NEISU (R.D. Congo): storica assemblea su una questione scottante

<b<CHIRURGIA DI COSTUME


È possibile rimanere fedeli alla propria identità, pur
rinnovando tradizioni non più compatibili con la dignità umana e il
rispetto delle persone? Ci hanno provato i «mangbetu», con un’assemblea
che, certamente, farà storia.

15 maggio
2001: una data che oserei definire «storica» per i miei mangbetu, famosa
etnia nel nord della Repubblica democratica del Congo. È il giorno del
loro grande incontro sul tema: «Si deve ancora pagare il cadavere?».

Nessuno si
stupisca, perché la questione non è così strana come sembra; anche perché,
dopo un interessante dibattito, ne è uscita una risposta che rivoluziona
consuetudini secolari.

Ma
procediamo con ordine.

La
famiglia come è concepita in Europa (papà, mamma, figli) va un po’ stretta
all’Africa. Il bambino deve, fin da piccolo, conoscere molto bene gli zii
matei, perché la vita viene di là. Quando è ormai cresciuto, torna dai
genitori, oppure, se ha raggiunto la maturità, inizia egli stesso una
nuova famiglia.

Solamente
la morte del nipote rompe definitivamente questo strettissimo legame
vitale. Inizia, allora, un cerimoniale, e chi ne fa le spese è la famiglia
ristretta dove il nipote è deceduto.

Perché
avviene questo? Qual è il significato di avvenimenti che si ripetono ad
ogni morte? Gli antropologi parlano di risarcimento o compensazione. È
come se il congiunto (degli zii matei) fosse stato solamente «prestato»
alla famiglia (come sposo, sposa, figlio); la sua morte impoverisce la
famiglia di origine (zii matei) e, quindi, occorre risarcirla, darle un
compenso. E chiamano questa operazione «kofuta ebembe», ossia pagare il
cadavere.

I banoko
partono dal luogo della sepoltura del nipote con capre, polli, maiali,
soldi e vari oggetti (coltelli, pentole, vestiti…). Ma questo crea
l’impoverimento improvviso (a volte totale) della famiglia dove è avvenuto
il decesso. Si scoprono sempre più vere tragedie familiari.

La morte è
così frequente (anche a causa dell’Aids) che è difficile trovare una
famiglia che non abbia vissuto tale problema. Per cui si scopre che i
figli del defunto non vanno a scuola, perché i soldi non ci sono: li hanno
presi i banoko. Uno muore perché non può permettersi l’ospedale: i banoko
hanno portato via tutto. La vedova resta sovente in una situazione
pietosa: le hanno portato via persino gli utensili da cucina e il prezioso
bidone per attingere acqua alla sorgente.

Le
lamentele sui banoko e sul loro intervento alla morte del nipote è un
fatto generalizzato. Tutti piangono. Ma occorre pure dire che tutti sono
banoko e, presto o tardi, arriverà l’occasione di appropriarsi delle cose
alla morte di un nipote. Allora ci si rifarà. Resta tuttavia il fatto che
di questa usanza, anche se seguita da tutti, si farebbe volentieri a meno.

Ma i capi,
gli anziani, i detentori della tradizione sono d’accordo di abolirla? E
come accordarla con il vangelo?

I
partecipanti furono 2.119, così ripartiti: 1.028 uomini, 717 donne e 374
ragazzi. Interessante anche l’atmosfera ecumenica: i lavori furono aperti
dalle parole di padre Simon Tshiani, missionario della Consolata, e dal
pastore protestante Thomas, che ha presentato in lingua mangbetu le
tradizioni della tribù su questo tema scottante. Suggestivo è stato pure
il suo modo di esporre i problemi, intercalati da canti tradizionali, da
lui stesso composti, che invitavano al cambiamento di mentalità.

È seguito
un lavoro a gruppi, costituiti dalle diverse «collettività» (entità
amministrative), presieduti ciascuno dal capo tradizionale, dagli
«intellettuali» e dagli agenti pastorali: una vera concertazione a largo
raggio. Dopo un acceso dibattito in assemblea, è stato elaborato e votato
un documento finale, scritto in lingala (una delle lingue nazionali del
Congo) e firmato dai tre capi tradizionali, vincolante per tutti (vedi il
riquadro)… Ho fatto pervenire la documentazione all’amico Stefano
Allovio, grande conoscitore dei mangbetu. In una lettera mi ha risposto:
«Questa operazione di chirurgia sui costumi ancestrali è molto
interessante… Ma terrà?».

È quanto
ci chiediamo tutti, missionari e mangbetu. Finora la risposta è: tiene!

 


Se così stanno le cose

Nodadai:
gli zii del defunto sono chiamati a dare una somma di denaro. È possibile
che, da vivo, il defunto abbia dato frecce o lance agli zii, affinché alla
sua morte, facciano scorrere del sangue (vendetta). Questa si chiama «nongu».
A noi mangbetu giudicare se è un buon testamento.

Amuteno: è
il diritto di sepoltura da attribuire agli zii del defunto. Senza amuteno,
il cadavere rimarrà senza sepoltura, anche se il corpo va in
decomposizione. A noi mangbetu giudicare se questa pratica è buona.

Neposo:
dopo la sepoltura, è obbligatorio dare agli zii da mangiare: maiale o
capra, da uccidere subito, e il necessario in banane, manioca, olio e
tutti i condimenti.

Nekuwe
andreti: significa cercare i parenti remoti del defunto, affinché possano
anch’essi trarre profitto del neposo.

Nemongimbo:
è obbligatorio; per cui si comincia subito a trattare, mettendo da parte
la tristezza. Nemongimbo è una multa esigita dagli zii ed è in stretta
relazione con l’importanza del defunto: molti soldi, parecchie teste
d’animali, banane… senza contare i condimenti. A volte tutti gli animali
del defunto sono consegnati agli zii del defunto; così i figli e la vedova
rimangono senza niente. A noi mangbetu giudicare tale modo di fare.

Nuodutulu:
le donne sposate (sorelle del villaggio) possono ritornare dai loro sposi
solo dopo aver pagato o essersi liberate da questi obblighi; altrimenti le
donne rimangono prigioniere nel villaggio d’origine. Tale usanza può
portare al divorzio o all’adulterio. I bambini sono abbandonati alla loro
sorte. Tocca a noi mangbetu vedere se ciò è buono.

O ubwho:
sono gli obblighi, i lavori forzati o le pene inflitte sia al vedovo che
alla vedova, sia ad un membro prossimo della famiglia, come può esserlo un
cognato del defunto. Ecco alcuni esempi di pene inflitte: non mangiare né
bere senza permesso o pagare una somma di denaro prima di poterlo fare;
non lavarsi e non pettinarsi; obbligo di camminare sul ciglio della strada
o in mezzo all’erba. Lavori forzati, quali costruire una casa, cercare
legna speciale per il fuoco…  A noi mangbetu giudicare se queste
pratiche vanno bene.

Decisioni
finali

1. Noi,
mangbetu, non faremo più pagare per il cadavere, perché questa pratica non
contribuisce allo sviluppo della persona e del paese; perché i soldi che
si ricevono per un cadavere non aiutano l’individuo per molto tempo (Ez
24, 15-16).

Antonello Rossi




DI CHI E’ QUESTA TERRA?

Ghadamès, l’«interdetta»


Se si può parlare di mal d’Africa, a maggior ragione si può
definire la passione per il deserto qualcosa di più di una malattia. Ancor
oggi chi viaggia sulle strade asfaltate del sud algerino non può non
restare catturato dal silenzio interrotto solo dal «tobol», il tamburo
della sabbia, il rumore cadenzato prodotto dal contatto del vento con le
dune.
(Eric Saleo)

Perla nera
delle sabbie, città delle sette porte, crocevia carovaniero e mercato di
schiavi: ecco Ghadamès, vero avamposto del deserto. Ancora oggi, con
Timbuktu, Ouadane e Chinquetti, è una delle più belle e misteriose città
del deserto. Al presente quasi sepolta dalla sabbia, mille anni fa era un
importante centro carovaniero, ricco di scambi commerciali (oro, avorio,
pietre preziose) e culturali.

Costruita
in un’oasi di sogno, sotto il livello della strada al riparo dalle sabbie,
appare al visitatore come una città sotterranea dall’affascinante
labirinto di viuzze tortuose e buie, al confine con Tunisia e Algeria. Con
la spedizione di Lucio Coelio Balbo (20-19 a. C.), i romani vi
stabilirono un presidio (Cydamus), di cui sono ancora visibili i resti.

La sua
storia è una catena ininterrotta di invasioni e lacerazioni della propria
identità. Convertita al cristianesimo durante l’impero bizantino, fu
occupata in seguito dalla irruzione musulmana del 667 d. C. Nel 1825
l’esploratore inglese Alexander Gordan Laing fu il primo europeo che la
menzionò dopo secoli di silenzio. Il suo lungo viaggio in Sahara terminò
purtroppo tragicamente a Timbuktu, dove anche gli ultimi appunti di
viaggio furono distrutti dagli aggressori. Anticamente Ghadamès era nota
come «l’interdetta» e ancora oggi sono rarissimi gli occidentali di
passaggio.

È un luogo
insolito: non ha i caratteri di alcuna città libica, tunisina o algerina,
pur essendo un crocevia fra i più frequentati. Viene definita una città
intensamente africana per i colori accesi, i disegni esoterici, le torri,
lo sgargiante artigianato e, soprattutto, per quelle viuzze coperte, più
simili a cunicoli sotterranei. I vicoli di Ghadamès sono stati progettati
da abilissimi architetti, per catturare ogni folata di vento, ogni
squarcio d’ombra e di freschezza.

Oggi,
sull’antica Ghadamès è sceso il silenzio: dagli anni Ottanta i suoi
abitanti si sono trasferiti nella sua periferia, dove il governo libico ha
fatto costruire ambienti più confortevoli per la popolazione. L’UNESCO ha
preso sotto la sua tutela questa perla del deserto; ora, nelle sue vie
silenziose, si odono solo i rumori dei restauratori, piccoli gruppi
impegnati a valorizzare la porta millenaria, che conduce ai giardini di
palme ed orzo, ai quartieri berbero e arabo, all’hamman dove si raccoglie
l’acqua della sorgente.

Avvolte
in lunghi mantelli e veli, solo tre donne sono rimaste stabilmente qui:
madre, figlia e nipote. I loro abiti svolazzanti e il portamento regale
richiamano alla mente un vecchio regno arabo dalle favolose leggende. Chi
sono? Perché vivere come eremiti nel silenzio di case vuote? Solo ad un
turista frettoloso, tuttavia, queste case possono sembrare vuote: chi ci è
vissuto ricorda ancora cicalecci di donne sulla soglia di casa, grida di
bimbi, discorrere di uomini accomunati da un uguale destino.

Ma le case
non sono così mute come sembrano: percorrendo lentamente i tortuosi
viottoli, si scoprono luminose piazzette tra piccole case dai fantastici
decori dipinti dalle donne, la Usaiet el Tutà o mercato degli schiavi, i
terrazzi decorati che circondano orti e giardini, il minareto e la
moschea, i tetti e le merlature. Le palme da datteri sopravvivono ancora
dando frutti e ombra. La vecchia Ghadamès, patrimonio dell’umanità,
sopravvive malgrado l’apparente abbandono urbano.

Nonostante
le nuove e confortevoli costruzioni, la gente continua a vivere, anche di
giorno, nella vecchia città. Un proverbio arabo recita così: «Se la palma
muore, muore anche la città». Per questo e per altri motivi forse più
pratici, le vie strette e buie ma fresche e accoglienti sono ancora
frequentate e i giardini e i palmeti coltivati come un tempo, quasi che da
un giorno all’altro qualcuno venisse a controllae la vitalità.

I lunghi
corridoi coperti, più simili a tunnel scavati nel tufo, con il loro
andamento tortuoso servono a bloccare la sabbia trasportata dal vento. La
luce penetra da alcuni lucernari, e i sedili di pietra sporgenti dai muri
offrono ad ogni ora un fresco isolamento (rifugio, riparo) dalla calura
estea.

Entrando
nelle case si resta affascinati dai colori: muri bianchi decorati
prevalentemente in rosso, porte dipinte di blu, nicchie gialle, verdi,
rosse e ocra. Si salgono scale di pietra per raggiungere la «stanza di
soggiorno». Curiosamente nascosta in una nicchia, superabile solo
strisciando sul pavimento, appare l’alcova, dove per tradizione gli sposi
trascorrono solo la prima notte di nozze. Le stanze superiori e le
terrazze completano l’appartamento. Ovunque trionfa il bianco dei muri,
l’ocra, il giallo, il rosso, il blu. Sono colori caldi, ma non aggressivi,
e così ben armonizzati da lasciare una sensazione rilassante.

Visitare
Ghadamès è inoltrarsi in un passato che è ancora vivo, un mondo magico
dove gli uomini delle sabbie sono stati felici con poco. Lo sono
altrettanto ancora oggi?


Litanie delle
dune

Dune,
grandi dune ondulate come l’acqua del mare,

Dune dalla
fronte calva,

Dune, che
il vento lavora e tormenta senza tregua,

Dune, che
una goccia d’acqua rinfresca una volta ogni cent’anni,

Dune, che
vedete passare le carovane,

Dune
melodiose, che cantate al levare del sole,

Dune dal
buus d’oro e dal buus di neve,

Dune, dai
fianchi sollevati

come
quelli di una donna prossima a partorire,

Dune,
nostro sudario quando il simun soffia e ci travolge,

Dune,
grandi dune del deserto, rendeteci dolce la strada

E fate che
arriviamo alla meta…

Così
salmodiando, essi camminano lungo la strada nella sabbia, l’uno dietro
all’altro, al passo lungo e leggero dei nomadi.

Liliana Pizzoi




MEDICINA INDIGENA: un intreccio misterioso di pratiche

MALATTIA E MORTE,<I GRANDI TABU'


I numeri
magici

Il popolo
africano, senza distinzione alcuna, è fondamentalmente legato alla terra:
non sono tanto gli elaborati sofismi di pensiero a occupare le menti delle
persone quanto i risvolti vitali che la realtà quotidiana può avere nella
loro esistenza. Ogni minerale, ogni pianta, ogni animale racchiude in sé
un potere, una forza capace d’influenzare in bene e, spesso, anche in male
la vita di un individuo.

Da qui una
nozione di medicina, che per noi è ormai indissolubilmente legata al
freddo e preciso concetto di scienza, mentre per l’africano indica un
insieme di norme spirituali e morali, oltreché di rimedi e cure. Non per
niente il personaggio più carismatico del villaggio africano è
l’«operatore magico» o sciamano, che unisce poteri divinatori-spirituali a
quelli curativi-geomantici.

La
medicina è considerata una pratica misteriosa, nella quale rientrano
normalmente la chiaroveggenza, la demonologia, la necromanzia,
parallelamente alla diagnosi, all’eziologia e alla terapia di una certa
malattia. Se dunque dalla e nella terra si manifestano gli spiriti e le
anime dei defunti, fondamentale diventa la conoscenza delle erbe
(fitoterapia) e del loro uso spesso combinato con sostanze di origine
minerale (talco, argilla, sale, ecc.), come pure la conoscenza di sostanze
di origine animale (teste di lucertola, polvere di scorpione, lingua di
serpente, ecc.).

L’utilizzo
di erbe, radici e foglie è determinato non solo da osservazioni e scoperte
empiriche sulle loro proprietà curative, ma dal «modo», dal «numero» e da
altri parametri.


Importante, ad esempio, è la magia che riveste il numero. Il numero 1,
numero singolo e fondamentale; il 4, numero sacro che rappresenta i 4
punti cardinali a simboleggiare la totalità del potere curativo. Se ad
esso si aggiungono le due direzioni, alto e basso, ecco che anche il 6
diventa un numero di grande importanza. C’è il 7, rappresentante del ciclo
ebdomadarico del tempo.

Da qui
l’attenzione ad assumere i rimedi e a celebrare i rituali in date
«numericamente» propizie dei calendari solari o dei quarti lunari e, per
le donne, del ciclo mestruale.

Quando,
come, dove

Se la
posologia (l’aspetto che regola la quantità e la modalità di assunzione di
un farmaco) è una questione di occhio o di mano, in cui la quantità degli
ingredienti delle varie pozioni viene misurata in maniera un po’
approssimativa (si va dal pizzico, alla manciata o a «qualche goccia»),
per l’africano ha invece molta importanza la determinazione precisa sul
come e dove le pozioni debbano essere assunte.

Ebbene,
come disporsi con il corpo rispetto al sole o alla luna? Come celebrare il
rito seguendo una precisa successione di gesti e invocazioni. E dove? Nel
centro del villaggio, davanti a tutti, o piuttosto nel fitto della
foresta, da soli o con lo stregone?


Medicina
senza limiti o confini

Il
concetto di medicina per gli africani è, quindi, molto variabile e assai
più ampio di quello inteso da noi. La medicina in Africa non è solo la
sostanza capace di far passare un dolore, una malattia, ma è anche la
pozione che placa gli spiriti cattivi che impediscono a una madre di avere
figli, che portano un marito o una moglie all’adulterio. Medicine sono i
filtri d’amore che fanno conquistare la donna o l’uomo di cui si è
segretamente innamorati; sono anche le offerte di distillati o impiastri
per il feticcio del villaggio, affinché propizi un buon raccolto o
protegga dalle calamità.

Sì, perché
di fatto, in Africa, non esiste una separazione tra le cosiddette «piante
officinali» e quelle normali o alimentari come il mais, il peperoncino o
la patata. Tutto può essere medicina per l’africano, perché egli si sente
al centro tra quel cosmo animato da spiriti e creature, che è aldilà, e
quella natura, benefica o terribile secondo le circostanze, che è la terra
con i suoi elementi viventi o inanimati.

Qualcosa
da imparare?

In una
società come quella occidentale, in cui si eleggono a modello soprattutto
gli aspetti esteriori della vita (bellezza, forza, imponenza), l’Africa
insegna a non perdere il senso interiore e spirituale dell’esistenza
umana, di ogni suo momento: in particolare di quelle fasi critiche, come
la malattia e la morte, con cui tutti ci troviamo a fare i conti.

La
medicina modea si trova ormai ad affrontare con grande disagio la
quotidiana lotta contro la malattia e un frustrante senso di impotenza
verso la morte. Si sta giungendo a un pericoloso bivio: da una parte, c’è
il rischio di eccedere in attenzione verso un modello di freddo e
tecnologico efficientismo e, dall’altra, c’è la chiusura a riccio in una
corazza di superficialità e cinismo di fronte alla malattia e alla morte,
al punto da farle diventare tabù.

In
entrambi i casi il risultato è una spersonalizzazione del rapporto tra
malato e medico ed una estraneazione al coinvolgimento e a quella empatia
che sono gli elementi basilari del rapporto umano.

La scienza
medica e la farmacopea occidentali sono di enorme aiuto nella cura di
tante malattie che affliggono il continente africano e nel superamento di
numerosi pregiudizi che, spesso, ne sono la causa: per esempio certe forme
di mutilazioni neonatali o femminili, le malnutrizioni infantili…

Ma
altrettanto importante è il messaggio di umanità e riappropriamento di
valori umani che l’antica saggezza africana può ancora offrire a noi.

Gianni Martinetto




ARGENTINA: impressioni da un paese nella bufera

UN «MATE» INDIGESTO


Povertà e ricchezza, tristezza e gioia, speranza e paura
del futuro… Un intreccio che colpisce chi visita il «gigante buono»
sudamericano. Ma la miseria può diventare «cattiveria».

Il Boeing
747 della Aerolineas Argentinas mi depone sull’aeroporto Ezeiza di Buenos
Aires. Sono le 7 del mattino e ho l’impressione di atterrare sul mare. Una
coltre di nebbia, infatti, ricopre tutta l’estensione della pista. Non fa
freddo, perché l’inverno non è ancora iniziato. Immenso paese, 35 milioni
di abitanti. Incontro una società nuova, uscita da un lungo periodo di
dittatura e totalitarismo, in marcia verso un ideale di democrazia che
fatica (come ovunque) a stabilizzarsi. La struttura della società è
chiaramente diversificata.

Buenos
Aires, la capitale, è abitata dai «portenos» (immigrati europei e i loro
discendenti) mediamente borghesi, ma essa è anche accerchiata da tante «villas
miseria», vere baraccopoli costruite con lamiere e cartoni. Vi trovano
rifugio i più disgraziati, provenienti da ogni parte, alla ricerca di un
benessere sempre lontano. L’interno, disseminato di aborigeni e creoli, è
completamente differente: nati da questa terra, conservano la loro cultura
tradizionale che fa fatica a coabitare con quella dei «gringos» originari
dell’Europa.


Sentirsi a
casa


 Nell’interno del paese impressiona la povertà. Ma la fierezza di poter
diventare efficaci compagni nella costruzione della nuova società appare
evidente. Le persone, appena vi vedono, sorridono, vi abbracciano, anche
se non vi conoscono.

Rimango
colpito da questa manifestazione di affetto. Si direbbe che ogni sforzo
viene messo in atto per farti sentire a tuo agio, come a casa. Jorje mi
offre immediatamente un recipiente di mate: una bevanda calda, una specie
di tè proveniente dalla provincia di Misiones. Rifiutarla sarebbe un gesto
di scortesia. La si beve insieme, dalla stessa cannuccia, simbolo della
vita condivisa, trasmissione di una filosofia dell’esistenza fondata su
valori duraturi che non devono assolutamente perdersi.

La loro
casa diventa la tua casa e mai, come in Argentina, ho avuto l’impressione
di sentirmi a casa. I bambini che sorridono, i cani che dormono ai tuoi
piedi, le galline che beccano, i genitori che si danno da fare per
servirti. Non esiste formalismo: la gente si manifesta per quello che è, 
del tutto indifferente della povertà o disordine che potrebbe esserci. Ciò
che è importante è che tu possa mangiucchiare qualcosa, riposarti dal
caldo opprimente, assaporare un po’ della loro vita.

Una vita a
dimensione umana, capace di integrare nella relazione che si stabilisce la
bellezza dell’amore, della natura, degli animali, senza  dimenticare di
soddisfare i tuoi bisogni personali. Sì, la semplicità è la loro
ricchezza.

Uscendo da
un lungo periodo di oscurità drammatica, vissuta sotto la dittatura, il
paese si ritrova come un neonato nei confronti della democrazia.

La
mancanza di lavoro, il tasso di disoccupazione (tra i più alti
dell’America Latina), i miseri salari,  l’abbandono delle campagne e
l’immigrazione verso le città, sono i principali problemi. Le difficoltà
della vita quotidiana, dovute alla mancanza di denaro e lavoro, pesano
oltremodo sui «neonati». Quale futuro avrà il giovane che non ha la
possibilità di studiare adeguatamente, che è disoccupato e, sovente, si
lascia trasportare dall’alcornol o dalla droga per dimenticare una
situazione insopportabile? La mancanza di speranza nel futuro può
diventare il cancro di un popolo così buono.

Anche la
famiglia, una volta forte e solida, oggi scoppia. L’autorità dei genitori
è diminuita, la stabilità  è messa a dura prova, la fedeltà coniugale
sovente è diventata un sogno. I bambini che hanno un solo genitore
aumentano e mancano i punti di riferimento per crescere in armonia.
Sposati troppo giovani, sovente prima dei 18 anni, i genitori si accorgono
di aver preso strade che a loro non vanno più bene e se ne vanno.

I
luoghi della miseria

Villa
Pompeya è un quartiere di Merlo, alla periferia di Buenos Aires. I
missionari della Consolata vi lavorano da molto tempo, si occupano della
parrocchia e di numerosi «villaggi della miseria», che nascono come funghi
in questa periferia sempre più grande. Lavorando in équipe con le suore
missionarie della Consolata e con laici impegnati, si cerca di rispondere,
giorno dopo giorno, ai bisogni dei nuovi arrivati, destinati a morire
nella miseria.

La «villa
miseria» si trova in tutte le periferie delle città argentine: un insieme
di catapecchie di legno riciclato o di cartone, senz’acqua né elettricità,
senza servizi igienici. Numerose persone si ammucchiano in piccole camere,
dormendo per terra in una promiscuità impressionante. Le famiglie vere
sono rare.

Si
trovano, piuttosto, delle persone che vivono situazioni particolari: donne
abbandonate dai mariti, banditi che vengono a nascondersi, giovani
sbandati, drogati e alcornolizzati e molti bambini senza genitori. Un
universo che sopravvive senza lavorare, senza istruzione, senza servizi,
senza relazioni, al margine delle grandi città che le ignora e li teme. La
violenza e l’istupidimento si impongono.

Visito
questi luoghi con padre  Ermenegildo Crespi. I sentimenti che si provano
sono indescrivibili: un miscuglio di disgusto, compassione, paura… ma
anche un desiderio di essere loro vicini e amici. Il cuore di queste
persone non è diverso dal nostro e, se non hanno avuto la possibilità di
svilupparsi, restano pur sempre delle persone che Dio ama. La loro storia
inizia lontano. La maggior parte viene dal Nord. Fuggendo dal Chaco e
Formosa, loro terre d’origine, alla ricerca di un lavoro e di un avvenire
migliore, si ritrovano qui più poveri di quanto lo fossero prima, soli,
senza alcun legame con le famiglie che hanno lasciato, incapaci di pagarsi
il biglietto di ritorno verso il paese natale.

In questo
luogo di miseria e delinquenza, non trovano aiuti per           crescere;
sovente, per sopravvivere, iniziano a rubare, si danno alla violenza,
all’alcornol, alla droga per dimenticare. La storia dei Miserabili, persone
sfortunate dal cuore pieno di bontà descritte da Victor Hugo, non è ancora
terminata.

Vedo suor
Annapiera avvicinarsi alle persone come un’amica. Cerca di soddisfare una
quantità infinita di bisogni primari: cibo, abiti, medicinali, bimbi
abbandonati, morti. Ha organizzato una presenza e un lavoro veramente
notevoli in questo quartiere, anche se i soldi non sono mai sufficienti.

Vedo
sfilare tutta una serie di visi, dagli occhi spenti e dai cuori spezzati.
Più che di aiuto materiale (anche se indispensabile), hanno bisogno di
amicizia, comprensione, sostegno morale, parole di conforto. È triste
vivere in solitudine, senza potersi confidare con nessuno, racchiudendo in
se stessi tutte le difficoltà e le ferite.

I
missionari lo sanno bene. Sono là come amici, compagni di strada, dando
segni concreti di umanità e di carità. Qui il vangelo passa attraverso le
azioni  più che la parola e padre Crespi lo conferma: «Troppe atrocità e
violenze, nascondono loro il viso di Dio. È la nostra amicizia che
aspettano: un’amicizia che faccia loro intravvedere di essere amati da Dio
e salvati da Gesù. Un lavoro non facile da compiere.

L’eterna
domanda mi ritorna in mente: perché loro e non io? Non ho risposta, ma so
che, al loro posto, io non farei meglio. Rendono visibile ai miei occhi
una parte di me stesso segreta, nascosta. Sovente si è troppo severi con i
poveri, scaricando facilmente le nostre responsabilità nei loro confronti.
Le parole di sant’Ambrogio “o ricchi, voi donate troppo poco della vostra
ricchezza e siete troppo esigenti verso i poveri!” sono di un’attualità
sconcertante».


 Il rischio
dei «dinosauri»

Il futuro
dell’Argentina è nelle mani dei giovani. Tutti i missionari lo sanno e la
loro formazione è un punto prioritario nel programma di evangelizzazione.

È
impossibile qui presentare, in breve, i tratti che caratterizzano i
giovani argentini. Città e campagne producono modelli diversi, dovuti a
problemi particolari, legati all’ambiente in cui vivono, all’essere senza
radici, alla mancanza di identità che, a volte, li conduce al suicidio. A
San Francisco è nato un istituto diocesano (Ceas) per aiutare i giovani
che nutrono delle aspettative. Quello che li scoraggia maggiormente è la
mancanza di speranza, a causa della situazione economica e sociale.

Attività a
tutti i livelli sono state «inventate» nelle parrocchie per animare i
giovani sbandati. Un po’ ovunque si vedono club, movimenti, gruppi di
spiritualità o sportivi per giovani, ma lo sforzo principale resta quello
della scolarizzazione. A San Francisco e Mendoza, i missionari della
Consolata si sono impegnati nella scuola elementare e superiore. La
serietà e la competenza di questi istituti sono evidenti ai visitatori.

I signori
Miguel Alessi, direttore della scuola «Paolo VI» a San Francisco,
Gabrielle Panero de Romero e Tito Lopez, direttori della scuola secondaria
di Mendoza, mi mostrano la loro programmazione: precisa negli obiettivi e
metodi di lavoro, chiara nell’organigramma degli insegnanti e discipline;
un documento che si propone di portare i giovani ad una formazione
completa, umana e scientifica, capace di avviare ad un lavoro competente,
sorgente di felicità.

Gli sforzi
per integrare nella comunità argentina i numerosi boliviani immigrati sono
notevoli e questo esempio di apertura verso diverse culture è da imitare.

Una
caratteristica di questi istituti è lo spirito di famiglia e
collaborazione che vi regna. Ho l’impressione di essere in una comunità
molto interessata a migliorarsi, convinta d’avere in mano la chiave per
trasformare il futuro dell’Argentina. Ancora una volta si può toccare
direttamente l’efficacia dell’animazione fatta dai padri José Luis Pereira
e Silvio Lorenzini. Questi missionari sono attenti nel trasmettere i
valori del vangelo, convinti che non vi sarà una formazione completa,
senza quella spirituale. Non si devono ripetere gli errori dell’era «jurassica»,
quando i dinosauri avevano una struttura fisica enorme, ma con una massa
cerebrale molto piccola, incapace di controllare e soddisfare le esigenze
somatiche; per cui si estinsero!


Personalità armoniosa e società, scienza e fede illuminata, economia equa
e politica coscienziosa: ecco gli estremi di una formazione modea,
necessaria in Argentina. E sono lieto di sapere che i miei confratelli
missionari vedono nella scuola un luogo privilegiato per plasmare uomini e
donne del futuro.

Adelante,
padres!, sempre avanti! In attesa, domani, di impegnarsi più a fondo,
anche nell’università.

L’ultima
sera del mio soggiorno a Buenos Aires, nella cappella della casa
provinciale, bruciava un cero davanti all’immagine della Consolata. La
fiammella tremolante mi ha spinto a una riflessione, un augurio per questa
gente affascinante:

«Non
temere, Argentina! Le tue mani non cedano, perché il Signore, tuo Dio, è
in mezzo a te. Egli sarà tuo salvatore, esulterà per te di gioia e ti farà
nuova con il suo amore» (Sof 3, 16-17).

 


Il «peso»
diventa… leggero

Il
fallimento socioeconomico argentino è da ascriversi pure allo stesso De la
Rua e al ministro dell’economia Domingo Cavallo, sostenitore della
globalizzazione-privatizzazione delle imprese, che ha creato numerosi
disoccupati.

Nuovo
presidente (il quinto in 20 giorni) è Eduardo Duhalde. Questi ha bloccato
il pagamento dell’enorme debito estero (132 miliardi di dollari) e ha
sospeso la parità tra peso (moneta argentina) e dollaro, con una
svalutazione del 30%. L’inflazione è dietro l’angolo. Le tensioni non sono
finite: La crisi argentina preoccupa anche Stati Uniti, Messico, Cile,
Uruguay, Spagna, Italia.

La
crisi è sociale, ma non solo. «Va tenuto presente – ha detto l’arcivescovo
Estanislao Karlic, presidente della Conferenza episcopale – che
l’Argentina vive una crisi profondamente morale, una crisi che coinvolge
tutti, non solo i leader. Le “mazzette” non le prendono solo i politici,
ma anche altri cittadini».

Jean Paré




ZE’ DOCA (BRASILE): il vescovo Walmir Valle in redazione

LE SFIDE DI UN «PELE’» MANCATO


«La mia casa è la stessa di 13 anni fa, come l’hai vista
tu. Nulla è cambiato. Ultimamente mi sono ritrovato solo. Così ho fatto
anche il portinaio, il cuoco, il lavandaio…». Confidenze di un vescovo
semplice, immerso tuttavia in grandi problemi, data la povertà e
l’isolamento della sua diocesi nel Maranhão.

 

«Benvenuto
nella sala-giornali della redazione della rivista Missioni Consolata! Buon
giorno…».


L’«intruso», un po’ sorpreso, sussulta. Ma si riprende subito e dice
sorridendo: «Ieri c’è stato il sorteggio degli accoppiamenti delle squadre
nazionali di calcio che giocheranno il campionato mondiale in Corea e
Giappone. Sto sfogliando il giornale per conoscere gli avversari del
Brasile».

Secondo
lei, chi vincerà il trofeo?

La palla è
rotonda, dite voi giustamente in italiano…

Forse
abbiamo colto in fallo un… monsignore. È Walmir Valle, vescovo
brasiliano di Zé Doca (Maranhão) e tifoso di foot ball. C’è chi giura che,
se Walmir non si fosse fatto prete, sarebbe diventato un vero campione. A
Torino, dove ha studiato teologia, molti ricordano ancora le sue imprese
calcistiche, degne di Pelé, «il re».

«Sono
passati più di 40 anni da allora – afferma il vescovo scuotendo la testa
-. Oggi…». Oggi è missionario della Consolata e, da 16 anni, anche
vescovo. Recentemente ha costruito una nuova cattedrale.


Una bella
cooperazione

Nel 1998
dom Walmir bussò alla porta dell’organizzazione cattolica tedesca Adveniat,
per ottenere 100 mila reais (circa 162 milioni di lire). Il vescovo aveva
puntato in alto per accontentarsi poi di 30 mila reais. «Non so se ce la
caveremo con tale somma» disse il vescovo ai sacerdoti e fedeli.

Iniziarono
a lavorare, inglobando la vecchia chiesa. Ma subito furono costretti a
demolie una parte, perché volevano allungare la costruzione, passando
dai precedenti 28 metri agli attuali 41. Inoltre sorsero altre difficoltà.
Pertanto del vecchio complesso rimase solo il campanile. Quanto al nuovo
progetto…

«Quanto al
nuovo progetto, siccome bisognava risparmiare soldi, l’ho fatto io stesso
con il muratore capo. Man mano che la costruzione cresceva, apportavamo
delle modifiche secondo le esigenze. Abbiamo lavorato sodo per 15 mesi, e
ce l’abbiamo fatta in tempo per il giubileo del 2000. Oggi la nuova
cattedrale è una meraviglia. Lo dicono tutti. A noi piace soprattutto
perché è opera nostra».

Anche il
comune diede un contributo, rimuovendo le macerie dei muri abbattuti e
foendo la terra per alzare il livello della nuova costruzione di 50
centimetri rispetto a quella vecchia. La gente pagò mille sacchi di
cemento, mentre la Direzione generale dei missionari della Consolata offrì
20 mila reais.

Al termine
la spesa complessiva fu di 90 mila reais, per un’opera che si avvalse
della solidarietà internazionale (Adveniat tedesca e Missionari della
Consolata), dell’apporto dell’autorità locale e del concorso dei fedeli.
Un bell’esempio di cooperazione.

«Proprio
così – conferma il vescovo -. Naturalmente tutto dipendeva dal come si
chiedeva. Non bastava lanciare appelli generici; bisognava impegnarsi di
persona, casa per casa. Io sono abbastanza esplicito e, quando chiedo,
ottengo quasi sempre qualcosa».

La
costruzione della cattedrale è ancor più meritoria, se si tiene conto del
contesto sociale. Nel 1994 il Brasile adottò la nuova moneta real (plurale
reais): una divisa forte, superiore persino al dollaro. Il rapporto con il
«biglietto verde» era di 0,80 a 1. Dopo un periodo di stabilità forzosa e
costosa, nel febbraio 1999 il real fu svalutato del 50% e l’inflazione
riprese a correre. Oggi occorrono 3 reais per 1 dollaro.

Oggi, con
la globalizzazione-privatizzazione, il Brasile dipende dal capitale
estero. Il fenomeno ha aumentato la disoccupazione, specialmente nelle
grandi città di São Paulo, Rio de Janeiro, Porto Alegre… dove operano le
industrie. E pesano i macigni di sempre: la mancata riforma agraria e
l’iniqua distribuzione della ricchezza.


Una diocesi
in chiaroscuro

Nel 1988
eravamo a Zé Doca, ospiti del vescovo Valle. Allora il presule lamentava
la scarsa collaborazione della gente alla vita della diocesi. Oggi si
registra un mutamento in meglio. La costruzione della cattedrale lo
dimostra.

È
d’accordo dom Walmir?

C’è stato
un cambiamento positivo. Tuttavia la partecipazione del popolo è ancora
ridotta. In occasione della costruzione della cattedrale, sono riuscito ad
ottenere la collaborazione di tutti; ma in genere è ancora difficile,
specialmente per la formazione di lidares laici e per il sostentamento dei
sacerdoti.

È arduo
trovare persone che si assumano il servizio di animazione e cornordinamento
delle comunità. «È – commenta il vescovo – la sfida più forte. Abbiamo
offerto ai lidares la possibilità di formarsi: per esempio con la scuola
di teologia pastorale. La scuola si svolge nell’arco di quattro anni
consecutivi con varie lezioni. Vi sono due scuole: una sulla costa e
un’altra all’interno del territorio; si tratta di realtà assai diverse,
non solo per posizione geografica, ma anche per formazione religiosa. La
partecipazione alla scuola è stata pure diversa: 60 persone nel litorale e
25 nell’interno».

Per
risolvere il problema del sostentamento del clero, il vescovo ha invitato
i fedeli di versare alla chiesa «la decima». Ma la proposta è rimasta
quasi lettera morta. Si è cercato di sensibilizzare le comunità con un
libretto, ricco di citazioni bibliche che ricordano ai fedeli «l’obbligo
di mantenere il loro sacerdote». Anche questo ha sortito scarsi risultati.

«A
prescindere dalla povertà reale – precisa il vescovo -, la causa della non
partecipazione della gente ci porta indietro nel tempo, quando i
missionari italiani garantivano tutto il necessario. Così le comunità si
sono abituate a “dipendere”, senza alcun loro apporto. Questa mentalità
resiste ancora. Il problema del sostentamento è grave per lo stesso clero
locale, che proviene da famiglie bisognose».

Dunque,
monsignore, la diocesi non dispone di fondi per venire incontro alle
esigenze dei sacerdoti?

No, perché
non ha denari per tutti.

Mancando
il sostegno della diocesi, i sacerdoti si mantengono con le offerte delle
messe e degli altri sacramenti. E pare che ci stiano riuscendo. «Gli unici
che versano ancora qualcosa per la diocesi – precisa il vescovo – sono i
tre missionari fidei donum di Torino».

La diocesi
di Zé Doca è stata dimenticata anche dai missionari della Consolata?

No. Il
nostro Istituto versa ogni anno 50 mila dollari per la formazione dei
seminaristi.

E proprio
dal seminario sono venute le migliori consolazioni per il vescovo.
All’inizio del suo apostolato a Zé Doca non poteva contare su alcun
sacerdote del luogo. Oggi sono sette, con un discreto numero di studenti
nel seminario maggiore di São Luis.


I tempi sono
cambiati

«C’era una
volta la chiesa brasiliana» afferma oggi qualcuno, non nascondendo la
propria delusione. La chiesa del coraggio, della denuncia delle
ingiustizie sociali, la chiesa dei vescovi Mathias Schmidt, Helder Camara,
Paulo As, Luciano Mendes, Ivo e Aloisio Lorscheider, Aldo Mongiano…
Figure coraggiose, profetiche, oggi defunte o ritirate, mentre i
successori sono diversi.

Dom Walmir,
come giudica l’odiea chiesa brasiliana?

Rispetto a
30-40 anni fa il paese è più democratico. I movimenti di lotta
sociopolitica contro il governo si sono sciolti, perché sono mutate le
situazioni. Oggi i lavoratori, più che con lo stato, devono fare i conti
con la globalizzazione, le transnazionali…

Però il
governo c’entra, perché può schierarsi o da una parte o dall’altra.

E la
chiesa deve schierarsi con i deboli. Credo che lo stia facendo. I profeti
ci sono ancora.

Per
esempio?

In
occasione dei 500 anni della scoperta del Brasile, c’è stata la festa di
Porto Seguro, contestata dagli indios, che hanno ricordato i massacri e le
discriminazioni sofferte nella storia. Circa 2 mila indios si sono diretti
a Porto Seguro per incontrare il presidente Cardoso; ma la polizia li ha
fermati con violenza. Anche i vescovi Masserdotti e Balduino, che erano
con gli indigeni, sono stati arrestati per cinque ore… Allora i profeti
ci sono e si fanno sentire.

Che dire
della sua diocesi?

A Zé Doca
c’è stata la marcia-pellegrinaggio della gioventù, durante la quale
abbiamo pregato, cantato e denunciato i mali che affliggono il paese. Il
tema «Cittadinanza e fede» ci ha consentito di riflettere sui gravi
problemi legati al Movimento dei contadini senza terra.


Politicamente come agite?


Lavoriamo senza tanto rumore. Ma a Zé Doca la comunità, con il parroco in
testa, ha presentato e sostenuto i propri candidati nelle elezioni
comunali.

A quale
partito appartengono?

Al
Partito dei lavoratori (PT). Ma il candidato sindaco, per vincere le
elezioni, si è dovuto alleare con altri partiti…

  Nella
sala-riviste di Missioni Consolata si ode un vociare, che proviene
dall’esterno. Dom Walmir si affaccia alla finestra e vede alcuni ragazzi
che rincorrono un pallone. «Quanto mi piacerebbe giocare con loro!».

 

 Visita
pastorale a São João do Caru

La
parrocchia di Bom Jardim è una delle più estese della diocesi: dista 30
chilometri da Zé Doca, è affidata ai due frati francescani conventuali,
molto giovani, e comprende più di 100 comunità.

Pochi
anni or sono ne è sorta una nuova: la comunità di São João do Caru.
D’accordo con il parroco, avevo deciso di visitarla durante la stagione
delle piogge. São João dista da Bom Jardim, in linea d’aria, circa 90
chilometri ed è raggiungibile solo in barca durante il tempo delle piogge.

 Il
programma prevedeva che mi trovassi alle sette del mattino a Bom Jardim.
Da qui un frate ed io, in camion, avremmo raggiunto il fiume per
proseguire in una canoa a due posti fino a São João. Però il camion (data
la pessima strada) non poteva marciare. Allora prendemmo una moto-taxi. La
distanza era modesta: 12 chilometri. Ma ci impiegammo oltre un’ora, perché
fummo costretti a fermarci una dozzina di volte a causa del fango.

Giunti
al fiume, salimmo in barca: io davanti e il giovane frate dietro, al
volante, vicino al motore. Dopo mezz’ora ci fermammo ad Alto Alegre per il
rifoimento di carburante. Ripartimmo con due ospiti, che ci avevano
chiesto un passaggio: poiché l’imbarcazione era piccola, due persone in
più costituivano un bel rischio. Ma tutto andò bene.


Sennonché, ad un certo punto, udii un tonfo, seguito da un grido del frate
guidatore.

– Cosa
è successo?

– Il
motore è caduto in acqua!

– Cosa?…
E ora? C’è un remo?

– No.

Si
disperava il giovane frate, inesperto, anche perché sapeva che era colpa
sua, non avendo fissato bene il motore sulla barca.

Era
mezzogiorno e fummo costretti ad abbandonarci alla corrente del fiume,
sotto un sole cocente. Non furono bei momenti… Finché il rumore di
un’altra imbarcazione ci sollevò il cuore. Ritornammo a Porto Alegre.

Quanto
al motore, nuovo di zecca, ma caduto nel fiume, potevamo scordarcelo per
sempre.

 

A São
João do Caru ritornammo cinque mesi dopo, via terra questa volta, in
Toyota, messa a disposizione dal sindaco locale. Ma quasi subito l’auto ci
piantò in asso per un guasto meccanico. Un camion, superaffollato, ci
portò a destinazione dopo sei ore di viaggio su una strada… che non
c’era! Erano le 5 del pomeriggio.


L’accoglienza della popolazione fu straordinariamente giorniosa: con tante
foto-ricordo, perché era la prima volta che un vescovo metteva piede in
quel paese… La visita pastorale continuò il mattino successivo con
l’amministrazione delle cresime.

Per il
ritorno c’era ancora il camion, ma in ritardo. Partimmo alle due del
pomeriggio. Percorsi una decima di chilometri, il camion si fermò per
caricare alcuni sacchi di farina. Poi incominciò a piovere come Dio voleva,
e ci impantanammo. Bisognava aspettare che spiovesse. Io, intanto,
camminai per circa tre chilometri, finché il camion mi raggiunse.


Seguirono sette ore di scivolate, sbandate e testacode. Ma, grazie alla
Madonna Consolata, arrivammo a Bom Jardim sani e salvi.

Nella
diocesi di Zé Doca si vivono anche queste avventure.

Francesco Beardi




PLATI’ (CALABRIA): MISSIONARI DI FRONTE ALLA MALAVITA

COME UNA ROCCAFORTE INESPUGNABILE?


Che ci fanno i padri Luigi ed Enrico in un paese
considerato un covo dell’«ndrangheta»? Ieri, però, è stato preso
l’«imprendibile». Ma la battaglia per la legalità è ancora lunga e
difficile. «Popolo di Platì, svegliati e unisciti a noi per costruire un
futuro di pace per i nostri figli».


Tristemente
famoso

La gente
ci domanda sovente come ci troviamo e che cosa pensiamo di questa «punta
di spillo nel cuore dell’Aspromonte», come Avvenire ha definito il
paesino. Recentemente la «punta di spillo» ha fatto rumore nei notiziari
dei canali ufficiali e privati, nei giornali di grossa e modesta tiratura.

Il
programma televisivo «Terra» di Canale 5, del 16 dicembre scorso, ha
narrato in dettaglio l’arresto del pregiudicato Barbaro Giuseppe,
soprannominato «l’imprendibile». È stato braccato nel suo bunker, la notte
dell’11 dicembre, dalle forze speciali di polizia, coadiuvate dai
carabinieri locali, dopo 11 anni di latitanza, molti dei quali trascorsi
nel confortevolissimo tunnel sotto casa. In questa circostanza, più che in
altre del passato, Platì si è sentito amaramente segnato a dito.


Tristemente celebre nel recente passato per i sequestri di persona, con i
sequestrati tenuti in ostaggio forse nel bunker del superlatitante (dove
sentivano suonare le campane e recitare il rosario nella nostra vicina
chiesa), Platì sta vivendo oggi momenti particolari: timidi, ma
riconoscibili sono i segni di volontà di cambiamento.

Però la
popolazione si sente umiliata. Bisognerebbe fare un po’ di giustizia:
perché è più facile disfare la speranza che edificarla. Secondo il cinese
Lao Tze, è meglio accendere una lanterna che maledire l’oscurità.

Platì è
stato definito pittorescamente una «città a due piani», uno in superficie
e uno sotterraneo: e in parte è vero. È stato paragonato ad una
«roccaforte talebana»: e anche questo è un po’ vero (il bunker era un
marchingegno di elettronica sofisticata: porte scorrevoli, chiusure
antiproiettile, scalini mobili)… Siamo inoltre stati descritti come
«gestori dell’erba», maestri consumati dell’ndrangheta, cittadini
corazzati nell’omertà.

Omertà ce
n’è, ma non al livello che si vuole far credere. La verità è che tanti non
sanno veramente nulla, né si accorgono di nulla. Tra costoro si
annoverano, sovente, gli stessi familiari e le stesse mogli dei
malavitosi. Ne siamo convinti. Osservatori laici ed ecclesiastici della
zona lo confermano.

Il
malaffare è portato avanti da «specialisti», che vivono nel paese a
stretto contatto con i vertici della criminalità (spesso residenti
altrove), vuoi nell’ordine nazionale vuoi in quello internazionale.


Sono caduti
in basso?

La
risposta è semplice: perché siamo missionari. Siamo qui per la profezia
della speranza, per il ministero della consolazione, per illuminare,
purificare e sostenere la religiosità popolare. Siamo qui per temprarci ed
essere maggiormente i missionari dell’«oltre».

O dobbiamo
eternamente discutere, rivedere e programmare la nostra identità a livello
cartaceo, senza buttarci mai nella mischia?

Non siamo
eroi, anche se siamo coscienti che questi primi mesi (per una combinazione
di fatti che sarebbe troppo lungo descrivere) ci hanno portato a vivere al
limite della capacità di pazienza e adattamento. E, benedetto sia il
nostro fondatore, Giuseppe  Allamano, che ci insegna a vivere la missione
insieme! Da soli non ce la faremmo.

Siamo qui
per obbedienza e coerenza. L’ultima conferenza dei missionari della
Consolata in Italia si era fatta promotrice di un’urgenza profetica,
espressa dal X Capitolo generale: è l’ora dell’ad gentes anche per
l’Europa. E la direzione regionale, raccogliendo l’indicazione, ha deciso
così di iniziare una presenza missionaria nella Locride, una zona piena di
sfide ecclesiali e socio-ambientali.

E siamo
caduti a Platì. La nostra destinazione è stata decisa in una corsia
preferenziale, forse per non lasciare adito al pentimento. E abbiamo
trovato un micromondo insospettato: gente che darebbe volentieri
l’ostracismo a chi ha inventato il lavoro e gente che lavora come bestie,
ma con garbo, genialità e (non è poco) con il sorriso sulle labbra:
proprio come chi trova gusto, affetto e gratificazione nel lavoro.

Gente che
mette piede in chiesa soltanto per le «onorate circostanze», insieme con i
rispettivi compari e comari, e gente che viene tutti i giorni a messa,
digiuna due volte la settimana, si prodiga nel silenzio in ogni necessità
(ammalati, anziani, bisognosi).

Gente che
è ingolfata nel malaffare fino al collo e gente che, come dicevamo, pur
vivendo ad un palmo dalle abitazioni dei malavitosi, non sa assolutamente
niente dell’illecito che si orchestra, soprattutto nelle ore delle
tenebre.

Sentiamo
compassione per tanta popolazione, molto dispiaciuta, perché di Platì si
parla esclusivamente nelle circostanze negative. È scontato: da sempre i
poveri fanno notizia solo nelle sciagure, nei «peccati», mentre i «ricchi»
e «color che sanno» si mantengono immacolati nel loro impudico
puritanesimo.

I platesi
ammettono che il loro paesino sta andando alla deriva da qualche decennio
a questa parte… al punto che tanti preferiscono mandare i figli a
studiare nei paesi vicini.

Platì,
alla pari di un centro napoletano, detiene il primato della natalità in
Italia e, forse, anche in Europa. Purtroppo è simile a una madre che
genera generosamente le sue creature, le avvolge di tenerezza
nell’infanzia, le vede allontanarsi da casa nella gioventù per motivi di
studio e lavoro, le vede scompaginarsi ai quattro angoli della terra:
Torino, Milano, New York, Toronto, Sidney… E Platì langue.

Quarant’anni
fa il paese contava 7 mila persone, scese oggi a 3 mila. Platì era un
rinomato centro agricolo, commerciale, artigianale (chi non ha sentito
parlare delle pipe di Platì?); era stimato e invidiato da tutti per la
creatività, laboriosità e ospitalità dei suoi abitanti. Resistono alcune
vestigia: falegnami, veri maestri del legno, e foai che distribuiscono
il fragrante «pane di Platì» ad una ventina di paesi nella provincia di
Reggio Calabria.


Una fiaccolata storica

Come
sacerdoti, data la scarsità di clero in diocesi, oltre Platì, serviamo
altre due modeste parrocchie. E siamo contentissimi della vita un po’
spartana. Ci organizziamo la giornata, prevenendo l’uno le difficoltà
dell’altro per alleggerire i pesi di entrambi. Rinunciamo a ogni
privacy… con un unico camino, che a volte ci rallegra nel tepore, a
volte ci inumidisce gli occhi per il fumo. Uno cucina e l’altro lava i
piatti; uno scopa la casa e l’altro bada alla lavatrice.

Ma non ci
esauriamo nel fare: è essenziale il confronto quotidiano con la parola di
Dio e uno sguardo ai giornali. E predicazioni, confessioni, apostolato
spicciolo. Alla sera siamo così ubriachi di sonno che, recitando il
rosario, il più forte deve svegliare energicamente il più debole, quando
dalla contemplazione dei sacri misteri scivola in braccio al pagano
Morfeo.

Ci
ripromettiamo, quando saremo in tre, di collaborare attivamente con la
diocesi nella missionarietà specifica ad gentes: lo desidera anche il
vescovo, Giancarlo Brigantini. È un trentino di pura razza, ma
visceralmente inculturato nei valori nobili della Locride e della antica e
gloriosa Magna Grecia.

Presieduta
dal vescovo, abbiamo organizzato il 15 dicembre scorso una
processione-fiaccolata per svegliare la coscienza della popolazione
dinanzi al ripetersi del gravissimo fenomeno della sparizione di persone
(7 in 8 anni, di cui 3 da luglio a novembre 2001).

Prima
della fiaccolata, durante la messa, concelebrata dal vescovo e dai
sacerdoti della vicaria, coraggioso e commovente è stato l’intervento di
una mamma. Dal pulpito ha pronunciato parole pesanti, come i macigni
disseminati su queste colline, e brucianti come il fuoco di lupara: parole
che hanno sfidato ogni trincea di omertà.

«Popolo di
Platì, svegliati e unisciti a noi per costruire un futuro di pace per i
nostri figli. Siamo contro ogni forma di violenza e vandalismo: uniamoci
per punire i misfatti! Abbandonati da tutti, abbiamo sempre chinato la
testa con triste rassegnazione. È tempo di far sentire la nostra voce. Un
grido di pace e perdono contro ogni male. Impegniamoci a riscattare il
paese per quanto è successo nel passato e nel presente».

Anche i
cartelloni, preparati dai giovani e portati dagli adolescenti nella
marcia-fiaccolata, osannavano alla pace, alla responsabilità, alla vita.
Uno fra tutti: «Caino, dov’è tuo fratello?».

Nelle
acque stagnanti un sassolino è stato lanciato. Piccoli circoli d’onda si
propagheranno lenti, ma indefettibili, fino alle più remote profondità
delle coscienze. Ne siamo certi. Confidiamo nel Signore della vita, che
dalle tenebre dell’odio è risorto alla luce, vincitore del male.

 

*I padri Luigi Manco ed Enrico
Redaelli, già missionari della Consolata in Argentina e Mozambico, sono
oggi impegnati nell’animazione missionaria-vocazionale in Italia. Gli
unici in Calabria.


«Restituite
questi giovani»

Sabato a
Platì è salito il vescovo Giancarlo Brigantini che, assieme ad un nutrito
gruppo di sacerdoti, ha concelebrato la messa alla presenza di alcuni
familiari delle persone scomparse e di tanti giovani e ragazzi delle
scuole locali, che hanno raccolto l’invito a non starsene in disparte.

Platì è
salito agli onori della cronaca per fatti poco edificanti: i sequestri di
persona e il traffico di droga, in primo luogo. Il parroco, padre Luigi
Manco, tra il silenzio generale ha elencato i sette nomi e le date della
scomparsa, parlando di «sette ferite aperte nella comunità locale e in
tutta la società».

Dal canto
suo monsignor Brigantini ha detto: «Abbiamo pronunciato i nomi perché non
si faccia finta di non vedere. Non serve tacere purtroppo tanti sanno ma
tacciono».


 L’iniziativa è servita a raccogliere attorno al dramma delle famiglie
interessate gran parte della cittadinanza che, con una fiaccola accesa in
mano, ha percorso le vie cittadine alternando il silenzio a momenti di
preghiera…

La
comunità di Platì ha dimostrato di apprezzare il gesto della chiesa,
rimarcando col vescovo il no al male e all’odio, il sì al bene ed alla
misericordia. Prima di terminare la fiaccolata, Brigantini ha detto:
«Fermatevi, restituite questi giovani ai familiari e ricordatevi che Dio
vede anche chi, in un modo o nell’altro, è stato complice di tali
misfatti».

Giovanni
Lucà


(liberamente tratto da «Avvenire», 18 dicembre 2001)

Luigi Manco Enrico Redaelli




FRAGILI FIORI NELL’URAGANO

Un gruppo
di giovani, nel cuore di una delle regioni più critiche del mondo, lancia
un messaggio di unità e tolleranza. Sono arabi cristiani e hanno fondato
una comunità, come quella dei primi seguaci di Cristo. Aperta a tutte le
confessioni. Le difficoltà sono enormi, e questa voce rischia di essere un
soffio fra le… cannonate.

 

Nazareth.
Nell’enorme basilica dell’Annunciazione alcuni fedeli partecipano alla
messa domenicale. Sono raccolti in un luogo molto speciale: qui
l’arcangelo Gabriele annunciò a Maria la nascita di Cristo. Un gruppo di
giovani anima la funzione con canti in arabo.

Nonostante la
celebrazione sia in rito cattolico romano, questi ragazzi e ragazze
appartengono a confessioni cristiane diverse. «Facciamo parte di una
comunità ecumenica, che riunisce cattolici di rito latino e bizantino
(detti anche greco-cattolici), ortodossi, maroniti, armeni, copti e
protestanti» spiega Nasrin, una giovane di 27 anni.

È la Comunità «Vita
Nuova»: in arabo Jama’at al hayat aljadidah.

In Israele, oltre a
circa 5 milioni di ebrei, vive anche 1 milione di arabi. Discendono dai
palestinesi che non lasciarono la loro terra, nonostante la pressione
armata degli israeliani, all’indomani della creazione dello stato di
Israele (14 maggio 1948), durante la pulizia etnica che smantellò 531
villaggi non ebrei. Sono arabi con carta d’identità israeliana (peraltro
riporta la voce «etnia araba») e vivono in prevalenza in Galilea (nel
nord, dove si trova Nazareth), nel triangolo dell’entroterra di Hadera, in
città miste e nel Negev (a sud). Gli arabi di cittadinanza israeliana sono
discriminati. Per loro è più difficile accedere all’università e occupano
gli strati sociali più bassi.

Nei Territori
occupati di Cisgiordania e Gaza, invece, abitano 2 milioni 800 mila arabi
(di cui la metà rifugiati) e 200 mila coloni ebrei. Questi ultimi sono
cittadini israeliani e detengono un territorio non facente parte dello
stato d’Israele.

Della popolazione
arabo-palestinese (cittadini israeliani e abitanti dei Territori) solo il
2% è cristiana, appartenente a differenti confessioni, mentre la
maggioranza è musulmana. A causa del loro essere minoranza, spesso gli
arabo-cristiani sono dimenticati. Però molti di loro si sentono i
discendenti dei primi discepoli di Cristo.

 



All’inizio… un miracolo

 

Inerpicandosi verso
la città vecchia di Nazareth e percorrendo alcune ripide scale in cemento,
si arriva ad una piccola casa di tre piani dove, da alcuni anni, un gruppo
della Comunità Vita Nuova vive «mettendo tutto in comune». Una stanza per
riunirsi e un’altra adibita a cappella; la cucina in cui ci si ritrova per
consumare i pasti; un corridoio stretto, con libri di preghiere riposti in
un piccolo scaffale e annunci sulla vita della comunità appesi in una
bacheca.

Amer e Nasrin,
fratello e sorella di 26 e 27 anni, vivono nella casa da un anno. Ci fanno
accomodare nella stanza-riunioni e raccontano la storia della comunità.
«Tutto è cominciato su iniziativa del sacerdote abuna Faraj» (abuna
significa padre in arabo).

Padre Faraj è uno
dei due preti greco-cattolici, insieme a Elias Chacur, famoso per un
libro-denuncia sui massacri nel villaggio di Eliabun (nord Galilea).
Ordinato sacerdote nel 1965, nove anni dopo scopre di essere malato di
sclerosi a placche, che lo costringerà su una sedia a rotelle per 17 anni.
«Dal giorno della sua ordinazione – ricorda Nasrin – abuna Faraj ha fatto
sua la preghiera: Signore, dammi la grazia d’offrire la mia vita per
tutti, senza distinzione di razza o religione».

Preghiera più che
mai attuale.

Nel 1980 abuna Faraj
inaugura un centro cristiano d’incontro per giovani e pellegrini, nel
cuore di Nazareth. Nel ’92, secondo Nasrin, accade ciò che i membri di
Vita Nuova, pur senza dirlo, considerano un miracolo. «Abuna Faraj era
all’ospedale in coma. Nabil, un giovane di 22 anni che l’aveva conosciuto
da piccolo, andò a trovarlo. In modo inspiegabile il malato si svegliò e
lo riconobbe».

Da quel momento il
giovane decide di consacrarsi al prete, lasciando lavoro, musica e ogni
altra attività. I due lanciano il progetto di una comunità ecumenica, per
far incontrare confessioni cristiane diverse: così nasce Jama’at al hayat
aljadidah. Inizialmente le attività si svolgono al centro cristiano, dove
si organizzano incontri di preghiera interconfessionali.

«Io sono entrata in
Vita Nuova in quel periodo – racconta Safia, di 23 anni -, ma non senza
problemi, data la mentalità della mia famiglia ortodossa». L’idea di base
è che cristiani di vari credo possano vivere insieme. «Famiglie, laici,
consacrati: come fecero i primi gruppi di fedeli, proprio qui in Terra
Santa» interviene Amer, spiegando anche le difficoltà. «Tra noi arabi la
mentalità è ancora quella che si lascia la famiglia solo quando ci si
sposa. È stato complicato portare i nostri genitori a condividere questo
percorso; ma alla fine ci siamo riusciti».

 



«Vita Nuova» si allarga

 

Nel 1996 abuna Faraj
muore. Il gruppo è costretto a lasciare i locali del centro, reclamati
dalla diocesi. Si cerca un luogo per continuare le attività. Il gruppo,
seppur piccolo, è solido, ma le difficoltà economiche sono grandi. «Solo
due anni dopo, siamo arrivati qui». È importante avere un posto dove
vivere insieme e uno spazio fisso per la preghiera.

Oggi vi abitano Amer
e Nasrin con Nabil, diventato il riferimento della comunità. Poi ci sono
alcune famiglie con bambini, ragazze e ragazzi di diversa età e
professione, che partecipano alle attività e si considerano parte della
comunità. Un centinaio di persone in tutto a Nazareth, in tre villaggi dei
dintorni e a Lazariyye, presso Gerusalemme est. Il nucleo che anima Vita
Nuova è formato da sette persone; alcune vi dedicano tutto il loro tempo.

«Vogliamo darci
completamente all’unità della chiesa in Terra Santa»: compare Nabil, alto,
la barba nera e rada, gli occhi scuri e profondi, il sorriso accogliente.
«Crediamo che, se l’unità inizia qui, arriverà in tutto il mondo, perché
in questo paese sono rappresentate tutte le confessioni cristiane e tutte
le nazionalità». Come? Gli chiediamo, di fronte ad un progetto tanto
ambizioso.

«Cercando di vivere
ogni giorno la preghiera, la condivisione e l’ascolto della bibbia, ma
anche tramite corsi di francese e italiano». Il tutto nella diversità. «Se
riusciamo a pregare insieme, apprezzeremo anche la diversità e ricchezza
della nostra storia, come in un giardino che si abbellisce di tanti fiori.
Nessuno cerca di trasformare l’altro a sua immagine; impariamo ad
accettare tutti ed essere aperti allo Spirito Santo».

 


I
giovani se ne vanno

 

Numerose sono le
attività, indirizzate a bambini, adolescenti e famiglie. I giovani
cristiani sentono le tensioni maggiori del paese e molti tentano di
emigrare. A Nazareth nel 1964 la popolazione araba era cristiana al 75% e
al 25% musulmana. Oggi le proporzioni si sono invertite (mentre gli ebrei
vivono in quartieri ultramodei a Nazareth Ilit, ovvero la «alta», e sono
in maggioranza russi e rumeni). La tendenza degli arabi cristiani a
lasciare il paese è comune in tutta la Terra Santa.

«Ai bambini
raccontiamo la storia di Gesù – continua Nabil – e diamo loro la
possibilità di esprimersi attraverso il disegno e il canto. Per i più
grandicelli ci sono corsi di chitarra e possono partecipare ai momenti di
preghiera e adorazione. Agli adolescenti è dedicato un giorno speciale
della settimana, oltre al sabato, allorché ci riuniamo tutti».

Continua Nasrin:
«Cerchiamo di formare gli adulti nella conoscenza delle lingue, di
invitarli ai momenti di preghiera e, soprattutto, di insegnare loro a
guidare i giovani mediante l’uso di testi biblici».

Una volta al mese,
il primo venerdì, la comunità si riunisce per la veglia di preghiera fino
all’alba. «Abbiamo scoperto che un gruppo in Belgio, chiamato Nazareth, fa
altrettanto. Abbiamo iniziato a scambiarci le esperienze e ci sentiamo
uniti». Vita Nuova è collegata pure ai gruppi di Chemin neuf (cammino
nuovo) in Francia ed Italia (Milano). Realizzano scambi e periodi di
formazione teologica.

I membri della
comunità possono trascorrere alcuni mesi in Europa, presso questi centri,
per approfondire l’esperienza di vita comunitaria e condividere le proprie
esperienze in Terra Santa. «Quando sono stata in Francia e in Italia –
confida Nasrin -, nessuno conosceva la nostra situazione di cristiani.
Tutti mi chiedevano se ero ebrea o musulmana».

Ma le difficoltà non
mancano. Il gruppo è riconosciuto da tre vescovi: il patriarca latino di
Gerusalemme, quello greco-ortodosso e greco-latino. «Accettano la comunità
che vive l’unità, ma non ci aiutano finanziariamente, perché non
apparteniamo ad una sola confessione – commenta Amer -. Il governo
israeliano ci riconosce come raggruppamento cristiano, ma la legge
proibisce di parlare di Gesù e della nostra fede ad altri che non siano
cristiani».

 



Nell’occhio del ciclone

 

A sentirli parlare e
guardandoli negli occhi dolci ma fermi, si riacquista un po’ di fiducia
verso il contesto locale. Ma ci si chiede (un po’ scettici) se questi
giovani, con meno di 30 anni, non stiano combattendo contro i mulini a
vento. I recenti attentati terroristici negli Stati Uniti e la reazione
scaturita (che sta uccidendo centinaia di civili) hanno portato ad un
nuovo contesto storico.

La situazione in
Medio Oriente (che sembrava migliorare) oggi sta sprofondando. Le
spaccature intee ai palestinesi, ma anche fra gli israeliani, si fanno
sentire sempre di più, allontanando la soluzione proposta dalle Nazioni
Unite, già nel ’47, di due stati indipendenti in pace tra loro.

E i giovani di Vita
Nuova, nel cuore di una delle regioni geopolitiche più critiche del mondo,
cercano di mandare un messaggio. «Ciò che la comunità vede (e vuole
vedere) in ognuno, buono e non buono, è l’“anima” che deve essere salvata
– dice Nabil, esprimendosi sulla crisi mondiale -. La comunità si impegna
a vivere la spiritualità di Gesù. Noi amiamo l’uomo e pensiamo che debba
essere salvato».

Dopo l’assassinio ad
opera del Fronte popolare per la liberazione della Palestina del ministro
Rehavam Zeevi (uno dei più estremisti del governo di Sharon), la
rappresaglia israeliana è durissima. Carri armati entrano nelle principali
città dei Territori palestinesi e gli scontri con le forze locali si
moltiplicano. Secondo il premier israeliano, per risolvere il problema,
bisogna deportare tutti i palestinesi nei paesi loro amici.

In tale contesto il
patriarca latino di Gerusalemme, Michel Sabbath, arabo della Terra Santa,
scrive: «Il nostro destino è stato quello di nascere sotto l’occupazione e
di essere costantemente esposti alla morte. Ma ognuno ha il diritto-dovere
di fare tutto il possibile per ottenere la libertà. La comunità
internazionale deve finalmente capire che il palestinese è una persona
come tutti; e, come tutti, ha diritto di riconquistare la sua libertà e
dignità nella propria terra».

Il patriarca
condanna la guerra. «Uccidere è male. Ogni violenza è male. Ogni guerra
sfigura il volto di Dio… In Terra Santa l’elemento che apre le porte
della morte è l’occupazione militare. Diciamo dunque: basta alla
sofferenza del popolo palestinese! È ora di porre fine alla sua tragedia».

Mons. Sabbath
rivolge un accorato appello agli israeliani: «Voi pure meritate sicurezza
e pace. Noi ve le auguriamo. In ognuno di voi vediamo la dignità che viene
da Dio ed è un dono ad ogni persona, sia palestinese sia israeliana. La
chiave della morte o della pace è nelle vostre mani e in quelle del
governo che avete eletto… È lui che vi potrebbe dare la pace o
privarvene. Quelli che oggi si combattono e cadono nell’abisso della morte
hanno diritto di vivere e godersi la sicurezza. Dipende dal vostro governo
il porre fine all’occupazione, che pesa sui palestinesi da decine di anni,
privandoli della dignità e libertà. Le Nazioni Unite hanno formulato delle
risoluzioni che sono la base della pace. Basterebbe applicarle».

Lunedì sera. In
silenzio ci ritroviamo nella stanza, in fondo al corridoio della piccola
casa di Vita Nuova, nella Nazareth vecchia. Buia, solo poche candele
illuminano le icone di Cristo e della Vergine. Il pavimento è ricoperto di
tappeti. I nostri amici entrano, uno ad uno, e siedono in un angolo.
Arrivano pure dei giovanissimi. Ci sono piccoli vangeli in arabo e fogli
con canti nella stessa lingua.

Inizia la
preghiera… Ci tornano in mente le parole di Nabil: «Quando diventa
«buio», tutto sembra perduto. Ma Gesù è luce del mondo».

 

 

 



Popolazione e chiese in Terra Santa

 


Stato di Israele: 5

milioni di cittadini, di cui circa 1 milione di origine russa; gli arabi
si aggirano su 1 milione.


Territori di
Cisgiordania e Gaza:

2.800.000 arabo-palestinesi, di cui 1.400.000 rifugiati registrati (non
sono cittadini israeliani); sono presenti anche 200.000 coloni ebrei
(cittadini israeliani).

Si contano inoltre
2.900.000 rifugiati palestinesi (registrati) tra Giordania, Libano, Siria,
Egitto e paesi del Golfo Persico.

 I
cristiani

in Terra Santa sono il 2% della popolazione araba, con percentuali
maggiori a Betlemme (15%) e Nazareth (25%). Sono divisi in diverse
confessioni:

Cattolici (melchiti,
maroniti, caldei, siriani e armeni cattolici); da segnalare una comunità
cattolica di lingua ebraica, molto schiva e riservata.


Greco-ortodossi:
costituiscono l’unica chiesa autonoma in Terra Santa
(non dipende cioè da sedi estere); è anche la comunità numericamente più
importante (circa il 50% dei cristiani); il patriarca in genere è di
origine greca. Gli altri ortodossi si distinguono in armeni, siriani,
copti, etiopi.

Protestanti:
luterani e anglicani con presenze modeste.

La Custodia
Francescana di Terra Santa, affidata ai Frati Minori, ha una sua
autonomia.

Marco Bello




MOSCA NON BADA ALLE LACRIME


Al cospetto
di lenin

La raccomandazione di Ivan ci
ricordò l’esperienza vissuta il giorno prima sulla Piazza Rossa. Una
signora del gruppo «Amici» voleva ammirare personalmente la piazza, con il
Cremlino da una parte, il Museo storico di stato dall’altra e, sul fondo,
la cattedrale di san Basilio. Chiusa al traffico, illuminata dal sole o
rischiarata dalla luna, la piazza è straordinariamente «rossa», cioè
«bella».

La signora costeggiò le mura
del Cremlino e, giunta al mausoleo di Lenin, puntò la macchina fotografica
sul busto del padre della rivoluzione comunista, imitata da altri turisti.
Sennonché si accostò di due metri e, senza saperlo, mise il piede in fallo
superando «la linea rossa».

Subito piombarono due
poliziotti, quasi imberbi: gli occhi minacciosi, i gesti imperiosi, le
parole impietose quanto incomprensibili. La malcapitata supplicava venia
in italiano. E, come spesso succede allorché si parlano lingue diverse
senza capirsi, i toni della voce salivano e l’incomprensione pure.

Di fronte al piccolo casus
belli, intervenimmo in inglese.

L’ultima parola, sia pure nel
fraseggio stentato, ci suonò sinistra… alla luce dell’Arcipelago Gulag
di Aleksandr Solzenicyn.

Assumemmo un’aria umile e
contrita. «Signori, vi porgiamo tutte le nostre scuse. Questa mamma ha
superato la linea rossa, ma senza accorgersi. Lungi da lei ogni intenzione
di calpestare il suolo sacro della madre Russia! Si è un po’ avvicinata,
solo per riprendere meglio il famoso Lenin e mostrarlo ai suoi figli. Vi
chiediamo perdono…». Parlavamo adagio, studiando le parole. Ma i
gendarmi capirono solo «perdono» e replicarono: «Perdono niet.
Impossibile. Là telecamere hanno ripreso questa donna. Delitto resta per
sempre. Niet perdono. Gulag!».

Allora mutammo strategia,
atteggiandoci quasi a giudice. «Sappiate che la signora appartiene ad una
associazione culturale di fama internazionale. È in Russia per ragioni di
studio con altri 46 colleghi. Il presidente dell’associazione si recherà
all’ambasciata italiana per trattare il caso. Qui vi sono testimoni di
vari paesi, che confermeranno l’accaduto».

I due ci trassero in disparte e
su un pezzo di carta scrissero «10 dollari», da sborsare subito senza
ricevuta. E ci fecero capire che era un grande favore…

«Vi è andata ancora bene!»
commentò Ivan quando raccontammo il fatto. E la moglie Galja che
l’accompagnava annuì sorridendo.


Fra boschi
di betulle

Eravamo, dunque, in viaggio
verso Sergiev Posad (ex Zagorsk). È una delle «gemme» dell’«anello d’oro»:
così si chiama l’itinerario religioso-culturale lungo alcuni celebri
centri della Russia cristiana, riaperti al culto dopo il crollo del regime
sovietico. Si tratta di chiese e monasteri all’interno di «cremlini»
(villaggi-cittadella) a Jaroslavl, Vladimir, Suzdal, Kostroma, Rostov,
ecc., che raggiunsero il massimo splendore nel 12° secolo.

Durante il trasferimento in
pullman, Ivan ci intrattenne sullo stato della Russia odiea con giudizi
severissimi. Gli enormi «bubboni» si chiamano mafia, corruzione politica,
degrado ambientale, alti costi di vita, bassi salari. Ad esempio: un
chirurgo in ospedale percepisce 80 dollari al mese; il che lo costringe ad
operare in almeno altri due centri, per raggranellare 300 dollari mensili.
Ivan sulla sanità dichiarò: «Se la salute non ti interessa, curati presso
una struttura pubblica».

Ma quanti possono accedere ad
ospedali privati? A Mosca il 5%, su 9 milioni di abitanti. La capitale è
«la vetrina della nazione», dove il denaro circola più abbondante. Nei
centri rurali dello sterminato interno  la situazione è deprimente.
Rassegnato e desolato appare lo sguardo degli anziani, seduti davanti alla
loro dacia o isba per catturare un raggio di sole dopo l’interminabile
inverno.

L’accompagnatore parlò a lungo,
mentre l’autobus attraversava campi di grano e patate tra fitti boschi di
fragili e slanciate betulle, dalla corteccia grigio-cenere chiazzata di
scuro, che la pioggia lustrava e il vento ravviava. Il ticchettio della
pioggia, il rumore monotono del motore, la voce uniforme di Ivan (seguita
dalla traduzione pacata di Delfina Boero), il clima interno ovattato, la
posizione in poltrona conciliavano pure il sonno. L’interlocutore
l’avvertì: spense il microfono, reclinò il capo sulla spalla della moglie
Galja e, poco dopo, russava.

La donna ci guardò scuotendo la
testa e disse in inglese: «Troppo lavoro!».

Ivan e Galja sono sulla
trentina, sposati da poco. Lei lavora come segretaria in una scuola,
mentre lui dirige un’agenzia di turismo. Attivo, energico e metodico, Ivan
è figlio di un ex dirigente del Partito comunista sovietico. «Il padre è
ateo tutto d’un pezzo e lo si vede anche dallo sguardo sempre truce»
commentò Galja.

Galja adocchiò ancora il marito
che dormiva. Poi disse: «Sono cristiano-ortodossa. Mia madre mi ha
battezzata all’età di 16 anni, all’insaputa del padre, perché vigeva il
comunismo ateo. Non ebbe però il coraggio di battezzare mio fratello.

Nel frattempo eravamo giunti a
Sergiev Posad. Il pullman si fermò dietro un altro, parcheggiato a lato
del monastero della Trinità di san Sergio. Scendendo, domandammo ancora a
Galja: «Che cosa è rimasto in Russia del marxismo?». «Vorrei che restasse
solo il nome» rispose… puntando l’indice verso l’autobus antistante.

Sull’alto del parabrezza era
scritto «Karl Marx».


Nel cortile
del monastero

Il monastero della Trinità di
san Sergio, iniziato nel 14° secolo, conobbe un grande splendore
artistico-religioso, nonché potere economico. Alcuni principi di Mosca non
lesinarono doni (forse per farsi perdonare i peccati): fra questi, lo zar
Boris Godunov (vedi inserto). Nazionalizzato e trasformato in museo nel
1918, il monastero fu restituito alla chiesa dopo la seconda guerra
mondiale. Oggi il complesso, circondato da un muro di cinta lungo un
chilometro, consta di sette chiese, due cattedrali, un seminario e vari
musei.

Al nostro arrivo, c’era un
frenetico viavai nel cortile del monastero: monaci e monache ortodossi,
pellegrini di modesta condizione sociale, turisti. Non mancavano ortolani,
intenti a impiantare qualche verdura o a zappare.

Ci attendeva la guida locale. E
fu una sorpresa, perché era una suora ortodossa. Fu lei ad introdurci
negli edifici sacri e commentare le sontuose iconostasi: come quella nella
cattedrale della Trinità, resa celebre dal genio di Andrej Rublev.

Interessante anche la storia
personale della monaca (che non volle dire il nome). Gli «amici»
l’ascoltarono attentissimi, in piedi e sotto una pioggerella impertinente.
«Sono nata al tempo di Kruscev – raccontò la suora -. Questi ha reso
famosa la Russia per lo sputnik lanciato nello spazio con una cagnetta,
seguito dal primo volo fra le stelle di Gagarin. Però Kruscev, in fatto di
persecuzione religiosa, non scherzava. Ciò nonostante, ho deciso di farmi
monaca, contro il parere dei genitori».

Ha vissuto i primi anni di vita
religiosa nella clandestinità. Poi, scoperta, è stata costretta a lavorare
in uno stabilimento industriale tessile. «Oggi sono nuovamente suora; ma
non ho un convento, né consorelle. Vivo da sola in un piccolo appartamento
di Sergiev Posad. Per pagare l’affitto e mantenermi, faccio la guida
turistica».

La monaca vestiva di nero da
capo a piedi, ma senza particolari segni religiosi. Lo sguardo era
volitivo, ma anche dolce. Padroneggiava bene la sua materia.

Assolto il suo compito, si
congedò in fretta dal gruppo degli «amici», per incontrae subito un
altro: una scolaresca russa. «Fino a non molto tempo fa, pensare che una
scuola entrasse liberamente in chiesa equivaleva ad immaginare che il lupo
e l’agnello potessero bere alla stessa fonte» commentò infine la monaca.


Quarantasei
in una stanza

Mosca. Nei dintorni della
capitale, verso le 18, avevamo appuntamento con suor Serena, delle
Missionarie della carità (suore di madre Teresa). Opera con tre consorelle
polacche, due indiane e una irlandese: attendono a portatori di handicap e
ospitano anche senzatetto. Visitano inoltre gli ammalati del vicino
ospedale (specialmente i colpiti da Aids), gli anziani poveri del
quartiere, i traumatizzati dalla guerra in Cecenia o Afghanistan. Da tali
paesi non mancano profughi, che vivono seminascosti (magari dieci in due
stanze), essendo rifiutati dai russi. Trovare lavoro? Un incubo, più che
un sogno.

Per le missionarie gli inizi
(alla vigilia della caduta dell’impero sovietico) furono duri.
Alloggiarono otto mesi in due stanze dell’ospedale, mantenendosi con il
proprio lavoro, ma senza alcuna possibilità di visitare la gente. Poi
trovarono sistemazione in un ricovero per anziani: ancora due stanze, ma
anche una cappellina, con la facoltà di uscire, parlare. Dopo due anni, lo
sfratto.

«Ora siamo in questo centro,
costruito con prefabbricati in legno. Abbiamo rifatto il tetto, perché il
materiale usato era di seconda mano… Dobbiamo districarci in tante
pastornie burocratiche per lavorare. In Russia la vita è complicata…».

A parlare era ovviamente suor
Serena, lombarda sui 40 anni, che indossava il noto saio bianco, bordato
di azzurro. Si intratteneva con i 46 «Amici Missioni Consolata», assiepati
in una stanza con numerose domande.


Sorella, com’è una vostra
giornata standard?

«Alle 5 del mattino siamo in
chiesa per la preghiera. Poi c’è il lavoro dalle 8 alle 12 e nel
pomeriggio. Ci sono persone che ci aiutano, perché non possiamo lasciare
soli i bambini down e neanche gli anziani: ci aiutano mentre noi preghiamo
o mangiamo. Alle 21.30 subentrano le suore: due per notte».


Chi sono le persone che vi
aiutano?

«In genere volontari.
Provengono da San Pietroburgo, che è più incline di Mosca alla
solidarietà. C’è un detto: “Mosca non bada alle lacrime”, ma agli affari.
Tuttavia i collaboratori faticano molto ad entrare nel nostro ordine
evangelico di idee».


Da dove provengono i bimbi
portatori di handicap?

«Alcuni da un orfanotrofio e
altri dalle famiglie. Sono bambini down, orfani, ciechi o con papà e mamma
separati. C’è una bimba con genitori giovanissimi, che si sono rifiutati
di tenerla; poi l’hanno accettata… se noi la guardiamo un po’. Sono già
due anni che la piccola è qui».


La gente che cosa pensa di voi?

«All’inizio c’è stata
incomprensione: la gente non capiva la nostra attenzione a bambini che
“non servono a nulla”. Oggi va meglio. Non si dimentichi l’influenza del
comunismo ateo, durata 70 anni».


Chi vi sostiene economicamente?

«La divina provvidenza».


Lo stato che cosa fa per i
portatori di handicap? Ci sono scuole?

«Ci sono. Però manca il calore
umano, il sorriso, la serenità».


I vostri bambini vanno a
scuola?

«Certo. La scuola è
parastatale; segue i programmi del governo, ma è organizzata dai genitori
degli handicappati. Ci troviamo tutti una volta al mese, quando
distribuiamo vestiti e generi alimentari. Al termine dell’incontro c’è
anche un momento di preghiera».


Voi, suore, avete la messa
tutti i giorni?

«Abbiamo dei sacerdoti,
cattolici e ortodossi, che celebrano l’eucaristia; ma vengono da lontano e
impiegano molto tempo; allora c’è un sacerdote a tuo, diverso ogni
giorno; non sempre però».


Entrando nelle case popolari,
che cosa colpisce maggiormente?

«La miseria materiale,
soprattutto degli anziani. Le famiglie hanno tanti bambini e vivono con
mezzi sufficienti appena per un po’ di pane. C’è pure tanta povertà
morale, perché manca il senso di famiglia. C’è l’atavico alcornolismo e,
oggi, anche la droga».


Esiste un ceto medio un po’
benestante?

«È quasi scomparso. Oggi o si è
ricchi o poveri».


E quanto a soddisfazioni?

«Le abbiamo, specialmente
stando con i poveri, che sono aperti a ricevere non solo materialmente, ma
anche spiritualmente. C’è il desiderio di iniziare una vita diversa con
nuovi valori, valori che si sono persi negli ultimi decenni».


Valori nuovi anche fra i
giovani?

«C’è un anelito all’esperienza
religiosa del passato. I giovani ci chiedono di insegnare loro a pregare».


Sono cattolici o ortodossi?


Suor Serena, lei ha risposto
alle nostre domande. Ma forse anche lei ha qualcosa da chiedere…

«Se volete, possiamo
recarci tutti in cappella e pregare il Padre Nostro» fu la risposta.

Numerosi «amici» lasciarono
alle missionarie della carità lenzuola, vestiti e denaro per i portatori
di handicap, che li guardarono con una smorfia. Ma era «grazie».

 

 



 Munifico e assassino

Tanto si prodigò lo zar Boris
Godunov in donazioni al monastero di san Sergio che, finalmente, ottenne
di esservi sepolto. Lo zar doveva nutrire dei dubbi sul proprio accesso in
paradiso e, a quei tempi, non c’era migliore assicurazione sull’anima che
farsi inumare nel luogo più sacro di Russia.

È difficile ricostruire con
attendibilità le vicende che lo portarono al trono, fitte di sospetti,
trame e morti misteriose: non a caso con il suo regno si aprì il periodo
dei «torbidi».

Il primo approccio con il
potere avvenne  durante il regno del figlio di Ivan il Terribile, il
minorato Fedor, al quale aveva dato in sposa la sorella, così da divenie
il tutore. Lo stesso Ivan aveva agevolato (suo malgrado) Boris, uccidendo
il proprio figlio maggiore, l’omonimo Ivan, accusato dal padre di essere
poco sveglio. Rimaneva il piccolo Dimitrij, destinato con la maggiore età
a prendere il posto del fratello: la minaccia era tale da trasformare
Godunov da intrigante in assassino, cosa che prontamente fece.

Boris poté così innalzare la
sua stirpe sul trono di Russia, ma non per molto, giacché morì pochi anni
dopo in circostanze confuse, seguito a breve dai suoi eredi.

Era proprio il tempo dei
«torbidi».

Francesco Beardi




NEISU (CONGO, RD): QUASI UN DIARIO «IO SONO LUCA»


   Ancora qualche… pennellata di vita missionaria, dal grande e
quasi inaccessibile Congo. Con i problemi di sempre (aggravati dalla
situazione di guerra), e piccoli fatti di speranza… che possono arrivare
anche da un bambino.

 

Un tempo, vedendo
certe ingiustizie in Congo, mi arrabbiavo molto; oggi lo faccio di meno,
non perché l’ingiustizia sia diminuita o io sia diventato insensibile, ma
perché mi vedo impotente. Soprattutto scopro tanta indifferenza. Alla
rabbia di una volta subentra il pianto del cuore.

 Che
delusione!

 Dalla missione di
Neisu (dove opero) penso anche a Gesù che, impotente, piangeva sulla città
di Gerusalemme… I potenti sono preoccupati a produrre e vendere armi, a
costruire scudi spaziali…

A Kisangani, terza
città del Congo, i soldati dell’Onu (sembra che l’Organizzazione si stia
finalmente «interessando» al paese) sono pagati 200 dollari al giorno per
«vedere la situazione» e stendere rapporti.

Ad Isiro (a pochi
chilometri da noi) di questi osservatori ne abbiamo quattro. Il mese
scorso è arrivato per loro un enorme aereo e ha scaricato due bancali
di… bottiglie d’acqua minerale.

Noi, per avere
medicine e quadei per la gente, dobbiamo fare giri impossibili: Kampala,
Butembo, Ariwara… In più, dobbiamo anche pagare tasse elevate, perché
c’è tutta una schiera di funzionari e impiegati che vuole mangiarci sopra.
D’altra parte, è da anni che lo stato non li paga e non sborsa il becco di
un quattrino per i loro salari!

Nonostante tutti gli
osservatori dell’Onu, oro e diamanti del Congo continuano ad arricchire
Uganda e Rwanda. Siamo alla fine dell’anno scolastico e gli alunni della
sesta elementare devono sostenere l’esame di ammissione alla scuola media.
Prezzo dell’esame: 100 franchi congolesi (un dollaro Usa ne vale 140). È
poca cosa, lo so. Ma i genitori non hanno neppure questo.

In questi giorni
alla missione di Neisu c’è una processione di ragazzi e ragazze con
galline, uova, banane da vendere; la speranza è di avere i 100 franchi per
l’esame.

Queste cose, quelli
dell’Onu & affini le sanno? E, se lo sanno, qual è la loro risposta?
Perché, con tutti i mezzi che hanno a disposizione, non potrebbero darci
una mano per il trasporto di medicinali, viveri e materiale scolastico?

Se questo è l’Onu,
non ci resta che piangere.

 Nel
ricordo di Oscar

 Toiamo alle
nostre vicende. Pochi mesi fa, a Egbita, centro protestante a sei
chilometri da Neisu, si è svolta la prima grande assemblea del popolo dei
mangbetu. Ci siamo radunati tutti, cattolici, protestanti, autorità civili
e tradizionali dei tre gruppi che costituiscono la nostra zona: Medje,
Mongomasi e Ndey (vedi box).

Dopo dibattiti e
lavori di gruppo, i capi hanno proclamato, davanti ad oltre 2 mila
convenuti, che i magbetu, durante i funerali, si comporteranno da
«cristiani», astenendosi da tutte le malversazioni e violenze cui erano
abituati. Per noi missionari, l’assemblea di Egbita è stata un successo
pastorale.

Abbiamo anche
celebrato il secondo anniversario della morte di padre Oscar Goapper,
medico dell’ospedale. La commemorazione è stata tenuta in chiesa dal
superiore, padre Rinaldo, con tantissima gente. Dopo la messa, siamo
andati alla tomba per inaugurare un semplice ricordo… La fotografia di
padre Oscar in ceramica, mandata da Vimercate (MI), è una novità assoluta
qui. L’abbiamo incoiciata in una leggera struttura di ferro battuto,
dipinta con i colori dell’Argentina: bianco e azzurro.

Per la popolazione
di Neisu il 18 maggio (giorno della morte di Oscar) è ormai una festa; si
organizzano quindi danze, canti e scenette. Si fa festa anche per Michele,
un infermiere che ha scelto questa data per sposarsi.

Jean Embuama, un
giovane ammalato di Aids, diventa cristiano. Mal ridotto e malfermo, viene
accompagnato da due infermieri al fonte battesimale. Si lascia alle spalle
una vita movimentata e disastrata: diventa figlio di Dio. Nonostante
tutto, lo vedo bellissimo nella sua camicia bianca. Oscar, suo medico, può
essee contento: ha ricevuto delle belle soddisfazioni.

L’ospedale ha un
nuovo medico congolese: è il dottor Joseph. Giovane, neolaureato, con
tanta voglia di rendersi utile: un altro punto in più per il nostro
centro.

Suor Angela vede con
piacere che le fondamenta della scuola matea sono ultimate e i lavori
procedono. Suor Gemma ha iniziato la scuola di taglio e cucito per 45
ragazze, mentre suor Luisa tiene l’ospedale sotto controllo.

Siamo stati tutti a
Isiro con il consiglio parrocchiale, per celebrare i cento anni di vita
dei missionari della Consolata. Durante la messa, sul luogo del martirio
della beata Anuarite, abbiamo pregato per tutti…

Ebbene: i problemi
in Congo non mancano e le delusioni pure; ma la speranza non muore.

Voglio allora
raccontare un episodio che ci aiuti a continuare a credere nella forza
dell’amore e a trovare la strada della vita. Un modestissimo fatto, ma che
mi ha aiutato tanto.


Senza
complicazioni

 Domenica mattina.
Esco di casa e vado in chiesa. Manca mezz’ora alla messa, ma c’è già gente
che aspetta per le confessioni. Mi sto abbottonando la veste bianca e vedo
un bambino, che gioca da solo nel prato. Si accorge di me e mi viene
incontro, stendendo la mano. Lo saluto in lingua kimgbetu: «Mingoru?» (ti
sei svegliato?). Di regola a questa domanda la risposta è: «Bu himmi?» (e
tu?). Lui invece non risponde; mi guarda e sorride. Penso che non abbia
capito; forse non è un mangbetu. Ha inizio così una specie
d’interrogatorio.

«Tu sei mbudu?».
Penso infatti che possa essere un figlio di qualche infermiere mbudu
dell’ospedale. Il bimbo scuote la testa e sorride di nuovo. «Allora sei
certamente zande?». Il mio interlocutore fa ancora cenno di no.

Faccio due o tre
conti mentali: se non è mangbetu, mbudu né zande, sarà il figlio di
qualche moyogo venuto da Isiro per il mercato della domenica, qui a Neisu.

«Tu allora sei
moyogo?» gli dico pieno di sicurezza. Il bambino scuote di nuovo la testa
e, preso da compassione per me, in un bel lingala (la lingua
intertribale), finalmente apre la bocca e mi risponde: «Ngai nazali Luc»
(io sono Luca).

Le tre parole mi
investono come uno scroscio d’acqua pura e fresca. Tutte le mie
complicazioni e congetture sono azzerate. La verità splende sovrana.

– «Io sono Luca».
Perché ti stai a scervellare, ragionando di tribù, catalogando le persone
in schemi precostituiti?

– «Io sono Luca».
Guarda all’essenza delle cose, instaura rapporti semplicemente umani. Non
ti ricordi quanto successe a Einstein quando arrivò in America?
L’impiegato dell’immigrazione gli aveva mostrato un modulo da compilare e,
tra le domande, ce n’era una che chiedeva la «razza»? Einstein non ebbe
alcuna esitazione e scrisse «umana».

– «Io sono Luca».
Parole semplici, ma che mi riconducono ad essere quello che sono, facendo
a meno di tutti i prefissi: ing, dott, prof, mons, don… La rivelazione
ci porta all’origine di noi stessi, senza troppe sovrastrutture che
soffocano e tengono gli altri distanti da noi. Dobbiamo finirla con
razzismo, tribalismo, nazionalismo e tutti i loro parenti.

– «Io sono Luca». È
stata per me, quella domenica mattina, la proclamazione giorniosa del
vangelo: «Ti ringrazio, o Padre, che hai nascosto queste cose ai sapienti
e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli»…

Dopo quell’incontro,
diverse volte ho cercato Luca, ma non l’ho più trovato. Sarà perché qui i
bambini sono tanti e s’assomigliano tutti.

O chissà…

 


Un
convegno su tradizione e modeità


 Antichi
e nuovi diritti

 Si è tenuta qualche
tempo fa, a Neisu, una tre-giorni sul tema: «Diritto civile e costume
tradizionale», organizzata dalla nostra Commissione di Giustizia e Pace.
Hanno presieduto l’incontro il sig. Mukobi, giudice presidente della corte
di Isiro, e il sig. Ntumba, procuratore della repubblica di Isiro. Si
tratta di due persone qualificate, che si sono prestate per parlare ad
un’assemblea «popolare», composta da intellettuali, «chefs coutumiers»
(capi tradizionali) e contadini delle nostre missioni, impegnati nel
settore della promozione umana e diritti dell’uomo.

Gli oratori hanno
discusso, innanzitutto, di diritto civile e organizzazione della giustizia
in Congo, presentando i punti più significativi e alla portata della
gente. Poi hanno parlato del diritto tradizionale, non scritto, mettendo
in luce alcuni aspetti in contraddizione col diritto civile. Si è
considerato soprattutto il codice della famiglia, del 1968, che è un primo
tentativo di unificare gli elementi del diritto tradizionale con quello
civile scritto.

I conferenzieri
hanno evidenziato che i due diritti sono stati unificati in base a tre
princìpi: legge scritta, ordine pubblico e «buoni» costumi. Tutte le
tradizioni contrarie a questi princìpi sono state escluse dal diritto
civile scritto. Essi stessi hanno riconosciuto che ci sono ancora
tradizioni che non concordano con il diritto civile congolese e hanno
esortato i capi (ancora molto influenti) ad abbandonarle.

Nella seconda parte
dell’incontro (quella che maggiormente ha interessato i convenuti) si è
parlato di alcuni comportamenti, espressione del costume locale. In
particolare ci si è soffermati sulle tradizioni riguardanti il matrimonio,
la morte, i funerali, il lutto e le relazioni tra capovillaggio e
popolazione. Sono stati stigmatizzati certi comportamenti come, ad
esempio, dissotterrare e sottrarre con violenza il cadavere, rubare o
distruggere i beni del defunto, malmenare il coniuge che sopravvive
(soprattutto se donna), perché accusato di aver provocato la morte del
defunto.

Circa il matrimonio,
si è parlato della cattiva usanza di pretendere dalla famiglia del marito
(dopo anni dalla celebrazione del matrimonio) un supplemento della dote
già pagata. Inoltre si è discusso della pratica, da parte dei parenti
della sposa, di estorcere denaro dal marito prima che la moglie ritorni da
lui; questo capita quando la moglie si reca dai suoi per il funerale di un
parente.

Sempre nel campo
matrimoniale, si è toccato il problema della poligamia e dello
sfruttamento delle donne da parte dei mariti.

Circa le relazioni
capo-popolazione, è stato affrontato il problema della corvée (lavoro)
obbligatoria nel campo privato dei capi; della tassa da pagare quando si
riceve una convocazione; degli arresti arbitrari e ammende, con somme
superiori alle possibilità del cittadino.

Alla conclusione
della tre-giorni, i partecipanti sono stati invitati a promuovere la
giustizia e la pace, spargendo i frutti dell’incontro in tutta la regione.
Il beneficio immediato è stato lo spirito d’amicizia che si è instaurato
fra i partecipanti, provenienti dalle nostre parrocchie.

Come missionari
della Consolata, pensiamo che questa iniziativa sia fonte di consolazione
per la gente e possa aiutarla a guardare al futuro con più speranza.

Una formula
indovinata, anche per celebrare i cent’anni di fondazione del nostro
istituto.


Rinaldo Do

 

 


I
giovani congolesi…


 parlano
del loro paese in guerra

 

Durante un incontro
con i giovani, Jean Pierre chiede: «Padre, che ne pensi della situazione
attuale del nostro paese? Qual è il destino che spetta a noi, giovani?
Credi tu che, tra questi bagliori di guerra, possa esserci ancora un
raggio di speranza e consolazione?».

Il prete rimanda la
domanda al gruppo: «Ma voi, che cosa rispondereste alla domanda di Jean
Pierre?».

 Daniel

interviene subito: «Ma quale avvenire, ora che è l’uomo col fucile a
dettare legge? Abbiamo solo la sfortuna di non avere un’uniforme e un
fucile come lui. Cosa vogliamo? Cosa pensiamo? Non sappiamo dirlo, ma ciò
che rigettiamo è questa “felicità” ottenuta con le armi: la filosofia,
secondo la quale il diritto e la legge vengono decisi da chi ha le armi».

 Christine
Lust
:
«Per me, la società non offre ai giovani ciò che si aspettano. Essi hanno
bisogno di condizioni favorevoli per costruire il loro avvenire, ma la
guerra blocca tutto. Le perdite, sia umane che materiali, sono pesanti; le
ferite fatte alla popolazione congolese sono dolorose. Da qui il desiderio
di fuga ed evasione, che portano alcuni alla droga e altri in miniera alla
ricerca di oro e diamanti. La scuola, l’insegnamento, il rapporto con i
professori non rispondono al bisogno dei giovani. Allora diventiamo
chiusi, arrabbiati e ci annoiamo…».

 Fiston
Karume
:
«Quando fumo la canapa, devo fare attenzione mentre attraverso le strade,
perché non vedo più le vetture arrivare. Sono due mesi che mi drogo, e
comincio ad avere tic nervosi».

 Charles
Bamba
:
«Da me le cose non vanno bene. Ho solo 13 anni e non sopporto la scuola.
Credo che vogliano rinchiudermi. Allora la mia salvezza è nel bere birra:
sono quasi sempre ubriaco. Ora sto cominciando anche con la droga. Non ho
motivi per farlo; so soltanto che, quando fumo o mi drogo, io fuggo. Fuggo
dalla società. Fuggo dal mio villaggio, dalla mia famiglia, da tutto… e
mi succede di sentirmi meglio. Quando fumo e bevo, sono felice e mi sento
l’uomo più realizzato del mondo. E, dopo una dose di droga, non sento
nemmeno più il bisogno di mangiare».

 Jeannette
Chima
:
«Ho 17 anni, e sono a scuola per preparare un diploma di educazione
pedagogica. Ho compreso che il mio paese è in guerra e io non faccio
niente di serio. Si parla sempre di chi fa la storia, mai di chi la
subisce… I “difensori” dei diritti dell’uomo cosa fanno? Dove sono? Non
sono i primi che boicottano i diritti che pretendono di difendere? Sono
loro stessi che armano rwandesi e ugandesi in Congo, i quali poi
saccheggiano e uccidono.

Portano delle
maschere, che fanno apparire i rwandesi e gli ugandesi; ma dietro le
maschere ci sono loro: americani e francesi. Come sono divertenti. L’Onu,
cosa ha fatto finora? Le crisi del popolo congolese non gli sono
pervenute? E la comunità internazionale non ha orecchi ed occhi? Tutto il
mondo tace la verità; ma perché? Noi vogliamo la pace, il rispetto dei
diritti dell’uomo congolese, la sua dignità di figlio di Dio. Abbiamo il
diritto di vedere il nostro avvenire disegnato all’orizzonte».

 


Dappertutto, nel
mondo,
poeti e scrittori
denunciano situazioni
di guerra e violenza,
le forme di sfruttamento
dell’uomo contro l’uomo.


Un amico di Gesù,
un amico del popolo di Dio
in Congo,
un amico dell’uomo,
sarà insensibile al grido
del popolo congolese?


Dappertutto,
a Kisangani e Goma,
a Bunia e Butembo,
uomini, donne e bambini
gridano, denunciando
le situazioni
di saccheggio e violenza,
di torture e massacro…


Un cristiano
sarà insensibile
a questo grido
che sale dal Congo?
Sarà insensibile al grido
di un giovane congolese
che non vede più
l’avvenire davanti a se?


           
            Jean-Baptiste Sengi

Antonello Rossi




TERRORISMO, KAMIKAZE E LIBERTA’ RELIGIOSA


I mortali attentati contro gli Stati Uniti e i
bombardamenti in Afghanistan, il corano e i «kamikaze» suicidi, la
pressione sui cristiani che vivono in paesi islamici, ecc. La parola ad
alcuni fedeli di Allah in Italia.


 

Abbiamo rivolto
qualche domanda ad alcuni stranieri, di religione islamica, sulla
situazione creatasi nel mondo dopo l’attacco terroristico contro gli Stati
Uniti e la guerra nell’Afghanistan dei talebani per catturare Bin Laden.

Abbiamo
intervistato:

– Vida Bardiyaz, una signora dell’Iran;
– Olabi Rawaa,
una signora della Siria;

– Chioua Moktar,

un signore
dell’Algeria;

– Saafi Rachid Ben Ajmi,

un signore della
Tunisia;

El Moutaquakil Naima,
una
signora del Marocco.

 

 


Che cosa pensa degli
attentati dell’11 settembre contro gli Stati Uniti?

 Vida:
Si tratta
di un atto puramente terroristico, anche se è una reazione alla politica
americana.

Olabi: Gli attentati
contro gli Usa sono stati atti barbarici, compiuti da individui
sicuramente squilibrati, disumani e pieni di odio verso tutto e tutti. Non
è certamente il terrorismo la via migliore per raggiungere obiettivi
positivi.


Chioua:

Il terrore non è il
mezzo giusto per risolvere i problemi politici e sociali. Ci vuole il
dialogo, ma un dialogo in cui ambo le parti siano pronte ad ascoltare.
Secondo me l’attacco alle torri gemelle è stata una reazione estrema e
disperata verso un nemico più forte e, nello stesso tempo, prepotente ed
arrogante. La forza economica e militare di un paese deve obbligare anche
a maggiori responsabilità verso la comunità internazionale. È
nell’assumere tale responsabilità in modo giusto che si vede la vera forza
di un paese. Gli Stati Uniti, quale nazione più forte del mondo, devono
ascoltare anche gli altri popoli e rispettarli.


Saafi:

Gli atti terroristici non sono permessi dalla fede islamica, perché il
corano afferma chiaramente che chi uccide un innocente è come se uccidesse
tutta l’umanità: quindi è un peccato gravissimo.


El Moutaquakil:

Mi sono spaventata perché ho pensato: «Adesso gli americani si
vendicheranno e la loro vendetta sarà tremenda». Mi dispiace molto per
quelli che sono morti. Mi chiedo perché gli americani debbano puntare il
dito contro di noi, arabi, per quell’attentato. Io non credo che l’abbiano
fatto gli arabi, e nemmeno Bin Laden: se fosse stato lui, lo avrebbe
ammesso.

 


Come giudica i
bombardamenti e la guerra degli Stati Uniti in Afghanistan?

 Vida:
I
bombardamenti e la guerra non sono la risposta giusta, perché secondo me
Bin Laden non è in Afghanistan. Ma, anche se ci fosse, bombardare la
povera gente per abbattere un regime o per uccidere un terrorista non ha
senso… Noi siamo all’oscuro delle vere ragioni delle azioni militari in
corso.


Olabi:

Sono contraria ai
bombardamenti indiscriminati che coinvolgono la popolazione civile afghana.
Se fosse possibile una «estirpazione chirurgica» per combattere soltanto i
terroristi… ma questo purtroppo è molto difficile, se non impossibile.
Secondo me, bisogna puntare sulla prevenzione.


Chioua:

La reazione dell’America è molto esagerata. Ho paura che, così facendo, si
produca una spirale di violenza. Un proverbio arabo dice: il più forte è
colui che sa offrire il perdono.

Saafi: Sono
assolutamente contro questa guerra degli Usa, perché gli americani non
hanno alcun diritto di reagire così contro la popolazione afghana, se non
con l’autorizzazione della comunità internazionale.


El Moutaquakil:

Con i bombardamenti si semina solo altro odio. Non si può bombardare un
intero paese per catturare una singola persona; si bombarda per occupare
un paese. Speriamo solo che la guerra finisca in fretta e non rechi alla
popolazione afghana danni maggiori di quelli già fatti.

 


Alla luce della fede
islamica e del corano, come spiegare gli atti dei «kamikaze» suicidi
contro innocenti?

 Vida:
Gli atti
dei kamikaze si spiegano come una strumentalizzazione della religione. Chi
strumentalizza la religione interpreta il corano secondo la propria
convenienza. Quelle dei kamikaze sono azioni folli e, come ho già
affermato, puramente terroristiche.


Olabi:

Nel corano chi si suicida è un miscredente. Nell’islam la guerra è
bandita; è accettata solo per ragioni di difesa. Il termine jihad comporta
la diffusione della parola di Allah. Si incomincia con se stessi:
comprendere e accettare la Parola è un insegnamento di Muhammad, il
profeta; poi si va verso gli altri sotto la guida di un califfo. In caso
di guerra, è vietato attaccare civili innocenti e persone indifese. Non si
può tagliare neanche un ramo d’albero!


Chioua:

Il termine «guerra santa» non esiste e non è mai esistito nella religione
musulmana. Il corano prevede la convivenza pacifica fra i popoli. L’islam
è una religione di pace. Ma per ınteressi politici personali si
strumentalizza la religione: così facendo, però, si negano i principi
religiosi e ci si allontana da Dio. La religione islamica vieta il
suicidio.


Saafi:

Il suicidio è un
peccato assai grave, perché noi non siamo padroni della vita. È Dio che
decide quando bisogna morire. Ma, in caso di guerra dichiarata, un soldato
può sacrificare la propria vita per recare il maggior danno possibile al
nemico. Si offre la propria vita per difendere quella altrui; si sacrifica
l’esistenza per la patria.


El Moutaquakil:

Il corano è contro l’assassinio e il suicidio. Accetta il sacrificio della
vita solo quando si difende la propria terra; ma, anche in questo caso,
non si possono uccidere gli innocenti.

 

 I
cristiani in paesi islamici (Pakistan, Arabia Saudita, Indonesia, Sudan,
ecc.) affermano di subire forti pressioni, di non essere liberi di
professare il loro credo, mentre in Occidente tutti godono di libertà
religiosa. Lei che ne pensa?

 Vida:
Io non sono una credente, anche se vengo da una famiglia musulmana che
vive secondo le regole dell’islam. Sono stata sempre molto critica verso
tutte le religioni, soprattutto l’islam, perché ho visto come ha
trasformato il mio paese in una società che non mi piace; non mi piace
specialmente la condizione della donna. Per quanto riguarda la tolleranza
religiosa, tutto dipende dai vari paesi. Ci sono nazioni islamiche
tolleranti verso le altre religioni.


Olabi:

Io non credo che i
cristiani siano perseguitati nei paesi islamici. Nella mia città Aleppo
(Siria), per esempio, esiste una minoranza armeno-ortodossa, ci sono
cristiani ed ebrei che vivono benissimo con noi musulmani, professando la
loro religione senza paura di nessuno… Una volta il profeta Muhammad
ricevette una delegazione di cristiani dello Yemen; quando arrivò l’ora
della preghiera, permise loro di usare una moschea… Le pressioni o
persecuzioni religiose, di cui lei parla, possono succedere soltanto per
ignoranza.


Chioua:

La mancanza di
libertà religiosa non coinvolge tutti i paesi musulmani. La tolleranza
dipende da molte cose. Quando una persona è convinta della verità della
propria religione, non ha paura e non ha bisogno di convincere con la
forza gli altri. Nel mio paese, l’Algeria (come anche in Tunisia), prima
dell’ultimo regime, diversi gruppi religiosi vivevano in pace… Non è
vero che in Occidente si può credere ciò che si vuole, perché si è molto
condizionati. La libertà è apparente, non reale. L’Occidente impone la
propria civiltà ad altri, e questo è sbagliato. Si esige maggiore rispetto
per le culture diverse da quella occidentale. Talora anche il lavoro dei
missionari violenta il cammino naturale di una cultura con elementi
estranei, importati, che possono nuocere alla popolazione.


Saafi:

L’islam permette a tutte le religioni monoteiste di esprimere il loro
credo. I problemi esistenti fra cristiani e musulmani nei vari paesi sono
questioni politiche, non religiose, legate alle condizioni sociali ed
economiche locali. Non è vero che in Occidente c’è parità totale fra
cristiani e musulmani, perché i secondi non hanno gli stessi diritti.


El Moutaquakil:
Racconto
un aneddoto. Il profeta Muhammad aveva un vicino di casa, ebreo, che
continuava a buttare immondizie davanti alla porta dell’inviato di Allah.
Il profeta non disse mai niente, ma pazientemente puliva tutto. Un giorno
notò che non c’era più sporcizia, e neppure il giorno successivo. Allora
il profeta si chiese che cosa fosse successo e seppe che il vicino di casa
era ammalato. L’inviato di Allah andò a trovarlo. L’ebreo si vergognò di
fronte a tanta bontà del profeta e non buttò più immondizia davanti alla
casa.

 

 È
cambiato qualcosa nella sua vita dopo l’11 settembre?

 Vida:
No, non è
cambiato alcunché.


Olabi:

Per ora non è mutato nulla, ma, come molte persone, ho paura
dell’intolleranza religiosa. Io sono musulmana; vorrei costruire per i
miei figli (come lo vogliono anche le mamme cristiane) un futuro di pace e
amore fra i popoli.


Chioua:

No; però ho sentito parlare di reazioni vendicative contro i musulmani
dopo i fatti dell’11 settembre.


Saafi:

Sì, la mia vita è cambiata, perché ho notato un aumento di ostilità, ma
solo da alcune persone. La maggioranza della gente si comporta come prima.
Tutto però dipende da come va a finire questa guerra, se finisce in
fretta… perché i bombardamenti in Afghanistan non combattono il
terrorismo. Di fronte alle azioni sbagliate degli americani, il terrorismo
può aumentare. Sono stati gli Stati Uniti a creare Bin Laden.

Vorrei anche
spiegare che cosa vuol dire la parola jihad. Non vuol dire «guerra santa»,
che è un’invenzione puramente occidentale. Per i cristiani le «guerre
sante» erano le azioni militari contro i musulmani. Jihad letteralmente
vuol dire «sforzo». Il credente deve sforzarsi di combattere il male che
c’è in lui; poi deve sforzarsi di migliorare il proprio ambiente (in
famiglia) e, infine, essere pronto a difendere la sua patria e la
religione.

El Moutaquakil: No,
la mia vita non è cambiata; però mi dà fastidio sentir parlare male degli
arabi e della mia religione.

 

 

 



Sfogliando s’impara (1)

 «Arrivata a metà
del secondo mese di guerra, nel conflitto che fu dichiarato contro
l’Occidente l’11 settembre, la nazione (gli Stati Uniti) che porta il peso
maggiore e paga il prezzo più alto per combatterla in nome di noi tutti
comincia a porsi la domanda che in una democrazia inevitabilmente affiora:
stiamo vincendo? Stiamo combattendo questa guerra giusta nella maniera
giusta?».


Vittorio Zucconi su
«la Repubblica», 26 ottobre 2001

 



Sfogliando s’impara (2)

 «Gli attentati
dell’11 settembre sono la mostruosa carta da visita di un mondo divenuto
folle. Essa potrebbe essere stata scritta da Bin Laden e mandata al
destinatario dai suoi uomini, ma potrebbe anche essere stata firmata dai
fantasmi delle vittime delle guerre americane del passato. I milioni di
morti coreani, vietnamiti, cambogiani… I migliaia di palestinesi morti
combattendo l’occupazione israeliana della Cisgiordania… E quanti (la
lista non è certamente esaustiva) yugoslavi, somali, haitiani, cileni,
nicaraguensi, salvadoregni, dominicani, panamensi sono stati vittime

di terroristi,
dittatori e genocidi?…».


Arundhati Roy
(scrittrice indiana)


su «Jeune Afrique-L’intelligent»
(Francia), 16 ottobre 2001

 

 



Pakistan, incontro con alcuni profughi afghani


 I
TALEBANI HANNO PORTATO PACE E SICUREZZA?

 di
Paolo Moiola

 


Peshawar (frontiera
nord-ovest).

Stringo in mano un
bigliettino datomi da Munir, un ragazzo di Gilgit (*). «A Peshawar va’ a
trovare i miei familiari. Sono commercianti di tappeti», mi ha detto.
Sulla carta è scritto «Khyber bazar, Kamran market». Sembra facile, finché
non vedi il palazzo: ogni stanza è una bottega di tappeti e ogni venditore
vuole trascinarti a vedere la sua mercanzia. Farsi capire, inoltre, non è
impresa delle più facili.

Finalmente trovo la
porta dell’«Afghan Carpets House». Ogni lato della stanza è occupato da
alte pile di tappeti, che sono mercanzia e arredamento a un tempo.

Un uomo dalla folta
capigliatura nera e barba ben curata sta spostando alcuni tappeti; un
altro è seduto per terra intento nella lettura del corano, mentre in un
angolo due ragazzi e un uomo armeggiano con alcuni quadei.

Appena spiego di
essere lì su suggerimento di Munir, l’atteggiamento diventa molto
amichevole. Si fanno le presentazioni: Muhammad Hussain e Karamullah sono
fratelli e gestiscono il negozio del padre. Dall’angolo mi salutano anche
i due ragazzi e l’uomo che è con loro: «I nostri fratelli minori stanno
studiando l’inglese con un maestro».

Muhammad Hussain è
il fratello più vecchio. «La mia famiglia – racconta – lasciò
l’Afghanistan ai tempi del governo comunista. Ora viviamo in Pakistan
lavorando come commercianti. Al mio paese too una volta al mese per
comprare tappeti per i nostri negozi».

Per voi musulmani io
sono un “infedele”. Che significa? «Nella bibbia sta scritto che l’ultimo
profeta chiamerà la gente all’islam. Quelli che accetteranno l’invito
avranno successo nel mondo e dopo; quelli che non saranno musulmani
saranno messi all’inferno. Nel sacro corano Allah onnipotente dice: “Io
sono contento con l’islam come tua religione”. In un altro passo del libro
sacro Allah afferma: “Io ho completato la tua religione: essa è una
religione perfetta. È la migliore delle religioni. Una religione diversa
dall’islam non è accettabile”». Allora, obietto, gli islamici non possono
tollerare la presenza di religioni diverse dalla loro? «In accordo con
quanto scritto nel sacro corano, nessuna religione è accettabile al di
fuori dell’islam. Tuttavia, in Pakistan musulmani e cristiani vivono in
pace».

 

Karamullah è sposato
e ha due bambini. Non porta la barba, ma soltanto un paio di baffetti che
non dissimulano la giovane età. Il profugo afghano non nasconde la propria
simpatia per i talebani al potere a Kabul: «Questa gente ha portato la
sharia nel paese e con essa pace e sicurezza. Nelle province dei talebani
ogni persona si sente tranquilla, mentre nelle aree sotto il controllo di
Massud non c’è sicurezza».

I due giovani
studenti, ormai distratti dalla mia presenza, si avvicinano portando
bicchieri fumanti, colmi di un tè che riempie la stanza di profumi
speziati.

Tra un sorso e
l’altro, chiedo di spiegarmi la condizione delle donne nei paesi islamici.
«I diritti delle donne – dice Karamullah sforzandosi di trovare le parole
inglesi più adatte – non sono quelli che vengono esaltati nei paesi
occidentali. L’islam ha attribuito diritti sufficienti alle donne, perché
Allah misericordioso, creatore di tutti gli uomini, conosce bene ciò che è
giusto fare. La donna ha una grande dignità nella società islamica. I
figli crescono nelle braccia delle madri e ricevono molto amore. Tra le
mura di casa la donna agisce come un capo assoluto. Il marito invece
lavora all’esterno in condizioni diverse. Tutto ciò che guadagna lo porta
in famiglia. In molte società non musulmane le donne sono considerate come
animali da utilizzare per la felicità sessuale degli uomini. Il flagello
dell’Aids non è altro che un castigo divino per questi comportamenti».

Alle cinque in punto
Karamullah si interrompe e mi chiede qualche minuto di pausa. Prende il
suo personale tappetino, lo distende, si inginocchia e inizia il rituale
della preghiera. Terminato il suo dovere di buon musulmano, torna a
conversare con me.

Non ti sembra – gli
chiedo – che la sharia sia uno strumento disumano che rende la punizione
molto simile alla vendetta? «No, la sharia è giusta! Quando ad un ladro
viene tagliata una mano, non è solo una punizione, ma anche un esempio per
far comprendere agli altri che rubare è male». 

Obietto che il male
è anche altrove: per esempio, nella corsa alle armi nucleari intrapresa da
Pakistan e India. «I paesi poveri non costruirebbero armi distruttive, se
i paesi coloniali non li incoraggiassero».

Mi accorgo che il
tempo è volato: sono passate più di due ore dal mio arrivo nella bottega
di Hussain e Karamullah. Fuori, è sceso il buio e il grande bazar si è
quasi svuotato. Prima di andarmene, ci abbracciamo come vecchi amici. A
dispetto delle nostre grandi diversità.

 

(*)  Le vicende
raccontate in queste righe sono accadute durante un viaggio in Pakistan
effettuato nel maggio 1998.

Snezana Petrovic