«AMARCORD» AFRICANO

Da due decenni
in America Latina,
padre Giuseppe Ramponi
rivive i primi 15 anni
di esperienza missionaria
a tutto campo vissuti
in Kenya: attività religiosa,
promozione umana,
scuole, ricerca linguistica
e antropologica
e inculturazione
del vangelo.

Il 17 settembre 1967 il parroco
con la comunità di Pieve di Cento
(BO) mi diceva addio con
queste parole: «La parrocchia si sente
onorata di dare uno dei suoi figli
alle missioni, per portare la verità e
l’amore di Cristo a coloro che hanno
fame e sete di giustizia».
In novembre mandavo i primi sentimenti:
«Wamba (Kenya): la mia più
grande sofferenza non è la fatica o la
privazione, ma la tristezza nel vedere
tanta miseria».

IL TIROCINIO
Wamba, nella diocesi di Marsabit
e distretto dei samburu, era una missione
in costruzione, con tutte le precarietà
che ne derivavano: alloggio
provvisorio, molestie di insetti, animali,
scorpioni, serpenti e insicurezza di vario genere. Inoltre, dovevo
trovare il mio posto nella “missione”:
studiavo la lingua, svolgevo
qualche attività da prete e davo una
mano nei lavori.
Nel febbraio del 1968 l’apprendistato
era finito. Il parroco disse
che di lingua ne sapevo più di lui
e mi buttò in piena attività missionaria:
cominciai a visitare i
villaggi.
Le scuole erano l’attività
fondamentale della
missione, e permettevano
di creare
comunicazioni
con la gente e
portare l’evangelizzazione
su
un piano possibile:
quello dei ragazzi. Dai vecchi
non ci si aspettava che cambiassero
modo di vivere; ma ci aiutavano, approvando
che i figli ricevessero un’educazione
differente.
Col passare del tempo venivo a
contatto con i veri problemi: contrasti
tra la gente, divisioni tribali, inefficienza
dell’amministrazione pubblica
e, per completare il quadro,
scontri con i missionari protestanti.
Le relazioni ecumeniche andavano
bene in Europa, molto meno in missione.
Presenti nella regione da moltissimi
anni e forti del patrocinio dell’amministrazione
coloniale inglese,
essi si sentivano padroni e ci ritenevano
invasori. Comprendevo il loro
risentimento e li compativo. Più tardi,
in America Latina, ho capito perfettamente come ci si sente, quando
tocca a noi essere invasi dagli evangelici,
che portano via intere comunità
con campagne sistematiche di
proselitismo.

CAPIRE LA GENTE
Dopo un anno cominciavo a delineare
i termini del mio essere missionario:
accettare ogni novità con
impegno ed entusiasmo; accogliere
tutti e amarli con tutte le forze.
Alla fine del ’68 arrivò a Wamba il
dottor Silvio Prandoni, per organizzarvi
un ospedale ideale: ebbi con lui
una serie di dialoghi che mi stimolarono
nella ricerca di capire la gente:
mi aprivo alla necessità di discorsi
antropologici e culturali.
Ma il momento cruciale in cui entrai
nel mondo della cultura avvenne
il 22 dicembre: dopo la messa, un
fabbro samburu, con cui parlavo sovente
su usi e costumi del suo popolo,
mi chiamò in disparte; mi mostrò
un braccialetto di ferro a forma di
serpente fatto da lui stesso e, dopo averci
sputato sopra a lungo con solennità,
me lo consegnò dicendo:
«Da questo momento io e te siamo
una sola cosa: tutto ciò che è mio è
anche tuo, tu sei mio fratello».
Mi commossi e mi sentii inviato e
missionario. Ma ignoravo la parte
non dichiarata della cerimonia: la reciprocità.
Inconsciamente afferrai
un’altra importante verità: uno deve
dare quello che può e aspettarsi altrettanto.
Per fare l’africano avrei
dovuto travestirmi; ma riuscii a fornire
vari dettagli della mia vita, capaci
di farmi riconoscere come amico
e fratello, senza camuffare limiti e
differenze.
Volevo capire la vita della gente e
conoscere tutto, senza dare giudizi e
senza demonizzare nulla. Se qualcosa
mi fosse risultata incomprensibile,
avrei cercato altri punti, tempi e
voci per avere la visione più esatta
possibile.
Arrivarono i primi cambi e diventai
missionario itinerante: da Wamba
a Maralal, poi a Loyangallani e infine
a Moyale: tutte esperienze che
mi aiutarono ad acquisire capacità
indispensabili: adattamento, malleabilità,
creatività, disponibilità.

DA MAESTRO A SCOLARO
All’inizio del 1970 passai a Maralal,
con l’incarico di studiare lingua,
usi e costumi delle popolazioni del
distretto e la supervisione delle scuole
della diocesi di Marsabit. Nel campo
linguistico si cominciava da zero:
bisognava preparare una struttura
grammaticale e glottologica che non
è stata ancora raggiunta.
Ma la difficoltà più grande era convincere
i confratelli della necessità
d’imparare la lingua per comunicare
il vangelo in profondità. Si comunicava
con fatica usando un kiswahili
rudimentale, sufficiente per le attività
comuni; ciò faceva scomparire voglia
e impegno di studiare seriamente l’idioma
locale, il samburu.
Le scuole erano state nazionalizzate;
ma potevano conservae l’identità
cristiana, avendo noi diritto
di nominare il direttore e un certo
numero di maestri. I documenti coloniali
parlavano chiaro al riguardo,
ma bisognava cambiare atteggiamento:
bussare, farsi ricevere, chiedere
e inventare linguaggi nuovi nelle
relazioni con chi al mattino si era
ritrovato seduto ad una cattedra.
Poco a poco ricostruii il dialogo e
il riconoscimento reciproco con le
autorità: queste avevano bisogno di
noi, essendo ancora estranee al mondo
samburu. Mettemmo in atto una
strategia raffinata: fare in modo che
dessero quegli ordini che una volta
venivano da noi.
In cinque anni dovetti cambiare
molte idee e forma mentale: da maestro
mi ritrovai scolaro. Fu come ripercorrere
una vita intera. Toai
piccolo per crescere di nuovo, aggiustare
la mentalità, imparare cose nuove,
rivedere con misure diverse giudizi
e criteri, efficienza ed efficacia.

E FU UN CAPOLAVORO
Nel 1970 la Saint Mary’s Girls Primary
School di Maralal era una scuola
persa in tutti i sensi: il governo aveva
occupato tutto, scuola e convitto, per un litigio tra il parroco e il direttore
distrettuale, che era kikuyu: la
scuola si era riempita di kikuyu; i
samburu erano ridotti a 40 bambine.
Per prima cosa accettai la storia e
ristabilii le relazioni. Saint Mary’s fu
restituita e mi impegnai personalmente
nella ricostruzione. Cercai i
collaboratori; chiesi come direttrice
una suora conosciuta a Wamba.
Dopo cinque anni la Saint Mary’s
era diventata una scuola modello,
balzata in tutto al primo posto: per
insegnamento, profitto accademico,
sport e attività varie. Quando veniva
un personaggio, le autorità lo portavano
con orgoglio a visitare Saint
Mary’s.
Mai dimenticherò un pomeriggio
favoloso, quando le bambine tornarono
vittoriose dalle olimpiadi scolastiche:
le coppe elevate al cielo e il
coro fortissimo che cantava: «Siamo
le bambine di Ramponi». Mi viene
ancora la pelle d’oca.
Devo dire che il mio lavoro non fu
isolato. Con i padri del distretto dei
samburu avevamo creato una frateità
di dialogo e solidarietà. Ogni
mese ci incontravamo e parlavamo
di tutto: lavoro, difficoltà, organizzazione,
pastorale, cultura, progetti.
Ricordo quel tempo come una esperienza
bellissima di sintonia, apertura,
entusiasmo e forza apostolica.

AFRICANI URBANIZZATI
Al Capitolo generale del 1975 fui
scelto come delegato regionale e rappresentante
continentale nel comitato
di preparazione. In assemblea
passò l’idea di creare l’ufficio generale
di ricerca e pianificazione pastorale,
ma ebbe vita difficile per le
resistenze di vecchie prerogative.
Toai a Maralal deciso ad attuare
le indicazioni capitolari: dare visibilità
agli africani e noi missionari assumere
il ruolo dell’uomo invisibile.
Ma trovai l’opposizione di chi avrebbe
dovuto approvare ufficialmente
con coraggio e coerenza le
nuove vie dell’evangelizzazione.
Non potevo continuare in una situazione
superata e fuori della storia;
il parroco condivideva la mia posizione:
lasciammo Maralal per aprire
una missione a Mombasa, sull’Oceano
Indiano.
Si apriva così un nuovo capitolo di
esperienza missionaria: accompagnare
l’africano urbanizzato, cioè
sradicato dalla propria terra e mondo
monoculturale e passato alla città,
in una società pluriculturale.
Si trattava di una zona totalmente
musulmana, con cristiani provenienti
da altre regioni ed etnie del
paese, con relative differenze culturali
ed ecclesiali, con cattolici, protestanti
e tanti movimenti religiosi.
Il prete che prestava qualche servizio
religioso a piccole «colonie», ci
disse che i cattolici erano pochissimi.
Lo diceva a occhi chiusi. Abbiamo aperto
gli occhi e abbiamo contato
più di 6 mila cristiani.
Non avevamo niente. Radunammo
i cristiani in una scuola e cominciammo
a formare le piccole comunità
di base. Ciò facilitava la localizzazione
delle famiglie, raggruppate
in quartieri tribali. Nel campo sociale
mi dedicavo ad aiutare i bambini
poveri perché andassero a scuola.
Una mamma della parrocchia divenne
la cornordinatrice del movimento
«Elimu ni maisha» (educazione
è vita), con un comitato eletto
dalle mamme per la gestione del
progetto. Arrivammo ad avere 230
bambini e bambine, metà dei quali
musulmani. Era chiaro che non dovevano
esserci pressioni di sorta. Anzi,
si pagava una tassa extra per il
maestro di corano che insegnasse ai
bambini musulmani.
Con la gente eravamo abbastanza
affiatati. Si procedeva a misura d’uomo,
cercando di fare una lettura attenta
della realtà culturale, sociale,
politica e religiosa per non cadere
nell’errore di programmi troppo
grandi o fuori posto.
Quando il parroco venne trasferito,
dovetti prendere il timone. La sua
partenza lasciava un grande vuoto.
Avevamo lavorato con affiatamento:
i nostri stili divergevano, ma si completavano;
personalmente avevo bisogno
di lui. La gente soffrì per la
partenza: gli volevano bene; con lui
era facile dialogare.
Un caro amico, anche lui con esperienza
del Marsabit, venne ad
aiutarmi. Continuammo la costruzione
delle strutture parrocchiali. La
chiesa in mattoni era bella e accogliente;
quella di pietre vive anche
migliore: era una casa-famiglia, in cui
si lavorava insieme, sviluppando valori
e qualità specifiche di ogni persona.
La domenica era il giorno per
stare assieme. La settimana era dedicata
al lavoro, alla formazione della
comunità, agli incontri per cornordinare
la promozione umana.
Ma avevo nostalgia dei samburu.
Sarei ritornato volentieri, con decisioni
rinnovate e disponibilità. Mi fu
fatta, invece, un’altra proposta: andare
in Colombia, a Cartagena, tra
gli afro-americani, discendenti degli
schiavi evangelizzati da san Pietro
Claver. Iniziava così un terzo capitolo
di esperienza missionaria: dopo gli
africani in casa propria e
urbanizzati, mi trovavo tra
quelli in esilio.

Giuseppe Ramponi




QUASI MAI RAGAZZE, QUASI SEMPRE VITTIME

In una giornata possono guadagnare
quanto in uno o più mesi di lavoro.
Scelta di comodo o necessità?
Dietro le esistenze di queste giovani
ci sono quasi sempre privazioni e violenze,
ed ora anche Aids e aborti clandestini.
Siamo alla periferia di Lima,
ma potremmo essere in qualsiasi metropoli
del mondo: cambiano le modalità,
ma la sostanza è la stessa.
Quella che segue è una testimonianza
forte e tristissima, che evidenzia
la durezza della situazione.
La denuncia è tanto scontata
quanto necessaria.

Posteggiammo l’auto proprio di
fronte alla baracca che Nolberto
mi aveva indicato. Non
c’era niente che poteva fare immaginare
quello che avremmo trovato
all’entrare. Solo una scritta ambigua:
«Video-Pub».
Non so bene per quale lato del
mio carattere, ma ogni tanto amo
mettermi alla prova. È un aspetto
più intellettuale che concreto, ma
sempre, quando qualcuno mi prende
sul serio (e in questo caso era stato
l’amico Nolberto), mi trovo a
compiere passi che mai avrei immaginato
di poter compiere. Il problema
è che, nel momento in cui mi accingo
a compierli, mi viene un terrore
che riesco a superare solo con
una certa dose di incoscienza e in
quei momenti sempre mi torna in
mente la stessa frase: «Ma chi me lo
fa fare?».
La stessa domanda me la posi nel
momento in cui scostammo le tende
nere che chiudevano l’ingresso
della baracca «Video-Pub» di Villa
El Salvador, città di 350.000 abitanti,
all’estrema periferia di Lima, in
Perù.
Scostata la prima tenda nera, i rumori
si attutirono completamente e
gli occhi, passando dalla luce accecante
dell’esterno ad un ambiente
completamente buio, si trovarono a
vagare ansiosi. Un’altra tenda nera
chiudeva il vero ingresso. La superammo
e il cuore cominciò a battere
velocemente. Eravamo all’interno
di un postribolo clandestino di una
periferia del Terzo mondo.
Ma chi me l’aveva fatto fare?
Approfittando di qualche settimana
di ferie in Perù, avevo
deciso di approfondire il tema
dell’Aids. Dopo alcune interviste,
avevo capito che non era possibile
comprendere il problema, se
non cercavo di capire la società in
cui esso nasceva e, all’interno di
questa, due aspetti in particolare: la
sessualità nei giovani e la prostituzione.
Avevo manifestato a Nolberto la
mia idea e lui, da uomo concreto e
conoscitore di ogni aspetto della vita
di Villa El Salvador, mi aveva proposto
una visita alla signora Isabel,
professionista di riconosciuta fama
ed attualmente tenutaria di un piccolo
«elegante» bordello.
Passata la seconda tenda nera, ci
trovammo in un locale di dimensioni
impossibili da definire. Le pareti
erano totalmente dipinte di nero e
l’unica luce presente era una specie
di fluorescente (di quelli che si usano
nelle discoteche di
terza categoria), che
illuminava di luce azzurrognola
solo il
bianco delle camicie e
alcune piccole decorazioni
floreali sulle
pareti nere. Il resto erano
solo sagome indistinte.
La musica ad
altissimo volume
completava l’atmosfera.
L’effetto finale
era di stordimento di
tutti i sensi (solo il
battito del mio cuore
si faceva sentire).
Trovammo un tavolino
con due sedie
e ci sedemmo. In un
attimo due ragazze
(forse di 16 anni) si
avvicinarono e, con
fare molto professionale,
tentarono di sedersi
sulle nostre ginocchia
e appoggiandoci
un braccio sulla
spalla ci chiesero: «Una
caraffa di birra con
compagnia? O forse
preferite una caraffa
di sangrilla con compagnia?».
All’unisono, Nolberto
ed io, quasi ci
fossimo messi d’accordo,
rispondemmo:
«Birra senza compagnia,
grazie». La risposta le lasciò
sconcertate e fece sì che si allontanassero
subito dal nostro tavolo.
Toarono con la caraffa di birra,
che, ad ogni buon conto, ci fecero
pagare salatamente e in anticipo, e
ci chiesero cosa desideravamo di altro.
Chissà, forse vedevano in noi
clienti un po’ particolari, oppure sospettavano
che fossimo poliziotti.
Certamente non dimostravano più
il calore dell’iniziale accoglienza e di
questo eravamo felici.
«Dovremmo parlare con la padrona
» disse Nolberto, che mi aveva
raccontato di averla conosciuta
quando lavorava come taxista.
Le due ragazze sparirono e, dopo
un po’, arrivò una persona con una
torcia elettrica che ci puntò contro
per scrutarci bene negli occhi.
Riempì di domande Nolberto che
rispose sempre a tono, usando il gergo
dell’ambiente.
Ad un certo punto, la donna disse
rivolgendosi a me: «Uno che ha
gli occhi come i tuoi, non può essere
un poliziotto».
Senza rispondere, la invitammo a
sedere con noi e, ordinata un’altra
caraffa di birra (anche questa pagata
salatamente e in anticipo), cominciammo
a conversare.
Qualche giorno prima, avevo
intervistato Max Pinedo, un
ragazzo di 25 anni, studente
di pedagogia e fondatore di un
gruppo giovanile di lotta all’Aids.
Mi avevano detto che Max conosceva molto bene la realtà giovanile
di Villa El Salvador.
La conversazione con lui fu ampia
ed interessante, ma mi lasciò sconcertato.
La città, che come medico
avevo conosciuto 10 anni prima, era
profondamente cambiata e le
problematiche giovanili si mostravano
con tutta la violenza e l’esasperazione
che si può immaginare
all’estrema periferia di una città di 7
milioni di abitanti.
Max, raccontami della sessualità
nei giovani di Villa El Salvador.
«Qui le ragazze di 14 anni sono
considerate ormai “predisposte” ad
un rapporto con l’altro sesso. Ma il
vero problema è il “machismo”. Per
i ragazzi, prima inizi la tua vita sessuale
più dimostri di essere un uomo,
ed è sempre questi che decide
quando e quante volte avere una relazione
sessuale.
In generale per un maschio la vita
sessuale si inizia ai 13/14 anni e, dato
che un ragazzo di questa età cerca
coetanei, la stessa cosa vale anche
per le ragazze e questo al contrario
di quanto si pensa generalmente.
Qui, a Villa El Salvador, c’è la cultura
della forza. Difficilmente si stabilisce
una relazione di coppia che
si sviluppa sulla base di una stabile
relazione d’amore o, almeno, di un
mutuo accordo. Si stabilisce, al contrario,
una competitività fra gli uomini
su chi è più forte, su chi ha più
relazioni sessuali. A scuola, se un adolescente
porta con sé un preservativo,
è ammirato dai compagni,
perché è considerato un ragazzo libero,
un uomo vero. Succede inoltre
che il padre machista, quando il
ragazzo compie 15 o 16 anni, lo porti
con sé ad un bordello affinché abbia
la sua prima relazione sessuale».
Dunque ci sono bordelli a Villa El
Salvador?
«Certamente. A Villa ci sono parecchi
bordelli clandestini. I più comuni
sono case d’appuntamento,
nelle quali tu entri pagando un sol
(mezzo euro, ndr), per assistere ad
un ballo. Entri e trovi ragazze adolescenti
di 14, 15 o 16 anni che ballano
per te. Paghi un altro sol e vedi
ballare le ragazze completamente
nude. Quando termina il ballo, le ragazze
si avvicinano a te per farti consumare
una bevanda; e più consumi
e più hai diritto a tenere con te una
ragazza.
Le ragazze lavorano per una persona,
che di norma è il padrone del
night club. Il loro compito è di spingere
i clienti a comprare da bere, sigarette
e (ovviamente!) droga. Più
questi consumano, più le ragazze
guadagnano. Se poi il cliente vuole
avere una relazione sessuale, deve
andare dal padrone a contrattare il
prezzo.
A Villa El Salvador, ci sono molti
luoghi così, senza alcun permesso legale.
Puoi girare di notte per alcune
strade e vedere tu stesso. Ti invitano
ad entrare, gridando che per un sol
ci sono ballerine nude.
Sono veramente tante le ragazze
che si prostituiscono. Le zone più a
rischio di Lima sono El Cercado, La
Victoria, El Callao, Chorrillos e, appunto,
Villa El Salvador.
In città ci sono bordelli legali con
tutti i necessari controlli sanitari e
dove non si trovano adolescenti, ma
nelle zone povere della periferia è un
altro discorso. Noi, nel nostro lavoro
di lotta all’Aids, siamo entrati come
clienti ed abbiamo chiesto se (almeno)
si vendessero preservativi.
No, neanche questo. Locali così a
Villa ce ne saranno una ventina».
E la polizia non interviene?
«Ma anche i poliziotti frequentano
questi locali! Una volta eravamo
dentro uno di questi bordelli, quando
abbiamo visto arrivare una macchina
della polizia. Le ragazze sono
entrate nella loro auto e se ne sono
andate via insieme. Il padrone le offre
ai poliziotti per non avere problemi».
Ma perché le ragazze si prostituiscono?
«Per denaro, non può esserci altra
ragione».
Vi sono quindi grandi interessi
commerciali intorno all’adolescenza?
«Oh, certo! Immaginati che i night
clubs aprono normalmente alle
6 del pomeriggio e chiudono alle 4
o 5 del mattino.
Un ballo dura tre minuti, ed ogni
tre minuti entra una decina di giovani.
Alcuni si fermano a bere e altri
no. In ogni locale ci saranno 8 o
10 ragazze ed alcuni hanno anche
delle stanze, nascoste normalmente
dietro il bagno, per favorire le relazioni
sessuali».
Dove si iniziano i giovani alla sessualità?
«Nelle discoteche. In alcune danno
il permesso di entrare anche agli
adolescenti e, dopo aver bevuto
qualche cosa, si iniziano. Oltre a
questo c’è poi il diffusissimo problema
della violenza sessuale: il padre,
il vicino di casa, lo zio. Ce ne sono
tanti di casi così!».
Ci sono molte ragazze che rimangono incinte? E aborti?
«Si dice che ogni 10 ragazze adolescenti,
3 o 4 rimangano incinte e di
queste la metà abortiscono».
Dove abortiscono?
«In Perù è proibito abortire. Però
ci sono levatrici o medici che si prestano.
E poi ostetriche e perfino studenti
di medicina. E le ragazze abortiscono
in luoghi non adatti e in
condizioni terribili».
Violenza su violenza?
«Sì, violenza su violenza. Il tutto
mediato dai soldi. Per esempio, a
Villa El Salvador abortire con un
medico costa fra 200 e 400 dollari.
E poi anche in questo caso i giovani
sono soli. Al massimo, si accompagnano
fra loro, con un’amica o il ragazzo».
E i genitori dove vivono? In un altro
mondo?
«I genitori sono troppo occupati
a ingegnarsi per mettere insieme il
pranzo con la cena».
Sì, immagino. Ma volevo dire che
alla fine gli adolescenti si trovano
ad affrontare il mondo da soli.
«È così. L’errore è che né i genitori
né i professori ti parlano di queste
problematiche e, quando la sessualità
comincia a svegliarsi, sono
solo gli amici che ti consigliano. Gli
adolescenti trovano risposte (inadeguate)
solo da loro coetanei».
C’è omosessualità?
«Sì, anche l’omosessualità esiste
ed è molto violenta. Pochi giorni fa
stavo accompagnando al poliambulatorio
del ministero della Sanità un
ragazzo omosessuale adolescente e
lui mi raccontava di essere stato violentato
a scuola. Ci sono poi casi di
abusi in famiglia, nelle feste, durante
il servizio militare».
Sempre violenza. Perché?
«La perdita di valori è una delle
cause principali. Se vuoi parlare agli
adolescenti di sessualità, di gravidanza,
di malattie a trasmissione
sessuale, di Aids, devi partire dai valori.
Soltanto così potrai ottenere risultati».
Spiegati meglio…
«A mio modo di vedere non bisogna
fare campagne informative incentrate
esclusivamente su alcuni aspetti.
Non basta uscire nelle strade
per ricordare di come ci si protegge
dall’Aids. Meno ancora si deve parlare
in senso costrittivo e magari dire
che le ragazze devono arrivare
vergini al matrimonio.
No, questo non serve. Bisogna iniziare
a parlare degli affetti, bisogna
lavorare sui valori, sul rispetto
di se stessi e degli altri, magari con
messaggi del tipo : “io mi voglio bene,
e tu ti vuoi bene?” Prima i valori,
poi la sessualità».
Al secondo litro di birra la testa
cominciava a girare, gli occhi
bruciavano per la strana illuminazione
azzurrognola e le parole
della signora Isabel si ammassavano
in testa, confondendosi con la musica
assordante del «Video-Pub».
Non volevo creare problemi e, d’altra
parte, non potevo neanche pensare
di accendere il registratore in
quell’ambiente.
Le chiesi: «Verrebbe domani mattina
a fare colazione con noi per continuare
la chiacchierata?».
Accettò di buon grado e la mattina
successiva eravamo puntuali alle
10 davanti alla baracca. Ne uscì una
signora vestita in modo elegante, sobriamente
truccata, con due grandi
occhiali neri che le nascondevano lo
sguardo. La signora Isabel (che finalmente
potevo vedere bene) era
sulla quarantina.
Dopo esserci consultati, scegliemmo
un locale verso le spiagge, appena
sotto la città pre-incaica di Pachacamac.
Si poteva fare colazione
all’aperto, con maiale arrosto e
caffè. Insomma, era il locale giusto
per chiacchierare indisturbati.
Come ha iniziato, signora Isabel?
«Come ho iniziato? A 20 anni, nel
Botecito (postribolo legale nel Callao,
porto di Lima, ndr).
Fu a causa di un incidente. Dovevo
operarmi ad un occhio e mi stavano
per buttare fuori dal lavoro di
centralinista in un ufficio. A causa di
questo pericolo, mi misi a lavorare
ancora di più, perché avevo già due
bambine. Ma un giorno chiesi ad una
amica che faceva “il lavoro” di
portarmi con lei.
Un sabato andai con lei e, visto
che ero una novellina, mi drogarono.
Mi dettero delle pastiglie e quel
giorno guadagnai come in un mese
intero da centralinista. La domenica
tornai e guadagnai come tre mesi di lavoro. Mi facevo chiamare Isabel
e il numero della stanza era il
13. Lasciai l’ufficio. Guadagnavo
molto bene. Lavoravo dalle 3 del
pomeriggio alle 11 di notte.
Con quel denaro mantenni le mie
due figlie, aiutai i miei due nonni,
comprai la casa ai miei fratelli, e assistetti
fino ad interrarle le mie zie e
mia madre. Riuscii ad evitare tutti i
vizi, nonostante che le mie compagne
di lavoro mi tentassero continuamente.
Grazie a Dio, ogni 15 giorni eravamo
sottoposte ad una visita medica,
il pap-test ogni tre mesi. Ci insegnavano
come proteggerci. In questo
modo e grazie alle mie
precauzioni, non contrassi alcuna
malattia. Grazie a Dio!
Alcune delle mie compagne invece
si ammalarono. Per guadagnare
qualche soldo in più permettevano
ai clienti di non usare il preservativo.
La mia idea, da sempre, è che
prima di tutto bisogna amare se stessi
e stimarsi. Io mi amavo e mi stimavo
e sapevo di fare quel lavoro
per le mie figlie. Sono sempre stata
prima madre che donna».
Quando ha conosciuto l’Aids?
«Nel 1991 un’amica risultò affetta
dal virus. Quando me ne resi conto,
mi feci tre volte le analisi che furono
sempre negative. Sempre grazie
a Dio».
Quando ha aperto il locale di Villa
El Salvador?
«Abbandonai il lavoro due anni
fa, quando avevo 40 anni. E con i risparmi
accumulati aprii questo posto.
L’idea iniziale era di creare un
locale per le coppie, un night club.
Lo inaugurai. Però le cose non andavano
bene, perché venivano uomini
a chiedere ragazze ed ancora
ragazze. Cercai quindi le ragazze».
Come le cerca?
«Vado alla Chancheria (il mercato
centrale della città, ndr). Metto un
avviso del tipo “si cercano ragazze
per servizio al pubblico” e, quando
arrivano, spiego loro di cosa si tratta.
A volte mi portano delle ragazze
e a questi intermediari pago 20
soles».
Ci sono molte ragazze che vogliono
fare questo lavoro?
«Parecchie. Io sono arrivata ad avee
10. Però adesso il lavoro è diminuito
ed ho solo 4 signorine».
Come mai ragazze tanto giovani
arrivano a prostituirsi?
«Perché hanno bisogno di soldi».
Quanto rimangono le ragazze nel
suo locale?
«Queste che lavorano adesso, le
ho da circa 6 mesi. Altre se ne sono
andate, perché io non sopporto che
abbiano dei “protettori”, che venga
un uomo a prendere i loro soldi.
No, questo non mi piace. Non mi
piace, perché è come se lo facessero
a me. Io insegno loro che devono
lavorare per se stesse, per comprarsi
quello che desiderano: un
terreno per la loro casa, il televisore,
i vestiti.
Mi sono capitate anche ragazze
delinquenti, che hanno tentato di
rubare ai clienti e questo non mi va.
Io voglio solo gente onesta».
Signora Isabel, ha avuto anche ragazze
minorenni?
«Una volta arrivò da me una ragazza,
raccontandomi che non aveva
né madre né padre. Dimostrava
vent’anni. Però un giorno un cliente
mi disse: “Signora, conosco questa
ragazza: ha 15 anni!”. “Che cosa
dice ?”. Corsi subito a cercare la famiglia
e trovai i suoi genitori.
Chiesi a loro : “Avete una figlia di
nome Bony?”. “No”, mi risposero.
Allora tirai fuori una foto e loro la riconobbero.
Raccontai tutto, ma non
se la presero con me. Il padre venne
a portarsi via la figlia. Immaginati
che questa ragazzina, prima di lavorare
con me lavorava già a San Juan
de Miraflores».
Come funziona il suo locale?
«Funziona così: io garantisco un
minimo di 10 soles (circa 4 euro) a
notte. Per ogni caraffa di sangrilla o
di birra che riescono a vendere do
loro altri 5 soles. Più le persone bevono
più loro guadagnano: per questo
sono affettuose con i clienti.
Qui vengono uomini di tutti i tipi:
ingegneri e medici di Lima, falegnami
e delinquenti. Io do loro un buon
servizio; la gente che viene qui ha
soldi».
E se una persona vuole di più?
«Se uno poi vuole il servizio totale,
deve pagare 50 soles, 25 per la casa
e 25 per la ragazza. E io la proteggo».
Perché è aumentata tanto la prostituzione?
«Colpa del Chino Fujimori. Ha liberalizzato
l’apertura di locali “turistici”.
Ha distrutto il mondo del lavoro…
E poi, per una ragazza sopra
i 25 anni, non c’è lavoro».
Come vede la situazione della
prostituzione a Villa El Salvador?
«Fatti di notte una passeggiata per
la Chancheria. Le ragazzine si offrono
per pochi soldi, con 6 soles (poco
più di 2 euro, ndr), ti porti via una
quindicenne. Oltre a questo, ci
sono tanti locali come il mio, forse
una ventina, e tutti gli alberghi a ore».
E i genitori delle ragazze che «lavorano», cosa sanno, cosa dicono?
«I genitori non possono non sapere,
perché le ragazze portano soldi
in casa. E poi, se una ragazzina di
15 anni si compra pantaloni di marca,
se ha un telefono cellulare, cosa
possono pensare i genitori? No, i genitori
sanno, ma le ragazze portano
a casa i soldi per mangiare e devono
rimanere in silenzio».
A quanti anni una bambina ha le
sue prime relazioni sessuali?
«A 12. Scappano alla spiaggia. La
mamma lo sa, ma a molte madri non
interessano le figlie, solo i soldi».
C’è molta violenza verso le donne?
«Certamente. Ma non nel mio locale.
Qui la polizia non ci da fastidio
perché le ragazze sono vestite e non
nude come in altri locali. A me non
piace che stiano senza vestiti. È
brutto. E poi non è necessario che
siano nude per far bere gli uomini.
Negli altri locali è diverso. Ai padroni
non interessano le loro ragazze,
perché sono uomini.
Io, in quanto donna e madre, le
capisco di più. Porto le mie ragazze
ai controlli presso il Centro di salute.
Ogni ragazza ha il suo carnet
bianco ed anch’io».
Ci sono molti aborti?
«Anche a questa domanda debbo
rispondere di sì. Che debbono fare?
Una ragazza, che lavorava con me, a
19 anni aveva già due figli ed il secondo
voleva regalarlo. Molte volte
queste sventurate non conoscono
neanche chi sia il padre. Come fanno
ad allevare e mantenere i figli?».
Continuammo a parlare per un
paio d’ore e, a testimonianza
di questo, ho qui davanti a me
due cassette da sbobinare con la storia
di Isabel, violentata dal padre,
sposata a 12 anni, con due figli a 15,
divorziata a 18, prostituta a 20, tenutaria
di un bordello a 40.
Isabel, donna di gran fede, di gran
onore e con una sua morale. Isabel,
prostituta che fece studiare le figlie
in una scuola di monache per proteggerle.
Isabel, sfruttatrice di ragazze,
donna forte e sicura, a suo
modo femminista. Isabel, con una
coscienza sociale e politica, un po’
simbolo delle contraddizioni della
povertà. Non riesco a dare giudizi
morali fin troppo facili ed inutili,
ma la vita è dura per l’umanità meno
fortunata e più debole. E fra i deboli
del Terzo mondo, i ragazzi adolescenti
sono coloro che più sono
quotidianamente in pericolo. E
fra loro le ragazze sono vittime spesso
predestinate: madri o prostitute
a 15 anni.
Quasi mai ragazze, quasi
sempre vittime.

(*) Guido Sattin è il medico che
cura la seguitissima rubrica «Come
sta Fatou?».

«Macché sfruttate»
Milano. (…) Victoria fa da sè decisamente e rappresenta
una faccia inedita del fenomeno prostituzione,
finora sconosciuta o meglio nascosta ad
arte. Incrociamo il suo faccino 20enne da modella
alla stazione di Milano (…). Il freddo non ti pesa?,
le chiedo (…). Mi risponde che sulla strada si fanno
più soldi più in fretta, e che in poche ore di sacrificio
mette insieme quanto faceva a Praga in 10
mesi. (…) Per chi si aspettava di trovare donne picchiate,
sfruttate, stuprate, o comunque molto infelici
della proporia condizione, l’impatto con la strada
non è dei più decifrabili. Victoria non è un caso
limite, la prostituzione è anche questo. (…) La maggioranza
di quelle contattate qui vivono in appartamento
oppure in albergo. Se gli offri un impiego da
domestica o da segretaria rifiutano guardandoti
come un poveraccio. (…)
Quanto alle schiave (…) siamo molto lontani dal
100% di straniere in catene (e 40% di minorenni
stuprate) sul totale, sovrastimato dal fondamentalismo
di don Benzi nella sua proposta di legge anticlienti,
o dall’80% di sfruttate dei dati Caritas.

Francesco Ruggeri sul quotidiano «Libero»,
27 gennaio 2002

Guido Sattin




FINALMENTE IL DIO CHE ASPETTAVAMO

Kipengere, Matembwe, Kisinga: missioni
della diocesi di Njombe.
Qui opera da 33 anni
padre Camillo Calliari,
missionario della Consolata
trentino.
Sorretto dalla gente
e da numerosi amici italiani,
impegnato in significative
iniziative di promozione umana.
Il suo modello? Gesù di Nazaret.
Che… faceva e insegnava
(cfr. At 1, 1).

Lavoro nella parrocchia di Kipengere
da 14 anni. La missione,
fondata nel 1933, è una
delle prime del Tanzania. Numerosi
sono stati i missionari della
Consolata che vi hanno trasfuso le
loro migliori energie, annunciando
la parola di Dio. Prima ho operato
anche a Kisinga e Matembwe.

SI ACCENDE LA STUFA
Kipengere è una missione ad alta
quota: le montagne toccano i 2.200
metri e fa freddo quasi tutto l’anno.
Una bella stufa trentina rimane accesa
giorno e notte, riscaldando la
casa dei missionari.
Dato il clima (così poco «africano
»), con i giovani abbiamo montato
una piccola industria per produrre
stufe a legna. Ne abbiamo già
sfoate 200 e vanno a ruba. Sono
come le stufe italiane di qualche decennio
fa (cucine): di metallo, con
pietre refrattarie al calore e una piastra
per cuocere il cibo.
La stufa è richiesta da molte donne,
che forse l’hanno vista in casa di
un’amica; cominciano a risparmiare
qualche scellino, finché riescono
a comprarsela. I vantaggi sono numerosi:
mentre il focolare tradizionale
(costituito da tre pietre) è fuori
della casa per il fumo e la cenere
abbondante che produce, la stufa è
nell’abitazione stessa; produce poco
fumo, riscalda l’ambiente e le vivande
si cuociono bene e con meno
legna.
La stufa ha avuto un notevole
successo, tanto che non riusciamo
a soddisfare tutte le richieste.

LA VOCAZIONE DELL’ACQUA
Gesù andava incontro alle persone
e alle loro necessità: lo chiamavano
se il servo era ammalato o se il
figlio era morto, ecc. Egli interveniva
in modo efficace, senza rifiutarsi
a nessuno.
Questa deve essere anche la no-

stra missione: di fronte a chi si trova
nel bisogno, occorre affrontare il
problema e cercare di aiutarlo concretamente.
Appena arrivato in Tanzania, nel
1969 sono stato destinato a Kisinga,
una missione oggi retta dal clero africano.
Non c’era ancora la chiesa,
ma nelle camere dei padri c’era l’acqua
corrente. Una bella comodità, e
pensavo che anche la gente l’avesse.
Ma così non era: la popolazione doveva
andare ad attingere acqua in
fondo alla valle. Il piccolo acquedotto
era stato costruito solo per la
missione. Prolungarlo avrebbe comportato
una spesa impossibile da sostenere.
Erano anche anni molto difficili
per l’economia.
Tuttavia mi assalì una specie di rimorso.
Mi dicevo: «Perché non si
possono unire in sinergia governo,
popolazione, missionari e i loro benefattori
per realizzare un acquedotto
che porti beneficio a tutti?».
Così è nata in me la vocazione degli
acquedotti. A Matembwe, dove
ho lavorato successivamente, ne ho
costruiti quattro. Essendo il territorio
collinoso, bisognava far giungere
l’acqua dalla valle al paese abitato,
posto in alto. Abbiamo fabbricato
grandi ruote idrauliche (simili
a quelle dei mulini) per raccogliere
l’acqua e poi le pompe la spingevano
su. È quanto ho fatto anche a Kipengere.
L’acqua è vita. Senz’acqua proliferano
le malattie (specie il colera,
che qui è endemico). Le donne poi,
come schiave, sono costrette a scendere
e salire continuamente la collina
per rifoirsi d’acqua… Abbiamo
portato l’acqua a 7 dei nostri 13
villaggi, servendo una popolazione
di 16 mila persone. Con l’acqua, c’è
la possibilità di fare mattoni e, quindi,
di costruire la casa in muratura,
un uso che si sta diffondendo.
Quando l’acqua è arrivata nelle
case, abbiamo goduto nel vedere la
gioia delle donne. Prima passavo
nel villaggio e mi salutavano semplicemente;
ma, dopo l’acqua, è tutto
un sorriso. I bambini mi corrono
dietro, mi chiamano per nome, mi
accolgono. Sono felici.

AUTOGESTIONE DALLA BASE
Al presente la priorità è che l’acqua
sia potabile al 100%. In genere
essa è contaminata alla fonte; quindi
si tratta di costruire opere sussidiarie
(filtri e vasche di decantazione)
per renderla idonea al consumo
umano senza rischi.
La manutenzione degli acquedotti
è in mano della gente. La norma è
che, quando l’opera entra in funzione,
sia consegnata a un comitato che
se ne prende cura. Vi sono volontari
italiani, tecnici specializzati, che
realizzano gli impianti; nello stesso
tempo preparano persone del luogo
per renderle capaci di conservarli e
ripararli.
Non vi sono solo «doni», ma «autofinanziamenti
» dalla base. Per assicurare
l’autofinanziamento, ogni
famiglia paga un tot all’anno; chi ha
un’attività in proprio (un negozio o
bar) paga di più. I soldi vengono depositati
in banca. Così ogni comunità
gestisce il proprio acquedotto.
Questo educa a sentire propria l’opera:
tutti devono essee responsabili.
Ciò avviene quando i progetti si
studiano e realizzano insieme. Allora
la popolazione partecipa con entusiasmo
e i risultati sono ottimi. Ad
esempio: in soli tre giorni si è scavato
un solco (70 x 25 centimetri) di
10 mila metri per depositare i tubi
dell’acquedotto. Tali successi incoraggiano
ad intraprendere altri progetti.
L’unico rammarico è di non poter
fare giungere l’acqua a tutti. Sono
tantissimi coloro che la chiedono.
Ma io non ho la bacchetta magica
per farla sgorgare dove non c’è.

FALEGNAMI
A Kipengere, quando sono arrivato,
c’erano 4 falegnami e 2 muratori,
istruiti da un… catechista: apprendisti
senza pretese. C’era anche
un gruppo giovanile, bene organizzato,
ma con poche prospettive di
lavoro. Proprio dai giovani è partita
la richiesta di fare qualcosa di utile
per la loro vita. È nata l’idea di
una scuola professionale.
Abbiamo organizzato due corsi:
uno di falegnameria per i maschi e
uno di economia domestica per le
femmine. La scuola dura un triennio;
al termine, rilascia un diploma
riconosciuto dallo stato, che consente
di essere assunti in qualsiasi
industria o cornoperativa. Grazie all’aiuto
di alcuni benefattori, ogni
studente ha ricevuto una cassetta di
strumenti per iniziare a lavorare in
proprio.
Non solo: abbiamo pure costituito
una cornoperativa, dove i falegnami
diplomati possono lavorare per
due anni guadagnando abbastanza.
La cornoperativa è gestita dai giovani,
che lavorano su ordinazioni, e il ricavato
viene diviso equamente.
In questo modo, dopo 5 anni, un
giovane esce dalla scuola con un diploma,
una professione, una cassetta
di strumenti e un piccolo gruzzolo
per cominciare un’attività. A volte
lo fanno mettendosi in società,
assistiti dalla cornoperativa madre.
La cornoperativa è nata grazie al sostegno
di un’importante azienda edile
di Trento. Un socio della ditta,
Bruno (ha lavorato pure come volontario
a Kipengere), è deceduto;
in suo ricordo, l’azienda ha offerto
40 milioni di lire alla cornoperativa.
Altri volontari della stessa azienda
hanno donato gli strumenti di lavoro
per gli studenti e sono venuti in
loco per piazzare le macchine e sistemare
il capannone.

SARTE, E NON SOLO
Nella scuola di economia domestica
per le ragazze si insegna di tutto:
taglio e cucito, un po’ d’inglese
e matematica, cucina, orticoltura,
allevamento di bestiame minuto…
Quando la ragazza termina il corso,
è pronta per formare una famiglia.
Anche così nasceranno famiglie più
preparate di fronte alla vita.
L’iniziativa mira soprattutto a chi
non trova lavoro e non ha prospettive.
Non ci sono scuole secondarie;
la gente è povera, vive del lavoro dei
campi e non ha la possibilità di pagare
gli studi dei figli. In tale situazione
la ragazza si rifugia in città
nella speranza di trovare l’eldorado,
ma non trova nulla.
La scuola rappresenta una risposta
concreta alle necessità delle ragazze;
la possono frequentare anche
le meno abbienti, perché si richiede
una tassa annuale quasi simbolica.
L’opera si sostiene con l’apporto di
alcuni amici: ad esempio, è venuta
fra noi una docente di una scuola
tecnica di Rovereto; vista la realtà,
essa stessa ha animato i maestri e gli
alunni con una iniziativa di solidarietà
a distanza, gemellandosi con la
nostra scuola.
C’è un elemento non trascurabile:
la scuola ha campi e allevamenti
di bestiame; ciò che si produce è a
favore di tutti.
Quest’anno, d’accordo con gli altri
missionari, ho aperto anche una
casa per accogliere alcuni delle migliaia
di bambini orfani, vittime dell’Aids
dei genitori. In coscienza non
me la sentivo più di lasciarli soli.
Per sostenere la nuova iniziativa,
in Italia sta nascendo una «fondazione
»; chi vi aderisce offre mensilmente
un aiuto in denaro depositandolo
in banca. Pertanto l’orfanotrofio
continuerà, anche quando io
non ci sarò più.

GLI AMICI DELLA MISSIONE
I lettori hanno certamente capito
che, alle mie spalle, vi sono persone
che «spingono», desiderose di fare
del bene: persone che non si accontentano
di un’«offerta una tantum»,
ma che vogliono impegnarsi in modo
continuativo per chi giace nel bisogno.
Basta offrire loro l’opportunità.
Basta saper collaborare.
Allora vale la pena di organizzare
insieme qualcosa di bello, di cristiano.
Io presento progetti seri e
«gli amici della missione» si impegnano
a realizzarli; anzi, incalzano
me, missionario, ad affrettare i tempi.
In questo modo tanti diventano
missionari.
Ho avuto la fortuna di lavorare
con il Cefa (Comitato europeo di
formazione agraria) di Bologna: è
un’organizzazione non governativa
seria, che attua progetti approvati
dal governo, dall’Unione europea,
ecc. Vi sono volontari che, al mattino,
recitano «le lodi» con noi missionari
e, alla sera, «i vespri»: giovani,
coppie e famiglie che lavorarono
in missione entusiasti. Grazie
ad essi, ho conosciuto il mondo del
volontariato: un mondo multiforme
e ricco.
Oltre ai volontari, ci sono i gruppi
spontanei; crescono un po’ dappertutto:
solo in Trentino se ne contano
una settantina. Spesso sono legati
in modo esclusivo ad «un»
missionario; e questo non è sempre
positivo: infatti devono imparare
ad aprirsi anche ad altri missionari,
a tutte le necessità. In ogni caso sono
generosi; l’importante è impegnarli
con progetti validi, che essi
gestiscono nel migliore dei modi.
I progetti, per avere successo e
futuro, devono prima essere sempre
discussi con la gente e il governo locale.

IL VANGELO IN AZIONE
Nell’attività missionaria non basta
annunciare, in qualche maniera,
il vangelo: scuole e opere di sviluppo
sono parte integrante del lavoro
missionario. Si tratta di priorità richieste
dalla stessa chiesa locale.
Oggi, in Tanzania, forse il giovane
missionario non condivide pienamente
questo modo di fare missione.
Certo, i metodi si possono discutere.
Secondo la mia esperienza
di 33 anni, la promozione umana ha
dato e dà frutti positivi. Talora ho
l’impressione che manchi proprio
«il lavoro», così caro al nostro fondatore,
il beato Giuseppe Allamano.
Noi, missionari, dobbiamo seguire
l’esempio di Gesù che predicava,
ma anche faceva; anzi, secondo Gli
atti degli apostoli, «faceva» e… predicava.
La promozione dell’uomo
non è una «cosa sociale»: è carità. È
vangelo in azione.
A Kipengere esistono pure 54 piccole
comunità cristiane, che seguo
tutte anche «spiritualmente». Esco
di casa alle 7,30 del mattino per partecipare
ai loro incontri e, alle 9, indosso
la tuta da lavoro. Con me operano
padre Giovanni Berghi, di
78 anni, e un prete diocesano locale.
Il progetto è di prepararlo ad assumere
la completa responsabilità
della parrocchia.
Kipengere conta anche su 100 ettari
di terra che, coltivati, servono
alle opere dell’intera diocesi. Si producono
ogni anno 2-3 mila quintali
di grano, che la diocesi gestisce secondo
le necessità.
Un giorno è giunto in missione
un anziano. Osservando
le varie opere in cantiere mi
ha detto: «Baba Camillo, questo è il
Dio che noi aspettavamo…». È un
vecchio di 83 anni, con 4 mogli; a 3
ha dato tutto quello che poteva. È
rimasto con una moglie sola dicendo:
«Ho conosciuto il baba missionario,
che ci ha aiutati; per mezzo
suo ho conosciuto anche Dio. Oggi
Lui mi chiama ad essere cristiano».
È un vecchietto che, alla sua veneranda
età, percorre in
bicicletta 20 chilometri
per partecipare alla messa.

Nel 1986 Giorgio Torelli scrisse un libro su padre Camillo Calliari
BABA CAMILLO
Ho cinque ore di silenzio fino alla
campana del primo e così lento
albeggiare, quando Camillo sortirà di
casa a passi di sentirnero trentino, e
andrà a bersi un caffè nella baracca
dove già spira un fil di fumo azzurro.
Le ragazze della missione sanno
prepararglielo al buio, fra i gatti che
si stirano.
Camillo entrerà in chiesa e si vedranno
le sue manone tuttofare mentre
consacrano il pane. Io ci sarò.
Prima fila: otto benedettine africane,
soavemente nere sopra lo scapolare
immacolato. Seconda fila: quel
po’ di ragazzi che hanno trottato i
chilometri del fango a piedi scalzi e
diranno il Padre nostro in swahili.
Padre si dice «baba». Anche Camillo
è «baba». E poi, nell’ultimo banco, io
col golf stropicciato e gli stivali. Si
vedranno le orme dei piedi bagnati,
la pianta e le dita, sul rosso del pavimento.
Un’ora di restauro perché Camillo
torni ad essere quel che s’è
scelto: agricoltore, meccanico, falegname,
saldatore, elettricista, allevatore,
costruttore di tutto che gli riesca
e, in definitiva, «homo faber in nomine
Domini».
Nessuno più crede che sia lecito
annunciare la parola evangelica senza
metterla in pratica. E mi domando:
di cosa urge l’Africa ignota, quella
di cui non si ragiona mai, gli
sconfinati paesaggi dei poveri che
non avvistano prospettive perché insediati
nelle pieghe inaccessibili di
un continente travagliato?
L’Africa irrisolta brama uomini che
si accollino la sua stessa fame, la
sete, la precarietà del destino, il divenire
della gente, la speranza che non
è mai dissipata, i sogni di avere in fine
quel che milioni d’uomini già posseggono
perché hanno saputo tessere
la propria storia in modo diverso.
Io non abito in questa parte d’Africa
per esaminare col bilancino (tarato
da me stesso) quali siano i meriti e i
demeriti degli africani che possiedono
appena una stuoia, una zappa,
tre pietre per il fuoco e il tetto di paglia
infiltrato dai topi. E neanche Camillo,
come tutti i padri della Consolata,
è qui per questo. Io ci sono per
vedere da vicino Camillo e i suoi. E
Camillo dedica l’imbiancarsi della
barba a chi non ha fortune, non sa,
non s’imbatte nei giorni migliori, resta
impantanato negli anni e ha pur
diritto alla giustizia.
Quale giustizia? Ma quella tessuta
da altri uomini, capaci e avveduti,
che gli dedichino fedeltà e fatiche. È
difficile trovar sonno col girotondo dei
pensieri.
Ed è Montanelli che m’insorge alla
mente, spilungone, la voce cupa e
calibrata, le gambe da trampoliere
sotto la tavola e il pane casereccio
spilluzzicato. Siamo in una trattoria
toscana. È marzo. Tutto s’è risolto a
fagioli e vino in fiasco, fuori è un
giorno piovoso e da soprabito che
volteggia. Il Fenicottero viene al dunque:
«Devi farmi un viaggio. Ti scegli
l’Africa che vuoi e scendi a vedere
quel che io so per certo, con la memoria
e l’intuito: i missionari, vecchio
mio, sono gli unici promotori di sviluppo,
i soli che diano garanzie di
battere fame e pochezza perché ci
mettono anima, competenza e rigore
senza scadenza».

(da Baba Camillo, Istituto geografico
De Agostini, Novara 1986, pp. 23-25)

Camillo Calliari




LA PACE NON PUÒ ATTENDERE

Guerriglieri senza scrupoli e squadroni della
morte, entrambi considerati anche terroristi.
Narcotrafficanti, corrotti, impuniti, profughi,
disoccupati… E soprattutto tanti morti
ammazzati. Di fronte alla violenza, il governo
è troppo debole? E la chiesa poco profetica?

Ho dovuto lasciare la Colombia
per motivi di salute. Potrei
parlare di questa mia
ultima esperienza, dura e improvvisa.
Oggi, come non mai, mi sento
nelle mani di Dio… Se detto queste
considerazioni sul paese è anche per
«distrarmi», per non crogiolarmi eccessivamente
nei miei guai. Ma non
sono «distrazioni» allegre.

Ndr: Padre Claudio Brualdi allude
alla propria maculopatia, che improvvisamente
l’ha reso quasi cieco.
All’origine della malattia c’è il diabete,
ma anche l’intenso stress cui il
missionario è stato sottoposto in Colombia.
Superiore dei missionari della
Consolata nel paese, padre Claudio
si è dovuto dimettere dal servizio.

IL DISTACCO DELLA GENTE
È arduo presentare la Colombia.
La nazione sta attraversando una situazione
assai complessa: forse è all’apice
del dissesto. Fino a ieri, parlando
della Colombia, si pensava al
narcotraffico come al problema numero
uno. Il narcotraffico esiste, ed
è una questione scottante, ma con
l’aggravante di altre.
Ciò che preoccupa maggiormente
non sono solo i problemi, ma che
si stenti ad intravvedee la soluzione,
una speranza per il futuro. Si aspetta
che le cose cambino, ed invece
la matassa si aggroviglia sempre
di più. Il governo è inetto da molto
tempo: non è capace di compiere
riforme serie. Ogni quattro anni si
vota: i nuovi governanti promettono
mare e monti, ma tutto rimane
come prima. La gente ha perso la fiducia.
Alle ultime elezioni del 1998 votarono
10 milioni di persone, cioè
meno del 40%. Esiste un distacco
dalla politica: forse per questo il governo
non è in grado di attuare le
riforme giuste. In parlamento, poi,
siedono personaggi che pensano di
più ai loro interessi che ad un cambio
positivo nel paese.
L’esercito nazionale non sembra
all’altezza per fronteggiare la guerriglia:
una guerriglia di estrema sinistra,
che dura quasi da 50 anni,
oggi divenuta più aggressiva. Spiccano
due movimenti guerriglieri:
Farc (Forze armate rivoluzionarie di
Colombia) e Eln (Esercito di liberazione
nazionale). Le Farc contano
15-20 mila uomini e l’Eln 6-8 mila.
Da 7-8 anni è all’opera un’altra
forza, paramilitare di estrema destra,
fonte di guai pari (se non superiori)
a quelli causati dai guerriglieri.
I paramilitari sono cresciuti molto
in poco tempo: se, in 50 anni, la
guerriglia ha raccolto 25 mila armati,
i paramilitari in 7-8 anni sono diventati
15 mila.
Come è sorta la terza forza eversiva?
Data l’incapacità dello stato di
tutelare gli interessi dei grandi ricchi
(fra cui i «baroni della droga»),
questi (con il sostegno di alcuni generali)
si difendono da sé, assoldando
squadracce armate. Il nome è eloquente:
Autodifese unite di Colombia
(Auc).
Farc, Eln e Auc sono stati dichiarati
gruppi terroristici. Sono tre forze
che contribuiscono a fare della
Colombia, forse, la nazione più violenta
del mondo. Ormai da tempo
nel paese si contano, in media, ogni
anno 25-30 mila morti ammazzati.
Sono circa 30 i gruppi terroristici
nel mondo, e tre di questi operano
in Colombia. Pertanto uno dei
bersagli possibili dell’amministrazione
di George W. Bush (che vuole
sradicare il terrorismo dal pianeta)
potrebbe essere anche la Colombia.
Tuttavia il «caso Colombia»
è particolare, in quanto lo stato non
appoggia i movimenti terroristici.

ALCUNI NODI CRUCIALI
Le guerriglie sono ormai divenute
«storia». Sono forti non solo per
il numero dei loro membri, dotati di
armi potenti, ma anche perché possono
imporre condizioni allo stato
di diritto.
Negli ultimi quattro-cinque anni
si è manifestata una forma straordinaria
di guerriglia, che ha attaccato
i piccoli centri della nazione: nessuno
è rimasto indenne. I mezzi usati
sono rudimentali: cilindri di gas esplosivo,
imbottiti di chiodi e vari
oggetti contundenti, che scoppiano
contro persone e cose… Non sono
«bombe intelligenti»!
Gli ordigni esplodono presso le
sedi di polizia, nel cuore del paese,
vicino alle chiese. Per cui le bombe
fanno scempio pure degli edifici sacri
(cfr. Missioni Consolata, giugno
2000). Una conseguenza del terrore
è l’esodo dalle campagne verso i
centri urbani, anche perché dal
campo la popolazione non trae più
mezzi sufficienti per vivere. E le città
diventano megalopoli, circondate
da misere favelas. Ogni anno a Bogotà
arrivano circa 300 mila individui,
si dice… Nel paese si contano 2-
3 milioni di sfollati interni: devono
lasciare tutto per sfuggire alla violenza;
ma, approdati altrove, non
trovano lavoro. La disoccupazione
è al 21%.
Né si dimentichi il narcotraffico.
I cartelli di Medellín e Cali sono spariti.
Però ci sono gli eredi. E le guerriglie
controllano le coltivazioni di
coca e i ricchi traffici di cocaina.
Un altro problema gravissimo è la
corruzione politica, con fiumi di denaro.
E tutto resta impunito. Impuniti
anche i reati contro i diritti umani,
che riguardano spesso i paramilitari.
I processi iniziano, ma non
finiscono, perché di solito mancano
le prove di colpevolezza.

QUALE PROCESSO DI PACE?
Bisogna accennare anche del processo
di pacificazione. Il presidente
della repubblica, Andrés Pastrana,
ne ha fatto la bandiera del suo
governo. Non ancora eletto, si incontrò
subito con Manuel Marulanda,
capo delle Farc, sorprendendo
tutti. Qualcuno criticò il gesto.
Pastrana incominciò a governare
il 7 agosto 1998 tra grandi aspettative.
In vista della pacificazione con
la guerriglia, il presidente stabilì una
«zona di distensione», smilitarizzata:
42 mila chilometri quadrati
nel Meta e Caquetà (dove operano
i missionari della Consolata).
Fino al natale 1998 ci furono ostacoli
per iniziare i colloqui tra governo
e Farc: per esempio, a San Vicente
del Caguán, c’era un battaglione
di 1.500 soldati, che secondo
le Farc dovevano essere tutti ritirati;
ima, secondo il governo, almeno
100 dovevano restare per opere di
manutenzione. Alla fine vi fu il ritiro
di tutti i soldati; solo il sindaco
poteva restare. Intanto si organizzò
una guardia civica, composta da
simpatizzanti delle Farc, per controllare
il territorio.
Il 7 febbraio del 1999 Pastrana
subì un grave smacco. Quel giorno
si doveva inaugurare ufficialmente a
San Vicente il processo di pace. Tutto
era pronto, però Maluranda non
si presentò. Il processo tuttavia incominciò,
ma senza risultati concreti.
L’unico aspetto positivo è stato
«un inizio» di dialogo, varie volte sospeso
e ripreso.
Nell’agosto 2000 Pastrana lanciò
anche il «Piano Colombia», ispirato
e finanziato dagli Stati Uniti, con
il quale progettava di sradicare 60
mila ettari di coltivazioni di coca.
Dato il legame tra guerriglia e coca,
il Piano mirava a indebolire le Farc
e i narcotrafficanti, invece di affrontarli
sul campo di battaglia.
Però gli attacchi ai civili sono continuati
fino ad oggi, con numerose
vittime. Il governo, criticato per il
suo atteggiamento arrendevole verso
la guerriglia, ha imposto alle Farc
delle condizioni per continuare il
dialogo, e cioè: rispettare la vita dei
civili e non coinvolgerli in conflitti;
sospendere i sequestri di persona e
abbandonare i blocchi stradali per
estorsioni (la cosiddetta «pesca miracolosa»).
Ma la matassa non si dipana, perché
le Farc (ad esempio) comprendono
72 fronti, e ognuno fa ciò che
vuole. Si pone allora il quesito: nelle
trattative Marulanda chi rappresenta?
La guerriglia, una parte e quale?

«I VESCOVI LAMENTANO…»
Il processo di pacificazione, nato
tra grandi speranze, sta naufragando?
Le critiche verso il presidente
Pastrana sono dure, perché avrebbe
scontentato tutti. Ma anche i governi
precedenti non hanno conseguito
risultati. Pastrana, se è stato
indulgente verso la guerriglia, è stato
pure coraggioso. Gli altri non lo
sono stati altrettanto.
E l’atteggiamento della chiesa? In
questo contesto ho la sensazione che
non stia svolgendo il ruolo che dovrebbe.
La chiesa è presente nel processo
di pace, però non con una posizione
autonoma: infatti la guerriglia
ritiene che il presidente della
Conferenza episcopale al processo
sia quasi una voce del governo.
L’analisi della realtà è buona; però
le belle riflessioni terminano con un
generico «i vescovi lamentano…». È
troppo poco in un clima di violenza
e ingiustizia. La presenza della chiesa
non appare incisiva, profetica.
Si sapeva che il processo di pace
sarebbe stato lungo e tortuoso. Ma
sono già trascorsi tre anni! Quanto
bisogna attendere ancora? C’è chi
ricorda con amarezza il detto latino:
dum Romae consulitur Saguntum espugnatur
(mentre a Roma si discute,
Sagunto viene presa).
In Colombia le vittime
sono già state un esercito.

San Vicente del Caguán, 19 gennaio 2002: il governo e i portavoce delle
Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) siglano un accordo
per attuare il piano di pace. Sono presenti anche membri della chiesa cattolica
(fra cui Francisco Múnera, missionario della Consolata e vescovo di
San Vicente) e rappresentanti delle Nazioni Unite.
Per uscire dal conflitto, che da 37 anni insanguina il paese, si dovrà seguire
i punti concordati. Le Farc non si oppongono allo sradicamento manuale
delle coltivazioni illegali di coca, pur ribadendo che devono essere
consultate le comunità interessate. I punti principali dell’intesa:
– immediato studio sulle modalità per il «cessate il fuoco»;
– sospensione dei sequestri di persona da parte della guerriglia;
– lotta del governo contro i paramilitari.
Una commissione internazionale verificherà che i punti siano stati rispettati
e aiuterà a superare eventuali ostacoli. La firma dell’accordo concreto
sulla cessazione delle ostilità si dovrà avere entro il 7 aprile 2002.
L’«area di distensione» resterà in vigore fino al 10 aprile.
L’incontro era iniziato male. Infatti il giorno prima era stato assassinato
padre Arias Garcia, 30 anni, impegnato nella sua parrocchia di Florencia
(Caldas) in un negoziato tra guerriglieri e paramilitari locali.
D’altro canto i paramilitari hanno denunciato l’accordo; hanno tacciato
il presidente Pastrana di codardia, accusandolo di «aver concesso tutto
in cambio di niente».

Claudio Brualdi




LOTTE DI SUCCESSIONE

Colonia francese dalla fine del secolo
XIX, la Costa d’Avorio ottenne l’indipendenza
nel 1960. La stabilità politica,
garantita all’autoritarismo patealista
del presidente Félix Houphouët-
Boigny, e la manodopera a buon mercato
attirarono nel paese gli investimenti
inteazionali, procurando una
crescita economica pari quasi al 10%
annuo. Ma a partire dal 1979, tale crescita
fu azzerata dalla recessione dell’Occidente:
il debito estero fu quadruplicato,
siccità e calo dei prezzi dei prodotti
di esportazione (cacao, caffè,
cotone, zucchero…) aggravarono la crisi
economica del paese.
Gli «aggiustamenti strutturali» imposti
dal Fondo monetario per raddrizzare
la situazione appannarono la figura
del presidente, che nel 1990 aprì la
strada alla democrazia pluralistica.
Nel 1993, la morte di Boigny (88 anni,
33 di potere incontrastato) innescò
la lotta per la successione. Lo sostituì il
presidente dell’Assemblea nazionale,
Henri Konan-Bédié, che costrinse il contendente,
il primo ministro Alassane
Ouattara, a dare le dimissioni. Passato
all’opposizione, questi fondò il Raggruppamento
dei repubblicani (Rdr), appoggiandosi
a musulmani e stranieri. Ma
le elezioni presidenziali del 1995, boicottate
dall’opposizione, furono stravinte
da Bédié, che, per mettere del tutto
fuori il suo rivale, fece una legge, poi
inserita nella costituzione e approvata
con referendum, che dichiarava ineleggibile
alla presidenza chi non avesse entrambi
i genitori di origine avoriana.
Nato nel nord della Costa d’Avorio
(1942), ma da un capo tradizionale
dell’Alto Volta (oggi Burkina Faso),
Ouattara trascorse la giovinezza nel
paese paterno, studiò negli Usa e lavorò
nel Fmi come voltaico, finché riapparve
sulla scena politica avoriana nel 1982.
I suoi avversari lo dicono «venuto non
si sa da dove»; ma lui sostiene che gli
si nega la candidatura alla presidenza
«perché musulmano e uomo del nord».
Nelle varie tornate elettorali (presidenziali,
parlamentari e municipali), lo
sventolio della bandiera dell’«avorianità
» da parte dei politici continuò a
esasperare le tensioni, provocando
scontri etnici e religiosi: tra il 1999 e il
2000 si sono avute oltre 300 vittime,
senza contare il danno economico causato
dalla fuga di decine di migliaia di
lavoratori stranieri. In tale contesto, nel
natale 1999, avvenne il colpo di stato
militare, in cui il generale Guéi s’impose
come garante dell’ordine. Salutato da
Ouattara e compagni come «una rivoluzione
dei garofani», tale evento aggravò
i disordini, rischiando di sfociare in
guerra civile.
Alle elezioni presidenziali dell’ottobre
2000, boicottate dall’opposizione,
Guéi si dichiarò vincitore, ma le
proteste scoppiate in varie città e il responso
del Comitato per le elezioni diedero
ragione allo sfidante, Laurent
Gbagbo, capo del Fronte popolare avoriano,
eletto col 59,3% dei voti.
Per ricomporre l’unità del paese,
Gbagbo convocò un Forum per la riconciliazione
nazionale, che si svolse da ottobre
a dicembre 2001. I 750 rappresentanti
di partiti, gruppi religiosi, sindacati,
amministrazioni locali e
associazioni varie hanno esposto le proprie
idee e suggerito soluzioni per risolvere
la crisi sociale, politica ed economica
del paese. Le proposte sono state
consegnate al presidente, cui spetta
metterle in atto. Tra le varie raccomandazioni
figura anche quella di restituire
piena cittadinanza avoriana a Ouattara.
La calma sembra tornata nel paese;
ma Ouattara continua a pestare i piedi,
reclamando nuove elezioni.

Benedetto Bellesi




«PUNTI» E «NODI»…PER LEGARE ANCORA DI PIÙ

RETE DI LILLIPUT
la grande assemblea di Marina di Massa

Chi sono i «lillipuziani»? Sono ragazzi e ragazze
in «jeans», ma anche uomini in cravatta
e donne in «tailleur».
Erano in 500 (autofinanziati) a Marina di Massa
per il loro incontro nazionale;
rappresentavano migliaia e migliaia di italiani.
Il fine? Un’economia di giustizia.
E non solo.
Se il piccolo «davide» abbatte da solo
il gigante «golia», che succederà se tanti «davide»
uniranno le loro fiondate?
Ecco perché è sorta la «rete dei lillipuziani».
Chi sono i «lillipuziani»? Sono ragazzi e ragazze
in «jeans», ma anche uomini in cravatta
e donne in «tailleur».
Erano in 500 (autofinanziati) a Marina di Massa
per il loro incontro nazionale;
rappresentavano migliaia e migliaia di italiani.
Il fine? Un’economia di giustizia.
E non solo.
Se il piccolo «davide» abbatte da solo
il gigante «golia», che succederà se tanti «davide»
uniranno le loro fiondate?
Ecco perché è sorta la «rete dei lillipuziani».

NON-VIOLENZA SEMPRE
«Jambo a tutti i lillipuziani!». Con
questo saluto affettuoso di padre Alex
Zanotelli, si è aperta la seconda
Assemblea nazionale della «Rete di
Lilliput», svoltasi a Marina di Massa
il 18-20 gennaio 2002.
Era un appuntamento molto atteso.
Centinaia di gruppi e persone, che
da oltre due anni lavorano insieme
per una economia di giustizia, sentivano
il bisogno di riflettere sul proprio
cammino, anche perché il 2001
fu un anno drammatico. Le violenze
inaudite durante il vertice dei G8 a
Genova e l’incredibile tragedia
dell’11 settembre negli Stati Uniti
(con la guerra in Afghanistan) hanno
scosso l’animo fortemente pacifista
della Rete di Lilliput.
L’incontro di Marina di Massa ha
ribadito, in modo netto, l’opzione
della non-violenza come scelta strategica.
Questa ha rappresentato il filo
conduttore dei lavori, che si sono intrecciati
nei tre giorni di dibattito.
Sulla non-violenza è intervenuto
un gruppo di lavoro specifico: ha
programmato un percorso di formazione
teorica e pratica, con lo scopo
di fornire alcuni nuovi strumenti di
comunicazione; ha indicato un modo
più consapevole di stare in piazza e
progettare le mobilitazioni. Per concretizzare
quella che rischia di essere
solo un’adesione ideale a principi, si
prevede di organizzare gruppi di azione
non-violenta distribuiti sul territorio.

UNA «RETE» ARTICOLATA
Uno scoglio da appianare è stato
quello dell’organizzazione. La Rete
di Lilliput in questi anni si è estesa e
il contesto si è fatto più complesso;
da molti membri si avverte l’esigenza
di darsi una struttura, di individuare
dei ruoli, pur non perdendo di vista
la volontà di arrivare sempre a «decisioni
comunitarie», frutto del pensiero
della totalità dei lillipuziani.
Infatti uno dei punti cardine della
Rete di Lilliput, oltre alla non-violenza,
è la democrazia partecipativa, che
si manifesta nel dare a tutti la possibilità
di incidere nelle scelte, senza
creare sovrastrutture o ruoli di leadership.
Obiettivo non facile da rag-giungere, vista la vastità e capillarità
della Rete sul territorio italiano.
Il cammino decisionale è iniziato
a settembre dello scorso anno, con
il dibattito all’interno di ogni singolo
«nodo» della Rete, che ha visto una
prima sintesi negli incontri regionali.
Questi si sono svolti a Milano,
Firenze e Roma, rispettivamente
per i «nodi» del nord, centro e sud
della penisola; hanno prodotto dei
documenti che sono stati portati all’Assemblea
di Marina di Massa e
discussi in un apposito gruppo.
Nel gruppo si sono confrontati i
referenti di ogni «nodo», tutti accompagnati
da un osservatore. Il risultato
è confluito in un documento
di 11 punti, che raccolgono i principi
basilari e i criteri condivisi da tutti
gli aderenti alla Rete. Fra questi: la
non-violenza, il rifiuto del personalismo,
la professionalità nell’impegno
politico, la fiducia reciproca, l’esauriente
e rapida circolazione delle
informazioni.
Si è definito il «punto» di Lilliput,
che rappresenta il primo momento
di incontro per le realtà locali, dove
non esiste ancora un «nodo» articolato.
L’evoluzione dei «punti» è rappresentata
dai «nodi», elementi fondanti
della Rete: essi sono luoghi di
incontro per associazioni, gruppi e
singoli, aventi il compito di estendere
la Rete nelle realtà locali, portandovi
contemporaneamente la dimensione
nazionale e quella internazionale.
Ogni «nodo» gode di una
propria autonomia e non è auspicabile
l’adesione ad esso di partiti politici
o sindacati.
Vi è poi l’Assemblea nazionale
(come quella di Marina di Massa),
cui è affidato il compito di verificare
il percorso fatto e di proporre iniziative
per l’anno successivo. L’Assemblea
si tiene con decorrenza annuale
ed è aperta a tutti.
A livello nazionale esistono pure i
«gruppi tematici di lavoro», aperti
a tutti, con il compito di approfondire
gli argomenti ritenuti importanti
per la Rete (non-violenza, ecologia,
economia di giustizia); inoltre
propongono iniziative concrete.
Infine, a Marina di Massa, la Rete
ha raccolto i temi delle campagne di
mobilitazione generale del passato.
Si sono organizzati gruppi di lavoro,
per fare il punto sulle attività presenti
e discutere gli impegni da privilegiare
quest’anno.

ECOLOGIA E BANCHE ARMATE
Ebbene, che sta facendo e cosa intende
fare la Rete di Lilliput?
Circa la cosiddetta «impronta e-cologica e sociale», è in corso il progetto
«pagine arcobaleno»; esso mira
a censire l’offerta di servizi e prodotti
rispondenti a criteri di eticità e
compatibilità ambientale, per offrire
strumenti utili (database on line e
guide regionali) sui produttori e fornitori
di beni a chi è attento alla qualità
dei propri consumi.
Questo si inserisce in un più ampio
percorso di formazione e sensibilità
verso il mercato; vorrebbe favorire
un cambiamento degli stili di
vita, a partire dalla propria quotidianità,
e aprire un approfondito
dibattito su nuovi indicatori di benessere,
in grado di dare strumenti
adeguati ai decisori politici e alla società
civile, ridimensionando la funzione
del prodotto interno lordo.
È già stato fatto un lungo lavoro di
elaborazione teorica, che ha portato
alla formulazione di un sistema di indicatori
che tengano in considerazione
anche i parametri ambientali e
sociali, oltre a quelli economici. Il
progetto è stato anche presentato al
Forum sociale mondiale di Porto Alegre
in un laboratorio organizzato
dalla Rete di Lilliput.
Analizzando gli aspetti più commerciali
e finanziari, un gruppo di
lavoro ha individuato nella campagna
«banche armate» un possibile
tema unificatore del lavoro di tutti i
«nodi». Considerata l’attuale situazione
di guerra e ribadita la scelta di
non-violenza, è emersa come urgente
la necessità di spostare risorse dalle
armi ad altre attività.
Pertanto si continuerà l’opera di
pressione sulle banche: si chiederà
maggiore trasparenza sugli investimenti
e si solleciterà che non siano
più finanziate attività legate al traffico
d’armi, mettendo in rilievo le
conseguenze drammatiche che il fenomeno
ha nei paesi del Sud del
mondo. Inoltre è stato proposto di
chiedere il disimpegno dal settore
«armi» alla Sace (Agenzia italiana di
credito all’esportazione), che copre
con fondi pubblici i rischi degli investitori
privati all’estero.
La campagna «banche armate» si
inserisce in un più ampio progetto
di opposizione alla guerra. I lillipuziani
si impegneranno per la «resistenza
» alla guerra dei cittadini e cittadine,
per l’obiezione alle spese militari,
nonché per la partecipazione
a missioni inteazionali di pace.
IL MONDO DEL PALLONE
Se, data la politica degli organismi
inteazionali, è sorto un gruppo di
lavoro nazionale per monitorare i
negoziati dell’Organizzazione mondiale
del commercio (Wto), Lilliput
non dimentica l’aspetto dell’agire
locale. La «lente sulle imprese» ha
ricordato la necessità di scrutare l’operato
delle ditte operanti sul nostro
territorio, dopo un’adeguata formazione
sulle tecniche di raccolta dei
dati.
A questo si affiancherà una campagna
di mobilitazione in vista del
campionato mondiale di calcio, avente
come scopo la denuncia delle
multinazionali negative che sponsorizzeranno
l’evento e la pressione,
affinché la Fifa adotti i principi del
Codice di condotta del 1996, concordato
con il sindacato internazionale
e mai sottoscritto…
Tanti progetti in cantiere, quindi,
per una rete che sta crescendo e ha
voglia di far sentire la propria voce.
Gli stimoli e l’entusiasmo scaturiti
nei giorni di Marina di Massa sono
stati davvero arricchenti.
Ora si tratta di rimboccarsi le maniche
e lavorare sulle tematiche individuate,
portando in casa e città…
«ancora una volta la voglia di agire
concretamente per un cambiamento
globale dal basso, che terrà uniti
i percorsi individuali e di gruppo,
per la costruzione di un mondo diverso
e sicuramente migliore» (dalla
dichiarazione finale,
accolta con un lungo applauso).

Luca Graziano e Cristina Coppo




IL GIGANTE IN TRAPPOLA

La Rete di Lilliput è nata nel 1998 dall’incontro tra
alcune associazioni nazionali (Aifo, Ctm, Mani Tese,
Pax Christi, Beati Costruttori di Pace, Wwf Italia, Rete
Radiè Resch, Centro nuovo modello di sviluppo, ecc.),
la rivista Nigrizia e diversi promotori di campagne nazionali di pressione e sensibilizzazione (Chiama l’Africa,
Sdebitarsi, Campagna per la riforma della Banca Mondiale,
ecc.).
Il nome e il significato di «Rete di Lilliput» derivano
da un’analogia ed una riflessione. Nella favola «I viaggi
di Gulliver» (1725), dello scrittore e politico irlandese
Jonathan Swift, i minuscoli «lillipuziani», alti appena
pochi centimetri, catturano Gulliver, il gigante
molto più grande e potente di loro,
legandolo nel sonno con centinaia di fili.
Gulliver avrebbe potuto schiacciare
qualsiasi «lillipuziano» sotto il suo stivale,
ma la fitta rete di fili lo immobilizza
e lo rende impotente (cfr. Missioni
Consolata, gennaio 2000).
D i fronte a poteri schiaccianti e istituzioni
globali, cittadini e associazioni
possono usare le forze modeste di
cui dispongono ed unirle a quelle di altri individui
e movimenti in vari luoghi. Il sogno è che
tanti gruppi, presenti in ogni angolo del paese, diventino
una grande voce, capace di farsi sentire e incidere
sulle scelte economiche che stanno alla base dei gravi
problemi sociali e ambientali che affliggono il pianeta.
In concreto, la Rete di Lilliput crea collegamenti con
tutte le realtà locali e nazionali che già operano nell’economia
di giustizia, nella non-violenza, nella difesa
dell’ambiente e nei diritti umani, per rendere più efficace
la promozione di nuovi stili di vita, la denuncia dei
rischi sull’ambiente di scelte politiche (che dovrebbero
invece contribuire allo sviluppo sociale). La Rete promuove
pressioni su governi e istituzioni nazionali e inteazionali,
affinché intraprendano iniziative concrete
per la pace e il benessere dei popoli.
I «lillipuziani» non sono mancati alle principali mobilitazioni:
per esempio, durante il vertice dei G8 a Genova,
quello di Mobilitebio nel 2000, la marcia per la
pace Perugia-Assisi nel dicembre scorso. I «lillipuziani»
hanno partecipato ad entrambe le edizioni del World Social
Forum di Porto Alegre (Brasile).
O ggi in Italia esistono 69 «nodi» della
Rete di Lilliput: sono il riflesso di
una presenza omogenea sulla nazione
e la prova di un forte incremento numerico
nel corso di questi anni (in
particolare si è registrata una crescita
alta in occasione dei G8 di Genova).
Nei «nodi» operano gruppi, associazioni
e individui, che non si sono dati regole
scritte o un’organizzazione formale,
ma decidono secondo il consenso generale in
assemblea. Esistono «gruppi tematici di lavoro» che
hanno carattere nazionale; ad essi partecipano persone
aderenti a un «nodo» e particolarmente interessate
all’argomento.
Il gruppo tematico più «antico» è quello sull’«impronta
ecologica e sociale». È già attivo uno nuovo, che
si occupa di non-violenza e conflitti. Altri gruppi sono
stati promossi durante l’assemblea di Marina di Massa.

Luca Graziano e Cristina Coppo




I NOSTRI VICINI DI CASA

Per prepararsi a diventare diacono, un’avventura missionaria…«fuori porta». Che, ribaltando dubbi e pregiudizi, spinge a una condivisione senza sconti.

Raccontare i miei tre mesi in
Albania non è facile: specialmente
se penso ai «luoghi
comuni» sugli albanesi, cui sono legate
le nostre menti. Poi, quando si
parla di «missione», non si pensa ad
un luogo vicino geograficamente…
Quindi i pregiudizi da superare sono
tanti. È lo sforzo che bisogna fare
anche per incontrare l’Albania
nella sua verità. Una terra così vicina
e così lontana da noi.
Dopo aver trascorso due anni in
una parrocchia di Brescia con molti
immigrati, ho desiderato «vedere
» una loro nazione di provenienza.
E sono andato in Albania.
Sono partito per compiere un’esperienza
forte, in vista della mia ordinazione
diaconale: imparare che
nella vita è importante sentirsi piccoli,
non sempre con le soluzioni in
tasca. Ma non immaginavo che vivere
in un luogo di cui conoscevo la
lingua solo in modo rudimentale e
dove non potevo adottare nessuna
«strategia» pastorale… mi avrebbe
aiutato a guardare con più umiltà al
dono del diaconato.

ALBANIA SCONOSCIUTA
È il giorno della partenza. Mi attende
un lungo viaggio in camion da
Brescia a Bari, l’attraversata dell’Adriatico
in traghetto e l’arrivo a Durazzo,
finalmente in Albania! Ma è
solo l’inizio.
Dopo due giorni per sbrigare le
pratiche doganali (altro che la burocrazia
italiana!), mi metto in viaggio
per la diocesi di Rrëshen, dove
vivrò. La diocesi si trova nel nord
del paese e confina con la Macedonia.
Gli spostamenti sono lunghi,
perché le strade sono pessime ed è
necessaria molta attenzione per evitare
le capre e gli asini che si incontrano
lungo il tragitto.
La gente saluta con entusiasmo e
i bambini si aggrappano con facilità
al camion, per vedere cosa trasporta.
Sembra che mi aspettino da tanto.
E forse è vero: per troppo tempo
ci siamo dimenticati di questi
«vicini di casa», e loro sono lì, come
per dirci: «Finalmente!».
Dopo tre giorni di viaggio, arrivo
a destinazione. Una sosta a Rrëshen
per la scorta d’acqua (di potabile ce
n’è ben poca!), il saluto a padre Cristoforo,
amministratore apostolico
(uno dei soli tre preti nella diocesi)
e sono a Fanë, la meta finale. È un
villaggio nascosto fra le montagne,
raggiungibile con una strada sterrata,
che offre però paesaggi stupendi.
Pochi minuti per ambientarsi e,
subito, sono sommerso da una folla
di bambini, che accorrono per vedere
il nuovo arrivato. In quei volti,
in quel desiderio di conoscere e
accogliere, in quelle mani sporche
(segno del lavoro a cui sono sottoposti
i più piccoli)… c’è l’Albania
sconosciuta.
Intanto gli amici, che mi hanno
accompagnato in camion, ripartono
per l’Italia. Io mi ritrovo «solo».
Alcune suore mi danno la carica e
non c’è troppo tempo per i convenevoli:
la gente e i giovani aspettano.
E, siccome la voce della donna
non è sempre ben accolta, una suora
subito mi catapulta in mezzo a loro,
accompagnato da un giovane,
per la lingua.
Ho poco a disposizione, se non la
bibbia, unico libro tradotto in albanese,
e con questa faccio tutto: catechesi,
incontri sulla vita, giochi, visite
alle famiglie. A volte lo stupore
mi blocca: i giovani fanno ore di
cammino per venire ad ascoltarmi,
per parlare con me; poi, digiuni, ritornano
al villaggio. Nessuno ha mai
parlato loro della dignità della vita,
come il vangelo insegna… ed è della
vita, vissuta in grande e con riferimenti
a Dio, che scoprono di avere
bisogno.
Il regime comunista albanese aveva
cancellato ogni traccia di umanità
nelle persone. La maggioranza dei
giovani incontrati non aveva mai
sentito parlare di Dio prima del
1990: per loro Dio è «una scoperta
recente»! Ma se succede (magari attraverso
la testimonianza di un missionario),
non riescono più a fae a
meno.
L’amore di Dio, manifestato nella
condivisione di vita, entra nel loro
cuore indurito e fa quasi toccare
con mano che deve esserci Qualcuno
più grande e veramente buono.

IMPARANDO AD AMARE
Chi fa sperimentare questa presenza?
Certo, i missionari. Ve ne sono
in Albania? Nelle città, dove tutto
è più o meno comodo, anche la
presenza religiosa è considerevole;
ma nelle diocesi intee, dove manca
acqua, la corrente elettrica c’è solo
7/8 ore al giorno e la vita è «schiava
» delle tradizioni… la presenza religiosa
è rarissima. A Rrëshen, su un
territorio di 4 mila kmq, dal 1991 vi
sono tre solo missionari vincenziani,
alcune suore e… basta. Le condizioni
locali invitano chiunque ad andarsene.
Durante la mia permanenza ho
visto molti religiosi venire, guardare
e andarsene: troppo difficile restare.
Ho percorso in lungo e in largo
la diocesi con un padre vincenziano;
nel guardare la gente lontana
da Rrëshen (dove la chiesa cattolica
non è arrivata), ci domandavamo:
«Qui chi annuncerà Gesù Cristo?».
Una domanda che tuttora mi pongo
ogni volta che prendo in mano la
bibbia.
Prima di lasciare una di queste
zone «inesplorate» e ritornare alla
missione, abbiamo fermato la jeep
sul ciglio della strada; dopo aver appeso
una corona del rosario ad un
albero, abbiamo pregato ricordando
le parole di Gesù: «Ci sono altre
pecore che non sono di questo ovile;
anche queste io devo condurre».
Sì, anche questi fratelli hanno il diritto
di sentire la vicinanza del Signore.
I giorni vissuti a Fanë sono paragonabili
(per intensità) a quelli degli
«esercizi spirituali»: ti segnano
«dentro» e ti spingono a cambiare
vita. Ogni giorno era un esercizio di
disponibilità verso i bambini e ragazzi
che, sin dal mattino, bivaccavano
al cancello della missione in attesa
di un abbraccio, una parola. Era
difficile accontentare tutti, ma
non impossibile: bastava un po’ di
entusiasmo. A volte, di fronte al loro
carattere difficile, veniva voglia
di essere altrettanto scontrosi; ma
scattava «l’esercizio» di amare senza
contraccambio, richiesto dal Signore.
Ma è stato pure arricchente gustare
l’ospitalità delle famiglie nelle
loro povere case: ti davano l’unica
sedia e loro, seduti per terra, aspettavano
una parola diversa. Spendevano
i pochi soldi che avevano, per
comprarti una bibita (dato che l’acqua
è poco affidabile); venivano a
prenderti alla missione e ti riportavano.
Ne nasceva pure una passeggiata,
cui si aggregavano decine di
ragazzi. Poi facevano a gara per invitarti
a casa loro.

CON I GIOVANI
Ho svolto il mio servizio quasi esclusivamente
fra i giovani, ed è attraverso
loro che ho incontrato il
volto dell’Albania che spesso non ci
giunge: quello di gente accogliente,
desiderosa di sapere e sperimentare
sentimenti di amicizia vera, di capire
che la vita (anche quella di un
albanese!) è una vocazione.
Ricordo i ragazzi che stanno facendo
un cammino propedeutico al
seminario: vedendo i padri e le suore,
hanno sentito il desiderio di imitarli,
anche se la strada è lunga. Il
cammino consiste nel far loro compiere
un’esperienza di Gesù nella
preghiera e, soprattutto, nella disponibilità
al servizio gratuito verso
i coetanei: un compito difficile, anche
per la povertà dei mezzi a disposizione.
In qualcuno di loro Dio
ha seminato il germe della vocazione.
Ora tocca a noi aiutarli a farlo
crescere con il nostro amore.
Forse questo, più che una testimonianza,
è uno sfogo. Ritengo che
sia anche necessario gridare dai tetti
che vi sono fratelli vicini a noi, bisognosi
di aiuto; che non sono come
li immaginiamo, perché esiste
anche un’Albania diversa dai «soliti
fatti negativi». È tempo di pensare
che l’amaro non fa distinzioni,
ma richiede solo una grande disponibilità.
Se può essere più facile aiutare
una nazione lontana (perché
non ci tocca più di tanto), interessarsi
ad una vicina può chiederci un
coinvolgimento maggiore, soprattutto
per eliminare pregiudizi e stereotipi.
Provate a dire che avete aiutato…
un albanese e poi osservate la reazione
dell’interlocutore; provate a
dire che partite in missione per l’Albania
e avrete reazioni curiose.
Ame questo non importa. Ho incontrato
Dio in Albania e Lui
sta cercando di parlare al cuore della
gente; ma chiede anche la nostra
disponibilità per manifestare il suo
amore verso chi, fino a ieri, ha conosciuto
quasi solo repressione e
violenza.
Se abbiamo la coscienza di essere
stati amati gratuitamente, non possiamo
esimerci dal fare altrettanto.
Questo l’ho scoperto grazie anche agli
albanesi. Ora ad essi
offro, anche se piccolo, il
mio amore.

Roberto Ferranti




16 FEBBRAIO: APPUNTAMENTO CON IL BEATO ALLAMANO

ASPETTANDO LE ROSE


Il 16 febbraio 1926, «dies natalis» del beato Giuseppe
Allamano, fa parte della storia dei missionari e missionarie della
Consolata, e non solo. È però «curioso» notare come il loro Istituto sia
stato fondato da un uomo che sapeva ridimensionarsi, relativizzare,
attendere. Con lui c’era Giacomo Camisassa, l’amico insostituibile.

Padre
Umberto Costa, uno dei primi missionari della Consolata, morto a soli 33
anni, riporta una confidenza del fondatore, il beato Giuseppe Allamano: «È
un poco che non ci vediamo più, perché ho avuto un malessere che mi ha
costretto a star chiuso in camera, eppure il mondo è andato avanti senza
di me, l’Istituto è andato bene senza di me. In questi casi si medita, ed
io ho meditato come non v’è nessuno necessario; quando un’opera è di Dio,
egli la fa procedere senza bisogno di alcuno».

Poche
parole per cogliere dalla sua stessa voce una personalità senza finzione,
temperata all’ombra dei vigneti di Castelnuovo d’Asti, piccolo centro
agricolo, dove religione e onestà si fondevano in una stessa liturgia di
vita e di morte, e i rintocchi dell’Ave Maria scandivano le ore della
fatica e del riposo rincorrendosi su e giù per le colline, lungo i filari
di viti.

A
Castelnuovo Giuseppe Allamano nasce nel 1851 e conclude la vita a Torino
nel 1926 presso il santuario della Consolata, di cui è stato rettore per
46 anni. Il santuario, ampliato e ristrutturato, è uno dei suoi
capolavori.


A tu per tu
con Leone XIII


L’occasione per uscire da Torino gli viene offerta dai festeggiamenti che
tutto il mondo tributa al pontefice Leone XIII (1810-1903) nel 50° della
sua ordinazione sacerdotale, il 1° gennaio 1888. Eletto papa all’età di 68
anni, quasi a conclusione di una vita intensa di lavoro, il pontificato di
Leone XIII non è, come le previsioni l’hanno preconizzato, di transizione,
ma d’incontenibile dinamismo e innovazione.

La chiesa,
per 40 anni condizionata all’interno da una mentalità conservatrice e,
all’esterno, da leggi restrittive fatte eseguire con metodi violenti e
giacobini, si muove ora su un nuovo versante: domina lo spirito di
concordia e dialogo con tutte le realtà che popolano il vasto orizzonte
del cristianesimo.

Ne fanno
fede le tante encicliche che papa Leone, più avanti del suo tempo, scrive
nei suoi 25 anni di pontificato: ad esempio sull’abolizione della
schiavitù (In plurimis, 1888); sull’istituzione di seminari per i
sacerdoti autoctoni e la creazione della gerarchia ecclesiastica locale
(Ad extremas Orientis oras, 1893).

Il papa
scrive pure sulle devozioni care all’Allamano: il Rosario (Supremi
Apostolatus, 1883), San Giuseppe (Quamquam pluries, 1889), la Santa
Famiglia (Novum argumentum, 1890), il Sacro Cuore (Annum Sacrum, 1899). La
questione sociale, che esplode tra poco con la pubblicazione
dell’enciclica Rerum novarum, è uno dei tanti temi passati al vaglio da
Leone XIII.

C’è un
altro argomento al centro del magistero leoniano, «la missione della
chiesa», destinato ad aprire vasti orizzonti sul mondo. È su di esso che
il pensiero dell’Allamano si identifica con quello di papa Pecci: «La
città santa di Dio che è la Chiesa – scrive Leone XIII, – non essendo
circoscritta da alcun confine di regioni, ha la forza trasfusale dal
fondatore di “allargare ogni giorno lo spazio della tenda e di stendere i
teli della dimora senza risparmio” (Is 54, 2)».

A Roma l’Allamano
avvicina alcune personalità del mondo missionario (ciò fa supporre che sia
questa la principale ragione del suo viaggio), in particolare il card.
Giovanni Simeoni e mons. Domenico Jacobini, rispettivamente prefetto e
segretario di Propaganda Fide, nonché il cappuccino card. Massaja. A
costoro, presumibilmente, sottopone la prima bozza del Regolamento
dell’Istituto, con lo scopo di «raccogliere giovani sacerdoti aspiranti
alle missioni, prepararli convenientemente e quindi metterli a
disposizione di Propaganda Fide, che li avrebbe inviati nelle missioni
alle dipendenze delle varie Congregazioni già esistenti».

L’Allamano
incontra anche il papa, ma non lascia alcun commento scritto su quell’incontro,
che ha come scopo principale quello di sondare la fattibilità di un
progetto ancora in fase preliminare. L’udienza dura quanto basta per
ricevere una benedizione per il santuario, i sacerdoti del convitto, e una
raccomandazione: «Bene, bene quel santuario… Sì, do una speciale
benedizione. Dite loro che studino molto».

Una
raccomandazione scontata per un uomo che è dichiaratamente contrario a
qualsiasi forma di ignoranza nella chiesa e che ha offerto la sua vita
alla formazione del giovane clero.

Sulla
tabella dei festeggiamenti, oltre alla messa giubilare del papa, è
compreso anche un avvenimento di risonanza mondiale, promosso da
Propaganda Fide con il concorso degli istituti missionari. Si tratta
dell’Esposizione vaticana. È una rassegna dei doni e degli oggetti di
valore inviati dall’Europa cristiana in omaggio al papa, un pastore che
con abilità e tatto è riuscito ad attenuare il dissidio tra lo stato
moderno e la chiesa cattolica, dimostrando che le due realtà erano
diverse, non opposte.


L’Esposizione, inoltre, presenta una grande varietà di manufatti di
carattere etnografico provenienti dalle missioni di Indocina, India,
Giappone, Cina, Corea, Africa.

Sotto
l’aspetto culturale, la mostra si inserisce nel contesto dei canali di
comunicazione sociale, di cui il magistero papale e la missione odiea
fanno largo uso. Si calcola che i visitatori della mostra siano stati 380
mila. Tra essi c’è pure l’Allamano, che prende visione del mondo
missionario e raccoglie immagini e consigli utili per la sua futura opera.

La
permanenza a Roma si conclude il 15 gennaio 1888, con la partecipazione
alla solenne canonizzazione di san Pietro Claver, missionario tra gli
schiavi di Cartagena, in Colombia. Il mercato sul quale si svolge la
compravendita di esseri umani, trasportati dalle coste dell’Africa
occidentale, segna l’inizio di un cammino di dolore e orrore, destinato a
consumarsi nelle piantagioni di tabacco, cotone, canna da zucchero e nelle
miniere aurifere.

Pietro
Claver morì l’8 settembre 1654. L’Allamano gli affiderà la protezione del
nascente istituto.

Uomo
avvezzo a marcare pazientemente i ritmi delle cose e a dare a ciascuna il
suo valore, l’Allamano osserva con occhi disincantati gli avvenimenti.
Egli sa che non gli resta che attendere il momento giusto, senza forzare i
tempi, per non correre il rischio di costruire sulla sabbia.

Conta
sulla collaborazione di una personalità eccezionale, Giacomo Camisassa.
Tra i due corre una affinità di sentimenti, vedute e obiettivi, anche se
non di stile. È determinante il contributo del Camisassa in ogni
realizzazione che porti la firma dell’Allamano.

Insieme
attendono il fiorire delle rose. La pazienza non è forse la virtù dei
forti?

(*)
L’articolista, missionario

della
Consolata in Kenya, è autore

di
numerose pubblicazioni.


Significativa l’ultima opera

sul beato
Giuseppe Allamano:

La mia
vita per la missione,

Emi,
Bologna 2001.

Giovanni Tebaldi




ARMENIA: «reportage» da un paese da futuro incerto

L’ESODO DI UN POPOLO SENZA SPERANZA


Quale domani per l’Armenia? È una domanda che sorge
naturale girando per le strade semideserte di Erevan. Il futuro di un
paese dipende dai suoi abitanti. Ma gli armeni se ne stanno andando:
preferiscono spendere il proprio talento ed energia all’estero, piuttosto
che in patria. E poi è difficile vivere spalla a spalla con l’Azerbaigian
e la Georgia.

Il jumbo
che mi portava a Erevan, capitale dell’Armenia, era quasi vuoto: solo una
ventina di passeggeri, spaparanzati negli spaziosi saloni. «Bella idea
utilizzare un aereo così grande per un pugno di viaggiatori!» mi dicevo.

Ma, al
ritorno, mi sono ricreduta sulle capacità commerciali delle linee aeree
armene: lo stesso jumbo, arrivato a Erevan vuoto, ripartiva quasi pieno.
Al check in (che mi aspettavo di fare in tutta tranquillità) c’era una
calca incredibile: gruppi di amici e amiche, famiglie, bambini,
passeggini, pacchi, baci, abbracci, sospiri. Si andava a Francoforte.

Ma per i
più non era quella la destinazione finale. A Francoforte, infatti, c’erano
due impiegati della compagnia che indirizzavano i passeggeri, appena
sbarcati, verso gli aerei in partenza per Los Angeles, Detroit e altre
località americane… La ragazza, seduta accanto a me durante il volo,
andava a Los Angeles. Vi si trasferiva definitivamente per vivere col
marito statunitense, sposato da poco. Un passo importante. Sembrava
tranquilla e sicura della scelta.

D’altra
parte, cosa avrebbe potuto fare a Erevan con la sua laurea in lingue
straniere?


Musei deserti

Così ho
potuto constatare un fenomeno iniziato all’indomani della fine dell’URSS e
dell’apertura delle frontiere: l’Armenia si sta svuotando. Di questo
passo, chi rimarrà a popolare la patria storica degli armeni? La
sonnolenza o aria di sbigottimento colta sul volto dei pochi passanti a
Erevan non era, dunque, come avevo ritenuto, da attribuirsi al carattere
nazionale.

Trovare
lavoro in Armenia è assai difficile. La caduta dell’URSS ha messo in crisi
un’economia che si reggeva solo all’interno di un sistema molto più ampio.
In Armenia, senza risorse naturali, le materie prime giungevano dalle
altre repubbliche dell’Unione, venivano trasformate dalle industrie locali
e il prodotto andava poi ad alimentare l’onnivoro mercato sovietico.

Ora questa
catena si è spezzata. Le fabbriche sono state chiuse una dopo l’altra e la
disoccupazione raggiunge il 50%. Chi può se ne va; chi non può resta e
campa alla meglio. Nelle campagne c’è l’orto a dare una mano. Chi ha un
parente all’estero (in molti, a dire il vero) si fa mandare un po’ di
soldi, che servono a sbarcare il lunario. I più intraprendenti cercano di
farsi assumere dalle poche ditte o ambasciate straniere presenti nel
paese.

Non è
facile neanche per chi ha un lavoro; gli impiegati statali, ad esempio,
sono così male pagati che non fingono nemmeno di mostrare solerzia
nell’eseguire il loro compito.

Il
Matenadaran (la famosa biblioteca-museo dei manoscritti antichi, orgoglio
di Erevan e di tutta l’Armenia) apre alle 10. A quell’ora mi sono
presentata davanti al suo massiccio portone in bronzo e l’ho trovato…
semichiuso. Consapevole dei miei diritti di visitatrice, mi sono
intrufolata dallo stretto pertugio… per essere fermata nell’atrio dal
custode, accorso dalla guardiola dove l’avevo visto sonnecchiare. Non
potevo entrare: l’autobus con il personale addetto alla sorveglianza non
era ancora arrivato. Toccava aspettare.

Sono
ritornata sulla spianata antistante il museo a scrutare il traffico:
inesistente. Dopo una ventina di minuti, ho visto il pulmino, col suo
carico di lavoratori, arrancare per l’erta strada che porta al museo e ho
pensato che ne sarebbe precipitosamente uscita una frotta di impiegati,
ansiosi di recuperare qualche minuto di ritardo. Invece, con grande calma,
fermandosi per scambiare qualche considerazione col guardiano, quattro
signore, già stanche, hanno varcato la soglia del museo.

E perché
si sarebbero dovute affrettare?  Per me, unica visitatrice?

In tutti i
musei mi sono ritrovata sola. Poco male quando si trattava di un piccolo
museo, come quello del pittore Martiros Sarjan, nelle cui modeste sale non
è evidente il senso di vuoto. Diverso, però, è aggirarsi da soli per il
Matenadaran, a cinque piani, nel cuore di Erevan, che ospita il museo
storico e la pinacoteca. Le ampie sale e i soffitti altissimi non fanno
che sottolineare la solitudine. Le vetrate offrono generose viste sulle
vie vicine: un ammasso di catapecchie, alcune in rovina, fra le quali
spicca per contrasto l’Hotel Yerevan, egregiamente ristrutturato e gestito
da una ditta italiana.

Il mio
arrivo in una sala causava sempre un po’ di scompiglio tra le signore
della sorveglianza; prima ancora dei quadri appesi, colpiva i sensi l’aria
pregna dell’odore di pesce in scatola e di nescafè, insieme alle
chiacchiere, loro magro conforto nelle lunghe ore del servizio. Una volta
sono stata raggiunta da una sorvegliante anziana, che, appena siamo
rimaste sole, mi ha chiesto di aiutarla a pagare la bolletta della luce. A
guardarla, non potevo dubitare che si trovasse nella miseria. Le ho dato
il piccolo obolo che mi chiedeva, mentre ascoltavo la sua filippica contro
i governanti corrotti che affamano il paese.


Armeni e
azeri in guerra

In Armenia
corruzione, malgoverno e lotte di potere affliggono il paese e sono causa
di altri mali, che si aggiungono a quelli inflitti dalla natura.

Si vive in
un paese di sassi, che lasciano spazio pure a campi e frutteti; ma il
terreno sembra buono, soprattutto, per far pascolare le pecore e qualche
mucca. Il sottosuolo è povero. Luce e riscaldamento nelle case ci sono,
grazie alla contestatissima centrale nucleare, costruita in epoca
sovietica alla porte di Erevan. Ma in zona sismica. Il sud del paese non
si è ancora completamente ripreso dal terribile terremoto del 1988.

A ciò si
deve aggiungere la guerra iniziata nel 1992 per la conquista del Nagoo
Karabakh, regione che apparteneva all’Azerbaigian, ma a maggioranza
armena. Il conflitto ha avuto pesanti conseguenze umanitarie. Stime non
ufficiali parlano di circa un milione di profughi, tenendo conto sia degli
azeri fuggiti in Azerbaigian, sia degli armeni che ne sono scappati
altrove.

In
territorio azerbaigiano vivevano da secoli diverse comunità armene. La più
consistente, anche se non la più antica, risiedeva a Baku. Ma, prima il
pogrom sovietico contro gli armeni nel 1988 a Sumgait, vicino a Baku, e
poi l’odio e la furia scatenati dalla guerra hanno posto fine alla loro
presenza tra gli azeri.

Dal 1994
le armi tacciono, ma la pace non c’è. I negoziati sono a un punto fermo,
perché l’Azerbaigian non è disposto a cedere una regione che costituisce
il 14% della sua superficie e include Shusha, uno dei maggiori centri
storici e culturali azeri; né gli armeni intendono rinunciare alle proprie
conquiste e a un territorio rivendicato da tempo.

Un accordo
sembrava in vista nel 1999, dopo una serie di incontri tra i due capi di
stato; ma nell’ottobre di quell’anno un’incursione armata nel parlamento
di Erevan, durante la quale vennero uccisi il primo ministro e sette
deputati, seppellì ogni speranza di una rapida soluzione del conflitto.

Tuttavia,
calamità naturali e guerra non bastano a spiegare alcuni aspetti della
vita sociale e politica in Armenia, dove la situazione circa i diritti
civili non è ideale. Come nelle altre repubbliche ex-sovietiche, sono
pesanti le conseguenze del recente passato totalitario.

L’Armenia
è ancora lontana dall’essere autenticamente democratica. La scena politica
è alquanto travagliata: ad ogni nuova elezione gli osservatori rilevano
brogli e irregolarità; l’informazione, sebbene formalmente libera, è
condizionata dal partito al potere; dopo alcuni casi clamorosi di
maltrattamento e arresto di giornalisti, le redazioni praticano una sorta
di autocensura.

La
costituzione garantisce tutti i diritti, ma in pratica spesso non c’è
sufficiente volontà di farli rispettare. La polizia agisce indisturbata e
ricorre a violenze, confidando sull’impunità che le viene di fatto
assicurata; sono normali gli arresti senza regolari ordini da parte della
magistratura. Il potere giudiziario è controllato da quello politico,
nonostante che sulla carta ne sia indipendente.


Il risveglio
della dignità

Sono
diverse le organizzazioni umanitarie presenti in Armenia. Le prime
arrivarono subito dopo il terremoto. Fu un fatto che suscitò scalpore,
perché era la prima volta, dopo decenni di totale chiusura verso gli
stranieri, che si permetteva loro di operare in un territorio sovietico.
Arrivarono anche degli italiani. Tra loro un medico siciliano, Antonio
Montalto, che dal 1994 si è stabilito definitivamente nel paese.

Passata
l’emergenza terremoto, sono emerse altre difficoltà, legate alle gravi
carenze di strutture sociali e sanitarie. C’è chi, come i «Medici senza
frontiere», si occupa dei «bambini difficili». Costoro subiscono violenze
psicologiche e fisiche dagli adulti, vengono mandati ad accattonare o sono
utilizzati da circoli mafiosi; una volta acciuffati dalla polizia, sono
rinchiusi in orfanotrofi simili a carceri.

C’è chi
offre assistenza alle donne vittime di violenze da parte degli sfruttatori
della prostituzione o all’interno delle mura domestiche: un fenomeno,
quest’ultimo, più ampio di quanto non si creda, perché i maltrattamenti in
famiglia vengono raramente denunciati.

Antonio
Montalto ha scelto di occuparsi della ristrutturazione dei
reparti-mateità negli ospedali, ultimamente soprattutto in Karabakh, e
della formazione del personale che vi lavora. La scelta di assistere le
donne in un momento delicato come la mateità non è casuale, né è casuale
il nome che ha voluto dare alla propria organizzazione: Family care.

Antonio è
convinto che molti dei problemi nascano dalla mancanza di solidarietà tra
la gente, anche all’interno delle famiglie. Il suo progetto è ambizioso, e
va al di là della semplice offerta di aiuto. «Non sono qui solo per
rispondere a bisogni concreti – mi spiega -. Ho la pretesa di proporre dei
valori. Ad esempio, quando si tratta di far nascere un figlio, i papà se
ne disinteressano; la reputano una questione da donne. Nell’emergenza devi
occuparti della mamma e del bambino, e poi del papà. Noi cerchiamo di fare
le due cose contemporaneamente».

Così,
oltre a formare il personale, equipaggiare i reparti di mateità e
assistere le madri durante il parto, i volontari di Family care incontrano
anche i padri e chiedono loro di partecipare a tutte le fasi della nascita
dei loro figli.

Antonio
presenta il suo lavoro come un tentativo per ridare dignità alla persona.

«Per un
direttore d’ospedale, che occupa questo posto perché messo dai politici,
il paziente è solo un mezzo per ottenere soldi, oppure un onore. Ad una
madre (che può sentirsi dire: “Dammi 50 dollari, altrimenti non ti faccio
nascere il figlio”), noi facciamo capire che a lei teniamo. Le offriamo
una struttura che non risponda solo al bisogno di assistenza medica, ma
che vuole essere accogliente, curata nei particolari. Mettiamo molta
energia per fare dei nostri reparti dei luoghi giorniosi, dove si stia bene.
L’attenzione alla persona e la cura delle cose può contribuire a cambiare
la mentalità, se le porteranno con sé quando ritoeranno a casa. D’altra
parte, è proprio quando ci sentiamo guardati con rispetto che ci
accorgiamo del nostro valore. Bisogna risvegliare nella gente la coscienza
della propria dignità e dei diritti, che hanno perso».

La non
certezza del diritto e il disprezzo da parte di coloro che ricoprono
cariche pubbliche sono una triste realtà quotidiana nelle ex repubbliche
sovietiche. E l’Armenia non fa eccezione.


La gente se
ne va

Fra tanti
guai, l’Armenia deve fare i conti anche con la sua posizione geopolitica,
essendo circondata da musulmani con cui ha sempre avuto rapporti
difficili. Però, attualmente, sono migliori le relazioni con l’Iran degli
ayatollah che con la cristiana Georgia, per una disputa territoriale che
rischia di rendere molto precario il confine tra i due paesi e aggravare
ulteriormente una situazione pesante: l’Armenia vive già in uno stato di
semi-isolamento, con le frontiere turca e azerbaigiana chiuse. L’unico
confine tranquillo è quello iraniano, ma si tratta di pochi chilometri.

Quale
futuro per l’Armenia? È una domanda che sorge naturale girando per le
strade semideserte di Erevan. Il futuro di un paese dipende dai suoi
abitanti. Ma gli armeni se ne stanno andando, preferiscono spendere il
proprio talento ed energia all’estero, piuttosto che in patria.

Come si fa
a non capirli?

La vita di
un uomo è breve e chissà quanto tempo ci vorrà prima che la ruota della
storia compia il suo giro e restituisca al paese pace e prosperità. Chi ha
voglia di bruciare i propri anni a faticare per un risultato che, forse,
vedranno solo le generazioni future?

Eppure
qualcuno continua a sperare e a credere. Simbat, un armeno dolente, come
tanti altri da me incontrati, è convinto che l’Armenia stia solo
attraversando un brutto momento, ineluttabile, ma passeggero. Egli vive a
Teheran (Iran) e vorrebbe tornare in patria: uno dei pochi. Prima, però,
deve trovare lavoro, impresa oltremodo difficile.

Gli
auguriamo con tutto il cuore che ce la faccia. E che il tempo gli dia
ragione.

Scheda paese


Superficie: 29.800 kmq


Popolazione: 3.500.000 (93% armeni)


Capitale: Erevan (1.500.000 ab.)

Goveo:
repubblica presidenziale

Religione:
cristiano-armena (66%), con pochi cattolici

Economia:
in pianura si coltivano cereali, cotone, tabacco, barbabietola da zucchero
e vite; in montagna si alleva bestiame; il sottosuolo contiene rame,
alluminio, oro… Indicatori: reddito annuo pro capite: 460 dollari ($);
inflazione annua: 349%; importazioni: 990 milioni di $; esportazioni: 360
milioni di $; debito estero 800 milioni di $ (dati del 1998)


 L’Armenia, già repubblica federata nell’ambito dell’URSS, divenne
indipendente nel 1991

 


Khomeini in
cattedrale

Fuori
della patria storica, gli armeni hanno sempre dimostrato intraprendenza,
capacità imprenditoriale e creatività, fondando comunità floride da ogni
punto di vista, non ultimo quello culturale e artistico. Ne è una
dimostrazione la loro presenza nell’Impero persiano, che ha lasciato segni
importanti: basti ricordare le bellissime chiese dei santi Taddeo e
Stefano nel nord dell’Iran, autentici capolavori d’arte, o il quartiere
armeno di Nuova Julfa a Isfahan, uno dei maggiori poli turistici.

Numerosa e
prospera ai tempi dell’ultimo scià, la comunità armena in Iran è oggi in
profonda crisi.

La crisi
interessa anche l’Iran. A più di 20 anni dalla rivoluzione di Khomeini, il
paese ha una grande voglia di cambiamento, però frustrata
dall’impossibilità di agire secondo meccanismi democratici. Il potere è in
mano ad una cricca di musulmani ultraconservatori. Parlando con la gente
si ha l’impressione che, se avesse la possibilità, prenderebbe il volo
verso lidi con maggiore libertà. Alcuni lo hanno già fatto e altri sono in
procinto di farlo.

Questo
desiderio è, a maggior ragione, vivo tra gli armeni, il cui esodo
dall’Iran è massiccio. Gioo dopo giorno la comunità armena di Teheran si
assottiglia. Negli uffici della cattedrale sono stata testimone di un
andirivieni di persone con passaporti e moduli per chiedere informazioni
sulle pratiche di espatrio. I più si dirigono verso gli Stati Uniti, altri
in Europa e pochi in Armenia. Erano 300 mila prima della rivoluzione. Ora
si parla di 50-60 mila persone, ma le cifre reali sembrano essere
inferiori: 25 mila al massimo. Gli armeni paiono proprio decisi a porre
fine al loro secolare insediamento in Iran.

Il club
armeno di Teheran è l’unico luogo pubblico dove le donne sono libere di
vestire come credono; per questo le autorità hanno preteso che l’entrata
fosse proibita agli iraniani. Sono stata invitata da due amiche armene:
Aida, divorata dalla nostalgia per la famiglia negli Stati Uniti (mentre
lei non è ancora riuscita ad ottenere il visto), e Charlotte, anch’ella
desiderosa di lasciare il paese, magari per l’Italia, di cui conosce
splendidamente la lingua. Sono loro a farmi entrare in un’ala del club,
attrezzata per i ricevimenti.

Vi si sta
celebrando una festa di nozze e sono curiosa di darci un’occhiata. Quella
che a me sembra una naturale animazione non le rallegra; al contrario, i
loro occhi sembrano diventare ancora più tristi. Aida me lo spiega:
«Stringe il cuore vedere queste sale semivuote. E pensare che un tempo non
si riusciva a far stare tutti gli invitati!».

Ci sono
«circostanze» che valgono solo per i cristiani. Davanti alla legge il
cristiano non è uguale al musulmano: è la costituzione a stabilirlo. Se un
cristiano ha una vertenza con un musulmano, quest’ultimo ha quasi sempre
la meglio; se il primo commette una colpa, va incontro a sanzioni più
gravi rispetto al secondo. Mi è stato riferito il «prezzo del sangue»; la
legge prevede in alcuni casi pene pecuniarie come risarcimento alla
famiglia per l’uccisione di un congiunto; se un armeno uccide un
musulmano, la penale è di 7 mila dollari; ma, se l’uccisore è musulmano,
la penale scende a 300 dollari.

Nelle
assunzioni pubbliche i musulmani sono privilegiati (nelle imprese private
sembra, invece, che gli armeni siano benvisti). Anche nello sport: nella
squadra nazionale non possono giocare calciatori armeni. Ma gli obblighi
di un armeno verso la collettività non sono minori, a cominciare dal
servizio militare. Anche gli armeni sono tenuti a difendere l’Iran e hanno
pagato il loro tributo di morti negli otto anni di guerra contro l’Iraq.

G li
armeni ammettono che nei loro confronti non ci sono state persecuzioni,
nemmeno dopo la rivoluzione islamica di Khomeini; le autorità non hanno
mai impedito loro lo svolgimento del culto. Hanno una presenza politica
riconosciuta, con due loro membri in parlamento; hanno diritto a quote di
studenti nelle università e a scuole proprie.

Ciò che
caratterizza la scuola armena non è l’insegnamento della religione
cristiana (svolto nei locali della chiesa), ma un’ora settimanale di
lingua armena e il fatto che non sia obbligatorio lo studio del corano.
Una volta le scuole armene erano tante. Oggi gli studenti sono sempre di
meno, le scuole chiudono e l’edificio viene rilevato per legge dallo
stato. A Teheran resiste ancora una decina di scuole.

La prima
cosa che si nota, entrando nella cattedrale armena di Teheran, è un grande
ritratto di Khomeini: ufficialmente la comunità armena si attiene con
scrupolo al «protocollo». Non esistono pubblicazioni che ne descrivono la
vita reale, i disagi; vengono stampati giornali e bollettini che informano
sulle attività e iniziative in atto.

La stessa
cautela regna nella comunità di Isfahan. Ho incontrato l’anziano direttore
della biblioteca, il quale mi ha assicurato che gli armeni non hanno alcun
problema, che la gente sta bene e non ha intenzione di andarsene. Poi ho
saputo che due suoi figli vivono a New York.

Mi ci sono
recata una domenica mattina. Vedendo parcheggiati all’ingresso un grosso
pullman e molte auto, ho pensato ad un arrivo speciale di armeni o di
altri cristiani per il giorno festivo. Mi sbagliavo: si trattava di
musulmani. Questo luogo è per la comunità armena il più potente «autoreclame».
Tra i visitatori della cattedrale c’è chi si informa per sapere di più
sulla storia e cultura armena, sui corsi di lingua. In città esiste una
facoltà di armenistica, che sembra essere alquanto popolare, sebbene
nessuno sia riuscito a spiegarmi quali siano le possibilità che si aprono
agli studenti una volta laureati. I ricchi affreschi della cattedrale e
gli straordinari oggetti esposti al museo suscitano sempre interesse.
Recentemente è stata anche aggiunta una teca, che illustra i luoghi del
genocidio perpetrato contro gli armeni dal regime dei Giovani Turchi. Una
delle impiegate del museo mi ha assicurato che non c’è iraniano che non
sappia di quei tristi avvenimenti. La comunità promuove manifestazioni
pubbliche in occasione dell’anniversario del genocidio, tra cui un corteo
per le vie della capitale.

Un paese
musulmano come l’Iran ha dimostrato più sensibilità di noi verso la
tragedia che ha colpito questi nostri fratelli cristiani, vuoi per la
maggiore vicinanza ai luoghi del terribile massacro degli armeni nel 1915,
vuoi perché, proprio in Iran, molti di loro hanno trovato rifugio dalla
persecuzione turca.

L’Italia
per anni si è rifiutata di riconoscere ufficialmente il genocidio, cedendo
alle pesanti pressioni del governo turco; lo ha fatto solo nell’autunno
2000. È per questo che ben pochi tra noi sono a conoscenza del genocidio?
Forse molti ne hanno sentito parlare, per la prima volta, solo grazie alla
recente visita del papa in Armenia.

Però lo
stupore era sincero. La gente non sa che l’armeno ha uno «status» di
cittadino di seconda categoria. Se l’avessi loro rivelato, probabilmente
non ci avrebbero creduto.

Gli armeni
hanno con gli iraniani buoni rapporti nell’ambito del lavoro e della vita
pubblica; ma non intrattengono rapporti di amicizia. Oltre a un’innata
diffidenza, è determinante l’impossibilità di stringere legami di sangue.
Molti giovani, pur vivendo in Iran, sono mentalmente proiettati altrove.
Il mondo che li circonda non li interessa: ne parlano con un certo
disprezzo.

Ma c’è
anche chi intende restare, per principio. C’è chi lotta per vedersi
riconosciuto il diritto di essere cittadino alla pari di altri; c’è chi
non vuole abbandonare una terra, dove gli armeni sono vissuti per tanti
secoli, fondando un notevole patrimonio culturale e artistico. Il futuro
sembra promettere un progressivo miglioramento delle condizioni di vita.
Tutto l’Iran chiede un ordinamento più liberale e democratico.

Alcuni
cambiamenti sono in atto, altri verranno. Però i tempi per una radicale
trasformazione del paese saranno lunghi e qualche armeno dichiara: «Sta’ a
vedere che, quando arriverà finalmente la libertà, nessuno di noi sarà più
qui a salutarla!».

Biancamaria Balestra