ECUADOR – Un “alito” di salute

È arrivato a buon termine il sogno
di un ospedale,
nato per gli indigeni
e costruito grazie
a un medico generoso.
Piccoli miracoli di ordinaria «provvidenza».

È stato finalmente inaugurato, nel mese di giugno 2000, nella missione di Punín (Ecuador), alla presenza di varie autorità, missionari e indios delle diverse comunità, l’ospedale «La Consolata». E ha avuto pure l’onore della cronaca di vari giornali locali.
Prima della cerimonia, il vescovo, monsignor Victor Corral, ha celebrato l’eucaristia come ringraziamento per la creazione di questa opera veramente necessaria.
Padre Davide Manca, missionario della Consolata, ha spiegato come il progetto, ideato nel 1996, sia diventato realtà grazie alla collaborazione del dottor Riccardo Grifoni. Questi, «scosso» da un articolo pubblicato su una rivista missionaria, si è dato da fare… e sono arrivati i finanziamenti dell’Associazione di volontariato «Alito» di Ancona. I lavori, iniziati nell’aprile 1999, si sono conclusi alcuni giorni prima della festa della Consolata e dell’inaugurazione (20 giugno 2000).
La costruzione, che ha avuto un costo di 65.000 dollari, verrà in aiuto non solo agli indigeni di Punín, ma anche a quelli di San Luis, Cebada, Flores e di altre comunità dei dintorni. Costoro avranno, d’ora in poi, l’opportunità di tenere sotto controllo la propria salute e a costi piuttosto contenuti; inoltre, come ha detto il dottor Carlos Torres, uno degli ideatori dell’opera, «saranno firmati accordi con altre istituzioni per puntare l’attenzione non solo sui malati, ma anche sulla prevenzione delle malattie».
Questi i dati scai di cronaca. Ma, per arrivare al giorno dell’inaugurazione, occorre partire un po’ più da lontano…

I n quel tempo (cioè all’inizio degli anni ’90) a Punín alcune situazioni, tra pazienti e medico, erano un po’ strane. Per ogni sorta di malattia, la meta obbligatoria era Riobamba, capitale del distretto. E lì succedeva che qualche medico, per farsi pagare, qualunque fosse la malattia del malato, riuscisse a far vendere ai poveri indigeni la stessa quantità di animali (unica fonte di sostentamento).
C’è stato chi, venuto in contatto con un anziano di una comunità, malato di cancro allo stadio terminale (e, peraltro, già visitato da un medico locale che gli aveva diagnosticato pochi giorni di vita), lo aveva operato lo stesso; con il risultato che il paziente, poche ore dopo era già spirato, ma intanto aveva sborsato un milione e mezzo di sucres (circa 500 dollari).
Lo stato di cose mi ha fatto pensare alla necessità non di un vero e proprio ospedale, quanto ad un piccolo centro sanitario che avesse funzione di «filtro».
Nel frattempo il medico di Punín, Carlos Torres, e io abbiamo discusso seriamente la questione e ci siamo trovati d’accordo su un punto: bisognava fare qualcosa per quella povera gente, che aveva tutto il diritto (sulla carta) alla salute, come qualunque cittadino di Quito o di Guayaquil. Siamo rimasti d’accordo che, al ritorno dal mio viaggio in Italia, nell’ottobre del 1996, avremmo ripreso le fila del discorso.
In realtà non ho aspettato il rientro in Ecuador. Soggioando in Svizzera, dove vive un mio fratello, ho condiviso con lui la seria preoccupazione per questo problema: e anch’egli ne ha fatto una causa propria, richiedendo il progetto della costruzione (poi modificato) e assumendo accordi con il comune di Losanna per ottenere un finanziamento di circa 5.000 franchi, da inviare a metà dell’opera.
Toai in Ecuador con il piccolo progetto in mano, ma che necessitava qualcosa di più che i 5.000 franchi, pur preziosi. Era necessario continuare a cercare…
La meta fu Quito, la capitale. Il primo tentativo lo feci alla Swissaid, associazione dipendente dall’ambasciata Svizzera; ma, per quell’anno, non erano previste spese per progetti sulla salute e la risposta mi venne data al terzo viaggio che facevo. Altre vie: Fepp, Coopi, Comité Economico de Proyectos, Mlal: tante sigle importanti, ma il tutto si concretizzò solo in una lunga serie di indirizzi e niente di più.
La salvezza arrivò invece (lo credereste?) dall’Africa. O, meglio, da un medico italiano, assolutamente sconosciuto, che ci chiedeva «il favore» di poter collaborare per la costruzione dell’ospedale.
Tutto ci sembrò un miracolo.

L a cosa era andata così. Nel febbraio del 1997, erano venuti a trovarci i genitori di padre Giannantonio Sozzi, missionario mio confratello, oggi in Colombia. La visita in Ecuador li aveva particolarmente colpiti. Pertanto, al loro rientro in Italia, avevano pubblicato le proprie impressioni sul bollettino parrocchiale. A quanto pare, quel resoconto piacque a molti. Fu anche riprodotto sulla rivista Missioni Consolata e, guarda caso (il mondo è davvero piccolo), una copia del giornale arrivò perfino in Kenya.
Fu così che il medico Riccardo Grifoni, che si trovava in quel paese, in un momento di pausa si era messo a leggere la rivista con interesse (il dottore è un volontario che, in certi periodi, ama «spendere» le sue vacanze, lavorando in diverse parti del mondo, a beneficio dei più disagiati)… Toando dall’Africa, si mise in contatto con i genitori del missionario, i quali a loro volta gli dissero che bisognava farsi sentire dai missionari di Punín.
Qui (gennaio 1998) incominciò la serie di contatti, che portò ad un accordo di collaborazione tra due associazioni: la prima, «Alito» (cui appartiene il dottor Grifoni), e la seconda, «Fundacíon la Consolata».
Si decise, dunque, che rappresentanti dell’associazione italiana (di Ancona) venissero a Punín per constatare personalmente la situazione: cosa che si realizzò nel novembre del 1998, mentre a dicembre giungeva l’approvazione del progetto da parte loro.

I lavori di costruzione dell’ospedale La Consolata cominciarono il 12 aprile del 1999 e tutto filò per il meglio.
Ma la finale della storia… la conoscete già.

Davide Manca




BELGIO – Nella stanza dei bottoni

Le decisioni prese nel Nord si riflettono
sui poveri del Sud del mondo.
Le congregazioni missionarie operanti in Africa hanno costituito la «Rete fede e giustizia Europa-Africa» (Aefjn), per far risuonare la «voce dei senza voce» nei parlamenti dell’Unione europea e dei singoli paesi
che la compongono, stimolando iniziative che promuovano rapporti più giusti ed equi con i popoli africani.

I n un secolo siamo passati dal nazionalismo all’inteazionalismo, alla globalizzazione. Principale veicolo di cambiamento è stato, ed è tuttora, l’ideologia neoliberista: essa penetra ogni aspetto della vita quotidiana della gente in tutto il mondo: economia, comunicazione e informazione, sviluppo tecnologico, cultura, modelli di consumo, crimine, conflitti, epidemie, ecologia, migrazione, politica.
Di fronte a tali mutamenti di cultura e valori, i cristiani devono essere presenti nei dibattiti, non come sociologi o economisti, ma come testimoni dei valori evangelici. È in gioco il nostro ruolo profetico, non solo per indicare le deficienze nella società, ma anche per mostrare, come gli antichi profeti, la strada della riconciliazione col Creatore.
POLITICA SFIDUCIATA
Il mondo ha subìto un cambiamento epocale, ma le istituzioni e l’immagine del mandato politico sono mutati pochissimo. Negli ultimi due secoli, fino ai primi anni ’70, tale mandato era considerato uno dei più alti e nobili servizi al paese. La gente aveva fiducia nei politici e affidava loro il proprio destino, inviandoli come delegati ai parlamenti e governi. La fede nel sistema democratico parlamentare era così forte che né guerre né crisi sono riuscite a cambiarla.
Negli ultimi 40 anni si è capito che la politica non è così pulita e nobile come si voleva far credere. Tre fattori hanno scosso tale fede politica.
– La colonizzazione. La gente ha cominciato ad essere sfiorata dal senso di colpa quando gli storici, basandosi su documenti, hanno dimostrato che la colonizzazione dei paesi africani, presentata come nobile «missione di civilizzazione», era in realtà uno spietato sfruttamento delle loro risorse umane, culturali e materiali per accrescere il benessere dell’Occidente.
– La povertà nel terzo mondo. Dopo due decenni di appelli alla generosità per contribuire ai progetti di cooperazione internazionale, la gente è delusa, vedendo che il divario tra i paesi poveri e quelli industrializzati ha continuato a crescere.
– La corruzione. La lista di scandali in cui sono coinvolti i politici è infinita; con somme da capogiro gli industriali hanno sponsorizzato i partiti politici, fino a renderli strumenti di legittimazione dei propri interessi economici.
Nessuna meraviglia se, negli ultimi 15 anni, la gente è cresciuta nella disillusione e nel disinteresse per la politica: ne è una prova lampante la bassa partecipazione alle elezioni. Il sistema politico è in crisi. In questa confusione, gli unici vincitori sono i protagonisti del mercato globale.
NUOVO CREDO UNIVERSALE
Competizione e mercato è la fede professata dalla globalizzazione. Essa provoca una visione unilaterale della natura e relazioni umane, trasformando la società in un grande palco d’asta, dove perfino le cose sacre, come sangue, organi umani e biodiversità, possono essere comprati o venduti e i cui valori sono rimpiazzati dai prezzi. Tale società richiama la visione raccapricciante dell’Apocalisse: «Essa è diventata covo di demoni e carcere per ogni spirito immondo, carcere per ogni uccello impuro e aborrito» (Ap 18,2). Il credo della globalizzazione è veramente una sfida spirituale e culturale, che i politici non hanno affrontato, o non lo hanno fatto a sufficienza, e oggi ne pagano le conseguenze a caro prezzo.
Il meccanismo del mercato globale rafforza nel ricco un falso senso di «popolo eletto», più preoccupato della conquista del potere che delle necessità della gente e della terra. L’ideologia neoliberista, su cui si fonda la globalizzazione, ha addormentato la gente: il motto di buona parte dei popoli occidentali non è «l’opzione preferenziale per i poveri», ma «opzione preferenziale per chi ha di più». Delusi dai politici, essi si sono innamorati di una società in cui produzione e consumo sono in continua espansione e il potere è in mano a una ristretta e forte élite economica, capace di facilitare il processo di produzione-consumo da cui ci si aspetta tutto il bene della vita.
Ma in un mondo del genere la maggioranza della gente, beata nel suo consumismo, non ha alcuna voce nel modellare la società in cui vive. Ruoli di guida e istituzioni sono ridotti a puri strumenti di convalida di politiche decise molto lontano da potenti corporazioni transnazionali. E così i diritti umani possono essere erosi, la dignità umana calpestata, lo sviluppo impedito e l’ambiente sfruttato indiscriminatamente.
INGIUSTIZIE STRUTTURALI
I mercati possono essere molto utili; la globalizzazione è una spada a due tagli: produce effetti buoni e cattivi. Per la prima volta nella storia, le istituzioni inteazionali (Unione europea, Nazioni Unite, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale) danno veramente la possibilità di provvedere pacificamente a un mondo più equo e giusto; ma è un errore pretendere di costruirlo basandosi solo sul mercato.
Negli ultimi 50 anni la speranza di vita, in generale, è salita più che nei precedenti 4.000; trasporto, comunicazione, competitività hanno facilitato la nostra esistenza. Eppure il divario tra ricchi e poveri continua a crescere, sia globalmente che all’interno degli stati. Nel mondo ci sono 360 plurimiliardari che, insieme, possiedono una ricchezza pari alle entrate di 2,5 miliardi di gente più povera del mondo. Quale struttura permette e giustifica tale disparità?
Europei e americani spendono ogni anno oltre 400 mila miliardi di lire in medicine; ma difficilmente trovate nelle farmacie occidentali quelle per curare la malaria, cecità da fiume, malattia del sonno, perché c’è poca domanda. Entrate in un dispensario del Benin, per esempio, e scoprite che tali farmaci sono scarsi anche lì, non perché non ce ne sia bisogno, ma perché nessuno può permetterseli (Si veda «Come sta Fatou?» gennaio 2001).
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) calcola che si spendono oltre 120 mila miliardi di lire l’anno nella ricerca sanitaria, ma meno del 10% di tale somma riguarda le malattie che colpiscono il 90% della popolazione mondiale, come malaria, tubercolosi, Aids. E migliaia di africani muoiono ogni giorno perché mancano le medicine più comuni.
Il Nord impone ai paesi del Sud di aprire i loro mercati; eppure gli stati ricchi adottano sistemi protezionisti in molti settori in cui i paesi poveri sono più competitivi, come agricoltura e tessili. Una politica che impedisce la crescita economica in Africa, nega posti di lavoro nelle città e taglia le entrate delle famiglie.
L’Unione europea (Ue) è stata costretta ad abbandonare il regime d’importazione di banane favorevole ai piccoli produttori africani: le grandi compagnie degli Stati Uniti, infatti, sono riuscite a convincere l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) che favorire i piccoli produttori è contro le regole del libero mercato. Chiquita e compagni hanno vinto, a scapito degli agricoltori poveri di Ghana, Costa d’Avorio, Benin o Togo, la cui sopravvivenza dipende dalla produzione di banane. Lo stesso vale per l’uso di olii diversi da quelli del cacao nella produzione di cioccolato.
L’indebitamento di 38 paesi africani è tale che questi non riusciranno mai a restituire i prestiti. Le istituzioni finanziarie inteazionali continuano a domandare loro di spendere il 20-40% degli introiti provenienti dalle esportazioni annuali per ripagare gli interessi. Nel 1951, quando alla Germania fu chiesto d’impiegare il 10% delle esportazioni per pagare i suoi debiti di guerra, si disse che era insostenibile e fu abbassato al 3,5%; per i prestiti di guerra del Regno Unito la quota fu elevata al 4%. Politiche del genere, con due pesi e due misure, mantengono coscientemente e volutamente i paesi poveri dell’Africa in stato di schiavitù.
L’Onu sta preparando una conferenza per studiare il commercio illegale di armi leggere in tutti gli aspetti. Titti sanno che una stretta regolamentazione internazionale di tale commercio è un imperativo per arginare conflitti e violenza in Africa. Eppure, negli incontri preparatori, vari paesi ostacolano una nuova convenzione internazionale; dicono che bastano le regole attuali. Così il traffico legale e illegale continua.
Sono solo alcuni esempi di ingiustizie perpetrate dal Nord contro l’Africa. Ma bisogna ricordare che tutte le regole che puntellano tali ingiustizie sono ratificate nei nostri parlamenti e governi dai politici che abbiamo democraticamente eletti come nostri rappresentanti.
NUOVA COSCIENZA CIVILE
Ma non tutti sono pronti a professare il credo del libero mercato. Negli ultimi due anni vari gruppi di pressione hanno organizzato enormi proteste contro i vertici delle organizzazioni inteazionali (G7, Wto, Fmi…) per contestare il modo in cui prendono decisioni senza il coinvolgimento e consenso della gente.
Tali proteste sono troppo estese per essere etichettate come opera di pochi teppisti e teste calde. Sono appena la punta dell’iceberg del crescente scontento della gente. Da due decenni, persone ordinarie, ma bene informate, si uniscono a livello nazionale e internazionale per domandare ai governanti trasparenza, responsabilità e partecipazione nelle decisioni politiche.
È un imperativo morale per i governanti ascoltare tutte le voci della società, indipendentemente dall’affiliazione politica. Se i politici devono rispettare l’opinione del proprio collegio elettorale, hanno pure il dovere d’informare e mettere in guardia gli elettori sulle implicazioni e conseguenze che certe scelte politiche hanno sulla nostra vita e su quella del prossimo.
La voce di organizzazioni non governative, gruppi di pressione, organismi della società civile è un grido profetico per salvare la democrazia; quasi un aiuto divino per i politici nel momento di maggiore bisogno. Voci che indicano come dignità, lavoro, ambiente, valori culturali, trasparenza, corresponsabilità e partecipazione sono parte integrante del benessere e dello sviluppo.
La liberalizzazione sfrenata tende solo al profitto: è inaccettabile sia per la società occidentale che per i nostri fratelli e sorelle del Sud del mondo.
NOSTRA PRESSIONE POLITICA
È finito il tempo in cui analizzare e commentare argomenti conceenti la società era privilegio di accademici, politici e leaders religiosi. Anche noi missionari, con la «Rete fede e giustizia Europa-Africa» (Aefjn), ci siamo organizzati per raggiungere e informare i nostri rappresentanti, funzionari e partiti politici sulle conseguenze di certe politiche che devono votare.
Operiamo a Bruxelles, in sede di Commissione, dove nascono molte iniziative delle istituzioni europee. È il momento ideale: mentre esse sono in stato di progettazione, ci sediamo accanto ai funzionari disposti ad ascoltare i nostri punti di vista.
Quando le proposte della Commissione passano all’esame del Consiglio dei ministri e al Parlamento europeo, le Reti dislocate nei singoli paesi dell’Ue bombardano parlamentari, ministri, funzionari coinvolti nei vari progetti legislativi.
La nostra pressione continua a Bruxelles, quando le proposte passano alla Commissione permanente specifica, incaricata della revisione: presentiamo i nostri suggerimenti ai parlamentari e delegazioni, perché introducano eventuali emendamenti e dibattano e votino tali proposte in prima e seconda lettura.
Tutti questi momenti, a Bruxelles e nei paesi membri, sono occasioni per restituire alla democrazia il valore e l’importanza che merita. Ma non è un messaggio da far digerire facilmente: solidarietà con i poveri implica un cambiamento di stile di vita.
Sappiamo però, e lo sanno anche i politici, che questa è l’unica via per promuovere la giustizia, la pace e una più equa distribuzione dei doni della terra per questa generazione e quelle future.
Come cristiani e missionari, non possiamo fare a meno di essere coinvolti nelle politiche della stanza dei bottoni. Noi non tiriamo pietre, non ci incateniamo ai cancelli delle banche. Facciamo semplicemente ciò che ci dice il vangelo: amare il nostro prossimo come noi stessi. E lo facciamo affermando il diritto di partecipare creativamente nel processo decisionale, soprattutto quando sono in gioco i valori evangelici: i soli che possono portare pace vera e felicità alla società in cui viviamo. Una società non è solo la mia città, provincia o paese, ma il mondo intero.

* Luc Coppejans, della congregazione dei missionari per l’Africa (padri bianchi), è direttore responsabile del Segretariato della Rete fede e giustizia Africa-Europa (Aefjn).

Luc Copeejans




CONGO – Dopo cena, sotto la “pailotte” e altrove

Il fiore all’occhiello della diocesi di Wamba?
Senz’altro il Centro di pastorale:
perché radica la fede cristiana nel contesto africano,
sprona la persona allo sviluppo integrale,
educa alla pace in un paese in guerra…
Il Centro si avvale del contributo della tedesca «Missio»,
ma anche della solidarietà di amici italiani e colombiani.
Fra i colombiani, tanto di cappello ad Alonso, missionario della Consolata.
Il quale ha lanciato pure «Radio Nepoko».

A Wamba, nel nord del Congo, mi sono sistemato in una cameretta infestata da mosconi. Ho subito scambiato due battute con i missionari: l’infaticabile Enrico Casali (a dispetto dei by pass al cuore e della rimozione di un rene) e il vulcanico Angelo Baruffi. «Alonso dov’è?» domando, mentre i padri mi intrattengono con una tazza di tè. «Lo vedrai a pranzo».
L’orologio segna le 11. In attesa della chakula (cibo) di mezzogiorno, mi aggiro nei dintorni della missione… quand’ecco apparire, su un viale in terra rossa, una moto. Mi fermo e, quasi subito, dico: «Tu sei Alonso, suppongo». «In persona». Ci abbracciamo come vecchi amici, anche se è la prima volta che ci incontriamo.
Alonso Jesús Alvarez, 38 anni, in t-shirt verde e jeans marrone, è un missionario della Consolata colombiano. È in Congo da sette anni e prete da otto. A Roma si è specializzato in tecniche della comunicazione e giornalismo.
«Quella è senz’altro l’antenna di Radio Nepoko – affermo puntando il dito, mentre camminiamo verso casa -. Come va?». «Caro collega, non sarà meglio parlarne, seduti, dopo pranzo?».
Non solo catechismo
Causa imprevisti, non ci incontriamo dopo pranzo, bensì dopo cena, all’aperto, sotto la paillote (tettornia di paglia), fra il ronzio di non pochi insetti, attratti dalla luce di una lampadina. «Temi le zanzare?» mi provoca Alonso. «E tu no?» replico prontamente. Ne scaturisce una risata cordiale e fragorosa, specie nel colombiano.
Prima dell’incontro, ho raccolto alcune informazioni su Wamba, sede dell’omonima diocesi (con la presenza del vescovo Janvier Kataka) e l’annesso Centro di pastorale, di cui Radio Nepoko è parte integrante.
«Al mio arrivo in Congo – spiega padre Alonso – il Centro era solo una scuola per catechisti. Ogni parrocchia inviava qualche candidato; questi risiedeva al Centro, con moglie e figli, e apprendeva il “mestiere”; terminato il curriculum, ritornava alla propria comunità».
Ma in Africa i catechisti non si limitano solo all’insegnamento della dottrina cristiana. Essi sono i factotum nel villaggio: organizzano e presiedono la liturgia domenicale senza il sacerdote, seguono i catecumeni, controllano i ragazzi della scuola, visitano i malati, dirimono le contese. Di fronte a tante mansioni ed esigenze, il «Centro di catechesi» ha mutato identità, per divenire «Centro di pastorale». Una struttura più articolata e complessa.
La svolta risale al 1995, quando la diocesi ha effettuato un’analisi accurata della realtà, in preparazione anche al suo centenario del 2004… Al presente il Centro di pastorale, mentre continua a formare catechisti, attende pure alle comunità di base, ai movimenti laicali, allo sport, nonché ai ritiri ed esercizi spirituali dei sacerdoti congolesi, dei missionari, delle suore. Il Centro è un laboratorio di idee: organizza e stimola le attività delle commissioni diocesane per «l’inculturazione del vangelo», «la giustizia e pace», «l’impegno dei giovani».
Il Centro spalanca le porte a tutti, offrendo le sue strutture: un salone per le assemblee generali e diverse aule per i lavori di gruppo; in alcune casette, indipendenti, possono peottare fino a 50 persone.
La struttura si avvale del finanziamento dell’organizzazione cattolica tedesca Missio e di alcuni gruppi di solidarietà italiani e colombiani. Ma i congolesi che se ne servono non si presentano a mani vuote: foiscono il fabbisogno di riso e olio.
Direttore del Centro di pastorale di Wamba è padre Alonso Jesús Alvarez.
voglia di formazione
Gli zairesi-congolesi hanno stornicamente sopportato la trentennale e barbara dittatura di Mobutu. Inoltre hanno patito due guerre; la seconda (che dall’agosto 1998 ha mietuto circa 2 milioni di vittime) è in corso. «Nonostante le difficoltà – afferma padre Alonso -, la gente ha capito che una risposta ai suoi mali è la formazione. In tale senso il Centro di pastorale è prezioso».
«Qual è la frequenza ai corsi di formazione proposti dal Centro?».
«Se inviti, per esempio, gli infermieri ad un recyclage – risponde il colombiano -, li hai tutti: camminano magari per 50-100 chilometri… anche per fermarsi solo pochi giorni».
È così grande la voglia di formazione che si supera ogni ostacolo. Neppure la guerra ferma i corsisti del Centro. Un catechista (con moglie e tre figli) ha percorso a piedi 280 chilometri, pur di attendere ad alcune settimane di studio.
D’altro canto, anche il personale del Centro raggiunge i villaggi. Vi sono maestri, colpiti da malaria o reumatismi, che si sobbarcano 40 chilometri: pedibus calcantibus naturalmente, perché le auto sono come… l’iperuranio di Platone. Si è fortunati, c’è il vélo, la bici, che è sempre più veloce dell’«asino di san Francesco».
«Padre Alonso, circa l’evangelizzazione, ci sono iniziative particolari?».
«Tutto il Centro è evangelizzatore. Tuttavia in diocesi, per parecchio tempo, è mancato un vero progetto di evangelizzazione. Oggi qualcosa sta muovendosi, grazie alla presenza di persone più qualificate: alcuni preti congolesi hanno studiato in Europa; gli ultimi missionari recano nuove idee. Si sta passando da una pastorale formalista ad una più contestualizzata: ecco l’importanza dell’analisi della realtà socioculturale, della promozione integrale dell’uomo».
A Wamba la chiesa sta diventando «famiglia di Dio», come ha raccomandato il Sinodo per l’Africa. E i risultati si vedono: i giovani, ad esempio, parlano maggiormente di Gesù quale loro compagno di viaggio e maestro di vita… La diocesi ha anche una commissione per lo sviluppo. Ieri il catechista era l’«esperto» su Dio; oggi conosce pure i problemi dell’uomo.
L’impotenza della gente
In un villaggio ho visto un ragazzo attaccato ad una scassata e gracchiante transistor; e ripeteva a voce alta ad alcuni anziani le notizie sull’andamento della guerra.
«La popolazione segue le vicende del conflitto con angoscia e fatalismo – commenta padre Alonso -. I mezzi di informazione sono scarsissimi. Ciò nonostante, la politica del governo di Kinshasa, l’azione dei ribelli, la presenza delle truppe straniere… sono temi su cui tutti discutono. Se chiedi alla gente che cosa è capitato durante la settimana, ottieni risposte precise: mi riferisco in particolare agli insegnanti. Spesso (è vero) si tace: come il malato che non ama parlare del suo male, pur avvertendone il dolore. Il popolo è stanco della violenza. C’è una grande sfiducia, ma anche un’enorme attesa. La gente aspetta, aspetta…».
«Aspetta che cosa?».
«Ovviamente la fine delle ostilità, la pace. Alcuni dicono: siamo poveri e impotenti, non abbiamo fucili, non sappiamo fare la guerra, stiamo a vedere…».
Non scorgo più il viso intenso dell’interlocutore, né il corrugarsi della sua fronte preoccupata. La foltissima capigliatura nera di Alonso si confonde con la notte. La lampadina della paillote è stata spenta, perché bisogna risparmiare il diesel che alimenta il generatore elettrico.
Con l’oscurità, gli insetti si sono allontanati, ma sono aumentate le malariche zanzare. Alonso si schiaffeggia le braccia nude per acchiappae qualcuna, ebbra del suo sangue. Dopo un istante di silenzio, il missionario quasi intima: «Entriamo in casa».
«Buona notte».
«Di già? Sono appena le 21!» risponde Alonso illuminando l’orologio con una torcia a pile.
la nuova avventura
Il colombiano sorseggia una spremuta di arancio nel suo ufficio, alla luce di una lampadina di pochi volt, alimentata da batteria. E prosegue: «Non volevi sapere qualcosa anche su Radio Nepoko?».
Nella regione funzionava una radio importante, gestita dalla chiesa cattolica. Ma il regime dispotico di Mobutu ne fece un boccone… Oggi che Wamba abbia una «sua» emittente è un avvenimento straordinario. L’avventura è iniziata con un apparecchio di 250 volt, che copriva solo un quarto della diocesi.
«Io sono giunto a Wamba subito dopo l’inizio della radio – racconta padre Alonso – con l’incarico di allargae il raggio di ricezione. Mi sono messo al lavoro con 8 persone, che non sapevano neppure che cosa fosse un microfono. Ancora una volta si imponeva il problema della formazione. Lentamente abbiamo creato una rete di 70-80 volontari, divenuti presto allievi di radiofonia e comunicazione. Dopo tre mesi di studio faticoso, abbiamo elaborato il progetto organico di Radio Nepoko».
Il progetto si articola in quattro sezioni: evangelizzazione, sviluppo, cultura e spettacolo. Ogni sezione si prefigge obiettivi precisi da raggiungere con programmi adeguati.
«Con quali risultati?».
«Buoni, sia a livello tecnico che di contenuto. Abbiamo fatto miracoli. Senza elettricità, si lavora con un gruppo elettrogeno. Ma i costi sono elevatissimi, perché dobbiamo importare il carburante personalmente par avion».
L’emittente Nepoko è soprattutto la radio della comunità.Tutti vi possono accedere, per discutere di tutto. I giornalisti (si fa per dire) partono con i poveri mezzi a disposizione e raggiungono i villaggi: intervistano donne e uomini, vecchi e bambini; colgono i rumori della foresta, il canto degli uccelli, le danze dei giovani, le preghiere di tutti.
«Così siamo giunti a cinque ore di trasmissione al giorno: due al mattino e tre nel pomeriggio. Abbiamo documentato e commentato tre anni di vita zairese-congolese, durante i quali abbiamo vissuto due guerre».
«Alonso, soffermati sul tuo ruolo a “Radio Nepoko”…».
«Mah! Io sono come lo Spirito Santo, che soffia ovunque… senza farsi vedere. All’inizio ero il direttore. Ora non più: ho passato la mano ad un congolese. Oggi, se andassi via, Radio Nepoko sarebbe in grado di continuare con una buona resa. I “miei” ragazzi sanno montare trasmissioni a sette voci su altrettante piste. Hanno sputato sangue, all’inizio, perché il lavoro non era facile ed io molto esigente. Però oggi sorridiamo tutti».
La politica no
«Qual è il rapporto della radio con l’autorità politica?».
«Noi siamo stati sempre critici sia verso Mobutu sia verso Kabila. Con lo scomparso dittatore abbiamo avuto problemi seri, ma abbiamo resistito alle sue pressioni… Allo stato concediamo 20 minuti per parlare di amministrazione, non di politica. Pertanto abbiamo dato la parola al sindaco, il quale però sapeva che altre persone gli avrebbero replicato… Devo dire che, dopo la prima guerra (sotto il governo di Kabila), non abbiamo avuto grossi problemi con lo stato».
«Tuttavia 200 soldati di Kabila hanno disturbato l’emittente!».
«E noi abbiamo denunciato il fatto, rischiando la galera e la chiusura della radio. Dicevamo a tutti: “Se ci succede qualcosa, tutte le radio del mondo lo sapranno. State attenti!”. Ci è andata bene».
Radio Nepoko è ascoltata anche da militari. Chi vi si sintonizza coglie trasmissioni ad hoc sui diritti umani, sulle torture, oltre che sull’evangelizzazione, attraverso piccole drammatizzazioni con musiche congolesi. «Per fare questo, abbiamo dovuto conoscere la vita militare: siamo andati in caserma a parlare con il comandante. E, siccome costui era orgoglioso e gli piaceva sentirsi alla radio, ha accettato di rispondere alle nostre domande. C’è stato una conseguenza interessante: la rimozione di un graduato, che censurava quanto i soldati dicevano alla radio».
Ebbene: i militari congolesi parlano alla radio, il sabato pomeriggio, con messaggi e petizioni. Forse se ne sono persino un po’ innamorati, se è vero che l’hanno difesa dal saccheggio dei soldati rwandesi all’inizio della seconda guerra.

N el corso del 1998 un fulmine si è schiantato sull’antenna di Radio Nepoko e l’ha zittita… proprio quando stava per potenziarsi ulteriormente. La nuova strumentazione era già arrivata dall’Italia nella capitale Kinshasa. E là è rimasta, perché imperversava la seconda guerra e i soldati del Rwanda avevano occupato Wamba.
Chissà! Forse (una volta tanto!) non tutto il male è venuto per nuocere, almeno per quanto riguarda la radio. Sì, perché i soldati rwandesi se la sono subito presa… mollando poi la «preda malata». Se la radio fosse «sana», in mano a militari stranieri oggi non sarebbe più libera!
Quando i congolesi riascolteranno il familiare e libero «buon giorno» di Radio Nepoko?

L’articolista ha incontrato padre Alonso J. Alvarez e il signor Joseph Mandi prima dell’uccisione di Laurent D. Kabila, avvenuta il 16 gennaio scorso.

Francesco Beardi




CONGO – L’amore grande di Anghele

Entusiasta e irruente come sempre,
padre Antonello è ritornato a Neisu,
la missione dove aveva lavorato 15 anni fa,
per rimettersi al servizio di un paese
spaccato in due e sommerso da problemi infiniti.
Annunciando l’amore di un Dio («Anghele»)
che ci salva con la croce
e vuole una vita migliore per tutti.

Dopo 15 anni, sono tornato in Congo con un sentimento di grande gioia, anche se offuscata dal fatto che non avrei più incontrato padre Oscar (vedi inserto), con il quale avevamo iniziato la missione di Neisu in piena foresta…
Ricominciare non è stato facile.

UNA povertà…
troppo visibile

Avevo lasciato lo Zaire. Mi ritrovo nel Congo (repubblica democratica), in una zona staccata dal resto del paese e occupata dai soldati dell’Uganda. Vigono ancora le vecchie cariche politiche, ma mancano i fondi. L’Uganda, occupando queste terre, porta via diamanti, oro, legname, senza investire. Ne consegue che l’intera classe politica (dai governatori ai commissari zonali), polizia, insegnanti, infermieri… non sono pagati. Gli unici che hanno qualcosa sono i missionari e pochi commercianti.
Chi ne patisce le conseguenze è, naturalmente, il popolo, oppresso da multe fantomatiche, requisizioni arbitrarie, imprigionamenti senza processo. Per esempio: un lavoratore della missione di Neisu è stato imprigionato per un litigio in famiglia; oltre un mese di assenza, senza processo, perché nel frattempo doveva lavorare… per il capo!
Avevo lasciato uno Zaire che, comunque, tirava avanti, e ho ritrovato una repubblica solo di nome e allo sfascio.
Nella nostra brousse (60 mila abitanti), 15 anni fa, esistevano una ventina di piantagioni di caffè, due fabbriche per l’olio e una per il cotone. Chi gestiva le piantagioni si preoccupava poco della gente, però assicurava l’assistenza medica agli operai e un salario: non molto alto, ma garantiva un minimo di liquidità per acquistare un vestito, pagare le tasse scolastiche ai figli, curarsi in caso di malattia, ecc.
Dopo la stagione del caffè, venivano le arachidi e, in dicembre, il riso. L’economia funzionava, perché si commercializzavano i prodotti. Alludo, per esempio, alla produzione di riso, a Isiro: i contadini non solo ne avevano per il loro fabbisogno, ma potevano venderlo alla brasserie (fabbrica di birra). E la gente aveva qualche soldo.
Ora, di quelle 20 piantagioni non ne esiste più una. Abbiamo una cappella, che si chiama Noula Huilerie; ma bisognerà cambiarle il nome, perché dell’oleificio esistono solo i muri, giacché hanno rubato anche le lastre zincate.
Funzionava pure la ferrovia: molti sacchi di cemento, per la costruzione del nostro ospedale, sono arrivati in treno. Oggi è solo un triste ricordo.
Ho trovato una povertà estrema, e stento a capirla.
Un giorno scaricavamo la macchina con delle mercanzie. C’era un ragazzo a torso nudo (è raro qui vedere, pur nella povertà, gente che viaggia senza camicia, a meno che siano bambini). L’ho rimproverato. Lui mi ha detto: «Padre, io ho una sola camicia e la uso per la scuola; l’ho lavata e sta asciugando al sole!».
Alla missione non mancano i bambini. Ciò che più mi impressiona è che non cercano più soldi, ma lavoro: tutti ragazzini delle elementari alla ricerca di un po’ di denaro per pagare la scuola. Uno mi ha detto: «Sono stato cacciato, perché non ho pagato la tassa scolastica».
– Chiama papà o mamma e digli che il padre vuole conoscerli per sapere come stanno le cose!
– Papà e mamma sono morti di aids…
Il catechista di un villaggio ha nove figli, quattro suoi e cinque del fratello morto, e li mantiene tutti. Nonostante la pena, i bambini sono accolti da altre famiglie… solo che la situazione diventa sempre più drammatica. Allora i bambini disertano la scuola. Non è colpa loro, come non lo è dei genitori, che stentano a sopravvivere. Le mamme non ce la fanno più. Mancando in casa di un salario, devono arrangiarsi, magari inseguendo i mercatini per racimolare due soldi.
Eppoi basta che ci sia un lutto in casa e tutti i risparmi se ne vanno: perché si deve ospitare le famiglie che arrivano, comprare un lenzuolo per avvolgere il cadavere, costruire la bara per non far torto al morto… Ho ricevuto, da una signora non vedente della Brianza, un pacco di lenzuola, ma stanno andando tutte per i morti, perché bisogna rispettare le tradizioni.
Quando sono arrivato nel dicembre 1999, un dollaro veniva cambiato a 900 mila nouveaux zaires. Oggi ne occorrono 7 milioni! Invitare al risparmio è assurdo, perché non esistono banche.
Facciamo un’opera educativa, per coinvolgere la gente nella gestione delle scuole e dell’ospedale. Infatti la scuola funziona, perché i genitori degli allievi pagano gli insegnanti; pagano pure l’ospedale. Interviene anche la missione per i casi pietosi.
Però mi chiedo di che cosa la gente deve ancora farsi carico, quando è abbandonata dallo stato e abita in un paese ricchissimo senza godee assolutamente nulla.

L’ultimo stregone

Sotto l’aspetto religioso, mi ha favorevolmente impressionato la crescita del clero locale. Anche noi, a Neisu, lavoriamo con un missionario della Consolata congolese: un segno che i tempi stanno cambiando.
Un’altra novità: un tempo si battezzavano quasi tutti adulti; ora il catecumenato è seguito in maggioranza da bambini. L’evangelizzazione di massa è stata fatta; oggi si tratta di approfondire la fede, che in molti è abbastanza marcata.
Un grosso aiuto ci viene dal movimento carismatico, soprattutto a livello familiare: fare ordine nelle famiglie dei poligami e in quelle che hanno difficoltà per la dote matrimoniale. Ci è venuta un’idea: scrivere una lettera (con i protestanti) e proporre ai parenti di chi è sposato già da sette anni di «condonare» la dote, anche se non è stata pagata tutta, e permettere ai figli-nipoti di celebrare il matrimonio religioso.
L’anno santo è stato un forte momento di evangelizzazione. Convinti che il cuore del vangelo è la croce di Gesù Cristo, abbiamo visitato tutte le cappelle, portando il grande crocifisso della chiesa parrocchiale. Abbiamo annunciato in kimgbetu che il compendio della bibbia è la morte di Cristo e che Anghele (Dio) ci ha amati fino alla fine.
L’amore di Dio sono in tanti a conoscerlo, ma un Dio che ci ami fino a morire… Non è buono solo perché ci dà i frutti della foresta o i figli, o perché ci fa felici qualche giorno e poi ci castiga quando le cose vanno male. No, Dio è sempre buono perché è morto per noi!
E non mancano «le conversioni». Un giorno padre Richard è tornato dalla brousse con lo strumento di divinazione di uno stregone. Ha voluto convertirsi al vangelo e, per questo, ha rinunciato ai suoi «strumenti di lavoro», causando dei problemi al capovillaggio, che diceva: «Se costui si fa cristiano, non so più dove mandare la gente a risolvere i problemi, perché è l’ultimo stregone».
Era… potente, perché con la sua soroka (pietra magica) riusciva perfino a mandare i fulmini su chi voleva! Un vecchietto furbo. Eppure si è convertito, non perché vicino alla morte, ma perché davanti alla croce di Gesù ha intuito quanto grande è l’amore del Padre per gli uomini, per lui. È stato un grande segno per tutta la popolazione.
Però la nostra gente non ha il senso dell’eucaristia. Questo ci richiede un grande impegno: la missione non arriva al suo fine se non giunge all’eucaristia. L’eucaristia è il crinale, è l’amore di un Dio che vuole vivere con noi nella storia. Oltre a dispensari e scuole, vorremmo allora costruire chiese in muratura, nei grossi centri, per celebrare e distribuire l’eucaristia la domenica: è attorno ad essa che si consolideranno le comunità cristiane, legate dalla stessa fede e impegnate a cambiare in meglio la realtà.
Puntiamo anche sulle comunità di base, come mezzo di inculturazione del vangelo: pensare ai problemi locali, ma dal punto di vista cristiano. Ad esempio, la morte.
Quando un mangbetu muore, arrivano parenti e amici. Allora sorgono i problemi, perché – dicono – la morte è stata causata da uno della famiglia (anche se il decesso è avvenuto all’ospedale). Con padre Oscar, avevo scritto un libretto, Nella sofferenza ti ho cercato, per evangelizzare il dolore e la morte: un piccolo tentativo per condurre la cultura locale (che di fronte alla sofferenza si ribella in modo violento) alla fede in Gesù salvatore e alla speranza cristiana.
Un messaggio che, se compreso, può allargare il cuore alla speranza e spingere a lottare, senza stancarsi, per costruire un paese e una comunità dove trionfi finalmente la vita.

Il «cuore» Nella missione del «cuore»
padre Oscar Goapper, missionario e medico

Missione di Neisu. Vi si arriva attraverso una via sterrata di 30 chilometri, tra le palme e i bambù della fitta foresta. Tempo, un’ora e mezza di Land Rover, se non piove.
Neisu, in lingua mangbetu, significa «cuore». Un cuore che oggi batte soprattutto nell’ospedale. È sorto in una notte di natale senza stelle, allorché i padri Antonello Rossi e Oscar Goapper si sono visti morire fra le braccia una bambina. «Che evangelizzatori siamo – si sono chiesti i due missionari – se non compiamo le opere del vangelo? Gesù curava gli ammalati. E noi? Quanti bambini moriranno stanotte di malaria! E domani, dopodomani?».
L’ospedale è stato, soprattutto, il capolavoro del genio di padre Oscar in un crescendo irresistibile: pediatria, chirurgia, medicina generale; sala operatoria, farmacia, gabinetto dentistico, laboratorio di analisi, raggi X, orto con piante medicinali locali per produrre, ad esempio, l’artimisia contro la malaria. A Neisu il dottor Oscar ha effettuato la prima ecografia di tutto l’Alto Zaire. Oggi vi si compie anche l’osmosi inversa, ossia la distillazione dell’acqua per ottenere un liquido epirogeno per le flebo.

I mprovvisamente, il 18 maggio 1999, il cuore-tornado di padre Oscar si è schiantato. Troppo lavoro, troppa fatica, troppa tensione in un paese maledetto dalle guerre. Al funerale, i suoi pazienti sono corsi a migliaia: vecchi, donne e bambini sbucavano da ogni spiraglio della foresta, dopo aver inseguito sentirneri anche di 50 chilometri. La scena si è ripetuta, 40 giorni dopo, per la tradizionale matanga (fine del lutto).
Secondo il costume dei mangbetu, padre Oscar è stato sepolto in casa, cioè nel cortile dell’ospedale. Così, di fronte a quella tomba, i nonni racconteranno ai nipoti la storia di mupe Oscari: (padre Oscar): un missionario della Consolata argentino che nel 1994, a 43 anni, si è pure laureato a pieni voti in chirurgia e medicina a Milano, dopo aver fatto la spola tra Africa ed Europa.

G iungiamo a Neisu una domenica, all’alba. E ci imbattiamo subito in… Oscar, «nel cuore della missione del cuore». Il cortile dell’ospedale è deserto. Sulla tomba del missionario si staglia una croce in ferro. Dopo alcuni istanti di preghiera, scorgiamo una decina di persone a pochi metri di distanza, in silenzio.
Un anziano ci invita a seguirlo, per introdurci in tutte le stanze dell’ospedale, zeppe di ammalati: ovunque campeggia il ritratto del grand docteur. Da ultimo, apre la porta di uno studio. «Padre Oscar è ancora qui – afferma -. Questo è il suo microscopio, come lui l’ha lasciato. Ecco perché l’attuale dottor Norbert, congolese, non ha voluto prendere posto in questo ufficio. Però, per fronteggiare le esigenze, sarebbe necessario almeno un altro medico. Le docteur Oscar lavorava per quattro».
Su una parete l’ennesima foto di padre Oscar Goapper, sorridente, che abbraccia un bambino.
Francesco Beardi

Antonello Rossi




KENYA – Uniti dalla croce

Per celebrare il grande giubileo, una pesante croce è stata portata
in processione attraverso le 22 parrocchie
della diocesi di Marsabit. Una iniziativa efficace per aiutare le comunità a crescere nell’impegno per la giustizia e pace
e promuovere
la riconciliazione
tra le varie popolazioni della diocesi.

A Baragoi fu deciso di portare la grande croce in tutte le cappelle della parrocchia. Per ogni tappa furono fissate alcune celebrazioni liturgiche comuni: via crucis o rosario; esortazione del diacono o della suora; sacramento della riconciliazione e celebrazione dell’eucaristia. Fu dato spazio anche ad altre manifestazioni religiose, secondo la creatività della comunità locale.
La prima cappella ad accogliere la croce, proveniente dalla parrocchia di Sererit, fu quella di Ngilai. C’era tutta la popolazione, maestri e alunni, bambini e adulti, guidati dal parroco, padre Giuseppe Da Fré, e vice-parroco, padre Giovanni Pronzalino. Era l’11 luglio 2000.
Lo scambio avvenne a un incrocio stradale, confine tra le due parrocchie. Padre Aldo Giuliani, parroco di Sererit, la consegnò solennemente dicendo: «Ecco la croce di Cristo! Prendetela: sono certo che vi farà del bene!». Consegna e accoglienza avvennero tra un tripudio di canti e danze delle due comunità.
Il giorno dopo, i cristiani di Ngilai passarono la croce a quelli di Bendera; questi, il mattino seguente, la consegnarono alla comunità di Marti. In ogni tappa i fedeli la onorarono con commoventi preghiere e danze giorniose.

A Marti, però, nutrivamo non poca apprensione. Il posto è tristemente famoso per una serie di scontri tra samburu e turkana che hanno lasciato profonde ferite nella popolazione. Fu, invece, un incontro sereno e tranquillo. Di fronte alla croce cantarono tutti di cuore la misericordia di Dio, meditarono attenti i misteri del rosario e, durante la messa, ascoltarono commossi la lettura della passione di Cristo.
Significativi furono i commenti della gente. «Ascoltare quanto Gesù ha sofferto per noi ci riempie il cuore di grande dolore» disse Peter Logilae. «Eppure, in un secondo tempo, eravamo pieni di gioia» incalzò Petro Echuka. «Le sofferenze di Cristo ci guariscono da odio e risentimento» concluse Augustine Nakio.
Da Marti la croce sarebbe dovuta andare a Nachola. All’ultimo momento gli organizzatori decisero di spendere un paio d’ore a Naturkan, una comunità appena nata nella valle di Suguta. «In questa zona – mi informò il catechista Andrea Dida – abbiamo circa 20 catecumeni e pochi cristiani provenienti da Marti, Kawop e Parkati».
Sembrava di essere fuori del tempo e in un altro mondo: sole caldissimo, pietre, spine dappertutto. Una visione impressionante. Dalla collinetta su cui si radunò la piccola comunità si vedevano in basso Ter-Ter, Nakupurat, Lochootom e, in lontananza, Lomaro e la valle di Suguta. Eravamo sulle pendici di quell’ampia e lunga spaccatura della terra chiamata Rift Valley.
Per raggiungere questa zona non esistono strade, eccetto una pista che la missione ha fatto tracciare, impiegando la gente del posto, compensandola col «cibo in cambio di lavoro». La popolazione vive col minimo necessario, che è sempre scarso. Abituato ad altre parti del Kenya, dove le comodità modee sono abbastanza diffuse, mi venne il dubbio che questo pezzo di terra non facesse parte della stessa nazione.
Mentre contemplavo tanta bellezza intatta e selvaggia, si avvicinò un bambino di circa sette anni, magrissimo, la pancia gonfia e ferite fresche e da poco medicate sulla testa e sulle braccia. Guardai con sorpresa padre Da Fré, che mi spiegò cosa era capitato: «Mentre stava mungendo una cammella per mettere qualcosa nello stomaco, fu battuto a colpi di panga (coltellaccio). Ora vive con il catechista. Sarà un nostro futuro seminarista!» concluse il padre accarezzando il bimbo.
Rimasi impressionato nel vedere la gente di quella zona così povera accogliere la croce con tanta gioia, che emanava dai volti sorridenti: sembrava non avere alcun problema.

D a Naturkan la croce proseguì per Nachola, come stabilito; il giorno seguente raggiunse Baragoi, sede parrocchiale.
Nel mese di maggio, questa comunità aveva programmato la celebrazione del proprio giubileo. Come momento culminante e a ricordo dell’evento, era stato deciso di piantare una croce, con la scritta «2000 anni di Redenzione», in cima alla collina di Logeterni, a circa 5 chilometri dal centro abitato. Ma i rischi contro la sicurezza delle persone, causati dalla tensione tra turkana e samburu, consigliarono di rimandare tutto a tempi migliori.
La peregrinazione della croce attraverso la diocesi e il suo arrivo a Baragoi offrirono l’occasione per concretizzare tale desiderio. Al suono della campana, tutti i cattolici e molti non-cattolici si radunarono nell’Huruma Village (villaggio della misericordia), la casa per anziani costruita dalla parrocchia.
Poiché la maggioranza della gente che vive vicino a questa casa è turkana, si temeva che potesse sorgere qualche problema con i samburu, poiché la tensione non era ancora del tutto smaltita. Ma non ci furono problemi: turkana e samburu si radunarono insieme pacificamente, consapevoli che Cristo è al di sopra di ogni differenza.
La croce preparata dalla parrocchia, portata a spalle da giovani, apriva la processione; seguiva lo stendardo parrocchiale, sostenuto da due donne: l’una turkana e l’altra samburu. I vari gruppi della comunità intercalarono canti, ognuno nella propria lingua. Mentre la fiumana di gente guadava il fiume Baragoi e il torrente che scende da Logeterni, pensavo al passaggio degli israeliti attraverso il Mar Rosso.
In cima alla collina la comunità di Logeterni aveva fatto un bel lavoro: strade pulite, altare addobbato, area circostante decorata con pietre bianche. Piantata la croce, fu celebrato il sacrificio eucaristico.
Al termine Thomas Lolkirik mi sussurrò: «Mi ha molto impressionato vedere quelle due madri, rivestite degli oamenti caratteristici delle rispettive etnie, portare lo stendardo in processione in perfetta armonia. Un fatto che ha commosso molta gente: ho visto persone versare qualche lacrima. Due donne semplici, che non hanno mai messo piede in un’aula scolastica, sono state una testimonianza di ciò che la fede cristiana può operare. Un bellissimo esempio per la comunità di Baragoi; uno stimolo per lavorare insieme, mettendo da parte le rivalità tribali che da troppo tempo provocano sanguinosi conflitti».
È pure la speranza di noi missionari: possa la celebrazione giubilare portare a tutti gli abitanti di Baragoi, cattolici e non cristiani, pace e unità, amore e fiducia reciproca!

Daniel Lorunguya




Un calcio al “resistol”

Le storie di Kelvin, Nelly, Carla, Jimmi, Juan Carlos si assomigliano tutte. Sono bambini cresciuti
sulle strade di Tegucigalpa, tra indifferenza e fastidio, vivendo di espedienti, spesso inalando
il «resistol», la terribile droga dei poveri. Poi la sorte li ha portati a «Casa Asti», un centro di amicizia, solidarietà, tenerezza e integrità, diretto da Susanna Arrighi,una psicologa astigiana.

Avevo percorso la calle Real con Susanna, ma quella era la prima volta in cui camminavo da sola per le strade di Tegucigalpa, la capitale dell’Honduras. In quel momento, la città mi parve racchiudere una realtà ancora più tragica.
Bambini addormentati sui marciapiedi sopra i cartoni (1), uomini e donne, con mutilazioni e deformazioni di ogni genere, seduti ai margini della strada a chiedere l’elemosina. E ancora: venditori ambulanti (soprattutto donne e bambini), che urlavano in cerca di clienti; bambini che inalavano resistol, la droga dei poveri (2), fermi davanti alle vetrine di locali nella speranza di poter rubare immagini di vita felice dalla televisione; macchine e pullman che correvano all’impazzata sulle strade, indifferenti a tutto e a tutti.
Mi soffermai a guardare un grande albero secco, situato sulla riva del fiume, sul quale si erano posati grossi rapaci neri (zopilotes) e mi chiesi in quale razza di posto fossi finita. Mi voltai e, per concludere lo scenario, lo sguardo cadde su rifiuti, detriti, macerie risalenti ancora all’uragano Mitch (1998) e bambini scalzi che frugavano nell’immondizia. Erano le 8 del mattino e la città era nel pieno della vita.

Ero triste pensando a quei bambini, ai loro diritti e all’impossibilità di farli valere. Presa da questi pensieri, improvvisamente mi sentii chiamare: «Profesora, profesora».
Era Kelvin, un niño de la calle, che frequentava saltuariamente «Casa Asti».
– Hola! – gli dissi -. Vieni con me al centro?
– No – rispose secco.
Conoscevo bene la motivazione. Il suo capogruppo apparteneva alla squadra che abitava sotto il ponte e gli aveva detto di non andare a «Casa Asti», in quanto avrebbe dovuto guadagnare qualche lempira (la moneta locale) per comprare il resistol.
Io allora dissi a Kelvin che mi sarei fermata un po’ a fargli compagnia. Che gioia provai quando vidi i suoi occhi illuminarsi. Stetti con lui cercando di farmi capire (era solo una settimana che stavo in Honduras e a mala pena conoscevo lo spagnolo). Gli mostrai alcune cartoline dell’Italia, raccontando come si vive nel nostro paese. Dopo un’ora, ci salutammo con la promessa che sarebbe venuto a «Casa Asti».
Ero felice. Tutti i pensieri tristi dell’inizio-mattinata erano spariti. Ancora oggi, pensando a Kelvin, ho impresso il sorriso di quel giorno. Kelvin incominciò a frequentare regolarmente il centro. Diceva agli altri niños: «L’ho promesso alla profesora».
Con il tempo incominciò ad aprirsi, a dialogare raccontando di sé e della sua famiglia. Adorava disegnare, ma preferiva farlo da solo, in una stanza tutta per lui. Era uno dei pochi momenti in cui poteva avere un luogo «suo».
Si prendeva un peluche sulle gambe e dava libero sfogo alle emozioni: disegnava sempre una casa e un albero (è facile intuire quale forte desiderio comunicavano queste raffigurazioni). All’inizio, nei suoi disegni, il cielo era coperto da nuvole e pioveva; poi incominciò a spuntare il sole e, infine, quest’ultimo brillava alto nel cielo.
Un giorno mi venne vicino e felice mi disse: «Emanuela, sono tornato a casa!».
Andai a trovarlo. Viveva in una guarderia, una grande baracca fatta di tavole di legno e lamiera nella quale si ricavano quartos (stanze). Ho ancora presente l’odore di quei locali. Sono un po’ come le cantine dei nostri alloggi. Eppure Kelvin era orgoglioso della sua stanza.
Mi presentò la sua famiglia: la mamma, le sorelle, la zia. Raccontò loro che era mio amico e che io abitavo in un paese lontano (dovevo prendere ben tre aerei!).

Kelvin è uno dei tanti niños de la calle che ho conosciuto: ma ci sono anche Freddy, Nelly, Carla, Jimmi, Juan Carlos e tanti altri. Tutti hanno in comune il forte desiderio di trovare qualcuno che gli dia un po’ d’amore e affetto.
E tutto questo è ciò che Susanna Arrighi, una mia concittadina, sta cercando di fare con il progetto che, da più di un anno, è nato in Honduras.
Il progetto si chiama «Casa Asti» perché Susanna è un’astigiana. Ma «Asti» è anche un acronimo: a come amistad (amicizia), s come solidaried (solidarietà), t come tenuria (tenerezza) e i come integridad (integrità).
Il lavoro si rivolge ai «niños de la calle» (con l’ambizione di estendersi anche alle famiglie che si sono trovate a dover vivere per strada, dopo il disastro provocato dall’uragano Mitch e le false promesse di aiuto da parte del governo). Moltissimi bambini vivono, dormono, vagabondano, rubano, chiedono l’elemosina… Tutta la loro vita si svolge sulle strade della città, tra l’indifferenza generale.
Sono come un fenomeno di costume, fanno parte del paesaggio, nessuno si ferma a parlare con loro, la gente li evita, ha paura e ribrezzo. Eppure sono bambini!
Non aspettano che una parola buona, che qualcuno li consideri, li veda, dia loro un po’ di attenzione. E Susanna cerca di dare tutto ciò. «Casa Asti» è un rifugio dove poter vivere una giornata da bambini normali. Possono giocare, dormire, studiare, guardare un po’ di televisione, fare – perché no? – anche i capricci.

I niños de la calle vengono avvicinati per le strade. Si offre loro qualcosa da mangiare, vengono medicate le ferite, spiegato brevemente cos’è «Casa Asti», dove si trova, come arrivarci.
Se decidono di conoscerla subito, li si accompagna, in bus o camminando, approfittando del momento per conoscersi un po’ di più. Una volta giunti, li si presenta agli altri, li si invita a lavarsi e cambiare la roba che indossano. Viene offerta loro la colazione e vengono integrati alle varie attività che si sviluppano nel progetto, rispettando tempi, gusti, preferenze di ciascuno. Possono leggere, scrivere, disegnare, giocare, guardare la televisione, fare lavoretti di manualità, dormire, imparare a lavorare il vimini, discutere in gruppo, avere un supporto terapeutico; essi stessi possono suggerire argomenti ed attività agli educatori. Quando le loro condizioni fisiche lo richiedono, vengono accompagnati alle visite mediche, generiche o specialistiche (del cui costo si fa carico «Casa Asti»).
Non esistono regole rigide, a parte il rispetto reciproco e gli orari dei pasti, nonché la condivisione dei compiti (come aiutare nelle faccende domestiche: scopare, lavare i pavimenti, spolverare, ecc.). I niños possono venire all’ora che vogliono ed andare via all’ora che vogliono, o fermarsi tutto il tempo.

Il progetto si rivolge anche alle famiglie aiutandole in interventi di natura burocratica (fare i documenti, iscrivere i bambini a scuola, ecc.), medica (visite, vaccinazioni, medicinali, ecc.), socio-assistenziale (ricerca di un lavoro o di un impiego migliore e meglio retribuito, o di una casa più dignitosa, acquisto di mobilio di base, ricerca di un hogar dove eventualmente ospitare i bambini, ecc.), legale (denunce per maltrattamenti, violenza domestica e familiare, dichiarazioni di stato di abbandono o negligenza, ecc.), psicologica (supporto terapeutico, gruppi di auto-aiuto, ecc.), religiosa (battesimi, cresime, matrimoni, ecc.).
Tutti questi interventi richiedono molto tempo per la loro esecuzione, sia per la cultura imperante (un machismo esasperato, una autostima femminile bassissima) sia per il livello di ignoranza di molte famiglie. Senza dimenticare la grande diffidenza verso gli estranei e i problemi burocratici e legali, per lo scarso appoggio da parte degli enti governativi. C’è, infine, l’esiguità dei mezzi economici di cui «Casa Asti» dispone.

Il cammino è ancora lungo, la sfida è grande, le difficoltà sono tante. I problemi, a volte, paiono insuperabili, ma la consapevolezza di fare qualcosa, per poco che sia, per qualcuno di questi bambini, costituisce lo stimolo più forte per andare avanti.
Il sorriso dei bambini che, dopo mesi di vita di strada, hanno trovato la forza di lasciare il ponte sotto il quale vivevano e soprattutto il barattolo di resistol, è una ricompensa che ripaga le sofferenze e le fatiche di un progetto così grande.

NON MANCAVA CHE L’URAGANO

L’Honduras è una delle sei repubbliche che costituiscono l’istmo che lega America settentrionale ed America meridionale. Zona equatoriale dunque, tra i due oceani, l’Atlantico e il Pacifico.
Come superficie è un terzo dell’Italia, con una popolazione stimata di 6 milioni di persone. La parte nord, quella sull’oceano Atlantico, è la più sviluppata. Nelle pianure intee ci sono le grandi coltivazioni di banane, caffè, mais, tabacco, ananas. Il suolo, ove non presenta rocce o colline brulle e di non facile accesso, è generoso dal punto di vista agricolo. I raccolti dipendono molto dalle condizioni atmosferiche. Si sono alternati negli anni periodi di siccità forti e prolungati a periodi di allagamenti ed inondazioni. L’ultima, forse la più catastrofica, si abbattè con la violenza dell’uragano «Mitch» (fine ottobre 1998). Tutto il paese fu toccato brutalmente dalle forze della natura coalizzatesi nei turbini prodotti da venti ed acque fluviali terrificanti.
Il 51% degli honduregni è costituito da bambini e adolescenti. La popolazione dell’Honduras è dunque molto giovane. Il 46% dimora nelle aree urbane (la capitale Tegucigalpa conta circa un milione di abitanti) ed il restante 54% in zone rurali. Le famiglie in situazione di povertà sono ben il 76%, delle quali il 45% in condizioni di autentica miseria. Considerando la sola popolazione dei minori di anni 18, ben il 61% vive in stato di povertà estrema. E, come avviene in tutti i paesi in via di sviluppo, l’incremento demografico è dell’ordine del 3% annuo.
Secondo l’«Organizzazione degli stati americani» (Osa), tra tutti i paesi del continente per qualità e durata della vita l’Honduras è penultima, precedendo la sola Haiti.
Per ciò che riguarda la sanità, le condizioni sono ritenute «inadeguate» in termini di abitazioni, controllo igienico della persona e degli alimenti, acqua potabile, strutture ospedaliere ed ambulatoriali, fognature e raccolta di rifiuti.

Se vogliamo dare uno sguardo alle problematiche infantili, ne ricaviamo un quadro disastrato. Si stima che migliaia di ragazze, tra i 14 e i 17 anni, siano madri (madres solteras): esse, per le condizioni in cui vivono, sono esposte ad aborti o a procreare figli che nascono sotto peso. Abbandonate dalle famiglie d’origine, a loro volta queste ragazze, con una certa frequenza, abbandonano i figli.
Quanto all’educazione scolastica, 7 bimbi su 10 non ricevono attenzione prescolare, soltanto 3 su 10 terminano le elementari (durano 6 anni), il 24% dei bimbi in età dai 6 ai 13 anni non frequentano nulla. L’analfabetismo si aggira attorno al 45-50%.
E questo a confermare l’ennesimo fallimento dell’Onu. La «Convenzione sui diritti del bambino» era stata votata all’umanità dall’assemblea generale delle Nazioni Unite alla fine del 1989. Dopo 10 anni, la situazione è notevolmente peggiorata. In Honduras e in tutti i paesi del cosiddetto «Terzo mondo».

Nel 1990 quando conobbi Emanuela, essa frequentava le scuole superiori ad Asti. Con altri compagni di classe, si era impegnata nel finanziare un’adozione a distanza in Honduras, dove io nacqui nel 1922. Nello stesso anno (1990) ero ritornato a Tegucigalpa, la capitale, per occuparmi di bambini, i niños de la calle.
Così Emanuela incominciò ad accostarsi a quel paese. Sono trascorsi 10 anni ed Emanuela, come raccontato nell’articolo, ha trascorso le ferie a «Casa Asti». Durante queste vacanze ha anche visitato l’Hogar don Bosco, nato nel 1990 per iniziativa di un missionario salesiano, padre Ottavio Sabbatin, e sviluppato fino ad ospitare 50 bambini interni ed altrettanti estei nell’asilo nido (guarderia). Oggi è gestito da una associazione honduregna presieduta da un missionario salesiano spagnolo, padre Edoardo Martin, e ha l’appoggio economico di un nutrito gruppo di benefattori veneti. Per fortuna, l’uragano Mitch ne ha risparmiato le strutture.

(*) A «Casa Asti» è volontaria la figlia di Edoardo Arrighi, Susanna, psicologa. Per informazioni contattare l’autore al numero telefonico 0141.215051.

Emanuela Musso




ISOLE COOJ – Fra i marosi dell’oceano blu

«Reportage» dal remoto sud dell’Oceano Pacifico,
tra palmi di terra corallina e vulcanica,
dove le persone si contano sulle dita.
Sfidano le onde, ieri come oggi.
Cantano e danzano in una natura da favola.
Ma occhio al ciclone!

QUEI CATTOLICI…EXTRA LARGE
Manca ancora mezzora all’inizio della messa, e la chiesa è già gremita. Tutti i banchi sono pieni; ne sono stati disposti altri, per l’occasione, sul prato antistante la chiesa, anch’essi tutti occupati. Solo i fedeli ritardatari rimangono in piedi, dietro gli ultimi che hanno trovato posto. La celebrazione è, dunque, affollata e seguita con attenzione da tutti.
Siamo a Rarotonga, l’isola principale dell’arcipelago di Cook, nel remoto sud dell’Oceano Pacifico.
Padre Kevin, neozelandese, celebra la liturgia alternando l’inglese e la lingua locale, uno degli idiomi polinesiani. È una lingua priva di aspirate, utilizza molto le vocali e ripete spesso le sillabe. Ciò fa sì che sia molto dolce e particolarmente adatta ai canti, che si susseguono numerosi. In chiesa i testi da cantare vengono proiettati su una parete bianca, mentre il coro è sostenuto da una tastiera modea, dotata di accompagnamenti.
Il ritrovo è anche un’occasione per osservare le caratteristiche della popolazione e i suoi costumi. Le persone, uomini e donne, sono generalmente di struttura fisica robusta e persino poderosa. In seguito constateremo che le taglie delle camicie e delle T-shirt sono di dimensione abbondantemente extra… extra large!
Le signore indossano i vestiti migliori. Ma la nota più caratteristica è il loro cappello, a falda abbastanza larga, realizzato in fibra di pandano e decorato con fiori, anch’essi di pandano. Fra le chiome delle ragazze spicca, spesso, un fiore vero.
I cattolici nelle Isole Cook rappresentano solo il 4% della popolazione, che per il 90% circa segue la Cook Islands Christian Church (Cicc), fondata dalla London Missionary Society. La Cicc è una comunità tendenzialmente anglicana con influenze di altre chiese protestanti. Il resto della gente appartiene a sètte e ai mormoni. I fedeli della Cicc, di domenica, vestono spesso in bianco, sia uomini che donne. Si tratta di una sorta di divisa, obbligatoria in certi eventi.
Un tratto comune delle varie denominazioni religiose è il canto corale di composizione locale. Si vendono pure CD con musica sacra, e non solo.

L’uomo meglio del maiale
Gli abitanti delle Isole Cook non superano le 20 mila unità, e altrettanti risiedono all’estero, principalmente in Nuova Zelanda. Vivono su un arcipelago formato da isolotti piccoli e piccolissimi, dispersi nell’Oceano Pacifico, ad enormi distanze fra loro, tra l’equatore e il tropico del capricorno: sono di origine vulcanica e corallina.
Rarotonga, l’isola più grande, ha un perimetro di circa 30 chilometri e conta 10 mila abitanti, mentre a Palmerston (tanto per fare un esempio) ne vivono 50 e 6 a Suwarrow.
Etnicamente la popolazione fa parte dei popoli polinesiani emigrati dalla Papua parecchi millenni a.C.: occuparono progressivamente le isole del Pacifico, fino alle Hawai e alla Nuova Zelanda. Allorché entrarono in contatto duraturo con gli europei, nel secolo XVIII, i rapporti furono amichevoli e ostili ad un tempo. Lo stesso capitano James Cook (da lui il nome delle isole) fu ucciso nel 1779 durante una zuffa con i locali che aveva già visitato.
Ebbene, i rapporti con i bianchi non furono sempre idilliaci. I missionari furono negativamente impressionati dal paganesimo imperante nell’arcipelago e da pratiche saltuarie di cannibalismo.
Un missionario dell’epoca, William Gill, trascorse la maggior parte della sua vita sulle Isole Cook e nel 1892 pubblicò un libro, descrivendo gli usi dei nativi. Illustrò parecchi riti, come quello del trattamento del corpo dei nemici uccisi. Il missionario raccolse da un indigeno (cannibale) l’affermazione che «la carne dell’uomo è assai migliore di quella del maiale». Però il cannibalismo veniva praticato sporadicamente con lo scopo di acquisire gli eventuali poteri del nemico, ma anche per infliggergli l’estremo oltraggio.
In ogni caso i missionari inglesi non seppero percepire la complessità delle regole dei rapporti sociali di quei popoli. Cercarono di sradicare completamente la loro cultura tradizionale. E quasi ci riuscirono.
Una significativa manifestazione socioculturale (tuttora viva) era rappresentata dalla danza, eseguita da uomini e donne. Le movenze sono diversificate, probabilmente più variate quelle maschili di quelle femminili. Le donne si destreggiano bene con gesti delle mani e con l’ondulare ritmico delle anche, spesso cinte da un serto di fiori. Forse, per questo, padre Gill scrisse: «Circa la moralità dei loro balli, meno se ne parla meglio è; la danza upaupa, introdotta da Tahiti, è proprio oscena».

Perché non adottare
una balena?
Oggi sulle Isole Cook la vita scorre tranquilla, ma non pigra, in un ambiente curato e ordinato. Una piacevole abitudine della gente di Rarotonga, che si incontra al mattino, è quella di scambiarsi non solo il buongiorno, ma anche di chiedere: «Come ti senti stamattina?». Oppure: «La notte passata è stata gradevole?». Questo succede anche incrociando, in bici, la signora sconosciuta che sta tagliando, al mattino presto, la siepe del suo giardino. La bicicletta è il mezzo migliore per visitare Rarotonga, date le sue modeste dimensioni.
Solo una volta siamo stati salutati secondo il costume tradizionale, che consiste nel pronunciare una frase di benvenuto piegando la testa all’indietro e innalzando le sopracciglia. Ma i costumi cambiano.
Un altro aspetto caratteristico di Rarotonga sono le tombe. Queste sono raccolte, generalmente in piccolo numero, in luoghi che sembrano abbandonati o in vicinanza di edifici religiosi. Ma se ne trovano anche nei campi o in un angolo del giardino di casa; in questo caso le tombe sono molto curate.
Un fenomeno inatteso (per il visitatore) è il continuo rombo del mare, generato dal fluire della risacca sulla superficie superiore della barriera corallina: rombo a cui si sovrappongono i tonfi cadenzati dei frangenti più vicini. Qui il padrone di tutto è moana, l’oceano.
La barriera corallina separa il mare aperto, immenso e possente, dalla laguna con acque calme e trasparenti. Però basta la presenza contemporanea dell’alta marea e di un soffio di vento per trovare, al mattino seguente, la strada litoranea attraversata da ampie strisce di sabbia: l’oceano scavalca facilmente il piccolo ostacolo rappresentato dalla barriera corallina.
Nell’inverno locale le tempeste si ripetono regolari; ogni 15-20 anni diventano veri e propri cicloni. In ogni dove si leggono le istruzioni da seguire in caso di cicloni. Il fenomeno viene osservato da molta distanza e le informazioni relative sono date con grande frequenza alla radio.
Quando il ciclone si avvicina ad un’isola, le istruzioni prevedono l’obbligo di stare chiusi in casa, dopo aver fatto passare sul tetto dell’abitazione alcune corde, da legarsi al tronco di alberi robusti più vicini. Il ciclone sull’arcipelago è un evento «normale», anche se catastrofico: può durare giorni. Le isole coralline, assai basse, vengono interamente spazzate dal mare con una forza smisurata.
Ma gli abitanti delle Isole Cook sanno «gestire» l’oceano con bravura. L’hanno imparato fin da bambini, anche attraverso le favole della nonna. La dimestichezza col mare è evidente in tante leggende. In una si racconta di un ragazzo che aveva adottato come animale domestico una balena!

un paradiso terrestre?
L’arcipelago Cook appartiene a quelle terre spesso sognate da chi abita in climi temperati, contraddistinti dall’alternarsi di stagioni diversificate. Ci sono spiagge bianche, con palme che si chinano fin sul bagnasciuga, lagune dalle acque limpide e gremite di pesci coloratissimi. Il mare è blu cupo.
La temperatura è stabile e, nella stagione secca, si aggira fra i 26/28 gradi. Il tempo però è estremamente variabile: il cielo terso del mattino può, ad un certo istante, offuscarsi di nuvole che d’un tratto coprono le isole. Ne possono scaturire brevi pioggerelle.
La flora ha la tipica esuberanza della natura tropicale con grande varietà di fiori, coltivati spesso anche nei giardini delle abitazioni.
Un paradiso terrestre? Non è detto. Ogni paese ha i suoi vantaggi e svantaggi. La serenità esiste. Ma è un fatto interiore.

Pier Giorgio Motta




CONGO – A scuola con una bottiglia d’olio

Non è più giovanissimo quando raggiunge
il malconcio Zaire di Mobutu.
Parla il francese così così, mentre ignora del tutto lo swahili. Ma il missionario
della Consolata è un marchigiano tenace.
Sul campo viene addirittura promosso vicevescovo,nonché cornordinatore di tutte le scuole
della diocesi di Wamba. E incomincia il «bello»
in un «bruttissimo» paese, che si dibatte fra due guerre: quella di Kabila nel 1996e quella contro il nuovo presidente subito dopo. Tuttora in corso,
dopo 2 milioni di morti.

passando davanti
all’ex carcere

– Padre Angelo, quando ci possiamo incontrare?
– Domani mattina in ufficio, alle otto.
È l’alba, mentre raggiungiamo a piedi l’episcopio di Wamba (nella repubblica democratica del Congo), dove padre Angelo Baruffi è vicario generale della diocesi. Passiamo di fronte alle ex prigioni in mattoni rossicci. Il primo sole investe i muri rendendoli quasi sanguigni.
All’ingresso di quel carcere, il 26 novembre 1964, fu massacrato dai simba di Mulele il vescovo belga Joseph Wittebols: il corpo, buttato in un torrente, non fu più ritrovato. Il giorno dopo furono trucidati altri sette missionari, anch’essi «perduti» per sempre. I simba non risparmiarono neppure i cattolici locali, fra cui suor Anwarite. Beatificata nel 1985, è patrona delle diocesi di Wamba e Isiro.
Nel 1964 il Congo era indipendente da soli quattro anni, però già si tingeva di sangue. Nel luglio del 1960, sotto il presidente Kasavubu e il capo di stato maggiore Mobutu, la nazione conobbe la secessione del Katanga, guidata da Ciombé, e il 18 gennaio 1961 l’assassinio del premier Lumumba. Poi sia la secessione del Katanga sia la ribellione dei simba (fra i quali militava Kabila, attuale presidente) fallirono.
Nel trentennio 1966-96 il paese fu ostaggio di Mobutu, che nel 1971 gli cambiò anche il nome: da Congo a Zaire. Ritoò ad essere Congo nel 1997, allorché le truppe di Kabila, sostenute da Rwanda, Burundi e Uganda, cacciarono il dittatore.
I guai però non erano finiti, perché nell’agosto del 1998 il Congo si rituffò nel sangue: l’esercito di Kabila, con Zimbabwe, Angola e Namibia a fianco, contro gli alleati di ieri: Uganda, Rwanda, Burundi e gruppi di ribelli congolesi. Poi gli ugandesi e i rwandesi hanno incominciato persino a prendersi a cannonate fra loro: a Kisangani, per esempio, al fine di depredare il ricco paese senza spartire il bottino con nessuno. È quanto fanno anche gli alleati di Kabila.
È sempre stato così in Congo, fin dal 1885, quando il paese divenne proprietà personale di re Leopoldo del Belgio.
un funzionario in uno stato colabrodo
«Non ti spaventare del disordine!» esclama padre Angelo allorché, un po’ guardinghi, varchiamo la porta del suo ufficio.
Sul pavimento in cemento giacciono zappe, scope, barattoli di colore, scatoloni di medicine, un set di strumenti meccanici, una motosega a diesel, un trapano elettrico. Un ufficio anomalo per un vicevescovo.
Ma Angelo Baruffi è un missionario che non rifiuta di rimboccarsi le maniche. Tuttavia, in ufficio, indossa la camicia di prete… e un berretto quadrangolare, intessuto di fibre multicolori e infiocchettato di piume. È il tradizionale copricapo dei wabudu, l’etnia della zona, dove ufficialmente si parla swahili e francese.
La nostra attenzione cade su un mucchio di cartelle. Ne prendiamo in mano una. «Quella cartella – afferma il missionario – contiene l’ultimo programma scolastico governativo. Che fatica ad averlo!».
– E che te ne fai?
– Beh… io sono un funzionario dello stato in tema di istruzione.
– Ma se lo stato è un colabrodo!
– Però non mancano i bambini che vogliono andare a scuola…
In Congo esistono «tre scuole», ma con gli stessi programmi, riconosciute dallo stato e da esso sovvenzionate (oggi solo sulla carta!):
– «scuole ufficiali», gestite direttamente dal governo;
– «scuole private», in mano a singoli individui;
– «scuole convenzionate», affidate ad enti religiosi.
«Io sono cornordinatore delle scuole cattoliche primarie e secondarie della diocesi di Wamba – dichiara padre Baruffi -. Questo servizio mi è stato sollecitato dal vescovo nel 1991: un servizio che non ho certamente chiesto io, straniero, giunto in Congo a 43 anni suonati con una modesta conoscenza del francese, mentre dello swahili ero completamente digiuno. Ma, quale missionario della Consolata che deve avere a cuore i problemi del popolo, potevo forse rifiutare l’invito del vescovo?».
– Qual è stato il tuo primo impatto con il problema-scuola?
– Preoccupante, come minimo. Nel 1991, su 138 mila possibili allievi, quelli che frequentavano la scuola erano 22 mila, di cui solo 9 mila ragazze.
DI FRONTE ALLO SCIOPERO
Se nel 1991 la situazione scolastica era preoccupante, il peggio però doveva ancora venire. Fu nel 1992-93 che si toccò quasi il fondo, allorché lo stato non pagava più gli insegnanti. I genitori, pur di mandare i figli a scuola, si tassarono per rimunerare i maestri con 19 mila lire al mese. Una miseria. Ma per i wabudu era un salasso, mentre il corrotto Mobutu spendeva e spandeva.
Nel giugno del 1993, dopo aver terminato l’anno scolastico con difficoltà, gli insegnanti dichiararono sciopero contro il governo che non pagava i salari. Vescovo, sacerdoti e capifamiglia erano solidali.
Passarono luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre… E lo stato era sempre assente.
«Io – commenta padre Angelo – non visitavo più le scuole in qualità di cornordinatore, perché non c’era alcunché da cornordinare. Un giorno, per strada, alcuni ragazzini mi hanno chiesto: “Padre, quando ci riporti a scuola?”. La stessa domanda mi è stata posta da altri bambini. Sono entrato in crisi. Ma che fare?».
Già, che cosa poteva fare un missionario… straniero?
«Ho chiesto al vescovo – riprende padre Angelo – di scrivere una lettera per natale da leggersi in tutte le comunità. Così è stato. Nella lettera raccontavo una storia, parafrasando il profeta Ezechiele (16, 6-14): è nato un bambino, ma viene gettato in strada, perché rifiutato; però qualcuno lo raccoglie, lo nutre e diventa bello… “Allora, fratelli, che facciamo dei nostri figli? Li lasciamo marcire sulla strada? Essi sono l’unica ricchezza rimastaci in questo stato ladro. Aiutarli significa salvare la speranza. Se volete, io riapro le scuole, ma con voi”».
Da gennaio 1994 i ragazzi sono ritornati in classe.
In loco si produce olio di palma: viene anche commercializzato. Serve pure a pagare gli insegnanti: circa mezzo litro al mese per allievo.
ANCHE I PIGMEI A SCUOLA
Nella diocesi di Wamba prevalgono i wabudu, ma si contano pure circa 30 mila bambuti (pigmei). Si tratta di popoli molto diversi, a prescindere dall’altezza (i pigmei sono più bassi: gli uomini raggiungono mediamente 145 centimetri e le donne 132). Ma la vera diversità è culturale: i wabudu sono bantu, a differenza dei pigmei che non sono classificabili. I bambuti sono molto più antichi delle etnie bantu. Ne parla il greco Omero nell’Iliade e, soprattutto, il faraone d’Egitto Neferkara (nel 2500 a. C. circa).
Le differenze sono vistose anche nella vita socioeconomica. I wabudu, agricoltori, lavorano specialmente nella stagione delle piogge; i pigmei, cacciatori e raccoglitori nella foresta, operano in quella asciutta.
L’insegnamento scolastico, per i pigmei, deve tenere conto della loro diversità. È assurdo programmare la scuola durante il tempo della caccia, cioè del lavoro.
Nel 1994 padre Angelo Baruffi ottenne dal governo centrale un trattamento scolastico speciale per i pigmei: speciale per programma e calendario delle lezioni. Fu un’impresa ardua, come racconta il missionario: «Quando ho accennato ai pigmei, i responsabili dell’istruzione pubblica mi hanno riso in faccia, segno di non curanza e razzismo».
Oggi a Wamba, su un totale di 7.500 ragazzi pigmei da alfabetizzare, 3.000 frequentano la scuola, di cui 1.300 ragazze. Sono distribuiti in 114 classi con 122 insegnanti.
Vi sono scuole con soli pigmei e altre miste. Ma i wabudu devono essere in minoranza, perché c’è sempre il rischio che il più forte (bantu) schiacci il più debole (bambuti).
L’accettazione dei pigmei, senza livellamenti culturali, è fondamentale, ma non facile. Al riguardo, la chiesa ha parecchio da dire. E, soprattutto, da testimoniare.
nel cuore della guerra
Nel 1991 gli studenti della diocesi di Wamba erano 22 mila. Al presente sono 44 mila. Un raddoppio miracoloso: perché, se nove anni fa lo stato era un misero «focherello», oggi è «cenere». Nel 2000 «Congo» è sinonimo di anarchia e guerra, che coinvolge eserciti di varie nazioni dal 1996. Senza dimenticare che a Wamba le «scuole convenzionate» con lo stato sono 85, ma padre Baruffi ne cornordina 247.
– Padre Angelo, i ragazzi come vanno a scuola in un clima di guerra?
– Con paura. Ma ci vanno, e l’anno inizia e termina regolarmente.
– Come cornordini l’insegnamento?
– Come posso. Al sopraggiungere di bande armate, tutti scappano in foresta. Ma, se le scuole sono aperte, si va anche al lavoro, si produce… La scuola è più che una speranza.
– Paghi i maestri sempre con una bottiglia di olio di palma?
– Anche con denaro. Però non supero le 10 mila lire mensili.
– Com’è la situazione altrove?
– Dipende. Nel Kivu, dove la gente sta meglio, gli insegnanti ricevono anche 70 mila lire al mese. Da noi ciò è impossibile.
– Comunque tu garantisci almeno 10 mila lire al mese.
– Non sempre. Dove troverei i soldi per 1.500 maestri?
– Vi sono allora insegnanti che prestano servizio gratis!
– Certamente.
Non è di poco conto in un paese stremato. Dietro il volontariato degli insegnanti, c’è sempre lo stimolo di padre Angelo: «Se non lo fate voi, nessun altro lo fa. I ragazzi, cui consentite di studiare, sono i vostri figli, i vostri fratelli!…». La diocesi, però, fornisce libri, quadei e tutto il materiale didattico, grazie alla solidarietà della chiesa italiana.
Non mancano le rotture fra i genitori degli studenti e i professori: sempre per ragioni economiche. In tali frangenti il missionario ricuce gli strappi. È un mediatore autorevole perché, pur essendo un funzionario dello stato ad alto livello, non percepisce una lira. Inoltre tutti sanno che «il padre» non si risparmia, rischiando anche la vita.
N el 1996, quando Kabila iniziò la conquista del Congo e i soldati di Mobutu battevano in ritirata saccheggiando le parrocchie, i missionari furono costretti ad andarsene. Lasciarono il campo anche i vescovi di Wamba, Dungu-Doruma, Isiro e di altre diocesi. Padre Angelo no. Ricercato dai soldati, si dava alla macchia. Ma era là. Con la gente, i «suoi» ragazzi.

«SUONATE QUELLA CAMPANA PER DIO!»

In Congo gli eserciti si stanno combattendo da quattro anni. Quattro anni (destinati ad aumentare, purtroppo), che non potrò mai scordare. L’anno che, finora, mi ha maggiormente «segnato» è stato il 1997, durante il quale ho trascorso mesi interminabili da fuggiasco. A parte le distruzioni, il sangue, la morte.
Restando sul «campo di battaglia», ho capito che cosa significhi vivere da solo con la gente. All’inizio, quando si sentiva la mia auto, tutti scappavano, perché pensavano che fossero arrivati i soldati per razziare; poi, riconoscendo il mio braccio bianco dal finestrino o il mio vecchio cappello kibudu, gridavano di contentezza.
In Congo, prima dell’attuale conflitto bellico, ho giornito della spontanea vivacità della gente: le sonore risate degli uomini, i trilli acuti delle donne, i giochi dei bambini, i canti e balli al ritmo di tamburi o al battito di mani… Ma, con la guerra, impera il silenzio anche in pieno giorno. Un silenzio che impressiona quanto il crepitio delle pallottole.
Allora nel 1997, passando di villaggio in villaggio, se c’era una campana o un cerchione d’auto (appeso ad un albero) che funge da gong, quasi gridavo: «Suonate quella campana, perdio! Battete quel gong! Rompete il silenzio!…». Il silenzio in guerra è allucinante. L’ho vissuto anche con padre Edward Olali, missionario della Consolata kenyano: io «silenzioso» da una parte e lui da un’altra.
In tale contesto ho toccato con mano quanto il prete sia un punto di riferimento per la popolazione. In guerra le differenze svaniscono, anche quelle tra bianco e nero. Tutti diventano uguali, perché tutti hanno paura allo stesso modo. Però se il prete è «là», la gente (non solo cattolica) appare più tranquilla. È per questo che, come responsabile della diocesi di Wamba, in assenza del vescovo, raccomandavo a tutti i sacerdoti di celebrare la messa, di suonare ogni giorno le campane. Al mattino, se si udiva il loro suono, si andava in chiesa, e chi vedeva le persone uscire di casa ritrovava la voglia di lavorare.
Anche i sacerdoti, in tempo di guerra, hanno bisogno di un riferimento. Io mi trovavo in un’area che comprende cinque diocesi, senza un vescovo. Erano rimasti solo i preti africani; ma erano «pecore senza pastore». Tutti giovani, ed io con i capelli bianchi. Sono diventato il loro «pastore». Ecco perché non ho voluto lasciare il Congo.
Sono passato di missione in missione (anche per fuggire dai soldati che mi cercavano) e vi trascorrevo 15-20 giorni. Dalle parrocchie poi, grazie alla radiofonia, tenevo i contatti con tutti. Mai, come in quei momenti, mi sono sentito missionario della «Consolata», pur essendo un fuscello in balia dell’uragano. Sono stato anche un incosciente, rischiando grosso. Ma ne è valsa la pena.
Oggi sono ancora vicario generale, oltre che cornordinatore delle scuole. Avverto la mia scomoda posizione di straniero, mentre infuria una guerra voluta soprattutto da… stranieri (rwandesi, angolani, ecc.) con armi… straniere: francesi, statunitensi, ecc.
Credo nel servizio. Agli altri il giudizio sul mio operato.

p. Angelo Baruffi

Francesco Beardi




Incontro con Luciano Violante

Globalizzare i diritti…
la frontiera
degli onesti

Signor presidente, lei ha recentemente affermato (citando Norberto Bobbio) che «i diritti umani sono la religione civile del nostro tempo». Il fenomeno della globalizzazione dovrebbe favorire tale «religione». È veramente così?

Sinora la globalizzazione ha riguardato la finanza, l’economia e la comunicazione. Non ha riguardato ancora i diritti umani fondamentali. Anzi, sono aumentate le diseguaglianze tra gli uomini, tra le nazioni e tra i continenti. Dobbiamo impegnarci per la globalizzazione dei diritti; questa è la frontiera degli uomini onesti.
È importante che i vertici inteazionali comincino a porre il problema della globalizzazione responsabile: lo ha fatto l’Unione Europea durante il semestre di presidenza portoghese e l’hanno fatto ad Okinawa (Giappone) i capi di stato e governo del «G 8», il gruppo delle otto nazioni più industrializzate.

Le democrazie occidentali spesso si ritengono i paladini dei diritti umani… e lo dimostrano intervenendo anche manu militari in Kosovo o Timor Est. È questo il modo migliore per garantire la pace?

Con la guerra non si garantisce la pace. Ma in entrambi i casi, da lei citati, l’intervento militare si è reso necessario per impedire che continuasse la persecuzione di popolazioni povere e incolpevoli. Bisogna sempre più sviluppare, partendo dalle zone a rischio presenti nel mondo, operazioni di peace building e peace keeping, che servano appunto a costruire e mantenere la pace e a prevenire la guerra.
L’Italia in questo è all’avanguardia; tanto che, a Torino, è già operativa una scuola di peace keeping delle Nazioni Unite.

La povertà è una grave minaccia dei diritti umani: essa attenta al primo dei diritti, quello alla vita. La miseria, non raramente, coesiste con la ricchezza: le baraccopoli dell’America Latina (e non solo) insegnano. Questo è solo un paradosso?

Non è solo un paradosso. È una vergogna, frutto della diseguaglianza tra gli uomini. Ma intendo rispondere con precisione.
Oggi, a fronte di un crescente sviluppo economico globale, che ha fatto registrare negli ultimi 50 anni un aumento del prodotto interno lordo mondiale di dieci volte (da 3 mila miliardi a 30 mila miliardi di dollari), assistiamo (anche per effetto della globalizzazione) ad un preoccupante allargamento della forbice economica, già esistente tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo.
Secondo l’ultimo Rapporto sul programma di sviluppo delle Nazioni Unite, sono ancora oltre 80 i paesi che hanno redditi pro capite più bassi rispetto ad un decennio fa o più. In particolare, a partire dal 1990, solo 40 paesi hanno ottenuto una crescita media del reddito pro capite di oltre il 3% l’anno, mentre 55 paesi (soprattutto nell’Africa sub-sahariana, ma anche nell’Europa dell’est e nella Comunità degli stati indipendenti – Csi), si sono ulteriormente impoveriti. La povertà costituisce ancora oggi, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, la principale causa di morte nel mondo. Il 40% dei decessi è dovuto alle malattie contagiose, il 99% delle quali si verifica nei paesi meno sviluppati.
Come vede, la povertà non è una questione sociale. La povertà è una questione politica, che va affrontata come tale.
In coincidenza anche con il Giubileo dei cristiani, oggi si discute molto sulla cancellazione del debito estero dei paesi poveri. L’Italia ha deciso di cancellare 6 mila miliardi di lire. Come giudicare tale scelta?

L’Italia ha già approvato la legge sulla cancellazione del debito dei paesi poveri. In questo siamo più avanti di altri. Ma non basta. Bisogna lavorare per portare istruzione, sanità e sviluppo nei paesi poveri.

Circa la cancellazione del debito, qualcuno ha affermato che siamo di fronte alla «mano destra che dona, seguita però dalla sinistra che toglie». È questa solo una battuta maliziosa?

Non è questa l’intenzione italiana; né è questa una nostra abitudine.
Quest’anno il Brasile celebra i 500 anni della sua nascita. Ma è una celebrazione contestata dagli indios, dai discendenti degli schiavi neri e da vasti settori popolari impoveriti… mentre l’Amazzonia, polmone del mondo, è inquinata. Eppure il Brasile è l’ottava potenza del mondo!
Coniugare sviluppo economico e valori umani è un’impresa particolarmente difficile; ma, a mio avviso, è una delle ragioni fondamentali per le quali è necessario impegnarsi nell’attività politica.

In Brasile (ma anche in Colombia, Perù, Messico…), da circa 40 anni risuona il ritornello «i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri». Allora «c’è del marcio», e non solo nella «Danimarca di Amleto». Quale marcio?

Il marcio dell’ingiustizia sociale. La distanza tra le nazioni più ricche e quelle più povere era di circa 3 a 1 nel 1820, di 11 a 1 nel 1913, di 35 a 1 nel 1950, di 44 a 1 nel 1973 e di 72 a 1 nel 1992. Ecco la «forbice» di cui parlavo.
Aggiungo che circa 550 milioni di donne, oltre la metà della popolazione rurale del mondo, vivono sotto la soglia di povertà. La donna povera è più soggetta a violenze da parte degli uomini, partorisce figli ammalati o indeboliti, ai quali non riesce a fornire il nutrimento necessario. Ogni anno muoiono nel mondo 13 milioni di bambini sotto i cinque anni, a causa di malnutrizione o di malattie legate alla povertà. Almeno 5 milioni di bambini sotto i cinque anni, pari al 36% del totale in questa fascia d’età, sono gravemente malnutriti. La povertà costringe sino a 160 milioni di giovani al lavoro minorile e circa 2 milioni a prostituirsi.
Contro questo «marcio» bisogna combattere con la massima determinazione.

Signor presidente, so che lei ha incontrato alcuni missionari. Chi è per lei il missionario oggi?

Un uomo che lotta contro l’ingiustizia sociale, con gli strumenti della fede, della pace e del rigore morale.

Il dramma dell’africa è la sua ricchezza

L o squilibrio tra i paesi meno sviluppati e le nostre nazioni si traduce, oltre che in disperazione umana, in massicci movimenti migratori che provocano nei paesi ricchi ondate razziste, difficilmente controllabili. È necessario che i nostri paesi rafforzino il loro impegno, a livello nazionale e internazionale, per garantire a tutti la libertà dal bisogno, alcune condizioni minime di vita e il diritto allo sviluppo…

I governi delle nazioni industrializzate compiano un passo ulteriore nella strategia di promozione dello sviluppo dei paesi poveri, che vada oltre la cancellazione del debito estero. Il diritto allo sviluppo dei paesi poveri deve costituire per quelli ricchi un preciso dovere a non adottare politiche economiche ingiustamente dannose per questi paesi.
Un forte richiamo a questo dovere degli stati ci viene oggi rivolto con particolare urgenza dai missionari, da quegli uomini e donne quotidianamente impegnati sul terreno, spesso a rischio della propria vita, in aiuto dei più deboli. Anche alla luce delle loro importanti segnalazioni, ritengo che i governi dei paesi ricchi debbano agire in due direzioni principali:
– abbattere le barriere al commercio internazionale e fare in modo che anche i paesi poveri possano avvalersi dei benefici della globalizzazione; questi paesi non avranno, infatti, un vero sviluppo se non riusciranno ad entrare liberamente con i loro prodotti nei nostri mercati, come avviene per i nostri prodotti nei loro mercati;
– contrastare la politica neocolonialista adottata da alcune grandi industrie occidentali verso i paesi poveri, dell’Africa in particolare, che sta creando nuove e pericolose forme di sfruttamento e dipendenza.
Faccio due esempi.
1/ Il Nord del mondo sarebbe oggi debitore verso i paesi poveri, donatori di materia prima, di oltre 300 milioni di dollari per diritti di sfruttamento non pagati, relativi a sementi per coltivazioni agricole. Alcune sementi, geneticamente modificate, non riproducibili e imposte sul mercato da varie industrie, minacciano seriamente ogni strategia di sicurezza alimentare di un paese povero, impedendo la diversificazione delle fonti di approvvigionamento dell’alimentazione umana. Siamo così arrivati al paradosso che il dramma del continente africano non è tanto la sua povertà, quanto la sua enorme ricchezza!
2/ La sicurezza alimentare dei paesi poveri e il loro diritto alla sopravvivenza sono oggi seriamente minacciati dalla penuria d’acqua e dalla sua iniqua distribuzione nel mondo. Il diritto all’acqua costituisce uno dei diritti maggiormente invocati da questi popoli, a fronte dei dati che vedono meno di 10 paesi (tra cui, in testa, Brasile, Russia, Cina, Canada, Indonesia e Stati Uniti) dividersi il 60% delle risorse idriche del pianeta. Per alcuni paesi le previsioni sono particolarmente allarmanti. Nei prossimi 10 anni le risorse pro capite si ridurranno del 30% in Egitto, del 40% in Nigeria e del 50% in Kenya.
L’allarme tuttavia non riguarda solo queste nazioni, ma l’intero pianeta…

L a ricorrenza del Giubileo rappresenta un grande evento spirituale per la comunità cristiana nel mondo. La portata di tale evento non può, tuttavia, essere circoscritta alla sola comunità dei credenti.
Il suo profondo significato etico, tradizionalmente ispirato (oltre che a valori religiosi) anche a quelli sociali di equità, uguaglianza e pace, fa sì che il Giubileo rappresenti anche per la comunità laica e per quella politica, in particolare, un’occasione importante di riflessione sui problemi relativi alla giustizia sociale e alla tutela dei diritti dell’uomo.
Il primato dei diritti umani rende assoggettabili a responsabilità gli stati e le persone che, in ragione dell’esercizio di pubblici poteri, si rendono responsabili delle violazioni di tali diritti. È ormai possibile fare in modo che, accanto ai diritti universali degli uomini, corrispondano anche i doveri universali degli stati.
Credo che l’Italia debba porsi tra i suoi obiettivi prioritari l’adozione di una Carta dei doveri universali degli stati che integri la tradizionale frontiera dei diritti umani. Lavorare per questa Carta può costituire uno degli impegni più nobili di ogni paese civile, libero e democratico.
Luciano Violante
(dall’intervento all’inaugurazione
dell’«Expo missio 2000», Roma 9 giugno)

Francesco Beardi




MOZAMBICO – Chi la dura la vince

Il 30 ottobre 1925 i primi missionari
della Consolata sbarcarono
in Mozambico.
Seguirono anni caratterizzati da eroismi e conflitti
di vario genere.
Una storia da non dimenticare, anche perché la sfida raccolta (o lanciata) tanti anni fa non è finita.

L’ iniziativa di estendere al Mozambico il campo di evangelizzazione dei missionari della Consolata partì dall’allora superiore generale mons. Filippo Perlo. In una vecchia cartina geografica della colonia portoghese, conservata nell’archivio dell’istituto, si possono vedere i cerchietti da lui tracciati per indicare i posti delle missioni da erigere nella regione del Niassa, in cui nessun missionario cattolico aveva ancora messo piede.
Sondata la curia romana, mons. Perlo incaricò suo fratello Luigi, responsabile della procura di Nairobi, di negoziare tale progetto con mons. Rafael de Assunção, prelato di tutto il Mozambico. Nell’incontro avvenuto il 6 aprile 1925 a Lourenço Marques (oggi Maputo), il vescovo offrì la missione di Miruru nell’alta Zambezia.
Non era il campo adocchiato da Torino. «Prendere o lasciare» diceva mons. Rafael. Il superiore generale accettò l’offerta, in attesa del momento propizio per mandare i suoi missionari anche nel Niassa. Nel frattempo chiese a Propaganda fide il permesso d’inviare un primo drappello di missionari in Mozambico. Il cardinale Van Rossum, prefetto del dicastero missionario, non si oppose alla nuova apertura, «purché le missioni affidate da Propaganda a cotesto Istituto non ne abbiano a soffrire nella loro cura e sviluppo».
COMINCIA L’AVVENTURA
Il 30 di ottobre 1925, provenienti da Torino, sbarcano a Beira due giovani missionari, i padri Lorenzo Sperta e Paolo Borello, e il diacono Secondo Ghiglia, che così scrive nel suo diario: «È l’alba. La bella cittadina sorride all’orizzonte, indorata dalla brezza marina che l’oceano incessantemente evapora. Dopo la verifica dei passaporti, finalmente possiamo scendere. Entriamo in una chiesa per salutare il Signore e la beata Vergine Maria e ringraziarli dell’ottimo viaggio. La Consolata si degni di benedire i suoi alfieri che per primi toccano questa terra, già percorsa da stuoli eletti di apostoli, e voglia rendere fecondo il nostro apostolato».
Il 14 novembre, provenienti dal Kenya, arrivano altri cinque sperimentati missionari, che completano il gruppo della spedizione: i padri Vittorio Sandrone, Giulio Peyrani, Pietro Calandri, Giovanni Chiomio e fratel Giuseppe Benedetto.
Per la mancanza di battelli in servizio sul fiume Zambezi, i missionari devono rimanere a Beira per varie settimane, ospiti dei padri francescani. Ne approfittano per studiare la lingua portoghese, mentre padre Chiomio raccoglie informazioni su strade, tariffe, dogane… Padre Sperta, colpito da febbre reumatica, è ricoverato nell’ospedale e poi, accompagnato da padre Calandri, torna in Kenya.
Il 7 dicembre gli altri sei missionari salgono sul treno e, dopo due giorni di viaggio, raggiungono l’antica missione gesuitica di Chupanga sul fiume Zambezi. Qui dovranno ancora aspettare fino al 28 dicembre prima di imbarcarsi sul battello Zambezi: una grande casa a veranda costruita sopra una chiatta con una ruota motrice. Per la scarsità d’acqua in quel periodo dell’anno, l’imbarcazione procede adagio e con cautela. «Oggi sono le delizie dell’incaglio – scrive il diacono il 30 dicembre -. Delizie che non auguro a nessuno, per quanto vi sia da divertirsi. La ruota mulinava disperatamente; il fuochista cacciava tronchi interi nel foo della caldaia e non si faceva un pollice di strada; e si era sempre lì a guardare le stesse punte degli alberi e l’acqua azzurra fuggire indietro».
Il viaggio si rivela più scomodo del previsto, sia per la difficile navigazione, sia per il caldo torrido. Indifferente a ogni disagio, padre Chiomio prende appunti su tutto quello che guarda e sente. «Fa un caldo da salina in evaporazione – continua il diario il 2 gennaio 1926 -. Non si parla più tanto. Si è a disagio. Si suda terribilmente. Padre Chiomio, invece, l’inseparabile bussola a tracolla, la maiuscola borsa da commesso viaggiatore gonfia di scartafacci, mappe, ritagli di giornali, è instancabile. Carta geografica alla mano, chiede informazioni su strade, luoghi, distanze e scrive tutto su un taccuino, fissando indicazioni e rilievi».
PASSAGGIO DEL «MAR ROSSO»
Il 10 gennaio arrivano a Tete, capitale della Zambezia. Scendono dal battello e si avviano alla parrocchia di s. Tiago per celebrare la messa. Due giorni dopo, partono alla volta di Boroma, ultima tappa prima di raggiungere la lontana missione di Miruru.
Viaggiano a bordo di un camion, che corre all’impazzata. La strada è accidentata e dissestata dalle piogge. «Ci teniamo uno coll’altro per maggiore sicurezza, per non perdere l’equilibrio. L’autista, a ogni svolta o sobbalzo improvviso che mette a scompiglio i passeggeri, chiede con serietà e ironia: “Non manca nessuno?”; e rilancia la vettura a tutto gas. Grazie a Dio non vi sono stati incidenti, ma che acrobatismo!».
A un certo punto, le ruote sprofondano in una pozzanghera. Niente da fare: devono continuare il viaggio a piedi fino alla missione di Boroma, dove i missionari sono obbligati a un mese di riposo forzato per mancanza di portatori. Quando questi arrivano non sono in numero sufficiente. Si decide di frammentare la spedizione in due carovane. Il 4 di febbraio partono per Miruru i padri Sandrone e Chiomio; in seguito padre Borello e chierico Ghiglia; padre Peyrani rimane a Boroma come procuratore, insieme a fratel Benedetto.
Il percorso è lungo; la pista quasi impraticabile a causa delle piogge. «Oggi è il passaggio del mar Rosso, non però a piedi asciutti – scrive il diacono in data 21 febbraio -. La strada è tutta una pozzanghera; a tratti l’acqua arriva al ginocchio. I canneti alti e fittissimi, terribilmente aggrovigliati, c’impediscono di avanzare e ci obbligano a tenere le braccia continuamente impegnate in una ginnastica durissima ed estenuante».
Le due carovane, separate da alcuni giorni, seguono il margine sinistro del fiume Zambezi fino a Cachomba. A questo punto attraversano il fiume in barca e proseguono il viaggio lungo la riva destra. Il terreno comincia a salire leggermente con gibbosità lente e continue. Il suolo è meno sabbioso, ma la foresta sempre più fitta. Il viaggio è difficile per tutti. Chi soffre di più è il padre Sandrone, colpito da dissenteria e febbre.
TERRA PROMESSA
Il 2 marzo 1926 i missionari raggiungono la meta. Continua il racconto del diacono Ghiglia: «Miruru! Miruru! Grida con entusiasmo chi scorge per primo i fabbricati della missione. La voce si ripete come parola d’ordine lungo la colonna serpeggiante dei nostri uomini. Un soffio di corrente elettrica pare dia forza a quei corpi indolenziti dal lungo viaggio. Acceleriamo il passo al ritmo d’una nenia monotona. Ci pare di avere raggiunto una terra promessa».
Miruru fu fondata dai gesuiti nel 1892; questi vennero espulsi nel 1911 e sostituiti dai verbiti tedeschi, cacciati a loro volta nel 1915. «Con l’aiuto della Consolata – prosegue il diario – ne saremo emuli e continuatori. Voglia la Madonna benedire e confermare volontà e propositi dei suoi alfieri! Il lavoro sarà arduo, lungo e faticoso: raccogliere il gregge disperso dopo tanti anni di abbandono; continuare l’opera costruttrice che la guerra ha troncato con l’espulsione degli ultimi missionari. Forti della benedizione di Dio e della Consolata si rialzeranno le pianticelle che il soffio impuro del male ha guastato e perduto».
I missionari cominciano subito a prendere visione di Miruru e dintorni, studiare la lingua, usi e costumi della popolazione. Dopo dieci anni di abbandono, delle 15 succursali dipendenti dalla missione ne rimangono attive solo due. Tra i cristiani, circa 1.800 come risulta dai registri, la poligamia ha fatto strage; in molta gente di cristiano è rimasto solo il nome.
Per quanto riguarda le strutture, invece, la magnifica chiesa a tre navate e la casa dei padri sono in buono stato; quella delle suore è abitabile; alcuni fabbricati dell’inteato sono in rovina, altri ancora in buona salute. Nel cimitero riposano una dozzina di missionari, morti quasi tutti di malaria.
ALLA CONQUISTA DEL NIASSA
A mons. Filippo Perlo interessa il Niassa, territorio missionario ancora vergine, e non quella sperduta missione della Zambezia, per di più fondata da altri. E bisogna fare in fretta, prima che vi arrivino altre congregazioni missionarie. Ma come superare il divieto del prelato del Mozambico? Prendere tempo e mettere il vescovo di fronte al fatto compiuto!
A pochi giorni dall’arrivo dei missionari a Miruru, torna a Beira padre Calandri, insieme a padre Giuseppe Amiotti: anziché raggiungere i confratelli a Miruru, hanno l’ordine di recarsi nel Niassa; nel frattempo i superiori penseranno a ottenere dal prelato i permessi necessari.
Partiti da Beira il 22 giugno 1926, i due padri arrivano a Mandimba, ai confini con l’attuale Malawi, il 10 luglio e si mettono subito al lavoro: si prendono cura di una ventina di orfani meticci, esplorano il territorio, con l’aiuto di padre Chiomio, giunto appositamente da Miruru per scegliere i posti dove fondare le nuove missioni. L’armamentario e il fare inquisitivo dell’esploratore destano i sospetti delle autorità coloniali e il padre è consigliato di tornare subito in Italia, per non compromettere la presenza degli altri missionari in Mozambico. Tanto più che la spedizione nel Niassa rischia di sfociare in un incidente diplomatico.
Mons. Rafael si trova tra l’incudine e il martello: a Roma si dice che il Mozambico è una macchia nera nella storia delle missioni, arretrate di 300 anni; in Portogallo il vescovo è oggetto di furibonde campagne anticlericali e il governo vede gli stranieri, missionari compresi, come avanguardie di potenze europee che vogliono mettere le mani sulle sue colonie. Gli italiani, soprattutto, sono sospettati di lavorare per Mussolini.
Mons. Rafael si sente costretto a disapprovare la presenza dei missionari italiani nel Niassa. Anzi, il 27 marzo 1927, arriva a Mandimba un suo decreto che ordina ai due padri di lasciare il paese entro due mesi, dopo i quali scatterà automaticamente la sospensione da ogni attività religiosa.
Tra l’incudine e il martello ora ci sono i padri Calandri e Amiotti: il vescovo comanda di uscire e scaglia interdetti; Torino ordina di restare, in attesa di aggiustare la frittata. Per sei mesi i due missionari coltivano tabacco per occupare il tempo e ogni settimana passano il confine per confessarsi a vicenda nel Malawi
DA UNA TEMPESTA ALL’ALTRA
Il 1° maggio 1928 un fattorino porta dal Malawi un telegramma con cui si comunica la revoca della sospensione. Padre Calandri raduna gli orfanelli e organizza una carovana per trasferire baracca e burattini a Massangulo, 60 km da Mandimba. Vi giungono il 20 maggio, data ufficiale della nascita della prima missione del Niassa. In pochi mesi vengono costruiti i fabbricati essenziali; alla fine dell’anno arrivano le prime suore della Consolata e altro personale dall’Italia e da Miruru. Iniziano le scuole e le visite ai villaggi.
Tutto procede con coraggio ed entusiasmo, quando una tremenda tempesta squassa l’Istituto dei missionari della Consolata da capo a piedi: l’8 maggio 1928 mons. Pasetto inizia la visita apostolica, chiudendo alcuni campi di evangelizzazione (Somalia e India) appena avviati. Si teme che anche l’apertura nel Niassa, visto il modo un po’ spericolato in cui è avvenuta, possa subire la stessa sorte.
Infatti, nel giugno 1930, padre Calandri è chiamato urgentemente a Beira da mons. Hinsley, vicario apostolico dell’Africa Orientale. Questi gli ordina di sospendere ogni lavoro, perché Massangulo sarà chiusa. Il missionario scoppia in un pianto dirotto; quando si riprende, racconta ciò che è stato fatto nella missione, i lavori in corso e i progetti ancora in mente. «Se è così, è un’altra cosa – dice il monsignore -. Lei, padre Calandri, continui con la costruzione del collegio iniziato e io le manderò i mezzi. Bisogna dare molta importanza a scuole e collegi».
Ad essere chiusa è invece la stazione di Miruru (1930); alcuni dei missionari passano al Niassa. Massangulo si rafforza, con l’avvio dei corsi di arti e mestieri; ma è proibito aprire nuove missioni nella regione. Solo quando mons. Rafael sarà sostituito da mons. De Gouveia, come prelato apostolico del Mozambico, sarà possibile dar vita a Mepanhira (1938), Maua (1939), Mitucué (1940).
L’espansione missionaria segna il passo durante la seconda guerra mondiale, per l’impossibilità d’inviare altro personale. Finito il conflitto, l’evangelizzazione riprende con nuovo vigore dentro e fuori del Niassa. Nel 1946, infatti, il card. De Gouveia, vescovo di Lourenço Marques (Maputo), vuole i missionari della Consolata anche nella regione di Inhambane e alla periferia della capitale.
LA SFIDA CONTINUA
Dopo 75 anni di presenza in Mozambico si può fare un bilancio. La scelta, fatta fin dagli inizi, di concentrare gli sforzi nella scuola e formazione dei laici, ha formato comunità cristiane resistenti alle bufere che si sono scatenate per quasi 30 anni sulla popolazione del paese: guerra per l’indipendenza, persecuzione marxista e nazionalizzazione delle strutture, guerra civile, catastrofi naturali. Molte comunità, portate a maturazione, sono state affidate al clero locale. Buona parte dei leaders che guidano oggi le sorti del paese sono usciti dalle scuole cattoliche. La chiesa mozambicana chiede ai missionari della Consolata nuove presenze qualificate, come la guida di seminari diocesani e formazione del clero locale.
Tali attestati di stima, guadagnati con tanti anni di tenacia ed eroici sacrifici, sono motivo di orgoglio; ma il loro numero (53 missionari di varie nazionalità, presenti in 5 diocesi) è del tutto insufficiente per fronteggiare le sfide sociali e religiose in cui si dibattono ancora le popolazioni loro affidate. Prima di assumere nuove responsabilità, essi vogliono fare un serio cammino di discernimento. Tanto più che i posti segnati da mons. Perlo sulla vecchia mappa, nell’estremo nord del Niassa, attendono ancora il primo annuncio del vangelo. La sfida lanciata 75 anni fa è sempre aperta.

Diamantino Antunes