro come contabile in un hotel».

Il giovane Hieronymus non aveva problemi a trovare lavoro. Ne cambiò parecchi passando dall’ufficio vendite di una assicurazione alla gestione di un progetto che portava l’acqua potabile nella sua zona.

Intanto padre Bruno continuava a scrivergli e nel 1989 lo invitò a visitarlo a Langata, nella periferia di Nairobi, dove gli aspiranti missionari della Consolata studiano. «Andai a visitare padre Bruno, che mi disse che se l’ostacolo era finanziario, non avrebbe chiesto nulla alla famiglia. Lui avrebbe potuto aiutarmi per fare la formazione con la Consolata».

Visita a Baragoi, incontro alal grotta della Madonna.

Il bivio

«Quando tornai a casa, si era creata un’opportunità: la Henkel oil company, cercava un responsabile delle vendite per tutta la regione Ovest del Kenya. Feci il colloquio e lo passai.

A quel punto il bivio era chiaro: andare alla Henkel o entrare dai missionari della Consolata? Andai un po’ in crisi. Ne parlai con mio padre e lui disse: «Sei tu che devi scegliere, ma parla anche con tua madre». Anche lei mi disse che la decisione era solo mia. Così io decisi di andare al corso di orientamento della Consolata, che si teneva nel marzo 1990. Dopo l’orientamento fui invitato al seminario della Consolata per iniziare ad agosto».

Così l’esperto di vendite e marketing affrontò gli studi di filosofia e poi il noviziato tra il ‘93 e il ‘94. Fece la sua professione religiosa ad agosto di quell’anno e completò gli studi di teologia nel 1998. Nel frattempo era diventato diacono e venne ordinato sacerdote il 5 settembre 1998 nella sua parrocchia a Chakol. La sua prima missione fu a Loyangalani, cittadina sul Lago Turkana nel grande Nord, allora nella diocesi di Marsabit.

L’Italia a piedi

Monsignor Joya ricorda con fierezza la prima esperienza in Italia: «Nel 2000 andai in Italia per la celebrazione del Giubileo. Un gruppo di Lamon (Belluno), paese di monsignor Pante, aveva chiesto un sacerdote per essere accompagnato in un pellegrinaggio a piedi da Lamon a Roma. Percorremmo 650 chilometri in tre settimane». Fu durante quel soggiorno in Italia che poi andò a Torino, a visitare i luoghi storici del beato Allamano e il santuario della Consolata. Al ritorno in Kenya, divenne parroco a Loyangalani e fu chiamato da monsignor Ambrogio Ravasi a fare parte del consiglio presbiterale della diocesi di Marsabit.

In seguito, dal 2003, fu superiore del seminario filosofico della Consolata a Nairobi. A fine 2007 lo troviamo responsabile del centro pastorale di Maralal, che lasciò nel 2009 perché eletto vice superiore regionale (lavorando con padre Franco Cellana, superiore) e, dal 2011 al 2016, divenne superiore regionale dei missionari della Consoalta di Kenya e Uganda. Ritornato poi come formatore al seminario filosofico di Langata, ricevette l’incarico dal consiglio generale di valutare e preparare la nuova apertura in Madagascar, avvenuta nel 2018.

Riprese pure gli studi, portando a termine un dottorato di ricerca in pastorale. «La mia missione è stata nel Nord del Kenya, con i nomadi, e a Nairobi, per gli studi. Speravo, dopo il dottorato, di poter andare via da Nairobi e dal Kenya, ma… il santo padre mi ha riportato dai nomadi», dice il monsignore, chiudendo con una risata.

Una diocesi desertica

Oggi la diocesi di Maralal conta 15 parrocchie, alcune con un’estensione molto vasta. Ad esempio, a Wamba ci sono 28 cappelle sul territorio parrocchiale. Ci sono 25 preti diocesani e dieci missionari, di cui quattro della Consolata. Sono presenti anche diverse congregazioni di suore.

Monsignor Joya conosce bene il territorio e ci descrive le sfide principali con le quali dovrà misurarsi.

«Una delle sfide principali è il clima. La zona è desertica, con mancanza cronica di acqua per uomini e animali, a eccezione delle zone di montagna. C’è una stagione delle piogge, ma nella zona arida non piove quasi mai. Una situazione che crea conflitti tra comunità, in particolare tra gruppi di allevatori, che sono la maggioranza. C’è una vera lotta per l’acqua: a volte quella che viene usata è presa da torrenti, e non è pulita. Anche scavare pozzi è impegnativo, perché spesso si trovano falde di acqua salata e allora bisogna scavare a grandi profondità.

Un altro problema sono le strade. La sola strada asfaltata è attualmente quella che porta a Maralal città. Le altre sono pessime, talvolta impossibili da percorrere. A questo si aggiunge la difficoltà di comunicazione. In alcune zone si riesce a telefonare con i cellulari, ma nella maggior parte del territorio non c’è copertura.

E poi la mancanza di elettricità: a parte i centri principali, come Maralal e Wamba, dove arriva la rete nazionale, molte missioni devono usare sistemi solari o generatori.

I conflitti tribali si sommano a quelli per l’acqua e per i pascoli. Sono frequenti i furti di animali tra i gruppi. Questo causa molti problemi tra le comunità, lotte e uccisioni (come quella riferita a p. 5 di questo numero, ndr)».

A Suguta Marmar.

Territorio ad gentes

Nel territorio diocesano, che conta circa 350mila abitanti, i cattolici superano i 100mila, seguiti dai protestanti evangelici. I musulmani sono pochi, circa duemila. La maggioranza della popolazione segue le religioni tradizionali, anche quando sono battezzati. «Per questo motivo, ci spiega mons. Joya, possiamo dire che si tratta ancora di una zona di prima evangelizzazione, ad gentes».

Una delle sfide del vescovo è quella di creare altre parrocchie per servire la gente e ridurre la difficoltà dei preti nel coprire grandi distanze: «Non abbiamo risorse per supportare le parrocchie – ci dice -. E anche le altre istituzioni per l’educazione, la salute, hanno bisogno di fondi.

La diocesi ha due scuole secondarie per ragazze, che funzionano bene, due per ragazzi, il seminario minore, due scuole primarie. La maggioranza delle altre scuole primarie e secondarie sono state iniziate dai nostri missionari, ma sono passate al governo, e molte hanno dei problemi: mancanza di insegnanti, edifici deteriorati, materiali didattici insufficienti. Inoltre, molti insegnanti non vogliono andare a lavorare in aree rurali così sperdute».

La Chiesa ha anche una buona presenza nel settore sanitario: «In ogni parrocchia c’è un dispensario o un centro di salute, e c’è un grande ospedale della diocesi a Wamba, che attualmente ha diversi problemi perché mancano soldi per farlo funzionare, per pagare il personale, comprare le medicine. È il più grande di tutta diocesi. Il secondo, gestito dallo stato, è a Maralal, anch’esso non funziona molto bene per mancanza di risorse».

I progetti del vescovo

Con il vescovo Virgilio Pante a Barsaloi presso la statua della Consolata samburu

Il nuovo vescovo ha entusiasmo e tanti progetti per la diocesi: «Voglio continuare nel solco del cammino aperto dal vescovo Pante. Lui ha lavorato affinché le strutture della diocesi funzionassero bene e fossero organizzate.

Poi vorrei migliorare le strutture di gestione e amministrazione delle istituzioni della diocesi, e fare un piano su come rivitalizzare quelle che non funzionano, che possano iniziare a fornire servizi di qualità, e amministrarli correttamente.

Un altro programma è sviluppare collegamenti con i finanziatori, alcuni dei quali erano presenti sul territorio, ma poi, a causa di alcune difficoltà, hanno interrotto il supporto. Ad esempio, c’erano medici specialisti che venivano ad aiutare nell’ospedale di Wamba, ma ora non vengono più. Vorrei ricontattare le organizzazioni non profit, nazionali e internazionali che avevano programmi nella diocesi, per convincerle a tornare.

È mia intenzione chiamare congregazioni di donne e uomini, per venire a fornire servizi alle persone nelle zone più difficili».

Grazie forse alla sua formazione, il vescovo è molto sensibile alla sostenibilità economica: «Vorrei utilizzare alcune specificità delle istituzioni per produrre reddito che possa servire a tutta la diocesi». Senza dimenticare la formazione per gli agenti di evangelizzazione: i catechisti, i laici, i preti, i membri del consiglio pastorale diocesano, ma anche delle associazioni cattoliche, perché «ce ne sono molte, di donne, di giovani, in favore dei bambini in difficoltà».

Monsignor Joya sottolinea anche l’importanza del programma di animazione vocazionale, per stimolare nuove vocazioni missionarie.

Marco Bello

Nella missione di Lodokejek.




Wagner e i suoi fratelli


Operano da oltre dieci anni, ma solo di recente si è iniziato a parlare di loro. Agiscono nell’ombra, ma calcano i principali teatri di guerra. Sono organizzazioni strutturate, e orientate al business, nelle quali l’ideologia non c’entra. Facciamo il punto sulle compagnie dei contractor russi.

Su un punto tutti sono d’accordo: il Gruppo Wagner esiste. Su un altro punto tutti sono altrettanto d’accordo: il mistero avvolge ogni cosa riguardi questa società di mercenari. Su di essa si rincorrono voci, si parla di interessi e influenze importanti, ma anche di una sorta di invincibilità. Tutto però è avvolto in quella nebbia tipica degli ambienti militari o paramilitari che flirtano con i servizi segreti, la politica, l’industria. A maggior ragione se si parla di Russia, un paese che vanta, fin dagli anni sovietici, una tradizione di assoluta riservatezza e opacità in materia militare. Per parlare del Gruppo Wagner, bisogna, quindi partire da quelle poche cose certe che si conoscono sulla sua esistenza.

Wagner in Centrafrica (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)

Le origini

Secondo l’intelligence militare britannica, la nascita di questa moderna compagnia di ventura risale alla fine degli anni Duemila per iniziativa di un ex ufficiale dell’esercito russo di 51 anni, tal Dmitri Utkin. Si pensa che sia stato lui a fondare questo gruppo e gli abbia dato il nome di Richard Wagner, suo compositore preferito e molto apprezzato anche negli ambienti dell’estrema destra europea.

Utkin è un veterano delle guerre cecene, un ex ufficiale delle forze speciali e del Gru, il servizio di intelligence militare russo.

Il battesimo del fuoco di Wagner sarebbe avvenuto (ma non è certo) nel 2014, nella guerra che ha portato all’annessione russa della Crimea. «Si pensa che i suoi mercenari siano alcuni di quegli “omini verdi”, senza alcuna insegna addosso che occupavano la regione – ha spiegato alla Bbc, Tracey German, professore di Conflitto e sicurezza al King’s College di Londra -. Un migliaio di suoi mercenari ha poi sostenuto le milizie filo russe che combattevano per il controllo delle regioni di Luhansk e Donetsk».

La nascita e l’impiego del Gruppo Wagner è però controverso fin dall’inizio. In Russia, come in Italia e in molti altri paesi occidentali, le attività militari «private» sono espressamente vietate dalla Costituzione. Anche se una forza militare ben addestrata e di pronto impiego può tornare utile in caso di operazioni nelle quali la Russia non voglia esporsi ufficialmente. «Wagner può essere coinvolto all’estero e il Cremlino può dire: “Non ha nulla a che fare con noi”», ha detto alla Bbc, Samuel Ramani, membro associato del Royal United Services Institute.

Anche se la questione è più complessa di quanto sembri. «In Russia – osserva Mattia Caniglia, ricercatore dell’European Council on foreign relations -, a differenza di quanto possa apparire a un occhio esterno, non c’è un soggetto unico a prendere le decisioni. Il sistema del governo è molto competitivo, al suo interno c’è una grande gara fra centri di poteri: ministero della Difesa, ministero degli Affari esteri, le diverse agenzie di intelligence, ecc. In questo contesto, il Gruppo Wagner e le altre agenzie private agiscono in collaborazione con alcuni di questi centri, oppure si muovono addirittura da sole. Bisogna pensare che sono società strutturate, come conglomerati di industrie e aziende che si occupano non solo di difesa, ma anche di minerali, comunicazione, formazione. Questo conglomerato opera con uno spirito imprenditoriale e cerca i business laddove pensa possano esserci. Se il business porta a far crescere la rete della Russia, Mosca sostiene le compagnie mercenarie. Altrimenti ne prende le distanze».

Proteste in Mali (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)

Aree d’influenza

La Russia, è l’analisi di Mattia Caniglia, al contrario dell’Unione europea, della Cina, della Turchia, non ha strumenti di soft power (cioè la fornitura di aiuti economici e influenza culturale). Quindi, queste compagnie di mercenari (Wagner non è l’unico gruppo di contractor russo) si configurano come uno strumento di influenza non ufficiale per Mosca in aree in cui può avere interessi geostrategici. Nell’Africa occidentale, per esempio, la Russia può infastidire la presenza dell’Unione europea (che in loco ha la sua missione più grande) e la Francia. Wagner e altre compagnie simili possono facilitare i rapporti tra Russia e paesi africani. Una volta in Africa poi, le società dei mercenari si ritagliano uno spazio nell’economia locale.

E proprio in questo contesto si inseriscono i legami di Utkin e il Gruppo Wagner con Yevgeny Prigozhin, l’oligarca russo noto come «lo chef di Putin», perché in passato ha fornito i servizi di ristorazione e catering al Cremlino. Prigozhin ha sempre negato ogni legame con Wagner, ma a fine settembre scorso, sui social della sua società Concord, ha detto di aver fondato il Gruppo. Sono infatti i contractor a proteggere gli interessi dell’oligarca in diverse parti del mondo e, in particolare, in Africa.

Nel 2020, il dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha affermato che Wagner ha agito da «security» in diverse nazioni per le società minerarie di Prigozhin, come M Invest e Lobaye Invest. Tanto è vero che Washington le ha poi sanzionate.

«Ci viene detto che i soldati di ventura sono un fenomeno tipico dell’Occidente e che il mercenarismo è un prodotto dell’idra capitalista, ma anche noi (la Russia, ndr) ce ne siamo serviti per promuovere gli interessi del nostro paese all’estero – ha scritto Marat Gabidullin in Io, comandante di Wagner (Libreria Pienogiorno, euro 18,90, pp. 288) -. I nostri uomini politici mantengono un silenzio pudico sull’esistenza di compagnie militari private russe e respingono in blocco qualunque allusione al ricorso a tali formazioni non governative. Da parte loro, i propagandisti indottrinano pesantemente i russi inculcando loro l’idea di una politica estera propria della Russia ed eludendo qualunque risposta diretta alle domande riguardanti l’uso dei mercenari».

Former Russian mercenary of the Wagner group Marat Gabidullin poses during a photo session on May 11, 2022 in Paris. (Photo by STEPHANE DE SAKUTIN / AFP)

Chi sono

Il Gruppo Wagner, secondo quanto riportano i servizi di intelligence britannici, è composto principalmente di veterani dei reparti speciali russi. L’analista Samuel Ramani afferma che l’organico attuale dovrebbe contare su un totale di cinquemila mercenari. Si tratta di personale ben addestrato sia all’uso delle armi (anche di sistemi d’arma complessi) sia sotto il profilo tattico. Secondo quanto trapelato da fonti interne, Wagner recluterebbe principalmente ex militari che hanno bisogno di saldare debiti e che provengono da zone rurali dove ci sono poche altre opportunità per fare soldi. Sono quindi soldati di professione che non hanno alternative e che sono disposti a continuare il mestiere delle armi una volta congedati dalle forze armate. La paga si aggirerebbe sui due-tremila euro al mese, ma la cifra varierebbe a seconda del tasso del rublo e non sarebbe mai stata costante negli anni. Si sa che Wagner ha dato vita anche a un sistema di «assistenza sociale» per i propri uomini. Chi rimane ferito in combattimento dovrebbe ricevere, a seconda della gravità delle ferite, tra i 500 e i tremila dollari di indennità. E alle famiglie dei caduti verrebbe promessa una cifra tra i 35mila e i 50mila dollari.

I contratti sono sempre «a tempo determinato» o, meglio, «a progetto». Per la campagna nel Donbass, sono stati offerti contratti di pochi mesi, per la Siria fino a un anno (con ferie ogni sei mesi). La formazione è affidata a ex ufficiali russi e, durante il periodo di addestramento, gli uomini prenderebbero circa mille dollari. Sono cifre e condizioni che rappresentano un incentivo notevole per uomini che non hanno prospettive nella vita civile. Ma, sebbene nei ranghi di Wagner siano presenti emarginati e disadattati, ciò non toglie che il Gruppo abbia grandi capacità militari. Secondo quanto riporta il New York Times, in Siria, proprio i mercenari russi sarebbero stati in grado di resistere per più di quattro ore a una formazione statunitense composta da uomini della Delta Force e dei Berretti Verdi. Le forze speciali Usa, per avere la meglio sui russi, avrebbero dovuto chiedere l’intervento dell’aviazione. Prima di far bombardare l’area, però, avrebbero chiesto al comando delle forze armate russe in Siria di ritirare i propri uomini. Ma Mosca avrebbe negato di avere propri militari nell’area condannando, di fatto, i contractor a morte certa.

Ma chi finanzia il Gruppo Wagner? Su questo punto la nebbia è fittissima. Secondo fonti dell’intelligence britannico, sarebbe il Gru, i servizi segreti militari russi, a sostenere economicamente e a supervisionare segretamente Wagner. Fonti mercenarie hanno confessato ad alcuni media che la base di addestramento di Wagner si trova a Mol’kino, nel Sud della Russia, e sarebbe vicina a una base dell’esercito russo.

Bangui, Centrafrica. Manifestazione a sostegno della Russia (Photo by Carol VALADE / AFP)

Dove ha operato e opera

Nel 2015 il Gruppo Wagner ha iniziato a operare in Siria, combattendo al fianco delle forze filogovernative e facendo la guardia ai giacimenti petroliferi. Un’operazione condotta con le truppe di Mosca, per la quale i mercenari avrebbero pagato un prezzo altissimo. È ancora Marat Gabidullin a descrivere la situazione: «I generali russi in Siria hanno messo in campo con successo una strategia che avrebbero potuto battezzare “qui non ci sono”, creando l’illusione di vittorie poco costose in termini di vite umane nei ranghi dell’esercito. Ma le cifre reali dei cittadini russi morti nella guerra contro lo Stato Islamico non corrispondono ai dati ufficiali. Il numero dei mercenari morti è superiore, e di gran lunga, a quello dei soldati regolari. E tuttavia, ai russi viene tenuta nascosta perfino la partecipazione della compagnia militare privata, sempre per alimentare il mito di una guerra non sanguinosa. I militari russi di ogni grado presenti in Siria si crogiolano nella gloria e si lasciano adulare dal popolo ignorante».

Ma è in Africa che Wagner ha iniziato a farsi conoscere. «La strategia russa in Africa si muove su due livelli – sottolinea Mattia Caniglia -. Quello ufficiale, lavora attraverso diversi strumenti: diplomazia, scambi culturali, accordi che prevedono lo scambio di sistemi d’arma per risorse naturali, ecc. Poi c’è un livello non ufficiale. Di questo fanno parte le azioni di disinformazione portate avanti attraverso la collaborazione tra i media russi e quelli africani. Ma anche le azioni delle compagnie militari private. Uso volutamente il plurale perché se il Gruppo Wagner è la compagnia russa di mercenari più famosa, non è la sola. La presenza di mercenari russi, in questo momento, è forte in Botswana, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Libia, Mali, Mozambico, Madagascar, Zimbabwe, Centrafrica».

Che ruoli ha

Come si muovono sul terreno? «Noi abbiamo in mente i mercenari come soldati combattenti. In realtà, spesso svolgono ruoli di addestramento e di formazione. In altri casi, come in Libia e in Centrafrica sono schierati sul campo, ma a protezione di impianti.

Nel 2016 i contractor russi sono stati impiegati in Libia a supporto delle forze fedeli al generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Rapporti delle agenzie di intelligence occidentali stimano che nel 2019 siano stati impiegati fino a mille mercenari Wagner nell’avanzata di Haftar verso Tripoli. Un’avanzata fallimentare, fermata dalle milizie fedeli al presidente Fayez al Sarraj, sostenuto dall’esercito e dagli armamenti forniti dalla Turchia.

Nel 2017, il Gruppo Wagner è stato invitato nella Repubblica Centrafricana. Testimonianze di missionari cattolici in loco parlano di una presenza massiccia di un gruppo di uomini determinati e senza scrupoli. «Nella Repubblica Centrafricana abbiamo il coltello dalla parte del manico – osserva Marat Gabidullin -: i leader dipendono totalmente dai mercenari». Ciò fa sì che la compagnia possa fare affari milionari sfruttando le miniere di diamanti senza minimamente curarsi del rispetto dei diritti umani della popolazione locale.

«Il continente africano rimane terreno vergine per la diplomazia russa e gli intrallazzatori politici – è ancora Gabidullin a parlare -. Il potere è in mano a leader senza scrupoli che hanno saputo apprezzare l’aiuto fornito da Mosca a Damasco e si sono mostrati pronti a lasciare che la Russia mettesse le mani sulle risorse naturali dei loro paesi ricchi d’oro, diamanti e petrolio. Il ricorso ai mercenari da parte della Russia è un fatto assodato, irrefutabile».

Con la stessa logica, Wagner è stata impegnata in Mozambico per contenere la ribellione jihadista nel Nord. Dietro l’operazione militare, che è stata un fallimento, c’erano interessi economici forti. Nella regione sono presenti ricchi giacimenti di rubini, ora, in parte, sfruttati da imprenditori conniventi con gli islamisti.

Più recentemente, il Gruppo Wagner è stato invitato dal governo del Mali, nell’Africa occidentale, sempre per fornire sicurezza contro i gruppi militanti islamisti. Il suo arrivo nel 2021 ha influenzato la decisione della Francia di ritirare le proprie truppe dal paese. In Mali, il Gruppo Wagner avrebbe circa 600 effettivi che avrebbero compiuto azioni brutali. Il ministero degli Esteri francese ha diffuso un comunicato nel quale ha fatto sapere di essere «preoccupato per informazioni che parlano di massicce esecuzioni nel villaggio di Moura da parte di elementi delle forze armate maliane accompagnate da mercenari russi del Gruppo Wagner che avrebbero causato la morte di centinaia di civili» (fine marzo 2022, ndr).

Contractor russi avrebbero inoltre partecipato all’operazione antiterrorismo realizzata a fine marzo dall’esercito maliano nel Sahel. Secondo il quotidiano francese Le Monde, nel paese sarebbero presenti «paramilitari bianchi identificati da fonti locali e internazionali come appartenenti alla società di sicurezza privata russa Wagner».

Tripoli, Libia (Photo by Hazem Turkia / ANADOLU AGENCY / Anadolu Agency via AFP)

L’ultimo fronte

In Ucraina, il Gruppo Wagner ha avuto il suo battesimo del fuoco nel 2014, e vi è tornato a febbraio allo scoppio della guerra tra Mosca e Kiev. Reparti di mercenari sono stati segnalati da diverse fonti di intelligence occidentale sul territorio ucraino. Secondo quanto riporta il quotidiano britannico The Times, almeno 400 avrebbero operato intorno a Kiev nelle prime settimane del conflitto. Il loro obiettivo era di uccidere il presidente Zelensky e altre importanti figure politiche governative e locali.

La Brigata delle tenebre, come viene anche chiamata la compagnia di ventura, avrebbe poi spostato i suoi effettivi verso il Donbass, nell’Est del paese, e cioè nell’area strategica balzata in cima alla lista degli obiettivi russi. Non ci sono certezze, ma pare che la Wagner abbia inviato in Ucraina seimila uomini, mille dei quali attivi proprio nel Donbass. Combattono a fianco delle forze regolari del Cremlino e di altri combattenti provenienti da Medio Oriente e Siria e, anche in questo quadrante, si sono distinti per le atrocità.

Secondo quanto riporta il settimanale tedesco Spiegel, l’intelligence tedesca avrebbe intercettato trasmissioni radio del personale militare russo in cui si discuteva di omicidi di civili a Bucha. Alcune delle conversazioni sarebbero legate a specifici cadaveri fotografati a Bucha e il materiale dimostrerebbe anche come membri del Gruppo Wagner sarebbero coinvolti nelle atrocità. Gli omicidi di civili, secondo gli 007 tedeschi, non sarebbero stati né casuali, né azioni di singoli soldati, ma operazioni abituali delle forze armate russe e dei mercenari loro alleati.

Anche su questo fronte però i soldati della Wagner sono come ombre e come tali trattati dallo stato maggiore di Mosca. «I mercenari russi – scrive Marat Gabidullin nel suo libro – sono scritti in una colonna a parte dell’elenco delle vittime, coperta dal segreto. E in Ucraina sono molto numerosi, in tutte le ramificazioni della cosiddetta operazione speciale. Le formazioni militari delle repubbliche del Donbass, riconosciute solo dalla Russia e che in otto anni hanno perseguito unicamente una strategia difensiva, non sarebbero in grado di condurre operazioni offensive senza il supporto di un’altra forza, quella dei contractor. Fino a poco tempo fa, attorno a Kiev c’erano almeno due distaccamenti di mercenari, assegnati specificamente a questa operazione. Inoltre, tre distaccamenti di Wagner partecipano ai combattimenti a Mariupol e Kharkiv.
I mercenari sono pagati in dollari. La nuova tendenza, all’interno delle forze d’invasione, è scambiare il patriottismo con i dollari. L’ideologia non c’entra, quello che conta è riempirsi le tasche».

Enrico Casale

 




Sperimentare il centuplo


Dei tre fratelli Barbero missionari della Consolata, padre Mario è quello di mezzo. Ha accompagnato oltre la metà della storia dell’Imc, tra Italia, Kenya, Usa, Congo e Sudafrica. Suoi amori: la Bibbia, i confratelli e le famiglie del «Marriage encounter» che ha promosso nel mondo.

Padre Mario Barbero, classe 1939, entra nel nostro ufficio con la sua solita discrezione.

Il suo sorriso gentile e il suo sguardo attento non sono mutati dall’ultima volta che ci siamo incontrati a inizio 2020.

Cominciava allora, a 81 anni, una nuova avventura, ed era pronto a prendere, senza saperlo, l’ultimo volo per il Sudafrica prima della chiusura delle frontiere per la pandemia da Covid-19.

Missionario della Consolata nato a Marene (Cn), nei suoi 70 anni vissuti tra i figli dell’Allamano, ha operato in cinque paesi di tre continenti: Italia, Kenya, Usa, Congo Rd e Sudafrica.

Formatore di seminaristi, ha sempre amato lavorare con le famiglie tramite l’esperienza del Marriage encounter («Incontro matrimoniale») di cui è un entusiasta promotore nel mondo.

Padre Mario Barbero durante l’ordinazione sacerdotale di missionari della Consolata nel 2003. Kinshasa, Congo RD. / © Mario Barbero.

Settant’anni di gioia

«La prima volta che sono stato in Casa Madre a Torino avevo 12 anni. Era maggio 1951, e l’Istituto missioni Consolata compiva 50 anni. Ora ne ha più di 120».

Padre Mario si siede di fronte a noi e, con la sua voce bassa e affabile, ci offre subito il quadro di quello che racconterà: una lunga esperienza personale che s’intreccia con gratitudine alla ricca storia della famiglia Imc. «Sono entrato in seminario in prima media, alla Certosa di Pesio (Cn). Ero accompagnato da mio fratello Antonio, di undici anni più grande di me, e già seminarista. Io dico sempre che, prima del Covid, nella mia famiglia c’è stato un altro virus che ha colpito tre fratelli su sei facendoli diventare missionari della Consolata».

Oltre a padre Antonio Barbero, nato nel 1928, missionario in Canada e Congo Rd, morto nel 1982, infatti, un altro fratello è stato parte dell’Imc, Tommaso (chiamato Masino), nato nel 1946, missionario in Tanzania e Kenya e mancato poco più di un anno fa, nel settembre 2021.

«Eravamo cinque fratelli e una sorella. Gli altri si sono sposati regalandomi nipoti e pronipoti. Quando Antonio aveva 12 anni, ha sentito un’ispirazione che gli diceva “fatti missionario”. Lui non sapeva cosa fosse un missionario, allora l’ha chiesto al parroco, che gli ha detto: “I missionari sono quelli che vanno in Africa, e sono di due tipi: i sacerdoti che studiano, e i fratelli che lavorano”. Mio fratello non aveva tanta voglia di studiare, e allora dice: “Va beh, sarò di quelli che lavorano”. Poi va a casa, lo dice a mio papà, e lui gli risponde: “Se vuoi lavorare, qui c’è una cascina…”. E Antonio: “Allora mi farò missionario di quelli che studiano” – ride padre Mario -. Quando poi Antonio veniva a casa una volta all’anno dal seminario, portava sempre con sé una rivista: “Missioni Consolata”».

Guardando al fratello, Mario è cresciuto pensando che anche lui sarebbe diventato missionario e, finite le elementari, è entrato in Certosa nel ‘50.

Padre Mario Barbero con un gruppo di coppie a Kinshasa, Congo RD. / © Mario Barbero.

La chiesa che cresce

Padre Mario segue il filo dei suoi ricordi più di quello delle nostre domande. Ci confida che negli ultimi tempi ha avuto modo di pensare molto alla sua vita passata. Anche il lockdown, scattato tre settimane dopo il suo arrivo in Sudafrica nel 2020, e il Covid, contratto nell’estate 2021, che l’ha costretto a trasferirsi per le cure da Pretoria a Nairobi, sono stati per lui situazioni provvidenziali che gli hanno permesso di pregare e riflettere di più.

«Quando sono guarito, ho girato un po’ il Kenya dove ero stato dal ‘76 all’88. Ho visto il grande sviluppo della chiesa: tante parrocchie, ognuna con il suo prete locale, trent’anni fa erano impensabili. Poi sono andato a Tuthu, il primo posto in cui erano arrivati i missionari nel 1902. Lì non c’era la chiesa. Adesso ci sono tanti preti. Oggi più della metà dell’Imc è composta di africani che vanno nel mondo».

Dopo la convalescenza, è tornato in Sudafrica, ma un nuovo problema di salute l’ha fatto rientrare in Italia.

«Da quando sono arrivato a Torino a inizio 2022, sono andato diverse volte al santuario della Consolata e ho pensato all’Allamano: io non credo che avesse immaginato tutto quello che sarebbe successo. Mandando i suoi missionari, ha allargato le dimensioni dell’Africa, l’ha fatta diventare missionaria».

Fratelli

Il volo dei ricordi fa attraversare a padre Mario decenni e continenti avanti a indietro.

Tornando alla sua famiglia, ci dice che lui è il quinto dei sei fratelli, e che l’ultimo era proprio Tommaso, il terzo che si sarebbe fatto missionario. «Ha fatto più di 40 anni di Tanzania e Kenya. Poi è stato gli ultimi 7-8 anni in Italia per problemi di salute.

Ultimamente ho pensato tanto a lui. Aveva un forte zelo missionario, una grande sensibilità. Ha fondato missioni nelle quali, prima delle strutture, pensava alla formazione dei vari ministeri della gente. Negli anni che ha trascorso qui in Italia, quando ci sentivamo, mi diceva tutte le volte: “Ti penso sempre, ogni volta che celebro messa mi sento unito a te”.

Quando sono diventato prete, la sera prima di essere ordinato, mi sono confessato con mio fratello Antonio, che mi ha detto: “Da domani saremo fratelli due volte. Non solo di sangue, ma anche di sacerdozio”. Ed è stato così anche con Masino.

Quando Antonio era malato, gli ultimi sette mesi li ha passati in Casa Madre a Torino. Masino, che allora era in Spagna, l’ultimo mese gli è stato vicino. Era il 1982. Tre giorni prima che mancasse, io sono venuto dal Kenya e mi ha ancora riconosciuto. Quando è morto io e Masino eravamo uno di qua e l’altro di là a tenere il suo polso. Eravamo sereni, perché lui ci aveva preparati. Era tranquillo, e continuava a pensare allo Zaire.

Quella notte, accanto ad Antonio c’era Maria Stocco, un’infermiera che aveva desiderio di andare in Africa. Antonio le aveva detto “vai a prendere il mio posto”, e lei, dopo la sua morte, è partita. Quando nel 2005 io ero in Congo, sono andato a predicare gli esercizi spirituali ai nostri missionari nel Nord, a Isiro. Lei era ancora lì. Dall’82. Antonio aveva fatto nove anni di Congo. Lei ne ha fatti quasi trenta».

Incontro matrimoniale in Usa con il team mondiale, nel 2000

Il Concilio da vicino

«Più divento vecchio e rifletto sulla mia storia, più vedo che il Signore mi ha messo accanto tante persone di tutti i tipi, preti, suore, laici, famiglie che hanno reso possibile la mia missione», continua padre Mario.

«Finito il noviziato nel 1959, sono stato a Roma dieci anni. Ho fatto filosofia, teologia e poi la specializzazione in Bibbia. Ma soprattutto sono stato a Roma nel tempo del Concilio. Dieci giorni dopo la sua conclusione, sono stato ordinato prete.

È stata un’epoca stupenda. Alcuni dei nostri professori erano nelle commissioni teologiche che lavoravano ai testi. In casa nostra, poi, avevamo otto vescovi che ci aggiornavano su cosa succedeva in San Pietro.

Io vedo il Concilio come una grande benedizione.

Quando sento persone che dicono che la chiesa è stata rovinata dal Concilio, penso che non hanno idea di cos’era la chiesa prima e di cos’è la chiesa oggi.

Quando si parla di crisi della chiesa, c’è uno sguardo solo occidentale. In Africa al tempo del Concilio c’erano una cinquantina di vescovi neri, adesso sono centinaia. Quando sono arrivati i nostri primi missionari a inizio Novecento, l’Africa avrà avuto sì e no due milioni di cattolici, oggi sono 250-300 milioni. Mai c’è stato uno sviluppo così rapido della chiesa. Eravamo abituati ad avere tanti cardinali italiani e adesso ci si stupisce che il papa li nomini in altri paesi. Ma la gran massa di cattolici non è qua, e perché non avere la voce di quelle chiese? Anche di quelle che vivono in minoranza e perseguitate? Sono questi piccoli gruppi che conservano la forza della Parola di Dio che è Gesù che si diffonde».

In team di formatory al Consolata Seminary di Nairobi nel 1977

 

Il Kenya

La prima destinazione di padre Mario è stata a Torino per insegnare Bibbia. «Sono stato formatore e insegnante qui dal ‘69 al ‘75. Insegnavo al Cottolengo, dove c’era la sede della scuola di teologia per diversi istituti, anche il nostro. È stato bello. Facevo anche animazione missionaria. Alcuni di quei giovani (tra cui il direttore di MC, ndr) sono poi diventati preti, altri sono diventati padri di famiglia».

Il primo mandato missionario fuori dall’Italia è arrivato nel 1976. «Sono stato 12 anni in Kenya. Dal ‘76 al 1982 ho insegnato al Consolata seminary di Nairobi. Poi sono stato eletto superiore regionale. In quegli anni si è dato molto sviluppo alla formazione dei missionari africani. Il primo keniano Imc è stato Anthony Ireri Mukobo che ora è vescovo di Isiolo. Anche l’attuale vescovo di Marsabit, Peter Kihara Kariuki, è stato tra i primi che erano entrati nel 1976.

L’anno scorso il Consolata seminary ha compiuto 50 anni. Dei ragazzi passati da lì, 152 sono diventati missionari della Consolata, ora sparsi nel mondo. Altri sono diventati preti diocesani, altri ancora padri di famiglia».

Padre Mario Barbero a un incontro matrimoniale in Togo nel 2008

Marriage Encounter

È stato in Kenya che padre Mario ha incontrato il programma per famiglie Marriage encounter.

«Nel 1978 sono arrivate in Kenya alcune coppie missionarie dall’Irlanda invitate dal cardinale Maurice Michael Otunga di Nairobi.

Incontro matrimoniale forma gli sposi a vivere meglio il loro amore. È basato sul dialogo. Vi partecipano anche preti e suore.

Io non sapevo cosa fosse. Mi hanno invitato. C’erano tre coppie e un prete che davano degli spunti di riflessione. Per me è stata una scoperta bellissima. Dopo ogni conferenza c’è una domanda, e ognuno è invitato a riflettere e a scrivere una risposta personale. Poi marito e moglie si trovano insieme (io mi trovavo con un altro prete). Si dialoga, ci si scambia gli scritti. È una cosa semplicissima. È incredibile cosa può fare il semplice scriversi e parlarsi. Le coppie, dopo i due giorni d’incontro, sono tornate a casa avendo scoperto molte cose, tanti sogni che non si erano mai detti.

È stata una grazia per me. Scherzando, dico sempre che la mia seconda ordinazione da prete è stata il 27-29 di ottobre del ‘78.

Dopo quel weekend, mi sono fatto coinvolgere, e ho anche contagiato mio fratello Masino che allora era in Spagna. Quando è tornato in Tanzania, lo ha impiantato anche lì, dove adesso ci sono migliaia di coppie di Incontro matrimoniale.

La stessa cosa è successa nel Nord Italia: non potevo tenere questa esperienza per me, e ho coinvolto i miei amici più cari.

Allora in Italia c’era già qualcosa a Rimini. Qui a Torino invece è nato da Mario e Annamaria Tenna che hanno invitato i loro amici, poi il loro parroco, e da lì si è allargato in Piemonte e in Italia. In questo momento la coppia responsabile di Incontro matrimoniale in Europa è italiana.

Quando sono andato negli Usa, Incontro matrimoniale c’era già, e mi hanno subito coinvolto. Per 12 anni ho girato una volta al mese per tutto il paese. Quello che mi ha colpito è che funziona ovunque. L’ho vissuto con i keniani, con gli italiani, poi con gli americani, sia ispanici che inglesi, poi in Congo».

Padre Mario Barbero durante un incontro matrimoniale a Johannesburg in Sudafrica nel 2003

Gli USA e Retrouvaille

Quando padre Mario parla delle coppie incontrate grazie al Incontro matrimoniale ha gli occhi che brillano.

Negli Usa è andato subito dopo il Kenya: prima nella casa di
Somerset, vicino a New York, come superiore regionale Imc dal 1988 al ‘94, poi, fino al 2001, a Washington Dc, di nuovo dedicato alla formazione dei seminaristi. In quegli anni, il suo coinvolgimento in Incontro matrimoniale gli ha fatto conoscere una nuova esperienza nata in Canada, quella del Retrouvaille.

«Nel 1994 mi hanno invitato a un weekend del Retrouvaille, parola che significa ritrovarsi, un programma specifico per le coppie separate o divorziate che, a un certo punto, cercano di aggiustare le relazioni. È stata una cosa incredibile. Per me, anche come prete, l’esperienza del perdono vissuta nel programma
Retrouvaille è la più forte.

Quando sono tornato nel 2001 in Italia, la Cei era interessata a farlo approdare anche qui, così il programma è partito nel 2002.

Gli animatori di questo percorso sono coppie che hanno sperimentato il fallimento in prima persona e poi si sono riconciliate. Quando portano la loro testimonianza, sia del fallimento sia della ripresa, ha un grande impatto su chi li ascolta.

In Italia abbiamo fatto oramai oltre 200 di questi weekend».

Congo

Nel 2001 padre Mario è partito dagli Usa destinato al Congo Rd. «Sono passato dall’Italia per rinfrescare il francese, e sono poi andato in Congo nel 2002, a Kinshasa, dove sono rimasto fino al 2007 per fare il formatore dei nostri seminaristi e il professore in un altro centro. Insegnavo anche nel seminario diocesano.

Anche in quel paese ho lavorato con Incontro matrimoniale: lì era già presente, ma da qualche tempo non andava più molto bene, perché le coppie non riuscivano più a pagare il contributo richiesto per i weekend. Fatto sta che ha ripreso, e ora va ancora avanti. Quasi tutti i giorni ricevo ancora messaggi da là».

Padre Mario Barbero (il primo a destra) negli Usa con le due coppie responsabili di Marriage Encounter a livello mondiale e Usa / © Mario Barbero.

Italia

Nel 2008, dopo aver lasciato il Congo e aver trascorso sei mesi in Sudafrica, padre Mario è tornato in Italia dove ha lavorato nell’animazione missionaria fino al 2019, prima a Bedizzole (Bs), poi a Castelnuovo don Bosco (At), infine a Rivoli (To).

«Ho fatto tanti incontri biblici e naturalmente ho lavorato con le famiglie. Poi, nel 2019 mi hanno chiesto di andare in Sudafrica e io ho accettato.

Sono partito a inizio 2020 per fare il parroco per la prima volta nella mia vita. Tre settimane dopo il mio arrivo, c’è stato il lockdown anche lì, e per il primo anno la gente non poteva venire in chiesa. In quella situazione ho riscoperto la preghiera, e facevo un video ogni settimana per i parrocchiani. È nato un bel rapporto con loro, anche se limitato.

Poi ho avuto il Covid, e sono stato mandato in Kenya per curarmi. Dopo tre mesi, sono tornato per altri tre mesi, quando mi è venuta una forte sciatalgia e ho iniziato ad avere difficoltà a camminare. Allora sono ripartito per l’Italia nel febbraio del 2022.

Due anni sono stati pochi, ma sufficienti per iniziare delle belle relazioni. Con alcuni mi sento ancora. È nato un affetto speciale con tante persone.

È stato bello, anche se diverso da quello che immaginavo, come spesso capita nella nostra vita. Adesso sono qui in Casa Madre e sto meglio: ho tanto tempo per pregare, riflettere, ricordare».

Padre Mario Barbero a un incontro matrimoniale a Kinshsa nel 2004

Famiglia e missione

Data la sua esperienza, chiediamo a padre Mario qual è secondo lui la missione delle famiglie.

«Innanzitutto, la loro vita famigliare, il parlarsi tra di loro e la formazione dei figli.

Ora che rifletto molto sulla mia vita, mi rendo conto che, pur avendo studiato tanto, le cose più importanti me le hanno insegnate mio papà e mia mamma.

La famiglia è presente in tutte le realtà. Io sono stato fortunato ad avere una famiglia unita, ma anche nelle famiglie nelle quali magari c’è una separazione, i genitori ti accolgono, ti tirano su. Questa è la cosa principale: il primo impegno di una famiglia è quello di avere cura della famiglia. Tutto il resto viene da lì.

Mentre ero a Washington ho fatto un dottorato, e nel 2001 ho scritto la mia tesi su Priscilla e Aquila: una coppia che ha lavorato con san Paolo e ha fondato con lui la chiesa di Corinto e di Efeso. È stato il mio coinvolgimento con le coppie che mi ha fatto scoprire il Marriage encounter anche in san Paolo».

Bibbia

L’altro grande amore di padre Mario è la sacra Scrittura. Gli chiediamo allora, per concludere la chiacchierata, un brano che gli sta particolarmente a cuore.

«Quando Pietro chiede a Gesù: cosa ne avremo noi a seguirti? E Gesù risponde che avremo il centuplo. Ecco, io il centuplo l’ho sperimentato: prima con l’Imc, dove mi sento bene con tutti i miei confratelli; poi con Incontro matrimoniale, che mi ha aperto migliaia di case».

Luca Lorusso

Nel Consolata Seminary di Nairobi con un gruppo di studenti nel 1983


Fratelli due volte

Antonio Barbero

I tre fratelli Barbero all’ordinazione di padre Masino

Nato il 12-2-1928 a Marene (Cuneo), tredicenne fu accolto nell’Istituto Missioni Consolata e ricevette l’ordinazione sacerdotale il 20-6-1954. Per sei anni svolse attività di insegnamento e di formazione in Italia. Nel 1961 partì per il Canada: quattro anni di intensa pastorale giovanile. Rimpatriato svolse ancora attività formative nelle case Imc d’Italia, poi nel 1972 raggiunse la missione dello Zaire come superiore del gruppo della nascente delegazione: dieci anni di lavoro missionario ardito e intelligente (cfr. dossier in MC 6/2022). Missionario ottimista e guida saggia, sembrava, talora, spregiudicato, invece di fatto il suo comportamento si rivelava stimolante ma equilibrato. La sua arte era semplice ma non sempre facile: ascoltare, riflettere, rispondere, sorridere; un’arte che faceva sempre presa nel cuore dei giovani. Morì a Torino il 9 febbraio del 1982.

Tommaso (Masino) Barbero

Nato l’8-10-1946 a Cervere (Cn), fece la professione temporanea il 2-10-1966 alla Certosa di Pesio, e quella perpetua il 2-10-1969 a Rosignano. Fu ordinato diacono il 16-2-1972 a Torino e sacerdote il 25-3-1972 a San Lorenzo di Fossano.
Dopo i primi due anni tra Cork (in Irlanda) e Biadene (Treviso), partì per il Tanzania dove rimase tra il 1974 e il 1979. Fece animazione missionaria a Saragoza, in Spagna, tra il 1979 e il 1983. Tornò in Tanzania come vice parroco a Kisinga e come parroco a Ng’ingula tra il 1983 e il 1988.
Tornato in Europa, nel 1989 partì per il Kenya. Fu rettore dell’Allamano House a Nairobi fino al 1992, poi fondatore e parroco di Kahawa (Nairobi) fino al 2000, viceparroco e poi parroco a Likoni-Mombasa fino al 2005, direttore della casa di ritiri Bethany House a Sagana tra il 2005 e il 2008, e poi direttore del Centro pastorale di Maralal fino al 2013. Contemporaneamente fu due volte consigliere regionale del Kenya: nel 2005-2008 e nel 2011-2013. Rientrato in Italia nel 2014, lavorò a Platì, Rivoli, Cavi di Lavagna e Torino. Morì il 16 settembre del 2021.

Antonio Giordano e Luca Lorusso

Archivio:

– Padre Mario dal 2015 pubblica mensilmente la rubrica «Bibbia on the road» sul sito di Amico.
South Africa Fifty, Dossier MC giugno 2021.
Amoris Laetitia famiglia missionaria, MC dicembre 2016.

Padre Masino all’inaugurazione dei saloni per le attività parrocchiali a Kahawa West, Kenya.




Mondo. Schiavitù. C’era una volta (e c’è ancora)


Nel mondo sono cinquanta milioni le persone in schiavitù. In questo numero (incredibile) rientra chi lavora forzatamente e chi si sposa contro la propria volontà. La maggior parte delle vittime sono donne e bambini.

Non occorre andare a rileggere i libri di storia e, spesso, non occorre neppure andare lontani: la schiavitù esiste ancora oggi e si può trovare vicino a noi, in Italia.

Saman aveva 18 anni. Di famiglia pakistana, la ragazza è scomparsa nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 2021 a Novellara, in provincia di Reggio Emilia. Probabilmente uccisa dal padre Shabbar Abbas e altri familiari per non aver accettato le nozze «combinate» con un cugino. Un tentativo di matrimonio forzato finito in tragedia.

Sempre in Italia c’è il fenomeno dei minori vittime di sfruttamento sessuale. Secondo l’annuale rapporto di Save the children esso riguarda, in grande maggioranza, ragazze nigeriane, ma anche della Costa d’Avorio e di alcuni paesi dell’Europa orientale (Romania, Bulgaria, Albania). La Ong li chiama «piccoli schiavi invisibili».

Se in Italia, eventi come il matrimonio forzato o il traffico di minori sono molto rari (il primo) o con numeri in crescita ma ancora contenuti (il secondo), diffuso è invece lo sfruttamento del lavoro nelle campagne italiane. Nel caso sussista anche coercizione (violenza, minacce, sequestro dei documenti, restrizione della libertà personale), esso si trasforma in lavoro forzato. Difficile dire quante siano le persone in condizioni di schiavitù nei campi di Sicilia, Calabria, Puglia, ma anche di Maremma, Veneto e Lombardia. Pagate 3 o 4 euro all’ora e in nero, sono in gran parte immigrati nordafricani e asiatici, spesso senza documenti. Stesse condizioni vengono sovente alla luce in aziende tessili di piccole dimensioni operanti sul territorio nazionale. Come, ad esempio, è stato scoperto a Prato e nel napoletano.

C’è anche la Apple

Lo scorso settembre è uscito il rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo, nell’acronimo inglese) sulla schiavitù moderna.

«La schiavitù moderna – si legge nelle prime pagine – è composta da due componenti principali: il lavoro forzato e il matrimonio forzato. Entrambe si riferiscono a situazioni di sfruttamento che una persona non può rifiutare o non può abbandonare a causa di minacce, violenza, inganno, abuso di potere o altre forme di coercizione. Le stime globali indicano che nel 2021, ogni giorno, circa 49,6 milioni di persone si trovano in condizioni di schiavitù moderna, costrette a lavorare contro la propria volontà o in situazione di matrimonio forzato».

In entrambe le condizioni, le vittime preferite sono le donne e i minori. Il lavoro forzato riguarda soprattutto i migranti, a causa della loro condizione di vulnerabilità e ricattabilità (quando sono irregolari). I settori d’impiego sono l’agricoltura, le fabbriche manifatturiere e il lavoro domestico.

I datori di lavoro sono in maggioranza privati, ma ci sono anche entità statali. Accade, per esempio, in Myanmar, con la giunta militare al potere dal febbraio 2021. O nella regione dello Xinjiang, dove la Cina – secondo il rapporto dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu uscito il 31 agosto – costringerebbe al lavoro forzato le minoranze uigure (di fede islamica).

In questo scandalo, sono rimaste coinvolte anche aziende fornitrici della Apple. La multinazionale californiana si è sempre difesa affermando di avere tolleranza zero verso il lavoro forzato e che, nei cinquanta paesi dove operano i suoi fornitori, i controlli sono molto severi. Stesse accuse sono state rivolte ad altri big del mondo digitale come Amazon, Google, Microsoft e Facebook.

Le mani degli sposi; il fenomeno del «matrimonio forzato» vige soprattutto nei paesi arabi e dell’estremo oriente. Foto Khadija Yousaf – Unsplash.

Tra le mura domestiche

Ancora meno noto è il lavoro schiavo nei servizi e, in particolare, nell’ambito domestico. In Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrain, Kuwait, Oman, ma anche Giordania e Libano, esso si basa su una interpretazione distorta del sistema di regole noto come «kafala», nato inizialmente come adozione islamica e poi estesosi ai rapporti lavorativi tra famiglie locali (gli «sponsor») e immigrati assunti come domestici (la Ilo ha stimato oltre tre milioni di persone).

Sono conosciuti gli abusi sulle donne etiopi impiegate in Libano o sul personale filippino in Arabia Saudita (paese che, in teoria, ha abolito la kafala nel marzo 2021). Per parte sua, Amnesty
International ha denunciato con forza le condizioni disumane imposte in Qatar ai lavoratori stranieri (da India, Nepal e Bangladesh) impiegati nella preparazione del mondiale di calcio in programma in questi mesi di novembre e dicembre.

Lo sfruttamento dei lavoratori domestici avviene anche nei paesi latinoamericani, in particolare in Perù. Prima della pandemia di Covid-19 (che ha portato a moltissimi licenziamenti), la Ilo stimava in 450mila i collaboratori familiari (quasi tutti donne, trabajadoras del hogar) nel paese andino.

In Perù, il lavoro domestico è regolato dalla legge e sono attive varie organizzazioni sindacali, ma permangono situazioni di sfruttamento se non di schiavitù. Soprattutto in presenza di contratti verbali o di minori.

In molti paesi, intere famiglie – genitori e bambini – lavorano come braccianti nelle campagne. Foto Zeyn Afuang – Unsplash.

Sfruttamento online

La condizione di schiavitù – sia nella forma di lavoro che di matrimonio – diventa ancora più intollerabile quando i soggetti coinvolti sono minori.

Due su cinque di quelli costretti a sposarsi erano bambini quando il matrimonio ha avuto luogo. Tra questi, il 41% è stato costretto a sposarsi prima dei 16 anni, con una netta prevalenza di ragazze (87% contro 13%). Il matrimonio forzato – più frequente nei paesi arabi e nei paesi asiatici – produce altre forme di violenza: sfruttamento sessuale, servitù domestica, abusi fisici e psicologici, sia dentro che fuori casa.

Impressionante è poi il numero di bambini vittime di sfruttamento sessuale commerciale: 1,7 milioni su 6,3, circa un quarto del totale. Il genere è un fattore determinante: quasi quattro persone su cinque intrappolate nello sfruttamento sessuale forzato sono ragazze o donne. Inoltre, con il Covid-19 si è notevolmente amplificato il rischio di mercimonio sessuale dei minori online. Internet sta creando nuovi canali di comunicazione per la tratta dei bambini e per collegare le vittime con i loro abusatori.

Il rapporto Ilo del 2022 conferma che i due obiettivi di porre fine alla schiavitù infantile entro il 2025 e alla schiavitù in tutte le sue forme entro il 2030 rimangono lontani. I ricercatori spiegano la situazione attuale in questi termini: «Le crisi che si sono sommate negli ultimi anni – la pandemia di Covid-19, i conflitti armati e i cambiamenti climatici – hanno portato a un’interruzione senza precedenti dell’occupazione e dell’istruzione, a un aumento della povertà estrema e delle migrazioni forzate, nonché a un’impennata delle denunce di violenza di genere. Tutto questo contribuisce ad aumentare il rischio di schiavitù moderna nelle sue diverse forme. Come di solito accade nei periodi di crisi, sono coloro che si trovano già in situazioni di maggiore vulnerabilità – tra cui i poveri e gli emarginati sociali, i lavoratori dell’economia informale, i lavoratori migranti irregolari e le persone soggette a discriminazione – a pagare il prezzo più alto».

Lo sfruttamento del lavoro agricolo è una pratica diffusa in tutto il mondo, anche nei paesi ricchi. Foto Aamir Mohd Khan – Pixabay.

Il prezzo del mercato

Lo scorso 14 settembre, due giorni dopo l’uscita del rapporto dell’Ilo, la Commissione europea ha proposto di proibire nei paesi dell’unione l’importazione e la vendita di prodotti realizzati con il lavoro forzato. La proposta è importante, ma realizzarla sarà complicato. Sono infatti tante le multinazionali e le aziende che sfruttano il lavoro schiavo per abbassare i costi dei prodotti e aumentare i loro profitti. Perché, come sempre, è il mercato che prevale sull’uomo.

Paolo Moiola

Fonti principali

Due rapporti scaricabili dal web e un libro:
Ilo (International labour organization), Forced labour and forced marriage, settembre 2022;
Save the children, Piccoli schiavi invisibili. XII Edizione, luglio 2022;
● Benedetto Bellesi e Paolo Moiola, Il prezzo del mercato, Emi, marzo 2006.

Logo dello sciopero dei lavoratori domestici del Perù.

 




Argentina. Scattare la giustizia


I voli della morte, durante la dittatura in Argentina, hanno ucciso, facendole sparire, migliaia di persone. Con il suo progetto fotografico, Giancarlo Ceraudo, ne ha riparlato aiutando la giustizia a fare il suo corso.

Intervisto Giancarlo Ceraudo mentre si trova in Argentina, a casa di Miriam Lewin, giornalista e scrittrice sopravvissuta durante la dittatura nel suo paese ai centri di detenzione illegale dell’Esma1 (Escuela de mecánica de la armada, la scuola ufficiali della marina argentina di Buenos Aires).

La loro amicizia dura dal 2007, anno in cui i due hanno iniziato a collaborare. Già dal 2001, però, Giancarlo aveva deciso di lavorare sull’Argentina: una scelta cruciale, che lo avrebbe portato a sviluppare uno dei progetti più importanti per la sua carriera, Destino final, una lunga ricerca fotografica sui «voli della morte» che in Argentina hanno ucciso migliaia di oppositori politici durante la cosiddetta Guerra sporca fra il 1976 e il 19832.

Viaggio e pigrizia

La fotografia, per Giancarlo, non è un fuoco sacro, né un sogno da inseguire a tutti i costi, bensì una scelta compiuta per poter coltivare, come dice lui stesso, il viaggio e la pigrizia.

Fin da ragazzo, infatti, Giancarlo si domanda se ci sia il modo per guadagnarsi da vivere senza doversi chiudere fra quattro mura e stare a regole imposte da altri.

Attratto dal «dolce far niente», ogni tanto chiede al padre come fare per vivere senza lavorare. La risposta è sempre la stessa: «Non siamo abbastanza ricchi».

Studiare gli piace e, divenuto adulto, intraprende dapprima la facoltà di giurisprudenza, poi quella di antropologia. Ma proprio non accetta l’idea di avere un orario fisso, di essere costretto in qualche modo a rimanere fermo in un posto.

Buenos Aires, November 2007. One of the “Madres de Plaza de Mayo” (Mothers of May Square) cries on her son’s name inscribed on the wall of the Memorial Park in Buenos Aires.

Straordinarietà

La fotografia come strumento per lavorare divertendosi arriva nella sua vita negli anni ‘90, quando ha già superato i vent’anni. Durante un viaggio in Perù con un amico appassionato di fotografia, prende in mano per la prima volta una fotocamera.

Dotato di un forte senso estetico, decide di applicarlo alle immagini, e il risultato è da subito straordinario.

Intuito il proprio potenziale e non potendo permettersi le poche scuole di fotografia esistenti, capisce che non può concedersi la mediocrità: «Sono sempre stato severo con me stesso: o sono bravo, bravo davvero, o devo lasciar perdere. Non posso permettermi la modestia. Un risultato modesto significa non poter fare questo lavoro».

Dal Maxxi al Sud America

Giancarlo Ceraudo è il fotografo più giovane a entrare a far parte della prima collezione di fotografia contemporanea del Maxxi di Roma, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, con «Atlante italiano» del 2003.

Il suo lavoro è stato segnalato al Maxxi dall’architetto Pippo Ciorra che ne ha intuito il potenziale.

Chiamato dal museo a corredare le sue fotografie con una frase, Giancarlo scrive: «Spesso penso che la fotografia sia un capolavoro della pigrizia: con talento e molta fortuna, regala infatti la possibilità di raccontare un mondo in una frazione di secondo e per me, che sono un inguaribile pigro, la fotografia diventa una possibile redenzione». Un punto di vista lontano dai colleghi che si descrivono appassionati, innamorati, forse anche ossessionati dalla fotografia.

Da questo momento inizia per Giancarlo un periodo di grande lavoro e decide di concentrarsi sull’America Latina, un’area geografica poco coperta dai fotogiornalisti ma piena di storie da raccontare.

Va in Cile, Paraguay, Brasile, dando vita a reportage autoriali.

«Destino final»

Intanto Giancarlo si è già trovato nel 2001 a seguire in Argentina la crisi economica che stava colpendo il paese. Ed è a Buenos Aires che inizia una storia che il fotografo seguirà per quindici anni dando vita al progetto «Destino final». Un progetto che definirà il «meno professionale della mia carriera», perché quando si segue una realtà per così tanto tempo diventa parte della propria vita. Partendo dalla sua passione per la storia che lo ha portato ad approfondire i temi delle dittature e degli stermini di massa, presto si accorge che quelle realtà studiate sui libri di scuola, in Argentina sono ferite ancora sanguinanti.

Vivere in Argentina, infatti, significa fare i conti con la realtà passata ma ancora bruciante della dittatura. E quando inizia a documentarsi, la visione del film «Garage Olimpo» di Marco Bechis, lo segna profondamente.

Parla con i testimoni, incontra i sopravvissuti, sente che c’è una storia da raccontare. Ma come farlo tramite la fotografia quando di quella storia rimangono solo ricordi e racconti? La fotografia di reportage, infatti, ha bisogno di situazioni vive che accadono davanti all’obiettivo.

La storia negli oggetti

Forse per via delle sue origini – è romano, innamorato della sua città e della storia che in essa si incontra -, comprende che l’unico modo di fotografare il passato è attraverso gli oggetti.

Si ricorda di quando, da bambino, suo padre lo portava all’aeroporto da un amico pilota e, insieme, sorvolavano la città. Immaginava le vite passate fra quelle pietre e monumenti.

Si domanda: possono i luoghi conservare i ricordi e le pietre qualcosa di ciò che è stato?

È così che il fotografo si chiede dove siano finiti gli aerei utilizzati per i famigerati «voli della morte», pratica di sterminio di massa attuata fra il 1976 e il 1983, durante la Guerra sporca.

La questione legata ai voli della morte è particolarmente spinosa, e ha risonanza non solo in
Argentina ma anche a livello internazionale, anche perché resta ancora sospesa da un punto di vista giudiziario.

Si sono cercate le vittime, i sopravvissuti, ma non gli aerei. Eppure essi sono stati gli strumenti di quel processo terribile e doloroso. Giancarlo immagina che trovare gli aerei possa voler dire trovare anche le persone coinvolte in quel massacro sistematico. Sente, però, di aver bisogno di aiuto perché, pur sapendo gestire storie complesse e avendo familiarità con le inchieste, questa va oltre le sue possibilità e da solo non può farcela.

Buenos Aires, Argentina – 2010 A forensic anthropologist examines the remains of a body recovered from a mass grave.

L’aereo della morte

È a questo punto che entra in scena Miriam Lewin, giornalista e scrittrice, vittima della dittatura, sequestrata e reclusa all’Esma, la scuola militare della Marina.

È lei a condurre Giancarlo in un viaggio della memoria. Gli racconta gli orrori dei campi di detenzione e lo conduce in alcuni dei luoghi centrali per la storia di «Destino final».

Insieme trovano le tracce di cinque degli aerei utilizzati per i voli della morte. Due risultano caduti, altri due venduti al Lussemburgo e non rintracciabili, ma uno è ancora utilizzato per il trasporto della posta e si trova a Fort
Lauderdale, in Florida, negli Usa.

È in questo aereo che Miriam e Giancarlo trovano i documenti dell’atto di acquisto sui quali sono riportati date e nomi di chi, prima di arrivare a Fort Lauderdale, l’ha pilotato.

Ma non sono documenti qualsiasi. Riportano date ben precise e le liste dei voli effettuati fra il 1976 e il 1979. Fra questi, c’è anche quello del 14 dicembre 1977.

Gettati nel mare

La traccia da cui Giancarlo e Miriam partono per trovare quei voli è una fotografia: ritrae una suora vittima di una retata del dicembre 1977 nella Chiesa di Santa Cruz, luogo nel quale gli attivisti contro il regime e le madri di Plaza de Mayo3 si ritrovavano per organizzare la lotta.

In quella retata erano state arrestate due suore. Una di loro sarebbe stata fotografata con il giornale «La Nación», datato 14 dicembre 1977, in mano.

Gli agenti dell’Esma in quel modo avrebbero sostenuto che al momento della foto le suore erano vive, e che sarebbero poi state rapite dai guerriglieri di estrema sinistra, i «montoneros», perdendone le tracce. Entrambe le suore, invece, sarebbero state uccise quella notte stessa, lanciate, nude e semistordite, insieme ad altri attivisti, dai portelloni dell’aereo in volo.

Il corpo di una di loro sarebbe stato ritrovato a riva qualche giorno dopo, spinto dalla «sudestada», insieme ad altri.

I nomi delle persone lanciate dai voli della morte erano fedelmente registrati nei documenti ritrovati da Giancarlo e Miriam sull’aereo di Fort Lauderdale.

Parrandas de Remedios 2008.

 

Foto per la giustizia

A seguito del ritrovamento dell’aereo e dei documenti in esso contenuti, vengono arrestati tre piloti: un militare ormai in pensione e due comandanti di voli di linea ancora in attività.

Con uno di essi, divenuto, dopo la fine della dittatura, pilota di linea, Giancarlo ha anche volato da Roma a Buenos Aires.

Arrestati nell’aprile del 2011, saranno condannati all’ergastolo nel novembre del 2017.

E sarà poco prima di quel pronunciamento che il lavoro fotografico di Giancarlo si fermerà.

Al momento dell’arresto dei piloti, nel 2011, il fotografo fa parte della nota agenzia fotografica Noor. I suoi colleghi gli dicono che dovrà essere la foto del processo e della condanna a chiudere il suo lavoro, ma lui decide di non farlo. Vuole chiudere il libro prima. C’è un momento in cui bisogna fermarsi.

Sì, perché scattare quell’ultima foto al banco degli imputati sarebbe troppo: lì, in fondo, ce li ha portati lui, ha influito sul destino di quegli uomini fotografando l’aereo, cercando prove e documenti; ma lui è solo un testimone, non è come Miriam e altri sopravvissuti che ora possono permettersi gioia, e anche un certo senso di giustizia ristabilita.

Parte per Cuba prima della fine del processo. Lì, per l’assenza di internet, è quasi impossibile seguire quello che succede in Argentina. Lo raggiunge comunque la notizia dell’ergastolo. Giancarlo è felice per Miriam e per tutti quelli che hanno avuto giustizia, ma sente di aver fatto solo il proprio dovere.

Se si hanno dubbi sull’importanza del fotogiornalismo oggi, il lavoro di Giancarlo Ceraudo ci aiuta a fugarli e a farci comprendere, ancora una volta, la potenza di una storia sapientemente raccontata.

Valentina Tamborra


Note:

1- I voli della morte furono una pratica attuata tra il 1976 e il 1983, durante la Guerra sporca in Argentina nell’ambito del cosiddetto Processo di riorganizzazione nazionale. Migliaia di dissidenti politici, o ritenuti tali, furono gettati in mare sotto l’effetto di droghe da aerei o elicotteri militari.

2- Durante la dittatura l’Esma divenne il più grande e attivo centro di detenzione illegale ove le persone scomode al regime della giunta militare venivano segregate e torturate. Delle circa 30mila persone assassinate, più di 5mila passarono da questi centri, solo 500 circa sono i sopravvissuti.

3- Le Madri di Plaza de Mayo è un’associazione formata dalle madri dei desaparecidos, i dissidenti o presunti tali scomparsi durante la dittatura militare.


Giancarlo Ceraudo

Nato a Roma nel 1969. Fotografo documentarista, ha lavorato in America Latina, Medio Oriente e in Europa sui diritti umani e su questioni sociali e culturali.

Suoi lavori sono stati pubblicati su media italiani e internazionali come L’Espresso, Internazionale, El País, Geo, Sunday Times Magazine, New Yorker, Libération, National Geographic, Vrij Nederland, Polka Magazine, 6 Mois. Le sue fotografie fanno parte della collezione del Maxxi di Roma e sono state oggetto di mostre in Italia, Spagna, Francia e Stati Uniti.

www.giancarloceraudo.net

V.T.