SENEGAL: viaggio tra le aspirazioni della gente

CAMARÀ O MARABOUT?
Islam, calcio, telenovelas
e tradizione del Senegal.
Come nasce l’antipatia per l’occidente?
Anche da una rovesciata volante.

Camarà e Marabout: chi sono?
Il primo è l’unico vero idolo
nazionale del Senegal, autore
del goal più importante della storia
dei «leoni» contro la Francia nell’ultima
coppa del mondo.
Se c’è una data che un senegalese
mai dimenticherà, questa è il 2 luglio
2002. A distanza di mesi, l’intero
paese freme ancora dalla gioia per la
vittoria sull’ex colonizzatore. Gli articoli
di giornale si sprecano, cartelloni
megagiganti, piazze commemorative,
ricordi da raccontare ai nipotini,
che accrescono il mito.
Non è da escludere che fra qualche
anno il risultato della partita sarà
lievitato dal reale uno a zero a un più
leggendario cinque a uno, gol della
bandiera generosamente concesso ai
francesi.
Il secondo, il marabout, un marabout
qualsiasi, è una figura tipicamente
maliana e senegalese dell’islam:
capo della scuola coranica della
città o villaggio, mezzo muezzino,
mezzo santone, mezzo autorità religiosa,
mezzo chissà cos’altro. Un ibrido,
un biohazard religioso quasi.
Lui, l’ibrido, sta combattendo una
guerra che non gli dispiace perdere;
anzi, più che una guerra, un derby.
Dall’alto dei minareti le nenie continuano
assordanti; la faccia del leader
spirituale della confrateita più
importante del Senegal, Mustafà
Cheick Mouhamadou Bamba, è
stampata in ogni dove; gli adesivi di
Osama Bin Laden sono in bella mostra
su tutti gli autobus… Nonostante
tutto, il marabout (ossia l’islam radicale
e oppressivo) perde d’interesse
soprattutto tra i giovani.
Isani valori dello sport: fatica, sacrificio
e anche la vittoria finale,
gettano nel cestino le cantilene
spacca-cervelli degli invasati, le varie
jihad, l’islam peloso che ingrassa sulle
spalle dei più deboli.
Dove non arriva la guerra del «bene
» contro il «male», di bushiana ideologia,
arrivano gli ubriacanti dribbling
di Henry Camarà e compagni.
Già, così potrebbe essere; ma così
non è: i giovani senegalesi si trovano
in un bel guaio, schiacciati tra il furore
islamico e la nuova religione laica,
spargisogni di plastica.
Parlando con questi ragazzi che
detestano ideologicamente l’occidente,
ma sbavano per tutto ciò che
questo gli propina, la situazione diventa
terribilmente complicata e pericolosa,
quanto un’illusione troppo
inseguita.
L’illusione della ricchezza materiale
trova il suo apice nel calcio e deborda
oltre i limiti della passione, per
diventare ossessione.
E non già tra i giovani poveri o poco
scolarizzati, bensì tra gli studenti
liceali: come prima cosa sognano il
pallone in una squadra italiana; poi,
in successione, il tecnico informatico
in Francia, il designer a Berlino, per
arrivare giù giù in fondo: qualsiasi lavoro,
purché fuori dal Senegal.
Coloro che potenzialmente potranno
guidare questo paese hanno
tutti, letteralmente, il desiderio di andare
via: in Italia soprattutto, ma anche
Francia, Spagna, Germania.
Il calcio, con i suoi stereotipi inossidabili
ricevuti in tutte le case
del Senegal, grazie alle paraboliche
che captano i segnali europei,
diventa una punta diamantata
nel processo di rimbambimento di
una generazione.
Quale può essere il futuro di un
paese dove il padre desidera che almeno
un figlio vada via dal Senegal e
tutti i figli desiderano scappare?
Fuggire non da qualcosa (la situazione
economico-politica senegalese
non è il paradiso, ma neppure l’inferno),
ma verso i peggiori cliché che
l’occidente esporta all’estero a palate:
soldi facili, sesso, dissolutezza,
mancanza di valori, ateismo.
Basta accendere il televisore e
guardare la telenovela più seguita del
Senegal: la storia di una ragazza che
s’innamora di uno spasimante telefonico,
che finge di essere un ricco
emigrato in Italia; è invece uno studente
squattrinato che, svenandosi,
la ricopre di regali e gingilli vari.
Calcio e televisione: episodi di costume,
si dirà. No! Anche il nuovo
presidente, Wade, spinge sui tasti
della religione e del progresso, a noi
tanto caro. Il suo credo si riassume
in due parole: Allah e sviluppo economico.
Progresso che comincia ad avere
aspetti inquietanti: esso potrebbe
essere rappresentato
dalle foreste vergini abbattute a colpi
di bulldozer per fare tamburi da
vendere ai turisti che, a casa, faranno
poi bong bong due volte; oppure dalla
totale sudditanza alimentare dalle
importazioni, a caro prezzo, di qualsiasi
prodotto, dimenticando gli alimenti
senegalesi tradizionali, perché
ormai troppo vecchi, non modei.
E ancora i mari depredati dalle meganavi
giapponesi, che in cambio donano
ai villaggi di pescatori qualche
scuola o fatiscente punto sanitario.
Anche i villaggi turistici per bianchi
sono chicche imperdibili. È particolarmente
istruttivo, ad esempio,
godersi la piscina in riva all’oceano,
oppure l’erbetta all’inglese, innaffiata
tutto il giorno, o ancora le fontanelle
a getto continuo. Però, fuori
dei muraglioni di cinta stile gulag sovietico
dei centri-vacanze, i senegalesi
fanno chilometri per attingere
qualche secchio d’acqua, poiché la
falda è scesa troppo nel sottosuolo.
Certo, tutto questo permette a
molte persone, soprattutto sulla costa,
di mettere insieme il pranzo con
la cena, una televisione e, magari, anche
un’auto. Tutto, però, appare precario
in questa economia, basata sul
desiderio consumistico dei «tubab»
(bianchi). Quest’anno, per esempio,
il mancato arrivo del rally Parigi-
Dakar, spostato sulle più danarose
spiagge egiziane di Sharm ash
Chaykh, ha provocato un tracollo di
entrate agli abitanti di Lac Rose.
E il marabout ride sotto la fluente
barba per questo crollo economico…
Così scorre il tempo e il fatalismo
attendista africano appare
addirittura meno pericoloso
di questo continuo indaffararsi dei
nuovi rampanti senegalesi.
Per tutti arriva il momento della caduta
dei miti e capiscono che non ci
sarà mai la possibilità di essere calciatore
della Juventus, tecnico informatico
a Parigi, designer della Volkswagen;
e nemmeno giù giù in fondo,
nei lavori più umili, li vorranno, perché
l’Europa ha chiuso le porte e non
si passa più.
Peccato che anche le foreste stiano
terminando, il mare diventi giorno
dopo giorno meno pescoso e la
gente dei villaggi adiacenti ai centri
turistici risulti sempre più infuriata,
a causa del viavai di ragazze, talvolta
anche bambine, che varcano le porte
carraie la sera per uscie al mattino
dopo…
Indovinate: nelle braccia di chi finisce
questa massa di disillusi, arrabbiati?
Chi gode per questo crollo
dei sogni made in Europe?
Bravi, avete capito.
Ecco come s’ingrossa l’odio verso
l’occidente (e anche contro i cristiani):
prima esso abbaglia con le sue lucine
e rovesciate volanti; poi lascia
tutti a bocca asciutta e li scaraventa
nelle braccia ben tese del radicalismo
musulmano. Così una generazione
si sente rifiutata da quei luoghi
che un tempo adoravano, ma che ora
disprezzano.
Dove risiede la speranza? Nell’interno
del paese; ed è molto
più di una speranza. Nei
villaggi ove sopravvivono ancora forti
tradizioni e culture antiche; dove
sia Camarà che il marabout altro non
sono che due esseri mal sopportati,
entrambi estranei al Senegal.
Villaggi dove si mangia ancora tutti
insieme, con le mani e dallo stesso
piatto; dove l’economia, sostanzialmente
chiusa, fa rima baciata con sobrietà
e, quindi, con felicità.
Qui nessuno ha l’ossessione della
maglietta del Manchester United;
perciò il marabout ha poco da aizzare
contro l’occidente, predone e infedele,
traditore di tante promesse.
Qui una partita a calcio resta ancora
un momento di svago e la preghiera
un attimo di gioia e
riflessione interiore, non
un giuramento di vendetta.

Maurizio Pagliassotti




VILANCULOS (Mozambico): Riflessioni missionarie

IL FUTURO CHE VERRÀ
Uomo
di «due continenti»,
padre Sandro Faedi
riflette sulla sua
esperienza missionaria.
Per tirare anche alcune
conclusioni sul futuro
che si sta delineando…

Dopo aver lavorato per circa
20 anni in America del Sud
(Venezuela), padre Sandro
Faedi si trova ora a Vilanculos, in
Mozambico. Direttore delle pontificie
Opere missionarie venezuelane,
ha dovuto occuparsi sia della pastorale,
che dell’animazione missionaria.
L’esperienza fatta gli può
dunque permettere di stabilire alcune
proiezioni interessanti circa il futuro
della missione.
Nel contesto attuale della chiesa,
molte sono le persone che si chiedono
quale sia il futuro della missione.
La globalizzazione ci ha portato il
mondo in casa e le realtà dei popoli
del Sud ci sono più familiari; il dialogo
interreligioso, l’evangelizzazione
e la promozione umana diventano
più che mai una sfida per la chiesa.
Ma, oggi, dove sono i missionari?
Le partenze sono sempre meno frequenti,
gli istituti missionari diminuiscono
di numero nei loro componenti,
le nuove entrate non riescono
più a sostituire coloro che, per
motivi di età, malattia o morte, sono
costretti a lasciare il proprio posto.
La domanda merita, dunque, di essere
posta. Ed è padre Sandro che
spiega un po’ le cose…

MISSIONE
SENZA MISSIONARI?

La missione, come noi
l’abbiamo pensata da anni
(cioè, una delle attività
della chiesa) avrà ancora un
posto significativo nel futuro?
Io credo che non rivedremo mai
più le spedizioni missionarie del passato!
Lo slancio e il dinamismo della
missione ad gentes sono state spazzate
via dal secolarismo, l’abbandono
della pratica religiosa e l’indifferenza;
d’altra parte, molte comunità
missionarie si sono ripiegate su
se stesse e, sull’esempio dei vari organismi
governativi, investono più
tempo in personale, soldi e problemi
interni, dimenticando lo scopo
per cui sono stati fondati.
Ma la chiesa non «ha una» missione,
perché essa stessa «è» missione!
Proprio come una pietra lanciata
nel mezzo di un lago, che continua
ad espandere le sue onde fino ai bordi.
Mi viene in mente la chiesa primitiva
e il modo con cui i primi discepoli
di Gesù hanno «pubblicizzato
» la nuova fede in tutto il mondo
conosciuto di allora. Penso anche alla
città di Milano, ai tempi di
sant’Ambrogio: metà dei suoi abitanti
erano pagani, l’altra metà divisa
tra cattolici e ariani. Non c’era ancora
la congregazione di Propaganda
fide. La predicazione di Ambrogio e
la testimonianza di vita dei fedeli furono
gli unici mezzi per raggiungere
i non credenti.
Ritoeremo a quei tempi? Probabilmente
no, anche se oggi la chiesa
ha questa nuova coscienza: definirsi
missionaria all’interno e all’esterno.
Ho chiesto ad un giovane che
era appena stato battezzato: «Perché
Dio ci ha creati?». Spontaneamente,
mi ha risposto: «Per conoscerlo, amarlo
e farlo conoscere e amare dai
miei compagni!».
È suonata l’ora di «ridare» la missione
alla chiesa: tutta la chiesa è missionaria,
ad intra e ad gentes. Anche
se sono meno numerosi, i praticanti
hanno una fede più dinamica e contagiosa:
ciò che noi abbiamo visto e
toccato, noi ve lo annunciamo.
«Ringraziamo le chiese d’Europa
che ci hanno portato Cristo; ma non
possiamo ringraziarle per non aver
fatto di noi dei missionari». Mi vengono
in mente queste parole di un
vescovo brasiliano in un congresso
missionario, alla vigilia delle celebrazioni
per i 500 anni di evangelizzazione
del continente latinoamericano. Parole vere: cristiani sì, missionari
no; una chiesa oggetto della
missione, una chiesa che riceve e non
dona. Lo zelo di cui tanti missionari
erano infiammati non è stato trasmesso
nel cuore delle chiese che
hanno fondato. Perché?
Quando un alunno viene bocciato,
ci sono due possibilità: o che sia
pigro, oppure il maestro un incapace.
Occorre cercare di risvegliare
l’interesse dell’alunno e migliorare il
metodo del professore. È ciò che si
cerca di fare in America Latina. Tutto
il lavoro e la riflessione teologicopastorale
di questi anni hanno avuto
di mira la costruzione di un nuovo
modello di chiesa: tutta apostolica,
meno centrata sui sacramenti e più
sul vangelo, meno portata all’interno
e più all’esterno, meno sui vicini
e più sui lontani, meno di parole e
più di testimonianza…
I frutti non sono tardati a venire:
l’entusiasmo missionario ha raggiunto
associazioni, comunità religiose,
preti, famiglie e… ammalati! Nella
chiesa tutti sono chiamati ad annunciare.
In Venezuela, soprattutto, abbiamo
visto rinascere una chiesa cosciente
e dinamica. Manifestazione
speciale e sorprendente di questo risveglio
sono stati i giovani laici missionari,
che hanno accettato di consacrare
un periodo delle loro vacanze
per andare a «fare missione» nei
villaggi, dove la presenza della chiesa
era minima; o ancora giovani laici
che, dopo aver ottenuto il diploma,
hanno deciso di «buttare» qualche
anno della loro vita al servizio degli
ultimi, in un vicariato apostolico o in
una missione fuori della patria.

LO SPIRITO SANTO E… LORO
Certo, per padre Sandro, la realtà
del Mozambico, dove si trova ora, è
ben diversa. La pasqua scorsa sono
stati celebrati 336 battesimi, dopo tre
anni di catecumenato: il 60% di loro
avevano più di 18 anni. Uomini e
donne che cercavano Cristo e hanno
trovato nella chiesa una risposta alla
loro fame e sete di Dio. Il numero è
quasi sempre lo stesso, tutti gli anni.
«Padre, cosa devo fare per essere
cristiano? Per pregare Dio, come
voi, la domenica?». Allora, chiedo
loro: «Perché vuoi essere cattolico?
». Quasi sempre la loro risposta
è: «È un mio vicino, un parente, un
amico che mi ha invitato… Ho visto
come siete uniti e organizzati, come
aiutate i poveri…».
Nel Mozambico di oggi, l’offerta
religiosa è importante: oltre alla nostra
chiesa, si trova una moltitudine
di sètte (cristiane o no) e pure l’islam.
La gente cerca qualcosa che riempia
il cuore e dia senso alla loro esistenza.
Non sono i missionari che chiamano,
non sono stato io ad avvicinare
queste persone, ma lo Spirito Santo,
la comunità cristiana. I veri
missionari sono i nostri cristiani che,
con la parola e l’esempio della loro
vita, condividono la gioia di credere,
trovarsi in comunità e servire i poveri;
per questo richiamano alla vita in
Gesù.
La missione è stata restituita alla
chiesa! Un catechista spiegava ad un
neo battezzato: «Dove è scritto che
tu hai ricevuto il battesimo per venire
a messa la domenica? Non sai che
Dio ti ha fatto battezzare perché aiutassi
i tuoi fratelli?». Questa è la chiesa
nuova che cresce, risposta alla nostra
angoscia e promessa per l’avvenire.
Oggi l’urgenza è «come» essere
missionari. Il missionario «capace di
fare tutto» è morto da tempo. Ora
abbiamo bisogno di missionari «dietro
le quinte», animatori, formatori,
e moltiplicatori di una chiesa nata
per annunciare. L’avvenire della
missione è stato così restituito alla
chiesa, cosciente di essere
inviata ovunque, sino ai
confini della terra!

C’è posto… per tutti
La missione cambia, lentamente, ma decisamente… Prima del concilio Vaticano
II, i missionari erano tutti preti, religiosi e religiose. Ma è lo stesso
concilio ad insegnare che tutti i discepoli di Cristo devono collaborare
alla missione. Visitando il Mozambico ho effettivamente incontrato laici impegnati
in questo senso, giovani e meno giovani.
Alcuni giovani – È a Cuamba che incontro alcuni laici missionari, che hanno
preso la decisione di dedicare un periodo di vita al servizio dei più poveri. È il
caso di Nuno Miguel Reis Prazeres, 28 anni. Pienamente integrato nell’équipe
pastorale della parrocchia di Cuamba, è professore sia nella scuola superiore,
come alla facoltà di agricoltura della nuova università cattolica del Mozambico.
Mi presenta anche tre ragazze, della stessa età, che lavorano tutte nell’insegnamento
o nell’amministrazione. In più, sono impegnate pure in parrocchia:
alla biblioteca, con i giovani e per dei corsi di informatica. Tutti questi giovani
missionari laici hanno un contratto con la diocesi e l’università.
Un pensionato – Titus Pereira risiede nel vescovado di Lichinga. È un portoghese
in pensione; ha lavorato tutta la vita nelle costruzioni. Non è architetto
né geometra, ma ci sa fare; per questo ha messo il suo talento al servizio della
diocesi ed è lui che cornordina la maggior parte delle nuove costruzioni.
Un laico IMC – Ma vi è pure un’altra possibilità: un contratto come laico missionario
della Consolata. Ne ho visto uno, a Vilanculos: Wilfer Javier Ramirez,
uno dei giovani formati in Venezuela da padre Nelson Lachance, con «Joven
Mission». Mentre il padre lavorava nelle pontificie Opere missionarie, aveva
fondato un’associazione di giovani: Javier ne divenne membro e, in seguito,
continuò ad interessarsi alle missioni, collaborando nelle pontificie Opere con
padre Sandro Faedi. Mi racconta come ha maturato la sua vocazione missionaria:
«In tutta la mia formazione e nei vari incontri, ho imparato molte cose
sulla missione. Sempre più volevo mettere in pratica ciò che avevo imparato e
avvertivo che, per rispondere alla chiamata del Signore, dovevo lasciare il Venezuela
e andare in un paese lontano». Era pronto, ma fu molto difficile per
via dei famigliari. Per questo, allo scadere del suo contratto dei tre anni, ritoerà
in Venezuela per sposarsi e occuparsi della famiglia.
Gli chiedo della sua esperienza: «Bella e interessante. Mi sentivo ben preparato.
È stato più duro per i miei genitori e la mia famiglia». Ora, a Vilanculos, aiuta
nel cornordinamento materiale delle tre scuole matee della missione. In ognuna
c’è una sessantina di bambini, è necessario procurare acqua e cibo: ed è proprio
Javier che si interessa di tutto. J. P.

Jean Paré




MESSICO viaggio tra le aspirazioni della gente

L’ERBA DEL VICINO…
Al di là dei monumenti delle varie civiltà
che si sono succedute nel paese, il Messico offre
una umanità palpitante di speranze e sogni,
sempre in attesa che diventino realtà.

Attraversata la frontiera, mi
trovo d’improvviso in un altro
mondo: dal lindore asettico
di San Diego (Stati Uniti) al degrado
ambientale e umano delle vie
intorno alla centrale Avenida de la
Revolucion di Tijuana, in Messico.
Sporcizia, buche nei marciapiedi,
prostitute, mendicanti, povere bancarelle
di donne indie in costume.
Sono disorientata nel vedere numerosissime
e linde farmacie, una accanto
all’altra. Incredibile anche il
numero degli studi medici, che attirano
i clienti nordamericani con co-
loriti cartelloni. In Usa le cure sono
costosissime; qui, invece, gli stessi farmaci
sono più a buon mercato. I medici
sono preparati, coscienziosi e umani
nel trattare i pazienti.
Ampi viali trafficati mi portano al
quartiere Rio, con i suoi centri commerciali
e direzionali: è un altro aspetto
di Tijuana, città che vuole
cambiare e ha già raggiunto importanti
mete nello sviluppo.
La periferia è immensa, ma non
sono solo favelas dei nuovi immigrati
quelle che si arrampicano sulle colline:
sono le «colonie», cioè i quartieri
di chi si è inserito bene nella
nuova economia.
Avrei bisogno di un prete. Uno
che mi racconti le cose come stanno;
che mi faccia capire.

UN PASSO DAL «PARADISO»
È già notte. Dal campanile di una
chiesa un orologio illuminato segna
le 10,15. Entro. La messa è quasi terminata.
I pochi fedeli escono e mi avvicino al prete. Ha una faccia simpatica;
si chiama padre Francisco Javier
Perez; mi invita a seguirlo per le preghiere
e a condividere la cena.
Mi trovo nel seminario maggiore
di Tijuana, un’oasi di tranquillità e
pulizia nel centro caotico della città.
«Vocazioni? Molte – risponde il padre
-. Abbiamo un centinaio di seminaristi;
stiamo progettando un edificio
più ampio, completo di campi
sportivi. La diocesi di Baja Califoia
del nord, sfoa ogni anno una dozzina
di preti, che si trovano subito oberati
di lavoro.
La città è cresciuta enormemente
in pochi anni e sta ancora ricevendo
immigrazione da tutto il Messico,
specialmente dalle zone più povere
e remote, nella speranza di varcare il
confine e stabilirsi negli Usa. I più
fortunati trovano sistemazione presso
parenti o amici. Chi non ce la fa,
bivacca e vive di espedienti».
In effetti oggi ho visto dei poveracci
dormire ai margini dei viadotti,
in mezzo all’immondizia. Parlare
con padre Francisco mi aiuta a capire
meglio la situazione, al di là del disgusto
provato all’arrivo.
Molti immigrati sono arrivati dopo
il terremoto di Città del Messico
del 1985. Un disastro reso più spaventoso
dal crollo di numerosi edifici
statali nuovi, prova di malgoverno
e corruzione negli appalti pubblici.
Tijuana offre ai nuovi arrivati maggiori
possibilità e un clima migliore
di tante città messicane; soprattutto,
siamo vicini agli Stati Uniti, tanto da
attraversare il confine a piedi. Molti
messicani vanno a lavorare oltre confine
e ritornano la sera. I più benestanti
portano i figli a scuola in uno
dei sobborghi di San Diego; i ricchi
vivono negli Usa, anche se gli affari
li hanno a Tijuana.
La Baja Califoia è la regione che
registra il maggior tasso di crescita economica
del Messico e, dal punto
di vista politico e sociale, si dimostra
più avanzata e intraprendente: è il
primo stato messicano a voltare pagina
nelle ultime elezioni, scegliendo
come presidente il leader dell’opposizione
Fox. Da qui è partita la spinta
al cambiamento, mandando a
spasso il potente e corrotto Partito
rivoluzionario istituzionale (Pri), che
per 60 anni ha gestito il potere a suo
esclusivo vantaggio.
Fox deve aver dato fastidio a molti
potenti, se è continuamente oggetto
di critiche e, recentemente, gli
è stato impedito di prendere parte a
conferenze inteazionali in Canada
e Usa: la costituzione prevede l’approvazione
del parlamento per i
viaggi del presidente all’estero.
Fox è un ricco impresario con una
buona volontà di cambiare le cose,
ma poca abilità politica. Comunque
ha avuto il coraggio di iniziare seri
cambiamenti e «pulizia» della società
messicana, cominciando dai poliziotti
legati al cartello della mafia della
droga. A causa della corruzione
della polizia, il controllo del traffico
di droga viene fatto dall’esercito.
Da quando gli Usa sono riusciti a
bloccare il traffico di stupefacenti
nell’area caraibica, quello di Tijuana
è diventato il più potente e pericoloso
cartello dell’America Latina.

MISSIONARI TORINESI
Fratel Luigi, della Sacra Famiglia
di Torino, abita sulla collina Buena
Vista, una «colonia» della periferia
di Tijuana. Non è facile trovare la sua
scuola, nel dedalo di vie senza nome
o senza numero.
I fratelli della Sacra Famiglia, due
italiani e uno spagnolo, per venire incontro
alle esigenze di una popolazione
in continuo aumento, hanno aperto
una scuola elementare e media
con quattro sezioni. Le famiglie sono
di estrazione medio-bassa, che
hanno capito l’importanza di una
buona educazione e cercano di iscrivere
i figli nelle scuole cattoliche,
perché rispondono a tale esigenza.
«Qui siamo fortunati. In Baja Califoia
il 95% dei bimbi va a scuola,
mentre in alcune zone del Messico
la situazione è molto diversa» racconta
fratel Luigi, entusiasta del suo
lavoro. Ma si lamenta delle difficoltà
create dal governo con cieca e assurda
burocrazia: «Si perde molto tempo
nel preparare i ragazzi a parate,
concorsi dell’inno nazionale, picchetti
d’onore… tutte attività che distraggono
i ragazzi dallo studio».

STORIA AMARA
Da Tijuana, l’aereo mi porta a Zacatecas,
antica città mineraria a 2.500
metri sul mare, che detiene tuttora la
più alta produzione d’argento del
Messico. La miniera Eden, chiusa da
qualche anno, un tempo era un vero
inferno per gli indigeni che vi lavoravano,
dovendo risalire per otto
piani con i massi auriferi e argentiferi
portati a spalla.
All’uscita della miniera, una funivia
mi porta sulla cima di un colle dove
sono i ricordi di un’altra storia:
statue in bronzo ritraggono, tra gli altri,
Pancho Villa, il mitico eroe della
rivoluzione messicana del 1914. In
basso si stende la città, magnifica nel
suo caldo color ocra delle costruzioni
antiche.
La cattedrale ha una ricca ed elaborata
facciata, ma l’interno, un tempo
splendido di ori e argenti, è stato
del tutto spogliato durante i periodi
di rivolta che hanno caratterizzato la
storia del paese. È stata coinvolta anche
la chiesa (vedi riquadro).
Di peggio è capitato al tempio secentesco
degli agostiniani, saccheggiato
dall’alticlericalismo di fine ’800
e trasformato in casinò. Ora ospita
una esposizione di arte modea,
mentre continuano i restauri per ricomporre,
almeno in parte, le decorazioni
barocche.
Tale situazione la ritrovo in varie
parti del Messico, testimone di una
storia amara e sconcertante, segnata
da una sequenza di fatti tragici, governi
corrotti, guerre civili, esecuzioni
e voltafaccia politici.
Storia anche recente, in cui l’arroganza
del potere è rimasta indifferente
ai bisogni della gente. Troppe
regioni, nonostante le loro potenzialità,
sono ancora depresse e lontane
da ogni forma di sviluppo; benché ci
siano stati miglioramenti nell’istruzione
popolare e maggiore presa di
coscienza degli strati poveri della popolazione,
rimane forte la sensazione
d’impotenza di fronte ai soprusi
della classe dominante.

CICATRICI IN MANI E CUORI
Salgo sulla corriera che unisce Ciudad
Juarez, al confine col Nuovo
Messico (Usa), alla capitale messicana.
Siedo accanto a un uomo che rimane
a lungo silenzioso. Poi mi mostra
le mani, grandi e segnate da tagli
e profonde cicatrici: «Machete e
canna da zucchero» mi spiega.
Inizia così la conversazione, anzi lo
sfogo di un uomo che, pur faticando
dalle 5 del mattino fino a tarda sera,
non riesce a risparmiare il denaro per
comprarsi la terra dove vive. «In questo
paese le macchine agricole sono
rare e il terreno che lavoro è ripido,
per cui bisogna fare tutto a mano»
continua Manuel Castillo Abrego.
Sta ritornando a casa, dopo un
lungo viaggio per accompagnare la
suocera al confine con gli Stati Uniti.
Due giorni fa si sono incontrati alla
frontiera con due cognati, da alcuni
anni emigrati in Califoia.
«Mia suocera ha pagato 4 mila dollari
per avere i documenti necessari
per espatriare. L’hanno aiutata i figli
a pagare tale somma. Vorrei anch’io
vivere in un paese dove c’è maggiore
speranza per i miei figli».
Manuel mi parla dei suoi quattro
bambini, da due a dodici anni, della
moglie e della sua casetta, circondata
da alberi di mango, in un villaggio
dello stato di Michoacan. Ha ancora
davanti parecchie ore di viaggio per
arrivare a Morelia, dove prenderà un
altro autobus per arrivare a casa.
Intanto indica sulla mappa la città
di Puruaran, dove ogni settimana
trasporta la canna per la lavorazione:
l’85% del ricavato va al proprietario
del terreno. «Lavorando duro, riesco
a guadagnare quanto basta per
sfamare i miei, nulla di più – continua
-. Se riuscissi a risparmiare qualcosa,
cercherei di emigrare con tutta la famiglia.
Non lascerei moglie e figli in
Messico, come fanno molti disperati,
che in Usa si rifanno una vita».
Manuel perse la mamma all’età di
tre anni, morta di parto dando alla
luce il decimo bambino. Trovatosi
con una nidiata da sfamare, il padre
pensò bene di risposarsi e, ben presto,
arrivarono altri 10 figli. La terra
non bastava per tutti, anche se i più
grandi lavoravano già.
Manuel mi consegna un foglio,
firmato dagli allievi della scuola professionale
San Pedro di Zacatecas: reclamano
il diritto a un posto di lavoro
e denunciano favoritismi. «Chi la-

vora per il governo è in una botte di
ferro; gli altri non hanno alcun diritto
– spiega sconsolato, per continuare
con orgoglio -: mia figlia Jasmine
è molto brava a scuola, ha preso diversi
premi. Ma solo i raccomandati
riescono a ottenere una cattedra
d’insegnante; anzi, possono anche avere
più di due scuole e trascurare le
lezioni».

OASI DI BELLEZZA
Dai 2.500 metri di Zacatecas siamo
scesi ai 1.800 di Guanajuato, una
città giorniello, ricchissima di monumenti,
chiese e palazzi, circondata da
monti metalliferi.
Scendiamo ancora e raggiungiamo
Queretaro, un’altra città coloniale,
dichiarata dall’Unesco patrimonio
dell’umanità. Dovrebbero essere così
tutte le città del mondo: linde, coloratissime,
con ampi spazi verdi a
disposizione di tutti. Le case sono
curate, anche in periferia, dove sorgono
modee imprese e industrie.
Il centro è un giorniello: non un edificio
moderno che stoni col tessuto
antico e ben conservato della città.
Ma ciò che incanta è l’atmosfera festosa
delle piazze, di giorno ombreggiate
dai ficus, la sera allietate da
pianisti e orchestrine, con anziani e
giovani che hanno tempo e spazio
per godersi il fresco.
Sontuose le numerose chiese e
conventi, quasi tutti trasformati in
musei e gallerie. Il più famoso e antico
è il convento francescano de la
Cruz. Lo visito in compagnia dell’anziano
frate Jesus Uzman. «Fondato
nel 1683, fu il primo collegio apostolico
di Propaganda fide. I frati
vi dimoravano due anni per prepararsi
alla missione tra gli indigeni nomadi
del Messico del nord. Successivamente
ne sorsero altri: 5 in Sierra
Gorda, 21 in Baja Califoia, 5 in
Texas, 1 a San Antonio. Per 87 anni,
a partire dal 1824, il convento fu occupato
dalle truppe. Quando lo restituirono,
la fuliggine e lo sporco avevano
ricoperto tutte le pitture».

SOGNANDO L’AFRICA
Sterminata metropoli, congestionata
dal traffico e con l’aria fortemente
inquinata: così viene descritta
la capitale, Città del Messico. Ero
preparata al peggio, ma rimango sorpresa.
I problemi sono ancora molti;
uno, almeno, è stato risolto felicemente:
ci si sposta benissimo con
metrò e bus, che passano in continuazione
e senza causare code alle
fermate.
Raggiungo facilmente Avenida Eugenia,
il viale che attraversa un quartiere
borghese, per visitare suor Edelmira.
La trovo nel suo studio di
direttrice della scuola gestita dalle
clarisse del Santo Sacramento.
Sempre uguale, sorridente e attiva,
mi accoglie con un abbraccio e subito
mi parla della Sierra Leone, dove
la conobbi per la prima volta nel
1992. «Le mie consorelle sono ritornate
da pochi giorni da un sopralluogo
a Lunsar, il villaggio della nostra
missione. Pare che presto si potrà
ritornare e dovremo ricominciare
tutto da capo. Spero proprio di poterci
andare anch’io. Il mio cuore è
rimasto laggiù».
Dirigere una scuola borghese della
capitale può dare soddisfazioni,
specialmente ora che le suore hanno
potuto aggiungere un nuovo edificio
per le varie attività delle studentesse.
Ma 30 anni di vita missionaria in Africa
hanno segnato per sempre l’esistenza
di suor Edelmira. La nostalgia
si fa sentire anche quando il paese
è disastrato, pericoloso
e difficile come è ancora
la Sierra Leone.

La Chiesa in Messico
Da quando arrivarono i primi missionari
nella Nuova Spagna, insieme
ai conquistatori spagnoli, la
chiesa messicana ha sempre sofferto.
Francescani e domenicani si distinsero
per il coraggio con cui cercarono di
difendere gli indigeni dagli eccessi
dei coloni. In breve tempo riuscirono
a convertire gran parte del paese e
fondarono centinaia di monasteri.
L’intera popolazione faceva parte della
chiesa, unica istituzione che assicurava
servizi sociali e istruzione.
Con l’espulsione dei gesuiti dal continente
americano nel 18° secolo, le relazioni
tra stato e chiesa entrarono in
crisi e i governi tentarono di limitare
il potere della chiesa, intervenendo
sulle proprietà che quest’ultima riusciva
ad accumulare più velocemente
dei corrotti capi di governo.
Per due secoli la chiesa cattolica messicana
ha avuto momenti di grande
turbolenza. Fu un parroco cattolico,
Miguel Hidalgo y Costilla, che nel
1810 lanciò il famoso «grito de dolores
» per esortare la gente a ribellarsi
al malgoverno degli spagnoli. I ribelli
riuscirono a conquistare Zacatecas,
ma un anno dopo furono sconfitti e il
povero prete giustiziato. La stessa fine
fece un suo allievo, prete pure lui,
durante la guerra d’indipendenza; una
vittoria che non riuscirà a portare il
paese a una stabilità politica.
La costituzione del 1917 stabilì che
i religiosi non potevano votare, esprimere
opinioni, possedere beni, né
gestire scuole o mezzi d’informazione.
Negli anni ’20 si arrivò alla guerra civile:
i cristeros bruciavano le scuole
statali e uccidevano gli insegnanti; i
governativi distruggevano o saccheggiavano
le chiese e uccidevano i preti.
Solo nel 1992 furono stabilite relazioni
diplomatiche tra Messico e Santa
Sede.
Non bisogna confondere, però, problemi
e persecuzione della chiesa cattolica
con la fede. I messicani restano
profondamente religiosi e legati
alle tradizioni cristiane.

Claudia Caramanti




DIALOGO il «laboratorio» delle scuole

«MAMMA, IL MIO COMPAGNO DI BANCO È…»
… latinoamericano, marocchino, albanese, cinese, nomade. La convivenza con l’altro è ormai un dato di fatto: sull’autobus, per strada, nei luoghi di lavoro.
Ma come si fa a passare dalla «convivenza» (dettata dalle circostanze) all’«incontro» (dettato dall’essere persona)?
L’esperienza nelle scuole, dove i bambini italiani condividono i banchi con coetanei
provenienti da ogni paese, è fondamentale per costruire la società del futuro, in cui «l’altro» sia accettato nella sua diversità, senza «se» e senza «ma».

Quale significato ha ancora
oggi il nostro essere cristiani?
Se ci analizziamo senza
veli, ci accorgiamo che siamo sempre
più influenzati dal vivere secondo la
nuova fede emergente, l’economia,
il mercato, e sempre meno secondo
il significato più profondo della nostra
fede, l’amore e la fratellanza per
i nostri simili.
Il consumismo sfrenato, il consumismo
ad ogni costo è ciò che detta
legge al nostro agire, anche ora che
da tutti i pori traspira aria di crisi, aria
di recessione.
Consumismo come unico piacere
che ci rimane, che ci illude perché
abbiamo perso il gusto per la gioia di
vivere vera, quella che scaturisce dalle
piccole cose, dall’incontro con gli
altri, dal vivere insieme.
Se siamo persone che hanno ancora
valori saldi in cui credere, dobbiamo
cercare di disinquinarci da
questo mondo, ritornare all’essenza
delle cose, a ciò che vale profondamente,
anziché autornassolverci sempre
perché… «tanto così fan tutti».
Ed è proprio per questo che noi,
come occidentali e specie in quanto
cristiani, abbiamo ancora qualcosa
da imparare e questo qualcosa lo
possiamo scoprire ricercando l’incontro
con l’altro, il diverso da noi,
con il quale conviviamo ormai gomito
a gomito: sull’autobus, per la
strada, nei luoghi di lavoro.
Tuttavia convivere non vuol dire
ancora incontrarsi per davvero; anzi,
spesso è solo un passarsi a fianco
di stranieri e italiani che si guardano
furtivamente, a volte con fastidio.
LA SCUOLA, LUOGO PRIVILEGIATO
La scuola, in particolare, è uno dei
luoghi privilegiati in cui la molteplicità
delle culture è chiamata a convivere.
I nostri istituti scolastici sono
sempre più popolati da bambini di
tutte le nazionalità: albanesi, senegalesi,
marocchini, cinesi, latinoamericani,
nomadi.
Noi insegnanti siamo chiamati ad
accogliere i bambini di queste famiglie
straniere: non avere atteggiamenti
di chiusura o
rifiuto, dettati dal pre-giudizio,
è già un primo passo.
Ma cosa vuol dire accogliere
veramente?
Spesso è, ancora una
volta, qualcosa che sta
sulla carta (il progetto
bello, che produce finanziamenti),
lontano
dalle persone reali.
Così non spostiamo di
una virgola la nostra
progettualità, non mettiamo
in discussione noi
stessi.
Si dice: «La nostra cultura
è quella cui loro si devono
adeguare. Non c’è altro da
aggiungere». Al massimo si
chiede al genitore di fede islamica
di tradurci in arabo
una frase augurale per il nostro
natale. Quale umiliazione
può essere più grande?
Negare la loro fede è negare
la loro identità.
Noi occidentali siamo abituati
da ormai lungo tempo ad esistere
come se fossimo il centro del
mondo e poi, suvvia, «sono loro che
sono venuti qui da noi… a rompere…;
che lavorino e stiano zitti… è già
tanto che li ospitiamo…».
Queste persone popolano i nostri
ambienti, la scuola in modo umile e
silenzioso, non ci si accorge di loro,
a meno che non si voglia aprire gli
occhi.
Se li apriamo e li guardiamo anche
con il «cuore», ci viene voglia di incontrarli
e conoscere la loro vita. Se
poi ti fermi un attimo e fai parlare loro
cominci a… vergognarti di essere
italiana.
Ti vergogni di far parte di una nazione
che ha approvato una legge
razzista com’è, di fatto, la legge Bossi-
Fini.
È capitato così un giorno di novembre.
Dopo aver aderito all’appello
per la giornata del «Dialogo
cristiano-isl-Amico» indetta per il
29/11/02, mi rileggo l’appello (vedere
riquadro) e penso che quanto si sta
organizzando è bellissimo. Occorre
tuttavia che ciascuno di noi concretizzi
questi ideali, calandoli nella
realtà quotidiana in cui opera. Ovvero:
dobbiamo dare risvolti sempre
più concreti alle nostre parole.
A scuola si parla di fare il presepe
perché «non dobbiamo rinnegare le
nostre tradizioni…» (anche se spesso
dentro di noi la fede è qualcosa di
così appiccicaticcio che, per sentirci
cristiani, dobbiamo accendere tutte
le luci e addobbarci come tanti alberi
di natale: non sarà perché siamo
spenti dentro?).
Va bene per il presepe, ma propongo
di dare spazio anche al ramadan.
La proposta inaspettatamente
passa. Così incontro e conosco Yasine,
la madre di Dalal, e le altre.

YASINE: MAMMA E IMMIGRATA
Queste mamme sono tutte persone
timide, umili, silenziose. Non ti rivolgono
la parola se tu non lo fai per
prima; caso mai un timido cenno di
saluto col capo.
Insieme cerchiamo di raccontare
semplicemente cos’è il ramadan: è un
piccolo spiraglio per favorire l’incontro
tra famiglie di culture diverse.
È un’opportunità da sperimentare.
Parlando e dialogando scopro e
ammiro la serenità, la forza, la convinzione
con cui queste persone vivono la loro fede. Penso a quanto abbiamo
da imparare noi cristiani sempre
più tiepidi, sempre meno praticanti
o praticanti per abitudine. Forse,
se c’è una cosa che dobbiamo
temere, è questa: la forza con cui
queste persone sostengono la loro fede
che a sua volta rafforza la volontà
di non perdere le proprie radici e la
propria identità.
E la serenità con cui vivono un periodo
di digiuno e sacrificio com’è il
ramadan fa a pugni con la realtà quotidiana
che sono costretti a vivere.
La mamma di Dalal, per esempio,
colta e istruita, qui in Italia non è nulla.
Il marito e lei hanno perso il lavoro,
perché la cornoperativa ha chiuso;
così da luglio in avanti tirano a campare.
«Come non so – mi dice -, ma
di certo… tutti i risparmi se ne sono
andati».
Hanno 2 figli: il più piccolo quest’estate
l’hanno lasciato in Marocco:
«…perché qui… come faccio a sfamarlo?». Poi il cuore ha battuto più
forte; così papà e mamma si sono fatti
imprestare i soldi da amici e l’hanno
riportato in Italia, con loro.
Ora pensano di vendersi la vecchia
macchina. Se hanno la macchina gli
vengono negati i sussidi, ma senza
come fare se capitasse al marito di
trovare un lavoro anche distante?
Per fortuna hanno il permesso di
soggiorno, ma questa vita quanto
può durare? E quanti sono quelli che
vivono nelle medesime condizioni?
Le insegnanti della vicina scuola elementare
hanno ripreso una vecchia
abitudine da tempo dimenticata:
riempire cartelle e zaini di diversi dei
loro alunni stranieri con i resti delle
merendine avanzate. In silenzio le famiglie
accettano queste offerte che
tamponano i loro enormi bisogni,
ma purtroppo sono ben lungi dal risolverli.
Le difficoltà del vivere tornano ad
essere sempre più presenti. Ce ne
stiamo accorgendo anche noi, o meglio
lo stanno sperimentando con
sempre più angoscia gli operai della
Fiat: di colpo le loro vite sono allo
sbaraglio.
Incertezza e insicurezza si fanno
strada. Forse questo ci dovrebbe far
capire, in questi momenti, che sono
più le cose che ci uniscono che quelle
che ci dividono.
Dobbiamo iniziare ad incontrarci
tra fratelli al di là delle religioni, delle
culture, delle appartenenze, cercare
quanto ci unisce e non quanto
ci divide.
Ed è stato questo l’obiettivo che ha
spinto molti credenti cristiani, in diverse
città d’Italia, ad attivare una
giornata di «Dialogo amico» tra persone
di fede cristiana e islamica.
Il 29 novembre vuole diventare a
tale scopo una ricorrenza per gli anni
a venire.
Le difficoltà della vita ci conducono
ormai a capire che, anziché strapparci
dalle mani una coperta sempre
più stretta, dobbiamo imparare a lottare
e costruire insieme.
Così anche le nostre fedi, in apparenza
così diverse, ci accomunano nei
valori che sono alla loro base: «… la
ricerca e costruzione della pace, della
giustizia, della dignità umana per
tutti, il rifiuto dell’oppressione del
debole, dell’emarginato».

PROVIAMO A PARLARCI
Anche a Torino sono stati organizzati
dal gruppo interreligioso «Insieme
per la pace» e dall’«Istituto islamico
per la pace» due momenti significativi
cui hanno aderito varie
associazioni tra cui: Il Foglio, Pax
Christi, il Centro culturale italo-arabo
Dar al-Hikma, Confrateita sufi
Jerrahi-Kalveti, Centro studi Maitri
Buddha, Meic-Laboratorio islam
«conoscere per dialogare».
Un primo momento a carattere evocativo
e spirituale è stata una preghiera
comune alla moschea di corso
Giulio Cesare che per l’occasione
si è aperta ad accogliere uomini e
donne di fede cristiana. A seguire vi è stata una cena comune
presso il Centro culturale italo-
arabo Dar al-Hikma. Si è così partecipato
alla consueta rottura del digiuno
del ramadan.
In serata vi è stato un vero incontro
e dialogo tra la nostra cultura occidentale
e quella araba, a partire
dalle nostre fedi islamica e cristiana.
La partecipazione è stata notevole,
specie da parte dei musulmani: erano
presenti molti giovani e piccoli
gruppetti di familiari. Si avvertiva un
clima di grande attenzione-interesse
e rispetto per il momento che tutti
i presenti avvertivano come fortemente
significativo.
Hanno preso la parola molti musulmani
ponendo diverse domande
o facendo interventi improntati a capire
noi occidentali e a farsi ascoltare,
raccontando la loro esperienza, le
difficoltà del vivere qui, cercando di
sottolineare i valori di fondo del loro
credo religioso.
Ci sono stati anche interventi rivolti
a comprendere la diversità: tra
questi ampio spazio è stato dato alla
condizione della donna nella loro
cultura. Il dialogo è risultato ricco e
intenso.
Molti giovani hanno proposto agli
organizzatori di dare corso ad altri
momenti analoghi, affinché questa
occasione non rimanga un fatto isolato,
ma possa aprire uno spazio di
vero incontro tra la loro cultura e la
nostra per capirci e incontrarci. E soprattutto
per metterci in atteggiamento
di ascolto. L’unico
che può portare ad un reciproco
rispetto.

(*) SILVANA VERGNANO, insegnante, è
membro di Pax Christi (sito internet:
www.paxchristi.it).

Il dialogo? Forse inizia da qui
Gli avvenimenti politici degli ultimi 16 mesi (l’attacco al World Trade
Center di New York, l’intervento militare in Afghanistan, le minacce di
guerra contro l’Iraq, la drammatica esasperazione della crisi israelo-palestinese
e di quella russo-cecena…) pesano sulle relazioni tra due comunità,
definite cristiano-occidentale e islamica, che ormai da anni convivono nelle
nostre città. Un certo tipo di informazione-spettacolo sta trasformando i
conflitti di interessi economico-politici in una contrapposizione fra due
civiltà e due tradizioni religiose che troppo sbrigativamente vengono presentate
come inevitabilmente contrapposte.
CONDANNIAMO un tale sfruttamento del sentimento religioso e una tale distorsione
delle due espressioni (storicamente e culturalmente differenti) della
fede che ci accomuna nei principi della pace, della giustizia, della dignità
umana per tutti, del rifiuto dell’oppressione del debole e dell’emarginato.
CHIEDIAMO a tutte le parti in causa di trovare soluzioni affinché la città di
Gerusalemme possa esprimere realmente la santità che le attribuiscono tutte
le fedi abramitiche, ma che è stata un punto di riferimento per la religiosità,
secondo l’ordine di Melchisedech, anche per chi si appella a un’immagine
pre-abramitica di Dio.
AFFERMIAMO che in tutte le espressioni religiose – a seconda delle intime scelte
di ciascuno – si possono coltivare i semi della giustizia e della pace che
possono condurre l’umanità a una concorde fratellanza universale, oppure le
radici dell’intolleranza e dell’autoritarismo che si nasconde dietro al nome di
Dio e all’apparente ossequio per le religioni, per provocare divisioni, dominare
e sfruttare i popoli governandoli con la menzogna.
RICONOSCIAMO che nella storia quasi nessuna religione è stata immune da questi
equivoci e ci impegniamo a vigilare affinché, per quanto può dipendere
da ciascuno di noi, non intervengano a guastare la trasparenza delle nostre
intenzioni, nei rapporti con i bambini, con i nostri familiari, con i colleghi
di lavoro, nell’impegno culturale, politico e sindacale.
CHIEDIAMO, soprattutto alle pubbliche amministrazioni (comuni, provincia,
scuola), per quanto di loro competenza, di favorire e promuovere la cultura
del dialogo offrendo spunti, spazi e momenti d’incontro tra coloro che abitano
le nostre città da molto tempo e quelli di più recente immigrazione,
affinché tutti possano meglio conoscersi e meglio conoscere la storia propria
e altrui.
INTENDIAMO impegnarci, inoltre, affinché il dialogo cristiano-islamico porti
effettivamente a un incontro AMICO tra tutte le persone che vivono quotidianamente
le stesse speranze e le stesse angosce, facendoci carico di portare
gli uni i pesi degli altri in una convivenza che sappia dare motivi di serenità
anche nei momenti più difficili.

Pax Christi, Centro culturale italo-arabo Dar al-Hikma, Confrateita sufi
Jerrahi-Kalveti, Meic-Laboratorio islam conoscere per dialogare, Foglio e, inoltre,
Centro studi Maitri Buddha.

Silvana Vergnano




MADADENI (SUDAFRICA) iniziative concrete contro l’Aids

UN MARCHIO INDELEBILE UN MARCHIO INDELEBILE

Il Sudafrica ha il più alto numero di malati di Aids.
A Madadeni i missionari della Consolata hanno dato vita a varie iniziative per prevenie la diffusione e accompagnare
persone e famiglie che ne sono colpite.

Da vari anni Nonhlanhla lavorava
come collaboratrice domestica
nella nostra casa. Si
era guadagnata la fiducia di tutti e, in
nostra assenza, la custodiva con
scrupolo e responsabilità.
Un giorno mi confidò di essere incinta.
Ma da quel momento cominciò
a indebolirsi. Si prese il periodo
di licenza per la gravidanza che le
spettava. La visitai… tossiva molto.
Diede alla luce la sua creatura, che
appariva molto fragile. Grazie alla fiducia
vicendevole, le parlai apertamente
e la consigliai di sottoporsi al
test dell’Aids. Accettò. I risultati arrivarono
troppo tardi: Nonhlanhla
era morta il giorno prima.
Thandi è un caso simile. La conobbi
pochi giorni dopo aver partorito
il suo bebè, morto quasi subito.
La donna ne era uscita molto indebolita.
Andai a farle visita: cantammo
e pregammo insieme. Si mostrava
molto forte interiormente.
Due mesi dopo, alla fine di una celebrazione
all’aperto durata più di 5
ore, venne a salutarmi. Stava bene.
Mi confidò un suo desiderio: lavorare
con i malati di Aids.

RIMBOCCANDOCI LE MANICHE
Nonhlanhla e Thandi sono due
nomi di una lunga lista: da quando
sono a Madadeni (periferia di Newcastle),
metà dei funerali sono stati di
uomini e donne che non hanno raggiunto
i 40 anni. Le statistiche prevedono
che, ben presto, la speranza
di vita in Sudafrica sarà di 38 anni
per gli uomini e 37 per le donne.
Sarà per questo, forse, che quando
domandai ai familiari di che cosa
è morto un giovane di 25 anni, mi
sentii rispondere: di morte naturale.
L’incontro con Thandi mi toccò
profondamente: non immaginavo di
vederla ristabilita in salute così presto;
il suo desiderio, soprattutto, diede
uno scossone all’abituale ritmo
del nostro lavoro missionario nelle
tre parrocchie di Madadeni.
Invitammo suor Immacolata, religiosa
delle Francescane di Nardini,
a predicare in tutte le messe. Da alcuni
anni, infatti, questa congregazione
si occupa dei malati di Aids:
hanno convertito parte di un convento
benedettino in un ospizio e
promuovono progetti per combattere
il flagello.
La risposta fu immediata e positiva:
alla fine della messa molti si iscrissero
come volontari. Nei mesi
successivi cominciò la loro preparazione.
Furono formati due gruppi
con scopi specifici: prevenzione e accompagnamento
dei colpiti da Aids.
Il primo era composto da studenti
delle scuole secondarie e giovani
che avevano appena finito gli studi.
Loro compito era aiutare i coetanei
a prendere coscienza della natura
dell’Aids e dei modi in cui viene trasmesso,
con la speranza di convincerli
che si trattava di un problema
grave e non di «propaganda» contro
le relazioni sessuali. Oltre 50 giovani
presero parte agli incontri formativi
guidati dalle suore.
L’altro gruppo, in maggioranza adulti,
con un corso di una settimana
fu preparato nell’accompagnamento
dei malati. Questi volontari s’impegnarono
a visitarli a domicilio e, al
tempo stesso, insegnare ai familiari a
convivere con un malato di Aids.

PRIME SFIDE
I corsi furono la parte più «facile»
di tutto il processo. Avevamo i volontari,
le religiose per dettare i corsi,
compreso chi s’impegnava a finanziarli.
Il difficile venne dopo.
Da dove cominciare? I giovani cercavano
spazi che non si aprivano.
Come aggregare i giovani? Da anni
si parla di Aids: molti sono stufi di ascoltare
sempre la stessa storia. Ma
non mancava loro la creatività: cominciarono
a farsi strada nei collegi,
organizzando eventi sportivi e attività
varie a livello locale.
Gli adulti, invece, cozzavano con
una realtà più dura. «Di questo non
si parla» si sentivano ripetere. Nessuno
ammetteva di essere ammalato
di Aids. Pur avendo il Sudafrica la
più elevata percentuale al mondo di
sieropositivi, questa malattia è considerata
un «marchio» infamante per
il portatore e la famiglia. Appena uno
ne è colpito, i parenti lo mandano a
«recuperarsi» o «aspettare» la morte
in casa di qualche familiare lontano,
in modo che i vicini non lo vedano.
Nelson Mandela pose un importante
precedente: durante un congresso
mondiale contro la povertà,
tenuto in Sudafrica, disse che alcuni
suoi parenti erano morti di Aids. Poi
l’ospedale ci aprì le porte: aveva bisogno
di noi. Non poteva trattenere
i malati, ma neppure disinteressarsene,
senza curarli in casa.
Ecco il piano: ogni volta che si fa
l’esame del sangue per scoprire
l’Aids, viene dato appoggio psicologico
prima e dopo il test, informando
l’interessato che, in caso risultasse
positivo, alcuni volontari sarebbero
disposti a visitarlo in casa. Se il
malato accetta, ci viene passata
l’informazione, che, naturalmente,
rimane riservata.
Un’altra idea vincente è la decisione
dei nostri volontari di visitare «tutti
» i malati di cui vengono a conoscenza.
Armati della parola di Dio e
muniti dell’«olio di esultanza», passano
di casa in casa, pregano con cattolici
e non cattolici e amministrano
un rito di unzione consentito pure ai
laici: in questo modo essi possono
rendersi conto della situazione e offrire
appoggio alle famiglie.
In molti casi, però, i volontari devono
sostituire i familiari, poiché
questi si disinteressano dei malati,
che vengono abbandonati in qualche
angolo recondito della casa,
quando non sono spediti da un parente
lontano.

COMINCIARE CON I PICCOLI
Il primo gruppo si dedicava ai loro
coetanei, ma non bastava. Data la
precocità dei nostri giovani, appariva
sempre più chiara la necessità di
cominciare a parlare del problema il
più presto possibile.
La diocesi di Durban aveva preparato
una serie di catechesi per aiutare
gli studenti dai 7 ai 15 anni a
puntualizzare gradualmente il problema.
Abbiamo adottato tale materiale
anche nelle nostre parrocchie.
Ogni sabato le otto classi, corrispondenti
al ciclo scolastico statale,
vengono in chiesa e i catechisti, insieme
ai volontari, portano avanti il
processo formativo degli alunni,
compatibile con la loro età.
Inoltre, una volta all’anno raduniamo
i ragazzi delle tre parrocchie
per una chiacchierata sugli «abusi
sessuali». L’iniziativa è stata suggerita
da un’assistente sociale, preoccupata
dall’alto numero di casi registrati
nella zona.
Vista da lontano, tale iniziativa può
sembrare esagerata; ma nell’ambiente
in cui viviamo, una catechesi che
non tocchi il vissuto quotidiano dei
ragazzi resterebbe alquanto sterile.

ORFANI
Una delle conseguenze più drammatiche
dell’Aids è l’aumento degli
orfani. Sempre più numerosi sono i
nuclei familiari formati solo da nonni
e nipotini; in molti casi i piccoli sono
abbandonati a se stessi: il maggiore,
a 10-11 anni, è già capofamiglia
e deve prendersi carico dei
fratellini più piccoli.
Un giorno un assistente sociale dell’ospedale
venne a dirci: «Nelle vostre
parrocchie avete tanti progetti di
promozione umana: vorrei incontrare
i vostri volontari e studiare insieme
il modo di rispondere al problema
degli orfani».
Tra le varie proposte fu scelta quella
di invitare i vicini a prendersi cura
dei piccoli, per non separarli e non
sradicarli dall’ambiente. Tanto più
che il governo dà un sussidio mensile
a chi si fa carico di un orfano.
L’idea è buona, ma non sempre facile
da realizzare. Bisogna convincere
le famiglie che l’Aids non è una
«macchia» infamante; vagliare la loro
disponibilità, perché non sia il luccichio
del denaro la ragione per
prendersi in casa un bambino. Ancor
più complicata è la trafila burocratica
per ottenere il sussidio.
I volontari si scontrano con un
problema tipico dei paesi africani:
molti figli non sono registrati al momento
della nascita, ma quando iniziano
ad andare a scuola. Se i genitori
muoiono senza aver provveduto
alla registrazione, nel migliore dei
casi tocca ai nonni fae richiesta. È
una pratica lunga ed estenuante, sia
per i vecchi, costretti a lunghe code,
sia per i volontari, che devono sobbarcarsi
il servizio di trasporto e assistenza
nel disbrigo delle pratiche.

CAMBIO DI VITA
Nel suo primo messaggio alla nazione
(1998), il presidente Thabo Mbeki
disse che ogni giorno 1.500
persone contraevano l’Aids; a cinque
anni di distanza, i dati statistici
continuano a parlare di 1.600 casi
giornalieri. In Sudafrica il morbo è
fuori controllo, nonostante gli sforzi
del governo per educare la gente a
combattere l’infezione.
Tali sforzi, però, non toccano la vita
e i comportamenti di giovani e adulti.
Con i volontari stiamo cercando
un cammino alternativo. Non basta
sapere cos’è l’Aids o come si
contrae, bisogna promuovere «un
cambio di vita» o, per usare il linguaggio
cristiano, occorre una radicale
conversione.
Per questo, con l’aiuto delle suore
della Misericordia, responsabili del
centro pastorale diocesano, organizziamo
periodicamente ritiri di fine
settimana per i giovani. Non sono raduni
d’informazione, ma d’incontro
con Cristo, che ci prende per mano
e ci indica la strada che porta alla pienezza, secondo la sua promessa:
«Sono venuto perché abbiate la gioia
e l’abbiate in abbondanza».

COOPERAZIONE ECUMENICA
«Se ci dicessero che un popolo
vorrebbe invaderci, ci troveremmo
uniti per affrontarlo e difendere l’identità
e la vita della nostra gente»
sentii proclamare in un incontro sull’Aids.
Di fatto, il Sudafrica è in guerra;
ma sembra che molti lo ignorino.
E poi, non bastano sforzi isolati per
vincere tale guerra.
«Siamo riusciti a sconfiggere l’apartheid;
abbiamo la forza per vincere
anche l’Aids», disse tempo fa Desmond
Tutu, il famoso vescovo anglicano
ora a riposo. È questa anche
la nostra speranza. Non ci sentiamo
più soli in questa lotta. Le notizie corrono
veloci e, data la stima di cui godiamo
come chiesa aperta a tutti i bisognosi,
siamo già stati invitati a
prendere parte a incontri con altre
organizzazioni civili e religiose per
scambiarci le idee e unire le forze.
Ogni mese ci riuniamo nell’ospedale
di Newcastle con membri della
polizia, sindacalisti, assistenti sociali
e carcerari… I frutti sono ancora magri;
c’è molta burocrazia; ma almeno
cominciamo a condividere idee, iniziative,
progetti e tentiamo di unire
gli sforzi e di sostenerci a vicenda.
Da parte nostra cerchiamo di mobilitare
tutti: abbiamo costituito un
consiglio di pastori delle chiese cristiane
e procuriamo loro sussidi e li
incoraggiamo ad avviare progetti simili
ai nostri nelle proprie comunità.
È tipico della chiesa cattolica annunciare
un vangelo che promuova
la dignità della persona; le altre denominazioni
cristiane sono più «spiritualiste
», ma qualcosa si sta muovendo
anche in esse.
Padre Rocco Marra, che da anni
lavora in diverse carceri, ha conosciuto
vari pastori che si occupano
dei detenuti: nel 2002 ha potuto organizzare
per loro un corso di quattro
incontri mensili sull’Aids; alla fine
è stato costituito un organismo ecumenico
chiamato: Agape, comfort
and care (amore e consolazione).

LE SFIDE CONTINUANO
Un giorno la madre di una volontaria
mi domandò: «Cosa fate per i
genitori dei giovani? Chi parla loro?
Chi li aiuta a prendere coscienza?
Chi fornisce loro “strumenti” per
aiutare i figli?».
Le questioni poste dalla donna
sottolineano la complessità del problema
e costituiscono un’altra sfida
dell’Aids: l’ho accolta con soddisfazione,
anche se, fino ad ora, non siamo
riusciti a dare una risposta concreta.
Ad ogni modo, questa madre
può essere un punto di partenza per
un’altra iniziativa.
La sfida più grande da vincere è
quella di «rompere il silenzio», quella
tremenda pressione che al danno
unisce la beffa: essere malato e non
potee parlare apertamente. Alcuni
anni fa, Gugu Dlamini, una operatrice
sociale, volle sfidare tale silenzio:
disse di essere malata di Aids.
La gente del quartiere la ammazzò.
Oggi, a Durban, esiste un grande
parco che porta il suo nome.
La gente del Sudafrica è fondamentalmente
cristiana, ma è evidente
che la fede non è ancora penetrata
in profondità, tanto da generare aperture
generose verso le vittime dell’Aids.
È la sfida più forte al nostro
lavoro missionario.
Non solo a Madadeni, ma in tutte
le missioni affidate ai missionari della
Consolata vogliamo dare risposte
concrete a tale sfida, formando i cristiani
alla misericordia e solidarietà,
a essere segni di consolazione di un
Dio che si è incarnato nella storia
quotidiana della gente e
ha trasformato la morte in
vita.

ALCUNI DATI
NEL MONDO
– A dicembre 2002, sono 42 milioni le
persone che vivono con l’Aids/Hiv:
38,6 milioni adulti (19,2 milioni donne)
e 3,2 milioni minori di 15 anni.
– Nel 2002 le nuove infezioni di Hiv
sono state 5 milioni: 4,2 milioni adulti
(2 milioni donne) e 800 mila minori.
– Nel 2002 sono decedute per Aids 3,1
milioni di persone: 2,5 milioni adulti
(1,2 milioni donne), 610 mila minori.
IN AFRICA
– L’Aids è prima causa di morte.
– 28,1 milioni di persone sono infette
da Hiv, con progressione di 3,4 milioni
all’anno: 9.300 al giorno.
– Nel 2002 sono morte di Aids 2,3 milioni
di persone, metà sono donne.
– In 20 anni, 13 milioni di minori sono
«orfani di Aids».
– Entro il 2010 il numero di tali orfani
è destinato a salire a 30 milioni.
– Per quanto riguarda lo sviluppo, l’Hiv
ha riportato indietro di 25 anni l’intero
continente.
AFRICA AUSTRALE
– Il Sudafrica è ritenuto il paese col
più alto numero di portatori di
Aids/Hiv.
– L’11,6% dei sudafricani è colpito da
Hiv; la cifra sale a 15,6% tra le persone
dai 15 ai 49 anni.
– Dei minori tra 2 e 14 anni, il 5,6%
sono sieropositivi e il 13% hanno perduto
uno o entrambi i genitori.
– Entro il 2010 l’epidemia potrebbe
uccidere da 5 a 7 milioni di sudafricani.
– Entro il 2010 in Sudafrica (come pure
in Botswana, Mozambico, Lesotho,
Swaziland) il numero dei morti supererà
quello delle nascite.

Gli Stati Uniti contro tutti
L’«APARTHEID
FARMACEUTICO»

Ginevra, 26 dicembre 2002. Gli
Stati Uniti si sono opposti all’accordo
tra i 144 paesi del Wto
(Omc, Organizzazione mondiale
del commercio) per la diffusione a
basso costo dei farmaci salvavita.
Questi riguardano l’Aids, ma anche
malaria, tubercolosi e una
quindicina di malattie tropicali.
Washington si è schierata a fianco
della potente lobby farmaceutica,
«Big Pharma», che non vuole vedere
intaccati i propri profitti
(+21% nel solo 2001). Nel caso
dell’Aids, per la cui terapia ci sono
i costi più alti (assolutamente inaccessibili
nei paesi del Sud del
mondo), continuerà il monopolio
delle 7 compagnie farmaceutiche
che hanno l’esclusiva dei brevetti
fino al 2016: Pfizer, Roche,
Glaxo-Smith-Kline, Merck, Abbot,
Boehringer, Bristol-Myers
Squibb.
Assediati dalla malattia, alcuni
paesi (tra i quali India, Brasile e Sudafrica)
già producono farmaci generici
(cioè con gli stessi principi
attivi dei farmaci brevettati).
Su queste tematiche si veda:
il «dossier Aids» su Missioni Consolata
di giugno 2001.

José Luis Ponce de León




SEIMEIZAN (GIAPPONE) dialogo interrreligioso

PAZIENZA E SILENZIO
Esperienza di un giovane italiano
in un centro giapponese,
dove s’impara l’arte
dell’ascolto e del dialogo.

Sulla cima del Narutaki, una
delle innumerevoli colline della
parte meridionale dell’isola
di Kyushu, tra verdi abetaie sorge il
centro di dialogo interreligioso Seimeizan,
termine che in giapponese
significa «Montagna della vita». Da
questa altura si ha una visione incantevole:
dalla vallata sottostante lo
sguardo si spinge sulla penisola di
Shimabara, sul mare di Ariake, fino
a toccare il monte Unzen, il più grande
cratere vulcanico del pianeta.
A Seimeizan tutto invita a guardare
lontano, non solo con gli occhi, e,
al tempo stesso, a scrutare dentro se
stessi.

TRE PERCORSI
Alla guida del Seimeizan c’è padre
Franco Sottocornola, 67 anni, missionario
saveriano, liturgista, poliglotta,
in passato docente di teologia al seminario
di Parma. Arrivato in Giappone
25 anni fa, ha fondato il Seimeizan
nel 1987 con un religioso buddista,
scomparso lo scorso anno.
Della comunità fanno parte suor
Maria De Giorgi, 55 anni, missionaria
saveriana, teologa, studiosa del
buddismo, in Giappone da quasi 12
anni, che segue le relazioni inteazionali
del centro; suor Shoji, giapponese,
70 anni, orsolina, che si occupa
dei rapporti tra il centro e l’amministrazione;
padre Yoshioka, 31 anni,
conventuale francescano, che cura tre
parrocchie della provincia rimaste
senza parroco; da ultimo sono arrivato
anch’io, discepolo alle prime armi.
La nostra vita è ritmata da un programma
che prevede quasi tre ore di
preghiera comunitaria giornaliera. Il
mattino inizia con lo zazen (meditazione);
seguono lodi e messa. Nel
primo pomeriggio abbiamo una breve
preghiera; prima di cena i vespri;
la giornata si conclude con la preghiera
di compieta.
Lodi e vespri sono recitati all’aperto,
rispettivamente nell’esatto
momento dell’alba e del tramonto;
di conseguenza i nostri orari variano
ogni tre o quattro settimane, seguendo
il ritmo del sole.
Parte della giornata è impiegata
nella manutenzione del centro. In
questo periodo mi occupo della pulizia
del parco: alberi cresciuti storti
da tagliare, con mio grande dispiacere;
sottobosco da ripulire e
quintali di foglie da raccogliere e
bruciare. Sto anche completando il
lavoro di veiciatura dell’ultimo edificio:
una casetta a due piani in legno,
costruita secondo lo stile tradizionale,
con un sistema di incastri
senza utilizzare un solo chiodo. A
tali occupazioni si aggiunge l’impegno
degli ospiti.
Oltre al lavoro e preghiera, mi dedico
allo studio in tre diverse direzioni.
Prima di tutto la lingua giapponese:
un ottimo libro mi aiuta a
memorizzare rapidamente gli ideogrammi;
lo studio della grammatica
e la conversazione coi membri della
comunità mi permettono le conversazioni
più elementari.
La seconda direttiva riguarda lo
studio del buddismo giapponese, attraverso
la lettura di libri, conversazioni
con padre Franco e suor Maria
e periodi di condivisione di vita. Ho
da poco trascorso quattro giorni in
un tempio zen, su una montagna a
un paio d’ore da qui. Ci si alzava alle
tre del mattino, si stava sempre a
piedi nudi e si praticava lo zazen
quattro ore e mezza al giorno. A parte
il dolore alle gambe, sono tornato
molto soddisfatto: ho imparato cose
nuove sulla meditazione e la vita
quotidiana nel tempio; ho fatto amicizia
con un aspirante bonzo giapponese.
Spero di ripetere una simile
esperienza in un tempio di Nagasaki.
Il terzo percorso consiste nella lettura,
sotto la guida di suor Maria, dei
documenti della chiesa riguardanti il
dialogo interreligioso, a partire dal
Concilio Vaticano II.

INCONTRI
In questo periodo abbiamo compiuto
una serie di visite particolarmente
interessanti: a un sito archeologico
dell’età del bronzo, un tempio
shintornista e monastero buddista, nel
quale abbiamo avuto un incontro
con un bonzo della scuola Tendai.
Altrettanto significativi sono gli
incontri con gli ospiti. Abbiamo avuto
12 seminaristi e giovani preti,
appartenenti a vari istituti missionari,
per un corso di introduzione alla
cultura e spiritualità giapponesi, con
conferenze tenute da padre Franco,
suor Maria e padre Sonoda.
In un altro incontro abbiamo invitato
al centro una maestra della cerimonia
del tè (cha-do) e della disposizione dei fiori (ka-do) per offrire ai
nostri ospiti un primo approccio a
queste arti tradizionali. Con grande
sorpresa ho notato che i giovani missionari
provenivano tutti da paesi del
sud del mondo: Filippine, Indonesia,
Messico, Congo e Vietnam.
Un momento particolare l’abbiamo
vissuto quando sono venuti al
centro 24 membri di un’organizzazione
protestante di Kyoto, in maggioranza
giapponesi, con alcuni tedeschi,
inglesi e un finlandese. Tale
organizzazione è stata la prima, in
Giappone, a occuparsi di dialogo interreligioso:
ora vorrebbe creare un
proprio centro sul modello del Seimeizan.
Per alcuni giorni si è parlato
della storia, organizzazione e spirito
del nostro centro. Tutti hanno
partecipato ai nostri momenti di
preghiera.
Spesso tutta la comunità si reca a
celebrare la messa domenicale nella
cittadina di Tamana, una delle tre
parrocchie che seguiamo. La chiesetta
è piccola e, come ovunque in
Giappone, bisogna togliersi le scarpe
prima di entrare. La comunità
parrocchiale è molto unita; prevalgono
le donne di una certa età; mentre
i giovani, una ventina, frequentano
solo raramente.
La domenica, infatti, le scuole organizzano
saggi e gare sportive, alle
quali gli alunni sono praticamente
obbligati a partecipare. Gli studenti
degli ultimi anni di scuola superiore,
invece, la domenica frequentano
corsi speciali di preparazione agli esami
di ammissione all’università.
Tempo fa, la parrocchia ha orga-

nizzato un bazar, cioè una serie di
bancarelle per la raccolta di fondi.
Sono finito nel reparto cucina e mi
sono distinto nel preparare la soba,
una pasta simile agli spaghetti che,
dopo essere lessata, viene grigliata alla
piastra con pancetta, insalata, carote,
germogli di soia e salsa.
Ciò che maggiormente ci procura
gioia e fiducia è il cammino delle persone
che si preparano al battesimo.
Suor Maria sta seguendo una signora
sposata, di 40 anni, e un ragazzo
di 18. Ogni mese teniamo un ritiro
di preghiera. Vi partecipano i fedeli
delle tre parrocchie e vari non cristiani
in ricerca.
Al «nucleo storico» dei partecipanti
a questi ritiri appartiene una signora
simpatica e attiva, splendido
esempio di laicato missionario: fin
dalla fondazione del Seimeizan ha
portato a questi ritiri amiche e conoscenti
non cristiane. Alcune di esse
hanno intrapreso il cammino dei catecumeni.
Alla messa domenicale nella parrocchia
di Tamana arriva pure, a piedi
e da sola, una signora di 90 anni.
È una maestra di sho-do, l’arte tradizionale
della calligrafia; alla sua veneranda
età, ha incominciato a
prendere lezioni di inglese. È interessata
al cristianesimo; per questo
ha iniziato a frequentare la messa
domenicale. Personaggi così non
sono rari qui in Giappone.
Non è facile entrare nell’animo
giapponese e cogliee le infinite
sfumature. Ma ciò che
è bello è l’atteggiamento che si vuole
instaurare nel confronto degli altri
credenti: rispetto, ascolto, armonia,
attenzione e… tanta pazienza.
Perché da tutto ciò nasca
in tutti la ricerca sincera
della verità.

Fabio Limonta, di Oggiono (LC), 30 anni,
è laico missionario della Consolata:
ha frequentato il nostro Centro di Bevera
e ha alle spalle alcune esperienze di
volontariato in Kenya, India e Giappone
(proprio presso il Seimeizan).

BUDDISMO
GIAPPONESE

Idea chiave del buddismo è che tutti
gli esseri viventi sono imprigionati in
un ciclo infinito di reincarnazioni; il
continuo nascere-e-morire è sperimentato
come sofferenza; da qui lo
scopo di questa religione: liberare
l’uomo da tale ciclo di rinascite, culminante
nell’«illuminazione».
Al di là di questa unità dottrinale, il
buddismo si presenta in un’infinità di
correnti con profonde differenze. In
Giappone esistono 13 denominazioni
o correnti, ulteriormente divise in
un centinaio di scuole. Tali differenze
sono di carattere storico, filosofico e
cultuale.
Dal punto di vista filosofico, alcune
denominazioni ritengono l’illuminazione
raggiungibile con le proprie
forze, con lo studio delle scritture,
ascesi, pratiche di tipo magico, meditazione.
A questa categoria appartiene,
il famoso zen.
Per altre correnti l’iIluminazione è raggiungibile
solo grazie all’intervento di
un’entità superiore. Elemento caratterizzante
di queste denominazioni è la
fede in una divinità chiamata Budda
Amida(da non confondere col Budda
storico, Siddharta Gautama), da cui il
nome del movimento: amidismo.
Attualmente, la denominazione più
numerosa è la nichiren(dal nome del
fondatore), che conta più di 30 milioni
di fedeli. Si distingue per una forte
impronta nazionalista e, contrariamente
alla tradizione buddista, manifesta
forti critiche nei confronti di altre
religioni e correnti buddiste.
Solidamente organizzata, è tesa al
proselitismo esasperato, fino a teorizzare
l’uso della violenza per diffondere
il proprio credo.
Benché in Occidente si parli di
«monaci e monasteri buddisti»,
nel buddismo giapponese non esiste
niente di equiparabile alla nostra tradizione
monastica. Quello del monaco
è, in molti casi, un mestiere che si tramanda
di padre in figlio. I «monaci»,
infatti, sono quasi tutti sposati e vivono
gestendo il tempio ereditato dalla
famiglia; i «monasteri» sono luoghi di
formazione dei giovani aspiranti, la
quale può durare da pochi mesi, per i
laureati in una università buddista, a
due anni per chi ha un titolo di studio
inferiore.

CRISTIANESIMO IN GIAPPONE
La prima evangelizzazione del Giappone risale alla metà del 1500, con l’arrivo
di san Francesco Saverio e altri gesuiti. Il cristianesimo conobbe subito una
rapida espansione, con centinaia di migliaia di battezzati, tra cui molti nobili e
signori locali. Ma alla fine di quel secolo sorse il timore che la diffusione del cristianesimo
potesse favorire propositi di conquista del paese da parte delle grandi
potenze cattoliche dell’epoca, Spagna e Portogallo. Iniziò, quindi, un’epoca di
tremende persecuzioni, con torture e crocifissioni di massa. Uno degli episodi più
noti ha per protagonisti san Paolo Miki e 25 compagni, religiosi e laici, crocifissi
a Nagasaki il 5 febbraio 1597.
L’apice della persecuzione fu raggiunta nel 1637: 37.000 contadini, in gran
parte cristiani, furono massacrati nella fortezza di Shimabara per essersi ribellati
alle vessazioni dei feudatari locali.
Per più di 200 anni l’intero paese rimase isolato dal resto del mondo, ma i cristiani
scampati alle persecuzioni conservarono di nascosto la propria fede.
Dopo l’apertura forzata dei porti del Giappone nel 1853, a Nagasaki si formarono
alcune comunità di europei e i francesi costruirono una cappella. Nel 1865,
un gruppo di «cristiani nascosti», riconosciuti i simboli della propria fede, si presentò
al sacerdote e si venne così a sapere dell’esistenza di queste antiche comunità
cristiane. La chiesetta fu ribattezzata «chiesa del ritrovamento» ed è uno dei
pochissimi edifici di Nagasaki sopravvissuti alla bomba atomica.
Gli editti contro il cristianesimo, però, erano ancora in vigore e, dal 1867 al
1873, i cristiani dovettero subire una nuova persecuzione con imprigionamenti e
deportazioni. Solo nel 1889, con la promulgazione della nuova costituzione, fu
garantita la libertà di culto.
Oggi il cristianesimo gode piena libertà, ma vari problemi ne impediscono l’espansione.
Prima di tutto l’idea che si tratti di una religione occidentale e,
come tale, estranea. Lo stesso buddismo, prima di essere completamente accettato,
ha impiegato secoli e subito un processo di «giapponesizzazione».
In secondo luogo il cristianesimo, anche dal punto di vista storico e culturale, è
quasi sconosciuto. Meno dell’1% della popolazione è cristiana e i libri di scuola
dicono pochissimo dell’evangelizzazione del XVI secolo. La chiesa cattolica è
conosciuta come ente filantropico, che gestisce scuole e ospedali. L’aspetto propriamente
religioso e spirituale è quasi ignorato.
Tra le difficoltà maggiori ci sono alcune peculiarità culturali. Per esempio, i giapponesi
privilegiano un tipo di pensiero concreto, rispetto a quello astratto a noi
familiare. Soprattutto non esiste l’idea del peccato come è inteso nel cristianesimo:
l’etica giapponese non è fondata sull’obbedienza a una legge morale, ma
piuttosto sul rispetto di un complesso sistema di convenzioni sociali. In altre parole,
il male non è violare un comandamento di Dio, ma rompere l’armonia all’interno
del gruppo d’appartenenza.
Infine, il processo di secolarizzazione e, in certa misura, una vera e propria decadenza
sta portando la
società giapponese all’indifferenza
verso i valori
spirituali, anche quelli
insiti nelle religioni tradizionali,
come il buddismo
e lo shintornismo. La
grave recessione economica
di questi anni sta
modificando molti aspetti
della vita sociale, dal
mondo del lavoro a quello
della scuola, per avvicinare
il paese al modello
occidentale, facendo così
crescere individualismo e
competizione.

Fabio Limonta




16 FEBBRAIO festa del beato Giuseppe Allamano

QUASI UNA VITA…

La corrispondenza spedita e ricevuta dal beato Giuseppe Allamano e altri documenti che lo riguardano: vi si colgono lo snodarsi di tutta la vita o «quasi» e gli infiniti tratti della sua poliedrica figura.

Con la pubblicazione dell’ultimo
volume della corrispondenza
del beato Giuseppe Allamano
(ottobre 2002), padre Candido
Bona ha posto la parola fine a un
lavoro immane, durato 12 anni. Sono
dieci, anzi, undici tomi (il nono volume
è doppio), per un totale di 8.045
pagine, che racchiudono 4 mila documenti,
di cui 1.812 lettere autografe
dell’Allamano.
Un’edizione integrale: lettere, relazioni,
cartoline postali, biglietti da
visita, saluti aggiunti ad altri scritti,
fatture di pagamenti, foglietti sparsi.
Tutto è stato pubblicato, senza tagli
né censure. Accanto agli scritti del
fondatore, figura pure una massa
notevole di lettere da lui ricevute.
Non è una semplice raccolta,
bensì un’edizione «critica»: qui
sta il suo straordinario valore,
anche storico. L’autore, infatti,
ha voluto offrirci la produzione
epistolare dell’Allamano
inquadrandola nel suo
tempo (la precisione delle
date!), arricchendola con
spiegazioni e chiarimenti,
riportando i dati biografici
delle innumerevoli persone citate,
anche le più umili e sconosciute;
stabilendo collegamenti sicuri o
probabili; rispettando, fino
allo scrupolo, il testo
originale; interpretando
perfino silenzi
e allusioni,
per rendere
meno oscuri
avvenimenti e
personaggi.
Un lavoro
scrupoloso
fatto di pazienti
ricerche, prime stesure, decine di
persone consultate, confronti d’ogni
tipo; poi correzioni, aggiunte e verifiche,
stesure definitive… E tutto con
lo stile di un ricercatore attento,
esigente e pignolo, fino a
spedire qualcuno due volte
sul campanile del santuario
della Consolata, per
verificare l’esattezza delle
iscrizioni sulle campane.
A Padre Candido Bona (che qualcuno chiama affettuosamente
«la storia») un bel grazie!
Come è nata questa «passione»
per il fondatore e l’idea di
pubblicarne il carteggio?
«Nel 1960 – inizia padre Bona – ricorreva
il centenario della morte di
san Giuseppe Cafasso, zio dell’Allamano.
La reliquia del suo braccio,
dopo aver fatto il giro delle parrocchie
e prigioni di Torino, arrivò pure
in casamadre. Fui incaricato di tenere
la commemorazione sul tema Il
Cafasso e le missioni. Cambiai tema
e titolo: Il servo di Dio Giuseppe Allamano
e un secolo di movimento
missionario in Piemonte. Per stendere
la relazione potei consultare liberamente
le lettere autografe del fondatore».
Quella conferenza, pubblicata e
ripubblicata in varie forme, diventò
uno stimolo e punto di riferimento
per ulteriori ricerche sulla figura del
fondatore e la storia dell’istituto. Fino
a quell’anno, infatti, esistevano una
biografia ufficiale dell’Allamano,
Dottrina Spirituale, alcune conferenze
e lettere circolari: missionari e
missionarie della Consolata sembravano
felici e contenti.
La relazione di padre Bona mette
in luce il grande fervore missionario
nato e cresciuto in Piemonte e nel resto
del Regno Sardo, per influsso
d’oltralpe, durante il secolo XIX, contagiando
e coinvolgendo vescovi,
preti e laici. Basti pensare che, nel
1858, c’erano «600 missionari sardi»
sparsi per il mondo e la chiesa piemontese
raccoglieva per l’Opera della
propagazione della fede più denaro
di tutte le diocesi italiane messe insieme.
In tale clima l’Allamano crebbe e
progettò la fondazione di un istituto
missionario, già nel 1885-1886: «fondazione
che va inserita nell’alveo di
tale movimento e, in certo senso, ne
è erede e coronamento» si legge in
quella relazione.
«Negli anni ’60 – continua padre
Bona – il superiore generale, Domenico
Fiorina, m’incaricò di fare ricerche
sui documenti riguardanti
l’Allamano, essendo in corso il processo
di canonizzazione. Per anni ho
battuto a tappeto tutti gli archivi di
chiese, santuari e diocesi, comunali
e nazionali, di dicasteri romani e istituti
religiosi… ovunque potessero
esserci tali documenti: scoprii una
mole di materiale e lettere, in gran
parte fino ad allora sconosciute: “Un
giorno dovranno pur essere pubblicate”
mi dissi».
Alla raccolta dei documenti si accompagnava
il lavoro di studio critico,
compilazione e pubblicazione:
negli anni ’80 uscirono tre volumi
con le conferenze e nel 1990 il primo
volume delle lettere.
Perché pubblicare anche le lettere
ricevute e perfino i frammenti
dei suoi scritti?
«Una briciola contiene tutta la sostanza:
a volte una persona si rivela
meglio in poche righe che in lunghe
composizioni – risponde padre Bona
-. Circa la corrispondenza ricevuta,
prima di tutto, essa rivela la vasta
gamma di relazioni che aveva
l’Allamano e di attività in cui era
coinvolto».
Basta scorrere l’indice dell’epistolario
per avere un’idea della molteplicità
delle relazioni: familiari e amici,
vescovi, cardinali e papi, principi
e re di casa Savoia, autorità civili
e religiose, benefattori e, soprattutto
i suoi figli, i missionari e missionarie
della Consolata.
È altrettanto sorprendente, sfogliando
qualche lettera, scoprire la
diversità di toni: dall’ufficialità burocratica,
sempre elaborata con cura,
magari con l’aiuto dei collaboratori,
alla spontaneità delle lettere
personali, scritte con lessico semplice,
talora con sottofondi dialettali,
con stile sobrio, misurato e incisivo,

capace di andare al cuore, caldo e
persuasivo.
«Molte lettere dell’Allamano sono
andate perdute – continua padre Bona
-: è dalle risposte che possiamo conoscere
contenuti e toni di quelle inviate.
Mancano, per esempio, le lettere
scritte per promuovere la causa
di beatificazione del Cafasso. Se non
avessimo le risposte, non avremmo
che una pallida idea della complessità
di tale processo, specialmente a
quei tempi, i problemi e difficoltà da
lui incontrate. Tra l’altro, sappiamo
che l’Allamano poté testimoniare per
uno speciale permesso della Santa
Sede, essendo parente del santo e
non avendo avuto esperienza diretta
dello zio, morto quando il fondatore
aveva nove anni; ma lo conosceva a
fondo, grazie alle innumerevoli testimonianze
sentite da altre persone.
Ci sono lettere «difficili», situazioni
complesse come la
beatificazione dello zio?
«Molte, come il carteggio con
mons. Jarosseau, vicario apostolico
dei galla, per definire dove avrebbero
dovuto lavorare i suoi missionari.
Consultando mappe e prendendo le
dovute informazioni, l’Allamano fece
presente che il territorio designato
dal vescovo con le cornordinate geografiche
non era sotto la sua giurisdizione,
che il luogo era malsano e
i galla erano stati cacciati dalle razzie
di vari gruppi etnici.
Scottante è pure il carteggio con Alexandre
Le Roy, superiore generale
dei padri dello Spirito Santo. In attesa
di tempi propizi per entrare in Etiopia,
i missionari della Consolata
furono accolti nel Kenya, ma l’Allamano
dovette promettere che essi
non avrebbero preteso un territorio
proprio, perché “i kikuyu sono una
etnia troppo piccola per due istituti”
diceva Le Roy. Ritardando la possibilità
di condurre in porto il progetto
originario, i missionari della Consolata
furono incoraggiati dagli stessi
padri dello Spirito Santo a fondare
missioni ed espandersi tra i kikuyu,
finché l’Allamano chiese a Propaganda
fide piena autonomia sul territorio
in cui lavoravano i suoi figli.
Le Roy gli rinfacciò di aver mancato
di parola. Nella lettera del 30
settembre 1905, l’Allamano ammise
e spiegò le ragioni del suo comportamento,
con delicatezza e fermezza,
concludendo: “Vôtre grandeur non
è al corrente dei fatti”.
Quando Giacomo Camisassa visitò
le missioni del Kenya (1911-12),
inviò al fondatore relazioni non troppo
consolanti su situazioni di personale
e problemi scottanti; l’Allamano
rispondeva con la sua istintiva
saggezza. Non meno sofferte sono le
lettere degli ultimi anni, indirizzate a
mons. Filippo Perlo, rimasto in Africa
per 14 mesi dopo l’elezione a vice
superiore dell’istituto con diritto
di successione».
Allora si può davvero definire
il fondatore «il Salgari della
missione»?
«Ma che Salgari! Costui ha inventato
tutto con la fantasia. L’Allamano,
invece, insieme a Camisassa, prima
di fondare l’istituto e, poi, prima
di inviare i suoi missionari, aveva letto
libri e resoconti di esploratori e
missionari, si era informato e aveva
fatto ricerche minuziose sui territori
in cui sarebbero andati i missionari.
E continuò a documentarsi. Nella
lettera a Propaganda fide del 18 dicembre
1912, per definire i confini
dell’erigenda prefettura del Kaffa e
smontare le obiezioni di Jarosseau,
viene citato perfino un esploratore
russo, Alexandr Bulatovic.
Quando il fondatore parlava ai
suoi missionari dell’Africa, dei suoi
popoli e costumi, problemi e situazioni,
lo faceva da esperto e innamorato,
come se in quel continente ci
fosse stato e continuasse a viverci.
Nel carteggio con Giulio Pestalozza,
console italiano a Zanzibar, per esempio,
le lettere dell’Allamano e del
Camisassa mostrano una profonda
conoscenza di tutti i problemi politici
e amministrativi, geografici e pratici,
e vengono studiate strategie per
entrare in Etiopia. Tra l’altro, si progettava
la costruzione di un battello
per risalire il fiume Tana; ma esso non
doveva avere più di mezzo metro di
pescaggio, poiché in certi punti il fiume
era troppo basso».
Oltre alla passione per l’Africa,
quale figura emerge dalle sue
lettere?
Padre Bona si lascia cadere le
braccia, poi risponde: «È impossibile
sintetizzare in poche righe la sua
personalità poliedrica che, di volta
in volta, è amico, parente, confratello,
rettore, padre, fondatore, consigliere, guida spirituale… È meglio
leggersi le lettere».
Ho capito l’antifona. Cambio la
domanda e gli chiedo di indicarmi
qualche lettera che lo ha particolarmente
impressionato. Scrive quattro
nomi e rispettive date, foendo
qualche dritta.
La lettera inviata nel 1882 a mons.
Gastaldi è un capolavoro di abilità
psicologica e diplomatica. Mentre il
clero torinese trema di paura davanti
al suo vescovo, l’Allamano, 31 anni,
gli ricorda le «voci maligne» che
circolano sul suo conto, per avere usato
il guanto di ferro sulla scuola di
morale per i neo-sacerdoti: voci che
solo il vescovo può smentire, ristabilendo
il Convitto ecclesiastico nella
sede naturale, la Consolata. E per facilitare
la soluzione, gli suggerisce
persone che sa gradite a monsignore
e il modo di cavarsela con onore.
Nella lettera ai primi membri della
casamadre (28 luglio 1901) manifesta
tutto il suo cuore paterno: si
rammarica di non poter essere più
frequentemente con loro e detta alcune
regole per il buon funzionamento
della comunità.
La corrispondenza tra l’Allamano
e fratel Benedetto Falda è pervasa da
profondo affetto e confidenza, raggiungendo
toni profetici. Unico superstite
della terza spedizione, il fratello
nutre qualche dubbio sulla propria
resistenza; l’Allamano gli scrive:
«Non mi stupisco delle tentazioni
temporanee di scoraggiamento…
Con la grazia di Dio ti passerà e riuscirai
un missionario di spirito… No,
la nostra missione andrà innanzi e
prospererà, perché è opera di Dio e
della Consolata. Passeranno gli uomini,
con merito più o meno secondo
il loro spirito, cadranno alcune
foglie, ma la pianta crescerà e verrà
albero gigantesco; io ne ho prove
prodigiose in mano. Fortunato chi
persevererà; egli vedrà esiti splendidi.
Felice te che per essere il primo
fratello a fare i voti perpetui, sarai capo
di una grande schiera di santi fratelli
in cielo, e di lassù dovrai anche
ringraziare me che non ti risparmiai
correzioni» (2 settembre 1908).
Quando il fratel Falda gli comunicò
di avere fatto in privato la professione
perpetua, l’Allamano gli
scrisse: «Con la mia benedizione intendo
confermarti come primo fratello
dell’istituto» (8 dicembre 1908).
Non mancano pennellate umoristiche,
come nella lettera a mons.
Ressia, vescovo di Mondovì e compagno
di corso dell’Allamano. Per
celebrare il giubileo sacerdotale
(1923), il vescovo avrebbe voluto i
compagni a Mondovì, ma l’Allamano
gli scrisse: «Siamo vecchi e sciancati;
a Mondovì daremmo ammirazione…
In Torino invece e nella Consolata
resteremmo ignoti».
Brioso è pure l’inizio dell’invito a
mons. Ressia per la beatificazione
del Cafasso (1925): «Nel vedere la
mia brutta calligrafia dirai, già nuovamente
quel noioso. Abbi pazienza;
vecchio con vecchio».
Rivelatrici del suo cuore sono pure
le ultime parole scritte dal beato
fondatore nel gennaio del 1926, pochi
giorni prima della morte: riformulando
il testamento conclude
così: «Arrivederci
tutti nel bel paradiso».

Benedetto Bellesi




DIRITTI UMANI libertà religiosa negata

DI MALE IN PEGGIO
In barba alla Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo,
la libertà religiosa
è sempre più calpestata,
specialmente in Asia, dove
le minoranze cristiane sono
le più esposte a repressioni
e persecuzioni.
Presentiamo alcuni casi.

Oltre 410 milioni di cattolici
soffrono limitazioni alla libertà
religiosa nel mondo.
Nei paesi islamici i cristiani sono sistematicamente
discriminati e posti
in condizione di inferiorità sociale,
quando non sono oggetto di massacri
e pulizie da parte di milizie islamiche:
in quelli con regimi comunisti
continuano a subire persecuzioni
e repressioni; negli stati a maggioranza
buddista e induista la situazione
non è affatto migliore.
L’Asia, soprattutto, si rivela il continente
in cui, anche nel 2001, la libertà
religiosa è stata maggiormente
negata: lo testimoniano i rapporti annuali
su tale argomento del Dipartimento
di stato americano, Amnesty
Inteational, Aiuto alle chiese che
soffrono e altri organismi inteazionali
in difesa dei diritti umani.
Gli esempi che riportiamo non sono
i peggiori, ma bastano a dare un’idea
di un problema sempre più grave
e di cui si parla sempre meno. Dove
il diritto alla libertà religiosa non
è rispettato, anche gli altri diritti fondamentali
vengono calpestati.

MYANMAR: proibito… cantare
Nell’ex Birmania è presente circa
un milione di cristiani, di cui 400 mila
cattolici, su una popolazione di
quasi 46 milioni di abitanti.
Dal 1996 il regime militare birmano
non concede licenze di costruzione
per edifici di culto e, dal luglio
2001, è in vigore un ordine governativo
per cui «le comunità cristiane
non possono riunirsi in luoghi di culto
costruiti meno di un secolo fa».
Da allora sono state chiuse oltre 80
chiese nella capitale Rangoon; altre
20 a Shwe Pyi Tar; a Haling Tai Yar,
invece, sono stati chiusi tutti gli edifici
di culto: i cristiani hanno il permesso
di riunirsi privatamente, ma
con l’ordine di non cantare.
A 5 ministri cristiani del culto è
stato ordinato di lasciare il paese; altri
17 hanno scelto la latitanza. È ancora
in carcere la pastora battista
Gracie, arrestata il 13 febbraio 2001
e inteata nel campo militare di
Haka con l’accusa di aver dato rifugio
a separatisti di etnia chin: il tribunale
le ha inflitto una condanna a
due anni di lavori forzati. Stessa condanna
è stata inflitta al fratello maggiore,
accusato dello stesso reato.
Per i fedeli del luogo, però, tali accuse
sono infondate e mirano a ridurre
la libertà religiosa.
In Myanmar è da anni in corso una
guerra civile contro vari gruppi etnici
separatisti e una spietata repressione
contro l’opposizione. A volte la
tensione politica sfocia in scontri a
sfondo religioso, soprattutto tra buddisti
e musulmani, provocando vittime
e distruzioni di case e moschee.
Nei confronti della minoranza islamica
(3,3%, contro il 69% buddista),
il governo persegue una politica
particolarmente repressiva, confinando
i musulmani in determinate
aree del paese e limitandone la libertà
di movimento. Nel corso del
2001, nello stato di Arakan, il governo
ha provveduto a distruggere 10
moschee e a programmare l’abbattimento
di altre 30.

BHUTAN:
cambiare religione… o paese

L’8 aprile 2001, domenica delle
palme, la polizia bhutanese schedò i
fedeli radunati davanti ai luoghi di
culto; molti pastori protestanti furono
arrestati e sottoposti a interrogatori
e minacce di detenzione. Altri fedeli
fuggirono per paura di essere identificati.
Il prezzo più salato lo
pagò il pastore Yakub, arrestato per
15 giorni e sottoposto a percosse affinché
abiurasse.
La campagna persecutoria è scattata
nel 2000, con l’invio a impiegati
pubblici e privati di speciali moduli
da compilare, in cui si chiedeva di
sottoscrivere «norme e regole che sovrintendono
la pratica della religione
»; la distribuzione dei moduli era
accompagnata da minacce ai cristiani:
«Abbandonate la vostra religione
o lasciate il paese».
Il governo del Bhutan, naturalmente,
nega schedature e ultimatum
e afferma che nel paese ognuno è libero
di professare e praticare la propria
fede. Ma la testimonianza dei
cristiani conferma che i non buddisti
soffrono discriminazioni politiche
e sociali e la persecuzione contro i
cristiani è ora estesa e sistematica, villaggio
per villaggio; in alcune città i
cristiani sono malmenati e non possono
riunirsi se non in case private;
non hanno promozioni sul lavoro;
subiscono licenziamenti immotivati,
la revoca di licenze commerciali,
vengono loro negati i benefici dell’assistenza
pubblica.
Su 1,8 milioni di abitanti, il 70,1%
della popolazione del Bhutan è costituita
da buddisti lamaisti, 24%
indù, 5% musulmani e 0,33% cristiani.
Il Bhutan è l’unico regno buddista
nel mondo: l’inno nazionale è
dedicato a Budda; il buddismo è religione
di stato; molti uffici pubblici
sono situati all’interno di monasteri
buddisti. Non ha una costituzione
che garantisce i diritti dei cittadini.

LAOS:
una chiesa da spazzare via

«Tutti i cittadini hanno diritto e libertà
di credere o non credere nelle
religioni» recita l’art. 30 della Costituzione
del Laos, quasi a sancire l’indifferenza
dello stato verso la religione,
anche se l’art. 9 afferma che «lo
stato rispetta e protegge tutte le attività
legali dei buddisti e dei fedeli
delle altre religioni; mobilita e incoraggia
monaci e novizi buddisti, così
come i preti di altre religioni, a partecipare
alle attività che sono di beneficio
al paese e al popolo… Sono
proibiti tutti gli atti che creano divisione
di religioni e classi di persone».
Tale conclusione, piuttosto vaga, è
fatta apposta per giustificare le restrizioni
all’esercizio della libertà religiosa.
L’art. 66 del Codice criminale
«proibisce a qualsiasi individuo di
organizzare o prendere parte a incontri
per creare disordine sociale».
Nel 1998, citando tale articolo, l’ambasciatore
laotiano in Usa spiegava
la filosofia del regime, affermando
che il governo «si oppone fermamente
all’abuso della libertà di religione
per promuovere il dissenso
politico e disordine interno».
Tale politica di «prevenzione» si
traduce in repressione, specialmente
contro la chiesa cattolica. I permessi
per costruire nuove chiese, per
esempio, sono dati solo in quei posti
dove già c’è stata una chiesa cattolica;
per qualsiasi tipo di riunione deve
essere richiesto un permesso speciale
dalle autorità locali a cui va presentata
anche la lista completa dei
partecipanti.
Vari testimoni riferiscono che a subire
maggiormente la repressione è
«la popolazione rurale nel nord del
paese». In diversi villaggi «le autorità
locali hanno esercitato una grande
pressione sulla gente in modo da
prevenire ogni possibile conversione
al cattolicesimo. A tale scopo ci
sono stati numerosi arresti di sacerdoti
e operatori pastorali. Sembra
che il governo usi ogni mezzo per evitare
la crescita del cattolicesimo».
Anche le altre confessioni cristiane
sono nel mirino del regime.
La repressione contro le comunità
cristiane, si è intensificata negli
ultimi anni ’90. Nel mirino ci sono
soprattutto i cristiani, presenti principalmente
tra le etnie minoritarie
hmong e khmu. In alcuni villaggi,
oltre alla rinuncia scritta al cristianesimo,
le autorità forzano i cristiani
a seguire riti animisti, che includono
sacrifici degli animali, bere il
loro sangue e parlare agli spiriti.
Ma anche in quella lao, maggioritaria,
non si fanno eccezioni: tra il
2000 e il 2001, il governo laotiano
ha arrestato e imprigionato oltre
550 cristiani hmong e lao e ha chiuso
in varie province oltre 65 chiese
cristiane e istituti religiosi. Il rapporto
del Dipartimento di stato americano
afferma che nel 2001 vari
cristiani lao «sono stati arrestati, detenuti,
minacciati con la perdita del
lavoro nel governo, fisicamente impediti
dalle forze di sicurezza di
partecipare alle celebrazioni delle
principali festività religiose».
Un caso esemplare: otto leaders
cristiani passarono il mese di giugno
2001 in prigione, perché si erano rifiutati
di firmare un documento in
cui rinunciavano alla fede cristiana.
Fu un mese di torture: venivano regolarmente
trascinati nel cortile della
prigione e «invitati» a firmare tale
rinuncia con una pistola puntata alla
testa. Al momento del rilascio, tre
di essi non erano più neanche in grado
di camminare.
Una trentina di cristiani sono ancora
in carcere, alcuni dei quali da oltre
due anni, per la maggior parte, in
totale isolamento. Altri vengono regolarmente
picchiati.
Il governo comunista del Laos
sembra impegnato a spazzare via la
chiesa dal paese. Impressioni confermate
dai membri della burocrazia
laotiana, in disaccordo con la persecuzione
dei cristiani, riportate dal Telegraph
di Bangkok nel luglio 2001:
«Il Politburo e le maggiori autorità
hanno ripetutamente espresso l’intenzione
di liberare il paese da ciò
che è sprezzantemente descritta come
una fede aliena».

NEPAL: i nipotini… di Mao
Il Codice penale nepalese sanziona
con la detenzione fino a tre anni
chi esercita qualsiasi forma di proselitismo
nei confronti di cittadini
indù. Tale sanzione è sfruttata dagli
estremisti induisti per accusare i
membri di una confessione diversa,
provocandone l’immediato arresto.
Ne hanno fatto le spese il missionario
protestante norvegese Trond
Berg e tre cittadini nepalesi: arrestati
nell’ottobre 2000 con l’accusa di aver
cercato di convertire con denaro
un indù, sono stati rilasciati dopo
quattro mesi, perché al processo non
si sono presentati gli accusatori.
Dal 1996 il Nepal respira un pesante
clima di tensione politica e sociale,
provocata dalla campagna dei
ribelli maoisti per rovesciare la monarchia
costituzionale e istituire una
repubblica comunista. Nella seconda
metà del 2001, numerose stragi
hanno mietuto centinaia di vittime
tra forze dell’ordine e terroristi.
Nel mirino maoista ci sono soprattutto
le scuole private, molte delle
quali hanno ricevuto lettere intimidatorie,
minacce e distruzioni. Dal
2000 hanno già chiuso 150 istituti. La
soppressione del sistema scolastico
privato danneggerebbe un milione di
studenti e 75 mila insegnanti.
Le scuole cattoliche del Nepal occidentale
sono state particolarmente
colpite, ma continuano a lottare
per rimanere aperte. Tali pressioni e
rappresaglie vengono da organizzazioni
politiche filo-cinesi, che si oppongono
alla presenza della chiesa
cattolica nel paese.

TURKMENISTAN:
ritorno alle… catacombe

Quella di Shagildy Atakov è una
storia esemplare di ciò che sta capitando
nel paese. Convertito alla chiesa
battista, 39 anni, moglie e quattro
figli, nel dicembre 1998 Atakov fu incarcerato
e pestato a sangue, fino a
perdere temporaneamente la vista.
Condannato per frode a due anni
di lavoro forzato, in appello la sentenza
fu commutata a quattro anni di
carcere e una multa pari a 12 mila euro.
Nessuno dubita che la sua condanna
sia stata una punizione per la
sua conversione al cristianesimo.
Rifiutatosi di rinunciare alla sua fede
e giurare fedeltà al presidente
Niyazov, Atakov fu sottoposto a maltrattamenti
e vessazioni; ricoverato
all’ospedale per un attacco cardiaco
(2000), fu subito rispedito al campo
di lavoro, poi in cella di isolamento in
un carcere di massima sicurezza.
Per un certo periodo, anche moglie
e figli furono messi agli arresti
domiciliari in un villaggio ai confini
con l’Iran e subirono varie pressioni
dai funzionari di sicurezza, affinché
si convertissero all’islam.
Il caso Atakov ha suscitato scalpore
a livello mondiale. Perfino il Parlamento
europeo e l’Organizzazione
per la sicurezza e la cooperazione in
Europa (Osce) si sono interessati del
suo caso. Ed è, forse, grazie alla pressione
internazionale che Atakov è
stato rilasciato nel febbraio 2002, prima
che scontasse l’intera pena. Ma,
privo di documenti d’identità, egli si
trova ancora sotto sorveglianza.
Casi come quelli di Atakov ne segnalano
a bizzeffe gli organismi in difesa
dei diritti umani. Fin dall’indipendenza
(1991), in Turkmenistan
c’è un crescendo di attacchi contro i
gruppi religiosi minoritari, tanto da
fae il più repressivo dei paesi dell’ex
Unione Sovietica in materia di libertà
religiosa.
Tale diritto è garantito dalla Costituzione
solo sulla carta. Secondo la
legge turkmena, ogni gruppo religioso
deve essere registrato; per ottenere
tale registrazione deve provare di
essere composto da almeno 500 persone
di età superiore ai 18 anni e residenti
nella stessa città. Tali requisiti
fanno sì che nessun gruppo, tranne
i musulmani sunniti (87% dei 4
milioni e mezzo di turkmeni) e la
chiesa ortodossa russa (6,4%), possa
ottenere il riconoscimento legale. I
cattolici (5 mila) e le altre chiese cristiane
hanno comunità di poche decine
di fedeli. Inoltre, col vento che
tira, i cristiani di origine turkmena sono
riluttanti a inserire i loro nomi in
un documento pubblico, rivelando
la loro conversione. Il passaggio dall’islam
al cristianesimo è malvisto dallo
stato e dalla società.
Le comunità religiose non riconosciute,
pur presenti nel paese, non
possono radunarsi, fare proselitismo
o distribuire materiale religioso. Non
è consentito neppure di incontrarsi
in case private: se vengono scoperti,
e lo sono spesso, dato lo zelo della polizia
di sicurezza, i partecipanti sono
soggetti a multe e arresti amministrativi
e accuse penali, che si traducono
in carcerazioni, torture, deportazioni
ed espulsioni, sequestri e distruzioni
di proprietà. L’accanimento
si riversa soprattutto sui leaders dei
gruppi cristiani, per spezzae la resistenza
e forzarli a rinunciare alla fede
o a lasciare il paese.
La chiesa cattolica è autorizzata a
celebrare le funzioni e a svolgere attività
religiose solo sul territorio della
nunziatura apostolica, coperto da
immunità diplomatica.
Ma anche gli unici due gruppi religiosi
riconosciuti dallo stato sono
soggetti a controllo, i musulmani soprattutto.
Per impedire l’ingresso di
movimenti islamici stranieri, il governo
usa vari modi: vieta la distribuzione
di materiale religioso islamico
pubblicato fuori del paese; paga
lo stipendio al clero islamico e
vieta l’insegnamento a certi imam;
chiude scuole coraniche; seleziona e
riduce al minimo i partecipanti al
pellegrinaggio annuale alla Mecca.
La ragione della politica di crescente
repressione della libertà religiosa
è spiegata chiaramente dall’ex
ministro degli esteri turkmeno,
Boris Shikhmuradov, in dissidio col
regime e per questo rifugiatosi a
Mosca: «Il presidente Niyazov
prende personalmente tutte le decisioni
su ogni aspetto della vita del
paese, incluse le questioni religiose,
sebbene egli non abbia alcuna idea
di cos’è la religione. Egli non
tollera alcun dissenso e si serve dei
servizi segreti e polizia di
sicurezza per controllare
il paese».

Dati e fatti riportati sono desunti da varie
fonti, non citate per non appesantire la
lettura, ma consultabili via internet:
– Rapporto 2002 sulla libertà religiosa nel
mondo (Aiuto alla chiesa che soffre)
www.alleanzacattolica.org
– Inteational Religious Freedom Report
for 2002 (Dipartimento di stato Usa)
www.state.gov/g/drl/rls/irf/2002
– Amnesty Inteational (www.amnesty.it)
– Keston News Service (www.keston.org)
– Human Rights Watch (www.hrw.org)

Benedetto Bellesi




IRAQ incontro con la gerarchia cattolica

«QUANTI PRETESTI PER ATTACCARCI!»
Saddam Hussein e le armi sono soltanto pretesti per controllare le ricchezze dell’Iraq.
Perché si attua una politica di 2 pesi e 2 misure? Israele è libero di non rispettare
le risoluzioni dell’Onu senza subire conseguenze, l’Iraq no.
Dichiarazioni fatte da esponenti del governo di Saddam? No, da due alti prelati
della gerarchia cattolica irachena: mons. Warduni, patriarca vicario di Baghdad,
e mons. Isaak, segretario del sinodo caldeo e rettore dell’università.
Due personaggi diversi nel valutare la situazione dei cristiani in Iraq, ma identici
nel denunciare l’ingiustificata aggressione al paese.

INTERVISTA/1: MONS. WARDUNI
Monsignor Ishlemoun Warduni è
patriarca vicario della chiesa cattolica
caldea, a Baghdad.
Monsignore, qual è la situazione
dei cristiani in Iraq oggi?
«Parlare della situazione dei cristiani
in Iraq vuol dire parlare non
di persecuzioni, quanto piuttosto di
restrizioni.
Nel 1980 la comunità cristiana irachena
contava circa un milione di
fedeli, ma proprio da quell’anno,
con l’inizio della guerra contro l’Iran,
la sua situazione ha cominciato
a peggiorare. La guerra del Golfo e
l’embargo imposto nel 1990 l’hanno
fatta poi precipitare, producendo
varie conseguenze come l’emigrazione.
Oggi il numero di cristiani
in Iraq è sceso a 600.000 fedeli.
Con due ulteriori problemi: il fatto
che, nella percezione comune, i cristiani
vengono sentiti come alleati
degli occidentali, piuttosto che come
iracheni; e la progressiva trasformazione
dell’Iraq da paese laico
a paese musulmano, complice la
“Campagna di fede” lanciata dal
governo a metà degli anni 90».
Eppure in Iraq, a differenza dell’Arabia
Saudita per esempio, i cristiani
hanno libertà di culto…
«Per questo parlo di restrizioni e
non di persecuzioni vere e proprie.
Le restrizioni che il governo cerca
di imporre hanno spinto tutti i
vescovi cristiani a protestare, e questa
protesta ha portato alla creazione
di una commissione mista, formata
da rappresentanti del ministero
del culto, dell’istruzione, degli
interni e da vescovi. La commissione
ha prodotto un documento consegnato
al Consiglio supremo della
rivoluzione, e firmato da monsignor
Hawa, vescovo siro-ortodosso e da
me, che non ha avuto però ad oggi
(25/09/2002) nessuna risposta da
parte del governo.
I punti di discussione sono vari.
Alcuni riguardano l’identità dei cristiani
iracheni. Un recente decreto,
per esempio, vieta l’imposizione di
nomi stranieri ai bambini, costringendo
a scegliere tra i nomi “arabi,
iracheni ed islamici”. Sebbene si sia
ancora in attesa di una lista ufficiale
dei nomi permessi, per adesso si
possono usare i nomi biblici riconosciuti
anche dall’islam, ma la loro
forma deve essere quella araba:
Mariam e non Maria, quindi.
Un altro decreto, già applicato
pur non essendo ancora ufficiale, riguarda
più specificatamente la religione.
Se fino ad ora sui documenti
di identità era possibile dichiarare la
propria fede religiosa scegliendo tra
musulmano e cristiano, adesso la
scelta è solo tra musulmano e “non”
musulmano. Un decreto che trasforma
l’identità dei cristiani, che
passano da un “essere” ad un “non
essere” quanto mai incerto nelle eventuali
conseguenze future».
Direbbe quindi che sta diventando
sempre più difficile essere cristiani
in Iraq?
«Direi di sì. Un esempio è quello
che riguarda i figli minorenni di una
coppia in cui uno dei genitori decida
di convertirsi all’islam. I figli,
che prima potevano attendere il
compimento del diciottesimo anno
di età per diventare musulmani, ora
vengono forzatamente e immediatamente
considerati come appartenenti
all’islam. I vescovi hanno
chiesto che a questa conversione
forzata possa almeno far seguito la
libertà di ritorno al cristianesimo alla
maggiore età, una richiesta che
però è stata respinta dato che dall’islam
non si può tornare indietro.
Oltre a ciò, sebbene la costituzione
irachena garantisca la libertà di
culto, il governo a volte chiude un
occhio su episodi che mettono in
dubbio tale libertà. Nella zona di
Mosul, per esempio, un tempo culla
del cristianesimo iracheno e ora
spopolata dai nostri correligionari
per l’emigrazione verso l’estero o
verso la capitale, e dove si sta imponendo
l’islam wahabita di stampo
saudita, ci sono molte pressioni psicologiche
affinché i cristiani rimasti
si convertano all’islam. Pressioni sui
giovani da parte dei loro coetanei di
fede musulmana, e pressioni più
forti, fatte di biglietti attaccati nottetempo
alle porte delle case dei cristiani
e dove è scritto: “Diventa musulmano
e sarai salvato”».
Allora le fonti che parlano di violenze
nei confronti dei cristiani non
sono false. Si citano episodi di incendi
di negozi appartenenti a cristiani,
di una suora uccisa a Baghdad
lo scorso agosto…
«Il governo iracheno ha indagato
su alcuni episodi di violenza, e li ha
imputati alla delinquenza comune,
che affligge questo paese come il resto
del mondo.
Per quanto riguarda la suora uccisa
a Baghdad è successo proprio
vicino alla mia chiesa di Mariam al
‘Adhra. Sorella Cecilia, di 71 anni,
era sola nella casa dove abitava. Le
consorelle erano assenti e lei aveva
rifiutato l’invito dei familiari a fermarsi
a dormire a casa loro. Non voleva lasciare la casa incustodita. È
stata una cosa terribile, hanno chiamato
me e sono stato io a trovarla.
Era svestita, mani e piedi legati insieme,
era stata picchiata… non mi
faccia dire di più, è troppo penoso,
aveva 71 anni e l’hanno uccisa barbaramente.
Hanno portato via i soldi
che aveva in casa, 35 dollari in
tutto e alcuni oggetti d’oro.
La polizia ha indagato e ha trovato
i colpevoli. Sono tre, tutti di questa
zona, uno abita proprio qui dietro
la chiesa. Le autorità hanno assicurato
che subiranno la giusta
punizione per quello che, malgrado
la ferocia con la quale è stato perpetrato,
è stato considerato un atto
di rapina. Un reato comune quindi…».
Una situazione non tranquilla
quindi…
«Sì. Il controllo delle chiese cristiane
è ora passato completamente
al ministero degli affari religiosi,
e la protesta che tutti i vescovi hanno
elevato nei confronti di questa
pesante ingerenza nella vita ecclesiale
non ha ancora avuto risposta.
In più dobbiamo registrare l’aumento
di attacchi nei confronti dei
cristiani apparsi su varie riviste e
giornali, come Babel, il quotidiano
più diffuso a Baghdad e controllato
dal governo, gli insegnamenti anticristiani
che si diffondono in ambito
scolastico, dove spesso si ricorre
alla similitudine: cristiani = crociati,
e il tentativo di minare i fondamenti
della nostra fede, per esempio
censurando i libri e le riviste che
contengano il riferimento a Gesù
come Figlio di Dio, in favore della
visione islamica della stessa figura
di Gesù: non più Figlio di Dio, ma
semplice profeta anteriore a Maometto».
Come influiscono i 12 anni di embargo?
«L’embargo ha colpito tutti gli iracheni,
indipendentemente dalla
fede. Ha creato una situazione di
tensione sociale prima sconosciuta,
nella quale valori consolidati, come
il rispetto per il credo altrui, si stanno
perdendo, e la Campagna di fede
varata dal governo sta ulteriormente
allontanando il paese dalla
laicità che lo contraddistingueva.
In questo contesto, fatto anche
dei continui attacchi dell’Occidente
(che mira ad impossessarsi delle
risorse del paese) e della politica di
due pesi e due misure applicata all’Iraq
e ad Israele (libero di non rispettare
le risoluzioni delle Nazioni
Unite senza subie alcuna conseguenza),
i cristiani, visti come più
vicini all’Occidente nemico che all’Iraq,
subiscono discriminazioni e
restrizioni. Malgrado, e voglio sottolinearlo,
il nostro essere e sentirci
iracheni. Si può dire che, se come
comunità fossimo sistematicamente
perseguitati, soffriremmo due
volte, in quanto perseguitati e sottoposti
ad embargo; non è così, ma
in quanto minoranza, noi soffriamo
una volta e mezza gli iracheni musulmani.
La sola speranza è che l’embargo
finisca, che l’Iraq riprenda ad essere
un paese normale, e che nella
normalità anche i cristiani, presenti
in questa terra dall’inizio della cristianità,
ritrovino la pace e la sicurezza».

INTERVISTA/2: MONS. ISAAK
Monsignor Jacques Isaak è segretario
generale del Sinodo dei vescovi
caldei e rettore del «Pontifical
Babel College for Philosophy and
Theology», a Baghdad.
Che importanza ha avuto, nell’ambito
del cammino ecumenico tra le
chiese caldeggiato da Giovanni Paolo
II, il decreto sinodale congiunto
del 1997, sottoscritto dal patriarca
della chiesa cattolica caldea, Mar
Raphael Bidawid I, e dall’eminenza
Mar Dinkha IV in rappresentanza
della chiesa assira dell’Est?
«L’ecumenismo è una caratteristica
delle chiese presenti in Iraq, e
in questo senso il decreto sinodale
non fa altro che sancire legalmente
una pratica già applicata normalmente.
Lo stesso fatto che nella nostra facoltà
teologica gli studenti appartengano
a varie chiese, dipendenti
o meno da Roma, pone delle solide
basi per l’ecumenismo vissuto come
condivisione della comune fede in
Cristo.
È capitato, per esempio, che due
seminaristi, uno caldeo ed uno assiro,
siano stati destinati per la loro azione
sacerdotale in due piccoli villaggi
nel nord dell’Iraq. Il fatto di aver
studiato e vissuto insieme per 7
anni, nel nostro collegio, ha cementato
la loro amicizia al punto che
quando uno dei due doveva assentarsi,
l’altro lo sostituiva, con piena
soddisfazione di entrambe le comunità
di fedeli.
Gli ostacoli al ritorno ad una sola
chiesa, com’era prima del 1551, non
esistono nella vita di tutti i giorni;
semmai sono posti dalle gerarchie
delle due chiese. A livello gerarchico,
per esempio, la chiesa assira dell’Est
ha due patriarchi: Mar Dinkha
IV, la cui sede è negli Stati Uniti, e
Mar Addai II, residente a Baghdad.
Se il decreto congiunto è stato ratificato
dal patriarca con sede in America
non è perché il Vaticano gli
riconosca una maggiore autorità,
ma perché Mar Addai è più conservatore,
pone maggiori resistenze all’ecumenismo,
e non intende cedere
l’indipendenza della sua chiesa in
favore di una qualsiasi forma di riconoscimento
dell’autorità papale.
Autorità che, peraltro, noi cattolici
caldei non ci sogneremmo mai di
mettere in discussione».
Nessun problema quindi tra i cristiani
in Iraq… e i rapporti con i
musulmani?
«Tutte le minoranze, in qualsiasi
paese, hanno dei problemi; tutto
sommato però il quadro della situazione
in Iraq è buono. In passato sono
stato per quattro anni vescovo di
Arbil, nel nord del paese, dove mi
trasferii con mia sorella. A Baghdad
rimase solo mia madre che continuò
a vivere in questa casa, in una strada
in cui la nostra era ed è l’unica famiglia
cristiana. Ebbene mia madre
non ha mai avuto nessun problema,
e ha trovato nei musulmani dei buoni
vicini, pronti a darle una mano
quando necessario».
Ed i rapporti tra le chiese e il ministero
degli affari religiosi che controlla
ogni aspetto della vita religiosa
del paese, anche quella dei
cristiani, in che termini sono?
«È una disputa, questa, di vecchia
data. Il precedente patriarca, Paul
Checko II, ebbe molti anni fa una
violenta discussione a proposito
dell’indipendenza delle chiese cristiane
dal ministero degli affari religiosi,
con l’allora ministro Faïsal
Chaher.
La faccenda si risolse con la rimozione
dal suo incarico del ministro,
voluta dal governo. Attualmente
il ministro è un laico laureato
in teologia, Abdul Munem, al
quale, sempre a proposito dello
stesso argomento, è stata indirizzata
una lettera di protesta da parte
dei vescovi. Non c’è ancora stata risposta;
per cui adesso la questione
è congelata».
Lei nega l’esistenza di problemi di
convivenza tra la popolazione, e mi
cita l’esempio di sua madre, a Baghdad.
La situazione è uguale nel
resto del paese? Cosa dice della dislocazione
forzata che colpisce le
popolazioni non arabe della zona
di Kirkuk?
«Tale processo esiste, ma non riguarda
i cristiani, bensì i kurdi ed i
turcomanni. Ai cristiani, anzi, il governo
ha concesso delle terre proprio
in quelle zone…».
Perché questo favoritismo nei confronti
dei cristiani?
«Perché il governo tiene alla cultura
dei cristiani, perché la preservazione
di una piccola, ma comunque
colta comunità cristiana, può
essere utile a fronteggiare il vero pericolo,
quello degli integralisti islamici.
Dopo i fatti dell’11 settembre anche
l’Occidente si è accorto del pericolo
che un certo islam può rappresentare.
Noi lo dicevamo da anni
con il risultato di essere stati
tacciati di fondamentalismo cristiano».
Questo interesse comune tra governo
e cristiani contro il fondamentalismo
islamico spiegherebbe
l’ordine del governo iracheno di
punire eventuali attacchi ai cristiani
all’indomani dell’inizio della
guerra in Afghanistan. Ora che l’Iraq
si trova ad affrontare «direttamente
» il pericolo di una guerra, lei
pensa che tale protezione ai cristiani
verrà di nuovo accordata?
«Sì. Il governo è il partito Baath.
E il Baath è laico e, se non accordasse
la protezione ai cristiani, negherebbe
la sua stessa essenza. Il governo
è contro l’islam fondamentalista,
tanto è vero che la censura
colpisce di più i libri provenienti
dall’estero di matrice islamica che
quelli di argomento religioso cristiano.
È vero che per decreto non si può
menzionare in un libro Gesù come
figlio di Dio, ma il controllo non è
così severo. Recentemente la commissione-
censura del ministero degli
affari religiosi ha preteso la cancellazione
di tale riferimento in un libro
sulla santissima Trinità, ma l’autore,
che è un sacerdote, ha reinserito la
formula e lo ha dato alle stampe nella
versione originale, e per adesso
nessuno ha trovato niente da dire.
Una situazione tranquilla quindi…
Ma allora perché le fonti d’informazione
estere sui cristiani iracheni,
americane soprattutto, parlano
di persecuzioni e violenze?
«L’esagerazione dei problemi è
volta a favorire la fuga dei cristiani
verso l’estero; cristiani che possono,
nella loro ricerca di una nuova patria,
fare appello alle persecuzioni
religiose. Tale esagerazione, però, è
dannosa per i cristiani che rimangono
in Iraq, tanto è vero che io
stesso, durante il mio ultimo viaggio
in America, ho accusato la nostra
comunità di egoismo, di non
pensare a chi, qui, potrebbe essere
danneggiato da una tale campagna
denigratoria verso il nostro governo.
Non c’è ragione per cui i cristiani
abbandonino il paese.
Se il nostro futuro è incerto è per
la guerra che il mondo ci muoverà,
per controllare le nostre ricchezze.
Il nostro petrolio è ciò che l’Occidente
vuole; tutto il resto (il governo
guidato da Saddam Hussein,
le armi di distruzione
di massa) sono
solo pretesti».

Luigia Storti




«ALLA GUERRA! ALLA GUERRA!»

Tutti dietro a George W. Bush?
L’ossessione per la guerra del presidente statunitense,
la sudditanza dei governi,
la propaganda dei media, l’impotenza dei popoli.

«Le umiliazioni – scrive Simone Weil (Lettera a
Georges Beanos, 1938) – che il mio paese infligge
sono per me più dolorose di quelle che può subire».
Non sappiamo con certezza se l’Italia parteciperà alla
guerra di George W. Bush contro l’Iraq. Pare però
che la strada sia segnata. Il ministro Martino ha già
fatto sapere (17 dicembre) che le forze militari statunitensi
saranno gradite ospiti sul territorio e nello spazio
aereo italiani (1).
Parlare di pace e non violenza di questi tempi non è
facile. Si rischia di essere ridicolizzati, perché sputiamo
(noi pacifisti) nel piatto in cui mangiamo, perché
non capiamo (o non vogliamo capire) come vanno le
cose del mondo, perché non siamo riconoscenti con
chi ci sta salvando dal male e dai cattivi. Ma questo è
un rischio che si deve correre, almeno per essere a
posto con la propria coscienza: «Quello che ciascuno
di noi deve fare – ha scritto il premio Nobel José Saramago
– è rispettare in primo luogo le proprie convinzioni,
non tacere in nessun caso e in nessun luogo.
Pur sapendo che non cambierà niente, ma con la certezza
che almeno tu non stai cambiando».
IL PAPA O… LA NATO?
«La bibbia è piena di guerre» ci scrisse una volta un
lettore molto irritato per le nostre posizioni pacifiste
rispetto all’ennesima guerra «giusta» (quella del Kosovo)
(2).
In queste occasioni, è interessante notare come le dichiarazioni
del papa vengano utilizzate. Quando esse
sono «funzionali» a un obiettivo, allora tutti sono pronti
a citarle, chinando il capo: «Il santo padre ha detto…».
Quando invece «disturbano», allora, come d’incanto,
nei discorsi dei politici, nei telegiornali, nelle pagine dei
giornali tutto cambia. Forse le dichiarazioni non scompaiono
del tutto, ma certo diventano meno rilevanti,
più piccole, sfumate, nascoste tra le righe o relegate
dopo altre notizie, altre dichiarazioni, altre immagini.
Nel messaggio per la giornata mondiale della pace
(1°gennaio 2003), Giovanni Paolo II non ha nascosto
la propria delusione per l’Organizzazione delle Nazioni
Unite: «la prospettiva di un’autorità pubblica internazionale
a servizio dei diritti umani, della libertà
e della pace, non si è ancora interamente realizzata»
(3). Inoltre, si legge più avanti, la mancanza di fiducia
porta la gente a «credere sempre meno all’utilità del
dialogo e confidare invece nell’uso della forza come
via per risolvere le controversie».
A natale non soltanto il papa ha parlato chiaramente
in favore della pace e contro la guerra. In Gran Bretagna
(il cui governo è un fedelissimo socio degli Usa)
anche Rowan Williams, neoarcivescovo di Canterbury
e primate della chiesa anglicana, è stato molto duro
contro i leaders del mondo, pronti ad infliggere nuove
sofferenze a popolazioni innocenti. Eppure sui media
è stato dato più rilievo all’opinione di George Robertson,
segretario generale della Nato. Secondo Robertson,
l’Alleanza Atlantica ha l’«obbligo morale» di
appoggiare gli Stati Uniti in caso di guerra all’Iraq.
Nell’era dell’iper-informazione, paradossalmente (ma
non tanto) è sempre più difficile essere informati correttamente
(4). A meno di non trascorrere il tempo a
mettere insieme i tasselli del «puzzle». Prendiamo, ad
esempio, la chiesa cattolica statunitense, sotto fortissima
pressione (soprattutto mediatica) a causa dello
scandalo della pedofilia. Domandiamoci questo: come
mai proprio ora e in modo così virulento? Non è
che il governo Usa voglia mettere al muro potenziali
e pericolosi oppositori ai propri progetti di guerra e
dominio? Come mai non si parla degli scandali che
coinvolgono l’esercito americano (dall’aereo militare
che fece strage in Trentino alle violenze perpetrate in
Giappone e da ultimo in Corea del Sud)?
Non è un azzardo affermare che queste sono scelte
del potere, per portare la gente dalla propria parte.
«CUI PRODEST?»
Che dietro la guerra all’Iraq ci siano interessi economici
sono quasi tutti ad ammetterlo (magari sottovoce).
Petrolio, industrie belliche, recessione statunitense
«vogliono» questa guerra.
Gli Usa non si fidano più dell’Arabia Saudita e quindi
debbono rimpiazzare il petrolio di Riyadh con quello
di Baghdad. D’altra parte, George W. Bush viene da
una famiglia di petrolieri e annovera tra i propri sponsors
elettorali le maggiori aziende mondiali nel campo
della produzione militare (aerei, missili, sistemi elettronici,
artiglieria): Lockheed Martin, Northrop
Grumman, General Dynamics, Raytheon. Nonostante
la fortissima depressione che caratterizza tutte
le borse mondiali, queste compagnie hanno visto
un costante incremento del valore delle loro azioni (fino
all’85%) a partire dall’11 settembre 2001 (5). Fatto
abbastanza comprensibile, se si guarda al crescente
budget militare statunitense, che da solo rappresenta
il 40% della spesa mondiale per la difesa. Già prima
dell’incremento per il 2003, gli Usa spendevano
più del doppio di tutti i 15 membri dell’Unione europea
messi insieme.
Infine, c’è la crisi economica degli Stati Uniti (finora
rimasta nascosta sotto la retorica della priorità della
lotta al terrorismo), che potrebbe essere attenuata (almeno
nel breve periodo) da una guerra a Saddam.
Insomma sono tanti gli interessi «privati» collegati al
conflitto. Proprio per questo George W. Bush e il suo
entourage hanno deciso da tempo che la guerra s’ha
da fare, indipendentemente dalle Nazioni Unite, dalle
relazioni degli ispettori, dalla contrarietà della maggior
parte dell’opinione pubblica mondiale.

NECESSARIA, DOVEROSA, POSSIBILE
Ha scritto Giorgio La Pira (Utopia o morte, 1974):
«No. La pace non è un’utopia, è il fine universale, fondamentale
della storia dell’umanità intera… La pace
è necessaria. La pace è doverosa. La pace è una certezza.
La pace è possibile». Purtroppo, l’insigne giurista
e politico democristiano non poteva prevedere
quanti progressi avrebbe fatto la propaganda di guerra,
assieme alla capacità di stravolgere i fatti (6) e soprattutto
i concetti di bene e male, di giusto e ingiusto.
Durante la prima guerra del Golfo i militari scrivevano
«frasi augurali» sui missili destinati ai bombardamenti,
oggi sui carri armati statunitensi è stato scritto:
«All the way to Baghdad». Che questa sia la sicurezza
dei «giusti» è tutto da dimostrare.
Si calcola che la guerra costerà un milione di dollari
al giorno. Nel computo economico mancano le vite umane,
le devastazioni materiali e l’esacerbarsi degli
«odi» in molte parti del mondo. «È il prezzo da pagare
alla pace futura, al mondo senza Saddam ecc. ecc.»
dirà qualcuno. Rispondiamo con le parole del professor
Ahmed S. Hashim (7): «Nel mondo arabo molti sono
convinti che i rappresentanti dell’amministrazione
Bush non siano motivati da un sincero desiderio di vedere
realizzata la democrazia in questa regione, bensì
da ragioni strumentali: nel senso che qualsiasi futuro
regime arabo verrebbe considerato democratico
purché non si opponga ai disegni degli Stati Uniti e di
Israele in questa parte del mondo (…). Se il Congresso
nazionale iracheno (8) giungesse al potere e decidesse
di rinunciare alle armi di distruzione di massa,
vendere a basso prezzo il petrolio alle compagnie americane,
stabilire rapporti con Israele e dissociarsi
dal resto del mondo arabo, il nuovo governo verrebbe
considerato democratico, anche se si dimostrasse
incapace di assicurare davvero la libertà».
Necessaria, doverosa, possibile non è la guerra, ma
la pace. Eppure ancora in troppi sono convinti del contrario.

IL CAMMINO VERSO LA GUERRA
(dal 19 dicembre 2002 al 27 gennaio 2003) (*)
19 dicembre: LA CONDANNA DI POWELL
Il rapporto di Baghdad sullo stato del proprio arsenale bellico non
soddisfa le attese degli Stati Uniti. Il segretario di stato Colin Powell
parla di violazione palese della risoluzione 1441.
20 dicembre: BUSH VUOLE LA GUERRA
George W. Bush non è soddisfatto del contenuto delle 12.000 pagine
del dossier stilato dall’Iraq. Il presidente Usa autorizza l’invio
nella regione di altri 50.000 militari, che si vanno ad aggiungere
ai 60.000 già in loco. La guerra sembra dietro l’angolo, anche se
l’Onu non ha ancora sentito gli ispettori né votato.
25 dicembre: GIOVANNI PAOLO II INVOCA LA PACE
Durante il messaggio «Urbi et Orbi», il papa invoca la pace per «spegnere
i sinistri bagliori di un conflitto, che con l’impegno di tutti
può essere evitato».
26 dicembre: IL «DOVERE MORALE» SECONDO ROBERTSON
Il segretario generale della Nato, George Robertson, afferma che
l’Alleanza Atlantica ha il «dovere morale» di appoggiare un eventuale
intervento armato statunitense contro Baghdad.
1-3 gennaio 2003: L’ENTUSIASMO DEI MILITARI USA
Mentre il papa ripete che la pace è doverosa e possibile, Bush (con
giubbotto militare) arringa gli uomini e le donne in partenza per il
Golfo. I soldati, entusiasti, sventolano bandierine a stelle e strisce.
3-6 gennaio: ANCORA BOMBARDAMENTI ANGLO-AMERICANI
Continuano i bombardamenti anglo-statunitensi nelle «no-fly zones
» dell’Iraq. Le azioni sono ormai quotidiane. Le zone di non-volo
NON sono mai state autorizzate dall’Onu.
27 gennaio: GLI ISPETTORI PARLANO ALL’ONU
Arriva la relazione definitiva degli ispettori. Da essa dovrebbe dipendere
ogni futura mossa. Bush accetterà un’eventuale decisione
del Consiglio di sicurezza contraria alla guerra?
(*) La prima parte di questa cronologia della guerra è stata pubblicata
nel nostro dossier sull’Iraq di dicembre 2002.

NOTE:
(1) Basi Usa in Italia: Aviano, Camp Darby, Capodichino,
Maddalena, Trapani, Brindisi, Sigonella. Basi Nato:
Gaeta, Bagnoli, Decimomannu, Augusta, Gioia del Colle.
(2) Per le lettere pro e contro la guerra pervenute alla
nostra redazione si veda M.C., settembre 1999.
(3) Messaggio pubblicato su L’Osservatore romano del
18 dicembre 2002.
(4) Si legga il capitolo Manuale per la propaganda di
guerra, nel libro di Carlo Gubitosa, L’informazione
alternativa, Emi 2002.
(5) Si veda il dossier sul supermarket delle armi pubblicato
sul numero di novembre di Mosaico di pace, la rivista
di Pax Christi.
(6) Sulla «guerra infinita» inventata da George W. Bush
esiste un’ampia letteratura. Qui segnaliamo: Michel
Chossudovsky, Guerra e globalizzazione, Ega, Torino
2002; John Pilger, I nuovi padroni del mondo,
Fandango Libri, Roma 2002; Giulietto Chiesa, La guerra
infinita, Feltrinelli, Milano 2002; Aldo Musci, La quarta
guerra mondiale, Datanews, Roma 2002.
Sugli affari tra la famiglia Bush e la famiglia Bin Laden
nell’ambito del gruppo «Carlyle» si veda il settimanale
Internazionale del 6 dicembre 2002.
(7) Si veda Limes di novembre-dicembre 2002.
(8) L’eterogeneo raggruppamento che si oppone a
Saddam Hussein.

Paolo Moiola