BRASILE: l’esperienza del «bilancio partecipativo»

«ORA DECIDO ANCH’IO» Il riscatto degli esclusi

Quante
volte abbiamo protestato per lo spreco di denaro pubblico? Di certo tante.
Nello stato di Rio Grande do Sul, in Brasile, hanno provato a superare il
problema chiedendo direttamente ai cittadini come spendere i soldi
pubblici. Una lunga serie di assemblee, aperte a tutta la popolazione,
fissa le priorità: le fognature prima della strada, il consultorio prima
del campo sportivo. Il «bilancio pubblico» prende forma dalle proposte
della collettività. Un esempio, unico al mondo, di democrazia non soltanto
rappresentativa ma anche partecipativa. Con ottimi risultati, nonostante
gli sgambetti di Brasilia e i mugugni dei conservatori.

Siamo qui
per cercare di capire come funziona quello che in lingua brasiliana si
chiama «orçamento partecipativo» (bilancio partecipativo) e che oggi
rappresenta un vanto del governo di Rio Grande do Sul, uno dei 26 stati in
cui è suddivisa la repubblica brasiliana, situato alla punta sud del
paese, ai confini con Uruguay e Argentina.

Dal 1999,
Rio Grande do Sul è amministrato dal «Partito dei lavoratori» (Pt). Non
senza qualche difficoltà, visto che l’assemblea legislativa è dominata dai
partiti conservatori: su 55 deputati soltanto 10 appartengono al partito
di governo. Ma Olivio Dutra, il governatore, ha dalla sua i numeri: negli
ultimi anni lo stato ha avuto indici di sviluppo tra i più alti del
Brasile (produzione, esportazioni, occupazione). 

Il sistema
del bilancio partecipativo è in funzione a Porto Alegre, la capitale, dal
1989, ma applicarlo a livello di stato era una scommessa rischiosa. Ma è
stata vinta, tanto che il sistema ha suscitato interesse ben oltre i
confini brasiliani.

Esso
combina il principio della democrazia rappresentativa con quello della
democrazia diretta. Tutti i cittadini possono dire dove e come spendere i
soldi pubblici: qualche scuola in più, un centro di salute, aiuti per
acquistare mezzi agricoli, agevolazioni per le piccole imprese, corsi di
formazione professionale, un sistema idrico per le favelas ecc. ecc. In
questo modo, si ottiene un doppio risultato: da una parte si sottrae il
potere decisionale alla discrezionalità dei politici, dall’altra si
coinvolgono direttamente  i cittadini.


COME UNA
«SCATOLA NERA»

Capelli
corti, occhialetti ovali, una maglietta nera con al centro la bandiera
verde-rosso-gialla dello stato, Iria Charão è la cornordinatrice del
gabinetto delle relazioni comunitarie e assessore del governatore Dutra,
con delega speciale per il bilancio partecipativo.

Ci
attende, affabile e sorridente, seduta dietro una grande scrivania, con ai
lati le bandiere del Brasile e dello stato. Sulla parete alle sue spalle è
appesa una cartina con le 23 regioni in cui è suddiviso Rio Grande do Sul.

«Soltanto
nell’ultimo anno – ci spiega indicando la cartina – ho percorso più di 300
mila chilometri lungo le strade dello stato. Sono andata a raccogliere le
proposte delle varie assemblee popolari. L’anno scorso sono state ben 735,
alcune con più di 4 mila partecipanti».

Signora
Iria, perché è importante questa esperienza e cosa avete da insegnare?

«È una
forma di democratizzazione della gestione dello stato. Una amministrazione
legittimamente eletta ha tutto il diritto di governare, ma noi volevamo
dare più potere ai cittadini, renderli più partecipi alle decisioni
pubbliche.

Le scelte
politiche nascono dalle scelte di bilancio. Ebbene questo è sempre stato
considerato una sorta di scatola nera, nella quale soltanto alcune persone
possono guardare. Ma poiché è il popolo che tira fuori i soldi dal
portafoglio, esso ha diritto di definire quali sono le priorità verso cui
indirizzare i fondi.

Abbiamo
visto, negli anni, grandi sprechi di denaro pubblico: sono state fatte
opere faraoniche, che non hanno cambiato nulla nella vita delle persone o
che addirittura non sono state ultimate.

Si discute
anche di grandi opere, ma di solito la popolazione sceglie le priorità che
si riflettono direttamente sulla loro vita quotidiana: creazione di lavoro
e reddito, miglioramento dei consultori medici, scuole pubbliche».



REDISTRIBUZIONE

Il Brasile
è uno dei paesi al mondo dove la distribuzione del reddito è più
diseguale. La cosa si riflette anche nella struttura delle città, dove
accanto a quartieri residenziali modei e servitissimi si trovano
baraccopoli prive dei servizi basilari.

«Questo è
un punto fondamentale – spiega Iria -. Il bilancio partecipativo può
favorire la distribuzione del reddito, perché i più poveri possono dare
voce alle loro richieste e chiedere di essere favoriti nella spesa
pubblica. Se abbiamo una parte della città ben strutturata (cioè con
fognature, aree di svago, centri di cultura, ecc.), è compito di una buona
amministrazione far sì che queste condizioni di vita siano disponibili per
tutti.

Affinché
ciò avvenga, lo stato deve investire la propria rendita dove i servizi non
ci sono, ad esempio nelle periferie. I più fortunati debbono capire che è
responsabilità del potere pubblico prendersi cura della parte più debole
della società.

Noi
abbiamo un motto da seguire: i diritti non si discutono, si compiono».


CRITICO È
PERICOLOSO

Un bel
progetto, ma – ci chiediamo – quali costi sociali potrebbe nascondere?
Come in tutti i paesi dell’America Latina, anche in Brasile la
suddivisione della società in classi è ben radicata (ed anche formalizzata
a seconda del reddito: classi A, B, C, D). Un sistema come quello del
bilancio partecipativo può suscitare l’opposizione delle classi più forti?

«Il nostro
sistema – ammette Iria – ha oppositori e anche molti nemici. La destra
conservatrice e i neoliberisti lo detestano. Non tanto per quello che fa,
quanto piuttosto per ciò che crea.

Crea un
cittadino più critico, più esigente, più cosciente politicamente. Un
cittadino siffatto è un cittadino pericoloso, perché ha voce nelle scelte
dei governanti e questo alla destra non piace. Per molti politici e
affaristi è una perdita di potere e di influenza. Per esempio, un
candidato non può più arrivare e promettere che, se sarà eletto, farà
questo e quest’altro. Chi delibera le opere è l’esecutivo e questo deve
ascoltare le istanze provenienti dalle assemblee popolari. Il governo di
Rio Grande do Sul nella formulazione del bilancio dà la priorità alle
decisioni della comunità».

Rio Grande
do Sul è retto da un governo del «Partito dei lavoratori». In caso di
sconfitta elettorale (le elezioni saranno il prossimo ottobre), un’altra
coalizione politica potrebbe chiudere l’esperienza del bilancio
partecipativo. «Certo, potrebbe farlo – spiega Iria -. Anche perché non
c’è una vera e propria legge approvata dall’assemblea legislativa. Ma
converrebbe? Il nostro stato presenta indici di sviluppo invidiabili…».


INDICI ALLE
STELLE

In
effetti, nella classifica dell’«indice di sviluppo umano» (calcolato
dall’Undp, il «Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo») lo stato di
Rio Grande do Sul sta tra Portogallo e Malta, molto più in alto del
Brasile (che è al 69.mo posto, mentre l’Italia è al 20.mo).

«Una città
o uno stato con una qualità di vita migliore per tutti ha una convivenza
migliore. Questo è il ragionamento da cui partire!» spiega con decisione
Iria.

E
continua: «Se le periferie delle città hanno una qualità di vita
superiore, le persone non verranno ad invadere o assaltare altri
quartieri.

Un esempio
concreto: nella zona dell’Avenida Ipiranga, cioè in una zona centrale di
Porto Alegre, c’era una favela. Per i governi precedenti la soluzione era:
prendere la favela  e spostarla fuori città. Noi abbiamo invertito questa
logica. 

Le persone
abitavano lì da più di 30 anni e quindi abbiamo scelto di migliorare le
condizioni abitative in loco. Abbiamo costruito alloggiamenti temporanei
in attesa di ultimare case e palazzi definitivi. Spostare tutta la gente
della favela avrebbe reso necessario una nuova fase di adattamento, che a
volte è molto difficile. Non si cacciano le persone dall’ambiente in cui
stanno: si migliora l’ambiente».

Il metodo
del bilancio partecipativo è stato implementato dà un partito di sinistra.
Cosa dice la chiesa su questo sistema?

«In
Brasile abbiamo una chiesa cattolica progressista. Basti ricordare le
varie pastorali della terra, dei neri, degli indios, dei bambini. Ci sono
inoltre le comunità ecclesiali di base, i pastori della chiesa luterana
coinvolti con i movimenti sociali…

In
generale, la chiesa cattolica dà un grande appoggio al sistema; per
esempio, incentivando la gente a partecipare alle assemblee. Il
cornordinamento nazionale della Caritas ha molte persone coinvolte
direttamente nel bilancio partecipativo. Insomma, tutta la chiesa che
lavora con la base ci aiuta. Quante volte le nostre assemblee si tengono
nei saloni parrocchiali!».

E
Brasilia? Come sono i rapporti con il governo federale?

«Brasilia
non ci ama. È ovvio che, se avessimo dalla nostra il governo federale, le
cose sarebbero più semplici. Ma i motivi di contrasto non sono soltanto
politici. I soldi che ci arrivano da Brasilia sono pochi anche perché gran
parte dei fondi federali sono utilizzati per coprire il debito estero del
paese. C’è un problema reale di disponibilità».



MODELLO ESPORTABILE?

Nel
paese latinoamericano, il bilancio partecipativo è stato applicato a Porto
Alegre (dal lontano 1989 ad oggi), nello stato di Rio Grande do Sul (dal
1999). Si sta lavorando per portarlo anche nella megalopoli di San Paolo
(15 milioni di abitanti). È fattibile un’applicazione del bilancio
partecipativo fuori del Brasile?

«Sì,
anche se non c’è un modellino esportabile tale e quale. Però ci sono dei
princìpi fondamentali attorno ai quali è possibile costruire. Il primo è
l’universalità del sistema: tutti possono partecipare, proporre, votare.
Il secondo è la discussione del bilancio preventivo. Il terzo è la
presentazione del consuntivo. Il quarto è l’autoregolamentazione, cioè il
processo può essere corretto o perfezionato in corso d’opera dietro
intervento dei cittadini.

Infine,
c’è un principio non scritto né codificabile. È il senso di solidarietà
che il metodo risveglia in ognuno. In Brasile, ciò può fungere da
collante. Per 500 anni questo paese è stato governato da ristrette élites.
Questo processo di partecipazione alla gestione della cosa pubblica è una
sorta di riscatto degli esclusi».

Un
successo, insomma. «Ma stiamo attenti – avverte Iria -. Non creiamo
illusioni: il sistema non è magico. Non risolve i problemi da un anno
all’altro. Non fa crescere i soldi sugli alberi. Certo, più cittadini
parteciperanno più il metodo si consoliderà. E soprattutto crescerà una
società formata da persone pensanti e coscienti delle possibilità che
questo sistema offre.

Né va
dimenticato che il sistema è un efficace antidoto contro la corruzione, il
patealismo, il clientelismo. Perché genera un forte controllo sociale
sulle azioni del governo».



COMUNISTI?

Rio
Grande do Sul è uno stato comunista?

Rio
Grande do Sul è uno stato dove si sta sperimentando una via alternativa
per la convivenza umana. Uno stato dove il principio del libero mercato
convive con un sistema che chiede alla gente di partecipare in prima
persona (e non soltanto attraverso i rappresentanti eletti) alla
costruzione di una società più equa e solidale.

Un
tempo un simile progetto sarebbe stato stigmatizzato con una sola parola:
utopia.

 

 


Lo
stato
di Rio
Grande do Sul


www.estado.rs.gov.br



ALCUNE CIFRE

 –
popolazione: 10.181.000 abitanti


superficie: 282 mila kmq (Italia: 301 mila kmq)


capitale: Porto Alegre (1,5 milioni di abitanti)


divisione amministrativa: 23 regioni e 497 municipi


partecipanti al processo del «bilancio partecipativo»:

nel
1999, 190 mila

nel
2000, 281 mila

nel
2001, 378 mila persone in 735 assemblee


indice di sviluppo umano (Hdi): 0,869 contro lo 0,750 del Brasile (69.mo
posto) e lo 0,909 dell’Italia (20.mo posto)

 

Come funziona l’«orçamento
partecipativo»



Partecipare è costruire


Il
cittadino costruisce la finanziaria


Organizzato da un’équipe di 50 persone, il bilancio partecipativo
interessa oltre 10 milioni di abitanti di Rio Grande do Sul, lo stato più
a sud del Brasile.

Si
tratta di definire come destinare il denaro pubblico dell’anno successivo,
arrivando a una proposta di bilancio da presentare all’Assemblea
legislativa (il parlamento dello stato) che dovrà convertirla in legge. Ma
come far partecipare il maggior numero di cittadini alla scrittura della
finanziaria?

Il
processo, che combina democrazia diretta con democrazia rappresentativa, è
complesso e per di più dinamico (principio della autoregolamentazione),
ovvero può essere modificato e perfezionato ogni anno tramite contributi
della popolazione. Si svolge da metà marzo a metà settembre e si può
schematizzare in tre fasi.

 Un
uomo, tre voti

In una
prima fase si realizzano assemblee a cui può partecipare chiunque abbia
almeno 16 anni, e dalle quali usciranno proposte e priorità per gli
investimenti in opere e servizi, nonché i nomi dei delegati per la fase
successiva. Qui tutti possono prendere la parola e proporre. Le assemblee
si svolgono sia a livello regionale (23) che municipale (497). Per le
regioni sono di due tipi: di «direttrice» e sulle «tematiche di sviluppo».
Nelle prime governo e popolazione definiscono le linee generali per
orientare il dibattito nelle tappe successive. Le direttrici sono discusse
in base alle potenzialità, carenze e vocazioni della regione. Nelle
seconde i cittadini iniziano a decidere sui programmi prioritari per la
regione, orientandosi su 9 temi (agricoltura, turismo, ambiente, creazione
di lavoro, educazione, ecc.). Tutti i partecipanti possono votare tre
programmi di diverse aree tematiche. Il punteggio sarà sommato a quello
ottenuto, successivamente, nelle municipali. Nelle stesse assemblee si
eleggono i cosiddetti delegati tematici regionali.

A
livello municipale i cittadini propongono, dibattono e votano le priorità
in opere e servizi relative alla città (con lo stesso sistema di voto
delle regionali) ed eleggono i delegati municipali.

 Delegati
all’opera

Il
secondo livello, più tecnico, è quello dei delegati, eletti nella prima
fase in proporzione di uno ogni 20 partecipanti alle assemblee. Questi si
riuniscono nelle Plenarie dei forum regionali, dove si incontrano i
delegati tematici e quelli municipali. È qui che si sistematizzano le
domande della popolazione (raccolte nella prima fase) secondo criteri di
carenza, viabilità tecnica, legale e finanziaria. Si eleggono, inoltre, i
consiglieri per il Consiglio statale del bilancio partecipativo (terza
fase). Nelle plenarie si costruisce già una parte del piano degli
investimenti e servizi dello stato.

 Ecco
il bilancio

Il
Consiglio statale è l’istanza massima del processo e lavora direttamente
con il governo alla proposta finale del piano di investimenti, che verrà
trasmesso all’Assemblea legislativa per l’approvazione. I consiglieri,
eletti per ognuna delle 23 regioni, costituiscono il collegamento tra la
popolazione e il governo, quindi tra democrazia diretta e rappresentativa.
È in questo spazio di lavoro che le aspettative popolari, già selezionate,
sono strutturate e armonizzate a livello di stato. I consiglieri
rappresentano le decisioni degli abitanti della loro regione di fronte al
governo e sono anche incaricati di informare la gente sullo svolgimento
delle ultime fasi del processo.


Delegati e consiglieri hanno il mandato di un anno e il loro lavoro non è
retribuito.

 Trasparenza
e controllo

Una
volta approvata la finanziaria, la popolazione segue le tappe di
esecuzione degli investimenti previsti. Tutte le decisioni prese sono
pubblicate nel «quaderno del piano di investimenti e servizi», strumento
essenziale per il controllo popolare delle realizzazioni. Il governo poi,
durante le assemblee, presenta i conti dello stato, ovvero il rendiconto
degli investimenti reali effettuati, per un’effettiva trasparenza del
bilancio pubblico.

Marco Bello Paolo Moiola




QUASI MAI RAGAZZE, QUASI SEMPRE VITTIME

In una giornata possono guadagnare
quanto in uno o più mesi di lavoro.
Scelta di comodo o necessità?
Dietro le esistenze di queste giovani
ci sono quasi sempre privazioni e violenze,
ed ora anche Aids e aborti clandestini.
Siamo alla periferia di Lima,
ma potremmo essere in qualsiasi metropoli
del mondo: cambiano le modalità,
ma la sostanza è la stessa.
Quella che segue è una testimonianza
forte e tristissima, che evidenzia
la durezza della situazione.
La denuncia è tanto scontata
quanto necessaria.

Posteggiammo l’auto proprio di
fronte alla baracca che Nolberto
mi aveva indicato. Non
c’era niente che poteva fare immaginare
quello che avremmo trovato
all’entrare. Solo una scritta ambigua:
«Video-Pub».
Non so bene per quale lato del
mio carattere, ma ogni tanto amo
mettermi alla prova. È un aspetto
più intellettuale che concreto, ma
sempre, quando qualcuno mi prende
sul serio (e in questo caso era stato
l’amico Nolberto), mi trovo a
compiere passi che mai avrei immaginato
di poter compiere. Il problema
è che, nel momento in cui mi accingo
a compierli, mi viene un terrore
che riesco a superare solo con
una certa dose di incoscienza e in
quei momenti sempre mi torna in
mente la stessa frase: «Ma chi me lo
fa fare?».
La stessa domanda me la posi nel
momento in cui scostammo le tende
nere che chiudevano l’ingresso
della baracca «Video-Pub» di Villa
El Salvador, città di 350.000 abitanti,
all’estrema periferia di Lima, in
Perù.
Scostata la prima tenda nera, i rumori
si attutirono completamente e
gli occhi, passando dalla luce accecante
dell’esterno ad un ambiente
completamente buio, si trovarono a
vagare ansiosi. Un’altra tenda nera
chiudeva il vero ingresso. La superammo
e il cuore cominciò a battere
velocemente. Eravamo all’interno
di un postribolo clandestino di una
periferia del Terzo mondo.
Ma chi me l’aveva fatto fare?
Approfittando di qualche settimana
di ferie in Perù, avevo
deciso di approfondire il tema
dell’Aids. Dopo alcune interviste,
avevo capito che non era possibile
comprendere il problema, se
non cercavo di capire la società in
cui esso nasceva e, all’interno di
questa, due aspetti in particolare: la
sessualità nei giovani e la prostituzione.
Avevo manifestato a Nolberto la
mia idea e lui, da uomo concreto e
conoscitore di ogni aspetto della vita
di Villa El Salvador, mi aveva proposto
una visita alla signora Isabel,
professionista di riconosciuta fama
ed attualmente tenutaria di un piccolo
«elegante» bordello.
Passata la seconda tenda nera, ci
trovammo in un locale di dimensioni
impossibili da definire. Le pareti
erano totalmente dipinte di nero e
l’unica luce presente era una specie
di fluorescente (di quelli che si usano
nelle discoteche di
terza categoria), che
illuminava di luce azzurrognola
solo il
bianco delle camicie e
alcune piccole decorazioni
floreali sulle
pareti nere. Il resto erano
solo sagome indistinte.
La musica ad
altissimo volume
completava l’atmosfera.
L’effetto finale
era di stordimento di
tutti i sensi (solo il
battito del mio cuore
si faceva sentire).
Trovammo un tavolino
con due sedie
e ci sedemmo. In un
attimo due ragazze
(forse di 16 anni) si
avvicinarono e, con
fare molto professionale,
tentarono di sedersi
sulle nostre ginocchia
e appoggiandoci
un braccio sulla
spalla ci chiesero: «Una
caraffa di birra con
compagnia? O forse
preferite una caraffa
di sangrilla con compagnia?».
All’unisono, Nolberto
ed io, quasi ci
fossimo messi d’accordo,
rispondemmo:
«Birra senza compagnia,
grazie». La risposta le lasciò
sconcertate e fece sì che si allontanassero
subito dal nostro tavolo.
Toarono con la caraffa di birra,
che, ad ogni buon conto, ci fecero
pagare salatamente e in anticipo, e
ci chiesero cosa desideravamo di altro.
Chissà, forse vedevano in noi
clienti un po’ particolari, oppure sospettavano
che fossimo poliziotti.
Certamente non dimostravano più
il calore dell’iniziale accoglienza e di
questo eravamo felici.
«Dovremmo parlare con la padrona
» disse Nolberto, che mi aveva
raccontato di averla conosciuta
quando lavorava come taxista.
Le due ragazze sparirono e, dopo
un po’, arrivò una persona con una
torcia elettrica che ci puntò contro
per scrutarci bene negli occhi.
Riempì di domande Nolberto che
rispose sempre a tono, usando il gergo
dell’ambiente.
Ad un certo punto, la donna disse
rivolgendosi a me: «Uno che ha
gli occhi come i tuoi, non può essere
un poliziotto».
Senza rispondere, la invitammo a
sedere con noi e, ordinata un’altra
caraffa di birra (anche questa pagata
salatamente e in anticipo), cominciammo
a conversare.
Qualche giorno prima, avevo
intervistato Max Pinedo, un
ragazzo di 25 anni, studente
di pedagogia e fondatore di un
gruppo giovanile di lotta all’Aids.
Mi avevano detto che Max conosceva molto bene la realtà giovanile
di Villa El Salvador.
La conversazione con lui fu ampia
ed interessante, ma mi lasciò sconcertato.
La città, che come medico
avevo conosciuto 10 anni prima, era
profondamente cambiata e le
problematiche giovanili si mostravano
con tutta la violenza e l’esasperazione
che si può immaginare
all’estrema periferia di una città di 7
milioni di abitanti.
Max, raccontami della sessualità
nei giovani di Villa El Salvador.
«Qui le ragazze di 14 anni sono
considerate ormai “predisposte” ad
un rapporto con l’altro sesso. Ma il
vero problema è il “machismo”. Per
i ragazzi, prima inizi la tua vita sessuale
più dimostri di essere un uomo,
ed è sempre questi che decide
quando e quante volte avere una relazione
sessuale.
In generale per un maschio la vita
sessuale si inizia ai 13/14 anni e, dato
che un ragazzo di questa età cerca
coetanei, la stessa cosa vale anche
per le ragazze e questo al contrario
di quanto si pensa generalmente.
Qui, a Villa El Salvador, c’è la cultura
della forza. Difficilmente si stabilisce
una relazione di coppia che
si sviluppa sulla base di una stabile
relazione d’amore o, almeno, di un
mutuo accordo. Si stabilisce, al contrario,
una competitività fra gli uomini
su chi è più forte, su chi ha più
relazioni sessuali. A scuola, se un adolescente
porta con sé un preservativo,
è ammirato dai compagni,
perché è considerato un ragazzo libero,
un uomo vero. Succede inoltre
che il padre machista, quando il
ragazzo compie 15 o 16 anni, lo porti
con sé ad un bordello affinché abbia
la sua prima relazione sessuale».
Dunque ci sono bordelli a Villa El
Salvador?
«Certamente. A Villa ci sono parecchi
bordelli clandestini. I più comuni
sono case d’appuntamento,
nelle quali tu entri pagando un sol
(mezzo euro, ndr), per assistere ad
un ballo. Entri e trovi ragazze adolescenti
di 14, 15 o 16 anni che ballano
per te. Paghi un altro sol e vedi
ballare le ragazze completamente
nude. Quando termina il ballo, le ragazze
si avvicinano a te per farti consumare
una bevanda; e più consumi
e più hai diritto a tenere con te una
ragazza.
Le ragazze lavorano per una persona,
che di norma è il padrone del
night club. Il loro compito è di spingere
i clienti a comprare da bere, sigarette
e (ovviamente!) droga. Più
questi consumano, più le ragazze
guadagnano. Se poi il cliente vuole
avere una relazione sessuale, deve
andare dal padrone a contrattare il
prezzo.
A Villa El Salvador, ci sono molti
luoghi così, senza alcun permesso legale.
Puoi girare di notte per alcune
strade e vedere tu stesso. Ti invitano
ad entrare, gridando che per un sol
ci sono ballerine nude.
Sono veramente tante le ragazze
che si prostituiscono. Le zone più a
rischio di Lima sono El Cercado, La
Victoria, El Callao, Chorrillos e, appunto,
Villa El Salvador.
In città ci sono bordelli legali con
tutti i necessari controlli sanitari e
dove non si trovano adolescenti, ma
nelle zone povere della periferia è un
altro discorso. Noi, nel nostro lavoro
di lotta all’Aids, siamo entrati come
clienti ed abbiamo chiesto se (almeno)
si vendessero preservativi.
No, neanche questo. Locali così a
Villa ce ne saranno una ventina».
E la polizia non interviene?
«Ma anche i poliziotti frequentano
questi locali! Una volta eravamo
dentro uno di questi bordelli, quando
abbiamo visto arrivare una macchina
della polizia. Le ragazze sono
entrate nella loro auto e se ne sono
andate via insieme. Il padrone le offre
ai poliziotti per non avere problemi».
Ma perché le ragazze si prostituiscono?
«Per denaro, non può esserci altra
ragione».
Vi sono quindi grandi interessi
commerciali intorno all’adolescenza?
«Oh, certo! Immaginati che i night
clubs aprono normalmente alle
6 del pomeriggio e chiudono alle 4
o 5 del mattino.
Un ballo dura tre minuti, ed ogni
tre minuti entra una decina di giovani.
Alcuni si fermano a bere e altri
no. In ogni locale ci saranno 8 o
10 ragazze ed alcuni hanno anche
delle stanze, nascoste normalmente
dietro il bagno, per favorire le relazioni
sessuali».
Dove si iniziano i giovani alla sessualità?
«Nelle discoteche. In alcune danno
il permesso di entrare anche agli
adolescenti e, dopo aver bevuto
qualche cosa, si iniziano. Oltre a
questo c’è poi il diffusissimo problema
della violenza sessuale: il padre,
il vicino di casa, lo zio. Ce ne sono
tanti di casi così!».
Ci sono molte ragazze che rimangono incinte? E aborti?
«Si dice che ogni 10 ragazze adolescenti,
3 o 4 rimangano incinte e di
queste la metà abortiscono».
Dove abortiscono?
«In Perù è proibito abortire. Però
ci sono levatrici o medici che si prestano.
E poi ostetriche e perfino studenti
di medicina. E le ragazze abortiscono
in luoghi non adatti e in
condizioni terribili».
Violenza su violenza?
«Sì, violenza su violenza. Il tutto
mediato dai soldi. Per esempio, a
Villa El Salvador abortire con un
medico costa fra 200 e 400 dollari.
E poi anche in questo caso i giovani
sono soli. Al massimo, si accompagnano
fra loro, con un’amica o il ragazzo».
E i genitori dove vivono? In un altro
mondo?
«I genitori sono troppo occupati
a ingegnarsi per mettere insieme il
pranzo con la cena».
Sì, immagino. Ma volevo dire che
alla fine gli adolescenti si trovano
ad affrontare il mondo da soli.
«È così. L’errore è che né i genitori
né i professori ti parlano di queste
problematiche e, quando la sessualità
comincia a svegliarsi, sono
solo gli amici che ti consigliano. Gli
adolescenti trovano risposte (inadeguate)
solo da loro coetanei».
C’è omosessualità?
«Sì, anche l’omosessualità esiste
ed è molto violenta. Pochi giorni fa
stavo accompagnando al poliambulatorio
del ministero della Sanità un
ragazzo omosessuale adolescente e
lui mi raccontava di essere stato violentato
a scuola. Ci sono poi casi di
abusi in famiglia, nelle feste, durante
il servizio militare».
Sempre violenza. Perché?
«La perdita di valori è una delle
cause principali. Se vuoi parlare agli
adolescenti di sessualità, di gravidanza,
di malattie a trasmissione
sessuale, di Aids, devi partire dai valori.
Soltanto così potrai ottenere risultati».
Spiegati meglio…
«A mio modo di vedere non bisogna
fare campagne informative incentrate
esclusivamente su alcuni aspetti.
Non basta uscire nelle strade
per ricordare di come ci si protegge
dall’Aids. Meno ancora si deve parlare
in senso costrittivo e magari dire
che le ragazze devono arrivare
vergini al matrimonio.
No, questo non serve. Bisogna iniziare
a parlare degli affetti, bisogna
lavorare sui valori, sul rispetto
di se stessi e degli altri, magari con
messaggi del tipo : “io mi voglio bene,
e tu ti vuoi bene?” Prima i valori,
poi la sessualità».
Al secondo litro di birra la testa
cominciava a girare, gli occhi
bruciavano per la strana illuminazione
azzurrognola e le parole
della signora Isabel si ammassavano
in testa, confondendosi con la musica
assordante del «Video-Pub».
Non volevo creare problemi e, d’altra
parte, non potevo neanche pensare
di accendere il registratore in
quell’ambiente.
Le chiesi: «Verrebbe domani mattina
a fare colazione con noi per continuare
la chiacchierata?».
Accettò di buon grado e la mattina
successiva eravamo puntuali alle
10 davanti alla baracca. Ne uscì una
signora vestita in modo elegante, sobriamente
truccata, con due grandi
occhiali neri che le nascondevano lo
sguardo. La signora Isabel (che finalmente
potevo vedere bene) era
sulla quarantina.
Dopo esserci consultati, scegliemmo
un locale verso le spiagge, appena
sotto la città pre-incaica di Pachacamac.
Si poteva fare colazione
all’aperto, con maiale arrosto e
caffè. Insomma, era il locale giusto
per chiacchierare indisturbati.
Come ha iniziato, signora Isabel?
«Come ho iniziato? A 20 anni, nel
Botecito (postribolo legale nel Callao,
porto di Lima, ndr).
Fu a causa di un incidente. Dovevo
operarmi ad un occhio e mi stavano
per buttare fuori dal lavoro di
centralinista in un ufficio. A causa di
questo pericolo, mi misi a lavorare
ancora di più, perché avevo già due
bambine. Ma un giorno chiesi ad una
amica che faceva “il lavoro” di
portarmi con lei.
Un sabato andai con lei e, visto
che ero una novellina, mi drogarono.
Mi dettero delle pastiglie e quel
giorno guadagnai come in un mese
intero da centralinista. La domenica
tornai e guadagnai come tre mesi di lavoro. Mi facevo chiamare Isabel
e il numero della stanza era il
13. Lasciai l’ufficio. Guadagnavo
molto bene. Lavoravo dalle 3 del
pomeriggio alle 11 di notte.
Con quel denaro mantenni le mie
due figlie, aiutai i miei due nonni,
comprai la casa ai miei fratelli, e assistetti
fino ad interrarle le mie zie e
mia madre. Riuscii ad evitare tutti i
vizi, nonostante che le mie compagne
di lavoro mi tentassero continuamente.
Grazie a Dio, ogni 15 giorni eravamo
sottoposte ad una visita medica,
il pap-test ogni tre mesi. Ci insegnavano
come proteggerci. In questo
modo e grazie alle mie
precauzioni, non contrassi alcuna
malattia. Grazie a Dio!
Alcune delle mie compagne invece
si ammalarono. Per guadagnare
qualche soldo in più permettevano
ai clienti di non usare il preservativo.
La mia idea, da sempre, è che
prima di tutto bisogna amare se stessi
e stimarsi. Io mi amavo e mi stimavo
e sapevo di fare quel lavoro
per le mie figlie. Sono sempre stata
prima madre che donna».
Quando ha conosciuto l’Aids?
«Nel 1991 un’amica risultò affetta
dal virus. Quando me ne resi conto,
mi feci tre volte le analisi che furono
sempre negative. Sempre grazie
a Dio».
Quando ha aperto il locale di Villa
El Salvador?
«Abbandonai il lavoro due anni
fa, quando avevo 40 anni. E con i risparmi
accumulati aprii questo posto.
L’idea iniziale era di creare un
locale per le coppie, un night club.
Lo inaugurai. Però le cose non andavano
bene, perché venivano uomini
a chiedere ragazze ed ancora
ragazze. Cercai quindi le ragazze».
Come le cerca?
«Vado alla Chancheria (il mercato
centrale della città, ndr). Metto un
avviso del tipo “si cercano ragazze
per servizio al pubblico” e, quando
arrivano, spiego loro di cosa si tratta.
A volte mi portano delle ragazze
e a questi intermediari pago 20
soles».
Ci sono molte ragazze che vogliono
fare questo lavoro?
«Parecchie. Io sono arrivata ad avee
10. Però adesso il lavoro è diminuito
ed ho solo 4 signorine».
Come mai ragazze tanto giovani
arrivano a prostituirsi?
«Perché hanno bisogno di soldi».
Quanto rimangono le ragazze nel
suo locale?
«Queste che lavorano adesso, le
ho da circa 6 mesi. Altre se ne sono
andate, perché io non sopporto che
abbiano dei “protettori”, che venga
un uomo a prendere i loro soldi.
No, questo non mi piace. Non mi
piace, perché è come se lo facessero
a me. Io insegno loro che devono
lavorare per se stesse, per comprarsi
quello che desiderano: un
terreno per la loro casa, il televisore,
i vestiti.
Mi sono capitate anche ragazze
delinquenti, che hanno tentato di
rubare ai clienti e questo non mi va.
Io voglio solo gente onesta».
Signora Isabel, ha avuto anche ragazze
minorenni?
«Una volta arrivò da me una ragazza,
raccontandomi che non aveva
né madre né padre. Dimostrava
vent’anni. Però un giorno un cliente
mi disse: “Signora, conosco questa
ragazza: ha 15 anni!”. “Che cosa
dice ?”. Corsi subito a cercare la famiglia
e trovai i suoi genitori.
Chiesi a loro : “Avete una figlia di
nome Bony?”. “No”, mi risposero.
Allora tirai fuori una foto e loro la riconobbero.
Raccontai tutto, ma non
se la presero con me. Il padre venne
a portarsi via la figlia. Immaginati
che questa ragazzina, prima di lavorare
con me lavorava già a San Juan
de Miraflores».
Come funziona il suo locale?
«Funziona così: io garantisco un
minimo di 10 soles (circa 4 euro) a
notte. Per ogni caraffa di sangrilla o
di birra che riescono a vendere do
loro altri 5 soles. Più le persone bevono
più loro guadagnano: per questo
sono affettuose con i clienti.
Qui vengono uomini di tutti i tipi:
ingegneri e medici di Lima, falegnami
e delinquenti. Io do loro un buon
servizio; la gente che viene qui ha
soldi».
E se una persona vuole di più?
«Se uno poi vuole il servizio totale,
deve pagare 50 soles, 25 per la casa
e 25 per la ragazza. E io la proteggo».
Perché è aumentata tanto la prostituzione?
«Colpa del Chino Fujimori. Ha liberalizzato
l’apertura di locali “turistici”.
Ha distrutto il mondo del lavoro…
E poi, per una ragazza sopra
i 25 anni, non c’è lavoro».
Come vede la situazione della
prostituzione a Villa El Salvador?
«Fatti di notte una passeggiata per
la Chancheria. Le ragazzine si offrono
per pochi soldi, con 6 soles (poco
più di 2 euro, ndr), ti porti via una
quindicenne. Oltre a questo, ci
sono tanti locali come il mio, forse
una ventina, e tutti gli alberghi a ore».
E i genitori delle ragazze che «lavorano», cosa sanno, cosa dicono?
«I genitori non possono non sapere,
perché le ragazze portano soldi
in casa. E poi, se una ragazzina di
15 anni si compra pantaloni di marca,
se ha un telefono cellulare, cosa
possono pensare i genitori? No, i genitori
sanno, ma le ragazze portano
a casa i soldi per mangiare e devono
rimanere in silenzio».
A quanti anni una bambina ha le
sue prime relazioni sessuali?
«A 12. Scappano alla spiaggia. La
mamma lo sa, ma a molte madri non
interessano le figlie, solo i soldi».
C’è molta violenza verso le donne?
«Certamente. Ma non nel mio locale.
Qui la polizia non ci da fastidio
perché le ragazze sono vestite e non
nude come in altri locali. A me non
piace che stiano senza vestiti. È
brutto. E poi non è necessario che
siano nude per far bere gli uomini.
Negli altri locali è diverso. Ai padroni
non interessano le loro ragazze,
perché sono uomini.
Io, in quanto donna e madre, le
capisco di più. Porto le mie ragazze
ai controlli presso il Centro di salute.
Ogni ragazza ha il suo carnet
bianco ed anch’io».
Ci sono molti aborti?
«Anche a questa domanda debbo
rispondere di sì. Che debbono fare?
Una ragazza, che lavorava con me, a
19 anni aveva già due figli ed il secondo
voleva regalarlo. Molte volte
queste sventurate non conoscono
neanche chi sia il padre. Come fanno
ad allevare e mantenere i figli?».
Continuammo a parlare per un
paio d’ore e, a testimonianza
di questo, ho qui davanti a me
due cassette da sbobinare con la storia
di Isabel, violentata dal padre,
sposata a 12 anni, con due figli a 15,
divorziata a 18, prostituta a 20, tenutaria
di un bordello a 40.
Isabel, donna di gran fede, di gran
onore e con una sua morale. Isabel,
prostituta che fece studiare le figlie
in una scuola di monache per proteggerle.
Isabel, sfruttatrice di ragazze,
donna forte e sicura, a suo
modo femminista. Isabel, con una
coscienza sociale e politica, un po’
simbolo delle contraddizioni della
povertà. Non riesco a dare giudizi
morali fin troppo facili ed inutili,
ma la vita è dura per l’umanità meno
fortunata e più debole. E fra i deboli
del Terzo mondo, i ragazzi adolescenti
sono coloro che più sono
quotidianamente in pericolo. E
fra loro le ragazze sono vittime spesso
predestinate: madri o prostitute
a 15 anni.
Quasi mai ragazze, quasi
sempre vittime.

(*) Guido Sattin è il medico che
cura la seguitissima rubrica «Come
sta Fatou?».

«Macché sfruttate»
Milano. (…) Victoria fa da sè decisamente e rappresenta
una faccia inedita del fenomeno prostituzione,
finora sconosciuta o meglio nascosta ad
arte. Incrociamo il suo faccino 20enne da modella
alla stazione di Milano (…). Il freddo non ti pesa?,
le chiedo (…). Mi risponde che sulla strada si fanno
più soldi più in fretta, e che in poche ore di sacrificio
mette insieme quanto faceva a Praga in 10
mesi. (…) Per chi si aspettava di trovare donne picchiate,
sfruttate, stuprate, o comunque molto infelici
della proporia condizione, l’impatto con la strada
non è dei più decifrabili. Victoria non è un caso
limite, la prostituzione è anche questo. (…) La maggioranza
di quelle contattate qui vivono in appartamento
oppure in albergo. Se gli offri un impiego da
domestica o da segretaria rifiutano guardandoti
come un poveraccio. (…)
Quanto alle schiave (…) siamo molto lontani dal
100% di straniere in catene (e 40% di minorenni
stuprate) sul totale, sovrastimato dal fondamentalismo
di don Benzi nella sua proposta di legge anticlienti,
o dall’80% di sfruttate dei dati Caritas.

Francesco Ruggeri sul quotidiano «Libero»,
27 gennaio 2002

Guido Sattin




FINALMENTE IL DIO CHE ASPETTAVAMO

Kipengere, Matembwe, Kisinga: missioni
della diocesi di Njombe.
Qui opera da 33 anni
padre Camillo Calliari,
missionario della Consolata
trentino.
Sorretto dalla gente
e da numerosi amici italiani,
impegnato in significative
iniziative di promozione umana.
Il suo modello? Gesù di Nazaret.
Che… faceva e insegnava
(cfr. At 1, 1).

Lavoro nella parrocchia di Kipengere
da 14 anni. La missione,
fondata nel 1933, è una
delle prime del Tanzania. Numerosi
sono stati i missionari della
Consolata che vi hanno trasfuso le
loro migliori energie, annunciando
la parola di Dio. Prima ho operato
anche a Kisinga e Matembwe.

SI ACCENDE LA STUFA
Kipengere è una missione ad alta
quota: le montagne toccano i 2.200
metri e fa freddo quasi tutto l’anno.
Una bella stufa trentina rimane accesa
giorno e notte, riscaldando la
casa dei missionari.
Dato il clima (così poco «africano
»), con i giovani abbiamo montato
una piccola industria per produrre
stufe a legna. Ne abbiamo già
sfoate 200 e vanno a ruba. Sono
come le stufe italiane di qualche decennio
fa (cucine): di metallo, con
pietre refrattarie al calore e una piastra
per cuocere il cibo.
La stufa è richiesta da molte donne,
che forse l’hanno vista in casa di
un’amica; cominciano a risparmiare
qualche scellino, finché riescono
a comprarsela. I vantaggi sono numerosi:
mentre il focolare tradizionale
(costituito da tre pietre) è fuori
della casa per il fumo e la cenere
abbondante che produce, la stufa è
nell’abitazione stessa; produce poco
fumo, riscalda l’ambiente e le vivande
si cuociono bene e con meno
legna.
La stufa ha avuto un notevole
successo, tanto che non riusciamo
a soddisfare tutte le richieste.

LA VOCAZIONE DELL’ACQUA
Gesù andava incontro alle persone
e alle loro necessità: lo chiamavano
se il servo era ammalato o se il
figlio era morto, ecc. Egli interveniva
in modo efficace, senza rifiutarsi
a nessuno.
Questa deve essere anche la no-

stra missione: di fronte a chi si trova
nel bisogno, occorre affrontare il
problema e cercare di aiutarlo concretamente.
Appena arrivato in Tanzania, nel
1969 sono stato destinato a Kisinga,
una missione oggi retta dal clero africano.
Non c’era ancora la chiesa,
ma nelle camere dei padri c’era l’acqua
corrente. Una bella comodità, e
pensavo che anche la gente l’avesse.
Ma così non era: la popolazione doveva
andare ad attingere acqua in
fondo alla valle. Il piccolo acquedotto
era stato costruito solo per la
missione. Prolungarlo avrebbe comportato
una spesa impossibile da sostenere.
Erano anche anni molto difficili
per l’economia.
Tuttavia mi assalì una specie di rimorso.
Mi dicevo: «Perché non si
possono unire in sinergia governo,
popolazione, missionari e i loro benefattori
per realizzare un acquedotto
che porti beneficio a tutti?».
Così è nata in me la vocazione degli
acquedotti. A Matembwe, dove
ho lavorato successivamente, ne ho
costruiti quattro. Essendo il territorio
collinoso, bisognava far giungere
l’acqua dalla valle al paese abitato,
posto in alto. Abbiamo fabbricato
grandi ruote idrauliche (simili
a quelle dei mulini) per raccogliere
l’acqua e poi le pompe la spingevano
su. È quanto ho fatto anche a Kipengere.
L’acqua è vita. Senz’acqua proliferano
le malattie (specie il colera,
che qui è endemico). Le donne poi,
come schiave, sono costrette a scendere
e salire continuamente la collina
per rifoirsi d’acqua… Abbiamo
portato l’acqua a 7 dei nostri 13
villaggi, servendo una popolazione
di 16 mila persone. Con l’acqua, c’è
la possibilità di fare mattoni e, quindi,
di costruire la casa in muratura,
un uso che si sta diffondendo.
Quando l’acqua è arrivata nelle
case, abbiamo goduto nel vedere la
gioia delle donne. Prima passavo
nel villaggio e mi salutavano semplicemente;
ma, dopo l’acqua, è tutto
un sorriso. I bambini mi corrono
dietro, mi chiamano per nome, mi
accolgono. Sono felici.

AUTOGESTIONE DALLA BASE
Al presente la priorità è che l’acqua
sia potabile al 100%. In genere
essa è contaminata alla fonte; quindi
si tratta di costruire opere sussidiarie
(filtri e vasche di decantazione)
per renderla idonea al consumo
umano senza rischi.
La manutenzione degli acquedotti
è in mano della gente. La norma è
che, quando l’opera entra in funzione,
sia consegnata a un comitato che
se ne prende cura. Vi sono volontari
italiani, tecnici specializzati, che
realizzano gli impianti; nello stesso
tempo preparano persone del luogo
per renderle capaci di conservarli e
ripararli.
Non vi sono solo «doni», ma «autofinanziamenti
» dalla base. Per assicurare
l’autofinanziamento, ogni
famiglia paga un tot all’anno; chi ha
un’attività in proprio (un negozio o
bar) paga di più. I soldi vengono depositati
in banca. Così ogni comunità
gestisce il proprio acquedotto.
Questo educa a sentire propria l’opera:
tutti devono essee responsabili.
Ciò avviene quando i progetti si
studiano e realizzano insieme. Allora
la popolazione partecipa con entusiasmo
e i risultati sono ottimi. Ad
esempio: in soli tre giorni si è scavato
un solco (70 x 25 centimetri) di
10 mila metri per depositare i tubi
dell’acquedotto. Tali successi incoraggiano
ad intraprendere altri progetti.
L’unico rammarico è di non poter
fare giungere l’acqua a tutti. Sono
tantissimi coloro che la chiedono.
Ma io non ho la bacchetta magica
per farla sgorgare dove non c’è.

FALEGNAMI
A Kipengere, quando sono arrivato,
c’erano 4 falegnami e 2 muratori,
istruiti da un… catechista: apprendisti
senza pretese. C’era anche
un gruppo giovanile, bene organizzato,
ma con poche prospettive di
lavoro. Proprio dai giovani è partita
la richiesta di fare qualcosa di utile
per la loro vita. È nata l’idea di
una scuola professionale.
Abbiamo organizzato due corsi:
uno di falegnameria per i maschi e
uno di economia domestica per le
femmine. La scuola dura un triennio;
al termine, rilascia un diploma
riconosciuto dallo stato, che consente
di essere assunti in qualsiasi
industria o cornoperativa. Grazie all’aiuto
di alcuni benefattori, ogni
studente ha ricevuto una cassetta di
strumenti per iniziare a lavorare in
proprio.
Non solo: abbiamo pure costituito
una cornoperativa, dove i falegnami
diplomati possono lavorare per
due anni guadagnando abbastanza.
La cornoperativa è gestita dai giovani,
che lavorano su ordinazioni, e il ricavato
viene diviso equamente.
In questo modo, dopo 5 anni, un
giovane esce dalla scuola con un diploma,
una professione, una cassetta
di strumenti e un piccolo gruzzolo
per cominciare un’attività. A volte
lo fanno mettendosi in società,
assistiti dalla cornoperativa madre.
La cornoperativa è nata grazie al sostegno
di un’importante azienda edile
di Trento. Un socio della ditta,
Bruno (ha lavorato pure come volontario
a Kipengere), è deceduto;
in suo ricordo, l’azienda ha offerto
40 milioni di lire alla cornoperativa.
Altri volontari della stessa azienda
hanno donato gli strumenti di lavoro
per gli studenti e sono venuti in
loco per piazzare le macchine e sistemare
il capannone.

SARTE, E NON SOLO
Nella scuola di economia domestica
per le ragazze si insegna di tutto:
taglio e cucito, un po’ d’inglese
e matematica, cucina, orticoltura,
allevamento di bestiame minuto…
Quando la ragazza termina il corso,
è pronta per formare una famiglia.
Anche così nasceranno famiglie più
preparate di fronte alla vita.
L’iniziativa mira soprattutto a chi
non trova lavoro e non ha prospettive.
Non ci sono scuole secondarie;
la gente è povera, vive del lavoro dei
campi e non ha la possibilità di pagare
gli studi dei figli. In tale situazione
la ragazza si rifugia in città
nella speranza di trovare l’eldorado,
ma non trova nulla.
La scuola rappresenta una risposta
concreta alle necessità delle ragazze;
la possono frequentare anche
le meno abbienti, perché si richiede
una tassa annuale quasi simbolica.
L’opera si sostiene con l’apporto di
alcuni amici: ad esempio, è venuta
fra noi una docente di una scuola
tecnica di Rovereto; vista la realtà,
essa stessa ha animato i maestri e gli
alunni con una iniziativa di solidarietà
a distanza, gemellandosi con la
nostra scuola.
C’è un elemento non trascurabile:
la scuola ha campi e allevamenti
di bestiame; ciò che si produce è a
favore di tutti.
Quest’anno, d’accordo con gli altri
missionari, ho aperto anche una
casa per accogliere alcuni delle migliaia
di bambini orfani, vittime dell’Aids
dei genitori. In coscienza non
me la sentivo più di lasciarli soli.
Per sostenere la nuova iniziativa,
in Italia sta nascendo una «fondazione
»; chi vi aderisce offre mensilmente
un aiuto in denaro depositandolo
in banca. Pertanto l’orfanotrofio
continuerà, anche quando io
non ci sarò più.

GLI AMICI DELLA MISSIONE
I lettori hanno certamente capito
che, alle mie spalle, vi sono persone
che «spingono», desiderose di fare
del bene: persone che non si accontentano
di un’«offerta una tantum»,
ma che vogliono impegnarsi in modo
continuativo per chi giace nel bisogno.
Basta offrire loro l’opportunità.
Basta saper collaborare.
Allora vale la pena di organizzare
insieme qualcosa di bello, di cristiano.
Io presento progetti seri e
«gli amici della missione» si impegnano
a realizzarli; anzi, incalzano
me, missionario, ad affrettare i tempi.
In questo modo tanti diventano
missionari.
Ho avuto la fortuna di lavorare
con il Cefa (Comitato europeo di
formazione agraria) di Bologna: è
un’organizzazione non governativa
seria, che attua progetti approvati
dal governo, dall’Unione europea,
ecc. Vi sono volontari che, al mattino,
recitano «le lodi» con noi missionari
e, alla sera, «i vespri»: giovani,
coppie e famiglie che lavorarono
in missione entusiasti. Grazie
ad essi, ho conosciuto il mondo del
volontariato: un mondo multiforme
e ricco.
Oltre ai volontari, ci sono i gruppi
spontanei; crescono un po’ dappertutto:
solo in Trentino se ne contano
una settantina. Spesso sono legati
in modo esclusivo ad «un»
missionario; e questo non è sempre
positivo: infatti devono imparare
ad aprirsi anche ad altri missionari,
a tutte le necessità. In ogni caso sono
generosi; l’importante è impegnarli
con progetti validi, che essi
gestiscono nel migliore dei modi.
I progetti, per avere successo e
futuro, devono prima essere sempre
discussi con la gente e il governo locale.

IL VANGELO IN AZIONE
Nell’attività missionaria non basta
annunciare, in qualche maniera,
il vangelo: scuole e opere di sviluppo
sono parte integrante del lavoro
missionario. Si tratta di priorità richieste
dalla stessa chiesa locale.
Oggi, in Tanzania, forse il giovane
missionario non condivide pienamente
questo modo di fare missione.
Certo, i metodi si possono discutere.
Secondo la mia esperienza
di 33 anni, la promozione umana ha
dato e dà frutti positivi. Talora ho
l’impressione che manchi proprio
«il lavoro», così caro al nostro fondatore,
il beato Giuseppe Allamano.
Noi, missionari, dobbiamo seguire
l’esempio di Gesù che predicava,
ma anche faceva; anzi, secondo Gli
atti degli apostoli, «faceva» e… predicava.
La promozione dell’uomo
non è una «cosa sociale»: è carità. È
vangelo in azione.
A Kipengere esistono pure 54 piccole
comunità cristiane, che seguo
tutte anche «spiritualmente». Esco
di casa alle 7,30 del mattino per partecipare
ai loro incontri e, alle 9, indosso
la tuta da lavoro. Con me operano
padre Giovanni Berghi, di
78 anni, e un prete diocesano locale.
Il progetto è di prepararlo ad assumere
la completa responsabilità
della parrocchia.
Kipengere conta anche su 100 ettari
di terra che, coltivati, servono
alle opere dell’intera diocesi. Si producono
ogni anno 2-3 mila quintali
di grano, che la diocesi gestisce secondo
le necessità.
Un giorno è giunto in missione
un anziano. Osservando
le varie opere in cantiere mi
ha detto: «Baba Camillo, questo è il
Dio che noi aspettavamo…». È un
vecchio di 83 anni, con 4 mogli; a 3
ha dato tutto quello che poteva. È
rimasto con una moglie sola dicendo:
«Ho conosciuto il baba missionario,
che ci ha aiutati; per mezzo
suo ho conosciuto anche Dio. Oggi
Lui mi chiama ad essere cristiano».
È un vecchietto che, alla sua veneranda
età, percorre in
bicicletta 20 chilometri
per partecipare alla messa.

Nel 1986 Giorgio Torelli scrisse un libro su padre Camillo Calliari
BABA CAMILLO
Ho cinque ore di silenzio fino alla
campana del primo e così lento
albeggiare, quando Camillo sortirà di
casa a passi di sentirnero trentino, e
andrà a bersi un caffè nella baracca
dove già spira un fil di fumo azzurro.
Le ragazze della missione sanno
prepararglielo al buio, fra i gatti che
si stirano.
Camillo entrerà in chiesa e si vedranno
le sue manone tuttofare mentre
consacrano il pane. Io ci sarò.
Prima fila: otto benedettine africane,
soavemente nere sopra lo scapolare
immacolato. Seconda fila: quel
po’ di ragazzi che hanno trottato i
chilometri del fango a piedi scalzi e
diranno il Padre nostro in swahili.
Padre si dice «baba». Anche Camillo
è «baba». E poi, nell’ultimo banco, io
col golf stropicciato e gli stivali. Si
vedranno le orme dei piedi bagnati,
la pianta e le dita, sul rosso del pavimento.
Un’ora di restauro perché Camillo
torni ad essere quel che s’è
scelto: agricoltore, meccanico, falegname,
saldatore, elettricista, allevatore,
costruttore di tutto che gli riesca
e, in definitiva, «homo faber in nomine
Domini».
Nessuno più crede che sia lecito
annunciare la parola evangelica senza
metterla in pratica. E mi domando:
di cosa urge l’Africa ignota, quella
di cui non si ragiona mai, gli
sconfinati paesaggi dei poveri che
non avvistano prospettive perché insediati
nelle pieghe inaccessibili di
un continente travagliato?
L’Africa irrisolta brama uomini che
si accollino la sua stessa fame, la
sete, la precarietà del destino, il divenire
della gente, la speranza che non
è mai dissipata, i sogni di avere in fine
quel che milioni d’uomini già posseggono
perché hanno saputo tessere
la propria storia in modo diverso.
Io non abito in questa parte d’Africa
per esaminare col bilancino (tarato
da me stesso) quali siano i meriti e i
demeriti degli africani che possiedono
appena una stuoia, una zappa,
tre pietre per il fuoco e il tetto di paglia
infiltrato dai topi. E neanche Camillo,
come tutti i padri della Consolata,
è qui per questo. Io ci sono per
vedere da vicino Camillo e i suoi. E
Camillo dedica l’imbiancarsi della
barba a chi non ha fortune, non sa,
non s’imbatte nei giorni migliori, resta
impantanato negli anni e ha pur
diritto alla giustizia.
Quale giustizia? Ma quella tessuta
da altri uomini, capaci e avveduti,
che gli dedichino fedeltà e fatiche. È
difficile trovar sonno col girotondo dei
pensieri.
Ed è Montanelli che m’insorge alla
mente, spilungone, la voce cupa e
calibrata, le gambe da trampoliere
sotto la tavola e il pane casereccio
spilluzzicato. Siamo in una trattoria
toscana. È marzo. Tutto s’è risolto a
fagioli e vino in fiasco, fuori è un
giorno piovoso e da soprabito che
volteggia. Il Fenicottero viene al dunque:
«Devi farmi un viaggio. Ti scegli
l’Africa che vuoi e scendi a vedere
quel che io so per certo, con la memoria
e l’intuito: i missionari, vecchio
mio, sono gli unici promotori di sviluppo,
i soli che diano garanzie di
battere fame e pochezza perché ci
mettono anima, competenza e rigore
senza scadenza».

(da Baba Camillo, Istituto geografico
De Agostini, Novara 1986, pp. 23-25)

Camillo Calliari




Giornale o vangelo?

Spettabile redazione,
sono passati mesi dal G 8
di Genova. Ma non posso
dimenticare le devastazioni
che la mia città ha subito
ad opera dei black
block, con la connivenza
di cosiddetti cattolici, preti
e non preti.
Si è distinta SUOR PATRIZIA
PASINI, missionaria
della Consolata, che a
Boccadasse ha aiutato delinquenti,
anarchici, atei.
Allego per maggiore chiarezza
un ritaglio de il
Gioale, 22 luglio 2001.
Mi auguro che nelle vostre
fila non ci siano altre
«Patrizie Pasini».

Le «Patrizie», come
quella de il Gioale, non
non sono mai esistite fra
le missionarie della Consolata.
Il quotidiano ha
attaccato anche l’episcopato
ligure… Forse giova
ricordare che il giornale
non è il vangelo.

Mina Razeto




«Penne nere» e «barbari»

Cari missionari,
esprimo il mio ringraziamento
per un particolare,
che conferma la vostra
sensibilità e correttezza. A
pagina 28 di Missioni Consolata,
gennaio 2002, riferendovi
alla foto che riproduce
dei militari, vi siete
premurati di specificare
che si tratta non solo di italiani,
ma di alpini.
L’azione degli alpini in
Mozambico, sotto la responsabilità
dell’Onu e
l’approvazione della Comunità
di Sant’Egidio, favorì
l’evoluzione dalla tregua
alla pace; quindi fu
positiva, evitando di transitare
per discutibili «alleanze
», anche se non
mancarono polemiche,
che sorgono ogni volta
che si tira in ballo lo strumento
militare.
Gli alpini della foto indossavano
i colori delle
forze dell’Onu e non il loro
glorioso cappello con la
penna nera; ma erano alpini
a tutti gli effetti: volontari
sì, ma nel compimento
del servizio di leva.
Sulla situazione attuale
e sull’evoluzione delle forze
armate italiane ci sarebbe
molto da disquisire, ma
non è un argomento strettamente…
missionario.
Colgo l’occasione per
dire che, lo scorso anno,
sono stato a Genova due
volte: la prima per l’adunata
nazionale degli alpini
in congedo e la seconda
con i missionari ad esprimere
il dissenso ai «prepotenti
della terra». Condivido
le vostre analisi e
critiche su questa globalizzazione
intrisa di barbaro
liberismo economico.

«Barbaro», secondo il
greco barbaròs, significa
pure «balbuziente». E
che il liberismo economico
«balbetti» lo si è visto
anche in Argentina, con
effetti deleteri.

Beppe Peroncini




«Il» problema

Spettabile redazione,
ho letto l’articolo sull’ambiente
(Missioni Consolata,
gennaio 2002). Bello!
Penso che la questione ecologica
non sia solo «un»
problema, ma «il» problema.
Seguirò con interesse
anche i prossimi articoli
della nuova rubrica.

I complimenti spettano
a Silvia Battaglia, ingegnere
ambientale, che cura
la serie di articoli «Una
sola madre terra».

Gianni Liggi-Samassi




A chi serve Bin Laden?

Cari missionari,
siete gli unici che non si
fanno «pilotare» dai potenti,
ovvero da quei signori
che hanno creato i
vari BIN LADEN e ora
piangono per tutto ciò che
accade.
Non sopporto gli atteggiamenti
ipocriti degli occidentali
(americani in testa),
cui interessa solo il
profitto e guadagno, non
tenendo conto degli altri…
Ho ammirato invece i giovani
a Genova, durante il
G 8, anche perché degli
«otto grandi» non c’è da
fidarsi molto. Ammiro pure
la dedizione dei missionari
sparsi nel mondo.
Purtroppo i nostri «capi» e quelli statunitensi
continuano a fare una politica
di parte, tenendo
buono «a fior di soldi» (ad
esempio) Musharaf, presidente
pakistano «dittatore», sicuramente nostro
prossimo nemico, quando
non sarà più gradito. E, intanto,
l’odiato Bin Laden
continua a servire agli Stati
Uniti per un ricambio di
tecnologia nel loro arsenale
bellico.
Caro direttore, ho detto
un’assurdità? Sarò lapidato
anche da lei?

Evitiamo i processi alle
intenzioni: lo ripetiamo
da sempre… È risaputo
che, in tempo di guerra,
la produzione e il mercato
delle armi fioriscono.
Meglio, impazziscono.

Alessandro




PICCOLE (O FORSE) GRANDI STORIE

Il vasto mondo dell’immigrazione,
oltre ai problemi di sopravvivenza, inserimento, lavoro
e integrazione, nasconde tra le sue pieghe anche
sommesse vicende di affetti.
Che, solo a volte (magari per caso),
riescono ad emergere. E toccano il cuore.

I NONNI DI ALDI

Sulle Langhe, intorno ad Alba, avevo
lasciato una fitta nebbia; ad
Alessandria, già in pianura, mi aveva
accolto invece un sole splendente:
strano, per un giorno di novembre.
Il sole entrava a illuminare anche
lo scompartimento di seconda
classe dell’intercity Asti-Bari, in cui
mi ero accomodata.
Mi colpì subito il vestito, interamente
nero, di una donna anziana
che occupava uno dei sedili accanto
al finestrino. Di fronte a lei, un
uomo; di lui notai la pesante giacca
di lana e una cravatta nera che, frusta
com’era, doveva aver visto molti…
lutti. Due nonni, come dicevano
i capelli quasi interamente bianchi
e i visi solcati dai segni della vita.
Parlavano tra di loro a bassa voce,
con dolcezza; lei più a lungo; lui
attento, in ascolto, rispondeva con
frasi più brevi; lei aveva tra le mani
un fazzoletto pronto per essere portato
agli occhi, che entrambi avevano
rossi di lacrime versate…
Avete mai colto il bello nel suono
di ogni lingua? Non riuscivo a decifrare
una parola di quella conversazione,
ma il fluire delle parole mi
incantava ugualmente. E poi c’era
dell’altro: non era un semplice parlare,
ma un sentimento, uno scambio
di qualcosa che, purtroppo, mi
sfuggiva. Di sicuro era una lingua
slava. Forse erano polacchi, che andavano
a Loreto a sciogliere un voto
alla Madonna o a chiedere una
grazia.
Mi perdonino i fratelli europei orientali.
Però a me, neolatina, le lingue
slave sembrano quasi tutte uguali,
mentre sono così diverse!
Non saprei dire perché, ma quando
sono di fronte a degli stranieri,
mi scatta dentro un qualcosa che io
chiamo «sindrome della padrona di
casa»: cioè un vivo desiderio di accogliere,
ma anche una volontà di
sapere, conoscere. Così, con discrezione,
cercai il dialogo.
Non erano polacchi. Venivano
dall’Albània (come essi dicono), e
non Albanìa (come diciamo noi). Avrei
dovuto capirlo subito: i capelli,
prima di diventare bianchi, erano
stati neri, non biondi; le loro stature
erano basse, i lineamenti sottili
e delicati come sono spesso quelli
degli albanesi. Il loro italiano era di
pochissime parole; ma riuscirono a
dirmi che venivano da Asti e andavano
a Bari, da dove avrebbero preso il traghetto per Durazzo. Da lì una
corriera li avrebbe portati a casa,
in un villaggio tra le montagne. Un
viaggio di 36 ore!
«Avete qualche figlio ad Asti? Lavora?
Sta bene?…». Qui ogni difficoltà
di lingua scomparve. Non saprei
dire come, ma in un soffio riuscirono
a farmi partecipe del loro
pianto e lutto. Sì, avevano un figlio
ad Asti, con un buon lavoro e una
bella famiglia: una brava moglie, anche
lei albanese e due ragazzi, Fatima
di 17 anni e Aldi 12.
L’estate scorsa i ragazzi, in attesa
che ricominciasse la scuola, avevano
trovato anch’essi un lavoretto.
Ma una mattina, Aldi andando in
bicicletta verso la pasticceria in cui
aiutava, fu investito da un’auto e ucciso.
Eccolo Aldi nella foto che la nonna
mi porgeva: un viso sorridente di
adolescente, che rinnovava negli occhi
e nel sorriso quello così stanco
del nonno. Prima di riporla nuovamente
nella busta bianca, la donna
baciò a lungo l’immagine del ragazzo.
Essi, i nonni, solo dopo quattro
mesi avevano potuto andare a piangere,
con quelli che restavano, sulla
tomba di Aldi. Ora, ancora in lacrime,
tornavano in Albania con
quel lutto così grande che non li avrebbe
lasciati mai più.
– Ritoerete in Italia?
– No Italia!
Lo dissero pacatamente, senza risentimento.
Poi non ci furono più
parole tra di noi. Soltanto, prima
ch’io scendessi alla stazione di Ancona,
un forte e lungo abbraccio. Il
dolore, tutti i dolori, ma soprattutto
quello per la perdita di una vita
giovane, non ha confini di nazionalità
e non ha bisogno di parole.
Parliamo tanto di immigrati, ma
ci sfugge il carico di sofferenze che,
in mille modi, l’immigrazione comporta.
Una morte, lontano dal proprio
paese e dai propri cari, è un dolore
infinitamente grande. Quante
famiglie immigrate attraversano l’esperienza
della morte?
Nel pianto dei nonni di Aldi c’era
anche questo: il rimpianto di una
tomba lontana; l’impossibilità di
parole e gesti verso i propri cari, anch’essi
carichi di lutto e dolore.
Si potrebbe cominciare anche da
qui per sentirci uguali: dall’esperienza
del dolore che, ahimé, non
manca nella vita di nessuno, sotto
qualsiasi cielo ci sia dato di vivere.

QUASI TUTTI MIEI FIGLI
Forse il più bel compleanno che
ho festeggiato non è stato uno
dei miei (ormai tanti e… grigi), ma
quello di Victoria.
Victoria Vicky viene dalla Nigeria
ed è una delle mie alunne più assidue
nel corso di lingua italiana per
stranieri. È graziosa e vivacissima;
come quasi tutti i ragazzi africani, è
pronta alla battuta di spirito e alla
risata fragorosa. Parla di sé, ma lo fa
con ritrosia; racconta della sua famiglia
e della vita in Italia quasi per
cenni, per lo più lasciando intuire.
Un pomeriggio annunciò a me e
ai compagni, con tutta la gioia possibile, che aveva ottenuto finalmente
il permesso di soggiorno. Un’altra
volta ci disse che fra una settimana,
il 14 di aprile, sarebbe stato
il suo compleanno. Avrebbe compiuto
20 anni.
Non potevo dimenticarlo: Victoria
è nata nel 1980, esattamente 11
giorni prima di mio figlio Luigi. Così,
quel 14 aprile, comprai un regalino
(troppo piccolo, solo ora me ne
rendo conto), scelsi un biglietto con
una scritta beneaugurante e andai a
scuola.
Quel pomeriggio Victoria era non
solo graziosa, ma anche elegante: sul
capo, una cascata di treccine artificiali
(un po’ bionde) alleggeriva ogni
suo movimento, quasi come in
una piccola coreografia.
Naturalmente incominciammo la
lezione d’italiano, scrivendo a lettere
di scatola sulla lavagna: «Buon
compleanno, Victoria!». E si continuò
sul tema. Ognuno volle dire come
si celebra il compleanno nel suo
paese, con piccole frasi, alcune più
corrette, mentre altre rimandavano
a strutture linguistiche inglesi, spagnole,
arabe, bengalesi, cinesi, russe,
polacche, albanesi.
Quante cose da imparare e condividere!
Zhara in Marocco non festeggia
compleanni, perché questo
non fa parte della tradizione islamica;
in Inghilterra, John finisce la sua
festa in un pub con gli amici; in Persia,
Faime inizia i festeggiamenti una
settimana prima; a Santo Domingo,
Daniel prepara salsa e merenghe
in casa, ma anche all’aperto;
a Lima, in Perù, non è facile per la
madre di Roxana festeggiare i compleanni
dei suoi 15 figli.
A Duala, in Cameroun, la mamma
di Martin prepara cibi tradizionali;
in Bangladesh, la casa di Zaman
e di Nasrim si riempie di tantissimi
fiori… Così, tra frasi scritte,
correzioni, letture ad alta voce ed esercizi,
anche in quel pomeriggio la
nostra lezione si avviava alla fine.
Però, ad un certo punto, Victoria
scomparve. Poi, aiutata da Faime e
Isabel, toò con un grande vassoio
di pasticcini e due bottiglie di spumante.
La lezione si sciolse così nel
più bel compleanno cui io abbia
mai partecipato. L’ambiente della
nostra scuola è povero; l’aula piccola
e disadoa. Ma la festa che abbiamo
vissuto tra quelle pareti resterà
indimenticabile.
Ho sentito che i «miei» 20 ragazzi,
arrivati dalle parti più lontane del
globo, diversi per lingua, religione,
costumi, colore della pelle… si volevano
bene ed erano felici di stare insieme.
Alla ventenne Victoria abbiamo
cantato «buon compleanno» in 10
lingue diverse; ogni canto veniva ascoltato
con curiosità, rispetto ed
interesse, seguito da applausi davvero
giorniosi. Tutti, poi, hanno voluto
essere fotografati con tutti.
Io li guardavo incantata e pensavo:
«Potrebbero essere tutti miei figli!».

LA STORIA DI BILEN
Èsabato sera. E già penso che lo
scorrere delle ore mi porterà la
solita ansia, che si placherà soltanto
quando sentirò girare per due
volte la chiave nella toppa; quando
cioè i miei due figli, entrambi maggiorenni,
saranno rientrati a casa,
dopo aver celebrato il rito del sabato;
dopo essersi omologati al costume
di questo nostro tempo, per cui
le ore del divertimento e dello stare
insieme debbono necessariamente
essere quelle tarde o tardissime della
notte!
La mia tensione del sabato sera è
condivisa da molte altre madri. A loro
voglio raccontare una storia, per
dire che ci sono altre mamme la cui
ansia non conosce sabati, perché nasce
da una separazione totale, da uno
strappo crudele, che noi madri italiane
non riusciamo nemmeno a
pensare possibile.
Bilen ha l’età di mia figlia, 24 anni.
È una graziosa filippina, delicata
e gentile (come sono spesso le orientali),
che assiste con intelligenza
e discrezione una signora, mia
amica. Bilen è sposata a un suo connazionale,
che stenta a trovare in
talia un posto di lavoro fisso; ha tentato
in Veneto; poi è tornato ad Ancona.
Così è essenziale che Bilen
mantenga la sua occupazione. Non
ci sono problemi per questo: Bilen
è brava ed apprezzata. Ma aspetta
presto un bambino.
È felice e trepidante insieme. Intanto
continua a lavorare presso la
signora, che le vuole bene e ha per
lei tutte le accortezze che avrebbe
una madre, sino al nono mese… E
nasce Marilù, un delizioso batuffolo
dagli occhi a mandorla, un mondo
di tenerezza.
Non vedo più Bilen e la immagino
presa dal suo tenero pargoletto
dalla pelle d’ambra e dai capelli di
ebano. Chiedo notizie di lei. «Bilen
è triste e nervosa» mi rispondono.
Non riesco a spiegarmi: perché Bilen,
così dolce e sempre sorridente,
è triste e nervosa?
Immagino che si tratti di problemi
di lavoro: lei dovrà stare con la
piccola Marilù e il marito sarà ancora
alla ricerca di un’occupazione;
forse dovranno chiedere una mano
a qualcuno dei numerosi filippini di
Ancona. E, per una giovane coppia,
è sicuramente fonte di preoccupazione.
Niente di tutto questo. Bilen e il
marito lavorano entrambi. Allora
sarà una zia o una nonna ad occuparsi
della piccola? In un certo senso
è così: una zia, che tornava nelle
Filippine, ha portato con sé la piccola;
essa ora è in un villaggio presso
Manila, dalla nonna, la madre di
Bilen. È successo dopo quattro mesi
dalla nascita.
La notizia mi veniva data con naturalezza
dalla nuova giovane filippina,
che ha sostituito Bilen presso
la signora mia amica. Io ascoltavo
quasi con raccapriccio, incredula,
in un impotente moto di dolore, solidale
con la giovane madre. Poi ho
ragionato su ciò che avevo giudicato
una barbara legge di clan, un’efferata
crudeltà.
I genitori di Marilù avevano cercato
un asilo nido ad Ancona, ma avrebbero
dovuto pagare una quota
mensile di 260 euro; con tale somma,
che essi inviano nelle Filippine,
vive tutta la famiglia di Bilen: padre,
madre, i sei fratelli… e la stessa Marilù.
Anche questo è immigrazione. La
penuria di risorse vitali, che determina
lo strazio innaturale della separazione
di due creature, fatte per
vivere l’una dell’altra; la povertà che
travolge gli affetti più sacri e li muta
in privazione affettiva e in dolore;
l’incapacità di noi piccoli «ricchi
» e delle nostre istituzioni di sollevare
situazioni limite, come quella
di Bilen e della sua Marilù che chiedevano,
in fondo, soltanto un posto
meno costoso in uno dei nostri asili
nido.
E noi, mamme italiane, ci permettiamo
«il lusso» di stare in ansia
per i nostri sfaccendati figli, che
fanno le ore piccole. Poi, la domenica
mattina, tutti zitti in casa, per
carità: i «giovin signori» riposano!
Gran Dio, ci sarà mai
giustizia per i poveri del
mondo?

(*) Docente di lettere nella scuola
media «Giovanni Pascoli» di
Ancona, RITA VIOZZI MATTEI è impegnata
anche in un gruppo missionario
e insegna italiano ad un
gruppo di immigrati.

Rita Viozzi Mattei




LA LUNGA MANO DELLA PROVVIDENZA

Nata nel 1970 per impulso
del Concilio Vaticano II,
la Caritas Italiana
è uno strumento di animazione
delle comunità cristiane
nell’esercizio della carità.
Questa panoramica storica
ne evidenzia tappe di crescita,
situazione presente
e proiezioni verso il futuro.

C’era una volta… la Poa (Pontificia
opera di assistenza):
organismo con cui, durante
la guerra e nel periodo della ricostruzione,
il papa faceva arrivare alla
chiesa italiana gli aiuti dei cattolici
americani: ingenti quantità di generi
alimentari per le colonie estive,
acquisto e messa a disposizione di sedi
e assistenti sociali.
Per 30 anni, fino al 1970, quando
il papa sciolse la Poa, le diocesi erano
abituate a ricevere. Nel 1971 la
Cei (Conferenza dei vescovi italiani)
istituì la Caritas Italiana: le diocesi venivano
chiamate, non più a ricevere,
ma a condividere aiuti e servizi.

CAMBIO DI MENTALITÀ
La Caritas nasceva come strumento
pastorale di animazione di tutta la
comunità cristiana nell’esercizio della
carità. Tale identità è stata espressa
chiaramente da Paolo VI nel settembre
del 1972: «Una crescita del
popolo di Dio nello spirito del Concilio
Vaticano II non è concepibile
senza una maggior presa di coscienza
da parte di tutta la comunità cristiana
delle proprie responsabilità
nei confronti dei bisogni dei suoi
membri» .
Era Paolo VI che voleva fermamente
la Caritas; la Cei l’ha istituita
forse più per obbedienza che per
piena convinzione, preoccupata che
sorgesse un’altra Poa sulle sue spalle.
Occorreva un cambiamento radicale
nella mentalità e costume della
chiesa italiana. È emblematico a tale
proposito l’incontro che ebbi con un
vescovo incaricato, a livello regionale,
di seguire l’organizzazione delle
Caritas diocesane. «Che cosa ci portate?» mi chiese. «Nulla» risposi. «E
allora perché ci siete?».
Eppure lo Spirito con il Concilio
faceva sorgere nel popolo di Dio una
sensibilità nuova. Nel settembre
1972, mentre stavamo per dare inizio,
alla Domus Mariae (Roma), al
primo Convegno Nazionale delle
Caritas diocesane, si avvicinò timidamente
una donna e mi mise in mano
una busta con 1 milione e 200 mila
lire: erano gli arretrati della pensione
sociale appena riscossi.
Un segno incoraggiante a continuare
un progetto rivoluzionario. Ve
ne furono altri.

EVENTI INCORAGGIANTI
La celebrazione del primo Convegno
nazionale delle Caritas diocesane
nel settembre 1972 era già un’incoscienza:
di Caritas diocesane non
ne esisteva ancora neanche una e i
delegati erano gli stessi che gestivano
gli uffici diocesani della Poa.
Provvidenzialmente, alla fine dell’incontro,
il vicepresidente della
Cei, mons. Castellano, dichiarò formalmente
che nelle diocesi la Caritas
doveva essere una cosa nuova, diversa
dalla Poa. Fu un punto di chiarezza
fondamentale per il futuro
della Caritas.
Un altro fatto provvidenziale fu
l’udienza papale alla fine del Convegno.
Quando andai dal maestro di
camera per chiedere l’incontro, questi
mi chiese se avevamo desideri particolari
di cui il santo padre tenesse
conto nel suo discorso. Mi venne
spontaneo chiedergli che ci commentasse
lo Statuto che ci aveva dato
la Cei. Il papa ne fece l’interpretazione
autentica, sottolineò natura,
funzione, attualità, metodo della Caritas
(vedi riquadro), con una ricchezza
e lungimiranza di contenuti
che non potevamo né prevedere né
aspettarci. E fu la nostra forza, anche
di fronte a incertezze e pareri che incontravamo
lungo la strada.
Un’altra circostanza provvidenziale
ci aiutò a dare l’impronta alla
Caritas: avevamo ricevuto il mandato
di avviarla, ma nessuno aveva pensato
a un fondo per le spese: siamo
partiti nella povertà.
Per raccogliere offerte al tempo
della fame in Biafra (Nigeria), mons.
Freschi aveva messo in piedi una rivistina
di 4 facciate: Italia Caritas. Da
quel rivolo ci venne il necessario per
il primo anno di vita. Ciò che trattenevamo
lo consideravamo un prestito
che ci facevano i poveri, perché
potessimo servirli; quando avessimo
avuto più risorse lo avremmo restituito.
Ciò che facemmo negli anni
successivi.
Fu una grande lezione che ci fece
comprendere che vivevamo con i
soldi dei poveri e che in tutto dovevamo
avere uno stile di sobrietà e povertà.

ARRIVA IL VOLONTARIATO
Intanto emergevano le prime punte
del volontariato: Gruppo Abele,
Comunità di Capodarco, gruppi di
punta delle periferie urbane. Ci interrogavamo
sul significato di tale fenomeno
e sul come comportarci con
i volontari, finché decidemmo di ascoltarli,
per sentire cosa facevano e
pensavano. Nell’autunno del 1975
organizzammo a Napoli il primo
Convegno nazionale del volontariato.
Fu una scoperta per il numero,
qualità di esperienze, carica ideale e
politica.
Decidemmo di coltivare tale movimento,
distinguendo però i ruoli:
la Caritas avrebbe esercitato la sua
prevalente funzione pedagogica di
promozione, formazione e cornordinamento,
lasciando ai cristiani laici
il compito di organizzarsi per l’azione.
Nel maggio 1976 ci fu il terremoto
del Friuli: era la prima grave emergenza
che la Caritas affrontava.
Insieme agli oltre 10 mila volontari,
era presente anche la Caritas Italiana.
Ci venne una ispirazione: verrà
l’inverno, gli studenti andranno a
scuola, gli operai toeranno al lavoro,
questa gente rimarrà sola; è il momento
della presenza della chiesa.
Proponemmo alle diocesi e alle rispettive
Caritas che stavano formandosi
di farsi carico ciascuna di una
parrocchia colpita, assicurando per
tre anni una presenza continuativa:
80 diocesi da Aosta a Otranto risposero
all’appello, gemellandosi con altrettante
parrocchie friulane: fu
un’esperienza forte di condivisione
che, oltre a promuovere e sviluppare
molte Caritas diocesane, divenne
poi un metodo costante, adattato alle
diverse situazioni negli interventi
della Caritas.
Nell’ottobre 1976, durante il primo
Convegno ecclesiale su «Evangelizzazione
e promozione umana»,
svolsi la prima relazione sul tema «Evangelizzazione
ed emarginazione»,
documentando la situazione della
chiesa italiana su tale argomento e
mons. Pasini portò nella sesta Commissione
i principali contenuti che
portavamo avanti come Caritas: implicitamente
avvenne la presentazione
ufficiale della Caritas Italiana davanti
a un centinaio di vescovi e un
migliaio di delegati delle diocesi.
Al termine del Convegno l’assemblea
approvò con un lunghissimo
applauso la mozione presentata dalla
Commissione, con cui si chiedeva
«al Convegno di fare propria la proposta
di farsi carico della promozione
del servizio civile, sostitutivo di
quello militare, nella comunità italiana,
come scelta esemplare e preferenziale
dei cristiani, e di allargare le
proposte di servizio civile anche alle
donne».
Così entrarono nella Caritas il servizio
civile degli obiettori di coscienza
e l’anno di volontariato sociale
per le ragazze.

NUOVI ORIZZONTI
All’inizio del 1980 i giornali parlavano
dei profughi del Vietnam, del
«popolo delle barche». Durante un
viaggio in India, per un progetto di
ricostruzione di capanne distrutte da
un ciclone, insieme a mons. Motolese
approfittai per fare un salto in Malesia
e renderci conto della situazione:
il paese aveva già 70 mila profughi
vietnamiti e non ne voleva altri:
impediva l’approdo delle barche e le
ributtava in mare.
I capi religiosi della Malesia, cattolici
e protestanti, ebrei, musulmani
e buddisti, avevano lanciato un
appello a tutti i credenti del mondo
perché premessero sui loro governanti
affinché accogliessero i profughi
vietnamiti.
Insieme a gruppi e movimenti facemmo
forti pressioni sul governo
che, in prossimità delle elezioni nella
primavera del 1981, cedette, a condizione
che trovassimo preventivamente
lavoro e abitazioni. Un appello
alle Caritas diocesane offrì lavoro
e alloggio per 10 mila famiglie, utilizzati
solo per 3 mila profughi, a causa
di resistenze burocratiche.
Lo statuto della Caritas prevede
interventi nel terzo mondo. Ad allargare
l’orizzonte della carità furono
le grandi calamità che hanno colpito
i paesi poveri: siccità nel Sahel,
carestia in Ghana, Uganda e Mozambico,
guerra e fame in Somalia ed
Eritrea, alluvioni in Bangladesh e India,
terremoto in Guatemala, guerra
civile e carestia in Salvador. Situazioni
che ho vissuto di persona con tre
momenti successivi: intervento immediato,
presenza di solidarietà da
chiesa a chiesa e progetti di ricostruzione
e sviluppo.
Molti dei progetti sono stati realizzati
in collaborazione con lo stato
italiano: accoglienza dei profughi
vietnamiti, installazione dell’ospedale
di Tha Praja in Thailandia, invio
di aiuti in Ghana, Algeria ed Eritrea,
costruzione dei Centri sociali in
Umbria, attuazione del programma
Fai (Fondo aiuti inteazionali) su richiesta
del ministro Forte.
Lo stato si assumeva la spesa delle
operazioni che, per motivi diversi,
non era in grado di fare direttamente.
Fu una collaborazione reciproca,
leale e trasparente.

ULTIMI 15 ANNI
La seconda parte del trentennio di
vita della Caritas Italiana è stata caratterizzata
da un crescente impegno
nella formazione degli operatori al
servizio della carità. Per sacerdoti e
diaconi permanenti è stata inserita,
nei programmi di seminari diocesani,
università e facoltà teologiche dipendenti
dalla Cei, una disciplina
specifica: «Teologia e pastorale della
carità».
Per imprimere maggior impulso ai
rapporti con il territorio, sono state
promosse le scuole socio-pastorali,
analisi dei bilanci comunali, cornoperative
di solidarietà sociale, osservatori
delle povertà e centri di ascolto.
Inoltre, lo sviluppo delle Caritas parrocchiali
ha contribuito ad accrescere
la partecipazione attiva di regioni
e diocesi alla vita della Caritas Italiana
nella preparazione e gestione del
convegno nazionale e sulle altre attività
promosse a livello nazionale e internazionale.
Un momento problematico si è rivelato
l’avvio dell’operazione «8 per
mille». Avevamo insistito perché le
somme destinate alla carità, soprattutto
per il terzo mondo, fossero gestite
dalla Caritas, in conformità allo
statuto datole dalla Cei, onde evitare
confusioni e conflittualità. La presidenza
della Cei ha preferito gestire
direttamente tali aiuti. Anche questo
fu provvidenziale: ha evitato il rischio
di essere percepita come una
centrale di potere finanziario.
Nei rapporti con la società civile, la
Caritas Italiana ha assicurato una
presenza sistematica in varie commissioni
governative: povertà, minori,
Aids, immigrazione, pari opportunità;
ha offerto contributi alla produzione
legislativa: leggi quadro sui
servizi sociali, immigrazione, volontariato,
cooperazione sociale, riforma
della legge sull’obiezione di coscienza,
servizio civile per tutti; ha contribuito
a promuovere sensibilità e solidarietà
verso le fasce deboli, con la
poderosa pubblicazione della Biblioteca
della solidarietà in 37 volumi.
Negli ultimi 15 anni, inoltre, si sono
moltiplicate le emergenze in cui
la Caritas è stata presente con consistenti
aiuti: Eritrea ed Etiopia, Israele-
Palestina, Salvador, Sudan, Armenia,
Romania, Iran, Urss e Lituania,
Somalia, Bangladesh, Albania,
Croazia e Serbia, Bosnia-Erzegovina,
Kosovo, Rwanda, Angola.
In tali emergenze la Caritas ha avuto
anche i suoi martiri: Gabriella
Fumagalli a Merca in Somalia, Antonio
Siriana e Roberto Bazzoni nel
Kosovo.

PER I PROSSIMI 30 ANNI
Grazie alle numerose attività svolte,
la Caritas si è progressivamente
modificata e ingrandita: ha dovuto ricercare
nel tempo l’equilibrio tra l’essenziale
vocazione di animazione e la
risposta a provocazioni molteplici
per impegni concreti. Per costruire il
futuro, essa dovrà affrontare con realismo
e lungimiranza il presente.
Guardando la situazione attuale
nella prospettiva del futuro, vedo
uno scoglio per le Caritas diocesane,
che rimangano sopraffatte dalla gestione
di servizi, sotto la pressione
dei bisogni emergenti.
Inoltre, il bilancio storico di questi
30 anni mostra come la Caritas Italiana
e quelle diocesane hanno avuto
un impensabile sviluppo; non
si può dire altrettanto a livello di parrocchie.
È, quindi, urgenza inderogabile
promuovere Caritas parrocchiali
autentiche: animazione della
carità e attuazione della funzione pedagogica
non si realizzano né a Roma,
né nei centri diocesani, ma nelle
singole comunità parrocchiali, dove
si celebra l’eucaristia, dove vivono le
persone e le famiglie. Può essere l’obiettivo
dei prossimi 30 anni.
Vi sono altri due obiettivi da affrontare
con coraggio e competenza,
sollecitando la collaborazione degli
altri uffici pastorali interessati e dei
gruppi e movimenti presenti nella
comunità cristiana.
Prima di tutto la tutela dei più deboli
nello sviluppo o involuzione
delle politiche sociali. Bisognerà richiamare
costantemente i compiti e
le responsabilità delle pubbliche istituzioni;
affermare concretamente
il valore della gratuità nel volontariato;
animare i cristiani alla solidarietà
sociale, perché tutta l’economia
mantenga al centro la persona. Sarà
un lavoro contro corrente, per contrastare
l’attuale cultura dominante
neoliberista, che mette al centro non
la persona, ma l’economia a servizio
degli interessi privati.
Il secondo obiettivo consiste nell’investire
nei giovani, aiutandoli a
passare dall’obiezione di coscienza
al servizio civile volontario. Ciò richiede
una forte educazione alla non
violenza, alla pace e mondialità; aiutarli
a superare la cultura della guerra
e affrontare in senso positivo la sfida
della globalizzazione; dare loro
speranza e guida contro le strumentalizzazioni
di destra e di sinistra.
La Caritas Italiana potrebbe offrire
un segno profetico di forte risonanza:
orientare i giovani che decideranno
di fare il servizio civile volontario
a compiere tale impegno
nei paesi poveri, a fianco del volontariato
internazionale e nei servizi
assistenziali, sanitari, educativi delle
missioni. Sarebbe una forte esperienza
educativa, che aiuterebbe
i giovani a cambiare
il mondo.

(*) Mons. Giovanni Nervo
è una figura storica della Caritas
Italiana: ne è stato presidente
per 15 anni (1971-1986).

Connotati CARITAS

Paolo VI ai delegati del I Convegno
nazionale delle Caritas diocesane.
Qualificazione istituzionale: «Senza
sostituirsi alle istituzioni già esistenti
in campo assistenziale nelle varie
diocesi, la Caritas si presenta come
l’unico strumento ufficialmente
riconosciuto a disposizione dell’episcopato
per promuovere, cornordinare e
potenziare le attività assistenziali nella
comunità ecclesiale italiana».
Funzione: «Creare armonia e unione
nell’esercizio della carità, di modo
che le varie istituzioni assistenziali,
senza perdere la propria autonomia,
sappiano agire in spirito di sincera
collaborazione, superando individualismi
e antagonismi e subordinando
gli interessi particolari alle esigenze
del bene generale della comunità».
Mezzo di rinnovamento conciliare:
«La crescita del popolo di Dio nello
spirito del Vaticano II non è concepibile
senza una presa di coscienza da
parte di tutta la comunità cristiana
delle proprie responsabilità nei confronti
dei bisogni dei suoi membri. La
carità resterà sempre per la chiesa il
banco di prova della sua credibilità nel
mondo».
Funzione pedagogica: «Al di sopra
dell’aspetto materiale della sua attività,
emerge la funzione pedagogica
della Caritas, l’aspetto spirituale, che
non si misura con cifre e bilanci, ma
con la capacità che essa ha di sensibilizzare
chiese locali e singoli fedeli
al senso e dovere della carità, in forme
consone ai tempi e bisogni. Mettere
a disposizione dei fratelli energie
e mezzi non è frutto di slancio emotivo
e contingente, ma conseguenza logica
di una crescita nella comprensione
della carità che scende necessariamente
a gesti concreti di comunione
con chi è in stato di bisogno».
Metodo: «È indispensabile superare i
metodi empirici e imperfetti, nei quali
spesso si è svolta l’assistenza, e introdurre
nelle nostre opere i progressi
tecnici e scientifici della nostra epoca.
Di qui la necessità di formare
persone esperte e specializzate; promuovere
studi e ricerche per una migliore
conoscenza dei bisogni e delle
cause che li generano e per una efficace
attuazione degli interventi. Oltre
a giovare ai fini di una programmazione
pastorale unitaria, la Caritas
servirà a stimolare gli interventi delle
pubbliche autorità e un’adeguata
legislazione».

Giovanni Nervo




«AMARCORD» AFRICANO

Da due decenni
in America Latina,
padre Giuseppe Ramponi
rivive i primi 15 anni
di esperienza missionaria
a tutto campo vissuti
in Kenya: attività religiosa,
promozione umana,
scuole, ricerca linguistica
e antropologica
e inculturazione
del vangelo.

Il 17 settembre 1967 il parroco
con la comunità di Pieve di Cento
(BO) mi diceva addio con
queste parole: «La parrocchia si sente
onorata di dare uno dei suoi figli
alle missioni, per portare la verità e
l’amore di Cristo a coloro che hanno
fame e sete di giustizia».
In novembre mandavo i primi sentimenti:
«Wamba (Kenya): la mia più
grande sofferenza non è la fatica o la
privazione, ma la tristezza nel vedere
tanta miseria».

IL TIROCINIO
Wamba, nella diocesi di Marsabit
e distretto dei samburu, era una missione
in costruzione, con tutte le precarietà
che ne derivavano: alloggio
provvisorio, molestie di insetti, animali,
scorpioni, serpenti e insicurezza di vario genere. Inoltre, dovevo
trovare il mio posto nella “missione”:
studiavo la lingua, svolgevo
qualche attività da prete e davo una
mano nei lavori.
Nel febbraio del 1968 l’apprendistato
era finito. Il parroco disse
che di lingua ne sapevo più di lui
e mi buttò in piena attività missionaria:
cominciai a visitare i
villaggi.
Le scuole erano l’attività
fondamentale della
missione, e permettevano
di creare
comunicazioni
con la gente e
portare l’evangelizzazione
su
un piano possibile:
quello dei ragazzi. Dai vecchi
non ci si aspettava che cambiassero
modo di vivere; ma ci aiutavano, approvando
che i figli ricevessero un’educazione
differente.
Col passare del tempo venivo a
contatto con i veri problemi: contrasti
tra la gente, divisioni tribali, inefficienza
dell’amministrazione pubblica
e, per completare il quadro,
scontri con i missionari protestanti.
Le relazioni ecumeniche andavano
bene in Europa, molto meno in missione.
Presenti nella regione da moltissimi
anni e forti del patrocinio dell’amministrazione
coloniale inglese,
essi si sentivano padroni e ci ritenevano
invasori. Comprendevo il loro
risentimento e li compativo. Più tardi,
in America Latina, ho capito perfettamente come ci si sente, quando
tocca a noi essere invasi dagli evangelici,
che portano via intere comunità
con campagne sistematiche di
proselitismo.

CAPIRE LA GENTE
Dopo un anno cominciavo a delineare
i termini del mio essere missionario:
accettare ogni novità con
impegno ed entusiasmo; accogliere
tutti e amarli con tutte le forze.
Alla fine del ’68 arrivò a Wamba il
dottor Silvio Prandoni, per organizzarvi
un ospedale ideale: ebbi con lui
una serie di dialoghi che mi stimolarono
nella ricerca di capire la gente:
mi aprivo alla necessità di discorsi
antropologici e culturali.
Ma il momento cruciale in cui entrai
nel mondo della cultura avvenne
il 22 dicembre: dopo la messa, un
fabbro samburu, con cui parlavo sovente
su usi e costumi del suo popolo,
mi chiamò in disparte; mi mostrò
un braccialetto di ferro a forma di
serpente fatto da lui stesso e, dopo averci
sputato sopra a lungo con solennità,
me lo consegnò dicendo:
«Da questo momento io e te siamo
una sola cosa: tutto ciò che è mio è
anche tuo, tu sei mio fratello».
Mi commossi e mi sentii inviato e
missionario. Ma ignoravo la parte
non dichiarata della cerimonia: la reciprocità.
Inconsciamente afferrai
un’altra importante verità: uno deve
dare quello che può e aspettarsi altrettanto.
Per fare l’africano avrei
dovuto travestirmi; ma riuscii a fornire
vari dettagli della mia vita, capaci
di farmi riconoscere come amico
e fratello, senza camuffare limiti e
differenze.
Volevo capire la vita della gente e
conoscere tutto, senza dare giudizi e
senza demonizzare nulla. Se qualcosa
mi fosse risultata incomprensibile,
avrei cercato altri punti, tempi e
voci per avere la visione più esatta
possibile.
Arrivarono i primi cambi e diventai
missionario itinerante: da Wamba
a Maralal, poi a Loyangallani e infine
a Moyale: tutte esperienze che
mi aiutarono ad acquisire capacità
indispensabili: adattamento, malleabilità,
creatività, disponibilità.

DA MAESTRO A SCOLARO
All’inizio del 1970 passai a Maralal,
con l’incarico di studiare lingua,
usi e costumi delle popolazioni del
distretto e la supervisione delle scuole
della diocesi di Marsabit. Nel campo
linguistico si cominciava da zero:
bisognava preparare una struttura
grammaticale e glottologica che non
è stata ancora raggiunta.
Ma la difficoltà più grande era convincere
i confratelli della necessità
d’imparare la lingua per comunicare
il vangelo in profondità. Si comunicava
con fatica usando un kiswahili
rudimentale, sufficiente per le attività
comuni; ciò faceva scomparire voglia
e impegno di studiare seriamente l’idioma
locale, il samburu.
Le scuole erano state nazionalizzate;
ma potevano conservae l’identità
cristiana, avendo noi diritto
di nominare il direttore e un certo
numero di maestri. I documenti coloniali
parlavano chiaro al riguardo,
ma bisognava cambiare atteggiamento:
bussare, farsi ricevere, chiedere
e inventare linguaggi nuovi nelle
relazioni con chi al mattino si era
ritrovato seduto ad una cattedra.
Poco a poco ricostruii il dialogo e
il riconoscimento reciproco con le
autorità: queste avevano bisogno di
noi, essendo ancora estranee al mondo
samburu. Mettemmo in atto una
strategia raffinata: fare in modo che
dessero quegli ordini che una volta
venivano da noi.
In cinque anni dovetti cambiare
molte idee e forma mentale: da maestro
mi ritrovai scolaro. Fu come ripercorrere
una vita intera. Toai
piccolo per crescere di nuovo, aggiustare
la mentalità, imparare cose nuove,
rivedere con misure diverse giudizi
e criteri, efficienza ed efficacia.

E FU UN CAPOLAVORO
Nel 1970 la Saint Mary’s Girls Primary
School di Maralal era una scuola
persa in tutti i sensi: il governo aveva
occupato tutto, scuola e convitto, per un litigio tra il parroco e il direttore
distrettuale, che era kikuyu: la
scuola si era riempita di kikuyu; i
samburu erano ridotti a 40 bambine.
Per prima cosa accettai la storia e
ristabilii le relazioni. Saint Mary’s fu
restituita e mi impegnai personalmente
nella ricostruzione. Cercai i
collaboratori; chiesi come direttrice
una suora conosciuta a Wamba.
Dopo cinque anni la Saint Mary’s
era diventata una scuola modello,
balzata in tutto al primo posto: per
insegnamento, profitto accademico,
sport e attività varie. Quando veniva
un personaggio, le autorità lo portavano
con orgoglio a visitare Saint
Mary’s.
Mai dimenticherò un pomeriggio
favoloso, quando le bambine tornarono
vittoriose dalle olimpiadi scolastiche:
le coppe elevate al cielo e il
coro fortissimo che cantava: «Siamo
le bambine di Ramponi». Mi viene
ancora la pelle d’oca.
Devo dire che il mio lavoro non fu
isolato. Con i padri del distretto dei
samburu avevamo creato una frateità
di dialogo e solidarietà. Ogni
mese ci incontravamo e parlavamo
di tutto: lavoro, difficoltà, organizzazione,
pastorale, cultura, progetti.
Ricordo quel tempo come una esperienza
bellissima di sintonia, apertura,
entusiasmo e forza apostolica.

AFRICANI URBANIZZATI
Al Capitolo generale del 1975 fui
scelto come delegato regionale e rappresentante
continentale nel comitato
di preparazione. In assemblea
passò l’idea di creare l’ufficio generale
di ricerca e pianificazione pastorale,
ma ebbe vita difficile per le
resistenze di vecchie prerogative.
Toai a Maralal deciso ad attuare
le indicazioni capitolari: dare visibilità
agli africani e noi missionari assumere
il ruolo dell’uomo invisibile.
Ma trovai l’opposizione di chi avrebbe
dovuto approvare ufficialmente
con coraggio e coerenza le
nuove vie dell’evangelizzazione.
Non potevo continuare in una situazione
superata e fuori della storia;
il parroco condivideva la mia posizione:
lasciammo Maralal per aprire
una missione a Mombasa, sull’Oceano
Indiano.
Si apriva così un nuovo capitolo di
esperienza missionaria: accompagnare
l’africano urbanizzato, cioè
sradicato dalla propria terra e mondo
monoculturale e passato alla città,
in una società pluriculturale.
Si trattava di una zona totalmente
musulmana, con cristiani provenienti
da altre regioni ed etnie del
paese, con relative differenze culturali
ed ecclesiali, con cattolici, protestanti
e tanti movimenti religiosi.
Il prete che prestava qualche servizio
religioso a piccole «colonie», ci
disse che i cattolici erano pochissimi.
Lo diceva a occhi chiusi. Abbiamo aperto
gli occhi e abbiamo contato
più di 6 mila cristiani.
Non avevamo niente. Radunammo
i cristiani in una scuola e cominciammo
a formare le piccole comunità
di base. Ciò facilitava la localizzazione
delle famiglie, raggruppate
in quartieri tribali. Nel campo sociale
mi dedicavo ad aiutare i bambini
poveri perché andassero a scuola.
Una mamma della parrocchia divenne
la cornordinatrice del movimento
«Elimu ni maisha» (educazione
è vita), con un comitato eletto
dalle mamme per la gestione del
progetto. Arrivammo ad avere 230
bambini e bambine, metà dei quali
musulmani. Era chiaro che non dovevano
esserci pressioni di sorta. Anzi,
si pagava una tassa extra per il
maestro di corano che insegnasse ai
bambini musulmani.
Con la gente eravamo abbastanza
affiatati. Si procedeva a misura d’uomo,
cercando di fare una lettura attenta
della realtà culturale, sociale,
politica e religiosa per non cadere
nell’errore di programmi troppo
grandi o fuori posto.
Quando il parroco venne trasferito,
dovetti prendere il timone. La sua
partenza lasciava un grande vuoto.
Avevamo lavorato con affiatamento:
i nostri stili divergevano, ma si completavano;
personalmente avevo bisogno
di lui. La gente soffrì per la
partenza: gli volevano bene; con lui
era facile dialogare.
Un caro amico, anche lui con esperienza
del Marsabit, venne ad
aiutarmi. Continuammo la costruzione
delle strutture parrocchiali. La
chiesa in mattoni era bella e accogliente;
quella di pietre vive anche
migliore: era una casa-famiglia, in cui
si lavorava insieme, sviluppando valori
e qualità specifiche di ogni persona.
La domenica era il giorno per
stare assieme. La settimana era dedicata
al lavoro, alla formazione della
comunità, agli incontri per cornordinare
la promozione umana.
Ma avevo nostalgia dei samburu.
Sarei ritornato volentieri, con decisioni
rinnovate e disponibilità. Mi fu
fatta, invece, un’altra proposta: andare
in Colombia, a Cartagena, tra
gli afro-americani, discendenti degli
schiavi evangelizzati da san Pietro
Claver. Iniziava così un terzo capitolo
di esperienza missionaria: dopo gli
africani in casa propria e
urbanizzati, mi trovavo tra
quelli in esilio.

Giuseppe Ramponi