ADDIS ABEBA (ETIOPIA): bambini profughi, maratoneti in erba. UN PAESE… DI CORSA

Venti anni
fa, quando fui destinato alle missioni in Etiopia, sapevo poco di questo
paese. Furono gli amici, ferrati più di me nel tifo sportivo, che mi
diedero la prima conoscenza di questa nazione, identificando l’Etiopia con
Abbebe Bikila, l’atleta che, correndo a piedi scalzi, vinse la maratona
delle Olimpiadi di Roma nel 1960.

Oggi, a 40
anni di distanza, mi sono più che familiari i nomi di Hailé Ghebre
Selassié, Ghezahegn, Derartu Tullu, Million Wolde, Ghiete Wami, i podisti
che tengono alta la bandiera nazionale, come hanno fatto nelle recenti
Olimpiadi di Sydney in Australia. Il primo, Hailé Ghebre, è il più
popolare: il suo ritratto occupa l’intera parete di un alto edificio nel
centro di Addis Abeba.

Il giorno
che egli vinse i 10 mila metri a Sydney, davanti al kenyano Paul Tergat,
mi trovavo per commissioni immerso nel traffico del centro cittadino.
Improvvisamente, in pieno pomeriggio, un’auto accese i fari abbaglianti;
un’altra cominciò a suonare il clacson; altre si unirono al coro. La città
sembrava impazzita. Il traffico si fece più caotico e giornioso, anche se
assordante. In poco tempo tutta la città era in festa.

Queste
vittorie hanno dato un forte incremento a questo genere di sport in tutta
l’Etiopia. Da vari anni è normale vedere, al mattino prestissimo, quando
non c’è ancora traffico, numerosi giovani che corrono lungo l’arteria
principale della città, da piazza Mexico verso le zone più basse della
capitale. Sovente questi corridori in erba indossano tute variopinte di
nailon, che chiamano con un termine onomatopeico kesh-kesh, dal rumore
prodotto dalla stoffa al contatto con il vento.

Oggi, il
numero di coloro che praticano la corsa è aumentato anche nelle cittadine
di provincia. Studenti di tutte le età, ragazzi e ragazze, fanno di corsa
la strada che dal villaggio porta alla scuola, anche senza essere in
ritardo, e sfruttano il tempo libero per continuare l’allenamento.

C onfesso
che l’entusiasmo di quei giorni mi ha contagiato. È naturale. Dopo 20 anni
spesi in questo paese, in qualche occasione lo sento un poco mio. Ma non
avrei mai creduto che il contagio mi potesse spingere a correre anch’io.
Non per diventare un atleta: avrei dovuto iniziare molto prima della fine
del millennio! Ma non si sa mai, nella vita tutto torna utile.


L’occasione di fare un po’ di corsa mi fu offerta, un giorno, da alcuni
bambini, rifugiati dall’Eritrea, che dal 1992 vivono nel campo profughi di
Makanissa e frequentano il nostro oratorio. Sono Abùsh, un nanerottolo di
11 anni, molto forte e resistente, e sua sorella Kokòb (stella), maggiore
di due anni e un po’ più alta; Tighist (pazienza) 12 anni, vivace e
simpatica, e il fratello minore Walellìgn, anche lui nanerottolo, e la
loro tredicenne compagna Sinnàit.

Alla mia
età, mettermi a correre con dei bambini mi suonava un poco strano; ma
dovetti subito ricredermi: per loro non era una novità. Accettai la sfida.
Il pomeriggio del giorno seguente, dopo la scuola, si trovarono tutti
puntuali davanti al nostro seminario in «tenuta sportiva». Si fa per dire.

Le tute da
bambino sono comuni anche tra i rifugiati, ma non è detto che siano nuove
fiammanti. Abùsh aveva una tuta scolorita e calzava un paio di scarpe di
cuoio più grandi dei suoi piedi, ereditate da qualche parente. La divisa
di Tighist era spaiata: maglietta bianca, pantaloni di nailon, entrambi
piuttosto malandati, e senza scarpe. Kokòb era più o meno nelle stesse
condizioni di Tighist. Anche Sinnàit era scalza.

Da
Makanissa, periferia della capitale, prendemmo la direzione delle colline
che circondano Addis Abeba. In cinque minuti di corsa siamo fuori città,
tra campi aperti e aria pura. Cerco di moderare la loro velocità e imporre
il ritmo, in modo che respirazione e movimenti si armonizzino, ci si
stanchi meno e si gusti l’esercizio fisico.

Abùsh va
perfettamente d’accordo col ritmo imposto; Tighist rimane indietro, oppure
accelera e abbina alla corsa altri esercizi, visti probabilmente nei campi
sportivi, come flessioni del busto, movimenti e roteazioni delle
braccia… Un’ora dopo siamo tutti di ritorno.

Da parte
mia, mi prendo qualche giorno di assoluto riposo da esercizi sportivi; poi
ripartiamo nuovamente. Questa volta c’è più organizzazione: appare qualche
paio di scarpe nuove da ginnastica, una maglietta fiammante. Anche il
livello tecnico è migliorato. In un batter d’occhio siamo ai piedi delle
colline, pur rallentando ogni tanto o procedendo al passo. Azzardiamo una
specie di competizione negli ultimi tre chilometri: bravo Abùsh! Di fiato
ne hai da vendere. Bravi anche gli altri, che arrivano con mezzo minuto di
scarto.

Ai piedi
delle colline c’è un villaggio tradizionale; una casa di campagna vecchio
stile, un vitello nel cortile, due cani, galline che razzolano per strada.
È la casa di Netzannèt. Questa ragazza mi venne incontro, una volta,
mentre passavo in quella zona con un confratello missionario. Non
conoscendo le sue intenzioni, pensai subito che volesse chiedere aiuto,
come succede spesso da queste parti, quando la gente ti si avvicina.
Cercai di evitarla, con una breve corsa verso il prato, per non dovere
ascoltare i soliti piagnistei. Ma mi ero sbagliato. Netzannèt voleva solo
scambiare con noi quattro chiacchiere in inglese. Questa lingua è
insegnata a scuola, ma gli studenti non hanno possibilità di praticarla.
Ci disse che recentemente aveva vinto i 1.500 metri della sua categoria in
una competizione regionale. È la seconda volta che la incontro. Netzannèt
si mostra molto gentile:  vuole preparare il tè per il nostro gruppetto di
podisti. Purtroppo dobbiamo rifiutare: il sole sta per tramontare e
dobbiamo rientrare prima che faccia  buio.

La gente,
al vederci correre veloci, guarda sorpresa e incuriosita. Qualcuno batte
le mani o grida «bravo!». Il termine, conosciuto anche in Etiopia, è
invariabile, vale per il maschile e femminile, singolare e plurale.

Siamo
quasi a casa. Tighist, rimasta un poco indietro, scatta davanti a tutti.
Qualche passante le grida: «Derartu!», nome della campionessa olimpionica
dei 10 mila metri. Quel grido fa piacere anche a me. Per la rifugiata
dodicenne, oltre che incoraggiamento, suona come augurio per un futuro più
fortunato.

Vincenzo Clerci




CONGO, RD – Ambasciatori in scarpette e calzoncini

Dal 27 febbraio all’1 marzo, un gruppo di pacifisti
ha raggiunto la regione orientale della Repubblica democratica del Congo
per unirsi alle popolazioni martoriate dalla guerra civile e reclamare
pace e rispetto dei diritti umani.
L’iniziativa ha seminato forti speranze che attendono di diventare realtà.

Sembrava un’idea temeraria e irrealizzabile. È diventata realtà il 26 febbraio scorso, quando un piccolo esercito disarmato di 300 pacifisti sono riusciti a raggiungere il cuore dell’Africa, sfidando una guerra che, in due anni, ha già fatto oltre due milioni di morti. Guidato dalle associazioni «Beati i costruttori di pace», «Operazione colomba» e «Chiama l’Africa», il piccolo esercito disarmato, proveniente in maggioranza dall’Italia, ma anche da Spagna, Germania, Svezia, Norvegia, Francia, Belgio, ha raggiunto, dopo un viaggio di due giorni, la città di Butembo, nella regione del Nord Kivu, Repubblica democratica del Congo, ricevendo un’accoglienza straordinaria da parte della popolazione. Il loro scopo, per una volta, non era portare aiuti materiali, ma riuscire a imporre, con la semplice novità della loro presenza, una tregua alle parti in guerra.
PROGETTO «VISIONARIO»
A volte la causa della pace ha bisogno di mente visionaria e passione per il gesto profetico: «Anch’io a Bukavu-Butembo» è stata un’azione fuori da ogni schema. All’inizio molti hanno cercato di scoraggiarla, compresa l’ambasciata italiana in Uganda, che alla fine ha dato un importante appoggio logistico ai pacifisti.
L’ispiratore di tale iniziativa, mons. Kataliko, vescovo di Bukavu, nel Sud Kivu, dove originariamente doveva svolgersi la manifestazione, è morto qualche mese prima di vedere l’impresa concretizzarsi: fulminato da un attacco di cuore lo scorso ottobre a Roma, dove era riparato dopo essere stato dichiarato dalle autorità di Bukavu «persona indesiderata», il vescovo ha passato il testimone ad altri, religiosi e laici, che si sono esposti in prima persona sia nella fase organizzativa che durante i tre giorni di incontri e manifestazioni varie.
Che i tempi fossero maturi per un’iniziativa del genere cominciammo a capirlo fin dal nostro arrivo a Kassese, dove peottammo presso il vescovado dopo il primo giorno di viaggio, e a Kasindi, la frontiera tra Uganda e Congo. I militari non ci ostacolavano, mentre la popolazione dei villaggi a cavallo della terra di nessuno ci accoglieva con tanta benevolenza.
Alla frontiera ugandese ci lasciammo alle spalle l’asfalto. A bordo di vecchi pullman, percorremmo a velocità ridotta 180 chilometri di pista in mezzo alla foresta. Su quella strada gli scontri armati erano all’ordine del giorno. In ogni centro abitato la gente salutava con calore al grido di «Amani!» (pace). Erano al corrente del senso della venuta degli europei, grazie al tam-tam delle radio locali. «Non siete osservatori dell’Onu, vero?» domandava qualcuno per sincerarsi. Qui l’Onu non gode di una buona fama: la chiamano «Organizzazione non utile».
Dopo una sosta a Beni, attraversammo Maboya, un villaggio fantasma dopo la calata dei militari ugandesi lo scorso gennaio, e nel tardo pomeriggio eravamo alle porte di Butembo: la sede scelta per la manifestazione, dopo che gli organizzatori sono stati costretti a rinunciare a Bukavu, a causa dell’ostilità del governo locale, in mano ai «ribelli» del Rassemblement congolais pour la democratie (Rcd) di Goma, appoggiati dai rwandesi.
A Butembo apparvero ancora più evidenti le aspettative generate dalla nostra missione tra la popolazione, che si sente abbandonata dal resto del mondo. Migliaia di persone erano ad attenderci, con un’incredibile banda di ottoni e vari gruppi di danze tradizionali. «È il grande cuore del Congo – disse commosso mons. Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, che a 78 anni non ha esitato ad aggregarsi alla nostra carovana della pace -. Ma saremo all’altezza della situazione, privi come siamo di vero potere e di mandati ufficiali?».
SIMPOSIO PER LA PACE
A Butembo i pacifisti hanno partecipato al «Simposio internazionale per la pace in Africa» (Sipa), organizzato dalla Société Civile (un cartello di organizzazioni che si battono per la pace, rispetto dei diritti umani e integrità territoriale del suolo congolese) e dalla chiesa cattolica e protestante; non sono mancati gli interventi di alcuni tra i principali attori politico-militari della regione.
«Simposio» è una parola che non rende esattamente l’idea della «tre giorni» di Butembo. Il Sipa è stato tutto, fuorché un evento accademico. La gente di questa parte del Congo aspettava da tempo di dirsi in faccia e con chiarezza ciò che pensa sul futuro del suo paese, sul processo di balcanizzazione in corso e sulle clamorose violazioni dei diritti umani, perpetrate da tutte le forze in campo, spesso colluse con le potenze occidentali e le multinazionali che sfruttano le straordinarie ricchezze del paese. Le parole pronunciate sono state di una durezza a cui gli osservatori occidentali non sono abituati. Proprio per questo l’evento è stato significativo.
All’apertura dei lavori, dopo il discorso di mons. Melkisedech Sikuli, del vescovo di Beni-Butembo, comparve improvvisamente in sala Jean Pierre Bemba, presidente del Fronte di liberazione del Congo (Flc), l’uomo-forte dell’Uganda nella regione. Sgargiante camicia gialla e rossa, scortato da una decina di militari, il capo del Flc ascoltò impassibile il discorso di Gervais Chiralwirwa, leader della «Società civile» di Bukavu, il quale ammoniva: «Le autorità dicono che siamo dei sovversivi, ma senza i cosiddetti sovversivi la Francia oggi sarebbe governata dalla monarchia assoluta».
La replica di Bemba non si fece attendere. «Per me, che sono un uomo d’affari, non è stato facile scegliere la strada delle armi; ma l’ho fatto per ridare dignità al mio popolo». Poi Bemba ironizzò sprezzante sul nuovo presidente della Repubblica democratica del Congo, Joseph Kabila, che attualmente controlla, con l’appoggio di Zimbabwe, Angola, e Namibia, circa il 50% del paese, paragonandolo a uno dei tanti Luigi della storia della monarchia francese; e concluse riconfermando il suo credo: «Per ottenere la pace a volte è necessario combattere».
Il Sipa chiuse i lavori giovedì 1° marzo, votando un documento solenne nel quale, tra l’altro, si chiede: il ritiro degli eserciti stranieri dal territorio congolese, il disarmo dei vari gruppi armati, oltre ai nazionalisti may may e a quel che resta degli interahamwe, gli estremisti hutu responsabili del genocidio rwandese del 1994; convocazione di una Conferenza intercongolese di pace.
Nonostante il moltiplicarsi dei gesti simbolici di distensione e i numerosi messaggi di incoraggiamento giunti al Simposio, tra cui quelli del presidente della Camera Luciano Violante e dell’Alto Commissario Onu Mary Robinson, nulla lasciava presagire il colpo di scena a cui avremmo assistito al termine della giornata conclusiva.
IL CAPO CHIEDE PERDONO
Lentamente, le circa mille persone presenti in sala defluirono all’esterno e scesero verso il centro della città, percorrendo la lunga e polverosa strada principale che conduce alla cattedrale. A parte il passaggio di un’autoblinda, con i soliti e stucchevoli soldati africani oati di occhiali a specchio e cartuccere a tracolla, l’atmosfera era quella di una festa popolare, in cui bianchi e neri davano in eguale misura il proprio contributo.
La cerimonia finale, che prevedeva una preghiera ecumenica a cui parteciparono anche musulmani e kimbanghisti, si prolungò per buona parte del pomeriggio, mettendo a dura prova la resistenza di tutti. Ma proprio al termine della lunga preghiera ecumenica, ecco l’evento inaspettato, che a buon diritto si può definire «storico»: Jean Pierre Bemba, sale sul palco e, rispondendo alla provocazione di mons. Sikuli e di una portavoce delle donne congolesi durante il Sipa, prende la parola e si rivolge alle decine di migliaia di persone stipate da ore sotto il sole e ammutolite dalla sua comparsa. «Chiedo perdono per tutte le atrocità, violenze e saccheggi commessi da noi militari – dice il giovane, ricco e corpulento signore della guerra -. Ordino immediatamente alle guaigioni dislocate a Kiondo, Musienene e Maboya di fare rientro alle caserme di Beni; invito i religiosi a fare ritorno alle loro sedi».
L’annuncio è accolto dalla folla con un bornato. In quell’oceano di africani, giunti da tutta la regione del Kivu e persino dall’Ituri, dalla disastrata Kisangani, da vari paesi africani come Tanzania, Burundi, Zambia, dopo aver percorso strade insicure e affrontato disagi di ogni sorta, c’è gente che ha perduto genitori, mariti, figli, in una guerra tanto sanguinosa. Ci sono persone incarcerate arbitrariamente, spogliate dei loro averi, costrette a vivere da rifugiati. Per tutti costoro la sorpresa non può essere più grande.
Stupore anche fra le fila di noi bianchi, una composita miscela di studenti, pensionati, obiettori di coscienza, giornalisti, religiosi, scouts, lavoratori d’ogni specie, accomunati solo dalla povertà dei mezzi con i quali abbiamo intrapreso quest’avventura.
SPERANZA APPESA A UN FILO
Solo il tempo dirà se il Sipa ha rappresentato davvero il primo passo per l’avvio di un processo di pace nella regione dei Grandi Laghi. È certo, però, che a Butembo, città di circa 300.000 abitanti, poco più che un gigantesco villaggio, pressoché privo di qualsiasi infrastruttura, assediato dalla violenza di gruppi armati e militari, si è aperto un tavolo per il dialogo. Un tavolo al quale si sono seduti non solo l’Flc di Bemba, la resistenza nazionalista may may e persino i tutsi banyamulenge, poco amati dai congolesi, perché usati dal Rwanda come pretesto per invadere a sua volta il paese, e ambigui alleati di Uganda e Burundi, ma anche la gente comune, quella che di solito è messa ai margini delle complesse trattative della diplomazia internazionale. E questa è forse la vittoria più grande.
Nessuno è così ingenuo da credere che le parole di Bemba pongano fine alla guerra. Ma sarebbe sbagliato credere che costui abbia semplicemente strumentalizzato la manifestazione. Di solito, ci hanno spiegato gli africani incontrati a Butembo, un capo militare non si umilia mai davanti al popolo, al punto da chiedere perdono, quali che siano i vantaggi che potrebbe ricavae. L’evento, insomma, mantiene tutto il carattere di eccezionalità.
Le ultime notizie che giungono dal Congo parlano di prosecuzione del dialogo fra i may may del Nord Kivu e Bemba, osteggiato, però, dai may may del Sud Kivu, i quali ritengono che non si debbano avviare trattative con gli alleati delle truppe straniere di occupazione.
La smobilitazione delle guaigioni dalle località menzionate da Bemba pare sia avvenuta parzialmente; ad ogni modo, i soldati non sono rientrati a Beni, come promesso dal signore della guerra. Inoltre i contatti diplomatici fra Kinshasa e Uganda si vanno intensificando, mentre nuove truppe dell’Onu (uruguayane, senegalesi) sono in arrivo in varie zone calde del paese.
Non è chiaro, infine, quali siano le intenzioni di colui che rimane il presidente ufficiale di questo paese, Joseph Kabila, che al pari di Bemba non ha ricevuto alcuna legittimazione democratica. Il primo ha semplicemente ereditato la carica dal padre, ucciso a gennaio da una guardia del corpo, il giorno-anniversario dell’uccisione di Lumumba, ci hanno fatto notare a Butembo. Il secondo ha conquistato il potere con le armi.
Il futuro rimane ancora incerto. Ne sono consapevoli anche i 300 pacifisti che, in scarpette e calzoncini, hanno animato questa grande azione di diplomazia popolare. Ma continuano la loro mobilitazione in Italia.
Marco Pontoni è giornalista a Trento. Articolo in esclusiva per M.C.

Marco Pontoni




CARCERE E MISSIONE. UN FLACONE CONTRO IL MAL DI STOMACO

Che fa
un vescovo in prigione per 13 anni, di cui nove in isolamento? Risponde lo
stesso carcerato, dal 1975 al 1988 vittima in Viet Nam delle galere del
comunismo. Oggi presiede a Roma il Consiglio pontificio «Giustizia e
pace». Ed è pure cardinale.

In Viet
Nam ho vissuto oltre 13 anni in prigione, di cui nove in isolamento, senza
neppure una visita della famiglia, e con due poliziotti che non mi
parlavano. Senza radio, giornali, telefono, televisione. Una cultura di
morte. Ho trascorso da giovane vescovo questi anni di disperazione e
rivolta. Ma Gesù nell’eucaristia mi ha aiutato.


 Pacchetti di
sigarette

Non molto
tempo dopo, il direttore della prigione mi chiama.

È una
bottiglietta di vino.

Con mia
grandissima gioia, grazie a quel vino, celebro le più belle messe della
mia vita. Offro il sacrificio eucaristico sul palmo della mano, con tre
gocce di vino e una di acqua. Ogni giorno posso rinnovare con il Signore
la mia «nuova ed eterna alleanza» di sacerdote.


L’eucaristia è un sostegno per me e per gli altri prigionieri cattolici.
Dormiamo tutti su uno stesso letto. La sera alle 21.30, nell’oscurità, mi
curvo per celebrare la messa, il cui testo conosco a memoria. Poi faccio
passare sotto la zanzariera la comunione ai cinque cattolici vicini a me.
La presenza di Gesù eucaristia ci conforta molto. L’indomani raccogliamo
carta di pacchetti di sigarette, con la quale fabbrichiamo dei sacchettini
per contenere il Santissimo.

Ogni
settimana, al venerdì, si tiene la sessione di indottrinamento marxista.
Tutti i prigionieri vi partecipano. Al momento della sosta, consegniamo ad
ogni gruppo di 50 persone un sacchettino… con Gesù dentro. Ciascuno
«intasca il Signore» e, nella prova, nella tristezza, nella tribolazione,
lo sente con sé: lo prega di notte, fa l’«ora santa». E, grazie
all’adorazione e alla comunione, i cristiani che hanno abbandonato la fede
ritornano praticanti.

Non potrò
mai dimenticare come ci abbia sostenuto il canto liturgico, lasciatoci da
san Tommaso per la celebrazione della festa del Corpus Domini, dove viene
affermata tutta la teologia in parole semplici. E avvertirò sempre il
senso mariano dell’eucaristia. Quando la celebriamo, siamo veramente figli
di Maria: Ave verum corpus natum de Maria virgine…

Con
l’eucaristia, i laici in carcere diventano coraggiosi nell’impegno e
sereni nella tristezza: servono tutti con carità, e la loro testimonianza
affascina i non cattolici (talvolta fanatici), che poi chiedono di
conoscere Gesù e la nostra religione; diventano catechisti; poi battezzano
gli altri compagni prigionieri facendo loro da padrini.

Con
l’eucaristia la prigione cambia: diventa una scuola di fede, una
catechesi.


«Sei hutu o
tutzi?»

Ricordo i
trappisti francesi in Algeria, monaci e missionari. I superiori hanno
chiesto loro di lasciare il paese, data la seria minaccia per la loro
vita; ma tutti decidono di restare e sono morti per la fede.

In Africa
non mancano le guerre etniche. Ma tanti nostri fratelli africani soffrono
con coraggio… Un sacerdote in Rwanda, all’arrivo dei soldati, indossa i
paramenti sacri. Gli domandano: «Sei hutu o tutzi?». E lui: «Sono un
prete…». Per la seconda e terza volta gli rivolgono la stessa domanda.
La risposta è sempre: «Sono un prete». Lo ammazzano. Muore da sacerdote. E
il sacerdote non ha frontiere: è per la chiesa universale. È testimone
della fede, grazie a quel Gesù che celebra ogni giorno nell’eucaristia.

In Burundi
alcuni guerriglieri hutu fanno irruzione in un seminario per arrestare 40
studenti, chiedendo loro di dividersi: gli hutu da una parte e i tutzi
dall’altra. «Se siete hutu vivrete, se tutzi morirete!». Ma i 40
seminaristi restano uniti. Vengono tutti uccisi, fratelli nella vita e
nella morte. Sono martiri dell’unità dei popoli, quell’unità che Gesù ci
richiede: «Come tu, Padre, sei in me ed io in te, che tutti siano una sola
cosa…».

Nella
regione dei Grandi Laghi operano anche le suore «poverelle» di Bergamo, e
vengono contagiate dall’Ebola nella repubblica democratica del Congo.
Molti hanno lasciato il paese, ma esse no; anzi, sono giunte nuove
missionarie. I giornalisti incontrano suor Dinarosa Merelli.

Sono tutte
morte in Congo. Ma sono seme di nuovi cristiani.


La croce del
vescovo

Con quale
veleno li ha contaminati quel «cattivissimo vescovo», se non con quello
dell’amore di Cristo Gesù?

Un giorno,
durante i lavori forzati, taglio legna. Chiedo a un carceriere divenuto
amico: «Lasciami tagliare un pezzo di legno a forma di croce».

Il custode
non può resistere e si allontana. Io ritaglio un pezzo di legno nero a
forma di croce e lo tengo nascosto nel sapone fino alla liberazione nel
1988.

Trasferito
in un’altra prigione, vicino ad Hanoi, chiedo al carceriere un pezzo di
filo elettrico.

Tre giorni
dopo, il carceriere mi dice: «Le porterò l’occorrente. Però dobbiamo fare
tutto tra le 7 e le 11; se qualcuno vede, ci denuncerà». E in quattro ore
mi aiuta a fabbricare la catenella della croce vescovile che porto sempre
con me, perché non è solo un ricordo, ma una chiamata ad amare.

Diverse
volte i poliziotti mi pongono una domanda cruciale.

Così sono
vissuto in prigione sino alla fine.


«Corpus
Domini» in Serbia

Nel 1999,
in occasione della festa del Corpus Domini del 6 giugno, il papa mi invia
improvvisamente, quale presidente del Consiglio pontificio «Giustizia e
pace», nell’ex Jugoslavia in guerra. Con me ci sono altri due vescovi:
dobbiamo arrivare, ciascuno con una destinazione diversa, per la festa
eucaristica. Ma abbiamo soltanto tre giorni per prepararci.

Il santo
padre ci dice: «Voglio che preghiate e facciate pregare la gente con me,
mentre io celebrerò il Corpus Domini nella basilica di san Giovanni in
Laterano. Dite a tutti che il papa prega per la pace».

Partiamo:
io vado in Serbia, monsignor Martin in Macedonia e monsignor Crepaldi in
Albania, per mostrare che il santo padre ama tutti i popoli. Arrivo a
Belgrado la vigilia della festa. La città è deserta, senza acqua e senza
luce. Sono rimasti solo sei ambasciatori, che si chiedono: «Perché
Milosevic non ha accettato la proposta della Nato e tutti gli ambasciatori
sono fuggiti?».

A
mezzogiorno sono in nunziatura e ricevo una telefonata dalla Santa Sede:
«Come avete fatto? Avete celebrato la messa?». «Sì, abbiamo anche
annunciato che la pace è vicinissima». E da Roma: «Il papa lo dirà subito
a Kofi Annan, segretario delle Nazioni Unite».

La
preghiera a Gesù nell’eucaristia porta la pace nel mondo, come Gesù ha
detto: «La mia carne è per la vita del mondo». Ed è la più grande
missione.


 Testimonianza rilasciata dal cardinale François Xavier Nguyên Vân Thuân
nella basilica di san Giovanni in Laterano, Roma 22 giugno 2000.
Adattamento della redazione.


 


Il cardinale François Xavier Vân Thuân


  
Trecento
frammenti di speranza

 È nato il 17 aprile
1928 a Huê, Viet Nam. Discende da una famiglia che conta numerosi martiri.
Nel 1885 tutti gli abitanti del villaggio materno furono bruciati vivi in
chiesa, eccetto il nonno (che studiava in Malesia).

La mamma Elisabeth
ha educato cristianamente François Xavier fin da quando era in fasce.
Allorché il figlio fu imprigionato, continuò a pregare per lui affinché
restasse sempre fedele alla chiesa.

L’incarcerazione
avvenne nel 1975 ad opera del regime comunista. François Xavier era da
pochi mesi vescovo, oltre che sacerdote dal 1953. Sopporterà la prigione
per 13 anni. Da carcerato visse momenti drammatici, come il viaggio su una
nave con 1.500 detenuti affamati e disperati. Per non parlare dei nove
anni di isolamento.

In carcere non
poteva tenere la bibbia: allora raccolse tanti pezzetti di carta e vi
scrisse tutte le frasi del vangelo che ricordava: oltre 300. Divenne il
suo vademecum quotidiano.

Liberato nel 1988,
tre anni dopo fu espulso dal Viet Nam quale «persona non grata».

Dal 1998 è
presidente a Roma del Consiglio pontificio «Giustizia e pace». E, dal 21
febbraio scorso, cardinale.

Ha pubblicato vari
libri, tutti all’insegna della speranza:

Il cammino della
speranza, I pellegrini del cammino della speranza, Il cammino della
speranza alla luce della parola di Dio e del Concilio Vaticano II,
Preghiere di speranza, La speranza non delude…

 

 


Il carcere "Le
Nuove" di Torino
  e i missionari della Consolata (1931-44)

 I missionari della
Consolata prestano assistenza spirituale ai carcerati de Le Nuove di
Torino dal 16 gennaio 1931 al 16 novembre 1944. Sono 14 anni cruciali,
condizionati da regimi dittatoriali contrapposti e segnati dalla
catastrofe della seconda guerra mondiale.

Questo periodo
assegna a Le Nuove una rilevanza politica a livello locale, nazionale ed
internazionale, poiché il carcere è spesso usato come repressione e
persecuzione contro i dissidenti politici. Le Nuove di Torino è luogo di
transito per chi viene trasferito in altre prigioni del nord e
dell’estero; racchiude detenuti italiani e stranieri per motivi
delinquenziali e politici. Durante il fascismo, e soprattutto nel 1943-45,
la vita carceraria rispecchia, prima, l’inasprimento della pena e poi il
terribile clima della guerra.

Come confortare un
morente in carcere che, talvolta, si dichiara innocente? Ancora più
difficile è accompagnare alla forca un condannato a morte, come avviene a
Vittorio Longo il 7 agosto 1935. A partire da questa data, tanti sono i
condannati alla pena capitale assistiti dai missionari della Consolata:
complessivamente 72, di cui 2 prima della guerra e 70 dal 17 marzo 1943 al
5 novembre 1944.

L’azione dei
missionari della Consolata, cappellani aggiunti ed aiutanti ne Le Nuove,
contribuisce alla salvaguardia dei valori umani e spirituali, che fondano
la Costituzione. Il loro ministero è svolto sempre a favore dei più
afflitti dalla sofferenza. Il modo di porsi di fronte ai condannati è
ispirato al rispetto della dignità umana e del fratello in Cristo.

  Sulle
orme di san Cafasso

 La prima
caratteristica dell’essere missionario in prigione è la prudenza, nel
rispetto delle norme penitenziarie.

Scrive padre
Giovanni Piovano sull’assistenza di padre Vittorio Sandrone a favore dei
carcerati: «Operò un grandissimo bene fra continue difficoltà, date da
quel luogo di pena, ma più ancora dalle circostanze e dagli eventi del
tempo, uno dei più gravi della storia di Torino e dell’Italia. Padre
Sandrone, dal primo all’ultimo giorno in cui esercitò il non facile
incarico, non solo ne conobbe la responsabilità e ciò che da lui si
richiedeva, ma lo compì con grande fede e anche con cristiano entusiasmo».

Padre Sandrone
raccomanda la prudenza per poter esercitare il ministero verso tutti. Nel
1940, allo scoppio della seconda guerra mondiale, l’Istituto impartisce
alcune disposizioni: «Nel parlare non si vada oltre al puro racconto dei
fatti… A nessuno è proibito di pensare gli avvenimenti secondo la
propria coscienza, però non deve esprimere con gli estranei la sua
opinione, ed anche con i confratelli si deve usare molta prudenza e
tolleranza, evitando ogni disputa accalorata. Il meglio sarebbe pensare,
come il beato Cafasso, al grande numero di anime che muoiono senza
sacramenti e procurare di ottenere loro da Dio una grazia particolare di
penitenza».

Non si può scordare
che il codice penale Rocco (1930) determina un aumento dei casi di reato
perseguibili e un allungamento della pena, fino a raddoppiarla rispetto a
quella del codice Zanardelli (1890). Inoltre il Regolamento penitenziario
del 1931 inasprisce la vita intramuraria con punizioni più severe e minori
controlli da parte della Commissione vigilatrice estea.

Padre Sandrone
assiste 40 detenuti che muoiono in carcere, lontani dagli affetti
familiari e dai luoghi domestici, in balia dell’università che utilizza i
loro corpi per esperimenti, come prevede il Regolamento.

Il 1° febbraio 1936
padre Sandrone lascia l’incarico di cappellano delle carceri. Gli succede
padre Pietro Dante, anch’egli coinvolto nell’assistenza dei condannati a
morte.

L’esperienza di san 
Giuseppe Cafasso si ripete tragicamente. I padri Vittorio Sandrone, Pietro
Dante, Giovanni Bortolas, Giuseppe Moncher, Carlo Masera, Gerardo Bottacin,
Giacomo Fissore, Adriano Severin, Giuseppe Rubatto, Enzo Sommadossi
accompagnano i 72 condannati alla fucilazione o impiccagione con una
partecipazione umana e religiosa indicibile. Ecco una testimonianza.

«Erano le 17 circa
del 22 luglio 1944. Mi aggiravo nelle celle dei detenuti, quando mi sentii
chiamare affannosamente dalla superiora delle suore, addette alla sezione
femminile delle carceri, suor Giuseppina De Muro. Corsi al luogo
indicatomi. Nel cortile esterno dello stabilimento trovavo già in partenza
due camion carichi di truppa con mitragliatrici. Tentai di salirvi. Mi
fermò un tenente della Leonessa, perché (i tedeschi che comandavano il
famigerato 1° braccio) non lo permettevano. Mi arrampicai sul camion in
moto. Mi trovai fra soldati e mitragliatrici; seduti e ammanettati vidi
sei individui in borghese. Non li conoscevo affatto, perché provenivano
dal reparto tedesco, dove era assolutamente vietato al cappellano
l’entrarvi. Neppure sapevo dove andava. Mi avvicinai al primo che stava
nella parte posteriore della macchina. Vestiva decentemente, era pallido
in viso, per tutto il tragitto come sul luogo di esecuzione non disse una
parola: era un capitano (Ignazio Vian)… Quattro condannati vengono fatti
scendere. Le manette ai polsi e la lunga catena che li unisce ostacolano
la discesa… sotto gli alberi vengono liberati dai ferri. Un camion
retrocedendo si ferma, in modo che la parte posteriore, con sponda
abbassata, si trovi sotto i capestri. Salgono i condannati, cui quattro
tedeschi legano le mani dietro la schiena. Un diciottenne invoca la mamma:
“Sono innocente, la mia mamma resterà sola, senza aiuto e senza appoggio”.
Non avverto segnali. La macchina parte improvvisamente, mentre i soldati
danno una spinta alle vittime, che si trovano sospese nel vuoto. Le
assistetti con la preghiera, rinnovando l’assoluzione finché non le vidi
immobili».

  Anche
un ragazzo di 20 anni

 n Disponibilità,
altra caratteristica dei missionari della Consolata. Alcuni sono obbligati
per motivi bellici a tornare in Italia e prestano servizio nei campi,
negli ospedali militari e in carcere. Ad esempio, padre Giacomo Fissore
opera a Torino da giugno 1940 ad agosto 1942 come cappellano militare
presso l’ospedale da campo n. 2, poi aiuta il cappellano delle carceri dal
1943 al 1950.

n L’ascolto del
carcerato è costante nei missionari della Consolata. Di padre Fissore il
professor Luigi Sacchetti scrive: «Mentre parlavo, mi stava a guardare in
silenzio con l’occhio di chi sa cogliere le voci più sepolte e le sa
ricomporre nei disegni di Dio».

Il detenuto non
chiede giudizi politici, né strategie di difesa giudiziaria, ma di essere
ascoltato per alleviare un po’ il suo cuore oppresso e per dare un senso
alla sua mente offuscata da dubbi corrosivi. L’assistenza spirituale a chi
soffre la prigione e ai condannati a morte permette di capire il mistero
dei progetti di Dio sull’uomo, anche in situazioni assurde ed ingiuste.

n La solidarietà
crea un sostegno reciproco fra i cappellani militari e quelli delle
carceri. In una lettera del 1942 spedita da padre Fissore, cappellano
militare del 2° ospedale da campo a Bussoleno, si raccomanda un medico a
padre Sandrone, cappellano de Le Nuove: «È stato tradotto alle carceri un
suo carissimo amico, il dottor Prando, sospettato di avere maneggiato
denaro nelle licenze dei soldati. È padre di due bambine. Credo che sono
30-40 i medici implicati in simili cose. Due sono veramente colpevoli.
Anche noi cappellani siamo tenuti d’occhio».

La solidarietà si
anima anche con il Da Casa Madre, che raccoglie e trasmette informazioni
sui missionari sparsi ovunque. È un organo di stampa importante nella
guerra: riduce preoccupazioni, angosce, incertezze, e conserva la
ragionevolezza nei rapporti sociali.

n Il tatto
caratterizza la comunicazione di notizie tristi alle famiglie dei
condannati a morte. Nella lettera di padre Ezio Sommadossi al genitore di
Carlo Pizzoo, fucilato il 22 settembre 1944, si legge: «Carissimo papà
desolato, non sono vostro figlio, ma sono fratello di vostro figlio…
Tutti i suoi baci che infiniti stampò sul mio volto per l’adorato papà ve
li trasmetto; pegno troppo prezioso per me, e non mi sento la forza di
custodirli con quella fede e purezza che unì le nostre anime fino al
momento che volò tra le braccia della sua mamma adorata (morta tempo
prima). Come vorrei dirvi, padre… Permettete al mio affetto di non
chiamarvi con altro nome: troppo ne sento il bisogno, perché diversamente
non saprei spiegare il dolore che squarciò il mio cuore… La sua
scomparsa segna una tappa nella mia vita. Attendo di vedervi per
riscaldare il vostro dolore coi baci che conservo come sacro pegno di
Carluccio».

Padre Sommadossi è
cappellano a Le Nuove da luglio al 16 novembre 1944; assiste 16 condannati
a morte; il primo è proprio Carlo Pizzoo, fucilato al Martinetto. Viene
sostituito da padre Ruggero Cipolla, francescano, per motivi di salute,
secondo una nota dell’Amministrazione penitenziaria (1945). In realtà il
missionario rischia di essere catturato dai tedeschi, sospettosi del suo
operato.

n Il rischio del
martirio contraddistingue l’azione del missionario della Consolata in
carcere. In una lettera della moglie del generale Perotti, Fiorenza
Perotti, si legge: «Padre Fissore aveva assistito mio marito e i suoi
compagni e, avendo accettato le lettere che mio marito aveva scritto per
consegnarle alla famiglia, aveva avuto minacce e botte da alcuni
componenti il plotone di esecuzione. Ho parlato pochi minuti con padre
Fissore, che era malconcio fisicamente e moralmente».

Il rischio di essere
fucilato è alto per padre Fissore, tenendo presente che le SS non si
fidano dei repubblichini, e a maggior ragione di altri italiani. Tale
esempio di coraggio e resistenza ai processi di disumanizzazione, se non
di annientamento messo in atto in prigione, merita particolare attenzione.

n La conversione è
un’altra esperienza forte del missionario fra i carcerati. Padre Carlo
Masera partecipa a 10 esecuzioni capitali dal 1943 al 1944 e racconta di
un giovane sui 20 anni. «Non aveva mai pregato, né era mai entrato in
chiesa. Mi sorse il dubbio che non fosse nemmeno cristiano. Infatti mi
confessò che non era battezzato». Ma in punto di morte il giovane riceve
il battesimo e la prima comunione.

 

Nel giorno della
sepoltura di padre Masera, il 27 gennaio 1970, padre Damiano Fea afferma:
«Questo periodo per i missionari della Consolata, che hanno assistito
tanti prigionieri, deportati e condannati a morte, è stato pesante, penoso
e delicato».

Ricordarli oggi è un
dovere della società e della chiesa.

Personalmente lo
faccio anche in omaggio del centenario dei missionari della Consolata.

Felice Tagliente,
psicologo

delle carceri «Le
Vallette/Le Nuove» – Torino

F. Xavier Nguyên Vân Thuân




RUSSIA – La fabbrica dei barboni

Secondo il Ministero del lavoro e dello sviluppo, sono una massa grigia di vagabondi maleodoranti, ubriaconi ed accattoni, con un’innata renitenza al lavoro e una spiccata tendenza a delinquere. Così certamente «appaiono». Ma si scopre pure
che sono stati «fabbricati» da eventi non casuali: quando si sottrae loro la casa
o vengono truffati «legalmente», quando si impongono leggi da servitù della gleba…
E non è tutto. Qualcuno rema a favore dei barboni, per fortuna.

UNA BRUTTA PAROLA

Se ne cominciò a parlare all’inizio degli anni Novanta. Fu allora che nel vocabolario dei russi entrò un nuovo termine, alquanto goffo, come tutte le parole-sigla di cui è pieno il linguaggio sovietico:
BOMZH, Bez Opredelennogo Mesta Zhitel’stva, ovvero «senza fissa dimora». In breve, barbone.
Il termine riflette nel suono, così tristemente burocratico, le caratteristiche di un fenomeno presente in tutti i paesi del mondo. Ma in Russia, per molta parte, bomzh non si diventa a seguito di disavventure familiari, rovesci finanziari, immigrazioni da paesi stranieri, oppure di scelte di vita. Il bomzh è sovente il prodotto delle leggi statali, dell’incuria e dell’arbitrio di funzionari governativi e pubblici ufficiali.
Dunque, all’inizio degli anni Novanta, con la fine del comunismo, il fenomeno dei senzatetto s’impose all’attenzione generale. Si collegava il fatto alla privatizzazione degli appartamenti, fino allora proprietà statale o di cornoperative. Era questo un atto quasi formale: le persone si vedevano riconoscere, dopo il pagamento di pochi rubli, la proprietà dell’appartamento o delle stanze in cui abitavano.
Con il ritorno della proprietà privata, fiorì un aggressivo mercato del mattone. E cominciarono a circolare per Mosca storie cui si stentava a credere: storie di alcolizzati che, in un momento di coscienza obnubilata, vendevano per un pugno di rubli il proprio appartamento e quello dei loro figli, buttati sul pianerottolo di casa; storie di anziani che d’improvviso morivano, lasciando così libera la propria stanza; storie di famiglie indotte, dietro regolare contratto di permuta, a trasferirsi in un altro alloggio che… non esisteva.
Pareva che l’origine dei bomzhi fosse da attribuire alla spregiudicatezza di un capitalismo senza regole, da Far West, che stava aggredendo tutti i settori dell’economia nazionale. Però, man mano che il tempo passava e il popolo dei barboni cresceva, diventava sempre più difficile credere che quella fosse l’unica causa di un fenomeno che assumeva proporzioni gigantesche.
Secondo dati ufficiali, nella sola Mosca erano 30 mila nel 1992; 100 mila nel 1995. Oggi superano i 4 milioni in Russia.

I «bomzhi» da prigione

A leggere i documenti del Ministero del lavoro e dello sviluppo sociale o le disposizioni emanate dalle autorità dello stato, i bomzhi sono una grigia massa di vagabondi maleodoranti, ubriaconi e accattoni per un’innata renitenza al lavoro e una spiccata tendenza a delinquere. Ma è proprio vero?
Giacché lo stato per lo più finge di ignorare il problema, per capire chi sono i senzatetto bisogna rivolgersi alle organizzazioni umanitarie. Grazie ai loro sforzi e ai dati di cui dispongono, possiamo farci un’idea meno approssimativa del fenomeno.
Sono diversi i motivi per cui ci si ritrova su una strada: problemi familiari; la chiusura di imprese e la conseguente perdita dell’alloggio aziendale; perché si è vittime di truffe immobiliari; perché dalle repubbliche ex-sovietiche si viene in Russia a cercare lavoro; perché si perde il documento d’identità; perché si esce di prigione.
Da questo elenco già s’intuisce che, per capire il problema dei senzatetto in Russia, è necessario riferirsi alla realtà del paese, in cui pesa ancora molto il recente passato sovietico. Esiste un dato che può sembrare sorprendente: il 35% (40% dopo l’amnistia di maggio 2000) dei senzatetto in Russia è costituito da ex detenuti. E, per spiegarlo, bisogna fare un passo indietro.
Nell’ex Unione Sovietica tutte le abitazioni appartenevano allo stato; quando, per motivi di lavoro, servizio militare o lunghe detenzioni, ci si trasferiva altrove, si perdeva la residenza e il diritto all’alloggio; in caso di ritorno, se ne sarebbe ricevuto un altro. Già allora il sistema funzionava a corrente alternata: bene in un senso e meno bene in quello opposto.
Se l’URSS ha cessato di esistere nel 1991, la sua macchina amministrativa ha però continuato a funzionare oltre questa data, alimentata da mentalità e abitudini radicate. Solo nel 1995 è stata abolita la legge che privava del diritto all’alloggio una persona che restasse assente da casa oltre sei mesi. Ciononostante, nei confronti dei condannati a più di sei mesi di reclusione, ancora oggi si applica arbitrariamente la vecchia disposizione. L’ex detenuto che ritorna, se non ha una famiglia che lo accoglie, si ritrova su una strada.
Nella sola Pietroburgo ogni anno ritornano dal carcere 8-10 mila individui. E molti non sanno dove andare. Non rimane che mettersi in lista per l’assegnazione di un alloggio in quanto nullatenente. La legge, infatti, ne riconosce il diritto a tutti, sebbene, non fissando i tempi di esecuzione, lo neghi in pratica.
Vale da esempio il caso di Valerij, classe 1958, pietroburghese. Nel 1993, mentre era in carcere e i genitori morivano, il suo appartamento è tornato all’amministrazione rionale. Rientrato in città, Valerij ha chiesto un’altra abitazione. «È impossibile – si è giustificata la commissione-case -, data la grande carenza di alloggi nel quartiere». Con chi se la poteva prendere Valerij? Non certo contro l’amministrazione, che ha accolto la sua richiesta, ma cui la legge non impone un termine entro cui esaudirla.
Non sono solo gli ex detenuti a restare senza un tetto a causa di assurdi meccanismi legislativi. Nella medesima situazione si trovano i russi che tornano a casa dopo una residenza in altre regioni del paese. Un altro esempio.
Tempo fa una famiglia di Mosca partiva per le ingrate regioni del nord, dove il lavoro era ancora ben remunerato. Ha lasciato a casa il nonno, che però è morto senza aver privatizzato l’appartamento, passato così all’amministrazione cittadina. La famiglia, quando quattro anni fa è tornata, non ha trovato più niente. Ora i genitori hanno un letto al dormitorio pubblico e i figli vivono all’orfanotrofio.
Per non parlare di truffe
Ci sono altri motivi per cui una persona può perdere la casa. Ho già accennato al fatto che con la privatizzazione degli appartamenti sono iniziate pure le truffe immobiliari. Secondo dati di Medici senza frontiere e Caritas, ne è vittima circa il 15% dei senzatetto. È un tipico postumo del periodo sovietico.
In un paese dove per decenni l’unica proprietà possibile era statale e le istituzioni erano infallibili per postulato, i cittadini hanno perso completamente il «senso giuridico» della proprietà privata e acquisito, nel contempo, la convinzione che tutto ciò che ha apparenza istituzionale (un pezzo di carta con timbro e bollo) sia di per sé degno di fede. Così la gente si è lasciata raggirare facilmente.
Le truffe rimangono spesso impunite. Polizia e procura non dimostrano un particolare zelo nello smascherare e perseguire i colpevoli, anche perché vi sono spesso coinvolti colleghi e funzionari del Ministero degli interni o dell’amministrazione statale. È difficile per le vittime raccogliere le prove sufficienti a dimostrare la truffa. Inoltre, data l’ignoranza delle leggi, è indispensabile l’assistenza di un avvocato, per molti un onere troppo costoso.
Per aiutare le persone in tali condizioni, è nata nel 1994 l’associazione Novyj dom («Una nuova casa»), che offre assistenza legale gratuita a chi non se la può permettere. È costituita da professionisti che vi dedicano le ore della sera, al termine della giornata di lavoro. «Altrimenti non potremmo sostentarci – spiega uno di loro, Aleksandr Kotov -, perché non riceviamo quasi finanziamenti dall’esterno».
Nessuna targa sulla strada indica la sede: si trova al piano terra di un appartamento e gli inquilini del palazzo mal sopportano Novyj dom, con quel viavai di gente di ogni tipo. «Lo stato non ci aiuta in alcun modo, non ci accorda nemmeno le esenzioni fiscali che spettano alle organizzazioni benefiche. Per essere ufficialmente riconosciuti come tali, avremmo dovuto dare una tangente, ma ci siamo rifiutati. Per ben tre volte abbiamo provato ad avviare la pratica, ma abbiamo sempre dovuto rinunciarvi».
Aleksandr mi racconta uno dei tanti inverosimili casi capitati.
Un uomo viene fermato per strada con un pretesto e condotto al comando di polizia, dove è trattenuto per un mese. Nel frattempo gli tolgono il documento d’identità, che non gli verrà più restituito. Quando viene rilasciato, l’uomo corre a casa e trova la porta sbarrata: la chiave non entra più nella serratura. Ritorna alla polizia, ma trova altre persone. Quando dichiara le proprie generalità (che ora senza documento non può più provare), gli dicono che lui non è lui, che la persona per cui si «spaccia» ha venduto il proprio appartamento un paio di settimane prima e si è trasferita altrove… Adesso il gioco era chiaro: mentre si trovava sequestrato dalla polizia, qualcuno ha venduto il suo appartamento servendosi del suo documento.
Grazie a Novyj dom, quell’uomo ricupererà la casa. Ma questo è solo uno dei pochi episodi a lieto fine. Anche quando si arriva al processo, l’iter è lungo e difficile, perché bisogna rompere le reti di connivenze. Si può farcela, ma nel frattempo l’interessato può sparire chissà dove, nel tentativo di sopravvivere senza una casa, travolto dalla vita randagia cui è stato costretto.
imprese e orfani
Una discreta percentuale di senzatetto (15%) perde la casa in seguito alla perdita del lavoro. Però non è solo un problema di disoccupazione.
In Russia la mancanza di case è sempre stata cronica. Per tale motivo, nel tempo sovietico diverse imprese statali mettevano a disposizione dei dipendenti un alloggio in un pensionato aziendale: anche solo una stanza o un letto. Per i lavoratori, oggi, una delle conseguenze più gravi del fallimento o della privatizzazione delle imprese è essere privati di un tetto, che è molto difficile rimpiazzare.
In Russia c’è parecchia gente che vive in appartamenti di «coabitazione», dove le stanze sono occupate da vari nuclei famigliari, mentre bagno e cucina sono in comune. Si aggiunga che, negli ultimi anni (specie a Mosca), i prezzi degli affitti sono al di sopra delle possibilità di una famiglia media. Ciò spiega perché tanta gente perda la casa.
Molte giovani coppie si vedono costrette a convivere con genitori o suoceri. E accade che, quando uno della famiglia se ne va per dissidi o perché si divorzia o (peggio ancora) perché si è minacciati da estranei introdottisi in casa (la convivente del figlio, il convivente della madre o della moglie), l’individuo abbia serie difficoltà a trovare un’altra sistemazione. Così finisce facilmente sulla strada.
Poi ci sono coloro che non hanno quasi mai avuto una casa. Sono i tanti bambini che crescono negli orfanotrofi.
In questi ultimi anni la Russia è diventata uno dei paesi cui maggiormente ci si rivolge per adozioni inteazionali. Dove vanno i bimbi che escono dagli orfanotrofi? Chi vi è giunto direttamente dal reparto mateità di un ospedale, non avendo mai avuto un alloggio, non ha neanche diritto ad essee reintegrato (la logica non fa una grinza); gli altri dovrebbero ricevee uno, ma sovente non accade.
Un tempo questi ragazzi venivano mandati a lavorare in fabbrica, e ricevevano pure un letto. Oggi passano direttamente dall’orfanotrofio alla strada. Date le condizioni precarie in cui si trovano, finiscono prima o poi per commettere un reato; e in poco tempo si ritrovano in prigione o in una colonia di rieducazione. Per lo stato è meglio tenerli lì che procurare loro un alloggio.
Il problema si ripresenta quando devono uscire dalla prigione. «Non vogliono andarsene – afferma Aleksandr di Novyj dom, che sta cercando di aiutare le ragazze detenute in una colonia penale nei pressi di Rjazan’. Chiedono di rimanere a lavorare in carcere. Il direttore, che è un brav’uomo, fa di tutto per aiutarle, ma egli stesso ha grossi problemi a mandare avanti la colonia… con le magre dotazioni statali».
Come marziani dal cielo
La Caritas usa una strana espressione: «vittime di furto». Il problema non è economico: sarebbe troppo comprensibile. I soldi questa volta non c’entrano.
Ebbene, basta poco per entrare nella grande «famiglia» dei senzatetto: basta, ad esempio, perdere il documento di identità lontano da casa.
Molte sono le persone che vengono in Russia da altre repubbliche ex sovietiche in cerca di lavoro. Lasciano la loro casa in Ucraina, Moldavia, Bielorussia, Armenia… sperando di farvi ritorno dopo qualche mese con un po’ di soldi. Arrivano e, tanto per cominciare, passano le prime notti in una stazione. Per 25 rubli viene data loro una cuccetta in un vagone parcheggiato su un binario morto. Qui i furti sono all’ordine del giorno.
Qualcuno nota gli sprovveduti novellini e ruba loro la borsa con soldi e documenti. Che fare? Ritornare a casa senza un soldo sarebbe una vergogna; né potrebbero farlo, anche se avessero il denaro sufficiente per acquistare un biglietto: senza documento non glielo vendono. Se decidessero di farsi mandare dei soldi da casa, non potrebbero poi ritirarli alla posta senza la carta di identità. Per ottenere un nuovo documento occorrono mesi, se non anni: bisogna aspettare che arrivi il fascicolo personale, custodito all’ufficio passaporti del luogo di residenza. I rapporti tra le istituzioni russe e quelle delle altre repubbliche sono poco collaborativi, per non dire ostili. Inoltre gli stessi uffici passaporti russi non sono modelli di efficienza.
In identiche condizioni si possono trovare i russi, venuti a Mosca dalle lontane province in cerca di lavoro, o per sbrigare una pratica o per cure mediche. Se perdono il documento, si ritrovano nel proprio paese come marziani piombati dal cielo.
Nel frattempo bisogna vivere: ottenere un lavoro regolare senza documenti è impossibile. Rimangono i lavori neri, sottopagati e rischiosi, perché invece della paga puoi ricevere una manica di botte. È un’esperienza quotidiana. Tanto, senza documenti, sei nessuno: non puoi andare in tribunale né rivolgerti ad un pronto soccorso o un ambulatorio, se ti succede qualcosa.
È difficile anche trovare un alloggio. Per legge è vietato ospitare persone prive di documenti o senza registrazione. Chi lo fa viene multato. A Mosca i dormitori pubblici accettano solo moscoviti o ex moscoviti, naturalmente in possesso di documenti.
Infine, se ti fermano per strada per un controllo (cosa molto probabile, perché il tuo aspetto non passa inosservato all’occhio attento dei tutori dell’ordine), trovandoti senza documenti finisci quasi certamente in un luogo chiamato «Centro raccolta e smistamento».
Proprio come un pacco.
(Continua nel prossimo numero).

IL CERCHIO SI CHIUDE SEMPRE

A nno 1917. Dopo la rivoluzione d’ottobre il nuovo regime, tra le varie istituzioni considerate borghesi, abolì anche il sistema dei passaporti interni, l’equivalente delle nostre carte d’identità. In seguito questo sistema non solo fu reintrodotto, ma il rilascio del documento fu condizionato al luogo di residenza: si proibiva ai cittadini sovietici di risiedere in un luogo diverso da quello registrato. La registrazione si chiamava propiska.
Veniva così risuscitato un istituto della servitù della gleba, quando il contadino non aveva il diritto di abbandonare la terra su cui viveva.
L’obbligo della «propiska» aveva in URSS un fine analogo: impedire al contadino di abbandonare le campagne collettivizzate. La legge vietava di trasferirsi da un luogo all’altro senza avere prima il permesso di soggiorno. Tale permesso si otteneva solo se si contraeva il matrimonio con persona già residente o se si aveva un lavoro; ma nessun lavoro veniva offerto senza un permesso di soggiorno. E il cerchio si chiudeva.
Con la fine dell’URSS, il concetto di «propiska» è formalmente decaduto, ma nella pratica è più vegeto che mai (oggi si chiama «registrazione»), in aperto contrasto con le libertà garantite dalla nuova costituzione. Il caso di Mosca è il più eclatante.
Ogni cittadino della Federazione Russa che arrivi nella capitale per qualsiasi motivo (turismo, visita a parenti, cure, rientro temporaneo dall’estero) è tenuto a registrarsi presso la questura. È come se un italiano, in visita a Roma, dovesse segnalare il suo arrivo alla polizia, che può a propria discrezione negargli il permesso di soggioare in città… La registrazione è una disposizione (anticostituzionale) del sindaco di Mosca, Luzhkov, che viene puntualmente fatta rispettare in barba a tutto e a tutti.
Due poliziotti fermano un passante d’aspetto caucasico, o dall’aria provinciale o male in aese (probabilmente un bomzh) e controllano i suoi documenti. Controlli illegali, ma per essere lasciati in pace bisogna «sganciare»… Scene del genere si vedono in continuazione per le vie di Mosca: nei punti di maggior traffico, nei mercati, davanti agli ingressi della metropolitana.
La prassi ha anche il piacevole (per le autorità) effetto di creare nel cittadino un sentimento d’insicurezza. Davanti al poliziotto, il rappresentante della legge, ci si sente sempre nel torto.
D unque, senza un luogo di dimora fisso, è molto difficile ottenere il documento d’identità. E, senza il documento d’identità, non sei nessuno: sei un non-uomo. E il cerchio si chiude un’altra volta.
Come s’è visto, senza un documento non puoi avere un alloggio regolare, e non solo. Non puoi avere un lavoro: il datore sarebbe multato. Senza un documento e relativa registrazione, ti vedi rifiutare l’assistenza ambulatoriale (è prestata secondo la residenza), non puoi votare (gli elenchi elettorali sono formati con riferimento ai residenti), né puoi rivolgerti al tribunale o acquistare un biglietto aereo o ferroviario; non puoi ottenere la pensione o altri sussidi statali (si ricevono in base alla residenza), né puoi usufruire di strutture pubbliche quali ospizi, pensionati per invalidi (è richiesto un certificato medico che per te è impossibile ottenere); non puoi essere iscritto sulle liste di disoccupazione (gli uffici di collocamento accettano solo i residenti nel territorio).
In compenso, puoi essere fermato per la strada dalla polizia e trattenuto (illegalmente) fino a 30 giorni.
Ecco il potere dei documenti d’identità e «propiska» in Russia. E si capisce quale terribile fatalità sia rimanee senza.
Una fatalità che agli ex detenuti tocca quasi sempre affrontare. All’uscita del carcere essi dovrebbero, per legge, ricevere un nuovo documento d’identità. Ciò avviene nel 5% dei casi. Per il resto viene consegnato solo il certificato di rilascio dalla prigione, che al primo controllo per strada può venire stracciato da qualche poliziotto arrogante. Sì, perché la polizia spesso straccia o requisisce certificati e documenti d’identità.
Molti scontano il periodo di detenzione lontano dalle loro case; per tornarvi devono fare parecchia strada e, in breve, i pochi soldi finiscono. Allora vengono a Mosca in cerca di un lavoro per proseguire. Ma non ce la fanno, perché si ritrovano senza documenti, cioè senza diritti.
Il cerchio si chiude sempre.
Bi.Ba.

Biancamaria Balestra




RUSSIA: l’esercito dei «senzatetto» (prima puntata). LA FABBRICA DEI BARBONI

Secondo il
Ministero del lavoro e dello sviluppo, sono una massa grigia di vagabondi
maleodoranti, ubriaconi ed accattoni, con un’innata renitenza al lavoro e
una spiccata tendenza a delinquere. Così certamente «appaiono». Ma si
scopre pure che sono stati «fabbricati» da eventi non casuali: quando si
sottrae loro la casa o vengono truffati «legalmente», quando si impongono
leggi da servitù della gleba… E non è tutto. Qualcuno rema a favore dei
barboni, per fortuna.

 Una
brutta parola

 Se ne cominciò a
parlare all’inizio degli anni Novanta. Fu allora che nel vocabolario dei
russi entrò un nuovo termine, alquanto goffo, come tutte le parole-sigla
di cui è pieno il linguaggio sovietico:

BOMZH, Bez
Opredelennogo Mesta Zhitel’stva, ovvero «senza fissa dimora». In breve,
barbone.

Il termine riflette
nel suono, così tristemente burocratico, le caratteristiche di un fenomeno
presente in tutti i paesi del mondo. Ma in Russia, per molta parte, bomzh
non si diventa a seguito di disavventure familiari, rovesci finanziari,
immigrazioni da paesi stranieri, oppure di scelte di vita. Il bomzh è
sovente il prodotto delle leggi statali, dell’incuria e dell’arbitrio di
funzionari governativi e pubblici ufficiali.

Dunque, all’inizio
degli anni Novanta, con la fine del comunismo, il fenomeno dei senzatetto
s’impose all’attenzione generale. Si collegava il fatto alla
privatizzazione degli appartamenti, fino allora proprietà statale o di
cornoperative. Era questo un atto quasi formale: le persone si vedevano
riconoscere, dopo il pagamento di pochi rubli, la proprietà
dell’appartamento o delle stanze in cui abitavano.

Con il ritorno della
proprietà privata, fiorì un aggressivo mercato del mattone. E cominciarono
a circolare per Mosca storie cui si stentava a credere: storie di
alcolizzati che, in un momento di coscienza obnubilata, vendevano per un
pugno di rubli il proprio appartamento e quello dei loro figli, buttati
sul pianerottolo di casa; storie di anziani che d’improvviso morivano,
lasciando così libera la propria stanza; storie di famiglie indotte,
dietro regolare contratto di permuta, a trasferirsi in un altro alloggio
che… non esisteva.

Pareva che l’origine
dei bomzhi fosse da attribuire alla spregiudicatezza di un capitalismo
senza regole, da Far West, che stava aggredendo tutti i settori
dell’economia nazionale. Però, man mano che il tempo passava e il popolo
dei barboni cresceva, diventava sempre più difficile credere che quella
fosse l’unica causa di un fenomeno che assumeva proporzioni gigantesche.

Secondo dati
ufficiali, nella sola Mosca erano 30 mila nel 1992; 100 mila nel 1995.
Oggi superano i 4 milioni in Russia.

 I «bomzhi»
da prigione

 A leggere i
documenti del Ministero del lavoro e dello sviluppo sociale o le
disposizioni emanate dalle autorità dello stato, i bomzhi sono una grigia
massa di vagabondi maleodoranti, ubriaconi e accattoni per un’innata
renitenza al lavoro e una spiccata tendenza a delinquere. Ma è proprio
vero?

Giacché lo stato per
lo più finge di ignorare il problema, per capire chi sono i senzatetto
bisogna rivolgersi alle organizzazioni umanitarie. Grazie ai loro sforzi e
ai dati di cui dispongono, possiamo farci un’idea meno approssimativa del
fenomeno.

Sono diversi i
motivi per cui ci si ritrova su una strada: problemi familiari; la
chiusura di imprese e la conseguente perdita dell’alloggio aziendale;
perché si è vittime di truffe immobiliari; perché dalle repubbliche
ex-sovietiche si viene in Russia a cercare lavoro; perché si perde il
documento d’identità; perché si esce di prigione.

Da questo elenco già
s’intuisce che, per capire il problema dei senzatetto in Russia, è
necessario riferirsi alla realtà del paese, in cui pesa ancora molto il
recente passato sovietico. Esiste un dato che può sembrare sorprendente:
il 35% (40% dopo l’amnistia di maggio 2000) dei senzatetto in Russia è
costituito da ex detenuti. E, per spiegarlo, bisogna fare un passo
indietro.

Nell’ex Unione
Sovietica tutte le abitazioni appartenevano allo stato; quando, per motivi
di lavoro, servizio militare o lunghe detenzioni, ci si trasferiva
altrove, si perdeva la residenza e il diritto all’alloggio; in caso di
ritorno, se ne sarebbe ricevuto un altro. Già allora il sistema funzionava
a corrente alternata: bene in un senso e meno bene in quello opposto.

Se l’URSS ha cessato
di esistere nel 1991, la sua macchina amministrativa ha però continuato a
funzionare oltre questa data, alimentata da mentalità e abitudini
radicate. Solo nel 1995 è stata abolita la legge che privava del diritto
all’alloggio una persona che restasse assente da casa oltre sei mesi.
Ciononostante, nei confronti dei condannati a più di sei mesi di
reclusione, ancora oggi si applica arbitrariamente la vecchia
disposizione. L’ex detenuto che ritorna, se non ha una famiglia che lo
accoglie, si ritrova su una strada.

Nella sola
Pietroburgo ogni anno ritornano dal carcere 8-10 mila individui. E molti
non sanno dove andare. Non rimane che mettersi in lista per l’assegnazione
di un alloggio in quanto nullatenente. La legge, infatti, ne riconosce il
diritto a tutti, sebbene, non fissando i tempi di esecuzione, lo neghi in
pratica.

Vale da esempio il
caso di Valerij, classe 1958, pietroburghese. Nel 1993, mentre era in
carcere e i genitori morivano, il suo appartamento è tornato
all’amministrazione rionale. Rientrato in città, Valerij ha chiesto
un’altra abitazione. «È impossibile – si è giustificata la
commissione-case -, data la grande carenza di alloggi nel quartiere». Con
chi se la poteva prendere Valerij? Non certo contro l’amministrazione, che
ha accolto la sua richiesta, ma cui la legge non impone un termine entro
cui esaudirla.

Non sono solo gli ex
detenuti a restare senza un tetto a causa di assurdi meccanismi
legislativi. Nella medesima situazione si trovano i russi che tornano a
casa dopo una residenza in altre regioni del paese. Un altro esempio.

Tempo fa una
famiglia di Mosca partiva per le ingrate regioni del nord, dove il lavoro
era ancora ben remunerato. Ha lasciato a casa il nonno, che però è morto
senza aver privatizzato l’appartamento, passato così all’amministrazione
cittadina. La famiglia, quando quattro anni fa è tornata, non ha trovato
più niente. Ora i genitori hanno un letto al dormitorio pubblico e i figli
vivono all’orfanotrofio.

 Per non parlare
di truffe

 Ci sono altri
motivi per cui una persona può perdere la casa. Ho già accennato al fatto
che con la privatizzazione degli appartamenti sono iniziate pure le truffe
immobiliari. Secondo dati di Medici senza frontiere e Caritas, ne è
vittima circa il 15% dei senzatetto. È un tipico postumo del periodo
sovietico.

In un paese dove per
decenni l’unica proprietà possibile era statale e le istituzioni erano
infallibili per postulato, i cittadini hanno perso completamente il «senso
giuridico» della proprietà privata e acquisito, nel contempo, la
convinzione che tutto ciò che ha apparenza istituzionale (un pezzo di
carta con timbro e bollo) sia di per sé degno di fede. Così la gente si è
lasciata raggirare facilmente.

Le truffe rimangono
spesso impunite. Polizia e procura non dimostrano un particolare zelo
nello smascherare e perseguire i colpevoli, anche perché vi sono spesso
coinvolti colleghi e funzionari del Ministero degli interni o
dell’amministrazione statale. È difficile per le vittime raccogliere le
prove sufficienti a dimostrare la truffa. Inoltre, data l’ignoranza delle
leggi, è indispensabile l’assistenza di un avvocato, per molti un onere
troppo costoso.

Per aiutare le
persone in tali condizioni, è nata nel 1994 l’associazione Novyj dom («Una
nuova casa»), che offre assistenza legale gratuita a chi non se la può
permettere. È costituita da professionisti che vi dedicano le ore della
sera, al termine della giornata di lavoro. «Altrimenti non potremmo
sostentarci – spiega uno di loro, Aleksandr Kotov -, perché non riceviamo
quasi finanziamenti dall’esterno».

Nessuna targa sulla
strada indica la sede: si trova al piano terra di un appartamento e gli
inquilini del palazzo mal sopportano Novyj dom, con quel viavai di gente
di ogni tipo. «Lo stato non ci aiuta in alcun modo, non ci accorda nemmeno
le esenzioni fiscali che spettano alle organizzazioni benefiche. Per
essere ufficialmente riconosciuti come tali, avremmo dovuto dare una
tangente, ma ci siamo rifiutati. Per ben tre volte abbiamo provato ad
avviare la pratica, ma abbiamo sempre dovuto rinunciarvi».

Aleksandr mi
racconta uno dei tanti inverosimili casi capitati.

Un uomo viene
fermato per strada con un pretesto e condotto al comando di polizia, dove
è trattenuto per un mese. Nel frattempo gli tolgono il documento
d’identità, che non gli verrà più restituito. Quando viene rilasciato,
l’uomo corre a casa e trova la porta sbarrata: la chiave non entra più
nella serratura. Ritorna alla polizia, ma trova altre persone. Quando
dichiara le proprie generalità (che ora senza documento non può più
provare), gli dicono che lui non è lui, che la persona per cui si
«spaccia» ha venduto il proprio appartamento un paio di settimane prima e
si è trasferita altrove… Adesso il gioco era chiaro: mentre si trovava
sequestrato dalla polizia, qualcuno ha venduto il suo appartamento
servendosi del suo documento.

Grazie a Novyj dom,
quell’uomo ricupererà la casa. Ma questo è solo uno dei pochi episodi a
lieto fine. Anche quando si arriva al processo, l’iter è lungo e
difficile, perché bisogna rompere le reti di connivenze. Si può farcela,
ma nel frattempo l’interessato può sparire chissà dove, nel tentativo di
sopravvivere senza una casa, travolto dalla vita randagia cui è stato
costretto.

 Imprese e orfani

 Una discreta
percentuale di senzatetto (15%) perde la casa in seguito alla perdita del
lavoro. Però non è solo un problema di disoccupazione.

In Russia la
mancanza di case è sempre stata cronica. Per tale motivo, nel tempo
sovietico diverse imprese statali mettevano a disposizione dei dipendenti
un alloggio in un pensionato aziendale: anche solo una stanza o un letto.
Per i lavoratori, oggi, una delle conseguenze più gravi del fallimento o
della privatizzazione delle imprese è essere privati di un tetto, che è
molto difficile rimpiazzare.

In Russia c’è
parecchia gente che vive in appartamenti di «coabitazione», dove le stanze
sono occupate da vari nuclei famigliari, mentre bagno e cucina sono in
comune. Si aggiunga che, negli ultimi anni (specie a Mosca), i prezzi
degli affitti sono al di sopra delle possibilità di una famiglia media.
Ciò spiega perché tanta gente perda la casa.

Molte giovani coppie
si vedono costrette a convivere con genitori o suoceri. E accade che,
quando uno della famiglia se ne va per dissidi o perché si divorzia o
(peggio ancora) perché si è minacciati da estranei introdottisi in casa
(la convivente del figlio, il convivente della madre o della moglie),
l’individuo abbia serie difficoltà a trovare un’altra sistemazione. Così
finisce facilmente sulla strada.

Poi ci sono coloro
che non hanno quasi mai avuto una casa. Sono i tanti bambini che crescono
negli orfanotrofi.

In questi ultimi
anni la Russia è diventata uno dei paesi cui maggiormente ci si rivolge
per adozioni inteazionali. Dove vanno i bimbi che escono dagli
orfanotrofi? Chi vi è giunto direttamente dal reparto mateità di un
ospedale, non avendo mai avuto un alloggio, non ha neanche diritto ad
essee reintegrato (la logica non fa una grinza); gli altri dovrebbero
ricevee uno, ma sovente non accade.

Un tempo questi
ragazzi venivano mandati a lavorare in fabbrica, e ricevevano pure un
letto. Oggi passano direttamente dall’orfanotrofio alla strada. Date le
condizioni precarie in cui si trovano, finiscono prima o poi per
commettere un reato; e in poco tempo si ritrovano in prigione o in una
colonia di rieducazione. Per lo stato è meglio tenerli lì che procurare
loro un alloggio.

Il problema si
ripresenta quando devono uscire dalla prigione. «Non vogliono andarsene –
afferma Aleksandr di Novyj dom, che sta cercando di aiutare le ragazze
detenute in una colonia penale nei pressi di Rjazan’. Chiedono di rimanere
a lavorare in carcere. Il direttore, che è un brav’uomo, fa di tutto per
aiutarle, ma egli stesso ha grossi problemi a mandare avanti la colonia…
con le magre dotazioni statali».

 Come
marziani dal cielo

 La Caritas usa una
strana espressione: «vittime di furto». Il problema non è economico:
sarebbe troppo comprensibile. I soldi questa volta non c’entrano.

Ebbene, basta poco
per entrare nella grande «famiglia» dei senzatetto: basta, ad esempio,
perdere il documento di identità lontano da casa.

Molte sono le
persone che vengono in Russia da altre repubbliche ex sovietiche in cerca
di lavoro. Lasciano la loro casa in Ucraina, Moldavia, Bielorussia,
Armenia… sperando di farvi ritorno dopo qualche mese con un po’ di
soldi. Arrivano e, tanto per cominciare, passano le prime notti in una
stazione. Per 25 rubli viene data loro una cuccetta in un vagone
parcheggiato su un binario morto. Qui i furti sono all’ordine del giorno.

Qualcuno nota gli
sprovveduti novellini e ruba loro la borsa con soldi e documenti. Che
fare? Ritornare a casa senza un soldo sarebbe una vergogna; né potrebbero
farlo, anche se avessero il denaro sufficiente per acquistare un
biglietto: senza documento non glielo vendono. Se decidessero di farsi
mandare dei soldi da casa, non potrebbero poi ritirarli alla posta senza
la carta di identità. Per ottenere un nuovo documento occorrono mesi, se
non anni: bisogna aspettare che arrivi il fascicolo personale, custodito
all’ufficio passaporti del luogo di residenza. I rapporti tra le
istituzioni russe e quelle delle altre repubbliche sono poco
collaborativi, per non dire ostili. Inoltre gli stessi uffici passaporti
russi non sono modelli di efficienza.

In identiche
condizioni si possono trovare i russi, venuti a Mosca dalle lontane
province in cerca di lavoro, o per sbrigare una pratica o per cure
mediche. Se perdono il documento, si ritrovano nel proprio paese come
marziani piombati dal cielo.

Nel frattempo
bisogna vivere: ottenere un lavoro regolare senza documenti è impossibile.
Rimangono i lavori neri, sottopagati e rischiosi, perché invece della paga
puoi ricevere una manica di botte. È un’esperienza quotidiana. Tanto,
senza documenti, sei nessuno: non puoi andare in tribunale né rivolgerti
ad un pronto soccorso o un ambulatorio, se ti succede qualcosa.

È difficile anche
trovare un alloggio. Per legge è vietato ospitare persone prive di
documenti o senza registrazione. Chi lo fa viene multato. A Mosca i
dormitori pubblici accettano solo moscoviti o ex moscoviti, naturalmente
in possesso di documenti.

Infine, se ti
fermano per strada per un controllo (cosa molto probabile, perché il tuo
aspetto non passa inosservato all’occhio attento dei tutori dell’ordine),
trovandoti senza documenti finisci quasi certamente in un luogo chiamato
«Centro raccolta e smistamento».

Proprio come un
pacco.


(Continua nel
prossimo numero)
.

 


IL CERCHIO SI CHIUDE

 

Anno 1917. Dopo la
rivoluzione d’ottobre il nuovo regime, tra le varie istituzioni
considerate borghesi, abolì anche il sistema dei passaporti interni,
l’equivalente delle nostre carte d’identità. In seguito questo sistema non
solo fu reintrodotto, ma il rilascio del documento fu condizionato al
luogo di residenza: si proibiva ai cittadini sovietici di risiedere in un
luogo diverso da quello registrato. La registrazione si chiamava propiska.

Veniva così
risuscitato un istituto della servitù della gleba, quando il contadino non
aveva il diritto di abbandonare la terra su cui viveva.

L’obbligo della «propiska»
aveva in URSS un fine analogo: impedire al contadino di abbandonare le
campagne collettivizzate. La legge vietava di trasferirsi da un luogo
all’altro senza avere prima il permesso di soggiorno. Tale permesso si
otteneva solo se si contraeva il matrimonio con persona già residente o se
si aveva un lavoro; ma nessun lavoro veniva offerto senza un permesso di
soggiorno. E il cerchio si chiudeva.

Con la fine
dell’URSS, il concetto di «propiska» è formalmente decaduto, ma nella
pratica è più vegeto che mai (oggi si chiama «registrazione»), in aperto
contrasto con le libertà garantite dalla nuova costituzione. Il caso di
Mosca è il più eclatante.

Ogni cittadino della
Federazione Russa che arrivi nella capitale per qualsiasi motivo (turismo,
visita a parenti, cure, rientro temporaneo dall’estero) è tenuto a
registrarsi presso la questura. È come se un italiano, in visita a Roma,
dovesse segnalare il suo arrivo alla polizia, che può a propria
discrezione negargli il permesso di soggioare in città… La
registrazione è una disposizione (anticostituzionale) del sindaco di
Mosca, Luzhkov, che viene puntualmente fatta rispettare in barba a tutto e
a tutti.

Due poliziotti
fermano un passante d’aspetto caucasico, o dall’aria provinciale o male in
aese (probabilmente un bomzh) e controllano i suoi documenti. Controlli
illegali, ma per essere lasciati in pace bisogna «sganciare»… Scene del
genere si vedono in continuazione per le vie di Mosca: nei punti di
maggior traffico, nei mercati, davanti agli ingressi della metropolitana.

La prassi ha anche
il piacevole (per le autorità) effetto di creare nel cittadino un
sentimento d’insicurezza. Davanti al poliziotto, il rappresentante della
legge, ci si sente sempre nel torto.

D unque, senza un
luogo di dimora fisso, è molto difficile ottenere il documento d’identità.
E, senza il documento d’identità, non sei nessuno: sei un non-uomo. E il
cerchio si chiude un’altra volta.

Come s’è visto,
senza un documento non puoi avere un alloggio regolare, e non solo. Non
puoi avere un lavoro: il datore sarebbe multato. Senza un documento e
relativa registrazione, ti vedi rifiutare l’assistenza ambulatoriale (è
prestata secondo la residenza), non puoi votare (gli elenchi elettorali
sono formati con riferimento ai residenti), né puoi rivolgerti al
tribunale o acquistare un biglietto aereo o ferroviario; non puoi ottenere
la pensione o altri sussidi statali (si ricevono in base alla residenza),
né puoi usufruire di strutture pubbliche quali ospizi, pensionati per
invalidi (è richiesto un certificato medico che per te è impossibile
ottenere); non puoi essere iscritto sulle liste di disoccupazione (gli
uffici di collocamento accettano solo i residenti nel territorio).

In compenso, puoi
essere fermato per la strada dalla polizia e trattenuto (illegalmente)
fino a 30 giorni.

Ecco il potere dei
documenti d’identità e «propiska» in Russia. E si capisce quale terribile
fatalità sia rimanee senza.

Una fatalità che
agli ex detenuti tocca quasi sempre affrontare. All’uscita del carcere
essi dovrebbero, per legge, ricevere un nuovo documento d’identità. Ciò
avviene nel 5% dei casi. Per il resto viene consegnato solo il certificato
di rilascio dalla prigione, che al primo controllo per strada può venire
stracciato da qualche poliziotto arrogante. Sì, perché la polizia spesso
straccia o requisisce certificati e documenti d’identità.

Molti scontano il
periodo di detenzione lontano dalle loro case; per tornarvi devono fare
parecchia strada e, in breve, i pochi soldi finiscono. Allora vengono a
Mosca in cerca di un lavoro per proseguire. Ma non ce la fanno, perché si
ritrovano senza documenti, cioè senza diritti.

Il cerchio si chiude
sempre.

Biancamaria Balestra




ETIOPIA – Un paese… di corsa

Non si tratta delle visite alle nostre missioni
di chi vuole in pochi giorni conoscere
la cultura della nazione e vivere un’esperienza missionaria;
ma del verbo «correre», nel senso letterale
del termine: l’Etiopia è famosa per i suoi maratoneti; ma anche i ragazzi di un campo profughi alla periferia della capitale non scherzano.

V enti anni fa, quando fui destinato alle missioni in Etiopia, sapevo poco di questo paese. Furono gli amici, ferrati più di me nel tifo sportivo, che mi diedero la prima conoscenza di questa nazione, identificando l’Etiopia con Abbebe Bikila, l’atleta che, correndo a piedi scalzi, vinse la maratona delle Olimpiadi di Roma nel 1960.
Oggi, a 40 anni di distanza, mi sono più che familiari i nomi di Hailé Ghebre Selassié, Ghezahegn, Derartu Tullu, Million Wolde, Ghiete Wami, i podisti che tengono alta la bandiera nazionale, come hanno fatto nelle recenti Olimpiadi di Sydney in Australia. Il primo, Hailé Ghebre, è il più popolare: il suo ritratto occupa l’intera parete di un alto edificio nel centro di Addis Abeba.
Il giorno che egli vinse i 10 mila metri a Sydney, davanti al kenyano Paul Tergat, mi trovavo per commissioni immerso nel traffico del centro cittadino. Improvvisamente, in pieno pomeriggio, un’auto accese i fari abbaglianti; un’altra cominciò a suonare il clacson; altre si unirono al coro. La città sembrava impazzita. Il traffico si fece più caotico e giornioso, anche se assordante. In poco tempo tutta la città era in festa.
Queste vittorie hanno dato un forte incremento a questo genere di sport in tutta l’Etiopia. Da vari anni è normale vedere, al mattino prestissimo, quando non c’è ancora traffico, numerosi giovani che corrono lungo l’arteria principale della città, da piazza Mexico verso le zone più basse della capitale. Sovente questi corridori in erba indossano tute variopinte di nailon, che chiamano con un termine onomatopeico kesh-kesh, dal rumore prodotto dalla stoffa al contatto con il vento.
Oggi, il numero di coloro che praticano la corsa è aumentato anche nelle cittadine di provincia. Studenti di tutte le età, ragazzi e ragazze, fanno di corsa la strada che dal villaggio porta alla scuola, anche senza essere in ritardo, e sfruttano il tempo libero per continuare l’allenamento.
C onfesso che l’entusiasmo di quei giorni mi ha contagiato. È naturale. Dopo 20 anni spesi in questo paese, in qualche occasione lo sento un poco mio. Ma non avrei mai creduto che il contagio mi potesse spingere a correre anch’io. Non per diventare un atleta: avrei dovuto iniziare molto prima della fine del millennio! Ma non si sa mai, nella vita tutto torna utile.
L’occasione di fare un po’ di corsa mi fu offerta, un giorno, da alcuni bambini, rifugiati dall’Eritrea, che dal 1992 vivono nel campo profughi di Makanissa e frequentano il nostro oratorio. Sono Abùsh, un nanerottolo di 11 anni, molto forte e resistente, e sua sorella Kokòb (stella), maggiore di due anni e un po’ più alta; Tighist (pazienza) 12 anni, vivace e simpatica, e il fratello minore Walellìgn, anche lui nanerottolo, e la loro tredicenne compagna Sinnàit.
Alla mia età, mettermi a correre con dei bambini mi suonava un poco strano; ma dovetti subito ricredermi: per loro non era una novità. Accettai la sfida. Il pomeriggio del giorno seguente, dopo la scuola, si trovarono tutti puntuali davanti al nostro seminario in «tenuta sportiva». Si fa per dire.
Le tute da bambino sono comuni anche tra i rifugiati, ma non è detto che siano nuove fiammanti. Abùsh aveva una tuta scolorita e calzava un paio di scarpe di cuoio più grandi dei suoi piedi, ereditate da qualche parente. La divisa di Tighist era spaiata: maglietta bianca, pantaloni di nailon, entrambi piuttosto malandati, e senza scarpe. Kokòb era più o meno nelle stesse condizioni di Tighist. Anche Sinnàit era scalza.

D a Makanissa, periferia della capitale, prendemmo la direzione delle colline che circondano Addis Abeba. In cinque minuti di corsa siamo fuori città, tra campi aperti e aria pura. Cerco di moderare la loro velocità e imporre il ritmo, in modo che respirazione e movimenti si armonizzino, ci si stanchi meno e si gusti l’esercizio fisico.
Abùsh va perfettamente d’accordo col ritmo imposto; Tighist rimane indietro, oppure accelera e abbina alla corsa altri esercizi, visti probabilmente nei campi sportivi, come flessioni del busto, movimenti e roteazioni delle braccia… Un’ora dopo siamo tutti di ritorno.
Da parte mia, mi prendo qualche giorno di assoluto riposo da esercizi sportivi; poi ripartiamo nuovamente. Questa volta c’è più organizzazione: appare qualche paio di scarpe nuove da ginnastica, una maglietta fiammante. Anche il livello tecnico è migliorato. In un batter d’occhio siamo ai piedi delle colline, pur rallentando ogni tanto o procedendo al passo. Azzardiamo una specie di competizione negli ultimi tre chilometri: bravo Abùsh! Di fiato ne hai da vendere. Bravi anche gli altri, che arrivano con mezzo minuto di scarto.
A i piedi delle colline c’è un villaggio tradizionale; una casa di campagna vecchio stile, un vitello nel cortile, due cani, galline che razzolano per strada. È la casa di Netzannèt. Questa ragazza mi venne incontro, una volta, mentre passavo in quella zona con un confratello missionario. Non conoscendo le sue intenzioni, pensai subito che volesse chiedere aiuto, come succede spesso da queste parti, quando la gente ti si avvicina. Cercai di evitarla, con una breve corsa verso il prato, per non dovere ascoltare i soliti piagnistei. Ma mi ero sbagliato. Netzannèt voleva solo scambiare con noi quattro chiacchiere in inglese. Questa lingua è insegnata a scuola, ma gli studenti non hanno possibilità di praticarla. Ci disse che recentemente aveva vinto i 1.500 metri della sua categoria in una competizione regionale. È la seconda volta che la incontro. Netzannèt si mostra molto gentile: vuole preparare il tè per il nostro gruppetto di podisti. Purtroppo dobbiamo rifiutare: il sole sta per tramontare e dobbiamo rientrare prima che faccia buio.
La gente, al vederci correre veloci, guarda sorpresa e incuriosita. Qualcuno batte le mani o grida «bravo!». Il termine, conosciuto anche in Etiopia, è invariabile, vale per il maschile e femminile, singolare e plurale.
Siamo quasi a casa. Tighist, rimasta un poco indietro, scatta davanti a tutti. Qualche passante le grida: «Derartu!», nome della campionessa olimpionica dei 10 mila metri. Quel grido fa piacere anche a me. Per la rifugiata dodicenne, oltre che incoraggiamento, suona come augurio per un futuro più fortunato.

Vincenzo Clerici




BAHAGAVAD-GITA: antico testo sacro dell’induismo. VERSO L’ASSOLUTO

San
Giustino (II secolo d. C.) li chiamava «semi del Verbo»: con concetti e
verità presenti in tutte le culture e religioni. Anche nei testi sacri
indù incontriamo varie somiglianze con il cristianesimo.

 

Dio, Allah, Javhè,
Brahaman, Ahura Mazdah sono sinonimi? Se è difficile porsi tale domanda,
ancora più arduo è dare una risposta. Ma, dal momento che Dio è uno solo,
esiste per lo meno il dubbio che l’umanità lo abbia cercato, in modi
diversi, nel tempo e nello spazio. Le grandi religioni monoteistiche si
sono sviluppate in una area geografica che si estende dal vicino
all’estremo Oriente e hanno consolidato il loro sviluppo attraverso
millenni.

Senza pretendere di
dare una risposta organica al quesito, è sempre utile esplorare i libri
fondamentali delle religioni monoteistiche, cercando le verità e i
concetti che coincidono o si avvicinano a quelli del Cristianesimo.

È quanto tentiamo di
fare spulciando alcuni versi del Bahagava-Gita («Il canto del beato»), un
poema scritto in sanscrito, che fa parte di una opera più vasta, il
Mahabharata, redatta in un periodo di tempo che spazia dal V secolo a.C.
al II d.C.

Il Bahagavad-Gita è
un poema filosofico, con preponderanti elementi didattici; si presenta
come un dialogo tra la guida spirituale e divina, Krishna, e l’eroe Arjuna
che, nell’imminenza di una battaglia definitiva contro i cugini, si pone
dei problemi sulle conseguenze delle sue azioni. Tale battaglia racchiude
il valore simbolico della lotta tra le forze buone e cattive che si svolge
nell’intimo di ogni persona.

Questo libro ha
lasciato una profonda impronta nella vita culturale e religiosa
dell’India, da essere considerato un testo sacro.

 

Nel poema viene
esplicitato il concetto di Brahaman: l’Assoluto, l’Eteo, l’Imperituro, a
cui l’uomo deve tendere senza avere la pretesa di comprenderlo. Brahaman è
il principio vitale di ogni cosa, la sostanza della conoscenza che,
all’interno di una mente ricettiva, ne diventa la saggezza.

Brahaman, infatti, è
«l’inizio, la metà e la fine di ogni vita» (canto X, strofa 20). Concetto
che richiama l’espressione biblica con cui nell’Apocalisse si definisce il
Cristo: «Io sono l’Alfa e l’Omega» (Ap 1,8). «Il mondo dipende da me –
afferma ancora Brahaman -, come le perle sono sospese al loro filo» (VII,7).

Nel Bahagavad-Gita
viene espresso perfino una verità del credo ebraico-cristiano, anche se
non frequentemente utilizzata: il concetto di mateità di Dio: «Io sono
il padre e la madre di questo mondo, io lo mantengo e lo purifico» (IX,17).

Seguendo i precetti
adeguati, l’anima raggiunge la saggezza e sarà salvata: nella credenza
indù ciò significa che essa sarà in grado di uscire dal ciclo delle
reincarnazioni. «Chi raggiunge la suprema perfezione, raggiunge anche me;
per una tale anima pura non c’è più l’afflizione della rinascita» (VIII,15).

Quindi è già
esplicito il concetto salvifico insito in Brahaman, cui ogni uomo deve
aspirare e tendere.

Tale salvezza non è
raggiungibile con la logica, perché a un certo punto non è possibile dare
risposte su argomenti religiosi; occorre, invece, un altro atteggiamento:
quello della fede. Non è il potente a raggiungere la salvezza, ma il
fedele: nella sua umiltà questi non è mai respinto, anche quando si
presenta in forme tanto ingenue: «Anche gli adoratori di immagini, in
realtà adorano me; la loro fede è reale, sebbene i loro mezzi siano
poveri» (IX,23).

L’umiltà di Brahaman
si piega verso il credente: «Io accetto ogni dono, un frutto, un fiore,
una foglia, anche l’acqua, se ogni cosa è offerta in modo puro e
devotamente e con amore» (IX,26).

La fede non è un
aspetto logico; al credente non è richiesto di capire la natura e potenza
divina. Occorre l’abbandono: «Abbi fede in me, sappi che esisto e che
sostengo il mondo» (X,42). In presenza di una fede sincera, Brahaman
stesso diventa operativo nel credente. In questo caso infatti: «Io mi
insedio nel loro cuore e la mia compassione, come una lampada accesa di
saggezza, disperderà l’oscurità della loro ignoranza» (X,11).

 

 

Brahaman possiede
una gloria inimmaginabile alla mente umana. Per spiegarla si ricorre ad
una poetica analogia paradossale: «Qualora mille soli dovessero esplodere
all’improvviso nel cielo, la loro luminosità non riuscirà ad approssimare
la gloria della mia vista» (XI,12).

È interessante
notare che questa strofa è stata utilizzata dal fisico nucleare
Oppenheimer, che conosceva il sanscrito, per descrivere la prima
esplosione nucleare realizzata nel deserto del Nevada, di cui era stato
testimone.

Anche per noi
cristiani Dio è luce. Le citazioni bibliche sono al riguardo innumerevoli.
Così i mistici e altre creature privilegiate descrivono la propria
esperienza di Dio con immagini di luce sfolgorante.

 

 Dove risiede
Brahaman? Egli abita in un suo mondo che non possiamo vedere, poiché, come
creature, siamo sottoposte alla illusione del maya: ciò che nel mondo
appare reale ai nostri sensi,  in realtà è illusorio. Anche per noi
cristiani Dio risiede in un «luogo inaccessibile», cioè fuori di ogni
nostra capacità di comprensione.

Il concetto di
illusorietà della filosofia indù possiamo intuirlo se consideriamo alcune
apparizioni di Gesù dopo la risurrezione. I vangeli raccontano che il
Cristo risorto è apparso ai suoi discepoli «mentre erano chiuse le porte
dove essi si trovavano» (Gv 20,19), dando l’impressione di passare
attraverso i muri. In realtà questa era l’impressione di creature umane
come noi; ma per i corpi celesti il mondo sensibile, compresi i muri, non
ha consistenza e non può ostacolare i loro movimenti: da qui deriva l’illusorietà
del nostro mondo materiale e visibile, di fronte a quello reale ma
invisibile di Dio.

 

Come si può
raggiungere la salvezza? Occorre seguire la via della purezza e del
controllo dei propri aspetti negativi. «Mi è caro l’uomo che non odia
nessuno, che è sensibile a tutte le creature, che ha lasciato perdere
l’“io” e il “mio”, che non è sconvolto dal dolore e dalla gioia, che è
paziente e sereno, risoluto e sottomesso. Caro mi è chi non disturba e non
è disturbato, chi è libero dalle passioni, dalla gelosia, dalla paura e
dalla preoccupazione» (XII,13-15).

Cosa succede a chi
non segue la via della virtù? Anche nella concezione indù esiste un
inferno, come situazione di sofferenza da cui il Bahagavad-Gita mette in
guardia: «L’inferno ha tre porte: la lussuria, l’ira e l’avidità» (XVI,21).
Dante Alighieri riferirebbe dell’ostacolo di tre fiere: la lonza
(pantera), simbolo della lussuria; il leone, simbolo dell’orgoglio; il
lupo, simbolo della cupidigia (cfr. I,I,31-51).

Da qui scaturisce un
ulteriore ammonimento: «Chi lascia perdere queste tre (porte) ed è
assorbito nel suo proprio miglioramento, costui può raggiungere il suo
obiettivo supremo» (XVI,22), che nel nostro linguaggio possiamo chiamare
salvezza eterna.

È interessante
notare che lo sforzo per migliorarsi è più importante dei risultati
raggiunti. «Il vostro compito è lavorare, non raccogliere i frutti del
lavoro» (II,47). E per fare ciò bisogna essere tenaci e sereni: «Ma l’uomo
stabile pensa a me e comanda i suoi desideri. La sua mente è stabile,
perché i suoi desideri sono soggiogati» (II,61).

Il risultato di tale
fatica è la pace: «O Arjuna, la pace consiste nell’essere in Brahaman, per
non soffrire più delusioni. Nella pace è eterna l’unità con Brahaman, la
pace del Nirvana» (II,72).

 

 In conclusione,
questi pochi versi del Bahagavad-Gita fanno intravedere varie somiglianze
tra la concezione di Dio nel mondo indù e quella della fede cristiana.
Esistono, naturalmente, profonde differenze su molti concetti di base. È
tuttavia confortante constatare che le radici più profonde di culture e
religioni tanto lontane siano così somiglianti, più di quanto appaia a
prima vista.

Sono i «semi del
Verbo», diceva san Giustino, scrittore cristiano del II secolo: sementi di
verità che lo Spirito ha sparso in culture e religioni attraverso i secoli
e ad ogni latitudine e che attendono la luce di Cristo per maturare frutti
di salvezza.

Pier Giorgio Motta




Un flacone contro il mal di stomaco

Che fa un vescovo in prigione per 13 anni,
di cui nove in isolamento?
Risponde lo stesso carcerato, dal 1975 al 1988
vittima in Viet Nam delle galere del comunismo.
Oggi presiede a Roma il Consiglio pontificio
«Giustizia e pace».
Ed è pure cardinale.

In Viet Nam ho vissuto oltre 13 anni in prigione, di cui nove in isolamento, senza neppure una visita della famiglia, e con due poliziotti che non mi parlavano. Senza radio, giornali, telefono, televisione. Una cultura di morte.
Ho trascorso da giovane vescovo questi anni di disperazione e rivolta. Ma Gesù nell’eucaristia mi ha aiutato.
pacchetti di sigarette
Il primo giorno di carcere… sono a mani vuote. Il secondo, mi è permesso di scrivere per chiedere dei vestiti e un dentifricio. Chiedo pure delle medicine e del vino… La gente, fuori, ha il dono dello Spirito: capisce subito.
Non molto tempo dopo, il direttore della prigione mi chiama.
– Signor Vân Thuân, lei ha mal di stomaco?
– Sì, signore!
– Ha bisogno di medicine?
– Ogni mattina.
– Eccole un flacone per il suo male.
È una bottiglietta di vino.
Con mia grandissima gioia, grazie a quel vino, celebro le più belle messe della mia vita. Offro il sacrificio eucaristico sul palmo della mano, con tre gocce di vino e una di acqua. Ogni giorno posso rinnovare con il Signore la mia «nuova ed eterna alleanza» di sacerdote.
L’eucaristia è un sostegno per me e per gli altri prigionieri cattolici. Dormiamo tutti su uno stesso letto. La sera alle 21.30, nell’oscurità, mi curvo per celebrare la messa, il cui testo conosco a memoria. Poi faccio passare sotto la zanzariera la comunione ai cinque cattolici vicini a me. La presenza di Gesù eucaristia ci conforta molto. L’indomani raccogliamo carta di pacchetti di sigarette, con la quale fabbrichiamo dei sacchettini per contenere il Santissimo.
Ogni settimana, al venerdì, si tiene la sessione di indottrinamento marxista. Tutti i prigionieri vi partecipano. Al momento della sosta, consegniamo ad ogni gruppo di 50 persone un sacchettino… con Gesù dentro. Ciascuno «intasca il Signore» e, nella prova, nella tristezza, nella tribolazione, lo sente con sé: lo prega di notte, fa l’«ora santa». E, grazie all’adorazione e alla comunione, i cristiani che hanno abbandonato la fede ritornano praticanti.
Non potrò mai dimenticare come ci abbia sostenuto il canto liturgico, lasciatoci da san Tommaso per la celebrazione della festa del Corpus Domini, dove viene affermata tutta la teologia in parole semplici. E avvertirò sempre il senso mariano dell’eucaristia. Quando la celebriamo, siamo veramente figli di Maria: Ave verum corpus natum de Maria virgine…
Con l’eucaristia, i laici in carcere diventano coraggiosi nell’impegno e sereni nella tristezza: servono tutti con carità, e la loro testimonianza affascina i non cattolici (talvolta fanatici), che poi chiedono di conoscere Gesù e la nostra religione; diventano catechisti; poi battezzano gli altri compagni prigionieri facendo loro da padrini.
Con l’eucaristia la prigione cambia: diventa una scuola di fede, una catechesi.
«Sei hutu o tutzi?»
In ogni angolo del mondo l’eucaristia infonde forza e fa santi di ogni tribù, lingua e nazione. La storia della chiesa è piena di martiri, che hanno vinto persino la morte grazie all’eucaristia.
Ricordo i trappisti francesi in Algeria, monaci e missionari. I superiori hanno chiesto loro di lasciare il paese, data la seria minaccia per la loro vita; ma tutti decidono di restare e sono morti per la fede.
In Africa non mancano le guerre etniche. Ma tanti nostri fratelli africani soffrono con coraggio… Un sacerdote in Rwanda, all’arrivo dei soldati, indossa i paramenti sacri. Gli domandano: «Sei hutu o tutzi?». E lui: «Sono un prete…». Per la seconda e terza volta gli rivolgono la stessa domanda. La risposta è sempre: «Sono un prete». Lo ammazzano. Muore da sacerdote. E il sacerdote non ha frontiere: è per la chiesa universale. È testimone della fede, grazie a quel Gesù che celebra ogni giorno nell’eucaristia.
In Burundi alcuni guerriglieri hutu fanno irruzione in un seminario per arrestare 40 studenti, chiedendo loro di dividersi: gli hutu da una parte e i tutzi dall’altra. «Se siete hutu vivrete, se tutzi morirete!». Ma i 40 seminaristi restano uniti. Vengono tutti uccisi, fratelli nella vita e nella morte. Sono martiri dell’unità dei popoli, quell’unità che Gesù ci richiede: «Come tu, Padre, sei in me ed io in te, che tutti siano una sola cosa…».
Nella regione dei Grandi Laghi operano anche le suore «poverelle» di Bergamo, e vengono contagiate dall’Ebola nella repubblica democratica del Congo. Molti hanno lasciato il paese, ma esse no; anzi, sono giunte nuove missionarie. I giornalisti incontrano suor Dinarosa Merelli.
– Perché resta qui? Deve andarsene. Il morbo è molto contagioso!
– Rimango per servire la gente, anche a prezzo della mia vita.
Sono tutte morte in Congo. Ma sono seme di nuovi cristiani.
La croce del vescovo
In carcere in Viet Nam i poliziotti non mi parlano, perché sono in isolamento. Ma un giorno mi rivelano ciò che è stato detto loro dal capo: «Dal momento che andrete a controllare un vescovo cattolico assai pericoloso, vi sostituirò ogni due settimane con un altro gruppo, altrimenti egli vi contaminerà». Dopo qualche tempo, il capo convoca tutti i miei carcerieri: «Ormai non vi cambio più, altrimenti questo cattivissimo vescovo contaminerà tutta la polizia».
Con quale veleno li ha contaminati quel «cattivissimo vescovo», se non con quello dell’amore di Cristo Gesù?
Un giorno, durante i lavori forzati, taglio legna. Chiedo a un carceriere divenuto amico: «Lasciami tagliare un pezzo di legno a forma di croce».
– È molto pericoloso, è vietato! Lei ora è mio amico e io finirò in prigione come lei.
– No, chiudi gli occhi e lasciami fare.
Il custode non può resistere e si allontana. Io ritaglio un pezzo di legno nero a forma di croce e lo tengo nascosto nel sapone fino alla liberazione nel 1988.
Trasferito in un’altra prigione, vicino ad Hanoi, chiedo al carceriere un pezzo di filo elettrico.
– Signor Vân Thuân, lei vuole suicidarsi!
– Ma no!
– Cosa vuole fare con il filo elettrico?
– Voglio fare una catenella per appendere la mia croce. Se mi presti due piccole tenaglie, te lo mostrerò.
Tre giorni dopo, il carceriere mi dice: «Le porterò l’occorrente. Però dobbiamo fare tutto tra le 7 e le 11; se qualcuno vede, ci denuncerà». E in quattro ore mi aiuta a fabbricare la catenella della croce vescovile che porto sempre con me, perché non è solo un ricordo, ma una chiamata ad amare.
Diverse volte i poliziotti mi pongono una domanda cruciale.
– Lei ci ama?
– Sì, certo, che vi amo.
– Impossibile! Noi la teniamo qui da più di dieci anni, senza giudizio, senza sentenza, e lei ci ama!
– Io continuo ad amarvi e voi vedete come siamo amici. È incomprensibile, ma bello.
– Perché ci ama?
– Perché me l’ha insegnato Gesù e io, se non vi amassi, non sarei più degno di portare il nome cristiano di Francesco Saverio.
Così sono vissuto in prigione sino alla fine.
«Corpus Domini» in Serbia
Ancora un aneddoto, che non ho mai raccontato.
Nel 1999, in occasione della festa del Corpus Domini del 6 giugno, il papa mi invia improvvisamente, quale presidente del Consiglio pontificio «Giustizia e pace», nell’ex Jugoslavia in guerra. Con me ci sono altri due vescovi: dobbiamo arrivare, ciascuno con una destinazione diversa, per la festa eucaristica. Ma abbiamo soltanto tre giorni per prepararci.
Il santo padre ci dice: «Voglio che preghiate e facciate pregare la gente con me, mentre io celebrerò il Corpus Domini nella basilica di san Giovanni in Laterano. Dite a tutti che il papa prega per la pace».
Partiamo: io vado in Serbia, monsignor Martin in Macedonia e monsignor Crepaldi in Albania, per mostrare che il santo padre ama tutti i popoli. Arrivo a Belgrado la vigilia della festa. La città è deserta, senza acqua e senza luce. Sono rimasti solo sei ambasciatori, che si chiedono: «Perché Milosevic non ha accettato la proposta della Nato e tutti gli ambasciatori sono fuggiti?».
L’indomani celebro l’eucaristia in cattedrale con il popolo. Quando leggo il telegramma del pontefice, tutti piangono, perché i cattolici sono una minoranza tra ortodossi e musulmani: sentono che il papa è con loro e prega per la pace nella regione. Dopo la messa, i sei ambasciatori vengono a congedarsi in sagrestia. E, nello stesso istante, i loro segretari arrivano di corsa con una notizia: la Serbia sta per accettare il piano di pace della Nato e tutti gli ambasciatori stanno per ritornare. Ndr: dopo 78 giorni di guerra, il 9 giugno 1999 il presidente Milosevic e il parlamento serbo accettarono i 12 punti del piano di pace proposto dalla Nato e Russia.
A mezzogiorno sono in nunziatura e ricevo una telefonata dalla Santa Sede: «Come avete fatto? Avete celebrato la messa?». «Sì, abbiamo anche annunciato che la pace è vicinissima». E da Roma: «Il papa lo dirà subito a Kofi Annan, segretario delle Nazioni Unite».
La preghiera a Gesù nell’eucaristia porta la pace nel mondo, come Gesù ha detto: «La mia carne è per la vita del mondo». Ed è la più grande missione.

Testimonianza rilasciata dal cardinale François Xavier Nguyên Vân Thuân nella basilica di san Giovanni in Laterano, Roma 22 giugno 2000. Adattamento della redazione.

Trecento frammenti di speranza

È nato il 17 aprile 1928 a Huê, Viet Nam. Discende da una famiglia che conta numerosi martiri. Nel 1885 tutti gli abitanti del villaggio materno furono bruciati vivi in chiesa, eccetto il nonno (che studiava in Malesia).
La mamma Elisabeth ha educato cristianamente François Xavier fin da quando era in fasce. Allorché il figlio fu imprigionato, continuò a pregare per lui affinché restasse sempre fedele alla chiesa.
L’incarcerazione avvenne nel 1975 ad opera del regime comunista. François Xavier era da pochi mesi vescovo, oltre che sacerdote dal 1953. Sopporterà la prigione per 13 anni. Da carcerato visse momenti drammatici, come il viaggio su una nave con 1.500 detenuti affamati e disperati. Per non parlare dei nove anni di isolamento.
In carcere non poteva tenere la bibbia: allora raccolse tanti pezzetti di carta e vi scrisse tutte le frasi del vangelo che ricordava: oltre 300. Divenne il suo vademecum quotidiano.
Liberato nel 1988, tre anni dopo fu espulso dal Viet Nam quale «persona non grata».
Dal 1998 è presidente a Roma del Consiglio pontificio «Giustizia e pace». E, dal 21 febbraio scorso, cardinale.
Ha pubblicato vari libri, tutti all’insegna della speranza:
Il cammino della speranza, I pellegrini del cammino della speranza, Il cammino della speranza alla luce della parola di Dio e del Concilio Vaticano II, Preghiere di speranza, La speranza non delude…

Con 72 condannati alla forca

I missionari della Consolata prestano assistenza spirituale ai carcerati de Le Nuove di Torino dal 16 gennaio 1931 al 16 novembre 1944. Sono 14 anni cruciali, condizionati da regimi dittatoriali contrapposti e segnati dalla catastrofe della seconda guerra mondiale.
Questo periodo assegna a Le Nuove una rilevanza politica a livello locale, nazionale ed internazionale, poiché il carcere è spesso usato come repressione e persecuzione contro i dissidenti politici. Le Nuove di Torino è luogo di transito per chi viene trasferito in altre prigioni del nord e dell’estero; racchiude detenuti italiani e stranieri per motivi delinquenziali e politici. Durante il fascismo, e soprattutto nel 1943-45, la vita carceraria rispecchia, prima, l’inasprimento della pena e poi il terribile clima della guerra.
Come confortare un morente in carcere che, talvolta, si dichiara innocente? Ancora più difficile è accompagnare alla forca un condannato a morte, come avviene a Vittorio Longo il 7 agosto 1935. A partire da questa data, tanti sono i condannati alla pena capitale assistiti dai missionari della Consolata: complessivamente 72, di cui 2 prima della guerra e 70 dal 17 marzo 1943 al 5 novembre 1944.
L’azione dei missionari della Consolata, cappellani aggiunti ed aiutanti ne Le Nuove, contribuisce alla salvaguardia dei valori umani e spirituali, che fondano la Costituzione. Il loro ministero è svolto sempre a favore dei più afflitti dalla sofferenza. Il modo di porsi di fronte ai condannati è ispirato al rispetto della dignità umana e del fratello in Cristo.

Sulle orme di san Cafasso

L a prima caratteristica dell’essere missionario in prigione è la prudenza, nel rispetto delle norme penitenziarie.
Scrive padre Giovanni Piovano sull’assistenza di padre Vittorio Sandrone a favore dei carcerati: «Operò un grandissimo bene fra continue difficoltà, date da quel luogo di pena, ma più ancora dalle circostanze e dagli eventi del tempo, uno dei più gravi della storia di Torino e dell’Italia. Padre Sandrone, dal primo all’ultimo giorno in cui esercitò il non facile incarico, non solo ne conobbe la responsabilità e ciò che da lui si richiedeva, ma lo compì con grande fede e anche con cristiano entusiasmo».
Padre Sandrone raccomanda la prudenza per poter esercitare il ministero verso tutti. Nel 1940, allo scoppio della seconda guerra mondiale, l’Istituto impartisce alcune disposizioni: «Nel parlare non si vada oltre al puro racconto dei fatti… A nessuno è proibito di pensare gli avvenimenti secondo la propria coscienza, però non deve esprimere con gli estranei la sua opinione, ed anche con i confratelli si deve usare molta prudenza e tolleranza, evitando ogni disputa accalorata. Il meglio sarebbe pensare, come il beato Cafasso, al grande numero di anime che muoiono senza sacramenti e procurare di ottenere loro da Dio una grazia particolare di penitenza».
Non si può scordare che il codice penale Rocco (1930) determina un aumento dei casi di reato perseguibili e un allungamento della pena, fino a raddoppiarla rispetto a quella del codice Zanardelli (1890). Inoltre il Regolamento penitenziario del 1931 inasprisce la vita intramuraria con punizioni più severe e minori controlli da parte della Commissione vigilatrice estea.
Padre Sandrone assiste 40 detenuti che muoiono in carcere, lontani dagli affetti familiari e dai luoghi domestici, in balia dell’università che utilizza i loro corpi per esperimenti, come prevede il Regolamento.
Il 1° febbraio 1936 padre Sandrone lascia l’incarico di cappellano delle carceri. Gli succede padre Pietro Dante, anch’egli coinvolto nell’assistenza dei condannati a morte.
L’esperienza di san Giuseppe Cafasso si ripete tragicamente. I padri Vittorio Sandrone, Pietro Dante, Giovanni Bortolas, Giuseppe Moncher, Carlo Masera, Gerardo Bottacin, Giacomo Fissore, Adriano Severin, Giuseppe Rubatto, Enzo Sommadossi accompagnano i 72 condannati alla fucilazione o impiccagione con una partecipazione umana e religiosa indicibile. Ecco una testimonianza.
«Erano le 17 circa del 22 luglio 1944. Mi aggiravo nelle celle dei detenuti, quando mi sentii chiamare affannosamente dalla superiora delle suore, addette alla sezione femminile delle carceri, suor Giuseppina De Muro. Corsi al luogo indicatomi. Nel cortile esterno dello stabilimento trovavo già in partenza due camion carichi di truppa con mitragliatrici. Tentai di salirvi. Mi fermò un tenente della Leonessa, perché (i tedeschi che comandavano il famigerato 1° braccio) non lo permettevano. Mi arrampicai sul camion in moto. Mi trovai fra soldati e mitragliatrici; seduti e ammanettati vidi sei individui in borghese. Non li conoscevo affatto, perché provenivano dal reparto tedesco, dove era assolutamente vietato al cappellano l’entrarvi. Neppure sapevo dove andava. Mi avvicinai al primo che stava nella parte posteriore della macchina. Vestiva decentemente, era pallido in viso, per tutto il tragitto come sul luogo di esecuzione non disse una parola: era un capitano (Ignazio Vian)… Quattro condannati vengono fatti scendere. Le manette ai polsi e la lunga catena che li unisce ostacolano la discesa… sotto gli alberi vengono liberati dai ferri. Un camion retrocedendo si ferma, in modo che la parte posteriore, con sponda abbassata, si trovi sotto i capestri. Salgono i condannati, cui quattro tedeschi legano le mani dietro la schiena. Un diciottenne invoca la mamma: “Sono innocente, la mia mamma resterà sola, senza aiuto e senza appoggio”. Non avverto segnali. La macchina parte improvvisamente, mentre i soldati danno una spinta alle vittime, che si trovano sospese nel vuoto. Le assistetti con la preghiera, rinnovando l’assoluzione finché non le vidi immobili».

Anche un ragazzo di 20 anni

Disponibilità, altra caratteristica dei missionari della Consolata. Alcuni sono obbligati per motivi bellici a tornare in Italia e prestano servizio nei campi, negli ospedali militari e in carcere. Ad esempio, padre Giacomo Fissore opera a Torino da giugno 1940 ad agosto 1942 come cappellano militare presso l’ospedale da campo n. 2, poi aiuta il cappellano delle carceri dal 1943 al 1950.
n L’ascolto del carcerato è costante nei missionari della Consolata. Di padre Fissore il professor Luigi Sacchetti scrive: «Mentre parlavo, mi stava a guardare in silenzio con l’occhio di chi sa cogliere le voci più sepolte e le sa ricomporre nei disegni di Dio».
Il detenuto non chiede giudizi politici, né strategie di difesa giudiziaria, ma di essere ascoltato per alleviare un po’ il suo cuore oppresso e per dare un senso alla sua mente offuscata da dubbi corrosivi. L’assistenza spirituale a chi soffre la prigione e ai condannati a morte permette di capire il mistero dei progetti di Dio sull’uomo, anche in situazioni assurde ed ingiuste.
n La solidarietà crea un sostegno reciproco fra i cappellani militari e quelli delle carceri. In una lettera del 1942 spedita da padre Fissore, cappellano militare del 2° ospedale da campo a Bussoleno, si raccomanda un medico a padre Sandrone, cappellano de Le Nuove: «È stato tradotto alle carceri un suo carissimo amico, il dottor Prando, sospettato di avere maneggiato denaro nelle licenze dei soldati. È padre di due bambine. Credo che sono 30-40 i medici implicati in simili cose. Due sono veramente colpevoli. Anche noi cappellani siamo tenuti d’occhio».
La solidarietà si anima anche con il Da Casa Madre, che raccoglie e trasmette informazioni sui missionari sparsi ovunque. È un organo di stampa importante nella guerra: riduce preoccupazioni, angosce, incertezze, e conserva la ragionevolezza nei rapporti sociali.
Il tatto caratterizza la comunicazione di notizie tristi alle famiglie dei condannati a morte. Nella lettera di padre Ezio Sommadossi al genitore di Carlo Pizzoo, fucilato il 22 settembre 1944, si legge: «Carissimo papà desolato, non sono vostro figlio, ma sono fratello di vostro figlio… Tutti i suoi baci che infiniti stampò sul mio volto per l’adorato papà ve li trasmetto; pegno troppo prezioso per me, e non mi sento la forza di custodirli con quella fede e purezza che unì le nostre anime fino al momento che volò tra le braccia della sua mamma adorata (morta tempo prima). Come vorrei dirvi, padre… Permettete al mio affetto di non chiamarvi con altro nome: troppo ne sento il bisogno, perché diversamente non saprei spiegare il dolore che squarciò il mio cuore… La sua scomparsa segna una tappa nella mia vita. Attendo di vedervi per riscaldare il vostro dolore coi baci che conservo come sacro pegno di Carluccio».
Padre Sommadossi è cappellano a Le Nuove da luglio al 16 novembre 1944; assiste 16 condannati a morte; il primo è proprio Carlo Pizzoo, fucilato al Martinetto. Viene sostituito da padre Ruggero Cipolla, francescano, per motivi di salute, secondo una nota dell’Amministrazione penitenziaria (1945). In realtà il missionario rischia di essere catturato dai tedeschi, sospettosi del suo operato.
Il rischio del martirio contraddistingue l’azione del missionario della Consolata in carcere. In una lettera della moglie del generale Perotti, Fiorenza Perotti, si legge: «Padre Fissore aveva assistito mio marito e i suoi compagni e, avendo accettato le lettere che mio marito aveva scritto per consegnarle alla famiglia, aveva avuto minacce e botte da alcuni componenti il plotone di esecuzione. Ho parlato pochi minuti con padre Fissore, che era malconcio fisicamente e moralmente».
Il rischio di essere fucilato è alto per padre Fissore, tenendo presente che le SS non si fidano dei repubblichini, e a maggior ragione di altri italiani. Tale esempio di coraggio e resistenza ai processi di disumanizzazione, se non di annientamento messo in atto in prigione, merita particolare attenzione.
n La conversione è un’altra esperienza forte del missionario fra i carcerati. Padre Carlo Masera partecipa a 10 esecuzioni capitali dal 1943 al 1944 e racconta di un giovane sui 20 anni. «Non aveva mai pregato, né era mai entrato in chiesa. Mi sorse il dubbio che non fosse nemmeno cristiano. Infatti mi confessò che non era battezzato». Ma in punto di morte il giovane riceve il battesimo e la prima comunione.

Nel giorno della sepoltura di padre Masera, il 27 gennaio 1970, padre Damiano Fea afferma: «Questo periodo per i missionari della Consolata, che hanno assistito tanti prigionieri, deportati e condannati a morte, è stato pesante, penoso e delicato».
Ricordarli oggi è un dovere della società e della chiesa.
Personalmente lo faccio anche in omaggio del centenario dei missionari della Consolata.
Felice Tagliente, psicologo
delle carceri «Le Vallette/Le Nuove» – Torino

F. Xavier e Van Thuan




Un’antenna per l’indio

Assemblee dei capi, «una mucca per l’indio», progetti sanitari sono state tappe importanti per il processo di liberazione degli indios di Roraima.
È in vista un altro traguardo:
la stazione radio che trasmetterà i valori del vangelo
nella loro lingua.

D a oltre 50 anni i missionari della Consolata lavorano nella regione di Roraima. Dopo i primi contatti con le popolazioni indigene, essi si sono impegnati nel riscatto della loro dignità, aiutandole a riscoprire l’identità culturale e difendere i propri diritti. Tra incomprensioni, calunnie e minacce da parte della società dominante, gli indios hanno cominciato a diventare protagonisti del proprio futuro. Ma il cammino è ancora lungo e insidioso.
ASSEMBLEE DEI CAPI
Una tappa storica iniziale fu raggiunta nel gennaio del 1977 con la prima riunione dei capi villaggio. Fu un evento caratterizzato da dubbi e timori, angustie e sofferenze, che avviò un cammino di cambiamenti inarrestabili. Per la prima volta gli indios trovarono il coraggio di denunciare apertamente le angherie che dovevano subire da parte dei bianchi, invasori delle loro terre. Al tempo stesso s’impegnarono a lottare contro certe abitudini, come l’alcornolismo, che contribuivano a mantenerli in stato di emarginazione e semischiavitù.
Presa coscienza della situazione di emarginazione e oppressione in cui vivevano, gli indios cominciarono ad affermare la volontà di reagire pacificamente, ma con determinazione, per prendere in mano le redini del proprio futuro. Il processo di coscientizzazione è continuato nelle successive assemblee annuali, in cui sono emerse nuove idee e progetti concreti per realizzare un autentico riscatto sociale e culturale.
«UNA MUCCA PER L’INDIO»
L’idea era balenata nella mente dei missionari fin dal 1983: i bianchi dicono che «terra senza bestie è terra di nessuno»; allora gli indios della savana possono riappropriarsi del loro territorio allevando il bestiame. Dopo alcune esperienze fatte in pochi villaggi, fu tracciato un piano insieme alle comunità indigene e nel 1985 fu varato il progetto «una mucca per l’indio».
Lanciata in Italia, presso amici e conoscenti, in breve tempo l’iniziativa conquistò la simpatia di migliaia di persone, che contribuirono generosamente all’acquisto del bestiame. Dal 1985 al 1993 la diocesi di Roraima poté distribuire 7.800 mucche alle comunità, già preparate ad assumersi le responsabilità previste dal piano. Grazie alla riproduzione delle bestie, la distribuzione è continuata negli anni seguenti, in misura ridotta, ad altre comunità preparate per entrare nelle regole del progetto.
Oggi gli indios possiedono circa 30.000 capi di bestiame, senza contare quelli macellati o venduti per vivere o quelli morti durante la grande siccità di due anni fa. Il numero è destinato ad aumentare.
Più rilevanti dei numeri sono gli effetti straordinari di tale iniziativa, che ha provocato un profondo cambiamento nella vita sociale e culturale dei makuxí, wapixana e altre etnie minori, e di riflesso sui yanomami.
Oltre a sollevare gli indios dalla situazione di miseria, il progetto ha istillato e nutrito in individui e comunità un profondo senso di dignità e responsabilità collettiva, coesione e solidarietà tra i villaggi nella lotta per la comune sopravvivenza, crescita nella fede cristiana (gli indios della savana sono quasi tutti battezzati) e senso di appartenenza alla chiesa, grazie alla solidarietà dei fratelli nella fede che da lontano hanno pensato a loro e li hanno sostenuti con l’aiuto economico.
Tale sentimento di appartenenza e unità ha dato forza e coraggio alle popolazioni indigene per esigere dal governo la demarcazione delle loro terre, come mezzo indispensabile per vivere secondo la propria cultura.
SANITÀ COMUNITARIA
Fin dal 1952 la chiesa di Roraima si è preoccupata della salute degli indigeni, organizzando un ospedale con una ventina di letti nella missione di Surumú. Piccolo segno di fronte alla vastità dell’area indigena. I malati dovevano affrontare enormi distanze per raggiungere l’ospedale.
Suor Rosa Claudia, missionaria della Consolata, ebbe un’idea geniale: radunò 12 giovani, ragazzi e ragazze di 15-16 anni; per due anni trasmise loro una buona conoscenza di anatomia e fisiologia, igiene, malattie e relativi rimedi con farmaci che si comperano in farmacia e con quelli estratti dalle piante locali. A tale scopo organizzò nel terreno dell’ospedale un orto con erbe medicinali, quelle già note ai giovani, per averle viste nei villaggi, ed altre di cui la suora stava prendendo conoscenza.
Finita la preparazione, i giovani tornarono alle loro comunità con due compiti: costruire una piccola capanna, denominata «posto medico comunitario», e dar vita a un orticello di piante medicinali, chiamato «farmacia comunitaria». Al tempo stesso i giovani cominciarono a curare ferite, raffreddori, diarree di adulti e bambini, tossi, febbri malariche ed altri malanni comuni nella zona, usando sia medicine naturali che quelle comperate.
Inoltre erano capaci di applicare flebo, fare iniezioni e altri trattamenti di ordinaria amministrazione. Per i casi più gravi dovevano ricorrere all’ospedale della missione. La prima esperienza di questi giovani fu meravigliosa; grande fu, soprattutto, il senso di responsabilità e competenza con cui lavoravano.
Così, accanto alla chiesetta e alla scuola con catechisti e maestri, nei villaggi iniziava ad apparire il «posto medico» con i suoi responsabili, avviando un nuovo capitolo di attività che migliorò enormemente la vita comunitaria.
L’esperienza continuò. Altri giovani vennero formati e i centri sanitari si moltiplicarono in tutta la savana, con enorme beneficio delle comunità indigene, che imparavano a conoscere le malattie, difendere la propria salute, rispettare le norme igieniche, proteggere le piante medicinali. Con il progetto-mucche era migliorata l’alimentazione, con i posti medici anche la salute.
Qualche anno dopo, mentre i centri sanitari erano in piena funzione, un giovane medico brasiliano si offrì di lavorare a favore della salute degli indios della diocesi di Roraima. Si mise al lavoro con entusiasmo e ancora oggi accompagna con impegno e professionalità il settore sanitario del piano diocesano.
Nel frattempo fu costruita, presso la città di Boa Vista, la «casa di cura», un ospedale riservato prevalentemente agli indios yanomami, che vivono nella foresta, molto distante dalla regione dei makuxí. Anche questa struttura si è rivelata provvidenziale per la sopravvivenza di questo gruppo etnico.
LAICI CORAGGIOSI
Di fronte al perpetuarsi dei soprusi contro gli indios e le sfacciate calunnie e diffamazioni lanciate contro la diocesi di Roraima dalla classe politica e imprenditoriale locale, tra la popolazione bianca è maturato un folto gruppo di laici cattolici praticanti, che hanno preso posizioni ferme nel difendere i diritti degli indios e il lavoro del vescovo e dei missionari.
Più di una volta hanno sfidato con lettere aperte l’élite che controlla la vita politica, economica e sociale di Roraima; l’ultima, di pochi mesi fa, si è schierata a difesa di padre Giorgio Dal Ben, vigliaccamente attaccato da una popolare rivista brasiliana. Ne presentiamo alcune frasi.
«Noi, laiche e laici cattolici della diocesi di Roraima, coscienti del nostro dovere di evangelizzazione e ispirati dall’opera liberatrice di Cristo, gridiamo la nostra protesta, ripudio e indignazione contro gli attacchi lanciati alla nostra diocesi dalla élite capitalista, nel tentativo d’infangare l’immagine della chiesa di Roraima, perché essa difende con coraggio la causa degli esclusi, poveri, emarginati… Ripudiamo con veemenza calunnie, ingiurie e diffamazioni dirette contro i missionari e missionarie della Consolata, da una rivista di circolazione nazionale, che divulga menzogne e informazioni infondate e senza ascoltare le parti interessate. Affermiamo di nuovo pubblicamente la nostra solidarietà al vescovo, ai sacerdoti, religiosi e religiose di Roraima nel difficile compito di promuovere la giustizia, difendendo coloro che sono sfruttati».
UNA RADIO PER LA VERITÀ
Nel suo impegno in difesa degli indigeni la chiesa di Roraima deve affrontare autentiche persecuzioni, scatenate con l’appoggio dei mezzi di comunicazione, giornali, radio e spesso televisione: tutti strumenti in mano al governo. È quasi impossibile far sentire la sua voce oltre la cerchia dei fedeli che frequentano le funzioni religiose.
Da tempo si pensava a una stazione radio, sia per spiegare l’operato della chiesa, sia come strumento di evangelizzazione, per diffondere il messaggio e i valori del vangelo a tutti gli abitanti di Roraima.
L’impresa non era facile: la concessione di una emittente radiofonica dipende dal ministero delle comunicazioni e occorre l’appoggio dei politici. Per quelli di Roraima una radio cattolica è come il fumo negli occhi. Nonostante tutto tentammo la scommessa.
Per aggirare l’ostacolo, con l’aiuto di persone competenti fu costituita la «Fondazione educativa e culturale Giuseppe Allamano» a cui affidare la responsabilità della nuova struttura davanti alle autorità, senza far figurare la diocesi. Quindi, con l’aiuto di tecnici, fu preparato il progetto con estrema precisione: scopo della radio, esclusivamente educativo e culturale e non commerciale; potenza e area di irradiazione; programmi da mandare in onda; temi specifici per le varie ore della giornata, responsabilità legale della fondazione.
Dopo un anno di lavoro, nel 1990 il progetto fu presentato al ministero competente e fu elogiato per la perfezione con cui era stato elaborato. Sapevamo, però, che l’approvazione avrebbe richiesto molto tempo. Ma eravamo disposti ad attendere. Ogni volta che passavo nella capitale, facevo una capatina al ministero per sollecitare l’approvazione.
Quando giunse il tempo di lasciare la diocesi a un altro vescovo (1996), raccolsi copia di tutta la documentazione, la chiusi in una scatola di cartone e l’affidai alla segretaria perché la conservasse, anche se ormai avevo perso ogni speranza.
Ma alla fine del 1998 una lettera proveniente da Roraima mi comunicava che il ministero aveva approvato il progetto per l’installazione della radio. Il mio successore, mons. Apparecido, mi chiese di interessarmi del caso per reperire i fondi.
Grazie a Dio e all’interessamento del card. Ersilio Tonini, che da tempo ha preso a cuore la sorte degli indios di Roraima, sono arrivati i fondi per finanziare il progetto e sono iniziati i lavori di installazione.
Rimane ancora un punto interrogativo, sollevato a suo tempo da mons. Apparecido: «E poi chi sosterrà le spese di funzionamento e manutenzione?». Non esitai a rispondere: «Coloro che hanno reso possibile il progetto delle mucche faranno anche questo miracolo».
Negli anni passati, attraverso la campagna «una mucca per l’indio», gli amici italiani ci hanno aiutato a salvare gli indigeni di Roraima dalla fame e dalle malattie; sono certo che la loro solidarietà continuerà a sostenerci, per raggiungere un nuovo e più importante traguardo: aiutare i nostri fratelli indios a crescere spiritualmente e intellettualmente, oltre a difenderli e liberarli dalle menzogne dei loro oppressori. È questo lo scopo della «Radio educativa e culturale» che sta nascendo in Roraima.

Aldo Mongiano




MOZAMBICO – Ma era proprio biondo?

Appartengono alla «Scuola d’arte macúa» del Niassa.
Diversi per carattere, formazione culturale e vicende familiari,hanno in comune l’odio per la guerra
(tutte le guerre) e il gusto per il «nuovo». Anche nel ritrarre la bibbia.

J oão Torchio e Luís Prisciliano entrano titubanti nella redazione di Missioni Consolata. Vengono dal Mozambico: ed è la prima volta che escono dal loro paese. Li accompagna padre Giuseppe Frizzi, missionario della Consolata.
Fa abbastanza caldo a Torino. Ma il signor Prisciliano se ne sta rannicchiato in un giaccone grigio-nero: ha l’aria severa, espressione accentuata dalla barba ispida. Invece il compagno Torchio, dal volto più disteso, spicca per una camicia gialla a mezze maniche. Entrambi sono artisti della Escola de arte «macúa», fondata da padre Frizzi.
«Benvenuti, amici, e accomodatevi! Grazie della vostra visita».
un orfano alla ribalta
– Signor Torchio, il suo cognome è un po’ curioso…
– Infatti non è mozambicano. È italiano. Sono figlio di un vostro connazionale.
– E dov’è oggi suo padre?
– Dovrebbe essere in Italia.
Dunque João Torchio, 43 anni, è figlio di un italiano. La mamma invece è del Malawi. Però João si ritiene orfano, perché da molto tempo ha perso ogni traccia dei genitori. Era ancora bambino quando il padre lo «consegnò» ai missionari della Consolata di Massangulo: di tanto in tanto, fino al 1975, il genitore visitava il figlio. Lo stesso facevano la madre e uno zio materno. Poi più nulla.
Il padre di João ritoò in patria, dove tutt’oggi vivrebbe con moglie e figli.
«Considero genitori padre Pietro Calandri e suor Franca Cavicchi – dichiara il meticcio -, cui devo grande riconoscenza, come pure ad altri missionari della Consolata. Oggi sono sposato con 10 figli: insieme alla moglie, sono la mia unica gioia. Ciò non toglie che la mia esistenza sia ancora dura. Mia compagna è sempre la solitudine».
Una solitudine resa più acuta dale tragedie sofferte dal Mozambico. João era ancora bambino quando, negli anni ’60-70, il suo paese lottava contro il Portogallo per l’indipendenza nazionale: uno scontro armato durato circa 15 anni. Poi, quasi subito dopo l’indipendenza del 1975, la devastante guerra civile tra Frelimo e Renamo, terminata solo nel 1992. «Due conflitti sanguinosi – commenta Torchio -, senza contare le persecuzioni religiose, le nazionalizzazioni forzate, i profughi interni, la fame, l’ingiustizia».
Nel frattempo il giovane João, abbandonato dai genitori, cresceva accanto ai missionari. Il ragazzo era attratto, soprattutto, da padre Calandri «pittore»: le «nature morte» e i «paesaggi sconfinati» del missionario lo affascinavano. Suor Franca capì che nel ragazzo non c’era solo curiosità: e gli mise in mano carta e pastelli. Fu così che João si rivelò un cartellonista e fumettista prodigioso: con i suoi disegni rallegrava tutte le feste della missione di Massangulo…
Se ne accorse anche padre Frizzi, che gli propose di lavorare nella Escola de arte «macúa» presso la missione di Maúa. «João Torchio – afferma il missionario – varia molto lo stile, alternando quello realista con quello semirealista, impressionista ed altri stili: cubico-geometrico, circolare-duale. Ma, al di là della tecnica, l’autore ha sempre presente la bibbia, che traduce secondo la cultura africana».
– Signor Torchio, qual è la fonte di ispirazione delle sue raffigurazioni?
– Innanzitutto la mia fantasia. Poi, quando padre Frizzi, mi ha chiesto di ritrarre il Vangelo di Luca e gli Atti degli apostoli, fonte di ispirazione sono i fatti della bibbia.
– Fatti che, tuttavia, lei non copia, ma «interiorizza».
– L’artista non copia; trasfigura, interpreta.
– Come sono stati accolti i suoi lavori?
– Non sempre con favore.
Ad esempio: fu chiesto a Torchio di pitturare l’abside della cattedrale di Lichinga; ma il suo progetto venne respinto dai «tradizionalisti». E l’artista fu costretto a modificarlo. Questo lo ha molto rattristato. Oggi, però, non mancano segnali di comprensione ed accettazione del suo stile.
– Signor Torchio, in questi giorni lei è in Italia. Quali sono le sue impressioni?
– Finora sono stato solo a Roma. Ma penso di avere già visto molto nella vostra capitale, che è anche quella di tutti i cattolici del mondo. Roma è pure un centro storico unico e un immenso tesoro d’arte. Io sono rimasto senza parole nel camminare lungo le strade della «città eterna», perché le emozioni erano troppe.
– Ora, in Italia, non le piacerebbe sapere anche qualcosa di preciso su suo padre?
– E me lo domanda?
un «eretico» estroverso
«Se l’amico João è interamente figlio dei missionari della Consolata, io lo sono solo per metà: infatti devo la mia formazione anche a padri monfortani…». Esordisce così Luís Prisciliano, senza attendere la nostra domanda. Nel frattempo si liscia i baffi con il pollice e l’indice. Il suo volto, ora illuminato dal sorriso, appare meno «nero».
Ma ritorna «nerissimo», quando bolla le «guerre criminali patite dal popolo mozambicano». Al che ci sentiamo quasi obbligati di replicare, ricordando che nel paese la situazione è migliorata.
– Oggi, finalmente, vivete in pace e godete della democrazia!
– Certo, certo. Ma bisogna passare dalla democrazia delle parole a quella dei fatti. Il popolo vuole gesti concreti, non ideologie.
Prisciliano è un eclettico. È stato maestro e contabile, con alle spalle un buon bagaglio culturale. Voleva anche fare l’infermiere. «Poi, come mestiere, ho cominciato a dipingere per guadagnare. Però non sono diventato ricco, anzi!».
Un giorno capisce che la vera arte ha bisogno di una ispirazione pura, profonda. «E dove potevo trovarla se non nella mia cultura africana?». Ha cessato di dipingere per soldi e ha iniziato a farlo per «vocazione»: e comunica il messaggio evangelico. Però sentiva il bisogno di vagliare la sua ispirazione. «L’ho fatto – dice il pittore – vivendo nella foresta con la gente, per capire meglio la religiosità tradizionale. La foresta è un santuario: qui avvenivano e avvengono i sacrifici antichi». Tanti gli hanno dato del matto. Ma il «nuovo pittore» non ha demorso.
Così l’artista ha recuperato la tradizione e, soprattutto, «l’obbedienza ai sogni. Ogni mio progetto, prima di essere schizzato, è visto nel sogno».
– Signor Prisciliano, che cosa intende per «sogno»?
– La visione di simboli. Questi (elemento tipico della nostra tradizione) consentono di trasmettere il messaggio biblico con categorie africane. I simboli non si possono pensare; si ricevono nel sogno.
– Li riceve da chi?
– Dagli spiriti degli antenati.
Il ricorso ai simboli ci rimanda al libro «Gesù mediatore e medico», curato da padre Frizzi in lingua italiana e macúa, che raccoglie anche numerosi disegni di Torchio e Prisciliano. Vi si legge che Gesù è… gazzella, tartaruga, camaleonte.
Qual è il significato cristiano di tale simbologia? «Gesù è la gazzella per eccellenza, che con la sua innocenza primordiale cura e redime l’umanità; Gesù è la tartaruga, che con l’umiltà scala la montagna, ottiene da Dio l’indicazione del deposito d’acqua e l’offre all’umanità assetata; Gesù è il camaleonte, che si fa tutto a tutti, cioè ebreo con gli ebrei, greco con i greci, macúa con i macúa».
– Signor Prisciliano, i cattolici del Niassa, abituati ad un Gesù biondo e con gli occhi azzurri, si ritrovano nel suo Cristo… camaleonte?
– Ma è proprio vero che Gesù era biondo?… In ogni caso, il Cristo-camaleonte, oltre che valorizzare la nostra tradizione, è in sintonia con l’insegnamento di Paolo apostolo.
– E i cristiani approvano?
– I seminaristi, studenti di teologia, mi hanno duramente contestato.
– Allora?
– Allora costoro devono sapere che sono succubi dei colonialisti religiosi.
– Non teme di offendere i suoi concittadini con una simile espressione?
– Già! Qualcuno ha detto che la verità offende… Però mi consola che il popolo capisce, a differenza dei preti.
– E i missionari?
– Tutto dipende dal cuore di ognuno. Numerosi missionari si sforzano di capire.
«Luís Prisciliano – commenta padre Frizzi – è un pittore dalla fantasia fervida e non sempre viene capito. Ha rischiato anche di essere espulso dalla comunità cristiana. Io mi sono opposto e l’ho rilanciato nell’attività artistica con temi biblici. Nella nostra escola si dedica alle via crucis e ne ha prodotte parecchie dalle tinte forti».
Il pittore è certamente imprevedibile, anticonformista, provocatorio. A differenza di Torchio (affascinato dalla «grande» Roma), Prisciliano in Italia è rimasto colpito dai cimiteri delle auto. «Da noi sarebbero ancora tutte sulla strada. Da voi sono il segno della ricchezza o dello spreco?».
D opo cena saliamo con gli ospiti sul Monte dei Cappuccini, per ammirare Torino by night, sotto l’occhio distaccato della luna. Un improvviso vento rende quasi fredda la notte. Giunti in vetta, usciamo dalla Fiat Uno: João Torchio indossa un K-way a maniche lunghe, mentre Luís Prisciliano si sfila il giaccone e resta a braccia nude, sotto lo sguardo divertito persino delle stelle.
Paese che vai… artista che trovi.

CORRUZIONE IN MOZAMBICO

Padre Couto, da mesi sei preoccupato del modo con cui si parla della corruzione in Mozambico. Perché?
Secondo alcuni, nel paese tutto è corrotto: governo, polizia, magistratura, banche… Io non sono d’accordo, perché, se tutto è negativo, lo è anche l’evangelizzazione. Lo squalificare l’intera nazione è disonesto. I mezzi di comunicazione, le istituzioni culturali e le religioni dovrebbero affrontare il problema «corruzione» con la dovuta responsabilità e discrezione.

Ma la corruzione esiste o non esiste?
Esistono diverse forme di corruzione. Però bisogna dimostrarle in modo chiaro e definito per superarle.

Che fare per «dimostrare», «definire», «superare»?
Occorre fissare dei presupposti come punti di partenza per agire. Primo: creare un nuovo contesto legale. Ci sono mozambicani che hanno accumulato beni mobili e immobili, che noi generalmente riteniamo corrotti. Nel «nuovo contesto legale» queste persone dovrebbero essere riconosciute come proprietarie dei beni accumulati e diventerebbero la classe degli imprenditori, in accordo con le leggi. Dovremmo legittimare tale classe.
Secondo: legare l’azione degli imprenditori alla politica del paese. Goveo, assemblea della repubblica, partiti, sindacati… dovrebbero concertare la loro azione anche secondo gli interessi degli imprenditori.

Da quando esiste la classe degli imprenditori?
Dall’indipendenza del paese (1975). Sono persone e gruppi che provengono dal «Fronte di liberazione del Mozambico» (Frelimo): alcuni hanno formato e formano l’apparato del governo; altri sono direttori di banche, porti, ferrovie, trasporti, comunicazioni. Esistono membri del Comitato centrale del Frelimo che hanno una partecipazione dei capitali di Compagnie industriali dell’Asia, Europa e America. Esistono quindi «Joint Venture» fra imprenditori mozambicani e stranieri.
E fra i partiti dell’opposizione?
Ci sono pure gruppi che stanno diventando la classe imprenditrice del paese.

Dunque: bisogna proteggere legalmente i mozambicani che, dopo l’indipendenza del paese, hanno rimpiazzato i colonialisti portoghesi e ora si stanno legando a capitali nazionali e stranieri. È forse un’amnistia per chi ha accumulato beni anche in modo illecito?
Io dico che gli imprenditori sono il motore per formare una società meno corrotta. Vado oltre: le istituzioni della società civile, quelle religiose e umanitarie devono avvicinarsi alla classe degli imprenditori per essere loro di esempio nel «senso della patria», nell’etica sociale e nella politica in favore del bene comune. Prospetto un compromesso fra tutte le forze del paese.

È un compromesso tra chi ha già molto e chi non ha niente, con l’avallo della legge. Non è pericoloso?
È l’unica via ragionevole per costruire un ordine sociale dove giustizia e sicurezza incomincino a funzionare. Gli imprenditori, legalizzati i loro capitali, saranno interessati alla pace del paese per salvaguardarli; nello stesso tempo dovranno lavorare per accrescere gli utili: così facendo, investiranno parte del loro patrimonio in opere che andranno a beneficio di chi ha un livello di vita molto basso.

Hai in mente qualche modello di riferimento?
Paesi come Belgio, Germania, Olanda e le nazioni scandinave hanno fatto il «compromesso». Se sono riusciti loro, perché non noi in Mozambico?

E pensi anche di superare le «differenze di classe»?
Queste esisteranno sempre. Ma una cosa sono le differenze in una società «abbastanza soddisfatta» un’altra in una società «totalmente insoddisfatta».

Queste riflessioni entrano pure nell’Università Cattolica del Mozambico?
Stanno entrando in tutte le università del paese. Queste devono lavorare per raggiungere la «tranquillità dell’ordine» (sant’Agostino di Ippona). Legare le università agli imprenditori è un dovere, anche per tutelare i valori della società. di F. B.

Francesco Beardi