PERÙ viaggio nelle carceri

LA DIGNITÀ SEQUESTRATA

Dopo il decennio di Fujimori, da due anni il Perù è tornato alla democrazia.
Ma nelle carceri la strada da percorrere è ancora lunga.

«VENGO DALL’ITALIA.
VORREI VISITARE IL DETENUTO…»

Un’insegnante di italiano passa dalle conversazioni
con i genitori dei suoi alunni a quelle con i detenuti
nelle carceri del Perù.
Un’esperienza «sconvolgente, ma anche arricchente
e stimolante».

di Franca Pesce (*)
(*) Laureata in lettere all’Università cattolica
di Milano, FRANCA PESCE è insegnante
di italiano a Torino. Dall’anno
del giubileo si occupa della situazione
nelle carceri peruviane, aiutata
anche dai figli Melissa ed Alessandro.
Fa parte dell’associazione «Yanamayo»,
con sede a Vicenza.
Dall’anno del giubileo sono
entrata in corrispondenza
con alcuni prigionieri politici
peruviani del Movimento Rivoluzionario
Tupac Amaru (M.R.T.A.),
che nel luglio scorso sono andata a
visitare, per rendermi conto della situazione
che mi veniva esposta attraverso
le loro lettere.
È stata un’esperienza sconvolgente,
ma anche arricchente e stimolante,
da cui ho tratto insegnamenti
morali ed umani che oggi cerco
di comunicare e condividere con
i miei alunni.
Il Perù sta vivendo in una democrazia,
ma mantiene in carcere numerosi
prigionieri politici processati
da tribunali militari in base a leggi
emanate durante la dittatura di
Fujimori. Spesso la detenzione si
svolge in carceri situate lontano dai
luoghi d’origine e crea quindi difficoltà
oggettive per la visita dei familiari.
Lo stato sembra presente solo nel
suo aspetto repressivo: non riconosce
i suoi torti e non risarcisce, se
sbaglia. Chi è povero non può difendersi
da accuse ingiuste, perché
non può permettersi di assumere un
avvocato che si occupi del suo caso.
In un paese che oggi vuole giustamente
essere definito democratico,
si continuano a costruire carceri,
si reprime, ma non si eliminano
le cause del malessere sociale e
non si aiuta chi si trova in difficoltà.
Durante il mio viaggio, ho avuto
l’opportunità di visitare alcune carceri
(a Lima, Chorrillos, Chimbote,
Trujillo, Chiclayo) e parecchi prigionieri
politici del movimento Mrta,
osservare la loro situazione e
quella dei loro visitatori.
Queste sono alcune delle impressioni
che ne ho ricavato.

L’UMILIAZIONE
DELLE PERQUISIZIONI

All’entrata delle carceri le difficoltà
sono nate dall’arbitrio delle
guardie che quasi sempre cercano
di creare problemi, di intimidire i
visitatori e scoraggiae le visite.
Il giorno in cui mi sono recata al
carcere (penal) di Castro Castro a
Lima (dove ho visitato Juan Antonio
Leon Montero, Maximo Gargate
Cerda ed altri), quando ho presentato
i miei documenti al primo
controllo, non mi è stato reso quello
attestante il mio soggiorno. Alla
mia richiesta di restituzione, la
guardia ha finto di cercare e poi me
l’ha porto.
Alla porta d’ingresso, invece, si è
presentato il problema di una torta,
acquistata poco prima; essa non poteva
entrare perché, a detta della
guardia, poteva contenere droga. In
seguito alla mia richiesta di parlare
col direttore, mi è stato detto che avrei
dovuto tagliarla. Alla fine, la
torta è stata fatta passare intatta.
Alcuni giorni dopo, il problema si
è presentato con alcuni libri che io
avevo fotocopiato. Erano libri foitimi
da un interno e dunque portavano
già la stampigliatura della revisione
carceraria. Eppure mi hanno
detto che dovevano essere
sottoposti ad una nuova revisione.
Forse, per evitare questi inconvenienti,
avrei dovuto essere più gentile
facendo «cadere» o «perdendo»
qualcosa…
La perquisizione corporale viene
fatta da personale femminile, ma sovente
il suo comportamento umilia
chi subisce il controllo: madri, sorelle,
fidanzate, amiche dei carcerati.
Una madre mi ha confidato che si
possono subire palpeggiamenti osceni.
In un’occasione lei non ce
l’ha più fatta e ha reagito dando uno
schiaffo alla guardia e dicendole
che avrebbe dovuto vergognarsi e
pensare a che cosa proverebbe se
un domani accadesse a lei una cosa
simile.

MATRIMONIO NEL CARCERE
DI CHORRILLOS

Anche per entrare nel carcere
femminile di Chorrillos, alla periferia
di Lima, ho dovuto affrontare
qualche discussione.
Una guardia mi rispondeva dallo
spioncino, ma mi negava l’entrata.
Alle mie insistenze, è stato chiamato
un superiore.
Egli, evidentemente lusingato di
parlare con un’italiana, prima si è
intrattenuto con me a discutere di
mafia, di Roma e Venezia, di vini,
poi mi ha fatto entrare. Ringalluzzito,
ha dichiarato che le italiane sono
belle. Io ho risposto che anche le
peruviane lo sono, così come i peruviani. Ormai conquistato, finalmente
mi ha portato dalle detenute,
che ormai temevano avessi rinunciato
a visitarle.
Mi sono intrattenuta con loro:
Carolina Curahua Huerta, sua sorella
Delia, Hormecinda Feandez
Bravo, Lucinda Rojas Landa, Lucy
Garcia Lopez, Marcela Gonzales
Astudillo, Maria Concepcion Pincheira,
Milagros Chavez Gonzales,
Mirka De La Pietra Oliva, Nancy
Cuyubamba Puente, Pilar Hinojosa
Tellez, Yanire Bautista Saavedra,
Yolanda Cruz Santillan.
Tutte erano contente di vedere una
persona che arrivava da tanto
lontano e avevano un atteggiamento
dolce ed affettuoso.
Una di loro, la cilena Marcela, si
era sposata la settimana prima con
un suo amico d’infanzia, anch’egli
cileno, con una cerimonia officiata
dal cappellano, il comboniano padre
Luigi Gasparini, che le seguiva
con dedizione da anni (ma che, purtroppo,
pochi giorni dopo sarebbe
stato trasferito negli Stati Uniti, interrompendo
un lavoro di autentica
solidarietà cristiana e lasciando
un grande vuoto tra coloro che ne
avevano ricevuto aiuto e attenzione).
La cerimonia è stata molto
commovente, mista a sorrisi e lacrime.
Quasi tutte le settimane lo sposo,
innamoratissimo, si reca dal Cile
a visitare sua moglie, con cui non
può avere alcun momento di intimità,
in quanto alle donne è impedito
appartarsi da sole con uomini,
anche se questi sono mariti o fidanzati.
Le visite avvengono in presenza
di una guardia, che ne controlla
la «moralità».
Nelle carceri maschili, invece, tali
impedimenti non esistono, ma
spose, fidanzate e anche prostitute
possono entrare nelle celle degli uomini,
senza «controlli».

SOLTANTO
CON MENTE E CUORE

Al Penal Cambio Puente di Chimbote,
una prima guardia mi ha chiesto
soldi per l’acquisto di una scopa;
da una seconda guardia mi sono
stati chiesti 20 soles per articoli
di pulizia per i carcerati. Ho rifiutato,
chiedendo di poter parlare col
direttore, che però non era presente.
Mi sono allora avviata verso un
breve corridoio, stretto tra il muro
dell’ufficio e una parete di maglie di
ferro. La guardia mi ha richiamata,
dicendomi che non potevo stare lì,
perché pericoloso.
Le ho risposto che non capivo cosa
ci fosse di pericoloso, in quanto
non ero armata, ma soltanto dotata
di mente e cuore. Ho dovuto comunque
tornare indietro. Nel frattempo,
però, la mia presenza era
stata notata dagli interni, detenuti
comuni, che avevano iniziato a protestare
perché potessi visitarli. Grazie
a loro mi è stato concesso di accedere
al patio e parlare a lungo con
alcune intee (Anatolia Falceto,
Nelida Mundaca Diaz, Celina
Saenz ) e uno sfortunato marocchino,
Barry Palhavi Amar.
Mi ha colpito vedere che si aggirava
in mezzo a loro un bambino di
circa 5 anni, anche lui prigioniero in
quanto figlio di una detenuta, che
non aveva alcun familiare che si occupasse
di lui.
Quando sono entrata nel Penal El
Milagro di Trujillo, a non andare bene
erano le mie scarpe da ginnastica
color rosa. Ho chiesto spiegazioni
e mi è stato nuovamente risposto,
in tono arrogante, che non sarei potuta
entrare con quelle scarpe. Ho
protestato, chiedendo di parlare
con un superiore; mi è stato detto
che dovevo risolvere il problema
con la guardia. Alla fine, al gesto di
togliermi le calzature, mi è stato
permesso di entrare con le stesse ai
piedi.
A Trujillo ho visitato, nella parte
maschile, Moises Sancez, Victor Saquinaula,
Alberto Huaman e, nella
parte femminile, la signora Victoria
Salgano, moglie di Victor Saquinaula.

EMILIO, IL DETENUTO
CHE AMAVA L’ITALIANO

I problemi maggiori si sono presentati
nel Penal Picsi di Chiclayo,
dove ho incontrato Edisson Mori
Barrientos, Oscar Ordonez Huaman
e soprattutto Emilio Villalobos
Alva, ingegnere di 46 anni, condannato
all’ergastolo, molto interessato
alla lingua italiana e alla nostra
cultura.
In questo carcere le guardie spesso
attuano perquisizioni corporali
umilianti, che hanno indotto i detenuti
a protestare e ottenere che la
perquisizione avvenga solo alzando
gonna e camicetta e mostrandosi in
mutande e reggiseno.
Per quanto mi riguarda, i problemi
maggiori sono venuti dallo stesso
direttore del carcere, comandante
Victor De la Cruz Chafalote. Cosa
ha fatto il direttore? Di tutto pur
di rendere difficile il mio incontro
con i detenuti e, soprattutto, impedirmi
l’insegnamento dell’italiano e
della nostra cultura attraverso lezioni,
libri e videocassette. Mi ha indignato
che, invece di favorirlo, il
direttore e personale di guardia fossero
impegnati ad annientare il progresso
spirituale e culturale dei carcerati,
nonché a umiliare e allontanare
i loro familiari.
Per la mia ultima settimana, Emilio
Villalobos Alva aveva richiesto
che io potessi entrare al di fuori del
giorno di visita (permesso che viene
normalmente concesso a familiari
ed amici che vivono lontano e
che raramente possono recarsi in visita).
Il direttore Chafalote non ha stilato
alcun permesso scritto, ma verbalmente
ha consentito che io potessi
entrare il lunedì, martedì, giovedì,
venerdì seguenti.
Purtroppo il lunedì, non essendoci
un permesso scritto, mi hanno
fatto attendere per circa due ore al
primo posto di controllo. Poi, anche
a seguito di proteste fatte dagli
interni del carcere, sono entrata, ma
ho chiesto chiarimenti al direttore.
Questi, in presenza dei suoi collaboratori,
mi ha assicurato che l’indomani
sarei potuta entrare dalle 10
alle 11.
Il giorno dopo, però, presentatami
puntuale alle 10, mi hanno fatto
attendere perché non esisteva un
permesso scritto. Verso le 11,30 è
arrivato il direttore: a lui mi sono rivolta
per chiedere spiegazioni sull’accaduto
e mi ha assicurato che sarei
entrata subito. Ho invece dovuto
aspettare ancora, poi sono stata
invitata a parlare col direttore, che
si era sentito offeso per le mie rimostranze
e che perciò aveva deciso
che quel giorno dovevo ritornare
a casa.
Io ho risposto che, se questa era
la sua decisione, io l’avrei accettata,
ma comunque sarebbe stato meglio
da parte sua una posizione più chiara.
Gli ho accennato al ruolo rieducativo
delle carceri, ma non credo
che abbia inteso.
Poco dopo, stranamente, il direttore
ha capovolto la sua decisione,
consentendomi di entrare, ma relegandomi
nell’ufficio di psicologia,
un locale sporco e squallido. Non
potendo usare i libri, che erano nella
cella di Villalobos, ho utilizzato il
tempo parlando del contenuto e dei
personaggi de I promessi sposi, che
per molti versi propongono situazioni
simili a quelle che si stanno verificando
in Perù (Chafalote mi ha
ricordato la figura di don Abbondio).
Nel frattempo EmilioVillalobos,
è stato chiamato a rapporto. Il direttore
gli ha fatto intendere che era
disposto ad aiutarlo per l’ingresso
dell’apparecchio televisivo e del
videoregistratore fermi in «revisione
» (erano gli strumenti didattici
che io e alcuni amici gli avevamo regalato)
e anche a favorire una visita
«intima», «particolare».
Davanti alla reazione indignata
del detenuto, il direttore voleva che
mi informasse di riportare via quegli
strumenti. Villalobos si è rifiutato
di farlo, aggiungendo che egli in
persona avrebbe dovuto informarmi
di questa sua decisione. (Ho saputo
che in seguito il direttore ha
stilato un rapporto di mala conducta
del prigioniero politico in questione,
che potrebbe ritardargli
l’applicazione di eventuali «benefici
» carcerari).

«MA È UN PRIGIONIERO
DI “MAXIMA”!»

Al termine della mia lezione d’italiano,
una guardia mi ha comunicato
la decisione del signor direttore.
Io ho risposto che non mi sarei
ripresa né televisione né videoregistratore
e che inoltre avrei portato
a conoscenza del fatto i superiori, le
associazioni di diritti umani e i giornali.
A quel punto, il direttore mi ha
convocato e in disparte mi ha detto:
«Ma cara signora questo è un
prigioniero di Maxima!», aggiungendo
che io non avevo capito come
occorreva comportarsi. Ho risposto
che sarebbe stato più intelligente
e fruttuoso chiedermi un
programma sugli argomenti che avrei voluto trattare ed estendere
questa opportunità a più prigionieri,
invece di impedirmi di fatto di
poter insegnare.
Esausta per tanto mercanteggiare,
il giovedì e venerdì non mi sono
più recata nel carcere, ma, preoccupata
per la sorte delle nostre strumentazioni,
sono andata dal console
onorario di Chiclayo, Antonio Rinaldi,
cui ho consegnato la mia
testimonianza scritta. Il console mi
ha accolta con gentilezza e mi ha
fatto conoscere la direttrice dell’Associazione
italiana di Lambayeque,
nonché insegnante di italiano,
Carmen Clara Gamallo Palao. Per
suo merito siamo state ricevute dal
direttore regionale delle carceri del
Nord (Inpe Norte), Manuel Silva
Palacios, che ci ha assicurato che
tutto si sarebbe sistemato. Anzi,
questi si è spinto più in là dichiarando
che il signor Villalobos era un
prigioniero di grande intelligenza e
ottima condotta.

UNA STORIA DI LIBRI,
DIZIONARI E CULTURA

Dopo essere rientrata in Italia, ad
agosto ho inviato una grammatica,
un libro di proverbi e due di narrativa
ad una signora peruviana (per
precauzione, non ne scriviamo il
nome), che li ha portati nel carcere
di Picsi alla fine del mese.
Qui ha dovuto subire una perquisizione
corporale molto intrusiva,
per un evidente scopo punitivo
e intimidatorio. Infine gli stessi libri,
dopo circa due mesi di «revisione
», senza alcuna giustificazione
da parte delle autorità carcerarie e
senza alcuna comunicazione al signor
Villalobos cui erano destinati,
sono stati riportati da due guardie a
Lima, a casa della signora che li aveva
portati.
Contro tale episodio è stata fatta
formale denuncia dal detenuto interessato
alle autorità competenti.
Emilio Villalobos non si è dato
per vinto. Il 16 settembre ha iniziato
a insegnare gratuitamente ciò che
conosce dell’italiano ad una trentina
di suoi compagni, in un’attività
scolastica intitolata «Papà Cervi».
Venuta a conoscenza dell’iniziativa,
il 26 settembre ho inviato in Perù altri
testi (una grammatica, un vocabolario,
I promessi sposi), questa
volta al console onorario di Chiclayo.
Purtroppo questi libri sono arrivati
al signor Villalobos solo il 27
novembre (due mesi dopo), quando
egli aveva iniziato da due giorni
uno sciopero della fame per ottenere
che libri, riviste o materiale simile
possano circolare liberamente;
che non sia impedito l’accesso a
strumentazioni per uso didattico;
che venga istituito un servizio di ricezione
della posta nel carcere, evitando
di dover ricorrere a terzi per
la corrispondenza.
L’assurdo è che, mentre si è ostacolata
l’attività di diffusione della
nostra lingua e cultura, l’Aliance
Francaise, dopo poco più di un mese
di trattative, ha potuto entrare
nello stesso carcere e iniziare un
corso, a pagamento, per l’insegnamento
della lingua francese.
Grazie alle proteste dei prigionieri
e anche alle nostre, l’11 dicembre
la situazione sembrava essersi risolta
positivamente. Invece…

VIA DA PICSI:
«TUTTI A YANAMAYO!»

Alle tre di notte del 12 dicembre
c’è stato un improvviso trasferimento
di massa a Yanamayo, un
carcere a 4.000 (!) metri d’altezza,
giudicato da varie associazioni inteazionali
non adatto a una detenzione
rispettosa dei diritti umani.
I prigionieri trasferiti indossavano
indumenti leggeri, propri per una
città di mare come Chiclayo, ma
non ovviamente per un carcere d’alta
montagna. Tra i detenuti c’era anche
Emilio Villalobos Alva (*), reduce
da 16 giorni di sciopero della
fame.
Il trasferimento è stato comunicato
attraverso un documento firmato
dal direttore delle carceri del
Nord, quello stesso che mi aveva ricevuto
e che aveva avuto parole di
apprezzamento ed elogio per Emilio
Villalobos Alva, «il detenuto che
amava la lingua italiana».

«COM’È CAMBIATO IL MONDO,
FUORI?»

A colloquio con alcuni detenuti del carcere
di Ayacucho, nei luoghi dove (era il 1970)
nacque «Sendero Luminoso»,
uno dei più sanguinari movimenti rivoluzionari
della storia.

di Paolo Moiola

Ayacucho è una bella cittadina
coloniale sugli altopiani centrali
delle Ande peruviane. Il
carcere di Yanamilla è poco fuori il
centro abitato, in un posto panoramico,
accanto alla base militare e all’aeroporto.
Dopo una veloce perquisizione, le
guardie ci pongono un timbro sul
braccio destro. Al secondo controllo
ci vengono ritirate le borse e posto
un altro timbro, questa volta sul
braccio sinistro. Ci accompagna
Luis Bastidas Cuentas, responsabile
della sicurezza intea, che lavora
in ambito carcerario da 14 anni.
«La prigione di Yanamilla – spiega
– è stata inaugurata nel 1996. Attualmente
ospita 707 detenuti, tra i
quali 72 donne. La maggioranza è
qui per reati connessi al traffico di
droga. Ci sono poi una cinquantina
di persone imprigionate per terrorismo».
Come la gran parte delle carceri
peruviane, anche Yanamilla è diviso
in due sezioni: maxima per i delitti
più gravi (terrorismo, droga) e minima
per i delitti più lievi. A loro
volta, ciascuna sezione è divisa in
«padiglione A» e «padiglione B».
«Purtroppo – ammette l’ufficiale
-, almeno il 60% di loro è ancora in
attesa di sentenza. È cioè inculpado,
ma non sentenciado».
Ci muoviamo veloci, perché il direttore
ci attende. Sarà lui a dirci se
possiamo scattare delle foto e conversare
con i detenuti.
Siede a lato di una grande bandiera
del Perù. Alle spalle
un’immagine di Cristo, su cui
si legge «Amigo que nunca falla!»
(un amico che non sbaglia mai). Sull’ordinata
scrivania, accanto allo
stemma dell’Inpe (Instituto nacional
penitenciario), la targhetta con il nome:
Walter Gutierrez Zambrano.
Sembra giovane il direttore di Yanamilla.
«Ho 33 anni, ma già da 13
lavoro nell’amministrazione penitenziaria
», ci spiega subito.
Chiediamo come funziona Yanamilla.
«Nel nostro carcere – risponde
con visibile orgoglio -, il 90% dei
detenuti lavora nei laboratori artigiani
(tallers), soprattutto di carpenteria
e tessuti. Il “Centro educativo
occupazionale” del ministero
dell’educazione ci fornisce gli insegnanti
per istruire i prigionieri. Per
incentivare i reclusi, l’articolo 44
della legge 654 prevede dei benefici:
due giorni di lavoro (o studio) significano
un giorno in meno di pena».
Dunque, a sentire il direttore, Yanamilla
sembrerebbe un’isola di serenità.
Ma naturalmente non è proprio
così. «Anche noi – ammette –
soffriamo di sovraffollamento. In
questo momento ci sono 200 persone
in più rispetto alla capacità. Questo
significa che l’attenzione verso i
detenuti non può essere come si vorrebbe.
Inoltre, la disponibilità di
fondi pubblici è insufficiente; mancano
mobili, carta, computers, oggetti
quotidiani».
A giudicare dall’essenzialità del
suo ufficio, non dubitiamo che il direttore
stia dicendo il vero. Chiediamo
il permesso per la cosa che
più ci interessa: una visita ai padiglioni.
Il direttore ci affida a Jesus
Vidalon Robles, responsabile del lavoro
e dell’educazione.
Il cortile interno (patio) è pavimentato
con lastre di cemento.
Su un lato ci sono alcuni gradoni
per sedersi a conversare o per
guardare chi gioca a palla. Sui muri
bianchi campeggiano due grandi
scritte di ammonimento: «educa al
nino y no tendras que castigar de adulto
» (educa il bambino e non castigherai
l’adulto) e «la libertad es
don de Dios y la justicia obra del
hombre» (la libertà è dono di Dio,
la giustizia è opera dell’uomo).
È una giornata particolare per il
carcere di Yanamilla. Domani ci
sarà la fiera dei prodotti fatti dai prigionieri.
Si stanno preparando i
banchetti.
«Mi consigliavano di pentirmi.
Ma di cosa, se non avevo commesso
alcun delitto? Mi volevano utilizzare
per denunciare altre persone,
scritte in una lista da loro preparata.
Ma io non me la sentivo di incolpare
degli sconosciuti soltanto per avere
uno sconto di pena». Rosario
Rondinel Palomino è una bella signora
di 35 anni con gli occhi tristi
e una treccia che le scende sulle spalle.
È in carcere dal 1994. «Quando
mi arrestarono, mi rinchiusero nella stazione di polizia sottoponendomi
a 15 giorni di torture psicologiche
inimmaginabili. “Sendero – mi
dicevano – ti ha preparata a non parlare,
ma con noi non funzionerà”.
Poi, un tribunale di giudici senza
volto mi condannò a 20 anni per terrorismo».
Rosario faceva l’educatrice e studiava
filosofia e psicologia all’Università.
Sostiene di essere stata accusata
da una pentita e da prove
fabbricate. «A questo punto, soltanto
la mia avvocata può tirarmi
fuori da quest’incubo. Vorrei tornare
dalle mie tre figlie».
Mentre ci avviamo ai corridoi
che portano all’uscita, da
dietro una grata due detenuti
richiamano la nostra attenzione.
Vorrebbero scambiare qualche
parola con noi, ma il tempo della visita
sta per finire. Il più loquace dice
di chiamarsi Persy Hugo Francia:
«Mi hanno dato 14 anni per terrorismo
e ne ho già scontati 10. Com’è
cambiato il mondo fuori?».

Franca Pesce Paolo Moiola




ISTITUTI MISSIONARI la loro azione in Italia oggi

PRENDERE IL LARGO, INSIEME

Radiografia
(quasi scientifica)
di una presenza:
dati, statistiche,
percentuali…
E qualche punto
interrogativo.

All’inizio di febbraio dello scorso
anno, 15 istituti esclusivamente
missionari presenti in
Italia (cfr. inserto) si sono incontrati
ad Ariccia (Roma) all’insegna del tema:
«Insieme, prendere il largo».
Dall’analisi e discussione delle risposte
date dai singoli istituti a un
previo questionario, emergono i
problemi, difficoltà, timori e speranze
sul futuro della loro presenza
nella chiesa italiana. Oltre ai dati numerici
(quanti e dove sono i missionari
in Italia, che età hanno, quali i
loro impieghi, ecc.), sono importanti
le motivazioni e prospettive di tale
presenza, per un cammino di collaborazione.

NON SONO SOLO NUMERI
Quanti sono i missionari di origine
italiana e che percentuale occupano
nella composizione degli istituti?
Una domanda essenziale per «misurare
» il grado di inteazionalità.
Il primo dato stabilisce che sono
5.283 i missionari italiani appartenenti
ai vari istituti, su un totale di
19.797. Per il secondo dato, circa i
missionari e missionarie di origine
nordamericana, latinoamericana, asiatica
e africana, le percentuali sono
diverse, dovute all’origine, storia
e campi di azione dei singoli istituti.
Essi contano complessivamente
7.910 membri: 4.603 italiani e 3.307
non italiani (58,2% di origine italiana
e 41,8% non italiana). L’ultima
cifra rappresenta il grado d’inteazionalità
degli istituti missionari di
origine italiana.
Quanti sono i missionari in Italia
oggi? I numeri dicono 2.566. Ma
non tutti sono qui per lavoro; molti
sono in Italia per compiti istituzionali
(direzioni generali) o per riposo,
cura, aggioamento. Tale numero
comprende 84 stranieri, 27 dei quali
africani.
Ciò significa che l’inteazionalità
procede anche qui. Non si dà alcun
giudizio di valore: se è bene o male;
né si dice se il numero deve crescere
o diminuire. Si registra solo il dato.
Abbiamo pure la descrizione di alcune
categorie all’interno delle varie
comunità. Per gli istituti maschili, i
sacerdoti sono 630 e 135 i non sacerdoti.
Per gli istituti femminili, le
suore professe perpetue sono 1.366
e 22 le professe temporanee.
Più importante è la divisione nella
successiva categoria: in attività
1.264 (61,5%); in formazione 56
(2,7%); in riposo-malattia 733
(35,7%). Se appare impressionante
l’alta percentuale del personale in riposo-
malattia, stupisce la bassa percentuale
di coloro che sono in formazione.

DISPARITÀ TRA NORD E SUD
Un tempo in Italia c’erano molti
studentati di filosofia-teologia e noviziati.
Oggi la situazione è decisamente
cambiata. Il cambiamento diventa
più evidente quando si stabiliscono
le classi di età: il 68,8% dei
missionari e missionarie in Italia supera
i 65 anni, mentre solo il 6,6%
ha meno di 45 anni. L’invecchiamento, anagraficamente parlando, è
drammatico, anche in considerazione
del numero di opere che gli istituti
hanno. L’invecchiamento appare
più alto negli istituti femminili.
Circa la distribuzione del personale
nelle regioni italiane, 1.675
membri sono nel nord, 250 nel centro
(e Sardegna) e 167 nel sud (compresa
la Sicilia).
Dei membri «in attività», viene
specificato il tipo di impegno: incaricati
della formazione 52; e ciò desta
meraviglia, se si pensa come i
membri in formazione sono solo 56;
si potrebbe dire che sono quasi più
i formatori che i formati. Impegnati
nella guida e amministrazione delle
comunità sono 258.
Nell’animazione missionaria sono
impegnate 155 persone. Questo
numero appare veramente piccolo,
confrontato con le 420 persone occupate
nella pastorale e nell’insegnamento
(scuole e asili).
Un’attività che impegna numeroso
personale è quella riguardante la
cura-assistenza: 289 individui, pari
al 22,8% del personale attivo. Se da
una parte è da ammirare l’impegno
di missionari e missionarie in tale
campo, c’è da chiedersi se questa sia
la forma migliore per farsi sentire vicini
a loro, se siano le persone più adatte
per tale compito, se l’impegno
non provochi in alcuni frustrazione,
se non esistano modi alternativi.
Un altro dato: del personale missionario
in Italia, 1.825 su 2.207 sono
stati in missione. Questo solleva
due problemi: un percorso di reinserimento
e l’opportunità che la presenza
(specialmente di testimonianza)
sia adeguatamente valorizzata.
Molto importanti sono i dati sull’aspetto
vocazionale. Negli ultimi
11 anni gli istituti missionari hanno
avuto, nel loro insieme, 304 nuove
reclute di origine italiana, con una
media di 23,4 membri per istituto e
2,1 all’anno. In tale arco di tempo
non si notano tendenze significative,
né di crescita né di calo.
Circa la «provenienza» delle vocazioni,
sono ricordati in ordine decrescente:
parrocchie, movimenti,
volontariato, seminari e associazioni.
Sono nominati anche i gruppi
missionari giovanili, interni o collegati
alle parrocchie. I dati possono
stimolare una riflessione in questo
senso: le vocazioni provengono in
prevalenza da ambienti in cui è più
curata la formazione cristiana di base
o da ambienti in cui sono coltivati
i valori della solidarietà e mondialità,
ma senza uno specifico o implicito
riferimento alla fede cristiana?

CHE DIRE DI LORO?
Com’è giudicata la presenza dell’istituto
in Italia, sia dai missionari
fuori del paese sia da quelli presenti
sul territorio? Il confronto è importante,
perché misura, in maniera abbastanza
sottile, il grado di «frustrazione
» che possono avere i membri
degli istituti impegnati in Italia.
Vediamo le posizioni: mentre in
11 istituti su 12 i membri fuori Italia
dicono che l’istituto è adeguatamente
o eccessivamente presente, in
8 istituti i missionari che operano in
Italia dicono che la loro presenza è
insufficiente. Per tradurre i dati in
una battuta popolare, è come se in
11 casi su 12 i membri dicessero a
quelli in Italia: «Per ciò che fate, siete
anche troppi!»; e quelli in Italia
rispondessero, in 8 casi su 12: «Se
riusciamo a fare poco, è perché siamo
troppo pochi; o troppo pochi
sono quelli che possono veramente
fare qualcosa».
Percezioni del genere, se molto
diffuse, possono produrre scoraggiamento
nei missionari e missionarie.
Si potrebbe ipotizzare che gli istituti
debbano cogliere meglio «il
senso e la portata» della loro presenza
in Italia.
Che dire dell’opportunità di formare
comunità missionarie «miste»?
Con chi sarebbero disposti i membri
degli istituti a fare comunità, al di
fuori dei loro confratelli o consorelle?
Il quesito, forse, fa balenare una
prospettiva troppo nuova; tant’è vero
che 7 istituti su 13 la rifiutano; 6,
in particolari circostanze, sarebbero
disponibili a fare comunità con individui
di altri istituti; solo 3 con laici
e 2 con preti diocesani. Da notare
che, fra i 6 disponibili a comunità miste,
5 sono maschili e 1 femminile; i
3 disponibili a fare comunità con laici
e i 2 con sacerdoti diocesani sono
maschili.
In conclusione: solo 1 istituto femminile
su 7 è disposto a creare comunità
con membri diversi dal proprio
istituto e solo con membri di istituti
missionari.
ITALIA, TERRA DI MISSIONE?
C’è una domanda che pone un
problema molto attuale, dibattuto
anche a livello ufficiale: bisogna assumere
in Italia impegni assimilabili
a quelli della missione ad gentes?
Cinque istituti (3 maschili e 2 femminili)
sono nettamente contrari.
La ragione è che l’ad extra fa parte
integrale della vocazione missionaria
specifica. Qualcuno precisa che
non si tratta di un teorico ad extra
geografico, ma del fatto che gli spazi di prima evangelizzazione sono
immensamente più ampi in altri
paesi e continenti che in Italia.
Sono favorevoli, invece 8 istituti (5
femminili e 3 maschili) e le ragioni
sono riassunte così: dove c’è un compito
di prima evangelizzazione, questo
rientra nelle finalità di un istituto
esclusivamente missionario.
Ma quali sono i campi di azione
specificamente missionaria in Italia?
Le risposte sono in questa linea:
i missionari in Italia per le finalità
tradizionali (formazione, animazione
missionaria, cura degli anziani e
malati) possono meglio legare la loro
presenza ad ambienti che sono,
in qualche misura, «campi di azione
specificamente missionari». E
cioè: presenza e azione fra gli «ultimi
» (5) ed extracomunitari non cristiani
(6); nuova evangelizzazione
(5); dialogo interculturale e interreligioso
(11); rinnovamento del «modo
di essere chiesa» (3); impostazione
della pastorale in senso missionario
(9); catecumenato (6).
Tra le risposte tanto disparate,
spicca l’alta disponibilità per il dialogo
interculturale e interreligioso,
come pure la forte tendenza a impegnarsi
per un’impostazione della
pastorale delle chiese locali in senso
missionario. È questo lo scopo dell’animazione
missionaria, ma è percepita
in modo più ampio di quanto
non lo fosse tradizionalmente e
non appare legato a finalità intee
all’istituto.
Domanda finale: i missionari di altri
continenti, presenti in Italia, sono
da considerare ad extra e, quindi,
pienamente in linea con la condizione
di ad gentes? Per 9 istituti, sì; per
5, no. Ma la questione è molto dibattuta
e con argomenti diversi:
quello in positivo sostiene che tale situazione
risponde pienamente sia all’ad
gentes che all’ad extra.
Fra gli argomenti in negativo, invece,
ne emergono due: l’Italia non
può essere considerata un paese di
primo annuncio, ma solo di nuova evangelizzazione;
inoltre, la presenza
di non italiani finirebbe per rafforzare
le strutture dell’istituto, a scapito
delle nuove chiese.

DUE CONCLUSIONI
Pur non offrendo conoscenze
nuove all’interno di ogni istituto,
l’indagine può dare una visione
d’insieme e aiutare a raffrontare sia
le situazioni sia gli orientamenti di istituti
diversi, che però hanno la
stessa finalità. Alcuni problemi e risorse
possono essere messi meglio a
fuoco, per un migliore discernimento
e collaborazione.
In secondo luogo, negli istituti
missionari appare una certa rigidità,
intendendo con ciò che ogni istituto
è sensibile alla sua identità (e questo
è bene), ma la interpreta in senso difensivo,
avendo quasi il timore che
gli adattamenti alle situazioni, impegni
creativi e collaborazioni rappresentino
delle «contaminazioni».
Gli istituti missionari stanno vivendo
un momento di crisi: basti solo
pensare alle poche «nuove entrate» e alle difficoltà di collaborazione.
Tuttavia resiste la convinzione
sulla validità della loro presenza, pur
con interrogativi sulla sua valorizzazione
in novità di stili, di
modalità e di più vaste
collaborazioni.

Francesco Grasselli




MORTI E… RISORTI

Doncello, Colombia. Il paese cresce a vista d’occhio da quando il
governo ha diviso la foresta circostante in tante fette e le ha assegnate
a un centinaio di famiglie, fuggite dalla violenza e insicurezza di altre
regioni del paese. Con un prestito della Banca agraria, tirano su un ranchito
(capanna), disboscano tutto attorno qualche ettaro di selva e cominciano a
seminare riso, granturco, banane… finalmente felici di essere padroni di un
pezzo di terra. Ma il denaro scarseggia…
Francesco, padre di quattro figli, un giorno si presenta addolorato e piangente:
mi annuncia che sua moglie è morta. Conoscevo bene la sua signora; più di una
volta, visitando le famiglie, avevo dovuto fermarmi, accettare un caffè e benedire i
figli. Mi commuovo anch’io, quando mi chiede di aiutarlo a pagare il funerale e le
spese sostenute per la degenza della defunta all’ospedale di Florencia.
Svuoto il portafoglio; vado in chiesa, apro la cassetta delle elemosine,
raggranello 50 mila pesos e glieli consegno. «Grazie, padre!» e sparisce.
Ma 15 giorni dopo, ecco apparire la defunta. «Non sei morta» le domando.
Ignara di tutto, mi chiede di aiutarla con 20 pesos, per liberare dal carcere il
marito: aveva rubato e venduto un maiale e si era ubriacato.
«Eccoti i 20 pesos; ma di’ a Francesco di non combinare altre marachelle».
Due mesi dopo sono a Puertorico, circa 30 km da Doncello, per sostituire un
padre che deve assentarsi per alcuni giorni. Una sera, sull’imbrunire,
arrivano tre ragazzi e mi dicono trafelati: «Vieni, padre, c’è un morto
laggiù, in quella casa semiabbandonata». E mi accompagnano.
Su un tavolaccio c’è un uomo «morto», scalzo e senza camicia; quattro candele
illuminano l’ambiente e un catino posto ai suoi piedi. La gente è già arrivata
per pregare; prima di uscire, tutti depositano nel catino un’offerta per il
funerale. Faccio anch’io la mia elemosina.
Mentre prego, cerco di conoscere il tipo che, avendo la testa piegata
e nell’ombra, non riesco a riconoscere. Domando ai
presenti. Mi rispondono due sconosciuti: «Siamo venuti
a pescare ed è stato colto da infarto. Domani faremo i
funerali e toeremo a casa».
Ma il giorno dopo il morto è scomparso. Verso
mezzanotte, quando non c’era più nessuno a pregare, il
morto si era alzato, aveva raccolto i soldi nel catino e se
l’era svignata con i due amici: era il solito Francesco,
morto e risorto.

Giovanni De Michelis




NONVIOLENZA o, più semplicemente, vangelo…

NON È UTOPIA
Alle radici di una scelta non facile, ma per essere
davvero dalla parte dei più deboli
contro i sotterfugi dei potenti
e l’inganno delle parole.

Per un cristiano le ragioni dell’impegno
nonviolento partono
dalla bibbia. Sennonché i
biblisti presentano enormi differenze
d’interpretazione del testo biblico
circa l’argomento «guerra-pace».
Queste si ripercuotono sul magistero
ecclesiale e sul pensiero cristiano
in genere.

Occorre chiarire i princìpi, per superare
(possibilmente) dubbi e divisioni
che creano scandalo fra cristiani
e anche fra cattolici. Inoltre, è giocoforza
confrontare l’interpretazione
che riteniamo evangelica con
le punte estreme dei pronunciamenti
e comportamenti
cristiani
lungo
la storia, soprattutto
oggi.

MA LA BIBBIA DICE NO
ALLA VIOLENZA?

L’Antico Testamento non offre,
complessivamente, un messaggio di
nonviolenza. Ripetutamente è comminata
la pena di morte ai violatori
della legge; le guerre sono spesso esaltate,
anche se
non mancano esempi
elogiati di
nonviolenza. Lo
stesso futuro messia,
a volte, è presentato
nelle vesti
di un terribile condottiero
di eserciti.
Tuttavia, i profeti maggiori, Isaia e
Geremia, si caratterizzano per la loro
ostilità a soluzioni militari, al punto
da essere perseguitati e minacciati
di morte. In particolare, il messia,
preannunciato
da Isaia come
«servo di
Jahvè», non ha nulla
di militaresco; anzi, è presentato sotto
l’immagine spirituale dell’agnello
che salva, sacrificandosi per amore
dei peccatori: immagine che Gesù
stesso applica esplicitamente a sé,
drasticamente alternativa a quella di
un messia violento (Lc 4,16-21).
In ogni caso, l’Antico Testamento
va interpretato alla luce del Nuovo e
non viceversa. Gesù ha deluso in pieno
le attese del liberatore politico
violento. Non ha formulato la ricetta
antimilitarista: «Soldati di tutto il
mondo, disarmatevi!»; come non ha
dato la ricetta antischiavista: «Schiavi
di tutto il mondo, ribellatevi!». Ha
presentato, tuttavia, una serie di insegnamenti
ed esempi, improntati
all’amore nonviolento, per cui è indubbio
che il vangelo inculca, se non
comanda formalmente, il principio
della nonviolenza.
Nel «discorso della montagna» egli
richiede ai suoi seguaci un amore
straordinario e inedito: «È scritto:
occhio per occhio, dente per dente.
Ma io vi dico: amate i vostri nemici;
pregate per i vostri persecutori» (Mt
5,44).
L’ingiunzione a Pietro, nel giardino
degli ulivi, «metti via la spada, perché
chi di spada ferisce di spada perisce
» (Mt 26,52), è un altro di quei
pronunciamenti messianici che potrebbe
far pensare a una formula
antimilitarista, come l’ha
interpretata Tertulliano, che
scriveva: «Disarmando Pietro,
il Signore ha disarmato ogni
soldato» (De idolatria).
Per lo meno, non c’è alcun dubbio
sul principio evangelico della
nonviolenza.

EVOLUZIONE O DEVIAZIONE?
L’evoluzione storica del cristianesimo
sul problema di «guerra-pace»
è qualcosa di traumatico. Partendo
dal principio biblico della nonviolenza,
la chiesa dei primi tre secoli,
nella sua prevalenza, se non nella totalità,
ha enucleato la formula antimilitarista:
«Il cristiano non può fare
il soldato». Tale è, ad esempio,
l’affermazione martellante di Massimiliano
di Tebessa (Cartagine) nel
processo del 295 d. C., condannato
a morte per il suo rifiuto del servizio
militare: «Sono cristiano, non posso
fare il soldato!».
E non si tratta di una posizione isolata
del Nord Africa, succube dell’influsso
di Tertulliano; la Traditio Apostolica,
attribuita a Ippolito di Roma,
testimonia che tale prassi vigeva
pure nelle chiese dell’area mediterranea
verso il 215-220: «Il soldato
subalterno non deve uccidere nessuno.
Se riceve un ordine del genere,
non deve eseguirlo e non deve prestare
giuramento. Se non accetta tali
condizioni, sia respinto. Chi ha potere
di vita e di morte sugli altri o il magistrato
di una città, che porta la porpora
come emblema della sua autorità
suprema, deve dare le dimissioni,
altrimenti venga respinto. Il catecumeno
o il fedele che vogliono arruolarsi
e fare il soldato vengano respinti,
perché hanno disprezzato Dio».
In seguito, prima con sant’Ambrogio
di Milano, poi, in modo più compiuto,
con sant’Agostino di Ippona,
verrà formulata la «dottrina della
guerra giusta»: è la cosiddetta «svolta
costantiniana», che prende avvio
dall’imperatore Costantino in poi.
Sennonché, per alcuni permane
una riserva radicale contro gli eserciti
e la guerra (uso omicida della forza),
pur ammettendo un servizio, anche
armato, di polizia (uso non omicida
della forza). Tale distinzione tra
esercito e polizia è pure accennata in
un’interessante presa di posizione del
vescovo Gaetano Bonicelli, a suo
tempo ordinario militare. A proposito
dei cristiani dei primi secoli egli
scriveva: «Già allora si intravedeva
una distinzione fra milizia di pace
(ordine pubblico) e servizio di guerra:
un capitolo interessante e, forse,
in buona parte ancora da scrivere».
A conferma di ciò, vi è la dichiarazione
sorprendente del generale
Bruno Loi, comandante delle missioni
di pace in Libano e Somalia:
«Non si possono mandare gli eserciti
a fare azioni di polizia internazionale.
È un’altra struttura; un’altra
formazione. L’esercito va allo sbaraglio
e il soldato è addestrato a uccidere
e uccidere bene. La polizia non
deve uccidere; anzi, dovrebbe essere
dotata di armi intrinsecamente
non letali». Su questo punto è d’accordo
anche la maggior parte dei pacifisti,
che ammettono un corpo di
polizia internazionale alle dipendenze
di una vera Onu.
Con tutto ciò, l’alternativa sostanziale
agli eserciti e alla guerra non è
la polizia internazionale, bensì la «difesa
popolare nonviolenta». Questa
è snobbata dalla quasi totalità dei politici,
compresi molti cristiani e cattolici.
La nonviolenza non è passività
e nemmeno utopia. I grandi nonviolenti
non sono stati per nulla passivi,
ma hanno scritto pagine storiche
magnifiche. Tragico è, invece, il persistere
della mentalità che solo eserciti
e guerra siano adeguati alla soluzione
di controversie inteazionali.

«DELITTO CONTRO DIO»
È indispensabile e urgente tornare
alla nonviolenza evangelica radicale
dei primi secoli della chiesa. La
civiltà dell’amore esige di bandire totalmente
il «sistema militare» (eserciti-
ricerca-industria-commercio-costi-
eventi bellici). Il mondo è un villaggio
planetario, ancora senza
sindaco né consiglio comunale: un
paese di matti, votato al caos. Occorre
una vera Onu, ossia un parlamento
e governo mondiale, che dettino
un minimo di regole, di giustizia
e di pace al mondo dell’economia
(oggi egemone) e le faccia applicare
con metodi nonviolenti e, in caso estremo,
con il ricorso a un corpo di
polizia internazionale.
Il magistero della chiesa è pure
molto chiaro. La «Gaudium et spes»
del concilio Vaticano II dice: «Siamo
obbligati a considerare l’argomento
della guerra con mentalità completamente
nuova. Ogni atto di guerra,
che indiscriminatamente mira a distruggere
intere città o vaste regioni
e i loro abitanti, è delitto contro Dio
e contro la stessa umanità; con fermezza
deve essere condannato. La
corsa agli armamenti è una delle piaghe
più gravi dell’umanità. La provvidenza
divina esige da noi con insistenza
che ci liberiamo dall’antica
schiavitù della guerra; dobbiamo
sforzarci per preparare quel tempo
nel quale, mediante l’accordo delle
nazioni, si potrà interdire del tutto
qualsiasi ricorso alla guerra. Ciò esige
che venga istituita un’autorità
pubblica e universale. L’umanità, che
già si trova in grave pericolo, sarà forse
condotta funestamente a quell’ora
in cui non altra pace potrà sperimentare
se non la pace di una terribile
morte» (nn. 80-82).
Il Catechismo della Conferenza episcopale
italiana dice: «Abolire la
guerra, il mezzo più barbaro e inefficace
per risolvere i conflitti. Il mondo
civile dovrebbe bandirla totalmente.
Si dovrebbe togliere ai singoli
stati il diritto di farsi giustizia da soli
con la forza, come già è stato tolto
ai privati cittadini e comunità intermedie.
Appare urgente promuovere
nell’opinione pubblica il ricorso a
forme di difesa nonviolenta. Ugualmente
meritano sostegno le proposte
tendenti a cambiare struttura e
formazione dell’esercito, per assimilarlo
a un corpo di polizia internazionale.
La pretesa dei singoli stati
sovrani di porsi come vertice della
società organizzata sta diventando anacronistica.
Si va verso forme di
collaborazione sistematica, si moltiplicano
le istituzioni inteazionali,
si auspicano forme di governo sopranazionale
con larga autonomia
delle entità nazionali».

SEGNALI PERICOLOSI…
Le guerre attuali sono ormai fuori
ogni limite di moralità, anche di quelli
stabiliti dalla pur superata dottrina
della guerra giusta. Va anzitutto notata
la scelleratezza del cosiddetto
«nuovo modello di difesa». In Italia,
«i lineamenti di sviluppo delle forze
armate negli anni ’90», presentati in
parlamento nel 1991 dal Ministero
della difesa, parlano di «concetti strategici
di difesa degli interessi vitali, ovunque
minacciati o compromessi»,
anche fuori dai confini nazionali, abbandonando
il «tradizionale parametro
da chi difendersi, a favore di
una polarizzazione su cosa difendere
e come». Interessi vitali da difendere
ovunque sono «le materie prime, necessarie
alle economie dei paesi industrializzati
», presenti nel Sud del
mondo; l’Europa, e in particolare l’Italia,
avrebbe «il ruolo di ponte politico
ed economico tra l’occidente industrializzato
e il terzo mondo». Più
chiari e più cinici di così!
Altro segnale di militarismo montante
è il ritorno e diffusione di «eserciti
mercenari». Su questa strada
sono incamminati gli «eserciti professionali
» oggi di moda; ma faticano
a trovare volontari adatti alla professione
militare, nonostante le alte paghe,
crediti formativi, privilegi occupazionali
e pubblicità di ogni forma.
I corpi mercenari sono un business
già fiorente: scorte armate nei mari
pericolosi, controllo aereo e addestramento
di eserciti e guerriglie. Tim
Spicer, ex ufficiale inglese e precursore
dei nuovi soldati di fortuna, così
si esprime: «I miei uomini possono
intervenire dove l’Onu non riesce.
Costano meno e sono più bravi».
In base all’accordo-quadro, sottoscritto
a Faborough il 27 luglio
2000 dai ministri della difesa dei
principali paesi europei, il governo
Berlusconi ha approntato un disegno
di legge (n. 1927) per favorire
l’esportazione di armi e diminuie
i controlli previsti dalla legge
185/90, la cosiddetta: «Contro i mercanti
di morte». È in corso una grossa
campagna popolare di pressione
sul parlamento italiano in difesa, appunto,
della legge 185/90.
Ma il superamento di ogni limite
etico e religioso è il rilancio degli armamenti
nucleari, chimici e batteriologici,
in collegamento con la dottrina
Nato del «primo colpo nucleare
» e con l’intenzione dichiarata di
ritenere superati gli accordi di disarmo
su tali ordigni: dal momento che
si possiedono, si è pronti a usarli.
Le potenze nucleari hanno fatto di
tutto per costringere gli altri paesi a
sottoscrivere un «patto di non proliferazione
» di tali armi, ma non hanno
mai accettato di attuare un contemporaneo
disarmo, ripetutamente
richiesto in sede Onu dalla stragrande
maggioranza degli stessi paesi.
Anni fa, il parlamento francese ha
approvato una legge che autorizza il
governo all’uso della «force de frappe
», cioè l’atomica, per difendere gli
interessi vitali della nazione in qualsiasi
parte del mondo. Il giornale cattolico
La Croix, nel dae notizia,
non ha accennato a riserve di sorta
circa l’uso di tali ordigni nucleari!
L’attuale politica del governo italiano
mostra tutta la sua incongruenza:
da un lato è entrata in guerra
contro il terrorismo; dall’altro,
vuole abolire la legge 185/90 per incrementare
il commercio delle armi.
Anzi, il ministro della difesa, Martino,
propone la diffusione capillare
delle armi per l’autodifesa dei singoli
cittadini. Non si agevola, in tal modo,
pure il riarmo del terrorismo?
Anche le formule apparentemente
innovative, come «legittima difesa,
ingerenza umanitaria, ecc.», senza
i suddetti chiarimenti vengono
strumentalizzate per giustificare
qualsiasi guerra, come afferma il moralista
Enrico Chiavacci: «In pratica,
qualunque causa, giusta o ingiusta, è
potuta entrare in questo schema e il
clero ha sempre pregato per la vittoria
del proprio glorioso esercito».
È ora di voltare pagina e tornare,
senza compromessi, alla
nonviolenza evangelica
dei primi secoli della chiesa.

Angelo Cavagna




AFRICA il calcio, una piccola grande risorsa

VITA… IN CONTROPIEDE
Da oltre 20 anni, centinaia di giocatori africani militano in squadre europee:
al di là del business e rischi connessi al mondo del pallone, questi atleti
si stanno rivelando una risorsa preziosa per il futuro del loro continente.
Lo sostengono gli autori di questo articolo, sintesi di una tesi di laurea
su «Lo sviluppo del calcio africano».

Una delle più importanti risorse
del continente nero è,
oggi, lo sport: non solo coraggiosi
e infaticabili maratoneti, anche
validissimi giocatori di calcio.
Negli ultimi anni, infatti, le rappresentative
africane di football hanno
raggiunto risultati invidiabili: primo
posto nelle ultime due olimpiadi, ad
Atlanta 1996 con la spettacolare Nigeria,
a Sydney 2000 con il Camerun
che ha sconfitto clamorosamente la
Spagna e sempre ottimi piazzamenti
nei toei inteazionali giovanili.
Di fronte a queste certezze, la Fifa,
la federazione internazionale di calcio,
ha aumentato i posti per le squadre
africane nella Coppa del mondo,
la massima competizione per squadre
nazionali. Nell’ultima edizione
nippo-coreana (estate 2002), hanno
partecipato Nigeria, Camerun, Tunisia,
Sudafrica e Senegal. La squadra
senegalese, osannata dagli addetti ai
lavori per organizzazione di gioco e
per individualità, è riuscita a eguagliare
il record del Camerun, datato
1990, approdando ai quarti di finale.
Le prime avvisaglie di raggiunta
solidità del calcio africano,
almeno agli occhi degli europei,
si rivelarono proprio nella Coppa
del mondo del 1982, conquistata
dai nostri azzurri. Azzurri che, nel girone
di qualificazione, faticano inaspettatamente
per strappare un pareggio
ai «leoni indomabili» camerunesi,
che mostrano un’incredibile
esuberanza atletica e impressionante
potenza fisica. In quell’edizione
fece bella figura pure l’Algeria, in
grado di sconfiggere il wunderteam
tedesco, che poi raggiunse la finalissima
assieme all’Italia.
L’attenzione per il calcio d’Africa
si fece, quindi, sempre più forte: la
stessa Coppa d’Africa, il toeo per
le nazioni, si scoprì prestigiosa vetrina
per gli osservatori di tutto il mondo
a caccia di giovani promesse.
Anche nel nostro paese, grazie alla
liberalizzazione dei trasferimenti
avvenuta negli anni ‘80, cominciarono
a sbarcare diversi atleti africani. Il
primo fu François Zahoui, ventenne
della Costa d’Avorio, paese che si rivelerà
inesauribile fonte di talenti,
acquistato nel 1981 dal vulcanico
presidente dell’Ascoli, Costantino
Rozzi. Del giocatore si perdettero le
tracce quasi subito.
Stessa sorte subirono molti altri atleti
che in quegli anni arrivarono in
Europa. Erano ragazzi abituati a un
calcio ben differente da quello europeo,
praticato fin da piccoli sulle
strade, a piedi nudi, in condizioni di
assoluta povertà, come sfogo per dimenticare
o nascondere mille problemi.
Pur essendo abili tecnicamente
e abituati a condizioni climatiche
estreme, trovarono difficile
adattarsi ai rigori del calcio business
e relative regole, tatticismi e durissimi
allenamenti. Tutti limiti difficili
da correggere ancora oggi.
Le difficoltà d’ambientamento
di questi atleti, provenienti da
realtà così diverse, che si portano
dietro costumi, usanze, credi, in
molti casi a noi sconosciuti, sono
spesso insuperabili. Il calciatore africano
resta, tuttavia, un atleta forte,
temprato alla sofferenza, adulto
fin da piccolo, disposto ad abbandonare
casa e girare il mondo pur di
coronare il sogno di sfondare nel calcio
che conta.
Citiamo la storia Mohammed Kallon,
pedina importantissima per l’Inter.
Nato a Free Town (Sierra Leone)
e adocchiato giovanissimo dalla
squadra milanese, fu costretto a
passare, ogni anno, da
una squadra all’altra per
«farsi le ossa»: oggi, ancora
ventiduenne e già da quotazione
stratosferica, Mohammed
è un attaccante affidabile,
certamente più freddo di
fronte alla porta, rispetto a
qualche tempo prima.
Ma non tutti hanno la fortuna
di Kallon. I rischi sono
numerosi: si può anche finire nelle
mani di procuratori senza scrupoli,
veri e propri bracconieri, che
strappano i giovani dalla famiglia
per pochi milioni, li portano in Italia
e in Europa e, in caso di rendimento
inferiore alle aspettative, li scaricano
velocemente, lasciandoli magari a lavorare
vicino a un semaforo.
È la cosiddetta piaga dello sfruttamento
dei baby-calciatori, che si crea
quando gli europei cominciano a interessarsi
ansiosamente alle risorse
sportive del continente nero.
Tale sfruttamento può facilmente
fare leva sulla voglia di evadere degli
stessi ragazzi: essi sanno che in Africa
hanno poche possibilità per maturare
e migliorarsi. Le federazioni
africane, dal canto loro, sono spesso
gestite da personaggi divisi da invidia
e ambizioni personali, i quali
sfruttano malamente il denaro ricavato
dalle sponsorizzazioni. Gli stessi
regimi dittatoriali, alla guida di
molti paesi, non favoriscono certo il
libero e armonioso sviluppo delle discipline
sportive e del calcio: molte
convocazioni nazionali sono dettate
da volontà politiche, ad esempio.
Èsempre la stessa storia, un circolo
vizioso: anche l’Africa
del calcio, carente di strutture,
impianti, tecnologie, esperienza,
con allenatori, tecnici e medici ancora
impreparati, avrebbe
bisogno dell’uomo
bianco
per migliorarsi,
evolversi e diventare
più
competitiva.

Ma dell’uomo bianco, purtroppo,
non c’è mai da fidarsi, dato che ha
già tante colpe per la precarietà e instabilità
delle strutture sociali del
continente in generale.
Ci sembra che anche su questa immensa
risorsa dello sport e, in particolare,
del calcio, ci siano violente intromissioni
da parte degli stranieri,
con modalità ancora di tipo colonialista.
Eppure la prima a trae beneficio
dovrebbe essere la stessa Africa.
Anche i presidenti dei più prestigiosi
club africani hanno colpe gravi
ed evidenti, non esitando a vendere,
a cifre modeste, i giocatori più interessanti,
per ingrassare velocemente
le proprie casse, senza aiutare lo sviluppo
generale delle loro città, non
solo calcistico.
Spesso questi personaggi comprano,
a poco prezzo, squadre di serie
A, per poi smembrarle con la svendita
dissennata dei tesserati al resto
del mondo, facendole retrocedere
rapidamente di categoria, fino a farle
morire.
Il calcio, è uno dei più potenti fenomeni
mediatici; ogni evento che
gli è collegato ha una cassa di risonanza
estesissima; ai padroni e grandi
multinazionali di abbigliamento
sportivo (tra l’altro accusate a più riprese
di sfruttare la manodopera infantile
dei paesi in via di sviluppo)
conviene investire anche nelle realtà
più povere, come quella africana.
L’ultima edizione della Coppa
d’Africa ne è un esempio: si è disputata
in Mali, uno fra i dieci stati più
poveri al mondo, grazie a ingenti finanziamenti
francesi e cinesi, che
hanno consentito la costruzione di
imponenti impianti sportivi.
Ma il contatto con la cultura occidentale
è sempre rischioso, conduce
a compromessi pericolosi. È certo innegabile
che l’arrivo di molti allenatori
di stampo europeo nel continente
nero sia un fatto positivo: i nostri
Scoglio, Dossena, Mattè, Bersellini,
per esempio, hanno offerto il proprio
bagaglio di esperienze a squadre della
Tunisia, Ghana, Mali e Libia.
È altrettanto giusto ricordare che
gli stessi giocatori africani, militanti
in Europa, portano esperienza alle
proprie federazioni e squadre nazionali.
Sono centinaia, ormai, i giocatori
africani (camerunesi, nigeriani,
ghanesi, avoriani, senegalesi, tunisini,
marocchini, mozambicani, sudafricani),
insediatisi in Europa e soprattutto
nelle nazioni colonizzatrici,
Francia e Portogallo in testa.
Molti di questi hanno fatto fortuna,
vantano contratti principeschi e,
imitando i loro colleghi europei, reclamano
ricchi premi anche quando
giocano nelle proprie nazionali.
Quando si parla di calcio africano,
quindi, non bisogna fare troppa poesia,
pensando solo ai bimbi scalzi
che tirano calci nelle paludi a palloni
sgonfi. In Africa il calcio ha fatto
molta strada, sebbene difficilmente
potrà raggiungere quello europeo,
semplicemente per questione di risorse.
La stessa Fifa, in questi anni,
ha sprecato capitali in feste ed eventi
allo scopo di sviluppare nuovi progetti
in Africa.
In fondo, però, dobbiamo ammetterlo,
speriamo che questo
tipo di calcio non si occidentalizzi
troppo e conservi quella genuinità
e allegria che sinora lo ha contraddistinto.
Da un certo punto di vista, lo stesso
Senegal, protagonista di questi ultimi
mondiali, può essere criticato
perché, avendo tutte le potenzialità
per andare oltre i quarti, non ci è riuscito
forse per mancanza di ferrea disciplina:
i giocatori sono stati lasciati
troppo liberi nel ritiro e si è lasciato
spazio a feste, balli, cerimoniali.
D’altronde, è proprio grazie a questo
spirito che è riuscito a mostrare il
gioco più spumeggiante e divertente,
rimanendo al tempo stesso tatticamente
molto accorto, come una qualsiasi
nazionale europea dalla lunga
tradizione. E non per caso, dal momento
che quasi tutti i suoi atleti militano
nel campionato transalpino.
Mettendo da parte per un attimo
il calcio-business, vogliamo ricordare
come lo sport, il calcio, contribuiscano
alla realizzazione di progetti in
zone degradate dell’Africa, per lo
sviluppo non solo atletico, ma anche
culturale ed educativo dei ragazzini.
Naturalmente, alcuni di questi
progetti, magari finanziati da blasonati
club europei, non nascondono
l’obiettivo di scovare e allevare campioni
da far sbarcare in Europa; ma
molti altri sono votati alla mera beneficenza.
Gli stessi giocatori africani,
che in Europa hanno fatto fortuna
e miliardi, sono spesso coinvolti
in tali iniziative. Ne è un esempio
George Weah, prodigatosi come attivo
finanziatore, oltre che giocatore-
allenatore, per la propria nazionale,
la Liberia, paese stremato da fame
e da guerra. Anche per questo è
riconosciuto il più grande calciatore
africano di tutti i tempi; più di Roger
Milla che, a 38 anni, a suon di
goals, aveva portato il Camerun ai
quarti di finale nei mondiali del ‘90.
Weah ha fatto vincere tanto al Milan,
da essere insignito del pallone
d’oro, massima onorificenza per un
giocatore che milita in Europa, e diventare
un simbolo dell’espressione
calcistica africana
nel vecchio continente.

Gaetano Farina Malù Mpasinkatu




MGONGO (TANZANIA) tra i ragazzi di strada

LA CASA CHE RESTITUISCE I SOGNI

Iniziata con una ventina di ragazzi di strada,
oggi la Faraja house (casa della consolazione)
ne accoglie 130, con storie di emarginazione
che stanno diventando storie d’amore e solidarietà:
le racconta l’iniziatore di quest’opera.

Il 1° maggio del 1997, a Mgongo,
periferia di Iringa, c’era un edificio
con un gruppo di 11 bambini:
nasceva così la Faraja house (casa
della consolazione) per i ragazzi di
strada. Oggi è un grande villaggio
con tante case e casette, scuola elementare,
scuola tecnica, dispensario,
strutture per allevamenti e, al centro
del tutto, una bella chiesetta. E poi
tanti bambini e ragazzi di ogni età, figli
della miseria e abbandono. Le loro
storie sono una litania di abusi, fame,
furti, prigione… lotta per la sopravvivenza.

Il nostro diario è pieno di racconti
e avvenimenti, successi e insuccessi,
ma sempre conditi d’amore ed entusiasmo,
nonostante tutto.

VOGLIA DI CAREZZE
I primi arrivati ora sono «giovanotti
» e frequentano i corsi tecnici o
o le scuole superiori. Abi è uno di essi:
una storia dura per lui e per me;
un cammino difficile, ma fruttuoso.
Era un bambino pauroso e introverso.
Dodicenne era già condannato
a sette anni di carcere per aver rubato
una radio. Dopo due anni riuscì
a scappare. Vagabondò per un
altro anno, finché fu accolto in un
centro per ragazzi di strada che, sotto
il nome di Ong, ancora oggi sfrutta
bambini con impunità e la connivenza
di qualche pezzo grosso. Raccontava
che là picchiavano sodo e si
mangiava poco.
Scappato dalla casa di accoglienza,
Abi si fece altri sei mesi in galera
a Iringa; poi fu trasferito al carcere a
Mbeya. Riuscì quasi subito a evadere,
ma fu ripreso e sottoposto a botte,
lavoro, fame e castighi. Riuscì
nuovamente a evadere e fuggì a Iringa
dove si aggregò a una piccola banda
di ragazzi che vivevano di espedienti:
diventò maestro di furti e bugie
per sopravvivere.
Arrivò a Mgongo nel luglio del ‘97.
Mi raccontò la «sua» storia, quasi
tutta inventata: diceva che i genitori
erano morti quando lui era piccolo;
ma si lasciò sfuggire il nome del villaggio
d’origine, lontanissimo, nel
nord del Tanzania. Riuscii a risalire
alla famiglia attraverso il parroco del
luogo: suo padre pretendeva che il
figlio tornasse in prigione. Decisi di
tenermelo senza far sapere dov’era.
Dopo mesi arrivò la mamma, avvertita
in segreto. Era partita da casa
con uno stratagemma, perché il marito
non sapesse. S’informò del figlio,
che non vedeva da tre anni. Raccontò
che il padre lo odiava visceralmente,
perché il bambino era un ladruncolo
fin da piccolo. Una volta gli bruciarono
le mani, legate con erba secca;
ma non era servito a niente.
Quando Abi vide la mamma si
voltò dall’altra parte e si rifiutò di salutarla.
Mi sussurrò: «Quando ne avevo
bisogno, lei dov’era?». Era solo
un bambino abbandonato e «stanco
», ma con tanta voglia di carezze.

IN CERCA DI RADICI
Alì è uno degli ultimi arrivati. Lo
incontrai al mercato mentre ero in
giro con amici di Torino. Era affamato,
sporco, cencioso. Lo avvicinammo
e fummo subito circondati
da una turba di ragazzi e giovani habitué
del mercato che mi supplicarono
in coro: «Baba Faraja, prendilo
con te, perché è troppo piccolo e
non riesce a sopravvivere».
Guardai gli amici e lo invitammo
a salire in auto per parlargli con più
calma. Chi sei? Da dove vieni? Hai
parenti? Dalle poche parole che
riuscii a tirargli fuori, seppi
che aveva un padre e abitava
nei sobborghi della
città, l’ultima casa ai piedi
della montagna. Decidemmo
di andarlo a
trovare, anche se avevamo
fretta: stava per
scendere la sera. La capanna
era chiusa. Si avvicinò
un giovane e gli
chiedemmo informazioni. Arrivò una
donna che, dopo lunghe spiegazioni,
si presentò come «zia». Quante zie in
Africa. Risulterà poi essere la matrigna.
Il bimbo era spaurito. Pareva avere
8-9 anni; ma la zia disse che ne aveva
almeno 15. Ci spiegò che il padre
era al kilabu (osteria). Lo incontrammo
per strada: era ubriaco.
A vedere il figlio con dei bianchi,
l’uomo si spaventò e cercò di spiegarci
che «lui non c’entrava»: aveva
solo collaborato a metterlo al mondo;
la madre se n’era andata e non si
era fatta più vedere; per questo il ragazzo
era con la «zia».
Domandammo anche a lui quanti
anni avesse il figlio. Rispose che ne
aveva 17. Era chiaro che, passata la
sbornia, lo avrebbe fatto ringiovanire.
Lo invitammo a venire
al centro la domenica
seguente, per
foirci, a mente
lucida, altri chiarimenti,
ventilando,
se non si fosse
presentato, un’eventuale
denuncia
alla polizia per abbandono
di minore.
Per questo ci affidò il
figlio molto volentieri. A casa cominciò
un arduo lavoro di restauro
per renderlo presentabile: era pieno
di vermi, scabbia, pidocchi e altro.
Alì ha 12-13 anni, ma non li dimostra.
La madre morì quando ne aveva 2.
Se n’era preso cura una zia, vecchia e
sola, ma poco dopo lo aveva riportato
al padre: cominciò per lui una tremenda
vita di stenti, vagabondaggi,
fame, botte; finché andò a vivere sulla
strada.
Ora Alì va a scuola. Vuole rompere
col passato: si fa chiamare Rich, come
il protagonista di un film. Almeno
i sogni nessuno glieli può rubare.
È arrivato anche Fabian, amico inseparabile
di Alì-Rich: la notte dormivano
in un mucchio di crusca vicino
ad un mulino per tenersi caldi e
nascondersi; di giorno, in giro a cercare
di che sfamarsi, raspando tra i
rifiuti del mercato. Rimasto solo alla
stazione delle corriere, è venuto pure
lui, piuttosto malconcio, a chiedere
di essere accolto alla Faraja.
Fabian era scappato da casa dopo
la morte della madre. Veniva da molto
lontano, oltre 300 km da Iringa,
da qualche paese dell’Ukinga, di cui
non ricorda il nome. Per tre mesi, a
piedi, vagabondò di villaggio in villaggio.
Da 5 anni faceva vita da randagio
per le strade di Iringa.
Ho fatto delle ricerche, ma è stato
come cercare un ago nel pagliaio: il
suo cognome, Sanga, in quella zona
è comunissimo. Ora è con noi, senza
radici; ma ha ritrovato l’amico e una
casa per sognare. Ha solo 12 anni.

CARCERE DELLA VERGOGNA
La domenica molti ragazzi di strada
della città vengono alla Faraja per
lavarsi, mangiare e giocare con i nostri;
verso sera li riportiamo sulla
piazza del mercato. Intanto mi faccio
raccontare le loro storie. A seconda
dei casi, cerco di rintracciare
i parenti; li aiuto ad andare a scuola;
li tiro fuori dalla prigione. Con qualcuno
ci sono riuscito.
Anche Dicki, sorriso accattivante e
ladruncolo imbattibile a12 anni, mi
ha raccontato la sua storia di violenze:
arrestato per vagabondaggio, fu
buttato in prigione e rinchiuso in un
camerone con 52 adulti. Due di loro
l’hanno ripetutamente violentato di
fronte agli altri, senza che nessuno si
sia mosso a pietà delle sue grida.
Il giorno dopo il suo racconto, feci
irruzione nell’ufficio dell’assistenza
sociale con tanta rabbia in corpo
e grande sconforto: gli addetti a tale
ufficio fanno poco o niente; d’altronde
sono pochi, quasi senza mezzi
e con meno voglia e autorità.
La rabbia più forte la scaricai sul
capo delle prigioni: un omone mellifluo
e panciuto, da gran bevitore,
che, tra le altre cose, mi disse vigliaccamente
che ragazzi come Dicki
ci sono abituati e ci stanno. Mi viene
da credere che sia tutto combinato:
che ogni tanto arrestino qualche ragazzino
della strada per darlo in pasto
ai carcerati.

SOLIDARIETÀ DEI POVERI
Pochi giorni fa, passando per il
mercato, trovai una grande folla che
vociava e sghignazzava. M’informai
e mi dissero che stavano picchiando
un piccolo ladro. Sceso dall’auto, mi
avvicinai. La folla aprì un varco; tutti
mormoravano: «Baba faraja». Arrivato
sul luogo della scena, vidi che
alcune «guardie» del mercato stavano
bastonando Jonny e un energumeno
lo prendeva a calci in pancia,
mentre Tray cercava di frapporsi col
suo corpo e invocava pietà.
La mia presenza fermò i bastoni; i
ragazzi mi spiegarono l’accaduto:
Jonny aveva voluto aiutare un europeo
a portare la borsa per guadagnarsi
qualche soldo; ma qualcuno
aveva frainteso il gesto e si era messo
a gridare: «Al ladro! Al ladro!».
In tali occasioni tutti si trasformano
in «giustizieri» e diventano spietati,
fino a uccidere il malcapitato a
botte, oppure gli legano le mani, gli
infilano al collo un vecchio copertone
inzuppato di petrolio e danno
fuoco. È successo pure che a qualcuno
hanno bucato gli occhi.
Presi per mano i due ragazzi, veramente
malconci, e li portai all’ospedale.
Ancora oggi, Jonny e Tray
portano in faccia e sulle gambe i segni
di quelle botte. Tray ne è fiero:
«Solidarietà tra reietti!».
Questi bambini sono i famosi «ultimi
» del vangelo, destinati a «primi
». In certe occasioni si risveglia il
buon cuore anche dei più monelli,
tanto che bisogna frenarli. Nell’ultima
quaresima, per esempio, alcuni
ragazzi decisero in assemblea di «dare» qualcosa ai più poveri di loro. Le
idee erano tante: una delle squadriglie
(così sono organizzati i 130 ragazzi)
propose di rinunciare alla colazione
del mattino e dare l’equivalente
in denaro. Alla fine fu deciso
che il giovedì pomeriggio, invece della
solita partita a pallone, avrebbero
raccolto pietre da costruzione sulle
montagne vicine per poi venderle.
Per me il giovedì pomeriggio si trasformò
in un incubo, al vedere i fianchi
della montagna brulicare di bambini
e ragazzi che facevano rotolare
a valle grossi massi, preceduti e seguiti
da tante ansiose raccomandazioni.
Tra l’altro, temevo che da sotto
i massi uscisse qualche serpente,
anche se non credo che i ragazzi si sarebbero
spaventati più di tanto.
Ne raccolsero tre camionate. Il ricavato
lo usammo per aggiustare la
casetta di Huruma, un’orfana di 12
anni, che vive con la nonna cieca: oltre
ad accudirla, trova il tempo di andare
a scuola.

ADULTI DA SENSIBILIZZARE
Il numero dei ragazzi di strada
continua ad aumentare, anche a causa
dell’Aids. Orfani a causa di tale
pestilenza, essi non sono più assorbiti
nel tessuto sociale dei villaggi,
perché sono diventati troppo numerosi;
non resta loro che sciamare per
le strade delle città, organizzarsi in
bande e diventare facilmente piccoli
delinquenti.
È difficile trovare per tutti una soluzione
definitiva. Intanto, abbiamo
fretta di aprire un ufficio in città: un
centro di prima accoglienza o di primo
soccorso dei bambini in difficoltà
e, al tempo stesso, un mezzo
per spiegare e sensibilizzare gli adulti,
le comunità parrocchiali e i «capoccia
» di ogni genere, perché passino
dal disprezzo e paura a capire,
aiutare e (perché no?) amare
anche questi «figli di
Dio» meno fortunati.

Franco Sordella




PERÙ storie di immigrazione dal Sud del mondo

E NULLA
LI POTRÀ FERMARE
Arrivano travestiti da turisti o da uomini d’affari. Chi non può, attraversa
a piedi le frontiere. Spesso hanno un titolo di studio, che non possono
utilizzare. Si adattano a qualsiasi lavoro, vivendo nell’ombra, in attesa
di tempi migliori. Ora la legge Bossi-Fini è entrata in vigore, ma né
le frontiere né le leggi fermeranno chi non ha niente da perdere.

Tanti anni fa mi chiamarono
per andare a visitare
una persona anziana.
La donna era diabetica,
con una gamba amputata e aveva
problemi cardiaci. Morì
dopo pochi mesi. Si chiamava
Elena Rossi ed era nata a Genova.
L’unica cosa particolare
di questo breve e sbiadito ricordo
è il luogo.
La signora Elena viveva in una
decrepita catapecchia di esteras,
plastica e cartoni nel deserto
su cui si stava sviluppando
Villa El Salvador, alla
periferia estrema di Lima, in
Perù.
Poco distante, a Tablada de
Lurin, avevo avuto modo di
sorridere alla visione di una casa
che con il tempo era diventata
parte del paesaggio. Si
trattava di una casetta normale,
se si esclude la particolarità
di un cancello sormontato da
un grande ponte di Rialto, in
cemento armato, che fungeva
da trave. Non era una grande
opera. Anzi, direi che era di
cattivo gusto. Il proprietario
della casa – mi avevano raccontato
– era un orologiaio italiano che lavorava in una baracchetta
alla chancheria, il mercato centrale
di Villa El Salvador. Era fuggito
dall’Italia alla caduta del fascismo.
Se questi erano gli emigrati nostrani
che non avevano sfondato, Lima
invece è piena di segni del passaggio
di italiani. Una delle scuole
straniere più famose della capitale è
l’istituto italiano Raimondi, il dolce
tipico di natale è il panettone, si
mangiano spaghetti Molitalia e Nicolini,
i gelati principali portano il
nome D’Onofrio e – cosa scandalosa
per noi, ma devo dire molto appetitosa
– un piatto tipico di Lima è il
«musciame». Il musciame, vietatissimo
in Italia, è di origine genovese
(con lo stesso nome) e lo si può incontrare
ancora in ristorantini di
Chorrillos e Baranco. Si tratta di
«sfilaccetti» di delfino secco, conditi
con limone, e che a Lima ti servono
con fettine di avocado (assomigliano,
ma con un sapore più forte,
alla bresaola).
Insomma, a Lima ed in Perù, gli italiani
per lo più hanno sfondato eccetto
la signora Rossi di Genova, l’orologiaio
del ponte di Rialto ed il
mio amico Carlos Tozzi.

«NIENTE VISTO,
RIPROVI FRA TRE MESI»

Carlos è della selva, di Lamas, vicino
a Tarapoto. Il suo cognome,
Tozzi, è tipicamente italiano e lui si
arrabbia se lo chiamiamo charapa,
come vengono soprannominati gli
indigeni della zona. Ci ricorda infatti
che suo padre era maestro, che
vivevano nella «Plaza de armas» di
Lamas e che ha lontane origini italiane.
Carlos è una persona normale. Vive
a Villa El Salvador, possiede un
piccolo commercio di elettronica e,
fra gli alti e i bassi della sua attività,
si è dovuto far carico dei fratelli che
ha preso a lavorare con lui.
I fratelli sono cresciuti, ma il paese
(sempre in crisi economica) non
ha permesso a Carlos di sviluppare
il suo piccolo commercio. I fratelli,
insoddisfatti dello stipendio, hanno
cominciato a pensare di emigrare e
Carlos, spinto dalle pressioni della
famiglia, si è trovato a dover organizzare
e finanziare questo viaggio
della speranza.
Già un fratello di sua moglie era emigrato in Italia da alcuni anni, raggiungendo
la fidanzata (partita prima
di lui) e, quindi, una base di esperienza
già c’era. Il cognato di
Carlos, dopo quasi 10 anni di clandestinità
passata come cameriere in
una casa di lusso dell’Olgiata a Roma,
era riuscito ad ottenere il visto.
Ora, quando torna in Perù, prende
la famiglia ed offre loro un viaggio
in una zona turistica: non ne vuole
più sapere della povertà della periferia
di Lima. Si è comprato una casa
a Roma che affitta, per stanza, ad
altri peruviani. E lui continua a vivere
e lavorare all’Olgiata.
Un anno fa dissi a Carlos che non
ce l’avrebbe fatta a mandare i suoi
due fratelli in Italia, perché i controlli
erano rigorosi ed i visti quasi
impossibili. I due fratelli sono invece
tranquillamente nel nostro paese.
Clandestini, lavorano in nero e spediscono
soldi in Perù.
Bossi, Fini e Berlusconi hanno fallito
con i miei amici peruviani.
Grazie invece al nostro governo e
al Consolato italiano di Lima, non
sono riuscito a far viaggiare, per un
mese di vacanza in Italia, la mia figlioccia
che, finite le superiori, si era
iscritta a medicina a Lima. Sua
madre, professoressa universitaria
peruviana, è stata respinta dal Consolato,
pur potendo dimostrare il
suo stipendio (decente per il Perù,
anche se indecente per l’Italia), l’iscrizione
in un’università privata
della figlia e la mia lettera d’invito,
nella quale mi facevo carico dell’alloggio
e di ogni possibile spesa. Le
hanno detto: «Niente visto, riprovi
fra tre mesi… Fate tutti così e poi rimanete
in Italia».
Allora come ce l’hanno fatta i fratelli
di Carlos?

LA DISPERAZIONE
AGUZZA L’INGEGNO

Come ce la fanno le altre migliaia
di peruviani che viaggiano in Europa
e rimangono come clandestini?
(Si parla di 30.000 passaporti nuovi
emessi ogni mese in Perù e… certo
non per turismo).
I metodi sono tanti e vengono accuratamente
scelti in base alle caratteristiche
delle persone e delle variazioni
che si osservano nei paesi
europei.
Me ne hanno raccontati alcuni.
IL RICCO TURISTA
Si compra un tour, alberghi compresi,
per andare a visitare la Terra
Santa. Il viaggio prevede però una
sosta ad Amsterdam di due giorni,
perché non vi sono coincidenze immediate.
Viene rilasciato il «visto
Schengen» (vi aderiscono 15 paesi
europei, ndr) per la sosta, si va all’albergo
prenotato nella città olandese,
ci si riposa e, dopo una bella
doccia, si prende il primo aereo per
Roma. Arrivati alla dogana, ti chiedono
il perché di questa deviazione.
Rispondi che, avendo due giorni di
tempo, ne approfitti per visitare anche
il papa. Poi, fuori dell’aeroporto,
c’è qualcuno che ti aspetta. Lo
segui in silenzio fino alla macchina e
quindi sparisci.
IL MANAGER
Si sa che un manager deve poter
viaggiare e che il «negozio» non ha
frontiere. Il problema è che non tutti
sono manager. Bisogna allora scegliere
una piccola società (basta un
negozietto) che abbia la sede in un
buon quartiere di Lima (Miraflores
e San Isidro sono i più gettonati). Si
nomina la persona candidata a trasformarsi
in «emigrante clandestino» direttore generale. Con un documento
falso si dimostra l’elevato
stipendio dello stesso, e si chiede il
visto per un viaggio di affari.
Nel Consolato di uno dei paesi
Schengen (il paese viene cambiato
a seconda dell’aria che tira e ultimamente
mi dicono che venga utilizzata
spesso la Grecia) si ottiene il
visto e poi, arrivati in Europa, si
sparisce.
L’AVVENTUROSO
Forse questo modo di viaggiare è
meno caro degli altri. Conosco una
ragazza che è andata a lavorare a Milano,
passando per la Croazia e di là,
via terra, in Italia. Un altro è partito
per il Marocco e, non so per quali
vie, è arrivato in Italia.

VITA DA CLANDESTINO
Che fanno il ricco turista, il manager,
l’avventuroso una volta arrivati
in Italia?
Appoggiati da contatti in loco
(spesso familiari), un lavoro in nero
lo riescono a trovare. Di frequente
nelle case (i camerieri e le cameriere
peruviani sono molto apprezzati), in
piccole e medie imprese (ne conosco
uno che lavora in nero in una
concessionaria di una grossa società
di automobili). Ne ho conosciuto un
altro, che è riuscito a sposarsi con una
postina italiana di un’isola della
laguna di Venezia.
In Italia bisogna rigare dritto. La
vita deve essere tutta casa e lavoro,
evitare assembramenti, i locali dove
si riuniscono i peruviani, non creare
problemi, arrangiarsi se si sta male
e attendere l’occasione per diventare
regolare.
Carlos mi diceva che non capiva
perché i suoi fratelli se ne andassero
a cercare fortuna altrove. In fondo
un lavoro ce l’avevano e bastava aspettare
che l’economia si riprendesse
per migliorare la loro condizione
economica. Mi confessava che
non capiva come uno che avesse un
certo livello di studio, una certa responsabilità
nella gestione di una
piccola impresa, moglie e figli, decidesse
di abbandonare tutto per andare
a cambiar gomme alle auto o a
pulire i gabinetti di qualche ricca famiglia
italiana.
Poi però, riflettendo, confessava
che mentre suo cognato, pulendo i
cessi in Italia, era riuscito a comprarsi
un’auto e una casa a Roma, a
tornare a Lima ogni due anni e a fare
il signore, lui laureato ed impresario
in Perù stentava a tirare avanti.
«Questo è il problema – mi spiegava
– i nostri emigrati sono giovani
che hanno perso la speranza di un
futuro nel proprio paese». Quello
che cercano in Italia e in Europa è la
prospettiva di un domani diverso e
per questo sono disposti a pagare un
prezzo pesante: abbandonano mogli
o mariti, figli, affetti, dignità professionale,
ed accettano qualunque
lavoro.
«Un eventuale fallimento – mi diceva
Carlos -, la possibilità di un’espulsione,
l’andare come clandestini,
il pagare 5.000 dollari per viaggiare,
la vita di segregazione nei
vostri paesi, sono il prezzo da pagare
nella ricerca di una speranza e
quindi non sono un vero ostacolo».

ANDATA E RITORNO
Basta sedersi davanti alla mia casa
a Villa e parlare con i vicini per capire
molte cose e ascoltare tante storie.
L’Argentina sicuramente è stata una
tragedia per i peruviani. Un giorno
José bussò a casa e, con grande
vergogna, ci chiese 10 dollari. Sua
madre, in fuga dal disastro dell’Argentina,
era rimasta bloccata con il
pullman di linea a causa di una gran
nevicata su un alto passo ai confini
fra Argentina e Bolivia. Non aveva i
soldi per mangiare e se li era fatti
prestare da una compagna di viaggio.
Era partita solo un anno prima,
sbagliando i calcoli e trovando
un’Argentina senza possibilità di
darle un lavoro.
Roberto, ragazzo intelligente ed
inquieto, era riuscito a lavorare come
portiere in un’impresa televisiva
a Buenos Aires. Si era fatto raggiungere
dalla fidanzata e aveva messo su
casa. Poi il disastro argentino, il lavoro
perso e il ritorno a casa, a Villa
El Salvador. Ora vaga per il quartiere,
ben vestito, insoddisfatto della
povertà che lo circonda e pronto a
ripartire. Questa volta però per
l’Europa.
Gli Stati Uniti sono un’altra meta
desiderata e sognata.
La famiglia del farmacista Juan ha
mollato tutto. Prima un figlio in
Francia, poi anche l’altra figlia, infine
loro due, marito e moglie, li hanno
raggiunti, ma Eduardo no. Lui era
stato sempre un ribelle, elegante
e affascinante. Si era comprato una
bella macchina: aveva lavorato come
guardia del corpo in Perù e non
voleva andarsene. Poi qualche problema
con la coca, i primi figli, la crisi economica sempre più profonda
e la decisione di andare (anche lui!)
negli Stati Uniti. Un lavoro da scaricatore
(non riesco ad immaginarmi
questo ragazzo elegante e ribelle a
scaricare camion). Poi, con l’11 settembre,
l’impresa è stata colpita dalla
crisi, ma lui ha resistito, pur avendo
perso il lavoro. È riuscito a trovae
un altro e a chiamare moglie e
figli che poco tempo fa sono partiti
da Villa El Salvador per raggiungerlo
negli Stati Uniti.
Potrei ancora raccontarvi del difficile
anno di Sara a Milano, clandestina
e prigioniera in una casa borghese,
dove lavorava per una piccola
mancia quotidiana: schiava e
prigioniera. Una bella ragazza di poco
più di vent’anni, figlia di un amico
di Villa El Salvador, che mi aveva
pregato di aiutarla. Gli avevo
spiegato che non potevo fare granché,
ma gli avevo dato il mio indirizzo
e il numero di telefono per ogni
possibile problema.
Ogni tanto Sara mi telefonava. Si
sfogava, mi raccontava di come era
maltrattata e di come non poteva
reagire, perché minacciavano di denunciarla.
Non ce la fece a resistere
e toò in Perù. Adesso sta bene: si
è sposata ed è tornata serena. Ma
non vuole parlare di quell’anno trascorso
in Italia.

«PERÒ VIVONO»
Ci sono anche persone più fortunate.
Maria che si è sposata con un
francese e ora vive a Parigi; Feando
e Jorge che si sono sposati con
due spagnole e adesso vivono a Madrid
uno e a Barcellona l’altro. Certo
le loro parole sono piene di nostalgia
e i loro lavori non sono al livello
della preparazione e capacità.
Però vivono.
Specialmente Jorge è rimasto
sconvolto dallo scoprire la povertà.
Piangendo l’ho sentito raccontare la
povertà della vita e della morte dei
suoi genitori, della tubercolosi di un
suo fratello. Era la sua stessa povertà,
ma l’ha scoperta vivendo in
Spagna. Sono stato a casa sua a
Barcellona, bella, modea, con
tutto il necessario, ben diversa
dalla casetta della sua famiglia a
Villa El Salvador. Jorge è triste
e rimpiange la sua gente. Ma
non toerà.
Se solo potessi raccontarvi la
storia di Feando che in Perù
sognava di essere giornalista.
Ma non posso, perché neanche
lui vuole raccontarla. La conosco solo
grazie a due notti passate nella
stessa stanza d’albergo a Barcellona,
a qualche bicchiere di birra bevuto
insieme passeggiando per las Ramblas
e ad una parte di storia vissuta
con lui nel ruolo di «complice».
Ha attraversato le frontiere di
mezza Europa nascosto nel bagagliaio di un’automobile, venduto
palloncini nel Parque del Retiro di
Madrid, mangiato nelle mense dei
poveri, dormito agli angoli delle
strade. Ha fatto il «vu’ cumprà», e
poi lentamente è risalito per la china
di una vita che si è dovuto conquistare
palmo a palmo, fino ad iscriversi
all’università, a lavorare
come giornalista in un grosso periodico
di Madrid, e poi, perso il lavoro
per una crisi del giornale, a riciclarsi
come assistente di anziani.
Con lui sono in contatto settimanalmente
per E-mail.

CHI TROVA
LE FRONTIERE APERTE?

Chissà quale sarà la storia delle
persone che incontriamo quotidianamente
e che, genericamente, cataloghiamo
come «extracomunitari
». Sarà simile a quelle dei miei amici?
Una volta, nella bella città dove vivo,
Venezia, ero andato a comprare
il latte con mio figlio di 5 anni. Dentro
il negozio, c’era un grande, grosso
e nero «vu’ cumprà». Quella volta
non riuscì a trattenere un largo
sorriso di fronte a mio figlio e mi disse:
«Nel mio paese facevo il maestro,
i bambini sono belli in tutto il mondo
»! e se ne andò via con il suo borsone
pieno di borse contraffatte,
senza aspettare una mia risposta che
peraltro non avevo.
I transessuali peruviani viaggiano
tranquillamente e costantemente fra
Lima e Milano, dove svolgono il loro
«apprezzato» (inutile negare l’evidenza)
commercio e da Milano
portano l’Aids in Perù insieme a
manciate di soldi (tre di loro erano
nei sedili posteriori del volo Iberia
che a giugno mi riportava in Europa).
I commercianti di droga, le mafie
della prostituzione, i delinquenti incalliti
di tanti paesi possiedono ottimi
visti e per loro le frontiere sono
sempre aperte.
Come spiegare queste cose a Pamela,
la mia figlioccia di 17 anni?
Lei mi disse con candido stupore
che non capiva. Non capiva perché
io potevo viaggiare quando volevo
in Perù ed invece lei era respinta dall’Italia
per il suo sogno di una vacanza
promessa da tanti anni.
Aveva scoperto quella stupida e inutile
ingiustizia che le peserà per
tutta la vita (perché io sempre sarò
europeo e libero e lei peruviana e
prigioniera).

L’ILLUSIONE
DI CONTROLLARE IL MONDO

I ragazzi alla ricerca di una speranza
viaggeranno comunque. Passeranno
per il Marocco, la Slovenia,
la Turchia, la Grecia. Saliranno su
carrette del mare. Attraverseranno
le frontiere nascosti in camion o nei
bagagliai delle auto e, se verranno
trovati, saranno espulsi, ma sicuramente
ci riproveranno. E, quando
saranno vecchi, lo faranno i figli e
poi i figli dei figli.
No, Bossi, Fini e Berlusconi e la
maggioranza dei miei compaesani si
stanno illudendo. Le frontiere non
bloccano chi non ha niente da perdere
e cerca solo una speranza per
il proprio futuro. E non bastano pochi
aiuti ai loro paesi per evitare la
loro migrazione, perché – contrariamente
a quanto si crede – non sono
gli affamati che tentano l’avventura.
Bensì tutti quelli che nel loro paese
non hanno una speranza di un futuro
diverso.
Sono proprio loro, questi giovani
senza speranza, pericolosi, fastidiosi
immigrati che vengono a sconvolgere
le nostre illusioni
di poter controllare
il mondo.

Guido Sattin




I grandi missionari: Giovanni Bonzanino MILLE E UN SOGNO

Giovanni Bonzanino

Missionario di frontiera, irresistibilmente attratto dal più difficile,
lontano e bisognoso, padre Giovanni Bonzanino moriva a Shashemane
(Etiopia) 20 anni fa, il 30 gennaio 1983. Amò la «sua Africa» con
passione contagiosa, fino a consumarsi a soli 56 anni.
«Non sono nato in Africa.
Questo mi dispiace un
poco. Avrei voluto essere
sfornato in questa verde, dolce, ubertosa
Africa, dove si viene al mondo
inguantati in un’ambra vellutata
e soave e la vita scorre smorzata come
un venticello che sfarfalla tra ramificazioni
di alberi giganteschi».
Così inizia una specie di diario in cui
padre Bonzanino racconta l’esperienza
dei suoi primi anni in Africa.

SOGNANDO L’AFRICA
«Invece sono nato a Biella» continua.
Era il 29 gennaio 1927. Prima
ancora che venisse al mondo, sua
madre lo aveva offerto alla Madonna,
conservando quel segreto per 30
anni, fino a quando visitò il figlio in
Kenya: padre Giovanni l’abbracciò,
sollevandola da terra e, in un impeto
di gioia, le disse: «Mamma, quel
giorno mi hai fatto il più bel regalo».
Alberta Maria era una donna che
«sapeva il fatto suo, dai battibecchi
con le vicine al far filare dritto i figli,
dallo speculare fino all’osso per sbarcare
il lunario a lavorare in fabbrica
e passare tra posti di blocco in bicicletta
con un carico di granoturco».
Papà Vittorio non era da meno.
«Tutto casa e lavoro, vecchio socialista,
dovette assoggettarsi a portare il
fez in testa per campare, rischiare la
galera per racimolare due chili di farina
al mercato nero, poiché il pane
della tessera finiva troppo in fretta».
Erano i tempi duri del fascismo e
della seconda grande guerra. Ciò
non impedì al piccolo Giovanni di
coltivare sogni e avventure, come un
ragazzo normalissimo. Nei tempi liberi
dalla scuola faceva qualche lavoretto
in fabbrica, per arrotondare
il bilancio familiare. In classe si appassionava
di storia e geografia, ma
era allergico alla matematica. «Non
fui mai uno sgobbone – confessa -. La
mia specialità era il pallone e il tifo
per la Juventus: primo amore che mi
portai in Africa come un soldato il
suo fucile».
A volte, con la banda del quartiere,
marinava la scuola per esplorare
la campagna o alleggerire la pianta di
fichi nell’orto del prevosto. «Un
giorno Tavio, il vecchio sacrestano,
mentre si riallacciava la cinghia dei
calzoni appena usata sui piccoli furfanti,
mi domandò cosa sarebbe stato di una canaglia come me da grande;
risposi innocentemente: “Mi farò
missionario”. Si sbellicò dalle risa.
Ma quando celebrai la prima messa,
mi diede una pacca sulle spalle e sorrise:
“L’ho sempre detto che ti saresti
fatto prete”».
Entrato nel seminario di Biella,
Giovannino sognava di essere torturato
dagli africani e finire martire. In
quinta ginnasio decise di farsi missionario
della Consolata. «Coi miei
17 anni, lieto, baldanzoso e impaziente
– racconta -, iniziai il liceo a Varallo.
Non all’algebra e trigonometria.
Avevo qualche ebbrezza poetica,
ma il mio ideale era l’Africa. In
noviziato, alla Certosa di Pesio, non
ho avuto sussulti mistici, né impennate
carismatiche. Tra i miei compagni
c’era un africano: fu il migliore
stimolo missionario».
Durante gli studi teologici continuò
a respirare aria di missione, più
dalle figure di missionari incontrate
nella casa madre di Torino che dalle
lezioni accademiche. Arrotondò il
suo curriculum con discipline utili
per l’Africa: diploma magistrale, fotografia,
dattilografia. Finché fu ordinato
prete nel 1953, a 26 anni. L’anno
seguente partì per il Kenya: «Fu il
giorno più bello della mia vita».

L’INAFFERRABILE JOHN
Destinato alla missione di Mujwa,
nel Meru, John cominciò subito a
studiare la lingua locale, familiarizzare
con usi e costumi della gente e
smontare qualche idee preconcette,
alla scuola della figura poliedrica e
briosa di padre Chiardo.
Appena riuscì a masticare qualche
parola in kemeru, prese a scorrazzare,
prima con una vecchia moto, poi
con una Land Rover scassata, per visitare
le comunità, portare uno all’ospedale,
un’altra alla mateità, un
terzo al brefotrofio. «Mai paura! Passo
per uno che pialla le curve e mangia
i freni» scriveva nel diario.
A giugno del 1954 era professore
d’inglese e storia nella scuola secondaria
di Nkubu. «Come è impartita
qui – scriveva -, la storia ha una piuma
bianca sul cappello scozzese: testi
in inglese di autori inglesi. È una
storia colonialista». Ma ci pensò lui a
metterci la penna nera dello struzzo
africano, evidenziando le scoperte archeologiche
fatte in Africa orientale,
sciorinando imprese coloniali e tratta
degli schiavi, «pagine che facevano
impazzire gli studenti».
Alla fine del 1956 fu nominato
parroco di Meru, capitale dell’omonimo
distretto, dove si stava costruendo
la cattedrale. «Sono uscito
dalla fase di amore avventuroso-romantico
per l’Africa e posso dire, parafrasando
san Paolo: sono cittadino
africano» scriveva nel diario.
E continuò a sognare e dare sfogo
alla creatività vulcanica con innumerevoli
iniziative di successo: pubblicazione
del Twi ba Meru, mensile
di 10 mila copie; compilazione, con
l’aiuto di un prete africano, di innumerevoli
fascicoli, libri, sussidi, catechismi
in lingua locale; uso di modei
strumenti di comunicazione
come radio e cinema, guadagnandosi
il nome di Patere Kameme (padre
radio); fondazione del Meru Sport
Club e organizzazione di popolarissime
competizioni sportive, corse ciclistiche
e toei di calcio, collezionando
un altro titolo onorifico: Thuranira,
l’organizzatore.
«La nostra squadra ha vinto la
coppa del distretto – scriveva nel
1960 -. I ragazzi sono in orbita; io ho
un ginocchio gonfio. Naturalmente
la maglia indossata dalla squadra era
quella della Juve».
John era uno specialista nel coinvolgere
la gente in progetti di chiese,
cappelle, scuole, asili o altre opere
sociali e si meritò un altro gallone:
Patere Lotari (padre lotteria). Quasi
tutte le costruzioni da lui promosse
nascondono nelle fondamenta, come
«pietra» angolare, una manciata
di due scellini, il prezzo del biglietto
della lotteria.
In una parrocchia di 5 mila cristiani
e 60 mila abitanti, padre John si
buttava a pesce nel lavoro missionario:
catecumenati e battesimi a bizzeffe.
«Vacci piano, mi dicono – scrive
nel quarto anniversario dell’arrivo
in Kenya -. Piano un corno. Non
sono io a cercare il numero; sono loro
che vengono a cercare Cristo».
Come se non bastasse, estendeva la
sua attività a tutta la diocesi: formazione
della gioventù; supervisione di
una quindicina di scuole cattoliche;
estenuanti trattative per fondae altre;
animazione dell’Azione cattolica;
visite ai campi di concentramento,
dove erano rinchiuse migliaia di persone
accusate o sospettate di appartenere
al movimento mau-mau.

LA PRIMA AFRICA
Padre John era arrivato in Kenya
quando la tensione tra guerriglia
mau-mau e repressione dell’amministrazione britannica era al culmine
e si trovò subito schierato dalla parte
degli africani.
«Nel mercato tra Mujwa e Nkubu
– scriveva il 23 agosto 1954 – hanno
disteso a terra, allineati, sette cadaveri
di mau-mau uccisi nella foresta.
C’erano lunghe file di persone a guardare.
Mi sono fermato anch’io. Ho
detto una preghiera e tracciato un segno
di croce sui morti. Ho sentito alle
spalle una risata: “Padre, neanche
i tuoi sortilegi possono più farli vivere”.
Era l’ispettore di polizia, che
continuò: “È comodo essere neutrali
per voi missionari, che benedite tutti.
Vorrei esserlo anch’io; invece mi
tocca fare questo maledetto lavoro e
ammazzare questi bastardi”. “Non
sono neutrale” gli ho risposto. Mi ha
guardato con faccia da carciofo, come
un macellaio che affonda la mannaia
per staccare una bistecca; ma
non ha più fiatato. Me ne sono andato
a fare la mia lezione di storia».
Nel suo diario, pubblicato una decina
d’anni dopo, insieme ad altri articoli,
col titolo di Le due Afriche, padre
John non fu solo testimone di
nove anni di convulsioni, ma anche
protagonista del passaggio dall’Africa
coloniale a quella indipendente.
Dall’intreccio socio-politico dei
suoi scritti emergono pure problemi,
riflessioni e intuizioni squisitamente
missionarie: inculturazione, ecumenismo,
chiesa locale, rispetto delle
culture, problemi tribali, divergenze
con altri evangelizzatori, impegno
scolastico e religioso per costruire la
nuova Africa.
Le sue riflessioni possono apparire
un po’ daltoniche: il «nero» è bello;
il «bianco» da cancellare. John
guardava l’africano con occhi di missionario
ciecamente innamorato,
sorvolando sulle pecche e dipingendolo,
o meglio «sognandolo», come
«dovrebbe essere». Ma non senza
apprensione. «Non ho paura di fame
o lebbra, leopardo o serpente,
freccia o fucilata – scriveva alla fine
del ’57 -. Forse ho paura di quello
che potrà accadere al Kenya».

LA SECONDA AFRICA
«Mentre il paese marcia verso l’indipendenza,
anche la chiesa deve avere
una certa autonomia» scriveva
alla fine del 1960. John propose al vescovo
di nominare parroco della cattedrale
un prete africano. L’idea fu
approvata, ma passarono quasi due
anni prima che fosse messa in atto.
Nominato padre Salesio, John scese
al rango di viceparroco e accelerò
il ritmo delle attività. «Il mio lavoro
è un mosaico – scriveva nel 1963 -.
Arrivo alla sera che annaspo. Stampa,
Azione cattolica, cine, conferenze
e raduni in continuità. Ogni missione
vuole una settimana, con ritiri
e proiezioni alla sera. Sono piuttosto
stanco di fare il giradischi». Eppure
trovava tempo per partecipare a comizi
e adunate, incontrare leaders
politici e altri «pezzi grossi».
Le pagine del Twi ba Meru sprizzavano
politica, facendo arricciare il
naso ai missionari stagionati. Ma lui
imperterrito, con idee chiare e benedizione
del vescovo. «Ho preparato
gli schemi per gli incontri del
prossimo anno sul tema: libertà e cristianesimo
– scriveva a una settimana
dall’indipendenza -. Si tratta di far
scendere tutti i cristiani nell’arena e
aiutarli a non essere spettatori: il lavoro
è il padre della libertà; l’ozio è
il padre del colonialismo. Passerà la
febbre dell’indipendenza e occorrerà
rimboccarsi le maniche, soprattutto
i cristiani. È un lavoro eccitante
progettare l’Africa nuova».
Quei giorni John doveva avere una
febbre da cavallo. «Sale la pressione
dell’entusiasmo – scriveva -. Ho una
serie di pellicole sulla libertà di altri
stati africani e tutte le sere le proietto
in qualche parte del Meru. Massa
di gente anche in cattedrale: nella
predica padre Salesio ha detto che i
presenti sono stati battezzati da me
e che, con l’indipendenza, divento
più africano di prima».
Nella notte dell’11 dicembre 1963
toccò a padre John introdurre il Meru
all’indipendenza, intrattenendo la
folla con film, musica e discorsi, inno
nazionale a mezzanotte e trasmissione
radio della cerimonia di
Nairobi. Il giorno seguente fu un’apoteosi,
come racconta nell’ultima
pagina del diario (vedi riquadro).
Alla fine del 1963 padre John fu
nominato parroco di Nkabune e cominciò
a costruire la nuova Africa:
pozzi, chiesa, orfanotrofio, strutture
per le opere parrocchiali e sociali; soprattutto
formazione di comunità responsabili
del proprio futuro civile e
religioso.

DESERTO CHE FIORISCE
Metà della diocesi di Meru, grande
come mezza Italia, non aveva mai visto
la barba di un missionario. Per
sfondare occorreva un uomo di fegato,
fantasia e testa dura. John lesse nella
mente del vescovo e si offrì volontario:
fu subito nominato vicario episcopale
della North Easte Province
(Nep), così si chiama la regione.
In passato il governo l’aveva chiusa
ai missionari, per non scontentare
i musulmani; poi gli schifta (ribelli
somali) vi seminarono terrore e
morte (1963-67), producendo 4 mila
orfani. Siccità, fame e colera stavano
mettendo a rischio la sopravvivenza
di quasi 300 mila abitanti.
Nel 1968 padre John raggiunse
Garissa e, con fratel Mario Petrino,
distribuì aiuti umanitari e trasformò
una caserma diroccata in Boys’ Town
(città dei ragazzi) per accogliere gli
orfani del luogo. Tre anni dopo passò
a Wajir, 400 km più a nord, nel
cuore del deserto, per dare una mano
a padre Baldazzi: sfamati vecchi
e bambini, fondò la Girls’ Town per
un centinaio di bambine orfane. Nel
1972 era a Mandera, altri 400 km più
a nord, ai confini con Somalia ed Etiopia.
Anche qui fondò una Boys’
Town, affidata a Manlio e Lorenza,
due volontari italiani, e sostenuta
dall’adozione a distanza di un gruppo
di 500 famiglie italiane.
Spendere tante forze in un ambiente
totalmente musulmano, quando
altrove si mietevano conversioni a
tutto spiano, per qualcuno era uno
spreco. Ma John ribatteva: «In uno
scenario che è un’orgia di sole e sabbia,
la gente ha soprattutto fame e sete.
Corre voce che il papa abbia presentato
al nostro vescovo l’urgenza
della presenza cristiana in questa zona,
anche soltanto per offrire un bicchiere
d’acqua all’assetato».
Solo Dio sa quanti ne furono distribuiti:
dal fiume Tana, una pompa
foiva alla missione un milione
di litri d’acqua al giorno e la gente attingeva
liberamente.
I giornali parlavano di «miracolo a
Garissa». La missione contava 24 edifici,
chiesa, distributore di benzina
e piscina; accoglieva 225 orfani; impiegava
200 operai locali; ogni sabato
sfamava 300 fra vecchi e bambini;
30 ettari di terra producevano 12 tonnellate
di meloni al mese per il mercato
di Nairobi; poi mais, melanzane,
fagioli, cipolle, peperoni, angurie,
pomodori, arachidi e 5 mila piante di
banane, papaia, uva, datteri.
Identico prodigio, ma con enormi
sacrifici, si ripeté a Mandera, con
l’acqua stagionale del fiume Dawa:
città dei ragazzi, scuola secondaria,
cornoperativa agricola, artigianato, sviluppo
dell’habitat e commercio iniettarono
nella città di nomadi la
voglia di vivere più dignitosamente.
Questo fu il miracolo più vero nel
deserto: schiodare la gente dall’atavica
apatia e rassegnazione alla sopravvivenza:
gli operai impiegati nelle
costruzioni impararono a farsi case
più decenti; i braccianti arruolati
nei lavori agricoli si misero a produrre
in proprio; i pastori, abituati al
numero di bestie, cominciarono a
puntare sulla qualità. Perfino il governo
avviò progetti agricoli e incoraggiò
la gente a fare altrettanto.
Più difficile era fare attecchire il seme
del vangelo. Padre John non esitò
a studiare il Corano e insegnarlo
nella scuola, come ordinava la legge
del Kenya per quell’ambiente; ma
non senza accostare gli insegnamenti
morali di Maometto a quelli
di Gesù. E ci riusciva troppo bene;
tanto che gli fu ingiunto di non profanare,
lui infedele, il messaggio del
profeta.
John continuò a seminare la testimonianza
dell’amore verso i più
bisognosi; oggi se ne vedono i frutti:
la Nep costituisce la diocesi di
Garissa, con 10 missioni e una trentina
di succursali, dove lavorano i
cappuccini di Malta e vari missionari
laici.

VANGELO
NELLA RIVOLUZIONE

Nel 1974, a pochi mesi dal colpo
di stato di Menghistu, John fu destinato
all’Etiopia, dove una
decina di confratelli, da
pochi anni, lavoravano
nel sud del vicariato
di Harar, provincia
degli Arussi. Fu
subito chiamato
dal vescovo a salvare
la scuola secondaria
di Dire
Dawa, intossicata
dai fumi rivoluzionari.
Ascoltati
studenti e genitori,
con pazienza e
fermezza ristabilì
subito ordine e disciplina;
per tre anni
continuò a dirigere
la scuola con
grande discrezione e coraggio, specie
durante la guerra somala.
Non essendo il tipo da restare incollato
a una poltrona, si occupò di
una cornoperativa agricola fuori della
città; aprì una scuola in un quartiere
povero; fondò un pensionato per i
ciechi e insegnò loro un mestiere.
Nel 1978 John fu eletto superiore
del gruppo di confratelli. Quando la
provincia degli Arussi fu staccata da
Harar per formare la prefettura apostolica
di Meki (1980), ne diventò amministratore
apostolico, in attesa della
nomina del prefetto. Sarebbe stato
l’uomo ideale per tale carica, ma insistette
perché vi fosse posto un etiope,
accontentandosi di fare il vicario generale.
Al tempo stesso, John fu eletto
presidente della Conferenza dei religiosi
del sud Etiopia.
Calatosi con tutte le forze in tali responsabilità
e nella realtà socio-politica
del paese, padre John portò la rivoluzione
nel modo di fare missione,
per rispondere alle sfide antireligiose
del regime marxista.
Rivoluzione e missione, diceva, sono
legati da un filo di speranza: entrambe
vogliono sviluppo, giustizia
e liberare tutti dall’oppressione. «Ma
il punto debole della rivoluzione –
continuava – è che non s’interessa di
Dio. Per noi missionari, il nocciolo
della questione rimane questo: dimostrare
che non può esserci vera
giustizia e sviluppo senza Dio. La nostra
vocazione inequivocabile nella
rivoluzione è operare in modo che
uomini e donne della nuova Etiopia,
con tutto il progresso e sviluppo che
meritano, non siano tagliati fuori dal
loro Creatore e Redentore».
«La rivoluzione – spiegava – trascura
le lacune di miseria: non può rallentare
la marcia del progresso per
stare al ritmo degli storpi. Il vangelo,
invece, è buona notizia per tutti; l’evangelizzazione
porterà frutti, solo se
avremo con noi i ciechi e gli storpi».
Insieme agli altri missionari, padre
John si gettò a capo fitto nelle opere
sociali, consolidando quelle già esistenti
e creandone di nuove appena
ne intuiva la necessità.
L’ospedale rurale di Gambo, rimasto
a lungo senza medici, diventò il
centro di controllo e cura della lebbra
e, con 267 dispensari sparsi nella
provincia, assisteva oltre 4 mila colpiti
da tale infermità. Accanto all’ospedale
costruì un villaggio di 25 casette
per dare dignità a quelli già guariti.
Il centro di riabilitazione per handicappati
a Gighessa fu potenziato
con nuove strutture e attrezzature.
Una «casa-famiglia» per handicappati
e orfani fu costruita ad Asella; a
Shashemane nacque la scuola per
bambini e bambine non vedenti.
In ogni missione fu costruito il dispensario;
venne organizzata la distribuzione
di tonnellate di viveri ai
poveri, specie nei periodi di emergenza;
si moltiplicarono le scuole. In
un paese col 90% di analfabeti, l’istruzione
era una priorità e un’occasione
provvidenziale per l’evangelizzazione.
John viaggiava da una missione all’altra
per incoraggiare i confratelli,
sostenere e lanciare nuove iniziative;
ma senza mai perdere di vista l’evangelizzazione
diretta: visita alle scuole
dei villaggi, messa domenicale nelle
cappelle, formazione della gioventù
e aspiranti al sacerdozio, animazione
delle piccole comunità cristiane.
Le vacanze in patria si trasformavano
in estenuanti scorribande da un
capo all’altro della penisola, per
sconvolgere coscienze, snidare egoismi,
costruire solidarietà, coinvolgere
la gente nella sua avventura missionaria.
Talvolta si sobbarcava, fino
a 10-15 incontri al giorno in scuole,
circoli giovanili, chiese, convegni.
Nascevano gruppi di appoggio in Italia
e Nord America; professionisti
di ogni genere (medici, maestri, agronomi,
assistenti sociali…) lo seguirono
in Africa.

COMPLEANNO IN PARADISO
Durante le ultime vacanze in Italia
il dottore gli aveva detto di darsi una
calmata, se voleva arrivare a 70 anni.
«Se me ne restassero solo due, cosa
importa? Ciò che conta è come e cosa
si vive» rispose sorridendo.
Era un presentimento? Due anni
dopo, la sera del 28 gennaio 1983,
John toò a Shashemane dopo 10
giorni di incontri tenuti ad Addis Abeba:
confessò che quella fatica «lo
aveva ammazzato».
Il giorno seguente ricorreva il suo
compleanno. Per fargli una sorpresa,
suor Flaminia stava preparando una
torta, quando il padre la chiamò. Lo
trovò a letto con brividi e febbre alta;
gli somministrò medicine antimalariche,
ma la situazione si aggravò.
Accorsero i medici della zona; diagnosticarono
un blocco renale e tentarono
di salvarlo con flebo, antibiotici,
diuretici, cortisone. Inutilmente.
Per padre John i sogni si spensero
la sera del 30 gennaio, a 56 anni. Una
vita stroncata precocemente, ma vissuta
in pienezza fino all’ultimo respiro,
come si legge nell’ultima lettera
alla madre: «Oggi faccio 56 anni.
Certo che sono stati intensamente
vissuti. Non ho avuto tempo
di annoiarmi neppure
per un’ora».

JOHN SCRITTORE
Fin dal liceo Giovanni Bonzanino aveva
«una voracità innata di lettura;
non era mai sazio di libri. Lettura
non superficiale, ma riflessiva: fissava
idee, espressioni e parole che interiorizzava
» testimonia il suo professore
d’italiano. Passione che lo accompagnò
tutta la vita. Leggeva articoli e
saggi di storia, politica, teologia, tenendosi
aggiornato su tutto ciò che
capitava nel mondo e nella chiesa,
specie di quanto avveniva in Africa.
Nella frenetica attività che caratterizzò
la sua vita, trovò il tempo
per scrivere. E scrisse moltissimo: lettere,
poesie, articoli, saluti appelli, libri.
«È il mio relax» soleva dire, anche
se rubava il tempo al sonno necessario.
Il suo stile snello, agile, frizzante, volentieri
anche sferzante, faceva sgranare
gli occhi al lettore e lo coinvolgeva
nella sequenza di miseria e fame
del terzo mondo.
Ecco alcuni titoli dei libri più famosi:
Cittadini d’Africa (1974), ritratti di
missionari e missionarie.
Un uomo per l’Africa (1977), presentazione
della figura del beato Allamano.
Missionari nella rivoluzione (1978),
note di pastorale missionaria per i
paesi africani a regime socialista.
Queste mie verdi colline (1979), profilo
di padre Luigi Eandi.
Africa casa mia (1979), quadri di esperienza
missionaria.
Il primo figlio (1980) e Gli insabbiati
(1982), romanzi a sfondo missionario.
Quattro volumi pubblicati postumi:
Due Afriche e un po’ d’Italia, prima e
dopo l’indipendenza.
Momenti d’Africa, riflessioni sull’attività
missionaria in Africa.
Ritoo a casa, romanzo con protagonista
un lebbroso guarito.
Africa mia, raccolta di poesie.

Benedetto Bellesi




MOZAMBICO: un cammino di pace che dura da dieci anni

UNA DOMENICA AL MARE, E NON SOLO
Dopo 16 anni di guerra civile, il paese ha imboccato la via della pace. Una pace operosa, che dura da un decennio, sia pure con qualche «sbandamento».
Non è un risultato di poco conto in Africa…
Su questo ed altro interviene un missionario della Consolata

Maputo, ore 7,30. L’aria nella capitale del Mozambico è frizzante. Sul cielo terso resiste ancora un quarto di luna calante: appare con un’esile sagoma in negativo bianco su un fondo azzurro intenso.

È domenica, e sto per andare in chiesa. «Prendi anche la macchina fotografica – mi ricorda padre Manuel Tavares (*) -, perché ci sarà una messa speciale». Una messa non in chiesa però, bensì nella cappella di un imponente liceo.

All’epoca del colonialismo portoghese l’istituto scolastico era retto con successo dai Fratelli maristi, religiosi. Dopo l’indipendenza del Mozambico (1975), come altre opere missionarie, la struttura venne nazionalizzata dalla Frelimo, il partito unico al potere di rigida fede marxista: e la cappella fu trasformata in magazzino. Dal 1978, nella guerra civile tra Frelimo e Renamo (il partito di opposizione clandestina), il liceo è divenuto un triste simbolo del paese, abbandonato al degrado, alla disperazione.

Con la pace è riaffiorata la speranza. E la cappella del liceo è ritornata ad essere «casa di preghiera». Questa mattina festeggia 10 anni di vita nuova, mentre in tutta la nazione si celebra il 10° anniversario degli accordi di pace, siglati a Roma il 4 ottobre 1992 presso la Comunità di sant’Egidio.

La celebrazione è davvero «speciale», con canti possenti e danze fantasiose al ritmo di tamburi e nacchere. Le parole più ricorrenti sono «fede giorniosa, speranza incrollabile, carità generosa». Non un accenno agli scontri armati, terribili, tra gli allora «comunisti al potere» e i «banditi dell’opposizione», alle tragedie subite e inferte. Forse perché entrambi i «nemici» sono ora in… ginocchio.

Mentre scatto le ultime foto della processione finale, mi vengono in mente due versi del poeta swahili Robert Shaaban:

«Ricordare è un dovere, dimenticare è un sollievo».

Durante il pranzo

Nel rincasare a piedi, mi perdo. Finisco in Avenida O Chi Ming ed anche in Avenida Mao Tze Tung. Finalmente (dopo qualche richiesta di informazioni) incrocio l’Avenida 24 de Julho, dove al numero 496 risiedono i missionari della Consolata. Padre Manuel Tavares mi accoglie con una smagliante risata di comprensione e, guardando l’orologio (sono le 12 abbondanti), mi invita subito a pranzo.

Le vie della capitale dedicate a O Chi Ming e Mao Tze Tung ricordano il recente passato marxista-leninista del paese. Però, come mai non è stato cambiato il nome coloniale 24 de Julho? «Forse perché questa data non significa niente per nessuno» risponde padre Manuel con un briciolo di ironia. Intanto mi scodella un saporito minestrone di verdura.

Portoghese, padre Tavares ha operato in Mozambico anche durante il colonialismo, non condividendo però le scelte della madre patria. Oggi analizza pure lo spirito missionario del tempo e afferma: «Durante il potere coloniale noi, portoghesi, ci sentivamo padroni. Anche altri missionari, di nazionalità diversa, difendevano il regime. C’era la convinzione di avere un messaggio assolutamente indiscutibile da portare alla gente; ci si riteneva salvatori del popolo, il quale doveva soltanto accettare le nostre parole per migliorare umanamente e spiritualmente. Questo era l’atteggiamento, sia pure inconscio, nel colonialismo. Poi…».

Poi è divampata la lotta al regime coloniale e il Mozambico ha raggiunto l’indipendenza. «Questi eventi sono serviti a purificare il nostro pensiero; hanno fatto rientrare in proporzioni più giuste anche l’azione missionaria».

Con l’indipendenza, tutto è mutato: il potere politico, ma anche quello ecclesiastico; prima i vescovi erano portoghesi, poi (dal mattino alla sera) quasi tutti mozambicani, e con una mentalità africana.

«Oggi la chiesa vuole essere sempre di più mozambicana. Questo esige da noi missionari un atteggiamento molto diverso rispetto al passato».

Se la lotta al colonialismo, l’indipendenza nazionale e il successivo regime marxista-leninista non fossero bastati a mettere in crisi il missionario, il colpo fatale gli è stato inferto da 16 anni di guerra civile… Al presente nella nazione è in atto «la costruzione della pace».

Padre Manuel, come sta sviluppandosi il processo? «Bene, pur nelle difficoltà. Mi riferisco, in particolare, alle elezioni del 2000, che sarebbero state vinte dal partito di opposizione Renamo. Ma la Frelimo avrebbe imbrogliato nella conta dei voti e così ha conservato il potere. Non sono mancate accuse; però, di colpo (data anche l’emergenza dell’alluvione), sono cessate. Il che fa supporre che la maggioranza abbia concesso qualcosa all’opposizione».

Cosa… non si sa.

Un altro scontro violento tra governo e opposizione si verificò l’anno scorso, allorché a Maputo una manifestazione di protesta della Renamo fu caricata dalla polizia, con un centinaio di vittime. E altrettanti furono i morti per asfissia in una prigione dello stato. Nemmeno su questo si saprà mai la verità.

Vi furono anche omicidi di singoli «eccellenti»: quello del giornalista Carlos Cardoso, per esempio; stava smascherando la corruzione, che alligna fra gli stessi politici… e pagò con la vita.

Eppure questi fatti gravi non hanno impedito a maggioranza e opposizione di dialogare, di accordarsi con taciti compromessi, certamente discutibili in una democrazia compiuta. In Mozambico, però, tutto è subordinato alla comune costruzione della pace, per la quale si sacrifica tutto. «E forse non a torto, specialmente se si ricordano (e tutti lo fanno) gli interminabili 16 anni di guerra civile, gli innumerevoli profughi, le immani distruzioni e oltre un milione di cadaveri straziati…».

Padre Manuel mormora le ultime parole sottovoce, come se parlasse a se stesso. Segue una pausa di silenzio. Di botto, quasi per un comune accordo, lasciamo il refettorio. Non ci dispiace una siesta. Fa caldo. L’aria fresca del mattino è un ricordo.

Sul Lungomare

Al risveglio, padre Manuel propone una passeggiata sul pittoresco lungomare del porto di Maputo. La conversazione continua seduti su una panchina del molo della città, lo sguardo sull’infinito.

Il missionario, pur essendo stato critico del regime coloniale del Portogallo, ha tuttavia sofferto per il patatrac politico della sua nazione. Subito dopo l’indipendenza, i bianchi in Mozambico hanno corso il pericolo di sommarie cacce all’uomo. Drammatica, tragica, è divenuta la situazione quando diversi missionari di varia nazionalità sono stati sequestrati, feriti, uccisi.

Oggi, padre Manuel, come ti senti quale portoghese? «Mi sento bene, perché l’attuale potere politico non fa discriminazioni. In Mozambico c’è un piccolo gruppo di bianchi che teme lo spauracchio del passato. In realtà c’è poco da temere; lo dimostra il fatto che alcuni portoghesi, costretti ad andarsene al tempo delle nazionalizzazioni, ora sono ritornati e fanno ottimi affari… Però noi missionari non dobbiamo dimenticare che siamo in casa d’altri. Come europei, vorremmo che il governo e la chiesa fossero diversi. Ma occorre fare i conti con la realtà. Bisogna rispettare le sensibilità culturali locali e lo stile africano».

«Stile africano» anche fra gli stessi missionari della Consolata, che ormai sono anche kenyani e congolesi, brasiliani e colombiani. Questo genera problemi d’intesa?

«Non vedo in Mozambico grossi problemi al riguardo, a parte qualche caso particolare, che però interessa anche i missionari europei. La diversità culturale è sicuramente un arricchimento per la missione, o può diventarlo».

Si dice che il missionario europeo prediliga le opere sociali (centri sanitari, scuole, ecc.), mentre quello africano o latinoamericano si dà alla pastorale pura…

«Non esageriamo!… C’è un missionario italiano dedito esclusivamente alla pastorale, come vi sono missionari africani e latinoamericani assai impegnati nel sociale: dipende dai progetti e dai mezzi che dispongono per realizzarli. Ritengo che dobbiamo condividere fra tutti noi (europei e non europei) anche le iniziative di promozione umana. Quando l’abbiamo fatto, i risultati sono stati ottimi».

Come vengono accolte dalla popolazione gli aiuti stranieri? Favoriscono l’intraprendenza del mozambicano o lo relegano nella passività del mendicante?

«Il popolo mozambicano non ha ancora preso in mano le sorti del proprio sviluppo. Questo è un grave problema, perché obbliga ancora il paese a dipendere dall’estero. D’altro canto il Mozambico, talora, è costretto a fronteggiare improvvise emergenze (come l’alluvione di due anni fa o la siccità di quest’anno), che ritardano lo sviluppo di decenni: in questi casi gli aiuti estei sono necessari».

Pertanto è necessario trovare un equilibrio tra il «facciamo da soli» e il «tendiamo la mano ad altri», puntando però con maggiore forza sulla prima strategia. Dopo la guerra, per circa due anni il paese è sopravvissuto grazie solo agli aiuti esteri; ma quando la gente è ritornata a lavorare, tutto è rifiorito e si è raggiunta persino l’autonomia alimentare. Peccato che, nel 2000, sia arrivata quella tremenda alluvione!

«Occorre anche lavorare con un occhio rivolto a possibili catastrofi, immagazzinando scorte alimentari in silos: questo i missionari l’hanno sempre fatto. Oltre a scongiurare la fame, tale azione preventiva frena i prezzi degli alimenti, che salgono alle stelle nelle emergenze…».

Abbandoniamo la panchina del molo. Camminiamo scortati da una maestoso filare di palme, accarezzate da una dolce brezza. Al cospetto di un bar, entriamo senza esitare: una bibita ci sta bene. Non c’è anima viva nel modesto locale. Forse proprio per questo mi lascio andare ad una domanda indiscreta: «Manuel, si dice che tu sia un vescovo mancato; o hai ancora una possibilità?».

La risposta dell’interlocutore è una risata così sonora da attirare la curiosità dello stesso barista… che ride divertito anche lui senza sapere la ragione. «Se devo essere schietto – commenta tosto il missionario -, le calze rosse dei vescovi non mi sono mai piaciute. La mia preoccupazione è stata sempre un’altra».

E cioè? «Lavorare senza protagonismi, sentirci tutti fratelli. Ciò che conta non è quanto facciamo, ma lo spirito con cui lo facciamo…». Scuote la testa padre Manuel. Un raggio di sole ne illumina il volto, mentre dichiara quasi con solennità: «Eppoi, mio caro, l’era dei vescovi stranieri è tramontata per sempre!».

Sta tramontando anche il sole sull’Oceano Indiano. Sprazzi di luce morbida vivacizzano le onde increspate dalla brezza, e dilatano l’orizzonte.

Ci avviamo in auto al 496 dell’Avenida 24 de Julho. Lungo le vie O Chi Ming e Mao Tze Tung sono ancora attivi i mercatini… Due giorni fa, nella città di Beira, mi aggiravo incuriosito tra le chiassose bancarelle di un «mercato informale». Mi è piaciuto molto il suo nome Chunga moyo, ossia «fatti coraggio».

«Chunga moyo» è stato anche il tacito programma del popolo mozambicano nel trascorso decennio, dopo la guerra. E lo sarà ancora.

Francesco Beardi




BAYENGA (R.D. CONGO): storia di ordinaria insicurezza

DIARIO… DI GUERRA

Il Movimento per la liberazione del Congo di Pierre Bemba e l’Unione congolese per la democrazia di Mbusa Nyamwisi si combattono per il controllo del nord-est del Congo (ex Zaire) e alcuni missionari della Consolata si trovano tra i fuochi incrociati, come è capitato nell’agosto e settembre scorsi.

Lunedì 5 agosto. Atterro a Isiro sano e salvo, grazie a un aereo di fortuna proveniente da Kampala. Insieme a me ci sono il vice superiore generale, padre Antonio Bellagamba, venuto per dettare un corso di esercizi spirituali, e quattro volontari brianzoli del gruppo «i gabbiani», destinati a Bayenga per montare una pompa d’acqua.

L’indomani ripartiamo per Wamba, dove lasciamo il vice superiore; arriviamo a destinazione accolti festosamente dalla gente per la strada e alla missione.

Mercoledì 7 agosto. Senza un giorno di riposo, «i gabbiani» iniziano a piazzare la pompa al pozzo scavato sul terreno dove sorgerà la nuova missione, un paio di chilometri dagli attuali edifici provvisori.

Verso le 10,30 si sentono scoppi isolati di fucile. Col vecchio capo locale, venuto a salutarmi, pensiamo che si tratti di esercitazioni o di militari che puliscono le armi. Un nutrito scambio di raffiche di mitragliatrici ci toglie ogni illusione: è uno scontro tra soldati in piena regola.

Due donne che stanno preparando il pranzo sono spaventate: rimettono tutto in magazzino e ci esortano a scappare e metterci al riparo. Non c’è tempo da perdere. Dico a Marina, una dei volontari:

– Prendi un cappello e seguimi. È la guerra.

– Stai scherzando?

– No, non scherzo! Quelli sparano sul serio: andiamo.

Non ho tempo di chiudere la casa e corriamo verso il pozzo. Ci seguono il direttore della scuola con sua figlia e una donna malata aiutata dal marito. Camminando tra le erbe, scivolo in un pantano con molta acqua, essendo questa la stagione delle piogge. Con difficoltà riesco a recuperare le scarpe dal fango. Ci fermiamo ai bordi di un campo di riso e ci sediamo ai margini della foresta.
Capiamo subito che il nascondiglio non è troppo segreto: ci raggiunge un soldato in fuga; ci fornisce la sua versione dei fatti: i militari di Bemba, che controllano il nord del Congo, sono stati attaccati da quelli di Nyamwisi; non potendo resistere, sono scappati. Il soldato ci chiede informazioni sulla strada per Wamba, per ricongiungersi ai suoi commilitoni.
Mentre aspettiamo l’evolversi della situazione, arriva il confratello congolese Clément Balu Futi insieme ai tre volontari impegnati nel montaggio della pompa. Sentiti gli spari e le pallottole fischiare sopra la testa, si erano rifugiati tra gli alberi. Diminuita l’intensità della sparatoria, erano venuti a cercarci.

Arriva anche un ragazzo di 18 anni. Padre Clément lo conosce: è un soldato. Il giovane si mette a piangere; dice che si è tolta la divisa per scappare senza dare nell’occhio.

Finalmente le armi tacciono. Ma ecco avanzare i soldati di Nyamwisi. Padre Clément esce dal bosco, rischiando forte, e va incontro ai militari: alcuni di essi vengono dalla sua stessa regione. Cerca di frateizzare; parla col comandante; poi ci invita a uscire dalla foresta per salutare i capi.

L’incontro è pacifico, ma ci si guarda con sospetto: noi non sappiamo cosa ci chiederanno; essi s’informano se stiamo in quel luogo per cercare l’oro. Padre Clément spiega che i bianchi non sono dei commercianti, ma persone venute ad aiutare la missione e quindi la popolazione.

Possiamo rientrare a casa. I militari ci seguono. Padre Clément cerca di capire le loro intenzioni: vogliono l’auto e la radio trasmittente. Ce l’aspettavamo. Resistiamo, anche perché i soldati di Bemba, nella loro ritirata, si sono portati via la motocicletta. A interrompere le trattative intervengono le tenebre.

Giovedì 8 agosto. La notte è stata tranquilla. Appena celebrata la messa, «i gabbiani» partono per lavorare alla sorgente; i militari tornano per prendere la Land Rover: il loro sguardo è minaccioso; il giorno prima hanno avuto qualche morto; è difficile farli ragionare. Dopo un po’ di resistenza, ci rassegniamo, per non mettere in pericolo la vita.

Ma non c’è l’autista. Gli avevamo detto di sparire e lui si è nascosto e non sappiamo dove sia. Il comandante obbliga padre Clément a portare alcuni soldati al quartiere 51, un villaggio a 40 km da Bayenga. Il padre si sacrifica: indossa la veste bianca; mi dice di pregare e si mette al volante della Land Rover. Il comandante assicura che andrà tutto bene e saranno di ritorno la sera, appena avranno procurato da mangiare per la truppa.

Passa qualche ora ed ecco arrivare da Wamba padre Rinaldo Do: ha fatto il tragitto in bicicletta, con un fazzoletto bianco legato a un bastoncino, issato sul manubrio. È venuto per stare vicino ai «gabbiani», rendersi conto della situazione e parlare con i capi militari: spera di poter evacuare i quattro italiani e portarli a Wamba, appena padre Clément sarà rientrato.

Dal villaggio di Niania arrivano 16 ragazzine dirette a Wamba, per una settimana di formazione: sono in viaggio da lunedì e peotteranno a Bayenga, senza sapere se potranno riprendere il viaggio.

Venerdì 9 agosto. Padre Clément non è ancora rientrato. Speriamo che arrivi almeno oggi. Padre Rinaldo è riuscito a ottenere il permesso di usare la radiotrasmittente, ieri alle 15 e oggi alle 7, per parlare con i padri di Wamba e Isiro e chiedere una macchina per far partire gli italiani.

Alle 11,30 padre Clément non si vede ancora. Piove. I volontari italiani rientrano: non hanno terminato il lavoro, ma hanno impostato l’essenziale; altri potranno terminarlo.

Nel collegamento radio delle 12,30 padre Baruffi promette di mandare l’abbé Raymond con un mezzo di trasporto per prelevare i quattro ospiti. Scende la sera; ma nessuna delle due auto arriva alla missione.

Siamo preoccupati per padre Clément. Italiani e ragazze di Niania devono peottare a Bayenga.

Sabato 10 agosto. Da Wamba l’auto non è potuta arrivare, perché i soldati hanno messo un posto di blocco a una decina di chilometri da Bayenga. I laici italiani riprendono il lavoro. Forse riusciranno a terminarlo.

Alle 9,20 si sentono nuovi spari; sembrano provenire da Benga.

Al pomeriggio rientra finalmente padre Clément con i soldati: è visibilmente molto stanco. Grandi abbracci, ma poca comunicazione: i militari restano vicino.

Poco dopo arriva il vescovo con l’abbé Kakeane per prendere gli italiani. Devo partire anch’io: ordine del vescovo. Ci prepariamo in fretta e partiamo. Padre Clément ci segue con i militari fino a Wamba; arriva poco dopo di noi. Alla missione di Bayenga resta padre Rinaldo.

Intanto vengo a conoscenza di come stanno le cose: Wamba è stata presa dai soldati di Nyamwisi dopo due ore e mezzo di combattimento. Essendo ormai Bayenga e Wamba nelle mani della stessa fazione, il vescovo ne aveva approfittato per venire a prenderci.

Lunedì 12 agosto. Le forze militari di Bemba sferrano il contrattacco e, in poche ore, Wamba è nuovamente nelle loro mani. Viviamo in apprensione; le fucilate sono molto vicine.

Poiché la medesima fazione controlla la zona di Wamba e Isiro, si approfitta per portare fino a quest’ultima città i quattro italiani e padre Bellagamba, per imbarcarli alla prima occasione per Kampala, mandando a monte il corso di esercizi.

Insieme a loro lascia Wamba anche padre Clément; ormai per lui la zona scotta: corrono voci che sia accusato di avere aiutato i nemici con la macchina. Tali voci lo consigliano ad anticipare la partenza per Nairobi, dove parteciperà a un corso di aggioamento e formazione.

Intanto io rimango a Wamba per parecchi giorni. La situazione è calma. Ma non si è mai sicuri: non ci sono state dichiarazioni ufficiali. Non c’è sicurezza e abbiamo paura di viaggiare in auto, tanto più che sono senza mezzo di trasporto: la Land Rover è stata requisita dai nuovi padroni e l’hanno messa definitivamente fuori uso.

Padre Rinaldo continua a fare la spola tra Bayenga e Wamba in bicicletta, per dare e ricevere notizie. Ma i programmi sono sospesi; si attende con pazienza: la virtù più grande che deve coltivare chi lavora in Congo.

Venerdì 6 settembre. Da una settimana sono rientrato a Bayenga con padre Giuseppe Fiore; padre Do può ritornare alla casa regionale di Isiro.

Ma non mi sento bene. Domenica scorsa, verso la fine della messa, capogiro e nausea mi hanno costretto a lasciare l’altare; padre Fiore ha portato a termine la celebrazione. Non so che cosa sia stato, debolezza o malaria: sono stato costretto a letto per una settimana e non mi sono ancora ripreso totalmente.

Per quanto riguarda la guerra, tutta la zona di Isiro, Wamba e Bayenga continua ad essere in mano ai militari di Bemba. Al momento tutto è calmo. Sembra che il fronte si sia spostato sulla strada Niania-Mambasa-Bunia.

Non possiamo fare molto, perché non c’è sicurezza; i militari continuano a passare e requisire le biciclette della gente; non ci sono altri mezzi di trasporto; tutto resta sospeso in attesa di tempi migliori.

Mercoledì 11 settembre. Di salute mi sento meglio. Aspettiamo l’arrivo di padre Rinaldo da Isiro, che ci porta qualche rifoimento.

Ma arriva pure l’ordine di ritornare in Italia, per sottopormi ad analisi ed eventuali cure mediche.

Con tanta tristezza mi preparo per un’altra partenza, con la speranza, insieme, di ritornare presto tra la gente, nonostante spari e difficoltà di vario genere.

CALVARIO… IN BICICLETTA

Due giovani di Bayenga descrivono il viaggio da Kisangani a Isiro e relative insicurezze e seccature.

Per un povero congolese come me, viaggiare all’interno del mio paese è un’impresa difficile, se non impossibile: si parte con seri dubbi di arrivare a destinazione. Tale inquietudine ha una sola causa: l’occupazione della Repubblica democratica del Congo da parte di vari gruppi di ribelli, che si combattono a vicenda e stanno distruggendo quel poco che rimane del paese.

Unico mezzo di spostamento, sia per le condizioni delle strade che per ragioni di sicurezza, è la bicicletta. Da Kisangani a Isiro, per esempio, la strada si snoda per circa 500 km nella foresta tropicale e da alcuni anni è impraticabile per qualsiasi automezzo. La si può percorrere solo a piedi o pedalando su due ruote.

Non è l’oscurità della foresta a mettere paura, ma le centinaia di soldati che la infestano e rendono il viaggio un autentico calvario, quando non finisce in tragedia.

Per qualche tratto si può avere la fortuna di non fare brutti incontri; ma non se ne trovano neppure di piacevoli. I villaggi lungo la strada sono deserti: gli abitanti si sono rifugiati nelle malende, abitazioni provvisorie nella foresta, per evitare di trovarsi nel fuoco incrociato dei combattimenti.

Hanno ragione di fuggire: le rovine testimoniano massacri, saccheggi e malversazioni d’ogni genere. In alcuni villaggi si sono istallati i militari; in altri i soldati vanno e vengono: sono armati fino ai denti con fucili, machete, baionette, corde, asce, lancia bombe, granate fissate alla cintura. Incontrarli è una disgrazia. La prima parola che dicono è: «Soldi». Il tono non lascia scampo.

La chiamano mabonza (offerta) e non si sa per quali ragioni bisogna fare tali «offerte» ai militari. Ma non sempre si accontentano del denaro, ma controllano sistematicamente i bagagli e, se trovano qualche cosa di interessante o di valore, se la prendono automaticamente, senza che il proprietario possa fiatare: potrebbe rischiare la morte.

Talvolta si passa alle perquisizioni corporali. Guardano perfino le mutande, nella speranza di trovarci nascosta qualche somma di denaro.

A volte qualche militare deve spostarsi e approfitta del viandante per farsi portare a destinazione sulla canna della bici. Anche in questi casi non esistono ragioni da opporre: chi rifiuta di prestare il faticoso servizio, potrebbe perdere la bicicletta o, peggio, la vita.

Q uando lungo la strada le opposte fazioni si affrontano a distanza ravvicinata, questa rimane chiusa per alcuni giorni; chi si trova a percorrerla in tali circostanze sono vittime dei trattamenti più inumani.

È capitato a un gruppo di ragazzi che, sempre in bicicletta, dopo aver percorso 260 km, a metà strada tra Kisangani e Isiro, sono caduti in un’imboscata di mayi-mayi, un gruppo di ribelli che, tra l’altro, credono di essere invulnerabili.

Terribilmente armati, essi pretendevano che ogni giovane sborsasse 10 mila franchi congolesi: una somma enorme per quei poveretti che, non potendo pagare, furono minacciati e spogliati di tutto.

Per di più, gli sfortunati ragazzi non potevano proseguire, poiché sarebbero caduti sotto le pallottole della fazione opposta, a due chilometri di distanza; né potevano tornare indietro, per non tradire la presenza dei mayi-mayi; e furono costretti a rifugiarsi nelle malende, nel cuore della foresta, dove rimasero per alcuni giorni senza cibo.

I ragazzi cercarono il modo di sopravvivere; dopo alcuni giorni, ripresero il viaggio attraverso la foresta, raggiunsero la strada in un punto dove non c’erano soldati e riuscirono a tornare a Kisangani.

L a strada Kisangani-Isiro è l’esempio più eloquente dell’insicurezza per chi deve spostarsi in Congo. Situazioni analoghe si verificano in molte regioni del paese, dove truppe armate continuano a combattersi.

Ma anche per chi non deve viaggiare e vive in città e villaggi, insicurezza e pericoli sono sempre in agguato. La guerra continua a seminare dappertutto distruzioni e sofferenze d’ogni genere. Noi congolesi siamo stufi di guerra e violenza; reclamiamo a gran voce la pace. Non vogliamo nient’altro: solo un po’ di pace.

Pietro Manca