MACAO (CINA): segni di speranza per la chiesa. PRENDERE IL LARGO

 

Qualcosa si muove
nel continente cinese: a Macao, colonia portoghese da poco passata sotto la sovranità
cinese, la consacrazione del vescovo coadiutore si è svolta senza interferenze di
Pechino; nelle province settentrionali della Cina fioriscono le comunità religiose
femminili.

 

Sono le nove del mattino. Nella cattedrale di Macao, edificio
barocco neoclassico, una cinquantina di persone, in prevalenza anziane, recitano
devotamente il rosario davanti alla Vergine del Perpetuo Soccorso, tradizione sabbatica
fin dai tempi passati. Accanto all’altare, una statua della Madonna di Fatima con
l’iscrizione "Regina del mondo, madre del Portogallo e rifugio di Macao"
rivela una traccia evidente di secoli di storia portoghese.

Dal dicembre del 1999 l’ex possedimento portoghese è passato
sotto la sovranità e agli ordini di Pechino. Conoscendo la situazione di precarietà
della chiesa cinese e dei rapporti tra governo comunista e Vaticano, si temeva che tale
tensione si sarebbe riflessa anche sulla chiesa di Macao. Invece la diocesi sta vivendo un
momento unico: José Lai Hong-Seng è stato nominato e consacrato vescovo coadiutore
secondo i dettami del Vaticano, senza alcun intervento da parte del governo cinese.

È la prima volta, da oltre mezzo secolo, che succede una cosa del
genere in territorio cinese. Nella vicina Hong Kong, due nuovi vescovi sono stati
consacrati un anno prima del cambiamento di sovranità. È stata, senza dubbio, una prova
del fuoco, per verificare la tenuta dell’accordo politico tra Portogallo e Cina:
accordo in cui, secondo lo slogan "un paese, due sistemi", la legge
basilare garantisce le libertà e il sistema che Macao ha goduto in passato.

Non solo non vi è stata alcuna interferenza nella nomina episcopale da
parte del governo, ma lo stesso capo esecutivo di Macao, Ho Hau Wa, ha seguito la
consacrazione episcopale, avvenuta il 2 giugno scorso nella cattedrale. Il fatto che né
il governo né l’Associazione dei cattolici patrioti abbiano interferito implica un
tacito riconoscimento dell’autorità del papa su questo territorio cinese.

In una diocesi ancorata, negli ultimi 13 anni, a incarichi
amministrativi, economici e giuridici, ma poco pastorali, la nomina del nuovo vescovo
coadiutore segna anche un cambiamento di rotta per la chiesa di Macao. In una breve
intervista, mons. José Lai ha tracciato le linee pastorali e spirituali che orienteranno
il rinnovamento della vita della chiesa a lui affidata.

Quali sono le priorità della diocesi di Macao?

C’è bisogno di una maggiore collaborazione fra clero e laicato,
per costruire assieme il regno di Dio. È necessario creare un’associazione che
impegni i laici, secondo le loro forze e capacità, nei compiti pastorali della diocesi e
nel settore educativo, sociale, caritativo, sanitario, catechetico e pastorale. Sono molte
le attività che essi possono e devono portare avanti. Per poterlo fare, è necessaria una
profonda spiritualità, che sostenga e ispiri il loro operato e vada al di là del
"fare perché mi piace".

D’altra parte, è necessario favorire la pastorale vocazionale
nella diocesi. È il momento di riflettere e prendere iniziative fra la gioventù e i
cattolici battezzati recentemente, poiché il clero di Macao è in prevalenza anziano e il
seminario è vuoto da 7 anni.

A livello pastorale, quali problemi la diocesi deve
affrontare?

A parte le priorità già menzionate, bisogna impegnarsi in tre
settori: con gli immigrati cinesi del continente, che rappresentano la metà della
popolazione di Macao; con la comunità filippina, composta di circa 6 mila persone; con i
milioni di turisti che ogni anno visitano la città: si deve andare incontro anche alle
loro necessità religiose. Questo potrebbe essere fatto nella Igreja da Penha, luogo di
visita obbligato. Ma bisognerà adattare gli impianti, creare una zona per la preghiera e
presentare la storia della diocesi di Macao, attraverso materiale audiovisivo: di ciò
potrebbero occuparsi i laici.

Qual è il significato dello stemma episcopale da lei
scelto?

Quando seppi dell’elezione a vescovo, passai un momento difficile;
l’ho superato mediante la preghiera, meditando un brano del vangelo di Luca, dove
Gesù invitava i discepoli a remare, spingendosi in alto mare e confidando in lui. Allo
stesso modo ho sentito la sua chiamata che mi invitava a prendere il largo, credendo nella
sua parola; da qui ho ricavato il motto del mio episcopato, con un tema eminentemente
pastorale e missionario: "Prendi il largo".

Esso significa lasciare la parrocchia e andare in diocesi. Gesù mi
invita a gettare le reti non solo nel mare di Macao, ma anche in quello della Cina, dove
in passato molti missionari hanno seguito la stessa chiamata di Cristo. La stella dello
stemma simboleggia Maria, alla cui protezione affido la mia missione; il fiore di loto
rappresenta la città di Macao; tutto questo sullo sfondo di quell’alba in cui Gesù
disse ai discepoli di gettare le reti per pescare.

Qualche parola ai cattolici di Macao…

Innanzitutto rendo grazie a Dio, alla mia famiglia, a quanti mi hanno
aiutato in seminario e nelle parrocchie in cui ho lavorato. E poi ho bisogno di imparare e
ascoltare, per conoscere il parere dei laici e del clero e poter così camminare insieme.
Dovremo anche formare un direttivo che pianifichi e cornordini le attività diocesane.

Come vede le relazioni fra la chiesa di Macao e
l’amministrazione cinese?

Sono relazioni di rispetto e apprezzamento reciproco; non credo che ci
saranno problemi in futuro. Il 17 maggio scorso mi sono incontrato con il capo esecutivo
di Macao: l’ho invitato alla cerimonia di consacrazione ed ha accettato con piacere.

Come si sente a pochi giorni dalla consacrazione
episcopale?

Ho grande fiducia nello Spirito Santo: non per caso ho scelto la
domenica di pentecoste per l’ordinazione. Spero che mi dia la forza necessaria per
realizzare i compiti episcopali, secondo il disegno di Dio e per servire la chiesa e
società di Macao.

Come vede le relazioni fra la diocesi di Macao e la
chiesa in Cina?

La diocesi di Macao aveva relazioni ufficiali con la chiesa in Cina fin
dal 1949. Da quell’epoca i contatti sono diminuiti; ma consideriamo i cattolici
cinesi nostri fratelli: sono sempre nel nostro cuore. Sebbene nessun vescovo del
continente sia stato presente alla mia consacrazione, più di uno mi ha inviato le proprie
felicitazioni. È auspicabile che un giorno il governo cinese e il Vaticano giungano a
stabilire relazioni diplomatiche, in modo che si possano avere maggiori rapporti con la
chiesa in Cina.

 

 

Nel deserto della Cina fiorisce la vita religiosa

 

Nella provincia Shanxi, a est del Fiume Giallo, nella Cina
settentrionale, in parte desertica, stanno fiorendo delle comunità di vita religiosa,
anche se molti dei loro membri, in maggioranza giovani, sono ancora in fase formativa. In
alcune diocesi, come quella di Taiyuan, sono presenti alcune missionarie anziane del
periodo precedente alla rivoluzione comunista. In molti dei nuovi conventi sono state
proprio queste suore anziane a ricominciare la vita religiosa. Ma la maggior parte delle
comunità sono formate da sole giovani. Quelle di Datong, con 40 religiose, di Hong Dong e
Changzhi, con oltre 60, sono casi esemplari della rinascita, al di là della cortina di
bambù comunista, di una vita religiosa femminile ricca di entusiasmo, spirito di fede e
sacrificio.

Il fatto di essere comunità giovani dà luogo a nuove forme di
espressione liturgica, vita comunitaria e forme di preghiera. Cambiamenti e riforme
introdotte dal Vaticano II stanno penetrando a poco a poco, come una fresca brezza che
ogni tanto arriva da fuori, tra le giovani suore assetate di conoscere e attualizzare la
vita religiosa.

Le giovani religiose sono consapevoli di una mancanza di formazione
adeguata alle necessità, poiché non hanno né i mezzi né le opportunità, ma vi pongono
rimedio con zelo e interesse nel ricercare nuove forme che possano colmare questo vuoto.
Di solito, utilizzano qualche libro che è giunto loro da fuori, cassette che ascoltano
attentamente e ripetutamente, o si fanno aiutare da qualche religioso o religiosa
proveniente dall’estero che, in occasione di una visita, possa condividere la sua
esperienza di vita religiosa.

L’orario comunitario dà ampio spazio alla riflessione e studio
della bibbia: un’ora al mattino e una al pomeriggio. E anche durante la celebrazione
eucaristica nel convento, le suore condividono la parola di Dio con il sacerdote. Ciò che
colpisce maggiormente è l’austerità dello stile di vita. In uno di questi conventi,
il vescovo diocesano, piuttosto anziano e con scarsi mezzi economici, può dare loro
soltanto 60 renminbi al mese (circa 13 mila lire italiane) per portare avanti il convento.
Di conseguenza, esse devono fare un po’ di tutto: lavorare nell’orto, preparare
i pasti e altri lavori manuali che consentano loro di sopravvivere.

È curioso osservare che il governo comunista cinese, con la sua
politica di oppressione, ha fatto sì che la chiesa sviluppasse delle caratteristiche in
consonanza con il vangelo di Gesù. I 50 anni di persecuzione comunista e di apparente
distruzione di qualsiasi traccia di vita religiosa, hanno portato a un tipo di chiesa e di
vita religiosa che possiamo definire:

1) indigena: durante mezzo secolo di comunismo, la chiesa in
Cina è stata ed è guidata da una gerarchia e da un clero esclusivamente cinesi;

2) povera: espropriata di tutti i beni dal saccheggio e
vandalismo del governo, la chiesa si è ritrovata con una povertà assoluta di strutture
e, in parte, di personale. La ricostruzione dei conventi e la creazione di nuove comunità
religiose risente degli effetti di questa usurpazione. Le residenze dei vescovi, in Cina,
sono molto dimesse; sulle pareti dei "palazzi" sono ben visibili crepe e
umidità e, all’interno, l’unico mezzo consentito dalle scarse risorse per
ripararsi dalle fredde temperature invernali sono piccole stufe a legna;

3) martiriale: nel rifiutare di sottomettersi alle imposizioni
del sistema maoista, la chiesa ha pagato attraverso molti dei suoi membri, che hanno
patito condizioni disumane: nelle prigioni e carceri sono stati sottoposti a torture e
interrogatori estenuanti. Non essendosi rassegnata e non avendo ceduto alle imposizioni
del governo, la chiesa in Cina ha una lunga lista di martiri, molti dei quali ancora in
vita.

Nonostante le austere condizioni di vita, le difficoltà e il controllo
costante da parte del governo, la chiesa in Cina è fortemente radicata nella fede.
Gradualmente la corrente si sta formando il proprio alveo, si stanno aprendo le porte
all’evangelizzazione, compito nel quale le religiose sono attivamente impegnate. I
credenti, d’altra parte, possiedono una fede saldamente fondata su quella dei loro
antenati, e sia essi che il clero e le religiose sono molto orgogliosi nel portare in alto
il nome di cristiani. Perciò non hanno paura del rischio, quando si tratta di continuare
a ricercare i modi di essere presenti nella società con le loro posizioni di fede. Si
tratta di una chiesa che fiorisce nel deserto: un deserto reale, dato che la zona
settentrionale della Cina è in parte desertica, e morale, perché nella società cinese
la vita religiosa è minacciata dalla persecuzione comunista, dal materialismo e sete di
denaro, che fanno della Cina di oggi un vero e proprio deserto di valori morali.

Anche se alcune delle comunità religiose della provincia vivono in
zone molto povere, i vescovi, che hanno affrontato sacrifici e persecuzioni con santa
semplicità, rispondono con un certo senso di umorismo alla domanda se sia sintomatico
vedere che nel deserto continuino a fiorire più che mai le vocazioni femminili alla vita
religiosa. Sono un motivo di speranza per la chiesa in Cina: come diceva Tertulliano, il
sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani e, senza alcun dubbio, di nuove vocazioni
alla vita religiosa. I martiri dell’epoca comunista, sia quelli ancora vivi oggi, in
Cina, sia quelli canonizzati il primo ottobre 2001, saranno fonte di ispirazione per
fortificare la vita nei conventi che continuano a sorgere con forza sempre maggiore in
molte diocesi della Cina.
D.C.R.

Daniel Cerezo Ruiz




Trento / Incontro con il DALAI LAMA UN PIANETA DA CONDIVIDERE

 

Guida spirituale e
politica del popolo tibetano, premio Nobel per la pace 1989, il quattordicesimo Dalai Lama
è un personaggio affascinante, che ha saputo guadagnare rispetto e considerazione in
tutto il mondo. In questa intervista il Dalai Lama parla dei rapporti tra Oriente e
Occidente, e tra buddisti e cattolici. Senza dimenticare la lunga occupazione della sua
patria ad opera dei cinesi. Ma, assicura il premio Nobel, lo "spirito tibetano"
saprà sopravvivere agli invasori e al tempo.

 

La vicinanza del Dalai Lama non incute propriamente soggezione, anche
se la guida spirituale e politica del popolo tibetano, quattordicesima reincarnazione del
Bodhisattva Avalokitesvara, raduna ovunque si rechi in visita folle di curiosi. Persino in
una terra profondamente cattolica come il Trentino, che lo ha ospitato il 28 e 29 giugno
scorsi. Trasmette invece una sorta di benessere, finanche di buonumore; il prodotto di
un’umanissima simpatia, piuttosto che di reverenziale rispetto.

L’invito era partito nel 1994 dal Forum trentino per la pace,
emanazione della Provincia autonoma di Trento; da allora è stato costantemente rinnovato,
fino a quando il Tibet Bureau di Ginevra, rappresentanza ufficiale del governo tibetano in
esilio per l’Europa centro-meridionale, è riuscito ad accoglierlo. Al centro delle
due giornate di visita, lo Statuto di autonomia del Trentino, visto come un possibile
modello anche per una realtà come quella tibetana. Ed inoltre, i progetti di cooperazione
allo sviluppo rivolti verso le comunità dei tibetani in esilio.

Abbiamo incontrato il Dalai Lama privatamente, per un’intervista
concessaci in esclusiva, e poi nell’ambito della conferenza stampa organizzata al
Castello del Buonconsiglio, uno dei luoghi simbolici dell’Autonomia trentina, già
residenza dei principi-vescovi, e poi carcere degli irredentisti italiani (qui sono stati
giustiziati Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa). Durante gli incontri con i
giornalisti – così come nel corso dei numerosi colloqui pubblici tenuti in varie
località del Trentino – spesso si è interrotto per sorridere, ammiccare al fotografo,
riservare la dovuta attenzione ad ognuno dei presenti (non solo, insomma, alle autorità,
ma anche a chi era lì per lavoro, o semplicemente per vederlo da vicino). Davvero si ha
l’impressione che il grande e il piccolo, il vicino e il lontano, il visibile e
l’invisibile siano, per il premio Nobel per la pace 1989, concetti molto relativi.

Ma non c’è nulla di ieratico nel suo muoversi da un appuntamento
all’altro, in ossequio ai ritmi frenetici imposti dalle visite di carattere
diplomatico. Se le sue parole esprimono moderazione – anche quando parla
dell’occupazione cinese del Tibet o della globalizzazione –, gli occhi
tradiscono un’intelligenza vigile, insieme a un’insaziabile curiosità per il
mondo.

 

Sua Santità, Trento è la città dell’omonimo Concilio, molto
importante per la storia del cattolicesimo. La prima domanda, quindi, è in un certo senso
obbligata: quali rapporti ci possono essere fra cattolici e buddisti?

"Fra le diverse tradizioni religiose ve ne sono alcune che
accettano l’esistenza di un Dio Creatore, e altre, invece, che lo negano.

Il buddismo fa parte del secondo gruppo. Da questo punto di vista si
può dunque dire che c’è una grande differenza dottrinale fra buddisti e cattolici.
D’altra parte, vorrei ricordare che anche nell’ambito buddista vi sono diverse
scuole di pensiero".

 

Ad esempio?

"Vi sono alcune scuole che affermano l’esistenza reale delle
cose, mentre altre dicono che ciò che appare non è come noi lo vediamo, e che esiste un
livello di realtà più profondo. Quindi esistono anche nell’ambito buddista delle
grandi differenze dottrinali; alcune scuole ne accusano altre di nichilismo. Però, dal
punto di vista della pratica spirituale, per quel che riguarda lo sviluppo dell’amore
e della compassione, la religione cattolica e il buddismo si possono definire concordanti.

Io ho degli amici cristiani che praticano alcune tecniche tipiche del
buddismo per lo sviluppo della pazienza e che cercano di rendersi conto dell’ira per
poterla controllare. E anche i monaci e le monache buddiste possono imparare dalla pratica
delle loro sorelle e fratelli cristiani".

 

L’Occidente e l’Oriente possono dunque arricchirsi
vicendevolmente? E se sì, in cosa la tradizione occidentale vi sarebbe debitrice?

"Tradizione occidentale è una definizione così vasta che è
difficile dire in che cosa essa possa essere stata influenzata dall’Oriente.
Comunque, io credo vi siano concetti di base del buddismo, come quello di interdipendenza,
che possono essere di grande interesse per gli occidentali. Per interdipendenza noi
intendiamo dire che nulla sussiste indipendentemente da altri fenomeni. Quando si verifica
un evento, di solito si è portati a cercare una causa particolare, mentre secondo noi
bisogna considerare piuttosto il complesso delle cause e degli eventi che l’hanno
generato, l’insieme delle interdipendenze e delle interrelazioni.

Circa l’apporto che l’Occidente ha dato all’Oriente, mi
è facile pensare ad esempio a papa Giovanni Paolo II: il suo insegnamento è stato di
fondamentale importanza sia per il messaggio di riconciliazione fra le diverse religioni
(che ha portato incessantemente in giro per il mondo), sia per il suo chiedere perdono per
eventi avvenuti nei secoli passati. Vorrei anche aggiungere che, ad un livello più
generale, non esiste una radicale distinzione fra occidentali e orientali: dopo tutto
siamo tutti esseri umani chiamati a condividere questa terra. E l’unione di genti
diverse produce bimbi bellissimi!".

 

Da quanto diceva poco fa, sembra di capire che vi sono rapporti
diretti fra clero cattolico e buddista.

"I rapporti esistono ormai da vent’anni. Monaci buddisti
vanno a vivere per qualche tempo nei monasteri in Occidente e, viceversa, vi sono
religiosi cattolici che visitano monasteri buddisti.

In generale, ciò che maggiormente colpisce i monaci buddisti è il
lavoro sociale svolto dai religiosi in Occidente. Da noi pochissimi monaci operano
all’interno della società. Da questo lato, ne abbiamo tratto un importante
insegnamento. Noi invece possiamo far conoscere ai religiosi occidentali le tecniche di
concentrazione e di mediazione, e i metodi per sviluppare un comportamento improntato alla
gentilezza".

 

Non crede che si stia diffondendo un atteggiamento di
"consumismo della spiritualità" e che esso interessi oggi anche il buddismo,
con conversioni spesso un po’ superficiali, anche da parte di attori, uomini di
spettacolo e così via?

"L’attrazione esercitata dal buddismo dipende da fattori
molto vari. Tuttavia in linea di massima è meglio che ognuno segua la tradizione nella
quale è inserito.

Cambiare religione è una cosa complicata e difficile, e può creare
dei problemi. Certo è possibile che su milioni di persone ve ne siano alcune che hanno
una predisposizione particolare per una religione diversa rispetto a quella con la quale
sono cresciuti. Ma le conversioni di massa non sono né possibili né auspicabili.

In ogni caso, chi decide di cambiare religione è bene che mantenga
sempre nei confronti della religione che ha abbandonato un atteggiamento di
rispetto".

 

Santità, in questi ultimi anni si è parlato molto di
globalizzazione, anche in termini molto critici. Lei pensa che globalizzazione e difesa
delle tradizioni dei popoli, compreso il popolo tibetano, siano conciliabili?

"Credo che la globalizzazione sia un fenomeno che riguarda
soprattutto l’ambito economico. Quindi è l’economia a causare anche quella che
definirei la "diffusione di abitudini simili", a cominciare dal mangiare e dal
bere. In verità, a questo livello non credo che produca cambiamenti profondi, se una
cultura è già forte e consapevole di sé. Certo, può cambiare certe abitudini, ma solo
ad un livello superficiale.

L’importante, ripeto, è vedere quanto le culture abbiano una
radice profonda. Il pericolo esiste per le culture che non hanno radici forti, o per le
persone che non conoscono a fondo la propria cultura di riferimento.

Quando noi tibetani chiediamo l’Autonomia, naturalmente
rivendichiamo il nostro diritto a preservare e sviluppare lo "spirito tibetano".
Ma questo non significa che vogliamo continuare a mangiare la tsampa (pietanza
tradizionale tibetana, ndr)! I tibetani che oggi vivono in Svizzera hanno assimilato molte
abitudini svizzere: vestono o mangiano come gli svizzeri. Ma non significa che non abbiano
conservato la loro tibetanità. I nomadi che un tempo si nutrivano solo dei proventi
dell’allevamento oggi hanno i thermos per il tè e mangiano anche verdura. Non è una
cosa negativa.

Penso che si possa godere delle cose di un altro paese o di
un’altra cultura – ad esempio del cinema o della musica occidentale – senza
tuttavia rinunciare alle proprie tradizioni, soprattutto spirituali".

 

Questo sotto il profilo culturale. Ma qual è la sua idea di
globalizzazione sul piano economico e delle politiche poste in essere da soggetti come il
G8?

"Riguardo alla globalizzazione come fenomeno puramente economico,
un pericolo esiste: quello che le economie più forti, a livello sia di nazione che di
singola multinazionale, operando nei paesi poveri possano soffocare lo sviluppo delle
economie locali. Questo è un pericolo reale sul quale bisogna vigilare.

Riguardo al G8, io penso che abbia un ruolo importante e, dunque,
bisogna che continui a riunirsi. Ma esistono questioni, in merito ad esempio al degrado
ambientale o al rapporto fra sistemi economici forti e sistemi deboli, che debbono essere
affrontate. Quindi, è giusto che ci siano persone che ricordano queste questioni ai
grandi della terra; se non c’è altro modo, anche con manifestazioni di piazza,
purché siano rigorosamente non-violente".

 

In Trentino lei si è confrontato con un moderno statuto di
autonomia. Quali speranze ci sono per una pace duratura in Tibet e per il conseguimento di
un’autonomia che soddisfi veramente le esigenze del popolo tibetano?

"Se si guarda la situazione specifica del Tibet e, in particolare,
quello che sta avvenendo in quest’ultimo periodo, si dovrebbe dire che per il Tibet
non c’è più speranza. Se poi si analizza come il mio paese e la mia gente siano
arrivati a trovarsi in questa situazione, si scopre che ciò che è accaduto e sta
accadendo è dovuto all’intervento della Cina, che ha chiamato questo intervento,
iniziato nel 1949, con un nome attraente come "liberazione", ma che in realtà
ha provocato enormi sofferenze nel mio popolo. Sofferenze che durano da ormai tanti anni.

Possiamo dunque dire che un cambiamento del Tibet dipende direttamente
dal cambiamento della Cina. Ora, se osserviamo la Cina, ci accorgiamo che essa sta in
effetti cambiando. Si può dire anche che, dato che quel paese sta diventando sempre di
più una grande potenza, non potrà cambiare in un modo discordante dal resto del mondo.
Quindi, se consideriamo inevitabile il cambiamento della Cina, ecco che si può dire che
esiste una grande speranza per il mio paese. Quando questo cambiamento avrà luogo, allora
si apriranno dei concreti spiragli di speranza anche per il Tibet".

 

E il ruolo della comunità internazionale?

"Dopo i pronunciamenti dell’Onu fra la fine degli anni
’50 e l’inizio degli anni ’60 in favore del popolo tibetano, il governo
tibetano in esilio ha smesso di chiedere l’appoggio della comunità internazionale,
perché pensava che fosse meglio cercare di intavolare relazioni dirette con la Cina.

Nei primi anni ’80 sembrò che questa strategia potesse avere
successo; ma poi la Cina è tornata ad irrigidirsi. Nel 1987 ho proposto un piano di pace
in cinque punti, che però il governo cinese si è rifiutato di prendere in
considerazione. Così, siamo tornati a rivolgerci alla comunità internazionale, che ci ha
espresso più volte il suo sostegno. Vede, è molto difficile trattare con la Cina, non
solo per noi tibetani, ma anche per altre realtà presenti all’interno del paese.

L’anno scorso siamo venuti in possesso di un documento riservato
del viceministro della cultura cinese, trasmesso agli studiosi cinesi di tibetologia, nel
quale si diceva che il Dalai Lama pronuncia solo menzogne, che purtroppo gli occidentali
scambiano per verità. Com’è possibile che la comunità internazionale sia così
ingenua da credere per trent’anni di seguito a delle menzogne? Voi qui che mi state
ascoltando siete forse usciti di senno?".

 

Così parlò il Dalai Lama. Da segnalare, nell’economia di una
visita complessivamente gratificante per tutti, un solo episodio spiacevole: la bufala
dell’inviata de la Repubblica, la nota orientalista Renata Pisu, che ha attribuito al
Dalai Lama una dichiarazione favorevole all’uso della violenza nei confronti del G8.
Quando si dice etica professionale…

 

(*) Alberto Faustini è responsabile dell’Ufficio stampa della Provincia
Autonoma di Trento. Marco Pontoni è redattore nella medesima struttura.

Le foto del Dalai Lama sono dell’agenzia AgF-Beardinatti Foto
(Tn).

 

I rapporti tra Tibet e Cina

PAZIENZA, CORAGGIO, DETERMINAZIONE

 

Il Tibet si è costituito in entità sostanzialmente unita e
politicamente organizzata circa nel VII secolo d.C., all’epoca della diffusione del
buddismo sull’altopiano (ma il Dalai Lama ha parlato a Trento di reperti archeologici
che attesterebbero la presenza di una lingua e una cultura tibetane già 3000 anni fa).
Esso non è mai stato tout court una provincia cinese.

Tra Tibet e Cina vi sono stati, com’è ovvio, stretti rapporti
culturali, economico-commerciali e politico-diplomatici, talvolta pacifici, talaltra
conflittuali. Entrambi i regni furono inoltre soggetti all’invasione mongola, che
comunque non cancellò le peculiarità religiose e culturali del popolo tibetano, il quale
anzi le trasmise in buona parte agli invasori.

Agli inizi del XX secolo la situazione cominciò a cambiare, anche a
causa della crescente attività britannica in Asia centrale, che veniva vista come
minacciosa da Pechino. Così, subito dopo la conquista del potere, nel 1949 i comunisti
cinesi stabilirono il proprio controllo diretto sul paese, lasciando inizialmente al Dalai
Lama e alla sua aristocrazia un certo controllo sugli affari interni. Questa politica
relativamente moderata ebbe termine con la rivolta del 1959, a cui seguì una durissima
repressione.

In seguito a questi eventi drammatici, le Nazioni Unite approvarono tre
risoluzioni sul Tibet (nel 1959, 1961 e 1965), nelle quali si invocava la cessazione di
pratiche contrarie ai fondamentali diritti umani e di libertà, incluso il diritto
all’autodeterminazione. Come molte altre risoluzioni dell’Onu, anche queste non
ebbero alcun esito.

A partire dal 1966, e per quasi un decennio, in Cina si scatenò la
cosiddetta "Rivoluzione culturale", causa di violenze inenarrabili. In Tibet
essa ha comportato, oltre all’incarcerazione e all’uccisione di migliaia di
persone, anche alla distruzione sistematica di gran parte del patrimonio religioso e
artistico (come testimoniato, ad esempio, dalla documentazione fotografica contenuta in
Segreto Tibet dell’orientalista Fosco Maraini, uno dei "classici" in lingua
italiana sul Tibet pre-occupazione). Nel periodo successivo si sono alternati momenti di
liberalizzazione e "giri di vite". Date le difficoltà politiche che incontrava
in Tibet, il governo di Pechino ha cercato, soprattutto nell’era del dopo-Mao, di
migliorare lentamente la propria immagine nei confronti della popolazione locale,
ricorrendo ad un intenso sforzo di modeizzazione e di sviluppo economico. La conseguenza
è stata però anche, assieme a nuove forme di sfruttamento del territorio tibetano, un
sempre più massiccio afflusso di non tibetani sull’altopiano. Oggi, secondo fonti
del governo tibetano in esilio (con sede a Dharamsala, in India), i tibetani che vivono in
Tibet sono poco più di sei milioni, mentre i coloni cinesi circa sette milioni. I
tibetani in esilio sono intorno ai 130 mila; oltre all’India, uno dei paesi nei quali
sono presenti in maggior numero è la Svizzera.

Recentemente il Dalai Lama ha sintetizzato così la sua posizione.
"Io mi batto per una vera autonomia dei tibetani, convinto che una soluzione del
problema porterà soddisfazione al popolo tibetano e contribuirà alla stabilità e
all’unità della Repubblica popolare cinese. Finora il governo cinese si è rifiutato
di accettare la mia delegazione, sebbene, tra il 1979 e il 1985, avesse accettato di
incontrare sei delegazioni tibetane dall’esilio. Questo è un chiaro segnale che
l’atteggiamento di Pechino si è indurito, e manca la volontà politica di risolvere
la questione. Pazienza, coraggio e determinazione sono essenziali per noi tibetani in
questa sfida. Credo fermamente che in futuro ci sarà occasione di discutere seriamente il
nostro problema e guardare in faccia la realtà, perché non ci sono alternative, né per
la Cina né per noi".

 

Ma.Po.

 

Chi è? DALAI LAMA

Quello di Dalai Lama non è un titolo ereditario. Secondo la tradizione
tibetana – resa popolare in Occidente dal film di Bertolucci Piccolo Budda – vi sono
alcuni illuminati o Bodhisattva i quali, anche dopo avere raggiunto il Nirvana, la
beatitudine eterna della buddità, decidono di restare tra gli uomini, per sostenerli
sulla via dell’illuminazione. Uno di essi è Chenrezig, chiamato in sanscrito
Avalokitesvara (il Budda della compassione), che si incarna nel Dalai Lama, massima
autorità religiosa dei tibetani. Il Dalai Lama è quindi espressione di un amore per il
genere umano che è anche consapevolezza dei limiti dell’umana esperienza, idea
quest’ultima che rimanda al primo discorso pronunciato dal Budda storico, Sakyamuni,
dopo avere raggiunto l’Illuminazione.

Nella prassi avviene che, dopo la morte di ogni Dalai Lama, bisogna
trovare il suo successore, che è all’apparenza un bambino come tutti gli altri. Per
questo vengono effettuate vaste ricerche in tutto il Tibet, e i presunti successori
vengono sottoposti ad una serie di prove – come ad esempio riconoscere degli oggetti
appartenuti al precedente Dalai Lama, mescolati ad altri del tutto identici – al fine di
fugare ogni possibile dubbio.

"Dalai" è un termine mongolo, e sta per "oceano".
"Lama" è il termine tibetano per "maestro spirituale". "Dalai
Lama", quindi, può essere tradotto approssimativamente come "oceano di
saggezza".

L’attuale quattordicesimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso, è nato a
Taktser, in un piccolo villaggio dell’altopiano tibetano il 6 luglio 1935,
originariamente con il nome di Lhamo Thondup. Dopo il suo riconoscimento, si è insediato
a Lhasa, la capitale del Tibet, nel 1939. All’epoca il governo del paese era in
sostanza una teocrazia; sotto il profilo economico e tecnologico, esso era parimenti molto
arretrato, e del tutto refrattario alla tradizione scientifica occidentale.

Dopo l’occupazione cinese, e in particolare dopo la repressione
dei moti nazionalisti di Lhasa (10 – 15 mila tibetani uccisi in tre giorni), il Dalai Lama
scelse, con circa 85 mila seguaci, la via dell’esilio. In seguito ha eletto a sua
nuova dimora Dharamsala, una cittadina dell’India del nord, dove oggi ha sede il
governo tibetano in esilio. Dopo avere lasciato il Tibet, il Dalai Lama ha
progressivamente laicizzato le istituzioni di governo, che ora sono elettive. Naturalmente
ciò ha un significato molto limitato, non potendo esercitare il governo in esilio alcun
potere reale sul Tibet.

Ma.Po.

Alberto Faustini Marco Pontoni




Genova (1): prima del vertice degli “otto grandi” VOI NON SIETE I PADRONI DEL MONDO

Oggi chi scrive sul "G 8" di Genova, a quasi
tre mesi da fatti tristemente noti, rischia di incappare nel "senno di poi", di
cui sono piene le fosse.
Tuttavia resta valido il detto "l’esperienza insegna", per non cadere negli
errori di ieri. Come pure: "Chi sbaglia paga". Ma senza capri espiatori.
A noi il "G 8" interessa, soprattutto, per le ripercussioni nei paesi
impoveriti. Oltre ad alcune testimonianze dal Sud del mondo, diamo spazio a due documenti:
quello "propositivo" di numerosi istituti missionari e organizzazioni cattoliche
e quello "risolutivo" degli "otto grandi" (articolo successivo). Il
confronto fra le "attese" dei primi e i "risultati" dei secondi è
eloquente.

 

Genova, sabato 7 luglio, ore 8.30. Usciti dalla stazione
ferroviaria di Brignole, ci incamminiamo verso il teatro "Carlo Felice" in
piazza De Ferrari. Dopo pochi passi, un signore ci accosta: "Scusi, per favore mi sa
dire…".
– Ci sto andando anch’io!
– Per il convegno nazionale "Guardiamo il "G 8" negli occhi"?
– Esattamente.
– Allora la seguo. Buon giorno! Io sono Dino, dell’Azione Cattolica di Rovigo.

Giunti all’ingresso del teatro, Dino si ferma, per attendere
alcuni amici di Napoli. "Napoli?" esclamiamo incuriositi. "L’Italia
forse è divisa, ma gli italiani sono certamente uniti, alla faccia del senatùr…
voltagabbana" è la risposta.
Ci separiamo.

La storia di un crapulone

Il "Carlo Felice" è un teatro da 3 mila posti. Ma, al nostro
ingresso, contiamo solo due missionarie della Consolata davanti ad un cartellone, che
riporta i nomi del comitato promotore del convegno: circa 60 istituti e associazioni; in
ordine alfabetico, prime le Acli (Associazioni cristiane dei lavoratori italiani) e ultimi
i Missionari Verbiti. Mentre carichiamo la macchina fotografica, scorgiamo anche diversi
ragazzi e ragazze scout, in pantaloni corti, camicia blu e fazzoletto verde al collo,
seguiti da un gruppetto della Coldiretti con un vistoso berretto giallo. Scattiamo le
prime foto. Poi puntiamo l’obiettivo su Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea
(sempre presente a "certi" appuntamenti), e don Andrea Gallo, della Comunità di
san Benedetto al porto. Notiamo Pierluigi Castagnetti, segretario del Partito popolare
italiano, e Aldo Bodrato, ex ministro della pubblica istruzione. Ma questi ed altri
personaggi non bastano a riempire il vasto teatro, che rischia un vuoto desolante.

Però alle 10 il "Carlo Felice" è zeppo: giovani e adulti,
mamme con bimbi in braccio, portatori di handicap in carrozzella, volontari,
sindacalisti, docenti, missionari, suore, preti.

Si inizia con lo sguardo rivolto ad un Cristo campesino del
Cile, mentre si legge la storia di un crapulone che banchetta ogni giorno lautamente… in
barba all’affamato e piagato Lazzaro, del quale solo i cani hanno pietà. Al termine
della loro vita, il primo finisce all’inferno e il secondo fra le braccia di Abramo,
il padre dei credenti.

Il crapulone supplica: "Abramo, manda Lazzaro dai miei fratelli:
che mutino subito comportamento, altrimenti finiranno con me nei tormenti!".
"Hanno già avuto la legge di Mosè e gli ammonimenti dei profeti – replica il
patriarca -, e tutto è stato inutile. Non si convertirebbero neppure se uno risuscitasse
dalla tomba" (cfr. Lc 16, 19-31).

"Incalzati da questo monito severo, riproposto anche dal Cristo campesino
– afferma Fabio Protasoni, cornordinatore del convegno – vogliamo riflettere sulle
situazioni di povertà dell’80 per cento dell’umanità, causate da ingiustizie
sociali e politiche, prima che sia troppo tardi, come per il crapulone del vangelo".

La parola al sud del mondo

Seguono tre testimonianze.

La prima è di Monica Espinosa, già impegnata in Ecuador
con "Rete del Giubileo 2000", che si domanda: "Cosa dobbiamo aspettarci
dall’America Latina? Sempre e solo guerriglieri arrabbiati? Assolutamente no. Ma
occorre fare subito giustizia, specialmente per le classi sociali emarginate. Mi auguro
che i "G 8" imbocchino con coraggio questa strada. La globalizzazione è come
una porta, che può essere chiusa o aperta. Finora non è stata una porta aperta ai
poveri".

Anche la giovane Monica ricorre ad un’icona. È quella di Pietro,
che si sente dire da Gesù Cristo: "Abbi cura delle mie pecore" (cfr. Gv 21,
15-19). L’ecuadoriana lancia un messaggio: "Io, voi, noi tutti siamo cristiani
nella misura in cui abbiamo a cuore i problemi della gente, di tutta la gente".

Sale sul palco Filomeno Lopez, della Guinea Bissau, che
rappresenta i problemi dell’Africa. È sorridente e scattante nei movimenti (poi si
scoprirà che è pure un eccellente danzatore). Il suo raffinato italiano gli consente di
maneggiare con arte anche il fioretto dell’ironia. "Amici, come mi devo
presentare? Certamente come un "fuori", un extra, un extracomunitario. Però
ieri qualcuno mi chiamava vu’ cumprà e, prima ancora, vu’ lavà… Amici, non
cadiamo negli stereotipi, frutto di ignoranza. Io credo nella riconciliazione, previo il
rispetto reciproco".

Anche Filomeno riflette sulla globalizzazione. Rigetta quella
"sbarcata sui porti africani con una risposta esclusivamente mercantile: la
globalizzazione intesa come extra mercatum nulla salus, che ha per fondamento
l’arte di vincere senza ragione".

La terza testimonianza è del direttore della rivista Missioni
Consolata
. Egli riporta alcune voci dal Sud del mondo: ad esempio, quella del
cardinale Evaristo As. L’arcivescovo di São Paulo (Brasile), in una intervista del
1988, affermava che il debito estero del suo paese è illegittimo e illegale:
"illegittimo, perché è già stato pagato tre volte con il versamento di 36 miliardi
di dollari di interessi; illegale, perché contratto da generali brasiliani senza
consultare il parlamento. E gli stati creditori sapevano che imprestavano soldi per
finalità militari…".

"Oggi, a 13 anni da quell’intervista, si discute ancora –
commenta il direttore di Missioni Consolata – sulla necessità o meno di cancellare
il debito dei paesi poveri. Non dovrebbe essere una questione scontata, com’è
scontata la caduta di… una mela matura?".

Un accenno anche alla protesta della gente in Congo (ex Zaire) contro
la guerra. "Nella chiesa di Pawa, durante la messa di pasqua dell’anno scorso, i
fedeli hanno gridato: "La guerra è peccato!". Ma la colpa è ancora più grave
se ad imbracciare il mitra sono ragazzi di 12 anni, come ho visto in Congo".

"Mkubwa haombi" (il capo non chiede permessi): è un detto
swahili, che spesso nasconde la strategia dell’intimidazione e, di conseguenza, della
sottomissione. "Ma oggi, grazie anche ai missionari, molti alzano la testa per dire
al presidente prevaricatore: "Signor no!"".

Ai fischi rimedia un po’ il Cardinale

È il clou del convegno: ovvero la presentazione del "Manifesto
delle Associazioni cattoliche ai Leaders del G 8
" (vedere il testo a parte). Fra
i suoi estensori spicca l’economista Riccardo Moro. Il quale, tuttavia, ci dichiara:
"Vedi questi sei ragazzi? Il Manifesto è soprattutto opera loro". E sono gli
stessi ragazzi che, un po’ emozionati, lo leggono in assemblea. L’applauso dei 3
mila vale l’approvazione.

Il Manifesto viene affidato a Umberto Vattani, segretario generale
della Faesina, perché a sua volta lo trasmetta al governo in carica. Invitato (per
deferenza) dal cornordinatore del convegno ad intervenire, Vattani prende la parola.

Non l’avesse mai fatto! O avesse parlato in termini diversi, non
si sarebbe beccato tre bordate di fischi: la prima un po’ leggera, la seconda più
pesante, la terza secca e arrabbiata, anche perché il politico continuava sicuro.

Il diplomaticoVattani esalta l’Italia, sesta potenza economica
mondiale grazie alla globalizzazione… "a differenza dell’Africa, che resterà
sempre povera se non entrerà nel processo". Ma i 3 mila cattolici del "Carlo
Felice" rifiutano questa visione del mondo.

Ad aggiustare (forse) le cose ci pensa Dionigi Tettamanzi, cardinale di
Genova (significativa, tra l’altro, la Lettera dei Vescovi liguri ai fedeli delle
loro Chiese in occasione del G 8
).

I cattolici non devono scordare che, secondo la dottrina della chiesa,
la proprietà dei beni ha una "funzione sociale comunitaria", e non solo
privata: di qui il dovere dell’attenzione all’altro. Questo però esige un
impegno politico professionale, perché il volontariato non basta più.

Infine il cardinale dichiara: "Oggi si parla del "G 8",
cioè del gruppo degli 8 paesi più ricchi; qualcuno sollecita che a parlare siano i
"G 20", ossia i 20 paesi più poveri… Io dico: facciamo un G TUTTI,
dove ognuno possa parlare, ma alla luce della parabola del ricco e del povero con il quale
abbiamo aperto il convegno".

 

Ore 14,35. Entriamo in uno snack bar di Genova, dove Dino e gli
amici di Napoli, Gennaro e Concetta, stanno addentando un panino.

– Volete favorire? – è l’invito dei napoletani.
  – Perché mi date del "voi"?

Risata generale.

Quando siamo tutti al caffè, Dino commenta: "Un bel convegno,
durante il quale ho apprezzato gli interventi dei rappresentanti del terzo mondo.
D’ora in avanti bisognerà sempre fare così. Molto interessante pure il
Manifesto…". "Noi a Napoli – s’intromette Gennaro – abbiamo un detto che,
nel caso presente, potrebbe suonare: passata la festa del "G 8", gabbati ancora
una volta i poveri". "No, guagliò – replica Concetta -. Passata la
festa, i poveri ritornano a lavorare".

 

 Noi, sentinelle del mattino

Manifesto delle associazioni
cattoliche ai leaders del G 8

 

La vita umana è valore universale. Garantirla nel suo esistere e
tutelarla nella sua dignità è responsabilità politica che la comunità internazionale,
insieme a ciascuno di noi, è chiamata ad esercitare per il raggiungimento del bene
comune.

Oggi la dignità della vita umana è violata. Molti sono gli ambiti in
cui questo accade, dalla guerra alla povertà, dal sapere privilegio di alcuni al potere
monopolio di pochi.

Noi sentiamo l’impegno di appartenere ad una famiglia, che va
oltre i confini nazionali e le logiche economiche. Crediamo che tutti siamo veramente di
tutti e non possiamo rimanere indifferenti di fronte a clamorose differenze.

Affermiamo che ogni uomo è una risorsa, un bene prezioso per gli
altri, e a sua volta chiede agli altri di essere aiutato nel suo cammino verso il
compimento definitivo. Nessuno può essere considerato solo un soggetto economico
passivo,
il cui valore è commisurato alla sua capacità di acquisto.

Noi siamo qui per ricordarvi che voi siete noi. Voi,
responsabili delle nostre nazioni, siete i nostri rappresentanti. Voi avete una grande
responsabilità. Voi non siete il governo del mondo, ma quanto decidete ha
inevitabili ripercussioni su molti, anche al di fuori dei confini dei nostri paesi.

Noi siamo qui perché abbiamo un sogno: non vogliamo essere i
ricchi che guardano ai poveri da aiutare. Vogliamo essere cittadini di una comunità
solidale che diano a tutti lo stesso diritto di avere necessità e offrire opportunità.

Per questo facciamo a voi, nostri rappresentanti, le richieste che
riteniamo punto di partenza perché ogni persona di oggi e domani possa vivere in
libertà, solidarietà e dignità.

 

La notte I conflitti / La guerra

La dignità della vita umana è offesa da conflitti che coinvolgono
popolazioni vulnerabili. Donne e uomini, bambini e anziani, in divisa o abiti civili, sono
attori spesso inconsapevoli di copioni scritti, più o meno intenzionalmente, da altre
mani, in altre lingue e in altri luoghi. Noi esigiamo che voi lavoriate con chiarezza e
determinazione per:

– bandire la guerra come strumento di soluzione dei conflitti e
impegnarsi come Stati a non ricorrere alla forza per dirimere le controversie intee e
inteazionali;

– avviare un processo credibile e autentico di riforma delle Nazioni
Unite che ne rafforzi democrazia, autorevolezza ed efficacia, in particolare nella loro
responsabilità di principale attore in favore della pace nel mondo;

– in questo quadro, privilegiare gli approcci ‘locali’,
valorizzando anche i contributi non governativi, affrontando tutti i conflitti, anche
quelli interni quando violano la libertà delle popolazioni civili;

– combattere autenticamente il mercato delle armi, a partire
dall’informazione su tutte le operazioni di vendita e acquisto. Nessuna copertura
finanziaria pubblica deve essere data a chi le produce e le vende;

– non sprecare il denaro. Vogliamo che le risorse non vengano gettate
in progetti di difesa inutili, come lo scudo spaziale, ma siano utilizzate per eliminare
le cause che originano i conflitti, prima fra tutte la povertà.

 

Debito

Il peso del debito estero dei paesi del Sud compromette la dignità
della vita di milioni di persone. Tuttora risorse finanziarie, preziose e scarse, vengono
usate dai paesi impoveriti per pagare i creditori, cioè i governi del Nord, cioè noi! In
occasione del Giubileo vi abbiamo chiesto azioni coraggiose. Voi ci avete ascoltato solo
in parte. Ci inorridisce sapere che il denaro che ancora incassiamo, per quanto ridotto
rispetto agli anni scorsi, sia sottratto da interventi per dare case, cibo, medicine e
istruzione a persone che sono per noi come altri noi stessi.

Vi chiediamo perciò ancora con forza di:

cancellare tutto il debito accumulato sino al 19 giugno 1999, la data
della grande manifestazione di Colonia. Nel vostro linguaggio si tratta dello spostamento
della data che divide il debito cancellabile da quello non cancellabile;

cambiare i parametri che permettono di partecipare alla iniziativa
internazionale per i paesi gravemente indebitati (iniziativa Hipc). Vogliamo che nei paesi
indebitati siano assicurati beni e servizi fondamentali a tutti i cittadini. Solo il
denaro restante, dopo queste spese, può essere utilizzato per pagare il debito;

concordare con i paesi indebitati e i rappresentanti della società
civile del Sud e del Nord l’istituzione di un "Processo di arbitrato
internazionale equo e trasparente" per valutare in termini di giustizia
l’ammontare effettivo del debito delle nazioni. La remissione del debito è questione
di giustizia prima che di solidarietà.

 

Povertà

La dignità della vita umana è offesa dalla scandalosa differenza tra
la vita dei paesi ricchi e di quelli da questi impoveriti. Un bambino su venti in Africa
muore prima dei cinque anni. Un bambino su due non va a scuola. È una situazione che ci
fa orrore e di cui siamo e siete corresponsabili. Noi ci impegniamo a stili di vita nuovi,
più equi e solidali, ma nello stesso tempo, poiché rappresentate la nostra voce,
vogliamo che voi impegniate le nostre nazioni a:

– onorare da subito l’impegno, assunto e non mantenuto, di
finanziare l’aiuto allo sviluppo con lo 0,7% del PIL dei nostri paesi. Oggi la media
è minore della metà;

– promuovere e rafforzare, nelle sedi inteazionali, l’utilizzo
dei programmi di riduzione della povertà che prevedano un autentico coinvolgimento della
società civile;

– favorire con mezzi finanziari e assistenza tecnica l’azione dei
governi dei paesi impoveriti, perché sia garantito a tutte le popolazioni il diritto alla
salute e istruzione.

 

Una luce che sorge

Costruire il futuro: globalizzare la solidarietà e le responsabilità

La dignità della vita, a Nord come a Sud, può essere tutelata solo
attraverso un forte, condiviso e rispettato sistema di regole, in cui non il più forte
abbia maggiori diritti, ma il più debole. Non è questo ciò che accade oggi nel mondo. A
voi, nostri rappresentanti, chiediamo quindi di non nascondervi dietro facili
giustificazioni, ma di rispondere a queste richieste.

 

Il mercato fra libertà e responsabilità

– Vogliamo che sia creato un sistema di regole nel commercio
internazionale che permetta a tutti i paesi, in particolare ai più impoveriti, di offrire
sul mercato le proprie merci ad un prezzo equo, abolendo le barriere, a cominciare dalle
nazioni del G 8, e, per i prodotti agro-alimentari, prevedendo un meccanismo di
regolamentazione produttiva e distributiva che definisca quote produttive alle nazioni e
garantisca stabilità dei prezzi.

– Vogliamo una vera libertà di mercato, in cui tutti siano liberi di
acquistare conoscendo con precisione che cosa viene loro offerto e a tutti sia data
possibilità di vendere i propri prodotti. Non è quello che accade oggi.

– Vogliamo un impegno immediato e concreto di denuncia dei paradisi
fiscali e finanziari. Impegnatevi nelle diverse sedi inteazionali per la definizione e
pubblicazione delle liste dei paesi che permettono il riciclaggio di denaro sporco e
offrono riparo fiscale per speculazioni selvagge.

– Vogliamo, a cominciare dai nostri paesi, una tassa sulle transazioni
valutarie (del tipo della Tobin Tax) che renda costosi i trasferimenti inteazionali di
denaro a scopo speculativo e offra il ricavato per finanziare lo sviluppo.

 

Il lavoro strumento per la dignità della vita

– Vogliamo che sia migliorata e venga applicata la legislazione
internazionale che impedisce lo sfruttamento lavorativo delle persone. Costo del lavoro
più basso e competitivo non deve significare "umiliante".

 

L’ambiente dovere globale

– Vogliamo che siano riconfermati immediatamente gli accordi di Kyoto
in tema ambientale e che sia indicato in modo trasparente il percorso futuro di
rafforzamento dell’azione di tutela del Creato.

 

Libertà e democrazia economica

– Vogliamo un’economia libera in cui siano impedite posizioni di
monopolio, come quelle delle multinazionali in grado di alterare il mercato e
l’informazione sulla loro azione.

 

Un’informazione libera

– I paesi del G 8 promuovano leggi che garantiscano a livello nazionale
e internazionale la pluralità dei media e degli editori, vietando monopoli, per
permettere una libertà responsabile a tutti i cittadini.

– Vogliamo un’informazione trasparente anche sulle caratteristiche
dei prodotti alimentari in generale e in particolare degli organismi geneticamente
modificati (ogm).

 

La scienza per tutti

– Vogliamo che sia finanziata fortemente la ricerca pubblica in campo
sanitario, per rendere possibile la produzione di farmaci per le malattie diffuse tra le
popolazioni più povere.

In particolare vogliamo siano moltiplicati gli sforzi per rendere i
farmaci per la cura dell’AIDS accessibili a tutti coloro che sono infetti, in Africa
e ovunque, a cominciare dalle donne incinte prima e dopo il parto.

– Vogliamo regole che consentano produzione e distribuzione dei
medicinali a costi sostenibili per le popolazioni più povere. Questo significa affrontare
anche la questione della riforma della proprietà intellettuale.

 

A Tor Vergata abbiamo ascoltato le parole del Papa

Cari amici, vedo in voi le "sentinelle del mattino" in
quest’alba del terzo millennio. Nel corso del secolo che muore, giovani come voi
venivano convocati in adunate oceaniche per imparare ad odiare, venivano mandati a
combattere gli uni contro gli altri. Oggi siete qui per affermare che, nel nuovo secolo,
non vi presterete a essere strumenti di violenza e distruzione; difenderete la pace,
pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete a un mondo in cui altri
esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la
vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di
rendere questa terra sempre più abitabile per tutti.

È esattamente quello che vogliamo fare.

Francesco Beardi




Genova (2): cosa ha lasciato l’assise del “G8”. QUEGLI OTTO NANI MIOPI E PREPOTENTI

 

Nonostante la propaganda governativa parli di uno storico successo,
il vertice dei G8 si è concluso con un fallimento. Sui temi caldi del debito,
dell’ambiente e della finanza non si è deciso nulla, mentre l’insistenza
attorno alla bontà della ricetta economica neoliberista appare decisamente stonata. Il
Fondo globale per la salute (l’unica decisione operativa) ha una portata da elemosina
e una struttura molto ambigua. Nel frattempo, questo novembre l’Organizzazione
mondiale del commercio (Omc-Wto) discute un’ulteriore riduzione delle barriere
commerciali. La riunione si tiene a Doha, nell’emirato del Qatar, dove i
"cattivi" contestatori non potranno mai arrivare.

 

IL NULLA, NERO SU BIANCO

Sono passati quasi 3 mesi dal vertice di Genova, che ha
riunito i rappresentanti degli 8 paesi più industrializzati del mondo (i cosiddetti
"G8"). Premesso che sulla legittimità di questo organismo ci sono dubbi forti e
condivisibili, alla fine un dato è certo: il vertice si è concluso con un fallimento
epocale.

Gli 8 (più Prodi, che rappresentava l’Unione europea) signori del
mondo hanno messo nero su bianco il nulla uscito dai loro tre giorni di colloqui. I 36
punti della dichiarazione finale non sono altro che un inno stonato e ripetitivo alla
retorica del mercato che tutto sistema e tutto sana.

 

ELEMOSINA

Era stata annunciata come una grande iniziativa. In realtà, il Fondo
globale (Global Health Found) contro Aids, malaria e tubercolosi è
un’elemosina: si tratta di 1,3 miliardi di dollari, circa 3.000 miliardi di lire.
Questi fondi corrispondono alle risorse che i paesi indebitati spendono in poche settimane
a causa del debito.

Per comprendere il reale significato dei 3.000 miliardi stanziati,
ricordiamo che il deficit della sanità della regione Piemonte (con solo 4,5 milioni di
abitanti) per l’anno 2000 è stato stimato in 1.200 miliardi di lire.

Come ciò non bastasse, al punto 17 si legge: "Esprimiamo
apprezzamento per le misure prese dall’industria farmaceutica al fine di rendere
economicamente più accessibili i farmaci. Nel contesto del nuovo Fondo globale,
lavoreremo d’intesa con l’industria farmaceutica". Insomma, nonostante la
figuraccia mondiale rimediata in Sudafrica (dove hanno dovuto abbandonare la causa
intentata contro il governo nazionale), per gli 8 le multinazionali dei farmaci diventano
associazioni filantropiche.

Prima dell’inizio del vertice, Medici senza frontiere aveva
espresso forte preoccupazione per la tendenza dei governi ad abdicare a favore delle
imprese del business mondiale le responsabilità politiche della salute.

Dopo il vertice, l’organizzazione si è mantenuta coerente,
dichiarando che non parteciperà al consiglio direttivo del Global Health Found, in
quanto questo sarà aperto anche alle multinazionali farmaceutiche. Queste infatti
potranno guadagnarsi il loro posto nel consiglio attraverso una donazione al fondo. Come
non concordare allora con chi parla di "carità pelosa" e di "conflitto di
interessi"?

Inoltre, con un tono che sa molto di monito, gli 8 ribadiscono la
volontà di difendere i "diritti di proprietà intellettuale, come necessario
incentivo per la ricerca e lo sviluppo di farmaci salvavita". Questo significa che la
vicenda sudafricana (cioè la sconfitta delle multinazionali sui medicinali anti-Hiv)
viene considerata soltanto un episodio che non dovrà avere seguito.

 

DEBITO

"L’alleggerimento del debito è un valido contributo alla
lotta contro la povertà" (punto 7). Già il termine utilizzato,
"alleggerimento", fa capire che neppure questa volta sul problema del debito ci
sarà una svolta decisiva.

L’iniziativa a favore dei paesi poveri maggiormente indebitati (Heavily
Indebted Poor Countries
, Hipc), citata nel documento, è stata finora deludente. Non
solo perché soltanto 23 paesi poveri sono stati ammessi al programma di alleggerimento,
ma anche perché la stessa Banca mondiale ha messo in dubbio l’efficacia
dell’iniziativa Hipc nel lungo periodo.

I responsabili di Sdebitarsi e di Drop the Debt (le
organizzazioni italiana e internazionale che si battono per la cancellazione del debito)
non nascondono la loro delusione: i leaders dei G8 hanno perso una grande occasione
per affrontare in modo efficace la crisi del debito.

 

PROBLEMI? PIÙ LIBERISMO!

Tutto il documento finale è una ossessiva esaltazione della crescita,
senza una parola per i concetti di uguaglianza, giustizia, redistribuzione. Punto 10:
"Libero commercio e investimenti alimentano la crescita globale e la riduzione della
povertà". Il punto 11 ribadisce il concetto: "Appoggiamo gli sforzi compiuti
dai paesi meno avanzati per accedere al sistema commerciale globale e per approfittare
delle opportunità offerte da una crescita basata sul commercio".

Dunque, la risposta degli 8 grandi ai problemi del mondo è chiara ed
univoca: essi additano la via del libero scambio e dei commerci. Per abbattere la
miseria strutturale e lo squilibrio della ricchezza serve più liberismo, la nuova
ideologia che – come ci viene continuamente ricordato – non si può mettere in discussione
perché è l’unica possibile.

Questo novembre ci sarà la quarta riunione dell’Organizzazione
mondiale del commercio
(Omc-Wto), la prima dopo il fallimento di Seattle (novembre
1999). Poiché quanti si oppongono e si mobilitano per manifestare il dissenso sono
considerati violenti o criminali, la riunione si terrà nell’emirato arabo del Qatar,
paese praticamente irraggiungibile. Insomma, finalmente il Wto potrà decidere in tutta
tranquillità cosa è bene per gli abitanti della terra. E poco importa se i delegati dei
49 paesi più poveri del pianeta, che si sono riuniti a Zanzibar (24 e 25 luglio), hanno
espresso forti preoccupazioni per le pressioni continue all’apertura dei loro mercati
quando questi sono ancora troppo deboli per competere con quelli dell’Occidente.

Se il Wto riuscisse a realizzare il suo disegno di liberalizzazione
completa dei mercati, sarebbe il primo organismo in grado di imporre le sue decisioni al
mondo intero. L’organizzazione – ha spiegato Susan George – è "un tavolo
permanente i cui membri si impegnano a negoziare per sempre in una sola direzione".
È quella del pensiero unico neoliberista, che elabora le giustificazioni teoriche
per la consegna delle economie nelle mani delle grandi imprese multinazionali.

"Il nostro modo di vivere e di pensare – ha scritto il premio
Nobel Rita Levi Montalcini -, il nostro modo di produrre, di consumare e di sprecare non
sono più compatibili con i diritti dei popoli dell’intero globo. I meccanismi
perversi dell’attuale modello di sviluppo provocano l’impoverimento, il
depredamento degli ecosistemi, la negazione delle soggettività e delle differenze".

 

GLI SPECULATORI? LIBERI DI ARRICCHIRSI

Al vertice di Genova si è parlato molto di economia, ma si sono
coscientemente tralasciate le variabili dell’economia finanziaria.

Attualmente sui mercati valutari si scambiano ogni giorno 1.800
miliardi di dollari; il 95% di tale entità riguarda transazioni di breve o brevissimo
periodo, la maggior parte delle quali riveste un carattere meramente speculativo. Se sulle
transazioni valutarie si applicasse la Tobin tax, si limiterebbero le speculazioni
finanziarie (che mettono continuamente in pericolo la stabilità degli stati più deboli e
l’equilibrio dell’intero sistema) e al tempo stesso si raccoglierebbero cospicui
fondi (si parla di 100 – 400 miliardi di dollari) per porre rimedio allo sviluppo
diseguale. Ma di tutto ciò, al summit di Genova, non si è parlato. Per banchieri
e speculatori non è mai difficile convincere i governi!

"Globali – ha scritto recentemente Oskar Lafontaine, ex ministro
delle finanze della Germania – sono solo i mercati finanziari -. La possibilità di
trovare in pochi secondi la migliore collocazione del capitale in tutto il mondo. Le crisi
finanziarie in Messico, Asia, Russia, Brasile e Argentina hanno rivelato
l’instabilità dei mercati finanziari inteazionali. Non ci sono dubbi che le crisi
hanno provocato un aumento considerevole della disoccupazione e dell’impoverimento
sociale".

 

LA TERRA PUÒ ATTENDERE

Non hanno potuto mentire. Al punto 24 i grandi affermano: "Al
momento non siamo d’accordo sul protocollo di Kyoto e sulla sua ratifica".

Su questo tema è stata determinante l’opposizione di George W.
Bush. Il protocollo di Kyoto (che prevede una blanda riduzione dei gas a effetto serra)
era stato firmato (1997), ma mai ratificato dagli Usa.

È qui che diventa palese una delle conseguenze più inquietanti della
globalizzazione: l’americanizzazione del mondo, ovvero la sua subordinazione
agli interessi della superpotenza statunitense. Finché si tratta di favorire il business
delle imprese multinazionali va tutto bene; ma quando si tratta di imporre regole
nell’interesse collettivo dell’umanità gli Usa si tirano indietro.

Vale la pena di ricordare che gli Stati Uniti sono di gran lunga il
paese più inquinante del pianeta (leggere box). Insomma, gli Usa guidano la fila
di coloro che si rifiutano di pagare quell’enorme debito ecologico e sociale
che le loro politiche hanno prodotto nei paesi del Sud, pur guardandosi bene dal
contabilizzarlo. Come ha ricordato l’ecuadoriana Aurora Donoso (di Acciòn
ecologica
), i paesi ricchi hanno operato un sistematico saccheggio delle risorse del
Sud (petrolio, minerali, foreste, biodiversità), lasciando in eredità distruzione
ambientale e sociale, mutamenti climatici e biopirateria di cui ora non vogliono farsi
carico.

"Le catastrofi ecologiche – scrive Lafontaine -, come
l’incidente al reattore di Cheobyl, il buco dell’ozono e le perdite delle
petroliere, hanno ricordato al mondo intero che anche la distruzione della natura fa parte
della globalizzazione. Gli interessi dell’ecologia si scontrano con lo spirito
neoliberale".

Molta più attenzione gli 8 grandi hanno mostrato nei confronti della tecnologia,
vista come panacea di tutti i mali. "Le tecnologie informatiche e delle comunicazioni
– recita il punto 22 della dichiarazione finale – rappresentano un enorme potenziale per
aiutare i paesi in via di sviluppo ad accelerare la crescita, elevare il tenore di vita e
soddisfare altre priorità dello sviluppo". Né è mancata (punto 20) la professione
di fede per le biotecnologie, nonostante il dibattito nella comunità scientifica e
nella società civile consigli molta prudenza.

Verso la fine del documento (punto 33) si parla di criminalità
transnazionale. Ma non si fa alcun cenno né al commercio delle armi né ai paradisi
fiscali e finanziari.
Evidentemente, per gli 8 "grandi" questi non sono
crimini.

 

LA PROMESSA

 

Silvio Berlusconi, non smentendo la sua fama di immodesto, ha
parlato di un vertice di portata storica. Come abbiamo visto, di storico c’è
soltanto il suo fallimento. Senza dire delle incredibili violenze che lo hanno circondato.
I 36 punti della dichiarazione finale di Genova si chiudono con "il nostro lavoro
continuerà". Più che una promessa, sembra una minaccia.

 

 

Il commento di Maurizio Pagliassotti e Silvia
Battaglia

TRA LIMONI DI PLASTICA E COPPE DI CHAMPAGNE

 

Quali commenti si possono fare sui contenuti del vertice genovese tra
gli 8 grandi della terra? Pochi. I risultati sono talmente striminziti che si finisce per
fare una critica al sistema stesso.

Certo, il tutto è stato ricoperto abbondantemente di demagogia,
spalmata da media pronti ad enfatizzare il nulla per nascondere parole che negli anni si
dimostrano sempre uguali, sempre più superficiali e banali.

"Il G8 della speranza", così è stata definita l’ultima
riunione dell’Internazionale del Conservatorismo Compassionevole. Mentre nelle
strade di Genova imperversava la guerra, all’interno di Palazzo Ducale, tra limoni di
plastica e coppe di champagne, i grandi 8 bollavano i manifestanti come "nemici dei
poveri" e, con unanimità di vedute, sproloquiavano le solite frasi, i soliti
ritoelli.

Il G8 svoltosi in Giappone, nel 2000, ebbe almeno un risvolto comico.
Allora la montagna riuscì a partorire lo slogan "Inteet per tutti",
come panacea mondiale della fame e del sottosviluppo. Anche per quei 2 miliardi di persone
che non hanno la più pallida idea di cosa sia il telefono?

D’altronde il grottesco in politica sembra seguire le leggi
dell’entropia nella fisica: tende all’infinito. Il ministro degli Esteri
italiano Renato Ruggiero, nominato direttamente dall’ex segretario di Stato
americano Henry Kissinger, ha detto, durante una trasmissione televisiva la sera
del 20 luglio, sostenendo l’importanza delle nuove tecnologie per il terzo mondo:
"Oggi un telefonino può salvare vite umane" (*).

Non si salverebbero molte più vite umane con una semplice riforma
agraria che favorisca le necessità intee anziché l’esportazione di monocolture?
Oppure evitando la crescente desertificazione di gran parte dei paesi poveri dovuta agli
effetti degli stili di vita consumistici del nord?

Niente di tutto questo. Gli 8 si sono mossi esclusivamente nel
ristretto ambito del progetto neoliberista. E in questo quadro devono essere viste le
piccole decisioni, poi definite "storiche", prese durante le "cene di
lavoro".

Allargamento del G8 – Dal prossimo anno dovrebbe essere presente
stabilmente una rappresentanza dei paesi poveri durante il pre-vertice. Demagogia. Molte
nazioni del terzo e quarto mondo sono "protettorati" degli Stati Uniti. Si
pensi, ad esempio, a molti paesi dell’America Latina.

È una realtà, invece, che i promessi aiuti allo sviluppo da anni non
facciano alcun progresso. I paesi industrializzati si impegnarono a destinare lo 0,7% del
PIL al sud del mondo. Escluse poche eccezioni scandinave, nessuno lo ha fatto. Tale
mancanza non è stata oggetto di discussioni.

Debito – È stata confermata la volontà di
"alleggerire" i debiti delle nazioni più povere. Restano in piedi quelli con il
Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale…

Curiosità: cosa si domanda in cambio
dell’"alleggerimento"? Si chiede un ulteriore taglio della già miserevole
previdenza sociale? Oppure un’ennesima apertura dei mercati, affinché possano
arrivare capitali stranieri ansiosi di trovare paesi finalmente liberi da basilari
normative sindacali ed ambientali?

Aids – È prevista l’istituzione di un fondo di 1,3
miliardi di dollari per combattere l’epidemia in Africa. Una bazzecola. Per lo scudo
spaziale statunitense sono previsti investimenti per 100 miliardi di dollari. Si è
parlato di far cadere il brevetto ventennale che copre i farmaci e li rende
scandalosamente cari?

Clima – Nessun accordo sul protocollo di Kyoto. Gli Stati Uniti,
ostaggi della stagnazione economica, si rifiutano di rinunciare al proprio stile di vita
iperconsumista, facendone anzi una bandiera. Un trattato totalmente insufficiente trova
ostacoli insormontabili.

Scudo spaziale – Preoccupanti le aperture russe verso lo scudo
spaziale voluto dagli Stati Uniti.

Tobin Tax – Tutti sono scoppiati a ridere.

E poi tanti altri bla bla su Medio Oriente, Macedonia, Africa
etc.

 

Nulla di nuovo quindi. Passa il messaggio che la soluzione dei problemi
globali vada ricercata attraverso una politica commerciale neoliberista, la stessa che
quotidianamente crea distruzione e morte. La ricetta proposta dagli 8 fa della
competizione commerciale un dogma. Bisognerebbe anche aggiungere che trattasi di
competizione al ribasso sui costi, intesi come umani ed ambientali, pena appunto
l’esclusione dal mercato. Questo meccanismo diabolico è ben dimostrato da paesi come
Cina e Messico, luoghi in cui le commesse di prodotti volti al consumatore occidentale
hanno prodotto piccole élites ultraricche e masse enormi di disperati, esattamente coloro
sui quali si scarica la "flessibilità competitiva globale". È giusta una
politica che lascia ai paesi poveri, come uniche scelte, la disoccupazione se si rifiutano
le regole di questo mercato oppure lo sfruttamento e la distruzione delle risorse naturali
se invece si accettano? A noi sembra paradossale.

Forse proprio questo messaggio, non più sussurrato subdolamente,
bensì urlato a gran voce, è il risultato più imbarazzante e pericoloso di questo
summit: la pretesa che la globalizzazione, e quindi la scienza ed il pensiero occidentale,
siano gli unici mezzi per diminuire la povertà del sud del mondo. Evidentemente non è a
tutti chiaro che la conoscenza occidentale è semplicemente il risultato
dell’evoluzione storico-culturale del popolo occidentale. Altre conoscenze ed altre
scienze hanno lo stesso diritto di esistere e di dare le proprie interpretazioni di ciò
che noi intendiamo per sviluppo e progresso.

Un carrozzone inutile, quindi, il G8, megafono di decisioni che vengono
prese altrove. Decisioni volte al mantenimento di un capitalismo che oramai è
impazzito, sfuggito di mano e che sembra quasi vivere di vita propria, ingovernabile. Un
macro-organismo che, brandendo la spada della tecnologia, necessita per mantenersi in vita
di sempre nuovi consumi, nuovi uomini da sfruttare per tagliare i costi, nuovi ambienti da
distruggere per trovare materia prima.

Quegli 8 uomini avrebbero dovuto ammettere che la soluzione ai problemi
dell’ambiente e delle popolazioni povere passa attraverso una drastica redistribuzione
della ricchezza.
Traduzione: fine dei patrimoni personali pari al PIL di interi
continenti, delle flotte di aviogetti privati, delle automobili da 1.000.000 di dollari, e
di moltissimi altri scandali. E, molto probabilmente, fine anche di molte altre minori
comodità che oramai noi consideriamo un diritto, ma che tali non sono.

Meglio rimandare fino al momento del collasso totale, meglio correre
spensierati verso una comodissima catastrofe.

(*) Speciale Porta a Porta, venerdì 20 luglio 2001, Rai 1.

 

 

Dopo l’11 settembre

SIAMO TUTTI AMERICANI, MA…

 

… anche serbi, palestinesi, kurdi, rwandesi, iracheni. Il terrorismo
è inciviltà. La guerra lo è ancora di più.

 

Nella peggiore delle ipotesi, quando leggerete queste pagine, George W.
Bush avrà già scatenato la vendetta. E altre persone innocenti, proprio come le migliaia
morte negli attentati di New York e Washington, pagheranno con la vita l’incapacità
umana di risolvere i problemi senza ricorrere alla violenza.

 

Il seme dell’odio

– Chi ha seminato il seme dell’odio? Perché è accaduto quel che
è accaduto? Non basta il fanatismo di Osama Bin Laden e dei talebani afghani per spiegare
la rabbia di una gran parte del mondo verso l’Occidente in generale e gli Stati Uniti
in particolare.

Tutti condanniamo il terrorismo, ma dobbiamo anche porci delle domande,
senza dividere il mondo tra "buoni" e "cattivi", tra
"civiltà" e "inciviltà", come ci suggeriscono molti politici e molti
media. Finché sul nostro pianeta ci saranno moltitudini affette da fame, miseria,
ingiustizia, ci saranno la disperazione e personaggi come Osama Bin Laden (o chi per lui)
pronti ad usarla per i loro fini.

 

Il fondamentalismo – Dei danni prodotti dal sentire
fondamentalista (che non accetta interpretazioni della vita diverse dalla propria) sono
pieni i libri di storia. Al giorno d’oggi, il fondamentalismo islamico è sicuramente
tra i più pericolosi. Innanzitutto, per la forza dei numeri: i musulmani sono oltre un
miliardo, in grande maggioranza nei paesi poveri. Poi perché, attraverso
un’interpretazione distorta dei testi coranici, leaders (chiamiamoli così) islamici
senza scrupoli cercano di alimentare il risentimento di popoli (afghani, iracheni,
yemeniti, pakistani, egiziani, sudanesi ecc.) costretti a vivere in condizioni di grande
privazione.

Ma non possiamo dimenticare tutti gli altri fondamentalismi, quelli che
si sono sviluppati nel Nord del mondo, nei ricchi paesi occidentali. Per esempio,
c’è del fondamentalismo nella dottrina neoliberista che non accetta obiezioni alle
leggi del mercato e del profitto, per le quali non ci sarebbe alternativa nonostante gli
squilibri dell’economia globale siano sotto gli occhi di tutti. "Ciò che è
avvenuto – ha scritto la Rete di Lilliput – è in stretta relazione con la fragilità e
l’intrinseca insicurezza dell’attuale sistema economico e politico dominante che
non riesce a risolvere i problemi che continuano ad affliggere gran parte
dell’umanità. Un mondo che viene rapinato nella ricerca esasperata di profitti a
breve termine e in cui il divario tra i più poveri e i più ricchi aumenta di anno in
anno non può che diventare un invivibile focolaio di tensioni e conflitti".

Ancora: come giudicare l’atteggiamento di George W. Bush e della
sua amministrazione? In pochi mesi di governo, questi signori sono riusciti a rendersi
invisi a una buona parte del mondo per aver stracciato i più importanti trattati
inteazionali: da quello di Kyoto sull’ambiente a quello sulle armi batteriologiche,
da quello sulla regolamentazione delle armi leggere a quello sui missili antibalistici.

Per non dire dell’idea di sviluppare un costosissimo sistema di
"scudo stellare", che rischia di riaprire la corsa agli armamenti. Gli attentati
dell’11 settembre hanno dimostrato la follia e inutilità di quel progetto. I nemici,
invece di utilizzare ordigni lanciati da altri paesi, hanno dirottato quattro voli interni
e li hanno usati come missili. Eppure, ne possiamo essere certi, Bush e altri
riaffermeranno con forza l’indispensabilità dello scudo stellare, che servirà
soltanto a svuotare le casse pubbliche e a riempire quelle delle industrie belliche.

E che pensare dello strano silenzio statunitense circa il conflitto
medio-orientale? Dalla guerra tra Israele e palestinesi nascono tensioni che si riflettono
su tutto il mondo. La soluzione equa di quel problema è un atto che riavvicinerebbe il
mondo islamico all’Occidente. Invece, approfittando della "distrazione
generale", il premier israeliano Ariel Sharon proprio nei giorni degli attentati ha
sferrato sanguinosi attacchi sui territori palestinesi di Gaza e Cisgiordania.

D’altra parte, è evidente che George W. Bush è (almeno fino ad
oggi) un presidente totalmente inadeguato per guidare la superpotenza americana. Tanto che
il grande scrittore messicano Carlos Fuentes non ha esitato a definirlo "un
energumeno ignorante". Prima delle stragi, Bush junior era solito ripetere il motto
"the United States of America first", gli Stati Uniti innanzitutto. Speriamo che
qualcuno lo consigli di anteporre gli interessi dell’umanità, magari facendo
riferimento alle Nazioni Unite, un’istituzione che da anni gli americani tentano
(riuscendovi, purtroppo) di mettere in disparte.

L’eventuale risposta bellica di Bush ed alleati non potrà che
radicalizzare il conflitto tra Occidente e mondo islamico, aumentando l’odio e
accrescendo le fila degli aspiranti kamikaze, pronti a sacrificare la propria vita al
primo cenno del mullah di tuo.

 

Lacrime vere e lacrime false? – In Italia gran parte dei
mass media tenta di far passare la tesi "chi non è con gli Stati Uniti, favorisce i
terroristi e tutti i nemici dell’Occidente". Questa semplificazione è una
vergognosa strumentalizzazione della tragedia e tende ad escludere ogni posizione diversa.
Come avvenne per la guerra del Golfo (1991) e per quella del Kosovo (1999). Che i contrari
alla guerra avessero ragione oggi è sotto gli occhi di tutti: l’Iraq è un paese con
una popolazione alla fame e un Saddam Hussein saldamente al potere, il Kossovo e tutta la
ex Jugoslavia sono una polveriera colma di cadaveri e d’odio.

Da tutte le parti, ci dicono che occorre parteggiare, schierarsi,
scegliere, escludendo ogni posizione diversa. Addirittura, c’è chi parla di morale,
di etica: non essere d’accordo con Bush e la Nato significherebbe mancare di rispetto
alle migliaia di morti sepolti sotto le macerie delle torri del "World Trade
Center" e del Pentagono. Le lacrime di chi vuole applicare la legge del taglione
("occhio per occhio, dente per dente") sarebbero più vere di quelle di coloro
che vogliono ragionare da uomini, declinando parole diverse (dialogo, giustizia, pace,
tolleranza, comprensione) da quelle dei governi e dei potenti (guerra, vendetta, rivalsa,
dominio)?

 

Le due facce della medaglia – Ero a New
York nei giorni attorno a ferragosto. Ovviamente sono andato ad ammirare il panorama dal
110.mo piano delle Torri gemelle. Da quell’altezza, come tutti ho goduto della
splendida vista di Manhattan, uno dei luoghi più fotografati del pianeta. Proprio sotto
c’era il distretto finanziario e la famosa Wall Street. A vedere il mondo di lassù,
tutto sembra (sembrava) all’insegna dell’ottimismo e della ricchezza. Ecco il
punto: in Occidente, in troppi vedono (o vogliono vedere) soltanto una faccia della
medaglia.

Per chiedere un mondo diverso e più giusto, sono stato a protestare
lungo le vie di Genova e, nonostante quanto dicano Silvio Berlusconi, il suo governo e i
suoi giornali, non solo ne sono orgoglioso, ma non avrei dubbi a rifare le stesse scelte.
Per gli stessi motivi, non avrò tentennamenti a scendere in piazza per protestare contro
la follia della guerra, per gridare che un’altra strada esiste.

Pa.Mo.

Paolo Moiola




MADAGASCAR: un angolo controverso di paradiso. Vivi e morti… inseparabili

Madagascar: quasi una grande zattera tra
Asia e Africa, variopinto miscuglio di culture e tradizioni diverse. E dove la morte
riesce a diventare "l’evento più importante della vita".

 

  Atterrando in Madagascar sul piccolo aeroporto di Nosy-Be, costruito a
ridosso di un villaggio di capanne in legno e su palafitte (per staccare la struttura
dalla terra e tenerla asciutta), sembra di essere ritornati indietro nel tempo. Quando,
poi, ci si immette sulla strada che conduce alla parte abitata di Nosy-Be (isoletta a nord
del paese), si resta ancora più meravigliati dallo spettacolo. Si passa attraverso le
coltivazioni più disparate, dai profumi inebrianti, e tra alberi da frutta a profusione;
nella stagione dei monsoni, sembra addirittura di correre su di un tappeto di manghi,
caduti così numerosi dagli alberi che non ci sono mani sufficienti per raccoglierli, né
bocche per mangiarli.

Una decina di chilometri per arrivare a Hell-Ville, capitale dell’isola, con molte
case coloniali francesi; altri dieci chilometri e arriviamo ad una grande scuola, sulla
riva dell’Oceano Indiano, sul lato ovest, in faccia al Mozambico.

Nel gennaio 1999 misi piede per la prima volta a Nosy-Be e, più precisamente, nella
scuola delle "Discepole del Sacro Cuore" di Lecce, che è diventata anche la mia
missione.

Vedendo un costone alto e scosceso a picco sull’oceano, proprio dietro alla
scuola, mi è venuta l’idea di edificarvi una chiesetta bianca, bella e slanciata in
onore della Madonna Consolata: una piccola costruzione, ma che si vedesse da lontano da
piroghieri, motonauti, marinai, vacanzieri, pescatori… da tutti quelli, insomma, che
solcano questo lembo di Oceano Indiano.

Il piccolo sogno è oggi realtà. La Consolata, in questo anno centenario di fondazione
dei suoi missionari, ha una chiesetta sulla più bella isola del Madagascar. Una generosa
signora brianzola, devota da sempre della Consolata, ha sostenuto le spese
dell’opera. Il santuario diventerà certamente una meta di preghiera per chi si
avventurerà su quest’isola di sogno!

 L’isola dei profumi

Nosy-Be, estesa come l’isola d’Elba, è una meraviglia nel suo genere,
esotica e modea, turistica e selvaggia. Situata a 15 chilometri dalla costa del
Madagascar, è di origine vulcanica e montagnosa, con molti laghi formatisi negli antichi
crateri. È chiamata "l’isola dei profumi" per le colture di canna da
zucchero, caffè, vaniglia, pepe, zafferano, zenzero. E merita la reputazione di piccolo
paradiso.

Oltre la metà degli abitanti (circa 30 mila) è cristiana, in maggioranza cattolica,
con minoranze musulmane, indiane e cinesi. La popolazione, tranquilla e accogliente, sa
convivere in pace nella mescolanza delle diverse razze.

A Nosy-Be, con le suore "discepole", ci occupiamo di una grande scuola di
1.030 allievi: una scuola tradizionale che, secondo il sistema francese, parte dalla terza
all’undicesima classe. Le maestre sono suore malgasce ed è, ovviamente, cattolica,
anche se non si fanno differenze di religione. Accettiamo tutti, finché c’è posto.
Le varie religioni convivono senza alcun problema. E questo è bello.

I nostri allievi sono in maggioranza figli di tagliatori di canna da zucchero, il
lavoro più duro che si possa immaginare, un’attività da schiavi, che molte tribù
rifiutano di fare. Il salario è da fame e molti genitori riescono con difficoltà a
pagare la piccola quota mensile per mandare i figli a scuola.

Tuttavia la nostra scuola funziona bene: le suore si impegnano al massimo e i risultati
sono buoni. È forse per questo che tutti vogliono venire da noi, anche perché, molte
volte, sulla regolarità del pagamento chiudiamo un occhio… Ultimamente siamo anche
riusciti a fare adottare i bambini più poveri, con grande sollievo dei genitori.

La scuola inizia alle sette: ed è uno spettacolo assistere all’arrivo degli
scolari, tutti con il grembiulino azzurro, la maggioranza a piedi nudi; chi lungo la
spiaggia e chi attraverso i campi di canna da zucchero. Visi belli e sorridenti,
rispettosi e vivaci.

Vivere per… morire

  Uno dei fatti che più mi ha colpito, arrivando in Madagascar, è la
coabitazione (non sempre facile) tra cristianesimo e certi riti locali legati al culto dei
morti. Oltre la metà dei malgasci è ancora legata alla religione tradizionale, che si
riduce alla venerazione degli antenati.

Le diatribe su questo problema continuano da 180 anni, da quando, cioè, il
cristianesimo è arrivato per la prima volta nella grande isola. Le opinioni divergono:
alcuni ritengono le pratiche dei morti in contraddizione con l’insegnamento di
Cristo; altri come una testimonianza dell’immortalità dell’anima.

La differenza di attitudine tra gli stessi cristiani ha portato a querele, destinate a
durare all’infinito. Fra l’altro, i riti ancestrali prevedono sacrifici di
zebù, funerali stabiliti dallo stregone e rivoltamento dei cadaveri dopo cinque-sette
anni dalla morte, per dare finalmente una sepoltura definitiva al defunto, che diventa
così "antenato".

Come tutte le religioni tradizionali africane, anche quella malgascia afferma che Dio
è buono, ma è lontano ed è meglio lasciarlo tranquillo. Si ha, piuttosto, paura dei
morti e si fa di tutto per tenerseli buoni. Gli antenati conservano la loro identità e i
legami familiari. La credenza considera che tutto il male che arriva in una famiglia
(incidenti, malattie, lutti, difficoltà economiche…) derivi dal mancato rispetto di
certi desideri dei defunti. Pertanto tutti (cristiani compresi) non cessano mai di
sottoporsi a costosi sacrifici in onore dei defunti: in occasione di un matrimonio,
l’acquisto di una piroga, la costruzione di una nuova abitazione. Così, per
tenerseli buoni!

In Madagascar si vive per prepararsi… a morire. La morte segna il passaggio dal rango
di "uomo" a quello di "antenato" ed è caratterizzata da tre cerimonie
fondamentali: i "primi" funerali; l’esumazione e il rivoltamento dello
scheletro (pulito con cura e pitturato di vernice bianca); il "secondo" funerale
(dopo cinque-sette anni), con nuovi sacrifici. In genere il defunto viene sepolto nel suo
campo. Molti di quelli che vivono in città lasciano come ultima volontà di farsi portare
nella terra di origine. "È la morte l’evento principale nella vita di un
malgascio" mi dice un vecchio tagliatore di canna a riposo.

Quando si attraversano le campagne, si incontrano sovente monumenti funebri, negli
stili più diversi, secondo le regioni. Il funerale è una festa e la sua importanza
dipende dalla ricchezza del defunto e dal numero di zebù messi a disposizione dei
partecipanti alle esequie. Alcune tombe, oate da centinaia di coa di zebù, indicano
palesemente la potenza dello scomparso.

A proposito: in Madagascar vivono più zebù che persone. Mentre gli abitanti sono
circa 15 milioni, gli zebù arrivano a 17 milioni e ogni famiglia ne possiede almeno uno,
che alleva per il prossimo lutto.

Frammenti di culture diverse

Non è possibile stabilire quale sia stata la stirpe originaria del Madagascar. Le 18
etnie principali che oggi l’abitano mostrano un’incredibile varietà di tratti
somatici, tanto da rendere impossibile ogni generalizzazione.

Crocevia geografico tra Asia, Africa, Arabia e occidente, in Madagascar si ritrovano
elementi culturali di mille paesi: il riso coltivato a terrazze come in Indonesia; le
piroghe a bilanciere dei polinesiani; i libri di magia scritti in arabo;
l’allevamento brado, caratteristico delle tribù seminomadi africane; i mercati e
negozi indiani; chiese cattoliche e protestanti, abbinate in ogni centro abitato;
l’amministrazione pubblica, fotocopia di quella francese.

L’isolamento millenario del Madagascar ha fatto sì che gli elementi portati da
ciascuno si mescolassero e sviluppassero in modo originale. Natura e cultura hanno seguito
una strada propria, rispetto agli altri popoli continentali.

Sulla grande "isola rossa" vivono molte specie di serpenti, ma nemmeno uno è
velenoso; moltissimi gli animali nella foresta, ma neppure uno feroce. Alcune specie di
animali ed uccelli sono veramente prolifiche nel Madagascar; famosissimi i lemuri,
proscimmie graziose e mobilissime, sovente considerate portatrici di malocchio dalla
popolazione (che li perseguita).

Quasi tutti i malgasci hanno la pelle nera, ma nella forma degli occhi, i capelli
lisci, i nasi stretti, gli zigomi sporgenti… si legge l’oriente che è passato di
qui. E si è anche fermato. Un villaggio tipico malgascio, anche il più sperduto, ha una
chiesa protestante, una cattolica e sempre un emporio con un cinese o un indiano dietro il
banco di vendita. No, i malgasci non amano il commercio e continuano pacifici sulla strada
della tradizione, che li vede da sempre agricoltori e allevatori di zebù.

Una cosa importante: non dite ad un malgascio che è africano! Il Madagascar non si
riconosce nel continente. Come una grande zattera che galleggia sull’Oceano Indiano,
l’isola si richiama piuttosto all’Asia, non senza una certa fierezza, dovuta a
parentele lontane e misteriose. La distinzione arriva talvolta a una certa forma di
razzismo, sul quale si è fondata la stratificazione sociale di oggi, ben prima
dell’arrivo dell’uomo bianco.

Al di là di tutte le teorie, il colore della pelle nera, bruna o chiara, è un
criterio essenziale di classificazione dei malgasci stessi tra di loro: più la pelle è
scura e meno l’origine è nobile. Una semplice osservazione della folla la dice più
lunga di qualsiasi discorso scientifico. Tinte nere, gialle o ramate, capelli lisci o
crespi, occhi stretti o molto aperti: il miscuglio è evidente e dà seguito a
combinazioni tra il tipo malese dalla pelle chiara, il nero oceanico e il nero africano.

La fusione delle razze è la conseguenza diretta di un popolo che ha tante origini
quante sono state le ondate migratorie negli ultimi 15 secoli.

È vero che il Madagascar occupa (ahimè!) uno degli ultimi posti in tutte le
classifiche e statistiche disponibili: 13° paese più povero del mondo, 5° più
"dipendente" dagli aiuti estei, 12° tra i più assistiti. È anche il
penultimo, dopo il Tibet, nell’uso di concimi chimici e, dunque, il secondo paese nel
praticare un’agricoltura biologica ed ecologica, grazie alla povertà dei contadini.
La condizione di miseria della "grande isola" sembra sfuggire a ogni logica.

Nonostante gli aiuti e il sostegno, il paese continua a sprofondare. E tutti gli
esperti concordano nel dire che l’isola possiede un potenziale enorme, che dovrebbe,
invece, permetterle di svilupparsi in fretta.

Noè Cereda




Dialogo interreligioso. Sull’onda del grande fiume

Il documento pontificio "Dialogo e
annuncio" ha 10 anni. Un testo che, già nel titolo,

rompe un po’ gli schemi. Perché il dialogo dovrebbe seguire
l’annuncio,non viceversa.

Ma il primo non intacca né minimizza il secondo. Dialogo per cogliere "i
segni dei tempi".

 

Dal Concilio ecumenico Vaticano II è scaturito un fiume, come il Po dalle rocce del
Monviso… Il 7 dicembre 1965, mentre il Concilio chiudeva i battenti, apparve la
costituzione Gaudium et Spes, con la quale la Chiesa dichiarava di voler dialogare con il
mondo: "con tutti gli uomini del mondo", e "non solo con coloro che
invocano il nome di Gesù Cristo", "per instaurare la frateità
universale", per salvare e non per condannare, per servire e non per essere servita
(2-3).

È il fiume del "dialogo fraterno", la più grande scoperta del secolo. È un
poema sinfonico… come il fiume Moldava, che Smetana (1824-1884) coglie allorché nasce
da due sorgenti e gorgoglia gaio tra le pietre luccicando al sole, poi si allarga e le sue
rive echeggiano di voci… per giungere alla rapida di san Giovanni, sulle cui rocce le
onde si infrangono spumeggiando: di là il fiume scorre largo verso Praga…

Parlare non È dialogare

Come non pensare, nel parlare di "dialogo", ai 34 dialoghi di Platone
(427-348 a.C.)? Specie a quello tra Eutifrone e Socrate, sorpresi mentre si dirigono al
tribunale: il primo per accusare suo padre di omicidio, poiché aveva lasciato morire un
servo; il secondo perché accusato da Meleto di corrompere i giovani e di fabbricare nuovi
dèi.

Il discorso sale e scende quando i due si intrattengono sul concetto di
"santo" e, più propriamente, su che cosa significhi "pio" o
"empio". Un dialogo divertente e sottilissimo. Alle domande stringenti di
Socrate, Eutifrone conclude: "Non so che dirti, perché qualunque definizione ci
mettiamo avanti, ci gira sempre attorno, e non c’è verso che voglia star ferma nel
punto che la mettiamo". È quanto avviene in ogni dialogo.

La Chiesa ha sempre parlato, ma un conto è parlare un altro dialogare. La Chiesa al
Concilio ne scopre la novità, il suo valore sociale, politico, economico, scientifico,
religioso, ecumenico, interreligioso…

Il dialogo è una chiave capace di aprire tutte le porte, se ben usata: non per
nascondere ciò che si possiede o per barattarlo sottobanco, ma per mostrarlo per ciò che
è, confrontarlo, arricchirlo, accettando le diversità. Le tante diversità che non è
sempre possibile eliminare, ma che è sempre possibile riconciliare, accettare, tollerare,
per non continuare a scannarci: cattolici contro protestanti e viceversa, cattolici contro
ortodossi e viceversa, cattolici contro musulmani e viceversa…

Quante volte il battesimo viene ridotto a proselitismo a favore di una congrega a
scapito di un’altra, specialmente nel passato.

Nel romanzo Jenny di Anya Seton, ambientato nell’Inghilterra del XVIII secolo, si
racconta di un pastore che battezza una bimba, pronunciando la formula: "Jane
Radcliffe, figlia della Covenant, io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo". Qui la forza della formula non sta tanto nelle tre persone divine, ma
nella "figlia della Covenant" (convenzione, patto). Era anche la professione di
fede nazional-religiosa degli scozzesi, che dopo una lunga lotta vennero sottomessi al
rito anglicano.

Pagine da cancellare

C’è anche un problema a monte, che la teologia appena sfiora perché si tratta di
"sabbie mobili". È l’esistenza delle "guerre sante",
dell’arroganza religiosa, compresa la "bellicosità cristiana".

Un esempio classico è il profeta Elia, che si ritiene autorizzato ad uccidere 450
sacerdoti di Baal: "Afferrate i profeti di Baal – comanda Elia -; non ne scappi
neppure uno. Li afferrarono. Elia li fece scendere nel torrente Kison, ove li
scannò" (1 Re 18, 20-46). Un Elia fanatico che deve imparare che Dio non si
manifesta nella tempesta, ma nel mormorio del vento (1 Re 19, 1-13).

Si rimane incantati dalla nostalgica poesia dei deportati ebrei a Babilonia:

"Sui fiumi di Babilonia

là sedevamo piangendo

al ricordo di Sion.

Ai salici di quella terra

appendemmo le nostre cetre…".

Ma questi esuli esigono da Dio il pareggio, e il salmo 136 termina con le terribili
parole:

"Beato chi afferra i tuoi piccoli

e li sbatte contro la pietra!".

Quando leggiamo: "A me la vendetta, dice il Signore" (Rom 12, 19), è per
toglierla di mano agli uomini?

Il dialogo "urlato" non serve. Se in una assemblea le lingue ufficiali
superano la ventina, si è vicini a Babele.

Voltaire, nel suo Dizionario filosofico, sulla voce "tolleranza" scrive:
"Un giunco, piegato dal vento contro il fango, dovrà forse dire al giunco vicino
piegato in un senso contrario: "Striscia come striscio io, miserabile, o ti
denuncerò per farti sradicare e bruciare"?".

E, all’inizio della voce "tolleranza", Voltaire pone la domanda:

"Perché noi ci siamo scannati quasi senza interruzione, a partire dal primo
concilio di Nicea?…

Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le
nostre balordaggini. È la prima legge di natura". Voltaire ricorda pure che, negli
organi di una volta, c’era il registro chiamato "voce umana".

documenti significativi

Dal 7 dicembre 1965 il fiume limpido e possente del dialogo ha iniziato una discesa a
valle; si è diviso in canali per irrigare meglio paesi e continenti, erosi dalla
diffidenza ed intolleranza. Altri torrenti, col passare degli anni, sono confluiti nel
fiume ingrossandone la portata.

Dal 1965 ad oggi sono oltre una decina i documenti ufficiali che la Chiesa ha fatto
uscire, a conferma dell’importanza capitale del dialogo: anzitutto le lettere di
Paolo VI Ecclesiam suam nel 1964 (quasi una introduzione alla Gaudium et Spes) ed
Evangelii nuntiandi nel 1975. Nel 1984 il Segretariato per i non cristiani ha pubblicato
"L’atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci delle altre religioni –
Riflessioni e orientamenti su dialogo e missioni". Nel 1990 è arrivata
l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris missio.

Dieci anni fa il pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e la Congregazione
per l’evangelizzazione dei popoli, dialogando tra loro, hanno pubblicato
"Dialogo e annuncio – Riflessioni e orientamenti sul dialogo interreligioso e
l’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo". È un documento significativo perché
è nato da un’esperienza di dialogo fra i due dicasteri.

Nel frattempo il grande fiume del dialogo si è imbattuto in dighe, sbarramenti,
cateratte, pozzanghere. In alcune regioni cristiane il dialogo è interpretato come
un’oscura provocazione; ci sono ecumenismi senza sbocchi; ecumenismi che minacciano
di cadere nella trappola del relativismo (per cui tutte le verità si equivalgono) o del
confusionismo. Si finisce anche col dire: "La mia religione è migliore della
tua".

Si svolgono ovunque congressi, convegni, tavole rotonde che hanno per titolo: "La
Chiesa dialoga con la città". Difficilmente avviene il contrario: che una città,
nelle sue varie istituzioni, prenda l’iniziativa. Si lanciano piani di pastorale,
dove il dialogo appare come contorno, valvola di sicurezza, ruscelletto grazioso o canale
di scolo.

L’ultimo documento ricordato "Dialogo e annuncio" (di cui si celebra
quest’anno il decennio) ha un paragrafo dal titolo "Ostacoli al dialogo" e
ne enumera 11. Il paragrafo inizia così: "Già solo sul piano puramente umano non è
facile praticare il dialogo. Il dialogo interreligioso è ancora più difficile";
tuttavia "malgrado le difficoltà l’impegno della Chiesa nel dialogo resta fermo
e irreversibile" (n. 54).

Necessario questo dialogo anche all’interno della Chiesa a cui apparteniamo. Non
solo con i "fedeli attivi", ma anche con quelli (forse più numerosi) che, senza
essere contrari, sono inattivi, quasi "forestieri", che non comprendono del
tutto il nostro modo di parlare, disposti a ricevere una "benedizione di Dio",
se non un "sacramento".

E poi ci sono i "lontani".

 

I n conclusione, specie con i fedeli "inattivi" e "lontani", si
potrebbe prendere come esempio di dialogo anche Giacomo Leopardi.

Il grande poeta compose il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez. La
scena è nottua, in alto mare, su una gracile caravella. Colombo e Gutierrez conversano
sui motivi che li hanno spinti all’avventura, alla scoperta di nuove terre che non
appaiono.

Colombo: Buona notte, amico.

Gutierrez: Bella in verità: e credo che a vederla da terra sarebbe più bella.

(Ma la terra dov’è? Colombo, per il riverbero della terra vicina, ne sente quasi
il profumo).

Colombo: Da certi giorni in qua lo scandaglio, come sai, tocca fondo; e la qualità
della materia che gli vien dietro mi pare indizio buono. Verso sera, le nuvole intorno al
sole mi si dimostrano d’altra forma e di altro colore da quelle dei giorni innanzi.
L’aria, come puoi sentire, è fatta un poco più dolce e più tepida di prima. Il
vento non corre più, come per l’addietro, così pieno, né così diritto, né
costante; ma piuttosto incerto e vario, e come fosse interrotto da qualche intoppo.
Aggiungi quella canna che andava in sul mare a galla, e mostra essere tagliata da poco; e
quel ramicello di albero con quelle coccole rosse e fresche. Anche gli stormi degli
uccelli, benché mi hanno ingannato altra volta, nondimeno ora sono tanti che passano, e
così grandi; e moltiplicano talmente di giorno in giorno che penso vi si possa fare
qualche fondamento; massime che vi si veggono intramischiati alcuni uccelli che, alla
forma, non mi paiono marittimi. In somma tutti questi segni raccolti insieme, per molto
che io voglia essere diffidente, mi tengono pure in aspettativa grande e buona.

Gutierrez: Voglia Dio questa volta ch’ella si verifichi.

È il dialogo sui "segni dei tempi". Anche Gesù invitò a non trascurarli.
Il Concilio, a sua volta, come materia di dialogo, proclama che è dovere della Chiesa
scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo (Gaudium et Spes, 4).

Igino Tubaldo




India. Ai margini dei templi indù

Ci si immerge in folle numerose,
variopinte e tumultuose. L’India è un subcontinente

anche per gli abitanti, che superano il miliardo e parlano circa 300 lingue,
espresse

talora in alfabeti diversi: con una cultura di 4 mila anni e marcate differenze fra
nord e

sud… L’impegno di alcune missionarie, mentre i cristiani contano solo il
2,3%. Una

presenza di qualità, in barba ad ogni fanatismo.

 

Tutte le classi sociali

Siamo a Mumbai, come si chiama oggi Bombay. Qui esiste un legame con il nord
dell’India. Si parla anche l’hindi, che il governo di New Delhi si sforza di far
diventare lingua nazionale. I giornali in hindi sono abbastanza diffusi, a differenza del
sud. La città merita attenzione per il crogiolo di culture, come ogni grande porto. Si
contano 16 milioni di abitanti: appartengono a tutte le classi sociali, dall’enorme
ricchezza alla più desolante miseria.

È significativo il lungomare della Colaba. Percorrendo anche meno di un chilometro, si
attraversano ambienti molto diversi: un grande hotel di lusso, altri alberghi di
differenti livelli e povere abitazioni. Attoo agli alberghi stazionano tanti mendicanti
e piccoli venditori di gelati, bibite e arachidi abbrustolite in loco. Quest’ultima
attività è singolare, in quanto tutta la proprietà del venditore consiste in un vassoio
rettangolare di legno, con i bordi rialzati e di dimensioni tali da poter essere montato
sul manubrio della bici. Il vassoio raccoglie le arachidi, un foelletto a carbone e
piccoli coni di carta, ricavati da pagine di giornale, in cui vengono servite le arachidi.

È una modestissima attività, che tuttavia richiede alcune conoscenze: sapere dove
acquistare al meglio il carbone e le arachidi (analisi di acquisto), come abbrustolirle
(tecnologia) e quante tenee pronte per non fare aspettare e perdere i clienti (analisi
di mercato).

Ancora, sul lungomare della Colaba, è attivo un vasto e curato mercato di frutta e
verdura. I mercati (specie in oriente) sono un condensato di folla e costumi. In quello
della Colaba è possibile rendersi conto dei modi di vivere e delle "tolleranze"
(a sfondo religioso) innate negli abitanti. Ecco alcune mucche aggirarsi fra i banchi, con
licenza di pascersi di foglie in modo tale, però, da non incidere sull’igiene della
merce… mentre i passerotti si posano su mucchi di piselli sgranati cibandosene; altri
uccelli saltellano sui sacchi di riso satollandosi. I negozianti non intervengono,
complice l’indifferenza degli acquirenti.

i compiti sulla strada

Il quartiere sulla Colaba confina con un villaggio di pescatori brulicante di vita,
certamente al di fuori dei circuiti turistici. Ciò fa sì che, inoltrandosi nelle viuzze,
si è oggetto di non curanza, ma più spesso della sorridente curiosità di giovani e
bambini, che rivolgono al visitatore il saluto. Fra le casupole non circola certo la
ricchezza, ma neanche la miseria; è una società che si sforza di trovare un equilibrio
sociale nella vita quotidiana.

Sulla larga via che costeggia il mare, il traffico è modesto, poiché la strada muore
nei vicoli stretti del villaggio. A sera, dopo il rapido tramonto del sole, il traffico
cessa del tutto. A questo punto si assiste ad un fatto sorprendente: dalle case sciamano
in strada tutti gli abitanti, che si raccolgono a chiacchierare sulla via: donne con
donne, in gruppi separati per età; analogamente avviene per gli uomini, i giovani e i
bambini. Si conversa in piedi o accovacciati per terra su coperte portate da casa, sulle
quali qualcuno passerà la notte.

Nel cono di luce proiettato da un lampione, scoviamo alcuni bambini con i quadei
aperti sul manto stradale: stanno facendo i compiti giornalieri. Come spesso accade con i
bambini, siamo subito circondati e tempestati di domande relative al nostro nome, la
provenienza. I bambini di età intermedia ci presentano il loro "decano", che
frequenta la settima (l’ultima classe delle elementari). Deve essere bravo negli
studi, perché tutti ne lodano le capacità, con l’interessato che annuisce.

Il ragazzo, come i suoi compagni, a scuola studia anche il maharastra (la lingua
locale), l’hindi e l’inglese; il che non è di poco conto, trattandosi di idiomi
diversi anche per alfabeto. Il quaderno, che il ragazzo ci lascia esaminare, è ben
tenuto, con gli esercizi accuratamente svolti.

Se fossimo cento…

A oriente di Mumbai, nelle vicinanze di Aurangabad, si trovano le grotte di Ajanta e
Ellora. In realtà sono grandi costruzioni scavate nella roccia, in modo da ricavare
ambienti dotati di gradini, colonne, statue e bassorilievi. La realizzazione di tali opere
risale al II secolo a.C. fino al X d.C.; denota una grandissima abilità di progettazione
ed esecuzione. Infatti il lavoro non permette errori, giacché tutti gli elementi
architettonici vengono ricavati sul posto dal "pieno" della roccia, e non
trasportati in loco dopo essere stati realizzati altrove.

L’origine dei monumenti (protetti dall’Unesco come patrimonio
dell’umanità) è legata al buddismo, che ha avuto una grande diffusione nel
centro-nord dell’India. Ma, dal VI secolo d.C., l’induismo ha ripreso il
sopravvento. Intanto è continuata la costruzione delle grotte con templi indù.
Successivamente si sono aggiunti templi della religione jain, che costituisce una
evoluzione radicale dell’induismo. È curioso che, in tale regione, il 75% della
gente sia musulmana, anche se le donne vestono il sari e, quindi, non sono distinguibili
(per gli occidentali) dalle indù.

Le grotte testimoniano un senso religioso, che si avverte anche in aspetti
apparentemente secondari, come i segni colorati (rifatti ogni giorno) sul volto delle
persone.

L’attenzione degli indiani al socio-religioso è molto diffuso. Sul quotidiano
Times of India ogni giorno c’è la colonna "Spazio sacro": appaiono massime
di grandi pensatori e frasi religiose (anche del vangelo).

In Times of India del 23 marzo 2001 si leggeva: "Se gli abitanti del mondo fossero
100, scopriresti che 57 sono asiatici, 21 europei, 14 occidentali (non europei) e 8
africani; 30 di razza bianca e 70 non bianca; 52 femmine e 48 maschi; 30 cristiani e 70
non cristiani.

Se possiedi una casa, hai da mangiare e sai leggere, appartieni ad una élite pari a
meno del 25% dell’umanità. Se hai una bella casa, cibo a volontà, leggi e giochi
con il computer, appartieni ad una élite ancora più ristretta. Se ti sei alzato in buona
salute, sei più fortunato dei milioni di persone che questa settimana non
sopravviveranno.

Se non hai mai sperimentato il pericolo della guerra, la solitudine della prigionia,
l’agonia della tortura e gli spasimi della fame, non condividi la sorte di 500
milioni di persone. Se frequenti cerimonie religiose senza paura di vessazioni, arresti,
torture o morte, sei più fortunato di 3 miliardi di persone.

Se sai leggere questo messaggio, sei più fortunato di 2 miliardi di persone.
Trasmettilo per far sapere quanto siamo ricchi…".

onore al dio shiva

Lasciando Chennai (o Madras) e procedendo verso il sud, ci si inoltra in un’India
diversa. L’hindi è usato solo in attività governative. E sembra che le attuali
popolazioni non abbiano ancora assimilato l’invasione ariana di 4 mila anni fa!

Mentre il nord è famoso per i palazzi (opera spesso degli imperatori indo-musulmani
moghul), il sud è celebre per i templi indù, espressioni delle culture dravidiche
indigene. Sono opere anche gigantesche, articolate su aree di parecchi ettari. I templi
sono meta di pellegrinaggi e occasioni di feste che durano diversi giorni.

Una sera, a Kottayam, assistiamo ad una festa in onore del dio Shiva. L’ampio
piazzale del tempio è saturo di folla e bancarelle di venditori. Sul pronao, cui si
accede tramite una larga scalinata, si impongono cinque elefanti affiancati: ogni animale
è riccamente bardato e montato da un conducente. Altri inservienti reggono lunghe aste,
sulle quali ardono cinque lampade simmetriche, alimentate con olio. Gli addetti alla
cerimonia sono a torso nudo e indossano una lunga gonna, tipica degli uomini. Un suonatore
di una sorta di oboe, dal suono nasale, emette un motivo ossessionante, amplificato dal
microfono e accompagnato da percussioni martellanti. Il rumore è assordante e si
percepisce un’atmosfera inquietante. La festa dura l’intera notte.

Nei templi si venerano tutte le divinità del panteon indù, con particolare devozione
a Shiva e Visnù. Gli edifici sono interessanti per l’architettura, le sculture e
qualche dipinto. È pure interessante osservare la quantità e varietà di fedeli: intere
famiglie di contadini e persone di ceto sociale anche elevato, che però si mescolano in
un unico turbinio di folla variopinta.

Un accenno ai vestiti delle donne. Nel sud l’abito è praticamente il sari. Però
non c’è un sari uguale all’altro. I colori, i disegni e il modo di portarlo
foiscono ai locali tante informazioni, che agli stranieri sfuggono. La vivacità e
l’accostamento dei colori è un retaggio delle giovani come delle anziane: infatti si
vedono signore canute indossare sari sgargianti e lucenti, essendo tessuti pure con fili
che appaiono metallici.

Con le domenicane

Nel marzo scorso sono stati resi pubblici i risultati del censimento nazionale. Oggi
gli indiani ammontano a 1 miliardo e 27 milioni, di cui il 52% maschi. Il censimento
rivela che la differenza numerica fra uomini e donne sta riducendosi. Non è un dato
trascurabile: indica, infatti, che nella nascita si sopprimono meno bambine rispetto ad un
tempo. Ma la pratica è tutt’altro che estinta.

Madre Domenica Farinaccio, delle domenicane della Madonna del Rosario di Iolo (Prato),
che vive nel Rosary Convent di Chocin, ci dice che una famiglia non ricca, con figlie da
maritare, incontra enormi difficoltà. Questo perché, per sposare una ragazza, si
richiede come minimo una dote di 4-5 milioni di lire: una somma irraggiungibile per la
maggioranza delle famiglie. Ne consegue talora il suicidio dei genitori (specie dei
padri), quello delle figlie e prostituzione. Secondo suor Domenica, se una ragazza in età
da marito non si sposa in tempo, diventa l’oggetto di tutti.

Uno degli impegni delle missionarie è quello di dare un mestiere alle ragazze ed anche
di costituire un fondo per la necessaria dote del matrimonio.

Le statistiche governative rivelano anche una riduzione dell’analfabetismo, che
tuttavia affligge ancora il 25% dei maschi e il 46% delle femmine. Nel Kerala
l’analfabetismo tocca solo il 10%: merito anche dei cattolici che nella regione
raggiungono il 28%, a fronte però di meno del 2,3% (compresi i protestanti) su base
nazionale.

Le domenicane gestiscono una rinomata scuola elementare, con insegnanti governativi (ma
pagati dalle suore) e oltre mille allievi indù, musulmani e cattolici. Si versa una
retta, e gli allievi delle famiglie povere sono aiutati affinché possano accedere alla
scuola. Le missionarie gestiscono anche degli ambulatori, con laboratori di analisi, e
dispensari a Chocin e dintorni.

La presenza cattolica si manifesta in varie chiese e scuole: il Kerala rimane comunque
una regione a maggioranza indù.

Le missionarie domenicane sono 22 e 16 le aspiranti indiane. Non operano in un ambiente
scevro da pericoli. Quasi ogni settimana sui giornali si legge di aggressioni a cristiani
da parte di fanatici indù. Un trafiletto, apparso durante il nostro soggiorno, riportava
la notizia di una preghiera serale, interrotta da alcune persone (tre poi arrestate):
hanno malmenato il sacerdote e vari fedeli, hanno strappato e bruciato pagine del vangelo,
diffidando il prete.

Questi episodi, contrari alla tradizionale tolleranza indiana, stanno diventando
frequenti, all’ombra di un governo impotente a controllare il partito dei
fondamentalisti indù, piccolo ma indispensabile per formare la maggioranza governativa.

Né si scordi che in India la donna è "subordinata", se non peggio. Ciò
nonostante, le "donne" della Madonna del Rosario, da sole ottengono risultati
notevoli. Accolgono i più poveri, senza fare cortei; aprono ambulatori e non bruciano
beni pubblici; nutrono i meno abbienti, senza distruggere McDonald’s.

Pier Giorgio Motta




Globalizzazione: l’opinione di Riccardo Petrella

Nel conflitto dell’«oro blu»

Intervista rilasciata nell’ambito
della "Scuola per l’alternativa" (fondata a Torino dai missionari della
Consolata, Cisv e Vis). Temi affrontati: ideologia della competitività, "oro
blu", inevitabilità della globalizzazione, mercificazione delle culture.

L’interlocutore è un "europeo": presidente del "Fast",
fondatore del "Gruppo di Lisbona",docente e autore di testi di economia
politica.

 

 Professor Petrella, cos’è il Fast, di cui lei è stato presidente?

"Fast" (Forecasting and Assesment in Science and Technology) è stato un
programma della Commissione europea di previsione e valutazione delle conseguenze
economico-sociali della scienza e tecnologia: circa il lavoro, l’energia solare, la
clonazione delle cellule. Individuati e giudicati i fenomeni, occorreva operare per
scongiurare gli aspetti negativi.

  Oggi lei è presidente del "Gruppo di Lisbona", dopo
essee stato fondatore. Con quale scopo?

Nel 1991 ho fondato il "Gruppo" invitando una ventina di studiosi, impegnati
nella scienza e nella politica, a scrivere un manifesto contro l’ideologia della
competitività: questo perché, lavorando nel "Fast", avevo notato che in
occidente la scienza serviva in grande scala le imprese nazionali e private sui mercati
mondiali. È una perversione che in Italia, per esempio, lo scopo principale dello
sviluppo tecnico, scientifico e politico sia quello di consentire alle imprese di essere
competitive.

  Questo discorso, nel "Fast" e nel "Gruppo di
Lisbona", è rivolto agli imprenditori, ai politici o anche alla gente comune?

Il "Fast" aveva come scopo di elaborare una politica della scienza-tecnologia
per i leaders dell’Europa; invece il "Gruppo di Lisbona" è
un’iniziativa per parlare alla gente. Al posto dell’ideologia della
competitività, abbiamo proposto che la scienza e tecnologia creino una maggiore ricchezza
mondiale, con beni comuni, per permettere a tutti il diritto alla vita.

  Vi siete pure dati un appuntamento per il 2020. State conseguendo
qualche risultato?

Abbiamo detto: diamoci 20-25 anni di coscientizzazione, affinché la scienza e
tecnologia consentano a tutti il diritto all’acqua, all’alimentazione, alla
salute. Ma i capi dell’Unione Europea, a partire dalla Commissione presieduta da
Prodi, riaffermano la subordinazione della scienza alla competitività delle imprese. Nel
marzo del 2000, al Vertice di Lisbona, i 15 governi dell’Unione hanno sottoscritto il
documento "E Europe" (Europa elettronica): hanno accolto la tesi che saremmo
diventati e economia, e politica, e sanità, e istruzione. Tutto è elettronico, al
servizio della competitività esasperata.

  Di conseguenza lei punta ad una istruzione diversa e mette tutti in
guardia da alcune "trappole". Oggi non vale più l’"io so… quindi
posso"?

Vale, eccome! Altrimenti, che ci farei all’università?

  Ma ci sono delle trappole. Quali?

La prima trappola è l’istruzione al servizio delle risorse umane, e non della
persona. Si dice: a scuola ci vai per diventare una risorsa redditizia e sfruttabile sul
mercato, non per crescere come cittadino critico.

Seconda trappola: la formazione necessaria è quella che permette di aumentare la
competitività del paese. Quindi c’è una separazione crescente tra conoscenze
"utili" e "non utili". L’"utile" riguarda la finanza,
il marketing, l’informatica. Oggi se, nel consiglio di amministrazione
dell’università, proponi una cattedra di letteratura bizantina, ti deridono perché
"a che serve"? Ma, se sostieni una cattedra per insegnare le tecniche di
riconoscimento della voce… del frigorifero (che, al tuo "apriti!", risponde
"sì, amore!"), allora tutti ti applaudono.

Piano piano (terza trappola) trasformiamo l’educazione da servizio pubblico e
collettivo ad una attività mercantile, subordinandola alla logica dei prezzi. La scuola
non è più un bene per tutti, ma soltanto di chi paga: è merce. Grazie ad internet, a
distanza non si vende solo il profumo personalizzato, ma anche il programma educativo. È
nata l’università virtuale, con studenti che pensano di autoeducarsi on line. Una
delle trappole più negative!

Ma ce n’è un’altra più pericolosa ancora: l’educazione come
legittimazione delle disuguaglianze sociali, dovuta alla disparità di conoscenze.

Si dice: poiché tutti hanno pari opportunità iniziali di studiare, se tu non ce la
fai, la colpa è solo tua.

  Il che è falso.

Spudoratamente falso, perché di fronte allo studio non c’è par condicio. A
prescindere dal sud del mondo, mi riferisco anche agli studenti del medesimo quartiere in
Europa. I miei figli sono andati a scuola, come quelli dell’emigrato marocchino (che
abita sulla stessa via a Bruxelles), ma con risultati diversi: e non perché i figli miei
siano più intelligenti. Le ragioni della disparità di rendimento sono altre. In Belgio
il 20% degli studenti frequenta l’università e (guarda caso!) il 92% di costoro
appartiene a famiglie ricche.

 

Professor Petrella, nel suo libro Il manifesto dell’acqua, lei affronta
un’altra disparità, legata al problema dell’"oro blu", cioè
l’acqua. Che dire dell’"oro blu" in Africa nella tragica guerra dei
"Grandi Laghi"?

Nella regione dei Grandi Laghi è evidente che una delle cause del conflitto è
l’accesso alle risorse idriche.

Ma esiste anche il problema mondiale dell’"oro blu", che è un discorso
di dominio. Perché l’acqua è "oro"? Perché è stata mercificata,
conferendole il valore di scarsità, rarità, preziosità… Il 70% dell’uso
dell’acqua è per fini agricoli, il 20% per scopi industriali e il 10% per impiego
domestico. E si dice: siccome l’acqua agricola e potabile è inquinata, bisogna
purificarla. Così diventa "oro" sempre più costoso.

  Ma l’acqua da chi è inquinata?

È questo il punto, perché se rimoviamo le cause dell’inquinamento delle acque,
non sarebbe più "oro".

Poi si dice: nei prossimi 20 anni la popolazione nel mondo crescerà di 2 miliardi, con
un ingente fabbisogno di acqua, mentre le risorse idriche resteranno stabili. E chi usa
l’acqua? L’occidente consuma l’88% delle risorse idriche mondiali per
l’agricoltura, il cibo, l’igiene, ma anche per l’industria: occorrono 400
mila litri di acqua per i 3 mila pezzi di un’auto. Siamo nel settore automobilistico,
che copre solo il 20% del mondo industriale. In media un europeo consuma acqua 80 volte di
più di un asiatico. Quindi 1 milione di italiani consuma acqua quanto 80 milioni di
indiani. Allora il problema non è la crescita demografica nel sud del mondo, ma la gente
nel nord; è la conservazione del sistema economico nel nord, assetato anche di acqua.

  Acqua minerale (imbottigliata) o del rubinetto?

Io parlavo dell’acqua del rubinetto. La minerale esige un’altra riflessione.
Oggi sembrerebbe che il 52% degli europei bevano solo acqua minerale (con l’Italia in
testa), che costa 500-1000 volte di più di quella potabile del rubinetto. In Italia
l’acqua che si beve maggiormente è San Pellegrino (della Nestlé) e Ferrarelle
(Danone). Dati i prezzi, gli affari sono elevati. Ma bisogna stigmatizzare anche il
comportamento dei consumatori. Inoltre va ricordato che l’acqua del rubinetto è più
sana di quella minerale. Questa, secondo la legge italiana, non è considerata potabile,
bensì terapeutica, che il marketing ha trasformato in bene di consumo. Nelle acque
minerali si possono trovare dosi di arsenico.

 

Questo è terrorismo psicosociale?… L’attuale sistema economico non
avrebbe alternative. È noto l’acrostico "Tina" (cioè "There is no
alternative"), di cui si fa scudo la globalizzazione. O l’alternativa c’è?

Non esiste l’inevitabilità nei sistemi economici. Se al presente privatizziamo
tutto, non significa che non ci siano progetti economici alternativi. L’Inghilterra
con la Thatcher ha privatizzato le ferrovie, però oggi discute se nazionalizzarle,
perché "i treni sono usciti dal binario"… Dal 1945 al 1973 vigeva un sistema
finanziario internazionale basato sul cambio fisso, con un tasso di crescita mediamente
più confortante rispetto al 1973-98, quando i cambi non sono più stati fissi e si è
imboccata la via della privatizzazione. Può darsi che si ritorni al sistema precedente…

Il MAI (1) era ritenuto inevitabile, ma fu bloccato. Nel software per ora vince
Microsoft, ma Linus potrebbe prendersi la rivincita, perché nulla è scontato. Anche
"il popolo di Seattle" (a prescindere dalle violenze di pochi scalmanati)
dimostra che la globalizzazione non è l’unico modo di impostare l’economia.

Il 27 aprile il papa, all’Accademia delle scienze in Vaticano, ha detto
che la globalizzazione a priori non è né positiva né negativa; dipende dall’uso
che se ne fa…

In una valutazione a priori Giovanni Paolo II ha ragione. Però, calandoci hic et nunc
nella realtà, non si può dire che "questa" globalizzazione sia neutra.

  Per questo il papa pone dei limiti: l’attenzione alla persona
e il rispetto di tutte le culture. Diversamente, la globalizzazione è colonialismo.

Però attenzione al tranello, perché la globalizzazione accetta le diversità di
cultura. Oggi le potenze scientifiche mediatiche ostentano di valorizzare, per esempio, la
religiosità plurimillenaria dell’Asia grazie ad internet. E lo fanno. Poi c’è
lo studio delle lingue…

  Ebbene, dov’è il tranello?

Il tranello è che ti offrono solo culture "mercificate". Si accettano altri
modi di vestire, mangiare e cantare, ma non di pensare. Non si accetta una politica
diversa da quella occidentale. Qui il papa ha ragione quando parla di colonialismo.

I dominatori della globalizzazione vogliono convincerci che "le guerre di
civiltà" sono inevitabili. È una tesi condivisa pure da indù e musulmani, fautori
delle "guerre di religione" per difendersi, specie se minoritari. Perché gli
indù ammazzano i musulmani in India e viceversa in Indonesia? Perché i cristiani (se
possono) vogliono conquistare il mondo con l’evangelizzazione? I dirigenti, invece di
promuovere sempre il rispetto dell’altro, ne criticano la mancanza solo quando loro
conviene. La difficoltà del missionario o dell’intellettuale è eloquente: pur
aperti, sono sempre parte di una cultura che li condiziona. L’arroganza del
"pensiero unico" è in agguato (2).

  Ha fatto sensazione nel 1991 il libro E se l’Africa rifiutasse
lo sviluppo? di Axelle Kabou (camerunense), con la tesi: mentre lo sviluppo si è
realizzato in occidente e in qualche paese dell’Asia, è fallito in Africa, perché
la cultura locale è parassitaria, pigra.

È abbastanza vero che la cultura africana è antropologicamente refrattaria allo
sviluppo del capitalismo mercantile. Ma questo potrebbe tramutarsi in una opportunità per
i popoli africani. Forse il XXI secolo sarà dell’Africa.

 

 Il fatto è che l’Africa, stretta dal Fondo monetario internazionale
o dall’Organizzazione mondiale del commercio, è in crisi e deve accodarsi al più
forte che le impone il "pensiero unico" (2).

Mi auguro che questo sia un fatto passeggero. Io sono prudentemente fiducioso sul
futuro dell’Africa.

Circa il "pensiero unico", ritenuto (come la globalizzazione) necessario per
tutti, noto qualche significativo "distinguo". Si veda il Giappone, il paese
asiatico più occidentalizzato, che ha conservato il culto degli antenati con gli altarini
in famiglia; ha il culto della vita, corpo e anima, che gli deriva dallo scintornismo… Pur
nel "pensiero unico", il pluralismo non è morto. Oggi si parla di
globalizzazione dal volto umano, con nuove regole, sconfessando quindi quella precedente.
Anche questo è pluralismo.

  Professore, se lei dovesse presentarsi ai lettori di Missioni
Consolata, cosa direbbe di se stesso?

Che sono "un operaio della parola", presente per indicare soluzioni
alternative alla mondializzazione dell’economia di mercato.

 

  

(1) Il MAI (Multilateral Agreement on Investment, accordo mondiale sugli investimenti)
prevedeva non solo libertà di investire, ma anche garanzia di protezione persino nel sud
del mondo; in caso di perdite, lo stato avrebbe dovuto risarcire gli investitori.
L’"accordo" (che aveva il benestare di Renato Ruggiero, allora direttore
dell’Organizzazione mondiale del commercio) venne bocciato nel 1998 (cfr. Missioni
Consolata, gennaio 1999).

(2) Sul "pensiero unico", cfr. Ignacio Ramonet (e AA. VV.), Il pensiero unico
e i nuovi padroni del mondo, Strategia della lumaca, Roma 1996.

Francesco Beardi




Turchia: «Mamma, li turchi»

Viaggio nel paese della mezza luna

"Ponte tra Oriente e Occidente", la Turchia è stata per millenni crogiolo di
popoli e civiltà, sfociate nell’attuale Repubblica, "candidata" a entrare
nell’Unione Europea (UE). È pure definita "seconda Terra Santa": milioni
di pellegrini cristiani vi cercano le tracce di san Paolo e delle chiese delle origini. Le
comunità cristiane dei primi secoli, oggi, sono ridotte a sparute presenze. Per entrare a
pieno titolo nell’UE, la Turchia dovrà aggiustare non solo i parametri economici, ma
fare passi da gigante nel campo dei diritti umani e della libertà religiosa.

 Articolo 1

I nodi gordiani della Turchia

"Passaggio a Ovest"

Chiamata per un millennio Bisanzio, per 11 secoli Costantinopoli e da oltre 500 anni
col nome attuale, Istanbul è l’emblema della storia plurimillenaria della vocazione
europea della Turchia odiea. Diventata repubblica laica, essa chiede l’integrazione
nell’UE. Prima delle trattative, però, la nazione turca dovrà sciogliere molti
nodi, soprattutto in materia di diritti umani e rispetto delle minoranze etniche e
religiose. È un problema di democrazia e civiltà.

Dagli spalti del Topkapi, il palazzo dei sultani a Istanbul, lo sguardo spazia sul
Bosforo: la lunga striscia di mare, più che separare, sembra unire l’estrema punta
dell’Europa all’Anatolia, chiamata dai romani Asia Minore. Mentre osservo
petroliere e mercantili che solcano lo stretto canale, ripercorro a ritroso millenni di
storia, quando sulle due sponde approdavano le fragili imbarcazioni greche, poi le triremi
romane e dromoni bizantini, quindi i velieri genovesi, veneziani e ottomani, scambiando
tra Oriente e Occidente merci, cultura e civiltà.

COSCIENZA DOPPIA

Quando Byzas stabilì sul Coo d’Oro la prima colonia greca (659 a.C.), dandole
il suo nome, l’Anatolia era già entrata a pieno diritto nella storia da oltre 1.500
anni, grazie ai commercianti assiri e ittiti che vi avevano introdotto la scrittura
cuneiforme.

Di origine indoeuropea, gli ittiti dominarono l’altipiano anatolico per oltre un
millennio, finché il loro impero fu spazzato via (1200 a.C.) da misteriosi "popoli
del mare" e frantumato in una miriade di regni (cappadoci, cari, frigi, pamfili,
lici, cilici, lidi, misi, paflagoni, sciti, cimmeri). Contemporaneamente lungo le coste
dell’Egeo i colonizzatori greci fondarono importanti città-stato.

Da subito, l’Anatolia fu strattonata a est e ovest. Ne è un esempio il regno di
Troia, città distrutta e ricostruita nove volte. Il settimo periodo (1300-1100 a.C.)
corrisponderebbe al conflitto tra troiani e greci (achei), cantato dall’epica di
Omero.

Quando Ciro il Grande, re di Persia, conquistò l’Anatolia (547 a.C.) e
l’inghiottì nel suo impero e i suoi successori minacciarono di passare i Dardanelli
e occupare anche la Grecia, cominciò lo scontro tra Oriente e Occidente. Oltre a
riscuotere imposte e reclutare soldati, i persiani imposero elementi culturali, modelli di
vita, concezioni politiche e metodi amministrativi: le città greche dell’Asia minore
si ribellarono, tirando la madre patria nel conflitto.

Per 200 anni, greci e persiani si scontrarono su entrambe le sponde dell’Egeo, in
una guerra di civiltà senza quartiere, provocando nelle popolazioni coinvolte la
sedimentazione di una "coscienza asiatica" e una "coscienza europea",
con reciproche influenze morali, politiche e culturali, di cui l’Anatolia fu il punto
di confine e congiunzione insieme.

NUOVA ECUMENE

"Regnerà sull’Asia chi riuscirà a sciogliere la corda dal giogo del timone
del carro custodito nel tempio di Zeus" diceva la profezia del santuario di Gordio, a
pochi chilometri da Ankara. Alessandro Magno risolse il problema con un colpo di spada:
sconfisse i persiani e, tra il 334 e il 327 a.C., il re macedone fondò una monarchia
universale e multietnica in cui conciliava la civiltà greca con quella orientale:
l’Anatolia diventò un importante tassello della neonata ecumene (casa comune)
ellenistica.

Ma alla morte di Alessandro (323 a.C.), i suoi generali e loro successori si scannarono
per spartirsi le spoglie dell’impero. L’Anatolia toccò a Seleucio, fu
riassorbita nella sfera persiana e coinvolta in una spirale endemica di guerre. Delle
rivalità ne approfittò Attalo I (241-197 a.C.), che si ritagliò un piccolo regno, con
capitale Pergamo, lo estese con l’aiuto di Roma e ne fece un faro di cultura e
civiltà ellenistica. L’ultimo degli attalidi, rimasto senza eredi, lasciò il regno
alla repubblica di Roma (133 a.C.).

All’ecumene ellenistica subentrava quella romana, culminata nella completa
integrazione nell’impero, quando Caracalla (212 d.C.) estese la cittadinanza romana a
tutti i cittadini liberi dell’Asia Minore. Il dominio romano favorì un lungo periodo
di pace e sviluppo economico e culturale, grazie alla fitta rete di strade e comunicazioni
che collegava le province al resto dell’impero: di tale comodità si avvalsero anche
i predicatori del vangelo per spargere il seme cristiano in tutta l’Anatolia.

IMPERO BIZANTINO

Quando Costantino spostò la capitale da Roma a Bisanzio (324), ribattezzata
Costantinopoli, e Teodosio I impose il cristianesimo come religione di stato (392), per le
eterogenee popolazioni dell’Asia Minore la religione cristiana avrebbe dovuto essere
un ulteriore consolidamento dell’ecumene greco-romana.

Nel 395 invece, i figli di Teodosio, si spartirono l’impero: Arcadio si tenne
l’oriente; Onorio l’occidente. E fu l’inizio del progressivo distacco tra
est e ovest, in cui le divergenze di concezioni politiche, culturali e religiose giocarono
un ruolo fondamentale.

Quando i barbari deposero l’ultimo imperatore di Roma (476), Costantinopoli rimase
l’unica capitale dell’impero e della cosiddetta civiltà bizantina. L’Asia
Minore ne seguì appieno le sorti nel bene e nel male.

Per oltre un millennio popolazioni dell’odiea Turchia furono coinvolte in
innumerevoli tempestose crisi politico-religiose, alternate a periodi di bonaccia, in cui
i sovrani interferivano a piacere, nominando e rimuovendo patriarchi e vescovi, convocando
concili, ficcando il naso in dispute dogmatiche e dottrinali, imponendo per decreto di
seguire ora l’ortodossia, ora le correnti eretiche.

Gli imperatori dovettero lottare anche contro i pericoli provenienti da est: i persiani
ripresero tutta l’Asia Minore e, insieme ai nordici avari, assediarono Costantinopoli
(626). I territori furono subito ripresi da Eraclio; ma costui cancellò definitivamente
dall’impero ogni traccia romana: abolì il bilinguismo e il greco diventò unica
lingua ufficiale.

Le quisquilie bizantine continuarono a lacerare la chiesa universale, dilatando il
fossato tra papato e impero. La rivalità con Roma e la contesa per il primato
politico-ecclesiale raggiunse l’apice nel 1054: il patriarca di Costantinopoli,
Michele Cerulario e papa Leone IX si scomunicarono a vicenda, spezzando l’ultimo filo
che univa ancora Oriente e Occidente: ortodossia e cattolicesimo divennero sinonimi di
divisione europea.

GUERRE "SANTE"

Mentre a Costantinopoli teologi e sovrani discutevano sul sesso degli angeli, gli arabi
combattevano le loro "guerre sante" in nome dell’islam, espandendo il loro
dominio dall’India alla penisola iberica, sottraendo all’impero bizantino gran
parte delle regioni bagnate dal Mediterraneo.

L’Asia Minore fu attaccata dalle scorribande arabe (VII-X sec.), che trovarono
fiera opposizione in Cappadocia. Nulla, invece, poté contro i vari gruppi turcomanni,
provenienti dalle regioni dell’Asia Centrale. I turchi selgiuchidi (dal fondatore
Selgiuq, X sec.), appena convertiti all’islam, occuparono l’Asia Minore: fatto
prigioniero l’imperatore bizantino (1071), giunsero fino a Nicea (Iznik).

Respinti dai crociati, i selgiuchidi si arroccarono sull’altopiano anatolico,
fissando la capitale a Konya (Iconio) e islamizzando la regione. I viaggiatori occidentali
che attraversavano l’Anatolia nel XII e XIII secolo chiamavano "Turchia"
quel territorio; il turco era usato nell’amministrazione in varie forme letterarie.

Le imprese di arabi e turchi provocarono l’avvicinamento tra papato e imperatore,
ortodossi e cattolici: furono organizzate ben sette crociate (1096-1270). Costantinopoli
s’illuse di ritornare a giocare il ruolo di baluardo storico contro l’avanzata
dei popoli asiatici; a ogni vittoria sui turchi, cercò di affermare il proprio dominio
sui territori un tempo in suo possesso; ma finì per dover lottare contro il papato, che
intendeva servirsi delle crociate per riunire la chiesa greca a quella latina, e contro i
prìncipi cristiani che, mescolando l’ideale della liberazione dei luoghi santi
cristiani con gli interessi politici e commerciali, stabilirono regni feudali
nell’Asia Minore (Antiochia, Edessa, Trebisonda).

Il colmo della beffa fu raggiunto quando i veneziani dirottarono la IV crociata su
Costantinopoli: la presero e misero a ferro e fuoco (1204), dando vita ad un effimero
regno latino d’Oriente. Nel 1261, la dinastia greca dei paleologhi, con l’aiuto
dei genovesi, rientrò trionfalmente a Costantinopoli. Ma ormai l’impero greco era
ridotto a una pallida ombra di quello bizantino: mutilato e dilaniato da guerre civili,
sopravvisse per quasi due secoli, finché fu ingoiato dall’impero ottomano.

VOGLIA DI "MELA ROSSA"

Guidati da Osman o Othman, da cui il nome di "ottomani", questi misero piede
in Anatolia alla fine del XIII secolo e dilagarono in tutta l’Asia Minore, stabilendo
la capitale a Bursa. Poi, aggirate le inespugnabili mura di Costantinopoli, invasero la
Tracia e fissarono la capitale ad Adrianopoli (Edie, 1361). Quindi proseguirono verso
Bulgaria e Serbia, sognando di raggiungere Roma, ritenuta la vera capitale del mondo e
chiamata Kizil Elma (Mela Rossa).

L’improvviso arrivo in Anatolia dei nemici-cugini mongoli di Timur lo Zoppo,
Tamerlano, costrinse il sultano Beyazit, detto il Fulmine, a fare dietrofront, ma fu
sconfitto ad Ankara (1402).

I turchi parevano annientati; ma 10 anni dopo Mehmet I li riorganizzò e preparò per
la riconquista. Mehmet II Fatih (Conquistatore) arruolò i più abili artigiani europei
del tempo perché gli fabbricassero cannoni, con cui sbriciolò le mura di Costantinopoli
(1453), che divenne la capitale dell’impero sotto un nuovo nome. Non così nuovo in
verità. Istanbul deriva dal greco "eis ten polin", alla città (urbe):
espressione che i contadini ellenici dicevano orgogliosi quando si recavano nella
metropoli, l’unica al mondo, come l’antica Roma, meritevole di tale appellativo
d’eccellenza.

Invincibile per terra, cresciuto come potenza navale, l’impero ottomano raggiunse
l’apogeo con Solimano il Magnifico (1520-66). Si estendeva su tre continenti: dal Mar
Caspio e Golfo Persico all’Algeria, dalla Serbia e Ungheria allo Yemen, con una
popolazione di 50 milioni di abitanti, dieci volte più dell’Inghilterra.

A favorire l’espansione turca e alimentare il sogno della Mela Rossa contribuì
anche la divisione tra le potenze occidentali, che permisero agli ottomani di occupare
Otranto per un anno (1480), cingere d’assedio Vienna (1529), flagellare le coste
italiane e razziare la città di Nizza (1543).

A tenere unito un impero multietnico di tale dimensione contribuì la capacità di
adattamento delle istituzioni ottomane a quelle delle popolazioni annesse, rispettandone
norme, consuetudini e diritti. Anzi, in alcune regioni dei Balcani ed Europa
centro-orientale, i turchi furono acclamati come liberatori dal fanatismo
politico-religioso innescato dalle lotte tra cattolici e protestanti.

Va riconosciuta alla Sublime Porta, come veniva chiamato il governo turco, un elevato
grado di tolleranza religiosa. Ma senza esagerare. Prima di tutto la porta delle cariche
amministrative si apriva solo a chi era di provata fede musulmana. Tale tolleranza, poi
nascondeva motivi di convenienza: gli ebrei fuggiti dalla Spagna furono accolti per
contrastare le spinte indipendentiste di armeni e greci; i cristiani non subirono
l’islamizzazione forzata perché il loro passaggio all’islam avrebbe comportato la
perdita degli ingenti gettiti fiscali imposti ai cristiani.

Senza dimenticare, infine, che centinaia di migliaia di giovani cristiani, prigionieri
di guerra o strappati alle famiglie, furono sottoposti a un formidabile lavaggio di
cervello per formare il corpo militare dei giannizzeri, i più fanatici e intransigenti
difensori dell’islam.

Sebbene in ritardo, l’Europa cominciò a vedere nell’espansione turca una
minaccia per la cristianità e la civiltà occidentale: nel 1571 la flotta di varie
potenze europee sconfisse l’armata turca nelle acque di Lepanto, ponendo fine al mito
dell’invincibilità ottomana.

Nel secolo XVII i turchi continuarono a minacciare Polonia, Austria e Slesia:
assediarono di nuovo Vienna (1683), ma furono respinti dalle truppe tedesco-polacche. E
dovettero cedere Ungheria e altri avamposti dell’Europa centro-orientale a due
minacciose potenze confinanti: Russia zarista e impero asburgico.

IL GRANDE MALATO D’EUROPA

Sublimi lussi e mollezze, avidità e intrighi di corte indebolirono il potere centrale;
generali e nobili si ritagliarono fette di potere alla periferia dell’impero.
L’arretratezza fece il resto. All’inizio del XIX secolo per le potenze
occidentali lo stato turco diventò la "questione orientale" o il "grande
malato dell’Europa" e accorsero al suo capezzale.

Più che medici, si rivelarono becchini. Nessuno voleva il decesso dell’impero, ma
tutte fecero a gara, impiegando ogni mezzo finanziario, politico o militare, per mutilae
le periferie; ognuna mobilitò la propria forza diplomatica per impedire che un eventuale
vuoto di potere venisse colmato da potenze avversarie. Al tempo stesso, Londra, Parigi e
Pietroburgo soffiavano sul vento dei nazionalismi balcani, sfociati in stati indipendenti:
Serbia, Grecia, Romania, Montenegro, Bulgaria e Albania.

I paesi occidentali offrirono le loro tecnologie (telegrafo, ferrovie) per modeizzare
lo stato, ricevendo in cambio che le proprie compagnie commerciali si stabilissero negli
scali principali della Sublime Porta. Le manifatture francesi, inglesi e olandesi misero
in crisi gli artigiani locali, incapaci di competere con la tecnologia europea.

Indebitati fino al collo, sempre più dipendenti dall’Europa, i turchi furono
tirati per i capelli in una intricata girandola di alleanze pro e contro tedeschi,
inglesi, austriaci, francesi, russi, italiani, trovandosi sempre dalla parte sbagliata e
continuando a perdere i pezzi più pregiati. La prima grande guerra li spazzò via dai
Balcani; in Anatolia si precipitarono greci, italiani, inglesi e francesi; gli armeni si
dichiararono indipendenti. Nel trattato di pace di Sèvres (1920) il sultano ratificò il
fatto compiuto.

NUOVI CONNOTATI

La Turchia rischiava di scomparire dalla geografia politica, quando il generale
macedone Mustafà Kemal, detto poi Ataturk (padre dei turchi), impostosi come leader del
movimento nazionalista, respinse il trattato di Sèvres, combatté una guerra vittoriosa
contro i greci (1920-22), annientò la minoranza armena, destituì l’ultimo sultano e
proclamò la repubblica. Nel trattato di Losanna (1923) ottenne il riconoscimento di
quelli che, sostanzialmente, sono i confini odiei.

Con un regime a partito unico, Kemal iniziò la ricostruzione dello stato, cercando di
accorciae le distanze con l’Europa, anche se trasportò la capitale da Istanbul ad
Ankara.

Basata sui pilastri del laicismo e nazionalismo, la costituzione repubblicana sancì la
separazione tra stato e islam, che cessò di essere religione di stato. Furono abrogati i
tribunali religiosi, chiuse le scuole coraniche e abolite le confrateite musulmane. Il
turco sostituì l’arabo nei riti pubblici, compresi gli appelli alla preghiera. Per
accelerare la turchizzazione, fu introdotto l’alfabeto latino, fondate nuove scuole
di ogni ordine e grado, resa obbligatoria la scolarizzazione anche per le donne;
cancellati i termini di origine araba e persiana, fu abolito l’insegnamento di tali
lingue nelle scuole superiori.

Per modeizzare e occidentalizzare la nazione fu abolita la poligamia, l’obbligo
del velo per le donne e del fez per gli uomini. Fu rinnovato il sistema giudiziario,
prendendo a modello il codice civile svizzero e quello penale italiano. Venne introdotto
il sistema metrico decimale; il calendario gregoriano sostituì quello musulmano e la
domenica prese il posto del venerdì come giorno di festa.

Per completare la modeizzazione, nel 1934 fu esteso alle donne il suffragio
universale (prima dei francesi); una dozzina di anni dopo venne introdotto il
multipartitismo.

Dopo la morte di Ataturk (1938) la Turchia ha continuato il passaggio a Ovest: entrata
nella Nato (1952), ne ha accolto le basi militari, diventando un avamposto occidentale,
prima in funzione antisovietica e poi anti-islamica. Stretta un’alleanza di ferro con
gli Stati Uniti, li ha appoggiati senza condizioni durante la guerra del Golfo contro
l’Iraq (1991), perdendo ogni legame con i paesi islamici del medio e vicino oriente.

Pur continuando il processo di modeizzazione delle sue strutture economiche, sociali
e culturali, la Turchia rimane ancora in bilico tra identità europea e ideali islamici.
Nel 1996 prese le redini del governo un partito neo-ottomano (il Refah) che avversa Nato e
UE, mentre propone un revisionismo pan-turco e pan-islamico sugli ex territori ottomani.

NODI DA SCIOGLIERE

Da oltre 30 anni la Turchia cerca il suo "passaggio a ovest", bussando alla
porta dell’Unione economica europea. Finora ha ottenuto di entrare nel regime di
unione doganale (1996) e, nel 1999, le è stato accordato lo status di candidato
all’ingresso nell’UE, fanalino di coda di 13 paesi in sala d’aspetto. I
negoziati saranno aperti quando il paese avrà dimostrato di avere raggiunto certi
parametri dettati dall’UE in materia di democrazia, diritti umani, tutela delle
minoranze ed economia.

Sulla democrazia turca incombe, come la spada di Damocle, il potere militare: in 20
anni, i generali, nuovi "pascià", hanno fatto tre colpi di stato (1960,
’71, ’80). Nel Consiglio nazionale di sicurezza, che ha lo scopo di
"garantire laicità e kemalismo", i sei massimi ufficiali dell’esercito e
forze dell’ordine danno "pareri" ai cinque massimi esponenti civili,
presidente e primo ministro compresi. Gestendo una delle tre o quattro principali società
finanziarie del paese, le forze armate fanno il buono e cattivo tempo anche nel mondo
economico.

Il primo ministro turco ha assicurato che presto il parlamento abolirà la pena di
morte. Ma intanto i diritti civili, politici e religiosi continuano ad essere calpestati;
le proteste represse con brutalità; le carceri sono un inferno e la riforma carceraria
sta provocando lo sciopero della fame tra civili e carcerati: sono già morti a decine e
altri 2.000 sono pronti al sacrificio; ma il governo sembra sordo. I mezzi di
comunicazione possono trasmettere solo la voce del padrone; contestatori e difensori dei
diritti umani sono incarcerati; i sospettati di terrorismo torturati.

In fatto di minoranze, i turchi si imbufaliscono quando in Europa si parla di genocidio
armeno e si chiede di riconoscere la responsabilità dello sterminio di oltre un milione e
mezzo di armeni (vedi a p. 41). Altra questione in sospeso riguarda il ritiro delle forze
d’invasione a Cipro del nord: occupata nel 1974, ha causato 5.000 morti e 200.000
profughi. Più ingarbugliata è la questione dei kurdi, che da secoli rivendicano la loro
identità. Il problema è ben lontano da una soluzione equa, se mai ci sarà (vedi
riquadro).

Drammatica, infine, è la situazione economica. Trent’anni di sviluppo e
progresso, con costruzioni di strade, aeroporti, città, attrezzature turistiche, nonché
fabbriche, dighe, oleodotti, fonderie e altri complessi industriali ha fatto gridare al
"miracolo turco". Ma all’inizio del 2001 la Turchia si è improvvisamente
svegliata in bancarotta. Le cause sono molte: corruzione e collusione con la mafia di alte
sfere dell’apparato istituzionale; sistema finanziario e bancario al collasso; debito
estero che assorbe il 95% delle entrate; inflazione galoppante a due e tre cifre. Per un
dollaro (2.200 Lit.) oggi occorrono 1.260.000 di lire turche.

Il premier Ecevet ha chiamato al capezzale dell’economia una personalità con
esperienza internazionale, dandole pieni poteri: è Kemal Devis, ex presidente della Banca
Mondiale. Ha iniziato la cura da cavallo, che farà piangere a lungo lacrime e sangue.

PALETTI SÌ. STECCATI NO

Il processo per raggiungere i parametri richiesti dall’UE sarà lungo e difficile.
Gli osservatori più scettici dicono che l’integrazione nell’UE è rimandata
alle calende greche. "La Turchia – ha detto Pierre Moscovici, ministro francese per
gli affari europei – deve rendersi conto che l’UE non è solo una comunità di
nazioni, ma un modello di civiltà".

Alcuni settori del mondo cattolico sono allarmati: l’UE è frutto di cristianità,
legge romana e umanesimo greco; l’eventuale integrazione di 80 milioni di musulmani
turchi ne offuscherebbe l’identità.

Altri sostengono che la Turchia è stata protagonista a pieno titolo della storia
europea e deve continuare a fae parte in futuro con le carte in regola. Anche
"l’Europa deve trovare il suo "passaggio a ovest" – aggiunge un
giornalista turco, – se essa è veramente tolleranza, convivenza, multi-etnicità".
Passaggio che si chiama dialogo, fondato sulla conoscenza di se stessi e degli altri.

Non serve sbattere la porta in faccia ai turchi, si afferma in ambienti ecclesiali
italiani. L’islam l’abbiamo già in casa. La questione è come prepararsi a un
confronto serio e senza cedimenti: da una parte dobbiamo recuperare identità e dignità
di cristiani d’Europa; dall’altra si deve esigere da certi capi islamici
rispetto o un approccio pacato verso i cristiani.

Il dialogo dovrebbe far emergere nel mondo islamico l’accettazione dell’idea che
esiste la libertà della coscienza individuale, tale da non essere messa in forse né
dallo stato né da qualsiasi altra autorità. Non si aderisce all’Europa per i soli
benefici materiali, senza accettae contemporaneamente i valori.

"Non sarà un percorso facile – confessa don Elvio Damoli, direttore di Italia
Caritas -. Tuttavia, le barriere sono inutili. Serve il dialogo, anche se con i
paletti".

 

Scheda storica

2000 a.C.: nascita dell’impero ittita.

1500 a.C.: introduzione della scrittura.

1200-900.a.C.: tramonto dell’impero ittita e formazioni di regni anatolici.

850 a.C.: espansione delle colonie greche lungo le coste asiatiche.

700-500 a.C.: regni di Frigia (capitale Gordio) e di Lidia (capitale Sardi).

553 a.C.: inizia la dominazione persiana, in conflitto con i greci.

334-327 a.C.: Alessandro Magno sconfigge i persiani; inizia l’ellenismo.

240-133 a.C.: regno di Pergamo.

130 a.C.: inizia il dominio romano.

301: evangelizzazione dell’Armenia, primo stato cristiano.

325: 1° concilio ecumenico a Nicea contro l’arianesimo.

330: Costantinopoli capitale dell’impero romano.

379-95: regno di Teodosio I.

395: divisione dell’impero romano d’oriente e d’occidente.

431: concilio di Efeso contro Nestorio.

451: concilio di Calcedonia.

527-65: regno di Giustiniano, riformatore del diritto; costruzione di Santa Sofia.

600-900: scorrerie arabe in Cappadocia.

1054: scisma d’oriente.

1071-1300: regno dei turchi selgiuchidi.

1203-04: Costantinopoli presa e saccheggiata dai crociati.

1354: i turchi ottomani sbarcano in Europa e conquistano la Tracia.

1389: il sultano Murat I sconfigge i serbi nella battaglia del Kosovo.

1402: i mongoli invadono l’Anatolia.

1413: inizia il regno di Mehmet I; riprende l’espansione ottomana.

1453: presa Costantinopoli/Istanbul, nuova capitale dell’impero ottomano.

1520-66: regno di Solimano il magnifico.

1526: i turchi conquistano l’Ungheria.

1529: i turchi assediano Vienna.

1571: turchi vinti a Lepanto dai cristiani.

1683: i turchi assediano Vienna e sono sconfitti da Jean Sobieski.

1774: 1a guerra turco-russa e protettorato degli zar sui greci; nasce la
"questione orientale".

1877-78: 2a guerra turco-russa; Serbia, Romania, Bulgaria indipendenti.

1912-18: l’impero ottomano è ridotto ai confini attuali, sanzionati dal trattato
di Sèvres (1920).

1915-16: genocidio armeno.

1920-23: rivoluzione di M. Kemal (Ataturk) e fondazione della repubblica.

1938: morte di Ataturk.

1952: la Turchia entra nella Nato.

1960, ’71,’80: colpi di stato militari.

1974: la Turchia occupa Cipro nord.

1980-83: guerra al Kurdistan.

1994-95: il partito islamico Refah ottiene l’amministrazione di Istanbul, Ankara,
Smie e maggioranza in parlamento.

1999: la Turchia "candidata" ad entrare nell’Unione Europea.

 

Articolo 2

Dervisci: il volto mite e dialogico dell’Islam

Danzando con Allah

C i si toglie le scarpe per entrare nel mausoleo di Konya, sotto la cui cupola conica,
rivestita di maioliche turchesi, riposano Mevlana e molti suoi discepoli. Anche se da 76
anni è un museo di arte islamica, i turchi continuano a considerarlo "luogo
sacro", secondo solo alla Mecca. Domandarsi chi è Mevlana è come chiedersi chi è
Dante o Francesco d’Assisi, suoi contemporanei. È un grandissimo poeta e mistico,
uomo del suo tempo e di tutti i tempi. Espressione del volto più aperto e tollerante
dell’islam e fondatore della confrateita islamica dei mevlevi, meglio conosciuti
come "dervisci rotanti o danzanti", vestiti di tunica bianca, mantello nero e
alto cappello cilindrico di feltro.

S i chiamava Gialal ad-Din Rumi, detto poi Mevlana (maestro nostro). Nato nel 1207 a
Balkh, città persiana ora in Afghanistan, da piccolo vagò in esilio con il padre, dal
quale ricevette un’accurata educazione, completata poi con lo studio delle scienze
esoteriche. Salvo brevi soggiorni a Damasco e Aleppo, egli visse sempre a Konya, dove si
sposò, ebbe figli e insegnò nella scuola della capitale selgiuchide.

A cambiargli la vita, nel 1244, fu l’arrivo di Shams (Sole) di Tabriz, giovane
predicatore vagante, che lo avviò sulla via del sufismo. Il maturo docente si mise alla
scuola del giovane maestro, immergendosi nell’ascetismo e meditazione. Tra i due
nacque un’attrazione mistica che suscitò la gelosia di familiari e discepoli e fece
spettegolare tutta la città.

Quando Shams decise di tornare in Persia, Mevlana lo accompagnò fino a Tabriz e toò
a Konya. Strada facendo, continuava le sue mistiche riflessioni, quando, divorato da un
fuoco interiore, cominciò a roteare su se stesso in una specie di rapimento estatico.
L’episodio è all’origine delle danze religiose della confrateita islamica da
lui fondata.

M evlana passò il resto della vita dedicandosi ad ascesi, insegnamento mistico e
lavoro letterario. Scritte o dettate in persiano, le sue opere furono più tardi tradotte
in turco per l’istruzione dei discepoli. Tra di esse figurano il Divan-i-Kibir,
sterminato e appassionato canzoniere composto sotto il nome del maestro Shams, e il
Màthnawi-i-mànawi (Poema spirituale), trattato colossale di mistica in sei volumi. Opera
affascinante e impareggiabile, il Màthnawi svolge le dottrine del sufismo con aneddoti,
favole, leggende, allegorie, digressioni dottrinali, miste a voli lirici di estatico
rapimento.

Se non fosse per il grandioso panteismo di cui sono impregnate le sue liriche, queste
sembrerebbero uscite dal cuore di mistici cristiani, come Giovanni della croce. Simili,
infatti, sono lo slancio e l’ardore del sentimento religioso con cui viene cantato
l’amore tra l’Amato (Dio) e l’amante (credente). Un Amato più intimo e
vicino di quanto possiamo esserlo a noi stessi.

Così ammoniva i suoi correligionari che andavano alla Mecca e facevano i dieci giri
attorno alla kaaba:

"O gente che partite in pellegrinaggio, dove mai siete?

L’Amato è qui, tornate, tornate!

L’Amato è un tuo vicino; vivete muro a muro.

Che idea vi è venuta di vagare nel deserto d’Arabia,

per vedere la forma senza forma dell’Amato?

Il Padrone è in casa e la kaaba siete voi.

Dieci volte siete già andati per quella via, per quella casa:

provate una volta da questa casa a salire sul tetto.

Bella è la casa di Dio; ne avete narrato i segni.

Provate ora a darci un segno del Padrone di quella casa".

L a scuola di Mevlana esercitò un influsso sociale, politico e culturale di primaria
importanza nell’impero ottomano ed ebbe un grande sviluppo: il suo monastero,
denominato "la soglia della presenza", fu la casa madre di numerosi conventi
fondati in Anatolia, Egitto, Siria e Balcani, cattedre dalle quali, per sette secoli, fu
propagato il suo messaggio d’amore.

La suprema autorità dell’ordine, detto "çelebi efendi", aveva il
privilegio di cingere la spada a ogni nuovo sultano. La cerimonia si teneva a Istanbul e,
per il suo significato, richiama da vicino l’investitura con cui nel medioevo i
vescovi di Magonza riconoscevano gli imperatori di Germania.

Nel 1925 Atatuk sciolse tutte le confrateite islamiche e mise i dervisci fuori legge,
perché troppo legati al decrepito regime ottomano e fautori di un irrazionalismo
inconciliabile con la coscienza laica della nuova Turchia. Essi, però, riuscirono a
sopravvivere come associazione culturale, ufficialmente riconosciuta nel 1957, destinata a
conservare una tradizione storica.

A metà dicembre di ogni anno, per l’anniversario della morte del maestro, i
dervisci eseguono le loro danze nel mausoleo di Konya; ma si esibiscono pure in altre
città della Turchia e nel mondo intero. Per il governo turco e per i curiosi le loro
danze sono espressioni folcloristiche, per i dervisci continuano a essere preghiera.

L’islam ufficiale disapprova tali danze, perché non trovano alcuna
giustificazione nel Corano; anzi, ritiene il sufismo un’eresia, perché antepone
l’amore all’obbedienza. Mevlana, invece, insegna che attraverso musica e danza
l’uomo entra nell’armonia cosmica e delle sfere celesti, fino a scoprire le avventure
affascinanti dello spirito e dell’amore di Dio.

È tradizione che Mevlana compose le sue più belle liriche spirituali nel rapimento
dell’estasi, mentre girava vorticosamente attorno a una colonna.

Vestiti e danza, compresi i singoli gesti e movimenti, hanno significati religiosi. La
cerimonia dei dervisci, detta "giro planetario", imiterebbe il roteare degli
astri attorno al sole. Per altri ripeterebbe la danza degli angeli attorno alla kaaba.

Cappello e mantello nero sono simboli della pietra tombale e la veste bianca del
lenzuolo mortuario del proprio ego. Quando i dervisci si tolgono i mantelli, rinascono
alla verità spirituale.

Comincia la danza: il derviscio incrocia le braccia all’altezza delle spalle per
riprodurre la prima lettera di Allah in caratteri arabi; poi le estende: la destra, aperta
verso il cielo, riceve i doni divini; la sinistra, girata verso terra, li dispensa al
popolo. Girando da destra a sinistra, egli stringe la creazione e tutte le nazioni del
mondo nell’amore.

La prima fase della danza è un elogio al profeta, nel quale sono elogiati tutti i
profeti e Dio loro creatore; nella seconda si sente il colpo del tamburo, simbolo del
comando di Dio; la terza segue un preludio del flauto, ovvero il soffio di Dio che ha dato
vita a tutte le creature. La quarta fase è costituita da tre marce circolari,
accompagnate da una musica ritmica, che simboleggia altrettanti saluti delle anime
nascoste nei corpi.

Il primo saluto, che esprime la nascita dell’uomo alla verità tramite il ragionamento,
segna la presa di coscienza dello stato di creatura e dell’esistenza di Dio creatore. Nel
secondo saluto c’è la rivelazione delle meraviglie della creazione: osservando il
mondo e se stesso, l’essere umano diventa testimone dello splendore e perfezione
dell’opera divina, si meraviglia davanti all’infinita potenza di Dio.

Il terzo saluto è il rapimento, il più alto grado dell’estasi mistica: l’uomo si
abbandona all’amore di Dio.

Quindi la musica si arresta; terminato il viaggio mistico e ascensione spirituale, il
derviscio ritorna ai suoi doveri terreni, come servitore di Dio e dispensatore di amore
verso tutte le creature e tutta la creazione.

Q uello di Mevlana è un islam dal volto mite e dialogico, ben lontano
dall’integralismo dei paesi arabi e arabizzati. Egli fu amico di saggi ebrei, preti e
vescovi bizantini. Si dice che abbia fatto 40 giorni di ritiro nel monastero di un monaco
suo amico. È certo che il suo insegnamento supera gli angusti orizzonti confessionali.
Predicava l’unità di tutte le confessioni religiose. Diceva: "Un giorno cadranno
tutti i minareti dalle moschee e le campane dalle chiese: allora ci sarà perfetta
unità".

Per questo si attirò molte simpatie. Alla sua morte nel 1273, partecipò gente di ogni
ceto, razza e fede, compresi ebrei e cristiani, che vedevano in lui una figura tanto
vicina a quelle di Gesù e Mosè.

I dervisci, da parte loro, hanno continuato a simpatizzare e dialogare sul terreno
filosofico con i cristiani: si opposero al massacro degli armeni in Turchia. Continuano a
predicare la pace universale, l’amore come fulcro di tutto, l’unione con Dio
come scopo della vita, l’accoglienza senza pregiudizio.

Sono eloquenti, al proposito, i versi del Màthnawi, che i dervisci hanno voluto
riportare su una parete del mausoleo di Konya:

"Vieni, ritorna, chiunque tu sia, vieni.

Non importa se sei un infedele,

un idolatra o adoratore del fuoco.

Vieni, anche se hai infranto il giuramento cento volte,

vieni lo stesso.

La nostra non è la porta della disperazione e del tormento.

Vieni".

 

Articolo3

Sulle tracce di san Paolo e delle prime chiese cristiane

TERRA DI RELIQUIE

Una dozzina di missionari, pellegrini nella "seconda terra santa", culla
della missione ad gentes, rileggono le parole di Paolo dove furono pronunciate, ne
rivivono successi e persecuzioni, celebrano l’eucaristia dove Pietro e Paolo
radunavano le prime comunità cristiane per lo stesso rito… Sono emozioni
indimenticabili. Ma con tanto amaro in bocca: oggi la presenza cristiana è ridotta al
lumicino, frammentata in una miriade di minuscole chiese. Unica strada di sopravvivenza:
dialogo e testimonianza della carità.

Istanbul, prima tappa obbligata del pellegrinaggio, sembra una foresta di minareti
tutti uguali. "Ci sono oltre 3 mila moschee, 17 sinagoghe e 240 chiese cristiane, in
buona parte chiuse per mancanza di fedeli" spiega Alba, la guida turca, appena siamo
seduti nel pullman.

Un senso d’impotenza afferra il cuore dei missionari davanti a Santa Sofia, la
basilica fatta costruire da Giustiniano come "la più sontuosa dall’epoca della
creazione": inaugurata nel 537, trasformata in moschea dopo la conquista ottomana
(1453) con l’aggiunta di quattro minareti, ridotta a museo nel 1953, essa simbolizza
la parabola storica del cristianesimo in tutta la Turchia: florido, represso, ignorato.

E FU SUBITO CESAROPAPISMO

Nessun apostolo vi mise mai piede, anche se la leggenda fa risalire ad Andrea la
nascita della chiesa a Bisanzio e, appena questa diventò Costantinopoli, vi furono
traslate le sue reliquie, insieme a quelle di molti altri santi. Era la mania
politico-religiosa di quei tempi: l’origine apostolica e le reliquie dei martiri
servivano a dare alla nuova capitale prestigio e autorità nei confronti con Roma.

Più tardi anche i sultani, in competizione con la Mecca, vi porteranno i peli della
barba di Maometto, conservati nella sala del tesoro del Topkapi con le reliquie del
Battista.

Leggende a parte, la chiesa di Costantinopoli mostrò subito spirito missionario,
mandando evangelizzatori oltre le frontiere dell’impero. Il vescovo Wùlfila, per 40
anni (341-383), trasmise il cristianesimo nella versione ariana ai goti e visigoti a nord
del Danubio, elaborò un alfabeto e tradusse la bibbia nella loro lingua. Più tardi
l’imperatore inviò altri missionari a evangelizzare i popoli russi e slavi, tra i
quali i due fratelli di Tessalonica, Cirillo (826-869) e Metodio (815-885).

Può sembrare strano che fossero gli imperatori a inviare i missionari. Con Costantino,
infatti, nacque il cesaropapismo: i sovrani controllavano l’attività della chiesa,
compresa quella spirituale; a partire dal 754 essi cominciarono a fregiarsi del titolo di
isapostoloi (uguali agli apostoli).

In un clima del genere, Costantinopoli diventò il brodo di cottura in cui si
svilupparono varie eresie (arianesimo, monofisismo, nestorianesimo, origenismo,
macedonismo, monotelismo, monoergismo, iconoclastia) con gravi ripercussioni sulla vita
della capitale, dell’impero e della chiesa universale. Gli stessi sovrani
parteggiavano ora per l’una ora per l’altra eresia. Grandi vescovi, del calibro
di Gregorio di Nazianzo e Giovanni Crisostomo, lottarono per restituire alla chiesa la
legittima autorità, ma pagarono il loro coraggio con esilio e persecuzioni.

Per riportare la pace nella chiesa e nella società civile, gli imperatori convocarono
vari concili ecumenici: quattro furono tenuti a Costantinopoli e tre nelle immediate
vicinanze (Nicea e Calcedonia). Se non altro, eresie, concili e dispute teologiche
contribuirono a fissare la formulazione della fede della chiesa universale. Ne è un
esempio il credo niceno-costantinopolitano, in cui si riconoscono tutte le chiese
cristiane.

Purtroppo non tutte le comunità accettarono le decisioni dei concili, più per
fraintendimento di parole che per divergenze teologiche. Intrighi e intrallazzi politici
fecero il resto: la chiesa si frantumò gradualmente in una miriade di comunità
scismatiche, fino alla rottura definitiva dello scisma d’oriente (1054).

UNA CHIESA FRAMMENTATA

"A Istanbul – spiega Alba, rispondendo alle domande dei missionari -sono presenti
tutte le chiese cristiane: ortodossi greci, armeni, siriani, bulgari, siro-caldei;
cattolici di rito latino, siriano, caldeo, bizantino, armeno; anglicani, luterani,
evangelici… per nominare i più importanti".

Importanza relativa, se si fanno i conti: su 70 milioni di turchi, il 99% si dichiara
musulmano; i cristiani tutti insieme arrivano a 100 mila; sottrai quasi 60 mila armeni e
circa 30 mila cattolici, delle altre chiese rimangono reliquie.

"In teoria la Turchia è uno stato laico; in realtà manca la libertà religiosa –
risponde Alba alla nostra tempesta di quesiti -. Qui laicità non significa separazione
tra stato e chiesa, ma che il governo amministra, sorveglia e controlla l’islam. Gli
80 mila iman, per esempio, sono in pratica funzionari statali; i programmi
d’insegnamento sono fissati dal governo; sulla carta d’identità è scritta la
religione di appartenenza: musulmano, ebreo, cristiano. Se un musulmano passa al
cristianesimo, incappa in seri guai burocratici e giudiziari".

A schiacciare le minoranze religiose si aggiunge la discriminazione: cariche pubbliche
civili e militari sono tutte in mano ai musulmani; negli ultimi 10 anni, in Turchia sono
state costruite 10 mila nuove moschee; a Istanbul sono state aperte 400 scuole coraniche.
Zero nelle altre chiese.

Quella cattolica romana, poi, si trova in stato d’inferiorità assoluta: non è
riconosciuta come istituzione religiosa, anche se la Turchia ha un suo ambasciatore in
Vaticano. Di conseguenza le proprietà della chiesa sono intestate a singole persone;
difficoltà per i missionari (anche se vescovi) di ottenere o rinnovare i permessi di
residenza nel paese; possibilità di essere cacciati in qualsiasi momento e senza
spiegazioni.

"Che apostolato potete fare" domandano quasi in coro i missionari ai padri
domenicani della chiesa dei ss. Pietro e Paolo. "Dialogo e testimonianza della
carità – risponde padre Lorenzo, torinese, da 17 anni in Turchia e professore di latino
all’Università islamica -. Da tre anni abbiamo istituito un centro di documentazione
per il dialogo islamo-cristiano che raccoglie informazioni sul cristianesimo: ce
l’hanno chiesto i nostri amici musulmani e lo frequentano abbastanza. Inoltre, come
insegnante di latino, ho tante occasioni per stimolare negli studenti il confronto tra la
cultura cristiana e quella islamica e per rispondere alle loro domande".

PAOLO VIVE…

Ad Antiochia (oggi Antakya), nell’estremo sud della Turchia, i missionari
pellegrini respirano a pieni polmoni l’atmosfera della missione delle origini. La
celebrazione della messa alla Grotta di san Pietro è densa di emozioni: qui, appena un
anno o due dopo la morte di Cristo, fu predicato il vangelo dai discepoli scappati dalle
persecuzioni di Gerusalemme; qui Baaba, Paolo, Luca, Pietro (primo vescovo di
Antiochia), il successore e martire Ignazio radunavano la comunità cristiana per
l’eucaristia. Qui Baaba e Paolo "in un anno istruirono tanta gente" che
"per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani": un capolavoro di
"visibilità", se in pochi mesi riuscirono a distinguersi tra mezzo milione di
abitanti.

Da Antiochia fu provocato il concilio di Gerusalemme per risolvere il primo problema di
"inculturazione" della storia missionaria: "I fedeli provenienti dal
paganesimo devono farsi prima giudei (circoncisi) e poi cristiani?". La risposta fu
una liberazione. Nella pratica però, Pietro continuava a snobbare i pagani e, proprio ad
Antiochia, si scontrò con Paolo: una dialettica sempre attuale, risolta nella carità.
Qui, infine, nacque "l’aiuto tra le chiese sorelle", con la prima colletta per
soccorrere la comunità di Gerusalemme, colpita dalla carestia.

Durante la messa risuonano le parole dello Spirito: "Mettetemi da parte Baaba e
Saulo per l’opera a cui li ho destinati"; i missionari si sentono ancora una
volta chiamati per nome e, come Baaba, Paolo, Marco, inviati dalla comunità a portare
il vangelo ai confini della terra.

ECUMENISMO OBBLIGATORIO

A richiamare tutti con i piedi per terra ci pensa il cappuccino italiano padre
Domenico: "Nei primi secoli Antiochia aveva cinque vescovi di altrettante chiese
separate; oggi è ufficialmente titolare di cinque patriarcati; ma i patriarchi risiedono
a Istanbul, Aleppo o Damasco. Siamo rimasti solo due preti, quello ortodosso e il
sottoscritto".

La comunità è formata da una sessantina di cattolici armeni, siriani, maroniti; ma è
frequentata anche da ortodossi. "Dialogo ecumenico e interreligioso sono le uniche
forme di apostolato in Turchia – continua il padre -. Non è possibile alcun annuncio
diretto. Evangelizzare è dire ciò che siamo, spiegare la nostra fede. Con gli ortodossi
i rapporti sono buoni e costruttivi: da alcuni anni abbiamo aperto l’ufficio della caritas
per aiutare i poveri della città; facciamo assieme la campagna di quaresima e celebriamo
la pasqua nella stessa data; la domenica facciamo il culto in orari differenti per evitare
competizioni; spesso celebriamo insieme funerali e matrimoni".

Padre Domenico ha pure organizzato corsi di catechesi per i giovani, frequentati da
50-60 persone quasi tutte ortodosse. "Hanno capito che il nostro scopo non è il
proselitismo, ma aiutare i cristiani ad essere più cristiani – continua il padre -. È un
nuovo modo di essere chiesa. In situazione di minoranza l’ecumenismo è
d’obbligo".

Anche con i musulmani i rapporti sono buoni: molti vengono a informarsi sulla fede
cristiana. Nella chiesetta parrocchiale il padre ha posto alcune icone e se ne serve per
spiegare e rispondere alle domande sul nostro credo. In fondo alla cappella ha messo a
disposizione copie del vangelo e video-cassette: vanno a ruba.

I NUMERI NON CONTANO

Dialogo ecumenico e interreligioso anche ad Alessandretta (Iskenderun). Il movimento
neocatecumenale è composto quasi totalmente da ortodossi; anche qui molti musulmani sono
attratti dal cristianesimo, racconta padre Roberto, cappuccino italiano da 50 anni in
Turchia.

Nella testa dei missionari pellegrini affiorano come un chiodo fisso le solite domande:
la comunità cresce? quante conversioni?

"La chiesa cattolica in Turchia è divisa in tre vicariati – risponde il padre,
girando alla larga -: Istanbul per la parte europea, Smie e Alessandretta per
l’Anatolia. Qui non contiamo mai i fedeli; non è il numero che fa la chiesa. Cerchiamo,
soprattutto, di fare coraggio ai cristiani; altrimenti emigrano, perché non vogliono che
i loro figli soffrano ciò che essi hanno patito. Ad ogni modo, abbiamo vari giovani nel
catecumenato, ma andiamo molto adagio a battezzare. Chi si fa cristiano ha vita
dura".

Alessandretta conta circa 200 cattolici; poco più di un migliaio l’intero
vicariato. "Poi ci sono i cristiani nascosti, battezzati da bambini – continua il
padre -; ma hanno paura di manifestarsi, non tanto dello stato, ma dei parenti, società e
altre chiese".

Intanto l’afflusso di pellegrini che visitano i "luoghi santi" nel paese
serve a risvegliare i cristiani turchi, che non si sentano più soli e stanno riscoprendo
le radici della loro fede.

"MAMMA, LI CROCIATI!"

Lo sperano anche Emmanuela e Maria, due "Figlie della chiesa", che da sei
anni testimoniano la carità e accolgono i pellegrini a Tarso. "Non conosciamo ancora
alcun cristiano – dice Maria -. Forse ci sono. La vista di tanti cristiani potrebbe dare
loro coraggio per venire allo scoperto: allora si potrebbe raccogliere le firme per
chiedere il permesso di celebrare regolarmente i servizi religiosi in questa chiesa e
magari riscattarla".

Infatti, la chiesa dove celebriamo l’eucaristia, costruita dai crociati, è stata
requisita e dichiarata museo: per ogni azione di culto bisogna chiedere il permesso e le
chiavi al direttore. I tentativi fatti dal vescovo per comprarla sono andati a vuoto.
"La nostra presenza rinfocola paure secolari – spiega la suora -. Noi diciamo
"mamma li turchi"; essi rispondono "mamma li crociati"".

I missionari si tuffano nella memoria di san Paolo: visitano il pozzo che porta il suo
nome; baciano le pietre della strada romana da lui calcate… ma con un groppo in gola:
nella città dove l’apostolo nacque e predicò il vangelo almeno in due occasioni dei
suoi viaggi missionari, non è sopravvissuta neppure la reliquia di un mattone che possa
dirsi cristiana.

Anche a Iconio (Konya) i pellegrini devono accontentarsi della memoria, rinfrescata
dalla lettura degli Atti degli Apostoli: qui Paolo e Baaba predicarono a lungo nel loro
primo viaggio missionario (47 d.C.); fecero molti discepoli tra giudei e greci, suscitando
la rabbia degli "integralisti" ebrei, che decisero di lapidarli.

I due apostoli fecero in tempo a scappare; ma i più facinorosi li inseguirono per una
trentina di chilometri, fino a Listra: trascinarono Paolo fuori della città e lo
tramortirono a sassate. Ma alla fine del viaggio, tutti e due tornarono a Iconio per
rincuorare e organizzare la comunità, dicendo loro che "bisogna attraversare molte
tribolazioni per entrare nel regno di Dio".

Sono parole che i missionari sanno a menadito; ma rileggerle nel luogo dove Paolo le
visse sulla propria pelle fa un certo effetto, anche in quelli un po’ fissati con i
numeri di battesimi e successi a buon mercato.

A ricordare le tracce di san Paolo rimane una chiesa, costruita agli inizi del 1800,
dove si può pregare a volontà, senza bisogno di permessi. Nell’abside spiccano le
immagini di Paolo, Timoteo, suo grande collaboratore, e santa Tecla, nativa di Iconio,
discepola paolina e grande missionaria. Ma la comunità attuale è ridotta a cinque o sei
cristiani, tra cui due suore trentine, Isabella e Serena.

Dopo 2000 anni Iconio non si smentisce: è la città più conservatrice e integralista
della Turchia: s’incontrano donne velate da capo a piedi; la maggioranza dei
ristoranti non servono alcolici. In casa le suore indossano una croce; quando escono la
tolgono. Non per paura di essere lapidate. "La gente è gentile – spiega Isabella -.
Ma la legge vieta abiti e simboli religiosi e ideologici. La nostra è una presenza
discreta, fatta di accoglienza e contemplazione".

ESSERCI O NON ESSERCI?

A 230 km incontriamo un’altra presenza discreta: Heirich e David, laici trentini
della "Comunità di san Valentino", che da sei anni vivono a Uçhisar, nel cuore
della Cappadocia, dediti alla preghiera, ascolto della parola di Dio e della gente.
Insieme alle suore di Iconio, sono stati inviati qui dal vescovo di Trento, come gesto di
riconoscenza per il dono della fede, seminata in Val di Non da tre missionari cappadoci:
Sisinio, Martirio e Alessandro, martirizzati nel 397.

In questa regione turca il vangelo arrivò molto presto: il giorno di pentecoste a
Gerusalemme c’erano "abitanti della Cappadocia". Forse tra i primi
missionari arrivarono anche Pietro, partendo da Antiochia, e Paolo, in viaggio verso la
Galazia.

È certo che la fede vi si radicò in profondità, fecondata dal sangue di numerosi
martiri e illuminata da vescovi dotti e dinamici, come i padri cappadoci: Basilio di
Cesarea, suo fratello Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo. Al Concilio di Nicea (325)
la Cappadocia era presente con 7 vescovi (di città) e 5 corepiscopi (di campagna).
All’inizio del IV secolo i missionari cappadoci erano arrivati ai confini
dell’impero e oltre: il vescovo Gregorio Illuminatore, per esempio, evangelizzò
l’Armenia.

Al tempo stesso ci fu una straordinaria fioritura di anacoreti, dediti alle forme più
fantasiose dell’ascesi cristiana: stiliti, reclusi, incatenati, solitari, senza
tetto, muti… San Basilio li mise in riga. "La vita solitaria è oziosa e senza
frutto, contraria al vangelo e alla natura sociale dell’uomo – diceva -. Solo la vita
comunitaria obbedisce al comandamento dell’amore verso Dio e verso gli altri". E
dettò le regole del monachesimo cristiano: piccole comunità di preghiera, servizio ai
poveri, malati, viandanti, avviamento al lavoro, missione e cura spirituale delle anime.

I pellegrini incassano la lezione: il missionario è un "contemplativo in
azione".

Ad attestare l’enorme sviluppo dell’eremitismo e monachesimo nelle valli
lunari della Cappadocia restano innumerevoli monasteri scavati nel tufo: attorno a Goreme
si contano 2 mila chiese rupestri. La resistenza dei cristiani alle invasioni arabe è
testimoniata dalle immense città-rifugi scavate sotto terra. Ma poi, sotto il rullo
compressore dei turchi selgiuchidi e ottomani non si salvarono neppure gli angeli, madonne
e santi, che decorano le chiese: in obbedienza al corano, che vieta ogni raffigurazione
umana, le loro facce furono prese a sassate.

"Siamo qui non per fare, ma per essere, anzi per "esserci" – spiega
fratel Davide -. Il ritmo di vita (5 ore di preghiera al giorno, lavoro di casa e
disponibilità) è un filo ideale che ci riallaccia ai monaci dei primi secoli; essendo
gli unici cristiani in Cappadocia, rendiamo presente Gesù col nostro esserci, aspettando
che il Signore realizzi i suoi piani".

Guardo le facce dei miei confratelli: gli occhi sbarrati per l’ammirazione; le
labbra torcono come se succhiassero un chiodo.

MERYEM ANA, PENSACI TU!

Il nostro pellegrinaggio si conclude a Efeso e sono emozioni a non finire. Prima di
tutto le rovine della grandiosa basilica fatta costruire dall’imperatore Giustiniano
(540) sulla tomba dell’evangelista Giovanni. In ginocchio sulla predella
dell’altare, mi pare di sognare: a pochi centimetri ci sono le reliquie del discepolo
prediletto. Vorrei dirgli tante cose, ma non mi riesce di formulare neppure una parola. E
resto in silenzio.

Passiamo alle splendide rovine della città greco-romana. Centinaia di europei,
americani e giapponesi si aggirano per le strade, come se Efeso fosse per incanto tornata
la città cosmopolita di 2 mila anni fa. E sembra di rivedere Paolo, che percorre le
stesse vie per recarsi alla sinagoga e, tre mesi dopo, quando i giudei gli rendono
difficile la vita, si sposta nella scuola di Tiranno: qui, dalle 11 alle 16, ogni giorno e
per tre anni, discute con una folla di artigiani che sacrificano la siesta per ascoltare
la buona notizia.

La fantasia non ha freni quando ci sediamo sui gradini del teatro: il battagliero Paolo
affronta l’ira di commercianti e argentieri che lo vogliono linciare: lo accusano di
mandare in malora i loro affari, poiché la gente non compra più statue e ricordini della
dea Artemide.

Nella cosiddetta basilica del concilio, prima chiesa al mondo dedicata alla Madonna, al
ricordo di Paolo si sovrappone quello di 200 vescovi, radunati (431) per controbattere le
teorie di Nestorio, patriarca di Costantinopoli: costui afferma che bisogna chiamare Maria
"Madre di Cristo" e non "Madre di Dio". Non è una quisquiglia: è in
gioco il mistero dell’incarnazione. Ma basta una sessione e i vescovi, con a capo
Cirillo di Alessandria, riaffermano unanimi che la Madonna è realmente la Theotokos
(Madre di Dio) e solennizzano l’evento con una fiaccolata in suo onore per le vie
della città.

<font face="Taho

Benedetto Bellesi




Colombia: Il governatore che sfida la storia

Una storia che significa violenza,
narcotraffico, ingiustizia. Lui si chiama Floro Alberto Tunubala Paja e appartiene
all’etnia "guambiana". Tra i potenti non ha molti amici. I paramilitari,
squadroni della morte assoldati da industriali e latifondisti, lo minacciano; i
guerriglieri delle Farc lo guardano con sospetto. Intanto, per difendersi dalle
aggressioni dei paramilitari, le comunità indigene hanno costituito una "guardia
civica", composta da volontari armati di… bastone. La strategia non violenta
adottata dagli indios ha già ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali e inteazionali.
Ma riusciranno a sopportare il peso di una partita tanto difficile?

 

All’inizio del nuovo secolo, per la prima volta nella sua storia, il dipartimento
del Cauca ha conosciuto un governatore indigeno. È Floro Alberto Tunubala Paja,
dell’etnia guambiana. È stato eletto nel mese di ottobre dell’anno scorso ed ha
cominciato a governare dal 1° gennaio di quest’anno.

L’elezione di Floro è avvenuta grazie a una coalizione che ha il suo punto di
aggregazione nel territorio di convivenza e pace della Maria Piendamo (**). Lì diversi
gruppi etnici (indigeni nasa-paeces, guambiani, negri, meticci), campesinos, lavoratori e
persino un gruppo di gente del mondo finanziario di Popayan (capoluogo del dipartimento)
hanno formato una coalizione, che è risultata vincitrice nelle elezioni. Tutti si sono
trovati concordi nell’unire le forze per cercare una soluzione a una situazione che
andava di male in peggio e una scena politica che non mostrava alcun segno di cambiamento
per il futuro.

Inutile dire che l’oligarchia di Popayan è rimasta a bocca aperta, perché non si
aspettava che vincesse le elezioni un indio (ancora oggi, questi è guardato con
alterigia, per non dire disprezzo) e neppure che vincesse un gruppo senza un referente
politico tradizionale.

Per loro sfortuna, all’inizio di quest’anno Floro è riuscito a formare in
seno al consiglio un gruppo di maggioranza che è dalla sua parte e che si professa
alternativo.

TRAGEDIA INDIGENA,

PROFITTI INDUSTRIALI

La situazione del Cauca non è certamente rosea. Il dipartimento presenta un debito
altissimo. C’è il problema della guerriglia e del narcotraffico, che si somma ai
consueti problemi (disoccupazione, fame, mancanza di educazione e salute ecc.). C’è
infine la cosiddetta "legge paez", una delle cause dell’esplosione di
violenza nella regione.

Questa legge è stata varata dopo il terremoto e la tragedia del fiume Paez in
Tierradentro, avvenuti il 6 giugno del 1994. La legge prende il nome degli indigeni del
luogo (che oggi preferiscono chiamarsi nasa), ma non comprende il loro territorio, troppo
impervio. Il relatore era un senatore liberale di nome Iragorri Hoaza.

Questo signore, un politico di vecchia data, si accorse che la zona industriale di
Yumbo, alla periferia di Cali, non poteva più ospitare fabbriche per motivi di
inquinamento e di spazio. Il senatore propose allora di portare le industrie nelle zone
più pianeggianti del vicino Cauca. Egli fece approvare una legge che incentivava chi
volesse costruire in quelle zone: crediti bancari agevolati, esenzione dalle imposte per
10 anni, acquisto della terra a buon prezzo.

Nella "legge paez" rientrano alcuni comuni, come Santander de Quilichao,
Caloto, Corinto, Miranda, Suarez, Buenos Aires e molti altri che si trovano nella parte
pianeggiante.

Per poter approfittare della legge e investire i loro capitali, gli industriali
volevano che ci fosse anche sicurezza e stabilità politica. Ma nella regione sono
presenti tutti i gruppi armati colombiani, che hanno scelto la zona per la facilità di
raggiungere altre parti del paese senza correre grossi rischi.

LA FEROCIA

DEI PARAMILITARI

Per garantire la stabilità, gli industriali e i grossi commercianti hanno pensato di
agire in proprio, organizzando gruppi paramilitari, anche conosciuti come squadroni della
morte. Dalla fine dell’anno scorso, i paramilitari hanno cominciato a fare pulizia,
sequestrando e uccidendo moltissime persone. Secondo dati ufficiali nei primi 4 mesi del
2001 nel nord del Cauca i paramilitari (e, in misura minore, la guerriglia) hanno già
ucciso più di 500 persone.

Hanno minacciato e continuano a minacciare il neogovernatore Floro. Hanno ucciso e
continuano a uccidere gente in Santander de Quilichao, Caloto, Corinto, Timba, Suarez,
Buenos Aires. I paramilitari sono persino arrivati alla Costa Naya, per raggiungere la
quale occorrono due giorni di cammino. Lì hanno massacrato più di 50 persone (secondo i
dati del governo) e le hanno tagliate con una motosega. Molti altri, che non sono
rientrati nei conteggi del governo, sono stati buttati giù dai burroni che si incontrano
in questo territorio. Questo è stato il massacro più orrendo fino ad oggi.

L’obiettivo dei paramilitari è la difesa del capitale industriale. Per
raggiungere questo scopo, i gruppi mercenari attuano una sorta di pulizia generale
preventiva: eliminano drogati, ladruncoli, persone incomode e, naturalmente, chiunque
abbia idee vicine a quelle della guerriglia marxista. Il problema è che in questo modo i
paramilitari stanno uccidendo moltissima gente innocente. A Santander de Quilichao non si
può camminare con sicurezza: molti indigeni, arrivati dalle montagne per il mercato,
vengono sequestrati per avere informazioni o per essere arruolati con loro.

Dall’altra parte, c’è la guerriglia delle Farc. Siccome non si sa come
andranno a finire i dialoghi di pace nel Caquetà, molti guerriglieri si stanno spostando
su queste montagne e cercano di convincere le comunità indigene a schierarsi dalla loro
parte. Ma gli indigeni resistono e con più insistenza rivendicano la loro autonomia
territoriale. Per questo non vogliono che alcun gruppo armato entri in terra di resguardo
(la riserva indigena).

Poiché nella zona montagnosa si muove la guerriglia, i paramilitari accusano gli
indios di essere guerriglieri e quando possono li sequestrano o li uccidono. D’altra
parte, per il fatto che le autorità indigene sono andate a cercare sulle rive del fiume
Cauca (verso Timba) la gente sequestrata dai paramilitari, la guerriglia accusa le
autorità indigene di essere amici di questi. Insomma, come si può comprendere, gli
indios si trovano tra l’incudine e il martello.

LA GUARDIA INDIGENA

E IL BASTONE DELLA PACE

In mezzo a tutto questo, i diversi governatori dei cabildos (qui opera la ACIN, che è
il gruppo dei 15 cabildos della zona nord), a cominciare dal cabildo indigeno di Jambaló
(dove chi scrive opera), hanno organizzato una guardia civica, la quale controlla le vie
di accesso al resguardo, chiudendo il transito a moto, macchine, persone a piedi o a
cavallo dalle 6 del pomeriggio alle 4 del mattino.

Questa guardia civica è volontaria ed è formata da gente della stessa comunità.
Tutte le sere si ritrova nei punti strategici, mette un grosso tronco di albero in mezzo
alla strada e semina chiodi. Altri volontari perlustrano i diversi sentirneri per vedere se
incontrano gente forestiera. Se si trovano persone della stessa comunità si trattengono
fino al mattino, così che le fila dei vigilanti si ingrossano.

Poiché la guardia è civica, non si usano armi. L’unica arma, se così si può
chiamare, è un bastone di un metro.

Quando si è promossa l’idea di questa guardia, sono sorti molti interrogativi. Il
più forte era cosa avrebbero potuto fare delle guardie armate soltanto di bastone di
fronte a gente (guerriglia, esercito, paramilitari) che impugna armi. La risposta è stata
che la vera arma della guardia è l’appoggio di tutta la comunità e che gli indigeni
non devono lasciarsi coinvolgere nella violenza. Si sono fissate alcune strategie per
avvisare la gente in caso di pericolo affinché abbia il tempo per nascondersi. I
volontari che si stanno prestando a questo servizio lo fanno con molta responsabilità,
coscienti dei pericoli che si corrono, ma senza paura.

Diceva una guardia in una riunione: "Mi possono anche uccidere, però è
importante che si salvino gli altri della comunità". Un altro diceva: "La cosa
più importante è il piano di vita che abbiamo predisposto come comunità. Noi ci
muoviamo sempre in gruppi numerosi: potranno uccidere qualcuno, però non riusciranno a
ucciderci tutti".

Fino ad oggi, la guardia civica ha già avuto degli scontri verbali con la guerriglia
che non voleva rispettare i posti di blocco. Però la stessa guerriglia si rende conto che
la gente è a favore del cabildo e della guardia e non dei gruppi armati. Sapendo il
pericolo che corre la popolazione civile, i cabildos si stanno adoperando per avere un
appoggio nazionale e internazionale.

TRA MARCE E PREMI,

LA STRATEGIA INDIGENA

A livello nazionale, l’anno scorso, il "progetto Nasa", come
rappresentante di tutti i progetti della zona nord, ha ricevuto il premio nazionale per la
pace e questo riconoscimento ha fatto risuonare una volta in più la voce e la presenza
delle comunità indigene nel paese.

Nel marzo di quest’anno si è tenuto l’XI Congresso del CRIC
(l’organizzazione indigena del Cauca, fondata 30 anni fa), con la presenza di 80
cabildos e di molte organizzazioni nazionali e inteazionali (in maggioranza Ong) e uno
dei temi è stato quello dell’ordine pubblico. Come impegno e conclusione di questa
riflessione sono nate due marce. La prima era per protestare contro l’uccisione di 8
studenti nel parco nazionale di Purace per mano delle Farc; la marcia si è fatta nella
settimana santa ed è terminata con una eucaristia la domenica di Resurrezione nel parco
dell’eccidio.

L’altra marcia, che aveva per nome "Convivenza senza violenza", si è
realizzata dal 14 al 18 maggio, partendo da Santander de Quilichao e terminando a Cali con
una udienza pubblica per protestare contro la violenza che sta colpendo i dipartimenti del
Cauca, Valle e Narino; per richiamare l’attenzione delle autorità sulla situazione
che stanno vivendo le persone di queste regioni; per denunciare di fronte agli organismi
inteazionali le continue violazioni dei diritti umani; per sottolineare
l’indifferenza del governo su questi fatti ed esigere misure di protezione per tutta
la gente che si trova minacciata.

La partecipazione della gente è stata straordinaria. Alla marcia da Santander a Cali
hanno partecipato 40.000 persone: c’erano indigeni, campesinos, gruppi urbani, negri
e tutte le persone che sono state toccate dalla violenza. Hanno accompagnato la marcia
anche alcune suore, sacerdoti e logicamente tutta la nostra équipe missionaria.

A livello internazionale, c’è stato un incontro in Canada tra indigeni e
rappresentanti di varie organizzazioni, non solo colombiane.

Ezequiel Vitonas (ex sindaco di Toribio) ha espresso la posizione politica delle
comunità indigene, difendendo la loro autonomia. Ha messo in risalto come sia il governo
colombiano sia la guerriglia non vogliano che gli indigeni sopravvivano in Colombia con il
loro piano di vita (ovvero i piani di sviluppo da loro elaborati). L’esposizione di
Ezequiel ha attirato le critiche di chi aveva sostenuto che la guerriglia difende gli
interessi dei poveri e quindi anche degli indigeni.

Ezequiel ha ribattuto che gli indigeni sono autonomi e si difendono da soli e non hanno
bisogno della guerriglia. Questo battibecco ha fatto sì che i guerriglieri delle Farc
mettessero in internet (in molte lingue, tra le quali l’italiano), che il CRIC li sta
calunniando, accusandoli di uccidere e minacciare leaders indigeni.

Sempre nell’ambito della marcia internazionale, grazie alla signora Martha
Cardenas della Ong FESCOL, i giorni 7 e 8 giugno a Maria Piendamo e a Toribio ci hanno
visitato il famoso giudice spagnolo Baltazar Garzon, il rappresentante dei diritti umani
dell’Onu Anders Compas, quello della cooperazione spagnola Vicente Selle e altre
personalità dell’ambasciata di Spagna per raccogliere informazioni sui massacri che
si sono avuti in questo periodo. Il giudice Baltazar Garzon, nell’ascoltare le
testimonianze della gente del Naya, ha commentato che questi massacri sono peggiori di
quelli imputati al dittatore cileno Pinochet.

Nella riunione che il giorno 8 si è tenuta nel CECIDIC, la comunità ha nominato tutte
queste personalità come ambasciatori degli indios nei loro posti di responsabilità e
nelle loro nazioni.

Con queste iniziative, si vogliono rivendicare i diritti dei popoli indigeni. Si
capisce con chiarezza che gli indigeni colombiani stanno cercando di costruire una
società civile fondata sul dialogo e non sulla violenza.

ACCOMPAGNAMENTO

In un contesto tanto difficile, l’équipe missionaria sta accompagnando la
popolazione, cercando di illuminare la situazione con la testimonianza di Gesù e del suo
Regno in tempi di conflitto.

Si fanno corsi per i volontari della guardia civica su relazioni umane ed etica. Si
cerca di dare concreto appoggio alle famiglie che sono state colpite dall’uccisione
di qualche loro membro. Con le autorità locali si vanno a cercare le persone sequestrate.
Purtroppo, nella maggioranza dei casi, si ritorna a mani vuote. Però anche questo,
pensiamo, è la dimostrazione che non ci vogliamo rassegnare a perdere gente e a restare
passivi davanti alla situazione.

Rinaldo Cogliati