AFRICA il calcio, una piccola grande risorsa

VITA… IN CONTROPIEDE
Da oltre 20 anni, centinaia di giocatori africani militano in squadre europee:
al di là del business e rischi connessi al mondo del pallone, questi atleti
si stanno rivelando una risorsa preziosa per il futuro del loro continente.
Lo sostengono gli autori di questo articolo, sintesi di una tesi di laurea
su «Lo sviluppo del calcio africano».

Una delle più importanti risorse
del continente nero è,
oggi, lo sport: non solo coraggiosi
e infaticabili maratoneti, anche
validissimi giocatori di calcio.
Negli ultimi anni, infatti, le rappresentative
africane di football hanno
raggiunto risultati invidiabili: primo
posto nelle ultime due olimpiadi, ad
Atlanta 1996 con la spettacolare Nigeria,
a Sydney 2000 con il Camerun
che ha sconfitto clamorosamente la
Spagna e sempre ottimi piazzamenti
nei toei inteazionali giovanili.
Di fronte a queste certezze, la Fifa,
la federazione internazionale di calcio,
ha aumentato i posti per le squadre
africane nella Coppa del mondo,
la massima competizione per squadre
nazionali. Nell’ultima edizione
nippo-coreana (estate 2002), hanno
partecipato Nigeria, Camerun, Tunisia,
Sudafrica e Senegal. La squadra
senegalese, osannata dagli addetti ai
lavori per organizzazione di gioco e
per individualità, è riuscita a eguagliare
il record del Camerun, datato
1990, approdando ai quarti di finale.
Le prime avvisaglie di raggiunta
solidità del calcio africano,
almeno agli occhi degli europei,
si rivelarono proprio nella Coppa
del mondo del 1982, conquistata
dai nostri azzurri. Azzurri che, nel girone
di qualificazione, faticano inaspettatamente
per strappare un pareggio
ai «leoni indomabili» camerunesi,
che mostrano un’incredibile
esuberanza atletica e impressionante
potenza fisica. In quell’edizione
fece bella figura pure l’Algeria, in
grado di sconfiggere il wunderteam
tedesco, che poi raggiunse la finalissima
assieme all’Italia.
L’attenzione per il calcio d’Africa
si fece, quindi, sempre più forte: la
stessa Coppa d’Africa, il toeo per
le nazioni, si scoprì prestigiosa vetrina
per gli osservatori di tutto il mondo
a caccia di giovani promesse.
Anche nel nostro paese, grazie alla
liberalizzazione dei trasferimenti
avvenuta negli anni ‘80, cominciarono
a sbarcare diversi atleti africani. Il
primo fu François Zahoui, ventenne
della Costa d’Avorio, paese che si rivelerà
inesauribile fonte di talenti,
acquistato nel 1981 dal vulcanico
presidente dell’Ascoli, Costantino
Rozzi. Del giocatore si perdettero le
tracce quasi subito.
Stessa sorte subirono molti altri atleti
che in quegli anni arrivarono in
Europa. Erano ragazzi abituati a un
calcio ben differente da quello europeo,
praticato fin da piccoli sulle
strade, a piedi nudi, in condizioni di
assoluta povertà, come sfogo per dimenticare
o nascondere mille problemi.
Pur essendo abili tecnicamente
e abituati a condizioni climatiche
estreme, trovarono difficile
adattarsi ai rigori del calcio business
e relative regole, tatticismi e durissimi
allenamenti. Tutti limiti difficili
da correggere ancora oggi.
Le difficoltà d’ambientamento
di questi atleti, provenienti da
realtà così diverse, che si portano
dietro costumi, usanze, credi, in
molti casi a noi sconosciuti, sono
spesso insuperabili. Il calciatore africano
resta, tuttavia, un atleta forte,
temprato alla sofferenza, adulto
fin da piccolo, disposto ad abbandonare
casa e girare il mondo pur di
coronare il sogno di sfondare nel calcio
che conta.
Citiamo la storia Mohammed Kallon,
pedina importantissima per l’Inter.
Nato a Free Town (Sierra Leone)
e adocchiato giovanissimo dalla
squadra milanese, fu costretto a
passare, ogni anno, da
una squadra all’altra per
«farsi le ossa»: oggi, ancora
ventiduenne e già da quotazione
stratosferica, Mohammed
è un attaccante affidabile,
certamente più freddo di
fronte alla porta, rispetto a
qualche tempo prima.
Ma non tutti hanno la fortuna
di Kallon. I rischi sono
numerosi: si può anche finire nelle
mani di procuratori senza scrupoli,
veri e propri bracconieri, che
strappano i giovani dalla famiglia
per pochi milioni, li portano in Italia
e in Europa e, in caso di rendimento
inferiore alle aspettative, li scaricano
velocemente, lasciandoli magari a lavorare
vicino a un semaforo.
È la cosiddetta piaga dello sfruttamento
dei baby-calciatori, che si crea
quando gli europei cominciano a interessarsi
ansiosamente alle risorse
sportive del continente nero.
Tale sfruttamento può facilmente
fare leva sulla voglia di evadere degli
stessi ragazzi: essi sanno che in Africa
hanno poche possibilità per maturare
e migliorarsi. Le federazioni
africane, dal canto loro, sono spesso
gestite da personaggi divisi da invidia
e ambizioni personali, i quali
sfruttano malamente il denaro ricavato
dalle sponsorizzazioni. Gli stessi
regimi dittatoriali, alla guida di
molti paesi, non favoriscono certo il
libero e armonioso sviluppo delle discipline
sportive e del calcio: molte
convocazioni nazionali sono dettate
da volontà politiche, ad esempio.
Èsempre la stessa storia, un circolo
vizioso: anche l’Africa
del calcio, carente di strutture,
impianti, tecnologie, esperienza,
con allenatori, tecnici e medici ancora
impreparati, avrebbe
bisogno dell’uomo
bianco
per migliorarsi,
evolversi e diventare
più
competitiva.

Ma dell’uomo bianco, purtroppo,
non c’è mai da fidarsi, dato che ha
già tante colpe per la precarietà e instabilità
delle strutture sociali del
continente in generale.
Ci sembra che anche su questa immensa
risorsa dello sport e, in particolare,
del calcio, ci siano violente intromissioni
da parte degli stranieri,
con modalità ancora di tipo colonialista.
Eppure la prima a trae beneficio
dovrebbe essere la stessa Africa.
Anche i presidenti dei più prestigiosi
club africani hanno colpe gravi
ed evidenti, non esitando a vendere,
a cifre modeste, i giocatori più interessanti,
per ingrassare velocemente
le proprie casse, senza aiutare lo sviluppo
generale delle loro città, non
solo calcistico.
Spesso questi personaggi comprano,
a poco prezzo, squadre di serie
A, per poi smembrarle con la svendita
dissennata dei tesserati al resto
del mondo, facendole retrocedere
rapidamente di categoria, fino a farle
morire.
Il calcio, è uno dei più potenti fenomeni
mediatici; ogni evento che
gli è collegato ha una cassa di risonanza
estesissima; ai padroni e grandi
multinazionali di abbigliamento
sportivo (tra l’altro accusate a più riprese
di sfruttare la manodopera infantile
dei paesi in via di sviluppo)
conviene investire anche nelle realtà
più povere, come quella africana.
L’ultima edizione della Coppa
d’Africa ne è un esempio: si è disputata
in Mali, uno fra i dieci stati più
poveri al mondo, grazie a ingenti finanziamenti
francesi e cinesi, che
hanno consentito la costruzione di
imponenti impianti sportivi.
Ma il contatto con la cultura occidentale
è sempre rischioso, conduce
a compromessi pericolosi. È certo innegabile
che l’arrivo di molti allenatori
di stampo europeo nel continente
nero sia un fatto positivo: i nostri
Scoglio, Dossena, Mattè, Bersellini,
per esempio, hanno offerto il proprio
bagaglio di esperienze a squadre della
Tunisia, Ghana, Mali e Libia.
È altrettanto giusto ricordare che
gli stessi giocatori africani, militanti
in Europa, portano esperienza alle
proprie federazioni e squadre nazionali.
Sono centinaia, ormai, i giocatori
africani (camerunesi, nigeriani,
ghanesi, avoriani, senegalesi, tunisini,
marocchini, mozambicani, sudafricani),
insediatisi in Europa e soprattutto
nelle nazioni colonizzatrici,
Francia e Portogallo in testa.
Molti di questi hanno fatto fortuna,
vantano contratti principeschi e,
imitando i loro colleghi europei, reclamano
ricchi premi anche quando
giocano nelle proprie nazionali.
Quando si parla di calcio africano,
quindi, non bisogna fare troppa poesia,
pensando solo ai bimbi scalzi
che tirano calci nelle paludi a palloni
sgonfi. In Africa il calcio ha fatto
molta strada, sebbene difficilmente
potrà raggiungere quello europeo,
semplicemente per questione di risorse.
La stessa Fifa, in questi anni,
ha sprecato capitali in feste ed eventi
allo scopo di sviluppare nuovi progetti
in Africa.
In fondo, però, dobbiamo ammetterlo,
speriamo che questo
tipo di calcio non si occidentalizzi
troppo e conservi quella genuinità
e allegria che sinora lo ha contraddistinto.
Da un certo punto di vista, lo stesso
Senegal, protagonista di questi ultimi
mondiali, può essere criticato
perché, avendo tutte le potenzialità
per andare oltre i quarti, non ci è riuscito
forse per mancanza di ferrea disciplina:
i giocatori sono stati lasciati
troppo liberi nel ritiro e si è lasciato
spazio a feste, balli, cerimoniali.
D’altronde, è proprio grazie a questo
spirito che è riuscito a mostrare il
gioco più spumeggiante e divertente,
rimanendo al tempo stesso tatticamente
molto accorto, come una qualsiasi
nazionale europea dalla lunga
tradizione. E non per caso, dal momento
che quasi tutti i suoi atleti militano
nel campionato transalpino.
Mettendo da parte per un attimo
il calcio-business, vogliamo ricordare
come lo sport, il calcio, contribuiscano
alla realizzazione di progetti in
zone degradate dell’Africa, per lo
sviluppo non solo atletico, ma anche
culturale ed educativo dei ragazzini.
Naturalmente, alcuni di questi
progetti, magari finanziati da blasonati
club europei, non nascondono
l’obiettivo di scovare e allevare campioni
da far sbarcare in Europa; ma
molti altri sono votati alla mera beneficenza.
Gli stessi giocatori africani,
che in Europa hanno fatto fortuna
e miliardi, sono spesso coinvolti
in tali iniziative. Ne è un esempio
George Weah, prodigatosi come attivo
finanziatore, oltre che giocatore-
allenatore, per la propria nazionale,
la Liberia, paese stremato da fame
e da guerra. Anche per questo è
riconosciuto il più grande calciatore
africano di tutti i tempi; più di Roger
Milla che, a 38 anni, a suon di
goals, aveva portato il Camerun ai
quarti di finale nei mondiali del ‘90.
Weah ha fatto vincere tanto al Milan,
da essere insignito del pallone
d’oro, massima onorificenza per un
giocatore che milita in Europa, e diventare
un simbolo dell’espressione
calcistica africana
nel vecchio continente.

Gaetano Farina Malù Mpasinkatu




MGONGO (TANZANIA) tra i ragazzi di strada

LA CASA CHE RESTITUISCE I SOGNI

Iniziata con una ventina di ragazzi di strada,
oggi la Faraja house (casa della consolazione)
ne accoglie 130, con storie di emarginazione
che stanno diventando storie d’amore e solidarietà:
le racconta l’iniziatore di quest’opera.

Il 1° maggio del 1997, a Mgongo,
periferia di Iringa, c’era un edificio
con un gruppo di 11 bambini:
nasceva così la Faraja house (casa
della consolazione) per i ragazzi di
strada. Oggi è un grande villaggio
con tante case e casette, scuola elementare,
scuola tecnica, dispensario,
strutture per allevamenti e, al centro
del tutto, una bella chiesetta. E poi
tanti bambini e ragazzi di ogni età, figli
della miseria e abbandono. Le loro
storie sono una litania di abusi, fame,
furti, prigione… lotta per la sopravvivenza.

Il nostro diario è pieno di racconti
e avvenimenti, successi e insuccessi,
ma sempre conditi d’amore ed entusiasmo,
nonostante tutto.

VOGLIA DI CAREZZE
I primi arrivati ora sono «giovanotti
» e frequentano i corsi tecnici o
o le scuole superiori. Abi è uno di essi:
una storia dura per lui e per me;
un cammino difficile, ma fruttuoso.
Era un bambino pauroso e introverso.
Dodicenne era già condannato
a sette anni di carcere per aver rubato
una radio. Dopo due anni riuscì
a scappare. Vagabondò per un
altro anno, finché fu accolto in un
centro per ragazzi di strada che, sotto
il nome di Ong, ancora oggi sfrutta
bambini con impunità e la connivenza
di qualche pezzo grosso. Raccontava
che là picchiavano sodo e si
mangiava poco.
Scappato dalla casa di accoglienza,
Abi si fece altri sei mesi in galera
a Iringa; poi fu trasferito al carcere a
Mbeya. Riuscì quasi subito a evadere,
ma fu ripreso e sottoposto a botte,
lavoro, fame e castighi. Riuscì
nuovamente a evadere e fuggì a Iringa
dove si aggregò a una piccola banda
di ragazzi che vivevano di espedienti:
diventò maestro di furti e bugie
per sopravvivere.
Arrivò a Mgongo nel luglio del ‘97.
Mi raccontò la «sua» storia, quasi
tutta inventata: diceva che i genitori
erano morti quando lui era piccolo;
ma si lasciò sfuggire il nome del villaggio
d’origine, lontanissimo, nel
nord del Tanzania. Riuscii a risalire
alla famiglia attraverso il parroco del
luogo: suo padre pretendeva che il
figlio tornasse in prigione. Decisi di
tenermelo senza far sapere dov’era.
Dopo mesi arrivò la mamma, avvertita
in segreto. Era partita da casa
con uno stratagemma, perché il marito
non sapesse. S’informò del figlio,
che non vedeva da tre anni. Raccontò
che il padre lo odiava visceralmente,
perché il bambino era un ladruncolo
fin da piccolo. Una volta gli bruciarono
le mani, legate con erba secca;
ma non era servito a niente.
Quando Abi vide la mamma si
voltò dall’altra parte e si rifiutò di salutarla.
Mi sussurrò: «Quando ne avevo
bisogno, lei dov’era?». Era solo
un bambino abbandonato e «stanco
», ma con tanta voglia di carezze.

IN CERCA DI RADICI
Alì è uno degli ultimi arrivati. Lo
incontrai al mercato mentre ero in
giro con amici di Torino. Era affamato,
sporco, cencioso. Lo avvicinammo
e fummo subito circondati
da una turba di ragazzi e giovani habitué
del mercato che mi supplicarono
in coro: «Baba Faraja, prendilo
con te, perché è troppo piccolo e
non riesce a sopravvivere».
Guardai gli amici e lo invitammo
a salire in auto per parlargli con più
calma. Chi sei? Da dove vieni? Hai
parenti? Dalle poche parole che
riuscii a tirargli fuori, seppi
che aveva un padre e abitava
nei sobborghi della
città, l’ultima casa ai piedi
della montagna. Decidemmo
di andarlo a
trovare, anche se avevamo
fretta: stava per
scendere la sera. La capanna
era chiusa. Si avvicinò
un giovane e gli
chiedemmo informazioni. Arrivò una
donna che, dopo lunghe spiegazioni,
si presentò come «zia». Quante zie in
Africa. Risulterà poi essere la matrigna.
Il bimbo era spaurito. Pareva avere
8-9 anni; ma la zia disse che ne aveva
almeno 15. Ci spiegò che il padre
era al kilabu (osteria). Lo incontrammo
per strada: era ubriaco.
A vedere il figlio con dei bianchi,
l’uomo si spaventò e cercò di spiegarci
che «lui non c’entrava»: aveva
solo collaborato a metterlo al mondo;
la madre se n’era andata e non si
era fatta più vedere; per questo il ragazzo
era con la «zia».
Domandammo anche a lui quanti
anni avesse il figlio. Rispose che ne
aveva 17. Era chiaro che, passata la
sbornia, lo avrebbe fatto ringiovanire.
Lo invitammo a venire
al centro la domenica
seguente, per
foirci, a mente
lucida, altri chiarimenti,
ventilando,
se non si fosse
presentato, un’eventuale
denuncia
alla polizia per abbandono
di minore.
Per questo ci affidò il
figlio molto volentieri. A casa cominciò
un arduo lavoro di restauro
per renderlo presentabile: era pieno
di vermi, scabbia, pidocchi e altro.
Alì ha 12-13 anni, ma non li dimostra.
La madre morì quando ne aveva 2.
Se n’era preso cura una zia, vecchia e
sola, ma poco dopo lo aveva riportato
al padre: cominciò per lui una tremenda
vita di stenti, vagabondaggi,
fame, botte; finché andò a vivere sulla
strada.
Ora Alì va a scuola. Vuole rompere
col passato: si fa chiamare Rich, come
il protagonista di un film. Almeno
i sogni nessuno glieli può rubare.
È arrivato anche Fabian, amico inseparabile
di Alì-Rich: la notte dormivano
in un mucchio di crusca vicino
ad un mulino per tenersi caldi e
nascondersi; di giorno, in giro a cercare
di che sfamarsi, raspando tra i
rifiuti del mercato. Rimasto solo alla
stazione delle corriere, è venuto pure
lui, piuttosto malconcio, a chiedere
di essere accolto alla Faraja.
Fabian era scappato da casa dopo
la morte della madre. Veniva da molto
lontano, oltre 300 km da Iringa,
da qualche paese dell’Ukinga, di cui
non ricorda il nome. Per tre mesi, a
piedi, vagabondò di villaggio in villaggio.
Da 5 anni faceva vita da randagio
per le strade di Iringa.
Ho fatto delle ricerche, ma è stato
come cercare un ago nel pagliaio: il
suo cognome, Sanga, in quella zona
è comunissimo. Ora è con noi, senza
radici; ma ha ritrovato l’amico e una
casa per sognare. Ha solo 12 anni.

CARCERE DELLA VERGOGNA
La domenica molti ragazzi di strada
della città vengono alla Faraja per
lavarsi, mangiare e giocare con i nostri;
verso sera li riportiamo sulla
piazza del mercato. Intanto mi faccio
raccontare le loro storie. A seconda
dei casi, cerco di rintracciare
i parenti; li aiuto ad andare a scuola;
li tiro fuori dalla prigione. Con qualcuno
ci sono riuscito.
Anche Dicki, sorriso accattivante e
ladruncolo imbattibile a12 anni, mi
ha raccontato la sua storia di violenze:
arrestato per vagabondaggio, fu
buttato in prigione e rinchiuso in un
camerone con 52 adulti. Due di loro
l’hanno ripetutamente violentato di
fronte agli altri, senza che nessuno si
sia mosso a pietà delle sue grida.
Il giorno dopo il suo racconto, feci
irruzione nell’ufficio dell’assistenza
sociale con tanta rabbia in corpo
e grande sconforto: gli addetti a tale
ufficio fanno poco o niente; d’altronde
sono pochi, quasi senza mezzi
e con meno voglia e autorità.
La rabbia più forte la scaricai sul
capo delle prigioni: un omone mellifluo
e panciuto, da gran bevitore,
che, tra le altre cose, mi disse vigliaccamente
che ragazzi come Dicki
ci sono abituati e ci stanno. Mi viene
da credere che sia tutto combinato:
che ogni tanto arrestino qualche ragazzino
della strada per darlo in pasto
ai carcerati.

SOLIDARIETÀ DEI POVERI
Pochi giorni fa, passando per il
mercato, trovai una grande folla che
vociava e sghignazzava. M’informai
e mi dissero che stavano picchiando
un piccolo ladro. Sceso dall’auto, mi
avvicinai. La folla aprì un varco; tutti
mormoravano: «Baba faraja». Arrivato
sul luogo della scena, vidi che
alcune «guardie» del mercato stavano
bastonando Jonny e un energumeno
lo prendeva a calci in pancia,
mentre Tray cercava di frapporsi col
suo corpo e invocava pietà.
La mia presenza fermò i bastoni; i
ragazzi mi spiegarono l’accaduto:
Jonny aveva voluto aiutare un europeo
a portare la borsa per guadagnarsi
qualche soldo; ma qualcuno
aveva frainteso il gesto e si era messo
a gridare: «Al ladro! Al ladro!».
In tali occasioni tutti si trasformano
in «giustizieri» e diventano spietati,
fino a uccidere il malcapitato a
botte, oppure gli legano le mani, gli
infilano al collo un vecchio copertone
inzuppato di petrolio e danno
fuoco. È successo pure che a qualcuno
hanno bucato gli occhi.
Presi per mano i due ragazzi, veramente
malconci, e li portai all’ospedale.
Ancora oggi, Jonny e Tray
portano in faccia e sulle gambe i segni
di quelle botte. Tray ne è fiero:
«Solidarietà tra reietti!».
Questi bambini sono i famosi «ultimi
» del vangelo, destinati a «primi
». In certe occasioni si risveglia il
buon cuore anche dei più monelli,
tanto che bisogna frenarli. Nell’ultima
quaresima, per esempio, alcuni
ragazzi decisero in assemblea di «dare» qualcosa ai più poveri di loro. Le
idee erano tante: una delle squadriglie
(così sono organizzati i 130 ragazzi)
propose di rinunciare alla colazione
del mattino e dare l’equivalente
in denaro. Alla fine fu deciso
che il giovedì pomeriggio, invece della
solita partita a pallone, avrebbero
raccolto pietre da costruzione sulle
montagne vicine per poi venderle.
Per me il giovedì pomeriggio si trasformò
in un incubo, al vedere i fianchi
della montagna brulicare di bambini
e ragazzi che facevano rotolare
a valle grossi massi, preceduti e seguiti
da tante ansiose raccomandazioni.
Tra l’altro, temevo che da sotto
i massi uscisse qualche serpente,
anche se non credo che i ragazzi si sarebbero
spaventati più di tanto.
Ne raccolsero tre camionate. Il ricavato
lo usammo per aggiustare la
casetta di Huruma, un’orfana di 12
anni, che vive con la nonna cieca: oltre
ad accudirla, trova il tempo di andare
a scuola.

ADULTI DA SENSIBILIZZARE
Il numero dei ragazzi di strada
continua ad aumentare, anche a causa
dell’Aids. Orfani a causa di tale
pestilenza, essi non sono più assorbiti
nel tessuto sociale dei villaggi,
perché sono diventati troppo numerosi;
non resta loro che sciamare per
le strade delle città, organizzarsi in
bande e diventare facilmente piccoli
delinquenti.
È difficile trovare per tutti una soluzione
definitiva. Intanto, abbiamo
fretta di aprire un ufficio in città: un
centro di prima accoglienza o di primo
soccorso dei bambini in difficoltà
e, al tempo stesso, un mezzo
per spiegare e sensibilizzare gli adulti,
le comunità parrocchiali e i «capoccia
» di ogni genere, perché passino
dal disprezzo e paura a capire,
aiutare e (perché no?) amare
anche questi «figli di
Dio» meno fortunati.

Franco Sordella




PERÙ storie di immigrazione dal Sud del mondo

E NULLA
LI POTRÀ FERMARE
Arrivano travestiti da turisti o da uomini d’affari. Chi non può, attraversa
a piedi le frontiere. Spesso hanno un titolo di studio, che non possono
utilizzare. Si adattano a qualsiasi lavoro, vivendo nell’ombra, in attesa
di tempi migliori. Ora la legge Bossi-Fini è entrata in vigore, ma né
le frontiere né le leggi fermeranno chi non ha niente da perdere.

Tanti anni fa mi chiamarono
per andare a visitare
una persona anziana.
La donna era diabetica,
con una gamba amputata e aveva
problemi cardiaci. Morì
dopo pochi mesi. Si chiamava
Elena Rossi ed era nata a Genova.
L’unica cosa particolare
di questo breve e sbiadito ricordo
è il luogo.
La signora Elena viveva in una
decrepita catapecchia di esteras,
plastica e cartoni nel deserto
su cui si stava sviluppando
Villa El Salvador, alla
periferia estrema di Lima, in
Perù.
Poco distante, a Tablada de
Lurin, avevo avuto modo di
sorridere alla visione di una casa
che con il tempo era diventata
parte del paesaggio. Si
trattava di una casetta normale,
se si esclude la particolarità
di un cancello sormontato da
un grande ponte di Rialto, in
cemento armato, che fungeva
da trave. Non era una grande
opera. Anzi, direi che era di
cattivo gusto. Il proprietario
della casa – mi avevano raccontato
– era un orologiaio italiano che lavorava in una baracchetta
alla chancheria, il mercato centrale
di Villa El Salvador. Era fuggito
dall’Italia alla caduta del fascismo.
Se questi erano gli emigrati nostrani
che non avevano sfondato, Lima
invece è piena di segni del passaggio
di italiani. Una delle scuole
straniere più famose della capitale è
l’istituto italiano Raimondi, il dolce
tipico di natale è il panettone, si
mangiano spaghetti Molitalia e Nicolini,
i gelati principali portano il
nome D’Onofrio e – cosa scandalosa
per noi, ma devo dire molto appetitosa
– un piatto tipico di Lima è il
«musciame». Il musciame, vietatissimo
in Italia, è di origine genovese
(con lo stesso nome) e lo si può incontrare
ancora in ristorantini di
Chorrillos e Baranco. Si tratta di
«sfilaccetti» di delfino secco, conditi
con limone, e che a Lima ti servono
con fettine di avocado (assomigliano,
ma con un sapore più forte,
alla bresaola).
Insomma, a Lima ed in Perù, gli italiani
per lo più hanno sfondato eccetto
la signora Rossi di Genova, l’orologiaio
del ponte di Rialto ed il
mio amico Carlos Tozzi.

«NIENTE VISTO,
RIPROVI FRA TRE MESI»

Carlos è della selva, di Lamas, vicino
a Tarapoto. Il suo cognome,
Tozzi, è tipicamente italiano e lui si
arrabbia se lo chiamiamo charapa,
come vengono soprannominati gli
indigeni della zona. Ci ricorda infatti
che suo padre era maestro, che
vivevano nella «Plaza de armas» di
Lamas e che ha lontane origini italiane.
Carlos è una persona normale. Vive
a Villa El Salvador, possiede un
piccolo commercio di elettronica e,
fra gli alti e i bassi della sua attività,
si è dovuto far carico dei fratelli che
ha preso a lavorare con lui.
I fratelli sono cresciuti, ma il paese
(sempre in crisi economica) non
ha permesso a Carlos di sviluppare
il suo piccolo commercio. I fratelli,
insoddisfatti dello stipendio, hanno
cominciato a pensare di emigrare e
Carlos, spinto dalle pressioni della
famiglia, si è trovato a dover organizzare
e finanziare questo viaggio
della speranza.
Già un fratello di sua moglie era emigrato in Italia da alcuni anni, raggiungendo
la fidanzata (partita prima
di lui) e, quindi, una base di esperienza
già c’era. Il cognato di
Carlos, dopo quasi 10 anni di clandestinità
passata come cameriere in
una casa di lusso dell’Olgiata a Roma,
era riuscito ad ottenere il visto.
Ora, quando torna in Perù, prende
la famiglia ed offre loro un viaggio
in una zona turistica: non ne vuole
più sapere della povertà della periferia
di Lima. Si è comprato una casa
a Roma che affitta, per stanza, ad
altri peruviani. E lui continua a vivere
e lavorare all’Olgiata.
Un anno fa dissi a Carlos che non
ce l’avrebbe fatta a mandare i suoi
due fratelli in Italia, perché i controlli
erano rigorosi ed i visti quasi
impossibili. I due fratelli sono invece
tranquillamente nel nostro paese.
Clandestini, lavorano in nero e spediscono
soldi in Perù.
Bossi, Fini e Berlusconi hanno fallito
con i miei amici peruviani.
Grazie invece al nostro governo e
al Consolato italiano di Lima, non
sono riuscito a far viaggiare, per un
mese di vacanza in Italia, la mia figlioccia
che, finite le superiori, si era
iscritta a medicina a Lima. Sua
madre, professoressa universitaria
peruviana, è stata respinta dal Consolato,
pur potendo dimostrare il
suo stipendio (decente per il Perù,
anche se indecente per l’Italia), l’iscrizione
in un’università privata
della figlia e la mia lettera d’invito,
nella quale mi facevo carico dell’alloggio
e di ogni possibile spesa. Le
hanno detto: «Niente visto, riprovi
fra tre mesi… Fate tutti così e poi rimanete
in Italia».
Allora come ce l’hanno fatta i fratelli
di Carlos?

LA DISPERAZIONE
AGUZZA L’INGEGNO

Come ce la fanno le altre migliaia
di peruviani che viaggiano in Europa
e rimangono come clandestini?
(Si parla di 30.000 passaporti nuovi
emessi ogni mese in Perù e… certo
non per turismo).
I metodi sono tanti e vengono accuratamente
scelti in base alle caratteristiche
delle persone e delle variazioni
che si osservano nei paesi
europei.
Me ne hanno raccontati alcuni.
IL RICCO TURISTA
Si compra un tour, alberghi compresi,
per andare a visitare la Terra
Santa. Il viaggio prevede però una
sosta ad Amsterdam di due giorni,
perché non vi sono coincidenze immediate.
Viene rilasciato il «visto
Schengen» (vi aderiscono 15 paesi
europei, ndr) per la sosta, si va all’albergo
prenotato nella città olandese,
ci si riposa e, dopo una bella
doccia, si prende il primo aereo per
Roma. Arrivati alla dogana, ti chiedono
il perché di questa deviazione.
Rispondi che, avendo due giorni di
tempo, ne approfitti per visitare anche
il papa. Poi, fuori dell’aeroporto,
c’è qualcuno che ti aspetta. Lo
segui in silenzio fino alla macchina e
quindi sparisci.
IL MANAGER
Si sa che un manager deve poter
viaggiare e che il «negozio» non ha
frontiere. Il problema è che non tutti
sono manager. Bisogna allora scegliere
una piccola società (basta un
negozietto) che abbia la sede in un
buon quartiere di Lima (Miraflores
e San Isidro sono i più gettonati). Si
nomina la persona candidata a trasformarsi
in «emigrante clandestino» direttore generale. Con un documento
falso si dimostra l’elevato
stipendio dello stesso, e si chiede il
visto per un viaggio di affari.
Nel Consolato di uno dei paesi
Schengen (il paese viene cambiato
a seconda dell’aria che tira e ultimamente
mi dicono che venga utilizzata
spesso la Grecia) si ottiene il
visto e poi, arrivati in Europa, si
sparisce.
L’AVVENTUROSO
Forse questo modo di viaggiare è
meno caro degli altri. Conosco una
ragazza che è andata a lavorare a Milano,
passando per la Croazia e di là,
via terra, in Italia. Un altro è partito
per il Marocco e, non so per quali
vie, è arrivato in Italia.

VITA DA CLANDESTINO
Che fanno il ricco turista, il manager,
l’avventuroso una volta arrivati
in Italia?
Appoggiati da contatti in loco
(spesso familiari), un lavoro in nero
lo riescono a trovare. Di frequente
nelle case (i camerieri e le cameriere
peruviani sono molto apprezzati), in
piccole e medie imprese (ne conosco
uno che lavora in nero in una
concessionaria di una grossa società
di automobili). Ne ho conosciuto un
altro, che è riuscito a sposarsi con una
postina italiana di un’isola della
laguna di Venezia.
In Italia bisogna rigare dritto. La
vita deve essere tutta casa e lavoro,
evitare assembramenti, i locali dove
si riuniscono i peruviani, non creare
problemi, arrangiarsi se si sta male
e attendere l’occasione per diventare
regolare.
Carlos mi diceva che non capiva
perché i suoi fratelli se ne andassero
a cercare fortuna altrove. In fondo
un lavoro ce l’avevano e bastava aspettare
che l’economia si riprendesse
per migliorare la loro condizione
economica. Mi confessava che
non capiva come uno che avesse un
certo livello di studio, una certa responsabilità
nella gestione di una
piccola impresa, moglie e figli, decidesse
di abbandonare tutto per andare
a cambiar gomme alle auto o a
pulire i gabinetti di qualche ricca famiglia
italiana.
Poi però, riflettendo, confessava
che mentre suo cognato, pulendo i
cessi in Italia, era riuscito a comprarsi
un’auto e una casa a Roma, a
tornare a Lima ogni due anni e a fare
il signore, lui laureato ed impresario
in Perù stentava a tirare avanti.
«Questo è il problema – mi spiegava
– i nostri emigrati sono giovani
che hanno perso la speranza di un
futuro nel proprio paese». Quello
che cercano in Italia e in Europa è la
prospettiva di un domani diverso e
per questo sono disposti a pagare un
prezzo pesante: abbandonano mogli
o mariti, figli, affetti, dignità professionale,
ed accettano qualunque
lavoro.
«Un eventuale fallimento – mi diceva
Carlos -, la possibilità di un’espulsione,
l’andare come clandestini,
il pagare 5.000 dollari per viaggiare,
la vita di segregazione nei
vostri paesi, sono il prezzo da pagare
nella ricerca di una speranza e
quindi non sono un vero ostacolo».

ANDATA E RITORNO
Basta sedersi davanti alla mia casa
a Villa e parlare con i vicini per capire
molte cose e ascoltare tante storie.
L’Argentina sicuramente è stata una
tragedia per i peruviani. Un giorno
José bussò a casa e, con grande
vergogna, ci chiese 10 dollari. Sua
madre, in fuga dal disastro dell’Argentina,
era rimasta bloccata con il
pullman di linea a causa di una gran
nevicata su un alto passo ai confini
fra Argentina e Bolivia. Non aveva i
soldi per mangiare e se li era fatti
prestare da una compagna di viaggio.
Era partita solo un anno prima,
sbagliando i calcoli e trovando
un’Argentina senza possibilità di
darle un lavoro.
Roberto, ragazzo intelligente ed
inquieto, era riuscito a lavorare come
portiere in un’impresa televisiva
a Buenos Aires. Si era fatto raggiungere
dalla fidanzata e aveva messo su
casa. Poi il disastro argentino, il lavoro
perso e il ritorno a casa, a Villa
El Salvador. Ora vaga per il quartiere,
ben vestito, insoddisfatto della
povertà che lo circonda e pronto a
ripartire. Questa volta però per
l’Europa.
Gli Stati Uniti sono un’altra meta
desiderata e sognata.
La famiglia del farmacista Juan ha
mollato tutto. Prima un figlio in
Francia, poi anche l’altra figlia, infine
loro due, marito e moglie, li hanno
raggiunti, ma Eduardo no. Lui era
stato sempre un ribelle, elegante
e affascinante. Si era comprato una
bella macchina: aveva lavorato come
guardia del corpo in Perù e non
voleva andarsene. Poi qualche problema
con la coca, i primi figli, la crisi economica sempre più profonda
e la decisione di andare (anche lui!)
negli Stati Uniti. Un lavoro da scaricatore
(non riesco ad immaginarmi
questo ragazzo elegante e ribelle a
scaricare camion). Poi, con l’11 settembre,
l’impresa è stata colpita dalla
crisi, ma lui ha resistito, pur avendo
perso il lavoro. È riuscito a trovae
un altro e a chiamare moglie e
figli che poco tempo fa sono partiti
da Villa El Salvador per raggiungerlo
negli Stati Uniti.
Potrei ancora raccontarvi del difficile
anno di Sara a Milano, clandestina
e prigioniera in una casa borghese,
dove lavorava per una piccola
mancia quotidiana: schiava e
prigioniera. Una bella ragazza di poco
più di vent’anni, figlia di un amico
di Villa El Salvador, che mi aveva
pregato di aiutarla. Gli avevo
spiegato che non potevo fare granché,
ma gli avevo dato il mio indirizzo
e il numero di telefono per ogni
possibile problema.
Ogni tanto Sara mi telefonava. Si
sfogava, mi raccontava di come era
maltrattata e di come non poteva
reagire, perché minacciavano di denunciarla.
Non ce la fece a resistere
e toò in Perù. Adesso sta bene: si
è sposata ed è tornata serena. Ma
non vuole parlare di quell’anno trascorso
in Italia.

«PERÒ VIVONO»
Ci sono anche persone più fortunate.
Maria che si è sposata con un
francese e ora vive a Parigi; Feando
e Jorge che si sono sposati con
due spagnole e adesso vivono a Madrid
uno e a Barcellona l’altro. Certo
le loro parole sono piene di nostalgia
e i loro lavori non sono al livello
della preparazione e capacità.
Però vivono.
Specialmente Jorge è rimasto
sconvolto dallo scoprire la povertà.
Piangendo l’ho sentito raccontare la
povertà della vita e della morte dei
suoi genitori, della tubercolosi di un
suo fratello. Era la sua stessa povertà,
ma l’ha scoperta vivendo in
Spagna. Sono stato a casa sua a
Barcellona, bella, modea, con
tutto il necessario, ben diversa
dalla casetta della sua famiglia a
Villa El Salvador. Jorge è triste
e rimpiange la sua gente. Ma
non toerà.
Se solo potessi raccontarvi la
storia di Feando che in Perù
sognava di essere giornalista.
Ma non posso, perché neanche
lui vuole raccontarla. La conosco solo
grazie a due notti passate nella
stessa stanza d’albergo a Barcellona,
a qualche bicchiere di birra bevuto
insieme passeggiando per las Ramblas
e ad una parte di storia vissuta
con lui nel ruolo di «complice».
Ha attraversato le frontiere di
mezza Europa nascosto nel bagagliaio di un’automobile, venduto
palloncini nel Parque del Retiro di
Madrid, mangiato nelle mense dei
poveri, dormito agli angoli delle
strade. Ha fatto il «vu’ cumprà», e
poi lentamente è risalito per la china
di una vita che si è dovuto conquistare
palmo a palmo, fino ad iscriversi
all’università, a lavorare
come giornalista in un grosso periodico
di Madrid, e poi, perso il lavoro
per una crisi del giornale, a riciclarsi
come assistente di anziani.
Con lui sono in contatto settimanalmente
per E-mail.

CHI TROVA
LE FRONTIERE APERTE?

Chissà quale sarà la storia delle
persone che incontriamo quotidianamente
e che, genericamente, cataloghiamo
come «extracomunitari
». Sarà simile a quelle dei miei amici?
Una volta, nella bella città dove vivo,
Venezia, ero andato a comprare
il latte con mio figlio di 5 anni. Dentro
il negozio, c’era un grande, grosso
e nero «vu’ cumprà». Quella volta
non riuscì a trattenere un largo
sorriso di fronte a mio figlio e mi disse:
«Nel mio paese facevo il maestro,
i bambini sono belli in tutto il mondo
»! e se ne andò via con il suo borsone
pieno di borse contraffatte,
senza aspettare una mia risposta che
peraltro non avevo.
I transessuali peruviani viaggiano
tranquillamente e costantemente fra
Lima e Milano, dove svolgono il loro
«apprezzato» (inutile negare l’evidenza)
commercio e da Milano
portano l’Aids in Perù insieme a
manciate di soldi (tre di loro erano
nei sedili posteriori del volo Iberia
che a giugno mi riportava in Europa).
I commercianti di droga, le mafie
della prostituzione, i delinquenti incalliti
di tanti paesi possiedono ottimi
visti e per loro le frontiere sono
sempre aperte.
Come spiegare queste cose a Pamela,
la mia figlioccia di 17 anni?
Lei mi disse con candido stupore
che non capiva. Non capiva perché
io potevo viaggiare quando volevo
in Perù ed invece lei era respinta dall’Italia
per il suo sogno di una vacanza
promessa da tanti anni.
Aveva scoperto quella stupida e inutile
ingiustizia che le peserà per
tutta la vita (perché io sempre sarò
europeo e libero e lei peruviana e
prigioniera).

L’ILLUSIONE
DI CONTROLLARE IL MONDO

I ragazzi alla ricerca di una speranza
viaggeranno comunque. Passeranno
per il Marocco, la Slovenia,
la Turchia, la Grecia. Saliranno su
carrette del mare. Attraverseranno
le frontiere nascosti in camion o nei
bagagliai delle auto e, se verranno
trovati, saranno espulsi, ma sicuramente
ci riproveranno. E, quando
saranno vecchi, lo faranno i figli e
poi i figli dei figli.
No, Bossi, Fini e Berlusconi e la
maggioranza dei miei compaesani si
stanno illudendo. Le frontiere non
bloccano chi non ha niente da perdere
e cerca solo una speranza per
il proprio futuro. E non bastano pochi
aiuti ai loro paesi per evitare la
loro migrazione, perché – contrariamente
a quanto si crede – non sono
gli affamati che tentano l’avventura.
Bensì tutti quelli che nel loro paese
non hanno una speranza di un futuro
diverso.
Sono proprio loro, questi giovani
senza speranza, pericolosi, fastidiosi
immigrati che vengono a sconvolgere
le nostre illusioni
di poter controllare
il mondo.

Guido Sattin




I grandi missionari: Giovanni Bonzanino MILLE E UN SOGNO

Giovanni Bonzanino

Missionario di frontiera, irresistibilmente attratto dal più difficile,
lontano e bisognoso, padre Giovanni Bonzanino moriva a Shashemane
(Etiopia) 20 anni fa, il 30 gennaio 1983. Amò la «sua Africa» con
passione contagiosa, fino a consumarsi a soli 56 anni.
«Non sono nato in Africa.
Questo mi dispiace un
poco. Avrei voluto essere
sfornato in questa verde, dolce, ubertosa
Africa, dove si viene al mondo
inguantati in un’ambra vellutata
e soave e la vita scorre smorzata come
un venticello che sfarfalla tra ramificazioni
di alberi giganteschi».
Così inizia una specie di diario in cui
padre Bonzanino racconta l’esperienza
dei suoi primi anni in Africa.

SOGNANDO L’AFRICA
«Invece sono nato a Biella» continua.
Era il 29 gennaio 1927. Prima
ancora che venisse al mondo, sua
madre lo aveva offerto alla Madonna,
conservando quel segreto per 30
anni, fino a quando visitò il figlio in
Kenya: padre Giovanni l’abbracciò,
sollevandola da terra e, in un impeto
di gioia, le disse: «Mamma, quel
giorno mi hai fatto il più bel regalo».
Alberta Maria era una donna che
«sapeva il fatto suo, dai battibecchi
con le vicine al far filare dritto i figli,
dallo speculare fino all’osso per sbarcare
il lunario a lavorare in fabbrica
e passare tra posti di blocco in bicicletta
con un carico di granoturco».
Papà Vittorio non era da meno.
«Tutto casa e lavoro, vecchio socialista,
dovette assoggettarsi a portare il
fez in testa per campare, rischiare la
galera per racimolare due chili di farina
al mercato nero, poiché il pane
della tessera finiva troppo in fretta».
Erano i tempi duri del fascismo e
della seconda grande guerra. Ciò
non impedì al piccolo Giovanni di
coltivare sogni e avventure, come un
ragazzo normalissimo. Nei tempi liberi
dalla scuola faceva qualche lavoretto
in fabbrica, per arrotondare
il bilancio familiare. In classe si appassionava
di storia e geografia, ma
era allergico alla matematica. «Non
fui mai uno sgobbone – confessa -. La
mia specialità era il pallone e il tifo
per la Juventus: primo amore che mi
portai in Africa come un soldato il
suo fucile».
A volte, con la banda del quartiere,
marinava la scuola per esplorare
la campagna o alleggerire la pianta di
fichi nell’orto del prevosto. «Un
giorno Tavio, il vecchio sacrestano,
mentre si riallacciava la cinghia dei
calzoni appena usata sui piccoli furfanti,
mi domandò cosa sarebbe stato di una canaglia come me da grande;
risposi innocentemente: “Mi farò
missionario”. Si sbellicò dalle risa.
Ma quando celebrai la prima messa,
mi diede una pacca sulle spalle e sorrise:
“L’ho sempre detto che ti saresti
fatto prete”».
Entrato nel seminario di Biella,
Giovannino sognava di essere torturato
dagli africani e finire martire. In
quinta ginnasio decise di farsi missionario
della Consolata. «Coi miei
17 anni, lieto, baldanzoso e impaziente
– racconta -, iniziai il liceo a Varallo.
Non all’algebra e trigonometria.
Avevo qualche ebbrezza poetica,
ma il mio ideale era l’Africa. In
noviziato, alla Certosa di Pesio, non
ho avuto sussulti mistici, né impennate
carismatiche. Tra i miei compagni
c’era un africano: fu il migliore
stimolo missionario».
Durante gli studi teologici continuò
a respirare aria di missione, più
dalle figure di missionari incontrate
nella casa madre di Torino che dalle
lezioni accademiche. Arrotondò il
suo curriculum con discipline utili
per l’Africa: diploma magistrale, fotografia,
dattilografia. Finché fu ordinato
prete nel 1953, a 26 anni. L’anno
seguente partì per il Kenya: «Fu il
giorno più bello della mia vita».

L’INAFFERRABILE JOHN
Destinato alla missione di Mujwa,
nel Meru, John cominciò subito a
studiare la lingua locale, familiarizzare
con usi e costumi della gente e
smontare qualche idee preconcette,
alla scuola della figura poliedrica e
briosa di padre Chiardo.
Appena riuscì a masticare qualche
parola in kemeru, prese a scorrazzare,
prima con una vecchia moto, poi
con una Land Rover scassata, per visitare
le comunità, portare uno all’ospedale,
un’altra alla mateità, un
terzo al brefotrofio. «Mai paura! Passo
per uno che pialla le curve e mangia
i freni» scriveva nel diario.
A giugno del 1954 era professore
d’inglese e storia nella scuola secondaria
di Nkubu. «Come è impartita
qui – scriveva -, la storia ha una piuma
bianca sul cappello scozzese: testi
in inglese di autori inglesi. È una
storia colonialista». Ma ci pensò lui a
metterci la penna nera dello struzzo
africano, evidenziando le scoperte archeologiche
fatte in Africa orientale,
sciorinando imprese coloniali e tratta
degli schiavi, «pagine che facevano
impazzire gli studenti».
Alla fine del 1956 fu nominato
parroco di Meru, capitale dell’omonimo
distretto, dove si stava costruendo
la cattedrale. «Sono uscito
dalla fase di amore avventuroso-romantico
per l’Africa e posso dire, parafrasando
san Paolo: sono cittadino
africano» scriveva nel diario.
E continuò a sognare e dare sfogo
alla creatività vulcanica con innumerevoli
iniziative di successo: pubblicazione
del Twi ba Meru, mensile
di 10 mila copie; compilazione, con
l’aiuto di un prete africano, di innumerevoli
fascicoli, libri, sussidi, catechismi
in lingua locale; uso di modei
strumenti di comunicazione
come radio e cinema, guadagnandosi
il nome di Patere Kameme (padre
radio); fondazione del Meru Sport
Club e organizzazione di popolarissime
competizioni sportive, corse ciclistiche
e toei di calcio, collezionando
un altro titolo onorifico: Thuranira,
l’organizzatore.
«La nostra squadra ha vinto la
coppa del distretto – scriveva nel
1960 -. I ragazzi sono in orbita; io ho
un ginocchio gonfio. Naturalmente
la maglia indossata dalla squadra era
quella della Juve».
John era uno specialista nel coinvolgere
la gente in progetti di chiese,
cappelle, scuole, asili o altre opere
sociali e si meritò un altro gallone:
Patere Lotari (padre lotteria). Quasi
tutte le costruzioni da lui promosse
nascondono nelle fondamenta, come
«pietra» angolare, una manciata
di due scellini, il prezzo del biglietto
della lotteria.
In una parrocchia di 5 mila cristiani
e 60 mila abitanti, padre John si
buttava a pesce nel lavoro missionario:
catecumenati e battesimi a bizzeffe.
«Vacci piano, mi dicono – scrive
nel quarto anniversario dell’arrivo
in Kenya -. Piano un corno. Non
sono io a cercare il numero; sono loro
che vengono a cercare Cristo».
Come se non bastasse, estendeva la
sua attività a tutta la diocesi: formazione
della gioventù; supervisione di
una quindicina di scuole cattoliche;
estenuanti trattative per fondae altre;
animazione dell’Azione cattolica;
visite ai campi di concentramento,
dove erano rinchiuse migliaia di persone
accusate o sospettate di appartenere
al movimento mau-mau.

LA PRIMA AFRICA
Padre John era arrivato in Kenya
quando la tensione tra guerriglia
mau-mau e repressione dell’amministrazione britannica era al culmine
e si trovò subito schierato dalla parte
degli africani.
«Nel mercato tra Mujwa e Nkubu
– scriveva il 23 agosto 1954 – hanno
disteso a terra, allineati, sette cadaveri
di mau-mau uccisi nella foresta.
C’erano lunghe file di persone a guardare.
Mi sono fermato anch’io. Ho
detto una preghiera e tracciato un segno
di croce sui morti. Ho sentito alle
spalle una risata: “Padre, neanche
i tuoi sortilegi possono più farli vivere”.
Era l’ispettore di polizia, che
continuò: “È comodo essere neutrali
per voi missionari, che benedite tutti.
Vorrei esserlo anch’io; invece mi
tocca fare questo maledetto lavoro e
ammazzare questi bastardi”. “Non
sono neutrale” gli ho risposto. Mi ha
guardato con faccia da carciofo, come
un macellaio che affonda la mannaia
per staccare una bistecca; ma
non ha più fiatato. Me ne sono andato
a fare la mia lezione di storia».
Nel suo diario, pubblicato una decina
d’anni dopo, insieme ad altri articoli,
col titolo di Le due Afriche, padre
John non fu solo testimone di
nove anni di convulsioni, ma anche
protagonista del passaggio dall’Africa
coloniale a quella indipendente.
Dall’intreccio socio-politico dei
suoi scritti emergono pure problemi,
riflessioni e intuizioni squisitamente
missionarie: inculturazione, ecumenismo,
chiesa locale, rispetto delle
culture, problemi tribali, divergenze
con altri evangelizzatori, impegno
scolastico e religioso per costruire la
nuova Africa.
Le sue riflessioni possono apparire
un po’ daltoniche: il «nero» è bello;
il «bianco» da cancellare. John
guardava l’africano con occhi di missionario
ciecamente innamorato,
sorvolando sulle pecche e dipingendolo,
o meglio «sognandolo», come
«dovrebbe essere». Ma non senza
apprensione. «Non ho paura di fame
o lebbra, leopardo o serpente,
freccia o fucilata – scriveva alla fine
del ’57 -. Forse ho paura di quello
che potrà accadere al Kenya».

LA SECONDA AFRICA
«Mentre il paese marcia verso l’indipendenza,
anche la chiesa deve avere
una certa autonomia» scriveva
alla fine del 1960. John propose al vescovo
di nominare parroco della cattedrale
un prete africano. L’idea fu
approvata, ma passarono quasi due
anni prima che fosse messa in atto.
Nominato padre Salesio, John scese
al rango di viceparroco e accelerò
il ritmo delle attività. «Il mio lavoro
è un mosaico – scriveva nel 1963 -.
Arrivo alla sera che annaspo. Stampa,
Azione cattolica, cine, conferenze
e raduni in continuità. Ogni missione
vuole una settimana, con ritiri
e proiezioni alla sera. Sono piuttosto
stanco di fare il giradischi». Eppure
trovava tempo per partecipare a comizi
e adunate, incontrare leaders
politici e altri «pezzi grossi».
Le pagine del Twi ba Meru sprizzavano
politica, facendo arricciare il
naso ai missionari stagionati. Ma lui
imperterrito, con idee chiare e benedizione
del vescovo. «Ho preparato
gli schemi per gli incontri del
prossimo anno sul tema: libertà e cristianesimo
– scriveva a una settimana
dall’indipendenza -. Si tratta di far
scendere tutti i cristiani nell’arena e
aiutarli a non essere spettatori: il lavoro
è il padre della libertà; l’ozio è
il padre del colonialismo. Passerà la
febbre dell’indipendenza e occorrerà
rimboccarsi le maniche, soprattutto
i cristiani. È un lavoro eccitante
progettare l’Africa nuova».
Quei giorni John doveva avere una
febbre da cavallo. «Sale la pressione
dell’entusiasmo – scriveva -. Ho una
serie di pellicole sulla libertà di altri
stati africani e tutte le sere le proietto
in qualche parte del Meru. Massa
di gente anche in cattedrale: nella
predica padre Salesio ha detto che i
presenti sono stati battezzati da me
e che, con l’indipendenza, divento
più africano di prima».
Nella notte dell’11 dicembre 1963
toccò a padre John introdurre il Meru
all’indipendenza, intrattenendo la
folla con film, musica e discorsi, inno
nazionale a mezzanotte e trasmissione
radio della cerimonia di
Nairobi. Il giorno seguente fu un’apoteosi,
come racconta nell’ultima
pagina del diario (vedi riquadro).
Alla fine del 1963 padre John fu
nominato parroco di Nkabune e cominciò
a costruire la nuova Africa:
pozzi, chiesa, orfanotrofio, strutture
per le opere parrocchiali e sociali; soprattutto
formazione di comunità responsabili
del proprio futuro civile e
religioso.

DESERTO CHE FIORISCE
Metà della diocesi di Meru, grande
come mezza Italia, non aveva mai visto
la barba di un missionario. Per
sfondare occorreva un uomo di fegato,
fantasia e testa dura. John lesse nella
mente del vescovo e si offrì volontario:
fu subito nominato vicario episcopale
della North Easte Province
(Nep), così si chiama la regione.
In passato il governo l’aveva chiusa
ai missionari, per non scontentare
i musulmani; poi gli schifta (ribelli
somali) vi seminarono terrore e
morte (1963-67), producendo 4 mila
orfani. Siccità, fame e colera stavano
mettendo a rischio la sopravvivenza
di quasi 300 mila abitanti.
Nel 1968 padre John raggiunse
Garissa e, con fratel Mario Petrino,
distribuì aiuti umanitari e trasformò
una caserma diroccata in Boys’ Town
(città dei ragazzi) per accogliere gli
orfani del luogo. Tre anni dopo passò
a Wajir, 400 km più a nord, nel
cuore del deserto, per dare una mano
a padre Baldazzi: sfamati vecchi
e bambini, fondò la Girls’ Town per
un centinaio di bambine orfane. Nel
1972 era a Mandera, altri 400 km più
a nord, ai confini con Somalia ed Etiopia.
Anche qui fondò una Boys’
Town, affidata a Manlio e Lorenza,
due volontari italiani, e sostenuta
dall’adozione a distanza di un gruppo
di 500 famiglie italiane.
Spendere tante forze in un ambiente
totalmente musulmano, quando
altrove si mietevano conversioni a
tutto spiano, per qualcuno era uno
spreco. Ma John ribatteva: «In uno
scenario che è un’orgia di sole e sabbia,
la gente ha soprattutto fame e sete.
Corre voce che il papa abbia presentato
al nostro vescovo l’urgenza
della presenza cristiana in questa zona,
anche soltanto per offrire un bicchiere
d’acqua all’assetato».
Solo Dio sa quanti ne furono distribuiti:
dal fiume Tana, una pompa
foiva alla missione un milione
di litri d’acqua al giorno e la gente attingeva
liberamente.
I giornali parlavano di «miracolo a
Garissa». La missione contava 24 edifici,
chiesa, distributore di benzina
e piscina; accoglieva 225 orfani; impiegava
200 operai locali; ogni sabato
sfamava 300 fra vecchi e bambini;
30 ettari di terra producevano 12 tonnellate
di meloni al mese per il mercato
di Nairobi; poi mais, melanzane,
fagioli, cipolle, peperoni, angurie,
pomodori, arachidi e 5 mila piante di
banane, papaia, uva, datteri.
Identico prodigio, ma con enormi
sacrifici, si ripeté a Mandera, con
l’acqua stagionale del fiume Dawa:
città dei ragazzi, scuola secondaria,
cornoperativa agricola, artigianato, sviluppo
dell’habitat e commercio iniettarono
nella città di nomadi la
voglia di vivere più dignitosamente.
Questo fu il miracolo più vero nel
deserto: schiodare la gente dall’atavica
apatia e rassegnazione alla sopravvivenza:
gli operai impiegati nelle
costruzioni impararono a farsi case
più decenti; i braccianti arruolati
nei lavori agricoli si misero a produrre
in proprio; i pastori, abituati al
numero di bestie, cominciarono a
puntare sulla qualità. Perfino il governo
avviò progetti agricoli e incoraggiò
la gente a fare altrettanto.
Più difficile era fare attecchire il seme
del vangelo. Padre John non esitò
a studiare il Corano e insegnarlo
nella scuola, come ordinava la legge
del Kenya per quell’ambiente; ma
non senza accostare gli insegnamenti
morali di Maometto a quelli
di Gesù. E ci riusciva troppo bene;
tanto che gli fu ingiunto di non profanare,
lui infedele, il messaggio del
profeta.
John continuò a seminare la testimonianza
dell’amore verso i più
bisognosi; oggi se ne vedono i frutti:
la Nep costituisce la diocesi di
Garissa, con 10 missioni e una trentina
di succursali, dove lavorano i
cappuccini di Malta e vari missionari
laici.

VANGELO
NELLA RIVOLUZIONE

Nel 1974, a pochi mesi dal colpo
di stato di Menghistu, John fu destinato
all’Etiopia, dove una
decina di confratelli, da
pochi anni, lavoravano
nel sud del vicariato
di Harar, provincia
degli Arussi. Fu
subito chiamato
dal vescovo a salvare
la scuola secondaria
di Dire
Dawa, intossicata
dai fumi rivoluzionari.
Ascoltati
studenti e genitori,
con pazienza e
fermezza ristabilì
subito ordine e disciplina;
per tre anni
continuò a dirigere
la scuola con
grande discrezione e coraggio, specie
durante la guerra somala.
Non essendo il tipo da restare incollato
a una poltrona, si occupò di
una cornoperativa agricola fuori della
città; aprì una scuola in un quartiere
povero; fondò un pensionato per i
ciechi e insegnò loro un mestiere.
Nel 1978 John fu eletto superiore
del gruppo di confratelli. Quando la
provincia degli Arussi fu staccata da
Harar per formare la prefettura apostolica
di Meki (1980), ne diventò amministratore
apostolico, in attesa della
nomina del prefetto. Sarebbe stato
l’uomo ideale per tale carica, ma insistette
perché vi fosse posto un etiope,
accontentandosi di fare il vicario generale.
Al tempo stesso, John fu eletto
presidente della Conferenza dei religiosi
del sud Etiopia.
Calatosi con tutte le forze in tali responsabilità
e nella realtà socio-politica
del paese, padre John portò la rivoluzione
nel modo di fare missione,
per rispondere alle sfide antireligiose
del regime marxista.
Rivoluzione e missione, diceva, sono
legati da un filo di speranza: entrambe
vogliono sviluppo, giustizia
e liberare tutti dall’oppressione. «Ma
il punto debole della rivoluzione –
continuava – è che non s’interessa di
Dio. Per noi missionari, il nocciolo
della questione rimane questo: dimostrare
che non può esserci vera
giustizia e sviluppo senza Dio. La nostra
vocazione inequivocabile nella
rivoluzione è operare in modo che
uomini e donne della nuova Etiopia,
con tutto il progresso e sviluppo che
meritano, non siano tagliati fuori dal
loro Creatore e Redentore».
«La rivoluzione – spiegava – trascura
le lacune di miseria: non può rallentare
la marcia del progresso per
stare al ritmo degli storpi. Il vangelo,
invece, è buona notizia per tutti; l’evangelizzazione
porterà frutti, solo se
avremo con noi i ciechi e gli storpi».
Insieme agli altri missionari, padre
John si gettò a capo fitto nelle opere
sociali, consolidando quelle già esistenti
e creandone di nuove appena
ne intuiva la necessità.
L’ospedale rurale di Gambo, rimasto
a lungo senza medici, diventò il
centro di controllo e cura della lebbra
e, con 267 dispensari sparsi nella
provincia, assisteva oltre 4 mila colpiti
da tale infermità. Accanto all’ospedale
costruì un villaggio di 25 casette
per dare dignità a quelli già guariti.
Il centro di riabilitazione per handicappati
a Gighessa fu potenziato
con nuove strutture e attrezzature.
Una «casa-famiglia» per handicappati
e orfani fu costruita ad Asella; a
Shashemane nacque la scuola per
bambini e bambine non vedenti.
In ogni missione fu costruito il dispensario;
venne organizzata la distribuzione
di tonnellate di viveri ai
poveri, specie nei periodi di emergenza;
si moltiplicarono le scuole. In
un paese col 90% di analfabeti, l’istruzione
era una priorità e un’occasione
provvidenziale per l’evangelizzazione.
John viaggiava da una missione all’altra
per incoraggiare i confratelli,
sostenere e lanciare nuove iniziative;
ma senza mai perdere di vista l’evangelizzazione
diretta: visita alle scuole
dei villaggi, messa domenicale nelle
cappelle, formazione della gioventù
e aspiranti al sacerdozio, animazione
delle piccole comunità cristiane.
Le vacanze in patria si trasformavano
in estenuanti scorribande da un
capo all’altro della penisola, per
sconvolgere coscienze, snidare egoismi,
costruire solidarietà, coinvolgere
la gente nella sua avventura missionaria.
Talvolta si sobbarcava, fino
a 10-15 incontri al giorno in scuole,
circoli giovanili, chiese, convegni.
Nascevano gruppi di appoggio in Italia
e Nord America; professionisti
di ogni genere (medici, maestri, agronomi,
assistenti sociali…) lo seguirono
in Africa.

COMPLEANNO IN PARADISO
Durante le ultime vacanze in Italia
il dottore gli aveva detto di darsi una
calmata, se voleva arrivare a 70 anni.
«Se me ne restassero solo due, cosa
importa? Ciò che conta è come e cosa
si vive» rispose sorridendo.
Era un presentimento? Due anni
dopo, la sera del 28 gennaio 1983,
John toò a Shashemane dopo 10
giorni di incontri tenuti ad Addis Abeba:
confessò che quella fatica «lo
aveva ammazzato».
Il giorno seguente ricorreva il suo
compleanno. Per fargli una sorpresa,
suor Flaminia stava preparando una
torta, quando il padre la chiamò. Lo
trovò a letto con brividi e febbre alta;
gli somministrò medicine antimalariche,
ma la situazione si aggravò.
Accorsero i medici della zona; diagnosticarono
un blocco renale e tentarono
di salvarlo con flebo, antibiotici,
diuretici, cortisone. Inutilmente.
Per padre John i sogni si spensero
la sera del 30 gennaio, a 56 anni. Una
vita stroncata precocemente, ma vissuta
in pienezza fino all’ultimo respiro,
come si legge nell’ultima lettera
alla madre: «Oggi faccio 56 anni.
Certo che sono stati intensamente
vissuti. Non ho avuto tempo
di annoiarmi neppure
per un’ora».

JOHN SCRITTORE
Fin dal liceo Giovanni Bonzanino aveva
«una voracità innata di lettura;
non era mai sazio di libri. Lettura
non superficiale, ma riflessiva: fissava
idee, espressioni e parole che interiorizzava
» testimonia il suo professore
d’italiano. Passione che lo accompagnò
tutta la vita. Leggeva articoli e
saggi di storia, politica, teologia, tenendosi
aggiornato su tutto ciò che
capitava nel mondo e nella chiesa,
specie di quanto avveniva in Africa.
Nella frenetica attività che caratterizzò
la sua vita, trovò il tempo
per scrivere. E scrisse moltissimo: lettere,
poesie, articoli, saluti appelli, libri.
«È il mio relax» soleva dire, anche
se rubava il tempo al sonno necessario.
Il suo stile snello, agile, frizzante, volentieri
anche sferzante, faceva sgranare
gli occhi al lettore e lo coinvolgeva
nella sequenza di miseria e fame
del terzo mondo.
Ecco alcuni titoli dei libri più famosi:
Cittadini d’Africa (1974), ritratti di
missionari e missionarie.
Un uomo per l’Africa (1977), presentazione
della figura del beato Allamano.
Missionari nella rivoluzione (1978),
note di pastorale missionaria per i
paesi africani a regime socialista.
Queste mie verdi colline (1979), profilo
di padre Luigi Eandi.
Africa casa mia (1979), quadri di esperienza
missionaria.
Il primo figlio (1980) e Gli insabbiati
(1982), romanzi a sfondo missionario.
Quattro volumi pubblicati postumi:
Due Afriche e un po’ d’Italia, prima e
dopo l’indipendenza.
Momenti d’Africa, riflessioni sull’attività
missionaria in Africa.
Ritoo a casa, romanzo con protagonista
un lebbroso guarito.
Africa mia, raccolta di poesie.

Benedetto Bellesi




MOZAMBICO: un cammino di pace che dura da dieci anni

UNA DOMENICA AL MARE, E NON SOLO
Dopo 16 anni di guerra civile, il paese ha imboccato la via della pace. Una pace operosa, che dura da un decennio, sia pure con qualche «sbandamento».
Non è un risultato di poco conto in Africa…
Su questo ed altro interviene un missionario della Consolata

Maputo, ore 7,30. L’aria nella capitale del Mozambico è frizzante. Sul cielo terso resiste ancora un quarto di luna calante: appare con un’esile sagoma in negativo bianco su un fondo azzurro intenso.

È domenica, e sto per andare in chiesa. «Prendi anche la macchina fotografica – mi ricorda padre Manuel Tavares (*) -, perché ci sarà una messa speciale». Una messa non in chiesa però, bensì nella cappella di un imponente liceo.

All’epoca del colonialismo portoghese l’istituto scolastico era retto con successo dai Fratelli maristi, religiosi. Dopo l’indipendenza del Mozambico (1975), come altre opere missionarie, la struttura venne nazionalizzata dalla Frelimo, il partito unico al potere di rigida fede marxista: e la cappella fu trasformata in magazzino. Dal 1978, nella guerra civile tra Frelimo e Renamo (il partito di opposizione clandestina), il liceo è divenuto un triste simbolo del paese, abbandonato al degrado, alla disperazione.

Con la pace è riaffiorata la speranza. E la cappella del liceo è ritornata ad essere «casa di preghiera». Questa mattina festeggia 10 anni di vita nuova, mentre in tutta la nazione si celebra il 10° anniversario degli accordi di pace, siglati a Roma il 4 ottobre 1992 presso la Comunità di sant’Egidio.

La celebrazione è davvero «speciale», con canti possenti e danze fantasiose al ritmo di tamburi e nacchere. Le parole più ricorrenti sono «fede giorniosa, speranza incrollabile, carità generosa». Non un accenno agli scontri armati, terribili, tra gli allora «comunisti al potere» e i «banditi dell’opposizione», alle tragedie subite e inferte. Forse perché entrambi i «nemici» sono ora in… ginocchio.

Mentre scatto le ultime foto della processione finale, mi vengono in mente due versi del poeta swahili Robert Shaaban:

«Ricordare è un dovere, dimenticare è un sollievo».

Durante il pranzo

Nel rincasare a piedi, mi perdo. Finisco in Avenida O Chi Ming ed anche in Avenida Mao Tze Tung. Finalmente (dopo qualche richiesta di informazioni) incrocio l’Avenida 24 de Julho, dove al numero 496 risiedono i missionari della Consolata. Padre Manuel Tavares mi accoglie con una smagliante risata di comprensione e, guardando l’orologio (sono le 12 abbondanti), mi invita subito a pranzo.

Le vie della capitale dedicate a O Chi Ming e Mao Tze Tung ricordano il recente passato marxista-leninista del paese. Però, come mai non è stato cambiato il nome coloniale 24 de Julho? «Forse perché questa data non significa niente per nessuno» risponde padre Manuel con un briciolo di ironia. Intanto mi scodella un saporito minestrone di verdura.

Portoghese, padre Tavares ha operato in Mozambico anche durante il colonialismo, non condividendo però le scelte della madre patria. Oggi analizza pure lo spirito missionario del tempo e afferma: «Durante il potere coloniale noi, portoghesi, ci sentivamo padroni. Anche altri missionari, di nazionalità diversa, difendevano il regime. C’era la convinzione di avere un messaggio assolutamente indiscutibile da portare alla gente; ci si riteneva salvatori del popolo, il quale doveva soltanto accettare le nostre parole per migliorare umanamente e spiritualmente. Questo era l’atteggiamento, sia pure inconscio, nel colonialismo. Poi…».

Poi è divampata la lotta al regime coloniale e il Mozambico ha raggiunto l’indipendenza. «Questi eventi sono serviti a purificare il nostro pensiero; hanno fatto rientrare in proporzioni più giuste anche l’azione missionaria».

Con l’indipendenza, tutto è mutato: il potere politico, ma anche quello ecclesiastico; prima i vescovi erano portoghesi, poi (dal mattino alla sera) quasi tutti mozambicani, e con una mentalità africana.

«Oggi la chiesa vuole essere sempre di più mozambicana. Questo esige da noi missionari un atteggiamento molto diverso rispetto al passato».

Se la lotta al colonialismo, l’indipendenza nazionale e il successivo regime marxista-leninista non fossero bastati a mettere in crisi il missionario, il colpo fatale gli è stato inferto da 16 anni di guerra civile… Al presente nella nazione è in atto «la costruzione della pace».

Padre Manuel, come sta sviluppandosi il processo? «Bene, pur nelle difficoltà. Mi riferisco, in particolare, alle elezioni del 2000, che sarebbero state vinte dal partito di opposizione Renamo. Ma la Frelimo avrebbe imbrogliato nella conta dei voti e così ha conservato il potere. Non sono mancate accuse; però, di colpo (data anche l’emergenza dell’alluvione), sono cessate. Il che fa supporre che la maggioranza abbia concesso qualcosa all’opposizione».

Cosa… non si sa.

Un altro scontro violento tra governo e opposizione si verificò l’anno scorso, allorché a Maputo una manifestazione di protesta della Renamo fu caricata dalla polizia, con un centinaio di vittime. E altrettanti furono i morti per asfissia in una prigione dello stato. Nemmeno su questo si saprà mai la verità.

Vi furono anche omicidi di singoli «eccellenti»: quello del giornalista Carlos Cardoso, per esempio; stava smascherando la corruzione, che alligna fra gli stessi politici… e pagò con la vita.

Eppure questi fatti gravi non hanno impedito a maggioranza e opposizione di dialogare, di accordarsi con taciti compromessi, certamente discutibili in una democrazia compiuta. In Mozambico, però, tutto è subordinato alla comune costruzione della pace, per la quale si sacrifica tutto. «E forse non a torto, specialmente se si ricordano (e tutti lo fanno) gli interminabili 16 anni di guerra civile, gli innumerevoli profughi, le immani distruzioni e oltre un milione di cadaveri straziati…».

Padre Manuel mormora le ultime parole sottovoce, come se parlasse a se stesso. Segue una pausa di silenzio. Di botto, quasi per un comune accordo, lasciamo il refettorio. Non ci dispiace una siesta. Fa caldo. L’aria fresca del mattino è un ricordo.

Sul Lungomare

Al risveglio, padre Manuel propone una passeggiata sul pittoresco lungomare del porto di Maputo. La conversazione continua seduti su una panchina del molo della città, lo sguardo sull’infinito.

Il missionario, pur essendo stato critico del regime coloniale del Portogallo, ha tuttavia sofferto per il patatrac politico della sua nazione. Subito dopo l’indipendenza, i bianchi in Mozambico hanno corso il pericolo di sommarie cacce all’uomo. Drammatica, tragica, è divenuta la situazione quando diversi missionari di varia nazionalità sono stati sequestrati, feriti, uccisi.

Oggi, padre Manuel, come ti senti quale portoghese? «Mi sento bene, perché l’attuale potere politico non fa discriminazioni. In Mozambico c’è un piccolo gruppo di bianchi che teme lo spauracchio del passato. In realtà c’è poco da temere; lo dimostra il fatto che alcuni portoghesi, costretti ad andarsene al tempo delle nazionalizzazioni, ora sono ritornati e fanno ottimi affari… Però noi missionari non dobbiamo dimenticare che siamo in casa d’altri. Come europei, vorremmo che il governo e la chiesa fossero diversi. Ma occorre fare i conti con la realtà. Bisogna rispettare le sensibilità culturali locali e lo stile africano».

«Stile africano» anche fra gli stessi missionari della Consolata, che ormai sono anche kenyani e congolesi, brasiliani e colombiani. Questo genera problemi d’intesa?

«Non vedo in Mozambico grossi problemi al riguardo, a parte qualche caso particolare, che però interessa anche i missionari europei. La diversità culturale è sicuramente un arricchimento per la missione, o può diventarlo».

Si dice che il missionario europeo prediliga le opere sociali (centri sanitari, scuole, ecc.), mentre quello africano o latinoamericano si dà alla pastorale pura…

«Non esageriamo!… C’è un missionario italiano dedito esclusivamente alla pastorale, come vi sono missionari africani e latinoamericani assai impegnati nel sociale: dipende dai progetti e dai mezzi che dispongono per realizzarli. Ritengo che dobbiamo condividere fra tutti noi (europei e non europei) anche le iniziative di promozione umana. Quando l’abbiamo fatto, i risultati sono stati ottimi».

Come vengono accolte dalla popolazione gli aiuti stranieri? Favoriscono l’intraprendenza del mozambicano o lo relegano nella passività del mendicante?

«Il popolo mozambicano non ha ancora preso in mano le sorti del proprio sviluppo. Questo è un grave problema, perché obbliga ancora il paese a dipendere dall’estero. D’altro canto il Mozambico, talora, è costretto a fronteggiare improvvise emergenze (come l’alluvione di due anni fa o la siccità di quest’anno), che ritardano lo sviluppo di decenni: in questi casi gli aiuti estei sono necessari».

Pertanto è necessario trovare un equilibrio tra il «facciamo da soli» e il «tendiamo la mano ad altri», puntando però con maggiore forza sulla prima strategia. Dopo la guerra, per circa due anni il paese è sopravvissuto grazie solo agli aiuti esteri; ma quando la gente è ritornata a lavorare, tutto è rifiorito e si è raggiunta persino l’autonomia alimentare. Peccato che, nel 2000, sia arrivata quella tremenda alluvione!

«Occorre anche lavorare con un occhio rivolto a possibili catastrofi, immagazzinando scorte alimentari in silos: questo i missionari l’hanno sempre fatto. Oltre a scongiurare la fame, tale azione preventiva frena i prezzi degli alimenti, che salgono alle stelle nelle emergenze…».

Abbandoniamo la panchina del molo. Camminiamo scortati da una maestoso filare di palme, accarezzate da una dolce brezza. Al cospetto di un bar, entriamo senza esitare: una bibita ci sta bene. Non c’è anima viva nel modesto locale. Forse proprio per questo mi lascio andare ad una domanda indiscreta: «Manuel, si dice che tu sia un vescovo mancato; o hai ancora una possibilità?».

La risposta dell’interlocutore è una risata così sonora da attirare la curiosità dello stesso barista… che ride divertito anche lui senza sapere la ragione. «Se devo essere schietto – commenta tosto il missionario -, le calze rosse dei vescovi non mi sono mai piaciute. La mia preoccupazione è stata sempre un’altra».

E cioè? «Lavorare senza protagonismi, sentirci tutti fratelli. Ciò che conta non è quanto facciamo, ma lo spirito con cui lo facciamo…». Scuote la testa padre Manuel. Un raggio di sole ne illumina il volto, mentre dichiara quasi con solennità: «Eppoi, mio caro, l’era dei vescovi stranieri è tramontata per sempre!».

Sta tramontando anche il sole sull’Oceano Indiano. Sprazzi di luce morbida vivacizzano le onde increspate dalla brezza, e dilatano l’orizzonte.

Ci avviamo in auto al 496 dell’Avenida 24 de Julho. Lungo le vie O Chi Ming e Mao Tze Tung sono ancora attivi i mercatini… Due giorni fa, nella città di Beira, mi aggiravo incuriosito tra le chiassose bancarelle di un «mercato informale». Mi è piaciuto molto il suo nome Chunga moyo, ossia «fatti coraggio».

«Chunga moyo» è stato anche il tacito programma del popolo mozambicano nel trascorso decennio, dopo la guerra. E lo sarà ancora.

Francesco Beardi




BAYENGA (R.D. CONGO): storia di ordinaria insicurezza

DIARIO… DI GUERRA

Il Movimento per la liberazione del Congo di Pierre Bemba e l’Unione congolese per la democrazia di Mbusa Nyamwisi si combattono per il controllo del nord-est del Congo (ex Zaire) e alcuni missionari della Consolata si trovano tra i fuochi incrociati, come è capitato nell’agosto e settembre scorsi.

Lunedì 5 agosto. Atterro a Isiro sano e salvo, grazie a un aereo di fortuna proveniente da Kampala. Insieme a me ci sono il vice superiore generale, padre Antonio Bellagamba, venuto per dettare un corso di esercizi spirituali, e quattro volontari brianzoli del gruppo «i gabbiani», destinati a Bayenga per montare una pompa d’acqua.

L’indomani ripartiamo per Wamba, dove lasciamo il vice superiore; arriviamo a destinazione accolti festosamente dalla gente per la strada e alla missione.

Mercoledì 7 agosto. Senza un giorno di riposo, «i gabbiani» iniziano a piazzare la pompa al pozzo scavato sul terreno dove sorgerà la nuova missione, un paio di chilometri dagli attuali edifici provvisori.

Verso le 10,30 si sentono scoppi isolati di fucile. Col vecchio capo locale, venuto a salutarmi, pensiamo che si tratti di esercitazioni o di militari che puliscono le armi. Un nutrito scambio di raffiche di mitragliatrici ci toglie ogni illusione: è uno scontro tra soldati in piena regola.

Due donne che stanno preparando il pranzo sono spaventate: rimettono tutto in magazzino e ci esortano a scappare e metterci al riparo. Non c’è tempo da perdere. Dico a Marina, una dei volontari:

– Prendi un cappello e seguimi. È la guerra.

– Stai scherzando?

– No, non scherzo! Quelli sparano sul serio: andiamo.

Non ho tempo di chiudere la casa e corriamo verso il pozzo. Ci seguono il direttore della scuola con sua figlia e una donna malata aiutata dal marito. Camminando tra le erbe, scivolo in un pantano con molta acqua, essendo questa la stagione delle piogge. Con difficoltà riesco a recuperare le scarpe dal fango. Ci fermiamo ai bordi di un campo di riso e ci sediamo ai margini della foresta.
Capiamo subito che il nascondiglio non è troppo segreto: ci raggiunge un soldato in fuga; ci fornisce la sua versione dei fatti: i militari di Bemba, che controllano il nord del Congo, sono stati attaccati da quelli di Nyamwisi; non potendo resistere, sono scappati. Il soldato ci chiede informazioni sulla strada per Wamba, per ricongiungersi ai suoi commilitoni.
Mentre aspettiamo l’evolversi della situazione, arriva il confratello congolese Clément Balu Futi insieme ai tre volontari impegnati nel montaggio della pompa. Sentiti gli spari e le pallottole fischiare sopra la testa, si erano rifugiati tra gli alberi. Diminuita l’intensità della sparatoria, erano venuti a cercarci.

Arriva anche un ragazzo di 18 anni. Padre Clément lo conosce: è un soldato. Il giovane si mette a piangere; dice che si è tolta la divisa per scappare senza dare nell’occhio.

Finalmente le armi tacciono. Ma ecco avanzare i soldati di Nyamwisi. Padre Clément esce dal bosco, rischiando forte, e va incontro ai militari: alcuni di essi vengono dalla sua stessa regione. Cerca di frateizzare; parla col comandante; poi ci invita a uscire dalla foresta per salutare i capi.

L’incontro è pacifico, ma ci si guarda con sospetto: noi non sappiamo cosa ci chiederanno; essi s’informano se stiamo in quel luogo per cercare l’oro. Padre Clément spiega che i bianchi non sono dei commercianti, ma persone venute ad aiutare la missione e quindi la popolazione.

Possiamo rientrare a casa. I militari ci seguono. Padre Clément cerca di capire le loro intenzioni: vogliono l’auto e la radio trasmittente. Ce l’aspettavamo. Resistiamo, anche perché i soldati di Bemba, nella loro ritirata, si sono portati via la motocicletta. A interrompere le trattative intervengono le tenebre.

Giovedì 8 agosto. La notte è stata tranquilla. Appena celebrata la messa, «i gabbiani» partono per lavorare alla sorgente; i militari tornano per prendere la Land Rover: il loro sguardo è minaccioso; il giorno prima hanno avuto qualche morto; è difficile farli ragionare. Dopo un po’ di resistenza, ci rassegniamo, per non mettere in pericolo la vita.

Ma non c’è l’autista. Gli avevamo detto di sparire e lui si è nascosto e non sappiamo dove sia. Il comandante obbliga padre Clément a portare alcuni soldati al quartiere 51, un villaggio a 40 km da Bayenga. Il padre si sacrifica: indossa la veste bianca; mi dice di pregare e si mette al volante della Land Rover. Il comandante assicura che andrà tutto bene e saranno di ritorno la sera, appena avranno procurato da mangiare per la truppa.

Passa qualche ora ed ecco arrivare da Wamba padre Rinaldo Do: ha fatto il tragitto in bicicletta, con un fazzoletto bianco legato a un bastoncino, issato sul manubrio. È venuto per stare vicino ai «gabbiani», rendersi conto della situazione e parlare con i capi militari: spera di poter evacuare i quattro italiani e portarli a Wamba, appena padre Clément sarà rientrato.

Dal villaggio di Niania arrivano 16 ragazzine dirette a Wamba, per una settimana di formazione: sono in viaggio da lunedì e peotteranno a Bayenga, senza sapere se potranno riprendere il viaggio.

Venerdì 9 agosto. Padre Clément non è ancora rientrato. Speriamo che arrivi almeno oggi. Padre Rinaldo è riuscito a ottenere il permesso di usare la radiotrasmittente, ieri alle 15 e oggi alle 7, per parlare con i padri di Wamba e Isiro e chiedere una macchina per far partire gli italiani.

Alle 11,30 padre Clément non si vede ancora. Piove. I volontari italiani rientrano: non hanno terminato il lavoro, ma hanno impostato l’essenziale; altri potranno terminarlo.

Nel collegamento radio delle 12,30 padre Baruffi promette di mandare l’abbé Raymond con un mezzo di trasporto per prelevare i quattro ospiti. Scende la sera; ma nessuna delle due auto arriva alla missione.

Siamo preoccupati per padre Clément. Italiani e ragazze di Niania devono peottare a Bayenga.

Sabato 10 agosto. Da Wamba l’auto non è potuta arrivare, perché i soldati hanno messo un posto di blocco a una decina di chilometri da Bayenga. I laici italiani riprendono il lavoro. Forse riusciranno a terminarlo.

Alle 9,20 si sentono nuovi spari; sembrano provenire da Benga.

Al pomeriggio rientra finalmente padre Clément con i soldati: è visibilmente molto stanco. Grandi abbracci, ma poca comunicazione: i militari restano vicino.

Poco dopo arriva il vescovo con l’abbé Kakeane per prendere gli italiani. Devo partire anch’io: ordine del vescovo. Ci prepariamo in fretta e partiamo. Padre Clément ci segue con i militari fino a Wamba; arriva poco dopo di noi. Alla missione di Bayenga resta padre Rinaldo.

Intanto vengo a conoscenza di come stanno le cose: Wamba è stata presa dai soldati di Nyamwisi dopo due ore e mezzo di combattimento. Essendo ormai Bayenga e Wamba nelle mani della stessa fazione, il vescovo ne aveva approfittato per venire a prenderci.

Lunedì 12 agosto. Le forze militari di Bemba sferrano il contrattacco e, in poche ore, Wamba è nuovamente nelle loro mani. Viviamo in apprensione; le fucilate sono molto vicine.

Poiché la medesima fazione controlla la zona di Wamba e Isiro, si approfitta per portare fino a quest’ultima città i quattro italiani e padre Bellagamba, per imbarcarli alla prima occasione per Kampala, mandando a monte il corso di esercizi.

Insieme a loro lascia Wamba anche padre Clément; ormai per lui la zona scotta: corrono voci che sia accusato di avere aiutato i nemici con la macchina. Tali voci lo consigliano ad anticipare la partenza per Nairobi, dove parteciperà a un corso di aggioamento e formazione.

Intanto io rimango a Wamba per parecchi giorni. La situazione è calma. Ma non si è mai sicuri: non ci sono state dichiarazioni ufficiali. Non c’è sicurezza e abbiamo paura di viaggiare in auto, tanto più che sono senza mezzo di trasporto: la Land Rover è stata requisita dai nuovi padroni e l’hanno messa definitivamente fuori uso.

Padre Rinaldo continua a fare la spola tra Bayenga e Wamba in bicicletta, per dare e ricevere notizie. Ma i programmi sono sospesi; si attende con pazienza: la virtù più grande che deve coltivare chi lavora in Congo.

Venerdì 6 settembre. Da una settimana sono rientrato a Bayenga con padre Giuseppe Fiore; padre Do può ritornare alla casa regionale di Isiro.

Ma non mi sento bene. Domenica scorsa, verso la fine della messa, capogiro e nausea mi hanno costretto a lasciare l’altare; padre Fiore ha portato a termine la celebrazione. Non so che cosa sia stato, debolezza o malaria: sono stato costretto a letto per una settimana e non mi sono ancora ripreso totalmente.

Per quanto riguarda la guerra, tutta la zona di Isiro, Wamba e Bayenga continua ad essere in mano ai militari di Bemba. Al momento tutto è calmo. Sembra che il fronte si sia spostato sulla strada Niania-Mambasa-Bunia.

Non possiamo fare molto, perché non c’è sicurezza; i militari continuano a passare e requisire le biciclette della gente; non ci sono altri mezzi di trasporto; tutto resta sospeso in attesa di tempi migliori.

Mercoledì 11 settembre. Di salute mi sento meglio. Aspettiamo l’arrivo di padre Rinaldo da Isiro, che ci porta qualche rifoimento.

Ma arriva pure l’ordine di ritornare in Italia, per sottopormi ad analisi ed eventuali cure mediche.

Con tanta tristezza mi preparo per un’altra partenza, con la speranza, insieme, di ritornare presto tra la gente, nonostante spari e difficoltà di vario genere.

CALVARIO… IN BICICLETTA

Due giovani di Bayenga descrivono il viaggio da Kisangani a Isiro e relative insicurezze e seccature.

Per un povero congolese come me, viaggiare all’interno del mio paese è un’impresa difficile, se non impossibile: si parte con seri dubbi di arrivare a destinazione. Tale inquietudine ha una sola causa: l’occupazione della Repubblica democratica del Congo da parte di vari gruppi di ribelli, che si combattono a vicenda e stanno distruggendo quel poco che rimane del paese.

Unico mezzo di spostamento, sia per le condizioni delle strade che per ragioni di sicurezza, è la bicicletta. Da Kisangani a Isiro, per esempio, la strada si snoda per circa 500 km nella foresta tropicale e da alcuni anni è impraticabile per qualsiasi automezzo. La si può percorrere solo a piedi o pedalando su due ruote.

Non è l’oscurità della foresta a mettere paura, ma le centinaia di soldati che la infestano e rendono il viaggio un autentico calvario, quando non finisce in tragedia.

Per qualche tratto si può avere la fortuna di non fare brutti incontri; ma non se ne trovano neppure di piacevoli. I villaggi lungo la strada sono deserti: gli abitanti si sono rifugiati nelle malende, abitazioni provvisorie nella foresta, per evitare di trovarsi nel fuoco incrociato dei combattimenti.

Hanno ragione di fuggire: le rovine testimoniano massacri, saccheggi e malversazioni d’ogni genere. In alcuni villaggi si sono istallati i militari; in altri i soldati vanno e vengono: sono armati fino ai denti con fucili, machete, baionette, corde, asce, lancia bombe, granate fissate alla cintura. Incontrarli è una disgrazia. La prima parola che dicono è: «Soldi». Il tono non lascia scampo.

La chiamano mabonza (offerta) e non si sa per quali ragioni bisogna fare tali «offerte» ai militari. Ma non sempre si accontentano del denaro, ma controllano sistematicamente i bagagli e, se trovano qualche cosa di interessante o di valore, se la prendono automaticamente, senza che il proprietario possa fiatare: potrebbe rischiare la morte.

Talvolta si passa alle perquisizioni corporali. Guardano perfino le mutande, nella speranza di trovarci nascosta qualche somma di denaro.

A volte qualche militare deve spostarsi e approfitta del viandante per farsi portare a destinazione sulla canna della bici. Anche in questi casi non esistono ragioni da opporre: chi rifiuta di prestare il faticoso servizio, potrebbe perdere la bicicletta o, peggio, la vita.

Q uando lungo la strada le opposte fazioni si affrontano a distanza ravvicinata, questa rimane chiusa per alcuni giorni; chi si trova a percorrerla in tali circostanze sono vittime dei trattamenti più inumani.

È capitato a un gruppo di ragazzi che, sempre in bicicletta, dopo aver percorso 260 km, a metà strada tra Kisangani e Isiro, sono caduti in un’imboscata di mayi-mayi, un gruppo di ribelli che, tra l’altro, credono di essere invulnerabili.

Terribilmente armati, essi pretendevano che ogni giovane sborsasse 10 mila franchi congolesi: una somma enorme per quei poveretti che, non potendo pagare, furono minacciati e spogliati di tutto.

Per di più, gli sfortunati ragazzi non potevano proseguire, poiché sarebbero caduti sotto le pallottole della fazione opposta, a due chilometri di distanza; né potevano tornare indietro, per non tradire la presenza dei mayi-mayi; e furono costretti a rifugiarsi nelle malende, nel cuore della foresta, dove rimasero per alcuni giorni senza cibo.

I ragazzi cercarono il modo di sopravvivere; dopo alcuni giorni, ripresero il viaggio attraverso la foresta, raggiunsero la strada in un punto dove non c’erano soldati e riuscirono a tornare a Kisangani.

L a strada Kisangani-Isiro è l’esempio più eloquente dell’insicurezza per chi deve spostarsi in Congo. Situazioni analoghe si verificano in molte regioni del paese, dove truppe armate continuano a combattersi.

Ma anche per chi non deve viaggiare e vive in città e villaggi, insicurezza e pericoli sono sempre in agguato. La guerra continua a seminare dappertutto distruzioni e sofferenze d’ogni genere. Noi congolesi siamo stufi di guerra e violenza; reclamiamo a gran voce la pace. Non vogliamo nient’altro: solo un po’ di pace.

Pietro Manca




DA MUSULMANI A CATTOLICI storie di convertiti

DA
MUSULMANI A CATTOLICI
storie di
convertiti

Lasciare l’islam è molto
rischioso. L’apostasia è «haram», vietata assolutamente: potrebbe anche
costare la vita. Ma Monica ed Agostino, giovane coppia algerina, lo hanno
fatto. Oggi vivono in Italia con i loro tre figli, e raccontano che…
Come i cristiani convertiti all’islam, anche gli islamici convertiti al
cattolicesimo sono radicali nei loro giudizi.

Val Varaita (Cuneo).
Uno scenario di montagne rischiarate dal sole circondano la casa abitata
dalla famiglia Fadel (il cognome è di fantasia). Veniamo accolti con un
bel sorriso, mentre ci accomodiamo nel salotto. Agostino e Monica sono una
giovane coppia con tre figli. Arrivano dall’Algeria, martoriata dalla
guerra civile.

I loro nomi di battesimo sono
veri, e il termine appena usato non è inappropriato: sono cristiani venuti
dall’islam. Ma non possono gridarlo forte come vorrebbero o con l’orgoglio
che contraddistingue tutti coloro che, dal cristianesimo o
dall’agnosticismo, giungono all’islam. A loro non è permesso: a differenza
di chi «ritorna» (si converte) alla religione coranica, ed è ben accolto
dalla ummah, la comunità dei fedeli, chi abbraccia il credo cristiano o
qualsiasi altro, è considerato un traditore, apostata e dunque passibile
di morte. La ridda o irtidad (apostasia) è haram, vietata assolutamente
(vedere scheda).

«Erano anni che sentivamo
profondamente nella nostra vita l’esigenza della conversione al
cristianesimo – raccontano Monica e Agostino – e, dopo lo scoppio della
guerra civile in Algeria, molti nostri connazionali sono andati verso
Cristo. L’islam, così come lo abbiamo visto nel nostro paese in
quest’ultimo decennio, ci aveva spaventati. Non predica amore e
compassione come il cristianesimo. Ecco, proprio questo ci ha molto
colpiti della figura di Gesù e dell’opera di tanti missionari: l’amore,
l’altruismo, quel profondo rispetto e tenerezza per gli esseri umani, per
la dignità della vita».

«Abbiamo svolto lunghe ricerche,
nel corso degli anni – spiega il marito -, ci siamo documentati molto sul
cristianesimo. Mia moglie ha scoperto persino che un suo trisavolo era
cristiano».

«Sì, ma nessuno in famiglia ne
parlava: poteva essere pericoloso. Da noi non si può leggere la bibbia: è
considerato un atto di apostasia. Anche andare a messa la domenica è
pericoloso: la polizia ci controlla. Pensare che nella tradizione islamica
berbera sono molti i segni ereditati dal cristianesimo: le donne, ad
esempio, sono tatuate con croci e pesci».

Come hanno reagito alla vostra
scelta le rispettive famiglie?

«Nessuno di loro ci ha contestato
o criticato. Noi, d’altro canto, non abbiamo mai avuto timori. Quella di
diventare cristiani è stata una decisione accarezzata da tempo, desiderata
profondamente. E da allora la nostra vita è cambiata completamente».

«Anche il nostro rapporto di
coppia si è modificato – risponde Monica -. Prima eravamo legati alle
tradizioni, all’entourage familiare, alla differenza tra uomo e donna,
alla sudditanza della seconda al primo. Eravamo tesi, litigiosi. Ora è
diverso: è come se un nuovo orizzonte si fosse aperto davanti a noi. Un
orizzonte che ci piace e in cui ci sentiamo bene e siamo felici, e con noi
i nostri figli».

Sono battezzati anche loro?

«No, anche se l’intenzione
iniziale era quella – racconta Agostino -. Ci fu consigliato di aspettare
che i ragazzi crescessero e potessero scegliere da soli: un musulmano che
abbraccia un’altra religione è perseguitato, può incorrere in seri
problemi, ed è meglio che i nostri figli, per il momento, li evitino. Nel
frattempo vanno a catechismo».

Quando è iniziata la vostra
ricerca?

«Nel ’90  ed è andata avanti fino
al ’94. Ci eravamo trasferiti in Italia per cercare lavoro e serenità –
ricorda Monica -. Tuttavia, poiché non avevamo alcun tipo di
regolarizzazione, facemmo ritorno in Algeria per avviare le pratiche per i
permessi di soggiorno. Lì la situazione era drammatica: la guerra civile
seminava morte e distruzione e i nostri figli, che parlavano solo
italiano, erano spaventatissimi e spaesati.

Dal ’94 al ’99 ci trasferimmo in
Tunisia: iscrivemmo i ragazzi in una scuola italiana, mentre mio marito
trovò lavoro come interprete per una ditta italiana. Io ero dirigente in
una fabbrica di abbigliamento. Insomma, avevamo trovato una buona
sistemazione. Frequentavamo la comunità dei cristiani, tunisini ed
europei. Alla domenica, tra mille difficoltà, andavamo a messa nella
cattedrale di Tunisi e incontravamo i nostri compagni di fede. Spesso,
tuttavia, arrivava la polizia e ci portava in commissariato, dove venivamo
interrogati a lungo: “Voi siete musulmani, perché frequentate la chiesa?”.
Era questa la domanda di rito».

«Ma noi proseguimmo il nostro
percorso: andavamo a catechismo, alle riunioni di preghiera e di
riflessione – continua Agostino -. In quei luoghi incontravamo decine di
arabi di origine islamica convertiti al cristianesimo. È molto rischioso
lasciare l’islam, può costare la vita, ma Gesù ci è stato vicino. Fu
proprio la fede in lui che ci diede la forza per superare la paura delle
persecuzioni, quando, nel ’99, dalla Tunisia ritornammo in Algeria. Lì la
nostra situazione era ancora più pericolosa. Facevamo anche 300 chilometri
per raggiungere il luogo per gli incontri spirituali. Nonostante tutto
ciò, comunque, abbiamo proseguito».

La fede è dunque una componente
importante nella vostra vita?

«Fondamentale – risponde Agostino
-. Il Signore è presente nelle nostre giornate e ci guida: tutti gli
ostacoli si trasformano positivamente e misticamente».

«In Algeria era difficile davvero
trovare l’occasione per pregare o per andare a messa – sottolinea Monica
-. A casa c’era sempre qualcuno delle nostre famiglie, ed io, facendo la
sarta, ricevevo molte donne e avevo sempre il timore che i miei figli,
abituati a parlare liberamente, rivelassero loro la nostra scelta
religiosa. Era rischioso, bisognava stare attenti. In particolar modo
quando, una volta al mese, veniva un sacerdote a celebrare la messa a casa
nostra, chiudevamo tutte le finestre e parlavamo a bassa voce. Nessuno
doveva sentirci. Ma siamo stati coraggiosi e tutto è sempre andato per il
verso giusto, anche quando, nel 2001, ci siamo trasferiti in Italia».

«Abbiamo infatti subito trovato
casa e lavoro, e presentato i documenti per la regolarizzazione – la
interrompe Agostino -. I nostri figli frequentano le scuole medie e
superiori e sono ben inseriti, vanno in parrocchia, hanno tanti amici.
Insomma, siamo felici e di questo ringraziamo Dio tutti i giorni.
Qualunque cosa chiediamo a Gesù, lui ce la concede. E noi lo ringraziamo
facendo tanto volontariato, soprattutto mia moglie: è un’attività che ci
piace molto, che ci dà gioia. Amare, donare, è qualcosa di magnifico, che
nell’islam ci mancava completamente.

Spesso, nei nostri paesi i soldi
della zakat, l’elemosina legale islamica, finiscono nella compra-vendita
di armi o nelle tasche dei ricconi potenti. Venendo dall’islam abbiamo
potuto constatare di persona la differenza tra questa religione e il
cristianesimo: chi segue l’insegnamento di Cristo ha tanto amore da dare,
ha un grande cuore e agisce per il prossimo senza interessi. Non è così
nell’islam! Prendiamo il pilastro stesso del digiuno durante il mese di
ramadan: è vietato mangiare dall’alba al tramonto, ma poi ci si abbuffa di
sera, spendendo un capitale in acquisti. Anche il cibo viene sprecato e i
prezzi lievitano. Ecco che, nonostante le critiche, si macchiano dello
stesso consumismo di cui accusano i cristiani per il natale».

 

 

 «Ridda»
o «irtidad» (apostasia) nell’islam

ll termine muslim significa
colui che è sottomesso a Dio e islam indica la resa, la sottomissione
e la devozione. Il musulmano, dunque, nasce e vive sotto la legge
islamica, la shari‘a, e non può scegliere per sé e per la propria
famiglia una religione diversa da quella dei padri.

In una prospettiva islamica,
perciò, chiunque abbandoni la propria fede commette un peccato
imperdonabile: si allontana da Dio e dalla comunità di credenti, la
ummah, e deve essere processato e invitato a pentirsi. Eventualmente,
può essere «aiutato» attraverso la tortura. Se tutto ciò fosse inutile
a far ravvedere l’apostata, la pena di morte potrebbe essere comminata
come conseguenza.

In Egitto, Marocco, Iran e
Pakistan molti convertiti sono stati sottoposti a maltrattamenti e
torture, che hanno portato, in alcuni casi, alla morte. Sono stati
registrati casi in cui genitori hanno murato vive le figlie
lasciandole morire di sete e di fame.

Tuttavia, in questo inizio di
secolo, sembra che vi siano stati solo sporadici casi di condanne a
morte. Teoria e pratica, dunque, non viaggiano parallele.

 Che
dice il corano?

Apostata è una persona che
abbandona una religione e ne adotta un’altra o si limita a
considerarsi ateo. Al giorno d’oggi, nell’islam, l’apostasia è un tema
complesso e molto dibattuto. Vediamo, allora, cosa dicono alcuni
versetti coranici.

«La religione presso Iddio è
l’islam» (sura III, v.19);

«Iddio non perdona che gli si
associno compagni, ma, all’infuori di ciò, perdona chi vuole. Ma chi
attribuisce consimili a Dio commette un peccato immenso» (sura IV,
v.48);

«Combattete coloro che non
credono in Dio e nell’Ultimo giorno e che non vietano quello che Dio e
il suo messaggero hanno vietato» (sura IX, v.29);

«I credenti sono coloro che
credono in Dio e nel suo Messaggero e non dubitano in quel credo»
(sura XLIX, v.17);

«Non prostratevi al sole o
alla luna, piuttosto prostratevi davanti a Dio che li ha creati, se è
Lui che adorate» (sura XLI, v.37);

«Giurano in nome di Dio che
non hanno detto quello che in realtà hanno detto, un’espressione di
miscredenza; hanno negato dopo aver accettato l’islam e hanno
desiderato quel che non hanno potuto ottenere. Non hanno altra
recriminazione se non che Dio col suo Messaggero li ha arricchiti con
la sua grazia. Se si pentono sarà meglio per loro; se invece volgono
le spalle, Dio li castigherà con doloroso castigo in questa vita e
nell’altra; e sulla terra non avranno né alleato né patrono» (sura IX,
v.74);

«Coloro che commettono
blasfemia e si separano dalla via di Dio e poi muoiono come
miscredenti Iddio non li perdonerà», (sura XLVII, v.34);

«Che non vi sia costrizione
nella religione: certamente il Giusto Sentiero si distingue
chiaramente da quello storto» (sura II, v.256);

«Coloro che credettero e poi
negarono, ricredettero e poi rinnegarono, non fecero che accrescere la
loro miscredenza. Dio non perdonerà loro né li guiderà verso il
Sentiero» (sura IV, v.137);

«Quando poi siano trascorsi i
mesi sacri, uccidete questi associatori ovunque li incontriate,
catturateli, assediateli e tendete loro agguati. Se poi si pentono,
eseguono l’orazione e pagano la decima, lasciateli andare per la loro
strada. Dio è perdonatore e misericordioso» (sura IX, v.5).

 Che
succede agli apostati?

«Alcuni commentatori sono
giunti alla conclusione che la punizione per chi rinuncia alla fede è
la morte» (1). Ciò che attende un adulto, dunque, sono 3 giorni per
ripensare alla propria scelta prima di essere giustiziato. Alcuni
ritengono che ciò debba avvenire, indifferentemente, se l’apostasia è
commessa in uno stato islamico o d’altra fede.

Secondo altre tendenze, è
necessario invece attenersi a quanto sancito dalla Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo in fatto di libertà religiosa.

Studiosi delle quattro scuole
giuridiche (shafi‘iti, hanbaliti, malikiti, hanafiti) collocano gli
apostati all’interno di tre categorie: quelli del cuore, coloro, cioè,
che dubitano dell’esistenza di Dio o del messaggio del suo profeta
Muhammad; la blasfemia del corpo, coloro che si prostrano ad altre
divinità; e la blasfemia che proviene dal dubitare su Dio e il suo
profeta.

Non vi deve essere costrizione
nella religione, recita il corano, ma le cose cambiano una volta che
il fedele ha scelto di abbracciare l’islam. Come chiaramente espresso
dalla sura IV, v.137, chi crede e poi nega è considerato un
miscredente (kafir) e non degno del perdono di Dio. Inoltre: «Nessun
credente e nessuna credente può scegliere a modo proprio quando Dio e
il suo Messaggero hanno deciso qualcosa», (sura XXXIII, v.36). Il
credente non è dunque libero di decidere se abbandonare o meno la
religione islamica. Anzi, l’apostasia è giudicata come un vero e
proprio tradimento.

La pena
capitale: sì, però…

Premesso tutto ciò, se una
persona rinnega l’islam pubblicamente e senza subire costrizioni, se è
pienamente cosciente ed adulta, la pena prescritta dalla shari‘a è la
morte per i maschi e la prigione a vita  per le donne.

Le modalità che portano alla
condanna per apostasia possono essere molteplici, e vanno dalla
dichiarazione esplicita del fedele («Io associo a Dio altre
divinità»), ad affermazioni che risultano blasfeme («Dio ha forma e
sostanza materiale»), ad azioni blasfeme come tenere con incuria il
corano o sporcarlo (ponendolo in posto sudicio, macchiandolo,
sfogliandolo con le dita sporche o appena portate alla bocca). Un
musulmano diventa apostata quando entra in una chiesa, prega un idolo
o pratica riti magici, oppure se dichiara che l’universo è esistito
dall’eternità, oppure che dopo la morte l’anima trasmigrerà o si
reincarnerà. Anche la diffamazione della personalità del profeta o
l’accusa agli angeli di avere qualità negative o il mettere in dubbio
le virtù ascetiche di Muhammad costituisce apostasia.

Chi rifiuta l’islam pur
essendo figlio di musulmani commette un «tradimento contro Dio», ed è
chiamato murtad fitri (apostata naturale). Se si pente può essere
perdonato.

Chi si converte all’islam e
poi cambia idea è definito murtad milli (apostata dalla comunità). Il
suo è considerato un tradimento contro la comunità e ai maschi può
essere comminata la pena di morte anche se si pentono.

Nel caso, raro, in cui un
apostata venga condannato a morte, la tradizione prevede l’esecuzione
attraverso il taglio della testa.

Tra i malikiti, gli hanbaliti
e gli shafi‘iti la pena inflitta a donne e uomini è quella capitale.

Tuttavia, il fatto stesso che
una sura, la IV, v. 137, possa recitare «Coloro che credettero e poi
negarono, ricredettero e poi rinnegarono, non fecero che accrescere la
loro miscredenza. Dio non perdonerà loro né li guiderà verso il
Sentiero», dimostrerebbe, secondo alcuni studiosi, come nel corano
l’apostasia sia possibile senza incorrere nella condanna a morte. Come
farebbe infatti il miscredente a credere e rinnegare, poi ricredere
per poi rinnegare se al primo abbandono venisse ucciso?

Molti studiosi sostengono che
i passaggi in cui Muhammad chiede la testa dei traditori della
religione siano da riferirsi a casi di alto tradimento, come
dichiarare guerra all’islam, al profeta stesso, mettere in pericolo la
ummah e così via. Casi storici circostanziati o di palese minaccia,
dunque. Sembra infatti che né Muhammad né i suoi successori abbiano
mai condannato a morte alcun apostata.

 A. L.

Riferimenti bibliografici:

 

Hamza Roberto Piccardo (a cura
di), Il corano, Edizioni Newton Compton, Roma 1996;

Abdurrahmani al-Djaziri (a
cura di), The penalties for apostasy in islam, in Light of Life,
Austria 1997;

Jean-Marie Gaudeul, Vengono
dall’islam chiamati da Cristo, Emi Editrice, Bologna 1995;

Mohammad Talbi, Le vie del
dialogo nell’islam, Edizioni della Fondazione Agnelli, Torino 1999;

Aa.Vv., Dibattito
sull’applicazione della shari‘a, Edizioni della Fondazione Agnelli,
Torino 1995;

Sito internet:
www.religioustolerance.org

 

(1) Ahmad Faiz bin Abdul
Rahman, «Malaysian laws on apostasy inadequate», at
http://www.iol.ie/afifi/

 

 

A colloquio con
don Fredo Olivero

(responsabile dell’ufficio
Migranti della Caritas di Torino)

 Don Fredo, hai mai incontrato
musulmani che ti chiedono di aiutarli a diventare cristiani?

«Sì. Ma voglio premettere che,
secondo noi, gli immigrati devono vivere bene la propria fede. Poi, se
qualcuno ci chiede informazioni sul cristianesimo, gliele foiamo».

 Quanti sono quelli che si sono
avvicinati alla chiesa cattolica?

«La cifra esatta è difficile da
quantificare, ma sono almeno un centinaio, negli ultimi anni, quelli che
hanno chiesto di avere una bibbia in arabo o in francese. A tutti coloro
che ci chiedono di abbracciare la fede cattolica noi consigliamo
un’attenta riflessione; gli diciamo: “Fate attenzione, perché nei vostri
paesi perdete ogni diritto. Se avete programmato di stare qui per sempre,
va bene, ma se avete intenzione di far ritorno in patria, può diventare
pericoloso”. Molti, alla fine, ci ripensano.

Saida, una ragazza somala,
recentemente mi ha detto: “Ora basta. Sono due anni che metti ostacoli
alla mia conversione. Ho deciso: voglio diventare cristiana. Sono stata
accolta da voi e non mi avete chiesto nulla: ecco ciò che mi ha
conquistata. Per queste ragioni voglio farmi battezzare”. Adesso sta
seguendo il percorso catechistico e fra due anni potrà ricevere il
battesimo.

Ma anche momenti come “Estate
ragazzi”, al Centro Asai, possono servire affinché gli adolescenti,
italiani e immigrati di fede islamica, si conoscano e facciano amicizia.
Ci sono infatti molti ragazzini musulmani che frequentano l’oratorio e il
catechismo: loro ci parlano della loro religione e noi della nostra. È
molto bello. È un’occasione preziosa di dialogo».

 Quali sono i gruppi etnici di
fede islamica che hanno chiesto il battesimo in questi ultimi anni?

«Senegalesi, ivoriani, somali,
maghrebini, albanesi».

 Quanti sono stati finora?

«Due o tre all’anno. Prima erano
solo albanesi, nell’ordine di una decina e altrettanti dai paesi dell’Est.
Mi viene in mente una coppia, lui regista, lei attrice di teatro. Da anni
risiedono in Italia e sono diventati cristiani dopo un lungo percorso di
studio e ricerca.

Comunque, noi non cerchiamo di
convertire nessuno. Tentiamo soltanto di far conoscere all’immigrato
musulmano l’ambiente culturale e religioso in cui ha scelto di vivere. È
importante che l’accoglienza parta da una solida identità sia del paese
ospite sia delle comunità immigrate.

Gli albanesi invece spesso
confondono la religione cristiana con la cittadinanza italiana, quasi che
la prima possa aiutare ad ottenere la seconda. Ma non è così, ovviamente».

 Ti è mai capitato che qualche
musulmano ti chieda di abbracciare l’islam?

«Certo. E gli rispondo: “Ciascuno
di noi pensa che la propria fede sia la migliore. Allora, tu ti tieni la
tua ed io la mia”. E così, in condizioni di parità, possiamo ragionare sul
valore dell’amicizia, per esempio.

Qui, alla Caritas-Migranti,
portiamo avanti un confronto dove ognuno accetta l’altro senza cercare di
convertirlo. È necessario che passi il concetto della “diversità” e della
tolleranza».

 E come la metti con il divieto
islamico dell’apostasia?

«Generalmente, all’interno di una
comunità etnica tutti vengono a sapere se una persona ha lasciato l’islam
per il cristianesimo. Qui in Italia ciò che rischiano è, al massimo,
qualche insulto.

Nei paesi d’origine il pericolo è
maggiore, e si può essere oggetto di discriminazione e minacce di morte.
Questo non vale per gli albanesi: la religione non conta molto. I
marocchini, invece, disprezzano i convertiti, li considerano gente venduta
all’Occidente».

 

 

A colloquio con
don Tino Negri

(direttore del Centro diocesano di
Torino per le relazioni cristiano-islamiche)

 

Don Tino, quanti sono i
musulmani che si sono convertiti al cattolicesimo?

«È impossibile saperlo, perché non
vanno in giro a raccontarlo».

 

Ne hai incontrato qualcuno?
Puoi parlarne?

«Due o tre, ma non ho saputo quasi
nulla dei motivi che li hanno spinti alla conversione. Occorre del tempo
per entrare in amicizia: le persone che ho conosciuto si sono limitate a
comunicarmi che sono diventate cristiane e a partecipare alla messa da me
celebrata facendo la comunione. Ed è già molto».

 

Perché, nella ummah islamica,
la conversione di musulmani albanesi è più tollerata rispetto a quella
degli arabi?

«Perché gli arabi considerano se
stessi il centro del mondo e della fede islamica e pensano che solo loro
siano in grado di esserle fedeli, mentre gli altri gruppi etnici possono
diventare dei traditori, perché non appartenenti alla “culla
dell’islam”». 

 

Come si pone la chiesa di
fronte al fenomeno delle conversioni di musulmani?

«La chiesa è mandata da Cristo ad
evangelizzare e, dunque, deve accogliere nella comunità coloro che
chiedono il battesimo. Tuttavia occorre qualche prudenza. Prima di tutto,
è necessario verificare la vera disponibilità alla conversione; poi, è
indispensabile una seria e lunga preparazione catecumenale, e verificare
che la persona sia indipendente, che abbia cioè un lavoro, che non
coinvolga la moglie (nel caso sia sposato e questa non voglia seguirlo
nella sua scelta), che sia libero da pressioni dei genitori e da
ritorsioni del suo ambiente, e così via.

Il battesimo non dovrà essere un
atto pubblico (soprattutto se si tratta di un arabo), e sarà
indispensabile per lui o lei essere inseriti in una comunità veramente
accogliente.

Sarà necessario un accompagnamento
continuo nella fede, perché molti neofiti incorrono in problemi ulteriori
e rischiano di abbandonare la strada che stanno percorrendo.

Per tutte queste difficoltà
bisogna evitare di battezzare i minori, a meno che non ci sia l’appoggio o
la conversione dei genitori».

 

Che dimensioni ha, secondo te,
il fenomeno delle conversioni? Si tratta di casi isolati?

«A mio parere si tratta ancora di
pochi casi. È certo che, se fossero liberi di scegliere, molti musulmani
passerebbero al cristianesimo. Troppi hanno paura di farlo e altri non
conoscono il cristianesimo, perché l’islam ne dà un’immagine sbagliata,
proibendo anche di leggere i vangeli».

Angela Lano




JOHANNESBURG NON E’ PORTO ALEGRE

INCONTRO CON: Mercedes Bresso (presidente provincia di Torino)

Se i paesi del Sud
adottassero i modelli consumistici del Nord, la terra non potrebbe
sopportarlo. Per uno sviluppo sostenibile non basta  il progresso
tecnologico. Occorre che i paesi ricchi scelgano uno stile di vita più
sobrio.

Anche perché la sobrietà può
essere felice.

 

 

«L’uomo non deve sostituirsi
a Dio»: sono le parole del papa nei giorni antecedenti il summit di
Johannesburg. Un commento.

Non conosco esattamente il
contesto nel quale si è espresso il papa.

Immagino intendesse il rischio nel
produrre modificazioni permanenti degli ecosistemi terrestri.
Un’interferenza umana forte nel mondo animato ed inanimato sconta
un’ignoranza della logica complessiva del creato e può creare disastri,
cosa che per altro stiamo vedendo in maniera abbastanza precisa. Questa è
la mia interpretazione. Non dimentichiamo che, quando si parla di sviluppo
sostenibile, non si intende soltanto l’ambiente in senso fisico, ma anche
sociale e, quindi, delle modifiche che danneggiano gli ecosistemi e le
loro popolazioni: pensiamo ai processi di desertificazione in Africa, agli
interventi umani che hanno prodotto distruzioni gigantesche, alle
monocolture. Tutto questo produce disastri ambientali e in definitiva
povertà delle popolazioni.

Il papa ci ricorda perciò il
nostro dovere di aiutare lo sviluppo, senza cadere nello sfruttamento.

Un monito quindi: l’economia non
interferisca con il creato e non produca disastri sociali.

 

Il pianeta sta meglio o
peggio dopo la conferenza di Johannesburg?

È molto difficile rispondere a
questa domanda. Questi grandi summit hanno l’indubbio vantaggio di
sensibilizzare le opinioni pubbliche e possono, quindi, far muovere le
coscienze a tutti i livelli: dal singolo cittadino al capo di un governo.
Inoltre, dopo Rio (1992), 600 enti locali hanno deciso di attuare la Local
Action 21, ovvero l’Agenda 21 a livello locale.

Questi enti si impegneranno a
realizzare nei prossimi 10 anni le politiche di sostenibilità teorizzate
dal 1992 ad oggi. In questo senso la provincia di Torino ha già iniziato
l’attuazione dei piani d’azione con la destinazione di circa 12,5 milioni
di euro al Forum dell’Agenda 21, in modo da dimostrare che impegnarsi a
progettare per poi attuare serve. E porta a risultati.

Parallelamente bisogna ammettere
che, a differenza delle Ong e di moltissimi enti locali, è mancata la
buona volontà da parte dei governi centrali e gli impegni presi a
Johannesburg sono stati molto modesti.

 

A Johannesburg è stato
finalmente messo in discussione il concetto di crescita quantitativa,
ovvero l’idea dell’aumento continuo del PIL?

Non è possibile teorizzare la
crescita infinita. Probabilmente, nella storia dell’umanità, la crescita
continua di beni materiali è solo un momento. Dobbiamo lasciare alle
generazioni future la possibilità di vivere avendo le risorse fisiche,
scientifiche e sociali necessarie.

 

Pensa che un’espansione del
libero mercato nei paesi in via di sviluppo, ad esempio la Cina, possa
essere sostenibile per il pianeta terra?

È necessario trovare un modello di
sviluppo che non ricalchi il modello occidentale di crescita forsennata.
Qualora Cina o India si sviluppassero sui nostri modelli consumistici,
porrebbero dei seri problemi di reperimento di risorse naturali.

Non va comunque dimenticato come
il progresso tecnologico possa aiutare i paesi del Sud a raggiungere uno
sviluppo sostenibile, che dia cioè a tutti la possibilità di una vita
dignitosa senza distruggere la terra. Questo significa non imitare il
modello di vita nordamericano e nemmeno quello europeo.

Ad esempio, se i cinesi non
potranno vivere in maniera «insostenibile» come gli italiani, non
significa che dovranno vivere in maniera peggiore.

 

Come interpretare il
problema demografico alla luce del fatto che un nordamericano consuma, ad
esempio, come 1.200 ruandesi?

È vero, siamo in tanti e una parte
di noi consuma troppo. Se tutti consumassimo in maniera eguale e se non si
fermasse il boom demografico, la situazione diverrebbe insostenibile.
Bisogna però sottolineare che, di norma, ad un aumento del tenore di vita
corrisponde una diminuzione della crescita demografica. Questo grazie
all’utilizzo di tecniche sanitarie migliori, degli anticoncezionali e ad
uno stile di vita diverso.

 

Come concretizzare il
concetto di sviluppo sostenibile nei paesi ricchi?

È assolutamente possibile ridurre
l’impronta ecologica, anche senza produrre un peggioramento della qualità
della vita. Bisogna iniziare a separare il concetto di sviluppo da quello
del consumo di risorse.

Inoltre, non è più possibile
sostenere un sistema dove il reddito ed il lavoro siano legati ad un
aumento dei consumi.

Ci sono alcuni aspetti sui quali
si può agire. Il più importante è quello dei consumi energetici, sulla
loro qualità e quantità. Questo è il nodo principale dell’umanità: bisogna
uscire dall’era dei combustibili fossili e parallelamente consumare meno.

Lo stesso vale per la produzione
materiale: alcuni comparti dell’industria stanno cominciando a produrre
beni con un minor utilizzo di materia. Per altri la situazione è diversa.
Per esempio, nell’industria alimentare è ancora eccessivo l’utilizzo
dell’imballaggio, tra l’altro quasi sempre non riciclabile.

Tuttavia, il problema di fondo
rimane la ricerca di stili di vita più sobri.

Per raggiungere una «sobrietà
felice» è ipotizzabile, ad esempio, la sostituzione della vendita di beni
materiali con quella di servizi. Questo non significa che vivremo peggio;
vivremo solamente in un modo diverso.

Un caso concreto: immaginiamo un
condomino dove ogni famiglia possiede il proprio aspirapolvere. Si
potrebbe appaltare il lavoro di pulizia ad una ditta che farebbe lo stesso
lavoro, ma con molto meno apparecchi e dunque meno consumo di risorse.

 

Perché il cittadino ha
difficoltà ad accettare i temi ambientali?

La vita di oggi è troppo
forsennata. L’attenzione verso l’ambiente arriverà anche da una maggiore
calma nella nostra quotidianità. Per raggiungere questo obiettivo, le
istituzioni dovranno offrire dei servizi migliori, anche con l’aiuto delle
Ong.

D’altra parte, è vero che,
purtroppo, esistono paesi in cui la cultura ambientale non è ancora
penetrata.

Per queste ragioni la nostra
provincia aiuta le scuole, le industrie ed i singoli cittadini ad avere
una maggiore sensibilità nei temi ambientali come dimostra la campagna sui
rifiuti dei mesi passati (cfr. Missioni Consolata, settembre 2002).

 

Un commento sulla politica
ambientale italiana.

In generale l’Italia è sempre
stata in ritardo nelle politiche ambientali. In particolare, il governo
Berlusconi, aldilà delle sue generiche affermazioni, non ha battuto alcun
colpo in tema ambientale. Limitandoci al Piemonte, è da ricordare che
tutte le aree protette sono state fatte dai governi di centrosinistra.

 

Presidente Bresso, il suo
stato d’animo al ritorno da Porto Alegre (gennaio 2002) e da Johannesburg
(settembre 2002)…

Da Porto Alegre molto positivo.
Sembra che ci siano forze, risorse e volontà per cambiare il mondo, pur
senza un atteggiamento rivoluzionario.

Da Johannesburg meno, nel senso
che gli enti locali e le Ong rimangono ferme sulla volontà di cambiamento,
ma i governi, capeggiati dagli Usa (senza con ciò voler fare
dell’antiamericanismo), non hanno un atteggiamento di apertura verso i
gravi problemi planetari. La mia impressione è che ci sia un allentamento
dell’attenzione sulla questione ecologica.

Rimango però fiduciosa nel
comportamento dei giovani che, apparentemente, risultano più sensibili ai
problemi dello sviluppo e dell’ambiente.

 


Chi è? Mercedes Bresso

 

Mercedes Bresso, professoressa
di economia ed economia dell’ambiente presso il Politecnico di Torino,
è presidente dell’omonima Provincia dal 1995.

È autrice di numerosi saggi ad
uso universitario:

– Mercedes Bresso, «Pensiero
economico e ambiente», Loescher, Torino 1982

– Mercedes Bresso, Alberico
Zeppetella, «Il turismo come risorsa e come mercato», Angeli, Milano
1985

– Mercedes Bresso, Rosanna
Russo, Alberico Zeppetella, «Analisi dei progetti e valutazioni
d’impatto ambientale», Angeli, Milano 1990

– Mercedes Bresso, «Per
un’economia ecologica», NIS, Roma 1993

– Mercedes Bresso, «Economia
ecologica», Jaca Book, Milano 1997

 

Silvia Battaglia Maurizio Pagliassotti




IL CONCILIO VATICANO II 40 anni dall’11 ottobre 1962

E LA CHIESA INCONTRA IL MONDO

L’ 11 ottobre 1962 è la data che
segna l’inizio del più grande evento della chiesa cattolica nel XX secolo.
Quel giorno, nella basilica di San Pietro, papa Giovanni XXIII apre il
Concilio ecumenico Vaticano II con la solennità tipica degli anni ’50.
Fortemente voluto dal pontefice per conferire nuova vitalità alla chiesa
ed aprire nuove vie nel dialogo ecumenico, il Concilio viene vissuto come
una straordinaria esperienza di rinnovamento.

Il Vaticano II è stato il 21°
Concilio ecumenico nella storia della chiesa. Annunciato a sorpresa da
papa Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959 (dopo appena tre mesi di
pontificato) nella basilica di San Paolo a Roma, apre i battenti l’11
ottobre 1962 e si conclude, dopo quattro sessioni, il 7 dicembre 1965
sotto Paolo VI.

All’evento partecipano 2.540
«padri», sotto il consiglio di presidenza di 10 cardinali. Per la
conduzione delle 168 assemblee plenarie, il papa nomina come moderatori 5
cardinali. Dei 73 progetti elaborati da 10 commissioni preparatorie (che
svolgono il lavoro principale) solo 17 sono presentati in aula;
moltissime, tuttavia, sono le proposte e le richieste di riforma espresse
in sede di assemblea plenaria. Il Concilio si avvale della consulenza di
200 teologi «periti». Gli osservatori delle chiese o comunità non
cattoliche sono 93.

Grande risalto assume il volto
universale della chiesa, espresso dalla partecipazione di vescovi in
maggioranza extraeuropei (100 anni prima, i 700 vescovi che hanno
partecipato al Concilio ecumenico Vaticano I erano, all’opposto, quasi
tutti europei). Per la prima volta vengono ammessi gli «auditori laici»:
un fatto che evidenzia la nuova posizione della chiesa rispetto al
laicato.

Ancora: per la prima volta
l’opinione pubblica, grazie ai mass media, può seguire l’avvenimento, che
ha una risonanza inattesa anche fuori del mondo cattolico, riscuotendo
consensi in ambienti pure critici della chiesa di Roma.

Pochi sono consapevoli della
portata storica che il Concilio avrebbe avuto. La finalità che lo stesso
Giovanni XXIII prospetta all’inaugurazione è l’«aggioamento»: occorre
rendere la chiesa più adatta ad annunciare il vangelo ai contemporanei;
ricercare le vie per raggiungere l’unità delle chiese cristiane; rilevare
quanto di positivo esiste nella cultura contemporanea, dando vita ad un
nuovo dialogo con il mondo moderno.

È una intuizione profetica, che
apre la strada ad un profondo rinnovamento della chiesa nella dottrina e
nella vita.

 

Delle quattro sessioni, Giovanni
XXIII segue solo la prima (11 ottobre-8 dicembre 1962), durante la quale
si svolgono 36 assemblee plenarie. Contrariamente a quanto programmato
dalla curia, i membri delle singole commissioni sono eletti dagli stessi
padri conciliari su indicazione di gruppi di vescovi. Dopo la morte di
papa Roncalli, 3 giugno 1963, Paolo VI decide di continuare l’opera del
predecessore.

Secondo l’intuizione di papa
Giovanni, il Concilio, avviando l’«aggioamento», deve trovare modi nuovi
di portare il messaggio evangelico ad un mondo in radicale trasformazione;
deve essere «pastorale», capace di riconoscere quei «segni dei tempi» che
possano aprire alla fiducia, offrire speranza a una società proiettata nel
futuro del progresso tecnologico ed economico, ma anche gravata da
inquietanti interrogativi sul suo futuro.

Alla luce di questa ispirazione,
il Concilio rinnova la comprensione che i fedeli hanno della chiesa,
facendo riscoprire la dimensione comunitaria, la centralità della parola
di Dio e la liturgia. Soprattutto, dispone la chiesa ad un dialogo diverso
con il mondo moderno.

Negli anni successivi alla II
guerra mondiale la preoccupazione fondamentale della chiesa cattolica è la
lotta contro il comunismo. Ma sempre più forti sono, nella base ecclesiale
dei paesi occidentali, le preoccupazioni per i sintomi sempre più
espliciti e gravi dello scollamento della chiesa dalla società modea.
Se, da un lato, la modeità continua a rappresentare, come all’inizio del
secolo, lo spettro di un nemico che contende alla chiesa la supremazia
sulla società occidentale, dall’altro essa si presenta come una sfida cui
i cattolici devono rispondere con mezzi nuovi, cominciando da una
riflessione sul loro mondo.

Questi problemi sono ben presenti
ai padri del Vaticano II. Per molti di loro il Concilio deve essere una
risposta adeguata alle questioni poste dal mondo moderno. Ma non è facile
trovare una forma appropriata per esprimere in un documento tali
preoccupazioni. Per questo l’elaborazione del documento Gaudium et spes
(dedicato al rapporto chiesa-mondo) è complessa e tormentata. Il carattere
«pastorale», intuito da Giovanni XXIII, è un faticoso banco di prova per i
padri. È un elemento di contesa.

Il delicato equilibrio tra
«dottrina» e «pastorale» mette in gioco il significato che la storia degli
uomini ha nel bagaglio di fede della chiesa.

 

Il documento Gaudium et spes è
un’espressione riflessa di come il magistero ecclesiastico consideri il
rapporto tra la chiesa e il mondo moderno, sia esso interpretato nel segno
del dialogo, della presenza, della solidarietà o secondo altri paradigmi,
tra i quali i padri conciliari devono scegliere.

La scelta dei temi da trattare (e
soprattutto la forma con cui trattarli) è certamente il frutto di una
difficile mediazione-maturazione, che costituisce oggi uno dei problemi
più interessanti nella lettura di Gaudium et spes. Il documento è oggetto
di polemiche per le questioni che, con coraggio, vi si affrontano:
famiglia, controllo delle nascite, vita politica ed economica, cultura,
comunismo, guerra e armi nucleari.

Il documento rappresenta, in ogni
caso, il crinale tra una chiesa arroccata in un fortilizio e una chiesa
più evangelica, alla ricerca della radicalità delle origini, in grado di
confrontarsi con la modeità.

Alla redazione del testo
collaborano centinaia tra padri conciliari e teologi (compreso
l’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla), alla ricerca di nuove soluzioni.
E Gaudium et spes rimane uno dei documenti più condizionati dalla
situazione storica del tempo e dai compromessi necessari per poterlo
promulgare. Tuttavia, per i principi che enuncia, è anche uno dei più
significativi e importanti segni del Vaticano II…

In Italia il Concilio viene
accolto con grandi speranze dal popolo cristiano, ma anche dal mondo
laico… Poi il post-concilio si presenta con un decennio di forti
contrasti interni alla chiesa, tra gerarchia e comunità di base cristiane.

Se vi sono cardinali (come Giacomo
Lercaro a Bologna e Michele Pellegrino a Torino) che danno un grande
impulso al rinnovamento ecclesiale, altri porporati (Alfredo Ottaviani e
Giuseppe Siri) vedono nel Concilio un possibile pericolo per il futuro
della chiesa. Tuttavia anche per questi contrasti, inusuali nella storia
della chiesa italiana, la stagione post-conciliare è ricca di fermenti e
stimoli; è segnata da un rinnovato clima di dialogo e confronto tra le
diverse componenti sociali, culturali e politiche.

Rilancia la missio ad gentes in
termini più impegnativi.

 Oggi, a 40 anni dal suo inizio,
il Concilio continua a far discutere. Forse mai come in questi ultimi
tempi, mentre volge al tramonto il pontificato di uno degli ultimi padri
conciliari, il Vaticano II è al centro di una contesa tra diverse
interpretazioni anche all’interno della chiesa italiana.

C’è da augurarsi che prevalga il
coraggio della fede, e non la paura. Nel vangelo si legge: «Io sarò con
voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (Mt 28, 20).

Luca Rolandi




«LA PARTENZA» grandi attori interpretano Giuseppe Allamano

IL «SALGARI» DELLA MISSIONE

Come esprimere le emozioni
dopo una ricerca appassionante, tesa a far conoscere un grande uomo?
«Io conoscevo poco Giuseppe Allamano: fra i “santi sociali” del
Piemonte,egli mi era apparso solo un “silenzioso”.
E per molti torinesi Allamano è soprattutto “un corso”.
Sì, avete capito bene: un corso, che collega Torino a Grugliasco.Ma è
possibile?».
È l’interrogativo provocatorio di Paolo Damosso, regista del film «La
partenza».
Il protagonista? Lui, ovviamente: il beato Giuseppe Allamano,fondatore
dei missionari e delle missionarie della Consolata

 

La prima riunione è in Corso
Ferrucci 14, Torino, nella casa madre dei missionari della Consolata:
quasi due anni fa.

I padri Francesco Beardi e
Giacomo Mazzotti parlano con entusiasmo di Giuseppe Allamano, ed io
ascolto le prime informazioni con la curiosità di chi si addentra in un
mondo sconosciuto. «Deve scattare qualcosa “dentro”. Occorre trovare
un’idea» ripeto meccanicamente ai due missionari, senza sapere ancora da
che parte parare. Li lascio con un borsone zeppo di libri e… tanta
confusione mentale.

Dopo giorni di decantazione,
leggo, annoto, sottolineo: e (sorpresa!) scatta quel «qualcosa». Inizio ad
intravvedere un percorso, una strada. Sono di fronte ad una storia, una
bella storia, unica e particolarissima.

I missionari della Consolata, tra
l’altro, vantano una grande tradizione nel settore dell’immagine. Molti
sono i programmi televisivi, i documentari realizzati: alcuni
preziosissimi anche per il periodo storico in cui sono stati realizzati.

Per questa ragione s’impone una
scelta: sviluppare un progetto su una personalità forte, con
caratteristiche mai sovrapponibili a quanto è già stato fatto. Che sfida!

 Giuseppe Allamano inizia a
sbalordirmi, ad occupare i miei pensieri. Ne parlo con tutti. Alcune notti
lo sogno.

Mi colpisce il carattere mite, ma
con idee chiare. Una persona che rispecchia le caratteristiche della sua
terra, Castelnuovo (AT), dove nasce nel 1851. Un uomo «con i piedi per
terra» e la mente sempre in viaggio, in perenne movimento fino alla morte
(Torino, 1926). Nasce così l’idea de «La partenza», il titolo del film che
riassume bene le prime sensazioni provate.

Ciò che mi sorprende è che
l’Allamano, un secolo fa, abbia parlato dell’Africa ed abbia entusiasmato
i giovani a fare una scelta missionaria difficile e «misteriosa», a
partire… E lui non parte! Un uomo che trascorre 46 anni nel santuario
della Consolata, e che, nello stesso tempo, si fa carico dei problemi nel
sud del mondo. Terre sconosciute, inesplorate; però ne parla con
competenza, convinzione, fede soprattutto! Lo si nota leggendo il suo
bollettino La Consolata, ricco di immagini sul continente nero.

Non c’è la tivù, non c’è internet,
non c’è «il villaggio globale», eppure l’Allamano «abbraccia il mondo
intero» con uno slancio e una progettualità invidiabile anche per noi, che
quotidianamente ci interroghiamo sullo squilibrio fra nord e sud del
mondo. Stupefacente è pure il fatto che non siamo di fronte ad «un
avventuroso»; viceversa, è nitida la profonda spiritualità che guida ogni
decisione, sempre ben ponderata.

Per l’Allamano, l’idea di
«partenza» è elastica. Non si può ridurla ad un fatto meramente fisico.
«Si può partire, viaggiare e fare tanta strada anche stando fermi»: è una
delle battute finali nella sceneggiatura che ho scritto. Non è solo un
gioco di parole, ma la traduzione di una delle mie primissime riflessioni.

«L’Allamano è il Salgari della
missione» dico a mia moglie una sera a cena. Una provocazione, per far
capire che si può comunicare un’emozione anche su un luogo mai conosciuto
di persona. La giungla, mai vista da Emilio Salgari, ha segnato un
successo editoriale. L’Africa, mai visitata dall’Allamano, ha
rappresentato «un successo missionario», un nuovo modo di evangelizzare,
di vivere la vocazione, di incontrare l’uomo.

Questo mi invoglia ad approfondire
lo studio. Inizio ad «immaginare l’Allamano». Che tipo è? Come si muove e
come parla?

Incontro le persone che ancora lo
ricordano. E scopro che, a Venaria (il comune in cui vivo), tra le
missionarie della Consolata ci sono ancora «testimoni oculari»,
preziosissime. Suor Antonietta ha 100 anni. Incontrarla è un’enorme
emozione per me, affamato di informazioni dirette, di dettagli, anche
minimi.

 Il film è molto articolato. È un
lavoro che alterna momenti di fiction a monologhi teatrali e parti
documentaristiche.

La vicenda si sviluppa su vari
livelli. In primo luogo, c’è una storia ambientata ai giorni nostri:
riguarda Tullio e Anna, due anziani coniugi. Tullio è ultranovantenne, ha
conosciuto l’Allamano e ne è rimasto così colpito da avere «la tentazione»
di partire per la missione: una decisione che non ha realizzato. Per tale
ragione, ora che è vecchio, trascorre il tempo a ricordare, leggere,
guardare filmati missionari, e tormenta moglie e figlio sulla sua mancata
partenza.

In secondo luogo, c’è la vicenda
di Bruno, il figlio dei due coniugi. È un attore che sta preparando un
recital proprio sull’Allamano; quindi, oltre a cercare di far ragionare il
vecchio padre, viaggia attraverso i luoghi legati al personaggio da
rappresentare, provando alcuni brani dello spettacolo tratti dagli scritti
dell’Allamano.

Infine, ecco l’amico, il braccio
destro del fondatore dei missionari e missionarie della Consolata: Giacomo
Camisassa. È una colonna portante, da evidenziarsi nel modo più efficace.
Camisassa sarà presente con la voce affascinante (fuori campo) di Aoldo
Foà: una voce che accompagna lo spettatore nel percorso biografico del
protagonista.

Non mancano i filmati d’epoca, che
ci calano dentro una storia centenaria, che continua a svilupparsi negli
angoli più remoti della terra, là dove operano e faticano i missionari
della Consolata.

Questi sono gli ingredienti della
«torta», che vanno impastati, fatti lievitare e cotti a puntino. A tutti
l’onore di «assaggiare il dolce della casa». Ed anche… buona «partenza»!

 


Intervista con gli attori


PARTIRE, MA ANCHE ARRIVARE


Franco Giacobini
,
grande attore
romano, oltre 100 film, con la voglia di misurarsi ancora con un nuovo
personaggio, motivato da una tensione spirituale che non lo abbandona mai.

 Signor
Giacobini, dopo una lunga carriera, in questi ultimi anni spesso
interpreta santi. Perché?

Ho scoperto i santi dopo i 70
anni. In essi mi colpisce la coerenza, merce rara in questi tempi. Sono
persone che hanno preso alla lettera una o due verità fondamentali del
cristianesimo. Sarebbe imperdonabile non meditare su loro.

 Del beato Giuseppe Allamano
che cosa l’ha colpita?

Sono strabiliato dal «paradosso
Allamano»: il suo slancio verso una terra sconosciuta come l’Africa ha
dell’incredibile. È «la follia dei santi», che è contagiosa.

 Il suo personaggio è Tullio,
di 96 anni, che ha conosciuto l’Allamano. Come si è trovato in tale ruolo?

Il regista mi conosce bene, e ha
creato un personaggio che mi assomiglia. L’unica differenza è che Tullio
ha 20 anni più di me.

 È stato difficile
«invecchiarsi»?

Ero soprattutto preoccupato di
rendere credibile la mia età. Oggi a 96 anni si può ancora essere
autosufficienti; ma il mio personaggio ha caratteristiche complesse: è un
visionario, un po’ arteriosclerotico, ma con momenti di lucidità quasi
imbarazzante. La cosa più faticosa è che ho dovuto farmi crescere una
lunga barba: oltre sei mesi di sofferenza…

 La sua maggiore
preoccupazione?

Essere credibile. Deve sempre
essere evidenziata la verità. C’è un solo comandamento nella recitazione:
«Non bisogna dire bene; bisogna dire vero».

 Il titolo dello sceneggiato è
«La partenza». Che significa per Franco Giacobini?

«La partenza» ha senso se si
individua anche un «arrivo»: non è un gioco di parole. Ecco perché invidio
i missionari: sono accecati da un’energia vitale e la comunicano agli
altri. Di fronte a gente triste e spenta, «illuminano una strada» e
indicano la meta da raggiungere.

 C’è una curiosità legata a
quest’esperienza?

Certo. Ultimamente ho problemi di
memoria. In questo caso è stato tutto poco faticoso. È stato l’Allamano a
suggerirmi le battute all’orecchio?

 


Angela Goodwin
, moglie di Franco Giacobini anche nella vita,
ha lavorato con la professionalità di sempre. Lei, che ha recitato con
Sofia Loren, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, ecc.

 

Signora Goodwin, qual è il suo
ruolo?

Io interpreto Anna, la vecchia
moglie di Tullio, il testimone oculare dell’Allamano. È una donna
semplice, che ha dedicato tutta se stessa al marito. Una donna d’altri
tempi. Positiva in tutti i sensi, un po’ ansiosa; però, mi auguro,
simpatica.

 Quanto è importante essere la
moglie di Tullio anche nella vita?

È indubbiamente un aiuto
psicologico; facilita ad essere più vera nell’atteggiamento amoroso e c’è
sicuramente più feeling. Sono stata moglie di vari attori sul set, come
Philippe Noyret o Renato Rascel. In quei casi dovevo concentrarmi di più,
perché c’era il rischio di essere meno spontanea. E poi… bisogna
piacersi!

 E dell’Allamano cosa pensa?

È delizioso: uno che ha camminato,
ha attraversato la storia, «apparentemente» senza far rumore. È il vero
prete, l’uomo umile, che tutti vorremmo incontrare quando entriamo in
chiesa.

Ho guardato e riguardato le sue
foto: il portamento, i tratti somatici e le espressioni rivelano una
personalità docile. Il fatto è che sapeva molto bene quello che voleva, e
lo ha dimostrato. Ciò significa che, per costruire grandi cose, non
occorre gridare, né prevaricare sugli altri. Meglio sorridere, parlare a
voce bassa, comunicare amore.

 Com’era il clima umano sul
set?

È stata una vacanza. Lo
sottolineo: e questo è dovuto alla troupe della Nova-T. Una festa di
affetti ed attenzioni. Mai un momento di disagio.

 Chi è il missionario per
Angela Goodwin?

Una persona dedicata agli altri,
non a se stesso. Un uomo che non mette mai in evidenza il proprio io.

 


Flavio Bucci
, un talento artistico, una vis teatrale senza
pari, ha creduto fin da principio ne «La partenza» e ha conferito forza
alle parole dell’Allamano, rendendole vive e attuali.

 

Signor Bucci, perché ha
accettato questo ruolo?

Nella mia vita di attore, con 35
anni di carriera, ho interpretato diversi preti, tra cui don Sturzo; sono
stato vescovo, però mai mi ero calato nel ruolo di un santo o beato. Per
me l’Allamano è una grande scoperta.

 C’è qualcosa che le è rimasto
impresso nel viaggio piemontese sui luoghi di Allamano?

Due luoghi in particolare mi hanno
incuriosito: il museo etnografico dei missionari della Consolata a Torino.
È interessantissimo. Sono rimasto colpito dal fatto che, in questi grandi
saloni, pieni di oggetti, si può fare un viaggio nel tempo e nello spazio.
Molte cose ti sembrano stranissime e di mille anni fa; in realtà, spesso,
sono oggetti comuni e magari sono lì da pochi giorni… Capisco allora che
la mia ottica di uomo, figlio del benessere dei paesi dominanti, è
profondamente distorta. In secondo luogo, mi ha colpito il salone dei
vescovi in curia. Cento volti avvolgono la sala; provengono da epoche
lontane e mi hanno fatto uno strano effetto.

 Dell’Allamano che cosa le è
rimasto?

È un uomo incredibile con aspetti
anche curiosi. Penso, per esempio, al fatto che sia riuscito ad
appassionarsi all’Africa senza averla mai vista: eppure ha creato un
evento importante. È un leader con un grande carisma.

 Lei è un uomo di cinema. È
vero che l’Africa è penalizzata anche in questo campo?

Ho scoperto l’Africa quattro anni
fa, mentre giravo un film in Kenya. Non posso dire di conoscerla, perché
vivevo in modo confortevole e protetto. È vero però che il cinema ha
snobbato l’Africa e, in genere, il sud del mondo. Forse il grande pubblico
preferisce storie disimpegnate, futili. Ma siamo noi, dell’ambiente, che
dovremmo educarlo meglio.

 Chi sono i missionari per
Flavio Bucci?

Quando penso ai missionari non so
se invidiarli o meno. Sono una spinta che, potenzialmente, si nasconde in
molti di noi. Poi magari, come succede nel film girato, non si «parte».
Però si può essere missionari sotto vari aspetti: anche nel mio ambiente.
In questo momento potrei essere «missionario nel nome del teatro».

Paolo Damosso