L’ESODO DI UN POPOLO SENZA SPERANZA
Quale domani per l’Armenia? È una domanda che sorge
naturale girando per le strade semideserte di Erevan. Il futuro di un
paese dipende dai suoi abitanti. Ma gli armeni se ne stanno andando:
preferiscono spendere il proprio talento ed energia all’estero, piuttosto
che in patria. E poi è difficile vivere spalla a spalla con l’Azerbaigian
e la Georgia.
Il jumbo
che mi portava a Erevan, capitale dell’Armenia, era quasi vuoto: solo una
ventina di passeggeri, spaparanzati negli spaziosi saloni. «Bella idea
utilizzare un aereo così grande per un pugno di viaggiatori!» mi dicevo.
Ma, al
ritorno, mi sono ricreduta sulle capacità commerciali delle linee aeree
armene: lo stesso jumbo, arrivato a Erevan vuoto, ripartiva quasi pieno.
Al check in (che mi aspettavo di fare in tutta tranquillità) c’era una
calca incredibile: gruppi di amici e amiche, famiglie, bambini,
passeggini, pacchi, baci, abbracci, sospiri. Si andava a Francoforte.
Ma per i
più non era quella la destinazione finale. A Francoforte, infatti, c’erano
due impiegati della compagnia che indirizzavano i passeggeri, appena
sbarcati, verso gli aerei in partenza per Los Angeles, Detroit e altre
località americane… La ragazza, seduta accanto a me durante il volo,
andava a Los Angeles. Vi si trasferiva definitivamente per vivere col
marito statunitense, sposato da poco. Un passo importante. Sembrava
tranquilla e sicura della scelta.
D’altra
parte, cosa avrebbe potuto fare a Erevan con la sua laurea in lingue
straniere?
Musei deserti
Così ho
potuto constatare un fenomeno iniziato all’indomani della fine dell’URSS e
dell’apertura delle frontiere: l’Armenia si sta svuotando. Di questo
passo, chi rimarrà a popolare la patria storica degli armeni? La
sonnolenza o aria di sbigottimento colta sul volto dei pochi passanti a
Erevan non era, dunque, come avevo ritenuto, da attribuirsi al carattere
nazionale.
Trovare
lavoro in Armenia è assai difficile. La caduta dell’URSS ha messo in crisi
un’economia che si reggeva solo all’interno di un sistema molto più ampio.
In Armenia, senza risorse naturali, le materie prime giungevano dalle
altre repubbliche dell’Unione, venivano trasformate dalle industrie locali
e il prodotto andava poi ad alimentare l’onnivoro mercato sovietico.
Ora questa
catena si è spezzata. Le fabbriche sono state chiuse una dopo l’altra e la
disoccupazione raggiunge il 50%. Chi può se ne va; chi non può resta e
campa alla meglio. Nelle campagne c’è l’orto a dare una mano. Chi ha un
parente all’estero (in molti, a dire il vero) si fa mandare un po’ di
soldi, che servono a sbarcare il lunario. I più intraprendenti cercano di
farsi assumere dalle poche ditte o ambasciate straniere presenti nel
paese.
Non è
facile neanche per chi ha un lavoro; gli impiegati statali, ad esempio,
sono così male pagati che non fingono nemmeno di mostrare solerzia
nell’eseguire il loro compito.
Il
Matenadaran (la famosa biblioteca-museo dei manoscritti antichi, orgoglio
di Erevan e di tutta l’Armenia) apre alle 10. A quell’ora mi sono
presentata davanti al suo massiccio portone in bronzo e l’ho trovato…
semichiuso. Consapevole dei miei diritti di visitatrice, mi sono
intrufolata dallo stretto pertugio… per essere fermata nell’atrio dal
custode, accorso dalla guardiola dove l’avevo visto sonnecchiare. Non
potevo entrare: l’autobus con il personale addetto alla sorveglianza non
era ancora arrivato. Toccava aspettare.
Sono
ritornata sulla spianata antistante il museo a scrutare il traffico:
inesistente. Dopo una ventina di minuti, ho visto il pulmino, col suo
carico di lavoratori, arrancare per l’erta strada che porta al museo e ho
pensato che ne sarebbe precipitosamente uscita una frotta di impiegati,
ansiosi di recuperare qualche minuto di ritardo. Invece, con grande calma,
fermandosi per scambiare qualche considerazione col guardiano, quattro
signore, già stanche, hanno varcato la soglia del museo.
E perché
si sarebbero dovute affrettare? Per me, unica visitatrice?
In tutti i
musei mi sono ritrovata sola. Poco male quando si trattava di un piccolo
museo, come quello del pittore Martiros Sarjan, nelle cui modeste sale non
è evidente il senso di vuoto. Diverso, però, è aggirarsi da soli per il
Matenadaran, a cinque piani, nel cuore di Erevan, che ospita il museo
storico e la pinacoteca. Le ampie sale e i soffitti altissimi non fanno
che sottolineare la solitudine. Le vetrate offrono generose viste sulle
vie vicine: un ammasso di catapecchie, alcune in rovina, fra le quali
spicca per contrasto l’Hotel Yerevan, egregiamente ristrutturato e gestito
da una ditta italiana.
Il mio
arrivo in una sala causava sempre un po’ di scompiglio tra le signore
della sorveglianza; prima ancora dei quadri appesi, colpiva i sensi l’aria
pregna dell’odore di pesce in scatola e di nescafè, insieme alle
chiacchiere, loro magro conforto nelle lunghe ore del servizio. Una volta
sono stata raggiunta da una sorvegliante anziana, che, appena siamo
rimaste sole, mi ha chiesto di aiutarla a pagare la bolletta della luce. A
guardarla, non potevo dubitare che si trovasse nella miseria. Le ho dato
il piccolo obolo che mi chiedeva, mentre ascoltavo la sua filippica contro
i governanti corrotti che affamano il paese.
Armeni e
azeri in guerra
In Armenia
corruzione, malgoverno e lotte di potere affliggono il paese e sono causa
di altri mali, che si aggiungono a quelli inflitti dalla natura.
Si vive in
un paese di sassi, che lasciano spazio pure a campi e frutteti; ma il
terreno sembra buono, soprattutto, per far pascolare le pecore e qualche
mucca. Il sottosuolo è povero. Luce e riscaldamento nelle case ci sono,
grazie alla contestatissima centrale nucleare, costruita in epoca
sovietica alla porte di Erevan. Ma in zona sismica. Il sud del paese non
si è ancora completamente ripreso dal terribile terremoto del 1988.
A ciò si
deve aggiungere la guerra iniziata nel 1992 per la conquista del Nagoo
Karabakh, regione che apparteneva all’Azerbaigian, ma a maggioranza
armena. Il conflitto ha avuto pesanti conseguenze umanitarie. Stime non
ufficiali parlano di circa un milione di profughi, tenendo conto sia degli
azeri fuggiti in Azerbaigian, sia degli armeni che ne sono scappati
altrove.
In
territorio azerbaigiano vivevano da secoli diverse comunità armene. La più
consistente, anche se non la più antica, risiedeva a Baku. Ma, prima il
pogrom sovietico contro gli armeni nel 1988 a Sumgait, vicino a Baku, e
poi l’odio e la furia scatenati dalla guerra hanno posto fine alla loro
presenza tra gli azeri.
Dal 1994
le armi tacciono, ma la pace non c’è. I negoziati sono a un punto fermo,
perché l’Azerbaigian non è disposto a cedere una regione che costituisce
il 14% della sua superficie e include Shusha, uno dei maggiori centri
storici e culturali azeri; né gli armeni intendono rinunciare alle proprie
conquiste e a un territorio rivendicato da tempo.
Un accordo
sembrava in vista nel 1999, dopo una serie di incontri tra i due capi di
stato; ma nell’ottobre di quell’anno un’incursione armata nel parlamento
di Erevan, durante la quale vennero uccisi il primo ministro e sette
deputati, seppellì ogni speranza di una rapida soluzione del conflitto.
Tuttavia,
calamità naturali e guerra non bastano a spiegare alcuni aspetti della
vita sociale e politica in Armenia, dove la situazione circa i diritti
civili non è ideale. Come nelle altre repubbliche ex-sovietiche, sono
pesanti le conseguenze del recente passato totalitario.
L’Armenia
è ancora lontana dall’essere autenticamente democratica. La scena politica
è alquanto travagliata: ad ogni nuova elezione gli osservatori rilevano
brogli e irregolarità; l’informazione, sebbene formalmente libera, è
condizionata dal partito al potere; dopo alcuni casi clamorosi di
maltrattamento e arresto di giornalisti, le redazioni praticano una sorta
di autocensura.
La
costituzione garantisce tutti i diritti, ma in pratica spesso non c’è
sufficiente volontà di farli rispettare. La polizia agisce indisturbata e
ricorre a violenze, confidando sull’impunità che le viene di fatto
assicurata; sono normali gli arresti senza regolari ordini da parte della
magistratura. Il potere giudiziario è controllato da quello politico,
nonostante che sulla carta ne sia indipendente.
Il risveglio
della dignità
Sono
diverse le organizzazioni umanitarie presenti in Armenia. Le prime
arrivarono subito dopo il terremoto. Fu un fatto che suscitò scalpore,
perché era la prima volta, dopo decenni di totale chiusura verso gli
stranieri, che si permetteva loro di operare in un territorio sovietico.
Arrivarono anche degli italiani. Tra loro un medico siciliano, Antonio
Montalto, che dal 1994 si è stabilito definitivamente nel paese.
Passata
l’emergenza terremoto, sono emerse altre difficoltà, legate alle gravi
carenze di strutture sociali e sanitarie. C’è chi, come i «Medici senza
frontiere», si occupa dei «bambini difficili». Costoro subiscono violenze
psicologiche e fisiche dagli adulti, vengono mandati ad accattonare o sono
utilizzati da circoli mafiosi; una volta acciuffati dalla polizia, sono
rinchiusi in orfanotrofi simili a carceri.
C’è chi
offre assistenza alle donne vittime di violenze da parte degli sfruttatori
della prostituzione o all’interno delle mura domestiche: un fenomeno,
quest’ultimo, più ampio di quanto non si creda, perché i maltrattamenti in
famiglia vengono raramente denunciati.
Antonio
Montalto ha scelto di occuparsi della ristrutturazione dei
reparti-mateità negli ospedali, ultimamente soprattutto in Karabakh, e
della formazione del personale che vi lavora. La scelta di assistere le
donne in un momento delicato come la mateità non è casuale, né è casuale
il nome che ha voluto dare alla propria organizzazione: Family care.
Antonio è
convinto che molti dei problemi nascano dalla mancanza di solidarietà tra
la gente, anche all’interno delle famiglie. Il suo progetto è ambizioso, e
va al di là della semplice offerta di aiuto. «Non sono qui solo per
rispondere a bisogni concreti – mi spiega -. Ho la pretesa di proporre dei
valori. Ad esempio, quando si tratta di far nascere un figlio, i papà se
ne disinteressano; la reputano una questione da donne. Nell’emergenza devi
occuparti della mamma e del bambino, e poi del papà. Noi cerchiamo di fare
le due cose contemporaneamente».
Così,
oltre a formare il personale, equipaggiare i reparti di mateità e
assistere le madri durante il parto, i volontari di Family care incontrano
anche i padri e chiedono loro di partecipare a tutte le fasi della nascita
dei loro figli.
Antonio
presenta il suo lavoro come un tentativo per ridare dignità alla persona.
«Per un
direttore d’ospedale, che occupa questo posto perché messo dai politici,
il paziente è solo un mezzo per ottenere soldi, oppure un onore. Ad una
madre (che può sentirsi dire: “Dammi 50 dollari, altrimenti non ti faccio
nascere il figlio”), noi facciamo capire che a lei teniamo. Le offriamo
una struttura che non risponda solo al bisogno di assistenza medica, ma
che vuole essere accogliente, curata nei particolari. Mettiamo molta
energia per fare dei nostri reparti dei luoghi giorniosi, dove si stia bene.
L’attenzione alla persona e la cura delle cose può contribuire a cambiare
la mentalità, se le porteranno con sé quando ritoeranno a casa. D’altra
parte, è proprio quando ci sentiamo guardati con rispetto che ci
accorgiamo del nostro valore. Bisogna risvegliare nella gente la coscienza
della propria dignità e dei diritti, che hanno perso».
La non
certezza del diritto e il disprezzo da parte di coloro che ricoprono
cariche pubbliche sono una triste realtà quotidiana nelle ex repubbliche
sovietiche. E l’Armenia non fa eccezione.
La gente se
ne va
Fra tanti
guai, l’Armenia deve fare i conti anche con la sua posizione geopolitica,
essendo circondata da musulmani con cui ha sempre avuto rapporti
difficili. Però, attualmente, sono migliori le relazioni con l’Iran degli
ayatollah che con la cristiana Georgia, per una disputa territoriale che
rischia di rendere molto precario il confine tra i due paesi e aggravare
ulteriormente una situazione pesante: l’Armenia vive già in uno stato di
semi-isolamento, con le frontiere turca e azerbaigiana chiuse. L’unico
confine tranquillo è quello iraniano, ma si tratta di pochi chilometri.
Quale
futuro per l’Armenia? È una domanda che sorge naturale girando per le
strade semideserte di Erevan. Il futuro di un paese dipende dai suoi
abitanti. Ma gli armeni se ne stanno andando, preferiscono spendere il
proprio talento ed energia all’estero, piuttosto che in patria.
Come si fa
a non capirli?
La vita di
un uomo è breve e chissà quanto tempo ci vorrà prima che la ruota della
storia compia il suo giro e restituisca al paese pace e prosperità. Chi ha
voglia di bruciare i propri anni a faticare per un risultato che, forse,
vedranno solo le generazioni future?
Eppure
qualcuno continua a sperare e a credere. Simbat, un armeno dolente, come
tanti altri da me incontrati, è convinto che l’Armenia stia solo
attraversando un brutto momento, ineluttabile, ma passeggero. Egli vive a
Teheran (Iran) e vorrebbe tornare in patria: uno dei pochi. Prima, però,
deve trovare lavoro, impresa oltremodo difficile.
Gli
auguriamo con tutto il cuore che ce la faccia. E che il tempo gli dia
ragione.
Scheda paese
Superficie: 29.800 kmq
Popolazione: 3.500.000 (93% armeni)
Capitale: Erevan (1.500.000 ab.)
Goveo:
repubblica presidenziale
Religione:
cristiano-armena (66%), con pochi cattolici
Economia:
in pianura si coltivano cereali, cotone, tabacco, barbabietola da zucchero
e vite; in montagna si alleva bestiame; il sottosuolo contiene rame,
alluminio, oro… Indicatori: reddito annuo pro capite: 460 dollari ($);
inflazione annua: 349%; importazioni: 990 milioni di $; esportazioni: 360
milioni di $; debito estero 800 milioni di $ (dati del 1998)
L’Armenia, già repubblica federata nell’ambito dell’URSS, divenne
indipendente nel 1991
Khomeini in
cattedrale
Fuori
della patria storica, gli armeni hanno sempre dimostrato intraprendenza,
capacità imprenditoriale e creatività, fondando comunità floride da ogni
punto di vista, non ultimo quello culturale e artistico. Ne è una
dimostrazione la loro presenza nell’Impero persiano, che ha lasciato segni
importanti: basti ricordare le bellissime chiese dei santi Taddeo e
Stefano nel nord dell’Iran, autentici capolavori d’arte, o il quartiere
armeno di Nuova Julfa a Isfahan, uno dei maggiori poli turistici.
Numerosa e
prospera ai tempi dell’ultimo scià, la comunità armena in Iran è oggi in
profonda crisi.
La crisi
interessa anche l’Iran. A più di 20 anni dalla rivoluzione di Khomeini, il
paese ha una grande voglia di cambiamento, però frustrata
dall’impossibilità di agire secondo meccanismi democratici. Il potere è in
mano ad una cricca di musulmani ultraconservatori. Parlando con la gente
si ha l’impressione che, se avesse la possibilità, prenderebbe il volo
verso lidi con maggiore libertà. Alcuni lo hanno già fatto e altri sono in
procinto di farlo.
Questo
desiderio è, a maggior ragione, vivo tra gli armeni, il cui esodo
dall’Iran è massiccio. Gioo dopo giorno la comunità armena di Teheran si
assottiglia. Negli uffici della cattedrale sono stata testimone di un
andirivieni di persone con passaporti e moduli per chiedere informazioni
sulle pratiche di espatrio. I più si dirigono verso gli Stati Uniti, altri
in Europa e pochi in Armenia. Erano 300 mila prima della rivoluzione. Ora
si parla di 50-60 mila persone, ma le cifre reali sembrano essere
inferiori: 25 mila al massimo. Gli armeni paiono proprio decisi a porre
fine al loro secolare insediamento in Iran.
Il club
armeno di Teheran è l’unico luogo pubblico dove le donne sono libere di
vestire come credono; per questo le autorità hanno preteso che l’entrata
fosse proibita agli iraniani. Sono stata invitata da due amiche armene:
Aida, divorata dalla nostalgia per la famiglia negli Stati Uniti (mentre
lei non è ancora riuscita ad ottenere il visto), e Charlotte, anch’ella
desiderosa di lasciare il paese, magari per l’Italia, di cui conosce
splendidamente la lingua. Sono loro a farmi entrare in un’ala del club,
attrezzata per i ricevimenti.
Vi si sta
celebrando una festa di nozze e sono curiosa di darci un’occhiata. Quella
che a me sembra una naturale animazione non le rallegra; al contrario, i
loro occhi sembrano diventare ancora più tristi. Aida me lo spiega:
«Stringe il cuore vedere queste sale semivuote. E pensare che un tempo non
si riusciva a far stare tutti gli invitati!».
Ci sono
«circostanze» che valgono solo per i cristiani. Davanti alla legge il
cristiano non è uguale al musulmano: è la costituzione a stabilirlo. Se un
cristiano ha una vertenza con un musulmano, quest’ultimo ha quasi sempre
la meglio; se il primo commette una colpa, va incontro a sanzioni più
gravi rispetto al secondo. Mi è stato riferito il «prezzo del sangue»; la
legge prevede in alcuni casi pene pecuniarie come risarcimento alla
famiglia per l’uccisione di un congiunto; se un armeno uccide un
musulmano, la penale è di 7 mila dollari; ma, se l’uccisore è musulmano,
la penale scende a 300 dollari.
Nelle
assunzioni pubbliche i musulmani sono privilegiati (nelle imprese private
sembra, invece, che gli armeni siano benvisti). Anche nello sport: nella
squadra nazionale non possono giocare calciatori armeni. Ma gli obblighi
di un armeno verso la collettività non sono minori, a cominciare dal
servizio militare. Anche gli armeni sono tenuti a difendere l’Iran e hanno
pagato il loro tributo di morti negli otto anni di guerra contro l’Iraq.
G li
armeni ammettono che nei loro confronti non ci sono state persecuzioni,
nemmeno dopo la rivoluzione islamica di Khomeini; le autorità non hanno
mai impedito loro lo svolgimento del culto. Hanno una presenza politica
riconosciuta, con due loro membri in parlamento; hanno diritto a quote di
studenti nelle università e a scuole proprie.
Ciò che
caratterizza la scuola armena non è l’insegnamento della religione
cristiana (svolto nei locali della chiesa), ma un’ora settimanale di
lingua armena e il fatto che non sia obbligatorio lo studio del corano.
Una volta le scuole armene erano tante. Oggi gli studenti sono sempre di
meno, le scuole chiudono e l’edificio viene rilevato per legge dallo
stato. A Teheran resiste ancora una decina di scuole.
La prima
cosa che si nota, entrando nella cattedrale armena di Teheran, è un grande
ritratto di Khomeini: ufficialmente la comunità armena si attiene con
scrupolo al «protocollo». Non esistono pubblicazioni che ne descrivono la
vita reale, i disagi; vengono stampati giornali e bollettini che informano
sulle attività e iniziative in atto.
La stessa
cautela regna nella comunità di Isfahan. Ho incontrato l’anziano direttore
della biblioteca, il quale mi ha assicurato che gli armeni non hanno alcun
problema, che la gente sta bene e non ha intenzione di andarsene. Poi ho
saputo che due suoi figli vivono a New York.
Mi ci sono
recata una domenica mattina. Vedendo parcheggiati all’ingresso un grosso
pullman e molte auto, ho pensato ad un arrivo speciale di armeni o di
altri cristiani per il giorno festivo. Mi sbagliavo: si trattava di
musulmani. Questo luogo è per la comunità armena il più potente «autoreclame».
Tra i visitatori della cattedrale c’è chi si informa per sapere di più
sulla storia e cultura armena, sui corsi di lingua. In città esiste una
facoltà di armenistica, che sembra essere alquanto popolare, sebbene
nessuno sia riuscito a spiegarmi quali siano le possibilità che si aprono
agli studenti una volta laureati. I ricchi affreschi della cattedrale e
gli straordinari oggetti esposti al museo suscitano sempre interesse.
Recentemente è stata anche aggiunta una teca, che illustra i luoghi del
genocidio perpetrato contro gli armeni dal regime dei Giovani Turchi. Una
delle impiegate del museo mi ha assicurato che non c’è iraniano che non
sappia di quei tristi avvenimenti. La comunità promuove manifestazioni
pubbliche in occasione dell’anniversario del genocidio, tra cui un corteo
per le vie della capitale.
Un paese
musulmano come l’Iran ha dimostrato più sensibilità di noi verso la
tragedia che ha colpito questi nostri fratelli cristiani, vuoi per la
maggiore vicinanza ai luoghi del terribile massacro degli armeni nel 1915,
vuoi perché, proprio in Iran, molti di loro hanno trovato rifugio dalla
persecuzione turca.
L’Italia
per anni si è rifiutata di riconoscere ufficialmente il genocidio, cedendo
alle pesanti pressioni del governo turco; lo ha fatto solo nell’autunno
2000. È per questo che ben pochi tra noi sono a conoscenza del genocidio?
Forse molti ne hanno sentito parlare, per la prima volta, solo grazie alla
recente visita del papa in Armenia.
Però lo
stupore era sincero. La gente non sa che l’armeno ha uno «status» di
cittadino di seconda categoria. Se l’avessi loro rivelato, probabilmente
non ci avrebbero creduto.
Gli armeni
hanno con gli iraniani buoni rapporti nell’ambito del lavoro e della vita
pubblica; ma non intrattengono rapporti di amicizia. Oltre a un’innata
diffidenza, è determinante l’impossibilità di stringere legami di sangue.
Molti giovani, pur vivendo in Iran, sono mentalmente proiettati altrove.
Il mondo che li circonda non li interessa: ne parlano con un certo
disprezzo.
Ma c’è
anche chi intende restare, per principio. C’è chi lotta per vedersi
riconosciuto il diritto di essere cittadino alla pari di altri; c’è chi
non vuole abbandonare una terra, dove gli armeni sono vissuti per tanti
secoli, fondando un notevole patrimonio culturale e artistico. Il futuro
sembra promettere un progressivo miglioramento delle condizioni di vita.
Tutto l’Iran chiede un ordinamento più liberale e democratico.
Alcuni
cambiamenti sono in atto, altri verranno. Però i tempi per una radicale
trasformazione del paese saranno lunghi e qualche armeno dichiara: «Sta’ a
vedere che, quando arriverà finalmente la libertà, nessuno di noi sarà più
qui a salutarla!».
Biancamaria Balestra