FRAGILI FIORI NELL’URAGANO

Un gruppo
di giovani, nel cuore di una delle regioni più critiche del mondo, lancia
un messaggio di unità e tolleranza. Sono arabi cristiani e hanno fondato
una comunità, come quella dei primi seguaci di Cristo. Aperta a tutte le
confessioni. Le difficoltà sono enormi, e questa voce rischia di essere un
soffio fra le… cannonate.

 

Nazareth.
Nell’enorme basilica dell’Annunciazione alcuni fedeli partecipano alla
messa domenicale. Sono raccolti in un luogo molto speciale: qui
l’arcangelo Gabriele annunciò a Maria la nascita di Cristo. Un gruppo di
giovani anima la funzione con canti in arabo.

Nonostante la
celebrazione sia in rito cattolico romano, questi ragazzi e ragazze
appartengono a confessioni cristiane diverse. «Facciamo parte di una
comunità ecumenica, che riunisce cattolici di rito latino e bizantino
(detti anche greco-cattolici), ortodossi, maroniti, armeni, copti e
protestanti» spiega Nasrin, una giovane di 27 anni.

È la Comunità «Vita
Nuova»: in arabo Jama’at al hayat aljadidah.

In Israele, oltre a
circa 5 milioni di ebrei, vive anche 1 milione di arabi. Discendono dai
palestinesi che non lasciarono la loro terra, nonostante la pressione
armata degli israeliani, all’indomani della creazione dello stato di
Israele (14 maggio 1948), durante la pulizia etnica che smantellò 531
villaggi non ebrei. Sono arabi con carta d’identità israeliana (peraltro
riporta la voce «etnia araba») e vivono in prevalenza in Galilea (nel
nord, dove si trova Nazareth), nel triangolo dell’entroterra di Hadera, in
città miste e nel Negev (a sud). Gli arabi di cittadinanza israeliana sono
discriminati. Per loro è più difficile accedere all’università e occupano
gli strati sociali più bassi.

Nei Territori
occupati di Cisgiordania e Gaza, invece, abitano 2 milioni 800 mila arabi
(di cui la metà rifugiati) e 200 mila coloni ebrei. Questi ultimi sono
cittadini israeliani e detengono un territorio non facente parte dello
stato d’Israele.

Della popolazione
arabo-palestinese (cittadini israeliani e abitanti dei Territori) solo il
2% è cristiana, appartenente a differenti confessioni, mentre la
maggioranza è musulmana. A causa del loro essere minoranza, spesso gli
arabo-cristiani sono dimenticati. Però molti di loro si sentono i
discendenti dei primi discepoli di Cristo.

 



All’inizio… un miracolo

 

Inerpicandosi verso
la città vecchia di Nazareth e percorrendo alcune ripide scale in cemento,
si arriva ad una piccola casa di tre piani dove, da alcuni anni, un gruppo
della Comunità Vita Nuova vive «mettendo tutto in comune». Una stanza per
riunirsi e un’altra adibita a cappella; la cucina in cui ci si ritrova per
consumare i pasti; un corridoio stretto, con libri di preghiere riposti in
un piccolo scaffale e annunci sulla vita della comunità appesi in una
bacheca.

Amer e Nasrin,
fratello e sorella di 26 e 27 anni, vivono nella casa da un anno. Ci fanno
accomodare nella stanza-riunioni e raccontano la storia della comunità.
«Tutto è cominciato su iniziativa del sacerdote abuna Faraj» (abuna
significa padre in arabo).

Padre Faraj è uno
dei due preti greco-cattolici, insieme a Elias Chacur, famoso per un
libro-denuncia sui massacri nel villaggio di Eliabun (nord Galilea).
Ordinato sacerdote nel 1965, nove anni dopo scopre di essere malato di
sclerosi a placche, che lo costringerà su una sedia a rotelle per 17 anni.
«Dal giorno della sua ordinazione – ricorda Nasrin – abuna Faraj ha fatto
sua la preghiera: Signore, dammi la grazia d’offrire la mia vita per
tutti, senza distinzione di razza o religione».

Preghiera più che
mai attuale.

Nel 1980 abuna Faraj
inaugura un centro cristiano d’incontro per giovani e pellegrini, nel
cuore di Nazareth. Nel ’92, secondo Nasrin, accade ciò che i membri di
Vita Nuova, pur senza dirlo, considerano un miracolo. «Abuna Faraj era
all’ospedale in coma. Nabil, un giovane di 22 anni che l’aveva conosciuto
da piccolo, andò a trovarlo. In modo inspiegabile il malato si svegliò e
lo riconobbe».

Da quel momento il
giovane decide di consacrarsi al prete, lasciando lavoro, musica e ogni
altra attività. I due lanciano il progetto di una comunità ecumenica, per
far incontrare confessioni cristiane diverse: così nasce Jama’at al hayat
aljadidah. Inizialmente le attività si svolgono al centro cristiano, dove
si organizzano incontri di preghiera interconfessionali.

«Io sono entrata in
Vita Nuova in quel periodo – racconta Safia, di 23 anni -, ma non senza
problemi, data la mentalità della mia famiglia ortodossa». L’idea di base
è che cristiani di vari credo possano vivere insieme. «Famiglie, laici,
consacrati: come fecero i primi gruppi di fedeli, proprio qui in Terra
Santa» interviene Amer, spiegando anche le difficoltà. «Tra noi arabi la
mentalità è ancora quella che si lascia la famiglia solo quando ci si
sposa. È stato complicato portare i nostri genitori a condividere questo
percorso; ma alla fine ci siamo riusciti».

 



«Vita Nuova» si allarga

 

Nel 1996 abuna Faraj
muore. Il gruppo è costretto a lasciare i locali del centro, reclamati
dalla diocesi. Si cerca un luogo per continuare le attività. Il gruppo,
seppur piccolo, è solido, ma le difficoltà economiche sono grandi. «Solo
due anni dopo, siamo arrivati qui». È importante avere un posto dove
vivere insieme e uno spazio fisso per la preghiera.

Oggi vi abitano Amer
e Nasrin con Nabil, diventato il riferimento della comunità. Poi ci sono
alcune famiglie con bambini, ragazze e ragazzi di diversa età e
professione, che partecipano alle attività e si considerano parte della
comunità. Un centinaio di persone in tutto a Nazareth, in tre villaggi dei
dintorni e a Lazariyye, presso Gerusalemme est. Il nucleo che anima Vita
Nuova è formato da sette persone; alcune vi dedicano tutto il loro tempo.

«Vogliamo darci
completamente all’unità della chiesa in Terra Santa»: compare Nabil, alto,
la barba nera e rada, gli occhi scuri e profondi, il sorriso accogliente.
«Crediamo che, se l’unità inizia qui, arriverà in tutto il mondo, perché
in questo paese sono rappresentate tutte le confessioni cristiane e tutte
le nazionalità». Come? Gli chiediamo, di fronte ad un progetto tanto
ambizioso.

«Cercando di vivere
ogni giorno la preghiera, la condivisione e l’ascolto della bibbia, ma
anche tramite corsi di francese e italiano». Il tutto nella diversità. «Se
riusciamo a pregare insieme, apprezzeremo anche la diversità e ricchezza
della nostra storia, come in un giardino che si abbellisce di tanti fiori.
Nessuno cerca di trasformare l’altro a sua immagine; impariamo ad
accettare tutti ed essere aperti allo Spirito Santo».

 


I
giovani se ne vanno

 

Numerose sono le
attività, indirizzate a bambini, adolescenti e famiglie. I giovani
cristiani sentono le tensioni maggiori del paese e molti tentano di
emigrare. A Nazareth nel 1964 la popolazione araba era cristiana al 75% e
al 25% musulmana. Oggi le proporzioni si sono invertite (mentre gli ebrei
vivono in quartieri ultramodei a Nazareth Ilit, ovvero la «alta», e sono
in maggioranza russi e rumeni). La tendenza degli arabi cristiani a
lasciare il paese è comune in tutta la Terra Santa.

«Ai bambini
raccontiamo la storia di Gesù – continua Nabil – e diamo loro la
possibilità di esprimersi attraverso il disegno e il canto. Per i più
grandicelli ci sono corsi di chitarra e possono partecipare ai momenti di
preghiera e adorazione. Agli adolescenti è dedicato un giorno speciale
della settimana, oltre al sabato, allorché ci riuniamo tutti».

Continua Nasrin:
«Cerchiamo di formare gli adulti nella conoscenza delle lingue, di
invitarli ai momenti di preghiera e, soprattutto, di insegnare loro a
guidare i giovani mediante l’uso di testi biblici».

Una volta al mese,
il primo venerdì, la comunità si riunisce per la veglia di preghiera fino
all’alba. «Abbiamo scoperto che un gruppo in Belgio, chiamato Nazareth, fa
altrettanto. Abbiamo iniziato a scambiarci le esperienze e ci sentiamo
uniti». Vita Nuova è collegata pure ai gruppi di Chemin neuf (cammino
nuovo) in Francia ed Italia (Milano). Realizzano scambi e periodi di
formazione teologica.

I membri della
comunità possono trascorrere alcuni mesi in Europa, presso questi centri,
per approfondire l’esperienza di vita comunitaria e condividere le proprie
esperienze in Terra Santa. «Quando sono stata in Francia e in Italia –
confida Nasrin -, nessuno conosceva la nostra situazione di cristiani.
Tutti mi chiedevano se ero ebrea o musulmana».

Ma le difficoltà non
mancano. Il gruppo è riconosciuto da tre vescovi: il patriarca latino di
Gerusalemme, quello greco-ortodosso e greco-latino. «Accettano la comunità
che vive l’unità, ma non ci aiutano finanziariamente, perché non
apparteniamo ad una sola confessione – commenta Amer -. Il governo
israeliano ci riconosce come raggruppamento cristiano, ma la legge
proibisce di parlare di Gesù e della nostra fede ad altri che non siano
cristiani».

 



Nell’occhio del ciclone

 

A sentirli parlare e
guardandoli negli occhi dolci ma fermi, si riacquista un po’ di fiducia
verso il contesto locale. Ma ci si chiede (un po’ scettici) se questi
giovani, con meno di 30 anni, non stiano combattendo contro i mulini a
vento. I recenti attentati terroristici negli Stati Uniti e la reazione
scaturita (che sta uccidendo centinaia di civili) hanno portato ad un
nuovo contesto storico.

La situazione in
Medio Oriente (che sembrava migliorare) oggi sta sprofondando. Le
spaccature intee ai palestinesi, ma anche fra gli israeliani, si fanno
sentire sempre di più, allontanando la soluzione proposta dalle Nazioni
Unite, già nel ’47, di due stati indipendenti in pace tra loro.

E i giovani di Vita
Nuova, nel cuore di una delle regioni geopolitiche più critiche del mondo,
cercano di mandare un messaggio. «Ciò che la comunità vede (e vuole
vedere) in ognuno, buono e non buono, è l’“anima” che deve essere salvata
– dice Nabil, esprimendosi sulla crisi mondiale -. La comunità si impegna
a vivere la spiritualità di Gesù. Noi amiamo l’uomo e pensiamo che debba
essere salvato».

Dopo l’assassinio ad
opera del Fronte popolare per la liberazione della Palestina del ministro
Rehavam Zeevi (uno dei più estremisti del governo di Sharon), la
rappresaglia israeliana è durissima. Carri armati entrano nelle principali
città dei Territori palestinesi e gli scontri con le forze locali si
moltiplicano. Secondo il premier israeliano, per risolvere il problema,
bisogna deportare tutti i palestinesi nei paesi loro amici.

In tale contesto il
patriarca latino di Gerusalemme, Michel Sabbath, arabo della Terra Santa,
scrive: «Il nostro destino è stato quello di nascere sotto l’occupazione e
di essere costantemente esposti alla morte. Ma ognuno ha il diritto-dovere
di fare tutto il possibile per ottenere la libertà. La comunità
internazionale deve finalmente capire che il palestinese è una persona
come tutti; e, come tutti, ha diritto di riconquistare la sua libertà e
dignità nella propria terra».

Il patriarca
condanna la guerra. «Uccidere è male. Ogni violenza è male. Ogni guerra
sfigura il volto di Dio… In Terra Santa l’elemento che apre le porte
della morte è l’occupazione militare. Diciamo dunque: basta alla
sofferenza del popolo palestinese! È ora di porre fine alla sua tragedia».

Mons. Sabbath
rivolge un accorato appello agli israeliani: «Voi pure meritate sicurezza
e pace. Noi ve le auguriamo. In ognuno di voi vediamo la dignità che viene
da Dio ed è un dono ad ogni persona, sia palestinese sia israeliana. La
chiave della morte o della pace è nelle vostre mani e in quelle del
governo che avete eletto… È lui che vi potrebbe dare la pace o
privarvene. Quelli che oggi si combattono e cadono nell’abisso della morte
hanno diritto di vivere e godersi la sicurezza. Dipende dal vostro governo
il porre fine all’occupazione, che pesa sui palestinesi da decine di anni,
privandoli della dignità e libertà. Le Nazioni Unite hanno formulato delle
risoluzioni che sono la base della pace. Basterebbe applicarle».

Lunedì sera. In
silenzio ci ritroviamo nella stanza, in fondo al corridoio della piccola
casa di Vita Nuova, nella Nazareth vecchia. Buia, solo poche candele
illuminano le icone di Cristo e della Vergine. Il pavimento è ricoperto di
tappeti. I nostri amici entrano, uno ad uno, e siedono in un angolo.
Arrivano pure dei giovanissimi. Ci sono piccoli vangeli in arabo e fogli
con canti nella stessa lingua.

Inizia la
preghiera… Ci tornano in mente le parole di Nabil: «Quando diventa
«buio», tutto sembra perduto. Ma Gesù è luce del mondo».

 

 

 



Popolazione e chiese in Terra Santa

 


Stato di Israele: 5

milioni di cittadini, di cui circa 1 milione di origine russa; gli arabi
si aggirano su 1 milione.


Territori di
Cisgiordania e Gaza:

2.800.000 arabo-palestinesi, di cui 1.400.000 rifugiati registrati (non
sono cittadini israeliani); sono presenti anche 200.000 coloni ebrei
(cittadini israeliani).

Si contano inoltre
2.900.000 rifugiati palestinesi (registrati) tra Giordania, Libano, Siria,
Egitto e paesi del Golfo Persico.

 I
cristiani

in Terra Santa sono il 2% della popolazione araba, con percentuali
maggiori a Betlemme (15%) e Nazareth (25%). Sono divisi in diverse
confessioni:

Cattolici (melchiti,
maroniti, caldei, siriani e armeni cattolici); da segnalare una comunità
cattolica di lingua ebraica, molto schiva e riservata.


Greco-ortodossi:
costituiscono l’unica chiesa autonoma in Terra Santa
(non dipende cioè da sedi estere); è anche la comunità numericamente più
importante (circa il 50% dei cristiani); il patriarca in genere è di
origine greca. Gli altri ortodossi si distinguono in armeni, siriani,
copti, etiopi.

Protestanti:
luterani e anglicani con presenze modeste.

La Custodia
Francescana di Terra Santa, affidata ai Frati Minori, ha una sua
autonomia.

Marco Bello




MOSCA NON BADA ALLE LACRIME


Al cospetto
di lenin

La raccomandazione di Ivan ci
ricordò l’esperienza vissuta il giorno prima sulla Piazza Rossa. Una
signora del gruppo «Amici» voleva ammirare personalmente la piazza, con il
Cremlino da una parte, il Museo storico di stato dall’altra e, sul fondo,
la cattedrale di san Basilio. Chiusa al traffico, illuminata dal sole o
rischiarata dalla luna, la piazza è straordinariamente «rossa», cioè
«bella».

La signora costeggiò le mura
del Cremlino e, giunta al mausoleo di Lenin, puntò la macchina fotografica
sul busto del padre della rivoluzione comunista, imitata da altri turisti.
Sennonché si accostò di due metri e, senza saperlo, mise il piede in fallo
superando «la linea rossa».

Subito piombarono due
poliziotti, quasi imberbi: gli occhi minacciosi, i gesti imperiosi, le
parole impietose quanto incomprensibili. La malcapitata supplicava venia
in italiano. E, come spesso succede allorché si parlano lingue diverse
senza capirsi, i toni della voce salivano e l’incomprensione pure.

Di fronte al piccolo casus
belli, intervenimmo in inglese.

L’ultima parola, sia pure nel
fraseggio stentato, ci suonò sinistra… alla luce dell’Arcipelago Gulag
di Aleksandr Solzenicyn.

Assumemmo un’aria umile e
contrita. «Signori, vi porgiamo tutte le nostre scuse. Questa mamma ha
superato la linea rossa, ma senza accorgersi. Lungi da lei ogni intenzione
di calpestare il suolo sacro della madre Russia! Si è un po’ avvicinata,
solo per riprendere meglio il famoso Lenin e mostrarlo ai suoi figli. Vi
chiediamo perdono…». Parlavamo adagio, studiando le parole. Ma i
gendarmi capirono solo «perdono» e replicarono: «Perdono niet.
Impossibile. Là telecamere hanno ripreso questa donna. Delitto resta per
sempre. Niet perdono. Gulag!».

Allora mutammo strategia,
atteggiandoci quasi a giudice. «Sappiate che la signora appartiene ad una
associazione culturale di fama internazionale. È in Russia per ragioni di
studio con altri 46 colleghi. Il presidente dell’associazione si recherà
all’ambasciata italiana per trattare il caso. Qui vi sono testimoni di
vari paesi, che confermeranno l’accaduto».

I due ci trassero in disparte e
su un pezzo di carta scrissero «10 dollari», da sborsare subito senza
ricevuta. E ci fecero capire che era un grande favore…

«Vi è andata ancora bene!»
commentò Ivan quando raccontammo il fatto. E la moglie Galja che
l’accompagnava annuì sorridendo.


Fra boschi
di betulle

Eravamo, dunque, in viaggio
verso Sergiev Posad (ex Zagorsk). È una delle «gemme» dell’«anello d’oro»:
così si chiama l’itinerario religioso-culturale lungo alcuni celebri
centri della Russia cristiana, riaperti al culto dopo il crollo del regime
sovietico. Si tratta di chiese e monasteri all’interno di «cremlini»
(villaggi-cittadella) a Jaroslavl, Vladimir, Suzdal, Kostroma, Rostov,
ecc., che raggiunsero il massimo splendore nel 12° secolo.

Durante il trasferimento in
pullman, Ivan ci intrattenne sullo stato della Russia odiea con giudizi
severissimi. Gli enormi «bubboni» si chiamano mafia, corruzione politica,
degrado ambientale, alti costi di vita, bassi salari. Ad esempio: un
chirurgo in ospedale percepisce 80 dollari al mese; il che lo costringe ad
operare in almeno altri due centri, per raggranellare 300 dollari mensili.
Ivan sulla sanità dichiarò: «Se la salute non ti interessa, curati presso
una struttura pubblica».

Ma quanti possono accedere ad
ospedali privati? A Mosca il 5%, su 9 milioni di abitanti. La capitale è
«la vetrina della nazione», dove il denaro circola più abbondante. Nei
centri rurali dello sterminato interno  la situazione è deprimente.
Rassegnato e desolato appare lo sguardo degli anziani, seduti davanti alla
loro dacia o isba per catturare un raggio di sole dopo l’interminabile
inverno.

L’accompagnatore parlò a lungo,
mentre l’autobus attraversava campi di grano e patate tra fitti boschi di
fragili e slanciate betulle, dalla corteccia grigio-cenere chiazzata di
scuro, che la pioggia lustrava e il vento ravviava. Il ticchettio della
pioggia, il rumore monotono del motore, la voce uniforme di Ivan (seguita
dalla traduzione pacata di Delfina Boero), il clima interno ovattato, la
posizione in poltrona conciliavano pure il sonno. L’interlocutore
l’avvertì: spense il microfono, reclinò il capo sulla spalla della moglie
Galja e, poco dopo, russava.

La donna ci guardò scuotendo la
testa e disse in inglese: «Troppo lavoro!».

Ivan e Galja sono sulla
trentina, sposati da poco. Lei lavora come segretaria in una scuola,
mentre lui dirige un’agenzia di turismo. Attivo, energico e metodico, Ivan
è figlio di un ex dirigente del Partito comunista sovietico. «Il padre è
ateo tutto d’un pezzo e lo si vede anche dallo sguardo sempre truce»
commentò Galja.

Galja adocchiò ancora il marito
che dormiva. Poi disse: «Sono cristiano-ortodossa. Mia madre mi ha
battezzata all’età di 16 anni, all’insaputa del padre, perché vigeva il
comunismo ateo. Non ebbe però il coraggio di battezzare mio fratello.

Nel frattempo eravamo giunti a
Sergiev Posad. Il pullman si fermò dietro un altro, parcheggiato a lato
del monastero della Trinità di san Sergio. Scendendo, domandammo ancora a
Galja: «Che cosa è rimasto in Russia del marxismo?». «Vorrei che restasse
solo il nome» rispose… puntando l’indice verso l’autobus antistante.

Sull’alto del parabrezza era
scritto «Karl Marx».


Nel cortile
del monastero

Il monastero della Trinità di
san Sergio, iniziato nel 14° secolo, conobbe un grande splendore
artistico-religioso, nonché potere economico. Alcuni principi di Mosca non
lesinarono doni (forse per farsi perdonare i peccati): fra questi, lo zar
Boris Godunov (vedi inserto). Nazionalizzato e trasformato in museo nel
1918, il monastero fu restituito alla chiesa dopo la seconda guerra
mondiale. Oggi il complesso, circondato da un muro di cinta lungo un
chilometro, consta di sette chiese, due cattedrali, un seminario e vari
musei.

Al nostro arrivo, c’era un
frenetico viavai nel cortile del monastero: monaci e monache ortodossi,
pellegrini di modesta condizione sociale, turisti. Non mancavano ortolani,
intenti a impiantare qualche verdura o a zappare.

Ci attendeva la guida locale. E
fu una sorpresa, perché era una suora ortodossa. Fu lei ad introdurci
negli edifici sacri e commentare le sontuose iconostasi: come quella nella
cattedrale della Trinità, resa celebre dal genio di Andrej Rublev.

Interessante anche la storia
personale della monaca (che non volle dire il nome). Gli «amici»
l’ascoltarono attentissimi, in piedi e sotto una pioggerella impertinente.
«Sono nata al tempo di Kruscev – raccontò la suora -. Questi ha reso
famosa la Russia per lo sputnik lanciato nello spazio con una cagnetta,
seguito dal primo volo fra le stelle di Gagarin. Però Kruscev, in fatto di
persecuzione religiosa, non scherzava. Ciò nonostante, ho deciso di farmi
monaca, contro il parere dei genitori».

Ha vissuto i primi anni di vita
religiosa nella clandestinità. Poi, scoperta, è stata costretta a lavorare
in uno stabilimento industriale tessile. «Oggi sono nuovamente suora; ma
non ho un convento, né consorelle. Vivo da sola in un piccolo appartamento
di Sergiev Posad. Per pagare l’affitto e mantenermi, faccio la guida
turistica».

La monaca vestiva di nero da
capo a piedi, ma senza particolari segni religiosi. Lo sguardo era
volitivo, ma anche dolce. Padroneggiava bene la sua materia.

Assolto il suo compito, si
congedò in fretta dal gruppo degli «amici», per incontrae subito un
altro: una scolaresca russa. «Fino a non molto tempo fa, pensare che una
scuola entrasse liberamente in chiesa equivaleva ad immaginare che il lupo
e l’agnello potessero bere alla stessa fonte» commentò infine la monaca.


Quarantasei
in una stanza

Mosca. Nei dintorni della
capitale, verso le 18, avevamo appuntamento con suor Serena, delle
Missionarie della carità (suore di madre Teresa). Opera con tre consorelle
polacche, due indiane e una irlandese: attendono a portatori di handicap e
ospitano anche senzatetto. Visitano inoltre gli ammalati del vicino
ospedale (specialmente i colpiti da Aids), gli anziani poveri del
quartiere, i traumatizzati dalla guerra in Cecenia o Afghanistan. Da tali
paesi non mancano profughi, che vivono seminascosti (magari dieci in due
stanze), essendo rifiutati dai russi. Trovare lavoro? Un incubo, più che
un sogno.

Per le missionarie gli inizi
(alla vigilia della caduta dell’impero sovietico) furono duri.
Alloggiarono otto mesi in due stanze dell’ospedale, mantenendosi con il
proprio lavoro, ma senza alcuna possibilità di visitare la gente. Poi
trovarono sistemazione in un ricovero per anziani: ancora due stanze, ma
anche una cappellina, con la facoltà di uscire, parlare. Dopo due anni, lo
sfratto.

«Ora siamo in questo centro,
costruito con prefabbricati in legno. Abbiamo rifatto il tetto, perché il
materiale usato era di seconda mano… Dobbiamo districarci in tante
pastornie burocratiche per lavorare. In Russia la vita è complicata…».

A parlare era ovviamente suor
Serena, lombarda sui 40 anni, che indossava il noto saio bianco, bordato
di azzurro. Si intratteneva con i 46 «Amici Missioni Consolata», assiepati
in una stanza con numerose domande.


Sorella, com’è una vostra
giornata standard?

«Alle 5 del mattino siamo in
chiesa per la preghiera. Poi c’è il lavoro dalle 8 alle 12 e nel
pomeriggio. Ci sono persone che ci aiutano, perché non possiamo lasciare
soli i bambini down e neanche gli anziani: ci aiutano mentre noi preghiamo
o mangiamo. Alle 21.30 subentrano le suore: due per notte».


Chi sono le persone che vi
aiutano?

«In genere volontari.
Provengono da San Pietroburgo, che è più incline di Mosca alla
solidarietà. C’è un detto: “Mosca non bada alle lacrime”, ma agli affari.
Tuttavia i collaboratori faticano molto ad entrare nel nostro ordine
evangelico di idee».


Da dove provengono i bimbi
portatori di handicap?

«Alcuni da un orfanotrofio e
altri dalle famiglie. Sono bambini down, orfani, ciechi o con papà e mamma
separati. C’è una bimba con genitori giovanissimi, che si sono rifiutati
di tenerla; poi l’hanno accettata… se noi la guardiamo un po’. Sono già
due anni che la piccola è qui».


La gente che cosa pensa di voi?

«All’inizio c’è stata
incomprensione: la gente non capiva la nostra attenzione a bambini che
“non servono a nulla”. Oggi va meglio. Non si dimentichi l’influenza del
comunismo ateo, durata 70 anni».


Chi vi sostiene economicamente?

«La divina provvidenza».


Lo stato che cosa fa per i
portatori di handicap? Ci sono scuole?

«Ci sono. Però manca il calore
umano, il sorriso, la serenità».


I vostri bambini vanno a
scuola?

«Certo. La scuola è
parastatale; segue i programmi del governo, ma è organizzata dai genitori
degli handicappati. Ci troviamo tutti una volta al mese, quando
distribuiamo vestiti e generi alimentari. Al termine dell’incontro c’è
anche un momento di preghiera».


Voi, suore, avete la messa
tutti i giorni?

«Abbiamo dei sacerdoti,
cattolici e ortodossi, che celebrano l’eucaristia; ma vengono da lontano e
impiegano molto tempo; allora c’è un sacerdote a tuo, diverso ogni
giorno; non sempre però».


Entrando nelle case popolari,
che cosa colpisce maggiormente?

«La miseria materiale,
soprattutto degli anziani. Le famiglie hanno tanti bambini e vivono con
mezzi sufficienti appena per un po’ di pane. C’è pure tanta povertà
morale, perché manca il senso di famiglia. C’è l’atavico alcornolismo e,
oggi, anche la droga».


Esiste un ceto medio un po’
benestante?

«È quasi scomparso. Oggi o si è
ricchi o poveri».


E quanto a soddisfazioni?

«Le abbiamo, specialmente
stando con i poveri, che sono aperti a ricevere non solo materialmente, ma
anche spiritualmente. C’è il desiderio di iniziare una vita diversa con
nuovi valori, valori che si sono persi negli ultimi decenni».


Valori nuovi anche fra i
giovani?

«C’è un anelito all’esperienza
religiosa del passato. I giovani ci chiedono di insegnare loro a pregare».


Sono cattolici o ortodossi?


Suor Serena, lei ha risposto
alle nostre domande. Ma forse anche lei ha qualcosa da chiedere…

«Se volete, possiamo
recarci tutti in cappella e pregare il Padre Nostro» fu la risposta.

Numerosi «amici» lasciarono
alle missionarie della carità lenzuola, vestiti e denaro per i portatori
di handicap, che li guardarono con una smorfia. Ma era «grazie».

 

 



 Munifico e assassino

Tanto si prodigò lo zar Boris
Godunov in donazioni al monastero di san Sergio che, finalmente, ottenne
di esservi sepolto. Lo zar doveva nutrire dei dubbi sul proprio accesso in
paradiso e, a quei tempi, non c’era migliore assicurazione sull’anima che
farsi inumare nel luogo più sacro di Russia.

È difficile ricostruire con
attendibilità le vicende che lo portarono al trono, fitte di sospetti,
trame e morti misteriose: non a caso con il suo regno si aprì il periodo
dei «torbidi».

Il primo approccio con il
potere avvenne  durante il regno del figlio di Ivan il Terribile, il
minorato Fedor, al quale aveva dato in sposa la sorella, così da divenie
il tutore. Lo stesso Ivan aveva agevolato (suo malgrado) Boris, uccidendo
il proprio figlio maggiore, l’omonimo Ivan, accusato dal padre di essere
poco sveglio. Rimaneva il piccolo Dimitrij, destinato con la maggiore età
a prendere il posto del fratello: la minaccia era tale da trasformare
Godunov da intrigante in assassino, cosa che prontamente fece.

Boris poté così innalzare la
sua stirpe sul trono di Russia, ma non per molto, giacché morì pochi anni
dopo in circostanze confuse, seguito a breve dai suoi eredi.

Era proprio il tempo dei
«torbidi».

Francesco Beardi




NEISU (CONGO, RD): QUASI UN DIARIO «IO SONO LUCA»


   Ancora qualche… pennellata di vita missionaria, dal grande e
quasi inaccessibile Congo. Con i problemi di sempre (aggravati dalla
situazione di guerra), e piccoli fatti di speranza… che possono arrivare
anche da un bambino.

 

Un tempo, vedendo
certe ingiustizie in Congo, mi arrabbiavo molto; oggi lo faccio di meno,
non perché l’ingiustizia sia diminuita o io sia diventato insensibile, ma
perché mi vedo impotente. Soprattutto scopro tanta indifferenza. Alla
rabbia di una volta subentra il pianto del cuore.

 Che
delusione!

 Dalla missione di
Neisu (dove opero) penso anche a Gesù che, impotente, piangeva sulla città
di Gerusalemme… I potenti sono preoccupati a produrre e vendere armi, a
costruire scudi spaziali…

A Kisangani, terza
città del Congo, i soldati dell’Onu (sembra che l’Organizzazione si stia
finalmente «interessando» al paese) sono pagati 200 dollari al giorno per
«vedere la situazione» e stendere rapporti.

Ad Isiro (a pochi
chilometri da noi) di questi osservatori ne abbiamo quattro. Il mese
scorso è arrivato per loro un enorme aereo e ha scaricato due bancali
di… bottiglie d’acqua minerale.

Noi, per avere
medicine e quadei per la gente, dobbiamo fare giri impossibili: Kampala,
Butembo, Ariwara… In più, dobbiamo anche pagare tasse elevate, perché
c’è tutta una schiera di funzionari e impiegati che vuole mangiarci sopra.
D’altra parte, è da anni che lo stato non li paga e non sborsa il becco di
un quattrino per i loro salari!

Nonostante tutti gli
osservatori dell’Onu, oro e diamanti del Congo continuano ad arricchire
Uganda e Rwanda. Siamo alla fine dell’anno scolastico e gli alunni della
sesta elementare devono sostenere l’esame di ammissione alla scuola media.
Prezzo dell’esame: 100 franchi congolesi (un dollaro Usa ne vale 140). È
poca cosa, lo so. Ma i genitori non hanno neppure questo.

In questi giorni
alla missione di Neisu c’è una processione di ragazzi e ragazze con
galline, uova, banane da vendere; la speranza è di avere i 100 franchi per
l’esame.

Queste cose, quelli
dell’Onu & affini le sanno? E, se lo sanno, qual è la loro risposta?
Perché, con tutti i mezzi che hanno a disposizione, non potrebbero darci
una mano per il trasporto di medicinali, viveri e materiale scolastico?

Se questo è l’Onu,
non ci resta che piangere.

 Nel
ricordo di Oscar

 Toiamo alle
nostre vicende. Pochi mesi fa, a Egbita, centro protestante a sei
chilometri da Neisu, si è svolta la prima grande assemblea del popolo dei
mangbetu. Ci siamo radunati tutti, cattolici, protestanti, autorità civili
e tradizionali dei tre gruppi che costituiscono la nostra zona: Medje,
Mongomasi e Ndey (vedi box).

Dopo dibattiti e
lavori di gruppo, i capi hanno proclamato, davanti ad oltre 2 mila
convenuti, che i magbetu, durante i funerali, si comporteranno da
«cristiani», astenendosi da tutte le malversazioni e violenze cui erano
abituati. Per noi missionari, l’assemblea di Egbita è stata un successo
pastorale.

Abbiamo anche
celebrato il secondo anniversario della morte di padre Oscar Goapper,
medico dell’ospedale. La commemorazione è stata tenuta in chiesa dal
superiore, padre Rinaldo, con tantissima gente. Dopo la messa, siamo
andati alla tomba per inaugurare un semplice ricordo… La fotografia di
padre Oscar in ceramica, mandata da Vimercate (MI), è una novità assoluta
qui. L’abbiamo incoiciata in una leggera struttura di ferro battuto,
dipinta con i colori dell’Argentina: bianco e azzurro.

Per la popolazione
di Neisu il 18 maggio (giorno della morte di Oscar) è ormai una festa; si
organizzano quindi danze, canti e scenette. Si fa festa anche per Michele,
un infermiere che ha scelto questa data per sposarsi.

Jean Embuama, un
giovane ammalato di Aids, diventa cristiano. Mal ridotto e malfermo, viene
accompagnato da due infermieri al fonte battesimale. Si lascia alle spalle
una vita movimentata e disastrata: diventa figlio di Dio. Nonostante
tutto, lo vedo bellissimo nella sua camicia bianca. Oscar, suo medico, può
essee contento: ha ricevuto delle belle soddisfazioni.

L’ospedale ha un
nuovo medico congolese: è il dottor Joseph. Giovane, neolaureato, con
tanta voglia di rendersi utile: un altro punto in più per il nostro
centro.

Suor Angela vede con
piacere che le fondamenta della scuola matea sono ultimate e i lavori
procedono. Suor Gemma ha iniziato la scuola di taglio e cucito per 45
ragazze, mentre suor Luisa tiene l’ospedale sotto controllo.

Siamo stati tutti a
Isiro con il consiglio parrocchiale, per celebrare i cento anni di vita
dei missionari della Consolata. Durante la messa, sul luogo del martirio
della beata Anuarite, abbiamo pregato per tutti…

Ebbene: i problemi
in Congo non mancano e le delusioni pure; ma la speranza non muore.

Voglio allora
raccontare un episodio che ci aiuti a continuare a credere nella forza
dell’amore e a trovare la strada della vita. Un modestissimo fatto, ma che
mi ha aiutato tanto.


Senza
complicazioni

 Domenica mattina.
Esco di casa e vado in chiesa. Manca mezz’ora alla messa, ma c’è già gente
che aspetta per le confessioni. Mi sto abbottonando la veste bianca e vedo
un bambino, che gioca da solo nel prato. Si accorge di me e mi viene
incontro, stendendo la mano. Lo saluto in lingua kimgbetu: «Mingoru?» (ti
sei svegliato?). Di regola a questa domanda la risposta è: «Bu himmi?» (e
tu?). Lui invece non risponde; mi guarda e sorride. Penso che non abbia
capito; forse non è un mangbetu. Ha inizio così una specie
d’interrogatorio.

«Tu sei mbudu?».
Penso infatti che possa essere un figlio di qualche infermiere mbudu
dell’ospedale. Il bimbo scuote la testa e sorride di nuovo. «Allora sei
certamente zande?». Il mio interlocutore fa ancora cenno di no.

Faccio due o tre
conti mentali: se non è mangbetu, mbudu né zande, sarà il figlio di
qualche moyogo venuto da Isiro per il mercato della domenica, qui a Neisu.

«Tu allora sei
moyogo?» gli dico pieno di sicurezza. Il bambino scuote di nuovo la testa
e, preso da compassione per me, in un bel lingala (la lingua
intertribale), finalmente apre la bocca e mi risponde: «Ngai nazali Luc»
(io sono Luca).

Le tre parole mi
investono come uno scroscio d’acqua pura e fresca. Tutte le mie
complicazioni e congetture sono azzerate. La verità splende sovrana.

– «Io sono Luca».
Perché ti stai a scervellare, ragionando di tribù, catalogando le persone
in schemi precostituiti?

– «Io sono Luca».
Guarda all’essenza delle cose, instaura rapporti semplicemente umani. Non
ti ricordi quanto successe a Einstein quando arrivò in America?
L’impiegato dell’immigrazione gli aveva mostrato un modulo da compilare e,
tra le domande, ce n’era una che chiedeva la «razza»? Einstein non ebbe
alcuna esitazione e scrisse «umana».

– «Io sono Luca».
Parole semplici, ma che mi riconducono ad essere quello che sono, facendo
a meno di tutti i prefissi: ing, dott, prof, mons, don… La rivelazione
ci porta all’origine di noi stessi, senza troppe sovrastrutture che
soffocano e tengono gli altri distanti da noi. Dobbiamo finirla con
razzismo, tribalismo, nazionalismo e tutti i loro parenti.

– «Io sono Luca». È
stata per me, quella domenica mattina, la proclamazione giorniosa del
vangelo: «Ti ringrazio, o Padre, che hai nascosto queste cose ai sapienti
e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli»…

Dopo quell’incontro,
diverse volte ho cercato Luca, ma non l’ho più trovato. Sarà perché qui i
bambini sono tanti e s’assomigliano tutti.

O chissà…

 


Un
convegno su tradizione e modeità


 Antichi
e nuovi diritti

 Si è tenuta qualche
tempo fa, a Neisu, una tre-giorni sul tema: «Diritto civile e costume
tradizionale», organizzata dalla nostra Commissione di Giustizia e Pace.
Hanno presieduto l’incontro il sig. Mukobi, giudice presidente della corte
di Isiro, e il sig. Ntumba, procuratore della repubblica di Isiro. Si
tratta di due persone qualificate, che si sono prestate per parlare ad
un’assemblea «popolare», composta da intellettuali, «chefs coutumiers»
(capi tradizionali) e contadini delle nostre missioni, impegnati nel
settore della promozione umana e diritti dell’uomo.

Gli oratori hanno
discusso, innanzitutto, di diritto civile e organizzazione della giustizia
in Congo, presentando i punti più significativi e alla portata della
gente. Poi hanno parlato del diritto tradizionale, non scritto, mettendo
in luce alcuni aspetti in contraddizione col diritto civile. Si è
considerato soprattutto il codice della famiglia, del 1968, che è un primo
tentativo di unificare gli elementi del diritto tradizionale con quello
civile scritto.

I conferenzieri
hanno evidenziato che i due diritti sono stati unificati in base a tre
princìpi: legge scritta, ordine pubblico e «buoni» costumi. Tutte le
tradizioni contrarie a questi princìpi sono state escluse dal diritto
civile scritto. Essi stessi hanno riconosciuto che ci sono ancora
tradizioni che non concordano con il diritto civile congolese e hanno
esortato i capi (ancora molto influenti) ad abbandonarle.

Nella seconda parte
dell’incontro (quella che maggiormente ha interessato i convenuti) si è
parlato di alcuni comportamenti, espressione del costume locale. In
particolare ci si è soffermati sulle tradizioni riguardanti il matrimonio,
la morte, i funerali, il lutto e le relazioni tra capovillaggio e
popolazione. Sono stati stigmatizzati certi comportamenti come, ad
esempio, dissotterrare e sottrarre con violenza il cadavere, rubare o
distruggere i beni del defunto, malmenare il coniuge che sopravvive
(soprattutto se donna), perché accusato di aver provocato la morte del
defunto.

Circa il matrimonio,
si è parlato della cattiva usanza di pretendere dalla famiglia del marito
(dopo anni dalla celebrazione del matrimonio) un supplemento della dote
già pagata. Inoltre si è discusso della pratica, da parte dei parenti
della sposa, di estorcere denaro dal marito prima che la moglie ritorni da
lui; questo capita quando la moglie si reca dai suoi per il funerale di un
parente.

Sempre nel campo
matrimoniale, si è toccato il problema della poligamia e dello
sfruttamento delle donne da parte dei mariti.

Circa le relazioni
capo-popolazione, è stato affrontato il problema della corvée (lavoro)
obbligatoria nel campo privato dei capi; della tassa da pagare quando si
riceve una convocazione; degli arresti arbitrari e ammende, con somme
superiori alle possibilità del cittadino.

Alla conclusione
della tre-giorni, i partecipanti sono stati invitati a promuovere la
giustizia e la pace, spargendo i frutti dell’incontro in tutta la regione.
Il beneficio immediato è stato lo spirito d’amicizia che si è instaurato
fra i partecipanti, provenienti dalle nostre parrocchie.

Come missionari
della Consolata, pensiamo che questa iniziativa sia fonte di consolazione
per la gente e possa aiutarla a guardare al futuro con più speranza.

Una formula
indovinata, anche per celebrare i cent’anni di fondazione del nostro
istituto.


Rinaldo Do

 

 


I
giovani congolesi…


 parlano
del loro paese in guerra

 

Durante un incontro
con i giovani, Jean Pierre chiede: «Padre, che ne pensi della situazione
attuale del nostro paese? Qual è il destino che spetta a noi, giovani?
Credi tu che, tra questi bagliori di guerra, possa esserci ancora un
raggio di speranza e consolazione?».

Il prete rimanda la
domanda al gruppo: «Ma voi, che cosa rispondereste alla domanda di Jean
Pierre?».

 Daniel

interviene subito: «Ma quale avvenire, ora che è l’uomo col fucile a
dettare legge? Abbiamo solo la sfortuna di non avere un’uniforme e un
fucile come lui. Cosa vogliamo? Cosa pensiamo? Non sappiamo dirlo, ma ciò
che rigettiamo è questa “felicità” ottenuta con le armi: la filosofia,
secondo la quale il diritto e la legge vengono decisi da chi ha le armi».

 Christine
Lust
:
«Per me, la società non offre ai giovani ciò che si aspettano. Essi hanno
bisogno di condizioni favorevoli per costruire il loro avvenire, ma la
guerra blocca tutto. Le perdite, sia umane che materiali, sono pesanti; le
ferite fatte alla popolazione congolese sono dolorose. Da qui il desiderio
di fuga ed evasione, che portano alcuni alla droga e altri in miniera alla
ricerca di oro e diamanti. La scuola, l’insegnamento, il rapporto con i
professori non rispondono al bisogno dei giovani. Allora diventiamo
chiusi, arrabbiati e ci annoiamo…».

 Fiston
Karume
:
«Quando fumo la canapa, devo fare attenzione mentre attraverso le strade,
perché non vedo più le vetture arrivare. Sono due mesi che mi drogo, e
comincio ad avere tic nervosi».

 Charles
Bamba
:
«Da me le cose non vanno bene. Ho solo 13 anni e non sopporto la scuola.
Credo che vogliano rinchiudermi. Allora la mia salvezza è nel bere birra:
sono quasi sempre ubriaco. Ora sto cominciando anche con la droga. Non ho
motivi per farlo; so soltanto che, quando fumo o mi drogo, io fuggo. Fuggo
dalla società. Fuggo dal mio villaggio, dalla mia famiglia, da tutto… e
mi succede di sentirmi meglio. Quando fumo e bevo, sono felice e mi sento
l’uomo più realizzato del mondo. E, dopo una dose di droga, non sento
nemmeno più il bisogno di mangiare».

 Jeannette
Chima
:
«Ho 17 anni, e sono a scuola per preparare un diploma di educazione
pedagogica. Ho compreso che il mio paese è in guerra e io non faccio
niente di serio. Si parla sempre di chi fa la storia, mai di chi la
subisce… I “difensori” dei diritti dell’uomo cosa fanno? Dove sono? Non
sono i primi che boicottano i diritti che pretendono di difendere? Sono
loro stessi che armano rwandesi e ugandesi in Congo, i quali poi
saccheggiano e uccidono.

Portano delle
maschere, che fanno apparire i rwandesi e gli ugandesi; ma dietro le
maschere ci sono loro: americani e francesi. Come sono divertenti. L’Onu,
cosa ha fatto finora? Le crisi del popolo congolese non gli sono
pervenute? E la comunità internazionale non ha orecchi ed occhi? Tutto il
mondo tace la verità; ma perché? Noi vogliamo la pace, il rispetto dei
diritti dell’uomo congolese, la sua dignità di figlio di Dio. Abbiamo il
diritto di vedere il nostro avvenire disegnato all’orizzonte».

 


Dappertutto, nel
mondo,
poeti e scrittori
denunciano situazioni
di guerra e violenza,
le forme di sfruttamento
dell’uomo contro l’uomo.


Un amico di Gesù,
un amico del popolo di Dio
in Congo,
un amico dell’uomo,
sarà insensibile al grido
del popolo congolese?


Dappertutto,
a Kisangani e Goma,
a Bunia e Butembo,
uomini, donne e bambini
gridano, denunciando
le situazioni
di saccheggio e violenza,
di torture e massacro…


Un cristiano
sarà insensibile
a questo grido
che sale dal Congo?
Sarà insensibile al grido
di un giovane congolese
che non vede più
l’avvenire davanti a se?


           
            Jean-Baptiste Sengi

Antonello Rossi




TERRORISMO, KAMIKAZE E LIBERTA’ RELIGIOSA


I mortali attentati contro gli Stati Uniti e i
bombardamenti in Afghanistan, il corano e i «kamikaze» suicidi, la
pressione sui cristiani che vivono in paesi islamici, ecc. La parola ad
alcuni fedeli di Allah in Italia.


 

Abbiamo rivolto
qualche domanda ad alcuni stranieri, di religione islamica, sulla
situazione creatasi nel mondo dopo l’attacco terroristico contro gli Stati
Uniti e la guerra nell’Afghanistan dei talebani per catturare Bin Laden.

Abbiamo
intervistato:

– Vida Bardiyaz, una signora dell’Iran;
– Olabi Rawaa,
una signora della Siria;

– Chioua Moktar,

un signore
dell’Algeria;

– Saafi Rachid Ben Ajmi,

un signore della
Tunisia;

El Moutaquakil Naima,
una
signora del Marocco.

 

 


Che cosa pensa degli
attentati dell’11 settembre contro gli Stati Uniti?

 Vida:
Si tratta
di un atto puramente terroristico, anche se è una reazione alla politica
americana.

Olabi: Gli attentati
contro gli Usa sono stati atti barbarici, compiuti da individui
sicuramente squilibrati, disumani e pieni di odio verso tutto e tutti. Non
è certamente il terrorismo la via migliore per raggiungere obiettivi
positivi.


Chioua:

Il terrore non è il
mezzo giusto per risolvere i problemi politici e sociali. Ci vuole il
dialogo, ma un dialogo in cui ambo le parti siano pronte ad ascoltare.
Secondo me l’attacco alle torri gemelle è stata una reazione estrema e
disperata verso un nemico più forte e, nello stesso tempo, prepotente ed
arrogante. La forza economica e militare di un paese deve obbligare anche
a maggiori responsabilità verso la comunità internazionale. È
nell’assumere tale responsabilità in modo giusto che si vede la vera forza
di un paese. Gli Stati Uniti, quale nazione più forte del mondo, devono
ascoltare anche gli altri popoli e rispettarli.


Saafi:

Gli atti terroristici non sono permessi dalla fede islamica, perché il
corano afferma chiaramente che chi uccide un innocente è come se uccidesse
tutta l’umanità: quindi è un peccato gravissimo.


El Moutaquakil:

Mi sono spaventata perché ho pensato: «Adesso gli americani si
vendicheranno e la loro vendetta sarà tremenda». Mi dispiace molto per
quelli che sono morti. Mi chiedo perché gli americani debbano puntare il
dito contro di noi, arabi, per quell’attentato. Io non credo che l’abbiano
fatto gli arabi, e nemmeno Bin Laden: se fosse stato lui, lo avrebbe
ammesso.

 


Come giudica i
bombardamenti e la guerra degli Stati Uniti in Afghanistan?

 Vida:
I
bombardamenti e la guerra non sono la risposta giusta, perché secondo me
Bin Laden non è in Afghanistan. Ma, anche se ci fosse, bombardare la
povera gente per abbattere un regime o per uccidere un terrorista non ha
senso… Noi siamo all’oscuro delle vere ragioni delle azioni militari in
corso.


Olabi:

Sono contraria ai
bombardamenti indiscriminati che coinvolgono la popolazione civile afghana.
Se fosse possibile una «estirpazione chirurgica» per combattere soltanto i
terroristi… ma questo purtroppo è molto difficile, se non impossibile.
Secondo me, bisogna puntare sulla prevenzione.


Chioua:

La reazione dell’America è molto esagerata. Ho paura che, così facendo, si
produca una spirale di violenza. Un proverbio arabo dice: il più forte è
colui che sa offrire il perdono.

Saafi: Sono
assolutamente contro questa guerra degli Usa, perché gli americani non
hanno alcun diritto di reagire così contro la popolazione afghana, se non
con l’autorizzazione della comunità internazionale.


El Moutaquakil:

Con i bombardamenti si semina solo altro odio. Non si può bombardare un
intero paese per catturare una singola persona; si bombarda per occupare
un paese. Speriamo solo che la guerra finisca in fretta e non rechi alla
popolazione afghana danni maggiori di quelli già fatti.

 


Alla luce della fede
islamica e del corano, come spiegare gli atti dei «kamikaze» suicidi
contro innocenti?

 Vida:
Gli atti
dei kamikaze si spiegano come una strumentalizzazione della religione. Chi
strumentalizza la religione interpreta il corano secondo la propria
convenienza. Quelle dei kamikaze sono azioni folli e, come ho già
affermato, puramente terroristiche.


Olabi:

Nel corano chi si suicida è un miscredente. Nell’islam la guerra è
bandita; è accettata solo per ragioni di difesa. Il termine jihad comporta
la diffusione della parola di Allah. Si incomincia con se stessi:
comprendere e accettare la Parola è un insegnamento di Muhammad, il
profeta; poi si va verso gli altri sotto la guida di un califfo. In caso
di guerra, è vietato attaccare civili innocenti e persone indifese. Non si
può tagliare neanche un ramo d’albero!


Chioua:

Il termine «guerra santa» non esiste e non è mai esistito nella religione
musulmana. Il corano prevede la convivenza pacifica fra i popoli. L’islam
è una religione di pace. Ma per ınteressi politici personali si
strumentalizza la religione: così facendo, però, si negano i principi
religiosi e ci si allontana da Dio. La religione islamica vieta il
suicidio.


Saafi:

Il suicidio è un
peccato assai grave, perché noi non siamo padroni della vita. È Dio che
decide quando bisogna morire. Ma, in caso di guerra dichiarata, un soldato
può sacrificare la propria vita per recare il maggior danno possibile al
nemico. Si offre la propria vita per difendere quella altrui; si sacrifica
l’esistenza per la patria.


El Moutaquakil:

Il corano è contro l’assassinio e il suicidio. Accetta il sacrificio della
vita solo quando si difende la propria terra; ma, anche in questo caso,
non si possono uccidere gli innocenti.

 

 I
cristiani in paesi islamici (Pakistan, Arabia Saudita, Indonesia, Sudan,
ecc.) affermano di subire forti pressioni, di non essere liberi di
professare il loro credo, mentre in Occidente tutti godono di libertà
religiosa. Lei che ne pensa?

 Vida:
Io non sono una credente, anche se vengo da una famiglia musulmana che
vive secondo le regole dell’islam. Sono stata sempre molto critica verso
tutte le religioni, soprattutto l’islam, perché ho visto come ha
trasformato il mio paese in una società che non mi piace; non mi piace
specialmente la condizione della donna. Per quanto riguarda la tolleranza
religiosa, tutto dipende dai vari paesi. Ci sono nazioni islamiche
tolleranti verso le altre religioni.


Olabi:

Io non credo che i
cristiani siano perseguitati nei paesi islamici. Nella mia città Aleppo
(Siria), per esempio, esiste una minoranza armeno-ortodossa, ci sono
cristiani ed ebrei che vivono benissimo con noi musulmani, professando la
loro religione senza paura di nessuno… Una volta il profeta Muhammad
ricevette una delegazione di cristiani dello Yemen; quando arrivò l’ora
della preghiera, permise loro di usare una moschea… Le pressioni o
persecuzioni religiose, di cui lei parla, possono succedere soltanto per
ignoranza.


Chioua:

La mancanza di
libertà religiosa non coinvolge tutti i paesi musulmani. La tolleranza
dipende da molte cose. Quando una persona è convinta della verità della
propria religione, non ha paura e non ha bisogno di convincere con la
forza gli altri. Nel mio paese, l’Algeria (come anche in Tunisia), prima
dell’ultimo regime, diversi gruppi religiosi vivevano in pace… Non è
vero che in Occidente si può credere ciò che si vuole, perché si è molto
condizionati. La libertà è apparente, non reale. L’Occidente impone la
propria civiltà ad altri, e questo è sbagliato. Si esige maggiore rispetto
per le culture diverse da quella occidentale. Talora anche il lavoro dei
missionari violenta il cammino naturale di una cultura con elementi
estranei, importati, che possono nuocere alla popolazione.


Saafi:

L’islam permette a tutte le religioni monoteiste di esprimere il loro
credo. I problemi esistenti fra cristiani e musulmani nei vari paesi sono
questioni politiche, non religiose, legate alle condizioni sociali ed
economiche locali. Non è vero che in Occidente c’è parità totale fra
cristiani e musulmani, perché i secondi non hanno gli stessi diritti.


El Moutaquakil:
Racconto
un aneddoto. Il profeta Muhammad aveva un vicino di casa, ebreo, che
continuava a buttare immondizie davanti alla porta dell’inviato di Allah.
Il profeta non disse mai niente, ma pazientemente puliva tutto. Un giorno
notò che non c’era più sporcizia, e neppure il giorno successivo. Allora
il profeta si chiese che cosa fosse successo e seppe che il vicino di casa
era ammalato. L’inviato di Allah andò a trovarlo. L’ebreo si vergognò di
fronte a tanta bontà del profeta e non buttò più immondizia davanti alla
casa.

 

 È
cambiato qualcosa nella sua vita dopo l’11 settembre?

 Vida:
No, non è
cambiato alcunché.


Olabi:

Per ora non è mutato nulla, ma, come molte persone, ho paura
dell’intolleranza religiosa. Io sono musulmana; vorrei costruire per i
miei figli (come lo vogliono anche le mamme cristiane) un futuro di pace e
amore fra i popoli.


Chioua:

No; però ho sentito parlare di reazioni vendicative contro i musulmani
dopo i fatti dell’11 settembre.


Saafi:

Sì, la mia vita è cambiata, perché ho notato un aumento di ostilità, ma
solo da alcune persone. La maggioranza della gente si comporta come prima.
Tutto però dipende da come va a finire questa guerra, se finisce in
fretta… perché i bombardamenti in Afghanistan non combattono il
terrorismo. Di fronte alle azioni sbagliate degli americani, il terrorismo
può aumentare. Sono stati gli Stati Uniti a creare Bin Laden.

Vorrei anche
spiegare che cosa vuol dire la parola jihad. Non vuol dire «guerra santa»,
che è un’invenzione puramente occidentale. Per i cristiani le «guerre
sante» erano le azioni militari contro i musulmani. Jihad letteralmente
vuol dire «sforzo». Il credente deve sforzarsi di combattere il male che
c’è in lui; poi deve sforzarsi di migliorare il proprio ambiente (in
famiglia) e, infine, essere pronto a difendere la sua patria e la
religione.

El Moutaquakil: No,
la mia vita non è cambiata; però mi dà fastidio sentir parlare male degli
arabi e della mia religione.

 

 

 



Sfogliando s’impara (1)

 «Arrivata a metà
del secondo mese di guerra, nel conflitto che fu dichiarato contro
l’Occidente l’11 settembre, la nazione (gli Stati Uniti) che porta il peso
maggiore e paga il prezzo più alto per combatterla in nome di noi tutti
comincia a porsi la domanda che in una democrazia inevitabilmente affiora:
stiamo vincendo? Stiamo combattendo questa guerra giusta nella maniera
giusta?».


Vittorio Zucconi su
«la Repubblica», 26 ottobre 2001

 



Sfogliando s’impara (2)

 «Gli attentati
dell’11 settembre sono la mostruosa carta da visita di un mondo divenuto
folle. Essa potrebbe essere stata scritta da Bin Laden e mandata al
destinatario dai suoi uomini, ma potrebbe anche essere stata firmata dai
fantasmi delle vittime delle guerre americane del passato. I milioni di
morti coreani, vietnamiti, cambogiani… I migliaia di palestinesi morti
combattendo l’occupazione israeliana della Cisgiordania… E quanti (la
lista non è certamente esaustiva) yugoslavi, somali, haitiani, cileni,
nicaraguensi, salvadoregni, dominicani, panamensi sono stati vittime

di terroristi,
dittatori e genocidi?…».


Arundhati Roy
(scrittrice indiana)


su «Jeune Afrique-L’intelligent»
(Francia), 16 ottobre 2001

 

 



Pakistan, incontro con alcuni profughi afghani


 I
TALEBANI HANNO PORTATO PACE E SICUREZZA?

 di
Paolo Moiola

 


Peshawar (frontiera
nord-ovest).

Stringo in mano un
bigliettino datomi da Munir, un ragazzo di Gilgit (*). «A Peshawar va’ a
trovare i miei familiari. Sono commercianti di tappeti», mi ha detto.
Sulla carta è scritto «Khyber bazar, Kamran market». Sembra facile, finché
non vedi il palazzo: ogni stanza è una bottega di tappeti e ogni venditore
vuole trascinarti a vedere la sua mercanzia. Farsi capire, inoltre, non è
impresa delle più facili.

Finalmente trovo la
porta dell’«Afghan Carpets House». Ogni lato della stanza è occupato da
alte pile di tappeti, che sono mercanzia e arredamento a un tempo.

Un uomo dalla folta
capigliatura nera e barba ben curata sta spostando alcuni tappeti; un
altro è seduto per terra intento nella lettura del corano, mentre in un
angolo due ragazzi e un uomo armeggiano con alcuni quadei.

Appena spiego di
essere lì su suggerimento di Munir, l’atteggiamento diventa molto
amichevole. Si fanno le presentazioni: Muhammad Hussain e Karamullah sono
fratelli e gestiscono il negozio del padre. Dall’angolo mi salutano anche
i due ragazzi e l’uomo che è con loro: «I nostri fratelli minori stanno
studiando l’inglese con un maestro».

Muhammad Hussain è
il fratello più vecchio. «La mia famiglia – racconta – lasciò
l’Afghanistan ai tempi del governo comunista. Ora viviamo in Pakistan
lavorando come commercianti. Al mio paese too una volta al mese per
comprare tappeti per i nostri negozi».

Per voi musulmani io
sono un “infedele”. Che significa? «Nella bibbia sta scritto che l’ultimo
profeta chiamerà la gente all’islam. Quelli che accetteranno l’invito
avranno successo nel mondo e dopo; quelli che non saranno musulmani
saranno messi all’inferno. Nel sacro corano Allah onnipotente dice: “Io
sono contento con l’islam come tua religione”. In un altro passo del libro
sacro Allah afferma: “Io ho completato la tua religione: essa è una
religione perfetta. È la migliore delle religioni. Una religione diversa
dall’islam non è accettabile”». Allora, obietto, gli islamici non possono
tollerare la presenza di religioni diverse dalla loro? «In accordo con
quanto scritto nel sacro corano, nessuna religione è accettabile al di
fuori dell’islam. Tuttavia, in Pakistan musulmani e cristiani vivono in
pace».

 

Karamullah è sposato
e ha due bambini. Non porta la barba, ma soltanto un paio di baffetti che
non dissimulano la giovane età. Il profugo afghano non nasconde la propria
simpatia per i talebani al potere a Kabul: «Questa gente ha portato la
sharia nel paese e con essa pace e sicurezza. Nelle province dei talebani
ogni persona si sente tranquilla, mentre nelle aree sotto il controllo di
Massud non c’è sicurezza».

I due giovani
studenti, ormai distratti dalla mia presenza, si avvicinano portando
bicchieri fumanti, colmi di un tè che riempie la stanza di profumi
speziati.

Tra un sorso e
l’altro, chiedo di spiegarmi la condizione delle donne nei paesi islamici.
«I diritti delle donne – dice Karamullah sforzandosi di trovare le parole
inglesi più adatte – non sono quelli che vengono esaltati nei paesi
occidentali. L’islam ha attribuito diritti sufficienti alle donne, perché
Allah misericordioso, creatore di tutti gli uomini, conosce bene ciò che è
giusto fare. La donna ha una grande dignità nella società islamica. I
figli crescono nelle braccia delle madri e ricevono molto amore. Tra le
mura di casa la donna agisce come un capo assoluto. Il marito invece
lavora all’esterno in condizioni diverse. Tutto ciò che guadagna lo porta
in famiglia. In molte società non musulmane le donne sono considerate come
animali da utilizzare per la felicità sessuale degli uomini. Il flagello
dell’Aids non è altro che un castigo divino per questi comportamenti».

Alle cinque in punto
Karamullah si interrompe e mi chiede qualche minuto di pausa. Prende il
suo personale tappetino, lo distende, si inginocchia e inizia il rituale
della preghiera. Terminato il suo dovere di buon musulmano, torna a
conversare con me.

Non ti sembra – gli
chiedo – che la sharia sia uno strumento disumano che rende la punizione
molto simile alla vendetta? «No, la sharia è giusta! Quando ad un ladro
viene tagliata una mano, non è solo una punizione, ma anche un esempio per
far comprendere agli altri che rubare è male». 

Obietto che il male
è anche altrove: per esempio, nella corsa alle armi nucleari intrapresa da
Pakistan e India. «I paesi poveri non costruirebbero armi distruttive, se
i paesi coloniali non li incoraggiassero».

Mi accorgo che il
tempo è volato: sono passate più di due ore dal mio arrivo nella bottega
di Hussain e Karamullah. Fuori, è sceso il buio e il grande bazar si è
quasi svuotato. Prima di andarmene, ci abbracciamo come vecchi amici. A
dispetto delle nostre grandi diversità.

 

(*)  Le vicende
raccontate in queste righe sono accadute durante un viaggio in Pakistan
effettuato nel maggio 1998.

Snezana Petrovic




Lo «Squilibrio della differenza»


 
Bush
e Bin Laden, globalizzazione, Genova e G8, Tobin Tax, Attac. La nota
studiosa franco-statunitense risponde con il piglio consueto, senza
infingimenti. Quest’intervista (rilasciata nell’ambito della «Scuola per
l’alternativa») è stata effettuata dopo l’11 settembre 2001, ma prima dei
bombardamenti anglo-statunitensi sull’Afghanistan.


 


Signora George, lei
vive da anni in Francia, ma è statunitense per nascita. Che pensa degli
attentati dell’11 settembre?

Non vorrei parlare
delle vittime, perché siamo tutti in lutto. Il nostro cuore è con loro.

 Ha
fiducia nel presidente George W. Bush?

Mah… Siamo in un
grosso pericolo. Ho paura che Bush vorrà fare il cow-boy e farà cadere il
mondo nella trappola del Far West.

Prima che accadesse
tutto questo, la maggior parte del popolo statunitense non avrebbe potuto
trovare l’Afghanistan e il Pakistan sulla mappa del mondo.

 Fino
all’11 settembre George W. Bush sembrava essere, agli occhi di tutti, uno
dei peggiori presidenti della storia statunitense. Dopo gli attentati, è
diventato una sorta di eroe…

È accaduta la stessa
cosa per il padre. Quando scoppiò la guerra del Golfo, il 90 per cento
degli americani era con George Bush senior. Oggi ciò avviene con il
figlio. Una delle migliori virtù del popolo americano è quella di «fare
corpo».


 Ma questo eroe è lo
stesso Bush che ha stracciato i trattati inteazionali sull’ambiente, sul
tribunale internazionale, sulle armi leggere…

 

La popolazione
statunitense non è informata sulla politica estera. I media sono in mano
di pochi gruppi, che non hanno interesse ad informare il pubblico
americano sulle cose del mondo. Quanto ai canali televisivi, quelli più
seguiti sono quelli che si occupano di questioni locali (la città, la
contea, lo stato).

Un esempio per
tutti: gran parte degli statunitensi crede che siano i palestinesi ad
occupare Israele e non il contrario.

 Chi
è Osama Bin Laden?

Probabilmente un
pazzo, uno psicotico, che vuole causare una guerra di civiltà. Vuole che
gli americani bombardino l’Afghanistan per provocare la reazione di tutto
il mondo islamico. I musulmani sono più di un miliardo di persone, in gran
parte miserabili, senza prospettive né speranze.

Bin Laden è stato
molto intelligente a sfruttare tutti i meccanismi oscuri che il
capitalismo ha costruito, a cominciare dai paradisi fiscali dove vengono
occultati i profitti. Ci sono prove certe che, prima degli attentati
dell’11 settembre, nelle borse mondiali ci sono state enormi operazioni
speculative. 

 Nel
presente momento storico chiunque osi criticare la politica degli Stati
Uniti viene insultato o censurato…

È un errore
confondere un popolo con il suo governo. Non concordare con le scelte di
Bush, non significa non essere solidali con il popolo americano.

La realtà ci dice
che gli Stati Uniti, da 34 anni, sostengono la politica di Israele. Non
voglio aggiungere parole sulle sofferenze del popolo palestinese; ma, se
c’è un luogo di ingiustizia nel mondo, credo che la Palestina ne sia la
quintessenza.

Ma il Medio Oriente
non è il solo punto oscuro della politica americana. C’è l’11 settembre
(guarda l’amara ironia del destino!) del 1973, quando gli americani (con
Kissinger in testa) (1) organizzarono e finanziarono il colpo di stato
contro il Cile di Salvador Allende. Ci sono altri popoli dell’America
Latina che hanno sofferto a causa degli Stati Uniti. Pensiamo al Nicaragua
dei sandinisti. C’è il Vietnam con milioni di vittime. C’è l’Iraq con le
bombe e un embargo che, secondo l’Unicef, ha ucciso circa mezzo milione di
bambini. Ci sono i bombardamenti americani sul Sudan e quelli alleati
sulla Serbia. 

Non voglio essere
fraintesa: io non cerco alcun tipo di giustificazione per gli attentati
terroristici. Ma vorrei soltanto mettere in chiaro che nel mondo c’è un
insopportabile «squilibrio della sofferenza».

 Cosa
intende per «squilibrio della sofferenza»?

Basta citare il dato
che ormai tutti conoscono: il 20% della popolazione mondiale detiene e
consuma l’80% delle ricchezze totali. Per quella metà del mondo che vive
con meno di 2 dollari al giorno le scelte sono obbligate: o una vita di
criminalità, droga, prostituzione, traffici vari o l’emigrazione.

Questo sistema,
organizzato da pochi per ricompensare il capitale e non il lavoro, non è
inevitabile. Perché la concezione neoliberista non è una legge fisica né
una legge divina. Oggi le diseguaglianze e le sofferenze sono andate
troppo avanti.

 Da
una parte il terrorismo, dall’altra un sistema economico insostenibile.
Che fare allora?

Per quanto mi
riguarda, ho elaborato un programma in tre punti, pur nella consapevolezza
che non avrà possibilità di essere attuato.

La prima cosa da
fare è risolvere il conflitto israelo-palestinese. Un tempo, quando si
eleggeva un papa, i cardinali si chiudevano in conclave e non uscivano
finché non avevano eletto una persona. Facciamo la stessa cosa con Arafat,
Sharon e gli Stati Uniti: che non escano senza aver sottoscritto la pace.
Dobbiamo eliminare una volta per tutte quel focolaio di malattia che è il
Medio Oriente.

La seconda cosa è
ridurre sensibilmente la dipendenza dal petrolio. In questo modo si
raggiungerebbero più obiettivi. Da una parte si darebbe una mano
importante alla preservazione dell’ambiente, dall’altra si ridurrebbe
l’enorme potere delle transnazionali petrolifere. Queste sono legate a
paesi (pensiamo all’Arabia Saudita o all’Iraq) e a gruppi societari (come
quelli conniventi con la famiglia Bush) di dubbia fama.

La terza ed ultima
cosa: cominciare a ridurre lo scarto osceno esistente tra Nord e Sud del
mondo dando un po’ di speranza alla gente. Sto pensando a una sorta di
«piano Marshall» (2) per tutto il mondo. La responsabilità politica
sarebbe dei singoli governi, ma questi dovrebbero accettare di far
partecipare alle decisioni i loro cittadini, sulla base di un modello come
quello adottato nella città brasiliana di Porto Alegre. Quel «bilancio
partecipativo» attraverso il quale i cittadini decidono come spendere una
parte dei soldi pubblici.

 D’accordo,
ma come finanziare questo programma Marshall?

Di certo non
possiamo contare su un aiuto pubblico come quello attuale. Gli Stati
Uniti, per esempio, danno allo sviluppo lo 0,09% del loro prodotto interno
lordo. Soltanto i paesi nordici (Svezia, Danimarca, Norvegia) si
avvicinano all’obiettivo dello 0,7%, fissato dalle Nazioni Unite (3).

Si dovrebbe
cominciare con la cancellazione del debito dei paesi poveri, che genera
sofferenze indicibili. E poi seguire le raccomandazioni di Attac (4)
tassando i capitali inteazionali attraverso il sistema Tobin o qualcosa
di similare.

 «Tobin
Tax»… Da tempo sulla stampa italiana si parla di questa particolare
tassazione. Soprattutto per dire che è impossibile da attuare. L’ultima
uscita in tal senso è quella di Giulio Tremonti, il ministro delle finanze
del governo Berlusconi. Che ci dice al riguardo?

Che l’Italia è in
ritardo su questa tematica. In Francia la discussione teorica è molto più
avanzata. Gli specialisti dicono che la tassazione sulle transazioni
finanziarie si può fare. Il problema vero è la volontà politica. Comunque,
il primo ministro Jospin, un tempo contrario, oggi sostiene la Tobin Tax e
vorrebbe vederla presto applicata nei paesi dell’Unione europea.

 Ma
pare che lo stesso professor Tobin abbia rigettato la sua idea…

No, non è proprio
così. Egli non ha ripudiato la sua idea. Ha soltanto rifiutato di essere
assimilato al movimento anti-globalizzazione, di cui non condivide la
filosofia.

D’altra parte, la
sua idea ha ormai 25 anni (risale al 1978) e occorre adattarla alle
circostanze attuali. Volendo, possiamo anche cambiarle nome…

 In
Italia, Silvio Berlusconi e i giornali della destra hanno messo in
relazione i «no-global», il «popolo di Seattle» con i terroristi. Lei che
ne pensa?

Prima vorrei fare
una precisazione. Io non amo le espressioni come «popolo di Seattle» o «no-global».
Già prima di Seattle c’era della gente che lavorava per dire e fare altre
cose. La prima protesta anti «G7» fu a Londra nel 1985.

Neppure il termine «no-global»
va bene. Non mi piace soprattutto perché non è vero: noi siamo contro
«questa» globalizzazione, cioè la globalizzazione neoliberista, ma a
favore della globalizzazione della solidarietà.

Detto questo, non
vale la pena di perdere tempo, per rispondere a simili menzogne. Il nostro
è un movimento pacifico.

 Ma
è probabile che la Genova del G8 sarà ricordata soltanto per le
violenze…

A Genova io ho visto
qualcosa di straordinario: centinaia di organizzazioni che si sono trovate
per parlare dei problemi del mondo e una, il Genoa Social Forum, che ha
lavorato per un anno per preparare i dibattiti. Nessuno avrebbe pensato di
portare in piazza 300 mila persone!

Poi, infiltrati
nazisti e della polizia hanno dato un alibi alle forze dell’ordine per
usare la violenza. Non dobbiamo mai dimenticare che lo stato ha il
monopolio della violenza legittima e, quindi, non possiamo confrontarci su
questo terreno.

Comunque, già prima
di Genova il movimento aveva ottenuto delle vittorie: ha bloccato
l’accordo multilaterale sugli investimenti (5), ha impedito all’Unione
europea di mercanteggiare sulla salute, l’educazione, la cultura, ha
frenato l’invasione degli organismi geneticamente modificati (Ogm). Se
queste sono vittorie, è altrettanto vero che non si sono modificate le
cose più importanti: la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale,
l’Organizzazione mondiale del commercio, le regole dei mercati finanziari.

 Quindi,
siamo soltanto all’inizio della lotta per un mondo diverso?

Se in questo momento
accettiamo di addormentarci, si darà alle tante forze che vogliono
uccidere questo movimento popolare la possibilità di rafforzarsi
enormemente.

No, non è proprio il
momento di essere passivi! Ora più che mai è necessario lottare per un
mondo migliore.

 Qual
è la filosofia di Attac?

Attac è nata in
Francia come movimento di educazione popolare all’insegna del motto «prima
capire, poi agire». Le domande da porsi sono queste: chi sono i
responsabili di un mondo siffatto? Come fermarli?

Le risposte ci sono.
Ora bisogna passare all’azione. Dobbiamo agire tutti insieme e non
ciascuno per proprio conto. Agricoltori, professori, ambientalisti,
sindacalisti: tutti siamo vittime dello stesso sistema.

 Che
ruolo possono avere le Nazioni Unite in questo difficile momento storico?

Se le Nazioni Unite
avessero un ruolo, sarebbe fantastico!

 Susan,
che pensa di Silvio Berlusconi?

Sono obbligata a
rispondere a questa domanda?

  

 Note
al testo:
 (1)
Sul ruolo dell’ex segretario di stato americano, si veda il duro atto
d’accusa contenuto nel libro di Christopher Hitchens «The Trial of Henry
Kissinger» (Versus, 2001).

(2)
Il
«piano Marshall» fu un programma di aiuti (1948-1952) che gli Stati Uniti
concessero all’Europa per agevolare la ripresa economica post-bellica.

(3)

L’obiettivo dello 0,7% risale alla fine degli anni ’60. Nel vertice di Rio
del 1992, i paesi sviluppati si erano addirittura impegnati a triplicarlo.

(4)
Nata
in Francia il 3 giugno 1998, l’«Associazione per la tassazione delle
transazioni finanziarie e l’aiuto ai cittadini» (Attac) si è diffusa in
tutta Europa, Italia compresa.

(5)
Le
regole previste nell’«Accordo multilaterale sugli investimenti» (Mai)
avrebbero di fatto limitato la sovranità nazionale dei singoli stati, a
discapito dei cittadini e dell’ambiente.

 

Susan George box

 


Chi
è? Susan George

 Susan George è nata
in Ohio (Stati Uniti), ma vive da tempo in Francia. Sposata, ha 3 figli e
4 nipoti. È direttrice associata del «Transnational Institute»
(www.tni.org) di Amsterdam e vice-presidente di Attac-Francia
(www.attac.org).

Esperta di sviluppo
e politica globale, consulente di varie organizzazioni (Greenpeace
Inteational, Unesco, Unicef), membro del Gruppo di Lisbona, Susan George
è autrice di numerosi libri tradotti in molte lingue: «Come muore l’altra
metà del mondo» (Feltrinelli, Milano 1978), «Storia della fame» (Clesav,
Milano 1984), «Il debito del Terzo Mondo» (Edizioni lavoro, Roma 1989),
«Il boomerang del debito» (Edizioni lavoro, Roma 1992), «Crediti senza
frontiere: la religione secolare della Banca mondiale» (Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1994), «Il rapporto Lugano» (Asterios Editore, Trieste
2000), «Remettre l’Omc à sa place» (Mille et Une Nuits, Parigi 2001).

Susan George è stata
intervistata da Roberto Bosio sulle tematiche della globalizzazione nel
libro «Verso l’alternativa» (Emi, Bologna 2001).

Paolo Moiola




Russia: la testimonianza di un missionario italiano. Chi sogna le cipolle del comunismo?

 

La metropoli di San Pietroburgo
consente anche di incontrare dei missionari: don Pietro Scalini, per esempio. Aspri gli
scogli religioso-ecumenici. Lo sa pure Giovanni Paolo II, che ha cercato di dialogare con
i leader cristiano-ortodossi di un ex paese sovietico: Ucraina (23-27 giugno). Acute e
complesse sono soprattutto le difficoltà politico-sociali. Emerge costante la domanda:
perché la Russia, fino a ieri superpotenza, oggi annaspa nella povertà? Mentre la
libertà…

 

A San Pietroburgo
  si parla anche…italiano

San Pietroburgo. Alloggiamo davanti al "monumento della
liberazione": un complesso mastodontico, non bello, enfaticamente nazionalista, che
tuttavia rimanda ad una tragedia immane: l’assedio della città da parte
dell’esercito nazista dall’8 settembre 1941 al 27 gennaio 1945. Nei 900 giorni
di accerchiamento morirono di fame e stenti 470 mila civili. Si dice che rappresenti il
"record mondiale" degli assedi. Una vergogna…

Un italiano a San Pietroburgo si trova quasi a casa. Idioma a parte
(ostico anche per i caratteri cirillici), numerosi e splendidi palazzi "parlano
italiano". Sono le opere degli architetti Domenico Trezzini (1670-1734), Francesco
Rastrelli (1700-1771), Giacomo Quarenghi (1744-1817), nonché Carlo Rossi (1775-1849). Lo
zar Pietro il Grande e la zarina Caterina II erano innamorati di questi artisti, quasi
sconosciuti in Italia, ma celebri in Russia. E non furono gli unici.

C’è poi l’Ermitage, il museo mozzafiato in cinque vasti e
sontuosi padiglioni, di fama mondiale anche per i dipinti di Leonardo e Tiziano o le
sculture di Michelangelo e Canova. Per non parlare dei capolavori di Simone Martini,
Filippo e Filippino Lippi, Giorgione. San Pietroburgo è l’"Atene russa"
anche per la letteratura: si pensi a Puskin, Tolstoj, Dostoevskij, Gogol. Capitale della
cultura, dunque. E capitale della politica per oltre 300 anni, fino alla rivoluzione di
ottobre del 1917, allorché fu rimpiazzata da Mosca. L’ex capitale si chiamò
"Leningrado", in onore del padre della rivoluzione comunista. Ma nel 1991, con
lo sfascio dell’Unione Sovietica, ritoò ad essere San Pietroburgo…

È il 27 maggio. La metropoli festeggia il suo compleanno (è nata nel
1703 da Pietro I) con rievocazioni in costume e spettacoli di prosa e musica. Ma piove
quest’anno a San Pietroburgo, tra raffiche gelide di vento e persino qualche spruzzo
di nevischio. Il termometro segna 2 gradi, mentre in Italia scavalca i 30. Verso sera
bussiamo alla porta di Pietro Scalini, un giovane prete della diocesi di Cesena, da
quattro anni missionario fidei donum in Russia. Attraverso corridoi polverosi, scale
dissestate e portici scrostati, tra sacchi di cemento, mattoni, piastrelle, carriole,
secchi e cazzuole, il missionario ci introduce nell’unico locale in grado di offrire
un po’ di accoglienza. È una modesta chiesetta.

 

Da atei a seminaristi

San Pietroburgo, nella giurisdizione ecclesiastica cattolica, fa parte
della diocesi di Mosca: non perché la metropoli non ne meriti il titolo, ma perché i
cattolici sono "mosche bianche". Tuttavia anche a Mosca si contano quasi sulle
dita. "L’intera Russia, che comprende territori europei e asiatici (cioè la
sterminata Siberia, fino a Vladivostock e al Mare di Bering), è divisa in appena quattro
diocesi, con altrettanti vescovi, proprio perché i cattolici sono scarsissimi: in media
lo 0,3, su 150 milioni di abitanti". È don Pietro che spiega, dall’altare della
cappella, e prosegue: "Questo è il seminario cattolico; vi si preparano a diventare
sacerdoti giovani di tutta la nazione. Inoltre ci sono ragazzi della Georgia, della
Moldavia e del Kazakistan. Complessivamente 44 seminaristi, che studiano filosofia e
teologia. I futuri preti saranno di rito latino".

Il seminario di San Pietroburgo riaprì (timidamente) i battenti nel
1993, dopo il lento disgelo religioso avviato nel 1991. Ma era operante già nel 1850. Nel
1918 fu requisito dallo stato, subito dopo l’avvento dei bolscevichi. Al primo piano
si installò una banca con vari uffici. Nei locali adiacenti si montavano motori o si
costruivano pezzi di ricambio… Al presente resistono una officina meccanica e
un’azienda che fa esperimenti chimici. "Dal seminario, riaperto, partiranno i
nuovi annunciatori del vangelo nell’ex impero sovietico, esclusa Bielorussia e
Ucraina". Ma con gravi difficoltà. "Entrando nel seminario – continua don
Pietro – avete notato il disordine: polvere e calcinacci ovunque. Stiamo ristrutturando il
complesso, incamerato a suo tempo e ora restituito (dietro nostra richiesta) in pessime
condizioni. Nel 1993 la prima sede del seminario furono dei containers, piazzati sul
sagrato della chiesa dell’Immacolata".

Fino al 1917 a San Pietroburgo operavano 18 chiese cattoliche, di cui
10 parrocchiali. Ora se ne contano cinque, tutte malandate: quindi in ristrutturazione.
Durante l’era sovietica nella Russia europea rimasero aperte soltanto due chiese
cattoliche (la "Madonna di Lourdes" a San Pietroburgo e la "San Luigi"
a Mosca), solo perché sotto la protezione dell’ambasciata di Francia. Quanto ai
sacerdoti, se esistevano, erano pochissimi e clandestini; per cui quasi nessuno sapeva di
loro.

I 44 seminaristi di San Pietroburgo sono in maggioranza adulti di 25
-30 anni, con una minoranza sui 20 anni. È interessante la storia della loro vocazione,
che dipende dall’incontro con un prete, dall’entrata casuale in una chiesa, dal
fascino della liturgia. Pochi sono cresciuti in una famiglia credente, ma senza ricevere
il battesimo; altri sono stati battezzati secondo il rito ortodosso. Molti provengono da
un ambiente ateo. "Ma il buon Dio – commenta don Pietro – ha voluto che incontrassero
ugualmente la chiesa".

 

Proselitismo, ricchezza,
missione

Don Pietro, la chiesa cattolica in Russia è un’esigua
minoranza. Eppure è molto temuta dai cristiani ortodossi per un presunto proselitismo.
Voi, come vi sentite di fronte a tale accusa? È rimbalzata anche in Italia con vasta eco.

"L’accusa non coglie per niente la realtà. San Pietroburgo,
ad esempio, conta 5 milioni di abitanti, di cui 2.500-3.000 cattolici. Che proselitismo
può fare tale infimo gruppo?".

Chi sono gli accusatori?

"L’accusa è dell’alta gerarchia ortodossa. Però la
gente non vede nei cattolici un pericolo, anzi! Noi abbiamo molti amici ortodossi anche
fra i preti; qualche sacerdote insegna persino nel nostro seminario. Ripeto: i russi,
nella grande maggioranza, non ci sono ostili, anche perché non sanno chi sia Gesù
Cristo, né cosa sia la chiesa cattolica".

In Russia, parlando di chiesa, si intende quella ortodossa. Perché?

"Perché, se sei cristiano, devi per forza appartenere alla chiesa
ortodossa. C’è una identificazione etnica tra la nazionalità russa e
l’appartenenza alla religione ortodossa. Così si perde di vista la missione
universale della chiesa. E (fatto non meno grave) la gente resta priva di punti di
riferimento: non sa quale sia il senso della vita. In compenso, si offre una predicazione
moralistica, avulsa dalla realtà. La chiesa ortodossa, invece di accusare quella
cattolica di proselitismo, dovrebbe aiutare la popolazione ad incontrare Cristo salvatore.
Qualche prete cattolico può anche avere una mentalità di occupazione. Ma non è la
regola".

Si dice che le gerarchie ortodosse temano i cattolici, perché
dispongono di notevoli mezzi economici. È vero che siete ricchi?

"Disponiamo dei mezzi che ci offrono. E lei ha l’esempio del
nostro seminario. Abbiamo anche mezzi, perché i giovani arrivano qui senza un rublo e
ricevono tutto, dalle scarpe al cibo, dai libri ai vestiti. Per la ristrutturazione del
seminario, facciamo dei progetti, che vengono finanziati dalle organizzazioni Renovabis, Aiuto
alla chiesa che soffre,
ecc. Ma dire che siamo ricchi…

Quasi tutti i parroci cattolici in Russia sono polacchi, assai modesti
economicamente. Io posso contare sul "sostentamento del clero" in vigore in
Italia, ho degli amici che mi aiutano. I polacchi, invece, si mantengono recandosi
d’estate in patria: sostituiscono qualche prete in vacanza e, così, raccolgono i
soldi per vivere, ricostruire la chiesa, la canonica o la casa delle suore.

Ho in mente don Celestino, parroco a Kharovsk. Due anni fa ha avuto
l’incarico di recarsi in questa cittadina, a circa 350 chilometri da San Pietroburgo:
non avendo un’abitazione, ha dormito per un mese in stazione. Durante il giorno,
indossata la veste e la croce, girava lungo le strade per far vedere che esisteva un prete
cattolico. A poco a poco ha conosciuto qualche fedele. Oggi, di sabato, affitta una chiesa
ortodossa per cinque ore e vi celebra la messa, fa catechismo o l’unzione degli
infermi. Non è certamente ricco.

Chi invece ha parecchi denari sono i Testimoni di Geova: organizzano
incontri negli stadi e a chi entra danno un dollaro, che è abbastanza in Russia. Questo
sì che è proselitismo!".

Un’altra accusa che gli ortodossi rivolgono ai cattolici è:
"Voi in occidente siete tutti materialisti, avete perso la fede, mentre noi
l’abbiamo conservata!".

"Se l’occidente ha perso la fede, la Russia è sulla stessa
barca, o peggio. L’amoralità è a livelli altissimi: l’assenza della famiglia,
per esempio, fa paura. Molti nostri seminaristi non hanno il papà: o perché è stato
cacciato dalla mamma (essendo sempre ubriaco), o perché la madre stessa vive con un altro
uomo. Per una donna russa l’importante è avere figli; con chi, è secondario".

Se per le gerarchie ortodosse voi, cattolici, siete come il fumo
negli occhi, come venite giudicati dall’autorità politica?

"Molto dipende dai rapporti personali che si instaurano. Noi
stranieri, ad esempio, incominciamo ad avere difficoltà per il visto, cioè il permesso
di soggiorno; soprattutto i preti polacchi hanno grossi problemi. Le parrocchie possono
invitare qualche sacerdote, ma solo per "affari religiosi"; il visto viene
rilasciato per tre mesi, alla scadenza dei quali bisogna lasciare il paese; poi magari si
ritorna, se il visto è rinnovato. La situazione, però, sta diventando psicologicamente
pesante, oltre che costosa. Io, come insegnante, sono più fortunato, perché il mio visto
dura un anno. Ma il mio telefono è sotto controllo".

Don Pietro, prescindendo dal suo lavoro in seminario, che significa
essere missionario in Russia?

"Essere presente, servire, testimoniare la fede in Gesù Cristo
quasi in un… deserto. Quest’anno la pasqua è stata celebrata da tutti nella stessa
data. A Mosca, fra ortodossi, cattolici e protestanti, ha fatto il 4% della popolazione.
Davvero poche gocce in un oceano".

Giovanni Paolo II, il provocatore

Il 23-27 giugno (pochi giorni dopo il nostro viaggio) Giovanni Paolo II
era in Ucraina. Il pellegrinaggio è stato duramente criticato sia dalle gerarchie
ortodosse ucraine sia da quelle russe. Pomo della discordia, anche gli "uniati"
(termine dispregiativo) o "uniti". Si tratta dei cristiani dell’Ucraina
(separatisi dal pontefice di Roma con lo scisma del 1054), la cui gerarchia nel 1595, a
Brest-Litovsk, decise di ritornare alla comunione con il papa, conservando però la
liturgia orientale e l’identità etnica e culturale. Ma non tutti aderirono
all’"unione". E tuttora, fra "uniti" e "non uniti"
permangono aspri contrasti. Inoltre, per la gerarchia ortodossa di Mosca, gli
"uniti" sono dei traditori e rinnegati. D’altro canto, sono stati pure un
po’ emarginati dalla gerarchia cattolica di rito latino, perché non sarebbero né
carne né pesce. Giovanni Paolo II è andato in Ucraina per porgere a tutti la mano di
padre e fratello. Però in Russia la gerarchia ortodossa ha ritenuto la visita una
provocazione e ha minacciato di rompere ogni dialogo ecumenico. Ancora una volta, il
problema investe i gerarchi, non l’uomo della strada. In vista del pellegrinaggio del
papa in Ucraina, si è svolto a Mosca un incontro tra ortodossi, cattolici e protestanti.
Durante il dibattito un giovane ha dichiarato: "Io sono fedele alla chiesa ortodossa
e al patriarcato di Mosca. Tuttavia al rappresentante della mia comunità domando: circa
la visita del papa, mi è lecito pensarla diversamente dal patriarca?". Un silenzio
tombale è calato sull’assemblea. Muto e imbarazzato è apparso, soprattutto, il
rappresentante del patriarca di Mosca. "Nonostante le difficoltà in corso – commenta
don Pietro -, io nutro speranza, a patto che i leader cristiani superino le gelosie, non
cerchino il privilegio, bensì vengano incontro alle vere esigenze della popolazione, che
è disponibile ad un messaggio nuovo. Tuttavia, dopo oltre 70 anni di propaganda
materialista, gli individui sono distrutti nell’anima. Quasi tutti sono cresciuti con
il ritornello "Dio è un nemico". Anche in famiglia erano sottoposti a severi
controlli. E questo non è facile da dimenticare. Lo si può fare con il vangelo di
Cristo, e non solo con le prescrizioni e i riti (pur affascinanti) degli ortodossi".

Neppure l’oro conta

Un breve soggiorno in Russia è sufficiente per sollevare un quesito
cruciale: perché la nazione, fino al 1991 superpotenza militare, politica e tecnologica
(in grado di lanciare il primo uomo nello spazio) oggi è povera? "Probabilmente già
nel 1991 la Russia era allo sfascio – risponde un po’ titubante don Pietro -. Inoltre
il cambiamento è avvenuto troppo in fretta: ha abbattuto tutto, senza costruire nulla.
Ecco perché la gente non stima Gorbaciov. Fino al 1991 l’economia era organizzata…
e molti d’estate potevano prendere l’aereo e trascorrere le vacanze sul Mar
Nero, perché costava poco. Lo stato garantiva l’indispensabile: un tipo di
salsiccia, un tipo di farina, e ognuno riceveva la sua parte, pur facendo pazientemente
lunghe code davanti ai negozi.

Di colpo ogni cosa muta, per una decisione presa a tavolino. Lo scontro
di mercato trova tutti impreparati… Nell’agosto 1998 la svalutazione del rublo è
pazzesca: dalla sera alla mattina si bloccano tutti i conti in banca, impedendo alla gente
di ritirare i propri soldi. E se uno ieri aveva i denari per comprarsi un alloggio, oggi
la stessa somma basta solo per un salame. Subito la mafia entra nell’economia: dilaga
la grande criminalità, mentre ad alto livello imperversa la corruzione… In seminario
abbiamo un ragazzo siberiano; nel suo paese gli stipendi si pagano tuttora in oro; ma non
se ne fa nulla, perché non è commerciabile…".

Oggi in Russia le strutture produttive sono in coma. La gente continua
a lavorare, ma spesso senza stipendio. "A San Pietroburgo un docente universitario di
fisica, dopo l’insegnamento, non ricevendo più alcun salario, raccoglie bottiglie
vuote di birra sui marciapiedi; le vende e ricava qualche rublo". In tale situazione,
c’è rimpianto per il comunismo? "Forse sì, specie fra i giovani – mormora
sottovoce il nostro interlocutore -, anche se non per quello di Stalin o Breznev…".
Intanto fra gli oligarchi le lotte di potere sono tante e spietate. Quanto a libertà, lo
"zar" Putin oggi chiude un giornale, domani una televisione e dopodomani… La
scusa è: non ci sono soldi. Ma la libertà è denaro?

Ci congediamo da don Pietro. Sono le 22.30, ed è ancora crepuscolo a
San Pietroburgo, perché è prossimo il fenomeno delle "notti bianche",
allorché il sole quasi non tramonta, ma si adagia un po’ sotto l’orizzonte.

Per ritornare al "monumento della liberazione", prendiamo la
metropolitana. Sulle lunghe, ripide e velocissime scale mobili non mancano ragazzi e
ragazze con bottiglie di birra. All’uscita, forse, abbandoneranno i vuoti sul
marciapiede, che saranno raccattati dal professore di fisica al verde.

Rimpiangono anch’essi il comunismo? Come gli ebrei nel deserto
che, stanchi della fatica di essere liberi, sognavano le cipolle e l’aglio della
schiavitù in Egitto? (cfr. Num 11, 5).

 

(*) L’articolista è in Russia con l’associazione "Amici
Missioni Consolata" di Torino e la guida Delfina Boero (della fondazione "Russia
Cristiana").

 

Il "Va’ pensiero" per Maria

Il "Museo etnografico" di San Pietroburgo raccoglie alcuni
reperti sui popoli dell’ex Unione Sovietica. Si tratta, soprattutto, di reperti
attinenti alla vita tradizionale nei villaggi: strumenti agricoli, reti per la pesca,
arredi di casa, borracce, candelieri ed anche altarini domestici ortodossi, con
l’immancabile icona di un santo o della Madre di Dio, oati di drappi ricamati e
multicolori. Il museo fu allestito in epoca sovietica.

Al termine della visita, ci si imbatte in una gigantografia stilizzata,
che raccoglie in forma circolare (quasi attorno ad una mensa) tutti i rappresentanti delle
varie popolazioni. È evidente la propaganda della presunta armonia fra le 15 nazioni che
costituivano l’impero sovietico. Un ideale smentito dalla realtà.

Un tardo pomeriggio entriamo nel "Museo etnografico" in
gruppo, costituito dagli "Amici Missioni Consolata", guidato da Delfina Boero.
Il tempo a disposizione non è molto, perché la chiusura è prossima. In compenso, non
c’è ressa e la visita è più tranquilla. Tra i sorveglianti del museo, una signora
ci avvicina: si chiama Maria. Ha intuito che siamo italiani e, avvalendosi della nostra
interprete, non lesina apprezzamenti per il patrimonio artistico italiano. Maria è sulla
sessantina e veste in modo dimesso. Interrogata, accetta di rispondere a qualche domanda.
È di San Pietroburgo e ricorda benissimo l’assedio della città da parte dei
tedeschi durante il secondo conflitto mondiale, avendo allora 16 anni. "Sono stati
mesi e anni terribili – dichiara -. Noi pietroburghesi resistevamo al nemico con tutte le
nostre forze, sopportando i bombardamenti, la fame e il freddo. Voi non potete immaginare
cosa sia l’inverno nelle case russe, senza riscaldamento, specialmente in tempo di
guerra. Ho visto anche morire mio padre e un fratello minore". Lo sguardo di Maria è
dolce, ma un po’ inquieto, e il tono della voce pacato ed affannato ad un tempo.

"Signora Maria, com’è la vita oggi in Russia?".
"Economicamente stavamo meglio ieri" risponde guardandosi intorno, dopo un
istante d’imbarazzo.

"Dobryj vjecir, udaci! (buona sera e buona fortuna!)" la
salutiamo con un sorriso, ostentando il nostro russo striminzito. Stiamo per allontanarci.
Ma Maria prende la mano di Delfina, la trattiene e dice: "Stasera, dopo il lavoro,
andrò ad un concerto. Amo la musica classica, compresa quella italiana. Per piacere,
cantatemi "Va’ pensiero" di Verdi!". L’attacco del famoso pezzo
del Nabucco è molto artigianale, perché nessuno di noi è un Pavarotti. E (sorpresa!),
all’acuto "arpa d’or dei fatidici vati", si intromette con forza una
donna, più giovane di Maria e certamente con maggiore potere. Con accenti sibilanti
apostrofa la collega: "Ma sei impazzita? Non sai quello che ti può succedere?".

Sul volto spettrale di Maria scorrono le lacrime.

Quel "volto spettrale" ci ha riportati all’impietoso
sistema di intimidazione psicologica in vigore nell’Unione Sovietica, magistralmente
analizzato dallo scrittore Solzenicyn, che annientava la persona prima ancora di finire in
un gulag. Chi sospettava il proprio arresto viveva per settimane e settimane
nell’incubo; ne era così stremato che, quando finalmente scattava l’ora del
prelievo, "il sentimento dominante era il sollievo e addirittura… la gioia!"
(1).

Anche se il peggio doveva ancora venire.

F.   B.

 

1) Aleksandr Solzenicyn, Arcipelago Gulag, vol. I, Mondadori,
Milano 1978, p. 30. Il "maiuscolo" è dell’autore russo.

Francesco Beardi




YOKKOK (COREA DEL SUD): contesti e sfide in evoluzione DI SOGNO IN SOGNO

Iniziato 13 anni fa, il "sogno coreano" dei missionari
della Consolata è diventato realtà consolidata. I 10 missionari che vi lavorano ne hanno
tracciato un’analisi delle situazioni culturali, sociali ed ecclesiali, raccogliendo
le sfide che tali contesti pongono al loro carisma ad gentes.

 

Chiusa all’influenza occidentale fino al secolo XVII, la Corea è
stata definita "stato eremita". Anche se, risalendo alle origini, si trovano
migrazioni di cinesi, mongoli e giapponesi, il popolo coreano ha conservato storicamente
una profonda omogeneità e identità culturale, tanto da incontrare difficoltà
nell’accettare ciò che è diverso.

Molte cose, però, sono cambiate negli ultimi decenni. Dopo
l’umiliante esperienza dell’invasione giapponese (1910-1945), il paese è stato
spaccato dalla divisione ideologica tra il Nord (comunista) e il Sud (filo occidentale),
fino a sfociare in guerra aperta (1950-1953). L’armistizio ha fermato le armi, ma non
si è ancora firmato un trattato di pace. Mentre il Nord è ancora fermo alla situazione
di stallo di mezzo secolo fa, la Corea del Sud, dove lavorano i missionari della
Consolata, ha conosciuto una profonda e veloce evoluzione in ogni settore della vita del
paese, con conseguenze difficili da comprendere e valutare.

 

DAL CAMPO ALLA CITTÁ

Con oltre 46 milioni di abitanti, su una superficie di 99 mila kmq
(meno di un terzo dell’Italia), la Corea del Sud è uno dei paesi del mondo con la
più alta densità di popolazione, per lo più concentrata nelle città. Il fenomeno si è
evoluto negli ultimi quattro decenni: nel 1960 viveva in città il 28% della popolazione;
nel ’95 è passata al 79%. Seoul, la capitale, conta 10 milioni di abitanti, quasi un
quarto della popolazione totale. Eminentemente agricola, la società coreana è diventata
urbana e industriale: ciò ha provocato profondi cambiamenti culturali, pur rimanendo vivo
il riferimento alle tradizioni millenarie. Dinamico per natura, sotto la spinta ossessiva
della competitività, efficienza, consumismo, scalata a uno stato sociale più alto, il
popolo coreano è alle prese con un ritmo di vita che causa preoccupazione e angoscia e ne
trasforma profondamente l’anima e l’identità religiosa. Non c’è più
tempo né libertà per cercare la pace, l’armonia, la vita interiore. D’altra
parte, rimangono nella gente il riferimento alle forti tradizioni e, nei gruppi religiosi,
la coscienza e il desiderio di dare una risposta alle nuove problematiche. L’anima
coreana è ancora intrisa e sostenuta da una religiosità tradizionale, soprattutto dallo
sciamanismo.

Immersi tutti i giorni nel mondo della tecnologia, molti coreani
frequentano i riti sciamani per trovare una risposta immediata ai propri quesiti. Buddismo
e confucianesimo hanno ancora molto peso nelle relazioni familiari e sociali. Sètte,
movimenti religiosi e mercati spirituali che offrono facili risposte sono onnipresenti.

 

FAMIGLIA CHE CAMBIA

Il passaggio dall’organizzazione contadina a quella della
mentalità industriale e tecnologica ha scardinato il sistema della famiglia tradizionale:
il numero dei membri è ridotto, con uno o due figli per coppia; le famiglie sono
massificate e concentrate in condomini-alveari; i ritmi di lavoro prolungano
l’assenza dei genitori; spesso il padre è presente solo la domenica. Tutto ciò ha
effetti deleteri sulle relazioni familiari e crea problemi di solitudine e
incomunicabilità tra genitori e figli. Eppure la famiglia rimane il peo della società
coreana. La struttura familiare è basata sui valori confuciani: senso dell’autorità
e gerarchia, disciplina e pietà filiale, corresponsabilità, sacrificio per gli altri e
ricerca del benessere della famiglia-gruppo-nazione. Tale struttura continua ad orientare
con forza la condotta degli individui. Il senso di dipendenza dalla famiglia è molto
vivo: il distacco da essa è sempre difficile e doloroso. Il popolo coreano ha un forte
senso di gruppo, aggregazione, organizzazione e distribuzione dei ruoli. È parte
dell’identità nazionale. "Il nostro" è mentalità comune ed è stata la
forza motrice per lo sviluppo della società. La persona dipende dal gruppo; è debitrice
verso i "suoi", siano essi amici, azienda, nazione. Lo stare insieme, però, non
si traduce più in profondità di comunicazione.

 

GIOVANI D’OGGI

Le nuove generazioni coreane, uomini e donne, hanno raggiunto un ottimo
livello di educazione. Ma il sistema scolastico tradizionale, rigido nella disciplina e
tendente alla massificazione e "militarismo", caratterizzato dall’uso della
violenza come mezzo di disciplina, comincia a essere largamente contestato e denunciato
dagli ambienti didattici e dagli stessi giovani. Anche il governo, da parte sua, ha
annunciato piani di ristrutturazione del sistema educativo, per renderlo più rispondente
al processo di apertura, globalizzazione e inteazionalizzazione della Corea.

I giovani coreani sono al tempo stesso eredi delle tradizioni e
protagonisti delle trasformazioni in corso. I programmi televisivi loro destinati sembrano
procedere su due culture parallele: in superficie i giovani sembrano uguali ai loro
coetanei occidentali (moda, balli, divertimenti, uso di bevande alcoliche); generalmente,
però (ed è la seconda cultura), non consumano droghe, non hanno esperienze sessuali
precoci; rispettano autorità e disciplina, non fanno grandi domande; mancano di spiccato
spirito critico e sono facilmente influenzabili. L’80% dei giovani frequenta
l’università e fino all’ultimo anno della scuola secondaria essi hanno un ritmo
di vita impressionante. Il loro orizzonte è racchiuso in tre verbi: studiare, avere un
buon lavoro, sposarsi. La famiglia fa l’impossibile perché il figlio abbia la
migliore educazione possibile: l’ammissione a una università rinomata è una
garanzia per il futuro, anche se al termine degli studi non è sempre facile avere
un’occupazione immediata; ciò acuisce la competitività. La maggioranza si sposa tra
i 25 e 35 anni.

Allegri e responsabili, immersi nel mondo della tecnologia e internet,
i figli della nuova Corea, aperta al mondo, sono più disponibili della generazione
precedente a imparare nuove lingue e andare all’estero. Ma conservano un grande senso
di appartenenza alla propria terra, popolo e cultura. Si riscontra in loro un forte senso
di "coreanità" e nazionalismo, anche se non hanno la stessa intensità delle
generazioni che, negli ultimi 30 anni, hanno sacrificato la propria vita lavorando per la
patria.

 

POVERI COREANI

Per promuovere lo sviluppo del paese, nel passato il governo coreano
favorì l’affermarsi di grandi gruppi finanziari e industriali; le masse contadine in
cerca di lavoro hanno fatto pullulare grandi agglomerati urbani con sacche di povertà
più o meno grandi, ma evidenti. La dittatura ha instaurato un clima di sospetto,
soprattutto a causa della fobia della Corea del Nord, e spinto la gente a
un’obbedienza cieca ai capi politici. Ancora oggi sono in vigore le leggi di
sicurezza nazionale, la pena di morte e molti prigionieri politici sono in carcere. In
fatto di giustizia, diritti umani e pacificazione la Corea ha ancora tanta strada da
percorrere. La chiesa cattolica ha giocato un ruolo determinante nei movimenti per
l’affermazione della democrazia (1987); impegno premiato dalla crescita di
conversioni e rispetto agli occhi della popolazione. Con la democrazia sono apparsi anche
molti gruppi impegnati nel sociale.

Per le olimpiadi del 1988 lo stato ha rimodellato le zone povere delle
città, specie quelle vicine alle sedi delle gare, adottando criteri occidentali
nell’organizzazione e architettura, senza tenere conto della situazione e del futuro
della gente. In tale contesto è pure iniziata l’immigrazione di filippini, cinesi,
indiani, impiegati nei lavori più umili. E il fenomeno continua: molti stranieri entrano
nel paese clandestinamente in cerca di lavoro. Il miracolo economico ha ravvivato
l’orgoglio nazionale, finché la crisi del 1997 cominciò a provocare licenziamenti e
disoccupazione, aumentando il numero dei poveri. Le riforme economiche e la demolizione
dei quartieri più degradati non sono riuscite a nascondere la povertà. Spesso i
senza-tetto assistono impotenti alla distruzione delle loro casupole; i più fortunati
usufruiscono degli appartamenti sociali o vivono nei sottoterra degli edifici-alveari.

In città i poveri si notano meno, ma il loro numero è in continuo
aumento; si prevede che in futuro, quando le due Coree saranno riunificate, il fenomeno
sarà aggravato da un probabile flusso di nordcoreani che verranno nel sud per occupare i
posti di lavoro più umili e malpagati.

 

PLURALISMO RELIGIOSO

La cultura e le strutture sociali coreane sarebbero incomprensibili
senza le loro tradizioni religiose millenarie. Alla base c’è lo sciamanismo, sul
quale si sono innestate altre religioni, come buddismo (IV secolo) e confucianesimo (XII
secolo). Il cristianesimo ha iniziato la sua presenza circa 200 anni fa con la chiesa
cattolica e i protestanti, arrivati 100 anni dopo. Tra il XIX e XX secolo sono nate altre
religioni, come ch’ondokyo e buddismo won, caratterizzate da forte spirito
nazionalista e sincretismo. Da alcuni anni si stanno affermando vari movimenti religiosi,
ispirati a taoismo e new age, integrati a elementi della religione popolare coreana.

Il contesto religioso coreano è caratterizzato da un grande
pluralismo. In tutte le religioni l’opera di proselitismo è molto forte, specie tra
i protestanti. Di regola c’è armonia fra le diverse religioni, che coesistono
pacificamente nella stessa famiglia o gruppo sociale. Negli ultimi anni, però, si sono
verificati alcuni incidenti, provocati soprattutto da fondamentalisti protestanti e
sfociati in incendi di templi e distruzioni di statue di Budda e Tangum.

A livello gerarchico esiste una buona collaborazione tra i leaders nel
campo del dialogo interreligioso e nella ricerca di risposte comuni ai diversi problemi
sociali. Tra i fedeli, invece, mancano contatti e conoscenza reciproca; ognuno tende a
chiudersi nel proprio gruppo. Benché il popolo coreano sia profondamente religioso,
normalmente non si sente parlare di religione in pubblico. Anzi, metà della popolazione
si dichiara senza religione, specie i giovani. Ciò non significa che i coreani siano
"atei" o totalmente secolarizzati, ma che non appartengono ad alcuna tradizione
religiosa organizzata. Quasi tutti i coreani compiono periodicamente qualche pra- tica
religiosa e, quando sorgono problemi o difficoltà, sperano di ricevere aiuto dal cielo o
dagli antenati. Nella mentalità religiosa coreana, infatti, vita presente e aldilà sono
strettamente legati, senza netta separazione. Per cui c’è una influenza mutua fra
vivi e antenati, i quali hanno un ruolo fondamentale nella vita dei viventi, soprattutto
nelle relazioni familiari.

Nella forma di vita coreana esiste una specie di dualismo: da una parte
la corsa permanente verso il materialismo e consumismo; dall’altra
l’inquietudine interiore, tesa alla ricerca di qualcosa di più profondo e
spirituale, della "pace del cuore" soprattutto. Per raggiungerla il coreano non
si fa scrupolo di prendere dalle diverse religioni quegli elementi che lo possono aiutare
a trovarla.

 

UNA CHIESA DA SMUOVERE

Negli ultimi decenni la chiesa in Corea è passata attraverso diverse
tappe: negli anni ’50-60 ha affrontato l’urgenza dei poveri e degli affamati;
negli anni ’70-90 ha collaborato alla ricerca della libertà e democrazia. Ciò le ha
procurato una forte crescita del numero di conversioni. Non sempre, però, ha corrisposto
altrettanta partecipazione alla vita ecclesiale. La frequenza alla messa domenicale, per
esempio, si aggira attorno al 30% dei battezzati. Ora ci si interroga su come dovrà
essere la chiesa del terzo millennio. Si parla di maggiore impegno nel campo della
formazione, educazione e catechesi. Fortemente sentito è pure il bisogno di una più
profonda spiritualità. La vita ecclesiale, infatti, è fortemente centralizzata attorno
all’organizzazione parrocchiale: la mentalità confuciana sottolinea il ruolo
gerarchico; lascia poco spazio al laicato e ne mortifica lo spirito d’iniziativa.

Quella coreana è una chiesa della classe media, dove i poveri non si
trovano a proprio agio e la figura del prete diocesano ha un posto preminente e
rappresenta un vero status. Ne deriva che le congregazioni religiose (con il voto di
povertà) sono poco apprezzate, specialmente quelle maschili. Talvolta i consacrati sono
visti come persone che non sono riuscite a diventare sacerdoti diocesani. Anche gli
istituti femminili di vita consacrata non riscuotono simpatie. Le molte religiose inserite
in parrocchia, per esempio, sono spesso viste come semplici assistenti del parroco o
sacrestane. Ciò è dovuto, probabilmente, all’organizzazione sociale, che non lascia
molto spazio pubblico alla donna.

La relativa abbondanza di preti locali sembra chiudere la chiesa alla
presenza di religiosi stranieri e l’orgoglio nazionalistico ne affievolisce la
sensibilità universale. Di conseguenza, quando la chiesa coreana pensa e parla della
missione, la concepisce quasi esclusivamente rivolta all’interno del paese, alla
ricerca di nuovi fedeli. Negli ambienti ecclesiali, infine, c’è poco interesse per
il dialogo interreligioso. Esistono strutture destinate a questo compito; in pratica,
però, non sono rilevanti e significative per la gente.

 

SFIDE E SPERANZE

Povertà urbane, dialogo interreligioso e animazione missionaria della
chiesa locale sono le sfide che i missionari della Consolata hanno accolto in 13 anni di
presenza in Corea e alle quali rispondono con il loro carisma ad gentes. Di proposito, non
hanno voluto assumere la responsabilità diretta di parrocchie, per essere disponibili ad
offrire la loro collaborazione nei campi in cui la chiesa locale sembra meno attenta.
Poveri urbani e lavoratori stranieri è una sfida costante per la chiesa locale: i
missionari della Consolata hanno offerto fin dall’inizio la loro collaborazione. Per
alcuni anni essi sono stati presenti in un quartiere alla periferia di Inchon. La loro
esperienza si è conclusa nel 1999, ma stanno studiando la possibilità di aprire una
nuova presenza tra i baraccati nella periferia di Seoul. Questa comunità avrà anche il
compito di seguire e cornordinare le attività con movimenti e associazioni operanti in vari
ambiti: Giustizia e Pace, riunificazione delle due Coree, difesa dei diritti umani, lotta
alla corruzione e allo strapotere delle multinazionali.

Speciale attenzione è rivolta al mondo giovanile, in cui i missionari
esercitano prevalentemente la loro attività di animazione missionaria e vocazionale. Per
fare ciò è di fondamentale importanza conoscere i problemi educativi dei giovani,
relazioni familiari e cambiamenti in corso, per offrire loro una formazione cristiana che
tenga conto della mentalità e della cultura locale. La sfida più grande e, in qualche
modo, nuova per i missionari della Consolata è costituita dalla presenza di tante
religioni nel paese. Quasi tutte in generale e il confucianesimo in particolare esercitano
un certo influsso anche sul cristianesimo cattolico: lo si riscontra nel senso della
gerarchia, nella strutturazione ecclesiale, nelle relazioni intee e perfino a livello
teologico.

Nella mentalità coreana Dio è concepito come un essere lontano,
separato dagli umani, con il quale è difficile stabilire una relazione d’intimità.
Idea che porta a rafforzare la presenza e importanza dei mediatori. In tale contesto non
è facile presentare il volto e l’esperienza di un Dio solidale e vicino. La
frateità vissuta dai 10 missionari della Consolata, provenienti da sei nazioni,
costituisce, più delle parole, una importante testimonianza del Dio
dell’incarnazione e della consolazione. Al tempo stesso, vivendo in mezzo ai poveri,
essi testimoniano la predilezione di Dio per i più emarginati. Per 13 anni essi hanno
studiato la cultura sociale e religiosa del popolo coreano e hanno compreso che il dialogo
interreligioso è parte integrante della loro attività di evangelizzazione. A tale scopo
è stata aperta, tre anni fa (ed è in piena attività) la comunità di Ok-kil-dong,
centro di spiritualità e punto di riferimento per la gente coinvolta nelle iniziative di
dialogo ecumenico e interreligioso.

Sogni e sfide non finiscono qui. Mentre mantengono vive la cooperazione
e comunicazione con la chiesa locale, i missionari della Consolata attendono la
riunificazione delle due Coree, con la prospettiva di aprire un altro campo di
evangelizzazione nella Corea del Nord.

Missionari della Consolata in Corea del Sud




MACAO (CINA): segni di speranza per la chiesa. PRENDERE IL LARGO

 

Qualcosa si muove
nel continente cinese: a Macao, colonia portoghese da poco passata sotto la sovranità
cinese, la consacrazione del vescovo coadiutore si è svolta senza interferenze di
Pechino; nelle province settentrionali della Cina fioriscono le comunità religiose
femminili.

 

Sono le nove del mattino. Nella cattedrale di Macao, edificio
barocco neoclassico, una cinquantina di persone, in prevalenza anziane, recitano
devotamente il rosario davanti alla Vergine del Perpetuo Soccorso, tradizione sabbatica
fin dai tempi passati. Accanto all’altare, una statua della Madonna di Fatima con
l’iscrizione "Regina del mondo, madre del Portogallo e rifugio di Macao"
rivela una traccia evidente di secoli di storia portoghese.

Dal dicembre del 1999 l’ex possedimento portoghese è passato
sotto la sovranità e agli ordini di Pechino. Conoscendo la situazione di precarietà
della chiesa cinese e dei rapporti tra governo comunista e Vaticano, si temeva che tale
tensione si sarebbe riflessa anche sulla chiesa di Macao. Invece la diocesi sta vivendo un
momento unico: José Lai Hong-Seng è stato nominato e consacrato vescovo coadiutore
secondo i dettami del Vaticano, senza alcun intervento da parte del governo cinese.

È la prima volta, da oltre mezzo secolo, che succede una cosa del
genere in territorio cinese. Nella vicina Hong Kong, due nuovi vescovi sono stati
consacrati un anno prima del cambiamento di sovranità. È stata, senza dubbio, una prova
del fuoco, per verificare la tenuta dell’accordo politico tra Portogallo e Cina:
accordo in cui, secondo lo slogan "un paese, due sistemi", la legge
basilare garantisce le libertà e il sistema che Macao ha goduto in passato.

Non solo non vi è stata alcuna interferenza nella nomina episcopale da
parte del governo, ma lo stesso capo esecutivo di Macao, Ho Hau Wa, ha seguito la
consacrazione episcopale, avvenuta il 2 giugno scorso nella cattedrale. Il fatto che né
il governo né l’Associazione dei cattolici patrioti abbiano interferito implica un
tacito riconoscimento dell’autorità del papa su questo territorio cinese.

In una diocesi ancorata, negli ultimi 13 anni, a incarichi
amministrativi, economici e giuridici, ma poco pastorali, la nomina del nuovo vescovo
coadiutore segna anche un cambiamento di rotta per la chiesa di Macao. In una breve
intervista, mons. José Lai ha tracciato le linee pastorali e spirituali che orienteranno
il rinnovamento della vita della chiesa a lui affidata.

Quali sono le priorità della diocesi di Macao?

C’è bisogno di una maggiore collaborazione fra clero e laicato,
per costruire assieme il regno di Dio. È necessario creare un’associazione che
impegni i laici, secondo le loro forze e capacità, nei compiti pastorali della diocesi e
nel settore educativo, sociale, caritativo, sanitario, catechetico e pastorale. Sono molte
le attività che essi possono e devono portare avanti. Per poterlo fare, è necessaria una
profonda spiritualità, che sostenga e ispiri il loro operato e vada al di là del
"fare perché mi piace".

D’altra parte, è necessario favorire la pastorale vocazionale
nella diocesi. È il momento di riflettere e prendere iniziative fra la gioventù e i
cattolici battezzati recentemente, poiché il clero di Macao è in prevalenza anziano e il
seminario è vuoto da 7 anni.

A livello pastorale, quali problemi la diocesi deve
affrontare?

A parte le priorità già menzionate, bisogna impegnarsi in tre
settori: con gli immigrati cinesi del continente, che rappresentano la metà della
popolazione di Macao; con la comunità filippina, composta di circa 6 mila persone; con i
milioni di turisti che ogni anno visitano la città: si deve andare incontro anche alle
loro necessità religiose. Questo potrebbe essere fatto nella Igreja da Penha, luogo di
visita obbligato. Ma bisognerà adattare gli impianti, creare una zona per la preghiera e
presentare la storia della diocesi di Macao, attraverso materiale audiovisivo: di ciò
potrebbero occuparsi i laici.

Qual è il significato dello stemma episcopale da lei
scelto?

Quando seppi dell’elezione a vescovo, passai un momento difficile;
l’ho superato mediante la preghiera, meditando un brano del vangelo di Luca, dove
Gesù invitava i discepoli a remare, spingendosi in alto mare e confidando in lui. Allo
stesso modo ho sentito la sua chiamata che mi invitava a prendere il largo, credendo nella
sua parola; da qui ho ricavato il motto del mio episcopato, con un tema eminentemente
pastorale e missionario: "Prendi il largo".

Esso significa lasciare la parrocchia e andare in diocesi. Gesù mi
invita a gettare le reti non solo nel mare di Macao, ma anche in quello della Cina, dove
in passato molti missionari hanno seguito la stessa chiamata di Cristo. La stella dello
stemma simboleggia Maria, alla cui protezione affido la mia missione; il fiore di loto
rappresenta la città di Macao; tutto questo sullo sfondo di quell’alba in cui Gesù
disse ai discepoli di gettare le reti per pescare.

Qualche parola ai cattolici di Macao…

Innanzitutto rendo grazie a Dio, alla mia famiglia, a quanti mi hanno
aiutato in seminario e nelle parrocchie in cui ho lavorato. E poi ho bisogno di imparare e
ascoltare, per conoscere il parere dei laici e del clero e poter così camminare insieme.
Dovremo anche formare un direttivo che pianifichi e cornordini le attività diocesane.

Come vede le relazioni fra la chiesa di Macao e
l’amministrazione cinese?

Sono relazioni di rispetto e apprezzamento reciproco; non credo che ci
saranno problemi in futuro. Il 17 maggio scorso mi sono incontrato con il capo esecutivo
di Macao: l’ho invitato alla cerimonia di consacrazione ed ha accettato con piacere.

Come si sente a pochi giorni dalla consacrazione
episcopale?

Ho grande fiducia nello Spirito Santo: non per caso ho scelto la
domenica di pentecoste per l’ordinazione. Spero che mi dia la forza necessaria per
realizzare i compiti episcopali, secondo il disegno di Dio e per servire la chiesa e
società di Macao.

Come vede le relazioni fra la diocesi di Macao e la
chiesa in Cina?

La diocesi di Macao aveva relazioni ufficiali con la chiesa in Cina fin
dal 1949. Da quell’epoca i contatti sono diminuiti; ma consideriamo i cattolici
cinesi nostri fratelli: sono sempre nel nostro cuore. Sebbene nessun vescovo del
continente sia stato presente alla mia consacrazione, più di uno mi ha inviato le proprie
felicitazioni. È auspicabile che un giorno il governo cinese e il Vaticano giungano a
stabilire relazioni diplomatiche, in modo che si possano avere maggiori rapporti con la
chiesa in Cina.

 

 

Nel deserto della Cina fiorisce la vita religiosa

 

Nella provincia Shanxi, a est del Fiume Giallo, nella Cina
settentrionale, in parte desertica, stanno fiorendo delle comunità di vita religiosa,
anche se molti dei loro membri, in maggioranza giovani, sono ancora in fase formativa. In
alcune diocesi, come quella di Taiyuan, sono presenti alcune missionarie anziane del
periodo precedente alla rivoluzione comunista. In molti dei nuovi conventi sono state
proprio queste suore anziane a ricominciare la vita religiosa. Ma la maggior parte delle
comunità sono formate da sole giovani. Quelle di Datong, con 40 religiose, di Hong Dong e
Changzhi, con oltre 60, sono casi esemplari della rinascita, al di là della cortina di
bambù comunista, di una vita religiosa femminile ricca di entusiasmo, spirito di fede e
sacrificio.

Il fatto di essere comunità giovani dà luogo a nuove forme di
espressione liturgica, vita comunitaria e forme di preghiera. Cambiamenti e riforme
introdotte dal Vaticano II stanno penetrando a poco a poco, come una fresca brezza che
ogni tanto arriva da fuori, tra le giovani suore assetate di conoscere e attualizzare la
vita religiosa.

Le giovani religiose sono consapevoli di una mancanza di formazione
adeguata alle necessità, poiché non hanno né i mezzi né le opportunità, ma vi pongono
rimedio con zelo e interesse nel ricercare nuove forme che possano colmare questo vuoto.
Di solito, utilizzano qualche libro che è giunto loro da fuori, cassette che ascoltano
attentamente e ripetutamente, o si fanno aiutare da qualche religioso o religiosa
proveniente dall’estero che, in occasione di una visita, possa condividere la sua
esperienza di vita religiosa.

L’orario comunitario dà ampio spazio alla riflessione e studio
della bibbia: un’ora al mattino e una al pomeriggio. E anche durante la celebrazione
eucaristica nel convento, le suore condividono la parola di Dio con il sacerdote. Ciò che
colpisce maggiormente è l’austerità dello stile di vita. In uno di questi conventi,
il vescovo diocesano, piuttosto anziano e con scarsi mezzi economici, può dare loro
soltanto 60 renminbi al mese (circa 13 mila lire italiane) per portare avanti il convento.
Di conseguenza, esse devono fare un po’ di tutto: lavorare nell’orto, preparare
i pasti e altri lavori manuali che consentano loro di sopravvivere.

È curioso osservare che il governo comunista cinese, con la sua
politica di oppressione, ha fatto sì che la chiesa sviluppasse delle caratteristiche in
consonanza con il vangelo di Gesù. I 50 anni di persecuzione comunista e di apparente
distruzione di qualsiasi traccia di vita religiosa, hanno portato a un tipo di chiesa e di
vita religiosa che possiamo definire:

1) indigena: durante mezzo secolo di comunismo, la chiesa in
Cina è stata ed è guidata da una gerarchia e da un clero esclusivamente cinesi;

2) povera: espropriata di tutti i beni dal saccheggio e
vandalismo del governo, la chiesa si è ritrovata con una povertà assoluta di strutture
e, in parte, di personale. La ricostruzione dei conventi e la creazione di nuove comunità
religiose risente degli effetti di questa usurpazione. Le residenze dei vescovi, in Cina,
sono molto dimesse; sulle pareti dei "palazzi" sono ben visibili crepe e
umidità e, all’interno, l’unico mezzo consentito dalle scarse risorse per
ripararsi dalle fredde temperature invernali sono piccole stufe a legna;

3) martiriale: nel rifiutare di sottomettersi alle imposizioni
del sistema maoista, la chiesa ha pagato attraverso molti dei suoi membri, che hanno
patito condizioni disumane: nelle prigioni e carceri sono stati sottoposti a torture e
interrogatori estenuanti. Non essendosi rassegnata e non avendo ceduto alle imposizioni
del governo, la chiesa in Cina ha una lunga lista di martiri, molti dei quali ancora in
vita.

Nonostante le austere condizioni di vita, le difficoltà e il controllo
costante da parte del governo, la chiesa in Cina è fortemente radicata nella fede.
Gradualmente la corrente si sta formando il proprio alveo, si stanno aprendo le porte
all’evangelizzazione, compito nel quale le religiose sono attivamente impegnate. I
credenti, d’altra parte, possiedono una fede saldamente fondata su quella dei loro
antenati, e sia essi che il clero e le religiose sono molto orgogliosi nel portare in alto
il nome di cristiani. Perciò non hanno paura del rischio, quando si tratta di continuare
a ricercare i modi di essere presenti nella società con le loro posizioni di fede. Si
tratta di una chiesa che fiorisce nel deserto: un deserto reale, dato che la zona
settentrionale della Cina è in parte desertica, e morale, perché nella società cinese
la vita religiosa è minacciata dalla persecuzione comunista, dal materialismo e sete di
denaro, che fanno della Cina di oggi un vero e proprio deserto di valori morali.

Anche se alcune delle comunità religiose della provincia vivono in
zone molto povere, i vescovi, che hanno affrontato sacrifici e persecuzioni con santa
semplicità, rispondono con un certo senso di umorismo alla domanda se sia sintomatico
vedere che nel deserto continuino a fiorire più che mai le vocazioni femminili alla vita
religiosa. Sono un motivo di speranza per la chiesa in Cina: come diceva Tertulliano, il
sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani e, senza alcun dubbio, di nuove vocazioni
alla vita religiosa. I martiri dell’epoca comunista, sia quelli ancora vivi oggi, in
Cina, sia quelli canonizzati il primo ottobre 2001, saranno fonte di ispirazione per
fortificare la vita nei conventi che continuano a sorgere con forza sempre maggiore in
molte diocesi della Cina.
D.C.R.

Daniel Cerezo Ruiz




Trento / Incontro con il DALAI LAMA UN PIANETA DA CONDIVIDERE

 

Guida spirituale e
politica del popolo tibetano, premio Nobel per la pace 1989, il quattordicesimo Dalai Lama
è un personaggio affascinante, che ha saputo guadagnare rispetto e considerazione in
tutto il mondo. In questa intervista il Dalai Lama parla dei rapporti tra Oriente e
Occidente, e tra buddisti e cattolici. Senza dimenticare la lunga occupazione della sua
patria ad opera dei cinesi. Ma, assicura il premio Nobel, lo "spirito tibetano"
saprà sopravvivere agli invasori e al tempo.

 

La vicinanza del Dalai Lama non incute propriamente soggezione, anche
se la guida spirituale e politica del popolo tibetano, quattordicesima reincarnazione del
Bodhisattva Avalokitesvara, raduna ovunque si rechi in visita folle di curiosi. Persino in
una terra profondamente cattolica come il Trentino, che lo ha ospitato il 28 e 29 giugno
scorsi. Trasmette invece una sorta di benessere, finanche di buonumore; il prodotto di
un’umanissima simpatia, piuttosto che di reverenziale rispetto.

L’invito era partito nel 1994 dal Forum trentino per la pace,
emanazione della Provincia autonoma di Trento; da allora è stato costantemente rinnovato,
fino a quando il Tibet Bureau di Ginevra, rappresentanza ufficiale del governo tibetano in
esilio per l’Europa centro-meridionale, è riuscito ad accoglierlo. Al centro delle
due giornate di visita, lo Statuto di autonomia del Trentino, visto come un possibile
modello anche per una realtà come quella tibetana. Ed inoltre, i progetti di cooperazione
allo sviluppo rivolti verso le comunità dei tibetani in esilio.

Abbiamo incontrato il Dalai Lama privatamente, per un’intervista
concessaci in esclusiva, e poi nell’ambito della conferenza stampa organizzata al
Castello del Buonconsiglio, uno dei luoghi simbolici dell’Autonomia trentina, già
residenza dei principi-vescovi, e poi carcere degli irredentisti italiani (qui sono stati
giustiziati Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa). Durante gli incontri con i
giornalisti – così come nel corso dei numerosi colloqui pubblici tenuti in varie
località del Trentino – spesso si è interrotto per sorridere, ammiccare al fotografo,
riservare la dovuta attenzione ad ognuno dei presenti (non solo, insomma, alle autorità,
ma anche a chi era lì per lavoro, o semplicemente per vederlo da vicino). Davvero si ha
l’impressione che il grande e il piccolo, il vicino e il lontano, il visibile e
l’invisibile siano, per il premio Nobel per la pace 1989, concetti molto relativi.

Ma non c’è nulla di ieratico nel suo muoversi da un appuntamento
all’altro, in ossequio ai ritmi frenetici imposti dalle visite di carattere
diplomatico. Se le sue parole esprimono moderazione – anche quando parla
dell’occupazione cinese del Tibet o della globalizzazione –, gli occhi
tradiscono un’intelligenza vigile, insieme a un’insaziabile curiosità per il
mondo.

 

Sua Santità, Trento è la città dell’omonimo Concilio, molto
importante per la storia del cattolicesimo. La prima domanda, quindi, è in un certo senso
obbligata: quali rapporti ci possono essere fra cattolici e buddisti?

"Fra le diverse tradizioni religiose ve ne sono alcune che
accettano l’esistenza di un Dio Creatore, e altre, invece, che lo negano.

Il buddismo fa parte del secondo gruppo. Da questo punto di vista si
può dunque dire che c’è una grande differenza dottrinale fra buddisti e cattolici.
D’altra parte, vorrei ricordare che anche nell’ambito buddista vi sono diverse
scuole di pensiero".

 

Ad esempio?

"Vi sono alcune scuole che affermano l’esistenza reale delle
cose, mentre altre dicono che ciò che appare non è come noi lo vediamo, e che esiste un
livello di realtà più profondo. Quindi esistono anche nell’ambito buddista delle
grandi differenze dottrinali; alcune scuole ne accusano altre di nichilismo. Però, dal
punto di vista della pratica spirituale, per quel che riguarda lo sviluppo dell’amore
e della compassione, la religione cattolica e il buddismo si possono definire concordanti.

Io ho degli amici cristiani che praticano alcune tecniche tipiche del
buddismo per lo sviluppo della pazienza e che cercano di rendersi conto dell’ira per
poterla controllare. E anche i monaci e le monache buddiste possono imparare dalla pratica
delle loro sorelle e fratelli cristiani".

 

L’Occidente e l’Oriente possono dunque arricchirsi
vicendevolmente? E se sì, in cosa la tradizione occidentale vi sarebbe debitrice?

"Tradizione occidentale è una definizione così vasta che è
difficile dire in che cosa essa possa essere stata influenzata dall’Oriente.
Comunque, io credo vi siano concetti di base del buddismo, come quello di interdipendenza,
che possono essere di grande interesse per gli occidentali. Per interdipendenza noi
intendiamo dire che nulla sussiste indipendentemente da altri fenomeni. Quando si verifica
un evento, di solito si è portati a cercare una causa particolare, mentre secondo noi
bisogna considerare piuttosto il complesso delle cause e degli eventi che l’hanno
generato, l’insieme delle interdipendenze e delle interrelazioni.

Circa l’apporto che l’Occidente ha dato all’Oriente, mi
è facile pensare ad esempio a papa Giovanni Paolo II: il suo insegnamento è stato di
fondamentale importanza sia per il messaggio di riconciliazione fra le diverse religioni
(che ha portato incessantemente in giro per il mondo), sia per il suo chiedere perdono per
eventi avvenuti nei secoli passati. Vorrei anche aggiungere che, ad un livello più
generale, non esiste una radicale distinzione fra occidentali e orientali: dopo tutto
siamo tutti esseri umani chiamati a condividere questa terra. E l’unione di genti
diverse produce bimbi bellissimi!".

 

Da quanto diceva poco fa, sembra di capire che vi sono rapporti
diretti fra clero cattolico e buddista.

"I rapporti esistono ormai da vent’anni. Monaci buddisti
vanno a vivere per qualche tempo nei monasteri in Occidente e, viceversa, vi sono
religiosi cattolici che visitano monasteri buddisti.

In generale, ciò che maggiormente colpisce i monaci buddisti è il
lavoro sociale svolto dai religiosi in Occidente. Da noi pochissimi monaci operano
all’interno della società. Da questo lato, ne abbiamo tratto un importante
insegnamento. Noi invece possiamo far conoscere ai religiosi occidentali le tecniche di
concentrazione e di mediazione, e i metodi per sviluppare un comportamento improntato alla
gentilezza".

 

Non crede che si stia diffondendo un atteggiamento di
"consumismo della spiritualità" e che esso interessi oggi anche il buddismo,
con conversioni spesso un po’ superficiali, anche da parte di attori, uomini di
spettacolo e così via?

"L’attrazione esercitata dal buddismo dipende da fattori
molto vari. Tuttavia in linea di massima è meglio che ognuno segua la tradizione nella
quale è inserito.

Cambiare religione è una cosa complicata e difficile, e può creare
dei problemi. Certo è possibile che su milioni di persone ve ne siano alcune che hanno
una predisposizione particolare per una religione diversa rispetto a quella con la quale
sono cresciuti. Ma le conversioni di massa non sono né possibili né auspicabili.

In ogni caso, chi decide di cambiare religione è bene che mantenga
sempre nei confronti della religione che ha abbandonato un atteggiamento di
rispetto".

 

Santità, in questi ultimi anni si è parlato molto di
globalizzazione, anche in termini molto critici. Lei pensa che globalizzazione e difesa
delle tradizioni dei popoli, compreso il popolo tibetano, siano conciliabili?

"Credo che la globalizzazione sia un fenomeno che riguarda
soprattutto l’ambito economico. Quindi è l’economia a causare anche quella che
definirei la "diffusione di abitudini simili", a cominciare dal mangiare e dal
bere. In verità, a questo livello non credo che produca cambiamenti profondi, se una
cultura è già forte e consapevole di sé. Certo, può cambiare certe abitudini, ma solo
ad un livello superficiale.

L’importante, ripeto, è vedere quanto le culture abbiano una
radice profonda. Il pericolo esiste per le culture che non hanno radici forti, o per le
persone che non conoscono a fondo la propria cultura di riferimento.

Quando noi tibetani chiediamo l’Autonomia, naturalmente
rivendichiamo il nostro diritto a preservare e sviluppare lo "spirito tibetano".
Ma questo non significa che vogliamo continuare a mangiare la tsampa (pietanza
tradizionale tibetana, ndr)! I tibetani che oggi vivono in Svizzera hanno assimilato molte
abitudini svizzere: vestono o mangiano come gli svizzeri. Ma non significa che non abbiano
conservato la loro tibetanità. I nomadi che un tempo si nutrivano solo dei proventi
dell’allevamento oggi hanno i thermos per il tè e mangiano anche verdura. Non è una
cosa negativa.

Penso che si possa godere delle cose di un altro paese o di
un’altra cultura – ad esempio del cinema o della musica occidentale – senza
tuttavia rinunciare alle proprie tradizioni, soprattutto spirituali".

 

Questo sotto il profilo culturale. Ma qual è la sua idea di
globalizzazione sul piano economico e delle politiche poste in essere da soggetti come il
G8?

"Riguardo alla globalizzazione come fenomeno puramente economico,
un pericolo esiste: quello che le economie più forti, a livello sia di nazione che di
singola multinazionale, operando nei paesi poveri possano soffocare lo sviluppo delle
economie locali. Questo è un pericolo reale sul quale bisogna vigilare.

Riguardo al G8, io penso che abbia un ruolo importante e, dunque,
bisogna che continui a riunirsi. Ma esistono questioni, in merito ad esempio al degrado
ambientale o al rapporto fra sistemi economici forti e sistemi deboli, che debbono essere
affrontate. Quindi, è giusto che ci siano persone che ricordano queste questioni ai
grandi della terra; se non c’è altro modo, anche con manifestazioni di piazza,
purché siano rigorosamente non-violente".

 

In Trentino lei si è confrontato con un moderno statuto di
autonomia. Quali speranze ci sono per una pace duratura in Tibet e per il conseguimento di
un’autonomia che soddisfi veramente le esigenze del popolo tibetano?

"Se si guarda la situazione specifica del Tibet e, in particolare,
quello che sta avvenendo in quest’ultimo periodo, si dovrebbe dire che per il Tibet
non c’è più speranza. Se poi si analizza come il mio paese e la mia gente siano
arrivati a trovarsi in questa situazione, si scopre che ciò che è accaduto e sta
accadendo è dovuto all’intervento della Cina, che ha chiamato questo intervento,
iniziato nel 1949, con un nome attraente come "liberazione", ma che in realtà
ha provocato enormi sofferenze nel mio popolo. Sofferenze che durano da ormai tanti anni.

Possiamo dunque dire che un cambiamento del Tibet dipende direttamente
dal cambiamento della Cina. Ora, se osserviamo la Cina, ci accorgiamo che essa sta in
effetti cambiando. Si può dire anche che, dato che quel paese sta diventando sempre di
più una grande potenza, non potrà cambiare in un modo discordante dal resto del mondo.
Quindi, se consideriamo inevitabile il cambiamento della Cina, ecco che si può dire che
esiste una grande speranza per il mio paese. Quando questo cambiamento avrà luogo, allora
si apriranno dei concreti spiragli di speranza anche per il Tibet".

 

E il ruolo della comunità internazionale?

"Dopo i pronunciamenti dell’Onu fra la fine degli anni
’50 e l’inizio degli anni ’60 in favore del popolo tibetano, il governo
tibetano in esilio ha smesso di chiedere l’appoggio della comunità internazionale,
perché pensava che fosse meglio cercare di intavolare relazioni dirette con la Cina.

Nei primi anni ’80 sembrò che questa strategia potesse avere
successo; ma poi la Cina è tornata ad irrigidirsi. Nel 1987 ho proposto un piano di pace
in cinque punti, che però il governo cinese si è rifiutato di prendere in
considerazione. Così, siamo tornati a rivolgerci alla comunità internazionale, che ci ha
espresso più volte il suo sostegno. Vede, è molto difficile trattare con la Cina, non
solo per noi tibetani, ma anche per altre realtà presenti all’interno del paese.

L’anno scorso siamo venuti in possesso di un documento riservato
del viceministro della cultura cinese, trasmesso agli studiosi cinesi di tibetologia, nel
quale si diceva che il Dalai Lama pronuncia solo menzogne, che purtroppo gli occidentali
scambiano per verità. Com’è possibile che la comunità internazionale sia così
ingenua da credere per trent’anni di seguito a delle menzogne? Voi qui che mi state
ascoltando siete forse usciti di senno?".

 

Così parlò il Dalai Lama. Da segnalare, nell’economia di una
visita complessivamente gratificante per tutti, un solo episodio spiacevole: la bufala
dell’inviata de la Repubblica, la nota orientalista Renata Pisu, che ha attribuito al
Dalai Lama una dichiarazione favorevole all’uso della violenza nei confronti del G8.
Quando si dice etica professionale…

 

(*) Alberto Faustini è responsabile dell’Ufficio stampa della Provincia
Autonoma di Trento. Marco Pontoni è redattore nella medesima struttura.

Le foto del Dalai Lama sono dell’agenzia AgF-Beardinatti Foto
(Tn).

 

I rapporti tra Tibet e Cina

PAZIENZA, CORAGGIO, DETERMINAZIONE

 

Il Tibet si è costituito in entità sostanzialmente unita e
politicamente organizzata circa nel VII secolo d.C., all’epoca della diffusione del
buddismo sull’altopiano (ma il Dalai Lama ha parlato a Trento di reperti archeologici
che attesterebbero la presenza di una lingua e una cultura tibetane già 3000 anni fa).
Esso non è mai stato tout court una provincia cinese.

Tra Tibet e Cina vi sono stati, com’è ovvio, stretti rapporti
culturali, economico-commerciali e politico-diplomatici, talvolta pacifici, talaltra
conflittuali. Entrambi i regni furono inoltre soggetti all’invasione mongola, che
comunque non cancellò le peculiarità religiose e culturali del popolo tibetano, il quale
anzi le trasmise in buona parte agli invasori.

Agli inizi del XX secolo la situazione cominciò a cambiare, anche a
causa della crescente attività britannica in Asia centrale, che veniva vista come
minacciosa da Pechino. Così, subito dopo la conquista del potere, nel 1949 i comunisti
cinesi stabilirono il proprio controllo diretto sul paese, lasciando inizialmente al Dalai
Lama e alla sua aristocrazia un certo controllo sugli affari interni. Questa politica
relativamente moderata ebbe termine con la rivolta del 1959, a cui seguì una durissima
repressione.

In seguito a questi eventi drammatici, le Nazioni Unite approvarono tre
risoluzioni sul Tibet (nel 1959, 1961 e 1965), nelle quali si invocava la cessazione di
pratiche contrarie ai fondamentali diritti umani e di libertà, incluso il diritto
all’autodeterminazione. Come molte altre risoluzioni dell’Onu, anche queste non
ebbero alcun esito.

A partire dal 1966, e per quasi un decennio, in Cina si scatenò la
cosiddetta "Rivoluzione culturale", causa di violenze inenarrabili. In Tibet
essa ha comportato, oltre all’incarcerazione e all’uccisione di migliaia di
persone, anche alla distruzione sistematica di gran parte del patrimonio religioso e
artistico (come testimoniato, ad esempio, dalla documentazione fotografica contenuta in
Segreto Tibet dell’orientalista Fosco Maraini, uno dei "classici" in lingua
italiana sul Tibet pre-occupazione). Nel periodo successivo si sono alternati momenti di
liberalizzazione e "giri di vite". Date le difficoltà politiche che incontrava
in Tibet, il governo di Pechino ha cercato, soprattutto nell’era del dopo-Mao, di
migliorare lentamente la propria immagine nei confronti della popolazione locale,
ricorrendo ad un intenso sforzo di modeizzazione e di sviluppo economico. La conseguenza
è stata però anche, assieme a nuove forme di sfruttamento del territorio tibetano, un
sempre più massiccio afflusso di non tibetani sull’altopiano. Oggi, secondo fonti
del governo tibetano in esilio (con sede a Dharamsala, in India), i tibetani che vivono in
Tibet sono poco più di sei milioni, mentre i coloni cinesi circa sette milioni. I
tibetani in esilio sono intorno ai 130 mila; oltre all’India, uno dei paesi nei quali
sono presenti in maggior numero è la Svizzera.

Recentemente il Dalai Lama ha sintetizzato così la sua posizione.
"Io mi batto per una vera autonomia dei tibetani, convinto che una soluzione del
problema porterà soddisfazione al popolo tibetano e contribuirà alla stabilità e
all’unità della Repubblica popolare cinese. Finora il governo cinese si è rifiutato
di accettare la mia delegazione, sebbene, tra il 1979 e il 1985, avesse accettato di
incontrare sei delegazioni tibetane dall’esilio. Questo è un chiaro segnale che
l’atteggiamento di Pechino si è indurito, e manca la volontà politica di risolvere
la questione. Pazienza, coraggio e determinazione sono essenziali per noi tibetani in
questa sfida. Credo fermamente che in futuro ci sarà occasione di discutere seriamente il
nostro problema e guardare in faccia la realtà, perché non ci sono alternative, né per
la Cina né per noi".

 

Ma.Po.

 

Chi è? DALAI LAMA

Quello di Dalai Lama non è un titolo ereditario. Secondo la tradizione
tibetana – resa popolare in Occidente dal film di Bertolucci Piccolo Budda – vi sono
alcuni illuminati o Bodhisattva i quali, anche dopo avere raggiunto il Nirvana, la
beatitudine eterna della buddità, decidono di restare tra gli uomini, per sostenerli
sulla via dell’illuminazione. Uno di essi è Chenrezig, chiamato in sanscrito
Avalokitesvara (il Budda della compassione), che si incarna nel Dalai Lama, massima
autorità religiosa dei tibetani. Il Dalai Lama è quindi espressione di un amore per il
genere umano che è anche consapevolezza dei limiti dell’umana esperienza, idea
quest’ultima che rimanda al primo discorso pronunciato dal Budda storico, Sakyamuni,
dopo avere raggiunto l’Illuminazione.

Nella prassi avviene che, dopo la morte di ogni Dalai Lama, bisogna
trovare il suo successore, che è all’apparenza un bambino come tutti gli altri. Per
questo vengono effettuate vaste ricerche in tutto il Tibet, e i presunti successori
vengono sottoposti ad una serie di prove – come ad esempio riconoscere degli oggetti
appartenuti al precedente Dalai Lama, mescolati ad altri del tutto identici – al fine di
fugare ogni possibile dubbio.

"Dalai" è un termine mongolo, e sta per "oceano".
"Lama" è il termine tibetano per "maestro spirituale". "Dalai
Lama", quindi, può essere tradotto approssimativamente come "oceano di
saggezza".

L’attuale quattordicesimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso, è nato a
Taktser, in un piccolo villaggio dell’altopiano tibetano il 6 luglio 1935,
originariamente con il nome di Lhamo Thondup. Dopo il suo riconoscimento, si è insediato
a Lhasa, la capitale del Tibet, nel 1939. All’epoca il governo del paese era in
sostanza una teocrazia; sotto il profilo economico e tecnologico, esso era parimenti molto
arretrato, e del tutto refrattario alla tradizione scientifica occidentale.

Dopo l’occupazione cinese, e in particolare dopo la repressione
dei moti nazionalisti di Lhasa (10 – 15 mila tibetani uccisi in tre giorni), il Dalai Lama
scelse, con circa 85 mila seguaci, la via dell’esilio. In seguito ha eletto a sua
nuova dimora Dharamsala, una cittadina dell’India del nord, dove oggi ha sede il
governo tibetano in esilio. Dopo avere lasciato il Tibet, il Dalai Lama ha
progressivamente laicizzato le istituzioni di governo, che ora sono elettive. Naturalmente
ciò ha un significato molto limitato, non potendo esercitare il governo in esilio alcun
potere reale sul Tibet.

Ma.Po.

Alberto Faustini Marco Pontoni




Genova (1): prima del vertice degli “otto grandi” VOI NON SIETE I PADRONI DEL MONDO

Oggi chi scrive sul "G 8" di Genova, a quasi
tre mesi da fatti tristemente noti, rischia di incappare nel "senno di poi", di
cui sono piene le fosse.
Tuttavia resta valido il detto "l’esperienza insegna", per non cadere negli
errori di ieri. Come pure: "Chi sbaglia paga". Ma senza capri espiatori.
A noi il "G 8" interessa, soprattutto, per le ripercussioni nei paesi
impoveriti. Oltre ad alcune testimonianze dal Sud del mondo, diamo spazio a due documenti:
quello "propositivo" di numerosi istituti missionari e organizzazioni cattoliche
e quello "risolutivo" degli "otto grandi" (articolo successivo). Il
confronto fra le "attese" dei primi e i "risultati" dei secondi è
eloquente.

 

Genova, sabato 7 luglio, ore 8.30. Usciti dalla stazione
ferroviaria di Brignole, ci incamminiamo verso il teatro "Carlo Felice" in
piazza De Ferrari. Dopo pochi passi, un signore ci accosta: "Scusi, per favore mi sa
dire…".
– Ci sto andando anch’io!
– Per il convegno nazionale "Guardiamo il "G 8" negli occhi"?
– Esattamente.
– Allora la seguo. Buon giorno! Io sono Dino, dell’Azione Cattolica di Rovigo.

Giunti all’ingresso del teatro, Dino si ferma, per attendere
alcuni amici di Napoli. "Napoli?" esclamiamo incuriositi. "L’Italia
forse è divisa, ma gli italiani sono certamente uniti, alla faccia del senatùr…
voltagabbana" è la risposta.
Ci separiamo.

La storia di un crapulone

Il "Carlo Felice" è un teatro da 3 mila posti. Ma, al nostro
ingresso, contiamo solo due missionarie della Consolata davanti ad un cartellone, che
riporta i nomi del comitato promotore del convegno: circa 60 istituti e associazioni; in
ordine alfabetico, prime le Acli (Associazioni cristiane dei lavoratori italiani) e ultimi
i Missionari Verbiti. Mentre carichiamo la macchina fotografica, scorgiamo anche diversi
ragazzi e ragazze scout, in pantaloni corti, camicia blu e fazzoletto verde al collo,
seguiti da un gruppetto della Coldiretti con un vistoso berretto giallo. Scattiamo le
prime foto. Poi puntiamo l’obiettivo su Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea
(sempre presente a "certi" appuntamenti), e don Andrea Gallo, della Comunità di
san Benedetto al porto. Notiamo Pierluigi Castagnetti, segretario del Partito popolare
italiano, e Aldo Bodrato, ex ministro della pubblica istruzione. Ma questi ed altri
personaggi non bastano a riempire il vasto teatro, che rischia un vuoto desolante.

Però alle 10 il "Carlo Felice" è zeppo: giovani e adulti,
mamme con bimbi in braccio, portatori di handicap in carrozzella, volontari,
sindacalisti, docenti, missionari, suore, preti.

Si inizia con lo sguardo rivolto ad un Cristo campesino del
Cile, mentre si legge la storia di un crapulone che banchetta ogni giorno lautamente… in
barba all’affamato e piagato Lazzaro, del quale solo i cani hanno pietà. Al termine
della loro vita, il primo finisce all’inferno e il secondo fra le braccia di Abramo,
il padre dei credenti.

Il crapulone supplica: "Abramo, manda Lazzaro dai miei fratelli:
che mutino subito comportamento, altrimenti finiranno con me nei tormenti!".
"Hanno già avuto la legge di Mosè e gli ammonimenti dei profeti – replica il
patriarca -, e tutto è stato inutile. Non si convertirebbero neppure se uno risuscitasse
dalla tomba" (cfr. Lc 16, 19-31).

"Incalzati da questo monito severo, riproposto anche dal Cristo campesino
– afferma Fabio Protasoni, cornordinatore del convegno – vogliamo riflettere sulle
situazioni di povertà dell’80 per cento dell’umanità, causate da ingiustizie
sociali e politiche, prima che sia troppo tardi, come per il crapulone del vangelo".

La parola al sud del mondo

Seguono tre testimonianze.

La prima è di Monica Espinosa, già impegnata in Ecuador
con "Rete del Giubileo 2000", che si domanda: "Cosa dobbiamo aspettarci
dall’America Latina? Sempre e solo guerriglieri arrabbiati? Assolutamente no. Ma
occorre fare subito giustizia, specialmente per le classi sociali emarginate. Mi auguro
che i "G 8" imbocchino con coraggio questa strada. La globalizzazione è come
una porta, che può essere chiusa o aperta. Finora non è stata una porta aperta ai
poveri".

Anche la giovane Monica ricorre ad un’icona. È quella di Pietro,
che si sente dire da Gesù Cristo: "Abbi cura delle mie pecore" (cfr. Gv 21,
15-19). L’ecuadoriana lancia un messaggio: "Io, voi, noi tutti siamo cristiani
nella misura in cui abbiamo a cuore i problemi della gente, di tutta la gente".

Sale sul palco Filomeno Lopez, della Guinea Bissau, che
rappresenta i problemi dell’Africa. È sorridente e scattante nei movimenti (poi si
scoprirà che è pure un eccellente danzatore). Il suo raffinato italiano gli consente di
maneggiare con arte anche il fioretto dell’ironia. "Amici, come mi devo
presentare? Certamente come un "fuori", un extra, un extracomunitario. Però
ieri qualcuno mi chiamava vu’ cumprà e, prima ancora, vu’ lavà… Amici, non
cadiamo negli stereotipi, frutto di ignoranza. Io credo nella riconciliazione, previo il
rispetto reciproco".

Anche Filomeno riflette sulla globalizzazione. Rigetta quella
"sbarcata sui porti africani con una risposta esclusivamente mercantile: la
globalizzazione intesa come extra mercatum nulla salus, che ha per fondamento
l’arte di vincere senza ragione".

La terza testimonianza è del direttore della rivista Missioni
Consolata
. Egli riporta alcune voci dal Sud del mondo: ad esempio, quella del
cardinale Evaristo As. L’arcivescovo di São Paulo (Brasile), in una intervista del
1988, affermava che il debito estero del suo paese è illegittimo e illegale:
"illegittimo, perché è già stato pagato tre volte con il versamento di 36 miliardi
di dollari di interessi; illegale, perché contratto da generali brasiliani senza
consultare il parlamento. E gli stati creditori sapevano che imprestavano soldi per
finalità militari…".

"Oggi, a 13 anni da quell’intervista, si discute ancora –
commenta il direttore di Missioni Consolata – sulla necessità o meno di cancellare
il debito dei paesi poveri. Non dovrebbe essere una questione scontata, com’è
scontata la caduta di… una mela matura?".

Un accenno anche alla protesta della gente in Congo (ex Zaire) contro
la guerra. "Nella chiesa di Pawa, durante la messa di pasqua dell’anno scorso, i
fedeli hanno gridato: "La guerra è peccato!". Ma la colpa è ancora più grave
se ad imbracciare il mitra sono ragazzi di 12 anni, come ho visto in Congo".

"Mkubwa haombi" (il capo non chiede permessi): è un detto
swahili, che spesso nasconde la strategia dell’intimidazione e, di conseguenza, della
sottomissione. "Ma oggi, grazie anche ai missionari, molti alzano la testa per dire
al presidente prevaricatore: "Signor no!"".

Ai fischi rimedia un po’ il Cardinale

È il clou del convegno: ovvero la presentazione del "Manifesto
delle Associazioni cattoliche ai Leaders del G 8
" (vedere il testo a parte). Fra
i suoi estensori spicca l’economista Riccardo Moro. Il quale, tuttavia, ci dichiara:
"Vedi questi sei ragazzi? Il Manifesto è soprattutto opera loro". E sono gli
stessi ragazzi che, un po’ emozionati, lo leggono in assemblea. L’applauso dei 3
mila vale l’approvazione.

Il Manifesto viene affidato a Umberto Vattani, segretario generale
della Faesina, perché a sua volta lo trasmetta al governo in carica. Invitato (per
deferenza) dal cornordinatore del convegno ad intervenire, Vattani prende la parola.

Non l’avesse mai fatto! O avesse parlato in termini diversi, non
si sarebbe beccato tre bordate di fischi: la prima un po’ leggera, la seconda più
pesante, la terza secca e arrabbiata, anche perché il politico continuava sicuro.

Il diplomaticoVattani esalta l’Italia, sesta potenza economica
mondiale grazie alla globalizzazione… "a differenza dell’Africa, che resterà
sempre povera se non entrerà nel processo". Ma i 3 mila cattolici del "Carlo
Felice" rifiutano questa visione del mondo.

Ad aggiustare (forse) le cose ci pensa Dionigi Tettamanzi, cardinale di
Genova (significativa, tra l’altro, la Lettera dei Vescovi liguri ai fedeli delle
loro Chiese in occasione del G 8
).

I cattolici non devono scordare che, secondo la dottrina della chiesa,
la proprietà dei beni ha una "funzione sociale comunitaria", e non solo
privata: di qui il dovere dell’attenzione all’altro. Questo però esige un
impegno politico professionale, perché il volontariato non basta più.

Infine il cardinale dichiara: "Oggi si parla del "G 8",
cioè del gruppo degli 8 paesi più ricchi; qualcuno sollecita che a parlare siano i
"G 20", ossia i 20 paesi più poveri… Io dico: facciamo un G TUTTI,
dove ognuno possa parlare, ma alla luce della parabola del ricco e del povero con il quale
abbiamo aperto il convegno".

 

Ore 14,35. Entriamo in uno snack bar di Genova, dove Dino e gli
amici di Napoli, Gennaro e Concetta, stanno addentando un panino.

– Volete favorire? – è l’invito dei napoletani.
  – Perché mi date del "voi"?

Risata generale.

Quando siamo tutti al caffè, Dino commenta: "Un bel convegno,
durante il quale ho apprezzato gli interventi dei rappresentanti del terzo mondo.
D’ora in avanti bisognerà sempre fare così. Molto interessante pure il
Manifesto…". "Noi a Napoli – s’intromette Gennaro – abbiamo un detto che,
nel caso presente, potrebbe suonare: passata la festa del "G 8", gabbati ancora
una volta i poveri". "No, guagliò – replica Concetta -. Passata la
festa, i poveri ritornano a lavorare".

 

 Noi, sentinelle del mattino

Manifesto delle associazioni
cattoliche ai leaders del G 8

 

La vita umana è valore universale. Garantirla nel suo esistere e
tutelarla nella sua dignità è responsabilità politica che la comunità internazionale,
insieme a ciascuno di noi, è chiamata ad esercitare per il raggiungimento del bene
comune.

Oggi la dignità della vita umana è violata. Molti sono gli ambiti in
cui questo accade, dalla guerra alla povertà, dal sapere privilegio di alcuni al potere
monopolio di pochi.

Noi sentiamo l’impegno di appartenere ad una famiglia, che va
oltre i confini nazionali e le logiche economiche. Crediamo che tutti siamo veramente di
tutti e non possiamo rimanere indifferenti di fronte a clamorose differenze.

Affermiamo che ogni uomo è una risorsa, un bene prezioso per gli
altri, e a sua volta chiede agli altri di essere aiutato nel suo cammino verso il
compimento definitivo. Nessuno può essere considerato solo un soggetto economico
passivo,
il cui valore è commisurato alla sua capacità di acquisto.

Noi siamo qui per ricordarvi che voi siete noi. Voi,
responsabili delle nostre nazioni, siete i nostri rappresentanti. Voi avete una grande
responsabilità. Voi non siete il governo del mondo, ma quanto decidete ha
inevitabili ripercussioni su molti, anche al di fuori dei confini dei nostri paesi.

Noi siamo qui perché abbiamo un sogno: non vogliamo essere i
ricchi che guardano ai poveri da aiutare. Vogliamo essere cittadini di una comunità
solidale che diano a tutti lo stesso diritto di avere necessità e offrire opportunità.

Per questo facciamo a voi, nostri rappresentanti, le richieste che
riteniamo punto di partenza perché ogni persona di oggi e domani possa vivere in
libertà, solidarietà e dignità.

 

La notte I conflitti / La guerra

La dignità della vita umana è offesa da conflitti che coinvolgono
popolazioni vulnerabili. Donne e uomini, bambini e anziani, in divisa o abiti civili, sono
attori spesso inconsapevoli di copioni scritti, più o meno intenzionalmente, da altre
mani, in altre lingue e in altri luoghi. Noi esigiamo che voi lavoriate con chiarezza e
determinazione per:

– bandire la guerra come strumento di soluzione dei conflitti e
impegnarsi come Stati a non ricorrere alla forza per dirimere le controversie intee e
inteazionali;

– avviare un processo credibile e autentico di riforma delle Nazioni
Unite che ne rafforzi democrazia, autorevolezza ed efficacia, in particolare nella loro
responsabilità di principale attore in favore della pace nel mondo;

– in questo quadro, privilegiare gli approcci ‘locali’,
valorizzando anche i contributi non governativi, affrontando tutti i conflitti, anche
quelli interni quando violano la libertà delle popolazioni civili;

– combattere autenticamente il mercato delle armi, a partire
dall’informazione su tutte le operazioni di vendita e acquisto. Nessuna copertura
finanziaria pubblica deve essere data a chi le produce e le vende;

– non sprecare il denaro. Vogliamo che le risorse non vengano gettate
in progetti di difesa inutili, come lo scudo spaziale, ma siano utilizzate per eliminare
le cause che originano i conflitti, prima fra tutte la povertà.

 

Debito

Il peso del debito estero dei paesi del Sud compromette la dignità
della vita di milioni di persone. Tuttora risorse finanziarie, preziose e scarse, vengono
usate dai paesi impoveriti per pagare i creditori, cioè i governi del Nord, cioè noi! In
occasione del Giubileo vi abbiamo chiesto azioni coraggiose. Voi ci avete ascoltato solo
in parte. Ci inorridisce sapere che il denaro che ancora incassiamo, per quanto ridotto
rispetto agli anni scorsi, sia sottratto da interventi per dare case, cibo, medicine e
istruzione a persone che sono per noi come altri noi stessi.

Vi chiediamo perciò ancora con forza di:

cancellare tutto il debito accumulato sino al 19 giugno 1999, la data
della grande manifestazione di Colonia. Nel vostro linguaggio si tratta dello spostamento
della data che divide il debito cancellabile da quello non cancellabile;

cambiare i parametri che permettono di partecipare alla iniziativa
internazionale per i paesi gravemente indebitati (iniziativa Hipc). Vogliamo che nei paesi
indebitati siano assicurati beni e servizi fondamentali a tutti i cittadini. Solo il
denaro restante, dopo queste spese, può essere utilizzato per pagare il debito;

concordare con i paesi indebitati e i rappresentanti della società
civile del Sud e del Nord l’istituzione di un "Processo di arbitrato
internazionale equo e trasparente" per valutare in termini di giustizia
l’ammontare effettivo del debito delle nazioni. La remissione del debito è questione
di giustizia prima che di solidarietà.

 

Povertà

La dignità della vita umana è offesa dalla scandalosa differenza tra
la vita dei paesi ricchi e di quelli da questi impoveriti. Un bambino su venti in Africa
muore prima dei cinque anni. Un bambino su due non va a scuola. È una situazione che ci
fa orrore e di cui siamo e siete corresponsabili. Noi ci impegniamo a stili di vita nuovi,
più equi e solidali, ma nello stesso tempo, poiché rappresentate la nostra voce,
vogliamo che voi impegniate le nostre nazioni a:

– onorare da subito l’impegno, assunto e non mantenuto, di
finanziare l’aiuto allo sviluppo con lo 0,7% del PIL dei nostri paesi. Oggi la media
è minore della metà;

– promuovere e rafforzare, nelle sedi inteazionali, l’utilizzo
dei programmi di riduzione della povertà che prevedano un autentico coinvolgimento della
società civile;

– favorire con mezzi finanziari e assistenza tecnica l’azione dei
governi dei paesi impoveriti, perché sia garantito a tutte le popolazioni il diritto alla
salute e istruzione.

 

Una luce che sorge

Costruire il futuro: globalizzare la solidarietà e le responsabilità

La dignità della vita, a Nord come a Sud, può essere tutelata solo
attraverso un forte, condiviso e rispettato sistema di regole, in cui non il più forte
abbia maggiori diritti, ma il più debole. Non è questo ciò che accade oggi nel mondo. A
voi, nostri rappresentanti, chiediamo quindi di non nascondervi dietro facili
giustificazioni, ma di rispondere a queste richieste.

 

Il mercato fra libertà e responsabilità

– Vogliamo che sia creato un sistema di regole nel commercio
internazionale che permetta a tutti i paesi, in particolare ai più impoveriti, di offrire
sul mercato le proprie merci ad un prezzo equo, abolendo le barriere, a cominciare dalle
nazioni del G 8, e, per i prodotti agro-alimentari, prevedendo un meccanismo di
regolamentazione produttiva e distributiva che definisca quote produttive alle nazioni e
garantisca stabilità dei prezzi.

– Vogliamo una vera libertà di mercato, in cui tutti siano liberi di
acquistare conoscendo con precisione che cosa viene loro offerto e a tutti sia data
possibilità di vendere i propri prodotti. Non è quello che accade oggi.

– Vogliamo un impegno immediato e concreto di denuncia dei paradisi
fiscali e finanziari. Impegnatevi nelle diverse sedi inteazionali per la definizione e
pubblicazione delle liste dei paesi che permettono il riciclaggio di denaro sporco e
offrono riparo fiscale per speculazioni selvagge.

– Vogliamo, a cominciare dai nostri paesi, una tassa sulle transazioni
valutarie (del tipo della Tobin Tax) che renda costosi i trasferimenti inteazionali di
denaro a scopo speculativo e offra il ricavato per finanziare lo sviluppo.

 

Il lavoro strumento per la dignità della vita

– Vogliamo che sia migliorata e venga applicata la legislazione
internazionale che impedisce lo sfruttamento lavorativo delle persone. Costo del lavoro
più basso e competitivo non deve significare "umiliante".

 

L’ambiente dovere globale

– Vogliamo che siano riconfermati immediatamente gli accordi di Kyoto
in tema ambientale e che sia indicato in modo trasparente il percorso futuro di
rafforzamento dell’azione di tutela del Creato.

 

Libertà e democrazia economica

– Vogliamo un’economia libera in cui siano impedite posizioni di
monopolio, come quelle delle multinazionali in grado di alterare il mercato e
l’informazione sulla loro azione.

 

Un’informazione libera

– I paesi del G 8 promuovano leggi che garantiscano a livello nazionale
e internazionale la pluralità dei media e degli editori, vietando monopoli, per
permettere una libertà responsabile a tutti i cittadini.

– Vogliamo un’informazione trasparente anche sulle caratteristiche
dei prodotti alimentari in generale e in particolare degli organismi geneticamente
modificati (ogm).

 

La scienza per tutti

– Vogliamo che sia finanziata fortemente la ricerca pubblica in campo
sanitario, per rendere possibile la produzione di farmaci per le malattie diffuse tra le
popolazioni più povere.

In particolare vogliamo siano moltiplicati gli sforzi per rendere i
farmaci per la cura dell’AIDS accessibili a tutti coloro che sono infetti, in Africa
e ovunque, a cominciare dalle donne incinte prima e dopo il parto.

– Vogliamo regole che consentano produzione e distribuzione dei
medicinali a costi sostenibili per le popolazioni più povere. Questo significa affrontare
anche la questione della riforma della proprietà intellettuale.

 

A Tor Vergata abbiamo ascoltato le parole del Papa

Cari amici, vedo in voi le "sentinelle del mattino" in
quest’alba del terzo millennio. Nel corso del secolo che muore, giovani come voi
venivano convocati in adunate oceaniche per imparare ad odiare, venivano mandati a
combattere gli uni contro gli altri. Oggi siete qui per affermare che, nel nuovo secolo,
non vi presterete a essere strumenti di violenza e distruzione; difenderete la pace,
pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete a un mondo in cui altri
esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la
vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di
rendere questa terra sempre più abitabile per tutti.

È esattamente quello che vogliamo fare.

Francesco Beardi