LA PACE NON PUÒ ATTENDERE

Guerriglieri senza scrupoli e squadroni della
morte, entrambi considerati anche terroristi.
Narcotrafficanti, corrotti, impuniti, profughi,
disoccupati… E soprattutto tanti morti
ammazzati. Di fronte alla violenza, il governo
è troppo debole? E la chiesa poco profetica?

Ho dovuto lasciare la Colombia
per motivi di salute. Potrei
parlare di questa mia
ultima esperienza, dura e improvvisa.
Oggi, come non mai, mi sento
nelle mani di Dio… Se detto queste
considerazioni sul paese è anche per
«distrarmi», per non crogiolarmi eccessivamente
nei miei guai. Ma non
sono «distrazioni» allegre.

Ndr: Padre Claudio Brualdi allude
alla propria maculopatia, che improvvisamente
l’ha reso quasi cieco.
All’origine della malattia c’è il diabete,
ma anche l’intenso stress cui il
missionario è stato sottoposto in Colombia.
Superiore dei missionari della
Consolata nel paese, padre Claudio
si è dovuto dimettere dal servizio.

IL DISTACCO DELLA GENTE
È arduo presentare la Colombia.
La nazione sta attraversando una situazione
assai complessa: forse è all’apice
del dissesto. Fino a ieri, parlando
della Colombia, si pensava al
narcotraffico come al problema numero
uno. Il narcotraffico esiste, ed
è una questione scottante, ma con
l’aggravante di altre.
Ciò che preoccupa maggiormente
non sono solo i problemi, ma che
si stenti ad intravvedee la soluzione,
una speranza per il futuro. Si aspetta
che le cose cambino, ed invece
la matassa si aggroviglia sempre
di più. Il governo è inetto da molto
tempo: non è capace di compiere
riforme serie. Ogni quattro anni si
vota: i nuovi governanti promettono
mare e monti, ma tutto rimane
come prima. La gente ha perso la fiducia.
Alle ultime elezioni del 1998 votarono
10 milioni di persone, cioè
meno del 40%. Esiste un distacco
dalla politica: forse per questo il governo
non è in grado di attuare le
riforme giuste. In parlamento, poi,
siedono personaggi che pensano di
più ai loro interessi che ad un cambio
positivo nel paese.
L’esercito nazionale non sembra
all’altezza per fronteggiare la guerriglia:
una guerriglia di estrema sinistra,
che dura quasi da 50 anni,
oggi divenuta più aggressiva. Spiccano
due movimenti guerriglieri:
Farc (Forze armate rivoluzionarie di
Colombia) e Eln (Esercito di liberazione
nazionale). Le Farc contano
15-20 mila uomini e l’Eln 6-8 mila.
Da 7-8 anni è all’opera un’altra
forza, paramilitare di estrema destra,
fonte di guai pari (se non superiori)
a quelli causati dai guerriglieri.
I paramilitari sono cresciuti molto
in poco tempo: se, in 50 anni, la
guerriglia ha raccolto 25 mila armati,
i paramilitari in 7-8 anni sono diventati
15 mila.
Come è sorta la terza forza eversiva?
Data l’incapacità dello stato di
tutelare gli interessi dei grandi ricchi
(fra cui i «baroni della droga»),
questi (con il sostegno di alcuni generali)
si difendono da sé, assoldando
squadracce armate. Il nome è eloquente:
Autodifese unite di Colombia
(Auc).
Farc, Eln e Auc sono stati dichiarati
gruppi terroristici. Sono tre forze
che contribuiscono a fare della
Colombia, forse, la nazione più violenta
del mondo. Ormai da tempo
nel paese si contano, in media, ogni
anno 25-30 mila morti ammazzati.
Sono circa 30 i gruppi terroristici
nel mondo, e tre di questi operano
in Colombia. Pertanto uno dei
bersagli possibili dell’amministrazione
di George W. Bush (che vuole
sradicare il terrorismo dal pianeta)
potrebbe essere anche la Colombia.
Tuttavia il «caso Colombia»
è particolare, in quanto lo stato non
appoggia i movimenti terroristici.

ALCUNI NODI CRUCIALI
Le guerriglie sono ormai divenute
«storia». Sono forti non solo per
il numero dei loro membri, dotati di
armi potenti, ma anche perché possono
imporre condizioni allo stato
di diritto.
Negli ultimi quattro-cinque anni
si è manifestata una forma straordinaria
di guerriglia, che ha attaccato
i piccoli centri della nazione: nessuno
è rimasto indenne. I mezzi usati
sono rudimentali: cilindri di gas esplosivo,
imbottiti di chiodi e vari
oggetti contundenti, che scoppiano
contro persone e cose… Non sono
«bombe intelligenti»!
Gli ordigni esplodono presso le
sedi di polizia, nel cuore del paese,
vicino alle chiese. Per cui le bombe
fanno scempio pure degli edifici sacri
(cfr. Missioni Consolata, giugno
2000). Una conseguenza del terrore
è l’esodo dalle campagne verso i
centri urbani, anche perché dal
campo la popolazione non trae più
mezzi sufficienti per vivere. E le città
diventano megalopoli, circondate
da misere favelas. Ogni anno a Bogotà
arrivano circa 300 mila individui,
si dice… Nel paese si contano 2-
3 milioni di sfollati interni: devono
lasciare tutto per sfuggire alla violenza;
ma, approdati altrove, non
trovano lavoro. La disoccupazione
è al 21%.
Né si dimentichi il narcotraffico.
I cartelli di Medellín e Cali sono spariti.
Però ci sono gli eredi. E le guerriglie
controllano le coltivazioni di
coca e i ricchi traffici di cocaina.
Un altro problema gravissimo è la
corruzione politica, con fiumi di denaro.
E tutto resta impunito. Impuniti
anche i reati contro i diritti umani,
che riguardano spesso i paramilitari.
I processi iniziano, ma non
finiscono, perché di solito mancano
le prove di colpevolezza.

QUALE PROCESSO DI PACE?
Bisogna accennare anche del processo
di pacificazione. Il presidente
della repubblica, Andrés Pastrana,
ne ha fatto la bandiera del suo
governo. Non ancora eletto, si incontrò
subito con Manuel Marulanda,
capo delle Farc, sorprendendo
tutti. Qualcuno criticò il gesto.
Pastrana incominciò a governare
il 7 agosto 1998 tra grandi aspettative.
In vista della pacificazione con
la guerriglia, il presidente stabilì una
«zona di distensione», smilitarizzata:
42 mila chilometri quadrati
nel Meta e Caquetà (dove operano
i missionari della Consolata).
Fino al natale 1998 ci furono ostacoli
per iniziare i colloqui tra governo
e Farc: per esempio, a San Vicente
del Caguán, c’era un battaglione
di 1.500 soldati, che secondo
le Farc dovevano essere tutti ritirati;
ima, secondo il governo, almeno
100 dovevano restare per opere di
manutenzione. Alla fine vi fu il ritiro
di tutti i soldati; solo il sindaco
poteva restare. Intanto si organizzò
una guardia civica, composta da
simpatizzanti delle Farc, per controllare
il territorio.
Il 7 febbraio del 1999 Pastrana
subì un grave smacco. Quel giorno
si doveva inaugurare ufficialmente a
San Vicente il processo di pace. Tutto
era pronto, però Maluranda non
si presentò. Il processo tuttavia incominciò,
ma senza risultati concreti.
L’unico aspetto positivo è stato
«un inizio» di dialogo, varie volte sospeso
e ripreso.
Nell’agosto 2000 Pastrana lanciò
anche il «Piano Colombia», ispirato
e finanziato dagli Stati Uniti, con
il quale progettava di sradicare 60
mila ettari di coltivazioni di coca.
Dato il legame tra guerriglia e coca,
il Piano mirava a indebolire le Farc
e i narcotrafficanti, invece di affrontarli
sul campo di battaglia.
Però gli attacchi ai civili sono continuati
fino ad oggi, con numerose
vittime. Il governo, criticato per il
suo atteggiamento arrendevole verso
la guerriglia, ha imposto alle Farc
delle condizioni per continuare il
dialogo, e cioè: rispettare la vita dei
civili e non coinvolgerli in conflitti;
sospendere i sequestri di persona e
abbandonare i blocchi stradali per
estorsioni (la cosiddetta «pesca miracolosa»).
Ma la matassa non si dipana, perché
le Farc (ad esempio) comprendono
72 fronti, e ognuno fa ciò che
vuole. Si pone allora il quesito: nelle
trattative Marulanda chi rappresenta?
La guerriglia, una parte e quale?

«I VESCOVI LAMENTANO…»
Il processo di pacificazione, nato
tra grandi speranze, sta naufragando?
Le critiche verso il presidente
Pastrana sono dure, perché avrebbe
scontentato tutti. Ma anche i governi
precedenti non hanno conseguito
risultati. Pastrana, se è stato
indulgente verso la guerriglia, è stato
pure coraggioso. Gli altri non lo
sono stati altrettanto.
E l’atteggiamento della chiesa? In
questo contesto ho la sensazione che
non stia svolgendo il ruolo che dovrebbe.
La chiesa è presente nel processo
di pace, però non con una posizione
autonoma: infatti la guerriglia
ritiene che il presidente della
Conferenza episcopale al processo
sia quasi una voce del governo.
L’analisi della realtà è buona; però
le belle riflessioni terminano con un
generico «i vescovi lamentano…». È
troppo poco in un clima di violenza
e ingiustizia. La presenza della chiesa
non appare incisiva, profetica.
Si sapeva che il processo di pace
sarebbe stato lungo e tortuoso. Ma
sono già trascorsi tre anni! Quanto
bisogna attendere ancora? C’è chi
ricorda con amarezza il detto latino:
dum Romae consulitur Saguntum espugnatur
(mentre a Roma si discute,
Sagunto viene presa).
In Colombia le vittime
sono già state un esercito.

San Vicente del Caguán, 19 gennaio 2002: il governo e i portavoce delle
Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) siglano un accordo
per attuare il piano di pace. Sono presenti anche membri della chiesa cattolica
(fra cui Francisco Múnera, missionario della Consolata e vescovo di
San Vicente) e rappresentanti delle Nazioni Unite.
Per uscire dal conflitto, che da 37 anni insanguina il paese, si dovrà seguire
i punti concordati. Le Farc non si oppongono allo sradicamento manuale
delle coltivazioni illegali di coca, pur ribadendo che devono essere
consultate le comunità interessate. I punti principali dell’intesa:
– immediato studio sulle modalità per il «cessate il fuoco»;
– sospensione dei sequestri di persona da parte della guerriglia;
– lotta del governo contro i paramilitari.
Una commissione internazionale verificherà che i punti siano stati rispettati
e aiuterà a superare eventuali ostacoli. La firma dell’accordo concreto
sulla cessazione delle ostilità si dovrà avere entro il 7 aprile 2002.
L’«area di distensione» resterà in vigore fino al 10 aprile.
L’incontro era iniziato male. Infatti il giorno prima era stato assassinato
padre Arias Garcia, 30 anni, impegnato nella sua parrocchia di Florencia
(Caldas) in un negoziato tra guerriglieri e paramilitari locali.
D’altro canto i paramilitari hanno denunciato l’accordo; hanno tacciato
il presidente Pastrana di codardia, accusandolo di «aver concesso tutto
in cambio di niente».

Claudio Brualdi




LOTTE DI SUCCESSIONE

Colonia francese dalla fine del secolo
XIX, la Costa d’Avorio ottenne l’indipendenza
nel 1960. La stabilità politica,
garantita all’autoritarismo patealista
del presidente Félix Houphouët-
Boigny, e la manodopera a buon mercato
attirarono nel paese gli investimenti
inteazionali, procurando una
crescita economica pari quasi al 10%
annuo. Ma a partire dal 1979, tale crescita
fu azzerata dalla recessione dell’Occidente:
il debito estero fu quadruplicato,
siccità e calo dei prezzi dei prodotti
di esportazione (cacao, caffè,
cotone, zucchero…) aggravarono la crisi
economica del paese.
Gli «aggiustamenti strutturali» imposti
dal Fondo monetario per raddrizzare
la situazione appannarono la figura
del presidente, che nel 1990 aprì la
strada alla democrazia pluralistica.
Nel 1993, la morte di Boigny (88 anni,
33 di potere incontrastato) innescò
la lotta per la successione. Lo sostituì il
presidente dell’Assemblea nazionale,
Henri Konan-Bédié, che costrinse il contendente,
il primo ministro Alassane
Ouattara, a dare le dimissioni. Passato
all’opposizione, questi fondò il Raggruppamento
dei repubblicani (Rdr), appoggiandosi
a musulmani e stranieri. Ma
le elezioni presidenziali del 1995, boicottate
dall’opposizione, furono stravinte
da Bédié, che, per mettere del tutto
fuori il suo rivale, fece una legge, poi
inserita nella costituzione e approvata
con referendum, che dichiarava ineleggibile
alla presidenza chi non avesse entrambi
i genitori di origine avoriana.
Nato nel nord della Costa d’Avorio
(1942), ma da un capo tradizionale
dell’Alto Volta (oggi Burkina Faso),
Ouattara trascorse la giovinezza nel
paese paterno, studiò negli Usa e lavorò
nel Fmi come voltaico, finché riapparve
sulla scena politica avoriana nel 1982.
I suoi avversari lo dicono «venuto non
si sa da dove»; ma lui sostiene che gli
si nega la candidatura alla presidenza
«perché musulmano e uomo del nord».
Nelle varie tornate elettorali (presidenziali,
parlamentari e municipali), lo
sventolio della bandiera dell’«avorianità
» da parte dei politici continuò a
esasperare le tensioni, provocando
scontri etnici e religiosi: tra il 1999 e il
2000 si sono avute oltre 300 vittime,
senza contare il danno economico causato
dalla fuga di decine di migliaia di
lavoratori stranieri. In tale contesto, nel
natale 1999, avvenne il colpo di stato
militare, in cui il generale Guéi s’impose
come garante dell’ordine. Salutato da
Ouattara e compagni come «una rivoluzione
dei garofani», tale evento aggravò
i disordini, rischiando di sfociare in
guerra civile.
Alle elezioni presidenziali dell’ottobre
2000, boicottate dall’opposizione,
Guéi si dichiarò vincitore, ma le
proteste scoppiate in varie città e il responso
del Comitato per le elezioni diedero
ragione allo sfidante, Laurent
Gbagbo, capo del Fronte popolare avoriano,
eletto col 59,3% dei voti.
Per ricomporre l’unità del paese,
Gbagbo convocò un Forum per la riconciliazione
nazionale, che si svolse da ottobre
a dicembre 2001. I 750 rappresentanti
di partiti, gruppi religiosi, sindacati,
amministrazioni locali e
associazioni varie hanno esposto le proprie
idee e suggerito soluzioni per risolvere
la crisi sociale, politica ed economica
del paese. Le proposte sono state
consegnate al presidente, cui spetta
metterle in atto. Tra le varie raccomandazioni
figura anche quella di restituire
piena cittadinanza avoriana a Ouattara.
La calma sembra tornata nel paese;
ma Ouattara continua a pestare i piedi,
reclamando nuove elezioni.

Benedetto Bellesi




«PUNTI» E «NODI»…PER LEGARE ANCORA DI PIÙ

RETE DI LILLIPUT
la grande assemblea di Marina di Massa

Chi sono i «lillipuziani»? Sono ragazzi e ragazze
in «jeans», ma anche uomini in cravatta
e donne in «tailleur».
Erano in 500 (autofinanziati) a Marina di Massa
per il loro incontro nazionale;
rappresentavano migliaia e migliaia di italiani.
Il fine? Un’economia di giustizia.
E non solo.
Se il piccolo «davide» abbatte da solo
il gigante «golia», che succederà se tanti «davide»
uniranno le loro fiondate?
Ecco perché è sorta la «rete dei lillipuziani».
Chi sono i «lillipuziani»? Sono ragazzi e ragazze
in «jeans», ma anche uomini in cravatta
e donne in «tailleur».
Erano in 500 (autofinanziati) a Marina di Massa
per il loro incontro nazionale;
rappresentavano migliaia e migliaia di italiani.
Il fine? Un’economia di giustizia.
E non solo.
Se il piccolo «davide» abbatte da solo
il gigante «golia», che succederà se tanti «davide»
uniranno le loro fiondate?
Ecco perché è sorta la «rete dei lillipuziani».

NON-VIOLENZA SEMPRE
«Jambo a tutti i lillipuziani!». Con
questo saluto affettuoso di padre Alex
Zanotelli, si è aperta la seconda
Assemblea nazionale della «Rete di
Lilliput», svoltasi a Marina di Massa
il 18-20 gennaio 2002.
Era un appuntamento molto atteso.
Centinaia di gruppi e persone, che
da oltre due anni lavorano insieme
per una economia di giustizia, sentivano
il bisogno di riflettere sul proprio
cammino, anche perché il 2001
fu un anno drammatico. Le violenze
inaudite durante il vertice dei G8 a
Genova e l’incredibile tragedia
dell’11 settembre negli Stati Uniti
(con la guerra in Afghanistan) hanno
scosso l’animo fortemente pacifista
della Rete di Lilliput.
L’incontro di Marina di Massa ha
ribadito, in modo netto, l’opzione
della non-violenza come scelta strategica.
Questa ha rappresentato il filo
conduttore dei lavori, che si sono intrecciati
nei tre giorni di dibattito.
Sulla non-violenza è intervenuto
un gruppo di lavoro specifico: ha
programmato un percorso di formazione
teorica e pratica, con lo scopo
di fornire alcuni nuovi strumenti di
comunicazione; ha indicato un modo
più consapevole di stare in piazza e
progettare le mobilitazioni. Per concretizzare
quella che rischia di essere
solo un’adesione ideale a principi, si
prevede di organizzare gruppi di azione
non-violenta distribuiti sul territorio.

UNA «RETE» ARTICOLATA
Uno scoglio da appianare è stato
quello dell’organizzazione. La Rete
di Lilliput in questi anni si è estesa e
il contesto si è fatto più complesso;
da molti membri si avverte l’esigenza
di darsi una struttura, di individuare
dei ruoli, pur non perdendo di vista
la volontà di arrivare sempre a «decisioni
comunitarie», frutto del pensiero
della totalità dei lillipuziani.
Infatti uno dei punti cardine della
Rete di Lilliput, oltre alla non-violenza,
è la democrazia partecipativa, che
si manifesta nel dare a tutti la possibilità
di incidere nelle scelte, senza
creare sovrastrutture o ruoli di leadership.
Obiettivo non facile da rag-giungere, vista la vastità e capillarità
della Rete sul territorio italiano.
Il cammino decisionale è iniziato
a settembre dello scorso anno, con
il dibattito all’interno di ogni singolo
«nodo» della Rete, che ha visto una
prima sintesi negli incontri regionali.
Questi si sono svolti a Milano,
Firenze e Roma, rispettivamente
per i «nodi» del nord, centro e sud
della penisola; hanno prodotto dei
documenti che sono stati portati all’Assemblea
di Marina di Massa e
discussi in un apposito gruppo.
Nel gruppo si sono confrontati i
referenti di ogni «nodo», tutti accompagnati
da un osservatore. Il risultato
è confluito in un documento
di 11 punti, che raccolgono i principi
basilari e i criteri condivisi da tutti
gli aderenti alla Rete. Fra questi: la
non-violenza, il rifiuto del personalismo,
la professionalità nell’impegno
politico, la fiducia reciproca, l’esauriente
e rapida circolazione delle
informazioni.
Si è definito il «punto» di Lilliput,
che rappresenta il primo momento
di incontro per le realtà locali, dove
non esiste ancora un «nodo» articolato.
L’evoluzione dei «punti» è rappresentata
dai «nodi», elementi fondanti
della Rete: essi sono luoghi di
incontro per associazioni, gruppi e
singoli, aventi il compito di estendere
la Rete nelle realtà locali, portandovi
contemporaneamente la dimensione
nazionale e quella internazionale.
Ogni «nodo» gode di una
propria autonomia e non è auspicabile
l’adesione ad esso di partiti politici
o sindacati.
Vi è poi l’Assemblea nazionale
(come quella di Marina di Massa),
cui è affidato il compito di verificare
il percorso fatto e di proporre iniziative
per l’anno successivo. L’Assemblea
si tiene con decorrenza annuale
ed è aperta a tutti.
A livello nazionale esistono pure i
«gruppi tematici di lavoro», aperti
a tutti, con il compito di approfondire
gli argomenti ritenuti importanti
per la Rete (non-violenza, ecologia,
economia di giustizia); inoltre
propongono iniziative concrete.
Infine, a Marina di Massa, la Rete
ha raccolto i temi delle campagne di
mobilitazione generale del passato.
Si sono organizzati gruppi di lavoro,
per fare il punto sulle attività presenti
e discutere gli impegni da privilegiare
quest’anno.

ECOLOGIA E BANCHE ARMATE
Ebbene, che sta facendo e cosa intende
fare la Rete di Lilliput?
Circa la cosiddetta «impronta e-cologica e sociale», è in corso il progetto
«pagine arcobaleno»; esso mira
a censire l’offerta di servizi e prodotti
rispondenti a criteri di eticità e
compatibilità ambientale, per offrire
strumenti utili (database on line e
guide regionali) sui produttori e fornitori
di beni a chi è attento alla qualità
dei propri consumi.
Questo si inserisce in un più ampio
percorso di formazione e sensibilità
verso il mercato; vorrebbe favorire
un cambiamento degli stili di
vita, a partire dalla propria quotidianità,
e aprire un approfondito
dibattito su nuovi indicatori di benessere,
in grado di dare strumenti
adeguati ai decisori politici e alla società
civile, ridimensionando la funzione
del prodotto interno lordo.
È già stato fatto un lungo lavoro di
elaborazione teorica, che ha portato
alla formulazione di un sistema di indicatori
che tengano in considerazione
anche i parametri ambientali e
sociali, oltre a quelli economici. Il
progetto è stato anche presentato al
Forum sociale mondiale di Porto Alegre
in un laboratorio organizzato
dalla Rete di Lilliput.
Analizzando gli aspetti più commerciali
e finanziari, un gruppo di
lavoro ha individuato nella campagna
«banche armate» un possibile
tema unificatore del lavoro di tutti i
«nodi». Considerata l’attuale situazione
di guerra e ribadita la scelta di
non-violenza, è emersa come urgente
la necessità di spostare risorse dalle
armi ad altre attività.
Pertanto si continuerà l’opera di
pressione sulle banche: si chiederà
maggiore trasparenza sugli investimenti
e si solleciterà che non siano
più finanziate attività legate al traffico
d’armi, mettendo in rilievo le
conseguenze drammatiche che il fenomeno
ha nei paesi del Sud del
mondo. Inoltre è stato proposto di
chiedere il disimpegno dal settore
«armi» alla Sace (Agenzia italiana di
credito all’esportazione), che copre
con fondi pubblici i rischi degli investitori
privati all’estero.
La campagna «banche armate» si
inserisce in un più ampio progetto
di opposizione alla guerra. I lillipuziani
si impegneranno per la «resistenza
» alla guerra dei cittadini e cittadine,
per l’obiezione alle spese militari,
nonché per la partecipazione
a missioni inteazionali di pace.
IL MONDO DEL PALLONE
Se, data la politica degli organismi
inteazionali, è sorto un gruppo di
lavoro nazionale per monitorare i
negoziati dell’Organizzazione mondiale
del commercio (Wto), Lilliput
non dimentica l’aspetto dell’agire
locale. La «lente sulle imprese» ha
ricordato la necessità di scrutare l’operato
delle ditte operanti sul nostro
territorio, dopo un’adeguata formazione
sulle tecniche di raccolta dei
dati.
A questo si affiancherà una campagna
di mobilitazione in vista del
campionato mondiale di calcio, avente
come scopo la denuncia delle
multinazionali negative che sponsorizzeranno
l’evento e la pressione,
affinché la Fifa adotti i principi del
Codice di condotta del 1996, concordato
con il sindacato internazionale
e mai sottoscritto…
Tanti progetti in cantiere, quindi,
per una rete che sta crescendo e ha
voglia di far sentire la propria voce.
Gli stimoli e l’entusiasmo scaturiti
nei giorni di Marina di Massa sono
stati davvero arricchenti.
Ora si tratta di rimboccarsi le maniche
e lavorare sulle tematiche individuate,
portando in casa e città…
«ancora una volta la voglia di agire
concretamente per un cambiamento
globale dal basso, che terrà uniti
i percorsi individuali e di gruppo,
per la costruzione di un mondo diverso
e sicuramente migliore» (dalla
dichiarazione finale,
accolta con un lungo applauso).

Luca Graziano e Cristina Coppo




IL GIGANTE IN TRAPPOLA

La Rete di Lilliput è nata nel 1998 dall’incontro tra
alcune associazioni nazionali (Aifo, Ctm, Mani Tese,
Pax Christi, Beati Costruttori di Pace, Wwf Italia, Rete
Radiè Resch, Centro nuovo modello di sviluppo, ecc.),
la rivista Nigrizia e diversi promotori di campagne nazionali di pressione e sensibilizzazione (Chiama l’Africa,
Sdebitarsi, Campagna per la riforma della Banca Mondiale,
ecc.).
Il nome e il significato di «Rete di Lilliput» derivano
da un’analogia ed una riflessione. Nella favola «I viaggi
di Gulliver» (1725), dello scrittore e politico irlandese
Jonathan Swift, i minuscoli «lillipuziani», alti appena
pochi centimetri, catturano Gulliver, il gigante
molto più grande e potente di loro,
legandolo nel sonno con centinaia di fili.
Gulliver avrebbe potuto schiacciare
qualsiasi «lillipuziano» sotto il suo stivale,
ma la fitta rete di fili lo immobilizza
e lo rende impotente (cfr. Missioni
Consolata, gennaio 2000).
D i fronte a poteri schiaccianti e istituzioni
globali, cittadini e associazioni
possono usare le forze modeste di
cui dispongono ed unirle a quelle di altri individui
e movimenti in vari luoghi. Il sogno è che
tanti gruppi, presenti in ogni angolo del paese, diventino
una grande voce, capace di farsi sentire e incidere
sulle scelte economiche che stanno alla base dei gravi
problemi sociali e ambientali che affliggono il pianeta.
In concreto, la Rete di Lilliput crea collegamenti con
tutte le realtà locali e nazionali che già operano nell’economia
di giustizia, nella non-violenza, nella difesa
dell’ambiente e nei diritti umani, per rendere più efficace
la promozione di nuovi stili di vita, la denuncia dei
rischi sull’ambiente di scelte politiche (che dovrebbero
invece contribuire allo sviluppo sociale). La Rete promuove
pressioni su governi e istituzioni nazionali e inteazionali,
affinché intraprendano iniziative concrete
per la pace e il benessere dei popoli.
I «lillipuziani» non sono mancati alle principali mobilitazioni:
per esempio, durante il vertice dei G8 a Genova,
quello di Mobilitebio nel 2000, la marcia per la
pace Perugia-Assisi nel dicembre scorso. I «lillipuziani»
hanno partecipato ad entrambe le edizioni del World Social
Forum di Porto Alegre (Brasile).
O ggi in Italia esistono 69 «nodi» della
Rete di Lilliput: sono il riflesso di
una presenza omogenea sulla nazione
e la prova di un forte incremento numerico
nel corso di questi anni (in
particolare si è registrata una crescita
alta in occasione dei G8 di Genova).
Nei «nodi» operano gruppi, associazioni
e individui, che non si sono dati regole
scritte o un’organizzazione formale,
ma decidono secondo il consenso generale in
assemblea. Esistono «gruppi tematici di lavoro» che
hanno carattere nazionale; ad essi partecipano persone
aderenti a un «nodo» e particolarmente interessate
all’argomento.
Il gruppo tematico più «antico» è quello sull’«impronta
ecologica e sociale». È già attivo uno nuovo, che
si occupa di non-violenza e conflitti. Altri gruppi sono
stati promossi durante l’assemblea di Marina di Massa.

Luca Graziano e Cristina Coppo




I NOSTRI VICINI DI CASA

Per prepararsi a diventare diacono, un’avventura missionaria…«fuori porta». Che, ribaltando dubbi e pregiudizi, spinge a una condivisione senza sconti.

Raccontare i miei tre mesi in
Albania non è facile: specialmente
se penso ai «luoghi
comuni» sugli albanesi, cui sono legate
le nostre menti. Poi, quando si
parla di «missione», non si pensa ad
un luogo vicino geograficamente…
Quindi i pregiudizi da superare sono
tanti. È lo sforzo che bisogna fare
anche per incontrare l’Albania
nella sua verità. Una terra così vicina
e così lontana da noi.
Dopo aver trascorso due anni in
una parrocchia di Brescia con molti
immigrati, ho desiderato «vedere
» una loro nazione di provenienza.
E sono andato in Albania.
Sono partito per compiere un’esperienza
forte, in vista della mia ordinazione
diaconale: imparare che
nella vita è importante sentirsi piccoli,
non sempre con le soluzioni in
tasca. Ma non immaginavo che vivere
in un luogo di cui conoscevo la
lingua solo in modo rudimentale e
dove non potevo adottare nessuna
«strategia» pastorale… mi avrebbe
aiutato a guardare con più umiltà al
dono del diaconato.

ALBANIA SCONOSCIUTA
È il giorno della partenza. Mi attende
un lungo viaggio in camion da
Brescia a Bari, l’attraversata dell’Adriatico
in traghetto e l’arrivo a Durazzo,
finalmente in Albania! Ma è
solo l’inizio.
Dopo due giorni per sbrigare le
pratiche doganali (altro che la burocrazia
italiana!), mi metto in viaggio
per la diocesi di Rrëshen, dove
vivrò. La diocesi si trova nel nord
del paese e confina con la Macedonia.
Gli spostamenti sono lunghi,
perché le strade sono pessime ed è
necessaria molta attenzione per evitare
le capre e gli asini che si incontrano
lungo il tragitto.
La gente saluta con entusiasmo e
i bambini si aggrappano con facilità
al camion, per vedere cosa trasporta.
Sembra che mi aspettino da tanto.
E forse è vero: per troppo tempo
ci siamo dimenticati di questi
«vicini di casa», e loro sono lì, come
per dirci: «Finalmente!».
Dopo tre giorni di viaggio, arrivo
a destinazione. Una sosta a Rrëshen
per la scorta d’acqua (di potabile ce
n’è ben poca!), il saluto a padre Cristoforo,
amministratore apostolico
(uno dei soli tre preti nella diocesi)
e sono a Fanë, la meta finale. È un
villaggio nascosto fra le montagne,
raggiungibile con una strada sterrata,
che offre però paesaggi stupendi.
Pochi minuti per ambientarsi e,
subito, sono sommerso da una folla
di bambini, che accorrono per vedere
il nuovo arrivato. In quei volti,
in quel desiderio di conoscere e
accogliere, in quelle mani sporche
(segno del lavoro a cui sono sottoposti
i più piccoli)… c’è l’Albania
sconosciuta.
Intanto gli amici, che mi hanno
accompagnato in camion, ripartono
per l’Italia. Io mi ritrovo «solo».
Alcune suore mi danno la carica e
non c’è troppo tempo per i convenevoli:
la gente e i giovani aspettano.
E, siccome la voce della donna
non è sempre ben accolta, una suora
subito mi catapulta in mezzo a loro,
accompagnato da un giovane,
per la lingua.
Ho poco a disposizione, se non la
bibbia, unico libro tradotto in albanese,
e con questa faccio tutto: catechesi,
incontri sulla vita, giochi, visite
alle famiglie. A volte lo stupore
mi blocca: i giovani fanno ore di
cammino per venire ad ascoltarmi,
per parlare con me; poi, digiuni, ritornano
al villaggio. Nessuno ha mai
parlato loro della dignità della vita,
come il vangelo insegna… ed è della
vita, vissuta in grande e con riferimenti
a Dio, che scoprono di avere
bisogno.
Il regime comunista albanese aveva
cancellato ogni traccia di umanità
nelle persone. La maggioranza dei
giovani incontrati non aveva mai
sentito parlare di Dio prima del
1990: per loro Dio è «una scoperta
recente»! Ma se succede (magari attraverso
la testimonianza di un missionario),
non riescono più a fae a
meno.
L’amore di Dio, manifestato nella
condivisione di vita, entra nel loro
cuore indurito e fa quasi toccare
con mano che deve esserci Qualcuno
più grande e veramente buono.

IMPARANDO AD AMARE
Chi fa sperimentare questa presenza?
Certo, i missionari. Ve ne sono
in Albania? Nelle città, dove tutto
è più o meno comodo, anche la
presenza religiosa è considerevole;
ma nelle diocesi intee, dove manca
acqua, la corrente elettrica c’è solo
7/8 ore al giorno e la vita è «schiava
» delle tradizioni… la presenza religiosa
è rarissima. A Rrëshen, su un
territorio di 4 mila kmq, dal 1991 vi
sono tre solo missionari vincenziani,
alcune suore e… basta. Le condizioni
locali invitano chiunque ad andarsene.
Durante la mia permanenza ho
visto molti religiosi venire, guardare
e andarsene: troppo difficile restare.
Ho percorso in lungo e in largo
la diocesi con un padre vincenziano;
nel guardare la gente lontana
da Rrëshen (dove la chiesa cattolica
non è arrivata), ci domandavamo:
«Qui chi annuncerà Gesù Cristo?».
Una domanda che tuttora mi pongo
ogni volta che prendo in mano la
bibbia.
Prima di lasciare una di queste
zone «inesplorate» e ritornare alla
missione, abbiamo fermato la jeep
sul ciglio della strada; dopo aver appeso
una corona del rosario ad un
albero, abbiamo pregato ricordando
le parole di Gesù: «Ci sono altre
pecore che non sono di questo ovile;
anche queste io devo condurre».
Sì, anche questi fratelli hanno il diritto
di sentire la vicinanza del Signore.
I giorni vissuti a Fanë sono paragonabili
(per intensità) a quelli degli
«esercizi spirituali»: ti segnano
«dentro» e ti spingono a cambiare
vita. Ogni giorno era un esercizio di
disponibilità verso i bambini e ragazzi
che, sin dal mattino, bivaccavano
al cancello della missione in attesa
di un abbraccio, una parola. Era
difficile accontentare tutti, ma
non impossibile: bastava un po’ di
entusiasmo. A volte, di fronte al loro
carattere difficile, veniva voglia
di essere altrettanto scontrosi; ma
scattava «l’esercizio» di amare senza
contraccambio, richiesto dal Signore.
Ma è stato pure arricchente gustare
l’ospitalità delle famiglie nelle
loro povere case: ti davano l’unica
sedia e loro, seduti per terra, aspettavano
una parola diversa. Spendevano
i pochi soldi che avevano, per
comprarti una bibita (dato che l’acqua
è poco affidabile); venivano a
prenderti alla missione e ti riportavano.
Ne nasceva pure una passeggiata,
cui si aggregavano decine di
ragazzi. Poi facevano a gara per invitarti
a casa loro.

CON I GIOVANI
Ho svolto il mio servizio quasi esclusivamente
fra i giovani, ed è attraverso
loro che ho incontrato il
volto dell’Albania che spesso non ci
giunge: quello di gente accogliente,
desiderosa di sapere e sperimentare
sentimenti di amicizia vera, di capire
che la vita (anche quella di un
albanese!) è una vocazione.
Ricordo i ragazzi che stanno facendo
un cammino propedeutico al
seminario: vedendo i padri e le suore,
hanno sentito il desiderio di imitarli,
anche se la strada è lunga. Il
cammino consiste nel far loro compiere
un’esperienza di Gesù nella
preghiera e, soprattutto, nella disponibilità
al servizio gratuito verso
i coetanei: un compito difficile, anche
per la povertà dei mezzi a disposizione.
In qualcuno di loro Dio
ha seminato il germe della vocazione.
Ora tocca a noi aiutarli a farlo
crescere con il nostro amore.
Forse questo, più che una testimonianza,
è uno sfogo. Ritengo che
sia anche necessario gridare dai tetti
che vi sono fratelli vicini a noi, bisognosi
di aiuto; che non sono come
li immaginiamo, perché esiste
anche un’Albania diversa dai «soliti
fatti negativi». È tempo di pensare
che l’amaro non fa distinzioni,
ma richiede solo una grande disponibilità.
Se può essere più facile aiutare
una nazione lontana (perché
non ci tocca più di tanto), interessarsi
ad una vicina può chiederci un
coinvolgimento maggiore, soprattutto
per eliminare pregiudizi e stereotipi.
Provate a dire che avete aiutato…
un albanese e poi osservate la reazione
dell’interlocutore; provate a
dire che partite in missione per l’Albania
e avrete reazioni curiose.
Ame questo non importa. Ho incontrato
Dio in Albania e Lui
sta cercando di parlare al cuore della
gente; ma chiede anche la nostra
disponibilità per manifestare il suo
amore verso chi, fino a ieri, ha conosciuto
quasi solo repressione e
violenza.
Se abbiamo la coscienza di essere
stati amati gratuitamente, non possiamo
esimerci dal fare altrettanto.
Questo l’ho scoperto grazie anche agli
albanesi. Ora ad essi
offro, anche se piccolo, il
mio amore.

Roberto Ferranti




ZE’ DOCA (BRASILE): il vescovo Walmir Valle in redazione

LE SFIDE DI UN «PELE’» MANCATO


«La mia casa è la stessa di 13 anni fa, come l’hai vista
tu. Nulla è cambiato. Ultimamente mi sono ritrovato solo. Così ho fatto
anche il portinaio, il cuoco, il lavandaio…». Confidenze di un vescovo
semplice, immerso tuttavia in grandi problemi, data la povertà e
l’isolamento della sua diocesi nel Maranhão.

 

«Benvenuto
nella sala-giornali della redazione della rivista Missioni Consolata! Buon
giorno…».


L’«intruso», un po’ sorpreso, sussulta. Ma si riprende subito e dice
sorridendo: «Ieri c’è stato il sorteggio degli accoppiamenti delle squadre
nazionali di calcio che giocheranno il campionato mondiale in Corea e
Giappone. Sto sfogliando il giornale per conoscere gli avversari del
Brasile».

Secondo
lei, chi vincerà il trofeo?

La palla è
rotonda, dite voi giustamente in italiano…

Forse
abbiamo colto in fallo un… monsignore. È Walmir Valle, vescovo
brasiliano di Zé Doca (Maranhão) e tifoso di foot ball. C’è chi giura che,
se Walmir non si fosse fatto prete, sarebbe diventato un vero campione. A
Torino, dove ha studiato teologia, molti ricordano ancora le sue imprese
calcistiche, degne di Pelé, «il re».

«Sono
passati più di 40 anni da allora – afferma il vescovo scuotendo la testa
-. Oggi…». Oggi è missionario della Consolata e, da 16 anni, anche
vescovo. Recentemente ha costruito una nuova cattedrale.


Una bella
cooperazione

Nel 1998
dom Walmir bussò alla porta dell’organizzazione cattolica tedesca Adveniat,
per ottenere 100 mila reais (circa 162 milioni di lire). Il vescovo aveva
puntato in alto per accontentarsi poi di 30 mila reais. «Non so se ce la
caveremo con tale somma» disse il vescovo ai sacerdoti e fedeli.

Iniziarono
a lavorare, inglobando la vecchia chiesa. Ma subito furono costretti a
demolie una parte, perché volevano allungare la costruzione, passando
dai precedenti 28 metri agli attuali 41. Inoltre sorsero altre difficoltà.
Pertanto del vecchio complesso rimase solo il campanile. Quanto al nuovo
progetto…

«Quanto al
nuovo progetto, siccome bisognava risparmiare soldi, l’ho fatto io stesso
con il muratore capo. Man mano che la costruzione cresceva, apportavamo
delle modifiche secondo le esigenze. Abbiamo lavorato sodo per 15 mesi, e
ce l’abbiamo fatta in tempo per il giubileo del 2000. Oggi la nuova
cattedrale è una meraviglia. Lo dicono tutti. A noi piace soprattutto
perché è opera nostra».

Anche il
comune diede un contributo, rimuovendo le macerie dei muri abbattuti e
foendo la terra per alzare il livello della nuova costruzione di 50
centimetri rispetto a quella vecchia. La gente pagò mille sacchi di
cemento, mentre la Direzione generale dei missionari della Consolata offrì
20 mila reais.

Al termine
la spesa complessiva fu di 90 mila reais, per un’opera che si avvalse
della solidarietà internazionale (Adveniat tedesca e Missionari della
Consolata), dell’apporto dell’autorità locale e del concorso dei fedeli.
Un bell’esempio di cooperazione.

«Proprio
così – conferma il vescovo -. Naturalmente tutto dipendeva dal come si
chiedeva. Non bastava lanciare appelli generici; bisognava impegnarsi di
persona, casa per casa. Io sono abbastanza esplicito e, quando chiedo,
ottengo quasi sempre qualcosa».

La
costruzione della cattedrale è ancor più meritoria, se si tiene conto del
contesto sociale. Nel 1994 il Brasile adottò la nuova moneta real (plurale
reais): una divisa forte, superiore persino al dollaro. Il rapporto con il
«biglietto verde» era di 0,80 a 1. Dopo un periodo di stabilità forzosa e
costosa, nel febbraio 1999 il real fu svalutato del 50% e l’inflazione
riprese a correre. Oggi occorrono 3 reais per 1 dollaro.

Oggi, con
la globalizzazione-privatizzazione, il Brasile dipende dal capitale
estero. Il fenomeno ha aumentato la disoccupazione, specialmente nelle
grandi città di São Paulo, Rio de Janeiro, Porto Alegre… dove operano le
industrie. E pesano i macigni di sempre: la mancata riforma agraria e
l’iniqua distribuzione della ricchezza.


Una diocesi
in chiaroscuro

Nel 1988
eravamo a Zé Doca, ospiti del vescovo Valle. Allora il presule lamentava
la scarsa collaborazione della gente alla vita della diocesi. Oggi si
registra un mutamento in meglio. La costruzione della cattedrale lo
dimostra.

È
d’accordo dom Walmir?

C’è stato
un cambiamento positivo. Tuttavia la partecipazione del popolo è ancora
ridotta. In occasione della costruzione della cattedrale, sono riuscito ad
ottenere la collaborazione di tutti; ma in genere è ancora difficile,
specialmente per la formazione di lidares laici e per il sostentamento dei
sacerdoti.

È arduo
trovare persone che si assumano il servizio di animazione e cornordinamento
delle comunità. «È – commenta il vescovo – la sfida più forte. Abbiamo
offerto ai lidares la possibilità di formarsi: per esempio con la scuola
di teologia pastorale. La scuola si svolge nell’arco di quattro anni
consecutivi con varie lezioni. Vi sono due scuole: una sulla costa e
un’altra all’interno del territorio; si tratta di realtà assai diverse,
non solo per posizione geografica, ma anche per formazione religiosa. La
partecipazione alla scuola è stata pure diversa: 60 persone nel litorale e
25 nell’interno».

Per
risolvere il problema del sostentamento del clero, il vescovo ha invitato
i fedeli di versare alla chiesa «la decima». Ma la proposta è rimasta
quasi lettera morta. Si è cercato di sensibilizzare le comunità con un
libretto, ricco di citazioni bibliche che ricordano ai fedeli «l’obbligo
di mantenere il loro sacerdote». Anche questo ha sortito scarsi risultati.

«A
prescindere dalla povertà reale – precisa il vescovo -, la causa della non
partecipazione della gente ci porta indietro nel tempo, quando i
missionari italiani garantivano tutto il necessario. Così le comunità si
sono abituate a “dipendere”, senza alcun loro apporto. Questa mentalità
resiste ancora. Il problema del sostentamento è grave per lo stesso clero
locale, che proviene da famiglie bisognose».

Dunque,
monsignore, la diocesi non dispone di fondi per venire incontro alle
esigenze dei sacerdoti?

No, perché
non ha denari per tutti.

Mancando
il sostegno della diocesi, i sacerdoti si mantengono con le offerte delle
messe e degli altri sacramenti. E pare che ci stiano riuscendo. «Gli unici
che versano ancora qualcosa per la diocesi – precisa il vescovo – sono i
tre missionari fidei donum di Torino».

La diocesi
di Zé Doca è stata dimenticata anche dai missionari della Consolata?

No. Il
nostro Istituto versa ogni anno 50 mila dollari per la formazione dei
seminaristi.

E proprio
dal seminario sono venute le migliori consolazioni per il vescovo.
All’inizio del suo apostolato a Zé Doca non poteva contare su alcun
sacerdote del luogo. Oggi sono sette, con un discreto numero di studenti
nel seminario maggiore di São Luis.


I tempi sono
cambiati

«C’era una
volta la chiesa brasiliana» afferma oggi qualcuno, non nascondendo la
propria delusione. La chiesa del coraggio, della denuncia delle
ingiustizie sociali, la chiesa dei vescovi Mathias Schmidt, Helder Camara,
Paulo As, Luciano Mendes, Ivo e Aloisio Lorscheider, Aldo Mongiano…
Figure coraggiose, profetiche, oggi defunte o ritirate, mentre i
successori sono diversi.

Dom Walmir,
come giudica l’odiea chiesa brasiliana?

Rispetto a
30-40 anni fa il paese è più democratico. I movimenti di lotta
sociopolitica contro il governo si sono sciolti, perché sono mutate le
situazioni. Oggi i lavoratori, più che con lo stato, devono fare i conti
con la globalizzazione, le transnazionali…

Però il
governo c’entra, perché può schierarsi o da una parte o dall’altra.

E la
chiesa deve schierarsi con i deboli. Credo che lo stia facendo. I profeti
ci sono ancora.

Per
esempio?

In
occasione dei 500 anni della scoperta del Brasile, c’è stata la festa di
Porto Seguro, contestata dagli indios, che hanno ricordato i massacri e le
discriminazioni sofferte nella storia. Circa 2 mila indios si sono diretti
a Porto Seguro per incontrare il presidente Cardoso; ma la polizia li ha
fermati con violenza. Anche i vescovi Masserdotti e Balduino, che erano
con gli indigeni, sono stati arrestati per cinque ore… Allora i profeti
ci sono e si fanno sentire.

Che dire
della sua diocesi?

A Zé Doca
c’è stata la marcia-pellegrinaggio della gioventù, durante la quale
abbiamo pregato, cantato e denunciato i mali che affliggono il paese. Il
tema «Cittadinanza e fede» ci ha consentito di riflettere sui gravi
problemi legati al Movimento dei contadini senza terra.


Politicamente come agite?


Lavoriamo senza tanto rumore. Ma a Zé Doca la comunità, con il parroco in
testa, ha presentato e sostenuto i propri candidati nelle elezioni
comunali.

A quale
partito appartengono?

Al
Partito dei lavoratori (PT). Ma il candidato sindaco, per vincere le
elezioni, si è dovuto alleare con altri partiti…

  Nella
sala-riviste di Missioni Consolata si ode un vociare, che proviene
dall’esterno. Dom Walmir si affaccia alla finestra e vede alcuni ragazzi
che rincorrono un pallone. «Quanto mi piacerebbe giocare con loro!».

 

 Visita
pastorale a São João do Caru

La
parrocchia di Bom Jardim è una delle più estese della diocesi: dista 30
chilometri da Zé Doca, è affidata ai due frati francescani conventuali,
molto giovani, e comprende più di 100 comunità.

Pochi
anni or sono ne è sorta una nuova: la comunità di São João do Caru.
D’accordo con il parroco, avevo deciso di visitarla durante la stagione
delle piogge. São João dista da Bom Jardim, in linea d’aria, circa 90
chilometri ed è raggiungibile solo in barca durante il tempo delle piogge.

 Il
programma prevedeva che mi trovassi alle sette del mattino a Bom Jardim.
Da qui un frate ed io, in camion, avremmo raggiunto il fiume per
proseguire in una canoa a due posti fino a São João. Però il camion (data
la pessima strada) non poteva marciare. Allora prendemmo una moto-taxi. La
distanza era modesta: 12 chilometri. Ma ci impiegammo oltre un’ora, perché
fummo costretti a fermarci una dozzina di volte a causa del fango.

Giunti
al fiume, salimmo in barca: io davanti e il giovane frate dietro, al
volante, vicino al motore. Dopo mezz’ora ci fermammo ad Alto Alegre per il
rifoimento di carburante. Ripartimmo con due ospiti, che ci avevano
chiesto un passaggio: poiché l’imbarcazione era piccola, due persone in
più costituivano un bel rischio. Ma tutto andò bene.


Sennonché, ad un certo punto, udii un tonfo, seguito da un grido del frate
guidatore.

– Cosa
è successo?

– Il
motore è caduto in acqua!

– Cosa?…
E ora? C’è un remo?

– No.

Si
disperava il giovane frate, inesperto, anche perché sapeva che era colpa
sua, non avendo fissato bene il motore sulla barca.

Era
mezzogiorno e fummo costretti ad abbandonarci alla corrente del fiume,
sotto un sole cocente. Non furono bei momenti… Finché il rumore di
un’altra imbarcazione ci sollevò il cuore. Ritornammo a Porto Alegre.

Quanto
al motore, nuovo di zecca, ma caduto nel fiume, potevamo scordarcelo per
sempre.

 

A São
João do Caru ritornammo cinque mesi dopo, via terra questa volta, in
Toyota, messa a disposizione dal sindaco locale. Ma quasi subito l’auto ci
piantò in asso per un guasto meccanico. Un camion, superaffollato, ci
portò a destinazione dopo sei ore di viaggio su una strada… che non
c’era! Erano le 5 del pomeriggio.


L’accoglienza della popolazione fu straordinariamente giorniosa: con tante
foto-ricordo, perché era la prima volta che un vescovo metteva piede in
quel paese… La visita pastorale continuò il mattino successivo con
l’amministrazione delle cresime.

Per il
ritorno c’era ancora il camion, ma in ritardo. Partimmo alle due del
pomeriggio. Percorsi una decima di chilometri, il camion si fermò per
caricare alcuni sacchi di farina. Poi incominciò a piovere come Dio voleva,
e ci impantanammo. Bisognava aspettare che spiovesse. Io, intanto,
camminai per circa tre chilometri, finché il camion mi raggiunse.


Seguirono sette ore di scivolate, sbandate e testacode. Ma, grazie alla
Madonna Consolata, arrivammo a Bom Jardim sani e salvi.

Nella
diocesi di Zé Doca si vivono anche queste avventure.

Francesco Beardi




PLATI’ (CALABRIA): MISSIONARI DI FRONTE ALLA MALAVITA

COME UNA ROCCAFORTE INESPUGNABILE?


Che ci fanno i padri Luigi ed Enrico in un paese
considerato un covo dell’«ndrangheta»? Ieri, però, è stato preso
l’«imprendibile». Ma la battaglia per la legalità è ancora lunga e
difficile. «Popolo di Platì, svegliati e unisciti a noi per costruire un
futuro di pace per i nostri figli».


Tristemente
famoso

La gente
ci domanda sovente come ci troviamo e che cosa pensiamo di questa «punta
di spillo nel cuore dell’Aspromonte», come Avvenire ha definito il
paesino. Recentemente la «punta di spillo» ha fatto rumore nei notiziari
dei canali ufficiali e privati, nei giornali di grossa e modesta tiratura.

Il
programma televisivo «Terra» di Canale 5, del 16 dicembre scorso, ha
narrato in dettaglio l’arresto del pregiudicato Barbaro Giuseppe,
soprannominato «l’imprendibile». È stato braccato nel suo bunker, la notte
dell’11 dicembre, dalle forze speciali di polizia, coadiuvate dai
carabinieri locali, dopo 11 anni di latitanza, molti dei quali trascorsi
nel confortevolissimo tunnel sotto casa. In questa circostanza, più che in
altre del passato, Platì si è sentito amaramente segnato a dito.


Tristemente celebre nel recente passato per i sequestri di persona, con i
sequestrati tenuti in ostaggio forse nel bunker del superlatitante (dove
sentivano suonare le campane e recitare il rosario nella nostra vicina
chiesa), Platì sta vivendo oggi momenti particolari: timidi, ma
riconoscibili sono i segni di volontà di cambiamento.

Però la
popolazione si sente umiliata. Bisognerebbe fare un po’ di giustizia:
perché è più facile disfare la speranza che edificarla. Secondo il cinese
Lao Tze, è meglio accendere una lanterna che maledire l’oscurità.

Platì è
stato definito pittorescamente una «città a due piani», uno in superficie
e uno sotterraneo: e in parte è vero. È stato paragonato ad una
«roccaforte talebana»: e anche questo è un po’ vero (il bunker era un
marchingegno di elettronica sofisticata: porte scorrevoli, chiusure
antiproiettile, scalini mobili)… Siamo inoltre stati descritti come
«gestori dell’erba», maestri consumati dell’ndrangheta, cittadini
corazzati nell’omertà.

Omertà ce
n’è, ma non al livello che si vuole far credere. La verità è che tanti non
sanno veramente nulla, né si accorgono di nulla. Tra costoro si
annoverano, sovente, gli stessi familiari e le stesse mogli dei
malavitosi. Ne siamo convinti. Osservatori laici ed ecclesiastici della
zona lo confermano.

Il
malaffare è portato avanti da «specialisti», che vivono nel paese a
stretto contatto con i vertici della criminalità (spesso residenti
altrove), vuoi nell’ordine nazionale vuoi in quello internazionale.


Sono caduti
in basso?

La
risposta è semplice: perché siamo missionari. Siamo qui per la profezia
della speranza, per il ministero della consolazione, per illuminare,
purificare e sostenere la religiosità popolare. Siamo qui per temprarci ed
essere maggiormente i missionari dell’«oltre».

O dobbiamo
eternamente discutere, rivedere e programmare la nostra identità a livello
cartaceo, senza buttarci mai nella mischia?

Non siamo
eroi, anche se siamo coscienti che questi primi mesi (per una combinazione
di fatti che sarebbe troppo lungo descrivere) ci hanno portato a vivere al
limite della capacità di pazienza e adattamento. E, benedetto sia il
nostro fondatore, Giuseppe  Allamano, che ci insegna a vivere la missione
insieme! Da soli non ce la faremmo.

Siamo qui
per obbedienza e coerenza. L’ultima conferenza dei missionari della
Consolata in Italia si era fatta promotrice di un’urgenza profetica,
espressa dal X Capitolo generale: è l’ora dell’ad gentes anche per
l’Europa. E la direzione regionale, raccogliendo l’indicazione, ha deciso
così di iniziare una presenza missionaria nella Locride, una zona piena di
sfide ecclesiali e socio-ambientali.

E siamo
caduti a Platì. La nostra destinazione è stata decisa in una corsia
preferenziale, forse per non lasciare adito al pentimento. E abbiamo
trovato un micromondo insospettato: gente che darebbe volentieri
l’ostracismo a chi ha inventato il lavoro e gente che lavora come bestie,
ma con garbo, genialità e (non è poco) con il sorriso sulle labbra:
proprio come chi trova gusto, affetto e gratificazione nel lavoro.

Gente che
mette piede in chiesa soltanto per le «onorate circostanze», insieme con i
rispettivi compari e comari, e gente che viene tutti i giorni a messa,
digiuna due volte la settimana, si prodiga nel silenzio in ogni necessità
(ammalati, anziani, bisognosi).

Gente che
è ingolfata nel malaffare fino al collo e gente che, come dicevamo, pur
vivendo ad un palmo dalle abitazioni dei malavitosi, non sa assolutamente
niente dell’illecito che si orchestra, soprattutto nelle ore delle
tenebre.

Sentiamo
compassione per tanta popolazione, molto dispiaciuta, perché di Platì si
parla esclusivamente nelle circostanze negative. È scontato: da sempre i
poveri fanno notizia solo nelle sciagure, nei «peccati», mentre i «ricchi»
e «color che sanno» si mantengono immacolati nel loro impudico
puritanesimo.

I platesi
ammettono che il loro paesino sta andando alla deriva da qualche decennio
a questa parte… al punto che tanti preferiscono mandare i figli a
studiare nei paesi vicini.

Platì,
alla pari di un centro napoletano, detiene il primato della natalità in
Italia e, forse, anche in Europa. Purtroppo è simile a una madre che
genera generosamente le sue creature, le avvolge di tenerezza
nell’infanzia, le vede allontanarsi da casa nella gioventù per motivi di
studio e lavoro, le vede scompaginarsi ai quattro angoli della terra:
Torino, Milano, New York, Toronto, Sidney… E Platì langue.

Quarant’anni
fa il paese contava 7 mila persone, scese oggi a 3 mila. Platì era un
rinomato centro agricolo, commerciale, artigianale (chi non ha sentito
parlare delle pipe di Platì?); era stimato e invidiato da tutti per la
creatività, laboriosità e ospitalità dei suoi abitanti. Resistono alcune
vestigia: falegnami, veri maestri del legno, e foai che distribuiscono
il fragrante «pane di Platì» ad una ventina di paesi nella provincia di
Reggio Calabria.


Una fiaccolata storica

Come
sacerdoti, data la scarsità di clero in diocesi, oltre Platì, serviamo
altre due modeste parrocchie. E siamo contentissimi della vita un po’
spartana. Ci organizziamo la giornata, prevenendo l’uno le difficoltà
dell’altro per alleggerire i pesi di entrambi. Rinunciamo a ogni
privacy… con un unico camino, che a volte ci rallegra nel tepore, a
volte ci inumidisce gli occhi per il fumo. Uno cucina e l’altro lava i
piatti; uno scopa la casa e l’altro bada alla lavatrice.

Ma non ci
esauriamo nel fare: è essenziale il confronto quotidiano con la parola di
Dio e uno sguardo ai giornali. E predicazioni, confessioni, apostolato
spicciolo. Alla sera siamo così ubriachi di sonno che, recitando il
rosario, il più forte deve svegliare energicamente il più debole, quando
dalla contemplazione dei sacri misteri scivola in braccio al pagano
Morfeo.

Ci
ripromettiamo, quando saremo in tre, di collaborare attivamente con la
diocesi nella missionarietà specifica ad gentes: lo desidera anche il
vescovo, Giancarlo Brigantini. È un trentino di pura razza, ma
visceralmente inculturato nei valori nobili della Locride e della antica e
gloriosa Magna Grecia.

Presieduta
dal vescovo, abbiamo organizzato il 15 dicembre scorso una
processione-fiaccolata per svegliare la coscienza della popolazione
dinanzi al ripetersi del gravissimo fenomeno della sparizione di persone
(7 in 8 anni, di cui 3 da luglio a novembre 2001).

Prima
della fiaccolata, durante la messa, concelebrata dal vescovo e dai
sacerdoti della vicaria, coraggioso e commovente è stato l’intervento di
una mamma. Dal pulpito ha pronunciato parole pesanti, come i macigni
disseminati su queste colline, e brucianti come il fuoco di lupara: parole
che hanno sfidato ogni trincea di omertà.

«Popolo di
Platì, svegliati e unisciti a noi per costruire un futuro di pace per i
nostri figli. Siamo contro ogni forma di violenza e vandalismo: uniamoci
per punire i misfatti! Abbandonati da tutti, abbiamo sempre chinato la
testa con triste rassegnazione. È tempo di far sentire la nostra voce. Un
grido di pace e perdono contro ogni male. Impegniamoci a riscattare il
paese per quanto è successo nel passato e nel presente».

Anche i
cartelloni, preparati dai giovani e portati dagli adolescenti nella
marcia-fiaccolata, osannavano alla pace, alla responsabilità, alla vita.
Uno fra tutti: «Caino, dov’è tuo fratello?».

Nelle
acque stagnanti un sassolino è stato lanciato. Piccoli circoli d’onda si
propagheranno lenti, ma indefettibili, fino alle più remote profondità
delle coscienze. Ne siamo certi. Confidiamo nel Signore della vita, che
dalle tenebre dell’odio è risorto alla luce, vincitore del male.

 

*I padri Luigi Manco ed Enrico
Redaelli, già missionari della Consolata in Argentina e Mozambico, sono
oggi impegnati nell’animazione missionaria-vocazionale in Italia. Gli
unici in Calabria.


«Restituite
questi giovani»

Sabato a
Platì è salito il vescovo Giancarlo Brigantini che, assieme ad un nutrito
gruppo di sacerdoti, ha concelebrato la messa alla presenza di alcuni
familiari delle persone scomparse e di tanti giovani e ragazzi delle
scuole locali, che hanno raccolto l’invito a non starsene in disparte.

Platì è
salito agli onori della cronaca per fatti poco edificanti: i sequestri di
persona e il traffico di droga, in primo luogo. Il parroco, padre Luigi
Manco, tra il silenzio generale ha elencato i sette nomi e le date della
scomparsa, parlando di «sette ferite aperte nella comunità locale e in
tutta la società».

Dal canto
suo monsignor Brigantini ha detto: «Abbiamo pronunciato i nomi perché non
si faccia finta di non vedere. Non serve tacere purtroppo tanti sanno ma
tacciono».


 L’iniziativa è servita a raccogliere attorno al dramma delle famiglie
interessate gran parte della cittadinanza che, con una fiaccola accesa in
mano, ha percorso le vie cittadine alternando il silenzio a momenti di
preghiera…

La
comunità di Platì ha dimostrato di apprezzare il gesto della chiesa,
rimarcando col vescovo il no al male e all’odio, il sì al bene ed alla
misericordia. Prima di terminare la fiaccolata, Brigantini ha detto:
«Fermatevi, restituite questi giovani ai familiari e ricordatevi che Dio
vede anche chi, in un modo o nell’altro, è stato complice di tali
misfatti».

Giovanni
Lucà


(liberamente tratto da «Avvenire», 18 dicembre 2001)

Luigi Manco Enrico Redaelli




16 FEBBRAIO: APPUNTAMENTO CON IL BEATO ALLAMANO

ASPETTANDO LE ROSE


Il 16 febbraio 1926, «dies natalis» del beato Giuseppe
Allamano, fa parte della storia dei missionari e missionarie della
Consolata, e non solo. È però «curioso» notare come il loro Istituto sia
stato fondato da un uomo che sapeva ridimensionarsi, relativizzare,
attendere. Con lui c’era Giacomo Camisassa, l’amico insostituibile.

Padre
Umberto Costa, uno dei primi missionari della Consolata, morto a soli 33
anni, riporta una confidenza del fondatore, il beato Giuseppe Allamano: «È
un poco che non ci vediamo più, perché ho avuto un malessere che mi ha
costretto a star chiuso in camera, eppure il mondo è andato avanti senza
di me, l’Istituto è andato bene senza di me. In questi casi si medita, ed
io ho meditato come non v’è nessuno necessario; quando un’opera è di Dio,
egli la fa procedere senza bisogno di alcuno».

Poche
parole per cogliere dalla sua stessa voce una personalità senza finzione,
temperata all’ombra dei vigneti di Castelnuovo d’Asti, piccolo centro
agricolo, dove religione e onestà si fondevano in una stessa liturgia di
vita e di morte, e i rintocchi dell’Ave Maria scandivano le ore della
fatica e del riposo rincorrendosi su e giù per le colline, lungo i filari
di viti.

A
Castelnuovo Giuseppe Allamano nasce nel 1851 e conclude la vita a Torino
nel 1926 presso il santuario della Consolata, di cui è stato rettore per
46 anni. Il santuario, ampliato e ristrutturato, è uno dei suoi
capolavori.


A tu per tu
con Leone XIII


L’occasione per uscire da Torino gli viene offerta dai festeggiamenti che
tutto il mondo tributa al pontefice Leone XIII (1810-1903) nel 50° della
sua ordinazione sacerdotale, il 1° gennaio 1888. Eletto papa all’età di 68
anni, quasi a conclusione di una vita intensa di lavoro, il pontificato di
Leone XIII non è, come le previsioni l’hanno preconizzato, di transizione,
ma d’incontenibile dinamismo e innovazione.

La chiesa,
per 40 anni condizionata all’interno da una mentalità conservatrice e,
all’esterno, da leggi restrittive fatte eseguire con metodi violenti e
giacobini, si muove ora su un nuovo versante: domina lo spirito di
concordia e dialogo con tutte le realtà che popolano il vasto orizzonte
del cristianesimo.

Ne fanno
fede le tante encicliche che papa Leone, più avanti del suo tempo, scrive
nei suoi 25 anni di pontificato: ad esempio sull’abolizione della
schiavitù (In plurimis, 1888); sull’istituzione di seminari per i
sacerdoti autoctoni e la creazione della gerarchia ecclesiastica locale
(Ad extremas Orientis oras, 1893).

Il papa
scrive pure sulle devozioni care all’Allamano: il Rosario (Supremi
Apostolatus, 1883), San Giuseppe (Quamquam pluries, 1889), la Santa
Famiglia (Novum argumentum, 1890), il Sacro Cuore (Annum Sacrum, 1899). La
questione sociale, che esplode tra poco con la pubblicazione
dell’enciclica Rerum novarum, è uno dei tanti temi passati al vaglio da
Leone XIII.

C’è un
altro argomento al centro del magistero leoniano, «la missione della
chiesa», destinato ad aprire vasti orizzonti sul mondo. È su di esso che
il pensiero dell’Allamano si identifica con quello di papa Pecci: «La
città santa di Dio che è la Chiesa – scrive Leone XIII, – non essendo
circoscritta da alcun confine di regioni, ha la forza trasfusale dal
fondatore di “allargare ogni giorno lo spazio della tenda e di stendere i
teli della dimora senza risparmio” (Is 54, 2)».

A Roma l’Allamano
avvicina alcune personalità del mondo missionario (ciò fa supporre che sia
questa la principale ragione del suo viaggio), in particolare il card.
Giovanni Simeoni e mons. Domenico Jacobini, rispettivamente prefetto e
segretario di Propaganda Fide, nonché il cappuccino card. Massaja. A
costoro, presumibilmente, sottopone la prima bozza del Regolamento
dell’Istituto, con lo scopo di «raccogliere giovani sacerdoti aspiranti
alle missioni, prepararli convenientemente e quindi metterli a
disposizione di Propaganda Fide, che li avrebbe inviati nelle missioni
alle dipendenze delle varie Congregazioni già esistenti».

L’Allamano
incontra anche il papa, ma non lascia alcun commento scritto su quell’incontro,
che ha come scopo principale quello di sondare la fattibilità di un
progetto ancora in fase preliminare. L’udienza dura quanto basta per
ricevere una benedizione per il santuario, i sacerdoti del convitto, e una
raccomandazione: «Bene, bene quel santuario… Sì, do una speciale
benedizione. Dite loro che studino molto».

Una
raccomandazione scontata per un uomo che è dichiaratamente contrario a
qualsiasi forma di ignoranza nella chiesa e che ha offerto la sua vita
alla formazione del giovane clero.

Sulla
tabella dei festeggiamenti, oltre alla messa giubilare del papa, è
compreso anche un avvenimento di risonanza mondiale, promosso da
Propaganda Fide con il concorso degli istituti missionari. Si tratta
dell’Esposizione vaticana. È una rassegna dei doni e degli oggetti di
valore inviati dall’Europa cristiana in omaggio al papa, un pastore che
con abilità e tatto è riuscito ad attenuare il dissidio tra lo stato
moderno e la chiesa cattolica, dimostrando che le due realtà erano
diverse, non opposte.


L’Esposizione, inoltre, presenta una grande varietà di manufatti di
carattere etnografico provenienti dalle missioni di Indocina, India,
Giappone, Cina, Corea, Africa.

Sotto
l’aspetto culturale, la mostra si inserisce nel contesto dei canali di
comunicazione sociale, di cui il magistero papale e la missione odiea
fanno largo uso. Si calcola che i visitatori della mostra siano stati 380
mila. Tra essi c’è pure l’Allamano, che prende visione del mondo
missionario e raccoglie immagini e consigli utili per la sua futura opera.

La
permanenza a Roma si conclude il 15 gennaio 1888, con la partecipazione
alla solenne canonizzazione di san Pietro Claver, missionario tra gli
schiavi di Cartagena, in Colombia. Il mercato sul quale si svolge la
compravendita di esseri umani, trasportati dalle coste dell’Africa
occidentale, segna l’inizio di un cammino di dolore e orrore, destinato a
consumarsi nelle piantagioni di tabacco, cotone, canna da zucchero e nelle
miniere aurifere.

Pietro
Claver morì l’8 settembre 1654. L’Allamano gli affiderà la protezione del
nascente istituto.

Uomo
avvezzo a marcare pazientemente i ritmi delle cose e a dare a ciascuna il
suo valore, l’Allamano osserva con occhi disincantati gli avvenimenti.
Egli sa che non gli resta che attendere il momento giusto, senza forzare i
tempi, per non correre il rischio di costruire sulla sabbia.

Conta
sulla collaborazione di una personalità eccezionale, Giacomo Camisassa.
Tra i due corre una affinità di sentimenti, vedute e obiettivi, anche se
non di stile. È determinante il contributo del Camisassa in ogni
realizzazione che porti la firma dell’Allamano.

Insieme
attendono il fiorire delle rose. La pazienza non è forse la virtù dei
forti?

(*)
L’articolista, missionario

della
Consolata in Kenya, è autore

di
numerose pubblicazioni.


Significativa l’ultima opera

sul beato
Giuseppe Allamano:

La mia
vita per la missione,

Emi,
Bologna 2001.

Giovanni Tebaldi




ARMENIA: «reportage» da un paese da futuro incerto

L’ESODO DI UN POPOLO SENZA SPERANZA


Quale domani per l’Armenia? È una domanda che sorge
naturale girando per le strade semideserte di Erevan. Il futuro di un
paese dipende dai suoi abitanti. Ma gli armeni se ne stanno andando:
preferiscono spendere il proprio talento ed energia all’estero, piuttosto
che in patria. E poi è difficile vivere spalla a spalla con l’Azerbaigian
e la Georgia.

Il jumbo
che mi portava a Erevan, capitale dell’Armenia, era quasi vuoto: solo una
ventina di passeggeri, spaparanzati negli spaziosi saloni. «Bella idea
utilizzare un aereo così grande per un pugno di viaggiatori!» mi dicevo.

Ma, al
ritorno, mi sono ricreduta sulle capacità commerciali delle linee aeree
armene: lo stesso jumbo, arrivato a Erevan vuoto, ripartiva quasi pieno.
Al check in (che mi aspettavo di fare in tutta tranquillità) c’era una
calca incredibile: gruppi di amici e amiche, famiglie, bambini,
passeggini, pacchi, baci, abbracci, sospiri. Si andava a Francoforte.

Ma per i
più non era quella la destinazione finale. A Francoforte, infatti, c’erano
due impiegati della compagnia che indirizzavano i passeggeri, appena
sbarcati, verso gli aerei in partenza per Los Angeles, Detroit e altre
località americane… La ragazza, seduta accanto a me durante il volo,
andava a Los Angeles. Vi si trasferiva definitivamente per vivere col
marito statunitense, sposato da poco. Un passo importante. Sembrava
tranquilla e sicura della scelta.

D’altra
parte, cosa avrebbe potuto fare a Erevan con la sua laurea in lingue
straniere?


Musei deserti

Così ho
potuto constatare un fenomeno iniziato all’indomani della fine dell’URSS e
dell’apertura delle frontiere: l’Armenia si sta svuotando. Di questo
passo, chi rimarrà a popolare la patria storica degli armeni? La
sonnolenza o aria di sbigottimento colta sul volto dei pochi passanti a
Erevan non era, dunque, come avevo ritenuto, da attribuirsi al carattere
nazionale.

Trovare
lavoro in Armenia è assai difficile. La caduta dell’URSS ha messo in crisi
un’economia che si reggeva solo all’interno di un sistema molto più ampio.
In Armenia, senza risorse naturali, le materie prime giungevano dalle
altre repubbliche dell’Unione, venivano trasformate dalle industrie locali
e il prodotto andava poi ad alimentare l’onnivoro mercato sovietico.

Ora questa
catena si è spezzata. Le fabbriche sono state chiuse una dopo l’altra e la
disoccupazione raggiunge il 50%. Chi può se ne va; chi non può resta e
campa alla meglio. Nelle campagne c’è l’orto a dare una mano. Chi ha un
parente all’estero (in molti, a dire il vero) si fa mandare un po’ di
soldi, che servono a sbarcare il lunario. I più intraprendenti cercano di
farsi assumere dalle poche ditte o ambasciate straniere presenti nel
paese.

Non è
facile neanche per chi ha un lavoro; gli impiegati statali, ad esempio,
sono così male pagati che non fingono nemmeno di mostrare solerzia
nell’eseguire il loro compito.

Il
Matenadaran (la famosa biblioteca-museo dei manoscritti antichi, orgoglio
di Erevan e di tutta l’Armenia) apre alle 10. A quell’ora mi sono
presentata davanti al suo massiccio portone in bronzo e l’ho trovato…
semichiuso. Consapevole dei miei diritti di visitatrice, mi sono
intrufolata dallo stretto pertugio… per essere fermata nell’atrio dal
custode, accorso dalla guardiola dove l’avevo visto sonnecchiare. Non
potevo entrare: l’autobus con il personale addetto alla sorveglianza non
era ancora arrivato. Toccava aspettare.

Sono
ritornata sulla spianata antistante il museo a scrutare il traffico:
inesistente. Dopo una ventina di minuti, ho visto il pulmino, col suo
carico di lavoratori, arrancare per l’erta strada che porta al museo e ho
pensato che ne sarebbe precipitosamente uscita una frotta di impiegati,
ansiosi di recuperare qualche minuto di ritardo. Invece, con grande calma,
fermandosi per scambiare qualche considerazione col guardiano, quattro
signore, già stanche, hanno varcato la soglia del museo.

E perché
si sarebbero dovute affrettare?  Per me, unica visitatrice?

In tutti i
musei mi sono ritrovata sola. Poco male quando si trattava di un piccolo
museo, come quello del pittore Martiros Sarjan, nelle cui modeste sale non
è evidente il senso di vuoto. Diverso, però, è aggirarsi da soli per il
Matenadaran, a cinque piani, nel cuore di Erevan, che ospita il museo
storico e la pinacoteca. Le ampie sale e i soffitti altissimi non fanno
che sottolineare la solitudine. Le vetrate offrono generose viste sulle
vie vicine: un ammasso di catapecchie, alcune in rovina, fra le quali
spicca per contrasto l’Hotel Yerevan, egregiamente ristrutturato e gestito
da una ditta italiana.

Il mio
arrivo in una sala causava sempre un po’ di scompiglio tra le signore
della sorveglianza; prima ancora dei quadri appesi, colpiva i sensi l’aria
pregna dell’odore di pesce in scatola e di nescafè, insieme alle
chiacchiere, loro magro conforto nelle lunghe ore del servizio. Una volta
sono stata raggiunta da una sorvegliante anziana, che, appena siamo
rimaste sole, mi ha chiesto di aiutarla a pagare la bolletta della luce. A
guardarla, non potevo dubitare che si trovasse nella miseria. Le ho dato
il piccolo obolo che mi chiedeva, mentre ascoltavo la sua filippica contro
i governanti corrotti che affamano il paese.


Armeni e
azeri in guerra

In Armenia
corruzione, malgoverno e lotte di potere affliggono il paese e sono causa
di altri mali, che si aggiungono a quelli inflitti dalla natura.

Si vive in
un paese di sassi, che lasciano spazio pure a campi e frutteti; ma il
terreno sembra buono, soprattutto, per far pascolare le pecore e qualche
mucca. Il sottosuolo è povero. Luce e riscaldamento nelle case ci sono,
grazie alla contestatissima centrale nucleare, costruita in epoca
sovietica alla porte di Erevan. Ma in zona sismica. Il sud del paese non
si è ancora completamente ripreso dal terribile terremoto del 1988.

A ciò si
deve aggiungere la guerra iniziata nel 1992 per la conquista del Nagoo
Karabakh, regione che apparteneva all’Azerbaigian, ma a maggioranza
armena. Il conflitto ha avuto pesanti conseguenze umanitarie. Stime non
ufficiali parlano di circa un milione di profughi, tenendo conto sia degli
azeri fuggiti in Azerbaigian, sia degli armeni che ne sono scappati
altrove.

In
territorio azerbaigiano vivevano da secoli diverse comunità armene. La più
consistente, anche se non la più antica, risiedeva a Baku. Ma, prima il
pogrom sovietico contro gli armeni nel 1988 a Sumgait, vicino a Baku, e
poi l’odio e la furia scatenati dalla guerra hanno posto fine alla loro
presenza tra gli azeri.

Dal 1994
le armi tacciono, ma la pace non c’è. I negoziati sono a un punto fermo,
perché l’Azerbaigian non è disposto a cedere una regione che costituisce
il 14% della sua superficie e include Shusha, uno dei maggiori centri
storici e culturali azeri; né gli armeni intendono rinunciare alle proprie
conquiste e a un territorio rivendicato da tempo.

Un accordo
sembrava in vista nel 1999, dopo una serie di incontri tra i due capi di
stato; ma nell’ottobre di quell’anno un’incursione armata nel parlamento
di Erevan, durante la quale vennero uccisi il primo ministro e sette
deputati, seppellì ogni speranza di una rapida soluzione del conflitto.

Tuttavia,
calamità naturali e guerra non bastano a spiegare alcuni aspetti della
vita sociale e politica in Armenia, dove la situazione circa i diritti
civili non è ideale. Come nelle altre repubbliche ex-sovietiche, sono
pesanti le conseguenze del recente passato totalitario.

L’Armenia
è ancora lontana dall’essere autenticamente democratica. La scena politica
è alquanto travagliata: ad ogni nuova elezione gli osservatori rilevano
brogli e irregolarità; l’informazione, sebbene formalmente libera, è
condizionata dal partito al potere; dopo alcuni casi clamorosi di
maltrattamento e arresto di giornalisti, le redazioni praticano una sorta
di autocensura.

La
costituzione garantisce tutti i diritti, ma in pratica spesso non c’è
sufficiente volontà di farli rispettare. La polizia agisce indisturbata e
ricorre a violenze, confidando sull’impunità che le viene di fatto
assicurata; sono normali gli arresti senza regolari ordini da parte della
magistratura. Il potere giudiziario è controllato da quello politico,
nonostante che sulla carta ne sia indipendente.


Il risveglio
della dignità

Sono
diverse le organizzazioni umanitarie presenti in Armenia. Le prime
arrivarono subito dopo il terremoto. Fu un fatto che suscitò scalpore,
perché era la prima volta, dopo decenni di totale chiusura verso gli
stranieri, che si permetteva loro di operare in un territorio sovietico.
Arrivarono anche degli italiani. Tra loro un medico siciliano, Antonio
Montalto, che dal 1994 si è stabilito definitivamente nel paese.

Passata
l’emergenza terremoto, sono emerse altre difficoltà, legate alle gravi
carenze di strutture sociali e sanitarie. C’è chi, come i «Medici senza
frontiere», si occupa dei «bambini difficili». Costoro subiscono violenze
psicologiche e fisiche dagli adulti, vengono mandati ad accattonare o sono
utilizzati da circoli mafiosi; una volta acciuffati dalla polizia, sono
rinchiusi in orfanotrofi simili a carceri.

C’è chi
offre assistenza alle donne vittime di violenze da parte degli sfruttatori
della prostituzione o all’interno delle mura domestiche: un fenomeno,
quest’ultimo, più ampio di quanto non si creda, perché i maltrattamenti in
famiglia vengono raramente denunciati.

Antonio
Montalto ha scelto di occuparsi della ristrutturazione dei
reparti-mateità negli ospedali, ultimamente soprattutto in Karabakh, e
della formazione del personale che vi lavora. La scelta di assistere le
donne in un momento delicato come la mateità non è casuale, né è casuale
il nome che ha voluto dare alla propria organizzazione: Family care.

Antonio è
convinto che molti dei problemi nascano dalla mancanza di solidarietà tra
la gente, anche all’interno delle famiglie. Il suo progetto è ambizioso, e
va al di là della semplice offerta di aiuto. «Non sono qui solo per
rispondere a bisogni concreti – mi spiega -. Ho la pretesa di proporre dei
valori. Ad esempio, quando si tratta di far nascere un figlio, i papà se
ne disinteressano; la reputano una questione da donne. Nell’emergenza devi
occuparti della mamma e del bambino, e poi del papà. Noi cerchiamo di fare
le due cose contemporaneamente».

Così,
oltre a formare il personale, equipaggiare i reparti di mateità e
assistere le madri durante il parto, i volontari di Family care incontrano
anche i padri e chiedono loro di partecipare a tutte le fasi della nascita
dei loro figli.

Antonio
presenta il suo lavoro come un tentativo per ridare dignità alla persona.

«Per un
direttore d’ospedale, che occupa questo posto perché messo dai politici,
il paziente è solo un mezzo per ottenere soldi, oppure un onore. Ad una
madre (che può sentirsi dire: “Dammi 50 dollari, altrimenti non ti faccio
nascere il figlio”), noi facciamo capire che a lei teniamo. Le offriamo
una struttura che non risponda solo al bisogno di assistenza medica, ma
che vuole essere accogliente, curata nei particolari. Mettiamo molta
energia per fare dei nostri reparti dei luoghi giorniosi, dove si stia bene.
L’attenzione alla persona e la cura delle cose può contribuire a cambiare
la mentalità, se le porteranno con sé quando ritoeranno a casa. D’altra
parte, è proprio quando ci sentiamo guardati con rispetto che ci
accorgiamo del nostro valore. Bisogna risvegliare nella gente la coscienza
della propria dignità e dei diritti, che hanno perso».

La non
certezza del diritto e il disprezzo da parte di coloro che ricoprono
cariche pubbliche sono una triste realtà quotidiana nelle ex repubbliche
sovietiche. E l’Armenia non fa eccezione.


La gente se
ne va

Fra tanti
guai, l’Armenia deve fare i conti anche con la sua posizione geopolitica,
essendo circondata da musulmani con cui ha sempre avuto rapporti
difficili. Però, attualmente, sono migliori le relazioni con l’Iran degli
ayatollah che con la cristiana Georgia, per una disputa territoriale che
rischia di rendere molto precario il confine tra i due paesi e aggravare
ulteriormente una situazione pesante: l’Armenia vive già in uno stato di
semi-isolamento, con le frontiere turca e azerbaigiana chiuse. L’unico
confine tranquillo è quello iraniano, ma si tratta di pochi chilometri.

Quale
futuro per l’Armenia? È una domanda che sorge naturale girando per le
strade semideserte di Erevan. Il futuro di un paese dipende dai suoi
abitanti. Ma gli armeni se ne stanno andando, preferiscono spendere il
proprio talento ed energia all’estero, piuttosto che in patria.

Come si fa
a non capirli?

La vita di
un uomo è breve e chissà quanto tempo ci vorrà prima che la ruota della
storia compia il suo giro e restituisca al paese pace e prosperità. Chi ha
voglia di bruciare i propri anni a faticare per un risultato che, forse,
vedranno solo le generazioni future?

Eppure
qualcuno continua a sperare e a credere. Simbat, un armeno dolente, come
tanti altri da me incontrati, è convinto che l’Armenia stia solo
attraversando un brutto momento, ineluttabile, ma passeggero. Egli vive a
Teheran (Iran) e vorrebbe tornare in patria: uno dei pochi. Prima, però,
deve trovare lavoro, impresa oltremodo difficile.

Gli
auguriamo con tutto il cuore che ce la faccia. E che il tempo gli dia
ragione.

Scheda paese


Superficie: 29.800 kmq


Popolazione: 3.500.000 (93% armeni)


Capitale: Erevan (1.500.000 ab.)

Goveo:
repubblica presidenziale

Religione:
cristiano-armena (66%), con pochi cattolici

Economia:
in pianura si coltivano cereali, cotone, tabacco, barbabietola da zucchero
e vite; in montagna si alleva bestiame; il sottosuolo contiene rame,
alluminio, oro… Indicatori: reddito annuo pro capite: 460 dollari ($);
inflazione annua: 349%; importazioni: 990 milioni di $; esportazioni: 360
milioni di $; debito estero 800 milioni di $ (dati del 1998)


 L’Armenia, già repubblica federata nell’ambito dell’URSS, divenne
indipendente nel 1991

 


Khomeini in
cattedrale

Fuori
della patria storica, gli armeni hanno sempre dimostrato intraprendenza,
capacità imprenditoriale e creatività, fondando comunità floride da ogni
punto di vista, non ultimo quello culturale e artistico. Ne è una
dimostrazione la loro presenza nell’Impero persiano, che ha lasciato segni
importanti: basti ricordare le bellissime chiese dei santi Taddeo e
Stefano nel nord dell’Iran, autentici capolavori d’arte, o il quartiere
armeno di Nuova Julfa a Isfahan, uno dei maggiori poli turistici.

Numerosa e
prospera ai tempi dell’ultimo scià, la comunità armena in Iran è oggi in
profonda crisi.

La crisi
interessa anche l’Iran. A più di 20 anni dalla rivoluzione di Khomeini, il
paese ha una grande voglia di cambiamento, però frustrata
dall’impossibilità di agire secondo meccanismi democratici. Il potere è in
mano ad una cricca di musulmani ultraconservatori. Parlando con la gente
si ha l’impressione che, se avesse la possibilità, prenderebbe il volo
verso lidi con maggiore libertà. Alcuni lo hanno già fatto e altri sono in
procinto di farlo.

Questo
desiderio è, a maggior ragione, vivo tra gli armeni, il cui esodo
dall’Iran è massiccio. Gioo dopo giorno la comunità armena di Teheran si
assottiglia. Negli uffici della cattedrale sono stata testimone di un
andirivieni di persone con passaporti e moduli per chiedere informazioni
sulle pratiche di espatrio. I più si dirigono verso gli Stati Uniti, altri
in Europa e pochi in Armenia. Erano 300 mila prima della rivoluzione. Ora
si parla di 50-60 mila persone, ma le cifre reali sembrano essere
inferiori: 25 mila al massimo. Gli armeni paiono proprio decisi a porre
fine al loro secolare insediamento in Iran.

Il club
armeno di Teheran è l’unico luogo pubblico dove le donne sono libere di
vestire come credono; per questo le autorità hanno preteso che l’entrata
fosse proibita agli iraniani. Sono stata invitata da due amiche armene:
Aida, divorata dalla nostalgia per la famiglia negli Stati Uniti (mentre
lei non è ancora riuscita ad ottenere il visto), e Charlotte, anch’ella
desiderosa di lasciare il paese, magari per l’Italia, di cui conosce
splendidamente la lingua. Sono loro a farmi entrare in un’ala del club,
attrezzata per i ricevimenti.

Vi si sta
celebrando una festa di nozze e sono curiosa di darci un’occhiata. Quella
che a me sembra una naturale animazione non le rallegra; al contrario, i
loro occhi sembrano diventare ancora più tristi. Aida me lo spiega:
«Stringe il cuore vedere queste sale semivuote. E pensare che un tempo non
si riusciva a far stare tutti gli invitati!».

Ci sono
«circostanze» che valgono solo per i cristiani. Davanti alla legge il
cristiano non è uguale al musulmano: è la costituzione a stabilirlo. Se un
cristiano ha una vertenza con un musulmano, quest’ultimo ha quasi sempre
la meglio; se il primo commette una colpa, va incontro a sanzioni più
gravi rispetto al secondo. Mi è stato riferito il «prezzo del sangue»; la
legge prevede in alcuni casi pene pecuniarie come risarcimento alla
famiglia per l’uccisione di un congiunto; se un armeno uccide un
musulmano, la penale è di 7 mila dollari; ma, se l’uccisore è musulmano,
la penale scende a 300 dollari.

Nelle
assunzioni pubbliche i musulmani sono privilegiati (nelle imprese private
sembra, invece, che gli armeni siano benvisti). Anche nello sport: nella
squadra nazionale non possono giocare calciatori armeni. Ma gli obblighi
di un armeno verso la collettività non sono minori, a cominciare dal
servizio militare. Anche gli armeni sono tenuti a difendere l’Iran e hanno
pagato il loro tributo di morti negli otto anni di guerra contro l’Iraq.

G li
armeni ammettono che nei loro confronti non ci sono state persecuzioni,
nemmeno dopo la rivoluzione islamica di Khomeini; le autorità non hanno
mai impedito loro lo svolgimento del culto. Hanno una presenza politica
riconosciuta, con due loro membri in parlamento; hanno diritto a quote di
studenti nelle università e a scuole proprie.

Ciò che
caratterizza la scuola armena non è l’insegnamento della religione
cristiana (svolto nei locali della chiesa), ma un’ora settimanale di
lingua armena e il fatto che non sia obbligatorio lo studio del corano.
Una volta le scuole armene erano tante. Oggi gli studenti sono sempre di
meno, le scuole chiudono e l’edificio viene rilevato per legge dallo
stato. A Teheran resiste ancora una decina di scuole.

La prima
cosa che si nota, entrando nella cattedrale armena di Teheran, è un grande
ritratto di Khomeini: ufficialmente la comunità armena si attiene con
scrupolo al «protocollo». Non esistono pubblicazioni che ne descrivono la
vita reale, i disagi; vengono stampati giornali e bollettini che informano
sulle attività e iniziative in atto.

La stessa
cautela regna nella comunità di Isfahan. Ho incontrato l’anziano direttore
della biblioteca, il quale mi ha assicurato che gli armeni non hanno alcun
problema, che la gente sta bene e non ha intenzione di andarsene. Poi ho
saputo che due suoi figli vivono a New York.

Mi ci sono
recata una domenica mattina. Vedendo parcheggiati all’ingresso un grosso
pullman e molte auto, ho pensato ad un arrivo speciale di armeni o di
altri cristiani per il giorno festivo. Mi sbagliavo: si trattava di
musulmani. Questo luogo è per la comunità armena il più potente «autoreclame».
Tra i visitatori della cattedrale c’è chi si informa per sapere di più
sulla storia e cultura armena, sui corsi di lingua. In città esiste una
facoltà di armenistica, che sembra essere alquanto popolare, sebbene
nessuno sia riuscito a spiegarmi quali siano le possibilità che si aprono
agli studenti una volta laureati. I ricchi affreschi della cattedrale e
gli straordinari oggetti esposti al museo suscitano sempre interesse.
Recentemente è stata anche aggiunta una teca, che illustra i luoghi del
genocidio perpetrato contro gli armeni dal regime dei Giovani Turchi. Una
delle impiegate del museo mi ha assicurato che non c’è iraniano che non
sappia di quei tristi avvenimenti. La comunità promuove manifestazioni
pubbliche in occasione dell’anniversario del genocidio, tra cui un corteo
per le vie della capitale.

Un paese
musulmano come l’Iran ha dimostrato più sensibilità di noi verso la
tragedia che ha colpito questi nostri fratelli cristiani, vuoi per la
maggiore vicinanza ai luoghi del terribile massacro degli armeni nel 1915,
vuoi perché, proprio in Iran, molti di loro hanno trovato rifugio dalla
persecuzione turca.

L’Italia
per anni si è rifiutata di riconoscere ufficialmente il genocidio, cedendo
alle pesanti pressioni del governo turco; lo ha fatto solo nell’autunno
2000. È per questo che ben pochi tra noi sono a conoscenza del genocidio?
Forse molti ne hanno sentito parlare, per la prima volta, solo grazie alla
recente visita del papa in Armenia.

Però lo
stupore era sincero. La gente non sa che l’armeno ha uno «status» di
cittadino di seconda categoria. Se l’avessi loro rivelato, probabilmente
non ci avrebbero creduto.

Gli armeni
hanno con gli iraniani buoni rapporti nell’ambito del lavoro e della vita
pubblica; ma non intrattengono rapporti di amicizia. Oltre a un’innata
diffidenza, è determinante l’impossibilità di stringere legami di sangue.
Molti giovani, pur vivendo in Iran, sono mentalmente proiettati altrove.
Il mondo che li circonda non li interessa: ne parlano con un certo
disprezzo.

Ma c’è
anche chi intende restare, per principio. C’è chi lotta per vedersi
riconosciuto il diritto di essere cittadino alla pari di altri; c’è chi
non vuole abbandonare una terra, dove gli armeni sono vissuti per tanti
secoli, fondando un notevole patrimonio culturale e artistico. Il futuro
sembra promettere un progressivo miglioramento delle condizioni di vita.
Tutto l’Iran chiede un ordinamento più liberale e democratico.

Alcuni
cambiamenti sono in atto, altri verranno. Però i tempi per una radicale
trasformazione del paese saranno lunghi e qualche armeno dichiara: «Sta’ a
vedere che, quando arriverà finalmente la libertà, nessuno di noi sarà più
qui a salutarla!».

Biancamaria Balestra




NEISU (R.D. Congo): storica assemblea su una questione scottante

<b<CHIRURGIA DI COSTUME


È possibile rimanere fedeli alla propria identità, pur
rinnovando tradizioni non più compatibili con la dignità umana e il
rispetto delle persone? Ci hanno provato i «mangbetu», con un’assemblea
che, certamente, farà storia.

15 maggio
2001: una data che oserei definire «storica» per i miei mangbetu, famosa
etnia nel nord della Repubblica democratica del Congo. È il giorno del
loro grande incontro sul tema: «Si deve ancora pagare il cadavere?».

Nessuno si
stupisca, perché la questione non è così strana come sembra; anche perché,
dopo un interessante dibattito, ne è uscita una risposta che rivoluziona
consuetudini secolari.

Ma
procediamo con ordine.

La
famiglia come è concepita in Europa (papà, mamma, figli) va un po’ stretta
all’Africa. Il bambino deve, fin da piccolo, conoscere molto bene gli zii
matei, perché la vita viene di là. Quando è ormai cresciuto, torna dai
genitori, oppure, se ha raggiunto la maturità, inizia egli stesso una
nuova famiglia.

Solamente
la morte del nipote rompe definitivamente questo strettissimo legame
vitale. Inizia, allora, un cerimoniale, e chi ne fa le spese è la famiglia
ristretta dove il nipote è deceduto.

Perché
avviene questo? Qual è il significato di avvenimenti che si ripetono ad
ogni morte? Gli antropologi parlano di risarcimento o compensazione. È
come se il congiunto (degli zii matei) fosse stato solamente «prestato»
alla famiglia (come sposo, sposa, figlio); la sua morte impoverisce la
famiglia di origine (zii matei) e, quindi, occorre risarcirla, darle un
compenso. E chiamano questa operazione «kofuta ebembe», ossia pagare il
cadavere.

I banoko
partono dal luogo della sepoltura del nipote con capre, polli, maiali,
soldi e vari oggetti (coltelli, pentole, vestiti…). Ma questo crea
l’impoverimento improvviso (a volte totale) della famiglia dove è avvenuto
il decesso. Si scoprono sempre più vere tragedie familiari.

La morte è
così frequente (anche a causa dell’Aids) che è difficile trovare una
famiglia che non abbia vissuto tale problema. Per cui si scopre che i
figli del defunto non vanno a scuola, perché i soldi non ci sono: li hanno
presi i banoko. Uno muore perché non può permettersi l’ospedale: i banoko
hanno portato via tutto. La vedova resta sovente in una situazione
pietosa: le hanno portato via persino gli utensili da cucina e il prezioso
bidone per attingere acqua alla sorgente.

Le
lamentele sui banoko e sul loro intervento alla morte del nipote è un
fatto generalizzato. Tutti piangono. Ma occorre pure dire che tutti sono
banoko e, presto o tardi, arriverà l’occasione di appropriarsi delle cose
alla morte di un nipote. Allora ci si rifarà. Resta tuttavia il fatto che
di questa usanza, anche se seguita da tutti, si farebbe volentieri a meno.

Ma i capi,
gli anziani, i detentori della tradizione sono d’accordo di abolirla? E
come accordarla con il vangelo?

I
partecipanti furono 2.119, così ripartiti: 1.028 uomini, 717 donne e 374
ragazzi. Interessante anche l’atmosfera ecumenica: i lavori furono aperti
dalle parole di padre Simon Tshiani, missionario della Consolata, e dal
pastore protestante Thomas, che ha presentato in lingua mangbetu le
tradizioni della tribù su questo tema scottante. Suggestivo è stato pure
il suo modo di esporre i problemi, intercalati da canti tradizionali, da
lui stesso composti, che invitavano al cambiamento di mentalità.

È seguito
un lavoro a gruppi, costituiti dalle diverse «collettività» (entità
amministrative), presieduti ciascuno dal capo tradizionale, dagli
«intellettuali» e dagli agenti pastorali: una vera concertazione a largo
raggio. Dopo un acceso dibattito in assemblea, è stato elaborato e votato
un documento finale, scritto in lingala (una delle lingue nazionali del
Congo) e firmato dai tre capi tradizionali, vincolante per tutti (vedi il
riquadro)… Ho fatto pervenire la documentazione all’amico Stefano
Allovio, grande conoscitore dei mangbetu. In una lettera mi ha risposto:
«Questa operazione di chirurgia sui costumi ancestrali è molto
interessante… Ma terrà?».

È quanto
ci chiediamo tutti, missionari e mangbetu. Finora la risposta è: tiene!

 


Se così stanno le cose

Nodadai:
gli zii del defunto sono chiamati a dare una somma di denaro. È possibile
che, da vivo, il defunto abbia dato frecce o lance agli zii, affinché alla
sua morte, facciano scorrere del sangue (vendetta). Questa si chiama «nongu».
A noi mangbetu giudicare se è un buon testamento.

Amuteno: è
il diritto di sepoltura da attribuire agli zii del defunto. Senza amuteno,
il cadavere rimarrà senza sepoltura, anche se il corpo va in
decomposizione. A noi mangbetu giudicare se questa pratica è buona.

Neposo:
dopo la sepoltura, è obbligatorio dare agli zii da mangiare: maiale o
capra, da uccidere subito, e il necessario in banane, manioca, olio e
tutti i condimenti.

Nekuwe
andreti: significa cercare i parenti remoti del defunto, affinché possano
anch’essi trarre profitto del neposo.

Nemongimbo:
è obbligatorio; per cui si comincia subito a trattare, mettendo da parte
la tristezza. Nemongimbo è una multa esigita dagli zii ed è in stretta
relazione con l’importanza del defunto: molti soldi, parecchie teste
d’animali, banane… senza contare i condimenti. A volte tutti gli animali
del defunto sono consegnati agli zii del defunto; così i figli e la vedova
rimangono senza niente. A noi mangbetu giudicare tale modo di fare.

Nuodutulu:
le donne sposate (sorelle del villaggio) possono ritornare dai loro sposi
solo dopo aver pagato o essersi liberate da questi obblighi; altrimenti le
donne rimangono prigioniere nel villaggio d’origine. Tale usanza può
portare al divorzio o all’adulterio. I bambini sono abbandonati alla loro
sorte. Tocca a noi mangbetu vedere se ciò è buono.

O ubwho:
sono gli obblighi, i lavori forzati o le pene inflitte sia al vedovo che
alla vedova, sia ad un membro prossimo della famiglia, come può esserlo un
cognato del defunto. Ecco alcuni esempi di pene inflitte: non mangiare né
bere senza permesso o pagare una somma di denaro prima di poterlo fare;
non lavarsi e non pettinarsi; obbligo di camminare sul ciglio della strada
o in mezzo all’erba. Lavori forzati, quali costruire una casa, cercare
legna speciale per il fuoco…  A noi mangbetu giudicare se queste
pratiche vanno bene.

Decisioni
finali

1. Noi,
mangbetu, non faremo più pagare per il cadavere, perché questa pratica non
contribuisce allo sviluppo della persona e del paese; perché i soldi che
si ricevono per un cadavere non aiutano l’individuo per molto tempo (Ez
24, 15-16).

Antonello Rossi