GUERRA AFGHANA/ Incontro con Giulietto Chiesa

SEMPRE BUGIE ANCORA BUGIE

I taleban sono nati
con l’assenso del Pakistan e, di conseguenza, degli Stati Uniti. La guerra
afghana ha coperto le gravi responsabilità di Washington. Anche con la
connivenza del sistema mediatico mondiale, che ha lavorato per dimostrare
la «bontà» del conflitto. Diamo spazio      a una voce libera, forte e
preparata che non teme di parlare «contro». Non per partito preso, ma
prove alla mano.

Al termine della
conferenza abbiamo rivolto qualche domanda al giornalista e scrittore
genovese.

«Non abbiamo vinto
niente, nel senso che gli obiettivi che erano stati proclamati,
innanzitutto la cattura di Osama Bin Laden e del mullah Omar, non sono
stati raggiunti, ma questi sono dettagli secondari_ Io credo che Bin Laden,
prima o dopo, lo uccideranno.

Il resto è
completamente lasciato all’equilibrio delle potenze estee
all’Afghanistan , come è sempre accaduto. L’Afghanistan è sempre stato in
guerra in questi anni (1), perché dall’esterno si è imposta la guerra: 
questo per varie ragioni.

È vero che
l’Afghanistan era divenuto un covo terroristico internazionale. È vero che
Al Qaeda questo faceva; io ne sono testimone diretto; però non vi è il
minimo dubbio che i taleban siano stati costruiti con l’aiuto diretto,
senza equivoci, senza mediazioni, dei servizi segreti pakistani e di
quelli arabo-sauditi.

Ora, dato che non
si può neanche lontanamente dubitare che i servizi segreti americani
fossero a contatto diretto con i servizi segreti pakistani e
arabo-sauditi, si giunge alla conclusione induttiva che la nascita del
movimento dei taleban è avvenuto con il consenso degli Stati Uniti.

Certo, la
situazione gli si è rivoltata contro, ma loro l’hanno sfruttata il più
possibile finché gli conveniva. Per esempio, Al Qaeda e Osama Bin Laden
sono stati utilizzati per supportare i guerriglieri albanesi dell’UCK, che
(come si sa bene) è stata armata e finanziata dagli statunitensi. Insomma,
servivano per operazioni di sovversione e loro contavano di poterlo fare
tecnicamente. Tutte le tesi secondo cui bisogna colpire l’Afghanistan per
colpire il terrorismo sono tesi faziose, unilaterali, che nascondono la
verità.

La guerra afghana è
stata una grande, drammatica, terribile  cortina fumogena per nascondere
le responsabilità degli Stati Uniti».

Quindi, se non ci
fosse stato l’«Undici settembre», in Afghanistan nulla sarebbe cambiato?

«Assolutamente no.
Se non ci fosse stato l’11 settembre a costringere il presidente Bush a
fare “qualcosa”, non è escluso che avrebbero addirittura provato a
riutilizzare i taleban per fare passare attraverso l’Afghanistan il
petrolio del Caspio.

La califoiana
Unocal (il cui consulente principale è nientemeno che Henry Kissinger) e
Delta Oil (di proprietà della famiglia reale saudita) hanno lavorato per
questo fino al 1997-’98.

Non ci sono
riusciti, perché i russi hanno capito che questa era un’operazione contro
di loro. Far passare il petrolio attraverso l’Afghanistan era anche un
modo per dare un duro colpo alla presenza russa, privandola del controllo
sulla regione e di importanti royalties.

Ci sarà pace in
Afghanistan? Alla domanda si può rispondere dicendo che dovrà reggere una
politica di equilibrio tra Usa, Russia, Pakistan ed Iran».

È una guerra
keynesiana? (2)

«La linea americana
della totale deregulation del mercato non funziona più. Allora, un
neokeynesismo di guerra può essere la soluzione.

Duecento miliardi
di dollari da investire in campo militare (3), possono rimettere in piedi
le grandi compagnie industriali e la finanza americana. In questo modo è
possibile rilanciare anche la new economy, bisognosa di investimenti in
campo altamente tecnologico.

Sicuramente gli
Stati Uniti otterranno un risultato: un vallo enorme in campo tecnologico
con il resto del mondo. Nessuno potrà competere con gli Usa nel settore
della tecnologia fra dieci anni. Forse solo la Cina. La guerra serve anche
a questo».

Informazione,
disinformazione, non informazione: quale aspetto principale in questi mesi
di guerra?

«Io direi
soprattutto disinformazione. In questa guerra hanno contato di più i “B52”
dell’informazione mondiale che non i “B52” veri. Questa guerra, come
quella del Kosovo, non ci sarebbe stata se non esistesse un mondo
mediatico totalmente al servizio degli Stati Uniti. Se non ci fosse stata
una formidabile virtualizzazione di tutto quello che sta accadendo. A
partire dall’11 settembre.

Da questo momento
in poi possiamo dire che il sistema informativo mondiale sarà l’arma
numero uno di tutte le guerre future. Porto ancora un esempio: dopo la
presa di Kabul i giornali, le televisioni ci hanno bombardato con la
notizia che in Afghanistan le donne si erano tolte il burqa e gli uomini
tagliati le barbe.

Falso,
completamente falso. Le donne non potranno togliersi il burqa per molto
tempo ancora. Perché è una tradizione culturale vecchia di secoli, voluta
dagli uomini, anche dai mujaheddin.

Addirittura comica
poi la storia delle barbe. In Afghanistan la barba è un importante
indicatore di chi si è: la barba indica l’età, il ceto sociale, la
ricchezza, la povertà, l’istruzione, a quale etnia si appartiene. È
evidente quindi che in questo caso, oltre a fare una violenza
all’informazione, si è fatta violenza alla cultura di un popolo.

Perché queste
grossolane bugie? Per far vedere allo spettatore occidentale la “bontà”
della “guerra giusta”? Allora io mi domando: se ci hanno mentito su questi
aspetti d’immagine cosa sarà allora delle questioni serie?».

Può esistere
un’informazione indipendente dal basso, come, ad esempio, fanno Indymedia
o le Voci dell’Italietta? (4)

«Tutto può essere
utile a creare menti indipendenti. Io però non sono dell’opinione che la
controinformazione di per sé sia sufficiente.

Anzi potrebbe
essere pericolosa quanto un’illusione. Perché se resta tale, essa si sarà
ritagliata soltanto uno spazio di autonomia: una specie di “riserva
indiana” assediata, nella quale si potrà dire tutto.

Tutti coloro che
hanno a cuore la democrazia, il pluralismo, che hanno capito cosa sta
accadendo devono affrontare il problema di un’organizzazione per il
controllo democratico. Sarà un percorso molto difficile ma indispensabile.
Come? Ci sono tanti modi diversi: moltiplicando i centri studi, facendo
controinformazione, manifestando il dissenso, mobilitando gli
intellettuali ed i giornalisti nauseati da questa informazione.

Dobbiamo investire
il sistema mediatico con una pressione costante, coinvolgendo le reti dei
consumatori o del consumo equo e solidale. In poche parole, organizzando
delle lobby di pressione, nelle quali convergano realtà diverse e dove
nessuno dia ordini, ma vi sia un solo fine chiaro per tutti».

Come sta reagendo il
mondo cattolico in questo momento?

«Il mondo cattolico
è attualmente una delle realtà più vive in Italia. Io lo incontro ovunque
durante i miei spostamenti per il paese. Sono cadute tutte le barriere
ideologiche, non esiste una situazione che escluda qualcuno. Credo che la
vitalità intellettuale del mondo cattolico sia una delle novità più
interessanti, e in una prospettiva di rinascita esso sia decisivo».

Il piccolo
consumatore occidentale cosa può fare in questo momento storico?

«Il cittadino
consumatore può incominciare a consumare in modo alternativo e critico.

Noi non abbiamo
avuto, in Italia, un’esperienza come quella degli Stati Uniti, nella quale
gruppi di pressione (che possono pure sembrare marginali) hanno creato
molti problemi alle imprese multinazionali che dettano legge nella nostra
vita quotidiana.

Gli americani hanno
dimostrato che soggetti apparentemente inattaccabili, se sottoposti a
controllo popolare, tramite il consumo critico, risultano molto più
vincolati verso le questioni democratiche ed ambientali.

Io non sono
assolutamente contro il capitalismo. Semplicemente sono per una civiltà:
la civiltà degli uomini. Può esistere una civiltà degli uomini con questo
capitalismo che vìola i diritti e che è all’origine della minaccia della
democrazia?

Perché non unirsi
alla sfida di un grande movimento come quello di Porto Alegre, un
movimento che accerchia il sistema in maniera imprevedibile e pacifica,
facendo prevalere un’altra scala di valori?

La parola d’ordine
di Porto Alegre quest’anno (5) era: “Un altro mondo è in costruzione” ed è
questo che dobbiamo fare».


Note:

la
necessità dell’intervento pubblico nell’economia per incentivare lo
sviluppo.

 


Su pressione degli
Stati Uniti


Mary Robinson
licenziata (senza giusta causa)

Un
riquadrino sul quotidiano «La Repubblica». I media europei hanno ignorato
quella che, a buon diritto, si può considerare una delle notizie più
inquietanti, a livello mondiale, di questo già inquietante 2002.

Mary
Robinson non ripresenterà la propria candidatura alla carica di
responsabile dell’«United Nations High Commissioner for Human Rights» (UNHCHR),
l’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani. Normale avvicendamento?
Stress? È bene ricordare chi sia Mary Robinson e soprattutto cosa abbia
fatto nella vita.


Irlandese, avvocato, ha coperto la carica di presidente della Repubblica
d’Irlanda dal 1990 al 1997, anno in cui è stata chiamata a presiedere
l’UNHCHR.

Dal
giorno della nomina Mary Robinson ha iniziato a battersi (con campagne di
pressione e denuncia) contro le gravi violazioni dei diritti umani in
moltissimi paesi del mondo. Ad esempio, in Sierra Leone e in Congo, dove i
signori della guerra erano colpevoli d’atrocità verso la popolazione
civile.

E poi
ancora le fortissime pressioni sul governo russo, accusato di portare
avanti, nel silenzio assoluto, una furiosa guerra etnica in Cecenia; i
richiami per il rispetto dei diritti umani in Cina; le denunce di violenze
e torture durante le elezioni presidenziali del 1999 in Messico; le
critiche al governo colombiano, colluso con le squadracce di paramilitari
che scorrazzano impunemente per il paese.

Luoghi
lontani, problemi lontani, dei quali in fretta si perdono le tracce nel
tourbillon di notizie da cui tutti i giorni lo spettatore occidentale
viene sommerso. Ma dichiarazioni di fuoco Mary Robinson non le ha usate
solo verso paesi sostanzialmente «innocui», ma anche nei confronti di «pesi
massimi», quali Stati Uniti ed Israele.


Dissenso e condanna verso gli Stati Uniti, che con le nuove leggi
antiterrorismo volute da Bush sarebbero autorizzati a prelevare
segretamente qualsiasi cittadino del mondo e, una volta portato in
territorio USA (inclusa una nave), a processarlo ed eventualmente
condannarlo a morte senza appello; e poi ancora uno scontro con il governo
statunitense, quando Mary Robinson ha richiesto la cessazione dei
bombardamenti sull’Afghanistan, causa di innumerevoli vittime fra i civili.

Da
ricordare, inoltre, i problemi sorti durante la Conferenza mondiale contro
il razzismo, svoltasi a Durban in Sud Africa nel settembre 2001 ed
organizzata dall’UNHCHR con la presenza di 160 paesi. Nelle bozze del
testo da usare come piattaforma programmatica Israele veniva definito,
senza giri di parole, come un paese «razzista colpevole di atti di
genocidio nei confronti del popolo palestinese».

Nel
medesimo documento si definiva la schiavitù come «crimine contro l’umanità»
e si chiedeva agli stati occidentali, in particolare ai membri del G7 «plasmati
da secoli di razzismo», di riconoscere le proprie colpe e di scusarsene.

La
sdegnata reazione da parte di Israele e Stati Uniti (ovvero il
boicottaggio dei lavori, definito deplorevole dallo stesso Kofy Annan,
segretario generale dell’Onu) ha portato all’annacquamento del documento
finale, con i paragrafi scomodi semplicemente cancellati.

«Sarò
la voce delle vittime», disse nel 1997 appena nominata responsabile
dell’UNHCHR. Ed ora Mary Robinson, voce dei senza voce, paga il conto.

«Non mi
aspetto di avere rapporti facili con i governi. Questo fa parte del mio
mestiere. Un ruolo difficile che richiede un approccio globale, perché
deve mantenere un equilibrio non solo tra le diverse regioni del mondo, ma
anche nei rapporti con i governi, con i quali bisogna lavorare senza però
aver paura di denunciare, quando necessario, le violazioni dei diritti
umani. È una delle sfide del mio mandato, ma ricompensa grandemente della
fatica», disse ai giornalisti che la intervistarono nel 1997 quando vinse
il premio «Europeo dell’Anno».

Oggi
gli Stati Uniti, facendo pressione direttamente sul segretario generale
Kofi Annan, hanno ottenuto la non-riconferma della Robinson, attraverso la
formula della «rinuncia volontaria» (!).

Una
sconfitta per tutti, non solo per la signora Mary Robinson.

Ma.Pa.

Sfogliando s’impara… da
«La rabbia e l’orgoglio»


«
Lo scontro
tra noi e loro
»

Dacché
i figli di Allah hanno semidistrutto New York, gli esperti dell’Islam non
fanno altro che cantarmi le lodi di Maometto… Ma in nome della logica:
se questo Corano è tanto giusto e fraterno e pacifico, come la mettiamo
con la storia dell’Occhio-per-Occhio-e-Dente-per Dente? Come la mettiamo
con la faccenda del chador anzi del burkah?… Come la mettiamo con la
poligamia e col principio che le donne debbano contare meno dei cammelli?…
Come la mettiamo con la storia delle adultere lapidate o decapitate?…

Io non
vado a rizzare tende a La Mecca. Non vado a cantare Pateostri e Ave
Marie dinanzi alla tomba di Maometto. Non vado a fare pipì sui marmi delle
loro moschee. Tanto meno a farci la cacca… E mentre l’immagine dei due
grattacieli distrutti [di New York] si mischia all’immagine dei due Buddha
ammazzati [in Afghanistan], ora vedo anche quella, non apocalittica ma per
me simbolica, della gran tenda con cui due estati fa i mussulmani [sic]
somali (paese in gran dimestichezza con Bin Laden, la Somalia, ricordi?)
sfregiarono e smerdarono e oltraggiarono per tre mesi e mezzo piazza del
Duomo a Firenze. La mia città…

Avrà
notato, signor cavaliere [Berlusconi], che io non Le rinfaccio la Sua
ricchezza… Io non Le rinfaccio neanche il particolare di possedere tre
canali televisivi… No, no: la colpa che Le rinfaccio è un’altra. Eccola.
Ho letto che sia pure in modo grezzo e inadeguato Lei mi ha, ahimé,
preceduto sulla difesa della cultura occidentale. Ma appena le cicale di
lusso Le sono saltate alla gola, razzista-razzista, ha fatto marcia
indietro. Ha parlato o lasciato parlare di «gaffe». Ha umilmente offerto
ai figli di Allah le Sue scuse. Ha inghiottito l’affronto del loro rifiuto.
Ha subìto senza fiatare le ipocrite rampogne dei Suoi colleghi europei
nonché la scapaccionata di Blair. Insomma s’è preso paura… Ammenoché,
signor cavaliere, Lei non si sia rimangiato la giusta difesa della nostra
cultura…

Oriana
Fallaci, «La rabbia e l’orgoglio», Rizzoli, Milano 2001, passim

Maurizio Pagliassotti




SOMALILAND/ viaggio in un paese pacificato, ma non riconosciuto

UN POSTO SUL MAPPAMONDO

È uno dei
paesi che Bush definisce «stati canaglia», perché sospettato di proteggere
terroristi. In realtà, la Somalia è un paese in completa anarchia, in
balia dei «signori della guerra». Dal 1992, la parte nord si è separata
costituendo uno stato autonomo di nome «Somaliland», che ha deposto le
armi, ma che il mondo non riconosce. Questi sono gli appunti di viaggio di
un regista televisivo torinese, che su Somalia e Somaliland ha girato un
documentario.

Sono in
compagnia dei tecnici Liborio L’abbate operatore e Antonio Venere fonico.
Ad accoglierci c’è Stefano Errico, cornoperante italiano in servizio
permanente effettivo. Quando si atterra su una striscia di asfalto
bollente in mezzo al deserto, carichi di bagagli, con la prospettiva di un
controllo doganale africano, sporchi, sudati e stanchi, ci si affida alla
«voce amica» come un neonato alla mamma.

Riesco a
guardarmi attorno, a rendermi conto che cavalletto, telecamera, cassa luci
e affini rispondono tutti all’appello. Davanti al Tupolev noto due
signori: bianchi, piuttosto in carne, biondi, con la pelle color aragosta,
pantaloni corti, ciabatte infradito e maglietta bianca sdrucita della
Dallo Airlines.

Stefano
incrocia il mio sguardo. «Chi sono?» chiedo. «I piloti» risponde. Poi
aggiunge: «Avete fatto bene a viaggiare di mattina. Il pomeriggio, in
genere, sono ubriachi». Ho voglia di andare a dormire.

Ci
troviamo in Somalia per girare un documentario sulla guerra in corso.
Raffaele Masto, giornalista di Radio Popolare, e Davide Demichelis,
regista freelance, sono già stati un paio di volte a Mogadiscio. A me
tocca raccogliere materiali di contorno, un compito certamente più
agevole: la guerra è lontana da Berbera.

Abbiamo
preso alloggio in questa città, nel compound di Coopi (**), l’Ong italiana
che ci aiuterà nella nostra impresa. Esausto sul letto, condizionatore a
manetta, sfoglio il mio passaporto. L’ultimo timbro è ancora fresco e
recita: «Republic of Somaliland Visa Entry».

E qui vale
la pena spendere qualche parola di spiegazione. La Somalia è un paese che
da alcuni anni vive in una condizione di anarchia totale. Senza governo e
senza pace. Il nord del paese, già colonia britannica, nel maggio 1992 ha
unilateralmente dichiarato la propria indipendenza. Ed è nato il
Somaliland. Con tanto di capitale (Hargheisa), un presidente (Egal), un
parlamento, un esercito, una motorizzazione civile, una bandiera (rossa,
bianca e nera), una moneta (lo scellino).

Insomma,
ci troviamo nell’isola che non c’è; in una nazione che l’Onu non riconosce
e che sull’atlante non esiste. Il Somaliland, però, a differenza del resto
del paese è pacificato. Qui la guerra è un ricordo.

Anche
questa «stranezza africana» è da documentare. Insieme ai cooperanti
costruiamo un piano di lavorazione. Rimarremo in Somaliland due settimane
e ci muoveremo  tra Berbera, Hargheisa e Boroma, la terza città del paese.
Sempre scortati da Coopi. Quanto basta per portare a casa materiale
sufficiente a completare il nostro documentario.

Tutti sono
disponibili. Avremmo così visitato i progetti di Coopi. Giriamo in lungo e
in largo per il Somaliland, raccogliendo materiale sulla guerra ormai
conclusa.

A Berbera
la guerra ha lasciato segni profondi, soprattutto sulle persone. Anche
perché Berbera è il porto più importante del Somaliland, uno dei più
trafficati del Golfo di Aden. E la rivolta contro Siad Barre, all’inizio
degli anni novanta, è cominciata proprio nell’ «isola che non c’è». Il
generale Hersi Morgan ha messo a ferro e fuoco le città principali del
nord, nel tentativo di reprimere la rivolta. Oggi Morgan è un potente
signore della guerra. Vive nel sud. Qui lo ricordano come «il macellaio di
Hargheisa».


CORANO…
TERAPIA

A Berbera
c’è un manicomio. In inglese suona meglio: Mental Hospital. Lo gestisce la
cooperazione italiana, in collaborazione con una piccola, ma
efficientissima Ong locale.

Ma il
Mental Hospital non è solo un manicomio. Rappresenta la parabola di un
paese, racconta la storia di una guerra che ha sconvolto gli equilibri,
anche mentali, di una nazione.

«La
guerra, in fondo, è una follia. E quando la guerra finisce, spesso, rimane
solo la follia», ci spiega uno dei responsabili dell’Ong. I manuali di
psichiatria li definiscono «traumi da guerra». È la paura che cresce ogni
giorno di più. Che prima ti fa nascondere, poi scappare, poi ti gela e ti
rende incapace di reagire. Ti annienta il cervello. Colpa dei kalasnikov,
dei caccia che sfrecciavano sulla testa, delle razzie dei vincitori di
giornata e delle vendette degli sconfitti del giorno prima.

Il Mental
Hospital non è né bello, né accogliente, né adatto ad assolvere il suo
compito. È un luogo fetido, chiuso al mondo. Eppure ai nostri occhi sembra
un posto umano. «Facciamo quello che possiamo – raccontano -; l’emergenza
non è finita. Le priorità del paese sono altre. Noi cerchiamo di garantire
un minimo di assistenza e di pulizia».

Gli
inglesi nel 1944 trasformarono questa, che già era una prigione, in un
campo di concentramento per i soldati italiani.

«Per gli
standard occidentali questo posto può solo essere definito
“inconcepibile”- ci dicono i cooperanti di Coopi -. Invece questo è un
esempio, unico in Africa, di ospedale psichiatrico che si è aperto alla
comunità estea. I problemi sono enormi, ma la gente di Berbera si è
fatta carico, per come può e sa, di questi pazienti. Per quanto possa
sembrare assurdo, questo è un ospedale moderno».

Mentre
Liborio riprende questo carcere trasformato in manicomio, dietro di noi il
medico procede con le visite. Una visita assolutamente fuori del comune,
in perfetta sintonia con il luogo.

Avete mai
assistito ad una seduta di «coranoterapia»? Servono un imam (nella parte
del medico), un megafono (nella parte della siringa), un corano (nella
parte del medicinale) e un paziente (nella parte di sé stesso). La terapia
è semplicissima: trattasi della lettura di versetti del corano, sparati a
tutto volume nelle orecchie del paziente.

«Allah ha
il potere di liberare la mente, di scacciare il “gin”, lo spirito maligno
che, a volte, si impossessa degli uomini», ci spiega il «medico».

Antonio è
il più perplesso della troupe. Tutti e tre rivolgiamo all’unisono la
stessa domanda ai cooperanti: «Funziona?». «Non sarà ortodosso, ma i
risultati sono apprezzabili», è la risposta. L’Africa è, letteralmente,
incredibile.


L’EREDITÀ
DELLE MINE

I dintorni
di Berbera sono cosparsi da vecchie caserme e strutture militari
distrutte. Immagini preziose per il nostro documentario. Un pomeriggio
raggiungiamo una zona collinare, piuttosto distante dalla città. La
temperatura, come sempre, è soffocante. Ad accompagnarci, questa volta,
c’è solo l’autista, che non è per nulla entusiasta della «gita fuori
porta».

Il
pomeriggio somalo (a nord, a sud, a Mogadiscio o a Berbera) è dedicato
alla masticazione del chat, erba dagli effetti dopanti se ingurgitata in
dosi massicce. Al nostro autista tocca masticare chat non all’ombra di un
alberello, ma sul sedile della jeep.

Più
sconsolato che seccato (gli leggi in fronte «Ma perché i bianchi non
imparano una volta per tutte a godersi la vita?»), ci porta davanti a un
gruppo di caserme distrutte.

Con
Liborio e Antonio ci inoltriamo tra camerate scoperchiate, autoblindo
carbonizzate, elmetti forati da proiettili, ecc. Lavoriamo un’oretta sotto
il sole bollente. Esausto, chiamo l’autista. Un cenno con la mano, poi un
urlo, poi un altro urlo. Infine un cenno di risposta: «Non posso venire».
«Perché?» chiedo con un tono un po’ deciso. «Perché siete su un campo
minato». Anche se lontano, credo abbia notato il nostro repentino pallore.

«Non vi
preoccupate, credo ci siano solo mine anticarro». Non vi preoccupate?
Bombe anticarro? E se avessero, per errore, seminato anche qualche bella
italica mina antiuomo? In punta di piedi, tipo gatto Silvestro mentre si
avvicina furtivo a Titti, torniamo sui nostri passi fino alla jeep.

Rivolgendo
poi un sentito pensiero di ringraziamento all’Altissimo, sentenziamo:
«Domani pomeriggio si esce solo dopo che l’autista avrà serenamente finito
di masticare il suo cespuglio di chat. Ne avrà ben diritto no?». E
soprattutto impariamo anche noi bianchi a goderci un po’ la vita! L’Africa
è terra di uomini saggi.


SENZA GUERRA
C’È UN FUTURO

Durante
gli spostamenti (da Berbera ad Hargheisa e da Berbera a Boroma)
incontriamo paesaggi dall’asprezza incantevole. Cammelli, rovi, sabbia,
roccia, facoceri, capre, arbusti rattrappiti dal vento e dalla siccità. Un
habitat da brivido, all’apparenza ostile. Fermiamo la macchina, piazziamo
il cavalletto e iniziamo a girare. Tutto sembra immobile. Poi, una volta
che l’occhio si abitua alla luce quasi bianca e ai riflessi del calore,
scopri che quel deserto ostile brulica di vita: capanne, pastori, piccoli
villaggi. Scesi dalla macchina ci sentiamo soli, ma non lo siamo. Però il
silenzio è assoluto. Interrotto solo dalle folate di vento caldo.

Ad
Hargheisa cerchiamo di intervistare il presidente Egal o, in sub- ordine,
qualche suo ministro.

Tutto
inutile. Dopo varie telefonate, lettere e messaggi, ci dirottano su un
sottosegretario ai progetti di sviluppo. 

È un
incontro cordiale, breve, tra un regista curioso e un funzionario di
governo orgoglioso del suo paese. Un ufficio piccolo e disadorno. Un
computer impolverato e spento. Una scrivania di fòrmica trovata in chissà
quale cantina. Tende gialle bisognose di una rinfrescata. Il solito caldo
insopportabile. Il funzionario, alto e magro, vestito in completo cachi.
Si tratta di un cinquantenne con un sorriso cordiale e sdentato.

Sembra
stupito del mio stupore. «Il Somaliland non esiste» è la mia obiezione.
«Io, invece, mi aspetto che i fratelli somali seguano il nostro esempio» è
la sua risposta. «Ma l’Onu non vi riconosce», incalzo. «Ma Coopi sì:
questo è ciò che conta». Come dargli torto?


Ricapitoliamo. La Somalia occupa buona parte del Coo d’Africa, una delle
«pentole a pressione» del pianeta. La Somalia non ha un governo
riconosciuto da tutte le fazioni in lotta dalla fine di Restore Hope. La
Somalia ha un seggio all’Onu. Il Somaliland ha dichiarato la propria
indipendenza. Lo ha fatto anche il Puntland. Lo faranno anche altri. C’è
da scommetterci.

Il
Somaliland, che non esiste «de jure», ha i suoi porti pieni di navi
container che arrivano dal Golfo, ma anche dall’Europa. Le Ong occidentali
riescono a promuovere progetti di cooperazione solo in questa fetta di
Somalia. Che, vale la pena di ricordarlo, è l’unica davvero pacificata.
Voci sempre più insistenti dicono che la British Airways, la compagnia di
bandiera inglese, presto inaugurerà un volo Londra-Hargheisa. A Mogadiscio
non volano nemmeno i colombi.


Annusando l’aria, i nostri commenti sono due: o siamo finiti in un covo di
pazzi, che prima o poi qualcuno da Mogadiscio spazzerà via, oppure qui
hanno scoperto la «via africana alla pacificazione». Certo è che il
Somaliland, giorno dopo giorno, ci appare da un lato più strano e
dall’altro più credibile.

A
Boroma, che rispetto a Berbera è a sud e beneficia di un clima
godibilissimo, incrociamo un ingegnere italiano, con un curriculum vitae
invidiabile. Ama il suo lavoro e l’Africa. Quindi ha deciso di fare per
qualche tempo il cornoperante.

«Sono
qui da qualche anno – dice -. Ogni giorno vedo aprire nuovi piccoli negozi
e ogni giorno aumentano i prodotti che in quei negozi vengono venduti. Ci
sono sempre più auto in circolazione. La gente si veste meglio, mangia
meglio. Sanno approfittare delle opportunità che arrivano dalla
cooperazione internazionale. E sai cosa significa tutto ciò?».

«No»,
rispondo. «Che il Somaliland è un paese che cresce rapidamente, che
migliora il livello di vita e di istruzione e che, un domani, se la
Somalia dovesse diventare una repubblica federale la classe dirigente
arriverà da qui, dal Somaliland».

In
effetti, mentre a Hargheisa i giovani studiano, a  Mogadiscio si arruolano
nelle milizie armate. E mentre gli ex miliziani del nord sono tornati a
lavorare la terra, quelli del sud non sanno nemmeno più come si tiene una
zappa.



TRA «CHAT» E «CLAN»

In
tutta questa storia, un piccolo capitolo a sé meritano il chat e il clan.

Il chat
è quell’erba tanto cara al nostro autista. È un prodotto eccitante di cui
gli uomini sono accaniti consumatori. Si consuma nell’arco di tutto il
pomeriggio, fino alla chiamata del muezzin, che arriva verso le cinque. Il
chat, se serve, fa passare la fame e fa combattere. Ti tiene sveglio e può
mandare l’adrenalina alle stelle. Il nostro autista, per fortuna, si
accontenta di sognare beatamente all’ombra di un albero.


Controllare il mercato del consumo del chat significa poter contare su una
quantità enorme di denaro. Denaro indispensabile, a sud, per mantenere le
milizie armate; a nord, più prosaicamente, per arricchirsi.

Il chat
arriva clandestinamente dal Kenya e dall’Etiopia. Dall’alba fino alle 11
tutti i mercati della Somalia vengono raggiunti dal chat.

Tutti
lo masticano, quasi tutti ne abusano. Costa caro: una mazzetta di erba
(per poco più di un giorno) vale alcuni dollari.

Il
bello è che il chat è formalmente illegale. Per riprendee la vendita al
mercato ci appelliamo ai buoni uffici di Coopi. Alla fine ce lo offrono
anche. Ovviamente il dovere dell’ospitalità ci impone di assaggiarlo. Non
è male…

Il clan
è la cellula su cui si fonda la società somala. Sia essa il Somaliland
indipendente o quel che resta della Somalia unita. Il clan è,
sostanzialmente, una grande famiglia allargata, ma che ha potere assoluto
nella zona in cui vive. Senza l’assenso del clan, nessuna decisione
governativa può sperare di essere attuata.

Il
parlamento del Somaliland, che in tutto conta meno di 2 milioni di
abitanti, è formato da 600 persone. Al di là del fatto che l’elezione dei
parlamentari avviene per cornoptazione da parte dei clan, ciò rende l’idea
di quanto sia diverso il concetto di «rappresentanza politica».

Gli
«elders», gli anziani, rappresentano all’interno del parlamento, l’intero
scacchiere dei clan presenti sul territorio. Poi nascono alleanze,
convergenze, programmi comuni, ma l’instabilità è sempre in agguato. A
tenere insieme il puzzle c’è Egal, il presidente, «il padre della patria»,
colui che ha dato fuoco alle polveri nella seconda metà degli anni
Ottanta, iniziando a incalzare Siad Barre fino a farlo cadere.



LABORATORIO

Il
Somaliland è uno spicchio di mondo sospeso tra realtà e finzione.
Sicuramente degno di essere «scoperto» dalle telecamere. Credo si possa
affermare che siamo in presenza di un «laboratorio», tanto più
significativo in quanto sorto in un contesto di caos politico-militare
assoluto.

La
scommessa in atto è di quelle da far tremare i polsi. Di fronte
all’anarchia, il Somaliland ha scelto di dotarsi di un governo, di
strutture e di darsi una prospettiva economica. A noi, visitatori
occasionali, questo coraggio è piaciuto. Il continente africano attraversa
una crisi che sembra senza fine. In quella fetta di Coo d’Africa si sono
cercate e, forse trovate, risposte a quella crisi.

 


(*) Sante Altizio, nato a Torino nel 1966, lavora come programmista e
regista presso la «Nova-T», società di produzioni televisive di Torino. È
specializzato in reportage su temi sociali, con particolare attenzione per
le realtà dei paesi del Terzo mondo.


Ha firmato lavori su Capo Verde, Etiopia, Guinea Bissau, Brasile,
Argentina, El Salvador, India, Russia.


Tra l’autunno 2000 e la fine del 2001 è stato insignito di vari
riconoscimenti: documentari da lui firmati sono stati premiati ad
«Anteprima Spazio» di Torino, al «Festival Internazionale del Cinema» di
Saleo, al «XXX Premio Guidarello» di Ravenna.

***

(**) Il
Coopi, «Cooperazione internazionale», è un’associazione italiana di
volontariato internazionale che opera dal 1965. Attualmente interviene in
36 paesi del Sud del mondo con 106 progetti. La sede centrale è a Milano.

 

 


Scheda
geo
politica

 SOMALIA,
SOMALILAND E PUNTLAND


 Situata nel Coo d’Africa, estremità orientale del continente nero, la
Somalia conta su una popolazione di circa 9 milioni di abitanti, di
religione islamica al 95%. Ex colonia italiana indipendente dal 1960. Un
colpo di stato, nel 1969, guidato dal generale Siad Barre, conduce il
paese in un vortice di guerre (contro l’Etiopia) e violenze (contro gli
oppositori) senza fine. Anche negli anni più bui del governo di Siad
Barre, l’appoggio politico, economico e militare italiano (in particolare
di Bettino Craxi) non viene mai meno.

Mentre
la popolazione soffre le conseguenze di siccità e carestia, nel 1991 Siad
Barre viene deposto. È l’anarchia che dilania il paese costringendo le
Nazioni Unite all’intervento (1992, operazione Restore Hope). L’emergenza
umanitaria viene superata, quella politica no. L’intervento Onu è un
fallimento militare, raccontato dal recente film di Ridley Scott «Black
Hawk Down».

Dal
1992 la Somalia è abbandonata a se stessa. Dilaniata dalla guerra civile,
lo stato non esiste più. La Somalia, di fatto, è una nazione fantasma,
dove il potere è in mano ai «signori della guerra», finanziati per lo più
da capitali arabi.

Negli
ultimi anni, nel nord del paese, due regioni (Somaliland e Puntland) hanno
dichiarato unilateralmente la propria indipendenza. Nel 2001 un consiglio
di anziani ha eletto, a Gibuti, un presidente della repubblica, Moahamed
Abdim Kassim. La sua autorità non è stata riconosciuta dai clan più
importanti. Mogadiscio, la capitale, è una città isolata dal resto del
mondo.

 

Una
serie di documentari della NOVA-T


Quelle guerre dimenticate


Democrazia in salsa somala


Produzione: NOVA-T Torino

Durata:
25 minuti

Regia
di Sante Altizio (con la collaborazione

di
Davide Demichelis e Raffaele Masto)

Prezzo:
12,90 Euro

 

Le
radici degli scontri si perdono negli anni Sessanta e si allungano fino
alla crisi di metà degli anni Novanta.

Le
testimonianze di Giancarlo Marocchino (forse l’italiano più famoso di
Mogadiscio) e di Hersi Morgan, il «macellaio», rendono bene l’idea di cosa
significhi vivere nella più completa anarchia. Il chat, il clan, gli
eserciti privati. E poi ancora Restore Hope, le organizzazioni umanitarie.

Abbiamo
provato a ricostruire il puzzle somalo. E di aiutare lo spettatore (grazie
anche alla presenza in video del prof. Angelo Del Boca) a cogliere
l’unicità di un paese che esiste solo sulla carta geografica.


«Democrazia in salsa somala» racconta anche il Somaliland, regione
settentrionale della Somalia. Nel 1993 ha dichiarato unilateralmente la
propria indipendenza. Hanno eletto un presidente, commerciano, battono
moneta. Non fanno più la guerra. Nel silenzio della comunità
internazionale, che riconosce la Somalia (che non c’è), ma non il
Somaliland (che c’è).

 È
questo l’ultimo episodio della serie intitolata «Guerre dimenticate»,
dedicata a conflitti di cui nessuno parla. Paesi in cui da anni si
combattono alcune tra le guerre più assurde del pianeta: lotte tra poveri
per il predominio di una striscia di arido deserto o per la supremazia di
una etnia sull’altra. 


Democrazia in salsa somala

Produzione:
NOVA-T Torino

Durata:
25 minuti


Regia di Sante Altizio (con la collaborazione di Davide Demichelis e
Raffaele Masto)


Prezzo: 12,90 Euro


 


Saharawi, un muro nel deserto
– Per oltre 20 anni, il Sahara
occidentale è stato testimone della guerra tra l’esercito del Marocco e il
Fronte Polisario, organizzazione armata del popolo saharawi. Un muro di
2.000 chilometri è stato costruito dal Marocco, quale argine agli attacchi
del nemico.

 


Etiopia & Eritrea: vite di frontiera
– Erano paesi fratelli,
accomunati da usi e costumi simili. La guerra scoppia, improvvisamente,
nel 1998. Decine di migliaia di morti, profughi, feriti. Due economie, già
gracilissime, in

ginocchio.
Le ostilità dilagano per una contesa di territori che ha radici nella
storia coloniale: per brulle pietraie e deserti infuocati, senza valore
economico, senza una linea certa di confine.

 


Hutu-Tutsi. La guerra infinita
– Il Ruanda è un paese consumato da
lotte tribali. Quasi 1 milione di morti lasciati sul campo da hutu e
tutsi, le due etnie più rilevanti del paese. E la riconciliazione, a
distanza di anni, resta un traguardo lontano.

 

I
Nuba del Sudan
– Nel cuore del Sudan, nella regione dei monti Nuba, si
vive ancora secondo usi e costumi dell’Africa Nera. Dal 1983 la chiusura è
totale, a causa della violenta guerra che spacca il paese e oppone i
ribelli dell’«Esercito di liberazione» (Spla) al regime islamico, per
affermare l’autonomia del sud e dei monti Nuba.

 


Angola. La guerra invisibile
– Il conflitto, che da oltre 25 anni
insanguina questo grande e travagliato paese, di solito non appare. È una
guerra senza testimoni, combattuta in un territorio vastissimo, in
villaggi dispersi e isolati nella grande foresta pluviale che copre gran
parte del territorio. A scontrarsi sono i soldati governativi e i
guerriglieri dell’Unita, formazione nata dalla lotta per l’indipendenza,
che non ha mai accettato di integrarsi nel governo. Il conflitto non si
vede, ma se ne vedono gli effetti: fame, distruzione, fuga.

  


Per
informazioni su tutti i documentari, contattare:  «Libreria Missioni
Consolata», corso Ferrucci 12 ter,


Torino
– Tel. 011.44.76.695 – E-mail: libmisco@tin.it

 



I 20 anni della Nova-T

Due
decenni di reportage dal pianeta, sui problemi della globalizzazione, i
drammi del Terzo mondo, i temi dello spirito.

 di
Luca Rolandi


 Torino. Chilometri di nastro magnetico attraversano le frontiere sociali,
etniche, religiose e culturali per raccontare il mondo arabo, l’America
Latina, l’Africa, attraverso le parole e le esperienze di chi, in questi
paesi, vive e opera. Oltre 5.000 ore di girato in più di 80 paesi del
mondo. È questa la prima eredità di un progetto nato, quasi per caso, nel
1982, dall’intuizione di un cappuccino, padre Ottavio Fasano. NOVA-T
(Nuove Terre) da quell’anno fatidico di strada ne ha fatta moltissima. Nei
primi anni di vita ha lavorato molto nel mondo delle missioni per
raccontare quella parte dell’umanità dimenticata e afflitta da carestie,
guerre, povertà. NOVA-T ha realizzato documentari «senza frontiere», atti
a testimoniare l’attività di promozione sociale e umana svolta da
Organizzazioni non governative e da istituti religiosi impegnati nella
missione ad gentes.

La
società dei frati cappuccini della provincia di Torino all’inizio ha
lavorato molto nel Terzo mondo, poi negli anni ha spostato il suo raggio
d’azione anche nel settore educativo, catechistico, di promozione della
fede alla luce delle storie di santità, note e meno note. Le telecamere
della NOVA-T hanno filmato le vie della fede, della cultura, della guerra
e della pace, documentato le bellezze e le miserie del mondo, con un
occhio sempre attento all’uomo (i suoi bisogni, le sue pene, le sue
speranze).

Un
percorso che racconta grandi figure religiose: da San Francesco a papa
Giovanni Paolo II, dai santi sociali torinesi ai missionari martiri nelle
terre di frontiera. Tante finestre aperte sul mondo e realizzate con i più
modei strumenti tecnologici, audiovisivi e multimediali.

In
vent’anni di lavoro, faticoso e senza onori, vissuto con passione dai suoi
dipendenti, collaboratori, registi, amici, missionari, molte sono state le
collaborazioni di prestigio, realizzate con istituzioni civili e religiose
e con grandi protagonisti del mondo del cinema e del teatro.

Negli
anni Novanta, con il trasferimento nella suggestiva sede di Via Ferdinando
Bocca, in un ex convento e chiesa parrocchiale, all’inizio della salita
che porta alla basilica di Superga, la ricerca di nuovi stimoli e la
volontà di crescere professionalmente hanno portato NOVA-T a partecipare
alle principali rassegne del settore e a creare sinergie con distributori
e produttori di profilo internazionale. Prende il via la stagione
d’importanti collaborazioni.

Con la
serie «Popoli e Luoghi dell’Africa», nel 1996 NOVA-T trova in Superquark
della RAI il primo importante cliente nazionale televisivo: è l’inizio di
un interesse verso la società torinese, che culminerà con la co-produzione
NOVA-T e RAIGIUBILEO di «Padre Pio. Uomo di Dio», video ufficiale per la
beatificazione del frate di Pietrelcina.

Nel
1998, l’ostensione della Sindone a Torino, offre l’occasione di
realizzare, con l’Euphon, «L’Uomo dei dolori. La Sindone di Torino», video
ufficiale dell’evento. Nel 2000 escono due importanti co-produzioni:
«Conoscere la Sindone» (NOVA-T, Arcidiocesi di Torino ed Euphon) e
«Giovanni Paolo II. Quasi un’autobiografia» (NOVA-T, Centro Televisivo
Vaticano, Euphon).

Nel
2001 è la volta de «Una giornata al Concilio», rilettura critica e
divulgativa dell’evento che ha cambiato la chiesa, il Vaticano II,
realizzato in collaborazione con il Centro televisivo Vaticano e
l’Istituto Luce di Roma, del documentario «I fioretti di San Francesco».
Ed infine gli episodi della serie per la Tv «Guerre dimenticate», dedicata
a sei conflitti africani semisconosciuti ma, comunque, terribili.

E la
sfida di NOVA-T prosegue con l’arrivo di molti lavori tra i quali spiccano
i documentari sul beato Ignazio da Santhià (il cappuccino piemontese che
Giovanni Paolo II canonizzerà domenica 19 maggio 2002) e il film sul beato
Giuseppe Allamano, dove si racconta l’affascinante storia del fondatore
dei missionari/e della Consolata. Un uomo che non si mosse mai da Torino,
eppure abbracciò il mondo.

Sante Altizio




KAZAN’ (RUSSIA): popoli diversi vivono in pace

CAMPANILI E MINARETI


 Sulle rive del Volga, a 700 km da Mosca, 

sorge
Kazan’, capitale di una delle repubbliche autonome della Federazione
Russa: il Tatarstan, cioè paese dei tatari (tartari). Il nome evoca
efferate crudeltà, ma quanto sono diversi  i tatari di oggi dai bellicosi
mongoli che, otto secoli fa, scorrazzavano nelle steppe russe, tagliando
teste e mettendo a ferro e fuoco le città! Il Tatarstan è un raro esempio
di convivenza


pacifica tra persone di etnia e fede diverse. 

 

Prima
di entrare in stazione, il treno proveniente da Mosca offre una bella
panoramica del cremlino di Kazan’. È il nucleo più antico della città, su
un’altura che sovrasta la confluenza dei fiumi Kazanka e Volga.

Si
tratta d’un cremlino sui generis: accanto alla caratteristica siluetta
della cattedrale, si scorge la mole di un grande edificio in costruzione,
irta d’impalcature e dall’aspetto di moschea. Un tempo, più o meno nello
stesso luogo, si trovava la leggendaria moschea Kul-Sherif, dagli otto
minareti, le cui forme fantasiose pare abbiano ispirato gli architetti che
costruirono la cattedrale di San Basilio a Mosca, a commemorazione della
presa di Kazan’ da parte dei russi nel 1552. Dopo tanti secoli, si è
deciso di riedificarla, anche se il progetto originario è andato perduto.

Dal 14°
piano dell’Hotel Tatarstan, si può ammirare la città in tutta la varietà
di strade e acque. Non passa inosservata l’insolita commistione di
campanili e minareti, sebbene chiese e moschee non si trovino le une
accanto alle altre, bensì in quartieri diversi.

Uno dei
monumenti più caratteristici del cremlino di Kazan’ è una torre a gradoni,
pendente quasi come quella di Pisa. Prende nome dalla principessa
Sjujumbekì (1516-1565), moglie dell’ultimo khan tataro di Kazan’. Quando
Ivan il Terribile conquistò la città, essa fu fatta prigioniera e portata
a Mosca insieme al figlio. Famosa per bellezza e intelligenza, era così
amata e ammirata dalla gente che intorno a lei sono nate numerose
leggende, ancora vive nella tradizione popolare.

Con la
conquista russa, i tatari sono stati spinti fuori dell’abitato, sulle
sponde del lago Kaban, ora parte integrante della città. Qui è sorto il
«sobborgo dei tatari». Solo a partire dal 1767, dopo la visita di Caterina
II a Kazan’, si consentì di costruire le moschee. Così l’imperatrice pose
fine alla più che bicentenaria discriminazione nei confronti dei tatari: i
russi li avevano fatti allontanare dalle rive dei fiumi, avevano tolto
loro le terre migliori; Caterina, invece, capiva l’importanza di quei
sudditi e il ruolo che avrebbero potuto svolgere nell’intrecciare
relazioni commerciali con l’Asia centrale musulmana, verso cui la Russia
aveva mire espansionistiche.

 

Con
l’arrivo dei bolscevichi le sorti delle due comunità religiose sono state
accomunate nella persecuzione: non ha risparmiato né cristiani né
musulmani, né russi né tatari. Nel 1943, durante la guerra, per dare nuova
linfa al patriottismo dei russi, Stalin restituì alla chiesa ortodossa un
ruolo ufficiale; anche l’islam ottenne un riconoscimento analogo.

Con la
fine del regime comunista, si è temuto che, sull’onda del processo di
disintegrazione della vecchia Urss, il Tatarstan potesse reclamare
l’indipendenza politica. Sebbene non siano mancati movimenti in questa
direzione, tale progetto è apparso irrealizzabile, non solo perché uno
stato all’interno di un altro stato costituirebbe un’improbabile anomalia
geopolitica, ma soprattutto perché, dopo secoli di vita in comune, tatari
e russi sono uniti da forti legami di sangue: moltissimi sono stati e sono
ancora i matrimoni misti.


Guardando i gruppi di giovani che passeggiano per le strade di Kazan’, si
fa fatica a capire dove siano i tatari e dove i russi. Si vedono anche
teste decisamente bionde o more; ma spesso rimane il dubbio. Anche le
caratteristiche architettoniche della città riflettono i tratti dei due
popoli. Molto più animata e solare rispetto ad altre città russe, Kazan’
non ha però l’esuberanza e colori del profondo oriente; sarà forse per le
acque, i boschi e il cielo nordico che la circondano.

Rimane
un’apprensione: con il rinascere dell’interesse per la religione i
rapporti tra le due comunità si potrebbero guastare, specie se la
religione venisse sfruttata a fini ideologici. Ma per il momento non si
nota nulla del genere. Tutti vivono in pace, grazie anche alla politica
attenta delle autorità, che mantengono al riguardo una posizione
rigorosamente imparziale.

Dove i
tatari sentono di doversi prendere una rivincita è nella questione del
proprio idioma: il turki. Esso si è sempre trovato in minoranza di fronte
al russo, lingua dei dominatori, privilegiato nella vita pubblica anche
dal comunismo; per cui i russi non hanno mai avuto la necessità di
imparare la lingua locale.

Ora i
tatari sono ansiosi di riaffermare la dignità del turki e vorrebbero che,
finalmente, fosse imparato da tutti. Nel 1997 il Congresso delle comunità
tatare ha approvato perfino il ritorno all’alfabeto latino che, dopo avere
sostituito quello arabo nel 1929, era stato a sua volta rimpiazzato dal
cirillico nel 1939.

Non ci
sarebbe da stupirsi se i tatari volessero rifare il percorso inverso fino
in fondo. Qualcuno lo auspica. Per ora, tuttavia, sembrano accontentarsi
del primo passo, pur suscitando parecchie perplessità tra la gente, ormai
abituata a scrivere e leggere i caratteri russi.

 

Gli
amici di Mosca mi hanno dato il numero di telefono della direttrice d’una
rivista femminile locale. «Dovessi aver bisogno; non si sa mai. Poi è
sempre interessante parlare con gente del posto. Si vengono a sapere tante
cose».

Mi
metto in contatto con la redazione del Sjujumbekì, rivista in lingua turki
rivolta a un pubblico tataro. L’intenzione è quella di scambiare quattro
chiacchiere e sentire notizie di prima mano sulla città. Entrata
nell’ufficio della direttrice, capisco che si sta preparando qualcosa: il
grande tavolo al centro della stanza ha un’aria di festa; vi troneggiano
vassoi carichi di dolci. Subito dietro a me entrano le collaboratrici che,
nel giro di cinque minuti, sono tutte sedute intorno al tavolo. Da ultimo
entra il fotografo e l’incontro comincia.

Credevo
di portare a casa informazioni su usi e costumi locali, invece sono
subissata da una valanga di domande sulle questioni capitali del nostro
tempo: educazione dei giovani, droga, famiglia, immigrazione, rapporto
chiesa-società. Evidentemente sono tutte questioni che stanno molto a
cuore alle mie interlocutrici, perché sono problemi che la gente si trova
ad affrontare negli ultimi tempi.

L’epoca
post-sovietica ha reso palesi vecchi mali, prima taciuti nelle statistiche
ufficiali, e aperto nuove ferite. La nuova «società aperta» si è trovata
impreparata a far fronte, di punto in bianco, a situazioni che hanno
assunto dimensioni catastrofiche, a causa del disorientamento generale del
periodo di transizione: il sempre più massiccio uso di droghe tra i
giovani ne è un esempio. Negli ultimi cinque anni il numero dei
tossicodipendenti registrati nella struttura pubblica è cresciuto di 12
volte; tra gli adolescenti addirittura di 30 volte; dal 1996 i malati di
Aids sono aumentati di 300 volte: il 70% di essi sono tossicodipendenti.

Le
giornaliste della rivista sono venute all’incontro con il desiderio di
imparare dall’esperienza di un altro paese e fae tesoro. Mi ascoltano
con avidità, riconoscenti per quel poco che posso raccontare. Si
stupiscono di quanto comuni siano i problemi e simili le situazioni nei
nostri due paesi. Anch’io mi meraviglio per la sintonia di giudizio delle
ospiti tatare nel valutare i fenomeni della modeità.

Siamo
intorno al tavolo da due ore; la giornata lavorativa è finita; ma nessuno
accenna ad andarsene, tanto è il piacere di un incontro che rivela
impreviste affinità. Non capita spesso di sperimentare come tra due mondi,
creduti lontani mille miglia, si trovino vicini nella comune
preoccupazione per un futuro incerto e nella professione di identici
valori.

 

A una
trentina di chilometri da Kazan’ si trova il monastero maschile di Raifa,
dal nome dei santi eremiti del Sinai e Raithu (in russo Raifa), massacrati
nel vi secolo da bande di razziatori. I monaci vi ospitano ed educano un
gruppo di ragazzi di strada.

La
bellezza del luogo mi rapisce, non appena scendo alla fermata dell’autobus
e imbocco la stradina che dalla provinciale conduce all’ingresso del
convento: tutt’intorno boschi centenari, poco lontano un tranquillo
specchio d’acqua. Sono investita da un senso di pace che, varcata la porta
del convento, si arricchisce di un sentimento di stupore e riconoscenza
per chi ha saputo rendere quel luogo così accogliente.

Il
monastero è lindo, ridente, pieno di visitatori. È un giorno feriale;
eppure si respira un’aria di festa. Sarà forse per il sole e l’aria tersa
che fanno risaltare i colori: il bianco degli edifici, l’oro delle cupole,
le sgargianti tinte dei fiori, il nero delle vesti dei monaci. È mai
possibile che fino a circa 10 anni fa il convento fosse in rovina e le sue
chiese abbiano ospitato un carcere minorile? Percorrendo i lustri viottoli
tra un edificio e l’altro, ci si ricorda a fatica degli anni bui del
periodo sovietico; sembra che questi monaci sorridenti abbiano da sempre
abitato questo luogo di serenità.


Desiderando scambiare due parole, mi avvicino timida a un monaco dalla
faccia bonaria, con la speranza che non trovi importuna la mia curiosità.
Il monaco altri non è che il priore, padre Vsevolod e non si dimostra
affatto sorpreso che voglia fargli delle domande. Non sono la prima
straniera a interessarsi del monastero.

Gli
chiedo subito dei ragazzi da loro adottati. «Il primo è arrivato chissà
come nel 1994. Ha trovato la strada da solo. Dietro di lui sono arrivati
gli altri. Quasi tutti con alle spalle storie pesanti di maltrattamenti,
abusi e violenze. Ora nel monastero abitano 20 ragazzi, dagli 8 ai 18
anni.

Da
quando sono qui, la loro vita è cambiata completamente e, soprattutto, è
mutato il loro atteggiamento nei confronti del mondo degli adulti, prima
guardato con paura e sospetto. Frequentano insieme la scuola, a qualche
chilometro di distanza; sono circondati dalle cure dei monaci, che ne
completano l’educazione, non solo insegnando il catechismo, ma anche con
lezioni di arte, musica e canto. D’estate, poi, il convento organizza loro
vere e proprie vacanze. Quest’anno, per esempio, sono andati tutti sul Mar
Nero.

Venti
giovani, in confronto alle migliaia di ragazzi abbandonati, maltrattati,
fuggitivi che percorrono le strade della Russia, sono una goccia
nell’oceano; ma è pur sempre un segno di speranza».

Padre
Vsevolod è raggiunto da alcune persone che vorrebbero parlargli. Ho
un’altra cosa da domandargli, prima di lasciarlo andare. Avendo visto nel
vicino villaggio una moschea, la domanda è d’obbligo: «Quali sono i loro
rapporti con i figli dell’islam?».

«Basti
dire – risponde padre Vsevolod con aria soiona – che nel territorio di
una cornoperativa agricola, non lontano da qua, si sta costruendo una
moschea. Sapete chi ne ha pagato il progetto? Noi. D’altra parte, quando
abbiamo cominciato a ricostruire il monastero, sono stati i musulmani
locali i primi ad aiutarci».

Biancamaria Balestra




BRASILE: l’esperienza del «bilancio partecipativo»

«ORA DECIDO ANCH’IO» Il riscatto degli esclusi

Quante
volte abbiamo protestato per lo spreco di denaro pubblico? Di certo tante.
Nello stato di Rio Grande do Sul, in Brasile, hanno provato a superare il
problema chiedendo direttamente ai cittadini come spendere i soldi
pubblici. Una lunga serie di assemblee, aperte a tutta la popolazione,
fissa le priorità: le fognature prima della strada, il consultorio prima
del campo sportivo. Il «bilancio pubblico» prende forma dalle proposte
della collettività. Un esempio, unico al mondo, di democrazia non soltanto
rappresentativa ma anche partecipativa. Con ottimi risultati, nonostante
gli sgambetti di Brasilia e i mugugni dei conservatori.

Siamo qui
per cercare di capire come funziona quello che in lingua brasiliana si
chiama «orçamento partecipativo» (bilancio partecipativo) e che oggi
rappresenta un vanto del governo di Rio Grande do Sul, uno dei 26 stati in
cui è suddivisa la repubblica brasiliana, situato alla punta sud del
paese, ai confini con Uruguay e Argentina.

Dal 1999,
Rio Grande do Sul è amministrato dal «Partito dei lavoratori» (Pt). Non
senza qualche difficoltà, visto che l’assemblea legislativa è dominata dai
partiti conservatori: su 55 deputati soltanto 10 appartengono al partito
di governo. Ma Olivio Dutra, il governatore, ha dalla sua i numeri: negli
ultimi anni lo stato ha avuto indici di sviluppo tra i più alti del
Brasile (produzione, esportazioni, occupazione). 

Il sistema
del bilancio partecipativo è in funzione a Porto Alegre, la capitale, dal
1989, ma applicarlo a livello di stato era una scommessa rischiosa. Ma è
stata vinta, tanto che il sistema ha suscitato interesse ben oltre i
confini brasiliani.

Esso
combina il principio della democrazia rappresentativa con quello della
democrazia diretta. Tutti i cittadini possono dire dove e come spendere i
soldi pubblici: qualche scuola in più, un centro di salute, aiuti per
acquistare mezzi agricoli, agevolazioni per le piccole imprese, corsi di
formazione professionale, un sistema idrico per le favelas ecc. ecc. In
questo modo, si ottiene un doppio risultato: da una parte si sottrae il
potere decisionale alla discrezionalità dei politici, dall’altra si
coinvolgono direttamente  i cittadini.


COME UNA
«SCATOLA NERA»

Capelli
corti, occhialetti ovali, una maglietta nera con al centro la bandiera
verde-rosso-gialla dello stato, Iria Charão è la cornordinatrice del
gabinetto delle relazioni comunitarie e assessore del governatore Dutra,
con delega speciale per il bilancio partecipativo.

Ci
attende, affabile e sorridente, seduta dietro una grande scrivania, con ai
lati le bandiere del Brasile e dello stato. Sulla parete alle sue spalle è
appesa una cartina con le 23 regioni in cui è suddiviso Rio Grande do Sul.

«Soltanto
nell’ultimo anno – ci spiega indicando la cartina – ho percorso più di 300
mila chilometri lungo le strade dello stato. Sono andata a raccogliere le
proposte delle varie assemblee popolari. L’anno scorso sono state ben 735,
alcune con più di 4 mila partecipanti».

Signora
Iria, perché è importante questa esperienza e cosa avete da insegnare?

«È una
forma di democratizzazione della gestione dello stato. Una amministrazione
legittimamente eletta ha tutto il diritto di governare, ma noi volevamo
dare più potere ai cittadini, renderli più partecipi alle decisioni
pubbliche.

Le scelte
politiche nascono dalle scelte di bilancio. Ebbene questo è sempre stato
considerato una sorta di scatola nera, nella quale soltanto alcune persone
possono guardare. Ma poiché è il popolo che tira fuori i soldi dal
portafoglio, esso ha diritto di definire quali sono le priorità verso cui
indirizzare i fondi.

Abbiamo
visto, negli anni, grandi sprechi di denaro pubblico: sono state fatte
opere faraoniche, che non hanno cambiato nulla nella vita delle persone o
che addirittura non sono state ultimate.

Si discute
anche di grandi opere, ma di solito la popolazione sceglie le priorità che
si riflettono direttamente sulla loro vita quotidiana: creazione di lavoro
e reddito, miglioramento dei consultori medici, scuole pubbliche».



REDISTRIBUZIONE

Il Brasile
è uno dei paesi al mondo dove la distribuzione del reddito è più
diseguale. La cosa si riflette anche nella struttura delle città, dove
accanto a quartieri residenziali modei e servitissimi si trovano
baraccopoli prive dei servizi basilari.

«Questo è
un punto fondamentale – spiega Iria -. Il bilancio partecipativo può
favorire la distribuzione del reddito, perché i più poveri possono dare
voce alle loro richieste e chiedere di essere favoriti nella spesa
pubblica. Se abbiamo una parte della città ben strutturata (cioè con
fognature, aree di svago, centri di cultura, ecc.), è compito di una buona
amministrazione far sì che queste condizioni di vita siano disponibili per
tutti.

Affinché
ciò avvenga, lo stato deve investire la propria rendita dove i servizi non
ci sono, ad esempio nelle periferie. I più fortunati debbono capire che è
responsabilità del potere pubblico prendersi cura della parte più debole
della società.

Noi
abbiamo un motto da seguire: i diritti non si discutono, si compiono».


CRITICO È
PERICOLOSO

Un bel
progetto, ma – ci chiediamo – quali costi sociali potrebbe nascondere?
Come in tutti i paesi dell’America Latina, anche in Brasile la
suddivisione della società in classi è ben radicata (ed anche formalizzata
a seconda del reddito: classi A, B, C, D). Un sistema come quello del
bilancio partecipativo può suscitare l’opposizione delle classi più forti?

«Il nostro
sistema – ammette Iria – ha oppositori e anche molti nemici. La destra
conservatrice e i neoliberisti lo detestano. Non tanto per quello che fa,
quanto piuttosto per ciò che crea.

Crea un
cittadino più critico, più esigente, più cosciente politicamente. Un
cittadino siffatto è un cittadino pericoloso, perché ha voce nelle scelte
dei governanti e questo alla destra non piace. Per molti politici e
affaristi è una perdita di potere e di influenza. Per esempio, un
candidato non può più arrivare e promettere che, se sarà eletto, farà
questo e quest’altro. Chi delibera le opere è l’esecutivo e questo deve
ascoltare le istanze provenienti dalle assemblee popolari. Il governo di
Rio Grande do Sul nella formulazione del bilancio dà la priorità alle
decisioni della comunità».

Rio Grande
do Sul è retto da un governo del «Partito dei lavoratori». In caso di
sconfitta elettorale (le elezioni saranno il prossimo ottobre), un’altra
coalizione politica potrebbe chiudere l’esperienza del bilancio
partecipativo. «Certo, potrebbe farlo – spiega Iria -. Anche perché non
c’è una vera e propria legge approvata dall’assemblea legislativa. Ma
converrebbe? Il nostro stato presenta indici di sviluppo invidiabili…».


INDICI ALLE
STELLE

In
effetti, nella classifica dell’«indice di sviluppo umano» (calcolato
dall’Undp, il «Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo») lo stato di
Rio Grande do Sul sta tra Portogallo e Malta, molto più in alto del
Brasile (che è al 69.mo posto, mentre l’Italia è al 20.mo).

«Una città
o uno stato con una qualità di vita migliore per tutti ha una convivenza
migliore. Questo è il ragionamento da cui partire!» spiega con decisione
Iria.

E
continua: «Se le periferie delle città hanno una qualità di vita
superiore, le persone non verranno ad invadere o assaltare altri
quartieri.

Un esempio
concreto: nella zona dell’Avenida Ipiranga, cioè in una zona centrale di
Porto Alegre, c’era una favela. Per i governi precedenti la soluzione era:
prendere la favela  e spostarla fuori città. Noi abbiamo invertito questa
logica. 

Le persone
abitavano lì da più di 30 anni e quindi abbiamo scelto di migliorare le
condizioni abitative in loco. Abbiamo costruito alloggiamenti temporanei
in attesa di ultimare case e palazzi definitivi. Spostare tutta la gente
della favela avrebbe reso necessario una nuova fase di adattamento, che a
volte è molto difficile. Non si cacciano le persone dall’ambiente in cui
stanno: si migliora l’ambiente».

Il metodo
del bilancio partecipativo è stato implementato dà un partito di sinistra.
Cosa dice la chiesa su questo sistema?

«In
Brasile abbiamo una chiesa cattolica progressista. Basti ricordare le
varie pastorali della terra, dei neri, degli indios, dei bambini. Ci sono
inoltre le comunità ecclesiali di base, i pastori della chiesa luterana
coinvolti con i movimenti sociali…

In
generale, la chiesa cattolica dà un grande appoggio al sistema; per
esempio, incentivando la gente a partecipare alle assemblee. Il
cornordinamento nazionale della Caritas ha molte persone coinvolte
direttamente nel bilancio partecipativo. Insomma, tutta la chiesa che
lavora con la base ci aiuta. Quante volte le nostre assemblee si tengono
nei saloni parrocchiali!».

E
Brasilia? Come sono i rapporti con il governo federale?

«Brasilia
non ci ama. È ovvio che, se avessimo dalla nostra il governo federale, le
cose sarebbero più semplici. Ma i motivi di contrasto non sono soltanto
politici. I soldi che ci arrivano da Brasilia sono pochi anche perché gran
parte dei fondi federali sono utilizzati per coprire il debito estero del
paese. C’è un problema reale di disponibilità».



MODELLO ESPORTABILE?

Nel
paese latinoamericano, il bilancio partecipativo è stato applicato a Porto
Alegre (dal lontano 1989 ad oggi), nello stato di Rio Grande do Sul (dal
1999). Si sta lavorando per portarlo anche nella megalopoli di San Paolo
(15 milioni di abitanti). È fattibile un’applicazione del bilancio
partecipativo fuori del Brasile?

«Sì,
anche se non c’è un modellino esportabile tale e quale. Però ci sono dei
princìpi fondamentali attorno ai quali è possibile costruire. Il primo è
l’universalità del sistema: tutti possono partecipare, proporre, votare.
Il secondo è la discussione del bilancio preventivo. Il terzo è la
presentazione del consuntivo. Il quarto è l’autoregolamentazione, cioè il
processo può essere corretto o perfezionato in corso d’opera dietro
intervento dei cittadini.

Infine,
c’è un principio non scritto né codificabile. È il senso di solidarietà
che il metodo risveglia in ognuno. In Brasile, ciò può fungere da
collante. Per 500 anni questo paese è stato governato da ristrette élites.
Questo processo di partecipazione alla gestione della cosa pubblica è una
sorta di riscatto degli esclusi».

Un
successo, insomma. «Ma stiamo attenti – avverte Iria -. Non creiamo
illusioni: il sistema non è magico. Non risolve i problemi da un anno
all’altro. Non fa crescere i soldi sugli alberi. Certo, più cittadini
parteciperanno più il metodo si consoliderà. E soprattutto crescerà una
società formata da persone pensanti e coscienti delle possibilità che
questo sistema offre.

Né va
dimenticato che il sistema è un efficace antidoto contro la corruzione, il
patealismo, il clientelismo. Perché genera un forte controllo sociale
sulle azioni del governo».



COMUNISTI?

Rio
Grande do Sul è uno stato comunista?

Rio
Grande do Sul è uno stato dove si sta sperimentando una via alternativa
per la convivenza umana. Uno stato dove il principio del libero mercato
convive con un sistema che chiede alla gente di partecipare in prima
persona (e non soltanto attraverso i rappresentanti eletti) alla
costruzione di una società più equa e solidale.

Un
tempo un simile progetto sarebbe stato stigmatizzato con una sola parola:
utopia.

 

 


Lo
stato
di Rio
Grande do Sul


www.estado.rs.gov.br



ALCUNE CIFRE

 –
popolazione: 10.181.000 abitanti


superficie: 282 mila kmq (Italia: 301 mila kmq)


capitale: Porto Alegre (1,5 milioni di abitanti)


divisione amministrativa: 23 regioni e 497 municipi


partecipanti al processo del «bilancio partecipativo»:

nel
1999, 190 mila

nel
2000, 281 mila

nel
2001, 378 mila persone in 735 assemblee


indice di sviluppo umano (Hdi): 0,869 contro lo 0,750 del Brasile (69.mo
posto) e lo 0,909 dell’Italia (20.mo posto)

 

Come funziona l’«orçamento
partecipativo»



Partecipare è costruire


Il
cittadino costruisce la finanziaria


Organizzato da un’équipe di 50 persone, il bilancio partecipativo
interessa oltre 10 milioni di abitanti di Rio Grande do Sul, lo stato più
a sud del Brasile.

Si
tratta di definire come destinare il denaro pubblico dell’anno successivo,
arrivando a una proposta di bilancio da presentare all’Assemblea
legislativa (il parlamento dello stato) che dovrà convertirla in legge. Ma
come far partecipare il maggior numero di cittadini alla scrittura della
finanziaria?

Il
processo, che combina democrazia diretta con democrazia rappresentativa, è
complesso e per di più dinamico (principio della autoregolamentazione),
ovvero può essere modificato e perfezionato ogni anno tramite contributi
della popolazione. Si svolge da metà marzo a metà settembre e si può
schematizzare in tre fasi.

 Un
uomo, tre voti

In una
prima fase si realizzano assemblee a cui può partecipare chiunque abbia
almeno 16 anni, e dalle quali usciranno proposte e priorità per gli
investimenti in opere e servizi, nonché i nomi dei delegati per la fase
successiva. Qui tutti possono prendere la parola e proporre. Le assemblee
si svolgono sia a livello regionale (23) che municipale (497). Per le
regioni sono di due tipi: di «direttrice» e sulle «tematiche di sviluppo».
Nelle prime governo e popolazione definiscono le linee generali per
orientare il dibattito nelle tappe successive. Le direttrici sono discusse
in base alle potenzialità, carenze e vocazioni della regione. Nelle
seconde i cittadini iniziano a decidere sui programmi prioritari per la
regione, orientandosi su 9 temi (agricoltura, turismo, ambiente, creazione
di lavoro, educazione, ecc.). Tutti i partecipanti possono votare tre
programmi di diverse aree tematiche. Il punteggio sarà sommato a quello
ottenuto, successivamente, nelle municipali. Nelle stesse assemblee si
eleggono i cosiddetti delegati tematici regionali.

A
livello municipale i cittadini propongono, dibattono e votano le priorità
in opere e servizi relative alla città (con lo stesso sistema di voto
delle regionali) ed eleggono i delegati municipali.

 Delegati
all’opera

Il
secondo livello, più tecnico, è quello dei delegati, eletti nella prima
fase in proporzione di uno ogni 20 partecipanti alle assemblee. Questi si
riuniscono nelle Plenarie dei forum regionali, dove si incontrano i
delegati tematici e quelli municipali. È qui che si sistematizzano le
domande della popolazione (raccolte nella prima fase) secondo criteri di
carenza, viabilità tecnica, legale e finanziaria. Si eleggono, inoltre, i
consiglieri per il Consiglio statale del bilancio partecipativo (terza
fase). Nelle plenarie si costruisce già una parte del piano degli
investimenti e servizi dello stato.

 Ecco
il bilancio

Il
Consiglio statale è l’istanza massima del processo e lavora direttamente
con il governo alla proposta finale del piano di investimenti, che verrà
trasmesso all’Assemblea legislativa per l’approvazione. I consiglieri,
eletti per ognuna delle 23 regioni, costituiscono il collegamento tra la
popolazione e il governo, quindi tra democrazia diretta e rappresentativa.
È in questo spazio di lavoro che le aspettative popolari, già selezionate,
sono strutturate e armonizzate a livello di stato. I consiglieri
rappresentano le decisioni degli abitanti della loro regione di fronte al
governo e sono anche incaricati di informare la gente sullo svolgimento
delle ultime fasi del processo.


Delegati e consiglieri hanno il mandato di un anno e il loro lavoro non è
retribuito.

 Trasparenza
e controllo

Una
volta approvata la finanziaria, la popolazione segue le tappe di
esecuzione degli investimenti previsti. Tutte le decisioni prese sono
pubblicate nel «quaderno del piano di investimenti e servizi», strumento
essenziale per il controllo popolare delle realizzazioni. Il governo poi,
durante le assemblee, presenta i conti dello stato, ovvero il rendiconto
degli investimenti reali effettuati, per un’effettiva trasparenza del
bilancio pubblico.

Marco Bello Paolo Moiola




Giornale o vangelo?

Spettabile redazione,
sono passati mesi dal G 8
di Genova. Ma non posso
dimenticare le devastazioni
che la mia città ha subito
ad opera dei black
block, con la connivenza
di cosiddetti cattolici, preti
e non preti.
Si è distinta SUOR PATRIZIA
PASINI, missionaria
della Consolata, che a
Boccadasse ha aiutato delinquenti,
anarchici, atei.
Allego per maggiore chiarezza
un ritaglio de il
Gioale, 22 luglio 2001.
Mi auguro che nelle vostre
fila non ci siano altre
«Patrizie Pasini».

Le «Patrizie», come
quella de il Gioale, non
non sono mai esistite fra
le missionarie della Consolata.
Il quotidiano ha
attaccato anche l’episcopato
ligure… Forse giova
ricordare che il giornale
non è il vangelo.

Mina Razeto




«Penne nere» e «barbari»

Cari missionari,
esprimo il mio ringraziamento
per un particolare,
che conferma la vostra
sensibilità e correttezza. A
pagina 28 di Missioni Consolata,
gennaio 2002, riferendovi
alla foto che riproduce
dei militari, vi siete
premurati di specificare
che si tratta non solo di italiani,
ma di alpini.
L’azione degli alpini in
Mozambico, sotto la responsabilità
dell’Onu e
l’approvazione della Comunità
di Sant’Egidio, favorì
l’evoluzione dalla tregua
alla pace; quindi fu
positiva, evitando di transitare
per discutibili «alleanze
», anche se non
mancarono polemiche,
che sorgono ogni volta
che si tira in ballo lo strumento
militare.
Gli alpini della foto indossavano
i colori delle
forze dell’Onu e non il loro
glorioso cappello con la
penna nera; ma erano alpini
a tutti gli effetti: volontari
sì, ma nel compimento
del servizio di leva.
Sulla situazione attuale
e sull’evoluzione delle forze
armate italiane ci sarebbe
molto da disquisire, ma
non è un argomento strettamente…
missionario.
Colgo l’occasione per
dire che, lo scorso anno,
sono stato a Genova due
volte: la prima per l’adunata
nazionale degli alpini
in congedo e la seconda
con i missionari ad esprimere
il dissenso ai «prepotenti
della terra». Condivido
le vostre analisi e
critiche su questa globalizzazione
intrisa di barbaro
liberismo economico.

«Barbaro», secondo il
greco barbaròs, significa
pure «balbuziente». E
che il liberismo economico
«balbetti» lo si è visto
anche in Argentina, con
effetti deleteri.

Beppe Peroncini




«Il» problema

Spettabile redazione,
ho letto l’articolo sull’ambiente
(Missioni Consolata,
gennaio 2002). Bello!
Penso che la questione ecologica
non sia solo «un»
problema, ma «il» problema.
Seguirò con interesse
anche i prossimi articoli
della nuova rubrica.

I complimenti spettano
a Silvia Battaglia, ingegnere
ambientale, che cura
la serie di articoli «Una
sola madre terra».

Gianni Liggi-Samassi




A chi serve Bin Laden?

Cari missionari,
siete gli unici che non si
fanno «pilotare» dai potenti,
ovvero da quei signori
che hanno creato i
vari BIN LADEN e ora
piangono per tutto ciò che
accade.
Non sopporto gli atteggiamenti
ipocriti degli occidentali
(americani in testa),
cui interessa solo il
profitto e guadagno, non
tenendo conto degli altri…
Ho ammirato invece i giovani
a Genova, durante il
G 8, anche perché degli
«otto grandi» non c’è da
fidarsi molto. Ammiro pure
la dedizione dei missionari
sparsi nel mondo.
Purtroppo i nostri «capi» e quelli statunitensi
continuano a fare una politica
di parte, tenendo
buono «a fior di soldi» (ad
esempio) Musharaf, presidente
pakistano «dittatore», sicuramente nostro
prossimo nemico, quando
non sarà più gradito. E, intanto,
l’odiato Bin Laden
continua a servire agli Stati
Uniti per un ricambio di
tecnologia nel loro arsenale
bellico.
Caro direttore, ho detto
un’assurdità? Sarò lapidato
anche da lei?

Evitiamo i processi alle
intenzioni: lo ripetiamo
da sempre… È risaputo
che, in tempo di guerra,
la produzione e il mercato
delle armi fioriscono.
Meglio, impazziscono.

Alessandro




PICCOLE (O FORSE) GRANDI STORIE

Il vasto mondo dell’immigrazione,
oltre ai problemi di sopravvivenza, inserimento, lavoro
e integrazione, nasconde tra le sue pieghe anche
sommesse vicende di affetti.
Che, solo a volte (magari per caso),
riescono ad emergere. E toccano il cuore.

I NONNI DI ALDI

Sulle Langhe, intorno ad Alba, avevo
lasciato una fitta nebbia; ad
Alessandria, già in pianura, mi aveva
accolto invece un sole splendente:
strano, per un giorno di novembre.
Il sole entrava a illuminare anche
lo scompartimento di seconda
classe dell’intercity Asti-Bari, in cui
mi ero accomodata.
Mi colpì subito il vestito, interamente
nero, di una donna anziana
che occupava uno dei sedili accanto
al finestrino. Di fronte a lei, un
uomo; di lui notai la pesante giacca
di lana e una cravatta nera che, frusta
com’era, doveva aver visto molti…
lutti. Due nonni, come dicevano
i capelli quasi interamente bianchi
e i visi solcati dai segni della vita.
Parlavano tra di loro a bassa voce,
con dolcezza; lei più a lungo; lui
attento, in ascolto, rispondeva con
frasi più brevi; lei aveva tra le mani
un fazzoletto pronto per essere portato
agli occhi, che entrambi avevano
rossi di lacrime versate…
Avete mai colto il bello nel suono
di ogni lingua? Non riuscivo a decifrare
una parola di quella conversazione,
ma il fluire delle parole mi
incantava ugualmente. E poi c’era
dell’altro: non era un semplice parlare,
ma un sentimento, uno scambio
di qualcosa che, purtroppo, mi
sfuggiva. Di sicuro era una lingua
slava. Forse erano polacchi, che andavano
a Loreto a sciogliere un voto
alla Madonna o a chiedere una
grazia.
Mi perdonino i fratelli europei orientali.
Però a me, neolatina, le lingue
slave sembrano quasi tutte uguali,
mentre sono così diverse!
Non saprei dire perché, ma quando
sono di fronte a degli stranieri,
mi scatta dentro un qualcosa che io
chiamo «sindrome della padrona di
casa»: cioè un vivo desiderio di accogliere,
ma anche una volontà di
sapere, conoscere. Così, con discrezione,
cercai il dialogo.
Non erano polacchi. Venivano
dall’Albània (come essi dicono), e
non Albanìa (come diciamo noi). Avrei
dovuto capirlo subito: i capelli,
prima di diventare bianchi, erano
stati neri, non biondi; le loro stature
erano basse, i lineamenti sottili
e delicati come sono spesso quelli
degli albanesi. Il loro italiano era di
pochissime parole; ma riuscirono a
dirmi che venivano da Asti e andavano
a Bari, da dove avrebbero preso il traghetto per Durazzo. Da lì una
corriera li avrebbe portati a casa,
in un villaggio tra le montagne. Un
viaggio di 36 ore!
«Avete qualche figlio ad Asti? Lavora?
Sta bene?…». Qui ogni difficoltà
di lingua scomparve. Non saprei
dire come, ma in un soffio riuscirono
a farmi partecipe del loro
pianto e lutto. Sì, avevano un figlio
ad Asti, con un buon lavoro e una
bella famiglia: una brava moglie, anche
lei albanese e due ragazzi, Fatima
di 17 anni e Aldi 12.
L’estate scorsa i ragazzi, in attesa
che ricominciasse la scuola, avevano
trovato anch’essi un lavoretto.
Ma una mattina, Aldi andando in
bicicletta verso la pasticceria in cui
aiutava, fu investito da un’auto e ucciso.
Eccolo Aldi nella foto che la nonna
mi porgeva: un viso sorridente di
adolescente, che rinnovava negli occhi
e nel sorriso quello così stanco
del nonno. Prima di riporla nuovamente
nella busta bianca, la donna
baciò a lungo l’immagine del ragazzo.
Essi, i nonni, solo dopo quattro
mesi avevano potuto andare a piangere,
con quelli che restavano, sulla
tomba di Aldi. Ora, ancora in lacrime,
tornavano in Albania con
quel lutto così grande che non li avrebbe
lasciati mai più.
– Ritoerete in Italia?
– No Italia!
Lo dissero pacatamente, senza risentimento.
Poi non ci furono più
parole tra di noi. Soltanto, prima
ch’io scendessi alla stazione di Ancona,
un forte e lungo abbraccio. Il
dolore, tutti i dolori, ma soprattutto
quello per la perdita di una vita
giovane, non ha confini di nazionalità
e non ha bisogno di parole.
Parliamo tanto di immigrati, ma
ci sfugge il carico di sofferenze che,
in mille modi, l’immigrazione comporta.
Una morte, lontano dal proprio
paese e dai propri cari, è un dolore
infinitamente grande. Quante
famiglie immigrate attraversano l’esperienza
della morte?
Nel pianto dei nonni di Aldi c’era
anche questo: il rimpianto di una
tomba lontana; l’impossibilità di
parole e gesti verso i propri cari, anch’essi
carichi di lutto e dolore.
Si potrebbe cominciare anche da
qui per sentirci uguali: dall’esperienza
del dolore che, ahimé, non
manca nella vita di nessuno, sotto
qualsiasi cielo ci sia dato di vivere.

QUASI TUTTI MIEI FIGLI
Forse il più bel compleanno che
ho festeggiato non è stato uno
dei miei (ormai tanti e… grigi), ma
quello di Victoria.
Victoria Vicky viene dalla Nigeria
ed è una delle mie alunne più assidue
nel corso di lingua italiana per
stranieri. È graziosa e vivacissima;
come quasi tutti i ragazzi africani, è
pronta alla battuta di spirito e alla
risata fragorosa. Parla di sé, ma lo fa
con ritrosia; racconta della sua famiglia
e della vita in Italia quasi per
cenni, per lo più lasciando intuire.
Un pomeriggio annunciò a me e
ai compagni, con tutta la gioia possibile, che aveva ottenuto finalmente
il permesso di soggiorno. Un’altra
volta ci disse che fra una settimana,
il 14 di aprile, sarebbe stato
il suo compleanno. Avrebbe compiuto
20 anni.
Non potevo dimenticarlo: Victoria
è nata nel 1980, esattamente 11
giorni prima di mio figlio Luigi. Così,
quel 14 aprile, comprai un regalino
(troppo piccolo, solo ora me ne
rendo conto), scelsi un biglietto con
una scritta beneaugurante e andai a
scuola.
Quel pomeriggio Victoria era non
solo graziosa, ma anche elegante: sul
capo, una cascata di treccine artificiali
(un po’ bionde) alleggeriva ogni
suo movimento, quasi come in
una piccola coreografia.
Naturalmente incominciammo la
lezione d’italiano, scrivendo a lettere
di scatola sulla lavagna: «Buon
compleanno, Victoria!». E si continuò
sul tema. Ognuno volle dire come
si celebra il compleanno nel suo
paese, con piccole frasi, alcune più
corrette, mentre altre rimandavano
a strutture linguistiche inglesi, spagnole,
arabe, bengalesi, cinesi, russe,
polacche, albanesi.
Quante cose da imparare e condividere!
Zhara in Marocco non festeggia
compleanni, perché questo
non fa parte della tradizione islamica;
in Inghilterra, John finisce la sua
festa in un pub con gli amici; in Persia,
Faime inizia i festeggiamenti una
settimana prima; a Santo Domingo,
Daniel prepara salsa e merenghe
in casa, ma anche all’aperto;
a Lima, in Perù, non è facile per la
madre di Roxana festeggiare i compleanni
dei suoi 15 figli.
A Duala, in Cameroun, la mamma
di Martin prepara cibi tradizionali;
in Bangladesh, la casa di Zaman
e di Nasrim si riempie di tantissimi
fiori… Così, tra frasi scritte,
correzioni, letture ad alta voce ed esercizi,
anche in quel pomeriggio la
nostra lezione si avviava alla fine.
Però, ad un certo punto, Victoria
scomparve. Poi, aiutata da Faime e
Isabel, toò con un grande vassoio
di pasticcini e due bottiglie di spumante.
La lezione si sciolse così nel
più bel compleanno cui io abbia
mai partecipato. L’ambiente della
nostra scuola è povero; l’aula piccola
e disadoa. Ma la festa che abbiamo
vissuto tra quelle pareti resterà
indimenticabile.
Ho sentito che i «miei» 20 ragazzi,
arrivati dalle parti più lontane del
globo, diversi per lingua, religione,
costumi, colore della pelle… si volevano
bene ed erano felici di stare insieme.
Alla ventenne Victoria abbiamo
cantato «buon compleanno» in 10
lingue diverse; ogni canto veniva ascoltato
con curiosità, rispetto ed
interesse, seguito da applausi davvero
giorniosi. Tutti, poi, hanno voluto
essere fotografati con tutti.
Io li guardavo incantata e pensavo:
«Potrebbero essere tutti miei figli!».

LA STORIA DI BILEN
Èsabato sera. E già penso che lo
scorrere delle ore mi porterà la
solita ansia, che si placherà soltanto
quando sentirò girare per due
volte la chiave nella toppa; quando
cioè i miei due figli, entrambi maggiorenni,
saranno rientrati a casa,
dopo aver celebrato il rito del sabato;
dopo essersi omologati al costume
di questo nostro tempo, per cui
le ore del divertimento e dello stare
insieme debbono necessariamente
essere quelle tarde o tardissime della
notte!
La mia tensione del sabato sera è
condivisa da molte altre madri. A loro
voglio raccontare una storia, per
dire che ci sono altre mamme la cui
ansia non conosce sabati, perché nasce
da una separazione totale, da uno
strappo crudele, che noi madri italiane
non riusciamo nemmeno a
pensare possibile.
Bilen ha l’età di mia figlia, 24 anni.
È una graziosa filippina, delicata
e gentile (come sono spesso le orientali),
che assiste con intelligenza
e discrezione una signora, mia
amica. Bilen è sposata a un suo connazionale,
che stenta a trovare in
talia un posto di lavoro fisso; ha tentato
in Veneto; poi è tornato ad Ancona.
Così è essenziale che Bilen
mantenga la sua occupazione. Non
ci sono problemi per questo: Bilen
è brava ed apprezzata. Ma aspetta
presto un bambino.
È felice e trepidante insieme. Intanto
continua a lavorare presso la
signora, che le vuole bene e ha per
lei tutte le accortezze che avrebbe
una madre, sino al nono mese… E
nasce Marilù, un delizioso batuffolo
dagli occhi a mandorla, un mondo
di tenerezza.
Non vedo più Bilen e la immagino
presa dal suo tenero pargoletto
dalla pelle d’ambra e dai capelli di
ebano. Chiedo notizie di lei. «Bilen
è triste e nervosa» mi rispondono.
Non riesco a spiegarmi: perché Bilen,
così dolce e sempre sorridente,
è triste e nervosa?
Immagino che si tratti di problemi
di lavoro: lei dovrà stare con la
piccola Marilù e il marito sarà ancora
alla ricerca di un’occupazione;
forse dovranno chiedere una mano
a qualcuno dei numerosi filippini di
Ancona. E, per una giovane coppia,
è sicuramente fonte di preoccupazione.
Niente di tutto questo. Bilen e il
marito lavorano entrambi. Allora
sarà una zia o una nonna ad occuparsi
della piccola? In un certo senso
è così: una zia, che tornava nelle
Filippine, ha portato con sé la piccola;
essa ora è in un villaggio presso
Manila, dalla nonna, la madre di
Bilen. È successo dopo quattro mesi
dalla nascita.
La notizia mi veniva data con naturalezza
dalla nuova giovane filippina,
che ha sostituito Bilen presso
la signora mia amica. Io ascoltavo
quasi con raccapriccio, incredula,
in un impotente moto di dolore, solidale
con la giovane madre. Poi ho
ragionato su ciò che avevo giudicato
una barbara legge di clan, un’efferata
crudeltà.
I genitori di Marilù avevano cercato
un asilo nido ad Ancona, ma avrebbero
dovuto pagare una quota
mensile di 260 euro; con tale somma,
che essi inviano nelle Filippine,
vive tutta la famiglia di Bilen: padre,
madre, i sei fratelli… e la stessa Marilù.
Anche questo è immigrazione. La
penuria di risorse vitali, che determina
lo strazio innaturale della separazione
di due creature, fatte per
vivere l’una dell’altra; la povertà che
travolge gli affetti più sacri e li muta
in privazione affettiva e in dolore;
l’incapacità di noi piccoli «ricchi
» e delle nostre istituzioni di sollevare
situazioni limite, come quella
di Bilen e della sua Marilù che chiedevano,
in fondo, soltanto un posto
meno costoso in uno dei nostri asili
nido.
E noi, mamme italiane, ci permettiamo
«il lusso» di stare in ansia
per i nostri sfaccendati figli, che
fanno le ore piccole. Poi, la domenica
mattina, tutti zitti in casa, per
carità: i «giovin signori» riposano!
Gran Dio, ci sarà mai
giustizia per i poveri del
mondo?

(*) Docente di lettere nella scuola
media «Giovanni Pascoli» di
Ancona, RITA VIOZZI MATTEI è impegnata
anche in un gruppo missionario
e insegna italiano ad un
gruppo di immigrati.

Rita Viozzi Mattei




LA LUNGA MANO DELLA PROVVIDENZA

Nata nel 1970 per impulso
del Concilio Vaticano II,
la Caritas Italiana
è uno strumento di animazione
delle comunità cristiane
nell’esercizio della carità.
Questa panoramica storica
ne evidenzia tappe di crescita,
situazione presente
e proiezioni verso il futuro.

C’era una volta… la Poa (Pontificia
opera di assistenza):
organismo con cui, durante
la guerra e nel periodo della ricostruzione,
il papa faceva arrivare alla
chiesa italiana gli aiuti dei cattolici
americani: ingenti quantità di generi
alimentari per le colonie estive,
acquisto e messa a disposizione di sedi
e assistenti sociali.
Per 30 anni, fino al 1970, quando
il papa sciolse la Poa, le diocesi erano
abituate a ricevere. Nel 1971 la
Cei (Conferenza dei vescovi italiani)
istituì la Caritas Italiana: le diocesi venivano
chiamate, non più a ricevere,
ma a condividere aiuti e servizi.

CAMBIO DI MENTALITÀ
La Caritas nasceva come strumento
pastorale di animazione di tutta la
comunità cristiana nell’esercizio della
carità. Tale identità è stata espressa
chiaramente da Paolo VI nel settembre
del 1972: «Una crescita del
popolo di Dio nello spirito del Concilio
Vaticano II non è concepibile
senza una maggior presa di coscienza
da parte di tutta la comunità cristiana
delle proprie responsabilità
nei confronti dei bisogni dei suoi
membri» .
Era Paolo VI che voleva fermamente
la Caritas; la Cei l’ha istituita
forse più per obbedienza che per
piena convinzione, preoccupata che
sorgesse un’altra Poa sulle sue spalle.
Occorreva un cambiamento radicale
nella mentalità e costume della
chiesa italiana. È emblematico a tale
proposito l’incontro che ebbi con un
vescovo incaricato, a livello regionale,
di seguire l’organizzazione delle
Caritas diocesane. «Che cosa ci portate?» mi chiese. «Nulla» risposi. «E
allora perché ci siete?».
Eppure lo Spirito con il Concilio
faceva sorgere nel popolo di Dio una
sensibilità nuova. Nel settembre
1972, mentre stavamo per dare inizio,
alla Domus Mariae (Roma), al
primo Convegno Nazionale delle
Caritas diocesane, si avvicinò timidamente
una donna e mi mise in mano
una busta con 1 milione e 200 mila
lire: erano gli arretrati della pensione
sociale appena riscossi.
Un segno incoraggiante a continuare
un progetto rivoluzionario. Ve
ne furono altri.

EVENTI INCORAGGIANTI
La celebrazione del primo Convegno
nazionale delle Caritas diocesane
nel settembre 1972 era già un’incoscienza:
di Caritas diocesane non
ne esisteva ancora neanche una e i
delegati erano gli stessi che gestivano
gli uffici diocesani della Poa.
Provvidenzialmente, alla fine dell’incontro,
il vicepresidente della
Cei, mons. Castellano, dichiarò formalmente
che nelle diocesi la Caritas
doveva essere una cosa nuova, diversa
dalla Poa. Fu un punto di chiarezza
fondamentale per il futuro
della Caritas.
Un altro fatto provvidenziale fu
l’udienza papale alla fine del Convegno.
Quando andai dal maestro di
camera per chiedere l’incontro, questi
mi chiese se avevamo desideri particolari
di cui il santo padre tenesse
conto nel suo discorso. Mi venne
spontaneo chiedergli che ci commentasse
lo Statuto che ci aveva dato
la Cei. Il papa ne fece l’interpretazione
autentica, sottolineò natura,
funzione, attualità, metodo della Caritas
(vedi riquadro), con una ricchezza
e lungimiranza di contenuti
che non potevamo né prevedere né
aspettarci. E fu la nostra forza, anche
di fronte a incertezze e pareri che incontravamo
lungo la strada.
Un’altra circostanza provvidenziale
ci aiutò a dare l’impronta alla
Caritas: avevamo ricevuto il mandato
di avviarla, ma nessuno aveva pensato
a un fondo per le spese: siamo
partiti nella povertà.
Per raccogliere offerte al tempo
della fame in Biafra (Nigeria), mons.
Freschi aveva messo in piedi una rivistina
di 4 facciate: Italia Caritas. Da
quel rivolo ci venne il necessario per
il primo anno di vita. Ciò che trattenevamo
lo consideravamo un prestito
che ci facevano i poveri, perché
potessimo servirli; quando avessimo
avuto più risorse lo avremmo restituito.
Ciò che facemmo negli anni
successivi.
Fu una grande lezione che ci fece
comprendere che vivevamo con i
soldi dei poveri e che in tutto dovevamo
avere uno stile di sobrietà e povertà.

ARRIVA IL VOLONTARIATO
Intanto emergevano le prime punte
del volontariato: Gruppo Abele,
Comunità di Capodarco, gruppi di
punta delle periferie urbane. Ci interrogavamo
sul significato di tale fenomeno
e sul come comportarci con
i volontari, finché decidemmo di ascoltarli,
per sentire cosa facevano e
pensavano. Nell’autunno del 1975
organizzammo a Napoli il primo
Convegno nazionale del volontariato.
Fu una scoperta per il numero,
qualità di esperienze, carica ideale e
politica.
Decidemmo di coltivare tale movimento,
distinguendo però i ruoli:
la Caritas avrebbe esercitato la sua
prevalente funzione pedagogica di
promozione, formazione e cornordinamento,
lasciando ai cristiani laici
il compito di organizzarsi per l’azione.
Nel maggio 1976 ci fu il terremoto
del Friuli: era la prima grave emergenza
che la Caritas affrontava.
Insieme agli oltre 10 mila volontari,
era presente anche la Caritas Italiana.
Ci venne una ispirazione: verrà
l’inverno, gli studenti andranno a
scuola, gli operai toeranno al lavoro,
questa gente rimarrà sola; è il momento
della presenza della chiesa.
Proponemmo alle diocesi e alle rispettive
Caritas che stavano formandosi
di farsi carico ciascuna di una
parrocchia colpita, assicurando per
tre anni una presenza continuativa:
80 diocesi da Aosta a Otranto risposero
all’appello, gemellandosi con altrettante
parrocchie friulane: fu
un’esperienza forte di condivisione
che, oltre a promuovere e sviluppare
molte Caritas diocesane, divenne
poi un metodo costante, adattato alle
diverse situazioni negli interventi
della Caritas.
Nell’ottobre 1976, durante il primo
Convegno ecclesiale su «Evangelizzazione
e promozione umana»,
svolsi la prima relazione sul tema «Evangelizzazione
ed emarginazione»,
documentando la situazione della
chiesa italiana su tale argomento e
mons. Pasini portò nella sesta Commissione
i principali contenuti che
portavamo avanti come Caritas: implicitamente
avvenne la presentazione
ufficiale della Caritas Italiana davanti
a un centinaio di vescovi e un
migliaio di delegati delle diocesi.
Al termine del Convegno l’assemblea
approvò con un lunghissimo
applauso la mozione presentata dalla
Commissione, con cui si chiedeva
«al Convegno di fare propria la proposta
di farsi carico della promozione
del servizio civile, sostitutivo di
quello militare, nella comunità italiana,
come scelta esemplare e preferenziale
dei cristiani, e di allargare le
proposte di servizio civile anche alle
donne».
Così entrarono nella Caritas il servizio
civile degli obiettori di coscienza
e l’anno di volontariato sociale
per le ragazze.

NUOVI ORIZZONTI
All’inizio del 1980 i giornali parlavano
dei profughi del Vietnam, del
«popolo delle barche». Durante un
viaggio in India, per un progetto di
ricostruzione di capanne distrutte da
un ciclone, insieme a mons. Motolese
approfittai per fare un salto in Malesia
e renderci conto della situazione:
il paese aveva già 70 mila profughi
vietnamiti e non ne voleva altri:
impediva l’approdo delle barche e le
ributtava in mare.
I capi religiosi della Malesia, cattolici
e protestanti, ebrei, musulmani
e buddisti, avevano lanciato un
appello a tutti i credenti del mondo
perché premessero sui loro governanti
affinché accogliessero i profughi
vietnamiti.
Insieme a gruppi e movimenti facemmo
forti pressioni sul governo
che, in prossimità delle elezioni nella
primavera del 1981, cedette, a condizione
che trovassimo preventivamente
lavoro e abitazioni. Un appello
alle Caritas diocesane offrì lavoro
e alloggio per 10 mila famiglie, utilizzati
solo per 3 mila profughi, a causa
di resistenze burocratiche.
Lo statuto della Caritas prevede
interventi nel terzo mondo. Ad allargare
l’orizzonte della carità furono
le grandi calamità che hanno colpito
i paesi poveri: siccità nel Sahel,
carestia in Ghana, Uganda e Mozambico,
guerra e fame in Somalia ed
Eritrea, alluvioni in Bangladesh e India,
terremoto in Guatemala, guerra
civile e carestia in Salvador. Situazioni
che ho vissuto di persona con tre
momenti successivi: intervento immediato,
presenza di solidarietà da
chiesa a chiesa e progetti di ricostruzione
e sviluppo.
Molti dei progetti sono stati realizzati
in collaborazione con lo stato
italiano: accoglienza dei profughi
vietnamiti, installazione dell’ospedale
di Tha Praja in Thailandia, invio
di aiuti in Ghana, Algeria ed Eritrea,
costruzione dei Centri sociali in
Umbria, attuazione del programma
Fai (Fondo aiuti inteazionali) su richiesta
del ministro Forte.
Lo stato si assumeva la spesa delle
operazioni che, per motivi diversi,
non era in grado di fare direttamente.
Fu una collaborazione reciproca,
leale e trasparente.

ULTIMI 15 ANNI
La seconda parte del trentennio di
vita della Caritas Italiana è stata caratterizzata
da un crescente impegno
nella formazione degli operatori al
servizio della carità. Per sacerdoti e
diaconi permanenti è stata inserita,
nei programmi di seminari diocesani,
università e facoltà teologiche dipendenti
dalla Cei, una disciplina
specifica: «Teologia e pastorale della
carità».
Per imprimere maggior impulso ai
rapporti con il territorio, sono state
promosse le scuole socio-pastorali,
analisi dei bilanci comunali, cornoperative
di solidarietà sociale, osservatori
delle povertà e centri di ascolto.
Inoltre, lo sviluppo delle Caritas parrocchiali
ha contribuito ad accrescere
la partecipazione attiva di regioni
e diocesi alla vita della Caritas Italiana
nella preparazione e gestione del
convegno nazionale e sulle altre attività
promosse a livello nazionale e internazionale.
Un momento problematico si è rivelato
l’avvio dell’operazione «8 per
mille». Avevamo insistito perché le
somme destinate alla carità, soprattutto
per il terzo mondo, fossero gestite
dalla Caritas, in conformità allo
statuto datole dalla Cei, onde evitare
confusioni e conflittualità. La presidenza
della Cei ha preferito gestire
direttamente tali aiuti. Anche questo
fu provvidenziale: ha evitato il rischio
di essere percepita come una
centrale di potere finanziario.
Nei rapporti con la società civile, la
Caritas Italiana ha assicurato una
presenza sistematica in varie commissioni
governative: povertà, minori,
Aids, immigrazione, pari opportunità;
ha offerto contributi alla produzione
legislativa: leggi quadro sui
servizi sociali, immigrazione, volontariato,
cooperazione sociale, riforma
della legge sull’obiezione di coscienza,
servizio civile per tutti; ha contribuito
a promuovere sensibilità e solidarietà
verso le fasce deboli, con la
poderosa pubblicazione della Biblioteca
della solidarietà in 37 volumi.
Negli ultimi 15 anni, inoltre, si sono
moltiplicate le emergenze in cui
la Caritas è stata presente con consistenti
aiuti: Eritrea ed Etiopia, Israele-
Palestina, Salvador, Sudan, Armenia,
Romania, Iran, Urss e Lituania,
Somalia, Bangladesh, Albania,
Croazia e Serbia, Bosnia-Erzegovina,
Kosovo, Rwanda, Angola.
In tali emergenze la Caritas ha avuto
anche i suoi martiri: Gabriella
Fumagalli a Merca in Somalia, Antonio
Siriana e Roberto Bazzoni nel
Kosovo.

PER I PROSSIMI 30 ANNI
Grazie alle numerose attività svolte,
la Caritas si è progressivamente
modificata e ingrandita: ha dovuto ricercare
nel tempo l’equilibrio tra l’essenziale
vocazione di animazione e la
risposta a provocazioni molteplici
per impegni concreti. Per costruire il
futuro, essa dovrà affrontare con realismo
e lungimiranza il presente.
Guardando la situazione attuale
nella prospettiva del futuro, vedo
uno scoglio per le Caritas diocesane,
che rimangano sopraffatte dalla gestione
di servizi, sotto la pressione
dei bisogni emergenti.
Inoltre, il bilancio storico di questi
30 anni mostra come la Caritas Italiana
e quelle diocesane hanno avuto
un impensabile sviluppo; non
si può dire altrettanto a livello di parrocchie.
È, quindi, urgenza inderogabile
promuovere Caritas parrocchiali
autentiche: animazione della
carità e attuazione della funzione pedagogica
non si realizzano né a Roma,
né nei centri diocesani, ma nelle
singole comunità parrocchiali, dove
si celebra l’eucaristia, dove vivono le
persone e le famiglie. Può essere l’obiettivo
dei prossimi 30 anni.
Vi sono altri due obiettivi da affrontare
con coraggio e competenza,
sollecitando la collaborazione degli
altri uffici pastorali interessati e dei
gruppi e movimenti presenti nella
comunità cristiana.
Prima di tutto la tutela dei più deboli
nello sviluppo o involuzione
delle politiche sociali. Bisognerà richiamare
costantemente i compiti e
le responsabilità delle pubbliche istituzioni;
affermare concretamente
il valore della gratuità nel volontariato;
animare i cristiani alla solidarietà
sociale, perché tutta l’economia
mantenga al centro la persona. Sarà
un lavoro contro corrente, per contrastare
l’attuale cultura dominante
neoliberista, che mette al centro non
la persona, ma l’economia a servizio
degli interessi privati.
Il secondo obiettivo consiste nell’investire
nei giovani, aiutandoli a
passare dall’obiezione di coscienza
al servizio civile volontario. Ciò richiede
una forte educazione alla non
violenza, alla pace e mondialità; aiutarli
a superare la cultura della guerra
e affrontare in senso positivo la sfida
della globalizzazione; dare loro
speranza e guida contro le strumentalizzazioni
di destra e di sinistra.
La Caritas Italiana potrebbe offrire
un segno profetico di forte risonanza:
orientare i giovani che decideranno
di fare il servizio civile volontario
a compiere tale impegno
nei paesi poveri, a fianco del volontariato
internazionale e nei servizi
assistenziali, sanitari, educativi delle
missioni. Sarebbe una forte esperienza
educativa, che aiuterebbe
i giovani a cambiare
il mondo.

(*) Mons. Giovanni Nervo
è una figura storica della Caritas
Italiana: ne è stato presidente
per 15 anni (1971-1986).

Connotati CARITAS

Paolo VI ai delegati del I Convegno
nazionale delle Caritas diocesane.
Qualificazione istituzionale: «Senza
sostituirsi alle istituzioni già esistenti
in campo assistenziale nelle varie
diocesi, la Caritas si presenta come
l’unico strumento ufficialmente
riconosciuto a disposizione dell’episcopato
per promuovere, cornordinare e
potenziare le attività assistenziali nella
comunità ecclesiale italiana».
Funzione: «Creare armonia e unione
nell’esercizio della carità, di modo
che le varie istituzioni assistenziali,
senza perdere la propria autonomia,
sappiano agire in spirito di sincera
collaborazione, superando individualismi
e antagonismi e subordinando
gli interessi particolari alle esigenze
del bene generale della comunità».
Mezzo di rinnovamento conciliare:
«La crescita del popolo di Dio nello
spirito del Vaticano II non è concepibile
senza una presa di coscienza da
parte di tutta la comunità cristiana
delle proprie responsabilità nei confronti
dei bisogni dei suoi membri. La
carità resterà sempre per la chiesa il
banco di prova della sua credibilità nel
mondo».
Funzione pedagogica: «Al di sopra
dell’aspetto materiale della sua attività,
emerge la funzione pedagogica
della Caritas, l’aspetto spirituale, che
non si misura con cifre e bilanci, ma
con la capacità che essa ha di sensibilizzare
chiese locali e singoli fedeli
al senso e dovere della carità, in forme
consone ai tempi e bisogni. Mettere
a disposizione dei fratelli energie
e mezzi non è frutto di slancio emotivo
e contingente, ma conseguenza logica
di una crescita nella comprensione
della carità che scende necessariamente
a gesti concreti di comunione
con chi è in stato di bisogno».
Metodo: «È indispensabile superare i
metodi empirici e imperfetti, nei quali
spesso si è svolta l’assistenza, e introdurre
nelle nostre opere i progressi
tecnici e scientifici della nostra epoca.
Di qui la necessità di formare
persone esperte e specializzate; promuovere
studi e ricerche per una migliore
conoscenza dei bisogni e delle
cause che li generano e per una efficace
attuazione degli interventi. Oltre
a giovare ai fini di una programmazione
pastorale unitaria, la Caritas
servirà a stimolare gli interventi delle
pubbliche autorità e un’adeguata
legislazione».

Giovanni Nervo