Argentina. ll mercato dove il denaro non conta

Non c’è lavoro, non ci sono soldi: che fare per vivere? Si torna ad un’economia di baratto dove le persone si scambiano beni e servizi senza utilizzare denaro. Il primo «club del trueque» dell’Argentina cominciò a funzionare nel maggio del 1995. Oggi ce ne sono migliaia, diffusi in tutto il paese. Per capire come questo sistema funziona, abbiamo visitato il club che si trova a «La Boca», noto quartiere di Buenos Aires. Tra un banchetto di vestiti e uno di torte, ecco ciò che la gente ci ha raccontato.

Buenos Aires. La tipica forma della «bombonera», lo stadio del Boca Juniors (la squadra che lanciò Maradona), si nota anche a distanza. «Attenti a dove andate – ci mette in guardia il taxista -. Oggi c’è la partita tra il Boca e il San Lorenzo!». Le tifoserie delle due squadre non si amano e per questo spesso avvengono incidenti. Ci troviamo a «La Boca», un quartiere popolare (e turistico) cresciuto dove il Riachuelo confluisce nel Rio de la Plata. Siamo qui non per andare allo stadio o al porto, ma ad un «club del trueque» (nodo), vale a dire un mercato con una caratteristica molto particolare: non prevede l’utilizzo del denaro.

Tutti in fila

In via Olavarria la fila arriva fino all’angolo. La gente attende con pazienza di entrare al numero 486, la scuola salesiana che ogni domenica ospita il trueque.

In attesa ci sono soprattutto donne, quasi tutte cariche di borse e pacchetti. Come Ilda, che viene dal vicino quartiere di Barracas ed è accompagnata da uno dei 4 figli e dal marito: «Oggi porto vestiti, ma in altre occasioni cibo. In questo momento di crisi ognuno si arrangia come può per sopravvivere». Ilda, lei parla di sopravvivenza… «Certo. Se una persona è occupata, il trueque è un aiuto importante, ma per chi non ha lavoro (e sono sempre di più) è una vera ancora di salvezza. Qui è possibile procurarsi da mangiare e molte delle cose di cui una famiglia ha bisogno». In realtà, in America Latina il trueque è sempre esistito tra i contadini e le comunità aborigene. Però, a partire dagli anni Novanta, arrivò anche nelle città, afflitte da disoccupazione e mancanza di denaro. La gente, accomunata dalle difficoltà, iniziò ad incontrarsi per scambiarsi prodotti e servizi. In Argentina, il primo club nacque a Beal, nella provincia di Buenos Aires, il 1° maggio 1995 per iniziativa di un gruppo ecologista.

«Tutti i giorni c’è una coda così?» domandiamo ad una signora che ci precede nella fila.

– Sì, la domenica è sempre così. Questo è uno dei nodi principali.

– E quanti nodi ci sono in città?

– Moltissimi, ma non saprei dire quanti esattamente. Ormai sono diffusi in tutto il paese.

– Lei che cosa fa?

– Anch’io porto vestiti. Si porta ciò di cui una persona dispone in quel momento.

– Vuole prendere qualcosa oggi?

– Vorrei portare a casa qualcosa da mangiare: pane, verdura, quello che c’è.

Le persone in fila maneggiano strani assegni, sul tipo di quelli che si usano nel gioco del monopoli. Si chiamano «ticket trueque» e la loro unità di misura sono i «crediti». Viviana ci spiega: «Ho cominciato a vendere perché non avevo un credito. Adesso posso anche comperare. Ma non le cose care!».

«Questo posto ha un responsabile?» chiediamo. «Sì, sì. È quello lì all’entrata».

Le torte dei disoccupati

Quando finalmente raggiungiamo l’entrata, siamo accolti da un signore con capelli nerissimi e baffi. «Horacio Cavalieri, coordinador» si legge sul cartellino appiccicato alla maglia. «Stiamo diventando famosi – ci dice aprendosi in un ampio sorriso -. Oggi c’è anche una troupe televisiva francese a fare delle riprese nel nostro mercato». «Il trueque è una risposta concreta alle esigenze della gente. Siamo il contrario del governo, che non dà risposte al bisogno di lavorare. Noi, invece, siamo generatori di lavoro. Il principio di base è l’aiuto reciproco. Migliaia di argentini oggi stanno vivendo soltanto grazie alla rete dei club di trueque». La signora Maria Cristina Marabelli è un’altra coordinatrice del nodo de La Boca.

«Come funziona un mercato senza denaro? Significa che ognuno si arrangia con quello che sa fare. Tutti noi abbiamo qualcosa di speciale. Tutti noi, in un periodo di crisi, abbiamo interesse ad aiutarci reciprocamente per creare un sistema autosufficiente. C’è chi viene al trueque per offrire i propri prodotti agricoli, chi il cibo cucinato a casa, chi le proprie prestazioni di estetista o parrucchiera, chi le proprie abilità di sarta. Ma non mancano neppure i professionisti più accreditati: medici, dentisti, psicologi». Lasciamo i coordinatori per aggirarci un po’ tra le decine di banchetti, raggruppati all’interno di un grande capannone e nei cortili esterni della scuola salesiana. C’è tantissima gente, che vende di tutto: dai vestiti ai giocattoli, dalle torte alle empanadas.

La nostra curiosità non passa inosservata. Siamo avvicinati da una signora di bassa statura e corporatura piuttosto robusta, che ha voglia di parlare.

– Da dove viene, signora?

– Dalla Sicilia. Mi chiamo Giuseppina Coppola. Arrivai a Buenos Aires nel 1951.

– Allora, signora Giuseppina, provi a spiegarci questo strano mercato…

– Potrà apparire strano, ma è necessario. Questa crisi dell’Argentina ci ha riportato indietro nel tempo: a scambiare le cose. Avete già visto che qui dentro si può trovare di tutto.

– Come si regola nelle compravendite?

– Ogni biglietto vale 0,50 di peso. Uno calcola più o meno quanto può ottenere dando una cosa e poi torna a casa con dei crediti che utilizzerà per avere altre cose. Oggi sono qui per comprare, ma di solito vendo. Vendo un po’ di tutto, ma soprattutto vestiti, perché mia figlia aveva una boutique. Ha dovuto chiudere perché non bastavano i soldi per la luce, l’affitto e tutte le spese. È rimasta molta merce che cerco di vendere, anche se in questo nodo va di più il mangiare. Per questo a volte faccio delle pizze.

– Il coordinatore ha detto che ci sono anche professionisti qui.

– Sì, ce ne sono, ma qui non molti, a parte estetiste e parrucchiere. Io vado in club dove ci sono anche cardiologi, dentisti, oculisti. Ogni giorno della settimana c’è un posto dove si può andare.

– Questo è un sistema per cercare di vivere normalmente?

– È un sistema per sopravvivere alla crisi. Una persona disoccupata non è obbligata a spendere soldi. Si arrangia in questo modo vendendo qualcosa che ha in casa. Prende i crediti e usa quelli per comprare, soprattutto cibo. Quello che compra la gente è soprattutto mangiare.

– Che gente frequenta il trueque?

– C’è gente della classe bassa, ma anche di quella media. Ci sono sempre più persone che non hanno nulla da fare e nulla da mangiare.

– Lei ha famiglia, signora?

– Sì, ho un marito e tre figli.

– Loro cosa dicono?

– Di non fare fatica. Ma a volte non riescono a capire che anch’io ho delle esigenze. Ho un figlio in Canada e qui una ragazza e un ragazzo che sono sposati e lavorano. Ma non mi aiutano perché non possono. La situazione è pessima per tutti. Non per poche famiglie dei ceti bassi. Oggi è così per tutti gli argentini.

NUMERI IMPRESSIONANTI

Il trueque non significa soltanto vestiti, cibo, servizi alla persona. Oggi il fenomeno ha assunto dimensioni tali (4.500 club di trueque, 2,5 milioni di partecipanti, 50 milioni di ticket trueque in circolazione) che con i crediti attribuiti dai ticket si possono comprare terreni, costruire case, affittare appartamenti, andare in vacanza e persino pagare le imposte municipali.

Horacio Cavalieri gonfia il petto per l’orgoglio quando spiega: «Siamo ormai la terza moneta del paese e i crediti vengono accettati anche in altri paesi latinoamericani (ad esempio, in Brasile, Cile, Paraguay) dove funzionano club a noi associati». Ci rivolgiamo al giovane che ci sta accanto e che ascoltava con attenzione la nostra conversazione.

«Crediamo profondamente in un’idea di progresso come conseguenza del benessere sostenibile del maggior numero di persone» (princìpi del trueque).

«A me piace molto – ci spiega – la gente che c’è al trueque, perché si dà da fare e non si chiude in casa ad aspettare che le cose cadano dall’alto. Però sono molto preoccupato per la situazione del paese, perché è ovvio che non si può andare avanti in queste condizioni per tanto tempo». «L’Argentina – continua il giovane – è un paese ricco in tutto. Molto più ricco dell’Italia per esempio. Abbiamo grano e petrolio. Sulla nostra terra basta buttare sementi e le piante crescono rigogliose È un delitto trovarci nella situazione in cui siamo ora». Grazie ai politici?, chiediamo. «Sì, grazie ai politici, ma questo ci ha fatto prendere coscienza di quello che dobbiamo fare. Ora sappiamo chi votare e chi no, guardando non alla bella faccia, ma ai progetti che queste persone hanno in testa». Un tifoso del Boca sta offrendo le maglie della sua squadra. Tutte le domeniche siete qui?, chiediamo. «Sì, noi siamo qui tutte le domeniche, mentre durante la settimana andiamo in altri trueque di Buenos Aires e provincia».

«Assaggi questa empanada…»

Ci avviciniamo a un banco di cibarie, molto attraenti…

– Cosa vende, signora?

– Torte, empanadas e tutti i cibi che la gente mi commissiona.

– Mi stava spiegando che la situazione economica è pessima?

– Diciamo che, dal punto di vista economico, siamo schiacciati. Non c’è lavoro e la mancanza di lavoro permette che accadano certe cose, no? Se una persona ha famiglia, in qualche modo deve sopravvivere. E una forma di sopravvivenza è quella del trueque: fare alcune cose che si sanno fare e scambiarle con altre di cui si ha bisogno. È anche un modo per tenersi occupati, per non chiudersi in casa a dormire.

– Lei lavora qui alla domenica. Negli altri giorni cosa fa?

– Siccome non c’è denaro, devo fare altre attività. Vado in altri club a fare quello che faccio qui.

– Lei crede in questo sistema?

«Crediamo che le nostre azioni, prodotti e servizi possano rispondere a norme etiche ed ecologiche, prima che ai dettati del mercato, del consumismo e del profitto immediato» (princìpi del trueque).

– Sì, ovviamente. Questa è una buona soluzione, ma non può essere definitiva. Speriamo soprattutto che ci sia una ripresa del mercato del lavoro, perché ognuno possa guadagnarsi il pane con il sudore della propria fronte.

«Ho paura, perché se continuiamo su questa strada non c’è futuro. Cosa diranno gli argentini ai loro bambini? Io ho tre figli e tre nipoti. Ho sempre lavorato, anche quando studiavo giornalismo. Ora mi trovo qui a un banchetto a vendere torte. Ma non mi arrendo e non mi vergogno, nonostante i miei studi. Devo fare questo per sopravvivere. Però ora basta parlare dei nostri disastri. Noi argentini siamo già abbastanza depressi. Assaggi questa empanada piuttosto…».

(Fine 4.a puntata – le precedenti sono state pubblicate in maggio, giugno e luglio)

  • Trueque: oggi possiamo considerarlo come una forma evoluta di baratto, ma la sua origine è antica; il termine «trueque» deriva dal verbo «trocar» che significa «scambiare, permutare, barattare»
  • Prosumidores: sono le persone che scambiano beni e servizi all’interno del sistema del trueque
  • Créditos: rappresentano l’unità di misura dei «ticket trueque», cioè dei buoni simil-monetari emessi dal trueque; i ticket funzionano come strumento compensatore e sono anche chiamati «moneta sociale»
  • Coordinador: è un membro del club che apre la sede e ne facilita il funzionamento
  • Clubes de trueque: sono i luoghi fisici (detti «nodi») della rete del trueque, dove le persone («prosumidores ») si scambiano beni e servizi
  • principios del club de trueque: sono i fondamenti etici su cui deve basarsi ogni club

www.revistargt.org: è il sito ufficiale della rete globale del trueque

IN ATTESA DI MARZO 2003 (e di Carlos Menem?)

12-21 GIUGNO: L’FMI SI DICE DELUSO Una delegazione del «Fondo monetario internazionale » (Fmi) fa visita al governo argentino, per cercare un accordo sugli aiuti finanziari, congelati dal dicembre 2001. La discussione non approda a risultati positivi. Il direttore generale dell’Fmi, Horst Köhler, si dichiara deluso dall’Argentina.

26 GIUGNO: SCONTRI E MORTI Una protesta dei piqueteros si trasforma in tragedia. La polizia attacca i dimostranti sul ponte di Pueyrredón, nei pressi del quartiere di Avellaneda, nella periferia sud di Buenos Aires. Due piqueteros (Dario Santillán e Maximiliano Costeki) rimangono uccisi, altri 90 feriti, 173 vengono arrestati.

2 LUGLIO: INDETTE ELEZIONI ANTICIPATE Con un breve discorso pronunciato alla radio e in televisione il presidente Eduardo Duhalde annuncia le elezioni generali per il marzo 2003, sei mesi prima della naturale scadenza della legislatura.

3 LUGLIO: DI NUOVO MENEM?  In un’intervista al Clarin, l’ex presidente Carlos Menem confessa l’intenzione di presentarsi come candidato alle prossime elezioni presidenziali. A dicembre, nelle primarie intee del partito giustizialista (i peronisti), dovrebbe battersi con l’attuale presidente Eduardo Duhalde.

4-5 LUGLIO: TRA MERCOSUR ED ALCA A Buenos Aires si incontrano i paesi appartenenti al Mercosur («Mercato comune del sud»): Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, con la presenza anche di Bolivia, Cile e Messico. Si cerca (inutilmente) una strategia comune per affrontare la crisi economica e finanziaria. L’influenza del Mercosur, già debole, è destinata ad annullarsi, qualora dovesse andare in porto la nascita dell’Alca («Area di libero scambio delle Americhe»), fortemente voluta dagli Stati Uniti.

9 LUGLIO: «L’ARGENTINA AL LIMITE DEL TRACOLLO» In occasione dell’anniversario dell’indipendenza, il presidente Duhalde tiene a Tucumán un discorso incentrato sull’orgoglio nazionale: «L’Argentina è in pericolo e al limite di un tracollo epico, mai conosciuto prima. Gli argentini sono passati dal sogno all’incubo: il Primo mondo, al quale erano sicuri di appartenere, li sta espellendo. Soltanto uniti possiamo tornare ad essere una nazione libera e sovrana. Soltanto uniti possiamo affrontare la favolosa epopea della ricostruzione della patria». 11 LUGLIO: SEMPRE MENO LAVORO I dati di Indec (riferiti a maggio 2002) parlano di un ulteriore peggioramento della situazione economica: 3,2 milioni di argentini sono disoccupati, 3,05 milioni sottoccupati, cioè il 45% della popolazione attiva del paese ha problemi di lavoro.

11 LUGLIO: LE «BASI PER LA RIFORMA» La «tavola del dialogo» (organo consultivo tra chiesa cattolica e governo) presenta il documento «Basi per la riforma». Con esso si chiedono soluzioni profonde e a lungo termine per costruire una società più equa, che risolva l’emergenza sociale. Per arrivare a questo è necessario realizzare, in contemporanea con le presidenziali del marzo 2003, anche un rinnovamento di tutti gli incarichi elettivi, nazionali, provinciali e municipali (*).

(*) La cronologia storica dell’Argentina è stata pubblicata su MC nella puntata di maggio 2002.

 

CONTAGIO SÌ, CONTAGIO NO, CONTAGIO FORSE

Il timore c’è tutto. Brasile, Uruguay, Cile guardano con crescente preoccupazione alla crisi argentina, mentre altri paesi latinoamericani (Paraguay, Bolivia, Ecuador, Perù, Venezuela) sono già al collasso per proprio conto.

In Brasile, il paese economicamente più importante, la situazione è grave, ma drogata dalle imminenti elezioni presidenziali. Le agenzie di rating internazionale (quelle che valutano quanto sia conveniente investire) hanno alzato il «rischio paese», anche in considerazione di un’eventuale vittoria di Lula, leader del «Partito dei lavoratori» (Pt), che a loro dire non darebbe garanzie sul debito estero. Ancora più esplicito è stato il megaspeculatore statunitense George Soros, secondo il quale, se il Brasile vuole evitare il caos, sarà obbligato ad eleggere José Serra, il candidato scelto dagli Stati Uniti e dal mercato finanziario (1).

Detto per inciso, varrebbe la pena di chiedersi: perché le agenzie di rating si esprimono con grande rapidità e severità quando si tratta di giudicare persone o istituzioni a loro non graditi, ma tacciono quando si tratta di valutare il comportamento di grandi gruppi multinazionali? (2)  In questa ennesima crisi del sistema neoliberista ancora una volta risulta fondamentale il doppio ruolo ricoperto dal Fondo monetario internazionale (Fmi): da un lato primo artefice del collasso, dall’altro potenziale (e presunto) salvatore.

L’esempio argentino è molto istruttivo al riguardo. Durante il decennio di Carlos Menem (che, tra l’altro, pare voglia ripresentare la propria candidatura), l’Fmi considerava l’Argentina uno degli allievi più bravi, soprattutto perché obbediva in pieno alle proprie direttive (le privatizzazioni in primis) (3). Poi quello studente tanto elogiato è entrato in coma e al suo capezzale si è presentato, come niente fosse, lo stesso carnefice…

(1) Sulle gravi irregolarità della campagna elettorale brasiliana si veda il quindicinale «Adista» dell’8 luglio 2002.

(2) Si pensi ai recenti scandali planetari che hanno avuto come protagoniste due (ma molte altre sono sospette) grandi multinazionali statunitensi, la Enron (energia) e la WordlCom (telefonia). I più penalizzati dagli imbrogli contabili sono stati i dipendenti delle compagnie e i piccoli investitori di borsa.

(3) Le privatizzazioni volute dall’Fmi hanno creato molti problemi anche in Perù, dove il presidente Toledo, lo scorso giugno, ha dovuto sospendere la vendita di due imprese elettriche pubbliche in seguito alla violenta opposizione della popolazione.

 

CHE NON PREVALGA LA «VIVEZA CRIOLLA» (ovvero barattare sì, barare no!)

La parrocchia «Nuestra Señora de Pompeya» (Merlo) è una delle prime fondate e rette dai missionari della Consolata nel Gran Buenos Aires. Conta circa 60 mila abitanti. Riassume tutta la realtà di disoccupazione, impoverimento, violenza e… ricerca di modi per far fronte alla situazione disastrosa abbattutasi recentemente sull’Argentina. Per quanto riguarda il «trueque», in due dei quattro centri pastorali la parrocchia ha dato spazio a questo strumento di sopravvivenza nell’emergenza. Peraltro, nell’accettare la richiesta da parte dei coordinatori di poter funzionare all’interno delle nostre strutture, abbiamo sentito il bisogno di chiarire con loro, sin dall’inizio, l’impegno all’onestà, affinché il trueque, basato fondamentalmente sulla solidarietà, non fosse svilito dalla tentazione di approfittarsene, considerando soprattutto il contesto di povertà generalizzata. Purtroppo la stessa situazione di povertà e miseria crescenti, a volte, inducono al «si salvi chi può e in qualsiasi modo», magari anche imbrogliandosi fra poveri. E poi c’è anche l’altro comportamento nazionale, denominato «viveza criolla», cioè la furbizia malintenzionata che, in relazione all’attuale grave crisi nazionale, ne è una delle con-cause. Questo pericolo può diventare molto concreto nel momento in cui i politici (come, ad esempio, stanno già facendo alcuni sindaci) si impossessano dell’idea e finiscono per svuotarla del contenuto e creare «trueques truchos» (truccati, falsati).

Abbiamo tradotto «trueque» con baratto, barattare: viene allora spontaneo ricordare: «Attenti a non barare». Inoltre, giocando con le parole, se al termine italiano baratto togliamo una «t», abbiamo «barato», che in castigliano vuol dire economico, cioè non caro. Ecco, è importante che nel baratto tutto sia «más barato», più a buon mercato, perché sia veramente conveniente. Dato che riceviamo lamentele dei partecipanti al trueque circa i prezzi di alcuni articoli quasi più cari di quelli che si trovano nei negozi di quartiere, sentiamo il dovere di farlo presente ai coordinatori. Nell’articolo principale si accenna al baratto come forma abituale di sussistenza delle comunità indigene. Gli indios tobas della Colonia Aborigen (con cui ho lavorato per anni) sono soliti portare in paese, a Machagai, nostra ex parrocchia, i loro prodotti, ma lo scambio non si svolge quasi mai in parità di condizioni: consegnando un bel carico di zucche, pompelmi, manioca o altri prodotti, gli indigeni si ritrovano poi con un pezzetto di carne o un po’ di zucchero o yerba mate. I forti e i furbi l’hanno sempre vinta.

padre Giuseppe Auletta, da Merlo (Buenos Aires)

 

Paolo Moiola

 

 




EDUCAZIONE È…

Fin dall’indipendenza
il Tanzania ha scommesso
sulla scuola, per vincere
il principale nemico
del paese: l’ignoranza.
Tale impegno continua
ed è scritto anche su cippi
e tabelloni
delle singole scuole.

Per le strade del Tanzania s’incontrano
innumerevoli cippi,
che annunciano la presenza di
scuole elementari: foiscono indirizzo
e distanza. In quasi tutti si possono
leggere anche interessanti motti
distintivi, che esprimono una filosofia
dell’educazione e orientamento
della vita. Ne ho raccolti una piccola
antologia. Eccone alcuni.

ELIMU NI UKOMBOZI
Educazione è liberazione
Il mwalimu Nyerere asseriva che
sono tre i nemici da debellare in Tanzania:
ignoranza, malattie, povertà.
La prima è l’ignoranza.
Oggi l’educazione, anche universitaria,
non è garanzia di successo e
di lavoro. È così nei paesi sviluppati;
lo è maggiormente in quelli in via di
sviluppo: le opportunità d’impiego
sono limitate rispetto al numero di
giovani. Tuttavia è innegabile che l’educazione,
anche solo elementare, è
dignità: è importante quanto il cibo.
Scriveva Paolo VI nella Populorum
progressio, di cui ricorre quest’anno
il 35° anniversario, ma sempre attuale,
come ogni profezia, che «la fame
di educazione non è meno umiliante
della fame di cibo: una persona illetterata
è una persona con una mente
denutrita». Aggiungeva: «Essere capaci
di leggere e scrivere, acquistare
una formazione professionale, significa
recuperare confidenza in se stesso
e scoprire che uno può progredire
assieme agli altri» (Pp 35).
Davvero, l’educazione è liberazione,
o salvezza. Salva da sospetti e timori,
da imbrogli e schiavitù della dipendenza,
assicura l’ottenuta libertà.
Nell’ottobre del 1968 Nyerere diceva:
«Fino a quando il nostro paese
rimane illetterato, la nostra libertà
è in pericolo. Deve essere forte la coscienza
che siamo persone libere,
con valori da difendere». L’educazione,
aggiunge il mwalimu, permette
lo sviluppo di se stessi; dà forza
per non capitolare di fronte ai più
forti; favorisce discussione intelligente
e partecipazione attiva: ciò vale
per la persona e per la nazione.

ELIMU
NI UFUNGUO WA MAISHA

Educazione è chiave della vita
Con riferimento biblico, un’antifona
di avvento canta che il Messia
promesso ha in mano la chiave per aprire
e chiudere. La chiave ha quindi
una prospettiva di futuro. Le chiavi
sono simbolo di liberazione o di
chiusura. Lo sanno i carcerati!
Come chiave, l’educazione schiude
le potenzialità; apre persone e popoli
verso il futuro. Afferma ancora
Paolo VI nell’enciclica citata che «l’educazione
è un fattore fondamentale
per l’integrazione sociale, come
anche di arricchimento personale; e
per la società è uno strumento privilegiato
di progresso economico e sociale
» (Pp 35). Senza educazione
non si hanno aperture mentali, né orizzonti,
né sogni; tanto meno nozioni
che indichino alternative e possibilità;
ci sono invece rachitismo e
perdurare di convinzioni, atteggiamenti
e pratiche spesso in contrasto
con l’evidenza della scienza.
Lo si nota chiaramente in alcune
tradizioni e situazioni. Lo si verifica,
in modo particolare, nelle culture a
carattere pastorale, dove la tradizione
è più accattivante del nuovo. Una
persona chiusa, come pure una nazione
e cultura, è votata alla povertà
perenne, non solo economica. Davvero,
l’educazione è la chiave per lo
sviluppo integrale.

ELIMU NI DIRA
L’educazione è una bussola
La bussola indica il nord, facilitando
di navigare con certezza verso
il luogo di destinazione. Oggi la bussola
è sostituita dal radar e sofisticati
strumenti computerizzati, che con
maggior certezza indicano tutto.
L’educazione equivale a questi
strumenti: offre direzione, traccia
cammini, indica la meta. Ciò vale anche
a livello di nazione o popolo.
Da decenni il Tanzania si lascia dirigere
dalla bussola dell’educazione.
Ma è finanziariamente gravoso sostenere
un sistema scolastico efficiente.
Spesso le strutture delle scuole tanzaniane
sono fatiscenti e insufficienti.
Mancano libri, sussidi e banchi. Scarseggiano
pure i maestri, poiché la loro
è una professione poco remunerata,
che spesso obbliga a stare lontano
dalla famiglia e in posti isolati.
Il futuro si prospetta deteriore: si
scrive apertamente che la classe dei
maestri è la più colpita dal flagello
Aids: le nuove leve non sono sufficienti
a sostituire le vecchie. Ma è sorprendente
lo sforzo degli ultimi decenni,
di dotare tutti i villaggi di scuole
elementari: sono povere, ma sono
germi di dignità, libertà e sviluppo.
L’anno scorso, cancellato metà del
suo debito estero, il Tanzania ha subito
abolito la tassa scolastica e altre
forme di contributo e investito nella
costruzione di nuove aule, per rendere
veramente accessibile a tutti l’educazione
elementare.
Il miglioramento di tutte le strutture
e infrastrutture è ancora lungo.
Ma quanto è bello, il mattino, vedere
centinaia di studenti recarsi a piedi
alla propria scuola e, alla sera, tornare
a casa. Pur nelle precarietà di
vario genere, tra questi ci sono intelligenze
brillanti. Lo confermano i loro
risultati scolastici a dispetto della
carenza di tutto.
«Da Nazaret può mai venire qualcosa
di buono?» commentava scetticamente
Natanaele a Filippo, che gli
annunciava con gioia l’incontro con
Gesù, «colui di cui hanno scritto
Mosè, la legge i profeti». Inutile argomentare.
«Vieni e vedi» gli ritorce
Filippo (cfr. Giovanni 1,45-47).
Vieni e vedi: da certe scuole escono
alunni meravigliosi sotto tutti i
profili.

ELIMU NI BAHARI
L’educazione è un mare
Il mare suggerisce interminabilità
e profondità: organico sviluppo di sé
e della nazione, apprendimento e formazione
non hanno confini. E se non
si accoglie la novità si muore. L’isolamento
preclude crescita e progresso.
Un fattore importante nel cammino
delle nazioni è costituito dalle comunicazioni.
Quale sarà in futuro la
posizione dell’Africa in questo campo?
Per quanto riguarda il Tanzania,
si dice che sia il paese subsahariano
più avanzato in questa dimensione.
Se sia vero, non lo so. È certo, però,
che vi ammette grande importanza.
Affermare e credere che l’educazione
è un mare significa mettersi in
condizioni d’imparare: per crescere.
Altri motti simili suonano che
l’educazione è un tesoro, luce,
sapienza; alcuni ne esaltano
i valori connessi: «Educazione,
disciplina, lavoro; educazione, libertà,
unità; educazione, disciplina,
professione». Siano formati da soggetto
e predicato o enumerino una
serie di valori, ognuno di questi slogan
è un tassello del mosaico che ritrae
la convinzione e l’impegno del
Tanzania e delle singole scuole nel
campo educativo, perché l’istruzione
diventi sempre più alimento
di dignità, libertà e
sviluppo.

Giuseppe Inverardi




IL MISSIONARIO FA POLITICA. MA COME ?


È finita l’era della «cristianità». La chiesa si trova povera,
senza appoggi politici, né può contare su partiti cattolici
che le garantiscano i diritti.
Pertanto: su quali forze può contare oggi l’evangelizzazione,
mentre i missionari invecchiano e le vocazioni scarseggiano?
Quale spazio ha la chiesa in una società
plurireligiosa e multiculturale?</b< Ivescovi italiani stanno affrontando il problema di «comunicare il vangelo in un mondo che cambia» (1). La chiesa si interroga su come fare ripartire la missione nel «crocevia contemporaneo».
In primo luogo, occorre «metterci
in ascolto della cultura del nostro
mondo», per disceere i «semi del
verbo» già presenti in essa, anche al
di là dei confini visibili della chiesa.
Ascoltare le attese più intime dei nostri
contemporanei, cogliee desideri
e ricerche, capire che cosa fa ardere
i cuori e cosa, invece, suscita
paura… è importante per divenire
servi della speranza. Non possiamo
affatto escludere, inoltre, che i non
credenti abbiano qualcosa da insegnarci
circa la comprensione della
vita e che, per vie inattese, il Signore
possa farci sentire la sua voce attraverso
di loro (2).
In secondo luogo, occorre prestare
attenzione alla novità del vangelo
e rimanervi fedeli. Infatti vi è una
novità irriducibile del messaggio
cristiano: pur additando un cammino
di piena umanizzazione, esso non
si limita a proporre solo un umanesimo.
Gesù Cristo è venuto a renderci
partecipi della vita nell’«umanità
di Dio». Il Signore ci ha fatti annunciatori
della sua vita rivelata agli
uomini e non possiamo misurare
con criteri mondani l’annuncio che
siamo chiamati a compiere (3).
Siamo immersi in tre grandi processi
di cambiamento: SECOLARIZZAZIONE,
CRISI DI VALORI e GLOBALIZZAZIONE.
Li esamineremo evidenziando
le sfide e opportunità
offerte alla evangelizzazione. Inoltre
vedremo come fare ripartire la missione.

1/ SECOLARIZZAZIONE
a) Sfide e opportunità
La secolarizzazione è un profondo
mutamento di mentalità, cultura
e costume. Nasce con il mondo moderno
come reazione alla identificazione
che la cristianità medievale aveva
fatto tra sacro e profano, tra fede
e cultura, fra trono e altare.
Nasce come rivendicazione dell’autonomia
della ragione verso la religione;
si spinge fino al secolarismo,
cioè fino al tentativo di escludere
Dio.
Quando la secolarizzazione degenera
in secolarismo, l’uomo si ritiene
autosufficiente, crede che la salvezza
possa venire da una ideologia.
Il secolarismo esclude Dio dalla vita
sociale; considera la religione un
fatto privato. Insomma: con il secolarismo,
l’uomo «dimentica Dio, lo
ritiene senza significato per la propria
esistenza, lo rifiuta ponendosi in
adorazione dei più diversi idoli» (4).
Quando, invece, la secolarizzazione
viene intesa come legittima autonomia
delle realtà temporali e della
laicità, il fenomeno è positivo. Inoltre
offre nuove opportunità alla
evangelizzazione, perché purifica i
contenuti della fede, accresce la responsabilità
dei credenti, ne stimola
la creatività e apre al dialogo con
tutti gli uomini di buona volontà.
In ogni caso la società secolarizzata
ha assimilato molti valori della
cultura cristiana (dignità della persona,
solidarietà, qualità della vita),
ma li presenta come «valori laici».
Lo stesso cristianesimo è visto come
«religione civile». Si ripete lo
slogan «non possiamo non dirci cristiani
», anche se si tratta di atei o miscredenti.
Aver ridotto il cristianesimo a religione
civile genera gravi contraddizioni
anche in nazioni di antica evangelizzazione.
Per esempio: da un
lato si riconosce che la religione è un
fattore di educazione civica e, dall’altro,
si tolgono i simboli religiosi
dalle scuole e dagli edifici pubblici,
non si fanno udire i canti natalizi ai
bambini dell’asilo in nome della laicità
e della tolleranza verso chi non
è religioso. Da un lato gli stati seguono
con fiducia le iniziative religiose
per la pace (come l’incontro di
Assisi del 25 gennaio 2002) e, dall’altro,
si cancella ogni riferimento
religioso dal proemio della Carta dei
diritti europei, né si invitano le comunità
religiose a partecipare con le
altre realtà sociali alla preparazione
della Costituzione europea.
Da qui viene un pericolo per la
missione: limitare l’annuncio cristiano
alla proposta di «valori civili
», in nome di un malinteso rispetto
della laicità e della tolleranza…
Nessuno nega che la promozione umana
sia parte integrante della evangelizzazione,
ma essa non si può
ridurre ad un mero impegno di civilizzazione.
b) Fare ripartire la missione
La missione che Cristo ha affidato
alla chiesa non è di ordine politico,
economico e sociale: il fine è religioso.
La chiesa in nessun modo si
confonde con la comunità politica e
non è legata ad alcun sistema politico(
5). Stato e chiesa, avendo una natura
diversa, devono essere liberi di
perseguire ciascuno il proprio fine e
di usare gli strumenti propri di cui
dispongono.
Tuttavia, pur essendo autonomi,
chiesa e stato devono collaborare al
bene comune, senza però invadere
il campo altrui.
Il vangelo non solo ci svela il mistero
di Dio, ma svela anche l’uomo
all’uomo. Perciò l’annunzio del vangelo
è destinato a influenzare i comportamenti
personali e sociali, privati
e pubblici, di chi liberamente lo
accoglie. E il missionario quando evangelizza
non parla solo di Dio, ma
fa un discorso sull’uomo.
Che cos’è la «politica» se non un
discorso sull’uomo, sui suoi valori?
Pertanto il missionario non può non
«fare politica» in senso culturale ed
etico. Egli si deve mantenere equidistante
dalle fazioni in lotta per il
potere e non si schiera per l’uno o
l’altro partito; però la sua equidistanza
non significa neutralità. Non
tutte le politiche né tutti i programmi
si equivalgono; le coscienze vanno
formate al discernimento.
Il vescovo Oscar Romero, in El
Salvador, era equidistante dai partiti,
ma non era neutrale nei confronti
dell’oppressione degli squadroni
della morte. A tal punto, che – come
spiega Giovanni Paolo II – «si possono
dare casi eccezionali di persone,
gruppi e situazioni in cui può apparire
opportuno (o addirittura necessario)
svolgere una funzione di
aiuto e supplenza in rapporto alle istituzioni
carenti e disorientate, per
sostenere la causa della giustizia e
della pace» (6).
La chiesa ha svolto «supplenza
politica» in Italia, dopo la seconda
guerra mondiale, quando il paese si
trovò impreparato a fronteggiare il
pericolo comunista e doveva ristabilire
la democrazia dopo il fascismo.
La stessa funzione ha svolto la
chiesa in America Latina, dove è stata
l’unica forza morale, l’unica voce
autorevole, in grado di difendere i
poveri e gli oppressi e affermare le
ragioni della giustizia e della pace.
Ebbene anche l’impegno civile
rientra nella missione evangelizzatrice,
ma rimane sempre vero che il
primato spetta alla testimonianza
della Parola e della vita. Giovanni
Paolo II insiste sulla priorità della testimonianza
nel mondo secolarizzato:
«[Gli uomini] vogliamo vedere
Gesù (Gv 12, 21) – ricorda il papa…
Come i pellegrini di 2.000 anni fa,
gli uomini del nostro tempo, magari
non sempre consapevolmente,
chiedono ai credenti di oggi non solo
di “parlare” di Cristo, ma in certo
senso di farlo loro “vedere”» (7).

2/ CRISI DEI VALORI
a) Sfide e opportunità
In che cosa consiste la crisi di valori?
In questo: oggi la tradizionale
omogeneità culturale di tante nazioni
(durata secoli) ha lasciato il posto
a una pluralità di visioni della vita
e della storia, spesso in contrasto
con il vangelo. Questo è insieme
causa ed effetto della crisi delle «evidenze
etiche», cioè dei valori morali
su cui si modellava fino a ieri la
convivenza civile.
«È avvenuta – rilevano i vescovi italiani
-, un’eclissi del senso morale.
È diventato difficile parlare di bene
e male senza suscitare una forte incomprensione.
Gli uomini e le donne
del nostro tempo hanno indubbiamente
dei valori di riferimento,
ma spesso trovano difficile o poco
interessante dar ragione di ciò che
guida le loro scelte di vita, rischiando
così di esporsi all’arbitrarietà delle
emozioni o (fatto molto più insidioso)
ai miti occulti che permeano
la nostra società su diversi temi morali
non periferici» (8).
Questo processo può condurre a
un relativismo etico dagli effetti devastanti;
ma allo stesso tempo offre
nuove opportunità alla missione. Infatti,
mentre capitoli fondamentali
dell’etica tradizionale minacciano di
scomparire, altri capitoli, ieri disattesi,
vengono riscoperti: si pensi, per
esempio, all’impegno per la giustizia,
alla nuova coscienza della solidarietà
e della pace, alla salvaguardia
dell’ambiente.
I vescovi italiani, mentre denunciano
i gravi pericoli dell’eclissi del
senso morale, sottolineano anche le
nuove opportunità per l’evangelizzazione;
citano il fatto che gli occhi
dei nostri contemporanei continuano
a schiudersi sull’altro, specie se
sofferente e bisognoso. E questo è
un motivo di speranza. Anche lo
sviluppo della scienza e della tecnica
presenta aspetti da valorizzare.
L’uomo che si spinge avanti nelle vie
del sapere si trova di fronte a domande
non tecniche, e tuttavia ineludibili,
che riguardano il senso dell’esistenza
(9).
b) Fare ripartire la missione
Per fare ripartire la missione nel
contesto della delicata crisi di valori,
bisogna innanzitutto comprenderne
le ragioni, se vogliamo «comunicare
» il vangelo in modo efficace
agli uomini e alle donne del
nostro tempo. Si tratta di restituire
alla cultura del mondo post-moderno
l’anima etica perduta.
Lo si può fare partendo dagli elementi
di verità che si trovano anche
fuori della chiesa cattolica, presso le
religioni non cristiane, che «non raramente
riflettono un raggio di quella
verità che illumina tutti gli uomini
» (10), e perfino presso quei non
credenti «che hanno il culto di alti
valori umani, benché non ne riconoscano
ancora la sorgente» (11).
In altre parole, lo strumento privilegiato
della nuova evangelizzazione
è il dialogo interculturale.
Questo non va affidato soltanto a
un corpo specializzato di missionari.
Oggi, chiusa la stagione delle rigide
contrapposizioni, la cultura cristiana
e le altre culture sono chiamate
ad incontrarsi, muovendo dai
valori condivisi e dagli elementi comuni
di verità, per proseguire insieme
verso la verità tutta intera. Non
esistono culture superiori e inferiori,
così come non lo sono le razze. Le
varie culture sono complementari
tra loro, essendo tutte elaborazioni
sull’uomo, su Dio e il suo mistero.
Ancora una volta la storia dimostra
che il binomio Dio-uomo è inscindibile.
Tutte le volte che l’uomo
perde il senso di Dio perde se stesso.
E ogni qual volta l’uomo ritrova
se stesso e la sua dignità, ritrova ineluttabilmente
Dio. Il tentativo della
modeità di sostituire il sentimento
religioso con le ideologie non poteva
non fallire. «Senza dubbio – diceva
Paolo VI – l’uomo può organizzare
la terra senza Dio; ma, senza
Dio, egli non può che organizzarla
contro l’uomo» (12).
Una clamorosa conferma di questa
verità è venuta dalla crisi del comunismo,
che è stato il tentativo più
spinto di costruire una società senza
Dio… Del resto, l’esperienza dimostra
che la perdita di senso dell’esistenza
è legata, pure nell’occidente
libero, a una forma di ateismo
pratico, che si esprime nel materialismo
della vita, nell’egoismo, nel
consumismo sfrenato.
Se l’uomo ritrova il vero umanesimo,
ritrova pure Dio. È compito
della missione reagire alla cultura disumanizzante
e ripartire da valori
religiosi per fondare la coscienza etica
che, a sua volta, costituisce il
cuore della cultura di un popolo,
fondamento su cui poggia ogni progetto
di società. Oggi è possibile.
Ha affermato all’Onu Giovanni
Paolo II: «Se vogliamo che un secolo
di costrizione lasci spazio a uno
di persuasione dobbiamo trovare la
via per discutere, con un linguaggio
comprensibile e comune, circa il futuro
dell’uomo. La legge morale universale,
scritta nel cuore dell’uomo,
è quella sorta di “grammatica”
che serve al mondo per affrontare
questa discussione circa il suo stesso
futuro» (13).
Ciò che ci unisce tra diversi è molto
di più di quello che ci divide.

3/ GLOBALIZZAZIONE
a) Sfide e opportunità
La globalizzazione è un fenomeno
esploso dopo il fallimento del socialismo.
Sono apparsi con gravità
gli squilibri esistenti tra i popoli ricchi
e quelli poveri del mondo: squilibri
aggravati dalla rivoluzione tecnologica.
Oggi tocchiamo con mano che si
impone un nuovo ordine mondiale
dell’economia, un nuovo modello di
sviluppo planetario. Tutti i problemi
sono planetari. Nessuna nazione
può affrontarli da sola, ma si esige la
cooperazione internazionale. O costruiamo
tutti insieme un mondo
migliore o periamo tutti insieme.
La globalizzazione presenta gravi
rischi. Bisogna dire che la logica di
mercato (la ricerca del maggior profitto),
priva di orientamento etico,
non sarà mai il motore dello sviluppo
umano: infatti genera mancanza
di solidarietà, egoismo, frammentazione
sociale, allarga la forbice tra
ricchi e poveri, crea nuovi colonialismi,
altera l’equilibrio ecologico. I
drammatici effetti sono sotto i nostri
occhi.
«All’alba del XXI secolo – scrive
J. Bindé, direttore dell’Ufficio analisi
e previsioni dell’Unesco – oltre 1
miliardo e 300 milioni di persone vivono
in povertà assoluta, e il loro
numero aumenta: ha già raggiunto i
2 miliardi. Oggi più di 800 milioni
di individui soffrono fame e malnutrizione;
oltre 1 miliardo non hanno
accesso a servizi sanitari, istruzione
di base e acqua potabile; 2 miliardi
non sono collegati a una rete elettrica
e più di 4 miliardi e mezzo
non dispongono dei
mezzi di comunicazione
di base, e quindi di strumenti per
accedere alle nuove tecnologie, che
sono la chiave dell’istruzione a distanza.
Oggi si vanta il boom di Inteet,
ma per molto tempo ancora
vivremo in un mondo dove l’informazione
avrà le sue autostrade e i
suoi deserti…
Il futuro è illeggibile al nord, dove
i popoli ricchi fanno sempre meno
figli; è già ipotecato al sud, perché
i bambini e le donne sono le prime
vittime della miseria. Due terzi
della popolazione mondiale, in povertà
assoluta, sono al di sotto di 15
anni, e più dei 2 terzi dei poveri sono
donne» (14).
D’altro canto, la globalizzazione
offre prospettive positive: serve ad
una maggiore intesa tra i popoli, alla
pace, lo sviluppo, la promozione
dei diritti umani. In particolare, la
globalizzazione, nata dalla comunicazione
sociale,
è divenuta una «cultura», un nuovo
modo di capire il mondo, la vita e
l’uomo.
La globalizzazione, se non si può
fermare, si può e si deve orientare.
Non possiamo accettare «la logica
del più forte, l’idea che la presenza
dei poveri, sfruttati, sia frutto dell’inesorabile
fluire della storia. Su questo
il cristianesimo non può scendere
a compromessi (15).
La dottrina sociale della chiesa esorta
a ricercare la soluzione dei gravi
squilibri all’interno di uno sviluppo
sostenibile a livello planetario,
che realizzi la sintesi tra efficienza economica,
libertà politica e coesione
sociale, senza ripetere gli errori
del socialismo reale e del capitalismo
selvaggio.
In una parola: è necessario che la
interdipendenza economica, politica
e sociale si traduca in globalizzazione
della solidarietà. La cooperazione
internazionale – disse Giovanni
Paolo II all’Onu nel 1995 – non
può essere pensata esclusivamente
in termini di aiuto e di assistenza, o
addirittura mirando ai vantaggi di ritorno
per le risorse messe a disposizione.
Quando milioni di persone
soffrono la povertà, dobbiamo non
solo ricordare a noi stessi che nessuno
ha il diritto di sfruttare l’altro,
ma anche e soprattutto riaffermare
l’impegno a quella solidarietà che
consente ad altri di vivere».
Come ha confermato la contestazione
dei no global al G8 di Genova
(20-22 luglio 2001), la coscienza del
nostro tempo non tollera più una umanità
spaccata tra 5 miliardi di poveri
e 1 miliardo di ricchi. I beni della
terra sono di tutti, e un mondo diverso
è possibile.
b) Fare ripartire la missione
In un mondo globalizzato occorre
prendere atto che la missione ad
gentes non ha più confini… neppure
in Italia.
«La nostra società – dicono i vescovi
– si configura sempre di più come
multietnica e multireligiosa. Occorre
evangelizzare le persone condotte
tra noi dalle migrazioni…
Seppure con molto rispetto e attenzione
per le loro tradizioni e culture,
dobbiamo essere capaci di testimoniare
il vangelo anche a loro e,
se piace al Signore ed essi lo desiderano,
annunciare la parola di Dio, in
modo che li raggiunga la benedizione
di Dio promessa ad Abramo per
tutte le genti (Gen 12, 3)» (16).
In un mondo globalizzato, la via
per fare ripartire la missione è il dialogo
interreligioso, accanto a quello
interculturale: contribuisce a risolvere
le sfide delle migrazioni, del terrorismo
internazionale, della costruzione
della pace nella giustizia e nell’amore.
Il fenomeno migratorio è ormai
planetario. Nel mondo sono 150 milioni
le persone che si spostano verso
le aree più ricche, che sono anche
le più popolate: ciò aggrava l’odissea
degli immigrati, che per lo più
vengono ritenuti invasori. Il problema
non si risolve chiudendo loro le
frontiere, discriminandoli in base a
razza, religione o impronte digitali.
Occorre orientare i flussi migratori
in modo legale e strutturale.
Anche il terrorismo si è globalizzato.
Forse non l’avevamo capito…
Solo dopo l’«11 settembre» ci siamo
accorti che il conflitto israelo-palestinese
e altre esplosioni di violenza
non erano episodi sporadici di «terrorismo
locale», ma focolai di un
terrorismo senza confini e senza volto.
Per estirparlo non serve la guerra
(meno che meno una guerra di civiltà!),
perché l’abbattimento delle
«torri gemelle» non è stato una dichiarazione
di guerra, ma un crimine
contro l’umanità.
Il terrorismo globalizzato appartiene
a un nuovo capitolo del diritto
internazionale: il diritto umanitario.
I crimini contro l’umanità sono
imprescrittibili, e sono perseguibili
ovunque; non possono essere considerati
affari interni di una nazione.
Quindi il terrorismo internazionale
non si combatte con rappresaglie e
ritorsioni (contro chi?), ma (per esempio)
congelando le fonti finanziarie
che alimentano la violenza,
potenziando e cornordinando i servizi
di intelligence, soprattutto spegnendo
i focolai esistenti: a cominciare
dal Medio Oriente, dove bisogna
presto giungere a riconoscere lo
stato palestinese. E rinnovando l’Onu.
Ma, se la giustizia può richiedere
che si ricorra all’intervento armato
come extrema ratio (per stanare i terroristi
e portarli dinanzi ai giudici),
dobbiamo dire però che la giustizia
da sola non basta. Oltre alla giustizia
(il primo scalino dell’amore), c’è
bisogno di riconciliazione e perdono
(il vertice dell’amore).
La ragione è – spiega Giovanni
Paolo II – che la giustizia si limita a
garantire l’equità nell’ambito dei beni
e diritti oggettivi, mentre «l’amore
e la misericordia fanno sì che gli
uomini si incontrino tra loro in quel
valore che è l’uomo stesso, con la dignità
che gli è propria» (17).
Riuscirà la missione a evitare
che la secolarizzazione degeneri
in secolarismo… e tutti gli
altri pericoli?
Dalla lettura dei «segni dei tempi
» deduciamo che la chiesa oggi si
trova in stato di purificazione… La
storia dimostra che ogni qual volta
la chiesa, condizionata da uomini ed
eventi, rischia di trasformarsi da lievito
in pasta, lo Spirito interviene: le
toglie gli appoggi umani e la riporta
alla purezza del vangelo. E ritorna a
essere «lievito». La forza del lievito
non sta nella quantità…
L’efficacia della nostra missione
non sta nei soldi, nel favore dei potenti,
nei privilegi, nei concordati.
La forza sono i poveri e la povertà
della chiesa; la croce, la
parola di Dio, la santità
dei suoi figli.
v
(1) Cfr. Conferenza episcopale italiana
(Cei), Comunicare il vangelo in un mondo
che cambia, 2001
(2) Ivi, n. 35
(3) Ibidem
(4) Cfr. Christifideles laici (1988), n. 4
(5) Cfr. Gaudium et spes (Concilio ecumenico
Vaticano II – 1965), nn. 42, 76
(6) L’Osservatore Romano, 29 luglio 1993
(7) Novo millennio ineunte (2001), n. 16
(8) Cei, op. cit., n. 41
(9) Cfr. Ivi, n. 37
(10) Nostra aetate (Concilio ecumenico
Vaticano II – 1965), n. 2
(11) Gaudium et spes, n. 92
(12) Populorum progressio (1968), n. 42
(13) L’Osservatore Romano, 6 ottobre
1995
(14) la Repubblica, 23 agosto 1998
(15) Cfr. Cei, op. cit., n. 43
(16) Cfr. Ivi, n. 58
(17) Dives in misericordia (1978), n. 14

(*) Padre Bartolomeo Sorge,
gesuita, già direttore de La Civiltà
Cattolica, è anche saggista socioreligioso
e conferenziere. È direttore
della rivista missionaria Popoli.

Bartolomeo Sorge




SFRATTO AGLI SPIRITI

Presa visione
della situazione,
i padri Flavio Pante,
Ramon Lazaro
e Michael Wamunyu
stanno mettendo a fuoco
priorità e progetti
di testimonianza
della carità: difesa
dei diritti umani, dialogo
con i musulmani,
alfabetizzazione
e sanità.

Una visita al mercato di Dianra
è indispensabile per vedere
la vita della gente. Sui banchetti
traballanti è sciorinata un’infinità
di mercanzie e prodotti agricoli:
riso, inyame (una specie di manioca),
frutta e verdura d’ogni genere, tutte
prodotte dai senufo.
«Sono gli autoctoni di questa regione
– spiega padre Ramon -, agricoltori
per natura. Per questo le popolazioni
immigrate li hanno chiamati
senufo, termine che in diula, la
lingua franca diffusa dei mercanti
musulmani, significa: coloro che coltivano
la terra. E sono grandi lavoratori
». «Molto sfruttati» aggiunge padre
Flavio.

IL PREZZO NON È GIUSTO
Da vari decenni la risorsa principale
dei senufo è la coltivazione del
cotone. Il guaio è che i contadini,
dall’inizio della coltivazione alla consegna
del prodotto, non conoscono
mai quale sia il prezzo che ne ricaveranno.
Una volta consegnato, devono
accontentarsi di quanto stabilirà
la compagnia.
«Tale sistema va avanti da molti anni
– afferma padre Flavio -. Il sindacato
dei coltivatori di cotone ha organizzato
una protesta, occupato la
fabbrica e minacciato di bruciare i
raccolti, se il prezzo non fosse immediatamente
fissato. Le autorità del
settore agricolo hanno promesso di
risolvere il problema; ma, a distanza
di due mesi, i contadini non sanno
ancora quando e quanto saranno pagati
». Intanto il cotone rimane nelle
capanne, ingiallisce e perde valore.
I padri hanno cercato di difendere
i diritti dei contadini, parlando con i
cristiani impiegati nello stabilimento,
ma questi non hanno voce in capitolo.
«Da alcuni anni la fabbrica è stata
privatizzata – continua padre Flavio
– e non si sa chi sia il padrone.
Qualche mese fa è apparso un russo,
forse uno dei padroni». «Era bianco
come un pezzo di carta. Il giorno dopo
era scottato e rosso come un’aragosta
» aggiunge sorridendo padre
Michael.
La difesa dei diritti umani è una
delle tante sfide che i missionari di
Dianra dovranno affrontare. Ma per
ora concentrano l’attenzione al campo
religioso e culturale.

LIBERAZIONE DALLA PAURA
«La religione tradizionale ha dei
valori su cui innestare quelli del vangelo
– spiega padre Michael -. Uno di
essi è il profondo rispetto per la natura,
ritenuta sacra, abitata da spiriti
e divinità. Ma è pure una sacralità che
alimenta paure irrazionali: tutti hanno
in casa feticci protettivi e si sentono
minacciati da spiriti, sortilegi, malocchi
e maledizioni».
Una sessione della preparazione al
battesimo, presente solo nei catechismi
destinati ai senufo, ha come tema:
Gesù mi libera. Tale sessione inizia
invitando i catecumeni a manifestare
ad alta voce le proprie paure
e a sbarazzarsi dei feticci; si conclude
con un gran falò in cui vengono
bruciati feticci e aesi vari, come segno
di conversione e di fiducia in
Cristo liberatore.
Ma gli spiriti sono duri da sfrattare
dalla mente e dalla vita. Molti cristiani
continuano a vivere sotto l’oppressione
delle paure derivanti dalla
religione tradizionale, intrecciando
riti cristiani con sacrifici di capretti e
polli. Altri chiedono preghiere ed esorcismi
e fanno celebrare messe per
essere liberati da tali oppressioni.
«La religione cristiana è sentita come
un antidoto al male fisico e morale
– continua padre Flavio -; la preghiera
sconfina spesso nella magia.
Un giorno un uomo mi chiese di curare
le sue gambe piagate. Gli dissi
che non avevo con me alcuna medicina.
Mi rispose che era venuto solo
perché imponessi le mani sulle ferite.
Una donna, dopo l’ennesimo litigio,
decise di lasciare il marito; questi le
disse con rabbia che non avrebbe trovato
un altro uomo: quelle parole le
caddero addosso come un sortilegio,
la facevano deperire fisicamente, finché
venne alla missione per essere liberata
dalla maledizione».
In compenso, i senufo sono molto
ben disposti verso i missionari e il
cristianesimo, mentre hanno il dente
avvelenato contro l’islam. Tale avversione
risale alla fine del 1800,
quando Samori, un guerriero della
Guinea, conquistò tutta la regione
settetrionale della Costa d’Avorio e,
per costruirsi un regno islamico, impose
la sua fede con massacri e distruzioni
(vedi riquadro p. 68). I musulmani
lo celebrano come eroe, le
popolazioni animiste lo ricordano
come un sanguinario e i senufo rifiutano
ancora oggi di convertirsi al
musulmanesimo, mentre si aprono
facilmente al messaggio del vangelo.

TE LO DO IO IL DIALOGO
La presenza dei missionari è apprezzata
anche dai musulmani. «Sul
piano umano il dialogo è possibile e
già esiste – racconta padre Flavio -. Al
nostro arrivo, l’iman-capo è venuto
due volte a darci il benvenuto. Noi
abbiamo ricambiato le visite, fatto atto
di presenza al funerale di un suo
familiare e, all’inizio del ramadan, siamo
andati a fare gli auguri e lui è venuto
a ringraziarci».
«L’iman di Marandallah – aggiunge
padre Michael – ha chiesto al vescovo
di mandare missionari stabili
in quella zona». Il fatto è sorprendente,
ma non troppo: la chiesa cattolica
porta asili, scuole, ospedali e
altre opere sociali.
«Il dialogo religioso è ancora lontano
– continua padre Flavio – e richiederà
da parte nostra una conoscenza
più profonda del mondo musulmano.
Per ora vorremmo tentare
a livelli più concreti: coinvolgere i
musulmani nei progetti sociali che
abbiamo nel cassetto, asili, scuole di
alfabetizzazione, strutture sanitarie».
Una visita all’iman potrebbe essere
l’occasione per tastare il polso. Lo
troviamo in casa, che funge anche da
moschea; ma non riusciamo a comunicare:
egli parla solo diula; il figlio
traduce in un francese incomprensibile.
L’iman promette di venire,
la sera, alla missione con un interprete
più ferrato.
E arriva puntuale. Dopo le rituali
presentazioni, risponde pacatamente
alle domande. Dice di chiamarsi
Karim Karaté; ha fatto il pellegrinaggio
alla Mecca, come pure gli altri
quattro iman di Dianra. Afferma che
non ci sono conflitti tra cristiani e
musulmani, poiché adorano la stessa
divinità; la differenza è solo sulle labbra,
gli uni dicono Dio, gli altri Allah;
ma nel cuore è lo stesso Dio.
Domando quanti sono i musulmani
di Dianra. Risponde di non conoscere
il numero esatto, ma che sono
più dei cristiani e provengono da
vari gruppi etnici del Mali, Guinea,
Burkina Faso. Ci informiamo sulle
scuole coraniche: gli alunni imparano
a memoria brani del Corano in arabo,
usando traduzioni in francese
e diula per la comprensione.
Arriviamo alla domanda cruciale:
«Come e in quali campi possono lavorare
insieme musulmani e cristiani
per il bene della gente?». L’iman si esibisce
in un lungo e generico discorso
sulla necessità della collaborazione
e aiuto reciproco. Lo incalzo
con una domanda più precisa: «Quali
sono i problemi e necessità della
popolazione in generale?». «Non
conosco le necessità degli altri – risponde
serafico l’iman -; ma solo della
mia gente: per ora abbiamo bisogno
della moschea; chiediamo ai cri-
stiani di aiutarci a costruirla».
La conversazione perde interesse,
ma, a sorpresa, l’iman dice che anche
lui ha da farmi una domanda: «Tornato
in Italia, la prego di procurarmi
una motocicletta».
Mi viene da ridere; ma mi trattengo.
Spengo il registratore: per me il
«dialogo» è ormai su un binario morto.
Padre Flavio sembra più imbarazzato
di me, ma si ricompone in
fretta e risponde: «Il nostro ospite è
qui per rendersi conto dei problemi
di tutta la gente, anche della comunità
musulmana. Prima di tutto,
però, dovrà occuparsi delle necessità
della missione, poiché, come vede,
siamo agli inizi. Ma Dio ci ha dato
due mani, perché con una sola non
riusciamo a fare tutto ciò che vorremmo.
Quando la comunità musulmana
vorrà comperare la motocicletta
per l’iman, anche noi saremo
felici di offrire il nostro contributo».
L’iman annuisce e si mostra soddisfatto.
Padre Flavio tira un sospiro di
sollievo, per essersela cavata con diplomazia;
ma il suo entusiasmo per il
dialogo pare un poco scosso.

GLI SPAVENTAPASSERI
Da non perdere, a Dianra, è una
visita ai fabbri: nella cultura senufo
essi sono ritenuti personaggi dotati
di qualità sovrumane e, per la loro
arte di manipolare il ferro, giocano
un ruolo privilegiato in varie cerimonie
magico-religiose.
Visitiamo due officine, a un tiro di
schioppo dalla missione. Nella prima,
un giovanotto sta ricavando un
vomero d’aratro da vecchi cerchioni
di automobili. Ci mostra zappe e attrezzi
vari già pronti per la vendita.
Ammiro l’inventiva e i mezzi tanto
rudimentali; ma non trovo nulla di
sovrumano; anzi, a girare la ruota di
bicicletta che alimenta un minuscolo
mantice c’è un bambino. Più sconcertante
è la seconda officina, gestita
da tre ragazzini in età scolare.
Padre Flavio sembra leggere ciò
che mi passa per la mente e spiega:
«A Dianra l’analfabetismo è un problema
molto grave. Quasi tutti i villaggi
hanno le scuole elementari; ma
pochi le frequentano: i bambini sono
nei campi fin da piccoli, se non altro
come spaventapasseri nelle coltivazioni
di riso. Per le ragazze la mentalità
locale è anche peggio: per essere
buone mogli e madri non è necessario
aver studiato; anzi, la donna ignorante
è più sottomessa».
Alla mentalità si aggiunge la mancanza
di documenti: la maggior parte
dei figli nasce in casa e i genitori
non si preoccupano di registrarli all’anagrafe.
Per avere l’atto di nascita,
richiesto per iscriversi alla scuola, bisogna
sborsare 30 mila lire, senza
contare le tasse scolastiche: spese che
non producono un utile immediato.
«Incontro adulti, donne soprattutto,
che piangono per non sapere
leggere né scrivere – racconta padre
Flavio – e ci chiedono di aprire scuole
di alfabetizzazione: vogliamo dare
presto una risposta. Al tempo stesso,
bisognerà combattere e smontare la
mentalità dell’immediato, convincendo
i genitori che l’istruzione è un
investimento per il futuro».
Problemi e progetti continuano a
ruota libera: orfani e situazioni di po-
vertà richiedono di inventare forme
di aiuto materiale per incoraggiare e
sostenere i giovani che vogliono studiare.
Preoccupa pure la situazione
post-scolare: finito il ciclo elementare,
i giovani non hanno altri sbocchi
se non il ritorno ai campi. Una scuola
secondaria è stata appena aperta a
Dianra, ma non si sa come funzioni.
Dalla missione la gente si aspetta,
soprattutto, scuole matee: non ce
n’è una in tutto il territorio parrocchiale.
I padri le hanno elencate tra i
progetti prioritari, per togliere i bambini
dalla strada e liberarli dalla condanna
a eterni spaventapasseri.

OPERAZIONE… CESSI
Un’altra sfida è costituita dalla situazione
sanitaria. Nei villaggi non
esiste la benché minima struttura: uniche
medicine sono ancora quelle
tradizionali, basate su erbe e foglie.
A Dianra Centro c’è un dispensario:
fu aperto e sostenuto da un organismo
internazionale per combattere
il verme di Guinea, una malattia
causata da un parassita presente nelle
acque inquinate, che provoca
gonfiore alle gambe e cecità. Da
quando il morbo è stato sconfitto, il
dispensario è inattivo e sprovvisto di
qualsiasi medicina. «Quando scoppiarono
tifo e colera – racconta ancora
padre Flavio – l’infermiere ordinava
ai moribondi di bere acqua
minerale per combattere la disidratazione:
non aveva né flebo né altri
medicinali».
«Prima di tutto – aggiunge padre
Ramon – è necessario fare una campagna
di educazione sanitaria: nella
cultura locale, per esempio, non esistono
i cessi, per cui, in molti luoghi,
l’acqua è sempre inquinata».
«Abbiamo in mente piccoli dispensari
o farmacie – continua padre
Flavio -; nulla di grande, ma strutture
semplici, gestite da persone preparate
con una formazione di base,
capaci di educare la gente alla prevenzione,
curare le malattie più comuni
e somministrare le medicine
essenziali. Naturalmente avremmo
bisogno di una persona diplomata,
suora, volontario o infermiere, che si
assuma responsabilità e direzione di
tali progetti. Oltre che una priorità
richiesta dalla situazione,
sarebbe una forte testimonianza
dell’amore».

EROE O BANDITO?
F iglio di un commerciante malinke, Samori nacque verso il 1830 in un villaggio
presso Sanankoro (Guinea). Seguendo le orme del padre, si dedicò al traffico
della cola, finché scoprì la vocazione di guerriero, a servizio di re musulmani
e animisti, secondo l’opportunità. Quindi si mise in proprio: raccolse un
esercito personale e cominciò a sottomettere al suo potere varie etnie, trattando
i vinti con magnanimità e integrandone i soldati nel suo esercito. Così, dal
1870 al 1885, diventò padrone assoluto di un vasto territorio, comprendente la
regione orientale della Guinea e quella meridionale del Mali.
Per unire popoli tanto diversi, occorreva un buon collante: Samori lo trovò nella
religione musulmana e la impose con la forza alle popolazioni animiste, anche se
lui dell’islam non aveva neppure la scorza. Totalmente analfabeta, imparò a decifrare
qualche parola araba: ciò fu sufficiente per assumere, nel 1884, il titolo
di almani, «capo dei credenti».
Nella furia islamizzatrice non risparmiò neppure i familiari: fece uccidere due figlie,
ingiustamente accusate di aver tradito la verginità prescritta dal corano.
II ntanto, a nord dell’impero di Samori avanzano i francesi. Dopo varie scaramucce,
giocò la carta diplomatica: firmò un trattato (1886), in cui s’impegnava
a non oltrepassare il fiume Niger; l’anno seguente
accettò «di mettersi sotto la protezione della Francia».
Per i francesi era una vittoria strategica: il protettorato
sbarrava la strada alle pretese degli inglesi, già presenti
in Sierra Leone; per Samori diventò una camicia di forza.
Fiducioso che i francesi non lo avrebbero colpito alle
spalle, egli si lanciò alla conquista del regno senufo
di Kénédugu, con capitale Sikasso. Ma varie popolazioni
del suo regno, stremate dalla guerra e dalla carestia,
sobillate dai francesi, si ribellano (1888). Quando si
sparse la voce che Samori era morto, la rivolta divampò
in tutto l’impero come fuoco nella savana.
Ma riapparse come un leone ferito: tagliò teste a tutto
spiano e riprese quasi tutto il territorio; metà della popolazione
scappò sotto la protezione dei francesi.
Firmato l’ennesimo trattato, Samori si alleò con i Tucolor
e altri regni dell’alto Niger, che resistevano all’avanzata
straniera; e fu la fine: cancellata ogni resistenza
(1890-91), i francesi annientarono anche l’impero di Samori.
R iorganizzato l’esercito, Samori decise di costruirsi
un altro impero. Alla fine del 1892, con un esodo
in massa di gente a lui fedele, invase tutta la savana a
nord della Costa d’Avorio, lasciando dietro di sé terra
bruciata, distruggendo i villaggi che rifiutavano di sottomettersi
all’islam e mozzando la testa a chi gli suggeriva
di arrendersi. Vittima illustre fu il suo primogenito,
Dyaulé-Karamogho: inviato a Parigi nel 1885, era
un ammiratore della Francia. Sospettato di tramare col nemico alle spalle del padre,
fu condannato a morire di fame.
Accampato in terre esotiche, tra popolazioni ostili, impedito d’importare armi da
Freetown e Monrovia, Samori giocò la carta della rivalità tra le due potenze coloniali:
in cambio del ritorno nel suo primo impero, offrì ai francesi le terre confinanti
con la Costa d’Oro (Ghana), già colonia inglese.
Ormai i francesi avanzavano dal sud e Samori si rese conto dell’impossibilità di
resistere ai loro cannoni. Nel 1898, radunato l’esercito, con un altro esodo di massa,
si rifugiò nella foresta della Liberia. Ma l’ostilità della gente e le difficoltà dell’ambiente
ridussero la sua gente alla fame. Samori decise di arrendersi, ma venne
catturato prima che la resa fosse firmata.
Alla fine del 1898 al vecchio leone fu notificato l’ordine d’esilio nel Gabon, insieme
a pochi amici e familiari. Morì di polmonite a Ndjolé, il 2 giugno 1900. La
sua tomba, coperta dagli sterpi, è introvabile.

Benedetto Bellesi




FINO A TRABOCCARE

A dire il vero, «Vilanculos» non è proprio un bel
nome, almeno per il suono! Però, vedeste che
paese pittoresco! In riva all’Oceano Indiano, con
spiagge che non hanno nulla da invidiare a quelle del
Mar dei Caraibi o della mia Cesenatico!
Il termine vilanculos deriva da un clan e in lingua locale
significa «cresciuto molto, fino a traboccare».
Qui, dal 1966, i missionari della Consolata hanno aperto
una missione. Allora non c’era molta gente. Vilanculos
era appena stato costituito, dall’amministrazione
coloniale del Portogallo, capoluogo della provincia
omonima.
Con l’indipendenza del Mozambico (1975) e la successiva
guerra civile la popolazione dai villaggi vicini
si riversò su Vilanculos: il mare si offriva come l’unica
uscita di sicurezza di fronte a possibili attacchi armati.
Ma, a guerra finita, la gente è rimasta. Ora Vilanculos
è un paese che cresce a vista d’occhio, proprio come
dice il nome.
L’oceano assicura pesce, attrae turisti, crea posti di lavoro:
insomma c’è da mangiare per tanti e stanno nascendo
alcune strutture di sviluppo.
Abbandonata la terraferma con un’agricoltura ingrata,
con le alluvioni degli scorsi anni e la siccità di quest’anno,
la popolazione delle campagne (mato) raggiunge
Vilanculos in cerca di… qualsiasi cosa.
D’altronde qui opera anche un piccolo ospedale e ci
sono le scuole; dallo scorso anno c’è luce, telefono e
persino la tivù. Così la gente aumenta, ma anche l’emarginazione
e la povertà.
Sta nascendo una «cultura nuova»: gli ideali tradizionali,
che hanno sostenuto la vita africana per secoli, in
pochi anni vengono spazzati via dal cuore dei giovani.
Cresce anche il popolo di Dio. La comunità cattolica
è la più numerosa. Viviamo fra metodisti, avventisti,
musulmani e altri credenti di varie sètte nella
più chiara amicizia e armonia.
La chiesa cattolica non detiene, come in passato, il
primato della promozione umana o degli aiuti. Però i
«grandi» del paese (politici, docenti, dottori, ecc.) ricordano
volentieri: «Noi siamo figli della chiesa; essa
ci ha educato e formato; ci ha dato la possibilità di un
futuro». Oggi però, a Vilanculos, è l’Unione Europea
o la Banca Mondiale ad appoggiare il governo nazionale
e le Organizzazioni non governative per creare e
sostenere le strutture sociali.
Ma noi, missionari, non ce ne stiamo con le mani in
mano. Il vangelo è la nostra priorità: esso è annuncio e
celebrazione di Gesù vivo e presente; ma è pure visita
ai villaggi, accompagnamento dei leaders delle comunità,
formazione dei catechisti e delle famiglie, promozione
della donna, ecc. In missione i corsi di formazione
occupano molto del nostro tempo: dalla giustizia-
e-pace ai problemi giovanili, alla salute, al
cucito, all’economia domestica.
I giovani sono quelli che più soffrono per il mutamento
culturale che stanno vivendo. Ed è questa la nostra
grande sfida e preoccupazione. Le iniziative di avvicinamento,
catechesi, incontro, gioco, scuola… ci sembrano
inadeguate per raggiungere la gioventù, che è
una moltitudine.
Ma non trascuriamo i prediletti del Signore, cioè i
bambini. La presenza di un giovane laico venezuelano
nella nostra équipe missionaria è una benedizione, soprattutto
per seguire i tre asili infantili nella periferia
del paese. Sono 180 i bimbi che ogni giorno corrono
alla loro escolinha per cantare, giocare, imparare,
mangiare… Poi i poveri. Fino a qualche tempo fa, erano
una ventina: ogni settimana si avvicinavano alla
missione. Altri venivano a dirci che le alluvioni avevano
portato via le loro case; con l’aiuto di benefattori
ne abbiamo ricostruite molte.
E tutto questo ha aperto la strada verso la missione.
Così oggi sono circa 300 coloro che, ogni martedì,
vengono per ricevere qualcosa. La maggior parte sopravvive,
perché la misericordia di Dio è infinita.
Infine ci sono i vecchi e gli ammalati, che raccontano
le storie di sempre: male alle gambe, al petto, agli occhi…
freddo, febbre, malaria. Tutti i mali. La loro
gioia è grande nel ricevere un sorriso, un po’ di cibo,
un’aspirina; mentre solo la creolina è efficace contro
le pulci penetranti. E tanti, con gratitudine, tornano
poi alla missione per mostrare la pelle nuova dei piedi,
finalmente guariti.

A Gloriana
« com carinho
e amizade»

Torino, 10 maggio. La signora
Gloriana Babbini è partita per il
Mozambico. Ha raggiunto i missionari
della Consolata a Vilanculos,
dove è già alle prese con
i bambini d’asilo. «I miei bimbi»
dichiara con affetto la nuova
maestra.
Prima della partenza, Gloriana
è stata salutata da numerose
persone: parenti, missionari, amici,
giovani. «Mentre accogliamo
con gioia la decisione della
signora Gloriana di andare in
missione – ha detto padre Gottardo
Pasqualetti -, la ringraziamo
per i tanti servizi prestati
con intelligenza e generosità al
Centro di animazione missionaria
di Torino e per lo svolgimento
delle celebrazioni del centenario
dei missionari della Consolata.
Ora il suo servizio raggiunge il culmine
con l’impegno diretto in missione».
La missione è nel DNA di Gloriana Babbini,
essendo anche sorella di padre Francesco
(defunto) e zia di suor Cristiana (missionaria in
Argentina), entrambi della Consolata.

Gloriana (con gli occhiali)
in Mozambico con alcuni bambini
e l’amica Maria Pia.

padre Sandro Faedi




SOLO UNO FRA TANTI

La mia «terza età», provata a volte da tante fatiche,
mi obbliga a fermarmi. Avendo però conosciuto
voi, cari amici, sono spinto a continuare a lavorare insieme:
Dio, voi, io e i poveri, che ci sono affidati per
constatare che è sempre possibile crescere, liberare, amare.
Crescere nei valori cristiani portandoli in ogni
angolo della terra; liberare gli oppressi dall’odio, dalle
ingiustizie, dall’egoismo dilagante di oggi; amare col
cuore di Dio, che predilige gli ultimi della terra dando
a noi il privilegio di essere le sue mani.
Se viviamo nell’incertezza del futuro e nella paura, abbandoniamoci
a Dio che ci ha pensati fin dall’eternità.
È vero che viviamo in un tempo molto duro; ma è «il
nostro tempo». Abbiamo solo questo da vivere. Il segreto
consiste nell’agire per il bene comune.
Ieri sera sono andato a letto tardi (come al solito),
per finire il lavoro d’ufficio e la corrispondenza.
Pensavo alle vacanze che passerò tra voi. Pensavo alla
messa che celebrerò sulla tomba di mio fratello Piero
nell’anniversario della morte. Riflettevo sulle sue ultime
parole: «Il Signore continua a chiedere: “Chi manderò?”.
“Eccomi, Signore, manda me!”».
Ripensavo a mia madre Palmina: dagli occhi azzurri,
meravigliosa, quasi analfabeta. Durante la guerra faceva
le notti al telaio per preparare lenzuola ai suoi nove
figli. L’ho rivista in sogno. Era nell’orto della vecchia
casa, dove siamo nati tutti.
– Che fai, mamma?
– Sto innaffiando un seme molto raro. Nella nostra parentela
è da molti anni che porta frutto.
– E che cos’è?
– È il seme della vocazione. Non vorrei che finisse con
don Guido, don Mario, don Stefano, don Mariano e con
te, padre Renato, l’ultimo missionario dei Saudelli.
Se vogliamo vedere una nuova fioritura di vocazioni
nell’orto della chiesa, dobbiamo rimettere in uso il
vecchio concime della… povertà, castità e obbedienza.
Funziona ancora. Basta guardare il «campo» di Madre
Teresa come continua a fruttificare.
In Etiopia mi consola che, fra i tanti chierichetti (alcuni
musulmani), uno mi abbia dichiarato in segreto:
«Abba, voglio farmi missionario della Consolata come
te». Ogni sera, prima di andare a letto, viene a pregare
con me.
Sono in Etiopia da 19 anni, durante i quali sono venuti
ad aiutarmi tanti giovani; ma solo uno è in seminario
a Roma, per rispondere alla vocazione missionaria. Mi
incoraggia, tuttavia, il fatto che tutti gli altri siano stati
«scossi» e intendano dare un nuovo senso alla loro vita.
Me lo confermano le loro lettere.
Un giovane, andato pure in India e Cina, mi scrive:
«Ho capito che la povertà materiale è nulla a confronto
di quella umana, interiore. Ho visto gente vivere
sotto un ombrello, ed era felice, con una dignità commovente.
Ora vedo persone che possiedono castelli e
si impiccano, perché non riescono più a dormire».
Una ragazza da Londra mi dice: «La mia vita ha senso
solo se faccio qualcosa per gli altri, meno fortunati di
me. Ogni momento che vivo è prezioso e lo porto nel
cuore con tutti i suoi insegnamenti».
Un’altra dalla Svizzera: «È notte e sto per andare a
dormire; ma la nostalgia per l’Etiopia, le emozioni
provate in quei giorni indescrivibili sono così forti che
devo scriverle. Cerco di trasmettere ad altri tutto
quello che mi avete insegnato. Ogni giorno che passa
è un granellino di fede in più; la scintilla di tutto, dopo
un periodo buio, è stata la missione in Etiopia»…
Dalla «città dei ragazzi» (tutti bisognosi) di Asella dove
lavoro, a tutti un saluto riconoscente ed affettuoso.

padre Renato Saudelli




HARRIS: UN PROFETA… SPECIALE

Aveva quasi 50 anni William Wade Harris quando si affacciò
sul litorale della Costa d’Avorio. Era nato nel 1865
nel sud est della Liberia, da etnia grebo, gruppo kru. Predicatore
e responsabile della chiesa metodista di Cape Palmas,
conosceva la bibbia a menadito. Nel 1910 fu imprigionato
per motivi politici. Un’esperienza mistica decise la sua vocazione
profetica: si impegnò di portare il vangelo ai suoi
fratelli.
Nell’estate del 1913 varcò la frontiera della Costa d’Avorio
e cominciò a predicare lungo il litorale, fino alla Costa
d’Oro (Ghana), finché nell’aprile del 1915, scambiato per
un agitatore politico, fu espulso dal governo coloniale
francese.
Alto e corpulento, sguardo vivo e parlantina affascinante,
turbante bianco, tunica candida e fascia nera incrociata sul
petto, un bastone di bambù a forma di croce, la bibbia sfogliata
senza sosta, una zucca piena di semi per ritmare i
canti e una ciotola per battezzare, Harris predicava con impero
e tono dei profeti dell’Antico Testamento.
Anche il suo messaggio era basato sull’antica alleanza: unicità
di Dio, decalogo, lotta all’idolatria. Insisteva sulla necessità
d’imparare a leggere, per conoscere la parola di Dio,
scritta nel libro che sfogliava davanti agli occhi della gente.
Parlava pure del Dio d’amore, che ha mandato il figlio Gesù
Cristo a salvare il mondo, spiegando il significato della croce
che reggeva in mano. Se qualcuno la mirava con lo stesso
terrore e passione con cui si guarda un feticcio, la spezzava
e ne costruiva un’altra, per dimostrare che non era
un talismano, ma un simbolo del peccato umano e dell’amore
divino.
Contro idoli e superstizioni era più focoso del profeta
Elia. Predicava per tre giorni in una località,
concludendo il suo lavoro con un grande
falò, dove i feticci venivano bruciati, e con
il battesimo dei nuovi adepti. Si dice che
abbia personalmente amministrato più di
100 mila battesimi. Una volta, vicino ad
Abidjan, c’era tanta folla che il profeta si
sentì perduto: fece inginocchiare tutti e,
mentre la pioggia inzuppava le loro teste,
pronunciò la formula del battesimo.
Si raccontano pure di malati guariti e paralitici
tornati a camminare. «Dio è grande!
» esclamava con semplicità a ogni fatto
portentoso. Nessuno mai gridò al miracolo.
Harris non voleva attirare l’attenzione sulla
sua persona, tanto meno fondare una nuova
religione. Come il gallo annuncia l’aurora, diceva,
lui annunciava la venuta dei «bianchi
con il libro», i missionari che un giorno avrebbero
portato quella parola di cui egli
era primo testimone.
In ogni gruppo convertito, Harris lasciava
dei predicatori, incaricati della vita
spirituale e del culto, «apostoli», responsabili
dell’organizzazione e condotta morale
della comunità, e un «Pietro», come punto di
riferimento. E raccomandava di attendere i
missionari, riconoscibili dal libro sacro.
Di fatto, la maggior parte dei seguaci di Harris entrarono
nella chiesa cattolica e, soprattutto, protestante. Ma i seguaci
più ferventi rimasero fuori del cristianesimo importato.
Dopo la seconda guerra mondiale, con l’esplosione dell’autenticità
africana, vari personaggi carismatici fondarono
chiese autonome, ispirate ad Harris che, dopo la sua
morte (1929), i fedeli ritenevano più messia che profeta.
Oggi l’harrismo è ancora radicato lungo tutto il litorale
della Costa d’Avorio, con tre centri indipendenti e significative
differenze morali e dottrinali. Una costola dell’harrismo,
inoltre, è costituita dalla religione deima, fondata
dalla profetessa Marie Lalou e diffusa nella regione di Ganoa.
Denominatore comune dell’harrismo è il richiamo alla bibbia,
mescolato con questioni di stregoneria; il culto è molto
vicino a quello protestante; la poligamia è autorizzata.
Alcuni gruppi si caratterizzano per l’impegno nella carità e
solidarietà; altri per le severe esigenze di moralità nei riguardi
di alcornol, denaro e sessualità.
Tutti i fedeli harristi si aspettano dall’intercessione di Harris
una prosperità uguale a quella degli europei.

Benedetto Bellesi




LA MALEDIZIONE DEL DOLLARO


«Adesso non si capisce più niente: non c’è lavoro,
non ci sono medicine, non c’è cibo nel paese
che era il granaio del mondo».
Dal colloquio con la gente in fila davanti
alle odiate banche emerge la drammaticità
della situazione argentina. In tanti avevano
i loro risparmi nella valuta statunitense.
Ora si ritrovano (forse) dei «pesos».
A parte coloro che sono riusciti ad esportare
i capitali all’estero, per una somma complessiva
pari a 130 miliardi di dollari, quasi quanto
l’intero debito estero del paese.
C’è da stupirsi che gli argentini siano furiosi?

Buenos Aires. Avenida Rivadavia
sembra la via di una grande
metropoli occidentale:
marciapiedi affollati, insegne luminose,
boutiques, librerie e bar eleganti.
Eppure, a ben guardare, le
differenze ci sono e non sono poche.
Ad esempio, i cartelli «se alquila»
e «se vende» esposti sui balconi delle
case: non sono tanti, sono troppi.
La gente, strangolata dalla crisi, tenta
di vendere i propri appartamenti,
ma nessuno ha i soldi per comprare.
Le banche sono tantissime. Alcune
sono argentine, ma la gran parte
sono straniere: Banco de la Nacion
Argentina, Banco Galicia, Banco
Sudameris, Banco Francés, Banco
Rio, Boston Bank, Citibank, Banca
Hsbc, Banca Nazionale del Lavoro
e molte altre. Qualche anno fa arrivarono
qui in massa, attratte dai mirabolanti
guadagni promessi dal sistema
ultra-liberista messo in piedi
dal presidente Carlos Menem. Oggi
tutte le banche vorrebbero chiudere
i battenti e scappare dal paese.
Gli istituti di Avenida Rivadavia
sono stati più fortunati di quelli localizzati
in centro, non lontano da
Plaza de Mayo. Là le banche si sono
trasformate in fortini assediati, qui
la gente si è limitata ad imbrattare
qualche vetrata: «bancos ladrones»,
«maldidos bancos».
A poca distanza dalla Banca Nazionale
del Lavoro, si dipana una
lunga fila di persone. Copre largamente
l’angolo della via che sbocca
su Rivadavia e si allunga per molti
metri fino all’entrata del Banco Piano.
Stretto tra un negozio di scarpe
e uno di elettrodomestici, a due passi
da un McDonald’s, il Banco Piano
non è un vero istituto di credito,
ma una «casa di cambio». E, in
quanto tale, ha meno restrizioni di
una banca normale.

ITALIANI
Mi avvicino per fare qualche domanda.
«Cosa vuole che le racconti?
– mi dice una coppia di signori
immigrati da Genova -. Lo può vedere
con i suoi occhi quello che sta
succedendo. Qui ci sarà la coda per
tutto il giorno, fino alla chiusura. La
gente ha lavorato tutta la vita, ha
messo i risparmi in banca ed ora che
succede? Le banche non ti restituiscono
il denaro. Il tuo denaro!
A Genova abbiamo fratelli e sorelle,
ma non toeremo in Italia,
perché, grazie a Dio, nostro figlio ha
un lavoro e così la sua famiglia».
Nel giro di pochi minuti si avvicinano
altre persone; quasi tutte parlano
o intendono l’italiano e vogliono
dire la loro.
«Tutta l’Argentina ormai è un manicomio.
Non si capisce più niente:
non c’è lavoro, non ci sono medicine,
non c’è cibo nel paese che era il
granaio del mondo. E i poveri sono
sempre più poveri, oltre che in costante
crescita…».
Un signore di una certa età mi tira
per la maglietta e mi mette sotto
gli occhi la sua carta d’identità. Leg-
go: Francesco Costanzo, nato a Reggio
Calabria.
«Arrivai in Argentina nel 1948.
Ma ho ancora molti familiari in Italia;
in Calabria, ma anche a Volpiano,
in provincia di Torino, dove vivono
i miei due nipoti». Pensa di
tornare in Italia, signor Francesco?
«Non ha visto quanti anni ho? Ne
ho 80. Comunque vada, ormai starò
qui».
La voce di Francesco è ferma, ma
gli occhi tradiscono l’emozione.

IL GRANDE FURTO
«Sono qui – racconta l’anziano immigrato
– per vendere i pochi dollari
che mi sono rimasti. Debbo vendere
per pagare i debiti, ma anche
per mangiare. Nessuno ha fiducia
nella nostra moneta, ma dopo la
“pesificazione” dell’economia non
c’è altra soluzione per vivere».
Quanto ha influito la parità tra peso
e dollaro in vigore dal 1991 fino
all’inizio di quest’anno? «La convertibilità
doveva essere una misura
temporanea per salvarci dall’iperinflazione.
Una volta raggiunto lo scopo,
avrebbe dovuto sparire e il cambio
essere flessibile, con il dollaro libero
di fluttuare».
Pare che in poco tempo siano usciti
dal paese qualcosa come 130
miliardi di dollari, una somma quasi
pari al debito estero argentino. È
così?, chiedo a Francesco.
«Già un anno fa, fiutando il crollo
del sistema, le imprese locali, le
multinazionali, i politici hanno iniziato
a portare all’estero i loro depositi
bancari. Altre somme rilevantissime
sono state prestate dalle banche
ad uno stato che si sapeva a rischio
insolvenza. A questo punto,
per evitare il crollo del sistema bancario,
il ministro Cavallo ha dovuto
instaurare il corralito, in base al quale
ogni correntista non può prelevare
il proprio denaro, se non in misura
minima».
E poi tutti i depositi in dollari sono
stati trasformati in pesos… «Ovvio,
i dollari sono oramai tutti fuori
dal paese. Tutta questa vicenda è un
grande furto ai danni del popolo argentino,
prima da parte del governo
e poi delle banche». Senza dimenticare
il Fondo monetario internazionale…
«Sì, ovviamente. Ma l’Fmi fa il suo
lavoro. Lui dice: io ti do i soldi a
queste condizioni. Chi è il Fondo
monetario? Gli stati più industrializzati,
che non ti danno mai nulla
per nulla».

ALLA RICERCA DI «UN» FUTURO
In Italia si fa un gran parlare
dei movimenti popolari dell’Argentina:
prima i piqueteros,
poi i cacerolazos.
Insomma, sembra che la
sventura abbia molto unito
la gente. Francesco, è d’accordo?
«No, non lo sono. Fino a poco
tempo fa, ognuno pensava soltanto
a se stesso e non si preoccupava degli
altri. Adesso inizia la solidarietà,
perché la crisi sta colpendo tutti i ceti
e non soltanto quelli più bassi.
Se il popolo fosse stato intelligente, i governi non avrebbero potuto
approfittae. E invece, finché c’era
da mangiare, nessuno si è interessato
della situazione. E i signori deputati,
senatori, presidenti hanno potuto
governare per i loro interessi».
La chiesa argentina che cosa fa?
«La chiesa sta cercando delle soluzioni
attraverso la cosiddetta “mesa
di dialogo”. Ma non si conclude nulla,
perché tutti si limitano a chiedere
sussidi. Come si fa a dare sussidi
se nel paese non c’è più niente! L’unica
soluzione per uscire dalla crisi
sarebbe di ridare agli argentini il lavoro
». Altrimenti la gente cerca di
abbandonare il paese…
«Se potessero – conferma Francesco
-, in tanti scapperebbero. Io sono
tornato due volte in Italia, nel
1986 e nel 1994. L’ho trovata molto
cambiata rispetto al 1948, anche se
il paese non ha le risorse naturali
dell’Argentina. Qui siamo appena in
36 milioni, ma per l’estensione potremmo
essere in 150. Eppure siamo
ridotti in miseria. Il perché si dovrebbe
chiedere ai nostri politici,
che sono… Ma lasciamo perdere; è
inutile dire cose che tutti sanno».
Ottant’anni, ma quanta grinta ha
ancora in serbo quest’uomo! Ancora
una domanda, Francesco: come
vede il futuro dell’Argentina?
«Ma quale futuro? Adesso non c’è
futuro in questo paese. Con il 25%
di disoccupazione e le fabbriche che
non ci sono più, che futuro può esistere?
Un paese che non produce e
non ha commercio, che cosa può fare?
Prova a domandare a questo ragazzo
che futuro ha…».
«È vero – risponde subito il giovane
interpellato -: qui nessuno può avere
un futuro e la gioventù meno
ancora. Hanno venduto tutto».
Sei uno studente?, chiedo. «No, in
questo momento lavoro, ma non so
per quanto tempo. Sono venuto a
sostituire mia nonna nella fila». Il
tuo nome? «Adrian».
Grazie Francesco, buona fortuna
Adrian.

«PATACONES»
Lascio la fila davanti al Banco Piano
e, a piedi, mi incammino lungo
Avenida Rivadavia.
C’è molta gente e si muove in fretta,
proprio come avviene nella maggior
parte delle città occidentali. Ma
poi le difficoltà del presente tornano
a manifestarsi. Come in quegli
avvisi appiccicati sulle vetrate dei
negozi: «Confianza en el pais: aceptamos
patacones».
Che sono i patacones? Il nome è
quasi onomatopeico ed evoca le patacche,
ovvero cose di nessun valore.
I patacones tecnicamente sono
dei «pagherò» emessi dalle tesorerie
delle province argentine; in pratica,
rappresentano la dimostrazione tangibile
del fallimento dello stato.
Come faceva quella famosa canzone?
«Non piangere Argentina…».

CACEROLA: è «la pentola da cucina»;
da cui il nome di «cacerolazo», manifestazione
di protesta popolare
durante la quale la gente si fa sentire
picchiando sulle pentole; ha avuto
un’eco internazionale con le
proteste del dicembre 2001
CORRALITO: letteralmente è «il recinto
»; il corralito bancario, introdotto
dal ministro Cavallo, limita
fortemente i prelievi bancari
da parte dei clienti, stimati in più
di 3 milioni; la misura, confermata
dal governo
Duhalde, mira ad evitare
il tracollo del sistema
finanziario
ESCHRACE: significa mettere
in piazza la storia di una persona
compromessa con la dittatura
militare, ma rimasta a
piede libero; sono varie le modalità
dell’eschrace: manifesti affissi
per le strade, assembramenti rumorosi
sotto la casa della persona,
ecc.
GATILLIO FÁCIL: letteralmente il «grilletto
facile» della polizia argentina,
mostrato anche durante le proteste
dello scorso dicembre (con
30 morti); nel 2001 hanno perso
la vita per spari «facili» delle forze
dell’ordine 220 persone
PATACONES: sono buoni cartacei emessi
dalle province argentine al
posto del denaro reale; attualmente
ci sono in circolazione 20
tipi di buoni (ciascuno con un proprio
nome), quasi uno per provincia
(sono 23 le province argentine)
PIQUETEROS: indica i disoccupati
che protestano con picchetti
che bloccano le
strade principali; il
movimento è
nato nel
1996, all’epoca delle privatizzazioni
del presidente Menem (*)
TRUEQUE: è una forma evoluta
di baratto; i «club di trueque
» (nodi) sono luoghi dove le
persone (produttrici e consumatrici
al medesimo tempo) si
scambiano beni e servizi senza utilizzare
il denaro (**)
VILLAS MISERIAS: così sono chiamate,
in Argentina, le baraccopoli alle
periferie delle città

(*) Dei «piqueteros» parleremo nella
puntata di luglio-agosto di questo reportage
dall’Argentina.

(**) Al «trueque» dedicheremo l’articolo
di settembre.

Paolo Moiola




L’ARGENTINA UCCISA DAL «TERRORISMO ECONOMICO»

Porto Alegre (Brasile). «Vorrei ricordare l’insegnamento
di un grande pensatore dell’antichità: se
vuoi la pace nel mondo, devi prima metterla nelle
tue idee; perché la pace sia nelle tue idee, deve esserci
pace nella tua famiglia; perché la pace sia nella tua famiglia,
ci deve essere pace nel tuo cuore».
Adolfo Perez Esquivel, argentino, premio Nobel per la
pace nel 1980, parla in una sala affollatissima al Forum
mondiale di Porto Alegre. Al termine, il professore, nato
a Buenos Aires nel 1931, si intrattiene sul palco sottoponendosi sorridente a flash, taccuini e registratori.
Come descriverebbe la situazione dell’Argentina?
«Siamo un paese potenzialmente ricco che ha dilapidato
un patrimonio. Abbiamo un debito estero enorme, che
non possiamo pagare, e la relazione matematica che ne
viene fuori è: “più paghiamo, più dobbiamo pagare, meno
abbiamo”. Non siamo poveri, ma impoveriti.
Non è possibile che in un paese grande produttore di alimenti ci siano persone che muoiono di fame. Avevamo
raggiunto un alto livello di educazione, invece ora abbiamo
molti analfabeti. Il 25% della popolazione è disoccupata.
È stata distrutta l’industria nazionale, la nostra
capacità produttiva.
Questa è una violazione dei diritti umani, economici, sociali e culturali di tutto un popolo. Ma quello che succede ora in Argentina potrebbe succedere ovunque».
Questa crisi mette a rischio la democrazia?
«Il fatto è che in queste condizioni la democrazia non esiste.
Cosa significa democrazia? Votare? Dovrebbe significare
diritti e uguaglianza per tutti e partecipazione
sociale. Ma cosa può fare la gente quando c’è una fuga
di capitali che io definisco terroristica e un governo che
vuole sequestrare i risparmi del popolo?».
Qual è l’origine della crisi?
«L’origine di tutto è il modello neoliberista imposto dal
Fondo monetario internazionale (Fmi) e dalla Banca mondiale
(Bm)».
D’accordo. Ma come si spiega che il nuovo governo
argentino sia subito corso a Washington, per chiedere
aiuti a quegli stessi soggetti?
«È vero. Il governo da una parte ha imposto a noi argentini
il “corralito”, congelando i soldi del popolo, e dall’altra
è corso a chiedere prestiti a Washington.
E non sapete a quali condizioni! La condizione del governo
degli Stati Uniti e del Fmi per consegnare i fondi
(che speriamo non consegni) è che l’Argentina voti contro
Cuba nella Commissione Onu dei diritti umani a Ginevra
(aprile 2002) (1). Questo fatto è di una immoralità
totale, assoluta, inaccettabile. Ma c’è anche un’altra condizione,
perché questi signori non si accontentano: sono
molto esigenti.
La seconda condizione è che l’Argentina entri nell’“Accordo
di libero commercio delle Americhe” (Alca)».
Cosa comporterebbe questo passo?
«Entrare nell’Alca significa che verranno distrutti gli apparati
produttivi (o quello che ne resta) dei nostri paesi;
salteranno tutti gli accordi regionali, come il Mercosur,
il Patto Andino e quello dei Caraibi; e gli Stati Uniti avranno l’egemonia sull’America Latina.
Tutto questo spiega anche l’attuale rimilitarizzazione
del continente. Intanto,
truppe di Washington sono già presenti
in Colombia nel quadro del “Plan Colombia”,
con il concreto rischio di creare
un altro Vietnam».
Lei parla di cause estee al paese; ma
non ci sono anche responsabilità argentine?
«Certamente: nessuno può imporre alcunché
se non glielo si permette. Nel
paese c’è una corruzione assoluta. Per
questo gli argentini non credono più alla
classe politica.
I politici sono le persone che diedero i superpoteri
al ministro dell’economia Cavallo, quelli che
permisero le privatizzazioni, sia con il governo di Menem
sia con il governo di De La Rua. Ci sono lettere che io ho
mandato a De La Rua dove tutto questo è scritto in modo
molto chiaro; in particolare, nell’ultima gli dissi: “Lei
sta cospargendo il pavimento di benzina, alla prima occasione
s’incendia il paese”. Dopo un mese, avvenne proprio
questo».
Lei parla spesso di «terrorismo economico»…
«Quando la Fao segnala che oltre 35.600 persone muoiono
di fame nel mondo ogni giorno, questo è “terrorismo
economico”. L’11 settembre dell’anno scorso eravamo
con il governatore, qui a Porto Alegre, per lanciare il Forum.
Quel giorno si verificò l’attacco terrorista contro
New York e Washington. Quindi, il dato della Fao passò
completamente sotto silenzio sui mezzi di comunicazione
internazionale, perché tutti si concentrarono sugli attentati
negli Stati Uniti.
Io credo che la guerra abbia molti campi di battaglia e uno
di questi sono i popoli: cercano di neutralizzarci. Per
arrivare a questo ci sono molti modi: limitare o togliere
il diritto alla salute e all’educazione; utilizzare il ricatto
della disoccupazione. Questo capitalismo non riesce a
riformarsi per una semplice ragione: è nato senza cuore.
E senza cuore non si ha la capacità di amare».
Ha ancora un senso l’organizzazione delle Nazioni Unite?
«Credo che le Nazioni Unite siano state destituite dal potere
egemonico degli Stati Uniti, che hanno imposto le
loro condizioni. Si pensi che gli Usa non vogliono ratificare
il “Tribunale penale internazionale” (2); in compenso
hanno istituito tribunali militari per quelli che loro considerano
terroristi».
Allora, professore, un mondo in pace è un’utopia o una
possibilità reale?
«Io dico: sì, è possibile, nonostante tutte le difficoltà di
questi anni, nonostante la corsa agli armamenti, nonostante
la povertà. È possibile costruire un mondo in pace
se noi siamo disposti a renderlo possibile… Io cito
spesso gli studenti del ’68 in Francia. Essi dissero una
cosa che dobbiamo tenere presente: “Siamo realisti, vogliamo
l’impossibile”».
Ci dia qualche suggerimento più concreto…

«Dobbiamo sviluppare la creatività, il senso della vita, la
solidarietà e per questo dobbiamo unire le volontà: i popoli
vogliono la pace non la guerra, non vogliono le armi
ma costruire una vita più giusta per tutti.
Perché crediamo che non sia possibile? Siamo paralizzati
dalla paura e se abbiamo paura non possiamo conquistare
la pace. Perché crediamo che non sia possibile
affrontare la dittatura economica e finanziaria del Fondo
monetario e della Banca mondiale? Perché siamo paralizzati?
Voglio fare un esempio concreto: nella seduta del Tribunale
dei popoli abbiamo parlato del debito estero (un problema
che sembra destinato a perpetuarsi per l’eternità),
per cercare di comprendere il meccanismo di dominio internazionale.
Ebbene, sarebbe possibile superare il problema del debito
estero-eterno, ma noi ci sentiamo prigionieri, senza
volontà: ci hanno fatto credere che sia impossibile venie
fuori.
Invece, sarebbe possibile se i popoli di America Latina,
Africa e Asia avessero il coraggio di unirsi e di dire basta.
Se diciamo basta, non ci dobbiamo preoccupare noi;
si deve preoccupare la Banca mondiale e tutti i centri della
finanza internazionale».
Quella stessa finanza internazionale che in questo
momento sembra voglia lasciare l’Argentina al proprio
destino. Lei non teme un intervento militare, un
colpo di stato?

«No, non credo accadrà. Ma certamente noi dobbiamo
vigilare e lavorare per favorire una soluzione democratica
».

NOTE:
(1) Il riferimento è alla sessione annuale della Commissione Onu
per i diritti umani, riunita a Ginevra dal 18 marzo al 16 aprile.
(2) Il «Tribunale penale internazionale» delle Nazioni Unite è nato
a Roma il 17 luglio 1998. A 4 anni di distanza dall’approvazione
dello statuto, il trattato istitutivo è stato ratificato da 66
paesi. Sono assenti paesi importanti, tra cui Cina, Russia, Israele
e, appunto, gli Stati Uniti.

Paolo Moiola




SANTONI, DEE BAMBINE E CIOTOLE DI RISO

L’India del Gange, il Nepal della dea «Kumari»,
il Vietnam delle tribù. Istantanee da tre paesi asiatici,
osservati e fotografati con grande interesse. Rispettando e apprezzando le diversità religiose e culturali.

S ono partita con l’amico
RENZO MILANESIO,
scrittore ed esploratore.
Destinazione: Varanasi, città
santa dell’India. Abbiamo
proseguito verso Katmandu,
capitale del Nepal. Siamo stati
anche in Vietnam, con un
itinerario da Hanoi ai villaggi
nord-occidentali abitati da
minoranze etniche.
Renzo ed io viaggiamo sempre
alla scoperta di nuove realtà. I
nostri ultimi viaggi ci hanno
fatto percorrere la grande steppa
della Mongolia.
Ed è ancora l’oriente la nostra
meta, con l’obiettivo di ritrarre la
vita infantile. L’esperienza
rientra in un progetto, ideato da
Renzo, che ha come protagonisti
i bambini nel mondo: la loro
condizione e quotidianità,
nonché il futuro che loro si
prospetta.
Abbiamo ammirato bambini
dagli occhi grandi camminare
sicuri e liberi per i sentirneri della
loro terra, abbiamo assistito ai
loro giochi fantasiosi. Abbiamo
constatato il loro ruolo sociale
nel lavoro dei campi, nella cura
degli animali, nelle faccende
domestiche. Abbiamo lasciato
una parte del nostro cuore a chi
ha bisogno di tenerezza e amore.
L’oriente, respirando i profumi
e l’atmosfera densa dell’India o
percorrendo le strade tortuose
del Vietnam, ci ha fatto
conoscere altri stili di vita,
rivelandoci l’essenza di culture
diverse. La cultura, che è
l’insieme delle manifestazioni
della vita materiale, sociale e
spirituale di un popolo, può
essere studiata in libri, ascoltata
in racconti o osservata nelle
scelte delle persone di fronte alla
loro esistenza.
Conoscere le culture di altri
popoli è un’esperienza che
arricchisce mente e spirito e
permette di comprendere le tante
possibilità di realizzazione di
ogni essere umano.

IL FIUME DELLA PURIFICAZIONE

Varanasi, nella regione dell’Uttar
Pradesh, sorge sulla riva del fiume
Gange ed è uno dei luoghi sacri
dell’India. È una città santa sia per
l’induismo sia per il buddismo: infatti
nella mitologia induista si ritiene
che la terra dove sorge la città sia
stata generata, nella notte dei tempi,
dagli dèi Shiva e Parvati; mentre a
10 chilometri da Varanasi, nel villaggio
di Saath, si recò il Budda,
dopo aver raggiunto l’«illuminazione
», per diffondere il suo messaggio.
Importante centro culturale da 2
mila anni, Varanasi è antichissima;
alcune sue descrizioni compaiono in
testimonianze buddiste e nel poema
epico induista Mahabharata, composto
tra il IV secolo a.C. e il IV secolo
d.C.
Varanasi era conosciuta in passato
con il nome di «Kashi», città della
luce spirituale (da kas, splendere).
In seguito fu chiamata Benares. Il
nome indù, Varanasi, si riferisce alla
posizione della città tra i fiumi Varana
e Assi. È dedicata a Shiva, dio
dalle infinite manifestazioni che, all’interno
della «trimurti» (Brahma,
Visnu e Shiva), crea e distrugge. Per
questo Shiva è considerato il dio della
morte.
Per gli induisti morire a Varanasi
è di enorme importanza, perché significa
congiungersi a Shiva e mettere
così fine al ciclo delle rinascite
o samsara. La morte è il passaggio ad
un’altra vita o la cessazione dell’esistenza
nel mondo; pertanto è «vissuta
» come un nuovo inizio e una
possibilità di evoluzione.
Ogni giorno a Varanasi giungono
centinaia di pellegrini per bagnarsi
nelle acque del Gange e purificarsi
dai loro peccati: bambini, donne e
uomini siedono sulle scalinate che
conducono al fiume, portando vestiti
da lavare, fiori da offrire; lasciano
che l’acqua invada ogni parte del
corpo e pregano in silenzio; stanno
insieme senza parlare, ognuno compreso
della sua pace interiore. Sui
volti si scorge un’espressione di serenità
e di consapevolezza dell’importanza
del momento.
Percorrendo il fiume con una barca
a remi, è possibile avvicinarsi alle
gradinate o ghat (ce ne sono 840).
Di solito si parte da Dasaswamedh
Ghat, il ghat principale. Qui, sotto
ombrelloni, i bramini siedono su un
tappetino con il necessario per celebrare
i rituali: fiori, riso, lumini e una
polvere rossa con cui tracciano
un segno di benedizione sulla fronte.
I sadhu (santoni) stanno accovacciati
in disparte: hanno una veste
colore zafferano, una lunga barba e,
spesso, il corpo è cosparso di cenere;
sono girovaghi e conducono una
vita austera; ma, per farsi fotografare,
allungano la mano e con lo sguardo
lasciano capire che l’offerta è doverosa.
Allorché, dalla riva opposta del
Gange, il sole inizia a sorgere e una
scia luminosa attraversa l’acqua, chi
è di spalle si volta e saluta l’astro nascente.
Il gesto commuove.
Lasciato il ghat principale e spostandosi
a destra si giunge ai buing
ghat, cioè i luoghi dove avvengono
le cremazioni dei cadaveri. Non è rispettoso
avvicinarsi troppo, ma si riconoscono
immediatamente per il
fumo e le cataste di legna. Ogni pira
ammassa 550 chili di legno, il cui
costo è abbastanza elevato.
La cremazione è il rito funebre induista
attraverso il quale il corpo ritorna
agli elementi di cui è composto.
Vengono in mente le parole di
una liturgia cattolica: «Ricordati che
sei polvere e polvere ritoerai».
Il rito è in parte sconcertante, perché
avviene a poche decine di metri
da un gruppo di ragazzini che giocano
tra una fila di panni stesi ad asciugare
e centinaia di persone che
compiono abluzioni: proprio come
se non ci fosse un confine tra vita e
morte, ma tutto appartenesse ad un
ciclo che continua a scorrere.
È altresì importante ricordare che
la composizione batteriologica dell’acqua
del Gange è stata studiata da
numerosi scienziati. È infatti difficile
accettare la «purezza» di un fiume
che ospita brandelli di cadaveri,
schiume di saponi ed escrementi di
vacche e bufali (anch’essi si lavano).
Ebbene, prelevando un campione
d’acqua per lasciarlo in un barattolo
chiuso, si è accertato che solo dopo
due anni nascono dei microrganismi
e il liquido incomincia a marcire.
La mattinata è trascorsa. Nel pomeriggio
la vita continua sulle
sponde del Gange. Dopo alcune ore
trascorse in questo luogo magico,
anche i venditori ambulanti sembrano
essersi stancati di offrire la loro
merce. «Bei colori con timbrini…
Ah, italiano! Bene, compra: colori
bellissimi…».
Mi domando come avrà fatto questo
ragazzo ad acquisire un accento
così spiccatamente romano. Ma il
turismo fa miracoli… Sono simpatici
questi venditori: sembrano più
appagati dall’intrattenere lo straniero
che dal fare affari.
Per il visitatore occidentale assistere
a scene di povertà crea un forte
senso di colpa. Si è abituati a pensare
che chi non possiede un paio di
scarpe o chi ha una maglietta logora
sia infelice. Personalmente ritengo
che chi sa vivere senza possedere
troppo conosce sicuramente la felicità.
Per noi, provenienti da una società
in cui l’economia detta legge, il
denaro è diventato indispensabile:
sarebbe impossibile immaginare una
vita senza soldi. Certamente il
denaro è una risorsa importante:
senza di esso non avrei potuto, per
esempio, compiere l’esperienza che
sto descrivendo. Ma la ricchezza interiore,
in occidente, non sembra essere
cresciuta in modo proporzionato
a quella esteriore.
Culture diverse, mi dico. Da un
lato, la cultura occidentale, che
ha rivolto attenzione ed energia, studio
e ricerca all’esterno e ha ottenuto
progresso, scienza, tecnologia, dimenticando
però i valori propri dell’umanesimo;
dall’altro, la cultura
orientale, che ha coltivato il sé interiore,
raggiungendo una profondità
spirituale… a scapito di impianti fognari,
tubature idrauliche, cure mediche
e alfabetizzazione.
Riconoscere le contraddizioni e
superarle in una visione d’insieme è
crescere. E sapere che ogni esistenza
ha un senso e un fine, perché appartiene
alla Vita ed è mossa dall’Energia
che tutto permea, significa diventare
consapevoli…
Varanasi mi ha accolta, chiedendomi
di restare in ascolto. Qualcosa
è accaduto dentro di me ed io continuo
ad ascoltare, in silenzio.

UNA BAMBINA DIVENTTA DEA

I monti innevati e l’aria pungente
ricordano che il Nepal è, soprattutto,
l’Himalaya. I volti delle persone
hanno segni indiani, ma gli occhi
allungati guardano ad… oriente.
AKatmandu, capitale del paese,
arriviamo con cinque ore di ritardo
e il dubbio che un importante appuntamento
sia stato annullato. Ma
la guida contattata che ci aspetta all’aeroporto
ci rassicura: «Sì, visiteremo
anche la Kumari, sebbene l’incontro
fosse stato fissato per la mattina».
La Kumari è una bambina dea. È
ritenuta la reincarnazione della
dea Durga, una delle manifestazioni
di Devi o Parvati, così come di
Kali. Durga e Kali impersonano
la forza distruttrice della divinità;
Durga viene spesso raffigurata
a cavallo di una tigre o un
leone che sconfigge i demoni;
rappresenta la potenza dell’energia
femminile.
Esistono delle leggende sulla
nascita della Kumari e sul perché
una bimba sia onorata quale
dea durante la sua infanzia.
La tradizione risale, con probabilità,
all’epoca di Jaya Prakash
Malla, l’ultimo sovrano della
stirpe Malla, il cui regno finì nel
1768. Però non ci sono certezze.
Ciò rende ancora più inspiegabile
e misteriosa la presenza
della dea bambina.
«Kumari si diventa», se una
bambina (anche di soli quattro
anni), candidata dalla famiglia,
ha un quadro astrale in armonia
con l’oroscopo del re del Nepal,
possiede 32 requisiti fisici (dal
colore degli occhi alla perfezione
della pelle, senza nei e cicatrici)
e se supera una prova. Ovvero:
si porta la bimba in una stanza
buia, dove sono stati sgozzati
degli animali e alcuni uomini, camuffati
con teste di animali e ossa,
cercano di spaventarla; se nella
bambina è presente Durga, essa
chiaramente non si spaventa.
La Kumari ha un ruolo religioso:
consacra il re durante una
cerimonia nel mese di settembre
e benedice chi si rivolge a lei
(ormai è diventata un importante
simbolo); per il resto delle giornate
vive in casa con la famiglia, lontana
dai giochi degli altri bambini.
Quando la bambina diventa donna
(con la comparsa delle mestruazioni),
se per un incidente perde del
sangue o se, mentre è portata sulla
portantina ad incontrare il re, cade
e tocca il suolo con i piedi, cessa di
essere Kumari… La vita di un’ex Kumari
è simile a quella di una ragazza
coetanea, ma con maggiori possibilità,
perché l’offerta a lei elargita è una
dote sostanziosa, da investire per
studiare o intraprendere un’attività
commerciale.
Una (dea vivente) indica che siamo
arrivati. La porta è stretta e il soffitto
dell’anticamera basso; tutto è
buio. Dopo esserci tolti scarpe e cinture
di cuoio, saliamo una scaletta a
pioli di legno e ci troviamo al secondo
piano in una stanza dipinta di azzurro,
dalle pareti tappezzate di foto
di ex Kumari e nuove Kumari.
In questo frangente vengo a sapere
che di Kumari ne esistono attualmente
tre: una a Katmandu (la
Kumari Royal, la più importante,
impossibile da incontrare se non si
è induisti o buddisti), una a Bhaktapur
e una a Patan.
Noi siamo a Patan, in presenza di
una bambina di sette anni, vestita da
principessa e dallo sguardo immobile.
Seduta su una specie di trono,
la Kumari non parla; la madre e la
nostra guida rispondono e traducono
eventuali domande.
Chiedo se, tra le mura domestiche,
la bambina viene chiamata
con il suo nome o Kumari; mi rispondono:
«Kumari!». Chiedo
quale consapevolezza ha la
bambina di essere una dea, e la
risposta è che la consapevolezza
nasce da ciò che gli altri vedono
in lei.
Non c’è niente da fare, penso. È
proprio una dea, e la osservo.
Poi mi guardo intorno meravigliata
di questo strano e unico
posto in cui sono capitata. Evidentemente
lei mi trova buffa,
perché, dopo istanti di silenzio,
un sorriso un po’ malizioso
compare sul suo viso imperturbabile.
«Ce l’ho fatta!» mi dico!
Almeno è dimostrato che è viva!
Prima di andarcene, la Kumari
accetta di benedirci: uno alla volta
ci inginocchiamo; con un gesto
veloce e sicuro applica sulla
nostra fronte una tintura grumosa
di colore rosso e depone
sulle nostre mani fiori e riso
spruzzati d’acqua, che poi riprende
e pone in un piattino di
ferro.
Facciamo l’offerta, grati per la
benedizione, oltre che per l’esperienza:
infatti pare che la Kumari
possa rifiutarsi di benedire
e che ciò comporti gravi disgrazie.
Per questo motivo l’ultimo
discendente della stirpe dei Malla
perse il trono e la vita.

TRIBÙ DI MONTAGNA
Una canna di bambù che sorregge
una ciotola di riso: così i vietnamiti
descrivono la forma del perimetro
della loro terra… Siamo, dunque,
in Vietnam.
Da Katmandu ad Hanoi, capitale
del paese, ci sono poche ore di volo.
Durante il viaggio cerco di immaginare
la prossima destinazione. Per
me pensare al Vietnam è ricordare
film di guerra, villaggi incendiati da
bombe al napalm e il coraggio di un
popolo. La guerra contro il dominio
della Francia a Dien Bien Phu
(1946-1954) e quella contro gli Stati
Uniti negli anni 1960-70 sono difficili
da dimenticare. Di tale passato
sono visibili gli elmetti verdi e le divise
militari che gli uomini ancora
indossano.
Della colonizzazione francese, allorché
il Vietnam si chiamava Indocina,
si trova traccia nell’architettura
delle case e nei caratteri dell’alfabeto.
Poiché la scrittura con ideogrammi
è stata sostituita dall’alfabeto latino,
è possibile leggere i cartelli lungo
le strade… e capisco che com pho
significa ristorante. Quando si leggono
queste due parole, è assicurata
una ciotola di riso o di noodle
(spaghetti orientali). I com pho sono
tanti: un’insegna ben visibile, qualche
tavolino e sempre qualcuno che
mangia.
Insieme agli involtini vegetariani,
e all’immancabile riso, ordino patatine
fritte (unica pietanza di provenienza
occidentale), ma senza maionese
o ketchup: ogni cibo si intinge
nel chili o in una salsa di soia utilizzando
bastoncini di legno… anche se
per gli stranieri più imbranati arriva
in soccorso una forchetta.
Da Hanoi imbocchiamo la statale
numero 6. Il primo tratto è
asfaltato, ad una corsia e a doppio
senso di circolazione. Mentre il paesaggio,
dalle dolci sfumature di verde
e i grandi specchi d’acqua delle
risaie in cui si riflette il cielo, è rilassante,
la strada è alquanto ingrata.
Dopo circa otto ore, siamo a Bac
Ha, con la sensazione di essere stati
velocemente «centrifugati» ad acqua
fredda! Infatti la temperatura è scesa
notevolmente e fa freddo; ma le
stelle sono così tante e splendenti
che ci riscaldano occhi e cuore.
Abbiamo deciso di invertire l’itinerario
abituale: siamo partiti per il
nord per scendere verso ovest, perché
a Bac Ha, prima tappa, si tiene
alla domenica un mercato che riunisce
numerosi abitanti della zona.
Non vogliamo perderlo.
Dalle montagne scende la gente,
chiamata montagnard dai francesi;
ha vestiti coloratissimi e porta in gerle
di bambù cibo, oggetti e animali
domestici da vendere.
Il mercato prende vita al mattino
presto. Ognuno dispone la sua mercanzia;
gli animali vengono radunati
in un’area a parte; al centro, sotto
un porticato, si imbandisce un banchetto
a base di carne, sanguinaccio,
da fumare collettivamente e da aspirare
poco, per non tossire troppo!
Nessuno parla inglese o francese,
ma con gesti è possibile comunicare
e contrattare il prezzo di ogni merce.
Le tribù del Vietnam nordoccidentale
sono in maggioranza di
origine cinese; hanno subìto diverse
persecuzioni e, durante il dominio
francese, furono espropriate del loro
territorio.
Un tempo gli abitanti erano seminomadi,
con un’agricoltura che si
avvaleva di terreni montagnosi disboscati,
bruciati e coltivati per un
breve periodo; poi lo stato ha cercato
di convincerli a scendere verso le
pianure e a praticare un’attività sedentaria.
Oggi la popolazione vive isolata
e coltiva la terra, tenendo per
sé la parte del raccolto necessaria al
sostentamento; il resto è proprietà
dello stato; alleva animali, costruisce
case, fabbrica utensili e confeziona i
capi di abbigliamento che indossa.
I vietnamiti considerano «selvaggi
» i tribali, perché alle città preferiscono
le montagne, lontani dalla civilizzazione…
I tribali sono semplici,
schivi, riservati, avvolti in abiti
sapientemente intessuti e decorati;
custodiscono e si tramandano le tradizioni.
Nei loro villaggi sembra che
il tempo si sia fermato. Ma ecco il ritratto
di Ho Chi Minh (l’anima della
lotta contro gli Stati Uniti) o la foto
sbiadita di un parente scomparso
in guerra: ricordano che anche le
tribù hanno partecipato alla storia
del Vietnam.
Il vietnamita è laborioso, pragmatico,
guarda al futuro con speranza;
è ricco di sole e acqua, di foreste
e montagne coltivate come mosaici
dalle morbide geometrie. È un contadino
nascosto da un cono d’ombra…
Il Vietnam è pure il cimitero di
Dien Bien Phu, con 2 mila lapidi
senza nome. È un popolo che, nei
grandi conflitti che agitano
il mondo, rimane al
centro della vita.

La reincarnazione, sebbene esistano varie interpretazioni, è il ciclo di esistenze
attraverso il quale si manifesta l’energia cosmica cui ogni essere è
sottoposto per poter tornare alla fonte originaria.
Il karma (legge di causa ed effetto) è il principio che guida il ciclo delle
reincarnazioni; in base a come un essere si è comportato nella sua esistenza,
si reincarnerà in una forma o in un’altra nella vita successiva. Strettamente
connesso al karma, perché da questa legge è determinato, è il sistema
castale. Quattro le caste in cui si divide la società indiana. Ancora
oggi alcuni divieti che il sistema in caste impone, come il matrimonio tra
uomo e donna di caste diverse, sono ritenuti immodificabili, come una legge
di natura.
Il dharma è la legge del dovere, il dovere di ogni essere di accettare, agire
e compiere il proprio destino per poter evolvere spiritualmente.
Questi concetti non appartengono ad un sapere filosofico speculativo,
ma sono linee guida per la condotta quotidiana.

Alessandra Bocchi