Un passo dopo l’altro


È uno dei cammini più conosciuti al mondo. Nel 2019, è stato percorso da 350mila pellegrini. In queste pagine, il racconto della sua nascita, tra fede e storia.

La geografia del mondo religioso, cattolico in particolare, è attraversata da una ragnatela di sentieri che uniscono luoghi significativi dal punto di vista devozionale. Nei culti asiatici, caratterizzati dal ciclo delle rinascite, questi itinerari sono circolari, non hanno inizio né fine e possono essere percorsi all’infinito. Nelle fedi monoteiste, invece, sono linee che si dirigono verso singoli punti, simboli di un cammino di fede personale che ha come obiettivo l’incontro con Dio.

Chi percorre queste strade sono i pellegrini. Nell’antica Roma, peregrinus era lo straniero, colui che non aveva cittadinanza romana. In seguito, il termine passò a identificare chi arrivava a Roma compiendo un viaggio religioso. Spesso si trattava di povera gente, senza arte né parte, ignorante e poco avvezza alle convenzioni sociali. Nel suo romanzo Il Signore degli anelli, Tolkien forgia il personaggio ideale del pellegrino: Peregrino Tuc, o Pipino. Stolto, poco perspicace (tanto da rischiare più volte di far naufragare la missione affidata a lui e alla «compagnia dell’anello»), è sempre di buon umore e pronto a sorseggiare un buon boccale di birra. L’ingenuità di Peregrino sarà l’ingrediente essenziale per superare le avversità che demoralizzano il gruppo dei protagonisti, proprio come l’ingenuità, sorretta dalla fede, era necessaria al pellegrino medievale per intraprendere un viaggio di centinaia, se non migliaia, di chilometri tra le incognite di un mondo irto di pericoli. Alla fine del suo avventuroso viaggio,
Peregrino Tuc si riscoprirà un uomo nuovo: saggio e rispettato, marito e padre di famiglia.

Questo è il senso ultimo del pellegrinaggio: l’uomo che concluderà il suo percorso non sarà mai più lo stesso uomo che lo ha iniziato.

Giacomo (Tiago) e la Spagna romana

Il mondo cristiano è percorso da fasci di sentieri che si intrecciano, si sovrappongono e si diramano e che, come capillari sanguigni, alimentano il corpo della fede. Tra questi percorsi uno dei più noti è sicuramente il Cammino di Santiago. Anzi, i Cammini di Santiago. Infatti, anche in questo caso, non è possibile parlare di un unico sentiero in termini di pellegrinaggio: il solo elemento comune è la meta finale, il locus sanctus che, nel caso di Santiago, è dedicato all’apostolo san Giacomo (Tiago, appunto), fratello di Giovanni, figlio di Zebedeo. Ambizioso e di temperamento non proprio pacato, l’apostolo è descritto dal Codex Calixtinus come «santo di mirabile forza, benedetto nel suo modo di vivere, stupefacente per le sue virtù, di grande ingegno, di brillante eloquenza».

Il Vangelo di Marco (10, 35-40) ricorda che sia lui che il fratello Giovanni chiesero al Maestro di sedere nella sua gloria alla sua destra e alla sua sinistra.

La tradizione sul santo vuole che Giacomo, dopo la Pentecoste, iniziò a predicare arrivando fino a Saragozza, in Spagna. Qui, demoralizzato per lo scarso entusiasmo con cui le genti accoglievano la Parola del Signore, si raccolse in preghiera fino a che, il 2 gennaio del 40 d.C., dall’alto di una colonna romana fatta di quarzo gli apparve la Madonna la quale, esortandolo nel continuare la sua opera evangelizzatrice, gli chiese di costruire lì un luogo di culto, oggi conosciuto come la Chiesa di Nuestra Señora del Pilar (Nostra Signora della colonna). Giacomo, rinfrancato dall’incontro miracoloso, si imbarcò a Valencia – tra il 42 e il 44 d.C. – per tornare in Giudea (l’attuale Palestina) dove, contravvenendo all’editto di Erode Agrippa I che proibiva ogni predicazione cristiana, trovò la morte per decapitazione divenendo il primo apostolo martire, come attestato anche dagli Atti degli Apostoli (12, 1-2).

Secondo la leggenda, due discepoli di Giacomo, Teodosio e
Atanasio, riuscirono a trasportare il corpo e la testa di Giacomo a Iria Flavia (oggi Padrón, in Galizia), città della provincia imperiale romana Hispania Terraconensis dove ancora oggi si trova il pedrón, la bitta alla quale ormeggiò la nave dei transfughi. Per fuggire alla persecuzione del pretore locale, Teodosio e Atanasio nascosero i resti di Giacomo a una trentina di chilometri dalla costa. Qui le reliquie furono oggetto di devozione e pellegrinaggio fino al IV secolo, quando la caduta dell’Impero romano, l’invasione dei Visigoti e gli sconvolgimenti sociali e politici che ne seguirono, fecero perdere traccia e testimonianza della tomba. Di essa rimase solo un flebile ricordo tramandato oralmente.

La Spagna sotto gli arabi

La conquista araba della Spagna dell’VIII secolo portò, soprattutto nel regno delle Asturie, a enfatizzare i valori cristiani in contrapposizione con l’avanzata musulmana. Fu in questo contesto che si elevò sopra tutti il Beato di Liébana (730-798), autore dei Commentari all’Apocalisse. I Commentari avevano una funzione apologetica, di «rivalsa» nei confronti non solo dell’islam, ma anche di quelle scuole cristiane vicine al nestorianesimo, i cui rappresentanti, dopo essere stati dichiarati eretici, avevano trovato rifugio presso la dinastia omayyade. Una di queste eresie era l’adozionismo1, a cui apparteneva anche il vescovo di Toledo, di cui Beato era il più spietato critico anche per i rapporti amichevoli da lui instaurati con i musulmani.

Nella sua crociata contro l’islam, Beato cambiò anche i paradigmi interpretativi dell’Apocalisse di Giovanni: la Bestia (in origine l’impero romano) divenne il califfato, Babilonia (in origine identificata con Roma) fu assimilata a Cordova, capitale della regione occupata dagli islamici e l’Apocalisse stessa, che annunciava la fine delle persecuzioni romane, si trasformò nell’annuncio della Reconquista.

E fu proprio nell’ottica della vittoria finale contro gli infedeli che venne rispolverato il lavoro di Isidoro di Siviglia, a sua volta mutuato dai Breviarius de Hyerosolima, in cui si testimoniava l’arrivo di Giacomo il Maggiore in Spagna. L’apostolo divenne, quindi, il santo trainante della lotta contro gli invasori arabi, tanto da essere trasformato, proprio da Beato, nel patrono della Spagna cristiana. Mancava solo una prova tangibile, che non tardò ad arrivare.

Re Alfonso II, primo pellegrino

Nell’813, Pelagio, un monaco di Solovio, seguì delle luci notturne che, come stelle cadenti, si concentravano su un luogo ben preciso nel bosco di Libredón. Seguendone la scia, assieme al suo vescovo Teodomiro, Pelagio ritrovò il sepolcro di San Giacomo e dei suoi discepoli Atanasio e Teodoro. Il Campo di stelle (campus stellae) di San Tiago divenne la Compostela di Santiago2.

Intuendo l’importanza religiosa e politica che il ritrovamento offriva al suo regno, il re delle Asturie Alfonso II lasciò la corte di Oviedo per recarsi sul Locus Sancti Jacobi e diventando così il primo pellegrino del Cammino di Santiago3.

Al tempo stesso, San Tiago si trasformò nel Matamoros, l’Ammazzamori («uccisore di Mori»). Egli, in groppa al suo destriero bianco e con la spada sguainata, guidava gli eserciti cristiani contro quelli islamici che, a loro volta, confidavano nell’Arcangelo Gabriele. L’origine di Matamoros affonda le radici nella leggendaria battaglia dell’844 combattuta a Clavijo (nella Spagna settentrionale) la cui storicità è ancora in discussione tra gli accademici. Secondo la tradizione, in quello scontro tra le truppe di Ramiro I e quelle soverchianti dell’emiro Abd al-Rahmãn II, l’apparizione di san Tiago avrebbe portato alla vittoria delle truppe cristiane su quelle musulmane.

In breve tempo, Santiago venne elevata a sede arcivescovile. Lì fu costruita la magnifica cattedrale che ancora possiamo ammirare e divenne una delle città sante del cristianesimo come Gerusalemme e Roma.

A partire dall’XI secolo, con lo sviluppo del pellegrinaggio a Compostela promosso soprattutto dai monaci cluniacensi, si vennero a creare nuovi sentieri. Nel XII secolo, Aymeric Picaud, un prete che fece il pellegrinaggio fino a Santiago, svelò il Codex Calixtinus, un volume diviso in cinque libri la cui ultima parte era una vera e propria guida per il pellegrino con i quattro itinerari «ufficiali»: la via Tolosana, quella Podense, la Lemovicense e la Turonense4.

I quattro cammini si congiungevano a Puente la Reina per proseguire verso Santiago e poi a Padrón lungo quello che verrà chiamato il Cammino francese.

L’arrivo alla cattedrale

Una volta giunti nella cattedrale di Santiago, i pellegrini ripetevano gesti che ancora oggi rimangono fissati nei rituali dei viaggiatori: entrando dal portico della Gloria appoggiano la mano sui solchi impressi nella colonna dell’Albero di Jesse per ricevere la benedizione di San Giacomo, abbracciano il suo busto posto nell’altare maggiore per salutare il compagno di cammino, rendono omaggio al sepolcro dove sono contenute le spoglie dell’apostolo assieme a quelle di Teodoro e Atanasio.

Risale al XIII secolo la nascita di un altro rito: il «botafumeiro», cioè l’uso di un incensiere che oscilla in modo spettacolare lungo la navata centrale. Il fumo prodotto dall’incenso è simbolo delle preghiere dei penitenti che si innalzano al cielo. Invece, secondo una spiegazione più prosaica, il profumo d’incenso sprigionato dal botafumeiro sarebbe servito a mitigare la puzza proveniente da pellegrini non propriamente puliti.

Il Cammino continuava fino a Padrón perché, come diceva un detto medievale, Quien va a Santiago e non a Padrón, o faz romería o non («Chi va a Santiago e non a Padrón, o fa il pellegrinaggio o non lo fa»). Al Cammino tradizionale si aggiunsero in seguito le tappe di Finisterre e di Muxia. Nella prima, è uso bruciare un capo di vestiario e farsi un bagno nelle gelide acque dell’oceano come simbolo di rinascita. Nella seconda, sorge il santuario della Virxe da Barca che ricorda la leggenda dell’apparizione della Vergine Maria su una barca di pietra che esortava San Giacomo a proseguire la sua missione in terra ispanica.

Decadenza e rinascita

Il pellegrinaggio a Compostela non era però un fatto legato alla sola spiritualità: un editto del re Ordoño il Grande (873-924) garantiva l’affrancamento dal proprio feudatario a chi dimostrava di aver compiuto il Cammino soggiornando almeno 40 giorni a Santiago. Nel XV secolo sarebbe nato l’Hospital de los Reyes Catolicos, oggi albergo di lusso, la cui funzione originaria era quella di ospitare gratuitamente i pellegrini offrendo loro cure sanitarie in caso di malanni.

In seguito, a causa della peste nera e delle guerre, nel basso medioevo il pellegrinaggio ebbe un declino che si accentuò nel XVI secolo con la Riforma protestante, la quale proibiva ogni devozione verso i santi. A fine Settecento, poi, la Rivoluzione francese diede un ulteriore colpo al culto compostelliano, già minato dal fatto che, a causa del trasferimento del sepolcro di San Giacomo a Ourense compiuto da Don Juan de Sanclemente nel XVI secolo per proteggerlo dalle incursioni dei pirati inglesi, non si aveva più la certezza che le spoglie del santo fossero ancora a Santiago o, come affermavano in molti, fossero invece andate perdute.

Solo nel 1884, con la bolla Deus Omnipotens, papa Leone XIII suffragò l’autenticità delle reliquie a seguito di una serie di studi effettuati dalla Commissione pontificia. Si doveva, però, aspettare ancora un secolo prima che il Cammino di Santiago riprendesse la sua funzione di riscoperta spirituale di massa come lo era stato nel Medioevo. Tra i tanti promotori e (ri)organizzatori del Cammino, ci fu Elías Valiña, parroco della minuscola chiesa di Santa Maria la Real nella cittadina di O Cebreiro, ricordato per lo più per aver inventato la «freccia gialla» che indica ai viandanti il percorso del sentiero. Nella chiesetta si conserva anche il calice in cui si sarebbe compiuta la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo. Accanto all’altare vi è ancora la statua della Madonna con bambino che avrebbero assistito al miracolo della transustanziazione. La peculiarità di tale statua, chiamata Santa Maria la Real, è che sarebbe la raffigurazione dell’apparizione: la Madonna è scolpita mentre s’inchina in equilibrio precario verso il calice.

Ultreya

Il Cammino di Santiago, come tutti i pellegrinaggi, non darà delle risposte definitive alla propria ricerca interiore, ma sicuramente è uno sprone a cercare oltre. E «Ultreya», il saluto che i pellegrini si scambiano (oltre al più comune «Buen camino») vuole dire proprio questo: non fermarti, vai oltre. Oltre la prima curva, oltre le apparenze.

Piergiorgio Pescali

Note al testo:

  • (1) L’«adozionismo» afferma che Gesù venne adottato dal Padre dopo il battesimo nel Giordano conferendogli la natura divina.
  • (2) L’etimologia del termine «compostela» è ancora dibattuta. Oltre alla sua forma poetica più in voga («campo di stelle», in spagnolo), gli studiosi hanno ipotizzato la sua derivazione da compostum, «luogo di sepoltura» o composita «terra fertile».
  • (3) Il tragitto seguito da Alfonso II è il Cammino primitivo che congiunge Oviedo a Santiago, che oggi è possibile includere nel Cammino francese.
  • (4) Il Codex Calixtinus si chiama così in onore a papa Callisto II (ca 1060-1124), a cui si attribuiva, per un errore forse voluto, la sua stesura.




Brasile. La riscossa delle donne


Sonia, Anielle, Margareth, Marina. Il governo del neo presidente Lula pensa ai popoli indigeni e scommette sulle donne.

Marina Da Silva, ministra dell’ambiente del nuovo Governo Lula. Foto José Cruz – Agência Brasil.

Indigene e afrodiscendenti, ex faveladas e seringueiras: le donne dei ministeri chiave del nuovo governo del presidente Lula provengono dalle periferie geografiche e simboliche, militano nel movimento indigeno, femminista e ambientalista e avranno il compito di rivoluzionare la politica per costruire un paese veramente plurale. I nomi erano stati annunciati già lo scorso dicembre. Tuttavia, assistere alle cerimonie di insediamento di Marina Silva al ministero per l’Ambiente e il contrasto al Cambiamento climatico, di Margareth Menezes al rinato ministero della Cultura e, soprattutto, di Anielle Franco e Sonia Guajajara ai nuovi ministeri dell’Uguaglianza etnica e dei Popoli indigeni, è stato motivo di euforia e rinnovata speranza.

Sonia Guajajara

Sonia Guajajara. Foto Valter Campanato/Agência Brasil/EBC

Sonia è nata nella terra indigena Arariboia, nel Maranhão, uno stato che, pur conservando solo il 20% di foresta primaria, è abitato da una decina di popoli indigeni, compresi alcuni gruppi isolati del popolo Awa Guajà. Dal 2013 è stata coordinatrice dell’Apib, che riunisce le principali organizzazioni indigene del paese, e nel 2018 è stata candidata per il Psol (socialismo e libertà) a vicepresidente della repubblica. Presentatasi alle recenti elezioni, è stata eletta deputata federale per lo stato di San Paolo, incarico a cui ha rinunciato per diventare ministra. Ha aperto la cerimonia del suo insediamento scuotendo un maracà, quasi a voler adunare non solo i presenti ma anche gli spiriti degli antenati. In quello che ha descritto come un momento emblematico della storia del Brasile, davanti a un pubblico composto anche da diversi leader indigeni, ha dichiarato: «Il mio insediamento e quello della ministra per l’Uguaglianza etnica, sono il simbolo della resistenza secolare nera e indigena».

Ricordando i doni ricevuti ancora adolescente dalla zia, una collana e il maracà, e soprattutto il «potere della parola», ha aggiunto: «Oggi non sono qui da sola ma accompagnata dalla forza della nostra ancestralità. La società fa una lettura totalmente distorta della realtà dei popoli indigeni: o ci idealizzano o ci demonizzano. Al contrario di come ci ritraggono i libri di storia, noi esistiamo in forme molto diverse: siamo nelle città, nei villaggi, esercitando i mestieri più vari; viviamo nel vostro stesso tempo e spazio, siamo contemporanei di questo presente e costruiremo il Brasile del futuro, perché il futuro del pianeta è ancestrale».

Joenia Wapishana

L’attivista indigena Celia Xacriabà, eletta al Congresso brasiliano. Foto Raquel Aviani – Secom UnB.

Joenia Wapishana. Foto Valter Campanato – Agência Brasil.

Oltre a un ministero e due seggi in parlamento (anche Celia Xacriabà è stata eletta per lo stato di Minas Gerais), il movimento delle donne indigene ha ottenuto anche un’altra vittoria. Joenia Wapishana è stata eletta presidente della Funai: per la prima volta una rappresentante dei popoli indigeni a guidare l’organo responsabile della loro protezione (*). Ancora un primato per l’avvocatessa di Roraima, visto che già era stata la prima donna indigena a entrare in Parlamento nel 2018. Il suo insediamento è stato visto come simbolica «retomada» di un’istituzione che è stata completamente smantellata dal governo precedente.

Queste donne hanno aperto, dunque, la strada per «aldear a politica» (vedi glossario), slogan della loro campagna elettorale, rafforzando il protagonismo indigeno nelle istituzioni e nello scenario politico brasiliano.

D’altronde si tratta di un processo già in atto in altri paesi latinoamericani come il Cile, dove la mapuche Elisa Logon è stata eletta a capo dell’Assemblea costituente, e la Bolivia, che ha affidato a una donna quechua, Sabina Orellana, il ministero per la Cultura, la decolonizzazione e la depatriarcalizzazione, a dimostrazione del fatto che le rivendicazioni per una maggiore presenza indigena nella politica vanno di pari passo con quelle per l’emancipazione delle donne dal dominio maschile.

Anielle Franco

Anielle Franco, ministra per l’Uguaglianza etnica. Foto Valter Campanato – Agência Brasil.

Contemporaneamente all’affermazione delle donne indigene, dai villaggi alla scena nazionale, giovani donne nere faveladas assumono la leadership di associazioni e collettivi per contrastare la violenza (domestica, di genere, della polizia) che affligge le proprie comunità. Nel 2016, una rappresentanza di queste lanciava il movimento «Occupare la politica», eleggendo diverse deputate a livello municipale, statale e federale.

La nuova ministra per l’Uguaglianza etnica, Anielle Franco, sorella di Marielle (la consigliera comunale carioca impegnata nella difesa dei diritti delle donne nere, del movimento omosessuale – in sigla, Lgbtqiap+ – e delle persone che vivono nelle periferie, barbaramente uccisa il 14 marzo 2018), condivide con le donne di questo movimento la stessa origine, essendo nata e cresciuta nella Marè (una
favela di Rio de

Janeiro) e gli stessi obiettivi: abbattere i privilegi dell’élite bianca e garantire l’accesso universale ai servizi di base ai segmenti della popolazione più svantaggiati ed emarginati.

Anielle ha promesso di portare avanti la sua battaglia per porre fine allo stato di guerra nelle favelas e nelle periferie, alle incarcerazioni di massa e agli abusi della polizia, parte del progetto genocida nei confronti della popolazione nera. Nel suo discorso le parole ricorrenti sono state: «unità e ricostruzione», ma anche «riparazione e memoria», perché «solo ripagando i debiti del passato e restituendo dignità a coloro che hanno resistito a secoli di violenza di stato, si potrà costruire il Brasile del futuro».

La ricostruzione del paese è possibile soltanto se si riconoscono e riscattano le radici ancestrali. Per questo, in un passaggio toccante, anche Anielle ha rivolto una richiesta a tutto il popolo brasiliano: «Camminate con noi finché il nostro popolo non sarà veramente libero, protagonista della propria traiettoria accedendo a diritti, dignità e ad una vita piena. Camminate con noi finché i sogni dei nostri antenati non diventino realtà».

Silvia Zaccaria

(*) Mentre scriviamo, il mondo pare essersi accorto del genocidio degli Yanomami, di cui MC si è sempre occupata. Ci torneremo prossimamente.


 Incontro con Sydney Possuelo

Il sertanista Sydney Possuelo con un indigeno Akuntsu di Rondonia. Foto archivio Sydney Possuelo.

Anche gli indigeni sono uomini

Sydney Possuelo, esperto di indios isolati («sertanista», nel gergo tecnico), è stato presidente della Fondazione nazionale per l’indio (Funai) e direttore del Dipartimento per gli indios isolati, da lui creato nel 1987. Durante il periodo di permanenza alla guida dell’organo indigenista, è stata riconosciuta l’area indigena degli Yanomami (1992).

Per le operazioni di delimitazione fisica del territorio e il coordinamento delle operazioni di espulsione dei cercatori d’oro (i garimpeiros), il sertanista aveva scelto la Missione Catrimani dei missionari della Consolata come uno dei suoi centri operativi. In quell’occasione, padre Silviano Sabatini ebbe modo di conoscerlo e apprezzare il suo operato, benché – fino ad allora – i rapporti dei missionari della Consolata con la Funai fossero sempre stati difficili.

Per il suo impegno a favore dei popoli indigeni, Possuelo ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Tra questi, la medaglia al Merito indigenista che ha deciso di restituire nell’aprile scorso, perché la stessa onorificenza era stata conferita a Bolsonaro e ai suoi ministri.

Sydney, qual è oggi lo stato di salute dei popoli indigeni in Brasile?

«La situazione dei popoli indigeni del Brasile non è mai stata esaltante, ma con l’amministrazione Bolsonaro è drammaticamente peggiorata sul piano sanitario, della sostenibilità economica e ambientale e del diritto alla terra.

L’ex presidente ha presentato in parlamento proposte di legge [dalla 191/2020 che prevede la legalizzazione dello sfruttamento minerario nelle terre indigene, al vecchio progetto 490/2007 conosciuto anche come “Marco temporal” che altererebbe i criteri per il loro riconoscimento, ostacolando l’espansione delle terre già delimitate] che, se fosse stato rieletto, avrebbero determinato un ulteriore arretramento dei loro diritti».

Bolsonaro è stato sconfiitto. Pensi che ci saranno dei cambiamenti con Lula al governo?

«Viste le premesse – creazione di un ministero dei popoli indigeni; leadership indigena della Funai; ripristino del Fondo per l’Amazzonia – ritengo che Lula possa determinare un cambiamento di rotta non solo per la questione indigena, ma anche per quella ambientale, perché non possiamo parlare dei popoli indigeni senza parlare di ambiente, da cui questi popoli dipendono.

Sotto il governo Bolsonaro abbiamo assistito a una devastazione senza precedenti e a una nuova invasione delle terre indigene, da parte di madeireiros, garimpeiros, cacciatori e pescatori di frodo, fazendeiros e grileiros.

Per citare il caso più eclatante, quello della Terra indigena Yanomami, a dicembre 2022 si stimavano più di 20mila cercatori d’oro nell’area, quando all’epoca della demarcazione [nei primi anni Novanta] eravamo riusciti a espellere tutti i 40mila garimpeiros presenti al suo interno. Tra le priorità del suo governo, Lula dovrà, dunque, contrastare questo fenomeno».

La società brasiliana come percepisce l’indigeno?

«Storicamente, l’indio è stato sempre visto in modo negativo dai governi e dalla società nazionale, a eccezione di una piccola fetta di intellettuali, scrittori, giornalisti e antropologi.

La maggior parte della popolazione brasiliana continua, però, a essergli ostile, considerando gli indigeni come subumani [gli “animali da giardino zoologico” dell’ex capo dello stato] o comunque reietti della società, alla stregua dei gruppi emarginati delle città, oppure, nella migliore delle ipotesi, come attrazione da manifestazione folcloristica o da festival tribale. Addirittura, i caboclosribeirinhos che condividono lo stesso ambiente e la stessa origine – sono nemici dei popoli indigeni».

Qualche mese fa ha fatto il giro del mondo la notizia della morte (agosto 2022) del cosiddetto «indio del buco» (indio do buraco, ndr) definito dai media «l’uomo più solo al mondo», per aver vissuto per almeno 26 anni isolato in un’area di foresta dello stato di Rondônia. Cosa hai provato alla notizia della sua morte?

«Nella regione del Tanarù (nome dell’area interdetta, ndr) è operativa una delle sei “frentes de Proteção etnoambiental” che io stesso ho creato in Amazzonia, quando ho fondato il Dipartimento per la protezione degli indios isolati. Da allora questo “fronte” si occupa di monitorare due gruppi indigeni, oltre all’“indio del buco”.

Negli anni abbiamo provato a comunicare con lui, ma non parlava. E non abbiamo mai saputo se non parlava perché non voleva o perché non sapeva parlare. Abbiamo anche provato ad avvicinarci a lui e abbiamo trovato diverse capanne di paglia di forma triangolare con una buca di circa due metri al centro. Non sappiamo perché scavasse quelle buche, se per proteggersi o per catturare animali.

Quando è morto sono usciti vari articoli ma si tratta di speculazioni, perché non sappiamo se fosse effettivamente l’ultimo membro di un gruppo indigeno o se sia stato abbandonato nella foresta ancora bambino. Storie come questa sono peculiari di luoghi distanti e inaccessibili come l’Amazzonia, ed è naturale che restino avvolte in un alone di mistero, vista la sua impenetrabilità e la difficoltà a ricostruire i contorni reali degli eventi che in essa si verificano».

Cosa ha rappresentato la Funai sotto Bolsonaro?

«La Funai è stata militarizzata e svuotata di risorse economiche e umane. Portando avanti la politica apertamente anti-indigena del governo, tanto da essere definita, con un rimaneggiamento sarcastico dell’acronimo, un’“anti Funai” (Fundação anti indìgena, ndr), ha tradito il proprio mandato, cioè quello di identificare e delimitare le terre e proteggere i popoli indigeni.

La maggior parte dei sertanistas e degli antropologi della vecchia guardia, con l’ascesa di Bolsonaro sono stati rimossi e sostituiti da missionari evangelici e militari, di certo non fedeli al motto del generale Rondon, padre dell’indigenismo: “Morire se necessario, uccidere mai”.

Qualcuno è stato vittima di atti disciplinari e altri, come Bruno Pereira (indigenista assassinato nel giugno 2022, ndr), ha pagato con la vita il proprio impegno per la causa indigena».

Quale messaggio vorresti mandare al presidente Lula?

«Vorrei chiedergli innanzitutto di riprendere il processo di riconoscimento delle terre indigene che è stato vergognosamente paralizzato durante il governo Bolsonaro – che aveva tra i propri slogan “neanche un centimetro in più di terra per gli indigeni” – e di tutelare la volontà dei popoli indigeni in isolamento di non essere contattati.

Ciò può essere realizzato soltanto restituendo dignità alla Funai, dotandola cioè delle risorse umane e finanziare necessarie per onorare il proprio mandato.

La creazione di un ministero dei popoli indigeni, diretto da un rappresentante, per giunta una donna, di quei popoli, è un atto senza precedenti ma, come qualsiasi ministero, può essere abolito dai successori. La Funai, invece, è un organo creato per legge, quindi più solida e duratura in quanto, per abolirla, sarebbe necessario passare per il parlamento».

Si.Za.


Glossario

  • Aldear: «indigenizzare» la politica, rendendola meno dominata dai «bianchi».
  • Caboclos ribeirinhos: popolazione tradizionale che abita lungo i fiumi amazzonici derivante dall’incrocio tra discendenti di popoli indigeni, «bianchi» (soprattutto nordestini) e afrodiscendenti.
  • Grileiros: speculatori fondiari.
  • Madeireiros: commercianti di legname.
  • Faveladas: donne residenti in comunità spesso prive dei servizi di base.
  • Frentes de proteção etnoambiental: équipe specializzate nella protezione etnoambientale, composte da conoscitori della zona (mateiros) e esperti in tecniche di contatto (sertanistas) che hanno il compito di localizzare i popoli indigeni isolati e di recente contatto, di monitorarne gli spostamenti e le condizioni di salute e vigilare sulle aree da questi abitate.
  • Remotada: riconquista non violenta, da parte degli indigeni, di un territorio tradizionale.
  • Seringueiras: lavoratrici rurali dedite all’agroestrattivismo, in particolare all’estrazione del lattice dall’Hevea brasiliensis, l’albero della gomma.

Si.Za.




Brasile. Il tè del padre


Frei Gabriel è un giovane francescano della metropoli paulista. Con i suoi confratelli distribuisce pasti ad affamati e senzatetto che ogni giorno, a centinaia, fanno la fila davanti al suo convento.

San Paolo. «Questa città è estenuante. È più facile rubare che chiedere l’elemosina», dice un senzatetto a un altro, dopo aver ricevuto l’ennesimo rifiuto alla richiesta di una moneta.

Ci sono quarantamila senza tetto nella città di San Paolo del Brasile, la metropoli più grande d’America. Il suo centro storico è un posto dove nessuno ti raccomanda di andare.

Praça da Sé, il piazzale che si estende di fronte alla cattedrale neogotica, è il luogo di ritrovo di centinaia di senzatetto (população em situação de rua). In gran parte uomini, vivono accampati in tende o piccole baracche, avvolti nelle coperte grigie, tutte uguali, distribuite dal comune, chiedono l’elemosina, vendono oggetti recuperati chissà dove, giacciono stesi senza sensi sotto gli effetti del crack. Cenciosi, a volte, si accalcano attorno a un predicatore che declama versetti della Bibbia e alza la voce quando nomina «il diavolo, il male!».

Tra le tende, si scorgono anche persone che sono arrivate lì da poco, hanno portato con sé un comodino, o una pentola, ricordo di una vita di piccole comodità che hanno perso da poco. Ci sono anziani, migranti venezuelani, persone transessuali. Praça da Sé è il ritrovo di coloro che sono scivolati sotto la linea della povertà in una città che è il motore economico del Brasile, la più ricca d’America Latina. Una ricchezza che però lascia senza nemmeno un pasto al giorno quasi sette milioni di persone solo nello stato di San Paolo, 33 milioni in tutto il paese.

Celebrazione della messa all’interno della chiesa dei francescani. Foto Mauricio Zina.

Centinaia in fila per un pasto

A duecento metri dall’accampamento di Praça da Sé, si creano lunghe file di senzatetto. Si mettono in coda per ricevere i tre pasti al giorno che distribuisce il convento francescano di Largo São Francisco.

«Ma non è solo un pasto caldo. Offriamo assistenza sociale, giuridica e psicologica. E anche attività culturali, laboratori di musica e pittura. Questo è il “Tè del padre” (Chá do padre), un’attività che esiste dal 1640», spiega Frei Gabriel, 25 anni, frate del convento di Largo São Francisco, «un sostegno integrale, parte del progetto Sefras – Ação social franciscana, alle persone che vivono in strada, a tutti coloro che chiedono aiuto». Vengono distribuiti circa duemila pasti al giorno, spiega Frei Grabriel. Molti di coloro che vanno al Tè del padre, sono persone con dipendenze da sostanze chimiche, soprattutto crack.

«Il nostro lavoro non è solo allontanarle dalla droga, ma capire perché la cercano. Quasi sempre c’è un dolore, un divorzio, un figlio che abbandona il padre. Nel momento del pasto, parliamo. Una persona mi ha fatto un ritratto, un’altra mi ha dedicato una poesia. Certo, è un lavoro difficile perché è un accompagnamento personale. Sono tanti e non riusciamo a seguire tutti. Quando vado in giro per la città senza il saio, qualcuno di loro mi riconosce, “pace e bene” mi gridano e mi salutano con la mano. San Francesco diceva: “Prega sempre il Vangelo. E, se necessario, usa le parole”. Vuol dire che si può pregare ascoltando l’altro, è quello che cerchiamo di fare», racconta Frei Gabriel.

Conciliare studio e vocazione

Primo piano di frei Gabriel del convento di San Francesco, a San Paolo. Foto Mauricio ZIna.

Statura piuttosto bassa, i capelli ricci neri, la barba e un paio d’occhiali con la montatura rotonda, Frei Gabriel ha uno sguardo sereno e curioso. È il più giovane del convento, parla con molta calma, sceglie con attenzione le sue parole per spiegare perché un ragazzo della periferia di San Paolo ha deciso di essere frate francescano nel Brasile del 2022.

«Da bambino sognavo di fare l’insegnante, non immaginavo di diventare un frate. Sono sempre stato curioso verso i libri. A casa mia c’erano quelli che usava mio padre per studiare, ha completato la scuola da adulto, quando io ero già nato. E mi ricordo un suo libro di geografia, lui studiava le mappe e io già conoscevo tutte le capitali. A scuola ero il secchione. Alle superiori, ho fatto un istituto tecnico, una specializzazione in chimica, pensavo di studiare ingegneria chimica, o qualcosa di simile. Finché un giorno, la mia insegnante di portoghese mi disse “ma sei matto? Tu devi studiare materie umanistiche”. Così decisi di studiare psicologia, ma non mi vedevo a fare terapia, volevo fare ricerca. Poi ho conosciuto i frati francescani. Per circa un anno ho partecipato ai loro incontri qui a San Paolo e ho capito che potevo conciliare il desiderio di studiare con la vocazione religiosa».

«Sono entrato nel seminario di Santa Catarina, nel Sud del Brasile, ho girato alcune case francescane e da aprile 2021 vivo qui nella casa di Largo São Francisco. A fine 2022 andrò in un’altra casa, a Petropolis, a Rio de Janeiro, per studiare teologia. Ma ho deciso: non voglio essere prete. Voglio seguire il cammino religioso, ma desidero studiare anche altre cose, psicologia, scienze sociali e filosofia. Ho anche una tesi in mente», si entusiasma Frei Gabriel.

Momento di raccoglimento e preghiera di una fedele. Foto Mauricio Zina.

Meglio evitare le «letture binarie»

«Voglio studiare l’opera di un critico letterario francese in relazione con gli studi di Focault sulla follia, sulla saggezza dei matti. Nel medioevo i matti erano coloro che rivelavano il divino, mentre con l’uomo moderno si abbandona questa visione. I miei studi filosofici, le letture di Nietzsche, mi hanno insegnato che bisogna superare le letture binarie “male-bene, nero-bianco”, così si può avere una visione più positiva dell’uomo, come un essere complesso».

«Come si relaziona lo studio con la tua vita religiosa?», gli chiedo. «I miei studi mi hanno generato crisi esistenziali, non crisi vocazionali. Anzi, spesso mi chiedevo cosa ci stessi a fare al mondo, quale fosse la mia missione. Alcuni pensano che la filosofia vada contromano rispetto alla religione, ma per me è stato il contrario: lo studio della filosofia abbraccia il mio io religioso:
il Gabriel con il saio è lo stesso Gabriel che è nato nella periferia di San Paolo. In quella periferia, ho perso molti amici, quelli della scuola sono morti o sono in carcere. È triste, ma è quello che sarebbe potuto succedere anche a me se avessi preso un altro cammino. Siamo cresciuti nello stesso posto, frequentavamo le stesse persone. Ringrazio Dio e i miei genitori che mi hanno aiutato a scegliere, anche se forse in modo non cosciente».

Cosa significa essere francescano

Chiedo a Frei Gabriel perché abbia scelto l’ordine dei Francescani. «Innanzitutto, per la fratellanza. La vita fraterna significa che tutto è comune: il cibo, la cassa, il lavoro. Se io lavoro come insegnante, metto il salario nella cassa comune. Il ciabattino, che guadagna anche solo un centesimo, lo mette nella cassa comune. Tutti contribuiscono e tutti prendono solo quello di cui hanno bisogno».

«E poi, perché i Francescani sono l’ordine dei minimi: non sono il detentore della verità, non faccio qualcosa per gli altri, ma insieme agli altri. Per esempio, noi non abbiamo capi. Siamo tutti fratelli. Al massimo, c’è il primo tra i fratelli, il più anziano, il più istruito, ma non abbiamo leader. Qui, in questa casa, non c’è un superiore, c’è un fratello che coordina, che decide di ridipingere la parete», dice indicando la parete bianca del refettorio dove ci troviamo per l’intervista. «Le decisioni le prendiamo in assemblea, nel capitolo della casa, e quel che decide il capitolo è ciò che conta».

«Sono i valori che abbiamo ereditato dalla tradizione di San Francesco, che era un cavaliere medievale. La nostra cultura della semplicità viene dal cameratismo dei cavalieri, dall’uno per tutti, tutti per uno. E oggi riproduciamo e attualizziamo quei valori», afferma Frei Gabriel.

Chiedo se, a parte la crisi dei fedeli, ci sia anche una crisi vocazionale nel clero in Brasile. «Sì – risponde -, e per tanti motivi. Uno è storico: anticamente i religiosi erano gli unici che potevano accedere allo studio, avere opportunità di vita indipendentemente dal contesto sociale di nascita. Oggi non è così, ci sono più opzioni. Ma ci sono anche altri cambiamenti, nel modo di intendere la vita religiosa».

L’entrata del convento di San Francesco, a San Paolo. Foto Mauricio Zina.

«Ma questo Non è peccato»

«Per noi francescani, è cambiato anche il concetto di Chiesa. Con il Concilio Vaticano II, gli ordini sono tornati al carisma originale dei padri fondatori. Abbiamo ripreso a leggere i testi di San Francesco e di coloro che l’hanno conosciuto».

«Ti faccio un esempio – continua Frei Gabriel -. Il nostro convento è un punto di riferimento per le confessioni, le persone vengono qui da quartieri lontani. Ma perché vengono fin qui, se hanno una chiesa più vicina a casa? Perché, credo, noi francescani siamo “carne e ossa”, siamo comprensivi. A volte, ti capita un tipo molto rigido, puritano, che vuole confessarsi: “Perché non ho pregato la quaresima di San Michele all’alba”, dice, “ma se lavori tutto il giorno, non è peccato”, lo rincuoriamo noi. Mentre, magari, un altro confessore gli direbbe di fare qualche preghiera per recuperare, rafforzando così l’idea del peccato. Quando qualcuno ci dice che è posseduto dal diavolo, noi ci concentriamo innanzitutto sui problemi psicologici, prima che su quelli spirituali», conclude Frei Gabriel.

Federico Nastasi

Gli autori

  • Federico Nastasi, ricercatore e giornalista freelance, vive in America Latina, collaborando con media e centri studi, in italiano
    (Il Manifesto, Espresso) e spagnolo (El País, Brecha semanario). È coautore di Macondo, un podcast sull’America Latina prodotto da Treccani.
  • Mauricio Zina (Montevideo, 1987), fotogiornalista, lavora per vari media uruguayani e internazionali su temi di carattere politico e sociale. Il suo sito: www.mauriciozina.com

Un francescano benedice una fedele. Foto Mauricio Zina.


Chiesa cattolica e le nuove Chiese evangeliche

La sfida

In Brasile, il paese con più cattolici al mondo, da decenni vive un cambio religioso importante. Negli anni Settanta, i cattolici erano il 92%, oggi sono il 45%. Nello stesso periodo di tempo, gli evangelici sono passati dal 5% al 30%. Nel prossimo decennio, dicono le statistiche, saranno il primo gruppo religioso del paese. Il cambio avviene soprattutto attraverso le conversioni: si nasce cattolici, ci si converte al culto evangelico.

«In Brasile, come in tutta l’America Latina, chi crede diversamente, l’altro religioso, è uno di noi», scrive Gustavo Morelo, sociologo delle religioni. «Non è uno straniero che viene da un altro paese e che trasforma la nostra identità religiosa, come magari avviene in Europa. È un nostro prossimo, è mia sorella, mio fratello, un mio parente che si converte».

E generalmente, le conversioni avvengono in giovane età, prima dei 25 anni.

Secondo un sondaggio del Pew Research Center, il 54% dei protestanti in Brasile afferma di essere stato battezzato cattolico. Ma perché si convertono? Secondo il sondaggio, la spiegazione più comune è che cercano una connessione più intima con Dio, un culto diverso, una chiesa più utile ai suoi membri.

«Quello pentecostale è un successo sociologico, non teologico», scrive Clara Mafra, antropologa, che ha studiato l’ascesa dei pentecostali in Brasile. La trasformazione religiosa del paese è conseguenza della trasformazione urbanistica: la crescita delle città e il contemporaneo abbandono delle campagne. A San Paolo vivono venti milioni di persone, sette a Rio de Janeiro. Le metropoli sono diventate immense, attorniate da gigantesche zone periferiche, dimenticate dallo stato e, a volte, anche dalla Chiesa cattolica. La segregazione sociale e urbana, non la povertà, è una chiave del successo pentecostale. E le chiese evangeliche hanno trasformato queste periferie da «terre di nessuno, in un luogo almeno abitabile», scrive Mafra.

Le persone che aderiscono alle chiese entrano in una comunità e si sentono valorizzate. A Vila Misionaria, periferia Sud di San Paolo, ho chiesto a una fedele neopentecostale cosa le piacesse del culto evangelico: «Mi piacciono le feste, i canti, gli incontri che altrove non potrei fare. Se non ci fosse la Chiesa, resterei da sola a casa a guardare la tv», mi ha detto. Il pastore che apre la chiesa in un garage o anche nel suo salotto di casa viene dal quartiere, ha dei figli che frequentano la (pessima) scuola pubblica della zona e nessun parco dove andare a giocare, una moglie che ha avuto a che fare con la sanità pubblica, e ogni giorno fa tre ore di viaggio su mezzi pubblici.

In Brasile, come nel resto dell’America Latina, quella evangelica è un’importante trasformazione religiosa e sociale. E una grande sfida per la Chiesa cattolica.

Fe.Na.

Momento di preghiera di una fedele. Foto Mauricio Zina.




Dieci anni di sogni e sognatori


È un giovane vicariato posto in una regione amazzonica tanto affascinante quanto difficile. In queste pagine, mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza, il vescovo che lo guida, ne ricorda il decennale (2013-2023) della nascita.

Puerto Leguízamo. Ricordare è qualcosa di essenziale nella vita umana. La memoria è alla base della nostra identità e del rapporto con il mondo in cui viviamo. È la mappa dei nostri ricordi che ci dice chi siamo e dove siamo. Basta, infatti, un blackout della memoria per perdere la nozione di noi stessi, del mondo e del nostro posto in esso, come succede a volte alle persone anziane.

Questo febbraio celebriamo i dieci anni (febbraio 2013 – febbraio 2023) di vita e storia del vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. E, quando parliamo di celebrare, ci riferiamo a quel «ri-cordare» che, etimologicamente, significa riportare al cuore il sognato, il vissuto, ciò che abbiamo raccolto («cor-cordis», cuore, il muscolo che dagli antichi era ritenuto sede della memoria). Anche se pare ridondante ripassare attraverso il cuore ciò che dal cuore è uscito e ciò che è stato fatto mettendoci il cuore, è così che possiamo contemplare ciò che abbiamo vissuto in questi dieci anni di storia, sfide e opportunità.

Un buon punto di partenza per la commemorazione del nostro vicariato è il ricordo delle persone che hanno sognato questa Chiesa particolare: da chi non è più tra noi, come mons. Luis Augusto Castro e padre Bruno del Piero, fino a mons. Francisco Javier Múnera e padre Gaetano Mazzoleni, e a tutti i missionari della Consolata che, assumendo lo «ius comissionis», hanno generosamente sostenuto e continuano a sostenere questo progetto.

Mappa della regione del fiume Putumayo con Puerto Leguizamo e la triplice frontiera (Colombia, Ecuador e Perù).

Partendo dai nostri fiumi

Padre Angelo Casadei, parroco nella Parrocchia «Nuestra Señora de las Mercedes» e coordinatore della «Zona de las Mercedes» composta da quattro parrocchie e mons. Joaquin Humberto PInzón Güiza, vescovo del Vicariato Apostolico di Puerto Leguizamo-Solano dal 2013. Foto Angelo Casadei.

Questa commemorazione ci spinge, anzitutto, a ripercorrere attraverso la memoria il cammino fatto, guardando all’esperienza fondante, alle nostre origini, allo scopo di dare slancio al cammino futuro, rivitalizzando ciò che rischia di perdere il suo significato. È un’altra cosa da imparare dalle dinamiche dei nostri fiumi: nelle origini c’è sempre la freschezza dell’acqua: più si sale verso la sorgente, più se ne percepisce la purezza.

La storia ci porta al 2013, anno in cui il contesto sociale del territorio era carico di grandi aspettative per i negoziati di pace tra il governo centrale e le Farc-Ep. Tutti sognavamo tempi migliori per i nostri popoli. Tre anni dopo, nel 2016, abbiamo apprezzato l’armonia dell’accordo e le nuove dinamiche sociali che il post accordo ha generato, ma abbiamo anche assistito all’emergere di altri attori armati che, ancora una volta, hanno messo in ombra quella pace che tutti aspettavamo.

Un altro ingrediente che ha generato dinamiche di vita e morte è stata l’attività mineraria che ha letteralmente ferito e dissanguato i nostri fiumi, con l’illusione di migliori condizioni per le persone e le comunità. Senza dimenticare la pandemia di Covid 19 e le sue conseguenze.

Il contesto ecclesiale ispirava molta speranza. La proposta di papa Francesco per una Chiesa in uscita, una Chiesa in cammino missionario, è sorta come un flusso di vita. Nella gioia del Vangelo ci ha proposto:

«[…] Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa “coinvolgersi”. Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai discepoli: “Sarete beati se farete questo” […]» (Eg 24).

È in questo contesto che abbiamo intrapreso l’avventura: tre laici, sette religiose (due suore domenicane della Presentazione e cinque Missionarie della Consolata), un sacerdote diocesano (padre José María Córdoba Rip, mandato da mons. Francisco Múnera, vescovo dell’allora vicariato di San Vicente Puerto
Leguízamo poi diviso per costituire questo secondo vicariato), otto missionari della Consolata, un missionario di San Juan Eudes e il vescovo di questa nuova giurisdizione.

Con tanti sogni nello zaino, ci siamo dati il compito di assumere il progetto, di lanciare la nuova giurisdizione, e semplicemente sognare la strada, con la ferma convinzione di camminare e costruire insieme. Per fare questo, il 7 ottobre di quello stesso 2013 ci incontrammo per vivere la prima Assemblea pastorale che aveva come obiettivo: «Avvicinarsi al progetto del nuovo Vicariato», e lo abbiamo fatto con un sentimento di novità. Da quell’assemblea sono nati tanti sogni, accompagnati da creatività e impegno missionario. Da allora, altri evangelizzatori si sono uniti, mettendo il cuore nel dare il meglio di sé a questo progetto.

Comunità lungo il fiume Putumayo. Foto Fernando Florez.

Dalla Laudato Si’ al Sinodo amazzonico

Quasi non bastasse la sfida di una Chiesa in uscita, il pontefice ci ha rallegrati con un altro grande dono per noi come giovane Chiesa in Amazzonia: l’enciclica Laudato si’, con l’invito a una conversione integrale, che ci rende responsabili della cura della «casa comune». Per noi che, proprio in quel momento (era il novembre del 2017), stavamo preparando la prima Minga amazonica y fronteriza (incontro tra popolazioni dell’Amazzonia e della frontiera), è stato un balsamo che non solo ci ha fatto sentire di navigare nella giusta direzione con una causa risolutamente assunta dalla Chiesa, ma ci ha anche spinti a rispondere fedelmente all’impegno con il nostro contesto amazzonico.

La sintonia e l’impegno si sono ulteriormente rafforzati con la convocazione nell’ottobre 2017 del Sinodo sull’Amazzonia, con il quale Francesco ha inteso: «Metterci alla ricerca di nuovi cammini per la Chiesa in Amazzonia e per un’ecologia integrale». Negli anni, abbiamo camminato in questo flusso di ricerca, discernimento e costruzione collettiva.

In mezzo a tante sfide sociali e all’abbondante ricchezza ecclesiale, è nato il nostro primo progetto pastorale, ispirato dal Vangelo del buon Samaritano (Lc 10, 25-37). È lì che abbiamo sognato una Chiesa dal volto, dal pensiero e dal cuore amazzonici. Come, in seguito, verrà affermato nell’esortazione apostolica Querida Amazonía del sinodo per l’Amazzonia: «È la Chiesa dei seguaci di Gesù» che s’incarna in questo contesto e acquista un volto con le seguenti caratteristiche: è difensore della Casa comune; è senza confini; è fraterno, perché l’altro che cammina con me è mio fratello; è arricchito dalle spiritualità dei popoli che la abitano; è servo al servizio della comunità; è celebrante la vita e il cammino delle persone e delle comunità; è aperto all’universalità, in comunione con tutta la Chiesa.

Anche la riflessione ecclesiale e l’animazione vocazionale fanno parte dei raccolti ottenuti lungo il cammino. Tra i più recenti frutti raccolti in questo percorso, c’è senza dubbio la riflessione che si è sviluppata a partire dalle quattro opzioni missionarie (indigena, contadina, urbana e afrodiscendente) che oggi ci permette di fare chiarezza sul modo in cui dovremmo camminare con ognuno di quei quattro gruppi umani. Poi, come espressione di partecipazione al processo sinodale, abbiamo formato un’équipe interecclesiale in comunione con il fratello Vicariato di San José del Amazonas (Perù), per navigare sognando tra le due sponde. E ancora: l’équipe intercongregazionale, il gemellaggio missionario con la provincia ecclesiastica di Bucaramanga, la creazione delle nuove parrocchie (Nuestra Señora la Consolata, San Francisco de Asís e Nuestra Señora de la Asunción), per essere più vicini a paesi e comunità, e il «Centro amazzonico per il pensiero interculturale», che sta nascendo e si sta rafforzando.

Tutto questo raccolto è stato possibile grazie allo spirito di famiglia che abbiamo creato fin dall’inizio; una famiglia che si rafforza e cresce e che accoglie tutti coloro che entrano a far parte del progetto.

Alcuni partono e altri arrivano: le suore Serve dello Spirito Santo, le Missionarie della Speranza, l’Arcidiocesi di Bucaramanga, la Diocesi di Málaga-Soata, le
Carmelitane missionarie, le suore della Compagnia di Maria, le suore Missionarie dell’Immacolata Concezione, le suore Domenicane di Santa Caterina da Siena, le suore Missionarie del Buon Pastore, alcuni missionari laici, la diocesi di Ismina Tadó, i paesi, le comunità e le persone con cui camminiamo e, naturalmente, i benefattori.

Comunità indigena del fiume Putumayo. Foto Fernando Florez.

In attesa della seconda «Minga amazonica»

L’assemblea pastorale, svoltasi a Puerto Leguízamo dal 7 all’11 novembre dello scorso anno, ha fatto da cornice all’inizio dei festeggiamenti. Sotto il motto: «Dieci anni di cammino insieme perché in Cristo abbiamo la vita». Viviamo questa celebrazione nel contesto in un altro momento ecclesiale molto importante, un’altra proposta di papa Francesco, il sinodo della sinodalità, dove ci viene chiesto di tornare su tre aspetti importanti ed essenziali della Chiesa: comunione, partecipazione e missione. Indubbiamente, questo quadro o meglio questa spiritualità ci permetterà di leggere i primi dieci anni di storia e continuare il cammino.

Questo 2023 chiuderà i festeggiamenti per il decennale del Vicariato con l’esperienza della seconda «Minga amazonica», che avrà il titolo di: «Un modello di vita dal e per il contesto». Partendo dall’«ecologia della speranza», uno sguardo interdisciplinare e interistituzionale per sognare insieme un nuovo modello di vita.

Per una storia plurale

La celebrazione dei nostri primi dieci anni ci ha permesso di avere una visione retrospettiva del cammino fatto e una proiezione verso il futuro, verso nuovi tempi e nuove mete, avendo come obiettivo una buona vita per una buona convivenza. Tutti siamo incoraggiati a continuare a forgiare percorsi per i nuovi tempi, armonizzando metodi e strategie. In altre parole, la storia che sta scrivendo il Vicariato Apostolico di Puerto Leguízamo-Solano è una storia plurale, costruita a più mani, contemplando un ampio orizzonte, camminando insieme affinché i popoli e la gente di questo territorio abbiano la vita in Cristo.

Joaquín H. Pinzón Güiza

 

Durante l’assemblea del Vicariato, si svolge una dinamica per ubicare le missioni su una grande mappa stesa in mezzo al salone. Foto Angelo Casadei.


Il Vicariato e l’opzione indigena

Campesina di San Antonio, nel comune di Puerto Leguizamo. Foto Angelo Casadei.

Il «rostro indigeno»

Il Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano si trova in un territorio amazzonico bagnato dai fiumi Caquetá e Putumayo. Territorio e fiumi nascondono diversità di specie che, intrecciate, proteggono l’ecosistema e danno speranza al mondo. Questa zona racchiude una varietà di volti tra i quali molti popoli indigeni: Murui, Koreguaje, Inga, Kichwa, Siona, Kofane, Nasa.

Sono popoli originari che alla Chiesa chiedono un’evangelizzazione differenziata che, attraverso il dialogo interreligioso, rispetti le loro conoscenze ancestrali e la loro visione del mondo. Sono indigeni che chiedono l’accompagnamento della Chiesa per affrontare le nuove sfide dell’epoca attuale, segnata dall’ondata di violenza, dalla difesa dei propri territori e dal continuo esodo migratorio verso le aree urbane.

Eduardo Reye Prada (Imc)


Il Vicariato e l’opzione contadina

Il «rostro campesino»

In questa immensa, bella e sorprendente Amazzonia troviamo anche il volto contadino. La stragrande maggioranza proviene da altri luoghi della Colombia spinta da ragioni diverse: per occupare terre abbandonate, per cercare guadagno, per fuggire alla violenza che purtroppo affligge il nostro paese. Sono venuti qui con la loro cultura e le loro tradizioni cercando di ricostruire la loro vita.

La Chiesa rende visibili i bambini contadini, i giovani e gli anziani prematuramente invecchiati a causa delle difficili condizioni di vita. Hanno vissuto e vivono realtà molto dure: come possiamo aiutarli? Tra le difficoltà che incontriamo ci sono l’isolamento, la mancanza di opportunità in materia di istruzione, sanità, comunicazione, strade di accesso, pagamento equo per i loro prodotti, abusi da parte di diversi gruppi armati.

Le comunità campesine rivendicano e apprezzano la presenza della Chiesa. Noi rispondiamo con una pastorale di presenza incarnata nelle popolazioni rurali, con un essere con loro. Questo ci ha richiesto lo sforzo di conoscere la storia del mondo contadino, d’incarnarci come Gesù, di scendere nel profondo, ascoltarli, cercare di vedere il mondo, la realtà dal loro punto di vista, uscire, camminare con e verso di loro, cercandoli.

Consapevoli che la pastorale contadina deve abbracciare l’ecologia integrale mettendo in relazione tra loro Dio, i fratelli, il creato; consapevoli che Gesù ha parlato ai contadini della terra, del seme, del frutto, del raccolto, del- la zizzania; consapevoli che il cristianesimo è nato in ambiente contadino, nel nostro essere missionario noi coltiviamo una disposizione umile, semplice e vicina; una vita sobria, vivendo la spiritualità del presepe, del lievito, del piccolo. Impariamo da loro riconoscendo e rafforzando i loro valori: lavoro, pazienza, perseveranza, rispetto dei processi, accettazione, spirito di sacrificio, tenacia, capacità di ricominciare.

Nella nostra visita permanente alle famiglie e alle scuole contadine, promuoviamo iniziative che migliorino la loro qualità di vita (come la coltivazione di prodotti regionali) e contribuiamo a sensibilizzare alla cura della Casa comune. E, soprattutto, aiutiamo tutti a riscoprire valori, come la Parola di Dio, la preghiera, la celebrazione dei sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e maturazione nella fede. Cerchiamo leader e collaboriamo alla formazione dei nostri agenti di evangelizzazione al fine di fornire un catechista a ogni comunità contadina, perché in Cristo tutti abbiamo la vita.

Maria del Carmen López (Cm)

Il Vicariato e l’opzione afro

Il «rostro afroamazonico»

Il popolo afroamazzonico apprezza la vicinanza e il sostegno che, in questi dieci anni, ha trovato nel Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. Vicinanza e sostegno nella ricerca per rafforzare la propria identità e soprattutto per cercare uno spazio in questa Amazzonia, dove gli afrodiscendenti sono arrivati in momenti diversi della storia recente e per circostanze diverse. Gli afrodiscendenti sono consepevoli che stanno crescendo in questo territorio di pari passo con la Chiesa e sono disposti a continuare a partecipare alle dinamiche pastorali che si stanno portando avanti.

Essi chiedono al Vicariato di continuare ad accompagnare i loro processi. Vogliono sentirsi parte delle dinamiche ecclesiali. Chiedono sostegno per poter acquisire uno spazio dove costruire la loro casa ancestrale: è essenziale avere uno spazio per rafforzare la cultura e la spiritualità. Vogliono continuare a partecipare e ad animare le celebrazioni della fede cattolica che li identificano come comunità afro: la festa di Nuestras Señora de la Candelaria (2 febbraio) e la festa di San Francesco d’Assisi («San Pacho», 4 ottobre).

Come Chiesa del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano dal volto amazzonico, noi ci sentiamo felici di avere la ricchezza (anche) del volto afro e vogliamo diventare partecipi delle loro ricerche e dei loro processi affinché insieme possiamo avere la vita in Cristo.

Lelia Yaneth Márquez (Op)

Campesinos di San Antonio, nel comune di Puerto Leguizamo. Foto Angelo Casadei.

Il Vicariato e l’opzione urbana

Il «rostro urbano»

Nel contesto urbano, il Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano ha potuto conoscere una serie di realtà che, essendo particolarmente diverse, richiedono uno speciale programma di evangelizzazione.

Inizialmente, al loro arrivo in questa regione, i primi missionari e missionarie avevano una visione generica del modo di vivere degli abitanti nel settore urbano.

La realtà in cui vivono le famiglie in questo «giardino esotico» che è l’Amazzonia, si riassume sostanzialmente nelle poche opportunità di lavoro per la loro sussistenza. Si può osservare che vivono a malapena di pesca e di lavoro nei campi da cui ricavano prodotti come manioca, piantaggine, papaya, mais, tra gli altri frutti che questa buona terra permette loro di raccogliere.

Come Vicariato ci troviamo in contatto anche con il mondo giovanile, che diventa una grande sfida per svolgere la nostra opera di evangelizzazione. Ai giovani mancano le opportunità per realizzare il loro progetto di vita. E questo causa problemi come droga, alcolismo, prostituzione e alcuni stili di vita che possono addirittura spingere molti giovani a entrare nelle fila dei gruppi armati clandestini che fanno parte del tessuto sociale di questa regione.

La popolazione fluttuante, invece, include tutti quegli abitanti giunti sul territorio in cerca di nuove opportunità, di una nuova strada, e che, nella maggior parte dei casi, fuggono dalle incertezze del passato. È proprio qui, nella ricerca di una direzione inedita, che con il nostro lavoro essi possono trovare un modello per cristianizzare la loro vita, evitando con ciò che le realtà negative della loro nuova casa diventino troppo gravose.

In conclusione, guardare al settore urbano richiede una visione ampia attraverso un servizio vocazionale e di evangelizzazione per andare alla ricerca di uno sviluppo per ogni volto che questo contesto amazzonico ospita. Ci riferiamo ai volti urbano, afro, contadino e indigeno che compongono questo paradiso multiculturale.

Fernando Ramirez e Ricardo Bocanegra (Imc)

Archivio MC

Paolo Moiola, È l’Amazzonia, dossier, marzo 2018.
È il reportage sulla prima «Minga amazonica y fronteriza» del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. La seconda edizione si svolgerà quest’anno.

 

 

 




Festival della Missione 2022. Svelare l’umano condivisibile


Quattro giorni di convegni, aperitivi missionari, mostre, laboratori, spettacoli. Cento ospiti, centoventi testimonianze, duecento volontari, trentamila partecipanti. Grandi quantità legate a grande qualità e profondità nell’affrontare temi cruciali. Per la vita della Chiesa e della società.

Arriviamo alle colonne di San Lorenzo, a Milano, nel pomeriggio di giovedì 29 settembre.

Sta per iniziare uno dei molti eventi in programma in questa piazza fino a domenica 2 ottobre nella cornice del secondo Festival della Missione. Il cielo è incerto se chiudersi o lasciare il campo a un sole intenso e caldo.

Qui c’è il cuore della movida milanese e, allo stesso tempo, il cuore storico della chiesa Ambrosiana. La basilica sorta tra il IV e il V secolo, infatti, è tra le più antiche della città, e oggi si trova in un contesto di vie molto affollate non distanti dal Duomo, disseminate di bar, locali e negozi.

Sul sagrato, nello spazio suggestivo tra la facciata della chiesa e le antiche colonne, è allestito un palco con megaschermo. L’immagine proiettata è quella di un gomitolo composto da fili di diversi colori dal quale ne esce uno rosso a comporre la parola «missione». È il logo del Festival: un globo terrestre che non presenta confini ma i colori intrecciati dell’umanità. Il tema dell’intero evento è «Vivere perdono»: un gioco di parole nel quale il dono è, allo sesso tempo, causa e fine del vivere.

Diverse file di sedie iniziano a riempirsi di persone attorno alla statua che troneggia al centro della piazza: l’imperatore Costantino, quello che firmò nel 313 d.C. il famoso editto di Milano che concesse libertà di culto ai cristiani.

La missione in piazza

La prima edizione del Festival della Missione si è tenuta a Brescia nel 2017 (cfr MC dicembre 2017, p. 14). Un’occasione di festa, incontro e scambio missionario così entusiasmante da convincere i due organismi promotori, la fondazione Missio e la Cimi (Conferenza degli istituti missionari italiani di cui fanno parte 14 istituti ad gentes: 6 femminili e 8 maschili), a organizzarne, cinque anni dopo, una seconda edizione.

In entrambe le manifestazioni, sia a Brescia che a Milano, la missione si è fatta presente in piazza, tra la gente.

Ma perché portare in strada la missione e i «suoi» temi?

Di certo perché «la ricchezza delle esperienze missionarie è ricchezza per tutti» – come ha detto don Giuseppe Pizzoli, direttore della fondazione Missio, alla conferenza stampa di presentazione del 19 settembre -, e quindi vale la pena portarla tra la gente, raccontando le storie di persone che nel mondo vivono «per dono», come ha aggiunto Lucia Capuzzi, giornalista di «Avvenire» e direttrice artistica del Festival, parafrasando il tema della quattro giorni.

Di certo per «far crescere la missione nella società italiana», nella convinzione che «la fede si rafforza donandola e non difendendola» – come ha chiosato in quella stessa sede padre Fabio Motta, missionario del Pime e rappresentante della Cimi -.

Ma anche per portare in superficie e porre all’attenzione di tutti, cristiani e non, alcune «tracce dell’umano condivisibile: gli spazi, i valori, le sfide, i sogni che ci accomunano tutti come esseri umani», come ci dirà Agostino Rigon, direttore generale del Festival, che sentiremo dopo la sua conclusione.

I linguaggi della missione

Quando abbiamo deciso di partecipare al Festival e abbiamo letto il programma degli eventi sul sito festivaldellamissione.it, siamo stati colpiti dalla varietà di temi e di ospiti. Il mondo missionario vuole comunicare con la città attraverso i linguaggi che gli sono propri: quelli della testimonianza, della Scrittura, della fede, della spiritualità, della teologia; ma anche tramite quelli (che non gli sono estranei) dell’economia, della politica, dell’ecologia integrale, dei diritti umani, dell’etica, della giustizia.

Forse perché impegnati quotidianamente a confrontarsi faccia a faccia con i poveri, gli ultimi, gli scartati di ogni latitudine, con i conflitti, le conseguenze dei cambiamenti climatici e dello sfruttamento indiscriminato della terra, i missionari non possono fare a meno di domandarsi (e domandare) il perché, e di denunciare quali sono i meccanismi che schiacciano nella marginalità la maggior parte della popolazione mondiale (la «violenza strutturale», direbbe Johan Galtung, o le «strutture di peccato», secondo Giovanni Paolo II).

Storie di «semplici» missionari

Dato che diverse iniziative del Festival si terranno in contemporanea, a malincuore siamo costretti a scegliere.

Parteciperemo ad alcuni incontri nei quali «semplici» suore, famiglie, sacerdoti missionari racconteranno le loro esperienze in terre lontane (o vicine).

Ascolteremo, ad esempio, suor Dorina Tadiello, sorella comboniana, già missionaria in Uganda, a Roma e Verona, che da due anni fa parte della comunità intercongregazionale di Modica, provincia di Ragusa, composta da sacerdoti e suore di diversi istituti religiosi che condividono la vita e la fede per fare accoglienza di persone migranti.

Sentiremo le parole appassionate di don Dante Carraro, medico cardiologo dall’87, sacerdote dal ‘91, e dal 2008 direttore dell’Ong Medici con l’Africa Cuamm, con la quale viaggia spesso in Angola, Etiopia, Mozambico, Tanzania, Sierra Leone, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana e Uganda.

E poi la testimonianza ricca e colorata di Chiara Bolzonella e suo marito Mauro Marangoni che, con tre anni di missione fidei donum in Kenya alle spalle e cinque figli, hanno fondato nel padovano, assieme ad altre tre famiglie, la comunità Bethesda per condividere il Vangelo nella forma dell’accoglienza e dell’animazione spirituale.

Di giustizia, diritti, vangelo e altro

Parteciperemo poi ad altri eventi nei quali sentiremo parlare di giustizia riparativa dalla ministra Marta Cartabia (che verrà in seguito sostituita nel nuovo governo da Carlo Nordio) con il prof. Adolfo Ceretti, grande promotore della restaurative justice in Italia come all’estero; di «economia che uccide» dall’ex presidente del consiglio Mario Monti con suor Alessandra Smerilli, figlia di Maria Ausiliatrice, insegnante di Economia politica e Segretaria del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale del Vaticano. Ascolteremo Patrick Zaki in collegamento dal Cairo parlare di diritti umani e della sua situazione di attivista sotto processo nel suo paese; il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, condividere riflessioni sull’annuncio della Parola; il leader indigeno Adriano Karipuna denunciare la situazione di violenza e devastazione subita dal suo popolo e dalla foresta Amazzonica.

Parteciperemo, tra le altre cose, al laboratorio sull’agenda 2030 e a una sfilata di moda «etica».

Faremo anche un aperitivo missionario e visiteremo una delle mostre allestite in diversi luoghi della città.

non solo Numeri

Nell’arco dei quattro giorni del Festival più di cento ospiti si alterneranno sul palco in trenta eventi e convegni, centoventi missionari «testimonieranno» la loro esperienza agli «aperitivi» organizzati in ventisette bar e bistrot del centro, saranno coinvolte dieci piazze, quattro musei, ci saranno otto mostre, undici percorsi artistici con visite guidate in basiliche e chiese, quattordici presentazioni di libri e incontri con gli autori, sei proiezioni di documentari, cinque spettacoli, dieci laboratori per bambini, ragazzi e giovani, un torneo di calcetto, una serata di racconto e sfilata di moda. I partecipanti saranno circa 30mila.

Semi di futuro

Guardandoci attorno, mettiamo a fuoco alcuni volti di missionari conosciuti, alcune famiglie, molti giovani, veli di suore.

C’è un gruppo un po’ chiassoso che si infila nell’edificio dell’oratorio della parrocchia di San Lorenzo. Lì è stata allestita «Casa Missione»: stanze con tavoli e sedie, una macchinetta per il caffè, il bagno, un fasciatoio, un luogo per riposare nelle pause tra una conferenza e la proiezione di un documentario, e magari mangiarsi un panino facendo due chiacchiere con qualche sconosciuto che diventerà presto un volto amico.

Ci avviciniamo a uno dei gazebo del Festival per la registrazione. Uno dei duecento volontari ci consegna il libretto con l’elenco di tutte le proposte. Abbiamo la conferma che a molte non potremo partecipare, ma siamo consolati dalla promessa di ritrovare, in seguito, molti dei contenuti del Festival sul web. Alcuni degli incontri ai quali non potremo partecipare li potremo fruire a casa, andando sul canale Youtube
@FestivaldellaMissione.

Il volontario ci sorride e, prima che noi ci allontaniamo, ci consegna una bustina di carta contrassegnata con il logo e i colori della kermesse. «Vivere per dono» c’è scritto. Dentro alla bustina si sentono rotolare alcuni semi di piante a sorpresa. È l’auspicio di questo secondo Festival della Missione: essere un seme da piantare nella terra con la fiducia che qualcosa di buono e bello spunterà.

Luca Lorusso

Fare rete per dire la missione

A distanza di qualche settimana dal Festival, abbiamo sentito alcuni dei protagonisti del dietro le quinte per raccogliere impressioni «a freddo»: Agostino Rigon, direttore generale del Festival, padre Piero Masolo, direttore operativo, ed Elisabetta Grimoldi, del consiglio direttivo.

Elisabetta Grimoldi

Elisabetta è una laica missionaria saveriana, promotrice del coordinamento dei laici missionari legati ai diversi istituti ad gentes in Lombardia e, tra le altre cose, membro del Suam (l’organo della Cimi per l’animazione missionaria). È manager per un’azienda multinazionale. Si fa chiamare Betty: «Da qualche anno sono nel comitato dei laici lombardi legati agli istituti missionari di cui fanno parte anche le Famiglie missionarie a Km0 e i laici fidei donum. Già da tempo lavoravamo in rete, poi il Festival ci ha spronato a farlo ancora di più. Io sono stata scelta come rappresentante dei laici a livello nazionale, e, durante la preparazione, con Emanuela Costa (Famiglie missionarie Km0) e Claudia Del Rosso (di Missio), abbiamo cercato di aprire i confini della rete coinvolgendo realtà come il Mato Grosso, la Papa Giovanni XXIII e altre».

Le chiediamo cosa le è piaciuto di più del Festival. «Il dono dell’accoglienza, i legami creati tra tante reti. Il fatto che le relazioni proseguono ancora oggi. Questo significa che la rete non aveva come unico fine quello dell’evento. C’è desiderio di continuare assieme. Poi mi sono piaciuti i contenuti, e il fatto che ci fossero tante realtà a costruirli. Infine, il tentativo di intercettare chi è fuori dal mondo missionario e dalla Chiesa».

Padre Piero Masolo

Padre Piero Masolo è un missionario del Pime (Pontificio istituto missioni estere), sacerdote dal 2008, è stato sette anni in Algeria. Lavora al centro missionario della diocesi di Milano. La sua funzione di direttore operativo del Festival ha aiutato a raccordare «la macchina» organizzativa con il territorio. Gli chiediamo se, secondo lui, l’obiettivo dei promotori di far incontrare i tanti soggetti del mondo missionario tra loro e di comunicarsi al di fuori è stato raggiunto. «Sì. I feedback sono positivi. Intanto le 30mila presenze sono già un dato importante. Poi dobbiamo tenere conto anche del grande lavoro fatto nel “pre Festival”. Volevamo che il tutto fosse un percorso e non un evento: è il percorso che può dare frutto. Oggi, ad esempio, molte persone in diocesi ci chiedono di aiutarli a trasformare in realtà quotidiana l’atmosfera di incontro del Festival. Si cammina». Chiediamo quali sono le ricadute positive per la chiesa missionaria di quanto fatto: «Uno: non è vero che la missione è una ciliegina sulla torta. È, anzi, quel filo rosso del logo che tiene assieme il gomitolo. La Chiesa è missionaria, oppure non è. È lo spirito con il quale appartenere alla Chiesa. Questo penso che sia stato recepito da chi ha seguito il Festival. Due: l’evento dice anche che uniti non si è insignificanti. A volte noi missionari ci lamentiamo di non venire ascoltati. Ok, ma noi come ci proponiamo? Il Festival ha provato una modalità nuova di proporre la missione a tutti, e mi pare ci sia riuscito».

Agostino Rigon

Agostino Rigon è il direttore generale del Festival. Ha alle spalle sei anni di Messico e molti anni di lavoro missionario in Italia. È l’attuale direttore dell’ufficio missionario di Vicenza. «Il desiderio dal quale è nato il Festival era triplice. Uno: superare l’autoreferenzialità dei soggetti missionari, vincere la fatica di interfacciarci tra di noi e con il mondo. Il secondo desiderio era quello di aiutare lo svelamento dell’umano condivisibile: non volevamo che il Festival fosse un’occasione per parlarci addosso, volevamo, invece, portare in evidenza gli spazi, i valori, le sfide che ci accomunano tutti come umani. Per questo il Festival ha ascoltato anche voci estranee al mondo ecclesiale. Terzo: mettere in luce la bellezza del Vangelo come dono per la vita del mondo. Attraverso il racconto delle storie di molti missionari, mostrare che ci sono ragioni di vita che ispirano uomini e donne a vivere e a servire l’umanità».

Questo triplice desiderio si è realizzato? «Io direi di sì. Non come obiettivo raggiunto, ma per i passi avanti fatti. Ad esempio, la Cimi e Missio non avevano mai lavorato insieme con tanta corresponsabilità e convergenza di visione, e mai avevamo creato una tale rete di alleanze con cui parlare dell’umano condivisibile».

Anche ad Agostino domandiamo cosa è piaciuto di più della manifestazione: «La sinodalità: nel consiglio direttivo eravamo decine di soggetti diversi e ho visto che tutte le cose fatte con un’intesa comune sono state quelle più belle. La sinodalità intesa come esperienza di relazioni e corresponsabilità molto pratica e concreta.

Un altro aspetto è “la contaminazione”: abbiamo visto che è possibile condividere valori e sfide, sogni e speranze con molte più persone di quante immaginassimo. A volte ci consideriamo un’isola che lavora controcorrente, invece c’è una moltitudine di gente che condivide tante cose e ha sete e fame di fare sistema e impegnarsi con altri».

E adesso cosa si fa? «È un discernimento che spetta a tutti, non solo agli organizzatori del Festival. Sono stati proposti metodi, idee, occasioni, ma poi bisogna che ciascuno li faccia propri».

Il prossimo Festival? «L’idea è di fare il Festival ogni 3 anni, ogni volta in una sede diversa. Il prossimo potrebbe essere nel centro Italia o al Sud… ma è tutto da verificare».

L.L.

Un laboratorio sinodale

I quattro giorni del Festival della Missione di Milano, che hanno visto la partecipazione di 30mila persone, non sono stati «solo» un evento, ma l’apice di un percorso che, cominciato nel 2020 con la sua ideazione e progressiva attuazione in una serie di iniziative «pre Festival», prosegue ancora oggi con il «post Festival».

Promosso da Fondazione Missio (Cei) e Cimi (Conferenza istituti missionari in italia) e realizzato dall’Arcidiocesi di Milano in rete con più di 70 partner, sia ecclesiali che laici, tra istituzioni, sponsor, diocesi lombarde, media, enti formativi, associazioni, Ong, fondazioni, il Festival è stato, ed è ancora, un laboratorio di «sinodalità».

Padre Piero Masolo, missionario del Pime, direttore operativo del Festival, fa un elenco di diciannove ambiti nei quali la «sinodalità» della rete messa in campo dagli organizzatori si è espressa nei mesi scorsi, a volte a livello nazionale.

Per citarne solo alcune, ricordiamo le proposte didattiche che hanno raggiunto 64mila studenti nelle scuole dell’interland milanese nell’anno scolastico 21/22; i progetti di giornalismo a livello universitario; i gemellaggi internazionali tra gruppi di ragazzi del Nord e del Sud del mondo; la proposta di un song contest rivolto ad adolescenti e giovani, sfociato nel concerto del 2 ottobre a Milano; il cosiddetto «cantiere festival», cioè l’organizzazione di eventi, conferenze, serate, testimonianze, spettacoli, momenti di preghiera, di dialogo interconfessionale e interreligioso, giornate di spiritualità da parte dei centri missionari diocesani, degli istituti missionari, di altre congregazioni religiose, monasteri, gruppi di tutta Italia; i percorsi di giustizia riparativa per i detenuti di Agrigento e Campobasso, e sul dialogo islamo-cristiano nelle carceri di Busto Arsizio e di San Vittore a Milano.

Dal «pre Festival», a fine settembre si è passati al Festival. Dai quattro giorni di Milano, si è passati ora al «post». Succederà presto, anche se non sappiamo ancora quando, che dal «post» si passerà a un nuovo «pre» che ci accompagnerà a un nuovo percorso.

L.L.

 




La guerra dei sonnambuli


Nel tempo del pericolo nucleare, i decisori politici e l’opinione pubblica sono prigionieri della logica binaria che non vede alternative alla violenza per rispondere alla violenza (e «vincere»). È necessario rimettere al centro i principi e i saperi della resistenza nonviolenta. Prima che sia tardi.

Di questi tempi bisognerebbe rileggere il libro I sonnambuli dello storico Christopher Clark che descrive tutti coloro che avevano le leve del potere e dell’informazione nel 1914 come sonnambuli, apparentemente vigili, ma incapaci, in realtà, di rendersi conto che stavano conducendo il mondo nel baratro di quella «grande guerra» che papa Benedetto XV avrebbe definito «l’inutile strage».

A giudicare dalle scelte fatte e reiterate dai governi rispetto alla guerra in Ucraina, e dalle posizioni veicolate dalla maggior parte dei mezzi d’informazione, un’analoga epidemia di sonnambulismo sembra contagiare anche i decisori e i media di oggi.

Essi, infatti, fanno scelte ed esprimono posizioni non all’altezza dei tempi che attraversiamo, perché prive di consapevolezza della «situazione atomica» nella quale siamo immersi.

Siamo come gli «utopisti al rovescio» de Le tesi sull’età atomica del filosofo Gunter Anders: «Mentre gli utopisti non sanno produrre ciò che concepiscono, noi non sappiamo immaginare ciò che abbiamo prodotto». Siamo incapaci di superare la distanza che separa la capacità distruttiva delle armi nucleari da quella di generare pensieri, discorsi e azioni consapevoli e responsabili. Soprattutto in questo varco critico della storia, nel quale la minaccia atomica viene brandita come mai prima.

Photo by Thomas Gaulkin/Bulletin of the Atomic Scientists.

100 secondi alla mezzanotte

Se questa definizione di Anders del 1960 era vera allora, quando la coscienza del pericolo atomico era diffusa, è incomparabilmente più vera oggi, quando si è persa la memoria del trauma di Hiroshima e Nagasaki: se nel 1960 le lancette dell’«orologio dell’apocalisse», l’orologio simbolico ideato dal «Bollettino degli scienziati atomici» per misurare quanto siamo vicini all’olocausto nucleare, erano posizionate a 7 minuti dalla mezzanotte (la fine del mondo), oggi sono a soli 100 secondi.

Questa dimenticanza dell’olocausto atomico la spiega bene lo storico Daniel Immerwahr su «The Guardian», riportato da «Internazionale» del 21-27 ottobre 2022: «Con il passare del tempo i traumi svaniscono, per nostra fortuna. Vogliamo che la bomba atomica sia proprio questo: un fatto arcaico definitivamente relegato nel passato. Ma non raggiungeremo questo obiettivo ignorando la possibilità della guerra nucleare. Dobbiamo smantellare gli arsenali, rafforzare i trattati e consolidare le norme contro la proliferazione. In questo momento stiamo facendo il contrario. La nostra coscienza nucleare si è atrofizzata. Ci rimane un mondo pieno di armi atomiche che però si sta svuotando delle persone consapevoli delle possibili conseguenze».

Benzina invece di pompieri

Questo svuotamento di consapevolezza sembra attraversare il dibattito pubblico e le scelte politiche fin dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina conducendo tutti a irreggimentarsi nella logica binaria – pace/vittoria; resistenza/resa – che ha militarizzato il pensiero e la discussione, alimentando «l’emozione unidirezionale pro/contro, come se fossimo tutti noi sul campo di battaglia», come ha scritto la politologa Nadia Urbinati su «Domani» già il 5 marzo 2022.

Il sostegno armato alla legittima difesa degli ucraini è così diventato, immediatamente, il solo mezzo e l’unica via alla «pace». Altre possibilità di uscita dalla guerra sono state escluse. L’unica opzione è rimasta quella di mandare sempre più armi per raggiungere la «vittoria» (impossibile in un contesto di permanente minaccia atomica).

Abbiamo così visto all’opera, ancora una volta, il riflesso pavloviano, automatico, del rispondere alla guerra con la guerra, e di gettare benzina sul fuoco invece di inviare «pompieri» per spegnerlo e dipanare la matassa del conflitto in favore di una soluzione sostenibile e duratura. In un avvitamento progressivo verso l’escalation che ha riportato all’ordine del giorno anche il possibile uso di armi nucleari.

(Photo by Andrea Ronchini, Ronchini / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Ripartire dal dialogo

Tutto questo ha impedito ai singoli governi europei e all’Ue nel suo insieme di assumere una posizione di «neutralità attiva» – come ha chiesto fin da subito la Rete italiana pace e disarmo – che non è equidistanza tra aggressore e aggredito, ma la postura che forse le avrebbe consentito di ricoprire il ruolo di soggetto pacificatore nel contesto di un conflitto che non è scoppiato un anno fa, ma già nel 2014.

Una colpevole rinuncia, questa dell’Ue, che lascia il ruolo di mediatore all’autocrate Erdogan.

Chi, invece, si è tenuto vigile e lungimirante nella ricerca di una mediazione, è stato papa Francesco, con i suoi ripetuti appelli alla pace e al disarmo, sui quali ha condotto anche i principali leader religiosi con la straordinaria Dichiarazione del Colosseo dello scorso 24 ottobre, un testo che – proprio perché ignorato da media e governi – merita di essere ampiamente citato.

«Con ferma convinzione diciamo: basta con la guerra! Fermiamo ogni conflitto. La guerra porta solo morte e distruzione, è un’avventura senza ritorno nella quale siamo tutti perdenti. Tacciano le armi, si dichiari subito un cessate il fuoco universale. Si attivino presto, prima che sia troppo tardi, negoziati capaci di condurre a soluzioni giuste per una pace stabile e duratura. Siamo di fronte a un bivio: essere la generazione che lascia morire il pianeta e l’umanità, che accumula e commercia armi, nell’illusione di salvarsi da soli contro gli altri, o invece la generazione che crea nuovi modi di vivere insieme, non investe sulle armi, abolisce la guerra come strumento di soluzione dei conflitti e ferma lo sfruttamento abnorme delle risorse del pianeta. L’umanità deve porre fine alle guerre o sarà una guerra a mettere fine all’umanità. Il mondo, la nostra casa comune, è unico e non appartiene a noi, ma alle future generazioni. Pertanto, liberiamolo dall’incubo nucleare. Riapriamo subito un dialogo serio sulla non proliferazione nucleare e sullo smantellamento delle armi atomiche. Ripartiamo insieme dal dialogo che è medicina efficace per la riconciliazione dei popoli. Investiamo su ogni via di dialogo. La pace è sempre possibile! Mai più la guerra! Mai più gli uni contro gli altri!».

Mezzi coerenti con i fini

Per trovare, dunque, una via di uscita dalla guerra che non sia catastrofica per tutti – a cominciare dal popolo ucraino -, occorre recuperare un principio fondamentale e alcuni saperi dell’agire politico. Il principio è quello teorizzato già da Max Weber alla fine della Prima guerra mondiale: l’etica della responsabilità che, al contrario dell’etica delle intenzioni, cerca di prevedere le conseguenze dell’agire. Essa indica il rischio che un obiettivo buono possa essere realizzato producendo «effetti collaterali» negativi. Suggerisce, quindi, di mettere in campo mezzi coerenti con i fini da raggiungere. In altre parole: il fine non giustifica i mezzi.

Nel nostro tempo il «Principio responsabilità», riformulato da Hans Jonas come «etica per la civiltà tecnologica», prescrive di agire «in modo che le conseguenze dell’azione siano compatibili con la sopravvivenza di un’autentica vita umana sulla terra». È il principio espresso anche nel Manifesto Einstein-Russell del luglio 1955: «Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?».

(Photo by Tiziana FABI / AFP)

La nonviolenza

Per fare in modo che il «principio responsabilità» sia applicato nei conflitti, però, non basta enunciarlo, occorre mettere in campo i saperi conseguenti della nonviolenza, fondati esattamente sulla coerenza tra i mezzi e i fini dell’agire. Si tratta, per esempio, dei saperi della mediazione che forniscono la consapevolezza che nei conflitti degenerati in violenza e lasciati a se stessi (o, peggio, alimentati da istigatori come l’industria bellica che vince tutte le guerre), a ogni azione violenta di una parte corrisponde un’azione contraria di livello di violenza superiore dall’altra, in un crescendo che arriva alla potenziale distruzione dell’altro, o di entrambi, se non intervengono soggetti terzi a mediare.

Si chiama dinamica dell’escalation, quella che Mohandas K. Gandhi spiegava dicendo che «occhio per occhio, il mondo diventa cieco».

Inoltre nella vulgata binaria che costruisce fin dagli inizi di questa guerra la narrazione tossica anti-pacifista, mancano i saperi di oltre un secolo di efficaci lotte nonviolente e resistenze disarmate. Essi, anche in Ucraina, soprattutto nel primo periodo di invasione, sono stati praticati dalla popolazione civile, prima di essere superati e oscurati dal massiccio invio di armi.

Sono saperi che non sfuggivano, per esempio, ad Hannah Arendt che ne La banalità del male, faceva un appello (inascoltato) affinché la resistenza disarmata danese all’occupazione nazista fosse studiata in tutte le facoltà di scienze politiche «per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori». La Danimarca, infatti, fu l’unico paese in Europa che, sotto l’occupazione nazista, venne risparmiato da stragi e rappresaglie, e nel quale furono salvati dalla deportazione quasi tutti i cittadini di origine ebraica.

Corpi civili di pace

I movimenti per la pace, da almeno trent’anni – dalla guerra nella ex Jugoslavia -, propongono ai governi, senza essere mai stati presi in considerazione, la costituzione dei Corpi civili europei di pace, e mettono in campo esperienze di interventi di mediazione internazionale di pace nati e gestiti dal basso.

Con un esperimento di storia controfattuale potremmo immaginare che cosa sarebbe potuto accadere se nelle regioni del Donbass, a partire dal 2014, invece di far arrivare armi e armati a entrambe le parti, fosse stato inviato un Corpo civile di pace internazionale per fare interposizione, mediazione, comunicazione, riconciliazione tra le comunità, secondo la proposta che già nel 1995 Alex Langer aveva avanzato al Parlamento europeo. Langer non fu ascoltato, e nemmeno i movimenti nonviolenti che hanno continuato a proporlo, a progettarlo e, qualche volta, anche a sperimentarlo.

(Photo by Andrea Ronchini, Ronchini / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Obiettori e disertori

Tra i saperi da recuperare e valorizzare, ci sono poi quelli dei disertori e obiettori di coscienza, sia alla guerra di Putin che alla difesa armata dell’Ucraina.

Il movimento degli obiettori di coscienza russi è in crescita: si stima che siano almeno 100mila, come spiega Elena Popova, coordinatrice del Movimento degli obiettori russi: «Sono tanti i giovani che non vogliono partecipare alla guerra, e quelli che sono stati obiettori di coscienza in passato stanno ora aiutando altri a diventare obiettori. Grazie alla loro esperienza, guidano amici e familiari in tutto ciò che è necessario fare per non prendere parte all’esercito».

Anche i pacifisti ucraini – incontrati dalla delegazione della carovana #Stopthewarnow lo scorso ottobre (cfr. MC dic 2022) – rifiutano la logica della guerra a oltranza e chiedono al proprio governo di impegnarsi nei negoziati di pace. Per gli uni e gli altri è attiva la campagna internazionale di protezione e asilo.

Ripudiare la guerra

Nella Costituzione italiana il «principio responsabilità» e i saperi elencati sopra non mancano. A essa i costituenti iniziarono a lavorare poco meno di un anno dopo le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

Per questo, nell’articolo 11, non sembrò abbastanza esplicito il verbo «rinunciare» della prima stesura, e scelsero il verbo «ripudiare», che contiene il disprezzo per ciò che si è conosciuto e si vuole allontanare per sempre.

Inoltre, non sembrò sufficiente ripudiare la guerra come «strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», ma aggiunsero anche come «mezzo di risoluzione delle controverse internazionali», nella duplice consapevolezza che i conflitti non sono eliminabili e che non si possono risolvere con la guerra. Soprattutto nell’epoca atomica. Per questo bisogna trovare mezzi alternativi alla guerra per affrontarli.

A questo scopo, il secondo comma dell’articolo 11 – che «consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni» e «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» – fa riferimento alle
Nazioni Unite che erano nate già nell’ottobre del 1945 per «liberare l’umanità dal flagello della guerra» attraverso la risoluzione delle «controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace, la sicurezza internazionale e la giustizia non siano messe in pericolo».

Un’altra difesa possibile

È alla luce di questi principi e saperi che le organizzazioni impegnate per la pace e il disarmo, riunite nel cartello Europe for Peace, hanno organizzato molte iniziative di mobilitazione dal basso: da quella del 5 marzo a quella del 23 luglio, dal 21-23 ottobre alla grande manifestazione del 5 novembre a Roma.

La richiesta ai governi, sempre più pressante, è di cessare il fuoco, indire una Conferenza internazionale di pace, sottoscrivere il Trattato Onu per la messa al bando delle armi nucleari.

Principi e proposte coerenti con la campagna «Un’altra difesa è possibile» che, in Italia, già per due legislature consecutive ha presentato in parlamento una proposta di legge organica per la creazione di una vera difesa civile, non armata e nonviolenta, secondo gli articoli 11 e 52 della Costituzione.

È necessaria una via d’uscita nonviolenta dalla crisi sistemica globale in corso, che è ecologica, climatica, idrica, energetica, alimentare, pandemica, e che genera continui conflitti per le risorse (circa 170, secondo l’università di Uppsala, Svezia). Oppure, con 13mila testate nucleari puntate sulle teste di tutti, non ne usciremo vivi.

Pasquale Pugliese*

* Filosofo di formazione, ha studiato il pensiero della nonviolenza. Per anni educatore in contesti complessi, oggi si occupa di politiche giovanili. Cura percorsi sulla nonviolenza, ed è formatore per il Servizio civile.
È impegnato nel Movimento Nonviolento e, fino al 2019, nella Segreteria nazionale. Fa parte della redazione di «Azione nonviolenta», rivista fondata nel 1964 da Aldo Capitini.
A Reggio Emilia ha contribuito a fondare e animare la Scuola di Pace.
Sul web, oltre ai suoi profili Facebook, Twitter e Instagram, cura un sito su nonviolenza e disarmo. Inoltre, oltre a collaborare con diverse testate, cura un blog personale sulla rivista vita.it.
Nel 2018 ha pubblicato il volume Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini. Elementi per la liberazione dalla violenza, i cui diritti d’autore vanno al Movimento Nonviolento, e nel 2021 Disarmare il virus della violenza. Annotazioni per una fuoriuscita nonviolenta dall’epoca della pandemia, entrambi editi da GoWare.




Velo, pallone e turbante


Tutto è iniziato con la rivolta delle donne contro l’obbligo del velo. Poi, sono arrivati i mondiali di calcio con le proteste (più caute) dei calciatori. Il clero sciita al potere ha risposto con la repressione e la violenza. Basterà per fermare un popolo stanco della dittatura teocratica?

Nella prima partita dei mondiali di calcio in Qatar, quando la nazionale iraniana e la nazionale britannica sono entrate in campo, il primo pensiero è andato a come si sarebbero comportati i giocatori dell’Iran.

A cantare subito l’inno, lunedì 21 novembre, sono stati gli inglesi. Per la prima volta, hanno intonato a un mondiale «God save the king». Quando lo speaker dello stadio di Doha ha annunciato l’inno iraniano, sono partite le note. Ma, in solidarietà con le proteste, nessuno degli undici calciatori ha cantato i suoi versi:

«Verso l’alto, all’orizzonte, sorge il sole orientale / La luce negli occhi dei credenti nella giustizia / Bahman è lo zenith della nostra fede / Il tuo messaggio, oh Imam, d’indipendenza, libertà / Oh martiri, i vostri clamori risuonano nelle orecchie del tempo / Duratura, continua ed eterna / La Repubblica islamica dell’Iran!»

Di fronte alle bocche cucite dei calciatori, i tifosi iraniani hanno reagito in modo diverso tra loro. Ci sono state donne – con il velo – che non hanno trattenuto la commozione per il gesto dei giocatori, ritenuto coraggioso. Dalla tribuna c’è stato invece chi ha contestato fortemente la scelta della squadra, rivolgendo il dito medio o il pollice in direzione del campo. In realtà, le contestazioni ai calciatori non sarebbero state fatte solo perché essi si sono astenuti dal cantare l’inno, ma anche perché due giorni prima erano stati convocati dal presidente della Repubblica islamica Ebrahim Raisi (in carica dal 3 agosto 2021, ndr) e davanti a lui si erano inchinati. L’impressione è stata, quindi, che i giocatori abbiano voluto dare un colpo al cerchio e uno alla botte, compiacendo sia le autorità iraniane sia i loro connazionali che rischiano la vita protestando in strada. Per questo motivo, in quella partita, sui social, tanti iraniani e iraniane hanno fatto il tifo per la squadra avversaria. Hanno vinto loro, gli inglesi, e già questo è stato uno smacco perché, da sempre, il Regno Unito interferisce nelle questioni interne all’Iran.

Elnaz Rekabi, campionessa iraniana di arrampicata, ha gareggiato senza velo in segno di protesta contro il regime e di solidarietà con le donne. Foto dal web.

Inglesi e americani

Nel 1953, furono i servizi segreti inglesi, il cosiddetto MI6, a rovesciare il premier Mohammad Mossadeq che stava trasformando l’Iran in una monarchia costituzionale, percorrendo un cammino democratico. Due anni prima il politico iraniano, esponente del Fronte nazionale, aveva osato nazionalizzare il petrolio, fino a quel momento ampiamente sfruttato dagli inglesi, che agli iraniani lasciavano le briciole. Dopo due anni di embargo, con l’industria petrolifera allo stremo, Mossadeq fu rovesciato da un colpo di stato. La Cia si prese il merito di quella operazione, passata alla storia con il nome «Ajax». Come, però, ben racconta il documentario «Coup53» del regista Taghi Amirani, fu in realtà la spia inglese Norman Derbyshire (1924-1993) a fare in modo che lo scià Muhammad Reza Pahlavi potesse tornare sul trono del pavone.

Rimesso al potere dagli occidentali, per contenere il dissenso, lo scià creò la polizia segreta Savak che mise in atto una durissima repressione nei confronti degli oppositori. Seguirono decenni segnati da gravi violazioni dei diritti umani, tollerati dall’Occidente perché lo scià era un loro alleato.

A Doha, Al Thani (a destra), emiro del Qatar, presenta la maglia della sua nazionale di calcio a Ebrahim Raisi, presidente iraniano (21 febbraio 2022). Foto Iranian Presidency – AFP.

Il velo di Masha Amini

Oggi come allora gli iraniani reclamano diritti e libertà. Le proteste di questi mesi sono state innescate dalla morte di Mahsa Amini. Il 13 settembre 2022 la ragazza viene fermata all’uscita della metropolitana a Teheran, dove si trova in vacanza con i genitori prima dell’inizio dell’anno accademico. «Studiava microbiologia, voleva diventare dottore», racconterà il padre alla Bbc. Forse le spunta una ciocca di capelli dal velo. Forse indossa pantaloni troppo stretti, oppure si intravede un pezzo di caviglia. Fatto sta che trasgredisce il severo codice di abbigliamento della Repubblica islamica, imposto con maggiore severità – rispetto al passato – dal presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi. Un codice di abbigliamento inclemente anche per i ragazzi, che possono essere fermati se i capelli sono troppo lunghi e le magliette troppo attillate o con maniche troppo corte.

Mahsa ha ventidue anni e vive a Saghez, un’area rurale nel Kurdistan iraniano (zona occidentale del paese), dove l’abbigliamento tradizionale non risponde a codici rigorosi. È, quindi, poco avvezza alle retate della Gasht-e Ershad, la «buoncostume» che si sposta con le camionette bianche contraddistinte da una fascia verde orizzontale. Quel 13 settembre è una giornata soleggiata. Quando Mahsa viene presa di mira dalle poliziotte, il fratello minore (di diciassette anni) cerca di proteggerla. Invano. Malmenato, si ritrova con gli abiti stracciati. Le poliziotte caricano Mahsa sulla camionetta e la portano nel centro di riabilitazione, dove le chadorì (in questo caso le filogovernative con il chador nero dalla testa ai piedi) insegnano alle bad-hejabì (le «mal velate») come vestirsi. La ragazza viene picchiata e il giorno stesso entra in coma. Dopo tre giorni, il 16 settembre, muore nell’ospedale Kasra di Teheran. Il decesso viene dapprima imputato a un «arresto cardiaco» e poi definito un «incidente», dovuto a «malattie pregresse» e in particolare alle «conseguenze di un tumore al cervello di cui aveva sofferto quand’era bambina», una patologia che i genitori negheranno. Nel frattempo, la notizia si diffonde sui social media. La televisione di stato manda in onda due brevi video per dimostrare che non ci sarebbe stato contatto fisico tra gli agenti e la ragazza. Nel primo, in quello che, verosimilmente, è un commissariato di polizia, si vedono numerose donne. Una di loro, presentata come Mahsa Amini, si alza per discutere con una poliziotta in merito al proprio abbigliamento, dopodiché sviene. In un altro video, il corpo della giovane viene trasportato verso l’ambulanza.

Intanto, visto che la morte della ragazza suscita indignazione tra gli iraniani in patria e all’estero, il presidente Ebrahim Raisi incarica il ministro dell’Interno di aprire un’inchiesta. Il capo dei medici legali di Teheran dichiara alla televisione di stato che le indagini sono in corso e che ci vorranno tre settimane. Le autorità intimano alla famiglia di seppellire Mahsa la notte, per evitare assembramenti. Ma i genitori decidono altrimenti e sabato 17 il funerale nella città natale di Saghez si trasforma in una manifestazione di protesta. I manifestanti si riuniscono davanti agli uffici governativi.

Saeed Piramoon, noto giocatore iraniano di beach soccer, fa il gesto di tagliarsi i capelli in segno di protesta e solidarietà con le donne del suo paese. Foto dal web.

Un potere repressivo e corrotto

Quelle scatenate dalla morte di Mahsa Amini sono le manifestazioni più importanti dall’istituzione della Repubblica islamica all’indomani della rivoluzione del 1979, diverse da quelle degli scorsi anni per portata, significato e istanze.

La causa del risentimento di tanti iraniani verso la Repubblica islamica non è solo l’obbligo del velo di per sé, ma anche la grave crisi economica e – soprattutto – l’approccio violento delle autorità – nelle loro diverse declinazioni – nei confronti dei cittadini che vorrebbero poter scegliere liberamente. La violenza sistematica delle forze dell’ordine è la prova della perdita di legittimità di un sistema politico corrotto, che non ha altra scelta se non la repressione che l’allontana sempre di più dai suoi giovani e dal suo popolo.

Tra gli slogan di questi mesi, i dimostranti hanno scandito Zan, zendeghì, azadì («Donna, vita, libertà») e Na be hejab-e ejbari («No al velo obbligatorio», imposto dal 1979), Na be ‘amame («No al turbante», portato dai religiosi del clero sciita).

Un gruppo di donne iraniane pro-regime protestano davanti all’ambasciata tedesca a Tehran (1 novembre 2022).
Foto Atta Kenare – AFP.

Nika e Sarina

Nonostante fin dall’inizo le forze di sicurezza disperdano i manifestanti usando i lacrimogeni, le proteste si diffondono rapidamente in tutto l’Iran. Nel giro di qualche giorno coinvolgono tantissime città e cittadine. Mahsa era una ragazza di provincia, non abitava nei quartieri chic di Teheran Nord; quindi, è facile identificarsi in lei e nel dolore della sua famiglia. A morire, e a diventare un simbolo delle proteste, sono anche le adolescenti Nika Shakarami e Sarina Esmailzadeh. Nel caso di Nika, nel certificato di morte ottenuto dai reporter di Bbc Persian si legge che il decesso sarebbe dovuto a «ferite multiple causate da percosse con un oggetto duro». La versione ufficiale della magistratura di Teheran è, invece, che sia morta «dopo essere caduta da un edificio». In un altro caso, nelle proteste a Karaj, a Est della capitale, le forze di sicurezza uccidono la sedicenne Sarina Esmailzadeh.

Per la prima volta nella storia dell’Iran, nelle manifestazioni di piazza gli uomini sono accanto alle loro donne. In ogni caso, le iraniane si stanno dimostrando decisamente più coraggiose degli uomini. Anche nello sport. Pensiamo a Elnaz Rekabi, la campionessa di arrampicata che, nei campionati di Seoul, gareggia senza velo in segno di solidarietà. A distanza di qualche settimana si viene a sapere che la casa della sua famiglia, assai benestante, è a rischio esproprio e per questo è obbligata a tacere. Inutilmente: la casa viene demolita.

Non si tratta di una novità del governo dell’ultraconservatore Raisi: le stesse misure intimidatorie erano state prese negli scorsi anni nei confronti del filosofo Ramin Jahanbegloo, rilasciato su cauzione, e di tanti altri intellettuali che avevano criticato il sistema politico iraniano e avanzato l’ipotesi di una qualche riforma. Ma intanto Elnaz Rekabi si è tolta il velo in pubblico e il suo gesto, pagato a caro prezzo, ha lasciato il segno.

A Los Angeles, uno striscione si augura che le proteste iraniane si trasformino in una rivoluzione. Foto Craig Melville – Unsplash.

Le donne del cinema si schierano

Nelle proteste del 2022 le iraniane si stanno dimostrando più coraggiose degli uomini anche nel mondo della cultura. Pensiamo alla regista Rakhshan Bani-Etemad che in un video ha dichiarato: «Se fino ad oggi sono stata zitta e non ho detto una parola, è stato solo per affetto materno e amore incondizionato. Non mi sono concessa di parlare perché non volevo che il mio sostegno alle legittime proteste dei giovani cagionasse anche solo un morto in più. Ma la vostra violenza non conosce fine e non conosce confini. In ogni angolo di questo paese, ovunque, scorre il sangue di giovani e bambini abbattuti come passerotti in volo. Quanto ancora dovremo pazientare? Fin dove potremo sopportare? Governare un popolo straziato, inconsolabile, ferito, disarmato e ignorato… Quale merito o valore può mai avere? Io mi auguro solo una cosa: se il sangue versato da tutti questi giovani nel corso di tutti questi anni ancora non vi ha fatto rinsavire, che la morte di Kian [Pirfalak], bambino innocente di appena nove anni, vi tolga il sonno per il resto della vostra vita».

A causa di questo video, a causa di queste parole, la figlia della regista è stata convocata dalla magistratura di Teheran: il regime se la prende spesso anche con i familiari di coloro che osano esprimere il dissenso. Rakhshan Bani-Etemad ha sessantotto anni e vive nella capitale iraniana. Tra i registi della sua generazione, è la donna di maggior spicco.

È andata peggio a Mitra Hajjar, una delle attrici iraniane più conosciute, arrestata lo scorso 3 dicembre. E, mentre scriviamo, pare correre rischi anche un’altra nota attrice iraniana, Shaghayegh Dehghan.

Con i pasdaran alla finestra

Le difficoltà economiche sono al centro delle proteste. In Iran un litro di latte costa l’equivalente di 90 centesimi di euro, una pagnotta 30 centesimi, un chilo di pollo tre euro. Ma un maestro porta a casa uno stipendio equivalente a soli 250 euro. Con l’inflazione al 41 per cento, tirare a campare è complicato.

È difficile prevedere quale esito possano avere le proteste in corso. La macchina repressiva funziona molto bene, purtroppo. La variabile è rappresentata dai pasdaran, ovvero dalle Guardie rivoluzionarie istituite dall’ayatollah Khomeini all’indomani della rivoluzione del 1979. Fedeli alla sua ideologia, sono loro a controllare l’economia e a reprimere il dissenso. Tenuto conto che in questi quarantatré anni il clero sciita non è stato in grado (o forse non ha voluto) di far crescere una nuova generazione di teologi a cui passare il testimone, potrebbero essere loro – i pasdaran – a prendere il potere nel caso in cui i manifestanti riuscissero a scalfire la repubblica degli ayatollah. Si passerebbe così da una repubblica islamica a una repubblica non più a carattere religioso, ma dominata dai militari. Dalla padella alla brace.

Farian Sabahi

L’autrice

  • Farian Sabahi è iranista, islamologa, professore universitario e giornalista professionista. È autrice di numerosi articoli scientifici e saggi pubblicati da editori italiani e internazionali. Questa è la sua prima collaborazione con MC. Sito: www.fariansabahi.com

La guida suprema Ali Khamenei interviene sulle proteste di piazza (12 ottobre 2022). Foto Iranian leader Press office – AFP.


Repressione, esecuzioni, resistenza

La teocrazia impicca (ma barcolla)

Mohsen Shekari è stato impiccato l’8 dicembre, accusato di moharebeh («avversione verso Dio»). Aveva attaccato un basij (miliziano volontario) in una manifestazione del 25 settembre. Il 12 dicembre è toccato a Majidreza Rahnavard, giustiziato dopo soli 23 giorni dal suo arresto. Risulta difficile scegliere gli aggettivi più adatti per definire il comportamento dei teocrati islamisti che tengono in ostaggio l’Iran e il suo popolo. Mentre scriviamo, i morti di queste proteste che vorrebbero diventare rivoluzione sono 458 (compresi 60 bambini e 29 donne, al 12 dicembre, secondo il sito di Iran human rights), con migliaia di persone arrestate in un crescendo di tensioni.

Durante i mondiali di calcio del Qatar, la protesta dei calciatori della squadra iraniana è durata lo spazio della prima partita. Nelle due successive, anch’essi si sono dovuti adeguare alle pressioni e minacce del regime, cantando (sussurrando) l’inno nazionale, anche su spinta dell’allenatore, il portoghese Carlos Queiroz, accusato di essere al servizio del regime dal sito Iran wire.

A inizio dicembre, poco dopo la demolizione della casa di Elnaz Rekabi (la climber che, in Corea del Sud, aveva osato gareggiare senza hijab), è stata fatta circolare la notizia della soppressione del corpo della «polizia morale», prima responsabile della morte di Masha Amini. Negli stessi giorni, nonostante repressione, vendette e condanne a morte per impiccagione, è stato proclamato uno sciopero generale che, nelle città, ha avuto adesioni altissime. Il governo islamista è in difficoltà internamente e isolato a livello internazionale.

Lo scorso 19 luglio, il leader supremo, l’ayatollah Ali Kamenei, aveva incontrato a Teheran Vladimir Putin per esprimere il proprio appoggio alla Russia contro «l’aggressione della Nato». Peraltro, nonostante le smentite, è assodato che l’Iran fornisca a Mosca droni da combattimento per sostenere la sua guerra contro l’Ucraina.

A dispetto di tutto questo e delle sanzioni imposte al paese, con l’Iran la diplomazia internazionale rimane cauta per due ragioni di banale real politik: le immense risorse petrolifere del paese e l’incertezza rispetto al suo arsenale nucleare. Nel frattempo, tocca soprattutto alle donne iraniane combattere a volto scoperto e mani nude contro gli uomini del regime teocratico.

Paolo Moiola

Una camionetta della famigerata polizia morale (Gasht-e Ershad), che ha arrestato anche la giovane Masha Amini. Foto dal web.




ESwatini. Un paese in guerra con se stesso?

ESwatini. Un paese in guerra con se stesso?

Dopo i disordini del 2021, gli insistenti appelli al dialogo lanciati da tutte le Chiese del paese sembravano aver aperto vie di speranza. In realtà, nuovi episodi di violenza ai primi di ottobre 2022, segnalano una situazione che sta degenerando, come scrive il vescovo in questo testo indirizzato alla sua gente, ma anche a tutti noi.

Alcuni di noi non hanno mai dimenticato la violenza sperimentata in eSwatini nel giugno 2021@. Nel mio caso perché non ero riuscito a raggiungere casa a Manzini dopo un incontro a Mbabane con il primo ministro in carica. I blocchi istituiti lungo la strada dai giovani mi avevano costretto a cercare un posto alternativo dove dormire. Avevamo trascorso quella notte ascoltando una sparatoria nelle vicinanze. La mattina seguente ci eravamo svegliati trovando pneumatici e veicoli bruciati e pietre sulla strada.

Le domande naturali che ci poniamo sono: a che punto siamo, un anno e mezzo dopo? Che cosa è stato fatto da allora?

Alcuni, probabilmente, speravano che fosse business as usual, tutto come prima, ma gli eventi degli ultimi mesi devono essere stati un brusco risveglio per loro.

Un dialogo nazionale

Sembra esserci un accordo comune sulla necessità di un dialogo nazionale. Credo che ogni voce che ha parlato dal giugno 2021 (il governo, le organizzazioni politiche, le Chiese, le Ong) abbia ripetuto lo stesso appello.

Molti, se non tutti, hanno anche sottolineato la necessità di avere «un dialogo sul dialogo». Ricordo che mons. Sithembele Sipuka (presidente della Sacbc – Southern african catholic bishops’ conference) ne ha parlato durante una conferenza stampa al termine della visita di solidarietà a eSwatini. Questo «dialogo sul dialogo» dovrebbe aiutare tutte le parti coinvolte a mettersi d’accordo su cosa si intende per dialogo e su come dovrebbe svolgersi.

Purtroppo, a parte la richiesta di un dialogo nazionale, non pare essere successo molto di più. Sembra che si senta parlare più del «no» («nessun dialogo in mezzo alla violenza») che del «sì» (una via da seguire). Non si dice nulla sulle misure adottate nell’ultimo anno e mezzo per attuarlo. Abbiamo sentito che il denaro per un dialogo nazionale è stato stanziato, ma non abbiamo mai saputo se sia mai stato usato e come.

Il fatto che i membri del parlamento abbiano chiesto al primo ministro di parlarne con Sua maestà Mswati III rafforza l’impressione che non sia stato fatto nulla.

Questo crea, almeno in me, la preoccupazione che la parola dialogo stia lentamente (o rapidamente?) perdendo ogni significato. Diventa più uno slogan che una realtà concreta.

Nel frattempo, probabilmente si è sviluppato un circolo vizioso. La violenza è giustificata dalla mancanza di passi concreti verso il dialogo, e il dialogo non ha luogo a causa della violenza che non si ferma nel paese.

Chi avrà il coraggio di romperlo?

Visita di solidarietà di FOCCISA (the Council of Churches for Southern Africa), foto davanti alla cattedrale di Manzini

Il paese sta cambiando

L’ultimo mese (ottobre 2022, ndr) ha visto chiaramente un aumento della violenza (che è sempre stata presente a livelli più bassi). È una nuova realtà per questo paese che si è sempre vantato di essere presentato come pacifico. È interessante notare che la popolazione sembra aver accettato che la violenza sia ormai diventata parte della nostra vita ordinaria. Come ho detto nella mia dichiarazione (del 19/10/2022)@, è molto probabile che la violenza aumenterà e continueremo tutti ad adattarci ad essa.

Giovedì 10 novembre la violenza ha colpito parti di Manzini. Mentre stavo lasciando la città per Mbabane, ho potuto vedere il fumo provenire dalla zona in cui erano stati dati alle fiamme il posto di polizia presso la stazione dei Satellite Bus e altri negozi. Tornato a Manzini ho visto che l’esercito era stato schierato. Vedere l’esercito e non la polizia è stata la prima cosa che mi ha sorpreso. La seconda sorpresa è stata di vederli con il volto coperto, un’indicazione della loro paura di essere identificati dai violenti e di esporsi al richio di essere uccisi in seguito o di avere le loro case date alle fiamme.

Chi avrebbe mai pensato che eSwatini potesse cambiare così rapidamente? Chi avrebbe mai pensato che questo (che vediamo in altri paesi in Tv) potesse accadere tra di noi?

Anche le nostre relazioni ne sono influenzate. Visto che quel giorno non c’erano mezzi pubblici a Manzini, la gente cercava buoni samaritani disposti a dare un passaggio. Qualcuno ha deciso che non doveva essere così, e le persone soccorse sono state costrette a scendere dai veicoli e a camminare, mentre ad altri è stato impedito di aiutare chiunque. Anche questa è violenza, quando alcuni decidono per gli altri.

Vandalismi e distruzione nella biblioteca di una scuola, Aprile 2022

La violenza

La paura è un altro elemento che sembra essere diventato parte della nostra vita quotidiana.

Dopo gli eventi dello scorso anno, ricordo che alcuni cattolici che conoscevo bene mi informavano della presenza di membri dell’esercito che «visitavano» le case di notte. Nulla era stato detto sui media al riguardo. Doveva essere un coprifuoco in cui tutti noi dovevamo rimanere a casa.

Non molto tempo fa, tornando a casa dopo la cena a casa di un prete, ho trovato un posto di blocco fatto dai membri dell’esercito. Erano pesantemente armati. Non ero a conoscenza di blocchi stradali che si svolgevano da parte dell’esercito di notte. Siamo riusciti a scherzare mentre volevano sapere perché ero in viaggio di notte. Non è stato annunciato alcun coprifuoco, ma sembra che dobbiamo giustificare il motivo per cui viaggiamo di sera.

Un nuovo tipo di paura è diventato parte della nostra vita. Proviene dalle Swaziland Solidarity Forces (Ssf). Esse rivendicano gli attacchi incendiari e le uccisioni. Minacciano di uccidere o incendiare le proprietà di coloro che non fanno ciò che viene loro detto. Non so se qualcuno sa chi siano e chi li sta finanziando. Queste domande – per quanto importanti – sono difficili da porre.

Stiamo progettando di costruire il nostro futuro sulla paura e su più violenza? Qualunque cosa seminiamo è ciò che abbiamo intenzione di raccogliere in seguito. Poiché la paura e la violenza sono attribuite al governo, stiamo progettando di sostituirle con la paura e la violenza di qualcun altro?

I media

Da un giornale locale di eSwatini

Quello dei mezzi di comunicazione è un altro settore in cui abbiamo assistito a cambiamenti. Ero solito dire in passato che si poteva trovare poco su eSwatini sui social media. C’era una sorta di autocensura in molti: «È meglio non parlare». Non è più così da giugno 2021. Molto di più può essere letto sui social media e sulle pagine web. La sfida è essere critici nei confronti di ciò che si legge. L’informazione è difficilmente «indipendente» e «imparziale», come proclamano i media.

Tutti noi dobbiamo interrogarci su ciò che viene e che non viene detto. Si può sottolineare che i media statali limitano ciò che viene riportato sulla violenza che ha luogo, ma la stessa cosa potrebbe essere detta di coloro che scelgono di non riportare nulla di positivo su quanto fatto dal governo perché potrebbe non piacere loro. Sembra importante dipingere l’altro come il nemico che deve essere affrontato.

Entrambe le parti dicono cose sui social media che non sono state provate e che l’altra parte nega che siano vere: «I mercenari sono entrati nel paese» e «ci sono stranieri tra i soldati del nostro esercito», sono due esempi familiari.

Violenza e media vanno insieme. L’informazione può essere usata come arma per instillare rabbia e paura. Anche qui bisogna chiedersi: chi paga per questo? A volte su Twitter è possibile trovare gli stessi post su profili di persone diverse che molto probabilmente non esistono. Tutto è impostato con un unico obiettivo: sostenere una parte o l’altra e influenzare il modo in cui le persone leggono la situazione.

In questi giorni è interessante vedere la mancanza di informazioni su eSwatini da fuori dei nostri confini. I media, che in passato parlavano così tanto dei nostri disordini, ora tacciono. Sembra che non ci sia alcun interesse per ciò che sta accadendo qui. Forse la nostra violenza non è abbastanza forte da renderla degna di essere denunciata.

Tentazioni

  • In mezzo a tutto questo, si possono individuare una serie di tentazioni che colpiscono ogni parte in causa:
  • «Questo passerà, le cose torneranno alla “normalità”. Tutto questo è solo il lavoro di pochi facinorosi».
  • «Non ci sarà corruzione una volta che avremo un sistema democratico».
  • «Possiamo distruggere il paese ora, lo ricostruiremo più tardi sotto un nuovo sistema politico».
  • La democrazia risolverà tutti i nostri problemi… in una notte.
  • Il pensare che chiunque può decidere per l’intera nazione.
  • Il pensare che combattere la violenza con la violenza le metterà fine.
  • Il pensare che la violenza di genere sia sbagliata ma la violenza politica sia giustificata.

Ignorare che:

  • eSwatini è una delle società più diseguali del mondo@;
  • nel paese manca formazione politica;
  • un futuro costruito sulla violenza innescherà solo altra violenza una volta che la popolazione sarà di nuovo infelice;
  • i nostri giovani provano rabbia, paura, frustrazione (ma non solo);
  • il 60/70% dei nostri giovani è disoccupato e potrebbe sentire di non avere nulla da perdere;
  • la maggior parte dei nostri giovani non ha mai fatto parte del processo che ha portato alla Costituzione del 2005 e potrebbe non identificarsi con essa.

È necessario inoltre:

  • Non ignorare quanto sia grande la necessità di un processo di guarigione già oggi a causa dei disordini dello scorso anno e quanto la violenza dividerà questa piccola nazione (famiglie e comunità) in futuro.
  • Non sentirsi superiori ad altri paesi senza imparare dalla loro esperienza di violenza e dai loro processi democratici.

Cattedrale di Manzini, preghiera per le vittime della violenza

Le chiese

Eswatini (già Swaziland) è conosciuto come un paese cristiano. Il numero di chiese, gruppi, profeti, pastori, apostoli e altri è molto grande. Ogni anno Sua maestà chiede un servizio di preghiera di ringraziamento a palazzo. Nonostante tutto questo, non riesco proprio a ricordare un momento in cui qualcuno di questi predicatori abbia mai aperto gli occhi della nazione sul fatto che questo tipo di disordini (che non erano mai stati visti prima) si sarebbero verificati. Tutti hanno rassicurato che tutto andava bene o sarebbe andato bene.

Tre sono i gruppi cristiani più conosciuti nel Regno, ciascuno dei quali riunisce un certo numero di chiese cristiane.Tra di essi c’è il Csc – Consiglio delle chiese dello Swaziland (di cui siamo padri e madri fondatori) che è il più piccolo (solo 13 Chiese). La cosa positiva è che la leadership di questi organismi fa del suo meglio per tenersi in contatto. La sfida consiste nel trovare un terreno comune su come affrontare la situazione. Ciò potrebbe essere dovuto a ragioni storiche e ai diversi modi in cui leggiamo la Bibbia.

Il Csc è stato il più visibile: ha rilasciato dichiarazioni, ha incontrato ogni possibile attore (governo, partiti politici, gruppi tradizionali …), ha coordinato visite di solidarietà nel paese, ha sostenuto le persone in prigione, ha fornito pacchi alimentari alle famiglie di coloro che sono morti durante i disordini.

La Chiesa cattolica, da sola, è stata attiva anche in diversi modi: ha rilasciato dichiarazioni, incontrato le parti interessate, riunito alcuni cattolici per riflettere sulla situazione e sul contributo che possiamo dare alla costruzione della pace, sostenuto le vittime della violenza, fornito pacchi di cibo, offerto consulenza, creato club per la pace nelle scuole superiori, dedicato giorni o settimane speciali di preghiera per la pace, aperto spazi per il dialogo locale, condiviso brevi dichiarazioni sui social media sull’importanza della nonviolenza.

Qualche settimana fa (in ottobre 2022, ndr) la polizia ha chiesto di utilizzare la nostra cattedrale per un incontro di preghiera. La violenza che l’ha colpita ha innescato direttamente questo bisogno di riunirsi per pregare. Abbiamo acconsentito. L’avevamo aperta in passato alle vittime di violenza da parte delle forze di sicurezza. Tutti abbiamo bisogno della guarigione e della guida di Dio.

Non ho potuto evitare di ricordare che nel febbraio 2013 (se la memoria non mi inganna), la polizia aveva fatto irruzione nella stessa cattedrale per fermare un incontro di preghiera per la pace nello Swaziland accusando gli organizzatori di mascherare un raduno per disturbare le elezioni nazionali dietro un incontro di preghiera.

Quello che stiamo facendo è una goccia nell’oceano. Sono necessarie molte più gocce. C’è sempre una sfida tra i cattolici (forse i cristiani in generale) su chi abbia la responsabilità di affrontare i disordini. Come dico sempre scherzosamente: «Quando la gente dice “la Chiesa è tranquilla”, quello che intende è che “il vescovo è tranquillo”, come se gli altri avessero il diritto di stare tranquilli».

Come ho scritto sui social media non molto tempo fa: «Il nostro paese è come una persona malata, che cura il dolore, ma non ciò che lo sta causando».

+ José Luis Ponce de León
vescovo di Manzini

Il vescovo José Luis visita una scuola vicino ai confini con il Mozambico per incoraggiare gli insegnati dopo le violenze, danni e incendi subitie dalla scuola.




Da «Propaganda» a «Evangelizzazione»


Sotto il titolo «Euntes in mundum universum» (andate in tutto il mondo), si è svolto, dal 16 al 18 novembre 2022, presso la Pontificia università Urbaniana, il Convegno internazionale di studi per celebrare il IV centenario della «Sacra congregatio de Propaganda Fide» (22 giugno 1622-2022).

Nata nel XVII secolo in pieno contesto coloniale, Propaganda Fide (lett. «propagazione della fede», ndr) ha posto al centro della Chiesa l’azione missionaria che ha portato al rifiuto della colonizzazione e del razzismo ad essa correlato, e ha scelto il rispetto delle culture e delle lingue di tutti i popoli.
È stato un percorso segnato inizialmente dalla missione in stile coloniale, per giungere a quella interculturale. Un percorso che è passato dal conflitto e scontro al dialogo nell’incontro con le diverse culture del mondo.

Tutti i relatori del convegno, provenienti da nove nazioni dei cinque continenti, nelle cinque sessioni di lavoro hanno sottolineato l’importanza di «Propaganda Fide» e della sua missione evangelizzatrice nella Chiesa.

Collegio urbano di Propaganda Fide vicino all’Università Urbaniana a Roma – AfMC/Gigi Anataloni

Da «Propaganda Fide» al «Dicasterium pro Evangelizatione»

L’anniversario della bolla Inscrutabili Divinae con cui il papa Gregorio XV il 22/06/1622 istituì la «Sacra congregatio de Propaganda Fide» ha coinciso con la promulgazione della Costituzione apostolica «Praedicate Evangelium», con cui papa Francesco ha conferito una struttura più missionaria alla Curia perché sia sempre meglio al servizio delle Chiese particolari e dell’evangelizzazione. Con questo documento il papa ha, inoltre, unito la secolare e conosciuta «Propaganda Fide» con il pontificio «Consiglio per la nuova evangelizzazione» creando il nuovo «Dicasterium pro evangelizzazione».

Giovanni Battista Cavalieri Pontificum Romanorum effigies Roma: Domenico Basa : Francesco Zanetti 1580

L’anniversario ricorda quattro secoli segnati non solo dal passaggio della missione da uno stile coloniale a uno interculturale, ma anche dal passaggio dalla propagazione della fede all’evangelizzazione, come ha sottolineato padre Bernard Ardura, presidente del Pontificio comitato di scienze storiche.

Dopo il concilio di Trento (1545-1563), la necessità di unire e centralizzare l’organizzazione dell’attività missionaria nel mondo aveva mosso papa Gregorio XV a fondare Propaganda Fide. Occorreva dare maggiore impulso a un’azione più unitaria e concertata in un contesto segnato dalla colonizzazione e dal sistema del «patrocinio» (per il quale l’evangelizzazione era affidata a uno stato, come Portogallo o Spagna, ndr) che non rispondeva più ai bisogni del tempo. L’intenzione era quella d’impegnarsi affinché: «L’evangelizzazione non fosse condizionata dalle grandi potenze del momento o da particolarismi religiosi» (prof. Pizzorusso, Università degli studi G. D’Annunzio, Chieti, Pescara).

«Propaganda Fide nasce dunque per coordinare le forze, per dare direttive alle missioni, promuovere la formazione del clero e delle gerarchie locali, per incoraggiare la fondazione di nuovi istituti missionari e, infine, per provvedere agli aiuti materiali per le attività missionarie». Inoltre, non certo per ultimo, avrebbe avuto la responsabilità della diffusione della fede cattolica in America, Africa e Asia.

Con la costituzione apostolica Regimini ecclesiae universae, del 15 agosto 1967, san Paolo VI ha confermato la competenza generale del dicastero missionario come organo centrale della Chiesa, e nel contempo ne ha cambiato il nome in «Congregatio pro gentium evangelizatione seu de Propaganda Fide» (Congregazione per l’evangelizzazione delle genti o di Propaganda Fide, ndr). Paolo VI aveva ben capito che il nome «Propaganda» non era più adeguato: la missione della Chiesa non è «la propagazione della fede», ma «l’evangelizzazione dei popoli». Il passaggio è dalla propaganda al servizio, dall’imposizione al dono gratuito, dall’obbligo alla libertà.

Papa Francesco, con la costituzione apostolica Praedicate Evangelium del 19 marzo 2022, ha istituito il «Dicastero per l’evangelizzazione», presieduto direttamente dal pontefice, composto dalla sezione per le questioni fondamentali dell’evangelizzazione nel mondo e dalla sezione per la prima evangelizzazione e le nuove chiese particolari. La prima sezione raccoglie l’eredità di Propaganda Fide, dalla seconda dipendono alcune circoscrizioni ecclesiastiche delle Americhe, quelle di quasi tutta l’Africa, dell’Asia (ad eccezione delle Filippine) e dell’Oceania (ad eccezione dell’Australia). Attualmente ci sono 1.117 circoscrizioni ecclesiastiche (arcidiocesi, diocesi, vicariati apostolici, prefetture apostoliche, ecc.) sotto la competenza del dicastero missionario, con l’obiettivo di ritrovarsi come unità.

Padre Ardura ha sottolineato che la Praedicate Evangelium mette in luce un aspetto preciso: l’impegno per una nuova evangelizzazione nei territori dove è arrivato storicamente l’annuncio, ma dove non ci sono più, nelle nuove generazioni, evidenze di cristianizzazione.

Quattro secoli di missione nel mondo

Gli studiosi intervenuti hanno cercato di rispondere alla seguente domanda: «Qual è stato l’impatto di Propaganda Fide nei cinque continenti in questi 400 anni di esistenza e di missione evangelizzatrice, e quali sono state le figure della Congregazione che hanno marcato questi quattro secoli?».

Si è trattato di offrire «una rilettura storica delle origini istituzionali di Propaganda Fide, ponendo in rilievo le istanze dei pontefici tra il XVI e il XVII secolo, soffermandosi su alcune rilevanti figure di prefetti (il capo di una congregazione è chiamato «prefetto», ndr) tra il Settecento e il Novecento, per poi porre in evidenza la feconda apertura del cattolicesimo a una dimensione universale, che in Propaganda Fide ravvisa al contempo un testimone privilegiato e un pionieristico attore».
In sintesi, come ha posto in rilievo il cardinale Luis Antonio Tagle, nel discorso inaugurale, l’obiettivo del convegno è stato quello di capire il passato e il presente attraverso le testimonianze di prima mano.

Cardinal Luis Antonio Tagle di Manila con il 13° capitolo generale IMC nel 2017 – AfMC/Gigi Anataloni

Gli elementi qualificanti

La professoressa Françoise Fauconnet-Buzelin ha messo in evidenza la grande importanza che ebbero «Les instructions de la S. Congregatio de Propaganda Fide», documento redatto nel 1659 che può essere definito la «magna carta» delle missioni moderne, perché condensa le linee essenziali della strategia missionaria: la proibizione ai missionari di intervenire nella vita politica e di partecipare ad attività commerciali, la necessità di fornire agli stessi una preparazione scientifica e spirituale, la creazione di un clero indigeno e l’adattamento alle culture native.

1. impegno culturale e scientifico

Pietro_da_Cortona_-_Pritratto di Urban_VIII_(ca._1624-1627)

Urbano VIII, con la bolla Immortalis Dei Filius del 1° agosto 1627 fondò il «Pontificio ateneo de Propaganda Fide», con le facoltà di Filosofia e Teologia per la formazione di base dei missionari. Il 1° settembre 1933 la Congregazione dei seminari e delle università degli studi creò il «Pontificio istituto missionario scientifico», per offrire un’ulteriore specializazzione garantita da gradi accademici nelle discipline missiologiche e giuridiche. L’università ha sede sul Gianicolo, a due passi dal Vaticano, e ospita le facoltà di Teologia, Filosofia, Diritto Canonico e Missiologia (per missionari e sacerdoti di tutte le parti del mondo) e, dal 1976, anche l’Istituto di catechesi missionaria. L’Università oggi è frequentata da circa 2mila studenti, con un corpo docente di circa 170 professori. Uno dei suoi gioielli è la Biblioteca missionaria che contiene circa 350mila volumi, e dal 1933, ogni anno, pubblica un’apprezzata «Bibliografia missionaria» che cataloga tutte le pubblicazioni sul tema a livello mondiale.

2. un collegio per la formazione

Gli stessi motivi apostolici che ispirarono l’istituzione di «De Propaganda Fide» furono all’origine dell’erezione del «Pontificio collegio de Propaganda Fide», conosciuto come Collegio Urbano, nel 1627. L’obiettivo era chiaro sin dall’inizio, ha sottolineato il padre Leonardo Sileo, rettore della Pontificia Università Urbaniana: essere una residenza per accogliere e formare al sacerdozio e alla missione giovani provenienti dai vari continenti e da differenti riti cristiani (in specie quelli orientali) con una speciale attenzione alla conoscenza e allo studio delle lingue e delle culture del mondo.

A partire da questa esperienza, Propaganda Fide ha fondato dei collegi per la formazione del clero locale anche nelle «terre di missione». Tale il caso del Collegio di Zacatecas, in Messico, che ha cominciato a funzionare nel 1707.

Propaganda Fide ha poi portato migliaia di giovani a Roma da paesi lontani per sostenere la loro formazione, senza stravolgere le culture d’origine, e farli tornare alle comunità di provenienza. Questo può essere considerato anche uno straordinario esperimento, «un contributo alla comprensione reciproca e al rispetto tra popoli e culture», iniziato secoli prima degli scambi e dei programmi «Erasmus» attivati dalle moderne istituzioni accademiche e universitarie.

3. Incontrare altri popoli e culture

Nei secoli in cui il colonialismo europeo invadeva il mondo ed esportava ovunque l’idea di superiorità dell’Europa, Propaganda Fide seguiva la strada opposta. «Non la superiorità di qualcuno – bianco, europeo e occidentale -, ma l’uguaglianza e la pari dignità di tutti», come ha detto il professor Giampaolo
Romanato del «Pontificio comitato di scienze storiche». Di questo approccio ha dato testimonianza anche il principio sempre affermato che il missionario «deve imparare la lingua locale, per quanto difficile e lontana essa sia». Perché «parlare la lingua dell’interlocutore è la via maestra affinché egli si senta trattato alla pari», e non debba sentirsi ridotto a una condizione di sudditanza.

Propaganda Fide è la prima istituzione «globale», in essa i flussi di scambio informativo che da secoli vi si attivano sono finalizzati non a gestire la «politica alta», ma ad affrontare l’esistenza quotidiana di persone e comunità.

4. Unità di dottrina, fede e liturgia

Nell’incontro con l’altro, Propaganda Fide si confrontava con la diversità delle culture, delle forme politiche, delle civiltà, delle lingue, in un tempo in cui le distanze e i pericoli nei viaggi rendevano precario lo scambio delle informazioni. Nello stesso tempo doveva promuovere l’unità cattolica di dottrina, fede, liturgia. Come ha ricordato il professor Burigana, nel parlare di «Propaganda Fide e il mondo della riforma», i missionari arrivati in Estremo Oriente, oppure nelle regioni americane più impervie come le Ande o l’Amazzonia, avvicinavano popolazioni «radicalmente diverse, con forme di civiltà e lingue a loro sconosciute». I quesiti che si ponevano rendevano evidente che «la verità del cattolicesimo romano era chiamata a confrontarsi con queste radicali diversità. Bisognava trovare soluzioni in grado di conciliare l’unità della stessa fede, e della teologia che la esprimeva, con la diversità delle lingue, e la molteplicità delle sensibilità». Salvare l’unità abbracciando la molteplicità fu il compito spesso gravoso affidato a Propaganda Fide, chiamata sempre a esercitare una grande disponibilità all’adattamento e a trovare soluzioni nuove per situazioni non previste, e neppure prevedibili, in Europa.

Un lavoro enorme che «incise anche sul Diritto canonico», con l’emergere di una specifica sezione dedicata al «Diritto missionario» che «divenne una sorta di regno dell’eccezione e della tolleranza rispetto alla normativa vigente nella Chiesa latina», ha continuato il professor Romanato.

Maggio 2022. Una delegazione dalla Mongolia incontra papa Francesco – foto Osservatore Romano

Tipografia poliglotta

L’utilizzo della stampa fu deciso nella Congregazione (assemblea, ndr) generale di Propaganda Fide tenutasi il 3 giugno 1626. Il cardinale Francesco
Ingoli, uomo di cultura e di riconosciute competenze linguistiche, era fortemente convinto che il neonato dicastero dovesse provvedere, tra i suoi compiti principali, alla stampa di libri nelle diverse lingue che fossero utili ai missionari, i quali avevano bisogno di testi della Sacra Scrittura e della Dottrina cattolica che fossero redatti nella lingua dei popoli a quali erano stati mandati. Si pubblicavano così documentazioni che davano un quadro completo dell’attività missionaria della Chiesa cattolica a metà del XVII secolo, sia per far conoscere ai missionari sparsi nel mondo quanto veniva fatto a Roma, sia per rendere partecipe Roma, e la Chiesa in generale, di quanto facevano i missionari.

La controversia dei riti in Asia

Padre Matteo Ricci

Il tema della controversia dei riti in Asia è stato affrontato dal professor Benedict Kanakappally. L’introduzione del cristianesimo in Asia a fine Cinquecento vide due modelli di evangelizzazione. Da una parte quello dei missionari (uno dei più noti è padre Matteo Ricci, di cui nel 2022 si è aperta la causa di beatificazione, ndr)) che ritenevano che il cristianesimo dovesse inculturasi e accettare espressioni linguistiche e riti (come certe manifestazioni del culto dei morti) delle culture locali, ad esempio in Cina (riti cinesi) e in India (riti malabarici). Dall’altra, quello di chi sosteneva con forza che i nuovi cristiani dovessero abbandonare tutte le tradizioni locali per abbracciare solo il modello cattolico che valeva per tutto il mondo. Questi ultimi consideravano la pratica dei riti cinesi e malabaresi una «superstizione» incompatibile con la dottrina cattolica.

I missionari avevano affrontato il problema dell’adattamento a civiltà lontane e cercato di mediare fra la propria cultura e quella locale, soprattutto in Giappone, Cina e India; tuttavia, vi fu la condanna dei riti cinesi (la prima nel 1645), poi di quelli malabaresi.

Nel 1659 Propaganda Fide inviava ai Vicari apostolici della Cocincina, del Tonchino e della Cina, un’istruzione in cui si leggeva tra l’altro: «Cosa potrebbe essere più assurdo che trasferire in Cina la civiltà e gli usi della Francia, della Spagna, dell’Italia o di un’altra parte d’Europa? Non importate tutto questo, ma la fede che non respinge e non lede gli usi e le tradizioni di nessun popolo, purché non siano immorali, ma vuole piuttosto salvaguardarli e consolidarli». Propaganda Fide fu, dunque, esempio di integrazione religiosa.

La questione delle lingue

Un altro contributo di Propaganda Fide fu dato alla questione dello studio delle lingue che ha sempre cercato di diffondere tra i missionari sia che fossero essi religiosi o diocesani. Nel processo di evangelizzazione è indispensabile «la conoscenza degli idiomi delle varie parti del mondo nello sforzo di comunicare con le varie popolazioni allo scopo di ottenerne la conversione oppure di mantenerle nella fede cristiana, potendo in tal modo istruirle adeguatamente nei principi dottrinali e nella pratica di un comportamento canonicamente corretto».

Domande aperte

Il professor Romanato nel discorso conclusivo ha affermato: «C’è un punto mai smentito nella “politica missionaria” di Propaganda Fide: la pari dignità di ogni cultura, l’obbligo di usare le lingue locali e di non imporre la propria. La necessità di portare nel mondo la fede e non la cultura occidentale». Questi tratti, come si è visto durante il Convegno, hanno segnato la vicenda storica della Sacra congregazione «de Propaganda Fide» fin dalla sua istituzione.

Propaganda Fide ha avuto un suo percorso nei suoi quattro secoli di vita, ma oggi vede aprirsi davanti a sé nuove sfide.

Bisognerà, dunque, rispondere alle domande poste inizialmente dal cardinale Luis Antonio Tagle, attuale prefetto del nuovo Dicastero per l’evangelizzazione, e che propongo come domande conclusive sulle quali meditare: «Chi racconterà la storia di Gesù? Quali parole e quali strade si troveranno per raccontarla nei nuovi mondi contemporanei segnati dall’intelligenza artificiale e digitale, dall’estremismo polarizzante, dall’indifferenza religiosa, dall’immigrazione forzata, dai disastri climatici?».

Afonso Osorio Citora*

* Missionario della Consolata mozambicano, lavora al servizio del Dicastero per l’evangelizzazione.

 


«Euntes in mundum universum»

Dal 16 al 18 novembre 2022 si è svolto, presso l’aula magna «Benedetto XVI» della Pontificia università Urbaniana, sul Gianicolo a Roma, il Convegno internazionale: «Euntes in mundum universum» per celebrare il IV centenario dell’istituzione della «Sacra congregatio de Propaganda Fide» (1622-2022). Ogni giorno c’erano più di 500 partecipanti tra professori, studiosi e studenti. I relatori sono stati 24 provenienti da nove nazioni dei cinque continenti e hanno sottolineato l’importanza di «Propaganda Fide», cercando di rispondere alla domanda: «Qual è stato l’impatto di Propaganda Fide nei cinque continenti in 400 anni di esistenza e di missione evangelizzatrice e quali sono state le figure della Congregazione che hanno marcato questi quattro secoli?».

Il Convegno è stato diviso in 5 sessioni sui seguenti temi:

  1. la Congregazione de Propaganda Fide: evangelizzazione e missione;
  2. figure chiave e configurazione istituzionale;
  3. al servizio della fede e dei popoli in tutti i continenti;
  4. dal conflitto al dialogo;
  5. l’incontro con le culture.

Af.Os.Ci.

Tythu, Kenya 1905 ca. formazione die primi catechisti kikuyu. – AfMC / Filippo Perlo




Xi Jinping piglia tutto

Novità e conferme dal XX Congresso del Partito comunista cinese

A ottobre si è celebrato il ventesimo Congresso del Pcc che ha consacrato Xi Jinping alla guida del partito e del paese per un terzo mandato. È la prima volta dai tempi di Mao. Sicurezza e sviluppo sul lungo termine sono le priorità. E Xi fa modificare lo statuto del partito inserendo i «suoi» principi.

Ciascuna delle città scelte da Xi Jinping per la prima visita dopo aver ricevuto ognuno dei suoi tre mandati, ha un significato simbolico. Shenzen nel 2012, emblema del miracolo economico cinese. Shanghai nel 2017, luogo di fondazione del Partito comunista cinese ma anche principale porta d’accesso della Cina continentale al mondo. Yan’an nel 2022, destinazione finale della «lunga marcia» di Mao Zedong e base del partito comunista cinese dal 1935 al 1948, prima che la guerra civile contro i nazionalisti di Chiang Kai-shek volgesse a favore dei comunisti. Per avere un indizio sulla direzione del terzo mandato di Xi Jinping bisogna partire da quello che è successo subito dopo il XX Congresso del partito, cioè dalla città scelta per la sua prima visita ufficiale. Un netto cambio rispetto alle scelte operate dopo il XVIII e il XIX Congresso. Il trionfo di Xi va ben al di là della sua scontata conferma: il presidente ha ottenuto una squadra a sua immagine e somiglianza, nonché emendamenti allo statuto del partito che elevano ulteriormente il suo status. Questo ha peraltro messo fine a una serie di prassi e regole non scritte che avevano sempre sorretto il funzionamento delle nomine e della selezione delle cariche apicali. Rendendo manifesto che Xi non solo controlla il partito: Xi ormai è il partito.

Hu Jintao

L’immagine che resterà nella mente di tutti come avvio del terzo mandato di Xi è quella di Hu Jintao, il predecessore, che viene scortato fuori dall’aula durante l’ultima sessione del Congresso. Un episodio controverso sul quale non sapremo mai tutta la verità. Forse esagerato parlare di purga per la dinamica e le circostanze, certamente, però, è riduttivo ascrivere tutto a un semplice «problema di salute», visto che l’anziano leader (il quale pare soffra di una forma di demenza senile) non sembrava d’accordo a lasciare il suo posto. Ma la vera «epurazione» è arrivata lontano dalle telecamere, ed è stata quella di Hu Chunhua. Per lungo tempo considerato un astro nascente della politica cinese, membro della Lega della gioventù comunista, feudo proprio di Hu Jintao, è stato escluso non solo dal Comitato permanente di sette membri, ma persino dal Politburo (tradizionalmente 25 membri, ora inusualmente 24, si dice, per un’esclusione dell’ultimo momento).

Attenzione però a pensare che il cambio di passo sia stato qualcosa di improvviso. Il processo di consolidamento del potere di Xi è avvenuto passo dopo passo, non è frutto di una rivoluzione inattesa. Prima le promesse di riforme economiche e il lancio della Belt and road initiative nel 2013 (la nuova via della seta, ndr), poi la rimozione del vincolo dei due mandati nel 2018. Infine, l’ingresso ufficiale nel terzo atto della «nuova era» di Xi senza che nemmeno si intraveda all’orizzonte un possibile erede.

Il 23 ottobre, quando ha calcato di nuovo il tappeto rosso della Grande sala del popolo in testa alla fila dei sette membri del Comitato permanente, il segretario generale non ha solo ufficializzato il suo terzo mandato, ma ha anche allungato le mani (incognite e imprevisti permettendo) sul quarto.

(Photo by Koki Kataoka / Yomiuri / The Yomiuri Shimbun via AFP)

Xi, atto terzo

Ma come sarà il terzo mandato di Xi? Partiamo dall’economia. «Mi aspettavo qualche messaggio un po’ più favorevole alla crescita, ma credo che la preoccupazione di Xi sia soprattutto a lungo termine. Egli punta a una crescita di qualità superiore per la Cina, senza preoccuparsi troppo della traiettoria di crescita a breve termine. Questo è un po’ deludente, perché ci sono molte sfide legate alla crescita nell’immediato», dice Victor Shih Ho Miu Lam, moderatore della San Diego University e autore di diversi libri sul sistema economico e politico cinesi. Una di queste è certamente la strategia «zero Covid». In molti speravano che dopo il congresso le restrizioni si rilassassero. In un’inusuale protesta pochi giorni prima dell’appuntamento politico, a Pechino sono apparsi anche degli striscioni che criticavano direttamente il leader. Altre scritte sono apparse in diverse città cinesi. Ma Xi si è intestato il successo della gestione sanitaria che, nella narrativa di Pechino, rappresenta un segnale della superiorità del suo modello rispetto a quello occidentale, nonché la prova del rispetto dei «diritti umani». Con caratteristiche cinesi, ovviamente. Il mancato ripensamento delle politiche sul Covid è reso evidente anche dalla scelta di Li Qiang come prossimo premier. Capo del partito a Shanghai, è colui che ha gestito il disastroso lockdown dei mesi scorsi. Evento che sembrava averlo tagliato fuori dalla corsa per un ruolo di primo piano, nonostante la dimestichezza in campo amministrativo e la familiarità con i tanti investitori internazionali che popolano Shanghai, e che hanno vissuto, però, con sgomento la recente fase dei restringimenti. «All’interno del partito, Li non è mai stato squalificato, perché ha solo applicato l’approccio alla pandemia voluto da Xi. Di certo, la sua promozione è basata anche e soprattutto sulla lealtà e lo stretto rapporto che ha con Xi», dice Shih.

Tutto rientra nel mantra della «sicurezza», la parola più utilizzata da Xi nella sua relazione politica dopo le classiche «partito», «popolo» e «nazione». Un’ossessione dovuta al fatto che la Cina si sente sotto attacco sul fronte economico. Le ultime mosse di Joe Biden sui semiconduttori, infatti, hanno portato Xi a chiedere un’accelerazione sul fronte dell’autosufficienza tecnologica. Ma ha anche portato a una pioggia di promozioni per una nuova classe di «tecnocrati» con esperienza e formazione tecnologica e scientifica, in particolare nel settore dell’aerospazio. Un cambio di passo rispetto al passato. Se finora la gestione delle nomine era garantita da una serie di legami e rapporti costruiti all’interno di diverse fazioni, ora l’unica fazione rimasta è quella di Xi, e i nuovi «tecnocrati» sono figure con maggiori competenze, ma minori intrecci relazionali.

Con una Cina sotto attacco, il partito sente il bisogno di avere ulteriore controllo sociale, a partire dal fronte interno. «Sviluppo e sicurezza per Xi sono la stessa cosa. C’è bisogno di sviluppo ma anche di molta sicurezza, soprattutto controllata dal partito. Per Xi, anche se la Cina diventasse incredibilmente ricca non avrebbe senso se non fosse controllata dal partito», sostiene Shih. Ed ecco allora la presenza più massiccia dello stato nell’economia, con il settore privato e, in particolare, quello tecnologico «rettificati» per seguire le necessità strategiche della politica e geopolitica cinese.

(Photo by AFP) / China OUT

I principi di Xi

L’inserimento nello statuto del partito di altri due principi utilizzati da Xi negli ultimi anni rinforza il messaggio: con la «prosperità comune» si chiarisce che la ricchezza va redistribuita e che il partito eviterà eccessivi accentramenti di potere e ricchezze private; con la «doppia circolazione», invece, si ribadisce che il focus deve essere quello di stimolare i consumi interni e ridurre la dipendenza dalle esportazioni, e dunque dall’esterno.

È un sistema dove l’unico a mantenere il controllo è il partito, e dunque Xi. Ciò significa che, nero su bianco, Xi è il nucleo del partito. Criticarlo ora significa mettersi automaticamente fuori dal partito.

La stessa necessità di controllo esiste anche sul fronte esterno. «Xi continua a vedere complotti occidentali che cercano di minare la Cina. Per questo al congresso si è concentrato molto sui concetti di lotta e di sicurezza». Se fino a poco tempo fa i leader cinesi parlavano soprattutto di «opportunità strategiche», ora Xi parla di «pericoli» e «acque tempestose» da navigare con ambizione e mano ferma che, evidentemente, possono essere garantire solo un «timoniere» senza distrazioni interne e con una squadra compatta e pronta a combattere senza mettere in discussione la rotta intrapresa.

Oltre lo stretto

Dopo aver risolto la questione di Hong Kong e portato, come detto da Xi, l’ex colonia britannica dal «caos» alla «stabilità», il mirino si sposta al di là dello stretto (di Taiwan, ndr). L’inedito inserimento, nello statuto, dell’opposizione alla «indipendenza di Taiwan» svela che la questione di Taipei sarà una delle priorità del terzo mandato di Xi. Anche sullo stretto, la Cina si percepisce o si racconta come sotto attacco di «interferenze esterne», in particolare quelle americane. Il messaggio arrivato dal Congresso è chiaro: Pechino non arretra sul tema della «riunificazione», che considera legato a doppio filo con quello più vasto del «ringiovanimento nazionale» e della realizzazione di una società «socialista, forte e armoniosa» entro il centenario della Repubblica popolare nel 2049.

«Xi ha voluto segnalare che il tema di Taiwan avrà una priorità maggiore nei prossimi cinque anni e che ritiene urgente fare dei progressi sul percorso di unificazione», spiega Wen Ti-sung, analista dell’Australian national university.

In che modo Xi intende fare progressi? «Probabilmente attraverso l’integrazione economica e il lavoro del fronte unito, piuttosto che tramite l’uso della forza», sostiene Wen. «Xi sta segnalando la minaccia di una crescente internazionalizzazione della questione di Taiwan, che è una delle sempre sfuggenti linee rosse della Repubblica popolare. In termini militari, Pechino raddoppierà gli sforzi e la presenza sullo stretto per negare agli attori stranieri la capacità militare di intervenire in una eventuale contingenza sul posto. Cercherà di limitare la libertà d’azione dell’esercito taiwanese, istituzionalizzando la presenza al di là della linea mediana in modo da intaccare il suo morale, sperando di far capitolare le resistenze», aggiunge.

L’emendamento allo statuto potrebbe rappresentare la base per una nuova misura normativa che allarghi lo spettro dell’attuale legge anti secessione per provare a recidere i rapporti tra mondo imprenditoriale taiwanese e partito di governo in vista delle elezioni presidenziali del 2024, che saranno in sostanza presentate come una scelta tra pace (col più dialogante Kuomintang) o guerra (col Partito progressista democratico che dovrebbe candidare William Lai, figura ben più radicale dell’attuale presidente Tsai Ing-wen).

Nel frattempo, procede spedito l’ammodernamento dell’esercito, e a capo della Commissione militare centrale, presieduta sempre da Xi, sono stati posti generali con grande esperienza «taiwanese». A partire da He Weidong, che ha guidato le esercitazioni militari senza precedenti che hanno fatto seguito alla visita di Nancy Pelosi a Taipei nell’agosto scorso.

Sistemi di deterrenza

Forse la Cina non vuole la guerra, o non la vuole ancora. Ma di certo si sta preparando a combatterla qualora fosse necessario. O qualora sentisse che il tempo non è più dalla sua parte come ha sempre pensato. Non a caso il XX Congresso apre anche a un rafforzamento dell’arsenale nucleare. Xi ha infatti preannunciato «un forte sistema di deterrenza strategica». Secondo il Pentagono, la Cina potrebbe avere circa 700 testate nucleari trasportabili nel 2027 e almeno mille nel 2030.

La dottrina cinese impone di non utilizzare per primi le armi nucleari, ma Pechino vuole rafforzare la sua deterrenza mentre la rivalità con Washington sembra ormai su un piano inclinato. «In fin dei conti – avverte Shih -, la decisione di utilizzare un’opzione militare su Taiwan dipende da una sola persona, Xi Jinping, e la decisione di una sola persona, come stiamo vedendo nel caso della Russia, può essere altamente imprevedibile».

Ecco, al di là delle incognite sul fronte economico, è proprio questa la chiave per capire che cosa potrà succedere nel terzo mandato di Xi. In passato il partito ha sempre ritenuto che il tempo giocasse a suo favore. Se ora cambiasse definitivamente prospettiva, convinto da un’America che ha ormai chiarito definitivamente che considera la Cina il primo rivale strategico nel lungo termine, potrebbe diventare impaziente. E la già tanta confusione sotto il cielo, parafrasando Mao Zedong, potrebbe stavolta non portare a una situazione eccellente.

Lorenzo Lamperti

(Photo by Wang Yuguo / XINHUA / Xinhua via AFP)


Firmato il rinnovo dell’accordo con il Vaticano

L’arte del possibile

La Santa sede rinnova l’accordo con Pechino sulla nomina dei vescovi, facendo un passo avanti nei rapporti bilaterali con il gigante asiatico. Papa Francesco ha a cuore i cattolici cinesi, una minoranza importante.

Poprio nelle ore in cui a Pechino si consumava l’ultimo capitolo del XX Congresso del Partito comunista cinese, nella Città del Vaticano veniva annunciato il rinnovo dell’accordo sulla nomina dei vescovi. Si tratta della seconda conferma del primo accordo biennale firmato nel settembre 2018. Sarà in vigore dunque fino al 2024. La Santa sede ha spiegato che «si impegna a continuare un dialogo rispettoso e costruttivo con la parte cinese per una produttiva attuazione dell’accordo e un ulteriore sviluppo delle relazioni bilaterali, al fine di promuovere la missione della Chiesa cattolica e il bene del popolo cinese». I termini dell’accordo non sono mai stati resi pubblici, creando qualche dubbio tra i critici. Anche perché le segnalazioni di rimozione di croci e chiusure di luoghi di culto sono proseguite negli ultimi anni. Nelle scorse settimane è iniziato il processo a carico di Joseph Zen, l’ex cardinale di Hong Kong che è entrato nel mirino delle autorità ai sensi della legge di sicurezza nazionale e che è sempre stato molto critico sulla distensione dei rapporti tra Vaticano e Pechino.

Il partito comunista cerca d’altronde di «sinizzare» le fedi religiose e farle entrare in armonia con le famose «caratteristiche cinesi», di cui l’unico possibile custode è il partito stesso.

Il cardinale Pietro Parolin ha spiegato che «Papa Francesco, con determinazione e paziente lungimiranza, ha deciso di proseguire su questa strada non nell’illusione di trovare la perfezione nelle regole umane, ma nella concreta speranza di poter assicurare alle comunità cattoliche cinesi, anche in un contesto così complesso, la guida di pastori degni e adatti al compito loro affidato».

Lo scorso luglio, anche il pontefice ha difeso l’accordo: «La diplomazia è l’arte del possibile e del fare le cose perché il possibile diventi realtà», ha detto papa Bergoglio. Ricordando il dialogo mantenuto dal Vaticano con i governi comunisti dell’Europa orientale durante la guerra fredda. D’altronde il Vaticano ha sempre sottolineato l’obiettivo pastorale di un accordo teso a tutelare i fedeli cinesi che sono pochi in proporzione a un paese da circa un miliardo e mezzo di abitanti, ma parecchi come numeri assoluti (si stimano in 16 milioni). E di fronte al rischio di una nuova guerra fredda, o di una terza guerra mondiale frammentata, come paventato già da tempo da papa Francesco, la Santa sede ritiene di dover tenere aperto un canale di dialogo con un paese così grande e così influente come la Repubblica popolare cinese, nonostante intrattenga anche rapporti diplomatici ufficiali con la Repubblica di Cina, cioè Taiwan.

Lorenzo Lamperti


Archivio MC

Taiwan. Vento europeo sullo stretto, Lorenzo Lamperti, luglio 2022.
Cina, Xinjiang. Autonomia made in Pechino (dossier), Piergiorgio Pescali, gennaio 2021.

 

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