IL MEGLIO È LA CARITÀ

Carissimi fratelli e sorelle!
La missione della
chiesa è l’annuncio
dell’amore e della misericordia
di Dio, rivelati agli uomini
mediante la vita, la morte
e la risurrezione di Gesù Cristo…
È la proclamazione che
Dio ci vuole tutti uniti nel suo
amore, perdonandoci e chiedendoci
di perdonare.
La riconciliazione ci è stata
affidata, perché è Dio a riconciliare
a sé il mondo in
Cristo, non imputando agli
uomini le loro colpe e affidando
a noi la parola del perdono
(cfr. 2 Cor 5, 19). E Cristo
stesso sulla croce ha pregato:
«Padre, perdonali, perché non sanno quello che
fanno» (Lc 23, 34).
La missione è annuncio di perdono. Lo si ripete sempre,
ma il fatto non perde il suo significato e la sua importanza,
perché la missione costituisce la nostra risposta
al comando di Gesù: «Andate dunque e ammaestrate
tutte le nazioni… insegnando loro ad
osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19).
Si impone con maggiore urgenza il dovere della
missione, perché «il numero di coloro che ignorano
Gesù Cristo e non fanno parte della chiesa è
in aumento; anzi, dalla fine del Concilio, è quasi raddoppiato.
Di fronte a questa umanità immensa, amata
dal Padre che per essa ha inviato
il suo Figlio, è evidente
l’urgenza della missione
(cfr. Redemptoris missio, 3).
Con il grande evangelizzatore
san Paolo, vogliamo ripetere:
«Non è per me un
vanto predicare il vangelo;
è un dovere: e guai a me se
non lo faccio!» (1 Cor 9,
16).
Solo l’amore di Dio, capace
di affratellare gli uomini di
ogni razza e cultura, farà
scomparire le dolorose divisioni,
i contrasti ideologici,
le disparità economiche
e le violente sopraffazioni
che ancora opprimono l’umanità.
Conosciamo le guerre e le rivoluzioni che hanno
insanguinato il secolo trascorso, nonché i conflitti
che continuano ad affliggere il mondo. Non sfugge, al
tempo stesso, l’anelito di tanti uomini e donne che, pur
vivendo in grave povertà spirituale e materiale, sperimentano
la sete di Dio e del suo amore misericordioso.
Pertanto l’invito del Signore ad annunciare la buona
notizia rimane valido; anzi diventa sempre più urgente.
Nella lettera apostolica Novo millennio ineunte
ho sottolineato l’importanza della contemplazione
del volto dolente e glorioso di Cristo. Il
cuore del messaggio cristiano è l’annuncio del mistero

pasquale di Cristo crocifisso e risorto. Il volto dolente
del Crocifisso ci conduce ad accostare l’aspetto più paradossale
del suo mistero, quale emerge nell’ora della
croce (cfr. 25). È la croce la chiave che dà libero accesso
ad una sapienza che non è di questo mondo, né dei
suoi dominatori, ma alla sapienza divina, misteriosa, che
è rimasta nascosta (cfr. 1 Cor 2, 6.7).
Dalla contemplazione della croce impariamo a vivere
nell’umiltà e nel perdono, nella pace e nella comunione.
Questa è stata l’esperienza di san Paolo, che scriveva
agli Efesini: «Vi esorto io, prigioniero del Signore,
a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete
ricevuto, con umiltà, mansuetudine e pazienza,
sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare
l’unità dello Spirito nel vincolo della pace» (Ef
4, 1-3).
E ai Colossesi aggiungeva: «Rivestitevi come eletti di
Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, bontà,
umiltà, mansuetudine, pazienza, sopportandovi a vicenda
e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno
abbia da lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore
vi ha perdonato, fate anche voi. Al di sopra di tutto
vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione. E la
pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete
stati chiamati in un solo corpo» (Col 3, 12-15).
Il grido di Gesù sulla croce non tradisce l’angoscia
di un disperato, ma è la preghiera del Figlio che offre
la sua vita al Padre per la salvezza di tutti. Dalla
croce Gesù indica a quali condizioni è possibile esercitare
il perdono. All’odio, con cui i persecutori lo avevano
inchiodato sulla croce, risponde pregando per
loro. Non solo li ha perdonati, ma continua ad amarli e
intercede per loro.
La sua morte diventa la realizzazione dell’amore.
Davanti alla croce non possiamo che prostrarci in adorazione.
«Per riportare all’uomo il volto del Padre,
Gesù ha dovuto non soltanto assumere il volto dell’uomo,
ma caricarsi persino del volto
del peccato. “Colui che non aveva
conosciuto il peccato, Dio lo
trattò da peccatore, perché potessimo
diventare per mezzo di
lui giustizia di Dio” (2 Cor 5, 21)»
(Novo millennio ineunte, 25).
Dal perdono di Cristo anche per
i suoi persecutori inizia la nuova
giustizia del regno di Dio.
Cristo risorto dona ai suoi
discepoli la pace. La chiesa,
fedele al comando del
suo Signore, continua a proclamae
e diffondee la pace. Mediante
l’evangelizzazione, i credenti
aiutano gli uomini a riconoscersi
fratelli: pellegrini sulla terra
e su strade diverse, sono tutti incamminati verso la patria
comune che Dio, attraverso vie solo a Lui note, non
cessa di additare.
La strada maestra della missione è il dialogo sincero
(cfr. Ad gentes, 7; Nostra aetate, 2); il dialogo che
«non nasce da tattica o interesse» (Redemptoris missio,
56), e neppure è fine a se stesso. Il dialogo, piuttosto,
fa parlare all’altro con stima e comprensione, affermando
i principi in cui si crede e annunciando con
amore le verità profonde della fede, che sono gioia,
speranza e senso dell’esistenza. Il dialogo è la realizzazione
di un impulso spirituale, che «tende alla purificazione
e conversione interiore, la quale, se perseguita
con docilità allo Spirito, sarà spiritualmente fruttuosa» (ibid., 56).
L’impegno ad un dialogo attento e rispettoso è conditio
sine qua non per un’autentica testimonianza dell’amore
salvifico di Dio.
Questo dialogo è profondamente legato alla volontà
di perdono, perché colui che perdona apre il cuore agli
altri e diventa capace d’amare, di comprendere il fratello
e di entrare in sintonia con lui. La pratica del perdono,
sull’esempio di Gesù, sfida e apre i cuori, risana
le ferite del peccato e della divisione, crea una vera comunione.
Con la giornata missionaria mondiale è data a tutti
l’opportunità di misurarsi con le esigenze dell’amore
di Dio. Amore che domanda fede; amore
che invita a porre tutta la propria fiducia in Lui.
«Senza la fede è impossibile essergli graditi; chi infatti
si accosta a Dio deve credere che Egli esiste e che ricompensa
coloro che lo cercano» (Eb 11, 6).
In questa annuale ricorrenza siamo invitati a pregare
per le missioni e a collaborare con ogni mezzo alle attività
che la chiesa svolge in tutto il mondo per costruire
il regno di Dio. Siamo chiamati anzitutto a testimoniare con la vita l’adesione totale a Cristo e al suo vangelo.
Non ci si deve mai vergognare del vangelo, né avere
paura di proclamarsi cristiani, tacendo la propria fede.
È necessario, invece, continuare a parlare, allargare gli
spazi dell’annuncio della salvezza, perché Gesù ha promesso
di rimanere sempre e comunque presente in
mezzo ai suoi discepoli.
La giornata missionaria, vera festa della missione, ci
aiuta a meglio scoprire il valore della nostra vocazione
personale e comunitaria. Ci stimola, altresì, a venire in
aiuto ai «fratelli più piccoli» (cfr. Mt 25, 40) attraverso
i missionari sparsi in ogni parte del mondo.
Fratelli e sorelle carissimi! Affidiamo il nostro impegno
per l’annuncio del vangelo, come pure l’intera
attività evangelizzatrice della chiesa, a Maria
Santissima, regina delle missioni. Sia lei ad accompagnarci
nel nostro cammino di scoperta, annuncio e testimonianza
dell’amore di Dio, che perdona e dona la
pace all’uomo.

IOHANNES PAULUS II




KENYA, AMORE NOSTRO

Sull’onda del cambiamento
I missionari
allargano
l’orizzonte:
da Meru
a Marsabit.
E non solo…

Ancora quattro missionari,
cavalcando «tre asini ed un cavallo
bigio abissino, scortati da due
cani», si mettono in viaggio alla «conquista»
del territorio dei MERU. Non mancano
scoraggiamenti e ritardi. Alla fine si
fondano alcune «roccheforti avanzate nel
cuore del paganesimo». È il 1911…
Nel 1964 è la volta del deserto
di Marsabit. Scrive padre Luigi Graiff
(poi martire nella terra dei SAMBURU):
«Quando arrivai non c’era nulla. I serpenti
erano i padroni assoluti. Capii che
un grande lavoro mi attendeva. Misurai
a lunghi passi i confini della futura
missione (Laisamis), mi rimboccai le
maniche e, con l’aiuto di alcuni
volenterosi, cominciai a rimuovere
le pietre».

SENZA MAI
ARRENDERSI

Resi ormai «esperti»
dal lavoro tra i kikuyu,
i missionari
si spingono più in là,
lasciandosi perfino
innamorare
da un posto sterile
come il «Tharaka»,
nella terra
dei meru…

I kikuyu furono «il primo amore»
dei missionari della Consolata in
Kenya. Fu tra loro che impegnarono
gli sforzi maggiori, cercando
di entrare in un mondo tutto da
scoprire. Ma il territorio kikuyu, attorno
a Nyeri, cominciava a diventare
stretto e lo sguardo, da tempo, si
spingeva oltre i confini imposti dal
governo inglese ai missionari italiani.
Verso il 1911, anche per gli europei
arrivò il permesso di varcare il
territorio dei meru… e mons. Filippo
Perlo non era rimasto ad aspettare.
Dopo un viaggio di esplorazione, si
era convinto che il nuovo territorio
era «incantevole, fertilissimo e molto
popolato»: per cui mise in atto la
sua strategia di «occupazione».
I primi quattro missionari (G. Balbo,
G. Aimo Boot, L. Olivero e G.
Toselli) cavalcando «tre asini ed un
cavallo bigio abissino, scortati da due
cani», si misero in viaggio alla «conquista
» del territorio. Non mancarono
incertezze, scoraggiamenti e ritardi,
ma alla fine vennero fondate
nel Meru «quattro roccheforti avanzate
nel cuore del paganesimo»: sono
Egoji, Mujwa, Tigania e Igembe.
Il ricominciare da capo, l’isolamento,
la nuova lingua, la scarsità di
mezzi, l’apparente disinteresse della
popolazione… resero la penetrazione
nel territorio lenta e logorante.

DOPO LA BUFERA
Non ci mancava che la prima guerra
mondiale, con il conseguente reclutamento
di portatori e soldati, a
bloccare il lavoro pastorale; poi carestie
ed epidemie, cui i missionari
cercarono di fare fronte con iniziative
di carità, che convinsero (finalmente!)
i meru ad avvicinarsi agli
«stranieri», venuti unicamente per
loro.
Dopo anni di provvisorietà, lo sviluppo
delle missioni prendeva slancio
con una sistemazione più decorosa
per padri e suore. Nel biennio
1924-25 le attività essenziali nel Meru
furono le nuove fondazioni (Embu,
Mikinduri e Kyeni) e il consolidamento
delle precedenti, tanto da
ritenere giunto il momento di rendere
indipendente la nuova realtà.
Il 10 marzo 1926 fu decretato dalla
Santa Sede lo smembramento del
vicariato apostolico del Kenya (che
prese il nome di Nyeri) e l’erezione
della prefettura apostolica di Meru.
Questa, secondo la relazione inviata
a Propaganda Fide, comprendeva:
1.940 cattolici, 850 protestanti, 300
mila pagani; vi lavoravano 10 padri,
2 fratelli coadiutori e 14 suore della
Consolata; coadiuvavano l’attività 52
catechisti e 36 maestri (per 20 scuole
maschili e 12 femminili). Prefetto
apostolico fu nominato padre Giovanni
Balbo, che (ahimè), pur essendo
un ottimo missionario, non risultò
all’altezza della situazione; tant’è che,
nel 1929 fu sostituito con padre Carlo
Re, missionario senza storia particolare,
che «trovò, nei calli delle sue
mani laboriose e nell’esperienza dei
due anni passati a Mikinduri, il coraggio
di accettare».
Sì, perché malumori e scontentezze
tra i missionari non mancavano:
le casse erano vuote, il personale
scarso e anche in Kenya si viveva la
drammatica situazione dell’Istituto,
sconquassato dalla «visita apostolica
» che stava mettendo in forse la
stessa sopravvivenza dell’opera voluta
dall’Allamano.
La tempesta, un po’ alla volta, cominciò
a diradarsi. Il piccolo drap-
pello di missionari non si lasciò vincere
dai problemi e, lentamente, il lavoro
trovò il verso giusto, anche se i
risultati (battesimi) non furono consistenti.

GUERRA, PRIGIONIA
E… MAU MAU

Nel 1936 fu padre Nepote Fus ad
assumere la responsabilità del vicariato
di Meru, che contava allora 15
padri, 6 fratelli coadiutori e una trentina
di suore: un bel passo avanti!
Il punto debole del lavoro missionario
erano però le scuole; tanto che
il nuovo responsabile sentì la necessità
di cercare personale preparato
soprattutto per questo. «Il Meru è
molto indietro e se si dorme…» – scriveva
ai superiori di Torino, sollecitando
un aiuto per le scuole, da lui ritenute
il problema più urgente per la
prefettura.
Purtroppo lo scoppio del secondo
conflitto mondiale segnò, ancora
una volta, l’arresto di ogni attività; i
missionari della Consolata diventati
«nemici» degli inglesi, furono deportati
nei campi di concentramento
in Sudafrica e sostituiti da missionari
inglesi, mentre migliaia di giovani
africani furono inviati sui campi
di battaglia. Costretti ad inattività, i
«prigionieri» approfittarono per perfezionare
la conoscenza della lingua
meru, compilae grammatica e dizionario,
tradurre la bibbia e i testi liturgici.
Non fu facile il rientro alle missioni
dopo la guerra, anche perché
l’essere italiano non era gradito alle
autorità. Ci vollero molta pazienza,
diplomazia e generosità per supera-
re le difficoltà…
Intanto, mentre si preparava l’indipendenza
del paese (1963), si scatenò
la «bufera» del movimento Mau
Mau. Furono momenti di paura e di
grande prova. Il «giuramento mau
mau», cui la popolazione veniva costretta,
obbligava a rinnegare il governo
e i missionari; in caso contrario,
ne derivavano attacchi, violenza
ed anche morte.
Le missioni furono prese d’assalto:
a Gikondi tre catechisti furono
uccisi, mentre presiedevano la preghiera
comunitaria; a Barichu le suore
Cecilia Wangeci e Rosetta Njeri
(della congregazione locale dell’Immacolata
Concezione) caddero vittime
della furia omicida; a Imenti il 28
settembre 1953 veniva trucidata suor
Eugenia Cavallo, mentre padre Edmondo
Cavicchi fu brutalmente picchiato
e padre Aldo Cremasco rimase
ferito da un’arma da fuoco.
Amministratore apostolico unico,
a Nyeri e Meru, era mons. Carlo Cavallera,
una figura dinamica che diede
slancio e coraggio ai missionari,
riorganizzò le scuole e i centri sanitari
e iniziò una grande politica di espansione
con «teste di ponte» per
occupare un territorio molto vasto.

ACQUA E STAMPELLE
Il 3 marzo 1954, altro cambio di
guardia: Meru, divenuta diocesi autonoma,
accoglieva il nuovo vescovo
Lorenzo Bessone. Favorito da buone
doti di amministratore, fu capace
di creare un clima di famiglia con i
suoi missionari, anche se la situazione
risentiva pesantemente del passaggio
dei Mau Mau; di questi si avvertivano
ancora le sacche terminali,
come la situazione delle scuole, dove
i maestri erano diminuiti del 35%.
Venendo anche ampliati i confini
della diocesi, si presentò subito l’urgenza
di nuovo personale, cui il vescovo
pensò con l’istituzione di un
seminario per preti locali: la prima
pietra fu posta il 3 settembre 1955.
L’anno seguente il vescovo iniziava
la congregazione delle Nazareth
Sisters of Annunciation per l’istruzione
religiosa e l’opera sociale nel
campo femminile.
Le prime e vaste missioni vennero
smembrate e ne sorsero di nuove, affidate
a padri coraggiosi e intraprendenti come Giovanni Bonzanino,
Luigi Eandi (cfr. box), Angelo Sala…
e soprattutto un piccolo drappello di
coadiutori. Tra questi, il mitico fratel
Giuseppe Argese: insieme ad altri, egli
sconfisse il dramma della mancanza
d’acqua, creando con intelligenza
e fantasia un acquedotto di 270
chilometri, che ancora oggi sa… di miracolo.
Significativa al riguardo la testimonianza
di una donna del posto:
«Passeranno tanti anni, molti saranno
dimenticati, ma noi non dimenticheremo
mai i fratelli dell’acqua».
Di fronte alle carenze sanitarie
della popolazione, la diocesi si impegnò
a tutto campo per la realizzazione
di dispensari e ospedali, alcuni dei
quali famosi come quello di Nkubu
e Kyeni, elogiato dallo stesso presidente
Kenyatta. Fiore all’occhiello
divenne, poi, il centro per bambini
handicappati di Tuuru, iniziato da
padre Franco Soldati e capace di operare
i «miracoli delle stampelle»,
non solo per il recupero fisico dei
piccoli, ma per l’affetto (dei missionari
e della gente) con cui vennero
circondati. L’opera fu affidata
nel 1972 alle
suore del Cottolengo,
che ritornarono
così, dopo quasi 70
anni, a lavorare accanto
ai missionari
della Consolata, in
quel Kenya
che le aveva viste tra i pionieri.
Le suore della Consolata diedero
il loro contributo nella promozione
della donna con il «Centro sociale
femminile» di Getoro (alla periferia
di Meru) e una serie di corsi per assistenti
sociali, segretarie d’azienda,
assistenti all’infanzia.
Lentamente, ma tenacemente, la
chiesa di Meru poteva camminare
con le proprie gambe; finito il tempo
dei pionieri, si camminava verso la
maturità. E questo avvenne il 2 ottobre
1975, quando mons. Silas Silvius
Njru, originario della diocesi, veniva
nominato vescovo di Meru.
L’anno seguente, all’ospedale di
Nkubu si spegneva mons. Bessone:
dopo 22 anni, lasciava in diocesi ben
200 mila cristiani e tante opere sociali
e religiose. Scrisse di lui padre Bonzanino:
«Le chiese, le scuole, le cappelle,
gli ospedali, i dispensari, i seminari
che spuntarono a Meru in 20
anni di attività sbalordiscono. Questo
lavoro gli calzava come un guanto
in una mano ben fatta. Era il vescovo
che ci voleva per una diocesi
nuova, la più vasta del Kenya, dove
c’era tutto da fare. Adesso che lui
non c’è più, resta quello che ha fatto.
E non c’è nulla da ritoccare, perché
fu fatto bene… alla Bessone!».
O, meglio, all’«Allamano».

SIINO IN FONDO
AEgandene (Meru) la raccolta prometteva bene. C’era una cristianità
giovane, dove il battesimo non era soltanto un bel rito. C’era una
chiesa viva, sana, non handicappata da sfasature o compromessi. C’erano
debolezze e difetti, perché un cristiano, anche quando ce la mette
tutta, non è mai un angelo, è soltanto un santo in «potenza». E c’era
un missionario che, mezzo eroe e mezzo profeta, ci viveva dentro. Un
missionario che non aveva nulla di singolare, se non la tempra di un uomo
diritto e onesto. Non gli fu concesso di vivere a lungo. Quando è
morto, non aveva ancora 40 anni. Non si era ancora rimesso dalla gioia
di essere missionario, dal desiderio di pregare, di ringraziare, di adorare
e di lavorare. Nei suoi pochi anni di missione amò Egandene e la sua
gente, dalla quale fu riamato con grande sincerità.
Quando un missionario ama ed è amato come padre Luigi Eandi (1932-
1970), può morire in qualsiasi momento senza rimorsi e in qualunque
modo. Anche con un tuffo dall’alto, dentro uno stagno d’acqua sporca.
Come morì lui, all’improvviso, in un pomeriggio di sole. Quando lo ritrovarono,
il volto era sfigurato, vischioso, gonfio. Non aveva più nulla
di quell’espressione grave e serena d’un tempo. Più nulla di quel sorriso
giovane e spontaneo, che è un prodotto della grazia di Dio. Perché
era passato all’aldilà, oltre il tempo, ricongiunto finalmente al suo Dio
per cui era vissuto.
Gli anni passano a Egandene e la intensa memoria di padre Eandi resta.
Perché è stato un missionario che non è rimasto a mezza strada. È
andato fino in fondo e il suo essere in Africa è stata la sua vita. È stato
duro, ostinato, anti-fariseo, vigoroso, e ha calcato la mano, ma sempre
alla misura del vangelo e dell’amore. È stato un uomo che con semplicità,
chiarezza e amore ha cercato di viverla. L’ha vissuta sui colli di Egandene,
dove si è accalcati di verde, dove misere capanne sembrano
navate di basiliche, dove la gente vive in una liturgia di povertà, e dove
si vedono brecce d’azzurro tra la nuvolaglia itinerante sui bianchi picchi
del Kenya.
P. GIOVANNI BONZANINO

TRA PAURA E CORAGGIIO
Nel 1945 venne fondato in Kenya il
«Kenya African Union» (Kanu), un
partito politico che rivendicava l’indipendenza
della colonia dagli inglesi e che
ebbe, nel 1946, come presidente Jomo
Kenyatta, rientrato nel paese dopo 15
anni di esilio. Nonostante i comizi infiammati
e le pubblicazioni inneggianti
alla libertà, il partito seppe mantenersi
nei binari della legalità rifiutando, per
principio, la violenza fisica e l’opposizione
armata.
Visti gli scarsi risultati, sorse, accanto
al Kanu, un‘altra formazione, che scelse
la violenza, il terrore e la clandestinità
come strategia per ottenere l’allontanamento
dei bianchi e l’indipendenza. Era
il movimento Mau Mau, che fece la sua
comparsa nel 1950 nel distretto di Kiambu,
vicino a Nairobi e a Naivasha. Era
guidato soprattutto dai kikuyu, che contavano
la maggioranza dei contadini senza
terra e dei disoccupati usciti dalle
scuole. Si presentava come una società
segreta e, tra gli obiettivi, non si prefisse
solo l’indipendenza del Kenya, ma anche
il recupero delle terre sottratte dai
bianchi e il ritorno alla cultura tradizionale
secondo i costumi, le tradizioni e la
religiosità degli antenati. Per questo anche
i missionari erano, in un certo senso,
nel mirino dei rivoluzionari decisi a
tutto, pur di raggiungere il loro scopo.
L’affiliazione alla società segreta avveniva
tramite un giuramento: si rinnegava
il battesimo e le convinzioni cristiane,
si dichiarava odio ai bianchi e ci
si impegnava a lottare con ogni mezzo,
accettando le conseguenze funeste in caso
di mancato adempimento ai doveri
della Mau Mau. «Se userai ancora il tuo
nome cristiano, che tu sia ucciso da questo
giuramento!».
All’inizio i missionari e il governo non
considerarono l’impatto del movimento
sulla popolazione, sottovalutandone
la pericolosità. Un’azione eclatante
ne rivelò, tuttavia, la consistenza nell’ottobre
del 1952, quando, in occasione
dell’arrivo del nuovo governatore della
colonia, sir Evelyn Baring, venne ucciso
il capo kikuyu Warouhiou, collaborazionista
dei bianchi. L’attentato convinse
le autorità a prendere la cosa sul serio e
ad opporsi con tutti i mezzi.
Iniziò così una lunga serie di attentati
e scontri, vendette e guerriglie, che si
protrasse per anni. Nel 1953 Yomo
Kenyatta, presidente del Kanu, fu condannato
come leader del movimento a
sette anni di prigione e poi a domicilio
coatto fino al 1961.
Carlo Cavallera, vescovo di Nyeri, e i
missionari vissero quegli anni con paura,
ma rifiutarono di abbandonare i loro posti,
anche se cercarono di difendersi evitando
le occasioni di pericolo, costruendo
case solide e appoggiandosi alle forze
di polizia. Il vescovo, soprattutto, interpretò
la drammatica situazione in chiave
di fede, preoccupato del pericolo di apostasia
dei cristiani.
Il 16 maggio 1952 scrisse una lettera
pastorale sui Mau Mau, condannando il
movimento: loro scopo è quello di distruggere
la chiesa di Cristo, iniettando
nelle persone «false brame di progresso
con un’incomprensibile ingratitudine per
gli innumerevoli benefici ricevuti dalla
chiesa e dal governo»; costituiscono un
pericolo di perversione per gli aderenti,
costretti al giuramento e a seguire «l’istinto
brutale delle loro malvagie passioni,
il loro orgoglio infantile e l’impulso
alla ribellione»; l’adesione ai Mau Mau
è proibita dalla chiesa per essere «un sacrilego
movimento» e dal governo, in
quanto impedisce «di tutelare il buon ordine
del paese».
Per contrastarlo, il vescovo non trovò
di meglio che fargli fronte con un «partito
cristiano», che promuovesse il benessere
della colonia e attirasse le simpatie
dei giovani per gli ideali di progresso;
per coloro che entravano a far
parte del movimento Mau Mau c’era la
scomunica!
I missionari temevano l’odio antireligioso
del movimento e certe azioni li convinsero
nel loro timore.
«La sera del 30 novembre si avvicinò
una gang di Mau Mau vestiti da poliziotti…
Entrarono in chiesa, spaccarono il
tabeacolo e, estratta la pisside e il ciborio
dell’ostia grande, le sparsero sulla
predella e sull’altare dicendo che non esiste
Gesù Cristo e che il solo dio è Yomo
Kenyatta… Si dissero comunisti!».
L’autorità inglese trovò in mons. Cavallera
un collaboratore, di cui fidarsi.
Per sicurezza, la popolazione fu costretta
a riunirsi in circa 450 villaggi di emergenza,
circondati da filo spinato, siepi
e steccati, con severe regole di entrata
e uscita. Qui, però, ben presto la gente
soffrì la fame e ogni malattia.
Èperò impressionante rilevare come
tutte le testimonianze della gente
sottolineino con gratitudine l’aiuto dei
missionari durante l’emergenza.
Ad esempio, padre Francesco Comoglio
è ricordato per avere «salvato molti cristiani
e persino dei detenuti»; padre Bartolomeo
Favaro è considerato «un vero
artefice di pace e questo lo si potè notare
soprattutto durante la sollevazione dei
Mau Mau, quando aiutò molta gente che,
altrimenti, sarebbe morta»; o ancora padre
Bartolomeo Negro, lodato «perché aveva
salvato molte vite e nutrito tante
famiglie con i fondi della parrocchia».
Ha scritto Joseph Ki-Zerbo nella sua
«Storia dell’Africa Nera»: «Il bilancio
ufficiale dei Mau Mau è di 7.811 morti
e oltre 100 mila prigionieri; quello riguardante
le forze dell’ordine è di 460 africani
e 68 europei, morti tra militari e
civili».
Le azioni militari durarono fino a tutto
il 1954; ma la tensione continuò fino
al 1960 (con strascichi locali fino al
1963), quando il Kenya raggiunse l’indipendenza
e Jomo Kenyatta ne fu il primo
presidente.

La dentiera di Filippo
Filippo è un cristiano molto in gamba.
Lo chiamo «il martire». Ed ecco il perché.
Erano gli anni della guerriglia per l’indipendenza
del Kenya. Quella che in
Europa fu chiamata la rivolta dei Mau
Mau e qui «emergenza»…
Filippo scelse la via della fedeltà a Cristo
e al suo dovere di maestro. Nonostante
le minacce di morte, continuò a
fare scuola. E pagò caro il suo coraggio.
Gli chiesi un giorno:
Filippo, non avevi paura che un giorno
o l’altro ti avrebbero fatto fuori?
– Eh sì! Speravo sempre di no, ma ne
vedevo tanta di gente massacrata. Sapevo
di essere dalla parte del Signore e
Lui mi dava forza.
Com’è che ti hanno assalito e non ti
hanno ammazzato?
– Non lo so. Toavo da scuola. Mi vidi
circondato dai Mau Mau. Tentai di
scappare, ma mi furono addosso. Capii
che ero finito. Caddi in ginocchio e mi
misi a recitare l’Ave Maria. A quel tempo
pregavo molto la Madre di Gesù che
mi aiutasse nell’ora della morte. Non
so cosa mi accadde. Aprii gli occhi e vidi
qualcuno che mi soccorreva.
Cos’era capitato?
– Non so. Forse, sentendo arrivare gente,
sono scappati. Forse hanno creduto
che fossi morto. Sai, io non gridavo,
pregavo. Forse è stata la Madonna che,
in quell’ora di morte, ha avuto compassione
della mia famiglia. Il fatto è che
sono passati 15 anni e io sono ancora
qui, sano e salvo. Sia ringraziato il Signore,
che è stato davvero buono con
me…
«Beh, proprio sano e salvo non direi –
mi disse alcuni giorni dopo Donatella,
la suora infermiera. Sai perché porta il
bastone? Non fu possibile aggiustargli
il ginocchio».
– Sì, ho visto.
– Hai notato che bei denti ha? Glieli ha
messi il vescovo.
– Oh bella! Non sapevo che il vescovo
facesse anche il dentista.
– Non capisci niente! Glieli ha fatti mettere
il vescovo, perché i suoi erano partiti
tutti. E come avrebbe fatto a masticare
granoturco e fagioli?… Che paura
quel giorno! Ero qui in ambulatorio come
adesso. Non mi avevano mai minacciata.
Curavo anche loro, i Mau Mau.
Ne avevano un gran bisogno, poveretti,
con la vita grama che conducevano nella
foresta. Sentii delle grandi urla che
aumentavano sempre più. Poi mi parve
di sentire le parole «ammazzato… Filippo». Sono corsa fuori. Che orrore! Tutto
sangue. Vedevo solo sangue. Era
proprio Filippo. Cosa potevo fare?
L’ho lavato, disinfettato e fasciato in
tutta fretta. Poi il padre l’ha portato all’ospedale.
Se chiudo gli occhi, lo vedo
ancora. Tu scherzi quando lo chiami «il
martire», ma lo è davvero.
– Sorella, io non scherzo affatto. Gli voglio
un gran bene e mi sento una pulce
davanti a lui.
GIUSEPPE MAGGIONI,
autore di «Storie africane», EMI,
Bologna 1987

A PIEDI, SOTTO IL SOLE
I missionari protestanti e cattolici cominciarono ad
aprire missioni nella «Riserva Africana del Forte
Meru» nella prima decade del 1900, piazzandosi sull’altopiano
nei pressi di Meru. Vedevano bene quel posto…
I cattolici diedero un’occhiata pure alla regione
del Tharaka: la giudicarono un «foo» inospitale
e poco popolato. Scarsi di numero e mezzi, si consacrarono
ai soli altopiani popolati e climaticamente più
ospitali del Kenya e del Nyambene, in attesa di tempi
migliori.
Ma nel ’50 il vescovo Carlo Cavallera ruppe ogni indugio:
Gesù offriva la sua salvezza anche ai Tharaka
e, quindi, anch’essi avevano diritto a godee i benefici:
come pure quelli che l’Europa poteva offrire loro
con lo sviluppo tecnico e culturale. Accompagnato dal
meglio navigato padre Vittorio Pacchiardo e guidato
dal capo Mburugu, il vescovo consacrò 9 giorni al Tharaka:
lo esplorò in lungo e in largo e incontrò più gente
possibile per pianificare con intelligenza e saggezza
l’attività missionaria. Nel suo diario il vescovo annotò:
«A piedi e sotto il sole». Una nota scaa, che ai missionari
andati poi a risiedere parla di fatiche e costanza
degne di grande ammirazione.
L’anno seguente prese il via Ntonyai Mission: non
era però nel Tharaka, ma ai suoi margini e raggiungibile
da Meru solo con la pista carrozzabile. Quella gente
ne fu felicissima, perché si era accorta dello sviluppo
sociale portato dalle missioni sull’altopiano del
Meru. Tanto che il capo Muraga si fece subito avanti
per offrire il terreno necessario per due scuole e a richiedere
altri missionari.
Ntonyai Mission ebbe vita travagliata e breve per
la forte opposizione dei metodisti di Meru Mission, che
ritenevano la zona loro feudo missionario, e per lo svilupparsi
della guerriglia mau mau.
Passata la bufera, padre Pietro Fissore, il fondatore
di Ntonyai, decise di spostare il centro della missione
nel cuore del popolo tharaka e dette il via a Materi
nel sud. Fu così più facile seminare nel Tharaka
scuole e cappelle, catecumeni e cristiani.
La scuola-cappella fondata presso il mercato di Gatunga,
quasi 30 km più a nord, prese un avvio molto
promettente. Veniva seguita con attenzioni particolari:
messa ogni domenica e tre visite settimanali dell’ambulatorio
mobile. Nel ’63 Gatunga contava già 900
cristiani e 10 scuole-cappelle con buoni catecumenati.
Fu, quindi, più che naturale promuovere quella
succursale a sede di missione, per assicurare un’adeguata
assistenza al Tharaka del nord.
Nacque così «Gatunga Mission». Il fondatore fu
padre Guido Baggio, un artista come pochi. Ma si adattò
a vivere in una capanna di fango e paglia, a costruire
blocchi di sabbia e cemento, a cuocere mattoni
al sole per rendere il centro della missione più ospitale
per i suoi successori.
Non era facile vivere a Gatunga. Una decina di anni
dopo, padre Aimone Rondina scrisse: «Posto da dissodare,
primitivo. C’è bisogno di acqua e cibo prima
che di istruzione… Un popolo duro e difficile come la
terra che coltivano. Vivono di bestiame e miglio. Lottano
per la vita. Il Tharaka è posto malarico e vi sono
numerosissime altre malattie cagionate da malnutrizione
e mancanza di vitamine. Paese poco ben servito
climaticamente».

Èbene
ricordare prima di tutto che qui, tra i meru, al
contrario dei nostri paesi cosiddetti civili, la chioma
è curata in maniera tutta speciale dal sesso forte…
poiché le donne vanno abitualmente rasate e rasate
proprio completamente. Gli uomini, invece, se i capelli
donati loro da madre natura s’attardano ad allungarsi
sì da potersi fare un bel codino, te li allungano con cordicelle
e fili, impiastricciando tutto di ocra rossa, così
che capelli veri e aggiunta di cordini, diventano un quid
unum e danno materia per abbellire il bellimbusto che,
quando ha il codino, si crede
giunto all’apogeo della
bellezza.
Il neonato dev’essere rasato
al terzo o quinto giorno
dalla nascita e, finché
non sono tagliati questi capelli,
la madre non può uscire
di casa. Non può essere
rasata per allontanare e
seppellire (insieme coi capelli
raschiati) tutto quel
non so che di sacro e inviolabile
che ha la capanna,
dove abita col bimbo nei
primi giorni della nascita. Il
bimbo rasato può essere
portato a vedere ai parenti
e anche il padre, per lo meno
di sotterfugio, potrà dargli
un’occhiata; la madre è
libera d’attendere alle sue
consuete occupazioni e i capelli,
oggetto di tanto terrore,
sono con ogni riguardo
seppelliti ai piedi del letto
della madre, perché piede
profano non calpesti la
«mambura» (capigliatura)
del neonato.
Però, col crescere del bimbo, ricrescono i capelli e crescono
davvero, perché per tagliarli una seconda volta,
occorre ancora più solennità. Si richiede la presenza dello
stregone e, si sa, costui non lavora gratis: occorre un
montone, che viene ucciso per la cerimonia e la cui carne
e pelle sarà la sua paga. Ma, tra i meru, vi sono molti,
anzi troppi poveracci che difficilmente trovano tanto
presto il montone necessario; intanto si aspetta e il
bimbo cresce fino a sei, dieci e più anni e… i capelli non
sono più riccioli spioventi sulle spalle, ma formano una
boscaglia aspra o forte «che nel cor rinserra… ogni
lordura». Oh, non importa! Nessuno li tocca, nessuno li
deve toccare: sono cosa sacra!
Ricordo un fatterello. Tra i marmocchi che frequentavano
la scuola di Egoji, parecchi anni fa, c’era un
ragazzetto di una dozzina d’anni, molto, ma molto intelligente
e anche tanto,
ma tanto bravino, che si attirò
l’attenzione premurosa
della suora maestra. E davvero
faceva progressi a
scuola; ma la maestra, poveretta,
ogni volta che doveva
avvicinarlo per raddrizzargli
la penna in mano
o che so io, sentiva una ripugnanza
indescrivibile,
ché il ragazzo aveva appunto
in testa una di quelle capigliature
arruffate e incolte
da più di dieci anni.
Un bel giorno le venne un’idea
e, senz’altro, prese le
forbici, s’improvvisò parrucchiera
per amore del
prossimo; e il ragazzetto fu
libero dalla boscaglia!
Venne poi il pandemonio
quando il bimbo toò a casa.
Padre e madre, come
spiritati, giunsero alla missione.
Era troppo l’insulto
fatto loro, quasi non avessero
un montone per chiamare
lo stregone a tagliare
i capelli al loro Kaibi. Chi
salvò la faccenda, oltre la mia barba un poco temuta,
fu l’osservazione di un vecchio, presente alla scena, che
tagliò corto dicendo che non c’era nessun problema, perché
i capelli non erano stati «rasati», ma semplicemente
tagliati con le «magazi» (forbici). E fu fatta la
pace…
P. ANGELO BELLANI

FRA LE ROSE DEL DESERTO
È quasi l’ultima tappa di un «andare sempre più in là»,
fino agli estremi confini del Kenya.
Il piccolo seme è diventato un albero dai molti frutti.
Alcuni, anche rossi di sangue…

Dopo Meru, arriva Marsabit.
Questa «diocesi del deserto»,
nel nord del Kenya, nacque
dalla stima di Paolo VI per il vescovo
Carlo Cavallera e crebbe in fretta,
grazie alla dedizione sconfinata di
una trentina di missionari e suore,
con un piccolo gruppo di cornoperatori
laici.

SASSI E SERPENTI
Niente giustificava, il 4 novembre
1964, l’erezione di una nuova diocesi
in un territorio arido, poco popolato
da pastori nomadi. Fino al 1963
il governo vi permetteva a stento la
residenza agli europei. Ma era un sogno
antico che si realizzava, risalente
addirittura a monsignor Filippo
Perlo, quando nel 1902 pensava già
all’evangelizzazione dei masai.
Un contatto con il nord, i missionari
della Consolata l’avevano avuto
nel 1914 quando, con una sfortunata
spedizione guidata da padre Angelo
Dal Canton, tentarono di penetrare
in Etiopia. Rispediti indietro,
rimasero a Moyale per tre anni (in attesa
del permesso di tornare a Nyeri)
e ne approfittarono per un apostolato
spicciolo. Un’altra occasione
persa la si ebbe nel 1925, quando,
per mancanza di mezzi e personale, i
missionari declinarono l’invito del
governo inglese ad aprire un dispensario
a Marsabit, battuti dagli anglicani
che vi si installarono nel 1931.
Però nel 1948 Carlo Cavallera, vicario
apostolico di Nyeri e amministratore
della prefettura di Meru, decise
di «esplorare» il vasto territorio
a lui affidato, fino agli estremi confini
della Northe Province, per studiare
la possibilità di una presenza
stabile. Prese contatto con i capi locali,
discusse con le autorità civili, conobbe
la sparuta e isolata presenza
dei cattolici: instancabile e deciso a
trovare una fessura in quel vasto e inospitale
territorio e iniziare l’evangelizzazione
delle varie tribù presenti
(turkana, samburu, masai, rendille,
gabbra, el molo, ecc.).
Le esplorazioni del vescovo continuarono,
finché nel 1951 arrivò il
sospirato permesso di una prima installazione
a Baragoi. La missione divenne
operativa l’anno successivo,
con padre Carlo Andrione e, in seguito,
con tre suore della Consolata.
Nel 1963 nacquero contemporaneamente
le missioni di Laisamis, Archer’s
Post e Marsabit.
Inutile tentare di raccontare in poche
righe le difficoltà a installarsi in
posti simili: difficoltà di trasporti, isolamento,
malaria, caldo soffocante
e soggiorno in tenda rendevano
l’impresa quasi eroica. Scrisse padre
Luigi Graiff, iniziando la missione di
Laisamis: «Quando arrivai non c’era
nulla. I serpenti erano i padroni assoluti.
Compresi subito che un grande
lavoro mi attendeva. Misurai a
lunghi passi i confini della futura
missione, mi rimboccai le maniche e,
con l’aiuto di alcuni volenterosi, cominciai
a rimuovere le pietre».
C’era tutto da fare e la prima cosa
era dare al territorio, dal punto di vista
ecclesiale, un’autonomia giuridica.
La cosa fu facilitata dal vescovo
Cavallera che bruciò le tappe: nonostante
le esitazioni da parte delle autorità
romane, si offrì a diventare il
primo pastore di quella diocesi desertica,
lasciando la ben avviata chiesa
di Nyeri al vescovo africano Cesare
Gatimu.
Il 25 novembre 1964 veniva così
eretta la diocesi di Marsabit e, il 25
febbraio dell’anno seguente, con un
rituale sobrio ed essenziale, il coraggioso
missionario «prendeva possesso
» del nuovo campo di lavoro.

SANGUE SULLA SABBIA
Non erano solo le condizioni ambientali
a rendere difficile l’evangelizzazione.
Il contesto era totalmente
diverso da quello sperimentato dai
missionari fra i kikuyu e i meru con
popolazioni agricole e sedentarie. Invece
le tribù che pascolavano le mandrie
nel vasto bacino, confinante con
Etiopia e Somalia, potevano avere
con i missionari soltanto sporadici
contatti. Quindi anche la metodologia
missionaria doveva essere diversa:
più mobile e capace di adattarsi
alla situazione.
Data la precarietà, le prime attenzioni
furono rivolte alla situazione sanitaria,
con dispensari, cliniche mobili
e, soprattutto, con la realizzazione
dell’ospedale di Wamba, uno dei
progetti più sofferti ed ambiziosi.
Nato dal nulla nel 1969, con 40 posti
letto, fu reso possibile dalla generosità
di tante persone (benefattori,
amici, medici, missionari) e, specialmente,
dalla presenza del dottor Silvio Prandoni, insostituibile figura di
medico dalla generosità sconfinata.
Accanto all’ospedale, nel 1967 sorgeva
pure una «clinica oculistica»,
grazie all’interessamento del prof.
Angelo Vannini (di Torino), padre
Mario Valli e una lunga serie di oculisti
italiani che vi si recavano, alternandosi,
per brevi periodi di lavoro.
Nel campo dell’istruzione ci si impegnò
per scuole secondarie, decine
di scuole elementari, matee e una
di arti e mestieri, superando la non
piccola difficoltà di avere insegnanti
preparati in luoghi così lontani e inospitali.
Una triste nota che caratterizzò
il lavoro di mons. Cavallera
furono le ricorrenti siccità, che costrinsero
il vescovo alla ricerca ossessiva
di aiuti all’estero e ad organizzare
le missioni, perché fossero
centri di assistenza a gente stremata
dalla fame.
La presenza nel territorio di Marsabit
aveva come scopo primario l’evangelizzazione,
che si rivelò però
più difficile del previsto per il carattere
mobile delle popolazioni, l’insicurezza
causata dai predatori shifta e
anche l’influenza (in alcuni posti) dei
musulmani. Per questo i missionari
puntarono la loro azione su tre direzioni,
con una strategia che teneva
conto non solo delle forze umane e,
soprattutto, della fede (era il «pallino» del vescovo).
In primo luogo, una «presenza»
costante ai «piedi dell’Eucaristia»: in
modo che, in tutta la giornata, venisse
garantita nell’intera diocesi la preghiera
continua. Poi fu curata la pastorale
scolastica, affinché gli alunni
ricevessero una formazione cristiana
(oltre che un esempio di vita), così da
far nascere in loro l’esigenza di chiedere
il battesimo e costituire nuove
comunità. E, infine, studio serio delle
(difficili) lingue locali, insieme a usi
e costumi, per inculturare il messaggio
del vangelo, conoscere la gente
in profondità e rispondere ai loro
bisogni.
Il vescovo sognava anche una «pastorale
nomade». Ma l’impresa si rivelò
difficile, sia perché il governo
impose ai missionari la residenza fissa,
in luoghi sicuri e protetti dalla polizia,
sia perché la «squadra volante»
di padri, destinata a seguire gli spostamenti
dei nomadi, ripiegò sulla
creazione di strutture di aiuto che,
gradualmente, divennero stabili; più
che fare gli itineranti, i missionari si
dedicarono a sviluppare i posti difficili
e lontani.
Fondamentale si rivelò anche l’opera
dei catechisti e catechiste, per i
quali fu creato il Centro pastorale di
Maralal, attentamente studiato e adattato
alle esigenze locali. E prese
sempre più corpo l’idea che fosse ormai
giunto il momento di pensare a
preti locali. Dopo lunghe riflessioni,
nel 1979 si aprì il seminario «Buon
Pastore», da cui uscirà nel 1988 il primo
sacerdote samburu, Dominic Lesaion.
Intanto la forte fibra del vescovo
Cavallera cominciava a cedere, sotto
la spinta di una lunga e intensa attività,
svolta in condizioni disagevoli;
dopo 36 anni di episcopato al servizio
della chiesa kenyana, le sue dimissioni
furono accolte il 12 luglio
1981. Ritiratosi a Torino, potè realizzare
quello che era sempre stato il
suo sogno: preghiera e contemplazione.
Al suo posto arrivò padre Ambrogio
Ravasi, presente in Kenya da
una decina d’anni, che dovette sobbarcarsi
la non facile eredità dell’infaticabile
predecessore: vi riuscì con
il suo ottimismo, semplicità, realismo
pastorale e vicinanza patea a tutti.
Ultima tappa nelle vicende della
diocesi di Marsabit è stata la sua divisione,
con la creazione della nuova
diocesi di Maralal, per la quale veniva
nominato vescovo Virgilio Pante,
consacrato il 6 ottobre 2001. Il vescovo
giusto: veterano del posto, appassionato
di moto e caccia, profondo
conoscitore degli usi e costumi locali,
vero «nomade» del Signore!

SAPER RICOMINCIARE
Dopo il Concilio ecumenico Vaticano
II, la chiesa entrava in una fase
di rinnovamento; c’era voglia di cambio,
novità, vie pastorali non ancora
battute. Anche la missione non rimase
indenne al vento dell’«aggioamento», anche se dovette fare i
conti con il calo drastico di vocazioni
e la critica (talvolta ingiusta) ai metodi
del passato, considerati lesivi
delle culture e dei diritti dei popoli.
Maturava anche una nuova «strategia
», che riconosceva ai missionari
non più il ruolo di protagonisti, bensì
quello di (umili) «accompagnatori
» delle chiese locali, fino alla loro
piena autonomia. Famosa la definizione
di missionario, che circolava in
quei tempi: «Straniero, in casa di mio
padre». Si parlava di «trapasso», con
l’evidente allusione al sacrificio e al
distacco materiale che il missionario
era chiamato ad affrontare, nel momento
di affidare la sua «creatura»
ad altre mani. Nel frattempo doveva
imparare a collaborare con altre forze
che cominciavano a fare capolino:
come i laici missionari che, da pochi,
diventavano una presenza stabile e
consistente; o come i sacerdoti fidei
donum, presenti dai primi anni ’60, a
cui verrà affidata, nel 1996, la diocesi
di Isiolo, «figlia» della missionemadre
di Mujwa (Meru).
E si faceva sempre più strada una
parola capace di far rizzare i capelli e
battere il cuore, soprattutto ai missionari
di una certa età: «ridimensionamento
», ossia ridurre le presenze
nelle diocesi ormai consolidate. La
scelta poteva far pensare a una fatale
necessità dell’istituto, causata dall’inesorabile
e lenta riduzione di personale;
ma, sul versante positivo, diventava
pure la strada obbligata per
riqualificare le presenze in situazioni
più consone all’ad gentes.
Non è che i vescovi africani fossero
tanto d’accordo. Mons. Gatimu,
vescovo di Nyeri, scriveva ai superiori
di Torino: «Non mi si portino
via i missionari migliori per la mia
diocesi; se non ne approfittiamo ora,
domani potrebbe essere troppo tardi!…
». Ma il ridimensionamento era
(ed è) una «cura» obbligata e cominciò
ad attuarsi. I 224 missionari,
presenti in Kenya nel 1975, scesero a
171 nell’81, quando il settimo Capitolo
generale affrontò il problema
delle nuove presenze sul territorio.
Vennero lasciate missioni «storiche
», iniziate da zero dai primi missionari,
come Embu, Kyeni, Chuka,
Gikondi, Nyeri (il «Vaticano» della
Consolata, dato il complesso di opere:
parrocchia, tipografia, centro catechistico,
ospedale, ecc.), Murang’a,
Nanyuki, Karatina… per scegliere situazioni
di «frontiera»: come tra i
musulmani di Mombasa (1991); o a
Chiga (1992) tra il popolo dei luo, in
diocesi di Kisumu; o nella periferia di
Nairobi, tra i baraccati degli slums a
Kahawa (1993) e Lileleshwa (2001).
Emergeva, inoltre, tra i missionari
una nuova priorità: quella dell’animazione
missionaria e vocazionale,
che assorbe ancora oggi persone e
mezzi, spingendo a nuove presenze
anche fuori dal Kenya, come a Kampala
(Uganda).
Per anni il Kenya ha accolto evangelizzatori
che venivano dall’estero:
un dono prezioso, che ha permesso
a questa chiesa di diventare adulta e,
a sua volta, di restituire ad altri il dono
ricevuto. È un salto di qualità, che
rivela come il lavoro missionario abbia
dato i suoi frutti.
Oggi sono 121 i missionari della
Consolata kenyani, la maggior parte
dei quali è sparsa nei vari paesi del
mondo; ultimo, la Corea del Sud, che
ha appena accolto Joseph Otieno e
Peter Njoroge, due giovani freschi di
ordinazione e decisi ad affrontare una
cultura (e una lingua) così lontana
dalla loro.
Chi avrebbe mai pensato che la
Consolata, assumendo pure il volto
kenyano, arrivasse a tanto?

ATLETA, SOLDATO, CONTEMPLATIVO
Nell’apostolato Carlo Cavallera è impegnato non solo ad amministrare
battesimi, ma ad evangelizzare le culture. Iniziando la missione di
Marsabit, ha ben chiaro in mente che, nell’inculturazione del vangelo,
gli agenti principali sono gli stessi nomadi. Essi, perciò, devono vivere
la fede cristiana in armonia con la loro identità culturale ed esprimere
la propria maturità ecclesiale con il favorire la nascita di vocazioni sacerdotali.
Il vescovo si spende tutto per l’evangelizzazione:
la sua vita è la corsa di un atleta
eccezionale, la battaglia di un soldato valoroso,
il servizio di un amministratore fedele.
Per lui «contemplazione» significa avere
il tempio come epicentro del proprio
essere e agire: stare nel recinto sacro per
guardare il mondo con gli occhi di Dio e
giudicare la storia con il criterio della sua
logica misericordiosa.
In comunità la tensione contemplativa lo
rende capace di comunicare e convocare,
comprendere e concordare, compensare e
convincere, comporre e conservare, completare
e consolidare, commuovere e convertire,
compatire e confortare, compiangere
e consolare. La sua grandezza è proprio
questa: in lui, «la missione diventa
contemplazione».
Lino Zamuner
(autore di «Mons. Carlo Cavallera – Quando la missione invade la vita»,
Edizioni Missioni Consolata, Roma 2000)

NON CI RESTA CHE PREGARE
Padre Luigi Graiff è destinato
a South Horr (diocesi di
Marsabit), con l’incarico di occuparsi
anche dell’avamposto di
Parkati, aperto due anni prima
e sua prossima destinazione. La
regione è abitata dai turkana,
tribù nomade minacciata periodicamente
da fame, malattie e
dalle incursioni dei banditi Ngorokos,
un corpo clandestino con
intenti politici eversivi, che si alimenta
di rivalità tribali e di oscure
ingerenze straniere, come
fanno supporre le sofisticate armi di cui sono dotati.
Da South Horr padre Luigi scende ogni settimana nella
valle di Sukuta, dove si trova Parkati: vi si reca in jeep
attraversando la solitudine della steppa, portando viveri,
medicinali, materiale da costruzione e tutto quanto può
servire alle necessità di quelle popolazioni, tra le più povere
della diocesi. Ogni viaggio in quelle distese pietrose
e arroventate è compiuto nel segno del rischio, e rappresentava
una sfida agli Ngorokos, ostili verso chiunque si
sia reso testimone dei loro soprusi e razzie e resi sospettosi
nei confronti del missionario che, raccogliendo le confidenze
di chi va da lui per farsi curare, potrebbe conoscere
gli autori di tante violenze e scorrerie. Di questo rischio padre
Luigi è ben consapevole, ma continua nella sua dedizione.
Prima di compiere il suo ultimo viaggio, padre Luigi è
alla missione di Baragoi, sulla via del lago Turkana,
per rifoirsi di viveri. Mentre carica la Land Rover, suor
Christiana Sestero, sapendo che pochi sono i cristiani rimasti,
date le continue scorrerie delle bande di razziatori,
gli ha detto: «Sono scappati tutti da Parkati: perché si reca
ancora là?». «Faccio solo il mio dovere – è la risposta -;
vi sono ancora i bambini della scuola e i vecchi che non
sono riusciti a fuggire: se non porto loro un po’ di farina,
che cosa mangeranno?».
Questa volta però il missionario non è completamente
tranquillo, anche se ha deciso di partire: sa che la gente
attende, come una benedizione, la
sua visita per ricevere da lui farina,
olio, zucchero, medicine, ma soprattutto
un po’ di coraggio.
All’alba dell’11 gennaio 1981,
dopo aver celebrato la messa, lascia
anche Parkati per raggiungere
Tuum, un piccolo mercato a una
ventina di chilometri. Un viaggio
già compiuto decine di volte
per garantire alla piccola comunità
di cristiani l’assistenza religiosa, ma
anche per promuovere istruzione,
cura dei malati, approvvigionamento
di acqua e viveri in modo da
ovviare ai disagi della siccità. In
macchina con lui ci sono due ragazzi
di South Horr e il fedele catechista
Patrick: hanno il compito
di animare la liturgia e aiutare
il missionario a distribuire
viveri.
Il viaggio procede senza intoppi,
ma ad una dozzina di chilometri
da Tuum ecco l’imprevisto:
alcuni uomini a bordo di una
jeep, armati di mitra e fucili,
costringono padre Luigi a fermare
il mezzo. Il missionario intuisce
il pericolo, sa che i razziatori tendono spesso imboscate
e che, per poco, sono disposti a compiere qualsiasi
azione delittuosa. Vano è il tentativo di invertire la
marcia per evitare lo scontro: alcuni spari bloccano infatti
l’auto, che viene accerchiata. Vano è anche il tentativo
di avere un colloquio con i banditi.
Ormai non c’è più nulla da fare: «Non ci resta che pregare
» sembra abbia sussurrato, rivolgendosi al catechista.
È la sua ultima esortazione.
Il missionario vorrebbe almeno salvare i ragazzi che lo
accompagnano, ma la spietatezza degli assalitori compie
l’inevitabile e la speranza che si limitino a depredare
l’automezzo si infrange ai primi spari. Padre Luigi cade a
terra raggiunto da varie pallottole, assieme ai ragazzi, pure
loro colpiti a morte. Sul corpo del missionario, gli assassini
infieriscono impietosamente: gli squarciano il torace,
i visceri sono sparsi sul terreno, la cavità riempita di
sassi; il cuore gli viene selvaggiamente strappato e al suo
posto gli viene posta una grossa pietra.
La tragedia è consumata, la strada sassosa è una pozzanghera
di sangue delle vittime. Il posto si è trasformato
in un nuovo golgota d’amore e di morte insieme, sul quale
si è compiuto il sacrificio.
Passata la furia dei banditi Ngorokos, il catechista, già
ferito, riconosce nel giovane che gli sta spianando contro
il fucile un suo ex alunno: abbassata l’arma, il guerriero gli
risparmia la vita, perché racconti l’accaduto…
«Martire dell’amore e della fede» si
legge sulla lapide, divenuta per
quella comunità un centro di affetti
e di preghiera. Nei 30 anni vissuti
in terra di missione, tra avversità
e pericoli, padre Luigi ha sempre
voluto rimanere al suo posto
ed essere fedele al suo compito.
MICHELE NICCOLINI

GIACOMO MAZZOTTI




UIRAMUTAN, L’ULTIMA FRONTIERA

Lo scorso maggio il governo brasiliano
ha inaugurato una caserma militare
in pieno territorio indigeno. È l’ennesimo
atto di prepotenza, che mette a rischio
la sopravvivenza dei popoli autoctoni
dell’Amazzonia, già prostrati da problemi
più grandi di loro.
Nel frattempo, su iniziativa dei missionari
della Consolata, parte una nuova,
grande campagna in favore degli indigeni
di Roraima. Si chiama «Vogliamo vivere!».
Lo scorso maggio il governo brasiliano
ha inaugurato una caserma militare
in pieno territorio indigeno. È l’ennesimo
atto di prepotenza, che mette a rischio
la sopravvivenza dei popoli autoctoni
dell’Amazzonia, già prostrati da problemi
più grandi di loro.
Nel frattempo, su iniziativa dei missionari
della Consolata, parte una nuova,
grande campagna in favore degli indigeni
di Roraima. Si chiama «Vogliamo vivere!».

Il 2 maggio 2002 l’esercito brasiliano
ha inaugurato, nella località
di Uiramutàn, nello stato di
Roraima, con festeggiamenti, spari
e grande dispiegamento militare, la
caserma del 6° plotone di frontiera.
Hanno partecipato soldati, ufficiali,
quattro generali, politici, fazendeiros.
La cerimonia è stata impeccabile,
ma nell’aria e nel cuore
degli organizzatori non c’era tanto
lo spirito di chi è lieto per aver portato
a termine una buona impresa,
quanto piuttosto il sentimento segreto
di chi è conscio (anche se non
lo dice) di aver affermato il suo potere
per prevenire qualsiasi velleità
di ribellione.
Era presente anche un gruppo di
indios, antichi e veri abitatori della
regione, incapaci, eccetto pochi, di
comprendere la ragione, la portata
e le conseguenze di quella costruzione
e della festa. Erano stati spinti
a venire dal desiderio di vedere, in
un luogo di solito silenzioso, tanti
aerei in una sola volta, soldati che
sfilano, ufficiali che danno ordini,
trombette che suonano, politici ben
vestiti e compiacenti, discorsi altisonanti.
Davanti a questo spettacolo inusuale
gli indios si sono sentiti ancora
più piccoli ed estranei al mondo
dei bianchi.

CORPO ESTRANEO
Uiramutàn è il nome del villaggio
e della regione, situata molto lontano
dai grandi centri abitati, ma non
distante dal monte Roraima (2.772
metri) che dà il nome allo stato. Chi
vi giunge ha subito l’impressione di
essere in un altro mondo, tale è il silenzio,
la pace e serenità.
È una regione poco abitata: c’è il
piccolo villaggio di Uiramutàn e pochi
altri, sparsi e distanti chilometri
gli uni dagli altri. Impressionante a
quell’altezza è la luminosità intensa
e il panorama formato da una distesa
di basse montagne intramezzate
da vallate strette ed erbose. Il suolo,
quasi tutto arenoso, non ha molta
vegetazione. Qua e là qualche albero
di piccole dimensioni, mentre è
più intensa la presenza di arbusti
lungo i due piccoli torrenti portanti
scarsa acqua e infossati rispetto all’altopiano.
Sono questi torrenti la sola riserva
idrica per la popolazione indigena
locale le cui semplici abitazioni, fat-
te di materiale raccolto nella zona, si
allineano in una ristretta area. Il terreno
coltivabile è limitato e appena
sufficiente agli abitanti, che non sanno
cosa sia il mercato: ciascuna famiglia
produce il proprio sostentamento
o se lo procura con la caccia
e la pesca (anche queste, invero,
piuttosto scarse).
Oltre alle abitazioni degli indios,
si trovavano nell’area, fino a poco
tempo fa, poche costruzioni in muratura:
una chiesetta, la scuola, il
municipio e rare abitazioni di bianchi.
Oggi c’è anche la caserma del 6°
plotone. Perché – si chiede qualcuno
– una costruzione così grande?
Perché una simile ostentazione di
forze, potere e superiorità al cospetto
di abitanti tanto ingenui?

DIFESA DA CHI?
I giornali di Boa Vista e di altri stati
del Brasile hanno commentato gli
eventi del 2 maggio ripetendo il solito
ritornello stereotipato e trionfalistico:
«difesa delle frontiere, onore
della patria».
La frontiera con la Guyana, costituita
dal fiume Maù, si trova poco
lontana ed oltre la stessa esiste una
regione ugualmente montagnosa, arida
e totalmente spopolata. È difficile
immaginare che possano esistere
nemici da quelle parti, tanto più
che, da secoli, la bandiera brasiliana
sventola anche nei villaggi indigeni.
Chi la porta e la difende, ora come
nel passato, sono gli indios. Chi parla
la lingua brasiliana e porta un nome
brasiliano sono gli indios.
Mai gli indios furono nemici, ma
al contrario sempre amici e difensori
del suolo nazionale. Lo dimostra
chiaramente il libro As muralhas do
Sertão, scritto dalla storiografa Farage.
Gli indios della regione sono di
etnia macuxì del gruppo karib.
Hanno una cultura analoga a quella
di tanti altri indios e vivono in un regime
comunitario, pacifici, ma
preoccupati della vicinanza dei
bianchi e timorosi della ingordigia
della società che si dice civile. Non
c’è ragione che qualcuno vada a turbare
la loro pace e i loro modi di vivere.
Anche i legislatori brasiliani
hanno compreso questo e la Costituzione
del 1988 decreta che siano
demarcate le terre dei popoli indigeni,
allo scopo di difenderli da invasioni
e aggressioni.
Lungo la storia furono sovente attaccati
e persino fatti prigionieri e
schiavi per lavorare nelle fazendas
dei grandi latifondisti dell’Amazzonia
a sud del fiume Amazonas. Ma
poi le relazioni con i bianchi ebbero
momenti di concordia e con la legge
suprema del paese si pensava che
le invasioni, le violenze e lo sfruttamento
sarebbero cessate. Invece no:
la demarcazione è stata iniziata e
non conclusa, forze politiche si opposero
ad essa e, fatte rare eccezioni,
le comunità indigene continuarono
a essere oppresse, a volte con
modi astutamente amichevoli, altre
con la prepotenza e le minacce.
L’insediamento militare, realizzato
con tanta pompa al cospetto delle
rocce montagnose, pare costituire
un’aggressione camuffata contro
una popolazione inerme e pacifica.
Il 2 maggio soltanto una voce si è
posta fuori dal coro, quella del
tuxaua Orlando, capo indigeno del
villaggio. Questi, dopo i discorsi laudatori
ufficiali, ha affermato che la
caserma militare è deleteria per la
convivenza, perché viene a sopraffare
costumi ed abitudini indigene,
stronca il naturale avvicinamento ai
bianchi e, quel che è peggio, porta
prostituzione e diffusione delle bevande
alcoliche contro le quali i responsabili
delle comunità stanno da
tempo lottando.

L’ARROGANZA DEI BIANCHI
I giornali che hanno descritto l’evento
danno rilievo al fatto che i
massimi esponenti delle forze militari
si sono stupiti dello svolgersi
«pacifico» delle cerimonie. C’era
quindi la coscienza di fare qualcosa
che feriva gli animi dei gruppi indigeni,
soprattutto di quelli organizzati
nella associazione chiamata
Conselho Indigena de Roraima (Cir),
che da anni difende i diritti e la dignità
degli indios. Gli organizzatori
della festa avevano quindi timore
che l’esile organizzazione facesse dimostrazioni
pubbliche di dissenso.
Ma era assurdo pensarlo.
Gli indios, da tanti secoli umiliati
perché nullatenenti e differenti, abituati
allo sfruttamento, alla prepotenza
e arroganza dei bianchi, ma
anche attratti dal benessere a cui in
cuor loro ambiscono, cosa potevano
fare contro quello spiegarsi di
forze militari? E poi perché opporsi
quando essi si sentono parte della
nazione brasiliana?
Trovano sbagliato e incoerente
con lo spirito della Costituzione la
caserma nel bel mezzo di un loro villaggio
ed hanno manifestato il loro
disappunto all’inizio dei lavori di costruzione.
Poi, facendo violenza su
se stessi, hanno dichiarato apertamente
l’opposizione al progetto, ricorrendo
ai tribunali. Questi hanno
dato loro ragione, ma i militari hanno
fatto ricorso e benché non sia ancora
venuta la sentenza, essi – sfidando
la giustizia – hanno proseguito
i lavori e terminato la costruzione,
fiduciosi di prevalere sulla legge.
Così, come tante volte nella storia,
le autorità che devono difendere la
popolazione specialmente la più umile
e indifesa, si sono comportate
da aggressore.
La coscienza etnica, che da qualche
anno si è risvegliata negli indios,
ora si sente non solo impotente ma
costeata ed esasperata. Anni addietro
era il piede delle mucche del
fazendeiro che calpestava il suolo e
l’animo degli indios, oggi è il crepitio
delle pallottole e il fragore delle
bombe che esplodono durante le
manovre militari eseguite intenzionalmente
in terre indigene per intimorire
un popolo inerme.

<b<LA CASERMA COME «CAVALLO DI TROIA»
I missionari, obbedienti al vangelo,
da decine di anni stanno vicini a
tutto il popolo brasiliano, impegnato
seriamente a consolidare le strutture
nazionali e progredire sulla via
del benessere. Essi sono pure compagni
delle numerose etnie indigene
che vivono nel territorio dello stato
di Roraima, condividendo lo sforzo
per raggiungere un tenore di vita
degno, senza rinunciare alla loro
cultura e valori tradizionali.
A questo scopo, i missionari cercano
di infondere coraggio e speranza
per resistere contro chi tenta
di farli scomparire distruggendone
l’identità. Purtroppo anche a Uiramutàn
si sta mettendo in atto questa
strategia di eliminazione delle etnie
indigene. Chi conosce i retroscena,
non ha difficoltà a comprendere cosa
si nasconde dietro l’apparato militare
esterno.
Quello che si vuole ottenere non
è una conquista del territorio «manu
militare», perché è chiaro come
il sole che non ce n’è bisogno. Invece,
una caserma militare abitata da
60 giovani soldati, situata in mezzo
a villaggi indigeni, è proprio quello
che ci vuole perché le giovani donne
indie mettano al mondo un grande
numero di meticci, inquinando e
snervando la loro etnia.
Tale progetto già è in atto nella regione
della serra Surucucus, a ponente
di Roraima, con effetti disastrosi
per gli indios yanomami.
È questo progetto, sottinteso a
tanto apparato celebrativo, che naturalmente
rattrista. Il popolo indio
che ha voglia di crescere ed essere
autosufficiente e che porta in se tanti
valori morali, è forzato ad accettare
situazioni avvilenti e a veder corrosa
la propria identità e dignità per
obbedire a interessi nascosti sotto la
scusa della integrità territoriale nazionale.
L’indio Massaranduba, tuxaua emerito
di Uiramutàn, ora con 104
anni, nel giorno festivo della inaugurazione,
è stato premiato davanti
alla comunità che lo venera, con la
consegna di un simbolico «bastone
di comando».
Quando lo incontrai la prima volta,
nel suo villaggio, nel gennaio del
1976, mi si avvicinò, nella oscurità
della notte per dirmi triste, che un
bianco, venuto abusivamente da poco
a risiedere presso il loro villaggio,
proibiva, con minacce, tutta la comunità
indigena di allevare galline
ed ogni animale da cortile. L’arroganza
del bianco faceva soffrire lui
e la sua gente, e anche temere.
Ora, passati 25 anni, astutamente
manipolato con vane illusioni,
da persone interessate, Massaranduba
accetta non solo un fazendeiro
che impone ordini nel suo piccolo
villaggio, ma addirittura una
caserma di militari. Quegli stessi
militari, che consegnandogli il bastone
del comando, invece di onorarlo,
in realtà gli hanno tolto, senza
che l’anziano capo se ne accorgesse,
tutta l’autorità e il
potere che la legge indigena
gli conferisce.

(*) Mons. Aldo Mongiano è stato
vescovo di Roraima dal 1975 al
1996.

Sul problema dell’insediamento
militare, nel luglio 2001 «MISSIONI
CONSOLATA» aveva lanciato una
campagna dal titolo «Ma la caserma
no!». Tutto è stato inutile, come ben
si comprende dall’articolo. Oggi si
riparte con una campagna di più
ampio respiro, perché abbraccia
una pluralità di tematiche.

VOGLIAMO VIVERE!
Da troppo tempo i popoli indigeni dello stato brasiliano di Roraima soffrono continue aggressioni fisiche, psicologiche e culturali.
Latifondisti, risicoltori, cercatori d’oro, imprese del legname e minerarie, nazionali e multinazionali, occupano le loro terre causando la
distruzione dell’ambiente naturale e minacciandone la sopravvivenza. Un’intera classe politica pratica varie forme di razzismo e
discriminazione e semina l’odio all’interno dei gruppi indigeni, mettendo comunità contro comunità, provocandone così la disgregazione
socio-culturale. Inoltre, continua ad incentivare, verso una foresta inadatta all’agricoltura, la migrazione di coloni dalle zone più povere del
Paese, creando masse di diseredati che si riversano nelle periferie dei centri urbani o premono sulle terre indigene. Infine, i militari si
oppongono alla demarcazione delle aree indigene creando disagi e conflitti in tali aree.
Per porre fine a questa lunga serie di violenze, i popoli di Roraima hanno rivolto alle organizzazioni della società civile nazionale e
internazionale una richiesta di appoggio nella lotta che essi conducono per il riconoscimento dei loro diritti fondamentali, come popoli
indigeni e come esseri umani.
Preso atto della gravità della situazione, nonché dell’appello del Consiglio Indigeno e della Diocesi di Roraima, chiediamo:
Al Goveo brasiliano:
– L’approvazione dello “Statuto dei Popoli Indigeni”, tenendo conto dei suggerimenti proposti da questi ultimi nell’aprile 2001,
– la demarcazione immediata in area continua delle terre indigene prevista dalla Costituzione vigente, il mantenimento dei limiti di
quelle già demarcate e l’omologazione dell’Area Raposa/Serra do Sol,
– di regolamentare la presenza militare nelle terre indigene di frontiera,
– di fermare il disboscamento, l’inquinamento, lo sfruttamento minerario e agricolo e l’allevamento, in atto o programmato, sulle terre
indigene
– di non incoraggiare con false speranze l’afflusso di coloni verso le terre di Roraima.
Al Parlamento europeo:
– di controllare l’utilizzo dei fondi inteazionali ed europei destinati all’Amazzonia brasiliana e, in particolare, allo stato di Roraima,
affinché essi siano usati prioritariamente per la tutela dei diritti dei popoli indigeni,

– di farsi interprete delle suddette richieste davanti al governo e al parlamento brasiliano.
Alle organizzazioni della società civile brasiliana e internazionale:

– di sottoscrivere questo appello ed aderire alla campagna in tutte le forme possibili.

Coordinamento italiano della Campagna Internazionale“VOGLIAMO VIVERE!”
in difesa della foresta amazzonica e della vita dei suoi abitanti.
e-mail: indiosroraimabrasile@libero.it

Aldo Mongiano




Argentina. ll mercato dove il denaro non conta

Non c’è lavoro, non ci sono soldi: che fare per vivere? Si torna ad un’economia di baratto dove le persone si scambiano beni e servizi senza utilizzare denaro. Il primo «club del trueque» dell’Argentina cominciò a funzionare nel maggio del 1995. Oggi ce ne sono migliaia, diffusi in tutto il paese. Per capire come questo sistema funziona, abbiamo visitato il club che si trova a «La Boca», noto quartiere di Buenos Aires. Tra un banchetto di vestiti e uno di torte, ecco ciò che la gente ci ha raccontato.

Buenos Aires. La tipica forma della «bombonera», lo stadio del Boca Juniors (la squadra che lanciò Maradona), si nota anche a distanza. «Attenti a dove andate – ci mette in guardia il taxista -. Oggi c’è la partita tra il Boca e il San Lorenzo!». Le tifoserie delle due squadre non si amano e per questo spesso avvengono incidenti. Ci troviamo a «La Boca», un quartiere popolare (e turistico) cresciuto dove il Riachuelo confluisce nel Rio de la Plata. Siamo qui non per andare allo stadio o al porto, ma ad un «club del trueque» (nodo), vale a dire un mercato con una caratteristica molto particolare: non prevede l’utilizzo del denaro.

Tutti in fila

In via Olavarria la fila arriva fino all’angolo. La gente attende con pazienza di entrare al numero 486, la scuola salesiana che ogni domenica ospita il trueque.

In attesa ci sono soprattutto donne, quasi tutte cariche di borse e pacchetti. Come Ilda, che viene dal vicino quartiere di Barracas ed è accompagnata da uno dei 4 figli e dal marito: «Oggi porto vestiti, ma in altre occasioni cibo. In questo momento di crisi ognuno si arrangia come può per sopravvivere». Ilda, lei parla di sopravvivenza… «Certo. Se una persona è occupata, il trueque è un aiuto importante, ma per chi non ha lavoro (e sono sempre di più) è una vera ancora di salvezza. Qui è possibile procurarsi da mangiare e molte delle cose di cui una famiglia ha bisogno». In realtà, in America Latina il trueque è sempre esistito tra i contadini e le comunità aborigene. Però, a partire dagli anni Novanta, arrivò anche nelle città, afflitte da disoccupazione e mancanza di denaro. La gente, accomunata dalle difficoltà, iniziò ad incontrarsi per scambiarsi prodotti e servizi. In Argentina, il primo club nacque a Beal, nella provincia di Buenos Aires, il 1° maggio 1995 per iniziativa di un gruppo ecologista.

«Tutti i giorni c’è una coda così?» domandiamo ad una signora che ci precede nella fila.

– Sì, la domenica è sempre così. Questo è uno dei nodi principali.

– E quanti nodi ci sono in città?

– Moltissimi, ma non saprei dire quanti esattamente. Ormai sono diffusi in tutto il paese.

– Lei che cosa fa?

– Anch’io porto vestiti. Si porta ciò di cui una persona dispone in quel momento.

– Vuole prendere qualcosa oggi?

– Vorrei portare a casa qualcosa da mangiare: pane, verdura, quello che c’è.

Le persone in fila maneggiano strani assegni, sul tipo di quelli che si usano nel gioco del monopoli. Si chiamano «ticket trueque» e la loro unità di misura sono i «crediti». Viviana ci spiega: «Ho cominciato a vendere perché non avevo un credito. Adesso posso anche comperare. Ma non le cose care!».

«Questo posto ha un responsabile?» chiediamo. «Sì, sì. È quello lì all’entrata».

Le torte dei disoccupati

Quando finalmente raggiungiamo l’entrata, siamo accolti da un signore con capelli nerissimi e baffi. «Horacio Cavalieri, coordinador» si legge sul cartellino appiccicato alla maglia. «Stiamo diventando famosi – ci dice aprendosi in un ampio sorriso -. Oggi c’è anche una troupe televisiva francese a fare delle riprese nel nostro mercato». «Il trueque è una risposta concreta alle esigenze della gente. Siamo il contrario del governo, che non dà risposte al bisogno di lavorare. Noi, invece, siamo generatori di lavoro. Il principio di base è l’aiuto reciproco. Migliaia di argentini oggi stanno vivendo soltanto grazie alla rete dei club di trueque». La signora Maria Cristina Marabelli è un’altra coordinatrice del nodo de La Boca.

«Come funziona un mercato senza denaro? Significa che ognuno si arrangia con quello che sa fare. Tutti noi abbiamo qualcosa di speciale. Tutti noi, in un periodo di crisi, abbiamo interesse ad aiutarci reciprocamente per creare un sistema autosufficiente. C’è chi viene al trueque per offrire i propri prodotti agricoli, chi il cibo cucinato a casa, chi le proprie prestazioni di estetista o parrucchiera, chi le proprie abilità di sarta. Ma non mancano neppure i professionisti più accreditati: medici, dentisti, psicologi». Lasciamo i coordinatori per aggirarci un po’ tra le decine di banchetti, raggruppati all’interno di un grande capannone e nei cortili esterni della scuola salesiana. C’è tantissima gente, che vende di tutto: dai vestiti ai giocattoli, dalle torte alle empanadas.

La nostra curiosità non passa inosservata. Siamo avvicinati da una signora di bassa statura e corporatura piuttosto robusta, che ha voglia di parlare.

– Da dove viene, signora?

– Dalla Sicilia. Mi chiamo Giuseppina Coppola. Arrivai a Buenos Aires nel 1951.

– Allora, signora Giuseppina, provi a spiegarci questo strano mercato…

– Potrà apparire strano, ma è necessario. Questa crisi dell’Argentina ci ha riportato indietro nel tempo: a scambiare le cose. Avete già visto che qui dentro si può trovare di tutto.

– Come si regola nelle compravendite?

– Ogni biglietto vale 0,50 di peso. Uno calcola più o meno quanto può ottenere dando una cosa e poi torna a casa con dei crediti che utilizzerà per avere altre cose. Oggi sono qui per comprare, ma di solito vendo. Vendo un po’ di tutto, ma soprattutto vestiti, perché mia figlia aveva una boutique. Ha dovuto chiudere perché non bastavano i soldi per la luce, l’affitto e tutte le spese. È rimasta molta merce che cerco di vendere, anche se in questo nodo va di più il mangiare. Per questo a volte faccio delle pizze.

– Il coordinatore ha detto che ci sono anche professionisti qui.

– Sì, ce ne sono, ma qui non molti, a parte estetiste e parrucchiere. Io vado in club dove ci sono anche cardiologi, dentisti, oculisti. Ogni giorno della settimana c’è un posto dove si può andare.

– Questo è un sistema per cercare di vivere normalmente?

– È un sistema per sopravvivere alla crisi. Una persona disoccupata non è obbligata a spendere soldi. Si arrangia in questo modo vendendo qualcosa che ha in casa. Prende i crediti e usa quelli per comprare, soprattutto cibo. Quello che compra la gente è soprattutto mangiare.

– Che gente frequenta il trueque?

– C’è gente della classe bassa, ma anche di quella media. Ci sono sempre più persone che non hanno nulla da fare e nulla da mangiare.

– Lei ha famiglia, signora?

– Sì, ho un marito e tre figli.

– Loro cosa dicono?

– Di non fare fatica. Ma a volte non riescono a capire che anch’io ho delle esigenze. Ho un figlio in Canada e qui una ragazza e un ragazzo che sono sposati e lavorano. Ma non mi aiutano perché non possono. La situazione è pessima per tutti. Non per poche famiglie dei ceti bassi. Oggi è così per tutti gli argentini.

NUMERI IMPRESSIONANTI

Il trueque non significa soltanto vestiti, cibo, servizi alla persona. Oggi il fenomeno ha assunto dimensioni tali (4.500 club di trueque, 2,5 milioni di partecipanti, 50 milioni di ticket trueque in circolazione) che con i crediti attribuiti dai ticket si possono comprare terreni, costruire case, affittare appartamenti, andare in vacanza e persino pagare le imposte municipali.

Horacio Cavalieri gonfia il petto per l’orgoglio quando spiega: «Siamo ormai la terza moneta del paese e i crediti vengono accettati anche in altri paesi latinoamericani (ad esempio, in Brasile, Cile, Paraguay) dove funzionano club a noi associati». Ci rivolgiamo al giovane che ci sta accanto e che ascoltava con attenzione la nostra conversazione.

«Crediamo profondamente in un’idea di progresso come conseguenza del benessere sostenibile del maggior numero di persone» (princìpi del trueque).

«A me piace molto – ci spiega – la gente che c’è al trueque, perché si dà da fare e non si chiude in casa ad aspettare che le cose cadano dall’alto. Però sono molto preoccupato per la situazione del paese, perché è ovvio che non si può andare avanti in queste condizioni per tanto tempo». «L’Argentina – continua il giovane – è un paese ricco in tutto. Molto più ricco dell’Italia per esempio. Abbiamo grano e petrolio. Sulla nostra terra basta buttare sementi e le piante crescono rigogliose È un delitto trovarci nella situazione in cui siamo ora». Grazie ai politici?, chiediamo. «Sì, grazie ai politici, ma questo ci ha fatto prendere coscienza di quello che dobbiamo fare. Ora sappiamo chi votare e chi no, guardando non alla bella faccia, ma ai progetti che queste persone hanno in testa». Un tifoso del Boca sta offrendo le maglie della sua squadra. Tutte le domeniche siete qui?, chiediamo. «Sì, noi siamo qui tutte le domeniche, mentre durante la settimana andiamo in altri trueque di Buenos Aires e provincia».

«Assaggi questa empanada…»

Ci avviciniamo a un banco di cibarie, molto attraenti…

– Cosa vende, signora?

– Torte, empanadas e tutti i cibi che la gente mi commissiona.

– Mi stava spiegando che la situazione economica è pessima?

– Diciamo che, dal punto di vista economico, siamo schiacciati. Non c’è lavoro e la mancanza di lavoro permette che accadano certe cose, no? Se una persona ha famiglia, in qualche modo deve sopravvivere. E una forma di sopravvivenza è quella del trueque: fare alcune cose che si sanno fare e scambiarle con altre di cui si ha bisogno. È anche un modo per tenersi occupati, per non chiudersi in casa a dormire.

– Lei lavora qui alla domenica. Negli altri giorni cosa fa?

– Siccome non c’è denaro, devo fare altre attività. Vado in altri club a fare quello che faccio qui.

– Lei crede in questo sistema?

«Crediamo che le nostre azioni, prodotti e servizi possano rispondere a norme etiche ed ecologiche, prima che ai dettati del mercato, del consumismo e del profitto immediato» (princìpi del trueque).

– Sì, ovviamente. Questa è una buona soluzione, ma non può essere definitiva. Speriamo soprattutto che ci sia una ripresa del mercato del lavoro, perché ognuno possa guadagnarsi il pane con il sudore della propria fronte.

«Ho paura, perché se continuiamo su questa strada non c’è futuro. Cosa diranno gli argentini ai loro bambini? Io ho tre figli e tre nipoti. Ho sempre lavorato, anche quando studiavo giornalismo. Ora mi trovo qui a un banchetto a vendere torte. Ma non mi arrendo e non mi vergogno, nonostante i miei studi. Devo fare questo per sopravvivere. Però ora basta parlare dei nostri disastri. Noi argentini siamo già abbastanza depressi. Assaggi questa empanada piuttosto…».

(Fine 4.a puntata – le precedenti sono state pubblicate in maggio, giugno e luglio)

  • Trueque: oggi possiamo considerarlo come una forma evoluta di baratto, ma la sua origine è antica; il termine «trueque» deriva dal verbo «trocar» che significa «scambiare, permutare, barattare»
  • Prosumidores: sono le persone che scambiano beni e servizi all’interno del sistema del trueque
  • Créditos: rappresentano l’unità di misura dei «ticket trueque», cioè dei buoni simil-monetari emessi dal trueque; i ticket funzionano come strumento compensatore e sono anche chiamati «moneta sociale»
  • Coordinador: è un membro del club che apre la sede e ne facilita il funzionamento
  • Clubes de trueque: sono i luoghi fisici (detti «nodi») della rete del trueque, dove le persone («prosumidores ») si scambiano beni e servizi
  • principios del club de trueque: sono i fondamenti etici su cui deve basarsi ogni club

www.revistargt.org: è il sito ufficiale della rete globale del trueque

IN ATTESA DI MARZO 2003 (e di Carlos Menem?)

12-21 GIUGNO: L’FMI SI DICE DELUSO Una delegazione del «Fondo monetario internazionale » (Fmi) fa visita al governo argentino, per cercare un accordo sugli aiuti finanziari, congelati dal dicembre 2001. La discussione non approda a risultati positivi. Il direttore generale dell’Fmi, Horst Köhler, si dichiara deluso dall’Argentina.

26 GIUGNO: SCONTRI E MORTI Una protesta dei piqueteros si trasforma in tragedia. La polizia attacca i dimostranti sul ponte di Pueyrredón, nei pressi del quartiere di Avellaneda, nella periferia sud di Buenos Aires. Due piqueteros (Dario Santillán e Maximiliano Costeki) rimangono uccisi, altri 90 feriti, 173 vengono arrestati.

2 LUGLIO: INDETTE ELEZIONI ANTICIPATE Con un breve discorso pronunciato alla radio e in televisione il presidente Eduardo Duhalde annuncia le elezioni generali per il marzo 2003, sei mesi prima della naturale scadenza della legislatura.

3 LUGLIO: DI NUOVO MENEM?  In un’intervista al Clarin, l’ex presidente Carlos Menem confessa l’intenzione di presentarsi come candidato alle prossime elezioni presidenziali. A dicembre, nelle primarie intee del partito giustizialista (i peronisti), dovrebbe battersi con l’attuale presidente Eduardo Duhalde.

4-5 LUGLIO: TRA MERCOSUR ED ALCA A Buenos Aires si incontrano i paesi appartenenti al Mercosur («Mercato comune del sud»): Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, con la presenza anche di Bolivia, Cile e Messico. Si cerca (inutilmente) una strategia comune per affrontare la crisi economica e finanziaria. L’influenza del Mercosur, già debole, è destinata ad annullarsi, qualora dovesse andare in porto la nascita dell’Alca («Area di libero scambio delle Americhe»), fortemente voluta dagli Stati Uniti.

9 LUGLIO: «L’ARGENTINA AL LIMITE DEL TRACOLLO» In occasione dell’anniversario dell’indipendenza, il presidente Duhalde tiene a Tucumán un discorso incentrato sull’orgoglio nazionale: «L’Argentina è in pericolo e al limite di un tracollo epico, mai conosciuto prima. Gli argentini sono passati dal sogno all’incubo: il Primo mondo, al quale erano sicuri di appartenere, li sta espellendo. Soltanto uniti possiamo tornare ad essere una nazione libera e sovrana. Soltanto uniti possiamo affrontare la favolosa epopea della ricostruzione della patria». 11 LUGLIO: SEMPRE MENO LAVORO I dati di Indec (riferiti a maggio 2002) parlano di un ulteriore peggioramento della situazione economica: 3,2 milioni di argentini sono disoccupati, 3,05 milioni sottoccupati, cioè il 45% della popolazione attiva del paese ha problemi di lavoro.

11 LUGLIO: LE «BASI PER LA RIFORMA» La «tavola del dialogo» (organo consultivo tra chiesa cattolica e governo) presenta il documento «Basi per la riforma». Con esso si chiedono soluzioni profonde e a lungo termine per costruire una società più equa, che risolva l’emergenza sociale. Per arrivare a questo è necessario realizzare, in contemporanea con le presidenziali del marzo 2003, anche un rinnovamento di tutti gli incarichi elettivi, nazionali, provinciali e municipali (*).

(*) La cronologia storica dell’Argentina è stata pubblicata su MC nella puntata di maggio 2002.

 

CONTAGIO SÌ, CONTAGIO NO, CONTAGIO FORSE

Il timore c’è tutto. Brasile, Uruguay, Cile guardano con crescente preoccupazione alla crisi argentina, mentre altri paesi latinoamericani (Paraguay, Bolivia, Ecuador, Perù, Venezuela) sono già al collasso per proprio conto.

In Brasile, il paese economicamente più importante, la situazione è grave, ma drogata dalle imminenti elezioni presidenziali. Le agenzie di rating internazionale (quelle che valutano quanto sia conveniente investire) hanno alzato il «rischio paese», anche in considerazione di un’eventuale vittoria di Lula, leader del «Partito dei lavoratori» (Pt), che a loro dire non darebbe garanzie sul debito estero. Ancora più esplicito è stato il megaspeculatore statunitense George Soros, secondo il quale, se il Brasile vuole evitare il caos, sarà obbligato ad eleggere José Serra, il candidato scelto dagli Stati Uniti e dal mercato finanziario (1).

Detto per inciso, varrebbe la pena di chiedersi: perché le agenzie di rating si esprimono con grande rapidità e severità quando si tratta di giudicare persone o istituzioni a loro non graditi, ma tacciono quando si tratta di valutare il comportamento di grandi gruppi multinazionali? (2)  In questa ennesima crisi del sistema neoliberista ancora una volta risulta fondamentale il doppio ruolo ricoperto dal Fondo monetario internazionale (Fmi): da un lato primo artefice del collasso, dall’altro potenziale (e presunto) salvatore.

L’esempio argentino è molto istruttivo al riguardo. Durante il decennio di Carlos Menem (che, tra l’altro, pare voglia ripresentare la propria candidatura), l’Fmi considerava l’Argentina uno degli allievi più bravi, soprattutto perché obbediva in pieno alle proprie direttive (le privatizzazioni in primis) (3). Poi quello studente tanto elogiato è entrato in coma e al suo capezzale si è presentato, come niente fosse, lo stesso carnefice…

(1) Sulle gravi irregolarità della campagna elettorale brasiliana si veda il quindicinale «Adista» dell’8 luglio 2002.

(2) Si pensi ai recenti scandali planetari che hanno avuto come protagoniste due (ma molte altre sono sospette) grandi multinazionali statunitensi, la Enron (energia) e la WordlCom (telefonia). I più penalizzati dagli imbrogli contabili sono stati i dipendenti delle compagnie e i piccoli investitori di borsa.

(3) Le privatizzazioni volute dall’Fmi hanno creato molti problemi anche in Perù, dove il presidente Toledo, lo scorso giugno, ha dovuto sospendere la vendita di due imprese elettriche pubbliche in seguito alla violenta opposizione della popolazione.

 

CHE NON PREVALGA LA «VIVEZA CRIOLLA» (ovvero barattare sì, barare no!)

La parrocchia «Nuestra Señora de Pompeya» (Merlo) è una delle prime fondate e rette dai missionari della Consolata nel Gran Buenos Aires. Conta circa 60 mila abitanti. Riassume tutta la realtà di disoccupazione, impoverimento, violenza e… ricerca di modi per far fronte alla situazione disastrosa abbattutasi recentemente sull’Argentina. Per quanto riguarda il «trueque», in due dei quattro centri pastorali la parrocchia ha dato spazio a questo strumento di sopravvivenza nell’emergenza. Peraltro, nell’accettare la richiesta da parte dei coordinatori di poter funzionare all’interno delle nostre strutture, abbiamo sentito il bisogno di chiarire con loro, sin dall’inizio, l’impegno all’onestà, affinché il trueque, basato fondamentalmente sulla solidarietà, non fosse svilito dalla tentazione di approfittarsene, considerando soprattutto il contesto di povertà generalizzata. Purtroppo la stessa situazione di povertà e miseria crescenti, a volte, inducono al «si salvi chi può e in qualsiasi modo», magari anche imbrogliandosi fra poveri. E poi c’è anche l’altro comportamento nazionale, denominato «viveza criolla», cioè la furbizia malintenzionata che, in relazione all’attuale grave crisi nazionale, ne è una delle con-cause. Questo pericolo può diventare molto concreto nel momento in cui i politici (come, ad esempio, stanno già facendo alcuni sindaci) si impossessano dell’idea e finiscono per svuotarla del contenuto e creare «trueques truchos» (truccati, falsati).

Abbiamo tradotto «trueque» con baratto, barattare: viene allora spontaneo ricordare: «Attenti a non barare». Inoltre, giocando con le parole, se al termine italiano baratto togliamo una «t», abbiamo «barato», che in castigliano vuol dire economico, cioè non caro. Ecco, è importante che nel baratto tutto sia «más barato», più a buon mercato, perché sia veramente conveniente. Dato che riceviamo lamentele dei partecipanti al trueque circa i prezzi di alcuni articoli quasi più cari di quelli che si trovano nei negozi di quartiere, sentiamo il dovere di farlo presente ai coordinatori. Nell’articolo principale si accenna al baratto come forma abituale di sussistenza delle comunità indigene. Gli indios tobas della Colonia Aborigen (con cui ho lavorato per anni) sono soliti portare in paese, a Machagai, nostra ex parrocchia, i loro prodotti, ma lo scambio non si svolge quasi mai in parità di condizioni: consegnando un bel carico di zucche, pompelmi, manioca o altri prodotti, gli indigeni si ritrovano poi con un pezzetto di carne o un po’ di zucchero o yerba mate. I forti e i furbi l’hanno sempre vinta.

padre Giuseppe Auletta, da Merlo (Buenos Aires)

 

Paolo Moiola

 

 




EDUCAZIONE È…

Fin dall’indipendenza
il Tanzania ha scommesso
sulla scuola, per vincere
il principale nemico
del paese: l’ignoranza.
Tale impegno continua
ed è scritto anche su cippi
e tabelloni
delle singole scuole.

Per le strade del Tanzania s’incontrano
innumerevoli cippi,
che annunciano la presenza di
scuole elementari: foiscono indirizzo
e distanza. In quasi tutti si possono
leggere anche interessanti motti
distintivi, che esprimono una filosofia
dell’educazione e orientamento
della vita. Ne ho raccolti una piccola
antologia. Eccone alcuni.

ELIMU NI UKOMBOZI
Educazione è liberazione
Il mwalimu Nyerere asseriva che
sono tre i nemici da debellare in Tanzania:
ignoranza, malattie, povertà.
La prima è l’ignoranza.
Oggi l’educazione, anche universitaria,
non è garanzia di successo e
di lavoro. È così nei paesi sviluppati;
lo è maggiormente in quelli in via di
sviluppo: le opportunità d’impiego
sono limitate rispetto al numero di
giovani. Tuttavia è innegabile che l’educazione,
anche solo elementare, è
dignità: è importante quanto il cibo.
Scriveva Paolo VI nella Populorum
progressio, di cui ricorre quest’anno
il 35° anniversario, ma sempre attuale,
come ogni profezia, che «la fame
di educazione non è meno umiliante
della fame di cibo: una persona illetterata
è una persona con una mente
denutrita». Aggiungeva: «Essere capaci
di leggere e scrivere, acquistare
una formazione professionale, significa
recuperare confidenza in se stesso
e scoprire che uno può progredire
assieme agli altri» (Pp 35).
Davvero, l’educazione è liberazione,
o salvezza. Salva da sospetti e timori,
da imbrogli e schiavitù della dipendenza,
assicura l’ottenuta libertà.
Nell’ottobre del 1968 Nyerere diceva:
«Fino a quando il nostro paese
rimane illetterato, la nostra libertà
è in pericolo. Deve essere forte la coscienza
che siamo persone libere,
con valori da difendere». L’educazione,
aggiunge il mwalimu, permette
lo sviluppo di se stessi; dà forza
per non capitolare di fronte ai più
forti; favorisce discussione intelligente
e partecipazione attiva: ciò vale
per la persona e per la nazione.

ELIMU
NI UFUNGUO WA MAISHA

Educazione è chiave della vita
Con riferimento biblico, un’antifona
di avvento canta che il Messia
promesso ha in mano la chiave per aprire
e chiudere. La chiave ha quindi
una prospettiva di futuro. Le chiavi
sono simbolo di liberazione o di
chiusura. Lo sanno i carcerati!
Come chiave, l’educazione schiude
le potenzialità; apre persone e popoli
verso il futuro. Afferma ancora
Paolo VI nell’enciclica citata che «l’educazione
è un fattore fondamentale
per l’integrazione sociale, come
anche di arricchimento personale; e
per la società è uno strumento privilegiato
di progresso economico e sociale
» (Pp 35). Senza educazione
non si hanno aperture mentali, né orizzonti,
né sogni; tanto meno nozioni
che indichino alternative e possibilità;
ci sono invece rachitismo e
perdurare di convinzioni, atteggiamenti
e pratiche spesso in contrasto
con l’evidenza della scienza.
Lo si nota chiaramente in alcune
tradizioni e situazioni. Lo si verifica,
in modo particolare, nelle culture a
carattere pastorale, dove la tradizione
è più accattivante del nuovo. Una
persona chiusa, come pure una nazione
e cultura, è votata alla povertà
perenne, non solo economica. Davvero,
l’educazione è la chiave per lo
sviluppo integrale.

ELIMU NI DIRA
L’educazione è una bussola
La bussola indica il nord, facilitando
di navigare con certezza verso
il luogo di destinazione. Oggi la bussola
è sostituita dal radar e sofisticati
strumenti computerizzati, che con
maggior certezza indicano tutto.
L’educazione equivale a questi
strumenti: offre direzione, traccia
cammini, indica la meta. Ciò vale anche
a livello di nazione o popolo.
Da decenni il Tanzania si lascia dirigere
dalla bussola dell’educazione.
Ma è finanziariamente gravoso sostenere
un sistema scolastico efficiente.
Spesso le strutture delle scuole tanzaniane
sono fatiscenti e insufficienti.
Mancano libri, sussidi e banchi. Scarseggiano
pure i maestri, poiché la loro
è una professione poco remunerata,
che spesso obbliga a stare lontano
dalla famiglia e in posti isolati.
Il futuro si prospetta deteriore: si
scrive apertamente che la classe dei
maestri è la più colpita dal flagello
Aids: le nuove leve non sono sufficienti
a sostituire le vecchie. Ma è sorprendente
lo sforzo degli ultimi decenni,
di dotare tutti i villaggi di scuole
elementari: sono povere, ma sono
germi di dignità, libertà e sviluppo.
L’anno scorso, cancellato metà del
suo debito estero, il Tanzania ha subito
abolito la tassa scolastica e altre
forme di contributo e investito nella
costruzione di nuove aule, per rendere
veramente accessibile a tutti l’educazione
elementare.
Il miglioramento di tutte le strutture
e infrastrutture è ancora lungo.
Ma quanto è bello, il mattino, vedere
centinaia di studenti recarsi a piedi
alla propria scuola e, alla sera, tornare
a casa. Pur nelle precarietà di
vario genere, tra questi ci sono intelligenze
brillanti. Lo confermano i loro
risultati scolastici a dispetto della
carenza di tutto.
«Da Nazaret può mai venire qualcosa
di buono?» commentava scetticamente
Natanaele a Filippo, che gli
annunciava con gioia l’incontro con
Gesù, «colui di cui hanno scritto
Mosè, la legge i profeti». Inutile argomentare.
«Vieni e vedi» gli ritorce
Filippo (cfr. Giovanni 1,45-47).
Vieni e vedi: da certe scuole escono
alunni meravigliosi sotto tutti i
profili.

ELIMU NI BAHARI
L’educazione è un mare
Il mare suggerisce interminabilità
e profondità: organico sviluppo di sé
e della nazione, apprendimento e formazione
non hanno confini. E se non
si accoglie la novità si muore. L’isolamento
preclude crescita e progresso.
Un fattore importante nel cammino
delle nazioni è costituito dalle comunicazioni.
Quale sarà in futuro la
posizione dell’Africa in questo campo?
Per quanto riguarda il Tanzania,
si dice che sia il paese subsahariano
più avanzato in questa dimensione.
Se sia vero, non lo so. È certo, però,
che vi ammette grande importanza.
Affermare e credere che l’educazione
è un mare significa mettersi in
condizioni d’imparare: per crescere.
Altri motti simili suonano che
l’educazione è un tesoro, luce,
sapienza; alcuni ne esaltano
i valori connessi: «Educazione,
disciplina, lavoro; educazione, libertà,
unità; educazione, disciplina,
professione». Siano formati da soggetto
e predicato o enumerino una
serie di valori, ognuno di questi slogan
è un tassello del mosaico che ritrae
la convinzione e l’impegno del
Tanzania e delle singole scuole nel
campo educativo, perché l’istruzione
diventi sempre più alimento
di dignità, libertà e
sviluppo.

Giuseppe Inverardi




IL MISSIONARIO FA POLITICA. MA COME ?


È finita l’era della «cristianità». La chiesa si trova povera,
senza appoggi politici, né può contare su partiti cattolici
che le garantiscano i diritti.
Pertanto: su quali forze può contare oggi l’evangelizzazione,
mentre i missionari invecchiano e le vocazioni scarseggiano?
Quale spazio ha la chiesa in una società
plurireligiosa e multiculturale?</b< Ivescovi italiani stanno affrontando il problema di «comunicare il vangelo in un mondo che cambia» (1). La chiesa si interroga su come fare ripartire la missione nel «crocevia contemporaneo».
In primo luogo, occorre «metterci
in ascolto della cultura del nostro
mondo», per disceere i «semi del
verbo» già presenti in essa, anche al
di là dei confini visibili della chiesa.
Ascoltare le attese più intime dei nostri
contemporanei, cogliee desideri
e ricerche, capire che cosa fa ardere
i cuori e cosa, invece, suscita
paura… è importante per divenire
servi della speranza. Non possiamo
affatto escludere, inoltre, che i non
credenti abbiano qualcosa da insegnarci
circa la comprensione della
vita e che, per vie inattese, il Signore
possa farci sentire la sua voce attraverso
di loro (2).
In secondo luogo, occorre prestare
attenzione alla novità del vangelo
e rimanervi fedeli. Infatti vi è una
novità irriducibile del messaggio
cristiano: pur additando un cammino
di piena umanizzazione, esso non
si limita a proporre solo un umanesimo.
Gesù Cristo è venuto a renderci
partecipi della vita nell’«umanità
di Dio». Il Signore ci ha fatti annunciatori
della sua vita rivelata agli
uomini e non possiamo misurare
con criteri mondani l’annuncio che
siamo chiamati a compiere (3).
Siamo immersi in tre grandi processi
di cambiamento: SECOLARIZZAZIONE,
CRISI DI VALORI e GLOBALIZZAZIONE.
Li esamineremo evidenziando
le sfide e opportunità
offerte alla evangelizzazione. Inoltre
vedremo come fare ripartire la missione.

1/ SECOLARIZZAZIONE
a) Sfide e opportunità
La secolarizzazione è un profondo
mutamento di mentalità, cultura
e costume. Nasce con il mondo moderno
come reazione alla identificazione
che la cristianità medievale aveva
fatto tra sacro e profano, tra fede
e cultura, fra trono e altare.
Nasce come rivendicazione dell’autonomia
della ragione verso la religione;
si spinge fino al secolarismo,
cioè fino al tentativo di escludere
Dio.
Quando la secolarizzazione degenera
in secolarismo, l’uomo si ritiene
autosufficiente, crede che la salvezza
possa venire da una ideologia.
Il secolarismo esclude Dio dalla vita
sociale; considera la religione un
fatto privato. Insomma: con il secolarismo,
l’uomo «dimentica Dio, lo
ritiene senza significato per la propria
esistenza, lo rifiuta ponendosi in
adorazione dei più diversi idoli» (4).
Quando, invece, la secolarizzazione
viene intesa come legittima autonomia
delle realtà temporali e della
laicità, il fenomeno è positivo. Inoltre
offre nuove opportunità alla
evangelizzazione, perché purifica i
contenuti della fede, accresce la responsabilità
dei credenti, ne stimola
la creatività e apre al dialogo con
tutti gli uomini di buona volontà.
In ogni caso la società secolarizzata
ha assimilato molti valori della
cultura cristiana (dignità della persona,
solidarietà, qualità della vita),
ma li presenta come «valori laici».
Lo stesso cristianesimo è visto come
«religione civile». Si ripete lo
slogan «non possiamo non dirci cristiani
», anche se si tratta di atei o miscredenti.
Aver ridotto il cristianesimo a religione
civile genera gravi contraddizioni
anche in nazioni di antica evangelizzazione.
Per esempio: da un
lato si riconosce che la religione è un
fattore di educazione civica e, dall’altro,
si tolgono i simboli religiosi
dalle scuole e dagli edifici pubblici,
non si fanno udire i canti natalizi ai
bambini dell’asilo in nome della laicità
e della tolleranza verso chi non
è religioso. Da un lato gli stati seguono
con fiducia le iniziative religiose
per la pace (come l’incontro di
Assisi del 25 gennaio 2002) e, dall’altro,
si cancella ogni riferimento
religioso dal proemio della Carta dei
diritti europei, né si invitano le comunità
religiose a partecipare con le
altre realtà sociali alla preparazione
della Costituzione europea.
Da qui viene un pericolo per la
missione: limitare l’annuncio cristiano
alla proposta di «valori civili
», in nome di un malinteso rispetto
della laicità e della tolleranza…
Nessuno nega che la promozione umana
sia parte integrante della evangelizzazione,
ma essa non si può
ridurre ad un mero impegno di civilizzazione.
b) Fare ripartire la missione
La missione che Cristo ha affidato
alla chiesa non è di ordine politico,
economico e sociale: il fine è religioso.
La chiesa in nessun modo si
confonde con la comunità politica e
non è legata ad alcun sistema politico(
5). Stato e chiesa, avendo una natura
diversa, devono essere liberi di
perseguire ciascuno il proprio fine e
di usare gli strumenti propri di cui
dispongono.
Tuttavia, pur essendo autonomi,
chiesa e stato devono collaborare al
bene comune, senza però invadere
il campo altrui.
Il vangelo non solo ci svela il mistero
di Dio, ma svela anche l’uomo
all’uomo. Perciò l’annunzio del vangelo
è destinato a influenzare i comportamenti
personali e sociali, privati
e pubblici, di chi liberamente lo
accoglie. E il missionario quando evangelizza
non parla solo di Dio, ma
fa un discorso sull’uomo.
Che cos’è la «politica» se non un
discorso sull’uomo, sui suoi valori?
Pertanto il missionario non può non
«fare politica» in senso culturale ed
etico. Egli si deve mantenere equidistante
dalle fazioni in lotta per il
potere e non si schiera per l’uno o
l’altro partito; però la sua equidistanza
non significa neutralità. Non
tutte le politiche né tutti i programmi
si equivalgono; le coscienze vanno
formate al discernimento.
Il vescovo Oscar Romero, in El
Salvador, era equidistante dai partiti,
ma non era neutrale nei confronti
dell’oppressione degli squadroni
della morte. A tal punto, che – come
spiega Giovanni Paolo II – «si possono
dare casi eccezionali di persone,
gruppi e situazioni in cui può apparire
opportuno (o addirittura necessario)
svolgere una funzione di
aiuto e supplenza in rapporto alle istituzioni
carenti e disorientate, per
sostenere la causa della giustizia e
della pace» (6).
La chiesa ha svolto «supplenza
politica» in Italia, dopo la seconda
guerra mondiale, quando il paese si
trovò impreparato a fronteggiare il
pericolo comunista e doveva ristabilire
la democrazia dopo il fascismo.
La stessa funzione ha svolto la
chiesa in America Latina, dove è stata
l’unica forza morale, l’unica voce
autorevole, in grado di difendere i
poveri e gli oppressi e affermare le
ragioni della giustizia e della pace.
Ebbene anche l’impegno civile
rientra nella missione evangelizzatrice,
ma rimane sempre vero che il
primato spetta alla testimonianza
della Parola e della vita. Giovanni
Paolo II insiste sulla priorità della testimonianza
nel mondo secolarizzato:
«[Gli uomini] vogliamo vedere
Gesù (Gv 12, 21) – ricorda il papa…
Come i pellegrini di 2.000 anni fa,
gli uomini del nostro tempo, magari
non sempre consapevolmente,
chiedono ai credenti di oggi non solo
di “parlare” di Cristo, ma in certo
senso di farlo loro “vedere”» (7).

2/ CRISI DEI VALORI
a) Sfide e opportunità
In che cosa consiste la crisi di valori?
In questo: oggi la tradizionale
omogeneità culturale di tante nazioni
(durata secoli) ha lasciato il posto
a una pluralità di visioni della vita
e della storia, spesso in contrasto
con il vangelo. Questo è insieme
causa ed effetto della crisi delle «evidenze
etiche», cioè dei valori morali
su cui si modellava fino a ieri la
convivenza civile.
«È avvenuta – rilevano i vescovi italiani
-, un’eclissi del senso morale.
È diventato difficile parlare di bene
e male senza suscitare una forte incomprensione.
Gli uomini e le donne
del nostro tempo hanno indubbiamente
dei valori di riferimento,
ma spesso trovano difficile o poco
interessante dar ragione di ciò che
guida le loro scelte di vita, rischiando
così di esporsi all’arbitrarietà delle
emozioni o (fatto molto più insidioso)
ai miti occulti che permeano
la nostra società su diversi temi morali
non periferici» (8).
Questo processo può condurre a
un relativismo etico dagli effetti devastanti;
ma allo stesso tempo offre
nuove opportunità alla missione. Infatti,
mentre capitoli fondamentali
dell’etica tradizionale minacciano di
scomparire, altri capitoli, ieri disattesi,
vengono riscoperti: si pensi, per
esempio, all’impegno per la giustizia,
alla nuova coscienza della solidarietà
e della pace, alla salvaguardia
dell’ambiente.
I vescovi italiani, mentre denunciano
i gravi pericoli dell’eclissi del
senso morale, sottolineano anche le
nuove opportunità per l’evangelizzazione;
citano il fatto che gli occhi
dei nostri contemporanei continuano
a schiudersi sull’altro, specie se
sofferente e bisognoso. E questo è
un motivo di speranza. Anche lo
sviluppo della scienza e della tecnica
presenta aspetti da valorizzare.
L’uomo che si spinge avanti nelle vie
del sapere si trova di fronte a domande
non tecniche, e tuttavia ineludibili,
che riguardano il senso dell’esistenza
(9).
b) Fare ripartire la missione
Per fare ripartire la missione nel
contesto della delicata crisi di valori,
bisogna innanzitutto comprenderne
le ragioni, se vogliamo «comunicare
» il vangelo in modo efficace
agli uomini e alle donne del
nostro tempo. Si tratta di restituire
alla cultura del mondo post-moderno
l’anima etica perduta.
Lo si può fare partendo dagli elementi
di verità che si trovano anche
fuori della chiesa cattolica, presso le
religioni non cristiane, che «non raramente
riflettono un raggio di quella
verità che illumina tutti gli uomini
» (10), e perfino presso quei non
credenti «che hanno il culto di alti
valori umani, benché non ne riconoscano
ancora la sorgente» (11).
In altre parole, lo strumento privilegiato
della nuova evangelizzazione
è il dialogo interculturale.
Questo non va affidato soltanto a
un corpo specializzato di missionari.
Oggi, chiusa la stagione delle rigide
contrapposizioni, la cultura cristiana
e le altre culture sono chiamate
ad incontrarsi, muovendo dai
valori condivisi e dagli elementi comuni
di verità, per proseguire insieme
verso la verità tutta intera. Non
esistono culture superiori e inferiori,
così come non lo sono le razze. Le
varie culture sono complementari
tra loro, essendo tutte elaborazioni
sull’uomo, su Dio e il suo mistero.
Ancora una volta la storia dimostra
che il binomio Dio-uomo è inscindibile.
Tutte le volte che l’uomo
perde il senso di Dio perde se stesso.
E ogni qual volta l’uomo ritrova
se stesso e la sua dignità, ritrova ineluttabilmente
Dio. Il tentativo della
modeità di sostituire il sentimento
religioso con le ideologie non poteva
non fallire. «Senza dubbio – diceva
Paolo VI – l’uomo può organizzare
la terra senza Dio; ma, senza
Dio, egli non può che organizzarla
contro l’uomo» (12).
Una clamorosa conferma di questa
verità è venuta dalla crisi del comunismo,
che è stato il tentativo più
spinto di costruire una società senza
Dio… Del resto, l’esperienza dimostra
che la perdita di senso dell’esistenza
è legata, pure nell’occidente
libero, a una forma di ateismo
pratico, che si esprime nel materialismo
della vita, nell’egoismo, nel
consumismo sfrenato.
Se l’uomo ritrova il vero umanesimo,
ritrova pure Dio. È compito
della missione reagire alla cultura disumanizzante
e ripartire da valori
religiosi per fondare la coscienza etica
che, a sua volta, costituisce il
cuore della cultura di un popolo,
fondamento su cui poggia ogni progetto
di società. Oggi è possibile.
Ha affermato all’Onu Giovanni
Paolo II: «Se vogliamo che un secolo
di costrizione lasci spazio a uno
di persuasione dobbiamo trovare la
via per discutere, con un linguaggio
comprensibile e comune, circa il futuro
dell’uomo. La legge morale universale,
scritta nel cuore dell’uomo,
è quella sorta di “grammatica”
che serve al mondo per affrontare
questa discussione circa il suo stesso
futuro» (13).
Ciò che ci unisce tra diversi è molto
di più di quello che ci divide.

3/ GLOBALIZZAZIONE
a) Sfide e opportunità
La globalizzazione è un fenomeno
esploso dopo il fallimento del socialismo.
Sono apparsi con gravità
gli squilibri esistenti tra i popoli ricchi
e quelli poveri del mondo: squilibri
aggravati dalla rivoluzione tecnologica.
Oggi tocchiamo con mano che si
impone un nuovo ordine mondiale
dell’economia, un nuovo modello di
sviluppo planetario. Tutti i problemi
sono planetari. Nessuna nazione
può affrontarli da sola, ma si esige la
cooperazione internazionale. O costruiamo
tutti insieme un mondo
migliore o periamo tutti insieme.
La globalizzazione presenta gravi
rischi. Bisogna dire che la logica di
mercato (la ricerca del maggior profitto),
priva di orientamento etico,
non sarà mai il motore dello sviluppo
umano: infatti genera mancanza
di solidarietà, egoismo, frammentazione
sociale, allarga la forbice tra
ricchi e poveri, crea nuovi colonialismi,
altera l’equilibrio ecologico. I
drammatici effetti sono sotto i nostri
occhi.
«All’alba del XXI secolo – scrive
J. Bindé, direttore dell’Ufficio analisi
e previsioni dell’Unesco – oltre 1
miliardo e 300 milioni di persone vivono
in povertà assoluta, e il loro
numero aumenta: ha già raggiunto i
2 miliardi. Oggi più di 800 milioni
di individui soffrono fame e malnutrizione;
oltre 1 miliardo non hanno
accesso a servizi sanitari, istruzione
di base e acqua potabile; 2 miliardi
non sono collegati a una rete elettrica
e più di 4 miliardi e mezzo
non dispongono dei
mezzi di comunicazione
di base, e quindi di strumenti per
accedere alle nuove tecnologie, che
sono la chiave dell’istruzione a distanza.
Oggi si vanta il boom di Inteet,
ma per molto tempo ancora
vivremo in un mondo dove l’informazione
avrà le sue autostrade e i
suoi deserti…
Il futuro è illeggibile al nord, dove
i popoli ricchi fanno sempre meno
figli; è già ipotecato al sud, perché
i bambini e le donne sono le prime
vittime della miseria. Due terzi
della popolazione mondiale, in povertà
assoluta, sono al di sotto di 15
anni, e più dei 2 terzi dei poveri sono
donne» (14).
D’altro canto, la globalizzazione
offre prospettive positive: serve ad
una maggiore intesa tra i popoli, alla
pace, lo sviluppo, la promozione
dei diritti umani. In particolare, la
globalizzazione, nata dalla comunicazione
sociale,
è divenuta una «cultura», un nuovo
modo di capire il mondo, la vita e
l’uomo.
La globalizzazione, se non si può
fermare, si può e si deve orientare.
Non possiamo accettare «la logica
del più forte, l’idea che la presenza
dei poveri, sfruttati, sia frutto dell’inesorabile
fluire della storia. Su questo
il cristianesimo non può scendere
a compromessi (15).
La dottrina sociale della chiesa esorta
a ricercare la soluzione dei gravi
squilibri all’interno di uno sviluppo
sostenibile a livello planetario,
che realizzi la sintesi tra efficienza economica,
libertà politica e coesione
sociale, senza ripetere gli errori
del socialismo reale e del capitalismo
selvaggio.
In una parola: è necessario che la
interdipendenza economica, politica
e sociale si traduca in globalizzazione
della solidarietà. La cooperazione
internazionale – disse Giovanni
Paolo II all’Onu nel 1995 – non
può essere pensata esclusivamente
in termini di aiuto e di assistenza, o
addirittura mirando ai vantaggi di ritorno
per le risorse messe a disposizione.
Quando milioni di persone
soffrono la povertà, dobbiamo non
solo ricordare a noi stessi che nessuno
ha il diritto di sfruttare l’altro,
ma anche e soprattutto riaffermare
l’impegno a quella solidarietà che
consente ad altri di vivere».
Come ha confermato la contestazione
dei no global al G8 di Genova
(20-22 luglio 2001), la coscienza del
nostro tempo non tollera più una umanità
spaccata tra 5 miliardi di poveri
e 1 miliardo di ricchi. I beni della
terra sono di tutti, e un mondo diverso
è possibile.
b) Fare ripartire la missione
In un mondo globalizzato occorre
prendere atto che la missione ad
gentes non ha più confini… neppure
in Italia.
«La nostra società – dicono i vescovi
– si configura sempre di più come
multietnica e multireligiosa. Occorre
evangelizzare le persone condotte
tra noi dalle migrazioni…
Seppure con molto rispetto e attenzione
per le loro tradizioni e culture,
dobbiamo essere capaci di testimoniare
il vangelo anche a loro e,
se piace al Signore ed essi lo desiderano,
annunciare la parola di Dio, in
modo che li raggiunga la benedizione
di Dio promessa ad Abramo per
tutte le genti (Gen 12, 3)» (16).
In un mondo globalizzato, la via
per fare ripartire la missione è il dialogo
interreligioso, accanto a quello
interculturale: contribuisce a risolvere
le sfide delle migrazioni, del terrorismo
internazionale, della costruzione
della pace nella giustizia e nell’amore.
Il fenomeno migratorio è ormai
planetario. Nel mondo sono 150 milioni
le persone che si spostano verso
le aree più ricche, che sono anche
le più popolate: ciò aggrava l’odissea
degli immigrati, che per lo più
vengono ritenuti invasori. Il problema
non si risolve chiudendo loro le
frontiere, discriminandoli in base a
razza, religione o impronte digitali.
Occorre orientare i flussi migratori
in modo legale e strutturale.
Anche il terrorismo si è globalizzato.
Forse non l’avevamo capito…
Solo dopo l’«11 settembre» ci siamo
accorti che il conflitto israelo-palestinese
e altre esplosioni di violenza
non erano episodi sporadici di «terrorismo
locale», ma focolai di un
terrorismo senza confini e senza volto.
Per estirparlo non serve la guerra
(meno che meno una guerra di civiltà!),
perché l’abbattimento delle
«torri gemelle» non è stato una dichiarazione
di guerra, ma un crimine
contro l’umanità.
Il terrorismo globalizzato appartiene
a un nuovo capitolo del diritto
internazionale: il diritto umanitario.
I crimini contro l’umanità sono
imprescrittibili, e sono perseguibili
ovunque; non possono essere considerati
affari interni di una nazione.
Quindi il terrorismo internazionale
non si combatte con rappresaglie e
ritorsioni (contro chi?), ma (per esempio)
congelando le fonti finanziarie
che alimentano la violenza,
potenziando e cornordinando i servizi
di intelligence, soprattutto spegnendo
i focolai esistenti: a cominciare
dal Medio Oriente, dove bisogna
presto giungere a riconoscere lo
stato palestinese. E rinnovando l’Onu.
Ma, se la giustizia può richiedere
che si ricorra all’intervento armato
come extrema ratio (per stanare i terroristi
e portarli dinanzi ai giudici),
dobbiamo dire però che la giustizia
da sola non basta. Oltre alla giustizia
(il primo scalino dell’amore), c’è
bisogno di riconciliazione e perdono
(il vertice dell’amore).
La ragione è – spiega Giovanni
Paolo II – che la giustizia si limita a
garantire l’equità nell’ambito dei beni
e diritti oggettivi, mentre «l’amore
e la misericordia fanno sì che gli
uomini si incontrino tra loro in quel
valore che è l’uomo stesso, con la dignità
che gli è propria» (17).
Riuscirà la missione a evitare
che la secolarizzazione degeneri
in secolarismo… e tutti gli
altri pericoli?
Dalla lettura dei «segni dei tempi
» deduciamo che la chiesa oggi si
trova in stato di purificazione… La
storia dimostra che ogni qual volta
la chiesa, condizionata da uomini ed
eventi, rischia di trasformarsi da lievito
in pasta, lo Spirito interviene: le
toglie gli appoggi umani e la riporta
alla purezza del vangelo. E ritorna a
essere «lievito». La forza del lievito
non sta nella quantità…
L’efficacia della nostra missione
non sta nei soldi, nel favore dei potenti,
nei privilegi, nei concordati.
La forza sono i poveri e la povertà
della chiesa; la croce, la
parola di Dio, la santità
dei suoi figli.
v
(1) Cfr. Conferenza episcopale italiana
(Cei), Comunicare il vangelo in un mondo
che cambia, 2001
(2) Ivi, n. 35
(3) Ibidem
(4) Cfr. Christifideles laici (1988), n. 4
(5) Cfr. Gaudium et spes (Concilio ecumenico
Vaticano II – 1965), nn. 42, 76
(6) L’Osservatore Romano, 29 luglio 1993
(7) Novo millennio ineunte (2001), n. 16
(8) Cei, op. cit., n. 41
(9) Cfr. Ivi, n. 37
(10) Nostra aetate (Concilio ecumenico
Vaticano II – 1965), n. 2
(11) Gaudium et spes, n. 92
(12) Populorum progressio (1968), n. 42
(13) L’Osservatore Romano, 6 ottobre
1995
(14) la Repubblica, 23 agosto 1998
(15) Cfr. Cei, op. cit., n. 43
(16) Cfr. Ivi, n. 58
(17) Dives in misericordia (1978), n. 14

(*) Padre Bartolomeo Sorge,
gesuita, già direttore de La Civiltà
Cattolica, è anche saggista socioreligioso
e conferenziere. È direttore
della rivista missionaria Popoli.

Bartolomeo Sorge




SFRATTO AGLI SPIRITI

Presa visione
della situazione,
i padri Flavio Pante,
Ramon Lazaro
e Michael Wamunyu
stanno mettendo a fuoco
priorità e progetti
di testimonianza
della carità: difesa
dei diritti umani, dialogo
con i musulmani,
alfabetizzazione
e sanità.

Una visita al mercato di Dianra
è indispensabile per vedere
la vita della gente. Sui banchetti
traballanti è sciorinata un’infinità
di mercanzie e prodotti agricoli:
riso, inyame (una specie di manioca),
frutta e verdura d’ogni genere, tutte
prodotte dai senufo.
«Sono gli autoctoni di questa regione
– spiega padre Ramon -, agricoltori
per natura. Per questo le popolazioni
immigrate li hanno chiamati
senufo, termine che in diula, la
lingua franca diffusa dei mercanti
musulmani, significa: coloro che coltivano
la terra. E sono grandi lavoratori
». «Molto sfruttati» aggiunge padre
Flavio.

IL PREZZO NON È GIUSTO
Da vari decenni la risorsa principale
dei senufo è la coltivazione del
cotone. Il guaio è che i contadini,
dall’inizio della coltivazione alla consegna
del prodotto, non conoscono
mai quale sia il prezzo che ne ricaveranno.
Una volta consegnato, devono
accontentarsi di quanto stabilirà
la compagnia.
«Tale sistema va avanti da molti anni
– afferma padre Flavio -. Il sindacato
dei coltivatori di cotone ha organizzato
una protesta, occupato la
fabbrica e minacciato di bruciare i
raccolti, se il prezzo non fosse immediatamente
fissato. Le autorità del
settore agricolo hanno promesso di
risolvere il problema; ma, a distanza
di due mesi, i contadini non sanno
ancora quando e quanto saranno pagati
». Intanto il cotone rimane nelle
capanne, ingiallisce e perde valore.
I padri hanno cercato di difendere
i diritti dei contadini, parlando con i
cristiani impiegati nello stabilimento,
ma questi non hanno voce in capitolo.
«Da alcuni anni la fabbrica è stata
privatizzata – continua padre Flavio
– e non si sa chi sia il padrone.
Qualche mese fa è apparso un russo,
forse uno dei padroni». «Era bianco
come un pezzo di carta. Il giorno dopo
era scottato e rosso come un’aragosta
» aggiunge sorridendo padre
Michael.
La difesa dei diritti umani è una
delle tante sfide che i missionari di
Dianra dovranno affrontare. Ma per
ora concentrano l’attenzione al campo
religioso e culturale.

LIBERAZIONE DALLA PAURA
«La religione tradizionale ha dei
valori su cui innestare quelli del vangelo
– spiega padre Michael -. Uno di
essi è il profondo rispetto per la natura,
ritenuta sacra, abitata da spiriti
e divinità. Ma è pure una sacralità che
alimenta paure irrazionali: tutti hanno
in casa feticci protettivi e si sentono
minacciati da spiriti, sortilegi, malocchi
e maledizioni».
Una sessione della preparazione al
battesimo, presente solo nei catechismi
destinati ai senufo, ha come tema:
Gesù mi libera. Tale sessione inizia
invitando i catecumeni a manifestare
ad alta voce le proprie paure
e a sbarazzarsi dei feticci; si conclude
con un gran falò in cui vengono
bruciati feticci e aesi vari, come segno
di conversione e di fiducia in
Cristo liberatore.
Ma gli spiriti sono duri da sfrattare
dalla mente e dalla vita. Molti cristiani
continuano a vivere sotto l’oppressione
delle paure derivanti dalla
religione tradizionale, intrecciando
riti cristiani con sacrifici di capretti e
polli. Altri chiedono preghiere ed esorcismi
e fanno celebrare messe per
essere liberati da tali oppressioni.
«La religione cristiana è sentita come
un antidoto al male fisico e morale
– continua padre Flavio -; la preghiera
sconfina spesso nella magia.
Un giorno un uomo mi chiese di curare
le sue gambe piagate. Gli dissi
che non avevo con me alcuna medicina.
Mi rispose che era venuto solo
perché imponessi le mani sulle ferite.
Una donna, dopo l’ennesimo litigio,
decise di lasciare il marito; questi le
disse con rabbia che non avrebbe trovato
un altro uomo: quelle parole le
caddero addosso come un sortilegio,
la facevano deperire fisicamente, finché
venne alla missione per essere liberata
dalla maledizione».
In compenso, i senufo sono molto
ben disposti verso i missionari e il
cristianesimo, mentre hanno il dente
avvelenato contro l’islam. Tale avversione
risale alla fine del 1800,
quando Samori, un guerriero della
Guinea, conquistò tutta la regione
settetrionale della Costa d’Avorio e,
per costruirsi un regno islamico, impose
la sua fede con massacri e distruzioni
(vedi riquadro p. 68). I musulmani
lo celebrano come eroe, le
popolazioni animiste lo ricordano
come un sanguinario e i senufo rifiutano
ancora oggi di convertirsi al
musulmanesimo, mentre si aprono
facilmente al messaggio del vangelo.

TE LO DO IO IL DIALOGO
La presenza dei missionari è apprezzata
anche dai musulmani. «Sul
piano umano il dialogo è possibile e
già esiste – racconta padre Flavio -. Al
nostro arrivo, l’iman-capo è venuto
due volte a darci il benvenuto. Noi
abbiamo ricambiato le visite, fatto atto
di presenza al funerale di un suo
familiare e, all’inizio del ramadan, siamo
andati a fare gli auguri e lui è venuto
a ringraziarci».
«L’iman di Marandallah – aggiunge
padre Michael – ha chiesto al vescovo
di mandare missionari stabili
in quella zona». Il fatto è sorprendente,
ma non troppo: la chiesa cattolica
porta asili, scuole, ospedali e
altre opere sociali.
«Il dialogo religioso è ancora lontano
– continua padre Flavio – e richiederà
da parte nostra una conoscenza
più profonda del mondo musulmano.
Per ora vorremmo tentare
a livelli più concreti: coinvolgere i
musulmani nei progetti sociali che
abbiamo nel cassetto, asili, scuole di
alfabetizzazione, strutture sanitarie».
Una visita all’iman potrebbe essere
l’occasione per tastare il polso. Lo
troviamo in casa, che funge anche da
moschea; ma non riusciamo a comunicare:
egli parla solo diula; il figlio
traduce in un francese incomprensibile.
L’iman promette di venire,
la sera, alla missione con un interprete
più ferrato.
E arriva puntuale. Dopo le rituali
presentazioni, risponde pacatamente
alle domande. Dice di chiamarsi
Karim Karaté; ha fatto il pellegrinaggio
alla Mecca, come pure gli altri
quattro iman di Dianra. Afferma che
non ci sono conflitti tra cristiani e
musulmani, poiché adorano la stessa
divinità; la differenza è solo sulle labbra,
gli uni dicono Dio, gli altri Allah;
ma nel cuore è lo stesso Dio.
Domando quanti sono i musulmani
di Dianra. Risponde di non conoscere
il numero esatto, ma che sono
più dei cristiani e provengono da
vari gruppi etnici del Mali, Guinea,
Burkina Faso. Ci informiamo sulle
scuole coraniche: gli alunni imparano
a memoria brani del Corano in arabo,
usando traduzioni in francese
e diula per la comprensione.
Arriviamo alla domanda cruciale:
«Come e in quali campi possono lavorare
insieme musulmani e cristiani
per il bene della gente?». L’iman si esibisce
in un lungo e generico discorso
sulla necessità della collaborazione
e aiuto reciproco. Lo incalzo
con una domanda più precisa: «Quali
sono i problemi e necessità della
popolazione in generale?». «Non
conosco le necessità degli altri – risponde
serafico l’iman -; ma solo della
mia gente: per ora abbiamo bisogno
della moschea; chiediamo ai cri-
stiani di aiutarci a costruirla».
La conversazione perde interesse,
ma, a sorpresa, l’iman dice che anche
lui ha da farmi una domanda: «Tornato
in Italia, la prego di procurarmi
una motocicletta».
Mi viene da ridere; ma mi trattengo.
Spengo il registratore: per me il
«dialogo» è ormai su un binario morto.
Padre Flavio sembra più imbarazzato
di me, ma si ricompone in
fretta e risponde: «Il nostro ospite è
qui per rendersi conto dei problemi
di tutta la gente, anche della comunità
musulmana. Prima di tutto,
però, dovrà occuparsi delle necessità
della missione, poiché, come vede,
siamo agli inizi. Ma Dio ci ha dato
due mani, perché con una sola non
riusciamo a fare tutto ciò che vorremmo.
Quando la comunità musulmana
vorrà comperare la motocicletta
per l’iman, anche noi saremo
felici di offrire il nostro contributo».
L’iman annuisce e si mostra soddisfatto.
Padre Flavio tira un sospiro di
sollievo, per essersela cavata con diplomazia;
ma il suo entusiasmo per il
dialogo pare un poco scosso.

GLI SPAVENTAPASSERI
Da non perdere, a Dianra, è una
visita ai fabbri: nella cultura senufo
essi sono ritenuti personaggi dotati
di qualità sovrumane e, per la loro
arte di manipolare il ferro, giocano
un ruolo privilegiato in varie cerimonie
magico-religiose.
Visitiamo due officine, a un tiro di
schioppo dalla missione. Nella prima,
un giovanotto sta ricavando un
vomero d’aratro da vecchi cerchioni
di automobili. Ci mostra zappe e attrezzi
vari già pronti per la vendita.
Ammiro l’inventiva e i mezzi tanto
rudimentali; ma non trovo nulla di
sovrumano; anzi, a girare la ruota di
bicicletta che alimenta un minuscolo
mantice c’è un bambino. Più sconcertante
è la seconda officina, gestita
da tre ragazzini in età scolare.
Padre Flavio sembra leggere ciò
che mi passa per la mente e spiega:
«A Dianra l’analfabetismo è un problema
molto grave. Quasi tutti i villaggi
hanno le scuole elementari; ma
pochi le frequentano: i bambini sono
nei campi fin da piccoli, se non altro
come spaventapasseri nelle coltivazioni
di riso. Per le ragazze la mentalità
locale è anche peggio: per essere
buone mogli e madri non è necessario
aver studiato; anzi, la donna ignorante
è più sottomessa».
Alla mentalità si aggiunge la mancanza
di documenti: la maggior parte
dei figli nasce in casa e i genitori
non si preoccupano di registrarli all’anagrafe.
Per avere l’atto di nascita,
richiesto per iscriversi alla scuola, bisogna
sborsare 30 mila lire, senza
contare le tasse scolastiche: spese che
non producono un utile immediato.
«Incontro adulti, donne soprattutto,
che piangono per non sapere
leggere né scrivere – racconta padre
Flavio – e ci chiedono di aprire scuole
di alfabetizzazione: vogliamo dare
presto una risposta. Al tempo stesso,
bisognerà combattere e smontare la
mentalità dell’immediato, convincendo
i genitori che l’istruzione è un
investimento per il futuro».
Problemi e progetti continuano a
ruota libera: orfani e situazioni di po-
vertà richiedono di inventare forme
di aiuto materiale per incoraggiare e
sostenere i giovani che vogliono studiare.
Preoccupa pure la situazione
post-scolare: finito il ciclo elementare,
i giovani non hanno altri sbocchi
se non il ritorno ai campi. Una scuola
secondaria è stata appena aperta a
Dianra, ma non si sa come funzioni.
Dalla missione la gente si aspetta,
soprattutto, scuole matee: non ce
n’è una in tutto il territorio parrocchiale.
I padri le hanno elencate tra i
progetti prioritari, per togliere i bambini
dalla strada e liberarli dalla condanna
a eterni spaventapasseri.

OPERAZIONE… CESSI
Un’altra sfida è costituita dalla situazione
sanitaria. Nei villaggi non
esiste la benché minima struttura: uniche
medicine sono ancora quelle
tradizionali, basate su erbe e foglie.
A Dianra Centro c’è un dispensario:
fu aperto e sostenuto da un organismo
internazionale per combattere
il verme di Guinea, una malattia
causata da un parassita presente nelle
acque inquinate, che provoca
gonfiore alle gambe e cecità. Da
quando il morbo è stato sconfitto, il
dispensario è inattivo e sprovvisto di
qualsiasi medicina. «Quando scoppiarono
tifo e colera – racconta ancora
padre Flavio – l’infermiere ordinava
ai moribondi di bere acqua
minerale per combattere la disidratazione:
non aveva né flebo né altri
medicinali».
«Prima di tutto – aggiunge padre
Ramon – è necessario fare una campagna
di educazione sanitaria: nella
cultura locale, per esempio, non esistono
i cessi, per cui, in molti luoghi,
l’acqua è sempre inquinata».
«Abbiamo in mente piccoli dispensari
o farmacie – continua padre
Flavio -; nulla di grande, ma strutture
semplici, gestite da persone preparate
con una formazione di base,
capaci di educare la gente alla prevenzione,
curare le malattie più comuni
e somministrare le medicine
essenziali. Naturalmente avremmo
bisogno di una persona diplomata,
suora, volontario o infermiere, che si
assuma responsabilità e direzione di
tali progetti. Oltre che una priorità
richiesta dalla situazione,
sarebbe una forte testimonianza
dell’amore».

EROE O BANDITO?
F iglio di un commerciante malinke, Samori nacque verso il 1830 in un villaggio
presso Sanankoro (Guinea). Seguendo le orme del padre, si dedicò al traffico
della cola, finché scoprì la vocazione di guerriero, a servizio di re musulmani
e animisti, secondo l’opportunità. Quindi si mise in proprio: raccolse un
esercito personale e cominciò a sottomettere al suo potere varie etnie, trattando
i vinti con magnanimità e integrandone i soldati nel suo esercito. Così, dal
1870 al 1885, diventò padrone assoluto di un vasto territorio, comprendente la
regione orientale della Guinea e quella meridionale del Mali.
Per unire popoli tanto diversi, occorreva un buon collante: Samori lo trovò nella
religione musulmana e la impose con la forza alle popolazioni animiste, anche se
lui dell’islam non aveva neppure la scorza. Totalmente analfabeta, imparò a decifrare
qualche parola araba: ciò fu sufficiente per assumere, nel 1884, il titolo
di almani, «capo dei credenti».
Nella furia islamizzatrice non risparmiò neppure i familiari: fece uccidere due figlie,
ingiustamente accusate di aver tradito la verginità prescritta dal corano.
II ntanto, a nord dell’impero di Samori avanzano i francesi. Dopo varie scaramucce,
giocò la carta diplomatica: firmò un trattato (1886), in cui s’impegnava
a non oltrepassare il fiume Niger; l’anno seguente
accettò «di mettersi sotto la protezione della Francia».
Per i francesi era una vittoria strategica: il protettorato
sbarrava la strada alle pretese degli inglesi, già presenti
in Sierra Leone; per Samori diventò una camicia di forza.
Fiducioso che i francesi non lo avrebbero colpito alle
spalle, egli si lanciò alla conquista del regno senufo
di Kénédugu, con capitale Sikasso. Ma varie popolazioni
del suo regno, stremate dalla guerra e dalla carestia,
sobillate dai francesi, si ribellano (1888). Quando si
sparse la voce che Samori era morto, la rivolta divampò
in tutto l’impero come fuoco nella savana.
Ma riapparse come un leone ferito: tagliò teste a tutto
spiano e riprese quasi tutto il territorio; metà della popolazione
scappò sotto la protezione dei francesi.
Firmato l’ennesimo trattato, Samori si alleò con i Tucolor
e altri regni dell’alto Niger, che resistevano all’avanzata
straniera; e fu la fine: cancellata ogni resistenza
(1890-91), i francesi annientarono anche l’impero di Samori.
R iorganizzato l’esercito, Samori decise di costruirsi
un altro impero. Alla fine del 1892, con un esodo
in massa di gente a lui fedele, invase tutta la savana a
nord della Costa d’Avorio, lasciando dietro di sé terra
bruciata, distruggendo i villaggi che rifiutavano di sottomettersi
all’islam e mozzando la testa a chi gli suggeriva
di arrendersi. Vittima illustre fu il suo primogenito,
Dyaulé-Karamogho: inviato a Parigi nel 1885, era
un ammiratore della Francia. Sospettato di tramare col nemico alle spalle del padre,
fu condannato a morire di fame.
Accampato in terre esotiche, tra popolazioni ostili, impedito d’importare armi da
Freetown e Monrovia, Samori giocò la carta della rivalità tra le due potenze coloniali:
in cambio del ritorno nel suo primo impero, offrì ai francesi le terre confinanti
con la Costa d’Oro (Ghana), già colonia inglese.
Ormai i francesi avanzavano dal sud e Samori si rese conto dell’impossibilità di
resistere ai loro cannoni. Nel 1898, radunato l’esercito, con un altro esodo di massa,
si rifugiò nella foresta della Liberia. Ma l’ostilità della gente e le difficoltà dell’ambiente
ridussero la sua gente alla fame. Samori decise di arrendersi, ma venne
catturato prima che la resa fosse firmata.
Alla fine del 1898 al vecchio leone fu notificato l’ordine d’esilio nel Gabon, insieme
a pochi amici e familiari. Morì di polmonite a Ndjolé, il 2 giugno 1900. La
sua tomba, coperta dagli sterpi, è introvabile.

Benedetto Bellesi




HARRIS: UN PROFETA… SPECIALE

Aveva quasi 50 anni William Wade Harris quando si affacciò
sul litorale della Costa d’Avorio. Era nato nel 1865
nel sud est della Liberia, da etnia grebo, gruppo kru. Predicatore
e responsabile della chiesa metodista di Cape Palmas,
conosceva la bibbia a menadito. Nel 1910 fu imprigionato
per motivi politici. Un’esperienza mistica decise la sua vocazione
profetica: si impegnò di portare il vangelo ai suoi
fratelli.
Nell’estate del 1913 varcò la frontiera della Costa d’Avorio
e cominciò a predicare lungo il litorale, fino alla Costa
d’Oro (Ghana), finché nell’aprile del 1915, scambiato per
un agitatore politico, fu espulso dal governo coloniale
francese.
Alto e corpulento, sguardo vivo e parlantina affascinante,
turbante bianco, tunica candida e fascia nera incrociata sul
petto, un bastone di bambù a forma di croce, la bibbia sfogliata
senza sosta, una zucca piena di semi per ritmare i
canti e una ciotola per battezzare, Harris predicava con impero
e tono dei profeti dell’Antico Testamento.
Anche il suo messaggio era basato sull’antica alleanza: unicità
di Dio, decalogo, lotta all’idolatria. Insisteva sulla necessità
d’imparare a leggere, per conoscere la parola di Dio,
scritta nel libro che sfogliava davanti agli occhi della gente.
Parlava pure del Dio d’amore, che ha mandato il figlio Gesù
Cristo a salvare il mondo, spiegando il significato della croce
che reggeva in mano. Se qualcuno la mirava con lo stesso
terrore e passione con cui si guarda un feticcio, la spezzava
e ne costruiva un’altra, per dimostrare che non era
un talismano, ma un simbolo del peccato umano e dell’amore
divino.
Contro idoli e superstizioni era più focoso del profeta
Elia. Predicava per tre giorni in una località,
concludendo il suo lavoro con un grande
falò, dove i feticci venivano bruciati, e con
il battesimo dei nuovi adepti. Si dice che
abbia personalmente amministrato più di
100 mila battesimi. Una volta, vicino ad
Abidjan, c’era tanta folla che il profeta si
sentì perduto: fece inginocchiare tutti e,
mentre la pioggia inzuppava le loro teste,
pronunciò la formula del battesimo.
Si raccontano pure di malati guariti e paralitici
tornati a camminare. «Dio è grande!
» esclamava con semplicità a ogni fatto
portentoso. Nessuno mai gridò al miracolo.
Harris non voleva attirare l’attenzione sulla
sua persona, tanto meno fondare una nuova
religione. Come il gallo annuncia l’aurora, diceva,
lui annunciava la venuta dei «bianchi
con il libro», i missionari che un giorno avrebbero
portato quella parola di cui egli
era primo testimone.
In ogni gruppo convertito, Harris lasciava
dei predicatori, incaricati della vita
spirituale e del culto, «apostoli», responsabili
dell’organizzazione e condotta morale
della comunità, e un «Pietro», come punto di
riferimento. E raccomandava di attendere i
missionari, riconoscibili dal libro sacro.
Di fatto, la maggior parte dei seguaci di Harris entrarono
nella chiesa cattolica e, soprattutto, protestante. Ma i seguaci
più ferventi rimasero fuori del cristianesimo importato.
Dopo la seconda guerra mondiale, con l’esplosione dell’autenticità
africana, vari personaggi carismatici fondarono
chiese autonome, ispirate ad Harris che, dopo la sua
morte (1929), i fedeli ritenevano più messia che profeta.
Oggi l’harrismo è ancora radicato lungo tutto il litorale
della Costa d’Avorio, con tre centri indipendenti e significative
differenze morali e dottrinali. Una costola dell’harrismo,
inoltre, è costituita dalla religione deima, fondata
dalla profetessa Marie Lalou e diffusa nella regione di Ganoa.
Denominatore comune dell’harrismo è il richiamo alla bibbia,
mescolato con questioni di stregoneria; il culto è molto
vicino a quello protestante; la poligamia è autorizzata.
Alcuni gruppi si caratterizzano per l’impegno nella carità e
solidarietà; altri per le severe esigenze di moralità nei riguardi
di alcornol, denaro e sessualità.
Tutti i fedeli harristi si aspettano dall’intercessione di Harris
una prosperità uguale a quella degli europei.

Benedetto Bellesi




LA MALEDIZIONE DEL DOLLARO


«Adesso non si capisce più niente: non c’è lavoro,
non ci sono medicine, non c’è cibo nel paese
che era il granaio del mondo».
Dal colloquio con la gente in fila davanti
alle odiate banche emerge la drammaticità
della situazione argentina. In tanti avevano
i loro risparmi nella valuta statunitense.
Ora si ritrovano (forse) dei «pesos».
A parte coloro che sono riusciti ad esportare
i capitali all’estero, per una somma complessiva
pari a 130 miliardi di dollari, quasi quanto
l’intero debito estero del paese.
C’è da stupirsi che gli argentini siano furiosi?

Buenos Aires. Avenida Rivadavia
sembra la via di una grande
metropoli occidentale:
marciapiedi affollati, insegne luminose,
boutiques, librerie e bar eleganti.
Eppure, a ben guardare, le
differenze ci sono e non sono poche.
Ad esempio, i cartelli «se alquila»
e «se vende» esposti sui balconi delle
case: non sono tanti, sono troppi.
La gente, strangolata dalla crisi, tenta
di vendere i propri appartamenti,
ma nessuno ha i soldi per comprare.
Le banche sono tantissime. Alcune
sono argentine, ma la gran parte
sono straniere: Banco de la Nacion
Argentina, Banco Galicia, Banco
Sudameris, Banco Francés, Banco
Rio, Boston Bank, Citibank, Banca
Hsbc, Banca Nazionale del Lavoro
e molte altre. Qualche anno fa arrivarono
qui in massa, attratte dai mirabolanti
guadagni promessi dal sistema
ultra-liberista messo in piedi
dal presidente Carlos Menem. Oggi
tutte le banche vorrebbero chiudere
i battenti e scappare dal paese.
Gli istituti di Avenida Rivadavia
sono stati più fortunati di quelli localizzati
in centro, non lontano da
Plaza de Mayo. Là le banche si sono
trasformate in fortini assediati, qui
la gente si è limitata ad imbrattare
qualche vetrata: «bancos ladrones»,
«maldidos bancos».
A poca distanza dalla Banca Nazionale
del Lavoro, si dipana una
lunga fila di persone. Copre largamente
l’angolo della via che sbocca
su Rivadavia e si allunga per molti
metri fino all’entrata del Banco Piano.
Stretto tra un negozio di scarpe
e uno di elettrodomestici, a due passi
da un McDonald’s, il Banco Piano
non è un vero istituto di credito,
ma una «casa di cambio». E, in
quanto tale, ha meno restrizioni di
una banca normale.

ITALIANI
Mi avvicino per fare qualche domanda.
«Cosa vuole che le racconti?
– mi dice una coppia di signori
immigrati da Genova -. Lo può vedere
con i suoi occhi quello che sta
succedendo. Qui ci sarà la coda per
tutto il giorno, fino alla chiusura. La
gente ha lavorato tutta la vita, ha
messo i risparmi in banca ed ora che
succede? Le banche non ti restituiscono
il denaro. Il tuo denaro!
A Genova abbiamo fratelli e sorelle,
ma non toeremo in Italia,
perché, grazie a Dio, nostro figlio ha
un lavoro e così la sua famiglia».
Nel giro di pochi minuti si avvicinano
altre persone; quasi tutte parlano
o intendono l’italiano e vogliono
dire la loro.
«Tutta l’Argentina ormai è un manicomio.
Non si capisce più niente:
non c’è lavoro, non ci sono medicine,
non c’è cibo nel paese che era il
granaio del mondo. E i poveri sono
sempre più poveri, oltre che in costante
crescita…».
Un signore di una certa età mi tira
per la maglietta e mi mette sotto
gli occhi la sua carta d’identità. Leg-
go: Francesco Costanzo, nato a Reggio
Calabria.
«Arrivai in Argentina nel 1948.
Ma ho ancora molti familiari in Italia;
in Calabria, ma anche a Volpiano,
in provincia di Torino, dove vivono
i miei due nipoti». Pensa di
tornare in Italia, signor Francesco?
«Non ha visto quanti anni ho? Ne
ho 80. Comunque vada, ormai starò
qui».
La voce di Francesco è ferma, ma
gli occhi tradiscono l’emozione.

IL GRANDE FURTO
«Sono qui – racconta l’anziano immigrato
– per vendere i pochi dollari
che mi sono rimasti. Debbo vendere
per pagare i debiti, ma anche
per mangiare. Nessuno ha fiducia
nella nostra moneta, ma dopo la
“pesificazione” dell’economia non
c’è altra soluzione per vivere».
Quanto ha influito la parità tra peso
e dollaro in vigore dal 1991 fino
all’inizio di quest’anno? «La convertibilità
doveva essere una misura
temporanea per salvarci dall’iperinflazione.
Una volta raggiunto lo scopo,
avrebbe dovuto sparire e il cambio
essere flessibile, con il dollaro libero
di fluttuare».
Pare che in poco tempo siano usciti
dal paese qualcosa come 130
miliardi di dollari, una somma quasi
pari al debito estero argentino. È
così?, chiedo a Francesco.
«Già un anno fa, fiutando il crollo
del sistema, le imprese locali, le
multinazionali, i politici hanno iniziato
a portare all’estero i loro depositi
bancari. Altre somme rilevantissime
sono state prestate dalle banche
ad uno stato che si sapeva a rischio
insolvenza. A questo punto,
per evitare il crollo del sistema bancario,
il ministro Cavallo ha dovuto
instaurare il corralito, in base al quale
ogni correntista non può prelevare
il proprio denaro, se non in misura
minima».
E poi tutti i depositi in dollari sono
stati trasformati in pesos… «Ovvio,
i dollari sono oramai tutti fuori
dal paese. Tutta questa vicenda è un
grande furto ai danni del popolo argentino,
prima da parte del governo
e poi delle banche». Senza dimenticare
il Fondo monetario internazionale…
«Sì, ovviamente. Ma l’Fmi fa il suo
lavoro. Lui dice: io ti do i soldi a
queste condizioni. Chi è il Fondo
monetario? Gli stati più industrializzati,
che non ti danno mai nulla
per nulla».

ALLA RICERCA DI «UN» FUTURO
In Italia si fa un gran parlare
dei movimenti popolari dell’Argentina:
prima i piqueteros,
poi i cacerolazos.
Insomma, sembra che la
sventura abbia molto unito
la gente. Francesco, è d’accordo?
«No, non lo sono. Fino a poco
tempo fa, ognuno pensava soltanto
a se stesso e non si preoccupava degli
altri. Adesso inizia la solidarietà,
perché la crisi sta colpendo tutti i ceti
e non soltanto quelli più bassi.
Se il popolo fosse stato intelligente, i governi non avrebbero potuto
approfittae. E invece, finché c’era
da mangiare, nessuno si è interessato
della situazione. E i signori deputati,
senatori, presidenti hanno potuto
governare per i loro interessi».
La chiesa argentina che cosa fa?
«La chiesa sta cercando delle soluzioni
attraverso la cosiddetta “mesa
di dialogo”. Ma non si conclude nulla,
perché tutti si limitano a chiedere
sussidi. Come si fa a dare sussidi
se nel paese non c’è più niente! L’unica
soluzione per uscire dalla crisi
sarebbe di ridare agli argentini il lavoro
». Altrimenti la gente cerca di
abbandonare il paese…
«Se potessero – conferma Francesco
-, in tanti scapperebbero. Io sono
tornato due volte in Italia, nel
1986 e nel 1994. L’ho trovata molto
cambiata rispetto al 1948, anche se
il paese non ha le risorse naturali
dell’Argentina. Qui siamo appena in
36 milioni, ma per l’estensione potremmo
essere in 150. Eppure siamo
ridotti in miseria. Il perché si dovrebbe
chiedere ai nostri politici,
che sono… Ma lasciamo perdere; è
inutile dire cose che tutti sanno».
Ottant’anni, ma quanta grinta ha
ancora in serbo quest’uomo! Ancora
una domanda, Francesco: come
vede il futuro dell’Argentina?
«Ma quale futuro? Adesso non c’è
futuro in questo paese. Con il 25%
di disoccupazione e le fabbriche che
non ci sono più, che futuro può esistere?
Un paese che non produce e
non ha commercio, che cosa può fare?
Prova a domandare a questo ragazzo
che futuro ha…».
«È vero – risponde subito il giovane
interpellato -: qui nessuno può avere
un futuro e la gioventù meno
ancora. Hanno venduto tutto».
Sei uno studente?, chiedo. «No, in
questo momento lavoro, ma non so
per quanto tempo. Sono venuto a
sostituire mia nonna nella fila». Il
tuo nome? «Adrian».
Grazie Francesco, buona fortuna
Adrian.

«PATACONES»
Lascio la fila davanti al Banco Piano
e, a piedi, mi incammino lungo
Avenida Rivadavia.
C’è molta gente e si muove in fretta,
proprio come avviene nella maggior
parte delle città occidentali. Ma
poi le difficoltà del presente tornano
a manifestarsi. Come in quegli
avvisi appiccicati sulle vetrate dei
negozi: «Confianza en el pais: aceptamos
patacones».
Che sono i patacones? Il nome è
quasi onomatopeico ed evoca le patacche,
ovvero cose di nessun valore.
I patacones tecnicamente sono
dei «pagherò» emessi dalle tesorerie
delle province argentine; in pratica,
rappresentano la dimostrazione tangibile
del fallimento dello stato.
Come faceva quella famosa canzone?
«Non piangere Argentina…».

CACEROLA: è «la pentola da cucina»;
da cui il nome di «cacerolazo», manifestazione
di protesta popolare
durante la quale la gente si fa sentire
picchiando sulle pentole; ha avuto
un’eco internazionale con le
proteste del dicembre 2001
CORRALITO: letteralmente è «il recinto
»; il corralito bancario, introdotto
dal ministro Cavallo, limita
fortemente i prelievi bancari
da parte dei clienti, stimati in più
di 3 milioni; la misura, confermata
dal governo
Duhalde, mira ad evitare
il tracollo del sistema
finanziario
ESCHRACE: significa mettere
in piazza la storia di una persona
compromessa con la dittatura
militare, ma rimasta a
piede libero; sono varie le modalità
dell’eschrace: manifesti affissi
per le strade, assembramenti rumorosi
sotto la casa della persona,
ecc.
GATILLIO FÁCIL: letteralmente il «grilletto
facile» della polizia argentina,
mostrato anche durante le proteste
dello scorso dicembre (con
30 morti); nel 2001 hanno perso
la vita per spari «facili» delle forze
dell’ordine 220 persone
PATACONES: sono buoni cartacei emessi
dalle province argentine al
posto del denaro reale; attualmente
ci sono in circolazione 20
tipi di buoni (ciascuno con un proprio
nome), quasi uno per provincia
(sono 23 le province argentine)
PIQUETEROS: indica i disoccupati
che protestano con picchetti
che bloccano le
strade principali; il
movimento è
nato nel
1996, all’epoca delle privatizzazioni
del presidente Menem (*)
TRUEQUE: è una forma evoluta
di baratto; i «club di trueque
» (nodi) sono luoghi dove le
persone (produttrici e consumatrici
al medesimo tempo) si
scambiano beni e servizi senza utilizzare
il denaro (**)
VILLAS MISERIAS: così sono chiamate,
in Argentina, le baraccopoli alle
periferie delle città

(*) Dei «piqueteros» parleremo nella
puntata di luglio-agosto di questo reportage
dall’Argentina.

(**) Al «trueque» dedicheremo l’articolo
di settembre.

Paolo Moiola




L’ARGENTINA UCCISA DAL «TERRORISMO ECONOMICO»

Porto Alegre (Brasile). «Vorrei ricordare l’insegnamento
di un grande pensatore dell’antichità: se
vuoi la pace nel mondo, devi prima metterla nelle
tue idee; perché la pace sia nelle tue idee, deve esserci
pace nella tua famiglia; perché la pace sia nella tua famiglia,
ci deve essere pace nel tuo cuore».
Adolfo Perez Esquivel, argentino, premio Nobel per la
pace nel 1980, parla in una sala affollatissima al Forum
mondiale di Porto Alegre. Al termine, il professore, nato
a Buenos Aires nel 1931, si intrattiene sul palco sottoponendosi sorridente a flash, taccuini e registratori.
Come descriverebbe la situazione dell’Argentina?
«Siamo un paese potenzialmente ricco che ha dilapidato
un patrimonio. Abbiamo un debito estero enorme, che
non possiamo pagare, e la relazione matematica che ne
viene fuori è: “più paghiamo, più dobbiamo pagare, meno
abbiamo”. Non siamo poveri, ma impoveriti.
Non è possibile che in un paese grande produttore di alimenti ci siano persone che muoiono di fame. Avevamo
raggiunto un alto livello di educazione, invece ora abbiamo
molti analfabeti. Il 25% della popolazione è disoccupata.
È stata distrutta l’industria nazionale, la nostra
capacità produttiva.
Questa è una violazione dei diritti umani, economici, sociali e culturali di tutto un popolo. Ma quello che succede ora in Argentina potrebbe succedere ovunque».
Questa crisi mette a rischio la democrazia?
«Il fatto è che in queste condizioni la democrazia non esiste.
Cosa significa democrazia? Votare? Dovrebbe significare
diritti e uguaglianza per tutti e partecipazione
sociale. Ma cosa può fare la gente quando c’è una fuga
di capitali che io definisco terroristica e un governo che
vuole sequestrare i risparmi del popolo?».
Qual è l’origine della crisi?
«L’origine di tutto è il modello neoliberista imposto dal
Fondo monetario internazionale (Fmi) e dalla Banca mondiale
(Bm)».
D’accordo. Ma come si spiega che il nuovo governo
argentino sia subito corso a Washington, per chiedere
aiuti a quegli stessi soggetti?
«È vero. Il governo da una parte ha imposto a noi argentini
il “corralito”, congelando i soldi del popolo, e dall’altra
è corso a chiedere prestiti a Washington.
E non sapete a quali condizioni! La condizione del governo
degli Stati Uniti e del Fmi per consegnare i fondi
(che speriamo non consegni) è che l’Argentina voti contro
Cuba nella Commissione Onu dei diritti umani a Ginevra
(aprile 2002) (1). Questo fatto è di una immoralità
totale, assoluta, inaccettabile. Ma c’è anche un’altra condizione,
perché questi signori non si accontentano: sono
molto esigenti.
La seconda condizione è che l’Argentina entri nell’“Accordo
di libero commercio delle Americhe” (Alca)».
Cosa comporterebbe questo passo?
«Entrare nell’Alca significa che verranno distrutti gli apparati
produttivi (o quello che ne resta) dei nostri paesi;
salteranno tutti gli accordi regionali, come il Mercosur,
il Patto Andino e quello dei Caraibi; e gli Stati Uniti avranno l’egemonia sull’America Latina.
Tutto questo spiega anche l’attuale rimilitarizzazione
del continente. Intanto,
truppe di Washington sono già presenti
in Colombia nel quadro del “Plan Colombia”,
con il concreto rischio di creare
un altro Vietnam».
Lei parla di cause estee al paese; ma
non ci sono anche responsabilità argentine?
«Certamente: nessuno può imporre alcunché
se non glielo si permette. Nel
paese c’è una corruzione assoluta. Per
questo gli argentini non credono più alla
classe politica.
I politici sono le persone che diedero i superpoteri
al ministro dell’economia Cavallo, quelli che
permisero le privatizzazioni, sia con il governo di Menem
sia con il governo di De La Rua. Ci sono lettere che io ho
mandato a De La Rua dove tutto questo è scritto in modo
molto chiaro; in particolare, nell’ultima gli dissi: “Lei
sta cospargendo il pavimento di benzina, alla prima occasione
s’incendia il paese”. Dopo un mese, avvenne proprio
questo».
Lei parla spesso di «terrorismo economico»…
«Quando la Fao segnala che oltre 35.600 persone muoiono
di fame nel mondo ogni giorno, questo è “terrorismo
economico”. L’11 settembre dell’anno scorso eravamo
con il governatore, qui a Porto Alegre, per lanciare il Forum.
Quel giorno si verificò l’attacco terrorista contro
New York e Washington. Quindi, il dato della Fao passò
completamente sotto silenzio sui mezzi di comunicazione
internazionale, perché tutti si concentrarono sugli attentati
negli Stati Uniti.
Io credo che la guerra abbia molti campi di battaglia e uno
di questi sono i popoli: cercano di neutralizzarci. Per
arrivare a questo ci sono molti modi: limitare o togliere
il diritto alla salute e all’educazione; utilizzare il ricatto
della disoccupazione. Questo capitalismo non riesce a
riformarsi per una semplice ragione: è nato senza cuore.
E senza cuore non si ha la capacità di amare».
Ha ancora un senso l’organizzazione delle Nazioni Unite?
«Credo che le Nazioni Unite siano state destituite dal potere
egemonico degli Stati Uniti, che hanno imposto le
loro condizioni. Si pensi che gli Usa non vogliono ratificare
il “Tribunale penale internazionale” (2); in compenso
hanno istituito tribunali militari per quelli che loro considerano
terroristi».
Allora, professore, un mondo in pace è un’utopia o una
possibilità reale?
«Io dico: sì, è possibile, nonostante tutte le difficoltà di
questi anni, nonostante la corsa agli armamenti, nonostante
la povertà. È possibile costruire un mondo in pace
se noi siamo disposti a renderlo possibile… Io cito
spesso gli studenti del ’68 in Francia. Essi dissero una
cosa che dobbiamo tenere presente: “Siamo realisti, vogliamo
l’impossibile”».
Ci dia qualche suggerimento più concreto…

«Dobbiamo sviluppare la creatività, il senso della vita, la
solidarietà e per questo dobbiamo unire le volontà: i popoli
vogliono la pace non la guerra, non vogliono le armi
ma costruire una vita più giusta per tutti.
Perché crediamo che non sia possibile? Siamo paralizzati
dalla paura e se abbiamo paura non possiamo conquistare
la pace. Perché crediamo che non sia possibile
affrontare la dittatura economica e finanziaria del Fondo
monetario e della Banca mondiale? Perché siamo paralizzati?
Voglio fare un esempio concreto: nella seduta del Tribunale
dei popoli abbiamo parlato del debito estero (un problema
che sembra destinato a perpetuarsi per l’eternità),
per cercare di comprendere il meccanismo di dominio internazionale.
Ebbene, sarebbe possibile superare il problema del debito
estero-eterno, ma noi ci sentiamo prigionieri, senza
volontà: ci hanno fatto credere che sia impossibile venie
fuori.
Invece, sarebbe possibile se i popoli di America Latina,
Africa e Asia avessero il coraggio di unirsi e di dire basta.
Se diciamo basta, non ci dobbiamo preoccupare noi;
si deve preoccupare la Banca mondiale e tutti i centri della
finanza internazionale».
Quella stessa finanza internazionale che in questo
momento sembra voglia lasciare l’Argentina al proprio
destino. Lei non teme un intervento militare, un
colpo di stato?

«No, non credo accadrà. Ma certamente noi dobbiamo
vigilare e lavorare per favorire una soluzione democratica
».

NOTE:
(1) Il riferimento è alla sessione annuale della Commissione Onu
per i diritti umani, riunita a Ginevra dal 18 marzo al 16 aprile.
(2) Il «Tribunale penale internazionale» delle Nazioni Unite è nato
a Roma il 17 luglio 1998. A 4 anni di distanza dall’approvazione
dello statuto, il trattato istitutivo è stato ratificato da 66
paesi. Sono assenti paesi importanti, tra cui Cina, Russia, Israele
e, appunto, gli Stati Uniti.

Paolo Moiola