Non sono terrorista. Ma…

Ramallah, Nablus e soprattutto Jenin. Morte, distruzione e, purtroppo,sentimenti d’odio che crescono e si radicano negli animi.
Il racconto del nostro inviato nei territori occupati dalle truppe di Ariel Sharon non lascia spazio alla fantasia.

Mai mi sarei aspettato di trovarmi
di fronte ad una devastazione
del genere: Ramallah
è distrutta parzialmente,
Nablus e il campo profughi di Jenin
lo sono quasi completamente.
Lavorare è difficile. Non abbiamo
il permesso di entrare da nessuna
parte: i soldati sembrano quasi
divertirsi ad inseguire i giornalisti.
«It’s like a play: sometime you
win, sometime you lose», spiega
l’anziano riservista che ci ferma su
una stradina di campagna, mentre
per l’ennesima volta cerchiamo di
raggiungere il campo di Jenin. Da
sempre i signori della guerra non
amano fotografi e
giornalisti. E la
guerra di Sharon
non fa
eccezione, come subito possiamo
rendercene conto.
Al quarto tentativo, dopo aver attraversato
quasi tutto il territorio
palestinese occupato dalle truppe
israeliane, riusciamo a raggiungere
la periferia del campo profughi di
Jenin.
Qui si sta ancora sparando.
Torkam, un palestinese di
50 anni, ci offre rifugio nella
sua casa. Pur avendo perduto
quasi tutto, ci prepara una tazza di
caffè.
«Ho lavorato 20 anni in Arabia e
sono tornato in Palestina per vivere
una vecchiaia tranquilla» ci dice.
E prosegue: «Il 3 aprile i soldati sono
entrati con la forza nella mia casa.
Ci hanno legato le mani con il
nastro adesivo, hanno separato
gli uomini dalle donne e i bambini;
questi ultimi sono stati fatti
sdraiare nel prato dove sono
rimasti fino alla sera del giorno
dopo. A noi è toccata la sorte
peggiore: ci hanno bendati e fatti
uscire. Pur non vedendo, mi
sono reso conto di trovarmi
di fronte ad
un plotone d’esecuzione.
Quando ho
sentito che venivano
caricati
gli M16, ho
pensato che
fosse arrivata
la mia
ora». Fortunatamente i soldati al
momento decisivo hanno sparato
in aria. Ma Torkam ci assicura che
lo spavento è stato grande. Non
stentiamo a crederlo…
Poco più in là troviamo riparo in
un’altra casa, mentre i soldati continuano
i pattugliamenti antigiornalista.
Abdala, il più anziano della
famiglia, inizia a parlare: «La mia
casa è stata occupata per due giorni
da più di cento soldati». Entriamo.
L’abitazione è stata ripulita,
ma sono ancora bene evidenti le
scritte in ebraico sui muri e sulle
porte. Le finestre dell’ala sud sono
distrutte. «La mia casa è in una posizione
ideale per sparare sul campo
», ci spiega Abdala, mostrandoci
un bidone pieno di bossoli.
«Siamo senza acqua, cibo, luce,
elettricità e telefono. Solo una volta
le Nazioni Unite sono riuscite a
portarci un po’ di latte in polvere
per i bambini. Io voglio vivere in
pace, non sono un terrorista; ma la
verità è che adesso li odio». Fissa lo
sguardo nel vuoto e trova ancora
la lucidità di ripetere: «Odio Sharon
e i suoi soldati».
Pare che i tanks si siano spostati.
Con altri tre colleghi decidiamo
di tentare la sorte e correre
per i pochi metri che ci separano
dal campo. Appena dentro,
quello che si presenta ai nostri occhi
è indescrivibile: centinaia di case
completamente distrutte, l’acqua
scorre senza sosta dai tubi spezzati,
il fetore è insopportabile. Mi vedo
costretto a strappare un pezzo della
mia maglia per coprirmi naso e bocca.
Il centro del campo e la zona di
Haret Hawashin non esistono più.
È come se tutta la zona fosse stata
colpita da un terremoto al massimo
grado della scala Mercalli.
Dove sorgeva il quartiere di Harat
Sbedi ci sono solo ruderi. In
quello che resta di una casa vediamo
i primi cinque morti. La puzza
è sempre più insopportabile e perdiamo
la lucidità. Quello che notiamo
ci sembra strano: sul muro i
buchi delle pallottole sono concentrati
ad altezza uomo, quasi tutti
in un angolo della stanza. Un
dubbio atroce ci assale: che sia stata
un’esecuzione?
La moschea ci pare, a prima vista,
in buone condizioni, ma quando
entriamo ci dobbiamo ricredere.
È tutto completamente devastato:
sono stati sparati centinaia e
centinaia di colpi. All’uscita incontriamo
Sonia, che appena ci vede
inizia a piangere e, singhiozzando,
ci domanda: «Dove sono gli arabi,
i musulmani, gli stranieri?».
«Hai ragione Sonia, ma non ho
una risposta!». È in questi momenti
che chi fa questo mestiere si
sente completamente impotente:
personalmente, provo che siamo
tutti colpevoli!
La presenza di alcuni sparuti
giornalisti e fotografi che circolano
per il campo danno il coraggio alle
poche persone rimaste di uscire allo
scoperto e a quelli che sono scappati
nei villaggi vicini di tentare di
rientrare nel campo.

IMMIGRATI, RISfidando
tanks e cecchini israeliani,
appostati chissà dove, iniziano
ad arrivare le prime donne. Pare
che ci sia stata una sospensione
del coprifuoco per alcune ore; ma
cercare di entrare è ancora difficile
e bisogna affidarsi alla sorte.
Reada piange disperata su ciò
che resta della sua casa: «Ci ho
messo quasi vent’anni a costruirla
e in un giorno gli israeliani l’hanno
distrutta. Non ho più nulla. Non so
dove sia mio marito; mio figlio è
stato colpito da un cecchino e nessuno
ha potuto soccorrerlo. Credo
che sia qui sotto da qualche parte.
Io sono scappata con i miei due figli
più piccoli, ma adesso sono tornata
e, anche se dovrò ricominciare
da capo, ricostruirò tutto. I miei
genitori sono dovuti scappare da
Haifa nel 1948. Io, che sono nata
qui da due profughi, dovrei forse
andarmene per essere profuga una
seconda volta? Quando me ne andrò
da Jenin è solo ed esclusivamente
per tornare ad Haifa».
Sembrano naufraghi. Si aggirano
in lacrime cercando di ricordare
dove fosse la loro casa; scavano a
mani nude fra le macerie. «Qui c’era
la mia casa», dice una donna. Le
macerie ricoprono, per quasi 3 metri,
quello che una volta era il manto
stradale.
«I soldati hanno sfondato la porta
dei miei vicini. Questi, non avendo
via di uscita, si sono riparati in
una stanza. Poco dopo i bulldozer
l’hanno tirata giù; è lì che dovete
cercare quelle cinque persone», ci
racconta un’altra donna che si ritiene
fortunata, perché è riuscita ad
uscire in tempo dalla sua di casa.
Seduto su un cumulo di macerie,
Amhed sostiene che lì sotto ci siano
due suoi amici: «Non cercate
troppe fosse comuni. Il vero cimitero
è Jenin». Un’altra donna:
«Qui è passato il diavolo e, quando
parlo di diavolo, parlo di Israele,
dell’America e di tutto il mondo».
Può anche essere vero che, come
dice Sharon, il 50 per cento
dei kamikaze palestinesi
arrivasse da questa zona, ma da
quello che vediamo non si è fatto
assolutamente nulla per ridurre i
morti civili.
Non dovevano essere quelle che,
con enfasi, si chiamano «operazioni
chirurgiche»? Nelle strade e all’interno
delle case rimaste in piedi
tutto è stato demolito. Ovunque ci
sono abiti, pentole, frigoriferi, giocattoli…
Qui, con la morte, è arrivato anche
il disprezzo.

Davide Casali




MISSIONARIO «GUERRIERO»

L’autografo in margine al calendario
personale riporta le date fondamentali
della sua vita: arrivo in Frisia (690),
ordinazione episcopale a Roma (695),
78 anni a servizio del regno.
È quasi un testamento, in cui Villibrordo
rivela i suoi tre grandi amori:
Cristo, il suo vicario in terra e i frisoni,
a cui portò la luce del vangelo.

MISSIONE A RISCHIO
Stanziati lungo le terre bagnate dal
Mare del Nord, tra gli stati attuali di
Belgio e Danimarca, i frisoni appartenevano
a una delle più fiere tribù
germaniche. Gelosi della propria libertà,
si opposero tenacemente prima
ai romani, poi all’espansione dei
franchi. Pagani fino al midollo, rifiutavano
ogni tentativo di civilizzazione
e cristianizzazione.
Cominciarono i missionari franchi
a evangelizzarli, alla fine del secolo
VI, lasciando a Utrecht una chiesetta
in onore di s. Martino. Pochi decenni
dopo, riprovarono i santi Eligio e
Amando, ma con scarsi risultati: i frisoni
non erano disposti ad accettare
la croce da chi li voleva soggiogare
con la lama della spada.
I missionari anglosassoni, affini
per stirpe, lingua e cultura, lontani
da ambizioni politiche, ebbero migliore
accoglienza. Nel 678 il benedettino
Vilfrido, vescovo di York,
spinto dai venti sulla costa della Frisia
mentre era in viaggio verso Roma,
fu benvenuto dal re Aldgiso e, durante
l’inverno, predicò la fede cristiana,
convertendo migliaia di frisoni,
a detta del venerabile Beda.
Poco dopo, l’abate Egberto, irlandese
di Ratmelsigi (oggi Mellifont),
con alcuni compagni progettò l’evangelizzazione
sistematica della Frisia;
ma una violenta tempesta li ributtò
in Irlanda. Ritentò Vigberto
con una impresa solitaria: per due anni
percorse la regione sotto lo sguardo
sospettoso del pagano re Radbodo,
finché dovette tornare a casa.
Nel 689 Pipino II di Heristal, maggiordomo
del regno franco, sottomise
la parte occidentale della Frisia:
l’abate Egberto colse l’occasione per
attuare il suo progetto e organizzò
una nuova spedizione missionaria,
composta da 12 monaci e guidata da
Villibrordo: per quasi 50 anni egli
percorse la Frisia, dando un aspetto
cristiano alla regione, e passò alla storia
come «apostolo dei Paesi Bassi».

MISSIONARIO PELLEGRINO
Era nato nel 658 in Nortumbria,
regno degli Angli, a nord del fiume
Humber, da nobile famiglia sassone,
convertita al cristianesimo nel 627
(vedi riquadro accanto). Il padre, san
Vilgiso, rimasto vedovo quando Villibrordo
era ancora in fasce, vegliò
sui primi passi del rampollo, finché,
a sette anni, lo affidò ai benedettini
di Ripon, perché avesse una buona educazione;
quindi si ritirò in solitudine
su un promontorio del fiume
Humber, dove, ben presto circondato
da numerosi discepoli, edificò un
monastero dedicato a sant’Andrea.
Abate di Ripon era san Vilfrido, tenace
difensore dell’universalità romana
contro il particolarismo scotornirlandese.
Lo stesso anno in cui il piccolo
Villibrordo entrò a Ripon (664),
ebbe luogo la famosa conferenza di
Whitby, in cui l’abate convinse il re
Osvy ad adottare le tradizioni liturgiche
di Roma (vedi riquadro di pagina
58).
Per 14 anni Villibrordo rimase alla
scuola di Vilfrido, ricevendone l’abito
benedettino e respirando l’atmosfera
della cattolicità romana. Ma
quando il maestro, eletto vescovo di
York e consacrato in Francia, fu allontanato
dalla diocesi (678), il giovane
monaco andò a perfezionare gli
studi in Irlanda, nel monastero di
Ratmelgisi, attratto dalla fama dell’abate
Egberto, rinomato maestro
di vita spirituale di quei tempi.
Villibrordo fu presto contagiato
dal fervore missionario che regnava
nel monastero, da dove partivano i
«pellegrini per Cristo» per predicare
il vangelo ai popoli pagani del continente.
Si faceva un gran parlare della
Frisia, soprattutto, come terra promessa
di apostolato e di martirio. Egli
ammirava le imprese di Egberto e
Vigberto, ma ne vedeva pure i limiti,
alla luce della concretezza benedettina
succhiata alla scuola di Vilfrido.
A 30 anni Villibrordo venne ordinato
prete; a 33 fu scelto da Egberto
per guidare una nuova spedizione tra
i frisoni. Gli 11 compagni, di cui conosciamo
pochi nomi, non erano meno
focosi di lui: Evaldo il bianco ed
Evaldo il nero (dal colore dei capelli)
finirono presto martiri per mano
dei sassoni in Westfalia; nella stessa
regione Suitberto fu trucidato dai boructavi;
Adalberto e Verenfrido evangelizzarono
varie regioni della
Frisia e morirono di morte naturale.

MISSIONARIO… PAPALINO
Lasciata l’Irlanda nel 690, la spedizione
attraversò a piedi l’Inghilterra,
navigò verso il continente e approdò
alle foci del Reno. Villibrordo
si premurò di raggiungere la corte di
Pipino, per ossequiare il monarca e
chiedee la protezione. Il giovane
missionario si guadagnò senza fatica
l’ammirazione del sovrano e l’appoggio
della nobiltà franca.
Per prudenza, i missionari si stabilirono
ad Anversa, dentro il regno
franco, accettando in dono la chiesa
dei ss. Pietro e Paolo, fondata da s.
Amando, e altri benefici ecclesiastici;
di qui cominciarono a estendere la
loro azione nella regione di Utrecht.
Villibrordo capì subito che non poteva
presentarsi ai frisoni nel nome
dell’odiato dominatore, ma con le
credenziali pontificie. Nel 692 si recò
a Roma; papa Sergio I gli conferì di
cuore il mandato di predicare il van-
gelo in Frisia e nelle regioni circostanti,
lo benedisse e lo rifoì di reliquie
e libri sacri.
Tornato in sede, si rallegrò dei successi
ottenuti dai compagni: numerosi
battesimi di nobili, liberi contadini
e servi. Si sentì il bisogno di un
vescovo che amministrasse anche le
cresime: fu scelto Suitberto, il più anziano
del gruppo. Ma per mantenere
le distanze dalla politica, Villibrordo
non scomodò l’episcopato
franco, ma inviò il candidato in Inghilterra,
perché fosse consacrato da
Vilfrido di York. Pipino ci restò male;
soprattutto non poteva immaginare
un vescovo senza diocesi, fatto
solo per distribuire cresime e consacrare
altari e chiese.
Il vescovo fu bandito dal regno
merovingio e, per non perdere la
protezione del maggiordomo, Villibrordo
dovette cedere. Suitberto se
ne andò a evangelizzare la minuscola
etnia dei boructavi, in Westfalia,
dove lavorò 24 anni, fino a quando i
sassoni annientarono i suoi sforzi: gli
sopravvisse il monastero di Kaiserswerth,
in un’isola del Reno di fronte
a Düsseldorf.
Intanto il matrimonio tra Grimoaldo,
figlio di Pipino, e Teodolinda,
figlia di Radbodo, re dei frisoni,
scongiurava ogni rischio di guerra,
almeno per il momento, e apriva la
strada per evangelizzare anche la
parte settentrionale della Frisia. Il
principe merovingio lanciò l’idea di
erigere non una diocesi, ma una circoscrizione
ecclesiastica che abbracciasse
tutta la Frisia e propose lo stesso
Villibrordo come arcivescovo.
Villibrordo si recò di nuovo a Roma
e sottopose il progetto a papa Sergio,
che il 21 novembre 695 lo consacrò
vescovo e gli impose il pallium,
simbolo dell’autorità metropolitana
e di totale comunione con Roma. Inoltre,
al bellicoso nome celtico (Villibrordo
significa: guerriero) il pontefice
prepose quello più mite e pronunciabile
di Clemente; dopo quel
giorno, però, tale nome non fu quasi
mai più menzionato.
L’evento segnava il culmine della
cattolicità: un papa di origine siriaca,
nel cuore della cristianità, conferiva
la pienezza del sacerdozio a un
monaco anglo-sassone, mandato da
un principe franco.

TENTANDO IL COLPO GROSSO
Nuovamente rifornito di reliquie,
libri liturgici e paramenti sacri, Villibrordo
lasciò Roma in pieno inverno,
raggiunse Utrecht (696), sede
della nuova arcidiocesi, e cominciò
a organizzare materialmente la sede
episcopale: costruì la cattedrale dedicata
a san Salvatore e l’episcopio;
risollevò dalle macerie il santuarietto
di s. Martino; fondò la scuola per
l’educazione dei giovani e la formazione
del clero locale; organizzò in
comunità i suoi collaboratori, mescolando
la regola benedettina con
le tradizioni irlandesi; avviò la vita liturgica
con splendide celebrazioni
religiose, alle quali i frisoni accorrevano
meravigliati.
Uguale solennità veniva usata anche
fuori dei riti sacri. Sapeva che,
con gente sensibile al prestigio della
forza, il primo impatto era decisivo.
Per questo cercava di impressionare
i frisoni: si presentava loro come
gran signore su una cavalcatura, con
una croce d’oro in mano e circondato
da scorta ugualmente a cavallo. In
tal modo pensava di dimostrare l’inanità
e impotenza degli idoli e l’onnipotenza
del Dio dei cristiani.
Se tale bardatura aveva sulla gente
semplice un certo effetto, i re pagani
non facevano una grinza, come
Radbodo, re dei frisoni rimasti indipendenti.
Villibrordo sperava di fare
il colpo grosso: convertire il capo,
perché i sudditi lo seguissero in massa
alla fonte del battesimo. Era la
strategia del tempo e aveva funzionato
a meraviglia con i franchi, anglosassoni
e altri popoli barbari. Il re
accolse il missionario, lo ascoltò, gli
promise di non ostacolare il lavoro
missionario tra i suoi sudditi, ma di
abbracciare la religione dei franchi
neppure parlarne. In pratica egli rimase
ostile al cristianesimo fino alla
sua morte (719).
Con la stessa tattica Villibrordo
tentò, inutilmente, di convertire le
popolazioni dello Schleswig e Danimarca:
Ongendo, il re dei danesi, era
«più crudele di ogni fiera e più duro
di ogni pietra» racconta Alcuino.
Tuttavia il vescovo fu accolto con rispetto
e ottenne che 30 giovani lo seguissero
a Utrecht, per ricevere la
formazione cristiana e tornare poi in
patria ad annunciare il vangelo ai
connazionali.

LOTTA ALL’IDOLATRIA
Contro l’idolatria Villibrordo non
si accontentava delle parole, ma passava
spesso alla sfida aperta. Ritornando
dalla Danimarca, approdò
nell’isola di Helgoland, allora sotto
il dominio di Radbodo. In attesa di
venti propizi per riprendere il viaggio,
il vescovo cominciò a predicare
il vangelo agli abitanti. C’era nell’isola
una fonte dedicata al dio Fosite.
Si diceva che, chiunque avesse rotto
il silenzio mentre ne attingeva l’acqua
o avesse osato toccare il bestiame
sacro alla divinità, sarebbe stato
fulminato dal dio irritato.
Per dimostrare che Fosite era
niente, dinanzi ai pagani sbigottiti,
Villibrordo battezzò tre giovani danesi
nella sorgente sacra, pronunciando
ad alta voce la formula battesimale;
poi ordinò di preparare un
bel festino con le cai arrostite di alcune
bestie sacre. Invece dei fulmini
di Fosite, arrivarono quelli di Radbodo.
Villibrordo fu portato al cospetto
del re. Il vescovo ne approfittò
per fare una vibrata catechesi sull’unicità
di Dio e sulla vita eterna; ma
non riuscì a evitare che uno dei battezzati,
tirato a sorte, fosse sacrificato
all’idolo crudele: fu il primo martire
della sua missione tra i frisoni; un
martirio che gli spezzò il cuore.
Seguendo le istruzioni date un secolo
prima da Gregorio Magno a s.
Agostino, apostolo degli anglosassoni,
Villibrordo era implacabile contro
gli idoli, ma risparmiava i luoghi
sacri, trasformandoli in edifici di culto
cristiano. È quanto fece nell’isola
di Walacria: scoperto un tempietto
con la statua di Nehalennia, dea protettrice
dei marinai, il vescovo frantumò
l’idolo, sfidando le ire del custode,
che gli assestò un colpo di spada
in testa. Rimasto miracolosamente
illeso, Villibrordo usò il tempio per
celebrarvi la messa.
Uguale trattamento fu riservato alle
sorgenti, che i frisoni, come altre
popolazioni germaniche, circondavano
di particolare venerazione, come
simboli di vita e fecondità: le credevano
inabitate da spiriti vitali che
assumevano forma umana al momento
della nascita. Partendo da tale
credenza, Villibrordo spiegava ai
pagani che le fonti da essi venerate
potevano dare loro la vita vera, nel
tempo e nell’eternità, mediante la rigenerazione
battesimale: e usava
quelle stesse sorgenti per amministrare
il battesimo.

MISSIONE SENZA FRONTIERE
Fallita la conversione in massa, i
missionari continuarono di nascosto
a seminare il vangelo nel regno di
Radbodo, con la speranza di tempi
migliori per fondarvi nuove diocesi.
Da parte sua, data l’impossibilità di
estendere a nord la sua azione missionaria,
Villibrordo percorse senza
un attimo di sosta le regioni orientali
del regno franco: Fiandra, Campine,
Lussemburgo, Turingia, Zelandia,
nord della Francia.
Nel 698 egli si recò a Treviri, dove
Irmina, suocera di Pipino, gli aveva
fatto dono di una chiesa e un piccolo
convento da lei fondato e diretto a
Echteach (Lussemburgo). Il vescovo
vi passò l’inverno e ricevette in
dono dai nipoti della badessa ville,
campi e vigne per future fondazioni
ecclesiastiche. Nel 703-704, accompagnando
l’amico Vilfrido in viaggio
verso Roma, raggiunse la Turingia,
dove il duca Heden lo accolse con onore.
Al ritorno, passò a trovare Irmina
e la mise al corrente di un suo
disegno: la costruzione a Echteach
di un monastero maschile sotto la regola
di s. Benedetto. Il progetto andò
in porto: il monastero fu inaugurato
nel 706 e divenne un centro di irradiazione
cristiana, procurando cornoperatori
e risorse, e di accoglienza per
i missionari stanchi e costretti ad abbandonare
temporaneamente il campo
dalle epidemiche rivolte.
Dovunque passasse, Villibrordo
predicava, istruiva, convertiva, battezzava
e costruiva cappelle, chiese e
monasteri. E faceva anche miracoli.
A Treviri liberò dalla peste una comunità
di monache. In un’altra città
spense il fuoco, appiccato dagli spiriti
maligni alla casa di un amico, con
abbondanti aspersioni di acqua benedetta.
Numerose furono le sorgenti
scaturite al suo comando per
dissetare i compagni o reperire l’acqua
per il battesimo. Si narra pure di
fiaschi di vino quasi a secco che, dopo
una sua benedizione, si riempivano
per dissetare mendicanti infreddoliti
o rallegrare amici e monaci,
rimanendo ancora pieni.

COLLABORAZIONE INDIGENA
Saranno leggende, ma mettono in
luce un aspetto della sua personalità.
Piccolo di statura, come lo descrivono
i suoi contemporanei, capelli neri,
delicata costituzione, occhi vivi e
profondi, Villibrordo aveva una volontà
incrollabile, mai soggetto a scoramenti;
tempra non comune di rude
pioniere, prudente e leale, metodico
organizzatore e austero con se
stesso, possedeva il senso del comando
e l’equilibrio della regola benedettina:
grande attenzione alle necessità
degli altri, anche a quelle a prima
vista irrilevanti.
Uomo di preghiera e divorato dallo
zelo, egli possedeva una brillante
intelligenza che gli accattivò simpatia
e collaborazione di principi e nobili
dell’epoca. A nessun altro missionario
di quei tempi furono fatte
con tanta abbondanza donazioni di
ville, tenute, boschi, prati, acque, mulini,
case, cappelle e monasteri come
a Villibrordo. Nel solo Brabante, 17
benefattori gli lasciarono vasti terreni
e relative dipendenze, dislocati in
25 zone diverse.
Tali donazioni assicurarono l’avvenire
della missione in Frisia e delle
numerose opere erette da Villibrordo
nelle province vicine, le chiese rurali
soprattutto. Infatti, appena aveva
raccolto attorno a sé un modesto
gruppo di neofiti, Villibrordo costruiva
una cappella di legno, che egli
stesso consacrava e vi riponeva le
reliquie ricevute a Roma, poi affidava
la comunità a un sacerdote, provvedendo
a tutte le sue necessità con i
proventi di tali donazioni.
Senza sottovalutare l’aiuto ricevuto
dai suoi connazionali, che seguivano
la sua attività con la preghiera
e gesti di solidarietà, è soprattutto tra
i frisoni che Villibrordo trovò collaboratori
devoti, laici e chierici. La
formazione del clero locale fu una
delle priorità missionarie, scegliendo
i candidati con prudenza. A lui si
deve l’introduzione in occidente dei
vescovi ausiliari, di cui si serviva in
modo regolare e costante.

TUTTO DA RIFARE
Alla morte di Pipino Heristal, preceduta
dal figlio Grimoaldo (714),
Radbodo si ribellò ai franchi e scorrazzò
nel loro regno, innescando un
violento rigurgito di paganesimo che
distrusse chiese e cappelle, costringendo
monaci e preti a cercare scampo
nel monastero di Echteach,
compreso l’arcivescovo.
Continuando a guidare da lontano
la ripresa del suo arcivescovado, Villibrordo
concentrò il suo apostolato
lungo le rive della Sûre e preparò l’invio
di alcuni monaci in Turingia per
aprirvi un altro fronte missionario;
ma il progetto andò in fumo per la
morte del duca Heden II.
Finalmente, con la vittoria di Carlo
Martello (718), figlio naturale di
Pipino, e la morte di Radbodo (719),
Villibrordo poté rientrare a Utrecht,
ma dovette praticamente rievangelizzare
frisoni e danesi, con la collaborazione
di molti frisoni rimastigli
fedeli. Così, a 60 anni suonati, riprese
a viaggiare, predicare, firmare l’accettazione
di donazioni e organizzare
nuove fondazioni di chiese e monasteri.
Per tre anni (719-721) ebbe come
collaboratore un altro grande anglosassone,
Bonifacio, anche lui innamorato
dei frisoni. Egli aveva ricevuto
da Gregorio II il mandato di evangelizzare
la Germania, ma prima
volle addestrarsi all’azione missionaria
alla scuola di Villibrordo, che lo
avrebbe visto volentieri come suo
successore.

FINE DEL PELLEGRINAGGIO
Nel 731, testimonia un contemporaneo,
il venerabile Beda, tutti i compagni
di Villibrordo erano passati a
miglior vita. L’arcivescovo continuava
il suo «pellegrinaggio per Cristo»,
ma cominciava a tirare i remi in barca:
malattia e vecchiaia ne rallentavano
l’attività, tanto da doversi ritirare
sempre più spesso a Echteach, dove
morì nel 739. Aveva 81 anni.
Alla sua morte la sognata circoscrizione
della Frisia contava ancora
la sola diocesi di Utrecht. Il testimone
passava ai suoi discepoli, che potevano
contare sulle solide basi gettate
dal grande missionario, la cui vita
è sintetizzata egregiamente dal suo
antico compagno di missione, Bonifacio,
nella lettera scritta a papa Stefano
II nel 753: «Prima dell’arrivo di
Villibrordo, i frisoni erano pagani.
Con 50 anni di predicazione, egli ne
ha convertito la maggior parte alla
fede di Cristo e li ha evangelizzati
fino all’estrema
vecchiaia»..

CONVERSIONE
DEI NORTUMBRI

Èprobabile che la famiglia di Villibrordo
fu convertita al cristianesimo
nel 627, nella memorabile assemblea
dei notabili, convocata da Edvino,
re di Nortumbria, in cui fu dipinta
con tanta emozione l’angosciosa situazione
causata dall’ignoranza sull’origine
e destino della vita umana. Così
parlò uno dei consiglieri:
«Quanto è grande, o re, l’incertezza
nostra sul destino umano. Ascoltate!
Nel cuor dell’inverno, siete seduti a cena
in una sala ben riscaldata, attorniati
dai vostri guerrieri e ministri, e i
paggi vi servono i piatti fumanti, mentre
fuori imperversa la tempesta: ed
ecco un passero, intirizzito dal freddo,
vola attraverso la sala, entrando da
una porta per uscire dall’altra. Durante
il breve momento che sta qui dentro,
l’uccellino si ripara dall’uragano
invernale. Ma questo momento di serenità,
luce e calore dura appena un
secondo. Ben presto il povero passero
tutto smarrito, scompare ai vostri occhi
e si sprofonda nelle gelide tenebre
nottue dalle quali era venuto.
Così ci appare la vita degli uomini
quaggiù: un breve momento di luce e
calore, nella piena ignoranza di ciò
che la precede e di ciò che la segue.
Per questo, se la dottrina cristiana ci
apporta la certezza della nostra origine
e del nostro fine eterno, conviene
abbracciarla senza esitare».
Così fu deciso. Il giorno di pasqua del
627, il re Edvino, la corte e gran parte
del popolo furono battezzati da san
Paolino, vescovo di York, in una chiesa
di legno fabbricata in fretta.

CHIESA A DUE FACCE
L’Irlanda divenne cristiana per opera del monaco bretone
san Patrizio (385-461), che per 30 anni seminò l’isola di
monasteri. Tra le pratiche ascetiche dei monaci c’era la «peregrinazione
» a Roma, Terrasanta e, soprattutto, nelle terre
dove il vangelo non era ancora stato annunciato. Si chiamavano
«pellegrini per Cristo». In questo modo, da evangelizzati,
gli irlandesi diventarono evangelizzatori, prima nella
Scozia, poi nel continente europeo. Il più famoso di essi fu
Colombano, che predicò il vangelo e fondò monasteri in Francia
(Luxeuil), Svizzera (San Gallo) e Italia (Bobbio).
Non sfiorate dalla colonizzazione romana né da invasioni
barbariche, Irlanda e Scozia ebbero chiese fieramente cattoliche,
ma con tratti originali: giurisdizione totalmente in
mano agli abati; vescovi non nominati dal papa e col solo
potere sacramentale; differente data della pasqua e altre peculiarità
liturgiche e disciplinari.
La Britannia, invece, in buona parte già romanizzata e cristianizzata,
fu invasa da angli, juti e sassoni, che cancellarono
ogni traccia di cristianesimo.
Nel 596 Gregorio Magno inviò 40 monaci, guidati dall’abate
Agostino, a evangelizzare gli angli. L’anno seguente fu
battezzato Etelberto, re di Kent, insieme alla sua corte; poi
10 mila sudditi. Alla morte di Agostino (605) gran parte dell’isola
era cristiana; 50 anni dopo, con l’arrivo da Roma di
altri missionari, la riunificazione religiosa e politica della
Gran Bretagna poteva dirsi completa, saldandosi con quella
operata dai monaci irlandesi.
In Inghilterra, prima nazione evangelizzata
per iniziativa papale, la chiesa anglosassone
nacque meglio strutturata e più legata alle
tradizioni romane in fatto di culto e disciplina.
Le differenze tra le due chiese, intrecciate
a interessi politici, causarono vari attriti,
fino a diffidare della validità delle ordinazioni
dei vescovi scoto-irlandesi: problemi
temporaneamente risolti nel sinodo di
Whitby (664).
Dagli irlandesi, gli anglosassoni impararono
l’ardente desiderio della «peregrinazione per
Cristo» e, pure loro, da evangelizzati passarono
a evangelizzare l’Europa. Ma mentre i
missionari irlandesi operavano per iniziativa
privata, senza programmi specifici, in modo
un po’ anarchico e a cose fatte si premuravano
d’avere l’approvazione pontificia, quelli
anglosassoni chiedevano prima il mandato
del papa e rimanevano in costante contatto
con la gerarchia romana.

CONCILIO DI WHITBY
Quando il benedettino Vilfrido (634-709) si recò a Roma
per completare la sua formazione intellettuale, rimase
sorpreso nel constatare le numerose divergenze liturgiche
tra la chiesa madre e quella in Nortumbria. Tornato in patria,
si adoperò per convincere la chiesa della Gran Bretagna
a uniformarsi alle tradizioni romane. Ma trovò un’accanita
resistenza in Colmano, vescovo di Lindisfae, che si
appellava all’autorità di san Colombano.
Per portare la pace, re Osvy, convocò un’assemblea a Whitby
nel 624. Così il venerabile Beda racconta la difesa dell’universalità
romana fatta da Vilfrido:
«Può essere preferito il vostro Colombano al principe degli
apostoli, a cui il Signore ha detto: tu sei Pietro e su questa
pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non
prevarranno contro di lei?».
«Davvero, Colmano, nostro Signore disse queste parole a Pietro?
» domandò il re, impressionato dalla citazione.
«Certamente» rispose Colmano.
«Potete voi provarmi che una simile potestà sia stata conferita
a Colombano?» riprese subito re Osvy. Colmano dovette
confessare di no.
«Allora – concluse il re – io vi dichiaro che, siccome Pietro
tiene le chiavi del cielo, non voglio mettermi in contraddizione
con lui, per non trovare la porta chiusa, quando mi
presenterò all’ingresso del soggiorno celeste».

Benedetto Bellesi




Sognare: un altro modo di comunicare?

«Chi sogna pensa a qualcuno;
se prende la medicina, si sveglia guarito»
(proverbio cambogiano)

Già nei templi di Esculapio
Il sogno (esperienza impalpabile che ci accompagna
durante il sonno) è definito dagli esperti un insieme di
immagini o emozioni, affascinanti o tenebrose, sperimentate
durante il sonno e sepolte per lo più a livello inconscio.
I sogni sono il prodotto della psiche nel sonno,
ma molti sfuggono alla rete della memoria. Chi sogna è
conscio del suo sogno, ma inconscio del mondo che lo
circonda; spesso, al risveglio, ne ha un ricordo più o meno
deformato.
Fin dai tempi più antichi le esperienze oniriche, cioè
del sogno, hanno fornito materiale interessante sia alla
superstizione che alla letteratura, attribuendo ai sogni
un significato premonitore o profetico. Le esperienze
furono studiate anche dalla psicoanalisi, secondo la quale
la loro interpretazione è di aiuto per la comprensione
di alcuni fenomeni che si formano a livello inconscio.
In tutte le medicine tradizionali sognare rappresentava
(e lo è ancora) un avvenimento importante sia dal
punto di vista diagnostico sia terapeutico. Incubatio era
definita, nell’antichità, la pratica medica che si realizzava
nei templi di Esculapio (dio greco-romano della medicina).
Dopo riti propiziatori di purificazione, gli ammalati
si addormentavano sotto il portico del tempio e
si attendeva che l’apparizione del dio nel sonno indicasse
la diagnosi della malattia e i trattamenti terapeutici necessari.
Anche nella medicina araba si parla di «incubatio»,
cioè un sonno indotto, soprattutto psicologicamente,
dal luogo in cui ci si addormenta: nel caso specifico una
moschea o la tomba di un marabutto (santone). Qui, appoggiando
il capo su una parete, si attendeva l’apparizione
in sogno di Allah come taumaturgo. Spesso si sottoponevano
a questa pratica anche gli stessi medici, per
ottenere chiarimenti sulla diagnosi e sui trattamenti terapeutici.
Noti etnologi hanno osservato qualcosa di simile
in Africa (Burkina Faso e Costa d’Avorio).
Nel Camerun i guaritori asseriscono di aver appreso
in sogno l’uso di certe piante medicinali da essi utilizzate.
In Nuova Guinea, dormendo accanto al teschio di
un parente si fanno sogni che vengono interpretati come
consigli, anche terapeutici, da seguire fedelmente.
Il totem (ossia un animale, una pianta, un astro, un oggetto
o indumento ai quali si attribuisca una funzione
«vitale») rappresenta, per molte popolazioni primitive,
l’antenato mitico da cui si sentono protette. Il totem è
spesso una raffigurazione scolpita o dipinta, alla quale
si dedicano riti e offerte. È quindi un rapporto di «parentela
» che le popolazioni ritengono di avere con il loro
totem; con esso ogni membro del gruppo individua
se stesso, la sua stirpe, la posizione sociale nell’ambito
di una popolazione formata da clan totemici. Nelle isole
Figi gli stregoni traggono oroscopi quando nel sogno
compare il loro totem. Oroscopi che sono attesi da tutto
il clan.
Non sempre un sogno si realizza durante un sonno
naturale. In Mozambico un sonno provocato da droghe
suscita uno stato di trance, durante il quale il guaritore,
perfettamente incosciente, riceve suggerimenti su piante
«buone per le cure», suggerite dallo spirito con il quale
è in contatto.

L’olimpo religioso dei «maya»
Anche nella medicina degli attuali maya (Messico e
Guatemala) il sogno rappresenta, fra le medicine tradizionali
ancora in uso, un elemento di grande valore.
L’arte medica di queste popolazioni non è legata a no-
zioni tramandate oralmente o per iscritto o di padre in
figlio, ma solo attraverso il sogno e viene affidata ad un
personaggio un po’ medico e un po’ stregone, chiamato
curandero, il quale è tanto più apprezzato quanto più
ha sognato, utilizzando in modo del tutto personale, il
frutto dei propri sogni.
Le credenze, soprattutto quelle religiose, condizionano
le pratiche mediche tradizionali. Nell’olimpo religioso
dei maya dell’altopiano del Chiapas si osserva una
contemporanea presenza di santi cattolici e divinità indigene
preispaniche, un tentativo di conciliare cristianesimo
e pensiero pagano. In primo luogo vi sono le divinità
benefiche, ossia gli «dei del cielo» (Gesù Cristo,
la Vergine Maria e alcuni santi); seguono gli «dei che sostengono
i quattro punti cardinali», divinità che vengono
associate ai colori: il dio bianco d’oriente per la pioggia,
quello bianco del nord per il mais, il dio colorato del
sud per il vento e quello nero dell’occidente delegato alla
morte.
Vi sono infine le «divinità della terra», che hanno la
massima importanza per la salute dell’uomo, agevolandola
od ostacolandola. Sono rappresentate da spiriti soprannaturali,
anch’essi associati ai colori: rosso, bianco
e verde. Malattia e stregoneria sono legate a queste divinità
e a come vengono «contattate» sia dai medici praticanti
che dagli stregoni.
L’ultima categoria, la più nefasta, è quella che comprende
gli «dei del mondo inferiore», esseri malvagi che
presiedono alle forze del male e alla morte.

L’animale compagno
Nella vita di un maya ha una grande importanza «l’animale
compagno» ossia un essere animale che rappresenta
la proiezione immateriale dell’individuo. Quando
una madre partorisce, il curandero pone sul tetto della
capanna diversi simboli di animali: quello che sarà posto
nel momento del primo vagito sarà il simbolo dell’animale
compagno.
Presso gli indigeni maya le malattie possono essere di
provenienza naturale o soprannaturale: sono naturali le
infermità passeggere (raffreddore, diarrea, angina, ecc.);
soprannaturali invece (e sono la maggioranza) quelle
mandate dagli dei del cielo, della terra o del mondo inferiore.
Paralisi, idiozia, strabismo, schizofrenia, rappresentano
castighi divini. Inoltre ci si ammala anche
ogni volta che si nuoce all’animale compagno.
Anche i medici sono divisi in categorie: il ts’ak (aggiusta
ossi) cura le infermità muscolari e ossee; l’ilol cura
gli stessi mali, ma con tecniche esoteriche che agiscono
sullo spirito del malato; il me’ santo utilizza soprattutto
rituali magici e la ventriloquia, intesa
come divinità parlante racchiusa in un tabeacolo.
Il sogno non è un avvenimento
piacevole per i maya: sono timorosi
dei sogni, perché possono portare più danno che
vantaggio. Infatti essi credono che, quando una persona
sogna, il suo spirito si separa dal corpo e vaga libero;
nello stesso momento «l’animale compagno» esce dal
suo rifugio sulla montagna sacra e vaga per luoghi sconosciuti.
La vita dell’uomo e quella dell’animale sono legate
allo stesso destino e sono facile preda di spiriti maligni
e di stregoni.
I sogni più temuti sono quelli in cui l’indigeno crede
di sedurre una donna, o si vede offrire succulenti cibi di
carne di mucca, gallina, tacchino, maiale, oppure bevande
come la chica (acquavite). Ma il più temuto è il sogno
che porta alla «perdita dell’anima» e che procura
una morte lenta, una lunga agonia senza alcun rimedio.
Come si diventa curandero? La volontà di diventarlo
non conta: se gli dei lo vorranno, in qualsiasi momento,
anche nella vecchiaia, il predestinato avrà un sogno particolare,
durante il quale gli dei lo porteranno nelle loro
dimore celesti e gli insegneranno rimedi e riti curativi.
Fare il curandero non è cosa desiderabile: se l’ammalato
è dichiarato incurabile, lo è per volontà degli dei e
il curandero non può intervenire in alcun modo; spesso
si rifiuta di tentare interventi terapeutici, sapendo che
la volontà degli dei impedirà la guarigione. Non altrettanto
rassegnati sono i parenti del malato, che talvolta
accusano di stregoneria il guaritore e lo minacciano di
morte.
Per questo, quando un curandero si trova presso un
infermo, stabilisce subito se è curabile o no; in caso negativo,
si rifiuterà nella maniera più decisa di intervenire.
E… non gli si può dare torto!

Liliana Pizzoi




COMMOZIONE DI POPOLO

A Brasilia, la capitale del futuro,
la gente semplice vive la sua fede
con profondo sentimento
e partecipazione.
Come in occasione della festa
della Consolata
e la processione in suo onore.
A Brasilia, la capitale del futuro,
la gente semplice vive la sua fede
con profondo sentimento
e partecipazione.
Come in occasione della festa
della Consolata
e la processione in suo onore.

Brasilia è una delle poche città al
mondo (insieme con Washington)
ad essere stata totalmente
decisa e pianificata da un gruppo di
architetti e urbanisti. In effetti, a metà
degli anni Cinquanta, essendo diventata
insufficiente Rio de Janeiro, il governo
brasiliano decretava che una
nuovissima capitale doveva essere costruita
al centro del paese; una città,
simbolo del futuro del Brasile e dell’umanità.
La sua costruzione diventò
una sfida, dal momento che la più vicina
strada asfaltata si trovava a 600
chilometri e la più vicina ferrovia a
125 chilometri.
Dopo una serie di lavori titanici,
Brasilia fu inaugurata il 21 aprile 1960
alla presenza di 150 mila invitati.
Fin dal 1964 i missionari della
Consolata avevano voluto partecipare
all’avventura di Brasilia con la
costruzione della parrocchia «Nostra
Signora della Consolata», una
delle prime aperte nella nuova città.
Attualmente vi lavorano tre missionari:
Giuseppe Galantino, Oreste
Ghibaudo e Serafino Marques; gli
ultimi, due sono «giovanotti» di 84
e 77 anni. Con loro vi è un diacono
permanente, José Luiz de Oliveira
Jesus, uno dei pilastri della pastorale,
che interessa ben 20 mila fedeli.
Ed è proprio nella modeissima
e avveniristica Brasilia che, il 20 giugno
scorso, ho celebrato la festa della
Consolata. Ma ero ben lontano dall’immaginare
ciò che avrei vissuto.

LA «VISITA» DI MARIA
La festa della Consolata, a Brasilia,
si comincia a preparare un mese prima,
grazie a un centinaio di volontari
che lavorano insieme agli agenti pastorali.
Catechesi speciali vengono
proposte soprattutto ai ragazzi, perché
possano meglio comprendere il
ruolo di Maria nella storia della salvezza.
Durante la novena, poi, ai parrocchiani
è data la possibilità di approfondire
la loro vita cristiana.
La chiesa (ma anche i quartieri della
parrocchia) viene addobbata con
bandierine, fiori e nastri. Io stesso ho
visto sul muro di un palazzo di 12 piani
un’immensa corona del rosario,
fatta di palloncini bianchi e blu. La vigilia
della festa, i catechisti vanno in
ogni quartiere a incontrare i giovani
e parlare loro della Madonna.
Ma la cosa più straordinaria (o più
curiosa) deve ancora arrivare: è «la visita
» che la Consolata compie in tutti
i quartieri della parrocchia.
Sono le ore 15, e padre Galantino
incomincia ad inquietarsi: «Dov’è il
diacono?». È lui, infatti, che ha organizzato
l’insieme delle celebrazioni
con altri volontari. Mi confida il parroco:
«Non ho mai visto una parrocchia
simile; qui davvero non sono i
preti a tirare la carretta, ma i laici! Ve
ne sono centinaia che portano avanti
la maggior parte del lavoro pastorale.
E che organizzazione!».
La polizia (due vetture e otto moto)
arriva alle 15,20. La radio è pronta,
dal momento che tutte le celebrazioni
saranno trasmesse in diretta dall’emittente
Nova Aliança de Brasilia.
Puntualmente, alle 15,25, le tre macchine
della scorta sono nel cortile.
Arriva anche mons. Geraldo de Espirito
Santo Avila, vescovo dell’esercito
brasiliano. A questo punto il carro
della Madonna «esce» solennemente
dal cortile delle missionarie
della Consolata, dove è stato preparato
e ornato: su una vettura, coperta
di paramenti bianchi e blu e di fiori,
troneggia la statua della patrona.
Oggi Maria va a visitare i suoi fedeli!
Mi avevano detto che i brasiliani
non brillano per la puntualità. Ebbene:
o gli abitanti di Brasilia non sono
brasiliani o io devo rivedere i miei
pregiudizi… La visita doveva cominciare
alle 15,45; dopo essere passati
negli otto quartieri della parrocchia,
si ritornava nella chiesa centrale per
la messa solenne delle 19. «Ma questo
– mi dicevo – non succederà prima
delle 20. Invece alle 19,05 la messa iniziava!
La processione si mette in marcia
e ci fermiamo nel primo quartiere.
Vedendo arrivare la statua, la gente
canta e grida: «Viva la Madonna! Viva
la Consolata!». In ogni quartiere
c’è un’orchestra, formata da giovani,
che suona e intona il primo canto alla
Vergine. La gente risponde in coro.
Il vescovo, assistito dal parroco,
scende dalla vettura, mentre fuochi
artificiali e petardi scoppiano nel parco
vicino. Si avvicina al carro della
Madonna ed inizia una preghiera:
con lui la gente pregherà per i bambini
e genitori, per gli ammalati e sofferenti
e sempre chiederanno a colei
che è «la stella dell’evangelizzazione»
di inviare ancora missionari per annunciare
la Buona Novella ai quattro
angoli del mondo.
Dopo le invocazioni, il vescovo benedice
gli oggetti religiosi e chiede a
Maria di proteggere le persone e i loro
beni, coloro che sono in viaggio…
Si sa che violenza, criminalità e incidenti
stradali sono frequenti in Brasile!
Poi termina con una benedizione,
aspergendo tutti con acqua santa.
Uno degli animatori, allora, prende
il microfono e la celebrazione viene
nuovamente «riscaldata» da preghiere,
cori e canti. Scoppiano ancora
petardi e fuochi d’artificio, mentre
tutti seguono il carro della Madonna.
E così verso il prossimo quartiere.
Anche qui centinaia di persone aspettano
la loro madre e patrona; anche
qui canti e applausi, petardi e benedizioni…
Poi, sempre in marcia, si
raggiunge un altro quartiere.
Maria li ha visitati tutti, in questa
grande parrocchia di Brasilia, la città
costruita come un’«anticipazione»
del futuro. Maria, salita al cielo, gloriosa
presso Dio, non è forse il simbolo
più vero di ciò che Egli desidera
per l’umanità tutta?…
Non siamo lontani dall’Equatore.
Pertanto, verso le 18, la notte scende
quasi di colpo. È all’imbrunire che si
visitano gli ultimi due quartieri. Ma
c’è ancora più confusione: la statua
della Madonna è illuminata e, mentre
arriva nella semioscurità del quartiere,
sembra proprio un’apparizione…
Tutto ad un tratto si accendono
centinaia di candele. Anche per l’arrivo
nell’ultimo quartiere decine di
giovani agitano stelline luminose, come
fosse una grande festa di compleanno.

LACRIME DI COMMOZIONE
Quando la processione arriva nella
chiesa parrocchiale centrale, questa
è già stracolma. Sotto la direzione
animata ed entusiasta di padre Oreste,
la gente canta e accoglie la statua
con un bornato di applausi. Non ho mai
visto niente di simile nella mia vita
missionaria! L’esaltazione è al culmine.
Il parroco fatica a calmare l’assemblea
ed iniziare la messa.
Dopo la comunione, entrano in
processione un centinaio di bambini
e bambine, rivestiti di bianco e con alucce
che li trasformano quasi in angeli
del cielo: circondano la statua,
posta su di un piedistallo, alla sinistra
del presbiterio. Mentre si canta un inno
mariano, decine di lampade illuminano
il viso della Madonna; poi un
ragazzo depone sulle sue spalle un
manto blu e una ragazza una bianca
corona sulla sua testa. Scoppia un applauso
fragoroso, e non si sa bene se
gli adulti applaudono i loro figli o la
Vergine. Molti hanno le lacrime agli
occhi e anch’io…
Tutto questo mi rimanda alle processioni
del Corpus Domini della mia
infanzia, nel Québec (Canada), quando
la fede era ancora forte… In Brasile
la gioia, l’esaltazione e l’entusiasmo
mi ricordano numerose celebrazioni
vissute in Africa. Ma, a Brasilia, ho avvertito
una qualità di fede tutta speciale.
Non so perché: ma gli occhi che
fissavano la statua della Madonna,
trasportata da un quartiere all’altro
della capitale brasiliana, i corpi che
danzavano e agitavano ogni sorta di
bandiere e drappi, mentre la Consolata
attraversava le strade della città
del futuro… tutto questo mi ha dato
un’impressione di freschezza e verità,
che non riuscirò a dimenticare.
Al momento del mio arrivo nella
capitale non sapevo cosa mi aspettava.
Però, nel giorno della Consolata,
credo proprio che il cielo si sia aperto
su Brasilia… Ora sono un po’ invidioso
di padre Galantino, parroco di
una porzione davvero eccezionale del
popolo di Dio. Non so se quello che
ho visto sia un raggio di cristianesimo
futuro; però so che quella sera, stanco,
non riuscivo a prendere sonno, a
causa delle immagini di fede che facevano
ressa nel mio cuore.
L’indomani ho chiesto al diacono
se tale festa della Consolata
facesse parte del cristianesimo
passato o futuro. Mi ha risposto che
era quello del passato. Lasciamo,
dunque, a Maria il compito
di preparare il futuro
del Brasile!

RIMANETE CON NOI!!
Maria merita il nome di Consolata con due significati: infatti
fu dapprima consolata per diventare la consolatrice
di tutto il genere umano.
Ragazza di 14-15 anni, Maria riceve un annuncio che la
riempie di spavento. Ma non deve temere perché, secondo
le parole dell’angelo, «il Signore è con lei». E per la «consolazione
» che riceve, potrà pronunciare una parola che
sarà principio di salvezza per noi tutti. Se non comprendiamo
il motivo di quel suo sgomento, non capiamo neppure
l’importanza della sua risposta: «Io sono la serva del
Signore».
Maria era figlia di ebrei, e una ragazza che rimaneva incinta
fuori del matrimonio metteva a repentaglio la propria vita.
Ai giorni nostri sentiamo dire che nei paesi musulmani
c’è gente, scoperta in adulterio, che viene lapidata: una prassi
normale, in passato, nel Medio Oriente e in Israele. Ma
poiché la Madonna era di grande fede, le bastarono poche
parole per ricevere consolazione, tanto da dare principio a
una nuova era nella storia dell’umanità; poiché questa è l’era
della grande «consolazione», il tempo di Gesù, salvatore
di tutti.
Carissimi missionari della Consolata, è per noi una grande
gioia avervi qui. Leggevo tempo fa un libro, scritto
da un vostro confratello, uno dei pionieri che raggiunsero il
Kenya. Raccontava della vita dura, specialmente nei primissimi
tempi, sperimentata dai missionari: stanchi, anneriti
dal fumo del treno, ma sempre avanti, fino alla meta. Erano
scesi in un posto sconosciuto e da lì avevano ripreso,
a piedi, il viaggio verso la meta; salirono montagne, ebbero
tanti malanni; qualcuno tra i portatori, durante la carovana,
morì anche per strada. Fino
a quando arrivarono…
Quello che vorrei dirvi è questo:
l’audacia di quei pionieri nasceva
da una fede enorme! E mi
vengono in mente quei benedettini
che furono i primi a venire
dalle nostre parti, in Tanzania;
non avevano neppure emessa la
prima professione religiosa e ricevettero
l’ordine di andare in
missione. Lasciarono il loro paese,
senza più tornare (non conobbero
neppure la loro casa
madre). Anche i missionari della
Consolata seguirono lo stesso
modo di evangelizzare: partirono
senza sapere dove andavano,
in paesi stranieri, poveri,
diversissimi dall’Italia; sapevano
della malaria, dei serpenti,
dei leoni… ma andarono.
E dove hanno trovato il tempo
per costruire dentro di sé la fede,
per essere missionari? Il motivo
è che avevano già la fede «succhiata
» dalla Consolata, la quale
ebbe il dono di trovare la consolazione
di Dio.
Tra i primi missionari, alcuni lasciarono poi il Kenya per venire
qui in Tanzania. Vennero per «kuziba pengo» («riempire
un vuoto lasciato da un dente estratto»; ma Pengo è
pure il cognome del cardinale che sta parlando; ndr): a
riempire il vuoto lasciato dai benedettini. Ereditarono parrocchie
non in una situazione normale, ma post-bellica, in
una ex colonia tedesca. «Io sono la serva del Signore, sia
fatto a me come l’Onnipotente vuole». Vennero qui da noi.
La loro opera la conosciamo e apprezziamo: un lavoro
grandioso e che ci riempie di meraviglia. Come hanno fatto
tutto questo, superando difficoltà e ristrettezze?
I nostri missionari, all’inizio del secolo scorso, erano pronti
a mettere la vita nelle mani dell’Onnipotente per eseguire
il mandato: far sì che anche per i tanzaniani (come prima
per i kenyani) sorgesse «l’ora di Dio», avessero la consolazione
di conoscere il Signore Gesù… Ma anche il nostro
mandato non è diverso dal loro. Poiché la presenza di Dio
tra gli uomini è necessaria, questo è il lavoro che riceviamo
da Maria Consolata, tramite i suoi missionari.
Figli della Consolata, vi faccio le mie felicitazioni: per la
festa di oggi e per il vostro grande lavoro fatto qui, nella
nostra chiesa. Vi siete dati senza risparmiarvi, come la
Madonna Consolata che disse: «Se c’è da rischiare la vita
non importa; se Dio vuole invece che viva, così sia, come
vuole l’Onnipotente!».
Grazie di cuore per averci dato la possibilità di avere Dio
con noi! Anche noi ora possiamo dire: «Emanuele! Dio è
con la sua gente!».
Dopo avervi ringraziati, vi preghiamo di continuare a inco-
raggiare noi, che siamo i vostri figlioli
e nipoti, perché lo spirito che ci avete
portato non venga mai meno. Siate con
noi, state con noi! Io penso che, umanamente
parlando, il periodo più duro
della missione sia passato, poiché se
qualcuno oggi desidera i maccheroni,
anche qui a Dar es Salaam li può trovare…
e anche le medicine!
Rimanete qui, restate qui! E, se qualcuno
è sfinito e non riesce più a lavorare,
non abbia paura, non pensi di essere
inutile e di tornare in Italia; ma vada
davanti all’eucaristia a pregare per
noi l’Onnipotente. Stia qui e preghi; preghi
insieme a noi, perché possiamo vedervi
e imparare. Vi promettiamo che
faremo tutto il possibile per portare avanti
lo spirito messo in noi, affinché il
nostro popolo possa sempre dire: «Emanuele!
Dio è con il suo popolo!».
Polikarp Pengo
(traduzione dallo swahili
di padre Giovanni Medri)

LA LUCE È RIMASTA NEI MIEI OCCHI
Caro direttore, le presento una testimonianza
sulla Madonna Consolata
di Agnese Capello, mia cugina.
Essa gradirebbe che fosse pubblicata
su una rivista con il nome
«Consolata». Agnese mi ha chiesto
di ritoccare lo scritto. Ma ho pensato
che non sarà, certo, la forma a togliere
interesse ad un testo già bello,
così come è nato da chi ha vissuto
la vicenda che racconta.
M.P. QUIRICO – TORINO

È con gioia che pubblichiamo la seguente
testimonianza proprio nel mese
della Consolata.

Quando una persona si ferma un
tantino a meditare sul senso della
vita, è facile che le vengano in
mente alcuni particolari molto significativi.
Un episodio che, iniziando dai nostri
vecchi, si è tramandato di padre
in figlio riguarda un affresco, che si
trova sulla facciata della nostra casa
in un paese della collina torinese.
L’affresco rappresenta la Consolata
e risale al 1856.
Venne eseguito per un «voto»,
fatto alla Consolata in un momento
penoso per la gente, quando serpeggiava un’epidemia che colpiva i
bambini dai 13 anni in giù. Ne erano
già morti parecchi, e i genitori
che vivevano nella casa avevano promesso
alla Consolata che, se salvava
i loro numerosi bambini, s’impegnavano
a far dipingere la sua effigie
sul fronte della loro abitazione.
Bisogna pure ricordare che, in tante
case, la fede consisteva anche nel recitare
ogni sera il santo rosario.
I genitori intensificarono le preghiere
finché, cessato il pericolo che
durò parecchi mesi, esaudirono il loro
voto, perché tutti i bambini erano
salvi. Fecero eseguire l’affresco, e
continuarono a pregare e ringraziare
la Madre Consolata mettendosi
sotto la sua protezione, poiché quell’avvenimento
fu considerato un miracolo.
Il pittore che eseguì l’affresco
fu un certo Nicolao Doria. Si presume
che fosse un ligure. In quella casa
nacque pure Demetrio Casola
(1851-1895), ricordato nelle enciclopedie
come pittore.
Tutti i genitori, che si sono succeduti
nella casa nel corso degli anni,
hanno sempre avuto una particolare
attenzione e il massimo riguardo
verso la Madre di Dio, che era considerata
una componente della famiglia.
La pittura è rimasta inalterata
nei colori, pur essendo esposta alle
intemperie.
Anche i miei genitori abitarono
nella casa. Nel 1956 (anno del centenario
dell’affresco) si prodigarono
per festeggiare l’anniversario. Era
prima del Concilio ecumenico Vaticano
II, e non si poteva celebrare la
santa messa. Però ci fu una grande
partecipazione di parenti e alcuni
sacerdoti, con preghiere, canti mariani
e il santo rosario.
Terminate le funzioni, ci fu un bel
rinfresco per tutti.
Nel 2006 saranno 150 anni di
«presenza matea» nella nostra
casa. Per l’occasione, se Dio vorrà, ci
sarà ancora un ricordo, perché è
sempre bene lodare la nostra Madre
Santissima Consolata.
AGNESE CAPELLO – TORINO

Alla Consolata sono riconoscente
fino dall’infanzia. Nel maggio
1945 (era da poco finita la guerra)
i miei genitori mi accompagnarono
in treno da Bra (CN) a Torino al santuario
della Consolata, per ringraziare
la Madonna. Il viaggio fu avventuroso,
perché eravamo in un carro-
bestiame, alla mercé del vento.
Ricordo Torino con tanti cumuli di
macerie, a causa dei bombardamenti
subiti.
Dunque la guerra era finita, ed io
ne ero uscita miracolata. Lo scoppio
di una granata mi aveva ferito il naso,
un orecchio e una gamba. Ma la
pioggia di schegge non mi colpì gli
occhi. Subito i miei genitori esclamarono:
«Questo è un miracolo della
Consolata!».
Fede semplice e viva quella dei
miei genitori, fede dettata da sofferenza,
senza perdere mai la fiducia
in Maria, Madre nostra in tutte le ore
della vita.
Così la luce è rimasta nei miei occhi.
CATERINA VIRANO – BRA (CN)

È un’altra testimonianza che calza
a pennello con il mese di giugno. Anche
la signora Giovanna Castellano
(di Torino) ringrazia pubblicamente la
Consolata «per grazia ricevuta in favore
del figlio».

Cari missionari, ho 17 anni e fin
da bambina conosco la Vergine
Consolata. Nella contrada in cui mia
madre è nata e cresciuta si venera la
Consolata da molto tempo. La sua figura
mi è rimasta impressa per il
racconto di un «miracolo».
Mia madre era una bambina di
quarta elementare e in quell’anno
si abbatté un terribile nubifragio
con una violenta tromba d’aria. Allora
a scuola si andava a piedi, e il
mattino seguente la tempesta ella,
in mano del nonno, si avviò tra
massi scivolosi, ciottoli fangosi e
grandi pozzanghere.
All’approssimarsi della scuola, vicino
alla chiesetta della Consolata,
mia madre non vide più l’edificio
sacro, ma un cumulo di macerie.
Un’ombra scese sul suo cuore e su
quello del nonno.
Erano ormai giunti e… sul mucchio
di rovine essi videro la statua
della Madonna, di fragile gesso,
dolcemente adagiata, illesa, eccetto
che in una mano. E illesi erano
tutti gli abitanti della contrada,
nonché le case, le stalle, gli animali.
In quella chiesa, ricostruita più
grande, ho frequentato il catechismo
e ho coltivato il mio spirito alla
luce del vangelo e nell’ascolto di
esperienze missionarie. Crescendo,
la scuola (frequento il liceo classico)
e gli amici mi hanno forse impoverito
il bagaglio religioso; ma
mi sono ripresa, per un incastro di
cose difficili da capire o spiegare.
Da tre anni, cioè da quando è
morto il nonno Nicola Gironimo, vostro
abbonato e devoto della Consolata,
seguo con particolare interesse
la vostra rivista, che vorrei
continuasse ad essere recapitata a
nome del nonno. Apprezzo il modo
limpido con cui voi, missionari, raccontate
la vita e, soprattutto, il vostro
impegno nell’alleviare la sofferenza
dei fratelli. L’offerta inviata
è a favore dell’ospedale di Neisu
(Congo), affinché l’opera di padre
Oscar Goapper non si arresti.
Infine questa lettera vuole essere
un grazie alla Vergine, madre di
ogni consolazione. Maria sostenga
tutti e mantenga viva nella mia e
in tutte le famiglie la luce della verità
fatta carne.
MARA CERVELLERA
MARTINA FRANCA (TA)

Carissima Mara, anche la tua testimonianza
è splendida, come lo sono
i tuoi 17 anni…
A tutti gli amici e sostenitori delle
missioni assicuriamo la preghiera
alla Vergine Consolata dei suoi missionari
sparsi nel mondo.

Jean Paré




NEISU (R.D. Congo): emozioni di un viaggio atteso

UN’OASI DI PACE


Finalmente, dopo tanti inviti, la possibilità di vedere (e
gustare) l’opera di padre Oscar, medico-missionario prematuramente
scomparso, nel piccolo villaggio della foresta e nel suo ospedale, dove
ancora tutto parla di lui.Una visita, anche, per dirgli grazie.

Kampala
(Uganda): dopo cinque lunghi giorni di attesa, c’è la possibilità di
partire con un piccolo aereo. Meta, missione di Isiro (Congo, repubblica
democratica).

Sono con
mio marito Piero, padre Rinaldo Do, superiore regionale dei missionari
della Consolata, una suora comboniana e David, seminarista congolese di
ritorno dal Brasile per le vacanze natalizie. Finalmente sto per
realizzare un mio sogno, dopo un’attesa che dura da otto anni, cioè da
quando io e l’associazione S.O.S. di Padova abbiamo iniziato ad aiutare
padre Oscar Goapper e il suo ospedale di Neisu.

Con
l’aereo a 10 posti, cinque dei quali lasciati alle merci, volo sopra
enormi estensioni di foresta e percepisco chiaramente che quelle forme di
vita vegetale sono conservate come in uno scrigno da una natura
incontaminata. I miei occhi «bevono» i colori chiaro-scuri dei verdi
equatoriali. Il paesaggio mi affascina, ma attendo con ansia l’arrivo a
Isiro.


«Respirando»
ingiustizia e abbandono


 All’aeroporto (ma di questo ha solo il nome), ci sono padri Antonello e
Giuseppe che ci attendono. La gioia di trovarci lì è tanta e, dopo una
breve sosta nella casa regionale, proseguiamo il viaggio verso il
villaggio di Neisu, a 30 chilometri da Isiro. Per percorrerli ci vogliono
quasi due ore; la strada, infatti, è simile a un sentirnero, circondato da
un’intricata vegetazione che si protende verso di noi, quasi in un
abbraccio.

Di tanto
in tanto incontriamo «i ragazzi delle biciclette», che rappresentano
l’unica possibilità di comunicazione tra le varie zone del paese in
guerra: percorrono anche 800 chilometri per rifornire i propri villaggi
del necessario (olio, zucchero, sale, indumenti, ecc.), trasportando
150-200 chili per volta; costretti perciò, al ritorno, a spingere il loro
mezzo a piedi. È una fatica immane (che può causare anche la morte), a cui
si aggiunge  il pericolo costante delle imboscate da parte dei ribelli,
che li assalgono per derubarli. Nel vederli così stremati, costretti a
svolgere tale lavoro (unico mezzo di sostentamento per loro e la loro
gente), quanta pena! Una profonda commozione mi assale e non riesco a
trattenere le lacrime. Eppure, provo compassione anche per i ribelli,
spesso bambini-soldato che, armati di fucili a volte più grandi di loro,
ricorrono alla violenza per sopravvivere in mezzo ad una situazione di
caos e disperazione.

Quante
volte padre Oscar ci aveva descritto questa realtà; quante volte ci aveva
invitato alla solidarietà! Ora che non c’è più, mi chiedo con quale stato
d’animo entrerò nella sua casa, nel «suo» ospedale, nel villaggio dei suoi
mangbetu. Nella mente scorrono ricordi di descrizioni, episodi,
personaggi, progetti rimasti in sospeso; percepisco anche il timore di non
riuscire a vivere pienamente un’esperienza che da molto tempo desideravo
fare.

Cerco di
non pensare e tento di lasciarmi trasportare, libera, in mezzo a quella
strada di terra rossa, che taglia la foresta, attraverso piantagioni di
caffè, cotone, riso… abbandonate per sempre: segni tangibili di un
passato fiorente e ora scomparso a causa della guerra, l’instabilità
politica e gli interessi economici inteazionali. Le guerre provocano
vittime (soprattutto donne e bambini) e sofferenze di ogni tipo, purtroppo
destinate a prolungarsi nel tempo.

Questo
l’abbiamo potuto constatare soprattutto a Wamba, a 130 chilometri da Neisu
(otto ore di viaggio), centro un tempo ricco e lussureggiante. Questa
città costituisce il simbolo della decadenza dell’intero paese: non vi è
più la linea elettrica, le pompe di benzina sono state asportate, niente
banche, il treno non passa più, l’ospedale è fatiscente e di molte case
coloniali non restano che gli scheletri, perché poche sono sopravvissute
ai saccheggi e all’abbandono. Unico forte punto di riferimento sono le
strutture della chiesa locale e di quella missionaria, a cui la gente,
cristiana o no, può rivolgersi per ogni bisogno, sapendo di non essere
abbandonata.

Sono gli
«agenti pastorali» (vescovo, preti, suore, missionari, catechisti) che
stanno cercando di ripristinare le vecchie costruzioni e propoe di
nuove. Con una fede che mi commuove, persistono nella loro opera, anche
senza la certezza che domani ci saranno abbastanza denaro e tranquillità
per continuare.

Con
lucidità respiro le ingiustizie e provo tanta tristezza. Il Congo, che nel
sottosuolo custodisce preziose pietre (oro, uranio, cobalto, diamanti e
ogni altro ben di Dio) è caduto in una povertà indescrivibile. Neppure i
più elementari servizi qui vengono assicurati.

Dopo 17
anni di viaggi in Tanzania, pensavo di essere collaudata a tutto; mi
accorgo, invece, che qualcosa di nuovo nasce dentro di me, sento crescere
inquietudine, rabbia e, contemporaneamente, desiderio di fare di più per
questa popolazione: cordiale, gentile, ricca di dignità e ancora capace di
lottare.


Già dipinto
tra i santi

Ecco Neisu.
L’atmosfera che trovo all’arrivo stabilisce istintivamente un rapporto di
calda simpatia; mi colpisce il sorriso dei mille bambini che ci stringono
le mani sussurrando: «Mbote!» (saluto in lingua lingala). I loro volti
sono entrati per sempre nel mio cuore.

È quasi
una visione: come in un «paradiso terrestre», le abitazioni ordinate tra
le piante gigantesche di ogni genere, che farebbero invidia ai più grandi
vivaisti del nostro mondo occidentale. Tutto è equilibrato, pulito,
tranquillo. Al centro, sorge l’elegante ospedale con 120 posti letto,
costruito in piena foresta per i mangbetu, popolazione del nord-est di
questo enorme paese, che vive ancora in capanne di legno, paglia e fango.
Il loro modo di aggregazione è semplice, ma ben organizzato.

Piero, mio
marito architetto, nota ammirato: «Questo ospedale si struttura in forme
organizzative semplici, ma adeguate alla gente che serve, pensato e
costruito come elemento stabile e duraturo. Il sistema costruttivo è
quello dell’edilizia attuale dei paesi sviluppati, però calato nella
realtà climatica del paese e adeguato al sistema di vita della
popolazione, abituata a vivere in orizzontale, su un solo piano. Non
strutture grosse e pesanti (come quelle della colonizzazione belga), ma
agili, leggere e più facilmente adattabili alle esigenze delle
trasformazioni che via via si possono rendere necessarie».

Infatti,
non appena la ragione ricorda che sei in mezzo alla foresta, ti accorgi
che si tratta di un piccolo giorniello di cui tutto il personale (medico e
paramedico) è giustamente fiero. In testa a tutti suor  Luisa che, con
padre Oscar, ha condiviso giornie, difficoltà e non poche… soddisfazioni!

La chiesa,
semplice anch’essa nell’impianto di base, non è uno spazio banale o
inutile; non lo è soprattutto per le espressività della popolazione, che
manifesta i propri sentimenti e la propria fede durante le celebrazioni
liturgiche. La notte di natale la chiesa è stracolma, la folla assiepata
anche all’esterno, un’illuminazione flebile (alimentata dal generatore)
mette in risalto il piccolo presepe posto davanti all’altare adornato con
una stella cometa e ghirlande di meravigliosi fiori rosa.

È, per me,
un momento emozionante: i padri Victor e Antonello, accompagnati da uno
stuolo di chierichetti (bimbi e giovani), entrano a passo di danza,
proprio come vuole il rito «zairese». In quel frastuono di canti e grida,
assaporo un fenomeno straordinario: un’incredibile felicità permette a Dio
di esprimere, attraverso quella messa, l’infinità del suo amore. E in quel
raccoglimento, così particolare e insolito, sento quanto sia straordinaria
la condivisione. La chiesa è  ricca di raffigurazioni assai significative
per i mangbetu, per la storia della chiesa d’Africa, per la vita di
Cristo.

E tutto
quanto esposto è frutto di un’unica mente, quella di un personaggio
«geniale», padre Oscar, l’uomo dalle molte doti: missionario, medico,
architetto, pittore… e puoi aggiungere amico, fratello, compagno di
strada, uomo della misericordia, ecc. A ragione è stato inserito, dopo la
sua morte, negli affreschi della chiesa tra le schiere dei santi e beati! 


Ritoo alla
realtà

Neisu è un
cuore (questo significa in lingua kimgbetu) che batte nella foresta
equatoriale del Congo, oasi di pace dentro la guerra, speranza per molta
gente.

Ed è qui,
nel giardino dell’ospedale, che riposa e vive ancora padre Oscar. Ogni
cosa parla di lui e a lui; anche gli alberi che vibrano, le foglie che
ondeggiano con il soffio del vento e il canto degli innumerevoli uccelli
tessitori. Una cappellina di paglia davanti alla sua tomba accoglie ogni
mattina i credenti, che elevano i loro canti in un’interminabile lode a
Dio. Ogni sabato, poi, il personale dell’ospedale partecipa alla liturgia
eucaristica, voluta proprio dal loro maestro; tutto è come prima, con la
stessa forza, la stessa fede. I padri Antonello, Richard, Bruno e Feando
continuano con entusiasmo a trasmettere alla popolazione il messaggio di
Cristo.

Ma, anche
in quell’angolo di pace si insinuano allarmanti presenze di ribelli,
mentre la situazione nazionale, determinata dall’instabilità politica, si
fa sempre più preoccupante.

Temo di
essere alla fine del mio soggiorno in Congo… finché una fortuita
combinazione ci spinge a prendere l’ultimo aereo disponibile per un
possibile rientro in Italia. 

Arriviamo
a Bunia che, purtroppo, non è molto dissimile da Wamba e Isiro, in quanto
nelle cittadine sono più evidenti i segni della guerra e della crisi di
cui soffre il paese. Qui il paesaggio è diverso: la fitta foresta
scompare, ma il verde non svanisce  e all’orizzonte svettano dolci
montagne, non troppo alte, dalle cime lisce e morbide. Godiamo di panorami
eccezionali, ombreggiati da nuvole bianche, spostate dal vento.

Il nostro
amico André (prete diocesano di Wamba) ci offre l’occasione di vivere, per
la prima volta, la speciale atmosfera della vita di un seminario africano.

Seguendo
il ritmo del sole, lodi all’aurora e vespri al tramonto: cori di voci,
preghiere e musiche accendono nell’animo qualcosa di straordinario e
delicato. Dimentico tutto ciò che fa rumore intorno; nelle notti di
silenzio, ascolto il mistero che mi avvolge e, ancora una volta, sento di
amare questo paese, tanto da sentirmi persino felice…

Grazie,
Oscar!

SOS


                Sos  è un organismo di volontariato, la cui sigla
significa: So- lidarietà – Organizzazione – Sviluppo. Nasce a Padova nel
1989, grazie all’entusiasmo di Sonia Bonin e di un gruppo di amici, con lo
scopo di creare ponti di solidarietà con i paesi meno fortunati
dell’Africa, in particolare il Tanzania. Contatti e progetti si
intensificano sempre più, sostenuti da un’intensa opera di
sensibilizzazione a Padova e… dintorni.

Dopo aver
conosciuto padre Oscar, l’Associazione si è impegnata ad aiutare
l’ospedale di Neisu, donandogli anche, poco prima della sua morte, un
prezioso (e costoso) microscopio. Il viaggio di Sonia, raccontato
nell’articolo, avrebbe dovuto realizzarsi prima della scomparsa del
missionario…

Sonia Bonin




SAN PEDRO (COSTA D’AVORIO): missione nella «bidonville»

LUOGO DI RIFIUTI


Secondo porto della Costa d’Avorio, San Pedro gode di un
non invidiabile primato: tre quarti dei suoi 200 mila abitanti vivono nel
Bardot, la più grande bidonville dell’Africa occidentale, in una
situazione di degrado e disperazione. Vi lavorano i missionari della
Consolata.


Dall’altura lo sguardo spazia su una parte del territorio parrocchiale:
case e casette in ordine sparso in un mare di verde e di foschia. Il resto
è nascosto da una collinetta che, appena aggirata, rivela una distesa
immensa e senza interruzione di tetti di lamiera grigi e arrugginiti.

Procedendo
a passo d’uomo per un’ampia strada polverosa e sconquassata, sbuchiamo
all’improvviso nel cuore della città, tra edifici modei di banche,
negozi, centri commerciali. A ricordare il passato coloniale rimangono, in
prossimità del porto, due bianche zanne di elefante in lamiera e un
trenino, quasi un giocattolo in rottamazione.


COSTA DI
MALAGENTE

Anche il
nome ricorda un pezzo di storia. Qui sbarcarono, la prima volta verso il
1470, gli esploratori portoghesi e trovarono un piccolo villaggio di
pescatori kru, appollaiato alle foci del fiume Hé: fiume e villaggio
furono battezzati col nome di São Pedro. Lo stesso fecero più a est, col
fiume São Andrea (da cui Sassandra), e a ovest col promontorio di Cabo
Palmas, oggi Cap Palmas, ai confini con la Liberia: tre nomi rimasti come
firme della presenza portoghese nella regione.

Col
passare dei secoli, le coste videro sfilare le navi portoghesi, olandesi,
inglesi, francesi, che a tuo occuparono il litorale alla ricerca di pepe
e altri prodotti esotici. I contatti con gli europei dovettero essere
difficili, a volte cruenti, se la zona tra Cap Palmas e Sassandra fu
chiamata «Costa di Malagente», titolo che resistette a lungo sulle carte
geografiche.

Poi, con
le buone e con le cattive, gli europei imposero alla «malagente» i loro
commerci: caricavano rame e minerali vari; avorio soprattutto: ce n’era
una tale quantità che gli olandesi ribattezzarono la zona Tand Kuts, Costa
d’Avorio, appellativo poi esteso dai francesi al resto del paese.

Tra il xvi
e xviii secolo la Costa di Malagente, come il resto delle terre affacciate
sul Golfo di Guinea, fu dissanguata dal traffico degli schiavi. Quando lo
schiavismo fu abolito, la regione ricadde nell’oblio: alla fine del 1800,
tra Tabou e Sassandra, pochissime imprese commerciali mantenevano ancora i
propri empori.

A San
Pedro era rimasta la compagnia francese Kong, guidata dal suo fondatore
Arthur Verdier. Con coraggio e caparbietà, costui continuò i suoi
disgraziati affari, tenendo testa agli inglesi che, per farlo sloggiare,
depredavano le sue navi in continuazione. Finché nel 1885 arrivarono i
francesi per occupare il litorale, penetrare nell’interno e colonizzare la
regione.


CITTÀ
COSMOPOLITA

Clima,
malaria e ostilità delle popolazioni diedero filo da torcere ai soldati,
molti dei quali ci lasciarono la pelle. Ma nel 1893, tutta la Costa
d’Avorio era sotto il controllo francese, col titolo di colonia
indipendente. San Pedro riprese quota: con materiale portato dalla
Francia, il governo vi fece costruire un padiglione per la dogana, la
residenza dell’amministratore e un faro, il primo della Costa d’Avorio.

Nel 1900
il governo donò alla compagnia Kong quasi 3 mila kmq di foresta attorno a
San Pedro, per indennizzare il patriota Verdier degli sforzi sostenuti per
mantenere la presenza francese sul territorio. Cominciava la corsa allo
sfruttamento del legname e alle coltivazioni di caffè, cacao e caucciù.

Nel 1968,
otto anni dopo l’indipendenza, il governo dichiarò la regione sud
occidentale secondo polo di sviluppo del paese, lanciando un vasto
programma chiamato Arso (Aménagement de la région du Sud Ouest). San Pedro
cominciò a cambiare i connotati: fu dotato del porto autonomo, insieme a
varie strutture commerciali e industriali. In poco tempo il piccolo borgo
diventò una città modea e polmone economico della regione circostante.

Incremento
di colture da esportazione nelle zone rurali, costruzioni di
infrastrutture e industrie per la lavorazione del cacao, caffè e legname
attirarono manodopera in continuazione. Ai gruppi etnici locali (kru,
bakué, néyo) si aggiunsero quelli provenienti dall’interno della Costa
d’Avorio (baoulé, wobé, guéré, yakouba, malinké, mahou, senoufo, koulango,
abron, agni) e dai paesi circostanti.

Oggi San
Pedro conta circa 200 mila abitanti; è una città cosmopolita con grosse
colonie di burkinabé, maliani, liberiani, guineani, ghaniani, nigeriani,
mauritani e alcuni europei e libanesi.


REGNO DELLE
ZANZARE

Dalla cité
torniamo al Bardot, la più grande bidonville dell’Africa occidentale. Nata
spontaneamente come quartiere provvisorio per la mano d’opera impiegata
nella realizzazione di infrastrutture urbane e portuali, è cresciuta a
dismisura con l’arrivo di masse disperate in cerca di lavoro, fino a
contenere i due terzi della popolazione di San Pedro.

Padre
Armando mi fa visitare una piccola parte della sua parrocchia, per
rendermi conto della situazione. «Wabù! Wabù!» (bianco) ci salutano i
bambini, correndoci incontro per stringerci la mano. «Quando racconto che
mi chiamano “bianco”, i miei compaesani si mettono a ridere» racconta
sorridendo il padre, la cui caagione sembra caffè espresso. Qualcuno,
pochi in verità, saluta dicendo «mon père» (padre), segno che sono
cristiani.

Padre
Armando scherza con tutti, mentre osservo con costeazione le lunghe file
di baracche di legno, addossate le une alle altre, facendo bene attenzione
dove posare i piedi. Tutte le stradette, infatti, assomigliano a letti di
torrenti, con ciottoli frammisti alle immondizie domestiche buttate a
casaccio davanti alle abitazioni. L’assenza di fognature, poi, fa sì che
le vie si trasformino in fogne a cielo aperto, con tratti di  liquame
ristagnante. 

In fondo a
molte strade, in un avvallamento acquitrinoso, ci imbattiamo in mucchi di
immondizia in cui ruspano galline, grufolano maiali e capre e giocano i
bambini.

Tutto ciò
favorisce la proliferazione di zanzare, che al Bardot regnano sovrane. Si
sono fatte varie campagne per combatterle, ma la gente sembra abituata e
rassegnata a convivere con esse e alle relative febbri malariche. Ma i
centri sanitari sono sempre pieni. Più della metà dei pazienti accolti
nelle strutture sanitarie di San Pedro viene dal Bardot, in maggioranza
con malattie legate alla malaria. Tutti ne sono colpiti; ma i più
vulnerabili sono i bambini al di sotto dei 5 anni.

Il degrado
ambientale porta con sé quello sociale. Oltre che nido di zanzare, Bardot
è anche covo di briganti di strada: assenza di pianificazione stradale e
di elettrificazione, fa di alcune zone del Bardot un rifugio ideale per i
malviventi e un rischio per chi si azzarda ad entrarvi. Il 30 aprile 2001,
un commissario di polizia, sulle tracce di una banda di malfattori, fu
abbattuto con una pallottola al cuore.

Una di
queste zone, la parte sud del Bardot, è soprannominata Colombia, nome dato
non a caso: vi si concentrano i più grandi spacciatori e narcotrafficanti;
la droga è consumata sotto gli occhi dei passanti.

Il settore
chiamato Zimbabwe è tristemente famoso per il numero di aggressioni a mano
armata, di giorno e di notte. Al commissariato di polizia vengono
segnalati almeno 35 casi di furti, aggressioni e violenze giornaliere: più
di mille al mese.


Insalubrità e malattie, aggressioni, crimini e droga fanno vittime tutti i
giorni.

Il
Bardot è il quartiere di tutti i pericoli. Per evitarli, siccome il sole
sta per tramontare e le tenebre calano in fretta, ci affrettiamo a
rincasare.



A LUME DI CANDELA

Il
complesso della missione è molto semplice: la chiesetta in muratura,
dedicata alla Madonna d’Africa, un fabbricato in mattoni addossato alla
cappella e, pochi metri a fianco, una casetta di legno dove padre Olaya
vive insieme al collaboratore e connazionale padre Martin Sea.
Esteamente essa appare più decente delle altre catapecchie, ma è
altrettanto scomoda all’interno: senza luce elettrica né acqua corrente.
Al calar della notte, si accendono le lampade a petrolio e si cerca il
cesso a lume di candela.

«Fin
dal nostro arrivo, nel 1997, ci siamo proposti di lavorare con i poveri e
non per i poveri» attacca padre Armando, accentuando «con» e «per», in
modo da spiegare il suo metodo missionario assai spartano. Per questo ha
scelto di costruire l’abitazione in legno, riservando il fabbricato in
muratura alle attività comunitarie.

Nei
primi anni i missionari andavano in bicicletta, come i più fortunati del
Bardot; poi si sono rassegnati a comperare una vettura di terza o quarta
mano, per potersi occupare dei 18 villaggi compresi nel territorio
parrocchiale, alcuni dei quali a una cinquantina di chilometri da San
Pedro. Di essi si occupa soprattutto padre Martin: parte al martedì e
ritorna la domenica, passando la settimana nelle comunità rurali. Padre
Armando rimane al Bardot, ma si è aggiornato: quando non gira a piedi,
cavalca un ciclomotore, zigzagando e pedalando che è un piacere.



CRESCERE CON LA GENTE

«Al
nostro arrivo c’era un centinaio di fedeli – continua il padre -; oggi
sono quasi due mila. La comunità è cresciuta piano piano e il vescovo ne
ha fatto la parrocchia della cattedrale, spostando il centro della
comunità fuori del Bardot. Anche quando il parroco dovrà abitare nella
nuova sede, noi speriamo di rimanere qui, insieme alla gente».

Da
quando è stata costituita la parrocchia, i missionari hanno assunto
l’impegno di creare strutture adeguate: consigli, commissioni e gruppi
vari, quasi una quarantina, che organizzano lavoro e vita della comunità:
catechesi, pastorale giovanile,  accoglienza, servizio dei malati e della
carità.

«Ma le
comunità di base sono la mia passione – continua padre Armando -. Una
volta la settimana, verso le 7 di sera, si radunano nel proprio quartiere
a lume di candela o di lampade a petrolio e si confrontano con la parola
di Dio e i problemi di ogni giorno. È un’esperienza molto bella vedere
come cresce la comunione vera, senza divisioni, nonostante le diversità
etniche; e i poveri che partecipano attivamente alla vita della parrocchia,
assolvendo alle responsabilità e servizi vari.


Insistiamo perché tutto passi attraverso la comunità di base, anche
l’ammissione al battesimo e agli altri sacramenti. Quando una persona
vuole entrare nella chiesa cattolica, per esempio, viene accolta nella
comunità di base, partecipa alla sua vita e vi riceve l’istruzione
necessaria, fino a quando è ritenuta pronta per ricevere il battesimo».

«Oltre
alla formazione, avete iniziative sociali e di promozione umana?» domando
timidamente.

«Più
che al lavoro sociale, il nostro impegno è rivolto alla formazione della
comunità – ribadisce il padre -. Ma qualche attività sociale l’abbiamo già
avviata, come il piccolo dispensario, dove i poveri trovano medicine a
prezzo inferiore a quello praticato da farmacie e strutture pubbliche. Ora
stiamo lavorando a un progetto per raccogliere i bambini di strada e
offrire loro la possibilità di imparare a leggere e scrivere, fare oggetti
di artigianato o apprendere un mestiere. Ho già preso accordi con una
comunità religiosa laicale che se ne assumerà la direzione. Abbiamo i
fondi per costruire il fabbricato; ma manca il terreno e non è facile
ottenerlo. Esso appartiene al comune, che non lo concede, dicendo che qui
tutto è provvisorio».

La
scuola è uno dei problemi più gravi del Bardot. Quelle esistenti sono
insufficienti e mal tenute. Con la scusa che tutto è provvisorio e che gli
abitanti sono stranieri, il governo non è interessato a fornire
l’istruzione e altri servizi essenziali. A tale mancanza suppliscono le
scuole private, costituite da baracche di canne, alcune assi per far
sedere i bambini e un maestro che sa leggere e scrivere e si fa pagare
qualcosa per sbarcare il lunario. Nonostante ciò, sono migliaia i ragazzi
che passano tutta la vita sulla strada.

«Le
sfide del Bardot sono infinite – conclude padre Olaya -. Vorremmo fare
tanti progetti, ma andiamo adagio: vogliamo che sia la comunità a muoversi.
La gente è abituata a ricevere. Prima dobbiamo aiutarla a cambiare tale
mentalità, per non perpetuare dipendenze e creae di nuove. Anche questo
fa parte della formazione».

Benedetto Bellesi




ARGENTINA/ reportage dal paese in crisi

L’ULTIMO VOLO DI MARIA MARTA


Era la notte del 14 maggio 1976 quando lei sparì. Aveva
soltanto 23 anni. Assieme al marito, faceva volontariato in una «villa
miseria» dell’immensa periferia di Buenos Aires. Per i militari al potere
un atto intollerabile di sovversione comunista. Prima di chiudere
tragicamente la sua breve vita, Maria Marta fece in tempo a partorire un
bimbo, che… La storia qui raccontata non è diversa da quella di altre 30
mila persone, scomparse nei sette anni di una dittatura per definire la
quale qualsiasi aggettivo sarebbe troppo benevolo.

Buenos
Aires. «Quel giorno cambiò completamente la nostra vita. Mio marito, che
era un diplomatico, chiese di lavorare in patria. Io divenni una delle
madri di Piazza di Maggio». 

Marta
Ocampo de Vasquez è una signora di una certa età, elegante e dai modi
garbati. Vive in un appartamento arredato con notevole gusto alla Recoleta,
un quartiere signorile di Buenos Aires. Famiglia di diplomatici, la
signora Marta proviene da un ambiente sociale importante, ma in questo
caso l’appartenza non cambia la sostanza. Una sostanza che è il dolore
inconsolabile di una madre.


IL SEQUESTRO

«Lei era
l’unica femmina in una famiglia di 6 figli. In casa era come una
principessa: carina, gentile, molto femminile. Sì, era proprio
eccezionale, Maria Marta.

Quando
scomparve, mio marito ed io, assieme al più giovane dei nostri figli,
vivevamo a Città del Messico. Arrivò una telefonata di un altro figlio:
“Mamma, hanno portato via Maria Marta”.

La
sequestrarono le forze di sicurezza della marina nel 1976, il 14 maggio,
insieme a suo marito Cesar Amadeo, medico veterinario di 26 anni.

Arrivarono
alle tre del mattino a casa sua, qui a Buenos Aires. Si fecero aprire la
porta dal portiere e poi lo fecero allontanare. Ma lui si nascose dietro
una scala e osservò tutta la scena.

Salirono
all’appartamento. In casa non trovarono niente di compromettente, ma li
portarono via egualmente. Legati e forse incappucciati…».

Perché li
portarono via?

«Per i
militari tutti coloro che si comportavano fuori dei loro schemi, erano…
comunisti. Maria e Cesar facevano un lavoro di volontariato sociale in una
“villa miseria”, un luogo simile a una favela brasiliana. Si erano
conosciuti in quell’ambito. La loro vita era di lavorare con i poveri. E
in particolare con i bambini, perché mia figlia era psicopedagoga. So
anche che, per aiutare le persone più bisognose, usavano i loro soldi.

Mia figlia
e suo marito seguivano gli ideali peronisti; entrambi erano della gioventù
peronista… Non credo che Maria fosse comunista. So invece che era molto
cattolica, come quasi tutti i suoi amici. Loro, comunque, erano soliti
ripetere: il primo comunista è stato Gesù…».

Sua figlia
e tutti gli altri sapevano di rischiare?

«No, penso
di no. Anch’io qualche volta andai in quella bidonville per fare la
maestra di scuola. Credo che nessuno di noi potesse immaginare che i
militari avrebbero reagito così, con massacri, torture, genocidi…».

A quei
tempi si sapeva già cosa stavano facendo?

«Io lo
seppi dopo, ma comunque non immaginavo che Maria non sarebbe più tornata.
Per 8 anni ho atteso che lei bussasse alla porta. I primi anni non volevo
muovermi dalla casa perché pensavo: se ritorna, non mi trova… Poi, era
il 1984, feci un’intervista con una troupe televisiva italiana che mi
chiedeva se stavo ancora attendendo mia figlia. Io risposi di sì. Ma in
seguito, con il passare del tempo, con le informazioni che a mano a mano
venivo a sapere, iniziai a rendermi conto che non era così. Però mai ho
abbandonato la lotta per cercare la verità e ottenere giustizia. Al
contrario, credo di aver lavorato ogni giorno di più».

«Dopo che
ebbero portato via mia figlia e mio genero, dall’aprile del 1977 cominciai
a frequentare “las Madres de Plaza de Mayo”. Sono ormai 25 anni che
partecipo a quella simbolica marcia attorno alla piramide di Piazza di
Maggio: ogni giovedì c’è qualcuna di noi.

Nei primi
momenti, volevo arrendermi. Invece le altre donne mi fecero coraggio.
Ancora di più quando si scoprì che non ero soltanto mamma, ma anche
nonna…».


IL FURTO DEI
BAMBINI

«Seppi
che, quando sparì, mia figlia era incinta e che, mentre era rinchiusa all’Esma
(«Escuela de mecánica de la armada», la scuola di meccanica della marina,
uno dei 365 centri clandestini di detenzione), partorì un figlio. Lo
scoprii per caso, dopo alcuni anni, quando incontrai sull’autobus una sua
amica psicologa. Poi ebbi la conferma dalle rivelazioni di un militare
pentito».

Bimbi
rubati dagli stessi aguzzini dei genitori! Non c’è fine all’orrore…

«Sì, è
questo che fecero. L’altro ieri mi hanno chiesto se li vendevano. Non
credo. Avevano una lista di famiglie che volevano avere un bambino.
Potevano essere militari o loro amici.

Se le
vittime avevano dei bambini, i militari li abbandonavano o li lasciavano
ai vicini. Se invece le donne erano incinte al momento del sequestro,
facevano nascere il bambino nel centro di detenzione».

E poi?

«Il
bambino stava con la mamma al massimo quattro giorni. Poi le dicevano che
lo avrebbero dato alla sua famiglia, invece…».

Che
fine facevano le mamme?

«La
fine degli altri: un viaggio in aereo. Arrivati sopra il mare o sul Rio de
la Plata, le persone venivano buttate giù. Vive o, nei casi più fortunati,
dopo una iniezione di Pentotal».

E
quante persone hanno subito questa sorte? 

«Non lo
sappiamo… Migliaia, perché ora si sa che anche l’esercito ha fatto lo
stesso. Ma il corpo peggiore era quello della marina».



NONNA E NIPOTE

E suo
nipote?

«Mio
nipote oggi ha 25 anni».

Sa
dov’è, cosa fa?

«Iniziai
a cercarlo assieme a mio marito. Qualche anno fa individuammo un ragazzo
che sembrava corrispondere alle caratteristiche di mio nipote».

E dopo,
che è successo? Che si fa in una situazione tanto delicata?

«Finora
non siamo riusciti a convincerlo a farsi le analisi per vedere se
veramente è lui. Prima c’era il papà che ostacolava la cosa, adesso è lui
che non ne vuole sapere. È una situazione difficile, molto dura che fa
male sia a noi che a lui. Ma io vorrei morire sapendo che mio nipote
conosce la verità. Vorrei potergli spiegare chi era la sua vera madre, mia
figlia».

Ma,
secondo voi, lui sa di essere stato adottato?

«Adesso
lo sa. Però non vuole sapere chi sono stati i suoi veri genitori. Ho
potuto parlare direttamente con lui, senza che lui conoscesse chi ero
veramente. Ho avuto questa occasione e l’ho sfruttata».

E come
si è presentata?

«Con il
mio nome. All’inizio lui non ha capito. Abbiamo parlato un po’. Poi mi
sono presentata meglio, ma lui non ha voluto proseguire la conversazione».

Quindi,
lui considera i genitori adottivi come i suoi veri genitori…

«Sì,
perché sono quelli che gli hanno dato amore, educazione e tutto quello che
ha».

Sono
dei militari?

«No,
spero proprio che non lo siano. Sarebbe un dolore ancora più grande. Io
non posso dimenticare quello che i militari hanno fatto. Per me il dolore
è lo stesso del primo giorno, quando Maria Marta sparì».

I suoi
nipoti conoscono la storia di Maria Marta e di suo figlio?

«La
conoscono. Un giorno li ho convocati qui da me, tutti e 13. E ho
raccontato ogni cosa».


LA
VIOLENZA


DELL’IMPUNITÀ

«Sotto
il presidente Alfonsin si fece un processo molto grande a tutti i militari.
Poi però il governo decise che era giunto il momento di chiudere con il
passato e varò la legge “de punto final”, che però non accontentava
abbastanza la casta militare. Si inventò allora la legge “de obediencia
debida”, secondo la quale tutti avevano obbedito a ordini superiori e,
dunque, non erano punibili. Soltanto gli alti gradi furono giudicati e
condannati».

Almeno
loro…

«Poi
arrivò Menem e fece l’amnistia. Anzi, ne fece due, la seconda nel dicembre
del 1990, come regalo di fine anno…

Per noi
fu un altro colpo molto doloroso: dei criminali, che erano già stati
condannati,venivano messi fuori dal carcere. Questa è la violenza
dell’impunità».

E ora
dove vivono?

«Nelle
loro abitazioni. Si è potuto fare qualcosa soltanto per il “robo de los
bebes”. Il primo a cadere sotto questa norma è stato il generale Videla.
Con lui altri sarebbero andati in prigione, ma sono tutti oltre i 70 anni
e per legge non possono stare in prigione. Quindi, anche questi sono nelle
loro abitazioni».

E
vivono normalmente?

«Quasi,
chiusi nelle loro case. Ogni tanto si vede qualcuno… I genitori di
alcuni ragazzi spariti dicono di averli visti per strada o in macchina.
Allora fanno foto, denunce, manifestazioni di protesta, le cosiddette “escraches”».

A conti
fatti, giustizia non c’è stata…

«No,
per questo penso sia giusto continuare a lottare. Vogliamo sapere perché
portarono via i nostri figli, chi diede l’ordine, chi eseguì tutto questo,
quale fu il destino finale».

Non
rinuncerete al vostro impegno…

«Andremo
in Piazza di Maggio tutti i giovedì, finché non ci sarà detta tutta la
verità e verrà fatta giustizia. Loro dicono che non ci sono prove perché è
stato tutto bruciato, distrutto, ma non è vero.

Finché
potrò, io continuerò a fare la mia lotta a fianco delle madri di Piazza di
Maggio, lavorando per preservare la memoria storica e contro l’impunità
dei genocidi e dei loro complici».

In
questo momento difficile della storia argentina, teme un ritorno del
passato?

«Ammetto
che sono preoccupata per quel che è successo il 20 dicembre. Mi sono
tornati alla mente brutti ricordi. Sono rimasta molto colpita dal
comportamento della polizia. Tutto quell’odio contro la gente, con i
cavalli, le pistole… Speravo di non vedere più queste cose, dopo 25 anni…
Però, rimango fiduciosa nei confronti della democrazia argentina,
nonostante ci sia qualcuno che lavora contro di essa».



L’ULTIMO VOLO


Un’ultima domanda, signora Vasquez. Si sa dov’è finito il cadavere di
Maria Marta?

«In
mare. O nel Rio de la Plata…».

(Fine
1.a puntata – continua)            

 

 


Argentina:
«Chiuso
per fallimento
»

Una
gran parte della popolazione argentina si è sempre sentita come degli «europei
trasferiti in America Latina». La prima volta che fui in Argentina,
qualche anno fa, rimasi impressionato dai prezzi, alti anche rispetto a
quelli di una città europea o nordamericana. Mi spiegarono che era la
conseguenza della parità monetaria tra peso e dollaro. Poi, uscendo da
Buenos Aires, vidi le ricchezze di quel grande paese: le sconfinate
praterie, la terra fertile, il petrolio, le bellezze della natura. Ma,
allo stesso tempo, scoprii che una fetta consistente della popolazione
viveva ai limiti della miseria.

Sono
tornato in Argentina nei primi mesi di quest’anno e ho trovato un paese
prostrato, con file interminabili davanti alle odiatissime banche, una
sfiducia assoluta nella classe politica (di qualsiasi colore), piazze
piene di manifestanti e negozi vuoti di clienti.

Le
cifre del tracollo non hanno bisogno di molti aggettivi. Oggi, su una
popolazione di 36 milioni, 14 milioni di argentini vivono sotto la soglia
della povertà. Il tasso di disoccupazione raggiunge il 18,3%, mentre
quello di sottoccupazione arriva al 16,3%.


L’Argentina è un paese che alla sua entrata potrebbe esporre un cartello:
«chiuso per fallimento». Sicuramente riaprirà, ma quando e a che prezzo?

Accanto
al problema economico (e di conseguenza sociale), c’è quello di un passato
che non può essere dimenticato, soprattutto da chi ne ha subìto le
conseguenze, lasciando nella mente e nel cuore ferite impossibili da
rimarginare.

In
questa serie di articoli gli argentini incontrati parleranno delle
difficoltà di oggi e di quel passato che è ancora presente. Dai loro
racconti è scaturito il titolo: «le ferite del passato, le lacrime del
presente».

Pa.Mo.

 

La storia
del movimento



Madri di piazza di maggio

 Il 30
aprile 1977, un anno dopo la presa del potere da parte dei militari, un
gruppo di 14 madri (a cui lo stato aveva sequestrato i figli) si riunì per
protestare in Plaza de Mayo, di fronte alla Casa Rosada, sede del governo
nazionale. Le guidava Azucena Villaflor de Devincenti (a sua volta
sequestrata pochi mesi dopo, l’8 dicembre 1977).

Le
donne stavano in gruppo. Di lì a poco la polizia, che controllava la
piazza, avvertì le convenute di disperdersi in quanto erano proibiti gli
assembramenti di 3 o più persone.

Allora
le madri iniziarono a camminare attorno alla Piramide di Maggio, posta al
centro della piazza. Da quel primo gruppo nacque il movimento delle
«Madres de Plaza de Mayo», che raccolse sempre più adesioni in tutto il
paese. Da quel giorno, ogni giovedì, dalle 15.30 alle 16.00, un gruppo di
madri si riunisce in Piazza di Maggio per reclamare verità e giustizia e
per manifestare a favore dei diritti umani, in Argentina e nel mondo.

 Nel
gennaio 1986 si costituirono due organizzazioni delle Madri di Piazza di
Maggio: «Madres de Plaza de Mayo Línea Fundadora» e «Asociación Madres de
Plaza de Mayo». Dopo aver affrontato assieme gli anni della dittatura, il
movimento si scisse a causa di alcune profonde diversità. Una parte delle
madri, la maggior parte di quelle che fondarono il movimento (da qui il
nome di «linea fundadora»), considerava necessario un cambio nella
metodologia di lotta in seguito al ritorno di un governo costituzionale.
Inoltre, era contestata l’attitudine autoritaria e il marcato personalismo
della presidente, signora Hebe de Bonafini.

Oggi il
gruppo della Línea Fundadora accetta le esumazioni come prova dei crimini
commessi e «perché nessuno può proibire a una madre di recuperare i resti
di suo figlio». Accetta la legge (n. 24.321) in base alla quale il «detenido-desaparecido»
assume la configurazione legale di «persona assente per sparizione forzata»,
lasciando la «presunzione di morte». Rispetta le madri e le famiglie che
hanno adottato la decisione di accettare l’indennizzo economico pubblico (legge
n. 24.411), riconosciuto dal governo argentino dietro sollecitazione della
«Commissione interamericana per i diritti umani» (Cidh). Con questa legge,
dicono le madri della Línea Fundadora, si riconosce il genocidio e gli
orrori compiuti dal terrorismo di stato. 

«Con
Hebe – spiega Marta Vasquez – oggi ci divide quasi tutto: i metodi di
lotta, la maniera di parlare, i modi di fare. Tuttavia, c’è una cosa che
ci terrà unite per sempre: la perdita dei nostri figli. A lei la dittatura
portò via due figli e una nuora. A me una figlia e un genero».

Pa.Mo.

 


Cronologia essenziale



Dalla nascita del peronismo al tracollo neoliberista


1943-1974: Juan Domingo Perón

Nel
1943 entra sulla scena argentina Juan Domingo Perón, uno sconosciuto
colonnello rientrato dopo un periodo trascorso nell’Italia mussoliniana e
nella Spagna franchista. Come segretario di stato al lavoro riesce a
diventare molto popolare tra i proletari e la classe media. I generali
prima lo costringono alle dimissioni, ma poi sono costretti a richiamarlo
sull’onda delle manifestazioni popolari (famosa è la protesta del 17
ottobre 1945, nota come la manifestazione dei «descamisados», i «senza-camicia»).
Perón è eletto presidente nel 1946 e, dopo una modifica ad hoc della
costituzione, viene rieletto nel 1951. Nel 1955 il generale è spodestato e
costretto alla fuga. Rientra nel 1973 e viene rieletto con il 62% dei voti.
Muore il 1° luglio 1974.

 1976 –
1983: gli anni della dittatura militare

Il 24
marzo 1976 assume il potere una giunta militare formata dai comandanti
delle tre armi (esercito, marina, aviazione). Viene nominato presidente il
generale Jorge Rafael Videla, comandante dell’esercito. Sono sette anni di
piombo. La dittatura fa sparire circa 30.000 persone, mentre a migliaia,
intellettuali e liberi professionisti, prendono la via dell’esilio.

 1983 –
1989: Raul Alfonsin

Vince
le elezioni Raul Alfonsin. Cedendo alle pressioni delle forze armate,
Alfonsin fa promulgare le leggi «de punto final» (1986) e «de obediencia
debida» (1987) che lasciano senza sanzioni i colpevoli dei reati commessi
durante la dittatura, esclusi gli alti gradi della gerarchia. Sarà Carlos
Menem a completare l’opera con due indulti (nel 1989 e 1990) ad hoc per
tutti i comandanti: Videla, Viola, Massera e altri.

 1989 –
1999: Carlos Menem

In 10
anni di governo Carlos Menem applica un ferreo modello neoliberista
privatizzando tutto ciò che si può privatizzare. Dalle casse dello stato
scompaiono buona parte dei miliardi generati dalla vendita dei beni
pubblici.

 27
marzo 1991: parte la parità peso-dollaro

Il
ministro Domingo Cavallo fa approvare la «Ley de convertibilidad» (n.
23.928). Secondo questa legge, d’ora in avanti il peso argentino si
cambierà 1 a 1 con il dollaro statunitense. Finisce l’inflazione a 3 cifre,
ma è anche l’inizio della fine per il sistema industriale del paese,
troppo debole per resistere alla concorrenza dei prodotti importati.
Chiudono le industrie, aumenta la disoccupazione.

 ottobre
1999: vince Feando De la Rua

Con il
48,5% dei voti, Feando De la Rua vince le elezioni presidenziali,
sconfiggendo Eduardo Duhalde, candidato del Partito giustizialista (peronista).

 20
marzo 2001: il ritorno di Cavallo


Schiacciato dai problemi, il presidente De la Rua chiama al capezzale
dell’economia argentina Domingo Cavallo, l’uomo che aveva sviluppato il
modello di Menem.

 dicembre
2001: la rivolta popolare

Il 3
dicembre il ministro Cavallo vara il «corralito»: nessuno può ritirare
dalla banca più di 500 pesos/dollari. In pratica, le banche e lo stato
confiscano il denaro di milioni di argentini. È la goccia che fa
traboccare un vaso stracolmo. Avvengono saccheggi e rivolte di piazza
represse con violenza (19-20 dicembre). Il presidente De la Rua si dimette
e fugge in elicottero.

 2
gennaio 2002: Eduardo Duhalde

I due
rami del Congresso eleggono presidente Eduardo Duhalde. Dovrebbe rimanere
in carica fino al 10 dicembre 2003. In soli 13 giorni l’Argentina ha avuto
5 presidenti: Feando De la Rua, Ramón Puerta, Adolfo Rodriguez Saá,
Eduardo Camaño e Eduardo Duhalde.

 6
gennaio: fine della parità

Il
governo stabilisce un nuovo cambio tra dollaro e peso: 1 dollaro è uguale
a 1,40 pesos.

 4
febbraio: la «pesificación

Tutti i
depositi in dollari vengono trasformati, obbligatoriamente, in pesos al
cambio di 1,40. Esempio: chi ha un deposito bancario di 10.000 dollari si
ritroverà con 14.000 pesos. Viene confermato il «corralito». Il dollaro
sarà libero di fluttuare in base alla domanda e all’offerta.

 15
aprile: il peso affonda

Un peso
vale 2,99 dollari. Nel giro di 3 mesi la valuta argentina si è svalutata
del 200%.

Pa.Mo.

 

 



Cliccando su …

alcuni siti internet

– 
www.madres-lineafundadora.org

il sito
delle «Madres de Plaza de Mayo – Linea Fundadora», l’associazione delle
madri che nel 1986 lasciarono il gruppo della signora Bonafini


www.madres.org

il sito
della «Asociación Madres de Plaza de Mayo», che fa capo a Hebe de Bonafini

– 
www.nuncamas.org

il sito
che riporta i documenti e le conclusioni della «Conadep», la Commissione
nazionale istituita per indagare sulle sparizioni forzate

Paolo Moiola




GUERRA AFGHANA/ Incontro con Giulietto Chiesa

SEMPRE BUGIE ANCORA BUGIE

I taleban sono nati
con l’assenso del Pakistan e, di conseguenza, degli Stati Uniti. La guerra
afghana ha coperto le gravi responsabilità di Washington. Anche con la
connivenza del sistema mediatico mondiale, che ha lavorato per dimostrare
la «bontà» del conflitto. Diamo spazio      a una voce libera, forte e
preparata che non teme di parlare «contro». Non per partito preso, ma
prove alla mano.

Al termine della
conferenza abbiamo rivolto qualche domanda al giornalista e scrittore
genovese.

«Non abbiamo vinto
niente, nel senso che gli obiettivi che erano stati proclamati,
innanzitutto la cattura di Osama Bin Laden e del mullah Omar, non sono
stati raggiunti, ma questi sono dettagli secondari_ Io credo che Bin Laden,
prima o dopo, lo uccideranno.

Il resto è
completamente lasciato all’equilibrio delle potenze estee
all’Afghanistan , come è sempre accaduto. L’Afghanistan è sempre stato in
guerra in questi anni (1), perché dall’esterno si è imposta la guerra: 
questo per varie ragioni.

È vero che
l’Afghanistan era divenuto un covo terroristico internazionale. È vero che
Al Qaeda questo faceva; io ne sono testimone diretto; però non vi è il
minimo dubbio che i taleban siano stati costruiti con l’aiuto diretto,
senza equivoci, senza mediazioni, dei servizi segreti pakistani e di
quelli arabo-sauditi.

Ora, dato che non
si può neanche lontanamente dubitare che i servizi segreti americani
fossero a contatto diretto con i servizi segreti pakistani e
arabo-sauditi, si giunge alla conclusione induttiva che la nascita del
movimento dei taleban è avvenuto con il consenso degli Stati Uniti.

Certo, la
situazione gli si è rivoltata contro, ma loro l’hanno sfruttata il più
possibile finché gli conveniva. Per esempio, Al Qaeda e Osama Bin Laden
sono stati utilizzati per supportare i guerriglieri albanesi dell’UCK, che
(come si sa bene) è stata armata e finanziata dagli statunitensi. Insomma,
servivano per operazioni di sovversione e loro contavano di poterlo fare
tecnicamente. Tutte le tesi secondo cui bisogna colpire l’Afghanistan per
colpire il terrorismo sono tesi faziose, unilaterali, che nascondono la
verità.

La guerra afghana è
stata una grande, drammatica, terribile  cortina fumogena per nascondere
le responsabilità degli Stati Uniti».

Quindi, se non ci
fosse stato l’«Undici settembre», in Afghanistan nulla sarebbe cambiato?

«Assolutamente no.
Se non ci fosse stato l’11 settembre a costringere il presidente Bush a
fare “qualcosa”, non è escluso che avrebbero addirittura provato a
riutilizzare i taleban per fare passare attraverso l’Afghanistan il
petrolio del Caspio.

La califoiana
Unocal (il cui consulente principale è nientemeno che Henry Kissinger) e
Delta Oil (di proprietà della famiglia reale saudita) hanno lavorato per
questo fino al 1997-’98.

Non ci sono
riusciti, perché i russi hanno capito che questa era un’operazione contro
di loro. Far passare il petrolio attraverso l’Afghanistan era anche un
modo per dare un duro colpo alla presenza russa, privandola del controllo
sulla regione e di importanti royalties.

Ci sarà pace in
Afghanistan? Alla domanda si può rispondere dicendo che dovrà reggere una
politica di equilibrio tra Usa, Russia, Pakistan ed Iran».

È una guerra
keynesiana? (2)

«La linea americana
della totale deregulation del mercato non funziona più. Allora, un
neokeynesismo di guerra può essere la soluzione.

Duecento miliardi
di dollari da investire in campo militare (3), possono rimettere in piedi
le grandi compagnie industriali e la finanza americana. In questo modo è
possibile rilanciare anche la new economy, bisognosa di investimenti in
campo altamente tecnologico.

Sicuramente gli
Stati Uniti otterranno un risultato: un vallo enorme in campo tecnologico
con il resto del mondo. Nessuno potrà competere con gli Usa nel settore
della tecnologia fra dieci anni. Forse solo la Cina. La guerra serve anche
a questo».

Informazione,
disinformazione, non informazione: quale aspetto principale in questi mesi
di guerra?

«Io direi
soprattutto disinformazione. In questa guerra hanno contato di più i “B52”
dell’informazione mondiale che non i “B52” veri. Questa guerra, come
quella del Kosovo, non ci sarebbe stata se non esistesse un mondo
mediatico totalmente al servizio degli Stati Uniti. Se non ci fosse stata
una formidabile virtualizzazione di tutto quello che sta accadendo. A
partire dall’11 settembre.

Da questo momento
in poi possiamo dire che il sistema informativo mondiale sarà l’arma
numero uno di tutte le guerre future. Porto ancora un esempio: dopo la
presa di Kabul i giornali, le televisioni ci hanno bombardato con la
notizia che in Afghanistan le donne si erano tolte il burqa e gli uomini
tagliati le barbe.

Falso,
completamente falso. Le donne non potranno togliersi il burqa per molto
tempo ancora. Perché è una tradizione culturale vecchia di secoli, voluta
dagli uomini, anche dai mujaheddin.

Addirittura comica
poi la storia delle barbe. In Afghanistan la barba è un importante
indicatore di chi si è: la barba indica l’età, il ceto sociale, la
ricchezza, la povertà, l’istruzione, a quale etnia si appartiene. È
evidente quindi che in questo caso, oltre a fare una violenza
all’informazione, si è fatta violenza alla cultura di un popolo.

Perché queste
grossolane bugie? Per far vedere allo spettatore occidentale la “bontà”
della “guerra giusta”? Allora io mi domando: se ci hanno mentito su questi
aspetti d’immagine cosa sarà allora delle questioni serie?».

Può esistere
un’informazione indipendente dal basso, come, ad esempio, fanno Indymedia
o le Voci dell’Italietta? (4)

«Tutto può essere
utile a creare menti indipendenti. Io però non sono dell’opinione che la
controinformazione di per sé sia sufficiente.

Anzi potrebbe
essere pericolosa quanto un’illusione. Perché se resta tale, essa si sarà
ritagliata soltanto uno spazio di autonomia: una specie di “riserva
indiana” assediata, nella quale si potrà dire tutto.

Tutti coloro che
hanno a cuore la democrazia, il pluralismo, che hanno capito cosa sta
accadendo devono affrontare il problema di un’organizzazione per il
controllo democratico. Sarà un percorso molto difficile ma indispensabile.
Come? Ci sono tanti modi diversi: moltiplicando i centri studi, facendo
controinformazione, manifestando il dissenso, mobilitando gli
intellettuali ed i giornalisti nauseati da questa informazione.

Dobbiamo investire
il sistema mediatico con una pressione costante, coinvolgendo le reti dei
consumatori o del consumo equo e solidale. In poche parole, organizzando
delle lobby di pressione, nelle quali convergano realtà diverse e dove
nessuno dia ordini, ma vi sia un solo fine chiaro per tutti».

Come sta reagendo il
mondo cattolico in questo momento?

«Il mondo cattolico
è attualmente una delle realtà più vive in Italia. Io lo incontro ovunque
durante i miei spostamenti per il paese. Sono cadute tutte le barriere
ideologiche, non esiste una situazione che escluda qualcuno. Credo che la
vitalità intellettuale del mondo cattolico sia una delle novità più
interessanti, e in una prospettiva di rinascita esso sia decisivo».

Il piccolo
consumatore occidentale cosa può fare in questo momento storico?

«Il cittadino
consumatore può incominciare a consumare in modo alternativo e critico.

Noi non abbiamo
avuto, in Italia, un’esperienza come quella degli Stati Uniti, nella quale
gruppi di pressione (che possono pure sembrare marginali) hanno creato
molti problemi alle imprese multinazionali che dettano legge nella nostra
vita quotidiana.

Gli americani hanno
dimostrato che soggetti apparentemente inattaccabili, se sottoposti a
controllo popolare, tramite il consumo critico, risultano molto più
vincolati verso le questioni democratiche ed ambientali.

Io non sono
assolutamente contro il capitalismo. Semplicemente sono per una civiltà:
la civiltà degli uomini. Può esistere una civiltà degli uomini con questo
capitalismo che vìola i diritti e che è all’origine della minaccia della
democrazia?

Perché non unirsi
alla sfida di un grande movimento come quello di Porto Alegre, un
movimento che accerchia il sistema in maniera imprevedibile e pacifica,
facendo prevalere un’altra scala di valori?

La parola d’ordine
di Porto Alegre quest’anno (5) era: “Un altro mondo è in costruzione” ed è
questo che dobbiamo fare».


Note:

la
necessità dell’intervento pubblico nell’economia per incentivare lo
sviluppo.

 


Su pressione degli
Stati Uniti


Mary Robinson
licenziata (senza giusta causa)

Un
riquadrino sul quotidiano «La Repubblica». I media europei hanno ignorato
quella che, a buon diritto, si può considerare una delle notizie più
inquietanti, a livello mondiale, di questo già inquietante 2002.

Mary
Robinson non ripresenterà la propria candidatura alla carica di
responsabile dell’«United Nations High Commissioner for Human Rights» (UNHCHR),
l’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani. Normale avvicendamento?
Stress? È bene ricordare chi sia Mary Robinson e soprattutto cosa abbia
fatto nella vita.


Irlandese, avvocato, ha coperto la carica di presidente della Repubblica
d’Irlanda dal 1990 al 1997, anno in cui è stata chiamata a presiedere
l’UNHCHR.

Dal
giorno della nomina Mary Robinson ha iniziato a battersi (con campagne di
pressione e denuncia) contro le gravi violazioni dei diritti umani in
moltissimi paesi del mondo. Ad esempio, in Sierra Leone e in Congo, dove i
signori della guerra erano colpevoli d’atrocità verso la popolazione
civile.

E poi
ancora le fortissime pressioni sul governo russo, accusato di portare
avanti, nel silenzio assoluto, una furiosa guerra etnica in Cecenia; i
richiami per il rispetto dei diritti umani in Cina; le denunce di violenze
e torture durante le elezioni presidenziali del 1999 in Messico; le
critiche al governo colombiano, colluso con le squadracce di paramilitari
che scorrazzano impunemente per il paese.

Luoghi
lontani, problemi lontani, dei quali in fretta si perdono le tracce nel
tourbillon di notizie da cui tutti i giorni lo spettatore occidentale
viene sommerso. Ma dichiarazioni di fuoco Mary Robinson non le ha usate
solo verso paesi sostanzialmente «innocui», ma anche nei confronti di «pesi
massimi», quali Stati Uniti ed Israele.


Dissenso e condanna verso gli Stati Uniti, che con le nuove leggi
antiterrorismo volute da Bush sarebbero autorizzati a prelevare
segretamente qualsiasi cittadino del mondo e, una volta portato in
territorio USA (inclusa una nave), a processarlo ed eventualmente
condannarlo a morte senza appello; e poi ancora uno scontro con il governo
statunitense, quando Mary Robinson ha richiesto la cessazione dei
bombardamenti sull’Afghanistan, causa di innumerevoli vittime fra i civili.

Da
ricordare, inoltre, i problemi sorti durante la Conferenza mondiale contro
il razzismo, svoltasi a Durban in Sud Africa nel settembre 2001 ed
organizzata dall’UNHCHR con la presenza di 160 paesi. Nelle bozze del
testo da usare come piattaforma programmatica Israele veniva definito,
senza giri di parole, come un paese «razzista colpevole di atti di
genocidio nei confronti del popolo palestinese».

Nel
medesimo documento si definiva la schiavitù come «crimine contro l’umanità»
e si chiedeva agli stati occidentali, in particolare ai membri del G7 «plasmati
da secoli di razzismo», di riconoscere le proprie colpe e di scusarsene.

La
sdegnata reazione da parte di Israele e Stati Uniti (ovvero il
boicottaggio dei lavori, definito deplorevole dallo stesso Kofy Annan,
segretario generale dell’Onu) ha portato all’annacquamento del documento
finale, con i paragrafi scomodi semplicemente cancellati.

«Sarò
la voce delle vittime», disse nel 1997 appena nominata responsabile
dell’UNHCHR. Ed ora Mary Robinson, voce dei senza voce, paga il conto.

«Non mi
aspetto di avere rapporti facili con i governi. Questo fa parte del mio
mestiere. Un ruolo difficile che richiede un approccio globale, perché
deve mantenere un equilibrio non solo tra le diverse regioni del mondo, ma
anche nei rapporti con i governi, con i quali bisogna lavorare senza però
aver paura di denunciare, quando necessario, le violazioni dei diritti
umani. È una delle sfide del mio mandato, ma ricompensa grandemente della
fatica», disse ai giornalisti che la intervistarono nel 1997 quando vinse
il premio «Europeo dell’Anno».

Oggi
gli Stati Uniti, facendo pressione direttamente sul segretario generale
Kofi Annan, hanno ottenuto la non-riconferma della Robinson, attraverso la
formula della «rinuncia volontaria» (!).

Una
sconfitta per tutti, non solo per la signora Mary Robinson.

Ma.Pa.

Sfogliando s’impara… da
«La rabbia e l’orgoglio»


«
Lo scontro
tra noi e loro
»

Dacché
i figli di Allah hanno semidistrutto New York, gli esperti dell’Islam non
fanno altro che cantarmi le lodi di Maometto… Ma in nome della logica:
se questo Corano è tanto giusto e fraterno e pacifico, come la mettiamo
con la storia dell’Occhio-per-Occhio-e-Dente-per Dente? Come la mettiamo
con la faccenda del chador anzi del burkah?… Come la mettiamo con la
poligamia e col principio che le donne debbano contare meno dei cammelli?…
Come la mettiamo con la storia delle adultere lapidate o decapitate?…

Io non
vado a rizzare tende a La Mecca. Non vado a cantare Pateostri e Ave
Marie dinanzi alla tomba di Maometto. Non vado a fare pipì sui marmi delle
loro moschee. Tanto meno a farci la cacca… E mentre l’immagine dei due
grattacieli distrutti [di New York] si mischia all’immagine dei due Buddha
ammazzati [in Afghanistan], ora vedo anche quella, non apocalittica ma per
me simbolica, della gran tenda con cui due estati fa i mussulmani [sic]
somali (paese in gran dimestichezza con Bin Laden, la Somalia, ricordi?)
sfregiarono e smerdarono e oltraggiarono per tre mesi e mezzo piazza del
Duomo a Firenze. La mia città…

Avrà
notato, signor cavaliere [Berlusconi], che io non Le rinfaccio la Sua
ricchezza… Io non Le rinfaccio neanche il particolare di possedere tre
canali televisivi… No, no: la colpa che Le rinfaccio è un’altra. Eccola.
Ho letto che sia pure in modo grezzo e inadeguato Lei mi ha, ahimé,
preceduto sulla difesa della cultura occidentale. Ma appena le cicale di
lusso Le sono saltate alla gola, razzista-razzista, ha fatto marcia
indietro. Ha parlato o lasciato parlare di «gaffe». Ha umilmente offerto
ai figli di Allah le Sue scuse. Ha inghiottito l’affronto del loro rifiuto.
Ha subìto senza fiatare le ipocrite rampogne dei Suoi colleghi europei
nonché la scapaccionata di Blair. Insomma s’è preso paura… Ammenoché,
signor cavaliere, Lei non si sia rimangiato la giusta difesa della nostra
cultura…

Oriana
Fallaci, «La rabbia e l’orgoglio», Rizzoli, Milano 2001, passim

Maurizio Pagliassotti




SOMALILAND/ viaggio in un paese pacificato, ma non riconosciuto

UN POSTO SUL MAPPAMONDO

È uno dei
paesi che Bush definisce «stati canaglia», perché sospettato di proteggere
terroristi. In realtà, la Somalia è un paese in completa anarchia, in
balia dei «signori della guerra». Dal 1992, la parte nord si è separata
costituendo uno stato autonomo di nome «Somaliland», che ha deposto le
armi, ma che il mondo non riconosce. Questi sono gli appunti di viaggio di
un regista televisivo torinese, che su Somalia e Somaliland ha girato un
documentario.

Sono in
compagnia dei tecnici Liborio L’abbate operatore e Antonio Venere fonico.
Ad accoglierci c’è Stefano Errico, cornoperante italiano in servizio
permanente effettivo. Quando si atterra su una striscia di asfalto
bollente in mezzo al deserto, carichi di bagagli, con la prospettiva di un
controllo doganale africano, sporchi, sudati e stanchi, ci si affida alla
«voce amica» come un neonato alla mamma.

Riesco a
guardarmi attorno, a rendermi conto che cavalletto, telecamera, cassa luci
e affini rispondono tutti all’appello. Davanti al Tupolev noto due
signori: bianchi, piuttosto in carne, biondi, con la pelle color aragosta,
pantaloni corti, ciabatte infradito e maglietta bianca sdrucita della
Dallo Airlines.

Stefano
incrocia il mio sguardo. «Chi sono?» chiedo. «I piloti» risponde. Poi
aggiunge: «Avete fatto bene a viaggiare di mattina. Il pomeriggio, in
genere, sono ubriachi». Ho voglia di andare a dormire.

Ci
troviamo in Somalia per girare un documentario sulla guerra in corso.
Raffaele Masto, giornalista di Radio Popolare, e Davide Demichelis,
regista freelance, sono già stati un paio di volte a Mogadiscio. A me
tocca raccogliere materiali di contorno, un compito certamente più
agevole: la guerra è lontana da Berbera.

Abbiamo
preso alloggio in questa città, nel compound di Coopi (**), l’Ong italiana
che ci aiuterà nella nostra impresa. Esausto sul letto, condizionatore a
manetta, sfoglio il mio passaporto. L’ultimo timbro è ancora fresco e
recita: «Republic of Somaliland Visa Entry».

E qui vale
la pena spendere qualche parola di spiegazione. La Somalia è un paese che
da alcuni anni vive in una condizione di anarchia totale. Senza governo e
senza pace. Il nord del paese, già colonia britannica, nel maggio 1992 ha
unilateralmente dichiarato la propria indipendenza. Ed è nato il
Somaliland. Con tanto di capitale (Hargheisa), un presidente (Egal), un
parlamento, un esercito, una motorizzazione civile, una bandiera (rossa,
bianca e nera), una moneta (lo scellino).

Insomma,
ci troviamo nell’isola che non c’è; in una nazione che l’Onu non riconosce
e che sull’atlante non esiste. Il Somaliland, però, a differenza del resto
del paese è pacificato. Qui la guerra è un ricordo.

Anche
questa «stranezza africana» è da documentare. Insieme ai cooperanti
costruiamo un piano di lavorazione. Rimarremo in Somaliland due settimane
e ci muoveremo  tra Berbera, Hargheisa e Boroma, la terza città del paese.
Sempre scortati da Coopi. Quanto basta per portare a casa materiale
sufficiente a completare il nostro documentario.

Tutti sono
disponibili. Avremmo così visitato i progetti di Coopi. Giriamo in lungo e
in largo per il Somaliland, raccogliendo materiale sulla guerra ormai
conclusa.

A Berbera
la guerra ha lasciato segni profondi, soprattutto sulle persone. Anche
perché Berbera è il porto più importante del Somaliland, uno dei più
trafficati del Golfo di Aden. E la rivolta contro Siad Barre, all’inizio
degli anni novanta, è cominciata proprio nell’ «isola che non c’è». Il
generale Hersi Morgan ha messo a ferro e fuoco le città principali del
nord, nel tentativo di reprimere la rivolta. Oggi Morgan è un potente
signore della guerra. Vive nel sud. Qui lo ricordano come «il macellaio di
Hargheisa».


CORANO…
TERAPIA

A Berbera
c’è un manicomio. In inglese suona meglio: Mental Hospital. Lo gestisce la
cooperazione italiana, in collaborazione con una piccola, ma
efficientissima Ong locale.

Ma il
Mental Hospital non è solo un manicomio. Rappresenta la parabola di un
paese, racconta la storia di una guerra che ha sconvolto gli equilibri,
anche mentali, di una nazione.

«La
guerra, in fondo, è una follia. E quando la guerra finisce, spesso, rimane
solo la follia», ci spiega uno dei responsabili dell’Ong. I manuali di
psichiatria li definiscono «traumi da guerra». È la paura che cresce ogni
giorno di più. Che prima ti fa nascondere, poi scappare, poi ti gela e ti
rende incapace di reagire. Ti annienta il cervello. Colpa dei kalasnikov,
dei caccia che sfrecciavano sulla testa, delle razzie dei vincitori di
giornata e delle vendette degli sconfitti del giorno prima.

Il Mental
Hospital non è né bello, né accogliente, né adatto ad assolvere il suo
compito. È un luogo fetido, chiuso al mondo. Eppure ai nostri occhi sembra
un posto umano. «Facciamo quello che possiamo – raccontano -; l’emergenza
non è finita. Le priorità del paese sono altre. Noi cerchiamo di garantire
un minimo di assistenza e di pulizia».

Gli
inglesi nel 1944 trasformarono questa, che già era una prigione, in un
campo di concentramento per i soldati italiani.

«Per gli
standard occidentali questo posto può solo essere definito
“inconcepibile”- ci dicono i cooperanti di Coopi -. Invece questo è un
esempio, unico in Africa, di ospedale psichiatrico che si è aperto alla
comunità estea. I problemi sono enormi, ma la gente di Berbera si è
fatta carico, per come può e sa, di questi pazienti. Per quanto possa
sembrare assurdo, questo è un ospedale moderno».

Mentre
Liborio riprende questo carcere trasformato in manicomio, dietro di noi il
medico procede con le visite. Una visita assolutamente fuori del comune,
in perfetta sintonia con il luogo.

Avete mai
assistito ad una seduta di «coranoterapia»? Servono un imam (nella parte
del medico), un megafono (nella parte della siringa), un corano (nella
parte del medicinale) e un paziente (nella parte di sé stesso). La terapia
è semplicissima: trattasi della lettura di versetti del corano, sparati a
tutto volume nelle orecchie del paziente.

«Allah ha
il potere di liberare la mente, di scacciare il “gin”, lo spirito maligno
che, a volte, si impossessa degli uomini», ci spiega il «medico».

Antonio è
il più perplesso della troupe. Tutti e tre rivolgiamo all’unisono la
stessa domanda ai cooperanti: «Funziona?». «Non sarà ortodosso, ma i
risultati sono apprezzabili», è la risposta. L’Africa è, letteralmente,
incredibile.


L’EREDITÀ
DELLE MINE

I dintorni
di Berbera sono cosparsi da vecchie caserme e strutture militari
distrutte. Immagini preziose per il nostro documentario. Un pomeriggio
raggiungiamo una zona collinare, piuttosto distante dalla città. La
temperatura, come sempre, è soffocante. Ad accompagnarci, questa volta,
c’è solo l’autista, che non è per nulla entusiasta della «gita fuori
porta».

Il
pomeriggio somalo (a nord, a sud, a Mogadiscio o a Berbera) è dedicato
alla masticazione del chat, erba dagli effetti dopanti se ingurgitata in
dosi massicce. Al nostro autista tocca masticare chat non all’ombra di un
alberello, ma sul sedile della jeep.

Più
sconsolato che seccato (gli leggi in fronte «Ma perché i bianchi non
imparano una volta per tutte a godersi la vita?»), ci porta davanti a un
gruppo di caserme distrutte.

Con
Liborio e Antonio ci inoltriamo tra camerate scoperchiate, autoblindo
carbonizzate, elmetti forati da proiettili, ecc. Lavoriamo un’oretta sotto
il sole bollente. Esausto, chiamo l’autista. Un cenno con la mano, poi un
urlo, poi un altro urlo. Infine un cenno di risposta: «Non posso venire».
«Perché?» chiedo con un tono un po’ deciso. «Perché siete su un campo
minato». Anche se lontano, credo abbia notato il nostro repentino pallore.

«Non vi
preoccupate, credo ci siano solo mine anticarro». Non vi preoccupate?
Bombe anticarro? E se avessero, per errore, seminato anche qualche bella
italica mina antiuomo? In punta di piedi, tipo gatto Silvestro mentre si
avvicina furtivo a Titti, torniamo sui nostri passi fino alla jeep.

Rivolgendo
poi un sentito pensiero di ringraziamento all’Altissimo, sentenziamo:
«Domani pomeriggio si esce solo dopo che l’autista avrà serenamente finito
di masticare il suo cespuglio di chat. Ne avrà ben diritto no?». E
soprattutto impariamo anche noi bianchi a goderci un po’ la vita! L’Africa
è terra di uomini saggi.


SENZA GUERRA
C’È UN FUTURO

Durante
gli spostamenti (da Berbera ad Hargheisa e da Berbera a Boroma)
incontriamo paesaggi dall’asprezza incantevole. Cammelli, rovi, sabbia,
roccia, facoceri, capre, arbusti rattrappiti dal vento e dalla siccità. Un
habitat da brivido, all’apparenza ostile. Fermiamo la macchina, piazziamo
il cavalletto e iniziamo a girare. Tutto sembra immobile. Poi, una volta
che l’occhio si abitua alla luce quasi bianca e ai riflessi del calore,
scopri che quel deserto ostile brulica di vita: capanne, pastori, piccoli
villaggi. Scesi dalla macchina ci sentiamo soli, ma non lo siamo. Però il
silenzio è assoluto. Interrotto solo dalle folate di vento caldo.

Ad
Hargheisa cerchiamo di intervistare il presidente Egal o, in sub- ordine,
qualche suo ministro.

Tutto
inutile. Dopo varie telefonate, lettere e messaggi, ci dirottano su un
sottosegretario ai progetti di sviluppo. 

È un
incontro cordiale, breve, tra un regista curioso e un funzionario di
governo orgoglioso del suo paese. Un ufficio piccolo e disadorno. Un
computer impolverato e spento. Una scrivania di fòrmica trovata in chissà
quale cantina. Tende gialle bisognose di una rinfrescata. Il solito caldo
insopportabile. Il funzionario, alto e magro, vestito in completo cachi.
Si tratta di un cinquantenne con un sorriso cordiale e sdentato.

Sembra
stupito del mio stupore. «Il Somaliland non esiste» è la mia obiezione.
«Io, invece, mi aspetto che i fratelli somali seguano il nostro esempio» è
la sua risposta. «Ma l’Onu non vi riconosce», incalzo. «Ma Coopi sì:
questo è ciò che conta». Come dargli torto?


Ricapitoliamo. La Somalia occupa buona parte del Coo d’Africa, una delle
«pentole a pressione» del pianeta. La Somalia non ha un governo
riconosciuto da tutte le fazioni in lotta dalla fine di Restore Hope. La
Somalia ha un seggio all’Onu. Il Somaliland ha dichiarato la propria
indipendenza. Lo ha fatto anche il Puntland. Lo faranno anche altri. C’è
da scommetterci.

Il
Somaliland, che non esiste «de jure», ha i suoi porti pieni di navi
container che arrivano dal Golfo, ma anche dall’Europa. Le Ong occidentali
riescono a promuovere progetti di cooperazione solo in questa fetta di
Somalia. Che, vale la pena di ricordarlo, è l’unica davvero pacificata.
Voci sempre più insistenti dicono che la British Airways, la compagnia di
bandiera inglese, presto inaugurerà un volo Londra-Hargheisa. A Mogadiscio
non volano nemmeno i colombi.


Annusando l’aria, i nostri commenti sono due: o siamo finiti in un covo di
pazzi, che prima o poi qualcuno da Mogadiscio spazzerà via, oppure qui
hanno scoperto la «via africana alla pacificazione». Certo è che il
Somaliland, giorno dopo giorno, ci appare da un lato più strano e
dall’altro più credibile.

A
Boroma, che rispetto a Berbera è a sud e beneficia di un clima
godibilissimo, incrociamo un ingegnere italiano, con un curriculum vitae
invidiabile. Ama il suo lavoro e l’Africa. Quindi ha deciso di fare per
qualche tempo il cornoperante.

«Sono
qui da qualche anno – dice -. Ogni giorno vedo aprire nuovi piccoli negozi
e ogni giorno aumentano i prodotti che in quei negozi vengono venduti. Ci
sono sempre più auto in circolazione. La gente si veste meglio, mangia
meglio. Sanno approfittare delle opportunità che arrivano dalla
cooperazione internazionale. E sai cosa significa tutto ciò?».

«No»,
rispondo. «Che il Somaliland è un paese che cresce rapidamente, che
migliora il livello di vita e di istruzione e che, un domani, se la
Somalia dovesse diventare una repubblica federale la classe dirigente
arriverà da qui, dal Somaliland».

In
effetti, mentre a Hargheisa i giovani studiano, a  Mogadiscio si arruolano
nelle milizie armate. E mentre gli ex miliziani del nord sono tornati a
lavorare la terra, quelli del sud non sanno nemmeno più come si tiene una
zappa.



TRA «CHAT» E «CLAN»

In
tutta questa storia, un piccolo capitolo a sé meritano il chat e il clan.

Il chat
è quell’erba tanto cara al nostro autista. È un prodotto eccitante di cui
gli uomini sono accaniti consumatori. Si consuma nell’arco di tutto il
pomeriggio, fino alla chiamata del muezzin, che arriva verso le cinque. Il
chat, se serve, fa passare la fame e fa combattere. Ti tiene sveglio e può
mandare l’adrenalina alle stelle. Il nostro autista, per fortuna, si
accontenta di sognare beatamente all’ombra di un albero.


Controllare il mercato del consumo del chat significa poter contare su una
quantità enorme di denaro. Denaro indispensabile, a sud, per mantenere le
milizie armate; a nord, più prosaicamente, per arricchirsi.

Il chat
arriva clandestinamente dal Kenya e dall’Etiopia. Dall’alba fino alle 11
tutti i mercati della Somalia vengono raggiunti dal chat.

Tutti
lo masticano, quasi tutti ne abusano. Costa caro: una mazzetta di erba
(per poco più di un giorno) vale alcuni dollari.

Il
bello è che il chat è formalmente illegale. Per riprendee la vendita al
mercato ci appelliamo ai buoni uffici di Coopi. Alla fine ce lo offrono
anche. Ovviamente il dovere dell’ospitalità ci impone di assaggiarlo. Non
è male…

Il clan
è la cellula su cui si fonda la società somala. Sia essa il Somaliland
indipendente o quel che resta della Somalia unita. Il clan è,
sostanzialmente, una grande famiglia allargata, ma che ha potere assoluto
nella zona in cui vive. Senza l’assenso del clan, nessuna decisione
governativa può sperare di essere attuata.

Il
parlamento del Somaliland, che in tutto conta meno di 2 milioni di
abitanti, è formato da 600 persone. Al di là del fatto che l’elezione dei
parlamentari avviene per cornoptazione da parte dei clan, ciò rende l’idea
di quanto sia diverso il concetto di «rappresentanza politica».

Gli
«elders», gli anziani, rappresentano all’interno del parlamento, l’intero
scacchiere dei clan presenti sul territorio. Poi nascono alleanze,
convergenze, programmi comuni, ma l’instabilità è sempre in agguato. A
tenere insieme il puzzle c’è Egal, il presidente, «il padre della patria»,
colui che ha dato fuoco alle polveri nella seconda metà degli anni
Ottanta, iniziando a incalzare Siad Barre fino a farlo cadere.



LABORATORIO

Il
Somaliland è uno spicchio di mondo sospeso tra realtà e finzione.
Sicuramente degno di essere «scoperto» dalle telecamere. Credo si possa
affermare che siamo in presenza di un «laboratorio», tanto più
significativo in quanto sorto in un contesto di caos politico-militare
assoluto.

La
scommessa in atto è di quelle da far tremare i polsi. Di fronte
all’anarchia, il Somaliland ha scelto di dotarsi di un governo, di
strutture e di darsi una prospettiva economica. A noi, visitatori
occasionali, questo coraggio è piaciuto. Il continente africano attraversa
una crisi che sembra senza fine. In quella fetta di Coo d’Africa si sono
cercate e, forse trovate, risposte a quella crisi.

 


(*) Sante Altizio, nato a Torino nel 1966, lavora come programmista e
regista presso la «Nova-T», società di produzioni televisive di Torino. È
specializzato in reportage su temi sociali, con particolare attenzione per
le realtà dei paesi del Terzo mondo.


Ha firmato lavori su Capo Verde, Etiopia, Guinea Bissau, Brasile,
Argentina, El Salvador, India, Russia.


Tra l’autunno 2000 e la fine del 2001 è stato insignito di vari
riconoscimenti: documentari da lui firmati sono stati premiati ad
«Anteprima Spazio» di Torino, al «Festival Internazionale del Cinema» di
Saleo, al «XXX Premio Guidarello» di Ravenna.

***

(**) Il
Coopi, «Cooperazione internazionale», è un’associazione italiana di
volontariato internazionale che opera dal 1965. Attualmente interviene in
36 paesi del Sud del mondo con 106 progetti. La sede centrale è a Milano.

 

 


Scheda
geo
politica

 SOMALIA,
SOMALILAND E PUNTLAND


 Situata nel Coo d’Africa, estremità orientale del continente nero, la
Somalia conta su una popolazione di circa 9 milioni di abitanti, di
religione islamica al 95%. Ex colonia italiana indipendente dal 1960. Un
colpo di stato, nel 1969, guidato dal generale Siad Barre, conduce il
paese in un vortice di guerre (contro l’Etiopia) e violenze (contro gli
oppositori) senza fine. Anche negli anni più bui del governo di Siad
Barre, l’appoggio politico, economico e militare italiano (in particolare
di Bettino Craxi) non viene mai meno.

Mentre
la popolazione soffre le conseguenze di siccità e carestia, nel 1991 Siad
Barre viene deposto. È l’anarchia che dilania il paese costringendo le
Nazioni Unite all’intervento (1992, operazione Restore Hope). L’emergenza
umanitaria viene superata, quella politica no. L’intervento Onu è un
fallimento militare, raccontato dal recente film di Ridley Scott «Black
Hawk Down».

Dal
1992 la Somalia è abbandonata a se stessa. Dilaniata dalla guerra civile,
lo stato non esiste più. La Somalia, di fatto, è una nazione fantasma,
dove il potere è in mano ai «signori della guerra», finanziati per lo più
da capitali arabi.

Negli
ultimi anni, nel nord del paese, due regioni (Somaliland e Puntland) hanno
dichiarato unilateralmente la propria indipendenza. Nel 2001 un consiglio
di anziani ha eletto, a Gibuti, un presidente della repubblica, Moahamed
Abdim Kassim. La sua autorità non è stata riconosciuta dai clan più
importanti. Mogadiscio, la capitale, è una città isolata dal resto del
mondo.

 

Una
serie di documentari della NOVA-T


Quelle guerre dimenticate


Democrazia in salsa somala


Produzione: NOVA-T Torino

Durata:
25 minuti

Regia
di Sante Altizio (con la collaborazione

di
Davide Demichelis e Raffaele Masto)

Prezzo:
12,90 Euro

 

Le
radici degli scontri si perdono negli anni Sessanta e si allungano fino
alla crisi di metà degli anni Novanta.

Le
testimonianze di Giancarlo Marocchino (forse l’italiano più famoso di
Mogadiscio) e di Hersi Morgan, il «macellaio», rendono bene l’idea di cosa
significhi vivere nella più completa anarchia. Il chat, il clan, gli
eserciti privati. E poi ancora Restore Hope, le organizzazioni umanitarie.

Abbiamo
provato a ricostruire il puzzle somalo. E di aiutare lo spettatore (grazie
anche alla presenza in video del prof. Angelo Del Boca) a cogliere
l’unicità di un paese che esiste solo sulla carta geografica.


«Democrazia in salsa somala» racconta anche il Somaliland, regione
settentrionale della Somalia. Nel 1993 ha dichiarato unilateralmente la
propria indipendenza. Hanno eletto un presidente, commerciano, battono
moneta. Non fanno più la guerra. Nel silenzio della comunità
internazionale, che riconosce la Somalia (che non c’è), ma non il
Somaliland (che c’è).

 È
questo l’ultimo episodio della serie intitolata «Guerre dimenticate»,
dedicata a conflitti di cui nessuno parla. Paesi in cui da anni si
combattono alcune tra le guerre più assurde del pianeta: lotte tra poveri
per il predominio di una striscia di arido deserto o per la supremazia di
una etnia sull’altra. 


Democrazia in salsa somala

Produzione:
NOVA-T Torino

Durata:
25 minuti


Regia di Sante Altizio (con la collaborazione di Davide Demichelis e
Raffaele Masto)


Prezzo: 12,90 Euro


 


Saharawi, un muro nel deserto
– Per oltre 20 anni, il Sahara
occidentale è stato testimone della guerra tra l’esercito del Marocco e il
Fronte Polisario, organizzazione armata del popolo saharawi. Un muro di
2.000 chilometri è stato costruito dal Marocco, quale argine agli attacchi
del nemico.

 


Etiopia & Eritrea: vite di frontiera
– Erano paesi fratelli,
accomunati da usi e costumi simili. La guerra scoppia, improvvisamente,
nel 1998. Decine di migliaia di morti, profughi, feriti. Due economie, già
gracilissime, in

ginocchio.
Le ostilità dilagano per una contesa di territori che ha radici nella
storia coloniale: per brulle pietraie e deserti infuocati, senza valore
economico, senza una linea certa di confine.

 


Hutu-Tutsi. La guerra infinita
– Il Ruanda è un paese consumato da
lotte tribali. Quasi 1 milione di morti lasciati sul campo da hutu e
tutsi, le due etnie più rilevanti del paese. E la riconciliazione, a
distanza di anni, resta un traguardo lontano.

 

I
Nuba del Sudan
– Nel cuore del Sudan, nella regione dei monti Nuba, si
vive ancora secondo usi e costumi dell’Africa Nera. Dal 1983 la chiusura è
totale, a causa della violenta guerra che spacca il paese e oppone i
ribelli dell’«Esercito di liberazione» (Spla) al regime islamico, per
affermare l’autonomia del sud e dei monti Nuba.

 


Angola. La guerra invisibile
– Il conflitto, che da oltre 25 anni
insanguina questo grande e travagliato paese, di solito non appare. È una
guerra senza testimoni, combattuta in un territorio vastissimo, in
villaggi dispersi e isolati nella grande foresta pluviale che copre gran
parte del territorio. A scontrarsi sono i soldati governativi e i
guerriglieri dell’Unita, formazione nata dalla lotta per l’indipendenza,
che non ha mai accettato di integrarsi nel governo. Il conflitto non si
vede, ma se ne vedono gli effetti: fame, distruzione, fuga.

  


Per
informazioni su tutti i documentari, contattare:  «Libreria Missioni
Consolata», corso Ferrucci 12 ter,


Torino
– Tel. 011.44.76.695 – E-mail: libmisco@tin.it

 



I 20 anni della Nova-T

Due
decenni di reportage dal pianeta, sui problemi della globalizzazione, i
drammi del Terzo mondo, i temi dello spirito.

 di
Luca Rolandi


 Torino. Chilometri di nastro magnetico attraversano le frontiere sociali,
etniche, religiose e culturali per raccontare il mondo arabo, l’America
Latina, l’Africa, attraverso le parole e le esperienze di chi, in questi
paesi, vive e opera. Oltre 5.000 ore di girato in più di 80 paesi del
mondo. È questa la prima eredità di un progetto nato, quasi per caso, nel
1982, dall’intuizione di un cappuccino, padre Ottavio Fasano. NOVA-T
(Nuove Terre) da quell’anno fatidico di strada ne ha fatta moltissima. Nei
primi anni di vita ha lavorato molto nel mondo delle missioni per
raccontare quella parte dell’umanità dimenticata e afflitta da carestie,
guerre, povertà. NOVA-T ha realizzato documentari «senza frontiere», atti
a testimoniare l’attività di promozione sociale e umana svolta da
Organizzazioni non governative e da istituti religiosi impegnati nella
missione ad gentes.

La
società dei frati cappuccini della provincia di Torino all’inizio ha
lavorato molto nel Terzo mondo, poi negli anni ha spostato il suo raggio
d’azione anche nel settore educativo, catechistico, di promozione della
fede alla luce delle storie di santità, note e meno note. Le telecamere
della NOVA-T hanno filmato le vie della fede, della cultura, della guerra
e della pace, documentato le bellezze e le miserie del mondo, con un
occhio sempre attento all’uomo (i suoi bisogni, le sue pene, le sue
speranze).

Un
percorso che racconta grandi figure religiose: da San Francesco a papa
Giovanni Paolo II, dai santi sociali torinesi ai missionari martiri nelle
terre di frontiera. Tante finestre aperte sul mondo e realizzate con i più
modei strumenti tecnologici, audiovisivi e multimediali.

In
vent’anni di lavoro, faticoso e senza onori, vissuto con passione dai suoi
dipendenti, collaboratori, registi, amici, missionari, molte sono state le
collaborazioni di prestigio, realizzate con istituzioni civili e religiose
e con grandi protagonisti del mondo del cinema e del teatro.

Negli
anni Novanta, con il trasferimento nella suggestiva sede di Via Ferdinando
Bocca, in un ex convento e chiesa parrocchiale, all’inizio della salita
che porta alla basilica di Superga, la ricerca di nuovi stimoli e la
volontà di crescere professionalmente hanno portato NOVA-T a partecipare
alle principali rassegne del settore e a creare sinergie con distributori
e produttori di profilo internazionale. Prende il via la stagione
d’importanti collaborazioni.

Con la
serie «Popoli e Luoghi dell’Africa», nel 1996 NOVA-T trova in Superquark
della RAI il primo importante cliente nazionale televisivo: è l’inizio di
un interesse verso la società torinese, che culminerà con la co-produzione
NOVA-T e RAIGIUBILEO di «Padre Pio. Uomo di Dio», video ufficiale per la
beatificazione del frate di Pietrelcina.

Nel
1998, l’ostensione della Sindone a Torino, offre l’occasione di
realizzare, con l’Euphon, «L’Uomo dei dolori. La Sindone di Torino», video
ufficiale dell’evento. Nel 2000 escono due importanti co-produzioni:
«Conoscere la Sindone» (NOVA-T, Arcidiocesi di Torino ed Euphon) e
«Giovanni Paolo II. Quasi un’autobiografia» (NOVA-T, Centro Televisivo
Vaticano, Euphon).

Nel
2001 è la volta de «Una giornata al Concilio», rilettura critica e
divulgativa dell’evento che ha cambiato la chiesa, il Vaticano II,
realizzato in collaborazione con il Centro televisivo Vaticano e
l’Istituto Luce di Roma, del documentario «I fioretti di San Francesco».
Ed infine gli episodi della serie per la Tv «Guerre dimenticate», dedicata
a sei conflitti africani semisconosciuti ma, comunque, terribili.

E la
sfida di NOVA-T prosegue con l’arrivo di molti lavori tra i quali spiccano
i documentari sul beato Ignazio da Santhià (il cappuccino piemontese che
Giovanni Paolo II canonizzerà domenica 19 maggio 2002) e il film sul beato
Giuseppe Allamano, dove si racconta l’affascinante storia del fondatore
dei missionari/e della Consolata. Un uomo che non si mosse mai da Torino,
eppure abbracciò il mondo.

Sante Altizio




KAZAN’ (RUSSIA): popoli diversi vivono in pace

CAMPANILI E MINARETI


 Sulle rive del Volga, a 700 km da Mosca, 

sorge
Kazan’, capitale di una delle repubbliche autonome della Federazione
Russa: il Tatarstan, cioè paese dei tatari (tartari). Il nome evoca
efferate crudeltà, ma quanto sono diversi  i tatari di oggi dai bellicosi
mongoli che, otto secoli fa, scorrazzavano nelle steppe russe, tagliando
teste e mettendo a ferro e fuoco le città! Il Tatarstan è un raro esempio
di convivenza


pacifica tra persone di etnia e fede diverse. 

 

Prima
di entrare in stazione, il treno proveniente da Mosca offre una bella
panoramica del cremlino di Kazan’. È il nucleo più antico della città, su
un’altura che sovrasta la confluenza dei fiumi Kazanka e Volga.

Si
tratta d’un cremlino sui generis: accanto alla caratteristica siluetta
della cattedrale, si scorge la mole di un grande edificio in costruzione,
irta d’impalcature e dall’aspetto di moschea. Un tempo, più o meno nello
stesso luogo, si trovava la leggendaria moschea Kul-Sherif, dagli otto
minareti, le cui forme fantasiose pare abbiano ispirato gli architetti che
costruirono la cattedrale di San Basilio a Mosca, a commemorazione della
presa di Kazan’ da parte dei russi nel 1552. Dopo tanti secoli, si è
deciso di riedificarla, anche se il progetto originario è andato perduto.

Dal 14°
piano dell’Hotel Tatarstan, si può ammirare la città in tutta la varietà
di strade e acque. Non passa inosservata l’insolita commistione di
campanili e minareti, sebbene chiese e moschee non si trovino le une
accanto alle altre, bensì in quartieri diversi.

Uno dei
monumenti più caratteristici del cremlino di Kazan’ è una torre a gradoni,
pendente quasi come quella di Pisa. Prende nome dalla principessa
Sjujumbekì (1516-1565), moglie dell’ultimo khan tataro di Kazan’. Quando
Ivan il Terribile conquistò la città, essa fu fatta prigioniera e portata
a Mosca insieme al figlio. Famosa per bellezza e intelligenza, era così
amata e ammirata dalla gente che intorno a lei sono nate numerose
leggende, ancora vive nella tradizione popolare.

Con la
conquista russa, i tatari sono stati spinti fuori dell’abitato, sulle
sponde del lago Kaban, ora parte integrante della città. Qui è sorto il
«sobborgo dei tatari». Solo a partire dal 1767, dopo la visita di Caterina
II a Kazan’, si consentì di costruire le moschee. Così l’imperatrice pose
fine alla più che bicentenaria discriminazione nei confronti dei tatari: i
russi li avevano fatti allontanare dalle rive dei fiumi, avevano tolto
loro le terre migliori; Caterina, invece, capiva l’importanza di quei
sudditi e il ruolo che avrebbero potuto svolgere nell’intrecciare
relazioni commerciali con l’Asia centrale musulmana, verso cui la Russia
aveva mire espansionistiche.

 

Con
l’arrivo dei bolscevichi le sorti delle due comunità religiose sono state
accomunate nella persecuzione: non ha risparmiato né cristiani né
musulmani, né russi né tatari. Nel 1943, durante la guerra, per dare nuova
linfa al patriottismo dei russi, Stalin restituì alla chiesa ortodossa un
ruolo ufficiale; anche l’islam ottenne un riconoscimento analogo.

Con la
fine del regime comunista, si è temuto che, sull’onda del processo di
disintegrazione della vecchia Urss, il Tatarstan potesse reclamare
l’indipendenza politica. Sebbene non siano mancati movimenti in questa
direzione, tale progetto è apparso irrealizzabile, non solo perché uno
stato all’interno di un altro stato costituirebbe un’improbabile anomalia
geopolitica, ma soprattutto perché, dopo secoli di vita in comune, tatari
e russi sono uniti da forti legami di sangue: moltissimi sono stati e sono
ancora i matrimoni misti.


Guardando i gruppi di giovani che passeggiano per le strade di Kazan’, si
fa fatica a capire dove siano i tatari e dove i russi. Si vedono anche
teste decisamente bionde o more; ma spesso rimane il dubbio. Anche le
caratteristiche architettoniche della città riflettono i tratti dei due
popoli. Molto più animata e solare rispetto ad altre città russe, Kazan’
non ha però l’esuberanza e colori del profondo oriente; sarà forse per le
acque, i boschi e il cielo nordico che la circondano.

Rimane
un’apprensione: con il rinascere dell’interesse per la religione i
rapporti tra le due comunità si potrebbero guastare, specie se la
religione venisse sfruttata a fini ideologici. Ma per il momento non si
nota nulla del genere. Tutti vivono in pace, grazie anche alla politica
attenta delle autorità, che mantengono al riguardo una posizione
rigorosamente imparziale.

Dove i
tatari sentono di doversi prendere una rivincita è nella questione del
proprio idioma: il turki. Esso si è sempre trovato in minoranza di fronte
al russo, lingua dei dominatori, privilegiato nella vita pubblica anche
dal comunismo; per cui i russi non hanno mai avuto la necessità di
imparare la lingua locale.

Ora i
tatari sono ansiosi di riaffermare la dignità del turki e vorrebbero che,
finalmente, fosse imparato da tutti. Nel 1997 il Congresso delle comunità
tatare ha approvato perfino il ritorno all’alfabeto latino che, dopo avere
sostituito quello arabo nel 1929, era stato a sua volta rimpiazzato dal
cirillico nel 1939.

Non ci
sarebbe da stupirsi se i tatari volessero rifare il percorso inverso fino
in fondo. Qualcuno lo auspica. Per ora, tuttavia, sembrano accontentarsi
del primo passo, pur suscitando parecchie perplessità tra la gente, ormai
abituata a scrivere e leggere i caratteri russi.

 

Gli
amici di Mosca mi hanno dato il numero di telefono della direttrice d’una
rivista femminile locale. «Dovessi aver bisogno; non si sa mai. Poi è
sempre interessante parlare con gente del posto. Si vengono a sapere tante
cose».

Mi
metto in contatto con la redazione del Sjujumbekì, rivista in lingua turki
rivolta a un pubblico tataro. L’intenzione è quella di scambiare quattro
chiacchiere e sentire notizie di prima mano sulla città. Entrata
nell’ufficio della direttrice, capisco che si sta preparando qualcosa: il
grande tavolo al centro della stanza ha un’aria di festa; vi troneggiano
vassoi carichi di dolci. Subito dietro a me entrano le collaboratrici che,
nel giro di cinque minuti, sono tutte sedute intorno al tavolo. Da ultimo
entra il fotografo e l’incontro comincia.

Credevo
di portare a casa informazioni su usi e costumi locali, invece sono
subissata da una valanga di domande sulle questioni capitali del nostro
tempo: educazione dei giovani, droga, famiglia, immigrazione, rapporto
chiesa-società. Evidentemente sono tutte questioni che stanno molto a
cuore alle mie interlocutrici, perché sono problemi che la gente si trova
ad affrontare negli ultimi tempi.

L’epoca
post-sovietica ha reso palesi vecchi mali, prima taciuti nelle statistiche
ufficiali, e aperto nuove ferite. La nuova «società aperta» si è trovata
impreparata a far fronte, di punto in bianco, a situazioni che hanno
assunto dimensioni catastrofiche, a causa del disorientamento generale del
periodo di transizione: il sempre più massiccio uso di droghe tra i
giovani ne è un esempio. Negli ultimi cinque anni il numero dei
tossicodipendenti registrati nella struttura pubblica è cresciuto di 12
volte; tra gli adolescenti addirittura di 30 volte; dal 1996 i malati di
Aids sono aumentati di 300 volte: il 70% di essi sono tossicodipendenti.

Le
giornaliste della rivista sono venute all’incontro con il desiderio di
imparare dall’esperienza di un altro paese e fae tesoro. Mi ascoltano
con avidità, riconoscenti per quel poco che posso raccontare. Si
stupiscono di quanto comuni siano i problemi e simili le situazioni nei
nostri due paesi. Anch’io mi meraviglio per la sintonia di giudizio delle
ospiti tatare nel valutare i fenomeni della modeità.

Siamo
intorno al tavolo da due ore; la giornata lavorativa è finita; ma nessuno
accenna ad andarsene, tanto è il piacere di un incontro che rivela
impreviste affinità. Non capita spesso di sperimentare come tra due mondi,
creduti lontani mille miglia, si trovino vicini nella comune
preoccupazione per un futuro incerto e nella professione di identici
valori.

 

A una
trentina di chilometri da Kazan’ si trova il monastero maschile di Raifa,
dal nome dei santi eremiti del Sinai e Raithu (in russo Raifa), massacrati
nel vi secolo da bande di razziatori. I monaci vi ospitano ed educano un
gruppo di ragazzi di strada.

La
bellezza del luogo mi rapisce, non appena scendo alla fermata dell’autobus
e imbocco la stradina che dalla provinciale conduce all’ingresso del
convento: tutt’intorno boschi centenari, poco lontano un tranquillo
specchio d’acqua. Sono investita da un senso di pace che, varcata la porta
del convento, si arricchisce di un sentimento di stupore e riconoscenza
per chi ha saputo rendere quel luogo così accogliente.

Il
monastero è lindo, ridente, pieno di visitatori. È un giorno feriale;
eppure si respira un’aria di festa. Sarà forse per il sole e l’aria tersa
che fanno risaltare i colori: il bianco degli edifici, l’oro delle cupole,
le sgargianti tinte dei fiori, il nero delle vesti dei monaci. È mai
possibile che fino a circa 10 anni fa il convento fosse in rovina e le sue
chiese abbiano ospitato un carcere minorile? Percorrendo i lustri viottoli
tra un edificio e l’altro, ci si ricorda a fatica degli anni bui del
periodo sovietico; sembra che questi monaci sorridenti abbiano da sempre
abitato questo luogo di serenità.


Desiderando scambiare due parole, mi avvicino timida a un monaco dalla
faccia bonaria, con la speranza che non trovi importuna la mia curiosità.
Il monaco altri non è che il priore, padre Vsevolod e non si dimostra
affatto sorpreso che voglia fargli delle domande. Non sono la prima
straniera a interessarsi del monastero.

Gli
chiedo subito dei ragazzi da loro adottati. «Il primo è arrivato chissà
come nel 1994. Ha trovato la strada da solo. Dietro di lui sono arrivati
gli altri. Quasi tutti con alle spalle storie pesanti di maltrattamenti,
abusi e violenze. Ora nel monastero abitano 20 ragazzi, dagli 8 ai 18
anni.

Da
quando sono qui, la loro vita è cambiata completamente e, soprattutto, è
mutato il loro atteggiamento nei confronti del mondo degli adulti, prima
guardato con paura e sospetto. Frequentano insieme la scuola, a qualche
chilometro di distanza; sono circondati dalle cure dei monaci, che ne
completano l’educazione, non solo insegnando il catechismo, ma anche con
lezioni di arte, musica e canto. D’estate, poi, il convento organizza loro
vere e proprie vacanze. Quest’anno, per esempio, sono andati tutti sul Mar
Nero.

Venti
giovani, in confronto alle migliaia di ragazzi abbandonati, maltrattati,
fuggitivi che percorrono le strade della Russia, sono una goccia
nell’oceano; ma è pur sempre un segno di speranza».

Padre
Vsevolod è raggiunto da alcune persone che vorrebbero parlargli. Ho
un’altra cosa da domandargli, prima di lasciarlo andare. Avendo visto nel
vicino villaggio una moschea, la domanda è d’obbligo: «Quali sono i loro
rapporti con i figli dell’islam?».

«Basti
dire – risponde padre Vsevolod con aria soiona – che nel territorio di
una cornoperativa agricola, non lontano da qua, si sta costruendo una
moschea. Sapete chi ne ha pagato il progetto? Noi. D’altra parte, quando
abbiamo cominciato a ricostruire il monastero, sono stati i musulmani
locali i primi ad aiutarci».

Biancamaria Balestra