MADADENI (SUDAFRICA) iniziative concrete contro l’Aids

UN MARCHIO INDELEBILE UN MARCHIO INDELEBILE

Il Sudafrica ha il più alto numero di malati di Aids.
A Madadeni i missionari della Consolata hanno dato vita a varie iniziative per prevenie la diffusione e accompagnare
persone e famiglie che ne sono colpite.

Da vari anni Nonhlanhla lavorava
come collaboratrice domestica
nella nostra casa. Si
era guadagnata la fiducia di tutti e, in
nostra assenza, la custodiva con
scrupolo e responsabilità.
Un giorno mi confidò di essere incinta.
Ma da quel momento cominciò
a indebolirsi. Si prese il periodo
di licenza per la gravidanza che le
spettava. La visitai… tossiva molto.
Diede alla luce la sua creatura, che
appariva molto fragile. Grazie alla fiducia
vicendevole, le parlai apertamente
e la consigliai di sottoporsi al
test dell’Aids. Accettò. I risultati arrivarono
troppo tardi: Nonhlanhla
era morta il giorno prima.
Thandi è un caso simile. La conobbi
pochi giorni dopo aver partorito
il suo bebè, morto quasi subito.
La donna ne era uscita molto indebolita.
Andai a farle visita: cantammo
e pregammo insieme. Si mostrava
molto forte interiormente.
Due mesi dopo, alla fine di una celebrazione
all’aperto durata più di 5
ore, venne a salutarmi. Stava bene.
Mi confidò un suo desiderio: lavorare
con i malati di Aids.

RIMBOCCANDOCI LE MANICHE
Nonhlanhla e Thandi sono due
nomi di una lunga lista: da quando
sono a Madadeni (periferia di Newcastle),
metà dei funerali sono stati di
uomini e donne che non hanno raggiunto
i 40 anni. Le statistiche prevedono
che, ben presto, la speranza
di vita in Sudafrica sarà di 38 anni
per gli uomini e 37 per le donne.
Sarà per questo, forse, che quando
domandai ai familiari di che cosa
è morto un giovane di 25 anni, mi
sentii rispondere: di morte naturale.
L’incontro con Thandi mi toccò
profondamente: non immaginavo di
vederla ristabilita in salute così presto;
il suo desiderio, soprattutto, diede
uno scossone all’abituale ritmo
del nostro lavoro missionario nelle
tre parrocchie di Madadeni.
Invitammo suor Immacolata, religiosa
delle Francescane di Nardini,
a predicare in tutte le messe. Da alcuni
anni, infatti, questa congregazione
si occupa dei malati di Aids:
hanno convertito parte di un convento
benedettino in un ospizio e
promuovono progetti per combattere
il flagello.
La risposta fu immediata e positiva:
alla fine della messa molti si iscrissero
come volontari. Nei mesi
successivi cominciò la loro preparazione.
Furono formati due gruppi
con scopi specifici: prevenzione e accompagnamento
dei colpiti da Aids.
Il primo era composto da studenti
delle scuole secondarie e giovani
che avevano appena finito gli studi.
Loro compito era aiutare i coetanei
a prendere coscienza della natura
dell’Aids e dei modi in cui viene trasmesso,
con la speranza di convincerli
che si trattava di un problema
grave e non di «propaganda» contro
le relazioni sessuali. Oltre 50 giovani
presero parte agli incontri formativi
guidati dalle suore.
L’altro gruppo, in maggioranza adulti,
con un corso di una settimana
fu preparato nell’accompagnamento
dei malati. Questi volontari s’impegnarono
a visitarli a domicilio e, al
tempo stesso, insegnare ai familiari a
convivere con un malato di Aids.

PRIME SFIDE
I corsi furono la parte più «facile»
di tutto il processo. Avevamo i volontari,
le religiose per dettare i corsi,
compreso chi s’impegnava a finanziarli.
Il difficile venne dopo.
Da dove cominciare? I giovani cercavano
spazi che non si aprivano.
Come aggregare i giovani? Da anni
si parla di Aids: molti sono stufi di ascoltare
sempre la stessa storia. Ma
non mancava loro la creatività: cominciarono
a farsi strada nei collegi,
organizzando eventi sportivi e attività
varie a livello locale.
Gli adulti, invece, cozzavano con
una realtà più dura. «Di questo non
si parla» si sentivano ripetere. Nessuno
ammetteva di essere ammalato
di Aids. Pur avendo il Sudafrica la
più elevata percentuale al mondo di
sieropositivi, questa malattia è considerata
un «marchio» infamante per
il portatore e la famiglia. Appena uno
ne è colpito, i parenti lo mandano a
«recuperarsi» o «aspettare» la morte
in casa di qualche familiare lontano,
in modo che i vicini non lo vedano.
Nelson Mandela pose un importante
precedente: durante un congresso
mondiale contro la povertà,
tenuto in Sudafrica, disse che alcuni
suoi parenti erano morti di Aids. Poi
l’ospedale ci aprì le porte: aveva bisogno
di noi. Non poteva trattenere
i malati, ma neppure disinteressarsene,
senza curarli in casa.
Ecco il piano: ogni volta che si fa
l’esame del sangue per scoprire
l’Aids, viene dato appoggio psicologico
prima e dopo il test, informando
l’interessato che, in caso risultasse
positivo, alcuni volontari sarebbero
disposti a visitarlo in casa. Se il
malato accetta, ci viene passata
l’informazione, che, naturalmente,
rimane riservata.
Un’altra idea vincente è la decisione
dei nostri volontari di visitare «tutti
» i malati di cui vengono a conoscenza.
Armati della parola di Dio e
muniti dell’«olio di esultanza», passano
di casa in casa, pregano con cattolici
e non cattolici e amministrano
un rito di unzione consentito pure ai
laici: in questo modo essi possono
rendersi conto della situazione e offrire
appoggio alle famiglie.
In molti casi, però, i volontari devono
sostituire i familiari, poiché
questi si disinteressano dei malati,
che vengono abbandonati in qualche
angolo recondito della casa,
quando non sono spediti da un parente
lontano.

COMINCIARE CON I PICCOLI
Il primo gruppo si dedicava ai loro
coetanei, ma non bastava. Data la
precocità dei nostri giovani, appariva
sempre più chiara la necessità di
cominciare a parlare del problema il
più presto possibile.
La diocesi di Durban aveva preparato
una serie di catechesi per aiutare
gli studenti dai 7 ai 15 anni a
puntualizzare gradualmente il problema.
Abbiamo adottato tale materiale
anche nelle nostre parrocchie.
Ogni sabato le otto classi, corrispondenti
al ciclo scolastico statale,
vengono in chiesa e i catechisti, insieme
ai volontari, portano avanti il
processo formativo degli alunni,
compatibile con la loro età.
Inoltre, una volta all’anno raduniamo
i ragazzi delle tre parrocchie
per una chiacchierata sugli «abusi
sessuali». L’iniziativa è stata suggerita
da un’assistente sociale, preoccupata
dall’alto numero di casi registrati
nella zona.
Vista da lontano, tale iniziativa può
sembrare esagerata; ma nell’ambiente
in cui viviamo, una catechesi che
non tocchi il vissuto quotidiano dei
ragazzi resterebbe alquanto sterile.

ORFANI
Una delle conseguenze più drammatiche
dell’Aids è l’aumento degli
orfani. Sempre più numerosi sono i
nuclei familiari formati solo da nonni
e nipotini; in molti casi i piccoli sono
abbandonati a se stessi: il maggiore,
a 10-11 anni, è già capofamiglia
e deve prendersi carico dei
fratellini più piccoli.
Un giorno un assistente sociale dell’ospedale
venne a dirci: «Nelle vostre
parrocchie avete tanti progetti di
promozione umana: vorrei incontrare
i vostri volontari e studiare insieme
il modo di rispondere al problema
degli orfani».
Tra le varie proposte fu scelta quella
di invitare i vicini a prendersi cura
dei piccoli, per non separarli e non
sradicarli dall’ambiente. Tanto più
che il governo dà un sussidio mensile
a chi si fa carico di un orfano.
L’idea è buona, ma non sempre facile
da realizzare. Bisogna convincere
le famiglie che l’Aids non è una
«macchia» infamante; vagliare la loro
disponibilità, perché non sia il luccichio
del denaro la ragione per
prendersi in casa un bambino. Ancor
più complicata è la trafila burocratica
per ottenere il sussidio.
I volontari si scontrano con un
problema tipico dei paesi africani:
molti figli non sono registrati al momento
della nascita, ma quando iniziano
ad andare a scuola. Se i genitori
muoiono senza aver provveduto
alla registrazione, nel migliore dei
casi tocca ai nonni fae richiesta. È
una pratica lunga ed estenuante, sia
per i vecchi, costretti a lunghe code,
sia per i volontari, che devono sobbarcarsi
il servizio di trasporto e assistenza
nel disbrigo delle pratiche.

CAMBIO DI VITA
Nel suo primo messaggio alla nazione
(1998), il presidente Thabo Mbeki
disse che ogni giorno 1.500
persone contraevano l’Aids; a cinque
anni di distanza, i dati statistici
continuano a parlare di 1.600 casi
giornalieri. In Sudafrica il morbo è
fuori controllo, nonostante gli sforzi
del governo per educare la gente a
combattere l’infezione.
Tali sforzi, però, non toccano la vita
e i comportamenti di giovani e adulti.
Con i volontari stiamo cercando
un cammino alternativo. Non basta
sapere cos’è l’Aids o come si
contrae, bisogna promuovere «un
cambio di vita» o, per usare il linguaggio
cristiano, occorre una radicale
conversione.
Per questo, con l’aiuto delle suore
della Misericordia, responsabili del
centro pastorale diocesano, organizziamo
periodicamente ritiri di fine
settimana per i giovani. Non sono raduni
d’informazione, ma d’incontro
con Cristo, che ci prende per mano
e ci indica la strada che porta alla pienezza, secondo la sua promessa:
«Sono venuto perché abbiate la gioia
e l’abbiate in abbondanza».

COOPERAZIONE ECUMENICA
«Se ci dicessero che un popolo
vorrebbe invaderci, ci troveremmo
uniti per affrontarlo e difendere l’identità
e la vita della nostra gente»
sentii proclamare in un incontro sull’Aids.
Di fatto, il Sudafrica è in guerra;
ma sembra che molti lo ignorino.
E poi, non bastano sforzi isolati per
vincere tale guerra.
«Siamo riusciti a sconfiggere l’apartheid;
abbiamo la forza per vincere
anche l’Aids», disse tempo fa Desmond
Tutu, il famoso vescovo anglicano
ora a riposo. È questa anche
la nostra speranza. Non ci sentiamo
più soli in questa lotta. Le notizie corrono
veloci e, data la stima di cui godiamo
come chiesa aperta a tutti i bisognosi,
siamo già stati invitati a
prendere parte a incontri con altre
organizzazioni civili e religiose per
scambiarci le idee e unire le forze.
Ogni mese ci riuniamo nell’ospedale
di Newcastle con membri della
polizia, sindacalisti, assistenti sociali
e carcerari… I frutti sono ancora magri;
c’è molta burocrazia; ma almeno
cominciamo a condividere idee, iniziative,
progetti e tentiamo di unire
gli sforzi e di sostenerci a vicenda.
Da parte nostra cerchiamo di mobilitare
tutti: abbiamo costituito un
consiglio di pastori delle chiese cristiane
e procuriamo loro sussidi e li
incoraggiamo ad avviare progetti simili
ai nostri nelle proprie comunità.
È tipico della chiesa cattolica annunciare
un vangelo che promuova
la dignità della persona; le altre denominazioni
cristiane sono più «spiritualiste
», ma qualcosa si sta muovendo
anche in esse.
Padre Rocco Marra, che da anni
lavora in diverse carceri, ha conosciuto
vari pastori che si occupano
dei detenuti: nel 2002 ha potuto organizzare
per loro un corso di quattro
incontri mensili sull’Aids; alla fine
è stato costituito un organismo ecumenico
chiamato: Agape, comfort
and care (amore e consolazione).

LE SFIDE CONTINUANO
Un giorno la madre di una volontaria
mi domandò: «Cosa fate per i
genitori dei giovani? Chi parla loro?
Chi li aiuta a prendere coscienza?
Chi fornisce loro “strumenti” per
aiutare i figli?».
Le questioni poste dalla donna
sottolineano la complessità del problema
e costituiscono un’altra sfida
dell’Aids: l’ho accolta con soddisfazione,
anche se, fino ad ora, non siamo
riusciti a dare una risposta concreta.
Ad ogni modo, questa madre
può essere un punto di partenza per
un’altra iniziativa.
La sfida più grande da vincere è
quella di «rompere il silenzio», quella
tremenda pressione che al danno
unisce la beffa: essere malato e non
potee parlare apertamente. Alcuni
anni fa, Gugu Dlamini, una operatrice
sociale, volle sfidare tale silenzio:
disse di essere malata di Aids.
La gente del quartiere la ammazzò.
Oggi, a Durban, esiste un grande
parco che porta il suo nome.
La gente del Sudafrica è fondamentalmente
cristiana, ma è evidente
che la fede non è ancora penetrata
in profondità, tanto da generare aperture
generose verso le vittime dell’Aids.
È la sfida più forte al nostro
lavoro missionario.
Non solo a Madadeni, ma in tutte
le missioni affidate ai missionari della
Consolata vogliamo dare risposte
concrete a tale sfida, formando i cristiani
alla misericordia e solidarietà,
a essere segni di consolazione di un
Dio che si è incarnato nella storia
quotidiana della gente e
ha trasformato la morte in
vita.

ALCUNI DATI
NEL MONDO
– A dicembre 2002, sono 42 milioni le
persone che vivono con l’Aids/Hiv:
38,6 milioni adulti (19,2 milioni donne)
e 3,2 milioni minori di 15 anni.
– Nel 2002 le nuove infezioni di Hiv
sono state 5 milioni: 4,2 milioni adulti
(2 milioni donne) e 800 mila minori.
– Nel 2002 sono decedute per Aids 3,1
milioni di persone: 2,5 milioni adulti
(1,2 milioni donne), 610 mila minori.
IN AFRICA
– L’Aids è prima causa di morte.
– 28,1 milioni di persone sono infette
da Hiv, con progressione di 3,4 milioni
all’anno: 9.300 al giorno.
– Nel 2002 sono morte di Aids 2,3 milioni
di persone, metà sono donne.
– In 20 anni, 13 milioni di minori sono
«orfani di Aids».
– Entro il 2010 il numero di tali orfani
è destinato a salire a 30 milioni.
– Per quanto riguarda lo sviluppo, l’Hiv
ha riportato indietro di 25 anni l’intero
continente.
AFRICA AUSTRALE
– Il Sudafrica è ritenuto il paese col
più alto numero di portatori di
Aids/Hiv.
– L’11,6% dei sudafricani è colpito da
Hiv; la cifra sale a 15,6% tra le persone
dai 15 ai 49 anni.
– Dei minori tra 2 e 14 anni, il 5,6%
sono sieropositivi e il 13% hanno perduto
uno o entrambi i genitori.
– Entro il 2010 l’epidemia potrebbe
uccidere da 5 a 7 milioni di sudafricani.
– Entro il 2010 in Sudafrica (come pure
in Botswana, Mozambico, Lesotho,
Swaziland) il numero dei morti supererà
quello delle nascite.

Gli Stati Uniti contro tutti
L’«APARTHEID
FARMACEUTICO»

Ginevra, 26 dicembre 2002. Gli
Stati Uniti si sono opposti all’accordo
tra i 144 paesi del Wto
(Omc, Organizzazione mondiale
del commercio) per la diffusione a
basso costo dei farmaci salvavita.
Questi riguardano l’Aids, ma anche
malaria, tubercolosi e una
quindicina di malattie tropicali.
Washington si è schierata a fianco
della potente lobby farmaceutica,
«Big Pharma», che non vuole vedere
intaccati i propri profitti
(+21% nel solo 2001). Nel caso
dell’Aids, per la cui terapia ci sono
i costi più alti (assolutamente inaccessibili
nei paesi del Sud del
mondo), continuerà il monopolio
delle 7 compagnie farmaceutiche
che hanno l’esclusiva dei brevetti
fino al 2016: Pfizer, Roche,
Glaxo-Smith-Kline, Merck, Abbot,
Boehringer, Bristol-Myers
Squibb.
Assediati dalla malattia, alcuni
paesi (tra i quali India, Brasile e Sudafrica)
già producono farmaci generici
(cioè con gli stessi principi
attivi dei farmaci brevettati).
Su queste tematiche si veda:
il «dossier Aids» su Missioni Consolata
di giugno 2001.

José Luis Ponce de León




SEIMEIZAN (GIAPPONE) dialogo interrreligioso

PAZIENZA E SILENZIO
Esperienza di un giovane italiano
in un centro giapponese,
dove s’impara l’arte
dell’ascolto e del dialogo.

Sulla cima del Narutaki, una
delle innumerevoli colline della
parte meridionale dell’isola
di Kyushu, tra verdi abetaie sorge il
centro di dialogo interreligioso Seimeizan,
termine che in giapponese
significa «Montagna della vita». Da
questa altura si ha una visione incantevole:
dalla vallata sottostante lo
sguardo si spinge sulla penisola di
Shimabara, sul mare di Ariake, fino
a toccare il monte Unzen, il più grande
cratere vulcanico del pianeta.
A Seimeizan tutto invita a guardare
lontano, non solo con gli occhi, e,
al tempo stesso, a scrutare dentro se
stessi.

TRE PERCORSI
Alla guida del Seimeizan c’è padre
Franco Sottocornola, 67 anni, missionario
saveriano, liturgista, poliglotta,
in passato docente di teologia al seminario
di Parma. Arrivato in Giappone
25 anni fa, ha fondato il Seimeizan
nel 1987 con un religioso buddista,
scomparso lo scorso anno.
Della comunità fanno parte suor
Maria De Giorgi, 55 anni, missionaria
saveriana, teologa, studiosa del
buddismo, in Giappone da quasi 12
anni, che segue le relazioni inteazionali
del centro; suor Shoji, giapponese,
70 anni, orsolina, che si occupa
dei rapporti tra il centro e l’amministrazione;
padre Yoshioka, 31 anni,
conventuale francescano, che cura tre
parrocchie della provincia rimaste
senza parroco; da ultimo sono arrivato
anch’io, discepolo alle prime armi.
La nostra vita è ritmata da un programma
che prevede quasi tre ore di
preghiera comunitaria giornaliera. Il
mattino inizia con lo zazen (meditazione);
seguono lodi e messa. Nel
primo pomeriggio abbiamo una breve
preghiera; prima di cena i vespri;
la giornata si conclude con la preghiera
di compieta.
Lodi e vespri sono recitati all’aperto,
rispettivamente nell’esatto
momento dell’alba e del tramonto;
di conseguenza i nostri orari variano
ogni tre o quattro settimane, seguendo
il ritmo del sole.
Parte della giornata è impiegata
nella manutenzione del centro. In
questo periodo mi occupo della pulizia
del parco: alberi cresciuti storti
da tagliare, con mio grande dispiacere;
sottobosco da ripulire e
quintali di foglie da raccogliere e
bruciare. Sto anche completando il
lavoro di veiciatura dell’ultimo edificio:
una casetta a due piani in legno,
costruita secondo lo stile tradizionale,
con un sistema di incastri
senza utilizzare un solo chiodo. A
tali occupazioni si aggiunge l’impegno
degli ospiti.
Oltre al lavoro e preghiera, mi dedico
allo studio in tre diverse direzioni.
Prima di tutto la lingua giapponese:
un ottimo libro mi aiuta a
memorizzare rapidamente gli ideogrammi;
lo studio della grammatica
e la conversazione coi membri della
comunità mi permettono le conversazioni
più elementari.
La seconda direttiva riguarda lo
studio del buddismo giapponese, attraverso
la lettura di libri, conversazioni
con padre Franco e suor Maria
e periodi di condivisione di vita. Ho
da poco trascorso quattro giorni in
un tempio zen, su una montagna a
un paio d’ore da qui. Ci si alzava alle
tre del mattino, si stava sempre a
piedi nudi e si praticava lo zazen
quattro ore e mezza al giorno. A parte
il dolore alle gambe, sono tornato
molto soddisfatto: ho imparato cose
nuove sulla meditazione e la vita
quotidiana nel tempio; ho fatto amicizia
con un aspirante bonzo giapponese.
Spero di ripetere una simile
esperienza in un tempio di Nagasaki.
Il terzo percorso consiste nella lettura,
sotto la guida di suor Maria, dei
documenti della chiesa riguardanti il
dialogo interreligioso, a partire dal
Concilio Vaticano II.

INCONTRI
In questo periodo abbiamo compiuto
una serie di visite particolarmente
interessanti: a un sito archeologico
dell’età del bronzo, un tempio
shintornista e monastero buddista, nel
quale abbiamo avuto un incontro
con un bonzo della scuola Tendai.
Altrettanto significativi sono gli
incontri con gli ospiti. Abbiamo avuto
12 seminaristi e giovani preti,
appartenenti a vari istituti missionari,
per un corso di introduzione alla
cultura e spiritualità giapponesi, con
conferenze tenute da padre Franco,
suor Maria e padre Sonoda.
In un altro incontro abbiamo invitato
al centro una maestra della cerimonia
del tè (cha-do) e della disposizione dei fiori (ka-do) per offrire ai
nostri ospiti un primo approccio a
queste arti tradizionali. Con grande
sorpresa ho notato che i giovani missionari
provenivano tutti da paesi del
sud del mondo: Filippine, Indonesia,
Messico, Congo e Vietnam.
Un momento particolare l’abbiamo
vissuto quando sono venuti al
centro 24 membri di un’organizzazione
protestante di Kyoto, in maggioranza
giapponesi, con alcuni tedeschi,
inglesi e un finlandese. Tale
organizzazione è stata la prima, in
Giappone, a occuparsi di dialogo interreligioso:
ora vorrebbe creare un
proprio centro sul modello del Seimeizan.
Per alcuni giorni si è parlato
della storia, organizzazione e spirito
del nostro centro. Tutti hanno
partecipato ai nostri momenti di
preghiera.
Spesso tutta la comunità si reca a
celebrare la messa domenicale nella
cittadina di Tamana, una delle tre
parrocchie che seguiamo. La chiesetta
è piccola e, come ovunque in
Giappone, bisogna togliersi le scarpe
prima di entrare. La comunità
parrocchiale è molto unita; prevalgono
le donne di una certa età; mentre
i giovani, una ventina, frequentano
solo raramente.
La domenica, infatti, le scuole organizzano
saggi e gare sportive, alle
quali gli alunni sono praticamente
obbligati a partecipare. Gli studenti
degli ultimi anni di scuola superiore,
invece, la domenica frequentano
corsi speciali di preparazione agli esami
di ammissione all’università.
Tempo fa, la parrocchia ha orga-

nizzato un bazar, cioè una serie di
bancarelle per la raccolta di fondi.
Sono finito nel reparto cucina e mi
sono distinto nel preparare la soba,
una pasta simile agli spaghetti che,
dopo essere lessata, viene grigliata alla
piastra con pancetta, insalata, carote,
germogli di soia e salsa.
Ciò che maggiormente ci procura
gioia e fiducia è il cammino delle persone
che si preparano al battesimo.
Suor Maria sta seguendo una signora
sposata, di 40 anni, e un ragazzo
di 18. Ogni mese teniamo un ritiro
di preghiera. Vi partecipano i fedeli
delle tre parrocchie e vari non cristiani
in ricerca.
Al «nucleo storico» dei partecipanti
a questi ritiri appartiene una signora
simpatica e attiva, splendido
esempio di laicato missionario: fin
dalla fondazione del Seimeizan ha
portato a questi ritiri amiche e conoscenti
non cristiane. Alcune di esse
hanno intrapreso il cammino dei catecumeni.
Alla messa domenicale nella parrocchia
di Tamana arriva pure, a piedi
e da sola, una signora di 90 anni.
È una maestra di sho-do, l’arte tradizionale
della calligrafia; alla sua veneranda
età, ha incominciato a
prendere lezioni di inglese. È interessata
al cristianesimo; per questo
ha iniziato a frequentare la messa
domenicale. Personaggi così non
sono rari qui in Giappone.
Non è facile entrare nell’animo
giapponese e cogliee le infinite
sfumature. Ma ciò che
è bello è l’atteggiamento che si vuole
instaurare nel confronto degli altri
credenti: rispetto, ascolto, armonia,
attenzione e… tanta pazienza.
Perché da tutto ciò nasca
in tutti la ricerca sincera
della verità.

Fabio Limonta, di Oggiono (LC), 30 anni,
è laico missionario della Consolata:
ha frequentato il nostro Centro di Bevera
e ha alle spalle alcune esperienze di
volontariato in Kenya, India e Giappone
(proprio presso il Seimeizan).

BUDDISMO
GIAPPONESE

Idea chiave del buddismo è che tutti
gli esseri viventi sono imprigionati in
un ciclo infinito di reincarnazioni; il
continuo nascere-e-morire è sperimentato
come sofferenza; da qui lo
scopo di questa religione: liberare
l’uomo da tale ciclo di rinascite, culminante
nell’«illuminazione».
Al di là di questa unità dottrinale, il
buddismo si presenta in un’infinità di
correnti con profonde differenze. In
Giappone esistono 13 denominazioni
o correnti, ulteriormente divise in
un centinaio di scuole. Tali differenze
sono di carattere storico, filosofico e
cultuale.
Dal punto di vista filosofico, alcune
denominazioni ritengono l’illuminazione
raggiungibile con le proprie
forze, con lo studio delle scritture,
ascesi, pratiche di tipo magico, meditazione.
A questa categoria appartiene,
il famoso zen.
Per altre correnti l’iIluminazione è raggiungibile
solo grazie all’intervento di
un’entità superiore. Elemento caratterizzante
di queste denominazioni è la
fede in una divinità chiamata Budda
Amida(da non confondere col Budda
storico, Siddharta Gautama), da cui il
nome del movimento: amidismo.
Attualmente, la denominazione più
numerosa è la nichiren(dal nome del
fondatore), che conta più di 30 milioni
di fedeli. Si distingue per una forte
impronta nazionalista e, contrariamente
alla tradizione buddista, manifesta
forti critiche nei confronti di altre
religioni e correnti buddiste.
Solidamente organizzata, è tesa al
proselitismo esasperato, fino a teorizzare
l’uso della violenza per diffondere
il proprio credo.
Benché in Occidente si parli di
«monaci e monasteri buddisti»,
nel buddismo giapponese non esiste
niente di equiparabile alla nostra tradizione
monastica. Quello del monaco
è, in molti casi, un mestiere che si tramanda
di padre in figlio. I «monaci»,
infatti, sono quasi tutti sposati e vivono
gestendo il tempio ereditato dalla
famiglia; i «monasteri» sono luoghi di
formazione dei giovani aspiranti, la
quale può durare da pochi mesi, per i
laureati in una università buddista, a
due anni per chi ha un titolo di studio
inferiore.

CRISTIANESIMO IN GIAPPONE
La prima evangelizzazione del Giappone risale alla metà del 1500, con l’arrivo
di san Francesco Saverio e altri gesuiti. Il cristianesimo conobbe subito una
rapida espansione, con centinaia di migliaia di battezzati, tra cui molti nobili e
signori locali. Ma alla fine di quel secolo sorse il timore che la diffusione del cristianesimo
potesse favorire propositi di conquista del paese da parte delle grandi
potenze cattoliche dell’epoca, Spagna e Portogallo. Iniziò, quindi, un’epoca di
tremende persecuzioni, con torture e crocifissioni di massa. Uno degli episodi più
noti ha per protagonisti san Paolo Miki e 25 compagni, religiosi e laici, crocifissi
a Nagasaki il 5 febbraio 1597.
L’apice della persecuzione fu raggiunta nel 1637: 37.000 contadini, in gran
parte cristiani, furono massacrati nella fortezza di Shimabara per essersi ribellati
alle vessazioni dei feudatari locali.
Per più di 200 anni l’intero paese rimase isolato dal resto del mondo, ma i cristiani
scampati alle persecuzioni conservarono di nascosto la propria fede.
Dopo l’apertura forzata dei porti del Giappone nel 1853, a Nagasaki si formarono
alcune comunità di europei e i francesi costruirono una cappella. Nel 1865,
un gruppo di «cristiani nascosti», riconosciuti i simboli della propria fede, si presentò
al sacerdote e si venne così a sapere dell’esistenza di queste antiche comunità
cristiane. La chiesetta fu ribattezzata «chiesa del ritrovamento» ed è uno dei
pochissimi edifici di Nagasaki sopravvissuti alla bomba atomica.
Gli editti contro il cristianesimo, però, erano ancora in vigore e, dal 1867 al
1873, i cristiani dovettero subire una nuova persecuzione con imprigionamenti e
deportazioni. Solo nel 1889, con la promulgazione della nuova costituzione, fu
garantita la libertà di culto.
Oggi il cristianesimo gode piena libertà, ma vari problemi ne impediscono l’espansione.
Prima di tutto l’idea che si tratti di una religione occidentale e,
come tale, estranea. Lo stesso buddismo, prima di essere completamente accettato,
ha impiegato secoli e subito un processo di «giapponesizzazione».
In secondo luogo il cristianesimo, anche dal punto di vista storico e culturale, è
quasi sconosciuto. Meno dell’1% della popolazione è cristiana e i libri di scuola
dicono pochissimo dell’evangelizzazione del XVI secolo. La chiesa cattolica è
conosciuta come ente filantropico, che gestisce scuole e ospedali. L’aspetto propriamente
religioso e spirituale è quasi ignorato.
Tra le difficoltà maggiori ci sono alcune peculiarità culturali. Per esempio, i giapponesi
privilegiano un tipo di pensiero concreto, rispetto a quello astratto a noi
familiare. Soprattutto non esiste l’idea del peccato come è inteso nel cristianesimo:
l’etica giapponese non è fondata sull’obbedienza a una legge morale, ma
piuttosto sul rispetto di un complesso sistema di convenzioni sociali. In altre parole,
il male non è violare un comandamento di Dio, ma rompere l’armonia all’interno
del gruppo d’appartenenza.
Infine, il processo di secolarizzazione e, in certa misura, una vera e propria decadenza
sta portando la
società giapponese all’indifferenza
verso i valori
spirituali, anche quelli
insiti nelle religioni tradizionali,
come il buddismo
e lo shintornismo. La
grave recessione economica
di questi anni sta
modificando molti aspetti
della vita sociale, dal
mondo del lavoro a quello
della scuola, per avvicinare
il paese al modello
occidentale, facendo così
crescere individualismo e
competizione.

Fabio Limonta




16 FEBBRAIO festa del beato Giuseppe Allamano

QUASI UNA VITA…

La corrispondenza spedita e ricevuta dal beato Giuseppe Allamano e altri documenti che lo riguardano: vi si colgono lo snodarsi di tutta la vita o «quasi» e gli infiniti tratti della sua poliedrica figura.

Con la pubblicazione dell’ultimo
volume della corrispondenza
del beato Giuseppe Allamano
(ottobre 2002), padre Candido
Bona ha posto la parola fine a un
lavoro immane, durato 12 anni. Sono
dieci, anzi, undici tomi (il nono volume
è doppio), per un totale di 8.045
pagine, che racchiudono 4 mila documenti,
di cui 1.812 lettere autografe
dell’Allamano.
Un’edizione integrale: lettere, relazioni,
cartoline postali, biglietti da
visita, saluti aggiunti ad altri scritti,
fatture di pagamenti, foglietti sparsi.
Tutto è stato pubblicato, senza tagli
né censure. Accanto agli scritti del
fondatore, figura pure una massa
notevole di lettere da lui ricevute.
Non è una semplice raccolta,
bensì un’edizione «critica»: qui
sta il suo straordinario valore,
anche storico. L’autore, infatti,
ha voluto offrirci la produzione
epistolare dell’Allamano
inquadrandola nel suo
tempo (la precisione delle
date!), arricchendola con
spiegazioni e chiarimenti,
riportando i dati biografici
delle innumerevoli persone citate,
anche le più umili e sconosciute;
stabilendo collegamenti sicuri o
probabili; rispettando, fino
allo scrupolo, il testo
originale; interpretando
perfino silenzi
e allusioni,
per rendere
meno oscuri
avvenimenti e
personaggi.
Un lavoro
scrupoloso
fatto di pazienti
ricerche, prime stesure, decine di
persone consultate, confronti d’ogni
tipo; poi correzioni, aggiunte e verifiche,
stesure definitive… E tutto con
lo stile di un ricercatore attento,
esigente e pignolo, fino a
spedire qualcuno due volte
sul campanile del santuario
della Consolata, per
verificare l’esattezza delle
iscrizioni sulle campane.
A Padre Candido Bona (che qualcuno chiama affettuosamente
«la storia») un bel grazie!
Come è nata questa «passione»
per il fondatore e l’idea di
pubblicarne il carteggio?
«Nel 1960 – inizia padre Bona – ricorreva
il centenario della morte di
san Giuseppe Cafasso, zio dell’Allamano.
La reliquia del suo braccio,
dopo aver fatto il giro delle parrocchie
e prigioni di Torino, arrivò pure
in casamadre. Fui incaricato di tenere
la commemorazione sul tema Il
Cafasso e le missioni. Cambiai tema
e titolo: Il servo di Dio Giuseppe Allamano
e un secolo di movimento
missionario in Piemonte. Per stendere
la relazione potei consultare liberamente
le lettere autografe del fondatore».
Quella conferenza, pubblicata e
ripubblicata in varie forme, diventò
uno stimolo e punto di riferimento
per ulteriori ricerche sulla figura del
fondatore e la storia dell’istituto. Fino
a quell’anno, infatti, esistevano una
biografia ufficiale dell’Allamano,
Dottrina Spirituale, alcune conferenze
e lettere circolari: missionari e
missionarie della Consolata sembravano
felici e contenti.
La relazione di padre Bona mette
in luce il grande fervore missionario
nato e cresciuto in Piemonte e nel resto
del Regno Sardo, per influsso
d’oltralpe, durante il secolo XIX, contagiando
e coinvolgendo vescovi,
preti e laici. Basti pensare che, nel
1858, c’erano «600 missionari sardi»
sparsi per il mondo e la chiesa piemontese
raccoglieva per l’Opera della
propagazione della fede più denaro
di tutte le diocesi italiane messe insieme.
In tale clima l’Allamano crebbe e
progettò la fondazione di un istituto
missionario, già nel 1885-1886: «fondazione
che va inserita nell’alveo di
tale movimento e, in certo senso, ne
è erede e coronamento» si legge in
quella relazione.
«Negli anni ’60 – continua padre
Bona – il superiore generale, Domenico
Fiorina, m’incaricò di fare ricerche
sui documenti riguardanti
l’Allamano, essendo in corso il processo
di canonizzazione. Per anni ho
battuto a tappeto tutti gli archivi di
chiese, santuari e diocesi, comunali
e nazionali, di dicasteri romani e istituti
religiosi… ovunque potessero
esserci tali documenti: scoprii una
mole di materiale e lettere, in gran
parte fino ad allora sconosciute: “Un
giorno dovranno pur essere pubblicate”
mi dissi».
Alla raccolta dei documenti si accompagnava
il lavoro di studio critico,
compilazione e pubblicazione:
negli anni ’80 uscirono tre volumi
con le conferenze e nel 1990 il primo
volume delle lettere.
Perché pubblicare anche le lettere
ricevute e perfino i frammenti
dei suoi scritti?
«Una briciola contiene tutta la sostanza:
a volte una persona si rivela
meglio in poche righe che in lunghe
composizioni – risponde padre Bona
-. Circa la corrispondenza ricevuta,
prima di tutto, essa rivela la vasta
gamma di relazioni che aveva
l’Allamano e di attività in cui era
coinvolto».
Basta scorrere l’indice dell’epistolario
per avere un’idea della molteplicità
delle relazioni: familiari e amici,
vescovi, cardinali e papi, principi
e re di casa Savoia, autorità civili
e religiose, benefattori e, soprattutto
i suoi figli, i missionari e missionarie
della Consolata.
È altrettanto sorprendente, sfogliando
qualche lettera, scoprire la
diversità di toni: dall’ufficialità burocratica,
sempre elaborata con cura,
magari con l’aiuto dei collaboratori,
alla spontaneità delle lettere
personali, scritte con lessico semplice,
talora con sottofondi dialettali,
con stile sobrio, misurato e incisivo,

capace di andare al cuore, caldo e
persuasivo.
«Molte lettere dell’Allamano sono
andate perdute – continua padre Bona
-: è dalle risposte che possiamo conoscere
contenuti e toni di quelle inviate.
Mancano, per esempio, le lettere
scritte per promuovere la causa
di beatificazione del Cafasso. Se non
avessimo le risposte, non avremmo
che una pallida idea della complessità
di tale processo, specialmente a
quei tempi, i problemi e difficoltà da
lui incontrate. Tra l’altro, sappiamo
che l’Allamano poté testimoniare per
uno speciale permesso della Santa
Sede, essendo parente del santo e
non avendo avuto esperienza diretta
dello zio, morto quando il fondatore
aveva nove anni; ma lo conosceva a
fondo, grazie alle innumerevoli testimonianze
sentite da altre persone.
Ci sono lettere «difficili», situazioni
complesse come la
beatificazione dello zio?
«Molte, come il carteggio con
mons. Jarosseau, vicario apostolico
dei galla, per definire dove avrebbero
dovuto lavorare i suoi missionari.
Consultando mappe e prendendo le
dovute informazioni, l’Allamano fece
presente che il territorio designato
dal vescovo con le cornordinate geografiche
non era sotto la sua giurisdizione,
che il luogo era malsano e
i galla erano stati cacciati dalle razzie
di vari gruppi etnici.
Scottante è pure il carteggio con Alexandre
Le Roy, superiore generale
dei padri dello Spirito Santo. In attesa
di tempi propizi per entrare in Etiopia,
i missionari della Consolata
furono accolti nel Kenya, ma l’Allamano
dovette promettere che essi
non avrebbero preteso un territorio
proprio, perché “i kikuyu sono una
etnia troppo piccola per due istituti”
diceva Le Roy. Ritardando la possibilità
di condurre in porto il progetto
originario, i missionari della Consolata
furono incoraggiati dagli stessi
padri dello Spirito Santo a fondare
missioni ed espandersi tra i kikuyu,
finché l’Allamano chiese a Propaganda
fide piena autonomia sul territorio
in cui lavoravano i suoi figli.
Le Roy gli rinfacciò di aver mancato
di parola. Nella lettera del 30
settembre 1905, l’Allamano ammise
e spiegò le ragioni del suo comportamento,
con delicatezza e fermezza,
concludendo: “Vôtre grandeur non
è al corrente dei fatti”.
Quando Giacomo Camisassa visitò
le missioni del Kenya (1911-12),
inviò al fondatore relazioni non troppo
consolanti su situazioni di personale
e problemi scottanti; l’Allamano
rispondeva con la sua istintiva
saggezza. Non meno sofferte sono le
lettere degli ultimi anni, indirizzate a
mons. Filippo Perlo, rimasto in Africa
per 14 mesi dopo l’elezione a vice
superiore dell’istituto con diritto
di successione».
Allora si può davvero definire
il fondatore «il Salgari della
missione»?
«Ma che Salgari! Costui ha inventato
tutto con la fantasia. L’Allamano,
invece, insieme a Camisassa, prima
di fondare l’istituto e, poi, prima
di inviare i suoi missionari, aveva letto
libri e resoconti di esploratori e
missionari, si era informato e aveva
fatto ricerche minuziose sui territori
in cui sarebbero andati i missionari.
E continuò a documentarsi. Nella
lettera a Propaganda fide del 18 dicembre
1912, per definire i confini
dell’erigenda prefettura del Kaffa e
smontare le obiezioni di Jarosseau,
viene citato perfino un esploratore
russo, Alexandr Bulatovic.
Quando il fondatore parlava ai
suoi missionari dell’Africa, dei suoi
popoli e costumi, problemi e situazioni,
lo faceva da esperto e innamorato,
come se in quel continente ci
fosse stato e continuasse a viverci.
Nel carteggio con Giulio Pestalozza,
console italiano a Zanzibar, per esempio,
le lettere dell’Allamano e del
Camisassa mostrano una profonda
conoscenza di tutti i problemi politici
e amministrativi, geografici e pratici,
e vengono studiate strategie per
entrare in Etiopia. Tra l’altro, si progettava
la costruzione di un battello
per risalire il fiume Tana; ma esso non
doveva avere più di mezzo metro di
pescaggio, poiché in certi punti il fiume
era troppo basso».
Oltre alla passione per l’Africa,
quale figura emerge dalle sue
lettere?
Padre Bona si lascia cadere le
braccia, poi risponde: «È impossibile
sintetizzare in poche righe la sua
personalità poliedrica che, di volta
in volta, è amico, parente, confratello,
rettore, padre, fondatore, consigliere, guida spirituale… È meglio
leggersi le lettere».
Ho capito l’antifona. Cambio la
domanda e gli chiedo di indicarmi
qualche lettera che lo ha particolarmente
impressionato. Scrive quattro
nomi e rispettive date, foendo
qualche dritta.
La lettera inviata nel 1882 a mons.
Gastaldi è un capolavoro di abilità
psicologica e diplomatica. Mentre il
clero torinese trema di paura davanti
al suo vescovo, l’Allamano, 31 anni,
gli ricorda le «voci maligne» che
circolano sul suo conto, per avere usato
il guanto di ferro sulla scuola di
morale per i neo-sacerdoti: voci che
solo il vescovo può smentire, ristabilendo
il Convitto ecclesiastico nella
sede naturale, la Consolata. E per facilitare
la soluzione, gli suggerisce
persone che sa gradite a monsignore
e il modo di cavarsela con onore.
Nella lettera ai primi membri della
casamadre (28 luglio 1901) manifesta
tutto il suo cuore paterno: si
rammarica di non poter essere più
frequentemente con loro e detta alcune
regole per il buon funzionamento
della comunità.
La corrispondenza tra l’Allamano
e fratel Benedetto Falda è pervasa da
profondo affetto e confidenza, raggiungendo
toni profetici. Unico superstite
della terza spedizione, il fratello
nutre qualche dubbio sulla propria
resistenza; l’Allamano gli scrive:
«Non mi stupisco delle tentazioni
temporanee di scoraggiamento…
Con la grazia di Dio ti passerà e riuscirai
un missionario di spirito… No,
la nostra missione andrà innanzi e
prospererà, perché è opera di Dio e
della Consolata. Passeranno gli uomini,
con merito più o meno secondo
il loro spirito, cadranno alcune
foglie, ma la pianta crescerà e verrà
albero gigantesco; io ne ho prove
prodigiose in mano. Fortunato chi
persevererà; egli vedrà esiti splendidi.
Felice te che per essere il primo
fratello a fare i voti perpetui, sarai capo
di una grande schiera di santi fratelli
in cielo, e di lassù dovrai anche
ringraziare me che non ti risparmiai
correzioni» (2 settembre 1908).
Quando il fratel Falda gli comunicò
di avere fatto in privato la professione
perpetua, l’Allamano gli
scrisse: «Con la mia benedizione intendo
confermarti come primo fratello
dell’istituto» (8 dicembre 1908).
Non mancano pennellate umoristiche,
come nella lettera a mons.
Ressia, vescovo di Mondovì e compagno
di corso dell’Allamano. Per
celebrare il giubileo sacerdotale
(1923), il vescovo avrebbe voluto i
compagni a Mondovì, ma l’Allamano
gli scrisse: «Siamo vecchi e sciancati;
a Mondovì daremmo ammirazione…
In Torino invece e nella Consolata
resteremmo ignoti».
Brioso è pure l’inizio dell’invito a
mons. Ressia per la beatificazione
del Cafasso (1925): «Nel vedere la
mia brutta calligrafia dirai, già nuovamente
quel noioso. Abbi pazienza;
vecchio con vecchio».
Rivelatrici del suo cuore sono pure
le ultime parole scritte dal beato
fondatore nel gennaio del 1926, pochi
giorni prima della morte: riformulando
il testamento conclude
così: «Arrivederci
tutti nel bel paradiso».

Benedetto Bellesi




DIRITTI UMANI libertà religiosa negata

DI MALE IN PEGGIO
In barba alla Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo,
la libertà religiosa
è sempre più calpestata,
specialmente in Asia, dove
le minoranze cristiane sono
le più esposte a repressioni
e persecuzioni.
Presentiamo alcuni casi.

Oltre 410 milioni di cattolici
soffrono limitazioni alla libertà
religiosa nel mondo.
Nei paesi islamici i cristiani sono sistematicamente
discriminati e posti
in condizione di inferiorità sociale,
quando non sono oggetto di massacri
e pulizie da parte di milizie islamiche:
in quelli con regimi comunisti
continuano a subire persecuzioni
e repressioni; negli stati a maggioranza
buddista e induista la situazione
non è affatto migliore.
L’Asia, soprattutto, si rivela il continente
in cui, anche nel 2001, la libertà
religiosa è stata maggiormente
negata: lo testimoniano i rapporti annuali
su tale argomento del Dipartimento
di stato americano, Amnesty
Inteational, Aiuto alle chiese che
soffrono e altri organismi inteazionali
in difesa dei diritti umani.
Gli esempi che riportiamo non sono
i peggiori, ma bastano a dare un’idea
di un problema sempre più grave
e di cui si parla sempre meno. Dove
il diritto alla libertà religiosa non
è rispettato, anche gli altri diritti fondamentali
vengono calpestati.

MYANMAR: proibito… cantare
Nell’ex Birmania è presente circa
un milione di cristiani, di cui 400 mila
cattolici, su una popolazione di
quasi 46 milioni di abitanti.
Dal 1996 il regime militare birmano
non concede licenze di costruzione
per edifici di culto e, dal luglio
2001, è in vigore un ordine governativo
per cui «le comunità cristiane
non possono riunirsi in luoghi di culto
costruiti meno di un secolo fa».
Da allora sono state chiuse oltre 80
chiese nella capitale Rangoon; altre
20 a Shwe Pyi Tar; a Haling Tai Yar,
invece, sono stati chiusi tutti gli edifici
di culto: i cristiani hanno il permesso
di riunirsi privatamente, ma
con l’ordine di non cantare.
A 5 ministri cristiani del culto è
stato ordinato di lasciare il paese; altri
17 hanno scelto la latitanza. È ancora
in carcere la pastora battista
Gracie, arrestata il 13 febbraio 2001
e inteata nel campo militare di
Haka con l’accusa di aver dato rifugio
a separatisti di etnia chin: il tribunale
le ha inflitto una condanna a
due anni di lavori forzati. Stessa condanna
è stata inflitta al fratello maggiore,
accusato dello stesso reato.
Per i fedeli del luogo, però, tali accuse
sono infondate e mirano a ridurre
la libertà religiosa.
In Myanmar è da anni in corso una
guerra civile contro vari gruppi etnici
separatisti e una spietata repressione
contro l’opposizione. A volte la
tensione politica sfocia in scontri a
sfondo religioso, soprattutto tra buddisti
e musulmani, provocando vittime
e distruzioni di case e moschee.
Nei confronti della minoranza islamica
(3,3%, contro il 69% buddista),
il governo persegue una politica
particolarmente repressiva, confinando
i musulmani in determinate
aree del paese e limitandone la libertà
di movimento. Nel corso del
2001, nello stato di Arakan, il governo
ha provveduto a distruggere 10
moschee e a programmare l’abbattimento
di altre 30.

BHUTAN:
cambiare religione… o paese

L’8 aprile 2001, domenica delle
palme, la polizia bhutanese schedò i
fedeli radunati davanti ai luoghi di
culto; molti pastori protestanti furono
arrestati e sottoposti a interrogatori
e minacce di detenzione. Altri fedeli
fuggirono per paura di essere identificati.
Il prezzo più salato lo
pagò il pastore Yakub, arrestato per
15 giorni e sottoposto a percosse affinché
abiurasse.
La campagna persecutoria è scattata
nel 2000, con l’invio a impiegati
pubblici e privati di speciali moduli
da compilare, in cui si chiedeva di
sottoscrivere «norme e regole che sovrintendono
la pratica della religione
»; la distribuzione dei moduli era
accompagnata da minacce ai cristiani:
«Abbandonate la vostra religione
o lasciate il paese».
Il governo del Bhutan, naturalmente,
nega schedature e ultimatum
e afferma che nel paese ognuno è libero
di professare e praticare la propria
fede. Ma la testimonianza dei
cristiani conferma che i non buddisti
soffrono discriminazioni politiche
e sociali e la persecuzione contro i
cristiani è ora estesa e sistematica, villaggio
per villaggio; in alcune città i
cristiani sono malmenati e non possono
riunirsi se non in case private;
non hanno promozioni sul lavoro;
subiscono licenziamenti immotivati,
la revoca di licenze commerciali,
vengono loro negati i benefici dell’assistenza
pubblica.
Su 1,8 milioni di abitanti, il 70,1%
della popolazione del Bhutan è costituita
da buddisti lamaisti, 24%
indù, 5% musulmani e 0,33% cristiani.
Il Bhutan è l’unico regno buddista
nel mondo: l’inno nazionale è
dedicato a Budda; il buddismo è religione
di stato; molti uffici pubblici
sono situati all’interno di monasteri
buddisti. Non ha una costituzione
che garantisce i diritti dei cittadini.

LAOS:
una chiesa da spazzare via

«Tutti i cittadini hanno diritto e libertà
di credere o non credere nelle
religioni» recita l’art. 30 della Costituzione
del Laos, quasi a sancire l’indifferenza
dello stato verso la religione,
anche se l’art. 9 afferma che «lo
stato rispetta e protegge tutte le attività
legali dei buddisti e dei fedeli
delle altre religioni; mobilita e incoraggia
monaci e novizi buddisti, così
come i preti di altre religioni, a partecipare
alle attività che sono di beneficio
al paese e al popolo… Sono
proibiti tutti gli atti che creano divisione
di religioni e classi di persone».
Tale conclusione, piuttosto vaga, è
fatta apposta per giustificare le restrizioni
all’esercizio della libertà religiosa.
L’art. 66 del Codice criminale
«proibisce a qualsiasi individuo di
organizzare o prendere parte a incontri
per creare disordine sociale».
Nel 1998, citando tale articolo, l’ambasciatore
laotiano in Usa spiegava
la filosofia del regime, affermando
che il governo «si oppone fermamente
all’abuso della libertà di religione
per promuovere il dissenso
politico e disordine interno».
Tale politica di «prevenzione» si
traduce in repressione, specialmente
contro la chiesa cattolica. I permessi
per costruire nuove chiese, per
esempio, sono dati solo in quei posti
dove già c’è stata una chiesa cattolica;
per qualsiasi tipo di riunione deve
essere richiesto un permesso speciale
dalle autorità locali a cui va presentata
anche la lista completa dei
partecipanti.
Vari testimoni riferiscono che a subire
maggiormente la repressione è
«la popolazione rurale nel nord del
paese». In diversi villaggi «le autorità
locali hanno esercitato una grande
pressione sulla gente in modo da
prevenire ogni possibile conversione
al cattolicesimo. A tale scopo ci
sono stati numerosi arresti di sacerdoti
e operatori pastorali. Sembra
che il governo usi ogni mezzo per evitare
la crescita del cattolicesimo».
Anche le altre confessioni cristiane
sono nel mirino del regime.
La repressione contro le comunità
cristiane, si è intensificata negli
ultimi anni ’90. Nel mirino ci sono
soprattutto i cristiani, presenti principalmente
tra le etnie minoritarie
hmong e khmu. In alcuni villaggi,
oltre alla rinuncia scritta al cristianesimo,
le autorità forzano i cristiani
a seguire riti animisti, che includono
sacrifici degli animali, bere il
loro sangue e parlare agli spiriti.
Ma anche in quella lao, maggioritaria,
non si fanno eccezioni: tra il
2000 e il 2001, il governo laotiano
ha arrestato e imprigionato oltre
550 cristiani hmong e lao e ha chiuso
in varie province oltre 65 chiese
cristiane e istituti religiosi. Il rapporto
del Dipartimento di stato americano
afferma che nel 2001 vari
cristiani lao «sono stati arrestati, detenuti,
minacciati con la perdita del
lavoro nel governo, fisicamente impediti
dalle forze di sicurezza di
partecipare alle celebrazioni delle
principali festività religiose».
Un caso esemplare: otto leaders
cristiani passarono il mese di giugno
2001 in prigione, perché si erano rifiutati
di firmare un documento in
cui rinunciavano alla fede cristiana.
Fu un mese di torture: venivano regolarmente
trascinati nel cortile della
prigione e «invitati» a firmare tale
rinuncia con una pistola puntata alla
testa. Al momento del rilascio, tre
di essi non erano più neanche in grado
di camminare.
Una trentina di cristiani sono ancora
in carcere, alcuni dei quali da oltre
due anni, per la maggior parte, in
totale isolamento. Altri vengono regolarmente
picchiati.
Il governo comunista del Laos
sembra impegnato a spazzare via la
chiesa dal paese. Impressioni confermate
dai membri della burocrazia
laotiana, in disaccordo con la persecuzione
dei cristiani, riportate dal Telegraph
di Bangkok nel luglio 2001:
«Il Politburo e le maggiori autorità
hanno ripetutamente espresso l’intenzione
di liberare il paese da ciò
che è sprezzantemente descritta come
una fede aliena».

NEPAL: i nipotini… di Mao
Il Codice penale nepalese sanziona
con la detenzione fino a tre anni
chi esercita qualsiasi forma di proselitismo
nei confronti di cittadini
indù. Tale sanzione è sfruttata dagli
estremisti induisti per accusare i
membri di una confessione diversa,
provocandone l’immediato arresto.
Ne hanno fatto le spese il missionario
protestante norvegese Trond
Berg e tre cittadini nepalesi: arrestati
nell’ottobre 2000 con l’accusa di aver
cercato di convertire con denaro
un indù, sono stati rilasciati dopo
quattro mesi, perché al processo non
si sono presentati gli accusatori.
Dal 1996 il Nepal respira un pesante
clima di tensione politica e sociale,
provocata dalla campagna dei
ribelli maoisti per rovesciare la monarchia
costituzionale e istituire una
repubblica comunista. Nella seconda
metà del 2001, numerose stragi
hanno mietuto centinaia di vittime
tra forze dell’ordine e terroristi.
Nel mirino maoista ci sono soprattutto
le scuole private, molte delle
quali hanno ricevuto lettere intimidatorie,
minacce e distruzioni. Dal
2000 hanno già chiuso 150 istituti. La
soppressione del sistema scolastico
privato danneggerebbe un milione di
studenti e 75 mila insegnanti.
Le scuole cattoliche del Nepal occidentale
sono state particolarmente
colpite, ma continuano a lottare
per rimanere aperte. Tali pressioni e
rappresaglie vengono da organizzazioni
politiche filo-cinesi, che si oppongono
alla presenza della chiesa
cattolica nel paese.

TURKMENISTAN:
ritorno alle… catacombe

Quella di Shagildy Atakov è una
storia esemplare di ciò che sta capitando
nel paese. Convertito alla chiesa
battista, 39 anni, moglie e quattro
figli, nel dicembre 1998 Atakov fu incarcerato
e pestato a sangue, fino a
perdere temporaneamente la vista.
Condannato per frode a due anni
di lavoro forzato, in appello la sentenza
fu commutata a quattro anni di
carcere e una multa pari a 12 mila euro.
Nessuno dubita che la sua condanna
sia stata una punizione per la
sua conversione al cristianesimo.
Rifiutatosi di rinunciare alla sua fede
e giurare fedeltà al presidente
Niyazov, Atakov fu sottoposto a maltrattamenti
e vessazioni; ricoverato
all’ospedale per un attacco cardiaco
(2000), fu subito rispedito al campo
di lavoro, poi in cella di isolamento in
un carcere di massima sicurezza.
Per un certo periodo, anche moglie
e figli furono messi agli arresti
domiciliari in un villaggio ai confini
con l’Iran e subirono varie pressioni
dai funzionari di sicurezza, affinché
si convertissero all’islam.
Il caso Atakov ha suscitato scalpore
a livello mondiale. Perfino il Parlamento
europeo e l’Organizzazione
per la sicurezza e la cooperazione in
Europa (Osce) si sono interessati del
suo caso. Ed è, forse, grazie alla pressione
internazionale che Atakov è
stato rilasciato nel febbraio 2002, prima
che scontasse l’intera pena. Ma,
privo di documenti d’identità, egli si
trova ancora sotto sorveglianza.
Casi come quelli di Atakov ne segnalano
a bizzeffe gli organismi in difesa
dei diritti umani. Fin dall’indipendenza
(1991), in Turkmenistan
c’è un crescendo di attacchi contro i
gruppi religiosi minoritari, tanto da
fae il più repressivo dei paesi dell’ex
Unione Sovietica in materia di libertà
religiosa.
Tale diritto è garantito dalla Costituzione
solo sulla carta. Secondo la
legge turkmena, ogni gruppo religioso
deve essere registrato; per ottenere
tale registrazione deve provare di
essere composto da almeno 500 persone
di età superiore ai 18 anni e residenti
nella stessa città. Tali requisiti
fanno sì che nessun gruppo, tranne
i musulmani sunniti (87% dei 4
milioni e mezzo di turkmeni) e la
chiesa ortodossa russa (6,4%), possa
ottenere il riconoscimento legale. I
cattolici (5 mila) e le altre chiese cristiane
hanno comunità di poche decine
di fedeli. Inoltre, col vento che
tira, i cristiani di origine turkmena sono
riluttanti a inserire i loro nomi in
un documento pubblico, rivelando
la loro conversione. Il passaggio dall’islam
al cristianesimo è malvisto dallo
stato e dalla società.
Le comunità religiose non riconosciute,
pur presenti nel paese, non
possono radunarsi, fare proselitismo
o distribuire materiale religioso. Non
è consentito neppure di incontrarsi
in case private: se vengono scoperti,
e lo sono spesso, dato lo zelo della polizia
di sicurezza, i partecipanti sono
soggetti a multe e arresti amministrativi
e accuse penali, che si traducono
in carcerazioni, torture, deportazioni
ed espulsioni, sequestri e distruzioni
di proprietà. L’accanimento
si riversa soprattutto sui leaders dei
gruppi cristiani, per spezzae la resistenza
e forzarli a rinunciare alla fede
o a lasciare il paese.
La chiesa cattolica è autorizzata a
celebrare le funzioni e a svolgere attività
religiose solo sul territorio della
nunziatura apostolica, coperto da
immunità diplomatica.
Ma anche gli unici due gruppi religiosi
riconosciuti dallo stato sono
soggetti a controllo, i musulmani soprattutto.
Per impedire l’ingresso di
movimenti islamici stranieri, il governo
usa vari modi: vieta la distribuzione
di materiale religioso islamico
pubblicato fuori del paese; paga
lo stipendio al clero islamico e
vieta l’insegnamento a certi imam;
chiude scuole coraniche; seleziona e
riduce al minimo i partecipanti al
pellegrinaggio annuale alla Mecca.
La ragione della politica di crescente
repressione della libertà religiosa
è spiegata chiaramente dall’ex
ministro degli esteri turkmeno,
Boris Shikhmuradov, in dissidio col
regime e per questo rifugiatosi a
Mosca: «Il presidente Niyazov
prende personalmente tutte le decisioni
su ogni aspetto della vita del
paese, incluse le questioni religiose,
sebbene egli non abbia alcuna idea
di cos’è la religione. Egli non
tollera alcun dissenso e si serve dei
servizi segreti e polizia di
sicurezza per controllare
il paese».

Dati e fatti riportati sono desunti da varie
fonti, non citate per non appesantire la
lettura, ma consultabili via internet:
– Rapporto 2002 sulla libertà religiosa nel
mondo (Aiuto alla chiesa che soffre)
www.alleanzacattolica.org
– Inteational Religious Freedom Report
for 2002 (Dipartimento di stato Usa)
www.state.gov/g/drl/rls/irf/2002
– Amnesty Inteational (www.amnesty.it)
– Keston News Service (www.keston.org)
– Human Rights Watch (www.hrw.org)

Benedetto Bellesi




IRAQ incontro con la gerarchia cattolica

«QUANTI PRETESTI PER ATTACCARCI!»
Saddam Hussein e le armi sono soltanto pretesti per controllare le ricchezze dell’Iraq.
Perché si attua una politica di 2 pesi e 2 misure? Israele è libero di non rispettare
le risoluzioni dell’Onu senza subire conseguenze, l’Iraq no.
Dichiarazioni fatte da esponenti del governo di Saddam? No, da due alti prelati
della gerarchia cattolica irachena: mons. Warduni, patriarca vicario di Baghdad,
e mons. Isaak, segretario del sinodo caldeo e rettore dell’università.
Due personaggi diversi nel valutare la situazione dei cristiani in Iraq, ma identici
nel denunciare l’ingiustificata aggressione al paese.

INTERVISTA/1: MONS. WARDUNI
Monsignor Ishlemoun Warduni è
patriarca vicario della chiesa cattolica
caldea, a Baghdad.
Monsignore, qual è la situazione
dei cristiani in Iraq oggi?
«Parlare della situazione dei cristiani
in Iraq vuol dire parlare non
di persecuzioni, quanto piuttosto di
restrizioni.
Nel 1980 la comunità cristiana irachena
contava circa un milione di
fedeli, ma proprio da quell’anno,
con l’inizio della guerra contro l’Iran,
la sua situazione ha cominciato
a peggiorare. La guerra del Golfo e
l’embargo imposto nel 1990 l’hanno
fatta poi precipitare, producendo
varie conseguenze come l’emigrazione.
Oggi il numero di cristiani
in Iraq è sceso a 600.000 fedeli.
Con due ulteriori problemi: il fatto
che, nella percezione comune, i cristiani
vengono sentiti come alleati
degli occidentali, piuttosto che come
iracheni; e la progressiva trasformazione
dell’Iraq da paese laico
a paese musulmano, complice la
“Campagna di fede” lanciata dal
governo a metà degli anni 90».
Eppure in Iraq, a differenza dell’Arabia
Saudita per esempio, i cristiani
hanno libertà di culto…
«Per questo parlo di restrizioni e
non di persecuzioni vere e proprie.
Le restrizioni che il governo cerca
di imporre hanno spinto tutti i
vescovi cristiani a protestare, e questa
protesta ha portato alla creazione
di una commissione mista, formata
da rappresentanti del ministero
del culto, dell’istruzione, degli
interni e da vescovi. La commissione
ha prodotto un documento consegnato
al Consiglio supremo della
rivoluzione, e firmato da monsignor
Hawa, vescovo siro-ortodosso e da
me, che non ha avuto però ad oggi
(25/09/2002) nessuna risposta da
parte del governo.
I punti di discussione sono vari.
Alcuni riguardano l’identità dei cristiani
iracheni. Un recente decreto,
per esempio, vieta l’imposizione di
nomi stranieri ai bambini, costringendo
a scegliere tra i nomi “arabi,
iracheni ed islamici”. Sebbene si sia
ancora in attesa di una lista ufficiale
dei nomi permessi, per adesso si
possono usare i nomi biblici riconosciuti
anche dall’islam, ma la loro
forma deve essere quella araba:
Mariam e non Maria, quindi.
Un altro decreto, già applicato
pur non essendo ancora ufficiale, riguarda
più specificatamente la religione.
Se fino ad ora sui documenti
di identità era possibile dichiarare la
propria fede religiosa scegliendo tra
musulmano e cristiano, adesso la
scelta è solo tra musulmano e “non”
musulmano. Un decreto che trasforma
l’identità dei cristiani, che
passano da un “essere” ad un “non
essere” quanto mai incerto nelle eventuali
conseguenze future».
Direbbe quindi che sta diventando
sempre più difficile essere cristiani
in Iraq?
«Direi di sì. Un esempio è quello
che riguarda i figli minorenni di una
coppia in cui uno dei genitori decida
di convertirsi all’islam. I figli,
che prima potevano attendere il
compimento del diciottesimo anno
di età per diventare musulmani, ora
vengono forzatamente e immediatamente
considerati come appartenenti
all’islam. I vescovi hanno
chiesto che a questa conversione
forzata possa almeno far seguito la
libertà di ritorno al cristianesimo alla
maggiore età, una richiesta che
però è stata respinta dato che dall’islam
non si può tornare indietro.
Oltre a ciò, sebbene la costituzione
irachena garantisca la libertà di
culto, il governo a volte chiude un
occhio su episodi che mettono in
dubbio tale libertà. Nella zona di
Mosul, per esempio, un tempo culla
del cristianesimo iracheno e ora
spopolata dai nostri correligionari
per l’emigrazione verso l’estero o
verso la capitale, e dove si sta imponendo
l’islam wahabita di stampo
saudita, ci sono molte pressioni psicologiche
affinché i cristiani rimasti
si convertano all’islam. Pressioni sui
giovani da parte dei loro coetanei di
fede musulmana, e pressioni più
forti, fatte di biglietti attaccati nottetempo
alle porte delle case dei cristiani
e dove è scritto: “Diventa musulmano
e sarai salvato”».
Allora le fonti che parlano di violenze
nei confronti dei cristiani non
sono false. Si citano episodi di incendi
di negozi appartenenti a cristiani,
di una suora uccisa a Baghdad
lo scorso agosto…
«Il governo iracheno ha indagato
su alcuni episodi di violenza, e li ha
imputati alla delinquenza comune,
che affligge questo paese come il resto
del mondo.
Per quanto riguarda la suora uccisa
a Baghdad è successo proprio
vicino alla mia chiesa di Mariam al
‘Adhra. Sorella Cecilia, di 71 anni,
era sola nella casa dove abitava. Le
consorelle erano assenti e lei aveva
rifiutato l’invito dei familiari a fermarsi
a dormire a casa loro. Non voleva lasciare la casa incustodita. È
stata una cosa terribile, hanno chiamato
me e sono stato io a trovarla.
Era svestita, mani e piedi legati insieme,
era stata picchiata… non mi
faccia dire di più, è troppo penoso,
aveva 71 anni e l’hanno uccisa barbaramente.
Hanno portato via i soldi
che aveva in casa, 35 dollari in
tutto e alcuni oggetti d’oro.
La polizia ha indagato e ha trovato
i colpevoli. Sono tre, tutti di questa
zona, uno abita proprio qui dietro
la chiesa. Le autorità hanno assicurato
che subiranno la giusta
punizione per quello che, malgrado
la ferocia con la quale è stato perpetrato,
è stato considerato un atto
di rapina. Un reato comune quindi…».
Una situazione non tranquilla
quindi…
«Sì. Il controllo delle chiese cristiane
è ora passato completamente
al ministero degli affari religiosi,
e la protesta che tutti i vescovi hanno
elevato nei confronti di questa
pesante ingerenza nella vita ecclesiale
non ha ancora avuto risposta.
In più dobbiamo registrare l’aumento
di attacchi nei confronti dei
cristiani apparsi su varie riviste e
giornali, come Babel, il quotidiano
più diffuso a Baghdad e controllato
dal governo, gli insegnamenti anticristiani
che si diffondono in ambito
scolastico, dove spesso si ricorre
alla similitudine: cristiani = crociati,
e il tentativo di minare i fondamenti
della nostra fede, per esempio
censurando i libri e le riviste che
contengano il riferimento a Gesù
come Figlio di Dio, in favore della
visione islamica della stessa figura
di Gesù: non più Figlio di Dio, ma
semplice profeta anteriore a Maometto».
Come influiscono i 12 anni di embargo?
«L’embargo ha colpito tutti gli iracheni,
indipendentemente dalla
fede. Ha creato una situazione di
tensione sociale prima sconosciuta,
nella quale valori consolidati, come
il rispetto per il credo altrui, si stanno
perdendo, e la Campagna di fede
varata dal governo sta ulteriormente
allontanando il paese dalla
laicità che lo contraddistingueva.
In questo contesto, fatto anche
dei continui attacchi dell’Occidente
(che mira ad impossessarsi delle
risorse del paese) e della politica di
due pesi e due misure applicata all’Iraq
e ad Israele (libero di non rispettare
le risoluzioni delle Nazioni
Unite senza subie alcuna conseguenza),
i cristiani, visti come più
vicini all’Occidente nemico che all’Iraq,
subiscono discriminazioni e
restrizioni. Malgrado, e voglio sottolinearlo,
il nostro essere e sentirci
iracheni. Si può dire che, se come
comunità fossimo sistematicamente
perseguitati, soffriremmo due
volte, in quanto perseguitati e sottoposti
ad embargo; non è così, ma
in quanto minoranza, noi soffriamo
una volta e mezza gli iracheni musulmani.
La sola speranza è che l’embargo
finisca, che l’Iraq riprenda ad essere
un paese normale, e che nella
normalità anche i cristiani, presenti
in questa terra dall’inizio della cristianità,
ritrovino la pace e la sicurezza».

INTERVISTA/2: MONS. ISAAK
Monsignor Jacques Isaak è segretario
generale del Sinodo dei vescovi
caldei e rettore del «Pontifical
Babel College for Philosophy and
Theology», a Baghdad.
Che importanza ha avuto, nell’ambito
del cammino ecumenico tra le
chiese caldeggiato da Giovanni Paolo
II, il decreto sinodale congiunto
del 1997, sottoscritto dal patriarca
della chiesa cattolica caldea, Mar
Raphael Bidawid I, e dall’eminenza
Mar Dinkha IV in rappresentanza
della chiesa assira dell’Est?
«L’ecumenismo è una caratteristica
delle chiese presenti in Iraq, e
in questo senso il decreto sinodale
non fa altro che sancire legalmente
una pratica già applicata normalmente.
Lo stesso fatto che nella nostra facoltà
teologica gli studenti appartengano
a varie chiese, dipendenti
o meno da Roma, pone delle solide
basi per l’ecumenismo vissuto come
condivisione della comune fede in
Cristo.
È capitato, per esempio, che due
seminaristi, uno caldeo ed uno assiro,
siano stati destinati per la loro azione
sacerdotale in due piccoli villaggi
nel nord dell’Iraq. Il fatto di aver
studiato e vissuto insieme per 7
anni, nel nostro collegio, ha cementato
la loro amicizia al punto che
quando uno dei due doveva assentarsi,
l’altro lo sostituiva, con piena
soddisfazione di entrambe le comunità
di fedeli.
Gli ostacoli al ritorno ad una sola
chiesa, com’era prima del 1551, non
esistono nella vita di tutti i giorni;
semmai sono posti dalle gerarchie
delle due chiese. A livello gerarchico,
per esempio, la chiesa assira dell’Est
ha due patriarchi: Mar Dinkha
IV, la cui sede è negli Stati Uniti, e
Mar Addai II, residente a Baghdad.
Se il decreto congiunto è stato ratificato
dal patriarca con sede in America
non è perché il Vaticano gli
riconosca una maggiore autorità,
ma perché Mar Addai è più conservatore,
pone maggiori resistenze all’ecumenismo,
e non intende cedere
l’indipendenza della sua chiesa in
favore di una qualsiasi forma di riconoscimento
dell’autorità papale.
Autorità che, peraltro, noi cattolici
caldei non ci sogneremmo mai di
mettere in discussione».
Nessun problema quindi tra i cristiani
in Iraq… e i rapporti con i
musulmani?
«Tutte le minoranze, in qualsiasi
paese, hanno dei problemi; tutto
sommato però il quadro della situazione
in Iraq è buono. In passato sono
stato per quattro anni vescovo di
Arbil, nel nord del paese, dove mi
trasferii con mia sorella. A Baghdad
rimase solo mia madre che continuò
a vivere in questa casa, in una strada
in cui la nostra era ed è l’unica famiglia
cristiana. Ebbene mia madre
non ha mai avuto nessun problema,
e ha trovato nei musulmani dei buoni
vicini, pronti a darle una mano
quando necessario».
Ed i rapporti tra le chiese e il ministero
degli affari religiosi che controlla
ogni aspetto della vita religiosa
del paese, anche quella dei
cristiani, in che termini sono?
«È una disputa, questa, di vecchia
data. Il precedente patriarca, Paul
Checko II, ebbe molti anni fa una
violenta discussione a proposito
dell’indipendenza delle chiese cristiane
dal ministero degli affari religiosi,
con l’allora ministro Faïsal
Chaher.
La faccenda si risolse con la rimozione
dal suo incarico del ministro,
voluta dal governo. Attualmente
il ministro è un laico laureato
in teologia, Abdul Munem, al
quale, sempre a proposito dello
stesso argomento, è stata indirizzata
una lettera di protesta da parte
dei vescovi. Non c’è ancora stata risposta;
per cui adesso la questione
è congelata».
Lei nega l’esistenza di problemi di
convivenza tra la popolazione, e mi
cita l’esempio di sua madre, a Baghdad.
La situazione è uguale nel
resto del paese? Cosa dice della dislocazione
forzata che colpisce le
popolazioni non arabe della zona
di Kirkuk?
«Tale processo esiste, ma non riguarda
i cristiani, bensì i kurdi ed i
turcomanni. Ai cristiani, anzi, il governo
ha concesso delle terre proprio
in quelle zone…».
Perché questo favoritismo nei confronti
dei cristiani?
«Perché il governo tiene alla cultura
dei cristiani, perché la preservazione
di una piccola, ma comunque
colta comunità cristiana, può
essere utile a fronteggiare il vero pericolo,
quello degli integralisti islamici.
Dopo i fatti dell’11 settembre anche
l’Occidente si è accorto del pericolo
che un certo islam può rappresentare.
Noi lo dicevamo da anni
con il risultato di essere stati
tacciati di fondamentalismo cristiano».
Questo interesse comune tra governo
e cristiani contro il fondamentalismo
islamico spiegherebbe
l’ordine del governo iracheno di
punire eventuali attacchi ai cristiani
all’indomani dell’inizio della
guerra in Afghanistan. Ora che l’Iraq
si trova ad affrontare «direttamente
» il pericolo di una guerra, lei
pensa che tale protezione ai cristiani
verrà di nuovo accordata?
«Sì. Il governo è il partito Baath.
E il Baath è laico e, se non accordasse
la protezione ai cristiani, negherebbe
la sua stessa essenza. Il governo
è contro l’islam fondamentalista,
tanto è vero che la censura
colpisce di più i libri provenienti
dall’estero di matrice islamica che
quelli di argomento religioso cristiano.
È vero che per decreto non si può
menzionare in un libro Gesù come
figlio di Dio, ma il controllo non è
così severo. Recentemente la commissione-
censura del ministero degli
affari religiosi ha preteso la cancellazione
di tale riferimento in un libro
sulla santissima Trinità, ma l’autore,
che è un sacerdote, ha reinserito la
formula e lo ha dato alle stampe nella
versione originale, e per adesso
nessuno ha trovato niente da dire.
Una situazione tranquilla quindi…
Ma allora perché le fonti d’informazione
estere sui cristiani iracheni,
americane soprattutto, parlano
di persecuzioni e violenze?
«L’esagerazione dei problemi è
volta a favorire la fuga dei cristiani
verso l’estero; cristiani che possono,
nella loro ricerca di una nuova patria,
fare appello alle persecuzioni
religiose. Tale esagerazione, però, è
dannosa per i cristiani che rimangono
in Iraq, tanto è vero che io
stesso, durante il mio ultimo viaggio
in America, ho accusato la nostra
comunità di egoismo, di non
pensare a chi, qui, potrebbe essere
danneggiato da una tale campagna
denigratoria verso il nostro governo.
Non c’è ragione per cui i cristiani
abbandonino il paese.
Se il nostro futuro è incerto è per
la guerra che il mondo ci muoverà,
per controllare le nostre ricchezze.
Il nostro petrolio è ciò che l’Occidente
vuole; tutto il resto (il governo
guidato da Saddam Hussein,
le armi di distruzione
di massa) sono
solo pretesti».

Luigia Storti




«ALLA GUERRA! ALLA GUERRA!»

Tutti dietro a George W. Bush?
L’ossessione per la guerra del presidente statunitense,
la sudditanza dei governi,
la propaganda dei media, l’impotenza dei popoli.

«Le umiliazioni – scrive Simone Weil (Lettera a
Georges Beanos, 1938) – che il mio paese infligge
sono per me più dolorose di quelle che può subire».
Non sappiamo con certezza se l’Italia parteciperà alla
guerra di George W. Bush contro l’Iraq. Pare però
che la strada sia segnata. Il ministro Martino ha già
fatto sapere (17 dicembre) che le forze militari statunitensi
saranno gradite ospiti sul territorio e nello spazio
aereo italiani (1).
Parlare di pace e non violenza di questi tempi non è
facile. Si rischia di essere ridicolizzati, perché sputiamo
(noi pacifisti) nel piatto in cui mangiamo, perché
non capiamo (o non vogliamo capire) come vanno le
cose del mondo, perché non siamo riconoscenti con
chi ci sta salvando dal male e dai cattivi. Ma questo è
un rischio che si deve correre, almeno per essere a
posto con la propria coscienza: «Quello che ciascuno
di noi deve fare – ha scritto il premio Nobel José Saramago
– è rispettare in primo luogo le proprie convinzioni,
non tacere in nessun caso e in nessun luogo.
Pur sapendo che non cambierà niente, ma con la certezza
che almeno tu non stai cambiando».
IL PAPA O… LA NATO?
«La bibbia è piena di guerre» ci scrisse una volta un
lettore molto irritato per le nostre posizioni pacifiste
rispetto all’ennesima guerra «giusta» (quella del Kosovo)
(2).
In queste occasioni, è interessante notare come le dichiarazioni
del papa vengano utilizzate. Quando esse
sono «funzionali» a un obiettivo, allora tutti sono pronti
a citarle, chinando il capo: «Il santo padre ha detto…».
Quando invece «disturbano», allora, come d’incanto,
nei discorsi dei politici, nei telegiornali, nelle pagine dei
giornali tutto cambia. Forse le dichiarazioni non scompaiono
del tutto, ma certo diventano meno rilevanti,
più piccole, sfumate, nascoste tra le righe o relegate
dopo altre notizie, altre dichiarazioni, altre immagini.
Nel messaggio per la giornata mondiale della pace
(1°gennaio 2003), Giovanni Paolo II non ha nascosto
la propria delusione per l’Organizzazione delle Nazioni
Unite: «la prospettiva di un’autorità pubblica internazionale
a servizio dei diritti umani, della libertà
e della pace, non si è ancora interamente realizzata»
(3). Inoltre, si legge più avanti, la mancanza di fiducia
porta la gente a «credere sempre meno all’utilità del
dialogo e confidare invece nell’uso della forza come
via per risolvere le controversie».
A natale non soltanto il papa ha parlato chiaramente
in favore della pace e contro la guerra. In Gran Bretagna
(il cui governo è un fedelissimo socio degli Usa)
anche Rowan Williams, neoarcivescovo di Canterbury
e primate della chiesa anglicana, è stato molto duro
contro i leaders del mondo, pronti ad infliggere nuove
sofferenze a popolazioni innocenti. Eppure sui media
è stato dato più rilievo all’opinione di George Robertson,
segretario generale della Nato. Secondo Robertson,
l’Alleanza Atlantica ha l’«obbligo morale» di
appoggiare gli Stati Uniti in caso di guerra all’Iraq.
Nell’era dell’iper-informazione, paradossalmente (ma
non tanto) è sempre più difficile essere informati correttamente
(4). A meno di non trascorrere il tempo a
mettere insieme i tasselli del «puzzle». Prendiamo, ad
esempio, la chiesa cattolica statunitense, sotto fortissima
pressione (soprattutto mediatica) a causa dello
scandalo della pedofilia. Domandiamoci questo: come
mai proprio ora e in modo così virulento? Non è
che il governo Usa voglia mettere al muro potenziali
e pericolosi oppositori ai propri progetti di guerra e
dominio? Come mai non si parla degli scandali che
coinvolgono l’esercito americano (dall’aereo militare
che fece strage in Trentino alle violenze perpetrate in
Giappone e da ultimo in Corea del Sud)?
Non è un azzardo affermare che queste sono scelte
del potere, per portare la gente dalla propria parte.
«CUI PRODEST?»
Che dietro la guerra all’Iraq ci siano interessi economici
sono quasi tutti ad ammetterlo (magari sottovoce).
Petrolio, industrie belliche, recessione statunitense
«vogliono» questa guerra.
Gli Usa non si fidano più dell’Arabia Saudita e quindi
debbono rimpiazzare il petrolio di Riyadh con quello
di Baghdad. D’altra parte, George W. Bush viene da
una famiglia di petrolieri e annovera tra i propri sponsors
elettorali le maggiori aziende mondiali nel campo
della produzione militare (aerei, missili, sistemi elettronici,
artiglieria): Lockheed Martin, Northrop
Grumman, General Dynamics, Raytheon. Nonostante
la fortissima depressione che caratterizza tutte
le borse mondiali, queste compagnie hanno visto
un costante incremento del valore delle loro azioni (fino
all’85%) a partire dall’11 settembre 2001 (5). Fatto
abbastanza comprensibile, se si guarda al crescente
budget militare statunitense, che da solo rappresenta
il 40% della spesa mondiale per la difesa. Già prima
dell’incremento per il 2003, gli Usa spendevano
più del doppio di tutti i 15 membri dell’Unione europea
messi insieme.
Infine, c’è la crisi economica degli Stati Uniti (finora
rimasta nascosta sotto la retorica della priorità della
lotta al terrorismo), che potrebbe essere attenuata (almeno
nel breve periodo) da una guerra a Saddam.
Insomma sono tanti gli interessi «privati» collegati al
conflitto. Proprio per questo George W. Bush e il suo
entourage hanno deciso da tempo che la guerra s’ha
da fare, indipendentemente dalle Nazioni Unite, dalle
relazioni degli ispettori, dalla contrarietà della maggior
parte dell’opinione pubblica mondiale.

NECESSARIA, DOVEROSA, POSSIBILE
Ha scritto Giorgio La Pira (Utopia o morte, 1974):
«No. La pace non è un’utopia, è il fine universale, fondamentale
della storia dell’umanità intera… La pace
è necessaria. La pace è doverosa. La pace è una certezza.
La pace è possibile». Purtroppo, l’insigne giurista
e politico democristiano non poteva prevedere
quanti progressi avrebbe fatto la propaganda di guerra,
assieme alla capacità di stravolgere i fatti (6) e soprattutto
i concetti di bene e male, di giusto e ingiusto.
Durante la prima guerra del Golfo i militari scrivevano
«frasi augurali» sui missili destinati ai bombardamenti,
oggi sui carri armati statunitensi è stato scritto:
«All the way to Baghdad». Che questa sia la sicurezza
dei «giusti» è tutto da dimostrare.
Si calcola che la guerra costerà un milione di dollari
al giorno. Nel computo economico mancano le vite umane,
le devastazioni materiali e l’esacerbarsi degli
«odi» in molte parti del mondo. «È il prezzo da pagare
alla pace futura, al mondo senza Saddam ecc. ecc.»
dirà qualcuno. Rispondiamo con le parole del professor
Ahmed S. Hashim (7): «Nel mondo arabo molti sono
convinti che i rappresentanti dell’amministrazione
Bush non siano motivati da un sincero desiderio di vedere
realizzata la democrazia in questa regione, bensì
da ragioni strumentali: nel senso che qualsiasi futuro
regime arabo verrebbe considerato democratico
purché non si opponga ai disegni degli Stati Uniti e di
Israele in questa parte del mondo (…). Se il Congresso
nazionale iracheno (8) giungesse al potere e decidesse
di rinunciare alle armi di distruzione di massa,
vendere a basso prezzo il petrolio alle compagnie americane,
stabilire rapporti con Israele e dissociarsi
dal resto del mondo arabo, il nuovo governo verrebbe
considerato democratico, anche se si dimostrasse
incapace di assicurare davvero la libertà».
Necessaria, doverosa, possibile non è la guerra, ma
la pace. Eppure ancora in troppi sono convinti del contrario.

IL CAMMINO VERSO LA GUERRA
(dal 19 dicembre 2002 al 27 gennaio 2003) (*)
19 dicembre: LA CONDANNA DI POWELL
Il rapporto di Baghdad sullo stato del proprio arsenale bellico non
soddisfa le attese degli Stati Uniti. Il segretario di stato Colin Powell
parla di violazione palese della risoluzione 1441.
20 dicembre: BUSH VUOLE LA GUERRA
George W. Bush non è soddisfatto del contenuto delle 12.000 pagine
del dossier stilato dall’Iraq. Il presidente Usa autorizza l’invio
nella regione di altri 50.000 militari, che si vanno ad aggiungere
ai 60.000 già in loco. La guerra sembra dietro l’angolo, anche se
l’Onu non ha ancora sentito gli ispettori né votato.
25 dicembre: GIOVANNI PAOLO II INVOCA LA PACE
Durante il messaggio «Urbi et Orbi», il papa invoca la pace per «spegnere
i sinistri bagliori di un conflitto, che con l’impegno di tutti
può essere evitato».
26 dicembre: IL «DOVERE MORALE» SECONDO ROBERTSON
Il segretario generale della Nato, George Robertson, afferma che
l’Alleanza Atlantica ha il «dovere morale» di appoggiare un eventuale
intervento armato statunitense contro Baghdad.
1-3 gennaio 2003: L’ENTUSIASMO DEI MILITARI USA
Mentre il papa ripete che la pace è doverosa e possibile, Bush (con
giubbotto militare) arringa gli uomini e le donne in partenza per il
Golfo. I soldati, entusiasti, sventolano bandierine a stelle e strisce.
3-6 gennaio: ANCORA BOMBARDAMENTI ANGLO-AMERICANI
Continuano i bombardamenti anglo-statunitensi nelle «no-fly zones
» dell’Iraq. Le azioni sono ormai quotidiane. Le zone di non-volo
NON sono mai state autorizzate dall’Onu.
27 gennaio: GLI ISPETTORI PARLANO ALL’ONU
Arriva la relazione definitiva degli ispettori. Da essa dovrebbe dipendere
ogni futura mossa. Bush accetterà un’eventuale decisione
del Consiglio di sicurezza contraria alla guerra?
(*) La prima parte di questa cronologia della guerra è stata pubblicata
nel nostro dossier sull’Iraq di dicembre 2002.

NOTE:
(1) Basi Usa in Italia: Aviano, Camp Darby, Capodichino,
Maddalena, Trapani, Brindisi, Sigonella. Basi Nato:
Gaeta, Bagnoli, Decimomannu, Augusta, Gioia del Colle.
(2) Per le lettere pro e contro la guerra pervenute alla
nostra redazione si veda M.C., settembre 1999.
(3) Messaggio pubblicato su L’Osservatore romano del
18 dicembre 2002.
(4) Si legga il capitolo Manuale per la propaganda di
guerra, nel libro di Carlo Gubitosa, L’informazione
alternativa, Emi 2002.
(5) Si veda il dossier sul supermarket delle armi pubblicato
sul numero di novembre di Mosaico di pace, la rivista
di Pax Christi.
(6) Sulla «guerra infinita» inventata da George W. Bush
esiste un’ampia letteratura. Qui segnaliamo: Michel
Chossudovsky, Guerra e globalizzazione, Ega, Torino
2002; John Pilger, I nuovi padroni del mondo,
Fandango Libri, Roma 2002; Giulietto Chiesa, La guerra
infinita, Feltrinelli, Milano 2002; Aldo Musci, La quarta
guerra mondiale, Datanews, Roma 2002.
Sugli affari tra la famiglia Bush e la famiglia Bin Laden
nell’ambito del gruppo «Carlyle» si veda il settimanale
Internazionale del 6 dicembre 2002.
(7) Si veda Limes di novembre-dicembre 2002.
(8) L’eterogeneo raggruppamento che si oppone a
Saddam Hussein.

Paolo Moiola




PERÙ viaggio nelle carceri

LA DIGNITÀ SEQUESTRATA

Dopo il decennio di Fujimori, da due anni il Perù è tornato alla democrazia.
Ma nelle carceri la strada da percorrere è ancora lunga.

«VENGO DALL’ITALIA.
VORREI VISITARE IL DETENUTO…»

Un’insegnante di italiano passa dalle conversazioni
con i genitori dei suoi alunni a quelle con i detenuti
nelle carceri del Perù.
Un’esperienza «sconvolgente, ma anche arricchente
e stimolante».

di Franca Pesce (*)
(*) Laureata in lettere all’Università cattolica
di Milano, FRANCA PESCE è insegnante
di italiano a Torino. Dall’anno
del giubileo si occupa della situazione
nelle carceri peruviane, aiutata
anche dai figli Melissa ed Alessandro.
Fa parte dell’associazione «Yanamayo»,
con sede a Vicenza.
Dall’anno del giubileo sono
entrata in corrispondenza
con alcuni prigionieri politici
peruviani del Movimento Rivoluzionario
Tupac Amaru (M.R.T.A.),
che nel luglio scorso sono andata a
visitare, per rendermi conto della situazione
che mi veniva esposta attraverso
le loro lettere.
È stata un’esperienza sconvolgente,
ma anche arricchente e stimolante,
da cui ho tratto insegnamenti
morali ed umani che oggi cerco
di comunicare e condividere con
i miei alunni.
Il Perù sta vivendo in una democrazia,
ma mantiene in carcere numerosi
prigionieri politici processati
da tribunali militari in base a leggi
emanate durante la dittatura di
Fujimori. Spesso la detenzione si
svolge in carceri situate lontano dai
luoghi d’origine e crea quindi difficoltà
oggettive per la visita dei familiari.
Lo stato sembra presente solo nel
suo aspetto repressivo: non riconosce
i suoi torti e non risarcisce, se
sbaglia. Chi è povero non può difendersi
da accuse ingiuste, perché
non può permettersi di assumere un
avvocato che si occupi del suo caso.
In un paese che oggi vuole giustamente
essere definito democratico,
si continuano a costruire carceri,
si reprime, ma non si eliminano
le cause del malessere sociale e
non si aiuta chi si trova in difficoltà.
Durante il mio viaggio, ho avuto
l’opportunità di visitare alcune carceri
(a Lima, Chorrillos, Chimbote,
Trujillo, Chiclayo) e parecchi prigionieri
politici del movimento Mrta,
osservare la loro situazione e
quella dei loro visitatori.
Queste sono alcune delle impressioni
che ne ho ricavato.

L’UMILIAZIONE
DELLE PERQUISIZIONI

All’entrata delle carceri le difficoltà
sono nate dall’arbitrio delle
guardie che quasi sempre cercano
di creare problemi, di intimidire i
visitatori e scoraggiae le visite.
Il giorno in cui mi sono recata al
carcere (penal) di Castro Castro a
Lima (dove ho visitato Juan Antonio
Leon Montero, Maximo Gargate
Cerda ed altri), quando ho presentato
i miei documenti al primo
controllo, non mi è stato reso quello
attestante il mio soggiorno. Alla
mia richiesta di restituzione, la
guardia ha finto di cercare e poi me
l’ha porto.
Alla porta d’ingresso, invece, si è
presentato il problema di una torta,
acquistata poco prima; essa non poteva
entrare perché, a detta della
guardia, poteva contenere droga. In
seguito alla mia richiesta di parlare
col direttore, mi è stato detto che avrei
dovuto tagliarla. Alla fine, la
torta è stata fatta passare intatta.
Alcuni giorni dopo, il problema si
è presentato con alcuni libri che io
avevo fotocopiato. Erano libri foitimi
da un interno e dunque portavano
già la stampigliatura della revisione
carceraria. Eppure mi hanno
detto che dovevano essere
sottoposti ad una nuova revisione.
Forse, per evitare questi inconvenienti,
avrei dovuto essere più gentile
facendo «cadere» o «perdendo»
qualcosa…
La perquisizione corporale viene
fatta da personale femminile, ma sovente
il suo comportamento umilia
chi subisce il controllo: madri, sorelle,
fidanzate, amiche dei carcerati.
Una madre mi ha confidato che si
possono subire palpeggiamenti osceni.
In un’occasione lei non ce
l’ha più fatta e ha reagito dando uno
schiaffo alla guardia e dicendole
che avrebbe dovuto vergognarsi e
pensare a che cosa proverebbe se
un domani accadesse a lei una cosa
simile.

MATRIMONIO NEL CARCERE
DI CHORRILLOS

Anche per entrare nel carcere
femminile di Chorrillos, alla periferia
di Lima, ho dovuto affrontare
qualche discussione.
Una guardia mi rispondeva dallo
spioncino, ma mi negava l’entrata.
Alle mie insistenze, è stato chiamato
un superiore.
Egli, evidentemente lusingato di
parlare con un’italiana, prima si è
intrattenuto con me a discutere di
mafia, di Roma e Venezia, di vini,
poi mi ha fatto entrare. Ringalluzzito,
ha dichiarato che le italiane sono
belle. Io ho risposto che anche le
peruviane lo sono, così come i peruviani. Ormai conquistato, finalmente
mi ha portato dalle detenute,
che ormai temevano avessi rinunciato
a visitarle.
Mi sono intrattenuta con loro:
Carolina Curahua Huerta, sua sorella
Delia, Hormecinda Feandez
Bravo, Lucinda Rojas Landa, Lucy
Garcia Lopez, Marcela Gonzales
Astudillo, Maria Concepcion Pincheira,
Milagros Chavez Gonzales,
Mirka De La Pietra Oliva, Nancy
Cuyubamba Puente, Pilar Hinojosa
Tellez, Yanire Bautista Saavedra,
Yolanda Cruz Santillan.
Tutte erano contente di vedere una
persona che arrivava da tanto
lontano e avevano un atteggiamento
dolce ed affettuoso.
Una di loro, la cilena Marcela, si
era sposata la settimana prima con
un suo amico d’infanzia, anch’egli
cileno, con una cerimonia officiata
dal cappellano, il comboniano padre
Luigi Gasparini, che le seguiva
con dedizione da anni (ma che, purtroppo,
pochi giorni dopo sarebbe
stato trasferito negli Stati Uniti, interrompendo
un lavoro di autentica
solidarietà cristiana e lasciando
un grande vuoto tra coloro che ne
avevano ricevuto aiuto e attenzione).
La cerimonia è stata molto
commovente, mista a sorrisi e lacrime.
Quasi tutte le settimane lo sposo,
innamoratissimo, si reca dal Cile
a visitare sua moglie, con cui non
può avere alcun momento di intimità,
in quanto alle donne è impedito
appartarsi da sole con uomini,
anche se questi sono mariti o fidanzati.
Le visite avvengono in presenza
di una guardia, che ne controlla
la «moralità».
Nelle carceri maschili, invece, tali
impedimenti non esistono, ma
spose, fidanzate e anche prostitute
possono entrare nelle celle degli uomini,
senza «controlli».

SOLTANTO
CON MENTE E CUORE

Al Penal Cambio Puente di Chimbote,
una prima guardia mi ha chiesto
soldi per l’acquisto di una scopa;
da una seconda guardia mi sono
stati chiesti 20 soles per articoli
di pulizia per i carcerati. Ho rifiutato,
chiedendo di poter parlare col
direttore, che però non era presente.
Mi sono allora avviata verso un
breve corridoio, stretto tra il muro
dell’ufficio e una parete di maglie di
ferro. La guardia mi ha richiamata,
dicendomi che non potevo stare lì,
perché pericoloso.
Le ho risposto che non capivo cosa
ci fosse di pericoloso, in quanto
non ero armata, ma soltanto dotata
di mente e cuore. Ho dovuto comunque
tornare indietro. Nel frattempo,
però, la mia presenza era
stata notata dagli interni, detenuti
comuni, che avevano iniziato a protestare
perché potessi visitarli. Grazie
a loro mi è stato concesso di accedere
al patio e parlare a lungo con
alcune intee (Anatolia Falceto,
Nelida Mundaca Diaz, Celina
Saenz ) e uno sfortunato marocchino,
Barry Palhavi Amar.
Mi ha colpito vedere che si aggirava
in mezzo a loro un bambino di
circa 5 anni, anche lui prigioniero in
quanto figlio di una detenuta, che
non aveva alcun familiare che si occupasse
di lui.
Quando sono entrata nel Penal El
Milagro di Trujillo, a non andare bene
erano le mie scarpe da ginnastica
color rosa. Ho chiesto spiegazioni
e mi è stato nuovamente risposto,
in tono arrogante, che non sarei potuta
entrare con quelle scarpe. Ho
protestato, chiedendo di parlare
con un superiore; mi è stato detto
che dovevo risolvere il problema
con la guardia. Alla fine, al gesto di
togliermi le calzature, mi è stato
permesso di entrare con le stesse ai
piedi.
A Trujillo ho visitato, nella parte
maschile, Moises Sancez, Victor Saquinaula,
Alberto Huaman e, nella
parte femminile, la signora Victoria
Salgano, moglie di Victor Saquinaula.

EMILIO, IL DETENUTO
CHE AMAVA L’ITALIANO

I problemi maggiori si sono presentati
nel Penal Picsi di Chiclayo,
dove ho incontrato Edisson Mori
Barrientos, Oscar Ordonez Huaman
e soprattutto Emilio Villalobos
Alva, ingegnere di 46 anni, condannato
all’ergastolo, molto interessato
alla lingua italiana e alla nostra
cultura.
In questo carcere le guardie spesso
attuano perquisizioni corporali
umilianti, che hanno indotto i detenuti
a protestare e ottenere che la
perquisizione avvenga solo alzando
gonna e camicetta e mostrandosi in
mutande e reggiseno.
Per quanto mi riguarda, i problemi
maggiori sono venuti dallo stesso
direttore del carcere, comandante
Victor De la Cruz Chafalote. Cosa
ha fatto il direttore? Di tutto pur
di rendere difficile il mio incontro
con i detenuti e, soprattutto, impedirmi
l’insegnamento dell’italiano e
della nostra cultura attraverso lezioni,
libri e videocassette. Mi ha indignato
che, invece di favorirlo, il
direttore e personale di guardia fossero
impegnati ad annientare il progresso
spirituale e culturale dei carcerati,
nonché a umiliare e allontanare
i loro familiari.
Per la mia ultima settimana, Emilio
Villalobos Alva aveva richiesto
che io potessi entrare al di fuori del
giorno di visita (permesso che viene
normalmente concesso a familiari
ed amici che vivono lontano e
che raramente possono recarsi in visita).
Il direttore Chafalote non ha stilato
alcun permesso scritto, ma verbalmente
ha consentito che io potessi
entrare il lunedì, martedì, giovedì,
venerdì seguenti.
Purtroppo il lunedì, non essendoci
un permesso scritto, mi hanno
fatto attendere per circa due ore al
primo posto di controllo. Poi, anche
a seguito di proteste fatte dagli
interni del carcere, sono entrata, ma
ho chiesto chiarimenti al direttore.
Questi, in presenza dei suoi collaboratori,
mi ha assicurato che l’indomani
sarei potuta entrare dalle 10
alle 11.
Il giorno dopo, però, presentatami
puntuale alle 10, mi hanno fatto
attendere perché non esisteva un
permesso scritto. Verso le 11,30 è
arrivato il direttore: a lui mi sono rivolta
per chiedere spiegazioni sull’accaduto
e mi ha assicurato che sarei
entrata subito. Ho invece dovuto
aspettare ancora, poi sono stata
invitata a parlare col direttore, che
si era sentito offeso per le mie rimostranze
e che perciò aveva deciso
che quel giorno dovevo ritornare
a casa.
Io ho risposto che, se questa era
la sua decisione, io l’avrei accettata,
ma comunque sarebbe stato meglio
da parte sua una posizione più chiara.
Gli ho accennato al ruolo rieducativo
delle carceri, ma non credo
che abbia inteso.
Poco dopo, stranamente, il direttore
ha capovolto la sua decisione,
consentendomi di entrare, ma relegandomi
nell’ufficio di psicologia,
un locale sporco e squallido. Non
potendo usare i libri, che erano nella
cella di Villalobos, ho utilizzato il
tempo parlando del contenuto e dei
personaggi de I promessi sposi, che
per molti versi propongono situazioni
simili a quelle che si stanno verificando
in Perù (Chafalote mi ha
ricordato la figura di don Abbondio).
Nel frattempo EmilioVillalobos,
è stato chiamato a rapporto. Il direttore
gli ha fatto intendere che era
disposto ad aiutarlo per l’ingresso
dell’apparecchio televisivo e del
videoregistratore fermi in «revisione
» (erano gli strumenti didattici
che io e alcuni amici gli avevamo regalato)
e anche a favorire una visita
«intima», «particolare».
Davanti alla reazione indignata
del detenuto, il direttore voleva che
mi informasse di riportare via quegli
strumenti. Villalobos si è rifiutato
di farlo, aggiungendo che egli in
persona avrebbe dovuto informarmi
di questa sua decisione. (Ho saputo
che in seguito il direttore ha
stilato un rapporto di mala conducta
del prigioniero politico in questione,
che potrebbe ritardargli
l’applicazione di eventuali «benefici
» carcerari).

«MA È UN PRIGIONIERO
DI “MAXIMA”!»

Al termine della mia lezione d’italiano,
una guardia mi ha comunicato
la decisione del signor direttore.
Io ho risposto che non mi sarei
ripresa né televisione né videoregistratore
e che inoltre avrei portato
a conoscenza del fatto i superiori, le
associazioni di diritti umani e i giornali.
A quel punto, il direttore mi ha
convocato e in disparte mi ha detto:
«Ma cara signora questo è un
prigioniero di Maxima!», aggiungendo
che io non avevo capito come
occorreva comportarsi. Ho risposto
che sarebbe stato più intelligente
e fruttuoso chiedermi un
programma sugli argomenti che avrei voluto trattare ed estendere
questa opportunità a più prigionieri,
invece di impedirmi di fatto di
poter insegnare.
Esausta per tanto mercanteggiare,
il giovedì e venerdì non mi sono
più recata nel carcere, ma, preoccupata
per la sorte delle nostre strumentazioni,
sono andata dal console
onorario di Chiclayo, Antonio Rinaldi,
cui ho consegnato la mia
testimonianza scritta. Il console mi
ha accolta con gentilezza e mi ha
fatto conoscere la direttrice dell’Associazione
italiana di Lambayeque,
nonché insegnante di italiano,
Carmen Clara Gamallo Palao. Per
suo merito siamo state ricevute dal
direttore regionale delle carceri del
Nord (Inpe Norte), Manuel Silva
Palacios, che ci ha assicurato che
tutto si sarebbe sistemato. Anzi,
questi si è spinto più in là dichiarando
che il signor Villalobos era un
prigioniero di grande intelligenza e
ottima condotta.

UNA STORIA DI LIBRI,
DIZIONARI E CULTURA

Dopo essere rientrata in Italia, ad
agosto ho inviato una grammatica,
un libro di proverbi e due di narrativa
ad una signora peruviana (per
precauzione, non ne scriviamo il
nome), che li ha portati nel carcere
di Picsi alla fine del mese.
Qui ha dovuto subire una perquisizione
corporale molto intrusiva,
per un evidente scopo punitivo
e intimidatorio. Infine gli stessi libri,
dopo circa due mesi di «revisione
», senza alcuna giustificazione
da parte delle autorità carcerarie e
senza alcuna comunicazione al signor
Villalobos cui erano destinati,
sono stati riportati da due guardie a
Lima, a casa della signora che li aveva
portati.
Contro tale episodio è stata fatta
formale denuncia dal detenuto interessato
alle autorità competenti.
Emilio Villalobos non si è dato
per vinto. Il 16 settembre ha iniziato
a insegnare gratuitamente ciò che
conosce dell’italiano ad una trentina
di suoi compagni, in un’attività
scolastica intitolata «Papà Cervi».
Venuta a conoscenza dell’iniziativa,
il 26 settembre ho inviato in Perù altri
testi (una grammatica, un vocabolario,
I promessi sposi), questa
volta al console onorario di Chiclayo.
Purtroppo questi libri sono arrivati
al signor Villalobos solo il 27
novembre (due mesi dopo), quando
egli aveva iniziato da due giorni
uno sciopero della fame per ottenere
che libri, riviste o materiale simile
possano circolare liberamente;
che non sia impedito l’accesso a
strumentazioni per uso didattico;
che venga istituito un servizio di ricezione
della posta nel carcere, evitando
di dover ricorrere a terzi per
la corrispondenza.
L’assurdo è che, mentre si è ostacolata
l’attività di diffusione della
nostra lingua e cultura, l’Aliance
Francaise, dopo poco più di un mese
di trattative, ha potuto entrare
nello stesso carcere e iniziare un
corso, a pagamento, per l’insegnamento
della lingua francese.
Grazie alle proteste dei prigionieri
e anche alle nostre, l’11 dicembre
la situazione sembrava essersi risolta
positivamente. Invece…

VIA DA PICSI:
«TUTTI A YANAMAYO!»

Alle tre di notte del 12 dicembre
c’è stato un improvviso trasferimento
di massa a Yanamayo, un
carcere a 4.000 (!) metri d’altezza,
giudicato da varie associazioni inteazionali
non adatto a una detenzione
rispettosa dei diritti umani.
I prigionieri trasferiti indossavano
indumenti leggeri, propri per una
città di mare come Chiclayo, ma
non ovviamente per un carcere d’alta
montagna. Tra i detenuti c’era anche
Emilio Villalobos Alva (*), reduce
da 16 giorni di sciopero della
fame.
Il trasferimento è stato comunicato
attraverso un documento firmato
dal direttore delle carceri del
Nord, quello stesso che mi aveva ricevuto
e che aveva avuto parole di
apprezzamento ed elogio per Emilio
Villalobos Alva, «il detenuto che
amava la lingua italiana».

«COM’È CAMBIATO IL MONDO,
FUORI?»

A colloquio con alcuni detenuti del carcere
di Ayacucho, nei luoghi dove (era il 1970)
nacque «Sendero Luminoso»,
uno dei più sanguinari movimenti rivoluzionari
della storia.

di Paolo Moiola

Ayacucho è una bella cittadina
coloniale sugli altopiani centrali
delle Ande peruviane. Il
carcere di Yanamilla è poco fuori il
centro abitato, in un posto panoramico,
accanto alla base militare e all’aeroporto.
Dopo una veloce perquisizione, le
guardie ci pongono un timbro sul
braccio destro. Al secondo controllo
ci vengono ritirate le borse e posto
un altro timbro, questa volta sul
braccio sinistro. Ci accompagna
Luis Bastidas Cuentas, responsabile
della sicurezza intea, che lavora
in ambito carcerario da 14 anni.
«La prigione di Yanamilla – spiega
– è stata inaugurata nel 1996. Attualmente
ospita 707 detenuti, tra i
quali 72 donne. La maggioranza è
qui per reati connessi al traffico di
droga. Ci sono poi una cinquantina
di persone imprigionate per terrorismo».
Come la gran parte delle carceri
peruviane, anche Yanamilla è diviso
in due sezioni: maxima per i delitti
più gravi (terrorismo, droga) e minima
per i delitti più lievi. A loro
volta, ciascuna sezione è divisa in
«padiglione A» e «padiglione B».
«Purtroppo – ammette l’ufficiale
-, almeno il 60% di loro è ancora in
attesa di sentenza. È cioè inculpado,
ma non sentenciado».
Ci muoviamo veloci, perché il direttore
ci attende. Sarà lui a dirci se
possiamo scattare delle foto e conversare
con i detenuti.
Siede a lato di una grande bandiera
del Perù. Alle spalle
un’immagine di Cristo, su cui
si legge «Amigo que nunca falla!»
(un amico che non sbaglia mai). Sull’ordinata
scrivania, accanto allo
stemma dell’Inpe (Instituto nacional
penitenciario), la targhetta con il nome:
Walter Gutierrez Zambrano.
Sembra giovane il direttore di Yanamilla.
«Ho 33 anni, ma già da 13
lavoro nell’amministrazione penitenziaria
», ci spiega subito.
Chiediamo come funziona Yanamilla.
«Nel nostro carcere – risponde
con visibile orgoglio -, il 90% dei
detenuti lavora nei laboratori artigiani
(tallers), soprattutto di carpenteria
e tessuti. Il “Centro educativo
occupazionale” del ministero
dell’educazione ci fornisce gli insegnanti
per istruire i prigionieri. Per
incentivare i reclusi, l’articolo 44
della legge 654 prevede dei benefici:
due giorni di lavoro (o studio) significano
un giorno in meno di pena».
Dunque, a sentire il direttore, Yanamilla
sembrerebbe un’isola di serenità.
Ma naturalmente non è proprio
così. «Anche noi – ammette –
soffriamo di sovraffollamento. In
questo momento ci sono 200 persone
in più rispetto alla capacità. Questo
significa che l’attenzione verso i
detenuti non può essere come si vorrebbe.
Inoltre, la disponibilità di
fondi pubblici è insufficiente; mancano
mobili, carta, computers, oggetti
quotidiani».
A giudicare dall’essenzialità del
suo ufficio, non dubitiamo che il direttore
stia dicendo il vero. Chiediamo
il permesso per la cosa che
più ci interessa: una visita ai padiglioni.
Il direttore ci affida a Jesus
Vidalon Robles, responsabile del lavoro
e dell’educazione.
Il cortile interno (patio) è pavimentato
con lastre di cemento.
Su un lato ci sono alcuni gradoni
per sedersi a conversare o per
guardare chi gioca a palla. Sui muri
bianchi campeggiano due grandi
scritte di ammonimento: «educa al
nino y no tendras que castigar de adulto
» (educa il bambino e non castigherai
l’adulto) e «la libertad es
don de Dios y la justicia obra del
hombre» (la libertà è dono di Dio,
la giustizia è opera dell’uomo).
È una giornata particolare per il
carcere di Yanamilla. Domani ci
sarà la fiera dei prodotti fatti dai prigionieri.
Si stanno preparando i
banchetti.
«Mi consigliavano di pentirmi.
Ma di cosa, se non avevo commesso
alcun delitto? Mi volevano utilizzare
per denunciare altre persone,
scritte in una lista da loro preparata.
Ma io non me la sentivo di incolpare
degli sconosciuti soltanto per avere
uno sconto di pena». Rosario
Rondinel Palomino è una bella signora
di 35 anni con gli occhi tristi
e una treccia che le scende sulle spalle.
È in carcere dal 1994. «Quando
mi arrestarono, mi rinchiusero nella stazione di polizia sottoponendomi
a 15 giorni di torture psicologiche
inimmaginabili. “Sendero – mi
dicevano – ti ha preparata a non parlare,
ma con noi non funzionerà”.
Poi, un tribunale di giudici senza
volto mi condannò a 20 anni per terrorismo».
Rosario faceva l’educatrice e studiava
filosofia e psicologia all’Università.
Sostiene di essere stata accusata
da una pentita e da prove
fabbricate. «A questo punto, soltanto
la mia avvocata può tirarmi
fuori da quest’incubo. Vorrei tornare
dalle mie tre figlie».
Mentre ci avviamo ai corridoi
che portano all’uscita, da
dietro una grata due detenuti
richiamano la nostra attenzione.
Vorrebbero scambiare qualche
parola con noi, ma il tempo della visita
sta per finire. Il più loquace dice
di chiamarsi Persy Hugo Francia:
«Mi hanno dato 14 anni per terrorismo
e ne ho già scontati 10. Com’è
cambiato il mondo fuori?».

Franca Pesce Paolo Moiola




ISTITUTI MISSIONARI la loro azione in Italia oggi

PRENDERE IL LARGO, INSIEME

Radiografia
(quasi scientifica)
di una presenza:
dati, statistiche,
percentuali…
E qualche punto
interrogativo.

All’inizio di febbraio dello scorso
anno, 15 istituti esclusivamente
missionari presenti in
Italia (cfr. inserto) si sono incontrati
ad Ariccia (Roma) all’insegna del tema:
«Insieme, prendere il largo».
Dall’analisi e discussione delle risposte
date dai singoli istituti a un
previo questionario, emergono i
problemi, difficoltà, timori e speranze
sul futuro della loro presenza
nella chiesa italiana. Oltre ai dati numerici
(quanti e dove sono i missionari
in Italia, che età hanno, quali i
loro impieghi, ecc.), sono importanti
le motivazioni e prospettive di tale
presenza, per un cammino di collaborazione.

NON SONO SOLO NUMERI
Quanti sono i missionari di origine
italiana e che percentuale occupano
nella composizione degli istituti?
Una domanda essenziale per «misurare
» il grado di inteazionalità.
Il primo dato stabilisce che sono
5.283 i missionari italiani appartenenti
ai vari istituti, su un totale di
19.797. Per il secondo dato, circa i
missionari e missionarie di origine
nordamericana, latinoamericana, asiatica
e africana, le percentuali sono
diverse, dovute all’origine, storia
e campi di azione dei singoli istituti.
Essi contano complessivamente
7.910 membri: 4.603 italiani e 3.307
non italiani (58,2% di origine italiana
e 41,8% non italiana). L’ultima
cifra rappresenta il grado d’inteazionalità
degli istituti missionari di
origine italiana.
Quanti sono i missionari in Italia
oggi? I numeri dicono 2.566. Ma
non tutti sono qui per lavoro; molti
sono in Italia per compiti istituzionali
(direzioni generali) o per riposo,
cura, aggioamento. Tale numero
comprende 84 stranieri, 27 dei quali
africani.
Ciò significa che l’inteazionalità
procede anche qui. Non si dà alcun
giudizio di valore: se è bene o male;
né si dice se il numero deve crescere
o diminuire. Si registra solo il dato.
Abbiamo pure la descrizione di alcune
categorie all’interno delle varie
comunità. Per gli istituti maschili, i
sacerdoti sono 630 e 135 i non sacerdoti.
Per gli istituti femminili, le
suore professe perpetue sono 1.366
e 22 le professe temporanee.
Più importante è la divisione nella
successiva categoria: in attività
1.264 (61,5%); in formazione 56
(2,7%); in riposo-malattia 733
(35,7%). Se appare impressionante
l’alta percentuale del personale in riposo-
malattia, stupisce la bassa percentuale
di coloro che sono in formazione.

DISPARITÀ TRA NORD E SUD
Un tempo in Italia c’erano molti
studentati di filosofia-teologia e noviziati.
Oggi la situazione è decisamente
cambiata. Il cambiamento diventa
più evidente quando si stabiliscono
le classi di età: il 68,8% dei
missionari e missionarie in Italia supera
i 65 anni, mentre solo il 6,6%
ha meno di 45 anni. L’invecchiamento, anagraficamente parlando, è
drammatico, anche in considerazione
del numero di opere che gli istituti
hanno. L’invecchiamento appare
più alto negli istituti femminili.
Circa la distribuzione del personale
nelle regioni italiane, 1.675
membri sono nel nord, 250 nel centro
(e Sardegna) e 167 nel sud (compresa
la Sicilia).
Dei membri «in attività», viene
specificato il tipo di impegno: incaricati
della formazione 52; e ciò desta
meraviglia, se si pensa come i
membri in formazione sono solo 56;
si potrebbe dire che sono quasi più
i formatori che i formati. Impegnati
nella guida e amministrazione delle
comunità sono 258.
Nell’animazione missionaria sono
impegnate 155 persone. Questo
numero appare veramente piccolo,
confrontato con le 420 persone occupate
nella pastorale e nell’insegnamento
(scuole e asili).
Un’attività che impegna numeroso
personale è quella riguardante la
cura-assistenza: 289 individui, pari
al 22,8% del personale attivo. Se da
una parte è da ammirare l’impegno
di missionari e missionarie in tale
campo, c’è da chiedersi se questa sia
la forma migliore per farsi sentire vicini
a loro, se siano le persone più adatte
per tale compito, se l’impegno
non provochi in alcuni frustrazione,
se non esistano modi alternativi.
Un altro dato: del personale missionario
in Italia, 1.825 su 2.207 sono
stati in missione. Questo solleva
due problemi: un percorso di reinserimento
e l’opportunità che la presenza
(specialmente di testimonianza)
sia adeguatamente valorizzata.
Molto importanti sono i dati sull’aspetto
vocazionale. Negli ultimi
11 anni gli istituti missionari hanno
avuto, nel loro insieme, 304 nuove
reclute di origine italiana, con una
media di 23,4 membri per istituto e
2,1 all’anno. In tale arco di tempo
non si notano tendenze significative,
né di crescita né di calo.
Circa la «provenienza» delle vocazioni,
sono ricordati in ordine decrescente:
parrocchie, movimenti,
volontariato, seminari e associazioni.
Sono nominati anche i gruppi
missionari giovanili, interni o collegati
alle parrocchie. I dati possono
stimolare una riflessione in questo
senso: le vocazioni provengono in
prevalenza da ambienti in cui è più
curata la formazione cristiana di base
o da ambienti in cui sono coltivati
i valori della solidarietà e mondialità,
ma senza uno specifico o implicito
riferimento alla fede cristiana?

CHE DIRE DI LORO?
Com’è giudicata la presenza dell’istituto
in Italia, sia dai missionari
fuori del paese sia da quelli presenti
sul territorio? Il confronto è importante,
perché misura, in maniera abbastanza
sottile, il grado di «frustrazione
» che possono avere i membri
degli istituti impegnati in Italia.
Vediamo le posizioni: mentre in
11 istituti su 12 i membri fuori Italia
dicono che l’istituto è adeguatamente
o eccessivamente presente, in
8 istituti i missionari che operano in
Italia dicono che la loro presenza è
insufficiente. Per tradurre i dati in
una battuta popolare, è come se in
11 casi su 12 i membri dicessero a
quelli in Italia: «Per ciò che fate, siete
anche troppi!»; e quelli in Italia
rispondessero, in 8 casi su 12: «Se
riusciamo a fare poco, è perché siamo
troppo pochi; o troppo pochi
sono quelli che possono veramente
fare qualcosa».
Percezioni del genere, se molto
diffuse, possono produrre scoraggiamento
nei missionari e missionarie.
Si potrebbe ipotizzare che gli istituti
debbano cogliere meglio «il
senso e la portata» della loro presenza
in Italia.
Che dire dell’opportunità di formare
comunità missionarie «miste»?
Con chi sarebbero disposti i membri
degli istituti a fare comunità, al di
fuori dei loro confratelli o consorelle?
Il quesito, forse, fa balenare una
prospettiva troppo nuova; tant’è vero
che 7 istituti su 13 la rifiutano; 6,
in particolari circostanze, sarebbero
disponibili a fare comunità con individui
di altri istituti; solo 3 con laici
e 2 con preti diocesani. Da notare
che, fra i 6 disponibili a comunità miste,
5 sono maschili e 1 femminile; i
3 disponibili a fare comunità con laici
e i 2 con sacerdoti diocesani sono
maschili.
In conclusione: solo 1 istituto femminile
su 7 è disposto a creare comunità
con membri diversi dal proprio
istituto e solo con membri di istituti
missionari.
ITALIA, TERRA DI MISSIONE?
C’è una domanda che pone un
problema molto attuale, dibattuto
anche a livello ufficiale: bisogna assumere
in Italia impegni assimilabili
a quelli della missione ad gentes?
Cinque istituti (3 maschili e 2 femminili)
sono nettamente contrari.
La ragione è che l’ad extra fa parte
integrale della vocazione missionaria
specifica. Qualcuno precisa che
non si tratta di un teorico ad extra
geografico, ma del fatto che gli spazi di prima evangelizzazione sono
immensamente più ampi in altri
paesi e continenti che in Italia.
Sono favorevoli, invece 8 istituti (5
femminili e 3 maschili) e le ragioni
sono riassunte così: dove c’è un compito
di prima evangelizzazione, questo
rientra nelle finalità di un istituto
esclusivamente missionario.
Ma quali sono i campi di azione
specificamente missionaria in Italia?
Le risposte sono in questa linea:
i missionari in Italia per le finalità
tradizionali (formazione, animazione
missionaria, cura degli anziani e
malati) possono meglio legare la loro
presenza ad ambienti che sono,
in qualche misura, «campi di azione
specificamente missionari». E
cioè: presenza e azione fra gli «ultimi
» (5) ed extracomunitari non cristiani
(6); nuova evangelizzazione
(5); dialogo interculturale e interreligioso
(11); rinnovamento del «modo
di essere chiesa» (3); impostazione
della pastorale in senso missionario
(9); catecumenato (6).
Tra le risposte tanto disparate,
spicca l’alta disponibilità per il dialogo
interculturale e interreligioso,
come pure la forte tendenza a impegnarsi
per un’impostazione della
pastorale delle chiese locali in senso
missionario. È questo lo scopo dell’animazione
missionaria, ma è percepita
in modo più ampio di quanto
non lo fosse tradizionalmente e
non appare legato a finalità intee
all’istituto.
Domanda finale: i missionari di altri
continenti, presenti in Italia, sono
da considerare ad extra e, quindi,
pienamente in linea con la condizione
di ad gentes? Per 9 istituti, sì; per
5, no. Ma la questione è molto dibattuta
e con argomenti diversi:
quello in positivo sostiene che tale situazione
risponde pienamente sia all’ad
gentes che all’ad extra.
Fra gli argomenti in negativo, invece,
ne emergono due: l’Italia non
può essere considerata un paese di
primo annuncio, ma solo di nuova evangelizzazione;
inoltre, la presenza
di non italiani finirebbe per rafforzare
le strutture dell’istituto, a scapito
delle nuove chiese.

DUE CONCLUSIONI
Pur non offrendo conoscenze
nuove all’interno di ogni istituto,
l’indagine può dare una visione
d’insieme e aiutare a raffrontare sia
le situazioni sia gli orientamenti di istituti
diversi, che però hanno la
stessa finalità. Alcuni problemi e risorse
possono essere messi meglio a
fuoco, per un migliore discernimento
e collaborazione.
In secondo luogo, negli istituti
missionari appare una certa rigidità,
intendendo con ciò che ogni istituto
è sensibile alla sua identità (e questo
è bene), ma la interpreta in senso difensivo,
avendo quasi il timore che
gli adattamenti alle situazioni, impegni
creativi e collaborazioni rappresentino
delle «contaminazioni».
Gli istituti missionari stanno vivendo
un momento di crisi: basti solo
pensare alle poche «nuove entrate» e alle difficoltà di collaborazione.
Tuttavia resiste la convinzione
sulla validità della loro presenza, pur
con interrogativi sulla sua valorizzazione
in novità di stili, di
modalità e di più vaste
collaborazioni.

Francesco Grasselli




MORTI E… RISORTI

Doncello, Colombia. Il paese cresce a vista d’occhio da quando il
governo ha diviso la foresta circostante in tante fette e le ha assegnate
a un centinaio di famiglie, fuggite dalla violenza e insicurezza di altre
regioni del paese. Con un prestito della Banca agraria, tirano su un ranchito
(capanna), disboscano tutto attorno qualche ettaro di selva e cominciano a
seminare riso, granturco, banane… finalmente felici di essere padroni di un
pezzo di terra. Ma il denaro scarseggia…
Francesco, padre di quattro figli, un giorno si presenta addolorato e piangente:
mi annuncia che sua moglie è morta. Conoscevo bene la sua signora; più di una
volta, visitando le famiglie, avevo dovuto fermarmi, accettare un caffè e benedire i
figli. Mi commuovo anch’io, quando mi chiede di aiutarlo a pagare il funerale e le
spese sostenute per la degenza della defunta all’ospedale di Florencia.
Svuoto il portafoglio; vado in chiesa, apro la cassetta delle elemosine,
raggranello 50 mila pesos e glieli consegno. «Grazie, padre!» e sparisce.
Ma 15 giorni dopo, ecco apparire la defunta. «Non sei morta» le domando.
Ignara di tutto, mi chiede di aiutarla con 20 pesos, per liberare dal carcere il
marito: aveva rubato e venduto un maiale e si era ubriacato.
«Eccoti i 20 pesos; ma di’ a Francesco di non combinare altre marachelle».
Due mesi dopo sono a Puertorico, circa 30 km da Doncello, per sostituire un
padre che deve assentarsi per alcuni giorni. Una sera, sull’imbrunire,
arrivano tre ragazzi e mi dicono trafelati: «Vieni, padre, c’è un morto
laggiù, in quella casa semiabbandonata». E mi accompagnano.
Su un tavolaccio c’è un uomo «morto», scalzo e senza camicia; quattro candele
illuminano l’ambiente e un catino posto ai suoi piedi. La gente è già arrivata
per pregare; prima di uscire, tutti depositano nel catino un’offerta per il
funerale. Faccio anch’io la mia elemosina.
Mentre prego, cerco di conoscere il tipo che, avendo la testa piegata
e nell’ombra, non riesco a riconoscere. Domando ai
presenti. Mi rispondono due sconosciuti: «Siamo venuti
a pescare ed è stato colto da infarto. Domani faremo i
funerali e toeremo a casa».
Ma il giorno dopo il morto è scomparso. Verso
mezzanotte, quando non c’era più nessuno a pregare, il
morto si era alzato, aveva raccolto i soldi nel catino e se
l’era svignata con i due amici: era il solito Francesco,
morto e risorto.

Giovanni De Michelis




NONVIOLENZA o, più semplicemente, vangelo…

NON È UTOPIA
Alle radici di una scelta non facile, ma per essere
davvero dalla parte dei più deboli
contro i sotterfugi dei potenti
e l’inganno delle parole.

Per un cristiano le ragioni dell’impegno
nonviolento partono
dalla bibbia. Sennonché i
biblisti presentano enormi differenze
d’interpretazione del testo biblico
circa l’argomento «guerra-pace».
Queste si ripercuotono sul magistero
ecclesiale e sul pensiero cristiano
in genere.

Occorre chiarire i princìpi, per superare
(possibilmente) dubbi e divisioni
che creano scandalo fra cristiani
e anche fra cattolici. Inoltre, è giocoforza
confrontare l’interpretazione
che riteniamo evangelica con
le punte estreme dei pronunciamenti
e comportamenti
cristiani
lungo
la storia, soprattutto
oggi.

MA LA BIBBIA DICE NO
ALLA VIOLENZA?

L’Antico Testamento non offre,
complessivamente, un messaggio di
nonviolenza. Ripetutamente è comminata
la pena di morte ai violatori
della legge; le guerre sono spesso esaltate,
anche se
non mancano esempi
elogiati di
nonviolenza. Lo
stesso futuro messia,
a volte, è presentato
nelle vesti
di un terribile condottiero
di eserciti.
Tuttavia, i profeti maggiori, Isaia e
Geremia, si caratterizzano per la loro
ostilità a soluzioni militari, al punto
da essere perseguitati e minacciati
di morte. In particolare, il messia,
preannunciato
da Isaia come
«servo di
Jahvè», non ha nulla
di militaresco; anzi, è presentato sotto
l’immagine spirituale dell’agnello
che salva, sacrificandosi per amore
dei peccatori: immagine che Gesù
stesso applica esplicitamente a sé,
drasticamente alternativa a quella di
un messia violento (Lc 4,16-21).
In ogni caso, l’Antico Testamento
va interpretato alla luce del Nuovo e
non viceversa. Gesù ha deluso in pieno
le attese del liberatore politico
violento. Non ha formulato la ricetta
antimilitarista: «Soldati di tutto il
mondo, disarmatevi!»; come non ha
dato la ricetta antischiavista: «Schiavi
di tutto il mondo, ribellatevi!». Ha
presentato, tuttavia, una serie di insegnamenti
ed esempi, improntati
all’amore nonviolento, per cui è indubbio
che il vangelo inculca, se non
comanda formalmente, il principio
della nonviolenza.
Nel «discorso della montagna» egli
richiede ai suoi seguaci un amore
straordinario e inedito: «È scritto:
occhio per occhio, dente per dente.
Ma io vi dico: amate i vostri nemici;
pregate per i vostri persecutori» (Mt
5,44).
L’ingiunzione a Pietro, nel giardino
degli ulivi, «metti via la spada, perché
chi di spada ferisce di spada perisce
» (Mt 26,52), è un altro di quei
pronunciamenti messianici che potrebbe
far pensare a una formula
antimilitarista, come l’ha
interpretata Tertulliano, che
scriveva: «Disarmando Pietro,
il Signore ha disarmato ogni
soldato» (De idolatria).
Per lo meno, non c’è alcun dubbio
sul principio evangelico della
nonviolenza.

EVOLUZIONE O DEVIAZIONE?
L’evoluzione storica del cristianesimo
sul problema di «guerra-pace»
è qualcosa di traumatico. Partendo
dal principio biblico della nonviolenza,
la chiesa dei primi tre secoli,
nella sua prevalenza, se non nella totalità,
ha enucleato la formula antimilitarista:
«Il cristiano non può fare
il soldato». Tale è, ad esempio,
l’affermazione martellante di Massimiliano
di Tebessa (Cartagine) nel
processo del 295 d. C., condannato
a morte per il suo rifiuto del servizio
militare: «Sono cristiano, non posso
fare il soldato!».
E non si tratta di una posizione isolata
del Nord Africa, succube dell’influsso
di Tertulliano; la Traditio Apostolica,
attribuita a Ippolito di Roma,
testimonia che tale prassi vigeva
pure nelle chiese dell’area mediterranea
verso il 215-220: «Il soldato
subalterno non deve uccidere nessuno.
Se riceve un ordine del genere,
non deve eseguirlo e non deve prestare
giuramento. Se non accetta tali
condizioni, sia respinto. Chi ha potere
di vita e di morte sugli altri o il magistrato
di una città, che porta la porpora
come emblema della sua autorità
suprema, deve dare le dimissioni,
altrimenti venga respinto. Il catecumeno
o il fedele che vogliono arruolarsi
e fare il soldato vengano respinti,
perché hanno disprezzato Dio».
In seguito, prima con sant’Ambrogio
di Milano, poi, in modo più compiuto,
con sant’Agostino di Ippona,
verrà formulata la «dottrina della
guerra giusta»: è la cosiddetta «svolta
costantiniana», che prende avvio
dall’imperatore Costantino in poi.
Sennonché, per alcuni permane
una riserva radicale contro gli eserciti
e la guerra (uso omicida della forza),
pur ammettendo un servizio, anche
armato, di polizia (uso non omicida
della forza). Tale distinzione tra
esercito e polizia è pure accennata in
un’interessante presa di posizione del
vescovo Gaetano Bonicelli, a suo
tempo ordinario militare. A proposito
dei cristiani dei primi secoli egli
scriveva: «Già allora si intravedeva
una distinzione fra milizia di pace
(ordine pubblico) e servizio di guerra:
un capitolo interessante e, forse,
in buona parte ancora da scrivere».
A conferma di ciò, vi è la dichiarazione
sorprendente del generale
Bruno Loi, comandante delle missioni
di pace in Libano e Somalia:
«Non si possono mandare gli eserciti
a fare azioni di polizia internazionale.
È un’altra struttura; un’altra
formazione. L’esercito va allo sbaraglio
e il soldato è addestrato a uccidere
e uccidere bene. La polizia non
deve uccidere; anzi, dovrebbe essere
dotata di armi intrinsecamente
non letali». Su questo punto è d’accordo
anche la maggior parte dei pacifisti,
che ammettono un corpo di
polizia internazionale alle dipendenze
di una vera Onu.
Con tutto ciò, l’alternativa sostanziale
agli eserciti e alla guerra non è
la polizia internazionale, bensì la «difesa
popolare nonviolenta». Questa
è snobbata dalla quasi totalità dei politici,
compresi molti cristiani e cattolici.
La nonviolenza non è passività
e nemmeno utopia. I grandi nonviolenti
non sono stati per nulla passivi,
ma hanno scritto pagine storiche
magnifiche. Tragico è, invece, il persistere
della mentalità che solo eserciti
e guerra siano adeguati alla soluzione
di controversie inteazionali.

«DELITTO CONTRO DIO»
È indispensabile e urgente tornare
alla nonviolenza evangelica radicale
dei primi secoli della chiesa. La
civiltà dell’amore esige di bandire totalmente
il «sistema militare» (eserciti-
ricerca-industria-commercio-costi-
eventi bellici). Il mondo è un villaggio
planetario, ancora senza
sindaco né consiglio comunale: un
paese di matti, votato al caos. Occorre
una vera Onu, ossia un parlamento
e governo mondiale, che dettino
un minimo di regole, di giustizia
e di pace al mondo dell’economia
(oggi egemone) e le faccia applicare
con metodi nonviolenti e, in caso estremo,
con il ricorso a un corpo di
polizia internazionale.
Il magistero della chiesa è pure
molto chiaro. La «Gaudium et spes»
del concilio Vaticano II dice: «Siamo
obbligati a considerare l’argomento
della guerra con mentalità completamente
nuova. Ogni atto di guerra,
che indiscriminatamente mira a distruggere
intere città o vaste regioni
e i loro abitanti, è delitto contro Dio
e contro la stessa umanità; con fermezza
deve essere condannato. La
corsa agli armamenti è una delle piaghe
più gravi dell’umanità. La provvidenza
divina esige da noi con insistenza
che ci liberiamo dall’antica
schiavitù della guerra; dobbiamo
sforzarci per preparare quel tempo
nel quale, mediante l’accordo delle
nazioni, si potrà interdire del tutto
qualsiasi ricorso alla guerra. Ciò esige
che venga istituita un’autorità
pubblica e universale. L’umanità, che
già si trova in grave pericolo, sarà forse
condotta funestamente a quell’ora
in cui non altra pace potrà sperimentare
se non la pace di una terribile
morte» (nn. 80-82).
Il Catechismo della Conferenza episcopale
italiana dice: «Abolire la
guerra, il mezzo più barbaro e inefficace
per risolvere i conflitti. Il mondo
civile dovrebbe bandirla totalmente.
Si dovrebbe togliere ai singoli
stati il diritto di farsi giustizia da soli
con la forza, come già è stato tolto
ai privati cittadini e comunità intermedie.
Appare urgente promuovere
nell’opinione pubblica il ricorso a
forme di difesa nonviolenta. Ugualmente
meritano sostegno le proposte
tendenti a cambiare struttura e
formazione dell’esercito, per assimilarlo
a un corpo di polizia internazionale.
La pretesa dei singoli stati
sovrani di porsi come vertice della
società organizzata sta diventando anacronistica.
Si va verso forme di
collaborazione sistematica, si moltiplicano
le istituzioni inteazionali,
si auspicano forme di governo sopranazionale
con larga autonomia
delle entità nazionali».

SEGNALI PERICOLOSI…
Le guerre attuali sono ormai fuori
ogni limite di moralità, anche di quelli
stabiliti dalla pur superata dottrina
della guerra giusta. Va anzitutto notata
la scelleratezza del cosiddetto
«nuovo modello di difesa». In Italia,
«i lineamenti di sviluppo delle forze
armate negli anni ’90», presentati in
parlamento nel 1991 dal Ministero
della difesa, parlano di «concetti strategici
di difesa degli interessi vitali, ovunque
minacciati o compromessi»,
anche fuori dai confini nazionali, abbandonando
il «tradizionale parametro
da chi difendersi, a favore di
una polarizzazione su cosa difendere
e come». Interessi vitali da difendere
ovunque sono «le materie prime, necessarie
alle economie dei paesi industrializzati
», presenti nel Sud del
mondo; l’Europa, e in particolare l’Italia,
avrebbe «il ruolo di ponte politico
ed economico tra l’occidente industrializzato
e il terzo mondo». Più
chiari e più cinici di così!
Altro segnale di militarismo montante
è il ritorno e diffusione di «eserciti
mercenari». Su questa strada
sono incamminati gli «eserciti professionali
» oggi di moda; ma faticano
a trovare volontari adatti alla professione
militare, nonostante le alte paghe,
crediti formativi, privilegi occupazionali
e pubblicità di ogni forma.
I corpi mercenari sono un business
già fiorente: scorte armate nei mari
pericolosi, controllo aereo e addestramento
di eserciti e guerriglie. Tim
Spicer, ex ufficiale inglese e precursore
dei nuovi soldati di fortuna, così
si esprime: «I miei uomini possono
intervenire dove l’Onu non riesce.
Costano meno e sono più bravi».
In base all’accordo-quadro, sottoscritto
a Faborough il 27 luglio
2000 dai ministri della difesa dei
principali paesi europei, il governo
Berlusconi ha approntato un disegno
di legge (n. 1927) per favorire
l’esportazione di armi e diminuie
i controlli previsti dalla legge
185/90, la cosiddetta: «Contro i mercanti
di morte». È in corso una grossa
campagna popolare di pressione
sul parlamento italiano in difesa, appunto,
della legge 185/90.
Ma il superamento di ogni limite
etico e religioso è il rilancio degli armamenti
nucleari, chimici e batteriologici,
in collegamento con la dottrina
Nato del «primo colpo nucleare
» e con l’intenzione dichiarata di
ritenere superati gli accordi di disarmo
su tali ordigni: dal momento che
si possiedono, si è pronti a usarli.
Le potenze nucleari hanno fatto di
tutto per costringere gli altri paesi a
sottoscrivere un «patto di non proliferazione
» di tali armi, ma non hanno
mai accettato di attuare un contemporaneo
disarmo, ripetutamente
richiesto in sede Onu dalla stragrande
maggioranza degli stessi paesi.
Anni fa, il parlamento francese ha
approvato una legge che autorizza il
governo all’uso della «force de frappe
», cioè l’atomica, per difendere gli
interessi vitali della nazione in qualsiasi
parte del mondo. Il giornale cattolico
La Croix, nel dae notizia,
non ha accennato a riserve di sorta
circa l’uso di tali ordigni nucleari!
L’attuale politica del governo italiano
mostra tutta la sua incongruenza:
da un lato è entrata in guerra
contro il terrorismo; dall’altro,
vuole abolire la legge 185/90 per incrementare
il commercio delle armi.
Anzi, il ministro della difesa, Martino,
propone la diffusione capillare
delle armi per l’autodifesa dei singoli
cittadini. Non si agevola, in tal modo,
pure il riarmo del terrorismo?
Anche le formule apparentemente
innovative, come «legittima difesa,
ingerenza umanitaria, ecc.», senza
i suddetti chiarimenti vengono
strumentalizzate per giustificare
qualsiasi guerra, come afferma il moralista
Enrico Chiavacci: «In pratica,
qualunque causa, giusta o ingiusta, è
potuta entrare in questo schema e il
clero ha sempre pregato per la vittoria
del proprio glorioso esercito».
È ora di voltare pagina e tornare,
senza compromessi, alla
nonviolenza evangelica
dei primi secoli della chiesa.

Angelo Cavagna