I grandi missionari: Giovanni Bonzanino MILLE E UN SOGNO

Giovanni Bonzanino

Missionario di frontiera, irresistibilmente attratto dal più difficile,
lontano e bisognoso, padre Giovanni Bonzanino moriva a Shashemane
(Etiopia) 20 anni fa, il 30 gennaio 1983. Amò la «sua Africa» con
passione contagiosa, fino a consumarsi a soli 56 anni.
«Non sono nato in Africa.
Questo mi dispiace un
poco. Avrei voluto essere
sfornato in questa verde, dolce, ubertosa
Africa, dove si viene al mondo
inguantati in un’ambra vellutata
e soave e la vita scorre smorzata come
un venticello che sfarfalla tra ramificazioni
di alberi giganteschi».
Così inizia una specie di diario in cui
padre Bonzanino racconta l’esperienza
dei suoi primi anni in Africa.

SOGNANDO L’AFRICA
«Invece sono nato a Biella» continua.
Era il 29 gennaio 1927. Prima
ancora che venisse al mondo, sua
madre lo aveva offerto alla Madonna,
conservando quel segreto per 30
anni, fino a quando visitò il figlio in
Kenya: padre Giovanni l’abbracciò,
sollevandola da terra e, in un impeto
di gioia, le disse: «Mamma, quel
giorno mi hai fatto il più bel regalo».
Alberta Maria era una donna che
«sapeva il fatto suo, dai battibecchi
con le vicine al far filare dritto i figli,
dallo speculare fino all’osso per sbarcare
il lunario a lavorare in fabbrica
e passare tra posti di blocco in bicicletta
con un carico di granoturco».
Papà Vittorio non era da meno.
«Tutto casa e lavoro, vecchio socialista,
dovette assoggettarsi a portare il
fez in testa per campare, rischiare la
galera per racimolare due chili di farina
al mercato nero, poiché il pane
della tessera finiva troppo in fretta».
Erano i tempi duri del fascismo e
della seconda grande guerra. Ciò
non impedì al piccolo Giovanni di
coltivare sogni e avventure, come un
ragazzo normalissimo. Nei tempi liberi
dalla scuola faceva qualche lavoretto
in fabbrica, per arrotondare
il bilancio familiare. In classe si appassionava
di storia e geografia, ma
era allergico alla matematica. «Non
fui mai uno sgobbone – confessa -. La
mia specialità era il pallone e il tifo
per la Juventus: primo amore che mi
portai in Africa come un soldato il
suo fucile».
A volte, con la banda del quartiere,
marinava la scuola per esplorare
la campagna o alleggerire la pianta di
fichi nell’orto del prevosto. «Un
giorno Tavio, il vecchio sacrestano,
mentre si riallacciava la cinghia dei
calzoni appena usata sui piccoli furfanti,
mi domandò cosa sarebbe stato di una canaglia come me da grande;
risposi innocentemente: “Mi farò
missionario”. Si sbellicò dalle risa.
Ma quando celebrai la prima messa,
mi diede una pacca sulle spalle e sorrise:
“L’ho sempre detto che ti saresti
fatto prete”».
Entrato nel seminario di Biella,
Giovannino sognava di essere torturato
dagli africani e finire martire. In
quinta ginnasio decise di farsi missionario
della Consolata. «Coi miei
17 anni, lieto, baldanzoso e impaziente
– racconta -, iniziai il liceo a Varallo.
Non all’algebra e trigonometria.
Avevo qualche ebbrezza poetica,
ma il mio ideale era l’Africa. In
noviziato, alla Certosa di Pesio, non
ho avuto sussulti mistici, né impennate
carismatiche. Tra i miei compagni
c’era un africano: fu il migliore
stimolo missionario».
Durante gli studi teologici continuò
a respirare aria di missione, più
dalle figure di missionari incontrate
nella casa madre di Torino che dalle
lezioni accademiche. Arrotondò il
suo curriculum con discipline utili
per l’Africa: diploma magistrale, fotografia,
dattilografia. Finché fu ordinato
prete nel 1953, a 26 anni. L’anno
seguente partì per il Kenya: «Fu il
giorno più bello della mia vita».

L’INAFFERRABILE JOHN
Destinato alla missione di Mujwa,
nel Meru, John cominciò subito a
studiare la lingua locale, familiarizzare
con usi e costumi della gente e
smontare qualche idee preconcette,
alla scuola della figura poliedrica e
briosa di padre Chiardo.
Appena riuscì a masticare qualche
parola in kemeru, prese a scorrazzare,
prima con una vecchia moto, poi
con una Land Rover scassata, per visitare
le comunità, portare uno all’ospedale,
un’altra alla mateità, un
terzo al brefotrofio. «Mai paura! Passo
per uno che pialla le curve e mangia
i freni» scriveva nel diario.
A giugno del 1954 era professore
d’inglese e storia nella scuola secondaria
di Nkubu. «Come è impartita
qui – scriveva -, la storia ha una piuma
bianca sul cappello scozzese: testi
in inglese di autori inglesi. È una
storia colonialista». Ma ci pensò lui a
metterci la penna nera dello struzzo
africano, evidenziando le scoperte archeologiche
fatte in Africa orientale,
sciorinando imprese coloniali e tratta
degli schiavi, «pagine che facevano
impazzire gli studenti».
Alla fine del 1956 fu nominato
parroco di Meru, capitale dell’omonimo
distretto, dove si stava costruendo
la cattedrale. «Sono uscito
dalla fase di amore avventuroso-romantico
per l’Africa e posso dire, parafrasando
san Paolo: sono cittadino
africano» scriveva nel diario.
E continuò a sognare e dare sfogo
alla creatività vulcanica con innumerevoli
iniziative di successo: pubblicazione
del Twi ba Meru, mensile
di 10 mila copie; compilazione, con
l’aiuto di un prete africano, di innumerevoli
fascicoli, libri, sussidi, catechismi
in lingua locale; uso di modei
strumenti di comunicazione
come radio e cinema, guadagnandosi
il nome di Patere Kameme (padre
radio); fondazione del Meru Sport
Club e organizzazione di popolarissime
competizioni sportive, corse ciclistiche
e toei di calcio, collezionando
un altro titolo onorifico: Thuranira,
l’organizzatore.
«La nostra squadra ha vinto la
coppa del distretto – scriveva nel
1960 -. I ragazzi sono in orbita; io ho
un ginocchio gonfio. Naturalmente
la maglia indossata dalla squadra era
quella della Juve».
John era uno specialista nel coinvolgere
la gente in progetti di chiese,
cappelle, scuole, asili o altre opere
sociali e si meritò un altro gallone:
Patere Lotari (padre lotteria). Quasi
tutte le costruzioni da lui promosse
nascondono nelle fondamenta, come
«pietra» angolare, una manciata
di due scellini, il prezzo del biglietto
della lotteria.
In una parrocchia di 5 mila cristiani
e 60 mila abitanti, padre John si
buttava a pesce nel lavoro missionario:
catecumenati e battesimi a bizzeffe.
«Vacci piano, mi dicono – scrive
nel quarto anniversario dell’arrivo
in Kenya -. Piano un corno. Non
sono io a cercare il numero; sono loro
che vengono a cercare Cristo».
Come se non bastasse, estendeva la
sua attività a tutta la diocesi: formazione
della gioventù; supervisione di
una quindicina di scuole cattoliche;
estenuanti trattative per fondae altre;
animazione dell’Azione cattolica;
visite ai campi di concentramento,
dove erano rinchiuse migliaia di persone
accusate o sospettate di appartenere
al movimento mau-mau.

LA PRIMA AFRICA
Padre John era arrivato in Kenya
quando la tensione tra guerriglia
mau-mau e repressione dell’amministrazione britannica era al culmine
e si trovò subito schierato dalla parte
degli africani.
«Nel mercato tra Mujwa e Nkubu
– scriveva il 23 agosto 1954 – hanno
disteso a terra, allineati, sette cadaveri
di mau-mau uccisi nella foresta.
C’erano lunghe file di persone a guardare.
Mi sono fermato anch’io. Ho
detto una preghiera e tracciato un segno
di croce sui morti. Ho sentito alle
spalle una risata: “Padre, neanche
i tuoi sortilegi possono più farli vivere”.
Era l’ispettore di polizia, che
continuò: “È comodo essere neutrali
per voi missionari, che benedite tutti.
Vorrei esserlo anch’io; invece mi
tocca fare questo maledetto lavoro e
ammazzare questi bastardi”. “Non
sono neutrale” gli ho risposto. Mi ha
guardato con faccia da carciofo, come
un macellaio che affonda la mannaia
per staccare una bistecca; ma
non ha più fiatato. Me ne sono andato
a fare la mia lezione di storia».
Nel suo diario, pubblicato una decina
d’anni dopo, insieme ad altri articoli,
col titolo di Le due Afriche, padre
John non fu solo testimone di
nove anni di convulsioni, ma anche
protagonista del passaggio dall’Africa
coloniale a quella indipendente.
Dall’intreccio socio-politico dei
suoi scritti emergono pure problemi,
riflessioni e intuizioni squisitamente
missionarie: inculturazione, ecumenismo,
chiesa locale, rispetto delle
culture, problemi tribali, divergenze
con altri evangelizzatori, impegno
scolastico e religioso per costruire la
nuova Africa.
Le sue riflessioni possono apparire
un po’ daltoniche: il «nero» è bello;
il «bianco» da cancellare. John
guardava l’africano con occhi di missionario
ciecamente innamorato,
sorvolando sulle pecche e dipingendolo,
o meglio «sognandolo», come
«dovrebbe essere». Ma non senza
apprensione. «Non ho paura di fame
o lebbra, leopardo o serpente,
freccia o fucilata – scriveva alla fine
del ’57 -. Forse ho paura di quello
che potrà accadere al Kenya».

LA SECONDA AFRICA
«Mentre il paese marcia verso l’indipendenza,
anche la chiesa deve avere
una certa autonomia» scriveva
alla fine del 1960. John propose al vescovo
di nominare parroco della cattedrale
un prete africano. L’idea fu
approvata, ma passarono quasi due
anni prima che fosse messa in atto.
Nominato padre Salesio, John scese
al rango di viceparroco e accelerò
il ritmo delle attività. «Il mio lavoro
è un mosaico – scriveva nel 1963 -.
Arrivo alla sera che annaspo. Stampa,
Azione cattolica, cine, conferenze
e raduni in continuità. Ogni missione
vuole una settimana, con ritiri
e proiezioni alla sera. Sono piuttosto
stanco di fare il giradischi». Eppure
trovava tempo per partecipare a comizi
e adunate, incontrare leaders
politici e altri «pezzi grossi».
Le pagine del Twi ba Meru sprizzavano
politica, facendo arricciare il
naso ai missionari stagionati. Ma lui
imperterrito, con idee chiare e benedizione
del vescovo. «Ho preparato
gli schemi per gli incontri del
prossimo anno sul tema: libertà e cristianesimo
– scriveva a una settimana
dall’indipendenza -. Si tratta di far
scendere tutti i cristiani nell’arena e
aiutarli a non essere spettatori: il lavoro
è il padre della libertà; l’ozio è
il padre del colonialismo. Passerà la
febbre dell’indipendenza e occorrerà
rimboccarsi le maniche, soprattutto
i cristiani. È un lavoro eccitante
progettare l’Africa nuova».
Quei giorni John doveva avere una
febbre da cavallo. «Sale la pressione
dell’entusiasmo – scriveva -. Ho una
serie di pellicole sulla libertà di altri
stati africani e tutte le sere le proietto
in qualche parte del Meru. Massa
di gente anche in cattedrale: nella
predica padre Salesio ha detto che i
presenti sono stati battezzati da me
e che, con l’indipendenza, divento
più africano di prima».
Nella notte dell’11 dicembre 1963
toccò a padre John introdurre il Meru
all’indipendenza, intrattenendo la
folla con film, musica e discorsi, inno
nazionale a mezzanotte e trasmissione
radio della cerimonia di
Nairobi. Il giorno seguente fu un’apoteosi,
come racconta nell’ultima
pagina del diario (vedi riquadro).
Alla fine del 1963 padre John fu
nominato parroco di Nkabune e cominciò
a costruire la nuova Africa:
pozzi, chiesa, orfanotrofio, strutture
per le opere parrocchiali e sociali; soprattutto
formazione di comunità responsabili
del proprio futuro civile e
religioso.

DESERTO CHE FIORISCE
Metà della diocesi di Meru, grande
come mezza Italia, non aveva mai visto
la barba di un missionario. Per
sfondare occorreva un uomo di fegato,
fantasia e testa dura. John lesse nella
mente del vescovo e si offrì volontario:
fu subito nominato vicario episcopale
della North Easte Province
(Nep), così si chiama la regione.
In passato il governo l’aveva chiusa
ai missionari, per non scontentare
i musulmani; poi gli schifta (ribelli
somali) vi seminarono terrore e
morte (1963-67), producendo 4 mila
orfani. Siccità, fame e colera stavano
mettendo a rischio la sopravvivenza
di quasi 300 mila abitanti.
Nel 1968 padre John raggiunse
Garissa e, con fratel Mario Petrino,
distribuì aiuti umanitari e trasformò
una caserma diroccata in Boys’ Town
(città dei ragazzi) per accogliere gli
orfani del luogo. Tre anni dopo passò
a Wajir, 400 km più a nord, nel
cuore del deserto, per dare una mano
a padre Baldazzi: sfamati vecchi
e bambini, fondò la Girls’ Town per
un centinaio di bambine orfane. Nel
1972 era a Mandera, altri 400 km più
a nord, ai confini con Somalia ed Etiopia.
Anche qui fondò una Boys’
Town, affidata a Manlio e Lorenza,
due volontari italiani, e sostenuta
dall’adozione a distanza di un gruppo
di 500 famiglie italiane.
Spendere tante forze in un ambiente
totalmente musulmano, quando
altrove si mietevano conversioni a
tutto spiano, per qualcuno era uno
spreco. Ma John ribatteva: «In uno
scenario che è un’orgia di sole e sabbia,
la gente ha soprattutto fame e sete.
Corre voce che il papa abbia presentato
al nostro vescovo l’urgenza
della presenza cristiana in questa zona,
anche soltanto per offrire un bicchiere
d’acqua all’assetato».
Solo Dio sa quanti ne furono distribuiti:
dal fiume Tana, una pompa
foiva alla missione un milione
di litri d’acqua al giorno e la gente attingeva
liberamente.
I giornali parlavano di «miracolo a
Garissa». La missione contava 24 edifici,
chiesa, distributore di benzina
e piscina; accoglieva 225 orfani; impiegava
200 operai locali; ogni sabato
sfamava 300 fra vecchi e bambini;
30 ettari di terra producevano 12 tonnellate
di meloni al mese per il mercato
di Nairobi; poi mais, melanzane,
fagioli, cipolle, peperoni, angurie,
pomodori, arachidi e 5 mila piante di
banane, papaia, uva, datteri.
Identico prodigio, ma con enormi
sacrifici, si ripeté a Mandera, con
l’acqua stagionale del fiume Dawa:
città dei ragazzi, scuola secondaria,
cornoperativa agricola, artigianato, sviluppo
dell’habitat e commercio iniettarono
nella città di nomadi la
voglia di vivere più dignitosamente.
Questo fu il miracolo più vero nel
deserto: schiodare la gente dall’atavica
apatia e rassegnazione alla sopravvivenza:
gli operai impiegati nelle
costruzioni impararono a farsi case
più decenti; i braccianti arruolati
nei lavori agricoli si misero a produrre
in proprio; i pastori, abituati al
numero di bestie, cominciarono a
puntare sulla qualità. Perfino il governo
avviò progetti agricoli e incoraggiò
la gente a fare altrettanto.
Più difficile era fare attecchire il seme
del vangelo. Padre John non esitò
a studiare il Corano e insegnarlo
nella scuola, come ordinava la legge
del Kenya per quell’ambiente; ma
non senza accostare gli insegnamenti
morali di Maometto a quelli
di Gesù. E ci riusciva troppo bene;
tanto che gli fu ingiunto di non profanare,
lui infedele, il messaggio del
profeta.
John continuò a seminare la testimonianza
dell’amore verso i più
bisognosi; oggi se ne vedono i frutti:
la Nep costituisce la diocesi di
Garissa, con 10 missioni e una trentina
di succursali, dove lavorano i
cappuccini di Malta e vari missionari
laici.

VANGELO
NELLA RIVOLUZIONE

Nel 1974, a pochi mesi dal colpo
di stato di Menghistu, John fu destinato
all’Etiopia, dove una
decina di confratelli, da
pochi anni, lavoravano
nel sud del vicariato
di Harar, provincia
degli Arussi. Fu
subito chiamato
dal vescovo a salvare
la scuola secondaria
di Dire
Dawa, intossicata
dai fumi rivoluzionari.
Ascoltati
studenti e genitori,
con pazienza e
fermezza ristabilì
subito ordine e disciplina;
per tre anni
continuò a dirigere
la scuola con
grande discrezione e coraggio, specie
durante la guerra somala.
Non essendo il tipo da restare incollato
a una poltrona, si occupò di
una cornoperativa agricola fuori della
città; aprì una scuola in un quartiere
povero; fondò un pensionato per i
ciechi e insegnò loro un mestiere.
Nel 1978 John fu eletto superiore
del gruppo di confratelli. Quando la
provincia degli Arussi fu staccata da
Harar per formare la prefettura apostolica
di Meki (1980), ne diventò amministratore
apostolico, in attesa della
nomina del prefetto. Sarebbe stato
l’uomo ideale per tale carica, ma insistette
perché vi fosse posto un etiope,
accontentandosi di fare il vicario generale.
Al tempo stesso, John fu eletto
presidente della Conferenza dei religiosi
del sud Etiopia.
Calatosi con tutte le forze in tali responsabilità
e nella realtà socio-politica
del paese, padre John portò la rivoluzione
nel modo di fare missione,
per rispondere alle sfide antireligiose
del regime marxista.
Rivoluzione e missione, diceva, sono
legati da un filo di speranza: entrambe
vogliono sviluppo, giustizia
e liberare tutti dall’oppressione. «Ma
il punto debole della rivoluzione –
continuava – è che non s’interessa di
Dio. Per noi missionari, il nocciolo
della questione rimane questo: dimostrare
che non può esserci vera
giustizia e sviluppo senza Dio. La nostra
vocazione inequivocabile nella
rivoluzione è operare in modo che
uomini e donne della nuova Etiopia,
con tutto il progresso e sviluppo che
meritano, non siano tagliati fuori dal
loro Creatore e Redentore».
«La rivoluzione – spiegava – trascura
le lacune di miseria: non può rallentare
la marcia del progresso per
stare al ritmo degli storpi. Il vangelo,
invece, è buona notizia per tutti; l’evangelizzazione
porterà frutti, solo se
avremo con noi i ciechi e gli storpi».
Insieme agli altri missionari, padre
John si gettò a capo fitto nelle opere
sociali, consolidando quelle già esistenti
e creandone di nuove appena
ne intuiva la necessità.
L’ospedale rurale di Gambo, rimasto
a lungo senza medici, diventò il
centro di controllo e cura della lebbra
e, con 267 dispensari sparsi nella
provincia, assisteva oltre 4 mila colpiti
da tale infermità. Accanto all’ospedale
costruì un villaggio di 25 casette
per dare dignità a quelli già guariti.
Il centro di riabilitazione per handicappati
a Gighessa fu potenziato
con nuove strutture e attrezzature.
Una «casa-famiglia» per handicappati
e orfani fu costruita ad Asella; a
Shashemane nacque la scuola per
bambini e bambine non vedenti.
In ogni missione fu costruito il dispensario;
venne organizzata la distribuzione
di tonnellate di viveri ai
poveri, specie nei periodi di emergenza;
si moltiplicarono le scuole. In
un paese col 90% di analfabeti, l’istruzione
era una priorità e un’occasione
provvidenziale per l’evangelizzazione.
John viaggiava da una missione all’altra
per incoraggiare i confratelli,
sostenere e lanciare nuove iniziative;
ma senza mai perdere di vista l’evangelizzazione
diretta: visita alle scuole
dei villaggi, messa domenicale nelle
cappelle, formazione della gioventù
e aspiranti al sacerdozio, animazione
delle piccole comunità cristiane.
Le vacanze in patria si trasformavano
in estenuanti scorribande da un
capo all’altro della penisola, per
sconvolgere coscienze, snidare egoismi,
costruire solidarietà, coinvolgere
la gente nella sua avventura missionaria.
Talvolta si sobbarcava, fino
a 10-15 incontri al giorno in scuole,
circoli giovanili, chiese, convegni.
Nascevano gruppi di appoggio in Italia
e Nord America; professionisti
di ogni genere (medici, maestri, agronomi,
assistenti sociali…) lo seguirono
in Africa.

COMPLEANNO IN PARADISO
Durante le ultime vacanze in Italia
il dottore gli aveva detto di darsi una
calmata, se voleva arrivare a 70 anni.
«Se me ne restassero solo due, cosa
importa? Ciò che conta è come e cosa
si vive» rispose sorridendo.
Era un presentimento? Due anni
dopo, la sera del 28 gennaio 1983,
John toò a Shashemane dopo 10
giorni di incontri tenuti ad Addis Abeba:
confessò che quella fatica «lo
aveva ammazzato».
Il giorno seguente ricorreva il suo
compleanno. Per fargli una sorpresa,
suor Flaminia stava preparando una
torta, quando il padre la chiamò. Lo
trovò a letto con brividi e febbre alta;
gli somministrò medicine antimalariche,
ma la situazione si aggravò.
Accorsero i medici della zona; diagnosticarono
un blocco renale e tentarono
di salvarlo con flebo, antibiotici,
diuretici, cortisone. Inutilmente.
Per padre John i sogni si spensero
la sera del 30 gennaio, a 56 anni. Una
vita stroncata precocemente, ma vissuta
in pienezza fino all’ultimo respiro,
come si legge nell’ultima lettera
alla madre: «Oggi faccio 56 anni.
Certo che sono stati intensamente
vissuti. Non ho avuto tempo
di annoiarmi neppure
per un’ora».

JOHN SCRITTORE
Fin dal liceo Giovanni Bonzanino aveva
«una voracità innata di lettura;
non era mai sazio di libri. Lettura
non superficiale, ma riflessiva: fissava
idee, espressioni e parole che interiorizzava
» testimonia il suo professore
d’italiano. Passione che lo accompagnò
tutta la vita. Leggeva articoli e
saggi di storia, politica, teologia, tenendosi
aggiornato su tutto ciò che
capitava nel mondo e nella chiesa,
specie di quanto avveniva in Africa.
Nella frenetica attività che caratterizzò
la sua vita, trovò il tempo
per scrivere. E scrisse moltissimo: lettere,
poesie, articoli, saluti appelli, libri.
«È il mio relax» soleva dire, anche
se rubava il tempo al sonno necessario.
Il suo stile snello, agile, frizzante, volentieri
anche sferzante, faceva sgranare
gli occhi al lettore e lo coinvolgeva
nella sequenza di miseria e fame
del terzo mondo.
Ecco alcuni titoli dei libri più famosi:
Cittadini d’Africa (1974), ritratti di
missionari e missionarie.
Un uomo per l’Africa (1977), presentazione
della figura del beato Allamano.
Missionari nella rivoluzione (1978),
note di pastorale missionaria per i
paesi africani a regime socialista.
Queste mie verdi colline (1979), profilo
di padre Luigi Eandi.
Africa casa mia (1979), quadri di esperienza
missionaria.
Il primo figlio (1980) e Gli insabbiati
(1982), romanzi a sfondo missionario.
Quattro volumi pubblicati postumi:
Due Afriche e un po’ d’Italia, prima e
dopo l’indipendenza.
Momenti d’Africa, riflessioni sull’attività
missionaria in Africa.
Ritoo a casa, romanzo con protagonista
un lebbroso guarito.
Africa mia, raccolta di poesie.

Benedetto Bellesi




JOHANNESBURG NON E’ PORTO ALEGRE

INCONTRO CON: Mercedes Bresso (presidente provincia di Torino)

Se i paesi del Sud
adottassero i modelli consumistici del Nord, la terra non potrebbe
sopportarlo. Per uno sviluppo sostenibile non basta  il progresso
tecnologico. Occorre che i paesi ricchi scelgano uno stile di vita più
sobrio.

Anche perché la sobrietà può
essere felice.

 

 

«L’uomo non deve sostituirsi
a Dio»: sono le parole del papa nei giorni antecedenti il summit di
Johannesburg. Un commento.

Non conosco esattamente il
contesto nel quale si è espresso il papa.

Immagino intendesse il rischio nel
produrre modificazioni permanenti degli ecosistemi terrestri.
Un’interferenza umana forte nel mondo animato ed inanimato sconta
un’ignoranza della logica complessiva del creato e può creare disastri,
cosa che per altro stiamo vedendo in maniera abbastanza precisa. Questa è
la mia interpretazione. Non dimentichiamo che, quando si parla di sviluppo
sostenibile, non si intende soltanto l’ambiente in senso fisico, ma anche
sociale e, quindi, delle modifiche che danneggiano gli ecosistemi e le
loro popolazioni: pensiamo ai processi di desertificazione in Africa, agli
interventi umani che hanno prodotto distruzioni gigantesche, alle
monocolture. Tutto questo produce disastri ambientali e in definitiva
povertà delle popolazioni.

Il papa ci ricorda perciò il
nostro dovere di aiutare lo sviluppo, senza cadere nello sfruttamento.

Un monito quindi: l’economia non
interferisca con il creato e non produca disastri sociali.

 

Il pianeta sta meglio o
peggio dopo la conferenza di Johannesburg?

È molto difficile rispondere a
questa domanda. Questi grandi summit hanno l’indubbio vantaggio di
sensibilizzare le opinioni pubbliche e possono, quindi, far muovere le
coscienze a tutti i livelli: dal singolo cittadino al capo di un governo.
Inoltre, dopo Rio (1992), 600 enti locali hanno deciso di attuare la Local
Action 21, ovvero l’Agenda 21 a livello locale.

Questi enti si impegneranno a
realizzare nei prossimi 10 anni le politiche di sostenibilità teorizzate
dal 1992 ad oggi. In questo senso la provincia di Torino ha già iniziato
l’attuazione dei piani d’azione con la destinazione di circa 12,5 milioni
di euro al Forum dell’Agenda 21, in modo da dimostrare che impegnarsi a
progettare per poi attuare serve. E porta a risultati.

Parallelamente bisogna ammettere
che, a differenza delle Ong e di moltissimi enti locali, è mancata la
buona volontà da parte dei governi centrali e gli impegni presi a
Johannesburg sono stati molto modesti.

 

A Johannesburg è stato
finalmente messo in discussione il concetto di crescita quantitativa,
ovvero l’idea dell’aumento continuo del PIL?

Non è possibile teorizzare la
crescita infinita. Probabilmente, nella storia dell’umanità, la crescita
continua di beni materiali è solo un momento. Dobbiamo lasciare alle
generazioni future la possibilità di vivere avendo le risorse fisiche,
scientifiche e sociali necessarie.

 

Pensa che un’espansione del
libero mercato nei paesi in via di sviluppo, ad esempio la Cina, possa
essere sostenibile per il pianeta terra?

È necessario trovare un modello di
sviluppo che non ricalchi il modello occidentale di crescita forsennata.
Qualora Cina o India si sviluppassero sui nostri modelli consumistici,
porrebbero dei seri problemi di reperimento di risorse naturali.

Non va comunque dimenticato come
il progresso tecnologico possa aiutare i paesi del Sud a raggiungere uno
sviluppo sostenibile, che dia cioè a tutti la possibilità di una vita
dignitosa senza distruggere la terra. Questo significa non imitare il
modello di vita nordamericano e nemmeno quello europeo.

Ad esempio, se i cinesi non
potranno vivere in maniera «insostenibile» come gli italiani, non
significa che dovranno vivere in maniera peggiore.

 

Come interpretare il
problema demografico alla luce del fatto che un nordamericano consuma, ad
esempio, come 1.200 ruandesi?

È vero, siamo in tanti e una parte
di noi consuma troppo. Se tutti consumassimo in maniera eguale e se non si
fermasse il boom demografico, la situazione diverrebbe insostenibile.
Bisogna però sottolineare che, di norma, ad un aumento del tenore di vita
corrisponde una diminuzione della crescita demografica. Questo grazie
all’utilizzo di tecniche sanitarie migliori, degli anticoncezionali e ad
uno stile di vita diverso.

 

Come concretizzare il
concetto di sviluppo sostenibile nei paesi ricchi?

È assolutamente possibile ridurre
l’impronta ecologica, anche senza produrre un peggioramento della qualità
della vita. Bisogna iniziare a separare il concetto di sviluppo da quello
del consumo di risorse.

Inoltre, non è più possibile
sostenere un sistema dove il reddito ed il lavoro siano legati ad un
aumento dei consumi.

Ci sono alcuni aspetti sui quali
si può agire. Il più importante è quello dei consumi energetici, sulla
loro qualità e quantità. Questo è il nodo principale dell’umanità: bisogna
uscire dall’era dei combustibili fossili e parallelamente consumare meno.

Lo stesso vale per la produzione
materiale: alcuni comparti dell’industria stanno cominciando a produrre
beni con un minor utilizzo di materia. Per altri la situazione è diversa.
Per esempio, nell’industria alimentare è ancora eccessivo l’utilizzo
dell’imballaggio, tra l’altro quasi sempre non riciclabile.

Tuttavia, il problema di fondo
rimane la ricerca di stili di vita più sobri.

Per raggiungere una «sobrietà
felice» è ipotizzabile, ad esempio, la sostituzione della vendita di beni
materiali con quella di servizi. Questo non significa che vivremo peggio;
vivremo solamente in un modo diverso.

Un caso concreto: immaginiamo un
condomino dove ogni famiglia possiede il proprio aspirapolvere. Si
potrebbe appaltare il lavoro di pulizia ad una ditta che farebbe lo stesso
lavoro, ma con molto meno apparecchi e dunque meno consumo di risorse.

 

Perché il cittadino ha
difficoltà ad accettare i temi ambientali?

La vita di oggi è troppo
forsennata. L’attenzione verso l’ambiente arriverà anche da una maggiore
calma nella nostra quotidianità. Per raggiungere questo obiettivo, le
istituzioni dovranno offrire dei servizi migliori, anche con l’aiuto delle
Ong.

D’altra parte, è vero che,
purtroppo, esistono paesi in cui la cultura ambientale non è ancora
penetrata.

Per queste ragioni la nostra
provincia aiuta le scuole, le industrie ed i singoli cittadini ad avere
una maggiore sensibilità nei temi ambientali come dimostra la campagna sui
rifiuti dei mesi passati (cfr. Missioni Consolata, settembre 2002).

 

Un commento sulla politica
ambientale italiana.

In generale l’Italia è sempre
stata in ritardo nelle politiche ambientali. In particolare, il governo
Berlusconi, aldilà delle sue generiche affermazioni, non ha battuto alcun
colpo in tema ambientale. Limitandoci al Piemonte, è da ricordare che
tutte le aree protette sono state fatte dai governi di centrosinistra.

 

Presidente Bresso, il suo
stato d’animo al ritorno da Porto Alegre (gennaio 2002) e da Johannesburg
(settembre 2002)…

Da Porto Alegre molto positivo.
Sembra che ci siano forze, risorse e volontà per cambiare il mondo, pur
senza un atteggiamento rivoluzionario.

Da Johannesburg meno, nel senso
che gli enti locali e le Ong rimangono ferme sulla volontà di cambiamento,
ma i governi, capeggiati dagli Usa (senza con ciò voler fare
dell’antiamericanismo), non hanno un atteggiamento di apertura verso i
gravi problemi planetari. La mia impressione è che ci sia un allentamento
dell’attenzione sulla questione ecologica.

Rimango però fiduciosa nel
comportamento dei giovani che, apparentemente, risultano più sensibili ai
problemi dello sviluppo e dell’ambiente.

 


Chi è? Mercedes Bresso

 

Mercedes Bresso, professoressa
di economia ed economia dell’ambiente presso il Politecnico di Torino,
è presidente dell’omonima Provincia dal 1995.

È autrice di numerosi saggi ad
uso universitario:

– Mercedes Bresso, «Pensiero
economico e ambiente», Loescher, Torino 1982

– Mercedes Bresso, Alberico
Zeppetella, «Il turismo come risorsa e come mercato», Angeli, Milano
1985

– Mercedes Bresso, Rosanna
Russo, Alberico Zeppetella, «Analisi dei progetti e valutazioni
d’impatto ambientale», Angeli, Milano 1990

– Mercedes Bresso, «Per
un’economia ecologica», NIS, Roma 1993

– Mercedes Bresso, «Economia
ecologica», Jaca Book, Milano 1997

 

Silvia Battaglia Maurizio Pagliassotti




IL CONCILIO VATICANO II 40 anni dall’11 ottobre 1962

E LA CHIESA INCONTRA IL MONDO

L’ 11 ottobre 1962 è la data che
segna l’inizio del più grande evento della chiesa cattolica nel XX secolo.
Quel giorno, nella basilica di San Pietro, papa Giovanni XXIII apre il
Concilio ecumenico Vaticano II con la solennità tipica degli anni ’50.
Fortemente voluto dal pontefice per conferire nuova vitalità alla chiesa
ed aprire nuove vie nel dialogo ecumenico, il Concilio viene vissuto come
una straordinaria esperienza di rinnovamento.

Il Vaticano II è stato il 21°
Concilio ecumenico nella storia della chiesa. Annunciato a sorpresa da
papa Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959 (dopo appena tre mesi di
pontificato) nella basilica di San Paolo a Roma, apre i battenti l’11
ottobre 1962 e si conclude, dopo quattro sessioni, il 7 dicembre 1965
sotto Paolo VI.

All’evento partecipano 2.540
«padri», sotto il consiglio di presidenza di 10 cardinali. Per la
conduzione delle 168 assemblee plenarie, il papa nomina come moderatori 5
cardinali. Dei 73 progetti elaborati da 10 commissioni preparatorie (che
svolgono il lavoro principale) solo 17 sono presentati in aula;
moltissime, tuttavia, sono le proposte e le richieste di riforma espresse
in sede di assemblea plenaria. Il Concilio si avvale della consulenza di
200 teologi «periti». Gli osservatori delle chiese o comunità non
cattoliche sono 93.

Grande risalto assume il volto
universale della chiesa, espresso dalla partecipazione di vescovi in
maggioranza extraeuropei (100 anni prima, i 700 vescovi che hanno
partecipato al Concilio ecumenico Vaticano I erano, all’opposto, quasi
tutti europei). Per la prima volta vengono ammessi gli «auditori laici»:
un fatto che evidenzia la nuova posizione della chiesa rispetto al
laicato.

Ancora: per la prima volta
l’opinione pubblica, grazie ai mass media, può seguire l’avvenimento, che
ha una risonanza inattesa anche fuori del mondo cattolico, riscuotendo
consensi in ambienti pure critici della chiesa di Roma.

Pochi sono consapevoli della
portata storica che il Concilio avrebbe avuto. La finalità che lo stesso
Giovanni XXIII prospetta all’inaugurazione è l’«aggioamento»: occorre
rendere la chiesa più adatta ad annunciare il vangelo ai contemporanei;
ricercare le vie per raggiungere l’unità delle chiese cristiane; rilevare
quanto di positivo esiste nella cultura contemporanea, dando vita ad un
nuovo dialogo con il mondo moderno.

È una intuizione profetica, che
apre la strada ad un profondo rinnovamento della chiesa nella dottrina e
nella vita.

 

Delle quattro sessioni, Giovanni
XXIII segue solo la prima (11 ottobre-8 dicembre 1962), durante la quale
si svolgono 36 assemblee plenarie. Contrariamente a quanto programmato
dalla curia, i membri delle singole commissioni sono eletti dagli stessi
padri conciliari su indicazione di gruppi di vescovi. Dopo la morte di
papa Roncalli, 3 giugno 1963, Paolo VI decide di continuare l’opera del
predecessore.

Secondo l’intuizione di papa
Giovanni, il Concilio, avviando l’«aggioamento», deve trovare modi nuovi
di portare il messaggio evangelico ad un mondo in radicale trasformazione;
deve essere «pastorale», capace di riconoscere quei «segni dei tempi» che
possano aprire alla fiducia, offrire speranza a una società proiettata nel
futuro del progresso tecnologico ed economico, ma anche gravata da
inquietanti interrogativi sul suo futuro.

Alla luce di questa ispirazione,
il Concilio rinnova la comprensione che i fedeli hanno della chiesa,
facendo riscoprire la dimensione comunitaria, la centralità della parola
di Dio e la liturgia. Soprattutto, dispone la chiesa ad un dialogo diverso
con il mondo moderno.

Negli anni successivi alla II
guerra mondiale la preoccupazione fondamentale della chiesa cattolica è la
lotta contro il comunismo. Ma sempre più forti sono, nella base ecclesiale
dei paesi occidentali, le preoccupazioni per i sintomi sempre più
espliciti e gravi dello scollamento della chiesa dalla società modea.
Se, da un lato, la modeità continua a rappresentare, come all’inizio del
secolo, lo spettro di un nemico che contende alla chiesa la supremazia
sulla società occidentale, dall’altro essa si presenta come una sfida cui
i cattolici devono rispondere con mezzi nuovi, cominciando da una
riflessione sul loro mondo.

Questi problemi sono ben presenti
ai padri del Vaticano II. Per molti di loro il Concilio deve essere una
risposta adeguata alle questioni poste dal mondo moderno. Ma non è facile
trovare una forma appropriata per esprimere in un documento tali
preoccupazioni. Per questo l’elaborazione del documento Gaudium et spes
(dedicato al rapporto chiesa-mondo) è complessa e tormentata. Il carattere
«pastorale», intuito da Giovanni XXIII, è un faticoso banco di prova per i
padri. È un elemento di contesa.

Il delicato equilibrio tra
«dottrina» e «pastorale» mette in gioco il significato che la storia degli
uomini ha nel bagaglio di fede della chiesa.

 

Il documento Gaudium et spes è
un’espressione riflessa di come il magistero ecclesiastico consideri il
rapporto tra la chiesa e il mondo moderno, sia esso interpretato nel segno
del dialogo, della presenza, della solidarietà o secondo altri paradigmi,
tra i quali i padri conciliari devono scegliere.

La scelta dei temi da trattare (e
soprattutto la forma con cui trattarli) è certamente il frutto di una
difficile mediazione-maturazione, che costituisce oggi uno dei problemi
più interessanti nella lettura di Gaudium et spes. Il documento è oggetto
di polemiche per le questioni che, con coraggio, vi si affrontano:
famiglia, controllo delle nascite, vita politica ed economica, cultura,
comunismo, guerra e armi nucleari.

Il documento rappresenta, in ogni
caso, il crinale tra una chiesa arroccata in un fortilizio e una chiesa
più evangelica, alla ricerca della radicalità delle origini, in grado di
confrontarsi con la modeità.

Alla redazione del testo
collaborano centinaia tra padri conciliari e teologi (compreso
l’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla), alla ricerca di nuove soluzioni.
E Gaudium et spes rimane uno dei documenti più condizionati dalla
situazione storica del tempo e dai compromessi necessari per poterlo
promulgare. Tuttavia, per i principi che enuncia, è anche uno dei più
significativi e importanti segni del Vaticano II…

In Italia il Concilio viene
accolto con grandi speranze dal popolo cristiano, ma anche dal mondo
laico… Poi il post-concilio si presenta con un decennio di forti
contrasti interni alla chiesa, tra gerarchia e comunità di base cristiane.

Se vi sono cardinali (come Giacomo
Lercaro a Bologna e Michele Pellegrino a Torino) che danno un grande
impulso al rinnovamento ecclesiale, altri porporati (Alfredo Ottaviani e
Giuseppe Siri) vedono nel Concilio un possibile pericolo per il futuro
della chiesa. Tuttavia anche per questi contrasti, inusuali nella storia
della chiesa italiana, la stagione post-conciliare è ricca di fermenti e
stimoli; è segnata da un rinnovato clima di dialogo e confronto tra le
diverse componenti sociali, culturali e politiche.

Rilancia la missio ad gentes in
termini più impegnativi.

 Oggi, a 40 anni dal suo inizio,
il Concilio continua a far discutere. Forse mai come in questi ultimi
tempi, mentre volge al tramonto il pontificato di uno degli ultimi padri
conciliari, il Vaticano II è al centro di una contesa tra diverse
interpretazioni anche all’interno della chiesa italiana.

C’è da augurarsi che prevalga il
coraggio della fede, e non la paura. Nel vangelo si legge: «Io sarò con
voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (Mt 28, 20).

Luca Rolandi




«LA PARTENZA» grandi attori interpretano Giuseppe Allamano

IL «SALGARI» DELLA MISSIONE

Come esprimere le emozioni
dopo una ricerca appassionante, tesa a far conoscere un grande uomo?
«Io conoscevo poco Giuseppe Allamano: fra i “santi sociali” del
Piemonte,egli mi era apparso solo un “silenzioso”.
E per molti torinesi Allamano è soprattutto “un corso”.
Sì, avete capito bene: un corso, che collega Torino a Grugliasco.Ma è
possibile?».
È l’interrogativo provocatorio di Paolo Damosso, regista del film «La
partenza».
Il protagonista? Lui, ovviamente: il beato Giuseppe Allamano,fondatore
dei missionari e delle missionarie della Consolata

 

La prima riunione è in Corso
Ferrucci 14, Torino, nella casa madre dei missionari della Consolata:
quasi due anni fa.

I padri Francesco Beardi e
Giacomo Mazzotti parlano con entusiasmo di Giuseppe Allamano, ed io
ascolto le prime informazioni con la curiosità di chi si addentra in un
mondo sconosciuto. «Deve scattare qualcosa “dentro”. Occorre trovare
un’idea» ripeto meccanicamente ai due missionari, senza sapere ancora da
che parte parare. Li lascio con un borsone zeppo di libri e… tanta
confusione mentale.

Dopo giorni di decantazione,
leggo, annoto, sottolineo: e (sorpresa!) scatta quel «qualcosa». Inizio ad
intravvedere un percorso, una strada. Sono di fronte ad una storia, una
bella storia, unica e particolarissima.

I missionari della Consolata, tra
l’altro, vantano una grande tradizione nel settore dell’immagine. Molti
sono i programmi televisivi, i documentari realizzati: alcuni
preziosissimi anche per il periodo storico in cui sono stati realizzati.

Per questa ragione s’impone una
scelta: sviluppare un progetto su una personalità forte, con
caratteristiche mai sovrapponibili a quanto è già stato fatto. Che sfida!

 Giuseppe Allamano inizia a
sbalordirmi, ad occupare i miei pensieri. Ne parlo con tutti. Alcune notti
lo sogno.

Mi colpisce il carattere mite, ma
con idee chiare. Una persona che rispecchia le caratteristiche della sua
terra, Castelnuovo (AT), dove nasce nel 1851. Un uomo «con i piedi per
terra» e la mente sempre in viaggio, in perenne movimento fino alla morte
(Torino, 1926). Nasce così l’idea de «La partenza», il titolo del film che
riassume bene le prime sensazioni provate.

Ciò che mi sorprende è che
l’Allamano, un secolo fa, abbia parlato dell’Africa ed abbia entusiasmato
i giovani a fare una scelta missionaria difficile e «misteriosa», a
partire… E lui non parte! Un uomo che trascorre 46 anni nel santuario
della Consolata, e che, nello stesso tempo, si fa carico dei problemi nel
sud del mondo. Terre sconosciute, inesplorate; però ne parla con
competenza, convinzione, fede soprattutto! Lo si nota leggendo il suo
bollettino La Consolata, ricco di immagini sul continente nero.

Non c’è la tivù, non c’è internet,
non c’è «il villaggio globale», eppure l’Allamano «abbraccia il mondo
intero» con uno slancio e una progettualità invidiabile anche per noi, che
quotidianamente ci interroghiamo sullo squilibrio fra nord e sud del
mondo. Stupefacente è pure il fatto che non siamo di fronte ad «un
avventuroso»; viceversa, è nitida la profonda spiritualità che guida ogni
decisione, sempre ben ponderata.

Per l’Allamano, l’idea di
«partenza» è elastica. Non si può ridurla ad un fatto meramente fisico.
«Si può partire, viaggiare e fare tanta strada anche stando fermi»: è una
delle battute finali nella sceneggiatura che ho scritto. Non è solo un
gioco di parole, ma la traduzione di una delle mie primissime riflessioni.

«L’Allamano è il Salgari della
missione» dico a mia moglie una sera a cena. Una provocazione, per far
capire che si può comunicare un’emozione anche su un luogo mai conosciuto
di persona. La giungla, mai vista da Emilio Salgari, ha segnato un
successo editoriale. L’Africa, mai visitata dall’Allamano, ha
rappresentato «un successo missionario», un nuovo modo di evangelizzare,
di vivere la vocazione, di incontrare l’uomo.

Questo mi invoglia ad approfondire
lo studio. Inizio ad «immaginare l’Allamano». Che tipo è? Come si muove e
come parla?

Incontro le persone che ancora lo
ricordano. E scopro che, a Venaria (il comune in cui vivo), tra le
missionarie della Consolata ci sono ancora «testimoni oculari»,
preziosissime. Suor Antonietta ha 100 anni. Incontrarla è un’enorme
emozione per me, affamato di informazioni dirette, di dettagli, anche
minimi.

 Il film è molto articolato. È un
lavoro che alterna momenti di fiction a monologhi teatrali e parti
documentaristiche.

La vicenda si sviluppa su vari
livelli. In primo luogo, c’è una storia ambientata ai giorni nostri:
riguarda Tullio e Anna, due anziani coniugi. Tullio è ultranovantenne, ha
conosciuto l’Allamano e ne è rimasto così colpito da avere «la tentazione»
di partire per la missione: una decisione che non ha realizzato. Per tale
ragione, ora che è vecchio, trascorre il tempo a ricordare, leggere,
guardare filmati missionari, e tormenta moglie e figlio sulla sua mancata
partenza.

In secondo luogo, c’è la vicenda
di Bruno, il figlio dei due coniugi. È un attore che sta preparando un
recital proprio sull’Allamano; quindi, oltre a cercare di far ragionare il
vecchio padre, viaggia attraverso i luoghi legati al personaggio da
rappresentare, provando alcuni brani dello spettacolo tratti dagli scritti
dell’Allamano.

Infine, ecco l’amico, il braccio
destro del fondatore dei missionari e missionarie della Consolata: Giacomo
Camisassa. È una colonna portante, da evidenziarsi nel modo più efficace.
Camisassa sarà presente con la voce affascinante (fuori campo) di Aoldo
Foà: una voce che accompagna lo spettatore nel percorso biografico del
protagonista.

Non mancano i filmati d’epoca, che
ci calano dentro una storia centenaria, che continua a svilupparsi negli
angoli più remoti della terra, là dove operano e faticano i missionari
della Consolata.

Questi sono gli ingredienti della
«torta», che vanno impastati, fatti lievitare e cotti a puntino. A tutti
l’onore di «assaggiare il dolce della casa». Ed anche… buona «partenza»!

 


Intervista con gli attori


PARTIRE, MA ANCHE ARRIVARE


Franco Giacobini
,
grande attore
romano, oltre 100 film, con la voglia di misurarsi ancora con un nuovo
personaggio, motivato da una tensione spirituale che non lo abbandona mai.

 Signor
Giacobini, dopo una lunga carriera, in questi ultimi anni spesso
interpreta santi. Perché?

Ho scoperto i santi dopo i 70
anni. In essi mi colpisce la coerenza, merce rara in questi tempi. Sono
persone che hanno preso alla lettera una o due verità fondamentali del
cristianesimo. Sarebbe imperdonabile non meditare su loro.

 Del beato Giuseppe Allamano
che cosa l’ha colpita?

Sono strabiliato dal «paradosso
Allamano»: il suo slancio verso una terra sconosciuta come l’Africa ha
dell’incredibile. È «la follia dei santi», che è contagiosa.

 Il suo personaggio è Tullio,
di 96 anni, che ha conosciuto l’Allamano. Come si è trovato in tale ruolo?

Il regista mi conosce bene, e ha
creato un personaggio che mi assomiglia. L’unica differenza è che Tullio
ha 20 anni più di me.

 È stato difficile
«invecchiarsi»?

Ero soprattutto preoccupato di
rendere credibile la mia età. Oggi a 96 anni si può ancora essere
autosufficienti; ma il mio personaggio ha caratteristiche complesse: è un
visionario, un po’ arteriosclerotico, ma con momenti di lucidità quasi
imbarazzante. La cosa più faticosa è che ho dovuto farmi crescere una
lunga barba: oltre sei mesi di sofferenza…

 La sua maggiore
preoccupazione?

Essere credibile. Deve sempre
essere evidenziata la verità. C’è un solo comandamento nella recitazione:
«Non bisogna dire bene; bisogna dire vero».

 Il titolo dello sceneggiato è
«La partenza». Che significa per Franco Giacobini?

«La partenza» ha senso se si
individua anche un «arrivo»: non è un gioco di parole. Ecco perché invidio
i missionari: sono accecati da un’energia vitale e la comunicano agli
altri. Di fronte a gente triste e spenta, «illuminano una strada» e
indicano la meta da raggiungere.

 C’è una curiosità legata a
quest’esperienza?

Certo. Ultimamente ho problemi di
memoria. In questo caso è stato tutto poco faticoso. È stato l’Allamano a
suggerirmi le battute all’orecchio?

 


Angela Goodwin
, moglie di Franco Giacobini anche nella vita,
ha lavorato con la professionalità di sempre. Lei, che ha recitato con
Sofia Loren, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, ecc.

 

Signora Goodwin, qual è il suo
ruolo?

Io interpreto Anna, la vecchia
moglie di Tullio, il testimone oculare dell’Allamano. È una donna
semplice, che ha dedicato tutta se stessa al marito. Una donna d’altri
tempi. Positiva in tutti i sensi, un po’ ansiosa; però, mi auguro,
simpatica.

 Quanto è importante essere la
moglie di Tullio anche nella vita?

È indubbiamente un aiuto
psicologico; facilita ad essere più vera nell’atteggiamento amoroso e c’è
sicuramente più feeling. Sono stata moglie di vari attori sul set, come
Philippe Noyret o Renato Rascel. In quei casi dovevo concentrarmi di più,
perché c’era il rischio di essere meno spontanea. E poi… bisogna
piacersi!

 E dell’Allamano cosa pensa?

È delizioso: uno che ha camminato,
ha attraversato la storia, «apparentemente» senza far rumore. È il vero
prete, l’uomo umile, che tutti vorremmo incontrare quando entriamo in
chiesa.

Ho guardato e riguardato le sue
foto: il portamento, i tratti somatici e le espressioni rivelano una
personalità docile. Il fatto è che sapeva molto bene quello che voleva, e
lo ha dimostrato. Ciò significa che, per costruire grandi cose, non
occorre gridare, né prevaricare sugli altri. Meglio sorridere, parlare a
voce bassa, comunicare amore.

 Com’era il clima umano sul
set?

È stata una vacanza. Lo
sottolineo: e questo è dovuto alla troupe della Nova-T. Una festa di
affetti ed attenzioni. Mai un momento di disagio.

 Chi è il missionario per
Angela Goodwin?

Una persona dedicata agli altri,
non a se stesso. Un uomo che non mette mai in evidenza il proprio io.

 


Flavio Bucci
, un talento artistico, una vis teatrale senza
pari, ha creduto fin da principio ne «La partenza» e ha conferito forza
alle parole dell’Allamano, rendendole vive e attuali.

 

Signor Bucci, perché ha
accettato questo ruolo?

Nella mia vita di attore, con 35
anni di carriera, ho interpretato diversi preti, tra cui don Sturzo; sono
stato vescovo, però mai mi ero calato nel ruolo di un santo o beato. Per
me l’Allamano è una grande scoperta.

 C’è qualcosa che le è rimasto
impresso nel viaggio piemontese sui luoghi di Allamano?

Due luoghi in particolare mi hanno
incuriosito: il museo etnografico dei missionari della Consolata a Torino.
È interessantissimo. Sono rimasto colpito dal fatto che, in questi grandi
saloni, pieni di oggetti, si può fare un viaggio nel tempo e nello spazio.
Molte cose ti sembrano stranissime e di mille anni fa; in realtà, spesso,
sono oggetti comuni e magari sono lì da pochi giorni… Capisco allora che
la mia ottica di uomo, figlio del benessere dei paesi dominanti, è
profondamente distorta. In secondo luogo, mi ha colpito il salone dei
vescovi in curia. Cento volti avvolgono la sala; provengono da epoche
lontane e mi hanno fatto uno strano effetto.

 Dell’Allamano che cosa le è
rimasto?

È un uomo incredibile con aspetti
anche curiosi. Penso, per esempio, al fatto che sia riuscito ad
appassionarsi all’Africa senza averla mai vista: eppure ha creato un
evento importante. È un leader con un grande carisma.

 Lei è un uomo di cinema. È
vero che l’Africa è penalizzata anche in questo campo?

Ho scoperto l’Africa quattro anni
fa, mentre giravo un film in Kenya. Non posso dire di conoscerla, perché
vivevo in modo confortevole e protetto. È vero però che il cinema ha
snobbato l’Africa e, in genere, il sud del mondo. Forse il grande pubblico
preferisce storie disimpegnate, futili. Ma siamo noi, dell’ambiente, che
dovremmo educarlo meglio.

 Chi sono i missionari per
Flavio Bucci?

Quando penso ai missionari non so
se invidiarli o meno. Sono una spinta che, potenzialmente, si nasconde in
molti di noi. Poi magari, come succede nel film girato, non si «parte».
Però si può essere missionari sotto vari aspetti: anche nel mio ambiente.
In questo momento potrei essere «missionario nel nome del teatro».

Paolo Damosso




MOZAMBICO: un cammino di pace che dura da dieci anni

UNA DOMENICA AL MARE, E NON SOLO
Dopo 16 anni di guerra civile, il paese ha imboccato la via della pace. Una pace operosa, che dura da un decennio, sia pure con qualche «sbandamento».
Non è un risultato di poco conto in Africa…
Su questo ed altro interviene un missionario della Consolata

Maputo, ore 7,30. L’aria nella capitale del Mozambico è frizzante. Sul cielo terso resiste ancora un quarto di luna calante: appare con un’esile sagoma in negativo bianco su un fondo azzurro intenso.

È domenica, e sto per andare in chiesa. «Prendi anche la macchina fotografica – mi ricorda padre Manuel Tavares (*) -, perché ci sarà una messa speciale». Una messa non in chiesa però, bensì nella cappella di un imponente liceo.

All’epoca del colonialismo portoghese l’istituto scolastico era retto con successo dai Fratelli maristi, religiosi. Dopo l’indipendenza del Mozambico (1975), come altre opere missionarie, la struttura venne nazionalizzata dalla Frelimo, il partito unico al potere di rigida fede marxista: e la cappella fu trasformata in magazzino. Dal 1978, nella guerra civile tra Frelimo e Renamo (il partito di opposizione clandestina), il liceo è divenuto un triste simbolo del paese, abbandonato al degrado, alla disperazione.

Con la pace è riaffiorata la speranza. E la cappella del liceo è ritornata ad essere «casa di preghiera». Questa mattina festeggia 10 anni di vita nuova, mentre in tutta la nazione si celebra il 10° anniversario degli accordi di pace, siglati a Roma il 4 ottobre 1992 presso la Comunità di sant’Egidio.

La celebrazione è davvero «speciale», con canti possenti e danze fantasiose al ritmo di tamburi e nacchere. Le parole più ricorrenti sono «fede giorniosa, speranza incrollabile, carità generosa». Non un accenno agli scontri armati, terribili, tra gli allora «comunisti al potere» e i «banditi dell’opposizione», alle tragedie subite e inferte. Forse perché entrambi i «nemici» sono ora in… ginocchio.

Mentre scatto le ultime foto della processione finale, mi vengono in mente due versi del poeta swahili Robert Shaaban:

«Ricordare è un dovere, dimenticare è un sollievo».

Durante il pranzo

Nel rincasare a piedi, mi perdo. Finisco in Avenida O Chi Ming ed anche in Avenida Mao Tze Tung. Finalmente (dopo qualche richiesta di informazioni) incrocio l’Avenida 24 de Julho, dove al numero 496 risiedono i missionari della Consolata. Padre Manuel Tavares mi accoglie con una smagliante risata di comprensione e, guardando l’orologio (sono le 12 abbondanti), mi invita subito a pranzo.

Le vie della capitale dedicate a O Chi Ming e Mao Tze Tung ricordano il recente passato marxista-leninista del paese. Però, come mai non è stato cambiato il nome coloniale 24 de Julho? «Forse perché questa data non significa niente per nessuno» risponde padre Manuel con un briciolo di ironia. Intanto mi scodella un saporito minestrone di verdura.

Portoghese, padre Tavares ha operato in Mozambico anche durante il colonialismo, non condividendo però le scelte della madre patria. Oggi analizza pure lo spirito missionario del tempo e afferma: «Durante il potere coloniale noi, portoghesi, ci sentivamo padroni. Anche altri missionari, di nazionalità diversa, difendevano il regime. C’era la convinzione di avere un messaggio assolutamente indiscutibile da portare alla gente; ci si riteneva salvatori del popolo, il quale doveva soltanto accettare le nostre parole per migliorare umanamente e spiritualmente. Questo era l’atteggiamento, sia pure inconscio, nel colonialismo. Poi…».

Poi è divampata la lotta al regime coloniale e il Mozambico ha raggiunto l’indipendenza. «Questi eventi sono serviti a purificare il nostro pensiero; hanno fatto rientrare in proporzioni più giuste anche l’azione missionaria».

Con l’indipendenza, tutto è mutato: il potere politico, ma anche quello ecclesiastico; prima i vescovi erano portoghesi, poi (dal mattino alla sera) quasi tutti mozambicani, e con una mentalità africana.

«Oggi la chiesa vuole essere sempre di più mozambicana. Questo esige da noi missionari un atteggiamento molto diverso rispetto al passato».

Se la lotta al colonialismo, l’indipendenza nazionale e il successivo regime marxista-leninista non fossero bastati a mettere in crisi il missionario, il colpo fatale gli è stato inferto da 16 anni di guerra civile… Al presente nella nazione è in atto «la costruzione della pace».

Padre Manuel, come sta sviluppandosi il processo? «Bene, pur nelle difficoltà. Mi riferisco, in particolare, alle elezioni del 2000, che sarebbero state vinte dal partito di opposizione Renamo. Ma la Frelimo avrebbe imbrogliato nella conta dei voti e così ha conservato il potere. Non sono mancate accuse; però, di colpo (data anche l’emergenza dell’alluvione), sono cessate. Il che fa supporre che la maggioranza abbia concesso qualcosa all’opposizione».

Cosa… non si sa.

Un altro scontro violento tra governo e opposizione si verificò l’anno scorso, allorché a Maputo una manifestazione di protesta della Renamo fu caricata dalla polizia, con un centinaio di vittime. E altrettanti furono i morti per asfissia in una prigione dello stato. Nemmeno su questo si saprà mai la verità.

Vi furono anche omicidi di singoli «eccellenti»: quello del giornalista Carlos Cardoso, per esempio; stava smascherando la corruzione, che alligna fra gli stessi politici… e pagò con la vita.

Eppure questi fatti gravi non hanno impedito a maggioranza e opposizione di dialogare, di accordarsi con taciti compromessi, certamente discutibili in una democrazia compiuta. In Mozambico, però, tutto è subordinato alla comune costruzione della pace, per la quale si sacrifica tutto. «E forse non a torto, specialmente se si ricordano (e tutti lo fanno) gli interminabili 16 anni di guerra civile, gli innumerevoli profughi, le immani distruzioni e oltre un milione di cadaveri straziati…».

Padre Manuel mormora le ultime parole sottovoce, come se parlasse a se stesso. Segue una pausa di silenzio. Di botto, quasi per un comune accordo, lasciamo il refettorio. Non ci dispiace una siesta. Fa caldo. L’aria fresca del mattino è un ricordo.

Sul Lungomare

Al risveglio, padre Manuel propone una passeggiata sul pittoresco lungomare del porto di Maputo. La conversazione continua seduti su una panchina del molo della città, lo sguardo sull’infinito.

Il missionario, pur essendo stato critico del regime coloniale del Portogallo, ha tuttavia sofferto per il patatrac politico della sua nazione. Subito dopo l’indipendenza, i bianchi in Mozambico hanno corso il pericolo di sommarie cacce all’uomo. Drammatica, tragica, è divenuta la situazione quando diversi missionari di varia nazionalità sono stati sequestrati, feriti, uccisi.

Oggi, padre Manuel, come ti senti quale portoghese? «Mi sento bene, perché l’attuale potere politico non fa discriminazioni. In Mozambico c’è un piccolo gruppo di bianchi che teme lo spauracchio del passato. In realtà c’è poco da temere; lo dimostra il fatto che alcuni portoghesi, costretti ad andarsene al tempo delle nazionalizzazioni, ora sono ritornati e fanno ottimi affari… Però noi missionari non dobbiamo dimenticare che siamo in casa d’altri. Come europei, vorremmo che il governo e la chiesa fossero diversi. Ma occorre fare i conti con la realtà. Bisogna rispettare le sensibilità culturali locali e lo stile africano».

«Stile africano» anche fra gli stessi missionari della Consolata, che ormai sono anche kenyani e congolesi, brasiliani e colombiani. Questo genera problemi d’intesa?

«Non vedo in Mozambico grossi problemi al riguardo, a parte qualche caso particolare, che però interessa anche i missionari europei. La diversità culturale è sicuramente un arricchimento per la missione, o può diventarlo».

Si dice che il missionario europeo prediliga le opere sociali (centri sanitari, scuole, ecc.), mentre quello africano o latinoamericano si dà alla pastorale pura…

«Non esageriamo!… C’è un missionario italiano dedito esclusivamente alla pastorale, come vi sono missionari africani e latinoamericani assai impegnati nel sociale: dipende dai progetti e dai mezzi che dispongono per realizzarli. Ritengo che dobbiamo condividere fra tutti noi (europei e non europei) anche le iniziative di promozione umana. Quando l’abbiamo fatto, i risultati sono stati ottimi».

Come vengono accolte dalla popolazione gli aiuti stranieri? Favoriscono l’intraprendenza del mozambicano o lo relegano nella passività del mendicante?

«Il popolo mozambicano non ha ancora preso in mano le sorti del proprio sviluppo. Questo è un grave problema, perché obbliga ancora il paese a dipendere dall’estero. D’altro canto il Mozambico, talora, è costretto a fronteggiare improvvise emergenze (come l’alluvione di due anni fa o la siccità di quest’anno), che ritardano lo sviluppo di decenni: in questi casi gli aiuti estei sono necessari».

Pertanto è necessario trovare un equilibrio tra il «facciamo da soli» e il «tendiamo la mano ad altri», puntando però con maggiore forza sulla prima strategia. Dopo la guerra, per circa due anni il paese è sopravvissuto grazie solo agli aiuti esteri; ma quando la gente è ritornata a lavorare, tutto è rifiorito e si è raggiunta persino l’autonomia alimentare. Peccato che, nel 2000, sia arrivata quella tremenda alluvione!

«Occorre anche lavorare con un occhio rivolto a possibili catastrofi, immagazzinando scorte alimentari in silos: questo i missionari l’hanno sempre fatto. Oltre a scongiurare la fame, tale azione preventiva frena i prezzi degli alimenti, che salgono alle stelle nelle emergenze…».

Abbandoniamo la panchina del molo. Camminiamo scortati da una maestoso filare di palme, accarezzate da una dolce brezza. Al cospetto di un bar, entriamo senza esitare: una bibita ci sta bene. Non c’è anima viva nel modesto locale. Forse proprio per questo mi lascio andare ad una domanda indiscreta: «Manuel, si dice che tu sia un vescovo mancato; o hai ancora una possibilità?».

La risposta dell’interlocutore è una risata così sonora da attirare la curiosità dello stesso barista… che ride divertito anche lui senza sapere la ragione. «Se devo essere schietto – commenta tosto il missionario -, le calze rosse dei vescovi non mi sono mai piaciute. La mia preoccupazione è stata sempre un’altra».

E cioè? «Lavorare senza protagonismi, sentirci tutti fratelli. Ciò che conta non è quanto facciamo, ma lo spirito con cui lo facciamo…». Scuote la testa padre Manuel. Un raggio di sole ne illumina il volto, mentre dichiara quasi con solennità: «Eppoi, mio caro, l’era dei vescovi stranieri è tramontata per sempre!».

Sta tramontando anche il sole sull’Oceano Indiano. Sprazzi di luce morbida vivacizzano le onde increspate dalla brezza, e dilatano l’orizzonte.

Ci avviamo in auto al 496 dell’Avenida 24 de Julho. Lungo le vie O Chi Ming e Mao Tze Tung sono ancora attivi i mercatini… Due giorni fa, nella città di Beira, mi aggiravo incuriosito tra le chiassose bancarelle di un «mercato informale». Mi è piaciuto molto il suo nome Chunga moyo, ossia «fatti coraggio».

«Chunga moyo» è stato anche il tacito programma del popolo mozambicano nel trascorso decennio, dopo la guerra. E lo sarà ancora.

Francesco Beardi




BAYENGA (R.D. CONGO): storia di ordinaria insicurezza

DIARIO… DI GUERRA

Il Movimento per la liberazione del Congo di Pierre Bemba e l’Unione congolese per la democrazia di Mbusa Nyamwisi si combattono per il controllo del nord-est del Congo (ex Zaire) e alcuni missionari della Consolata si trovano tra i fuochi incrociati, come è capitato nell’agosto e settembre scorsi.

Lunedì 5 agosto. Atterro a Isiro sano e salvo, grazie a un aereo di fortuna proveniente da Kampala. Insieme a me ci sono il vice superiore generale, padre Antonio Bellagamba, venuto per dettare un corso di esercizi spirituali, e quattro volontari brianzoli del gruppo «i gabbiani», destinati a Bayenga per montare una pompa d’acqua.

L’indomani ripartiamo per Wamba, dove lasciamo il vice superiore; arriviamo a destinazione accolti festosamente dalla gente per la strada e alla missione.

Mercoledì 7 agosto. Senza un giorno di riposo, «i gabbiani» iniziano a piazzare la pompa al pozzo scavato sul terreno dove sorgerà la nuova missione, un paio di chilometri dagli attuali edifici provvisori.

Verso le 10,30 si sentono scoppi isolati di fucile. Col vecchio capo locale, venuto a salutarmi, pensiamo che si tratti di esercitazioni o di militari che puliscono le armi. Un nutrito scambio di raffiche di mitragliatrici ci toglie ogni illusione: è uno scontro tra soldati in piena regola.

Due donne che stanno preparando il pranzo sono spaventate: rimettono tutto in magazzino e ci esortano a scappare e metterci al riparo. Non c’è tempo da perdere. Dico a Marina, una dei volontari:

– Prendi un cappello e seguimi. È la guerra.

– Stai scherzando?

– No, non scherzo! Quelli sparano sul serio: andiamo.

Non ho tempo di chiudere la casa e corriamo verso il pozzo. Ci seguono il direttore della scuola con sua figlia e una donna malata aiutata dal marito. Camminando tra le erbe, scivolo in un pantano con molta acqua, essendo questa la stagione delle piogge. Con difficoltà riesco a recuperare le scarpe dal fango. Ci fermiamo ai bordi di un campo di riso e ci sediamo ai margini della foresta.
Capiamo subito che il nascondiglio non è troppo segreto: ci raggiunge un soldato in fuga; ci fornisce la sua versione dei fatti: i militari di Bemba, che controllano il nord del Congo, sono stati attaccati da quelli di Nyamwisi; non potendo resistere, sono scappati. Il soldato ci chiede informazioni sulla strada per Wamba, per ricongiungersi ai suoi commilitoni.
Mentre aspettiamo l’evolversi della situazione, arriva il confratello congolese Clément Balu Futi insieme ai tre volontari impegnati nel montaggio della pompa. Sentiti gli spari e le pallottole fischiare sopra la testa, si erano rifugiati tra gli alberi. Diminuita l’intensità della sparatoria, erano venuti a cercarci.

Arriva anche un ragazzo di 18 anni. Padre Clément lo conosce: è un soldato. Il giovane si mette a piangere; dice che si è tolta la divisa per scappare senza dare nell’occhio.

Finalmente le armi tacciono. Ma ecco avanzare i soldati di Nyamwisi. Padre Clément esce dal bosco, rischiando forte, e va incontro ai militari: alcuni di essi vengono dalla sua stessa regione. Cerca di frateizzare; parla col comandante; poi ci invita a uscire dalla foresta per salutare i capi.

L’incontro è pacifico, ma ci si guarda con sospetto: noi non sappiamo cosa ci chiederanno; essi s’informano se stiamo in quel luogo per cercare l’oro. Padre Clément spiega che i bianchi non sono dei commercianti, ma persone venute ad aiutare la missione e quindi la popolazione.

Possiamo rientrare a casa. I militari ci seguono. Padre Clément cerca di capire le loro intenzioni: vogliono l’auto e la radio trasmittente. Ce l’aspettavamo. Resistiamo, anche perché i soldati di Bemba, nella loro ritirata, si sono portati via la motocicletta. A interrompere le trattative intervengono le tenebre.

Giovedì 8 agosto. La notte è stata tranquilla. Appena celebrata la messa, «i gabbiani» partono per lavorare alla sorgente; i militari tornano per prendere la Land Rover: il loro sguardo è minaccioso; il giorno prima hanno avuto qualche morto; è difficile farli ragionare. Dopo un po’ di resistenza, ci rassegniamo, per non mettere in pericolo la vita.

Ma non c’è l’autista. Gli avevamo detto di sparire e lui si è nascosto e non sappiamo dove sia. Il comandante obbliga padre Clément a portare alcuni soldati al quartiere 51, un villaggio a 40 km da Bayenga. Il padre si sacrifica: indossa la veste bianca; mi dice di pregare e si mette al volante della Land Rover. Il comandante assicura che andrà tutto bene e saranno di ritorno la sera, appena avranno procurato da mangiare per la truppa.

Passa qualche ora ed ecco arrivare da Wamba padre Rinaldo Do: ha fatto il tragitto in bicicletta, con un fazzoletto bianco legato a un bastoncino, issato sul manubrio. È venuto per stare vicino ai «gabbiani», rendersi conto della situazione e parlare con i capi militari: spera di poter evacuare i quattro italiani e portarli a Wamba, appena padre Clément sarà rientrato.

Dal villaggio di Niania arrivano 16 ragazzine dirette a Wamba, per una settimana di formazione: sono in viaggio da lunedì e peotteranno a Bayenga, senza sapere se potranno riprendere il viaggio.

Venerdì 9 agosto. Padre Clément non è ancora rientrato. Speriamo che arrivi almeno oggi. Padre Rinaldo è riuscito a ottenere il permesso di usare la radiotrasmittente, ieri alle 15 e oggi alle 7, per parlare con i padri di Wamba e Isiro e chiedere una macchina per far partire gli italiani.

Alle 11,30 padre Clément non si vede ancora. Piove. I volontari italiani rientrano: non hanno terminato il lavoro, ma hanno impostato l’essenziale; altri potranno terminarlo.

Nel collegamento radio delle 12,30 padre Baruffi promette di mandare l’abbé Raymond con un mezzo di trasporto per prelevare i quattro ospiti. Scende la sera; ma nessuna delle due auto arriva alla missione.

Siamo preoccupati per padre Clément. Italiani e ragazze di Niania devono peottare a Bayenga.

Sabato 10 agosto. Da Wamba l’auto non è potuta arrivare, perché i soldati hanno messo un posto di blocco a una decina di chilometri da Bayenga. I laici italiani riprendono il lavoro. Forse riusciranno a terminarlo.

Alle 9,20 si sentono nuovi spari; sembrano provenire da Benga.

Al pomeriggio rientra finalmente padre Clément con i soldati: è visibilmente molto stanco. Grandi abbracci, ma poca comunicazione: i militari restano vicino.

Poco dopo arriva il vescovo con l’abbé Kakeane per prendere gli italiani. Devo partire anch’io: ordine del vescovo. Ci prepariamo in fretta e partiamo. Padre Clément ci segue con i militari fino a Wamba; arriva poco dopo di noi. Alla missione di Bayenga resta padre Rinaldo.

Intanto vengo a conoscenza di come stanno le cose: Wamba è stata presa dai soldati di Nyamwisi dopo due ore e mezzo di combattimento. Essendo ormai Bayenga e Wamba nelle mani della stessa fazione, il vescovo ne aveva approfittato per venire a prenderci.

Lunedì 12 agosto. Le forze militari di Bemba sferrano il contrattacco e, in poche ore, Wamba è nuovamente nelle loro mani. Viviamo in apprensione; le fucilate sono molto vicine.

Poiché la medesima fazione controlla la zona di Wamba e Isiro, si approfitta per portare fino a quest’ultima città i quattro italiani e padre Bellagamba, per imbarcarli alla prima occasione per Kampala, mandando a monte il corso di esercizi.

Insieme a loro lascia Wamba anche padre Clément; ormai per lui la zona scotta: corrono voci che sia accusato di avere aiutato i nemici con la macchina. Tali voci lo consigliano ad anticipare la partenza per Nairobi, dove parteciperà a un corso di aggioamento e formazione.

Intanto io rimango a Wamba per parecchi giorni. La situazione è calma. Ma non si è mai sicuri: non ci sono state dichiarazioni ufficiali. Non c’è sicurezza e abbiamo paura di viaggiare in auto, tanto più che sono senza mezzo di trasporto: la Land Rover è stata requisita dai nuovi padroni e l’hanno messa definitivamente fuori uso.

Padre Rinaldo continua a fare la spola tra Bayenga e Wamba in bicicletta, per dare e ricevere notizie. Ma i programmi sono sospesi; si attende con pazienza: la virtù più grande che deve coltivare chi lavora in Congo.

Venerdì 6 settembre. Da una settimana sono rientrato a Bayenga con padre Giuseppe Fiore; padre Do può ritornare alla casa regionale di Isiro.

Ma non mi sento bene. Domenica scorsa, verso la fine della messa, capogiro e nausea mi hanno costretto a lasciare l’altare; padre Fiore ha portato a termine la celebrazione. Non so che cosa sia stato, debolezza o malaria: sono stato costretto a letto per una settimana e non mi sono ancora ripreso totalmente.

Per quanto riguarda la guerra, tutta la zona di Isiro, Wamba e Bayenga continua ad essere in mano ai militari di Bemba. Al momento tutto è calmo. Sembra che il fronte si sia spostato sulla strada Niania-Mambasa-Bunia.

Non possiamo fare molto, perché non c’è sicurezza; i militari continuano a passare e requisire le biciclette della gente; non ci sono altri mezzi di trasporto; tutto resta sospeso in attesa di tempi migliori.

Mercoledì 11 settembre. Di salute mi sento meglio. Aspettiamo l’arrivo di padre Rinaldo da Isiro, che ci porta qualche rifoimento.

Ma arriva pure l’ordine di ritornare in Italia, per sottopormi ad analisi ed eventuali cure mediche.

Con tanta tristezza mi preparo per un’altra partenza, con la speranza, insieme, di ritornare presto tra la gente, nonostante spari e difficoltà di vario genere.

CALVARIO… IN BICICLETTA

Due giovani di Bayenga descrivono il viaggio da Kisangani a Isiro e relative insicurezze e seccature.

Per un povero congolese come me, viaggiare all’interno del mio paese è un’impresa difficile, se non impossibile: si parte con seri dubbi di arrivare a destinazione. Tale inquietudine ha una sola causa: l’occupazione della Repubblica democratica del Congo da parte di vari gruppi di ribelli, che si combattono a vicenda e stanno distruggendo quel poco che rimane del paese.

Unico mezzo di spostamento, sia per le condizioni delle strade che per ragioni di sicurezza, è la bicicletta. Da Kisangani a Isiro, per esempio, la strada si snoda per circa 500 km nella foresta tropicale e da alcuni anni è impraticabile per qualsiasi automezzo. La si può percorrere solo a piedi o pedalando su due ruote.

Non è l’oscurità della foresta a mettere paura, ma le centinaia di soldati che la infestano e rendono il viaggio un autentico calvario, quando non finisce in tragedia.

Per qualche tratto si può avere la fortuna di non fare brutti incontri; ma non se ne trovano neppure di piacevoli. I villaggi lungo la strada sono deserti: gli abitanti si sono rifugiati nelle malende, abitazioni provvisorie nella foresta, per evitare di trovarsi nel fuoco incrociato dei combattimenti.

Hanno ragione di fuggire: le rovine testimoniano massacri, saccheggi e malversazioni d’ogni genere. In alcuni villaggi si sono istallati i militari; in altri i soldati vanno e vengono: sono armati fino ai denti con fucili, machete, baionette, corde, asce, lancia bombe, granate fissate alla cintura. Incontrarli è una disgrazia. La prima parola che dicono è: «Soldi». Il tono non lascia scampo.

La chiamano mabonza (offerta) e non si sa per quali ragioni bisogna fare tali «offerte» ai militari. Ma non sempre si accontentano del denaro, ma controllano sistematicamente i bagagli e, se trovano qualche cosa di interessante o di valore, se la prendono automaticamente, senza che il proprietario possa fiatare: potrebbe rischiare la morte.

Talvolta si passa alle perquisizioni corporali. Guardano perfino le mutande, nella speranza di trovarci nascosta qualche somma di denaro.

A volte qualche militare deve spostarsi e approfitta del viandante per farsi portare a destinazione sulla canna della bici. Anche in questi casi non esistono ragioni da opporre: chi rifiuta di prestare il faticoso servizio, potrebbe perdere la bicicletta o, peggio, la vita.

Q uando lungo la strada le opposte fazioni si affrontano a distanza ravvicinata, questa rimane chiusa per alcuni giorni; chi si trova a percorrerla in tali circostanze sono vittime dei trattamenti più inumani.

È capitato a un gruppo di ragazzi che, sempre in bicicletta, dopo aver percorso 260 km, a metà strada tra Kisangani e Isiro, sono caduti in un’imboscata di mayi-mayi, un gruppo di ribelli che, tra l’altro, credono di essere invulnerabili.

Terribilmente armati, essi pretendevano che ogni giovane sborsasse 10 mila franchi congolesi: una somma enorme per quei poveretti che, non potendo pagare, furono minacciati e spogliati di tutto.

Per di più, gli sfortunati ragazzi non potevano proseguire, poiché sarebbero caduti sotto le pallottole della fazione opposta, a due chilometri di distanza; né potevano tornare indietro, per non tradire la presenza dei mayi-mayi; e furono costretti a rifugiarsi nelle malende, nel cuore della foresta, dove rimasero per alcuni giorni senza cibo.

I ragazzi cercarono il modo di sopravvivere; dopo alcuni giorni, ripresero il viaggio attraverso la foresta, raggiunsero la strada in un punto dove non c’erano soldati e riuscirono a tornare a Kisangani.

L a strada Kisangani-Isiro è l’esempio più eloquente dell’insicurezza per chi deve spostarsi in Congo. Situazioni analoghe si verificano in molte regioni del paese, dove truppe armate continuano a combattersi.

Ma anche per chi non deve viaggiare e vive in città e villaggi, insicurezza e pericoli sono sempre in agguato. La guerra continua a seminare dappertutto distruzioni e sofferenze d’ogni genere. Noi congolesi siamo stufi di guerra e violenza; reclamiamo a gran voce la pace. Non vogliamo nient’altro: solo un po’ di pace.

Pietro Manca




DA MUSULMANI A CATTOLICI storie di convertiti

DA
MUSULMANI A CATTOLICI
storie di
convertiti

Lasciare l’islam è molto
rischioso. L’apostasia è «haram», vietata assolutamente: potrebbe anche
costare la vita. Ma Monica ed Agostino, giovane coppia algerina, lo hanno
fatto. Oggi vivono in Italia con i loro tre figli, e raccontano che…
Come i cristiani convertiti all’islam, anche gli islamici convertiti al
cattolicesimo sono radicali nei loro giudizi.

Val Varaita (Cuneo).
Uno scenario di montagne rischiarate dal sole circondano la casa abitata
dalla famiglia Fadel (il cognome è di fantasia). Veniamo accolti con un
bel sorriso, mentre ci accomodiamo nel salotto. Agostino e Monica sono una
giovane coppia con tre figli. Arrivano dall’Algeria, martoriata dalla
guerra civile.

I loro nomi di battesimo sono
veri, e il termine appena usato non è inappropriato: sono cristiani venuti
dall’islam. Ma non possono gridarlo forte come vorrebbero o con l’orgoglio
che contraddistingue tutti coloro che, dal cristianesimo o
dall’agnosticismo, giungono all’islam. A loro non è permesso: a differenza
di chi «ritorna» (si converte) alla religione coranica, ed è ben accolto
dalla ummah, la comunità dei fedeli, chi abbraccia il credo cristiano o
qualsiasi altro, è considerato un traditore, apostata e dunque passibile
di morte. La ridda o irtidad (apostasia) è haram, vietata assolutamente
(vedere scheda).

«Erano anni che sentivamo
profondamente nella nostra vita l’esigenza della conversione al
cristianesimo – raccontano Monica e Agostino – e, dopo lo scoppio della
guerra civile in Algeria, molti nostri connazionali sono andati verso
Cristo. L’islam, così come lo abbiamo visto nel nostro paese in
quest’ultimo decennio, ci aveva spaventati. Non predica amore e
compassione come il cristianesimo. Ecco, proprio questo ci ha molto
colpiti della figura di Gesù e dell’opera di tanti missionari: l’amore,
l’altruismo, quel profondo rispetto e tenerezza per gli esseri umani, per
la dignità della vita».

«Abbiamo svolto lunghe ricerche,
nel corso degli anni – spiega il marito -, ci siamo documentati molto sul
cristianesimo. Mia moglie ha scoperto persino che un suo trisavolo era
cristiano».

«Sì, ma nessuno in famiglia ne
parlava: poteva essere pericoloso. Da noi non si può leggere la bibbia: è
considerato un atto di apostasia. Anche andare a messa la domenica è
pericoloso: la polizia ci controlla. Pensare che nella tradizione islamica
berbera sono molti i segni ereditati dal cristianesimo: le donne, ad
esempio, sono tatuate con croci e pesci».

Come hanno reagito alla vostra
scelta le rispettive famiglie?

«Nessuno di loro ci ha contestato
o criticato. Noi, d’altro canto, non abbiamo mai avuto timori. Quella di
diventare cristiani è stata una decisione accarezzata da tempo, desiderata
profondamente. E da allora la nostra vita è cambiata completamente».

«Anche il nostro rapporto di
coppia si è modificato – risponde Monica -. Prima eravamo legati alle
tradizioni, all’entourage familiare, alla differenza tra uomo e donna,
alla sudditanza della seconda al primo. Eravamo tesi, litigiosi. Ora è
diverso: è come se un nuovo orizzonte si fosse aperto davanti a noi. Un
orizzonte che ci piace e in cui ci sentiamo bene e siamo felici, e con noi
i nostri figli».

Sono battezzati anche loro?

«No, anche se l’intenzione
iniziale era quella – racconta Agostino -. Ci fu consigliato di aspettare
che i ragazzi crescessero e potessero scegliere da soli: un musulmano che
abbraccia un’altra religione è perseguitato, può incorrere in seri
problemi, ed è meglio che i nostri figli, per il momento, li evitino. Nel
frattempo vanno a catechismo».

Quando è iniziata la vostra
ricerca?

«Nel ’90  ed è andata avanti fino
al ’94. Ci eravamo trasferiti in Italia per cercare lavoro e serenità –
ricorda Monica -. Tuttavia, poiché non avevamo alcun tipo di
regolarizzazione, facemmo ritorno in Algeria per avviare le pratiche per i
permessi di soggiorno. Lì la situazione era drammatica: la guerra civile
seminava morte e distruzione e i nostri figli, che parlavano solo
italiano, erano spaventatissimi e spaesati.

Dal ’94 al ’99 ci trasferimmo in
Tunisia: iscrivemmo i ragazzi in una scuola italiana, mentre mio marito
trovò lavoro come interprete per una ditta italiana. Io ero dirigente in
una fabbrica di abbigliamento. Insomma, avevamo trovato una buona
sistemazione. Frequentavamo la comunità dei cristiani, tunisini ed
europei. Alla domenica, tra mille difficoltà, andavamo a messa nella
cattedrale di Tunisi e incontravamo i nostri compagni di fede. Spesso,
tuttavia, arrivava la polizia e ci portava in commissariato, dove venivamo
interrogati a lungo: “Voi siete musulmani, perché frequentate la chiesa?”.
Era questa la domanda di rito».

«Ma noi proseguimmo il nostro
percorso: andavamo a catechismo, alle riunioni di preghiera e di
riflessione – continua Agostino -. In quei luoghi incontravamo decine di
arabi di origine islamica convertiti al cristianesimo. È molto rischioso
lasciare l’islam, può costare la vita, ma Gesù ci è stato vicino. Fu
proprio la fede in lui che ci diede la forza per superare la paura delle
persecuzioni, quando, nel ’99, dalla Tunisia ritornammo in Algeria. Lì la
nostra situazione era ancora più pericolosa. Facevamo anche 300 chilometri
per raggiungere il luogo per gli incontri spirituali. Nonostante tutto
ciò, comunque, abbiamo proseguito».

La fede è dunque una componente
importante nella vostra vita?

«Fondamentale – risponde Agostino
-. Il Signore è presente nelle nostre giornate e ci guida: tutti gli
ostacoli si trasformano positivamente e misticamente».

«In Algeria era difficile davvero
trovare l’occasione per pregare o per andare a messa – sottolinea Monica
-. A casa c’era sempre qualcuno delle nostre famiglie, ed io, facendo la
sarta, ricevevo molte donne e avevo sempre il timore che i miei figli,
abituati a parlare liberamente, rivelassero loro la nostra scelta
religiosa. Era rischioso, bisognava stare attenti. In particolar modo
quando, una volta al mese, veniva un sacerdote a celebrare la messa a casa
nostra, chiudevamo tutte le finestre e parlavamo a bassa voce. Nessuno
doveva sentirci. Ma siamo stati coraggiosi e tutto è sempre andato per il
verso giusto, anche quando, nel 2001, ci siamo trasferiti in Italia».

«Abbiamo infatti subito trovato
casa e lavoro, e presentato i documenti per la regolarizzazione – la
interrompe Agostino -. I nostri figli frequentano le scuole medie e
superiori e sono ben inseriti, vanno in parrocchia, hanno tanti amici.
Insomma, siamo felici e di questo ringraziamo Dio tutti i giorni.
Qualunque cosa chiediamo a Gesù, lui ce la concede. E noi lo ringraziamo
facendo tanto volontariato, soprattutto mia moglie: è un’attività che ci
piace molto, che ci dà gioia. Amare, donare, è qualcosa di magnifico, che
nell’islam ci mancava completamente.

Spesso, nei nostri paesi i soldi
della zakat, l’elemosina legale islamica, finiscono nella compra-vendita
di armi o nelle tasche dei ricconi potenti. Venendo dall’islam abbiamo
potuto constatare di persona la differenza tra questa religione e il
cristianesimo: chi segue l’insegnamento di Cristo ha tanto amore da dare,
ha un grande cuore e agisce per il prossimo senza interessi. Non è così
nell’islam! Prendiamo il pilastro stesso del digiuno durante il mese di
ramadan: è vietato mangiare dall’alba al tramonto, ma poi ci si abbuffa di
sera, spendendo un capitale in acquisti. Anche il cibo viene sprecato e i
prezzi lievitano. Ecco che, nonostante le critiche, si macchiano dello
stesso consumismo di cui accusano i cristiani per il natale».

 

 

 «Ridda»
o «irtidad» (apostasia) nell’islam

ll termine muslim significa
colui che è sottomesso a Dio e islam indica la resa, la sottomissione
e la devozione. Il musulmano, dunque, nasce e vive sotto la legge
islamica, la shari‘a, e non può scegliere per sé e per la propria
famiglia una religione diversa da quella dei padri.

In una prospettiva islamica,
perciò, chiunque abbandoni la propria fede commette un peccato
imperdonabile: si allontana da Dio e dalla comunità di credenti, la
ummah, e deve essere processato e invitato a pentirsi. Eventualmente,
può essere «aiutato» attraverso la tortura. Se tutto ciò fosse inutile
a far ravvedere l’apostata, la pena di morte potrebbe essere comminata
come conseguenza.

In Egitto, Marocco, Iran e
Pakistan molti convertiti sono stati sottoposti a maltrattamenti e
torture, che hanno portato, in alcuni casi, alla morte. Sono stati
registrati casi in cui genitori hanno murato vive le figlie
lasciandole morire di sete e di fame.

Tuttavia, in questo inizio di
secolo, sembra che vi siano stati solo sporadici casi di condanne a
morte. Teoria e pratica, dunque, non viaggiano parallele.

 Che
dice il corano?

Apostata è una persona che
abbandona una religione e ne adotta un’altra o si limita a
considerarsi ateo. Al giorno d’oggi, nell’islam, l’apostasia è un tema
complesso e molto dibattuto. Vediamo, allora, cosa dicono alcuni
versetti coranici.

«La religione presso Iddio è
l’islam» (sura III, v.19);

«Iddio non perdona che gli si
associno compagni, ma, all’infuori di ciò, perdona chi vuole. Ma chi
attribuisce consimili a Dio commette un peccato immenso» (sura IV,
v.48);

«Combattete coloro che non
credono in Dio e nell’Ultimo giorno e che non vietano quello che Dio e
il suo messaggero hanno vietato» (sura IX, v.29);

«I credenti sono coloro che
credono in Dio e nel suo Messaggero e non dubitano in quel credo»
(sura XLIX, v.17);

«Non prostratevi al sole o
alla luna, piuttosto prostratevi davanti a Dio che li ha creati, se è
Lui che adorate» (sura XLI, v.37);

«Giurano in nome di Dio che
non hanno detto quello che in realtà hanno detto, un’espressione di
miscredenza; hanno negato dopo aver accettato l’islam e hanno
desiderato quel che non hanno potuto ottenere. Non hanno altra
recriminazione se non che Dio col suo Messaggero li ha arricchiti con
la sua grazia. Se si pentono sarà meglio per loro; se invece volgono
le spalle, Dio li castigherà con doloroso castigo in questa vita e
nell’altra; e sulla terra non avranno né alleato né patrono» (sura IX,
v.74);

«Coloro che commettono
blasfemia e si separano dalla via di Dio e poi muoiono come
miscredenti Iddio non li perdonerà», (sura XLVII, v.34);

«Che non vi sia costrizione
nella religione: certamente il Giusto Sentiero si distingue
chiaramente da quello storto» (sura II, v.256);

«Coloro che credettero e poi
negarono, ricredettero e poi rinnegarono, non fecero che accrescere la
loro miscredenza. Dio non perdonerà loro né li guiderà verso il
Sentiero» (sura IV, v.137);

«Quando poi siano trascorsi i
mesi sacri, uccidete questi associatori ovunque li incontriate,
catturateli, assediateli e tendete loro agguati. Se poi si pentono,
eseguono l’orazione e pagano la decima, lasciateli andare per la loro
strada. Dio è perdonatore e misericordioso» (sura IX, v.5).

 Che
succede agli apostati?

«Alcuni commentatori sono
giunti alla conclusione che la punizione per chi rinuncia alla fede è
la morte» (1). Ciò che attende un adulto, dunque, sono 3 giorni per
ripensare alla propria scelta prima di essere giustiziato. Alcuni
ritengono che ciò debba avvenire, indifferentemente, se l’apostasia è
commessa in uno stato islamico o d’altra fede.

Secondo altre tendenze, è
necessario invece attenersi a quanto sancito dalla Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo in fatto di libertà religiosa.

Studiosi delle quattro scuole
giuridiche (shafi‘iti, hanbaliti, malikiti, hanafiti) collocano gli
apostati all’interno di tre categorie: quelli del cuore, coloro, cioè,
che dubitano dell’esistenza di Dio o del messaggio del suo profeta
Muhammad; la blasfemia del corpo, coloro che si prostrano ad altre
divinità; e la blasfemia che proviene dal dubitare su Dio e il suo
profeta.

Non vi deve essere costrizione
nella religione, recita il corano, ma le cose cambiano una volta che
il fedele ha scelto di abbracciare l’islam. Come chiaramente espresso
dalla sura IV, v.137, chi crede e poi nega è considerato un
miscredente (kafir) e non degno del perdono di Dio. Inoltre: «Nessun
credente e nessuna credente può scegliere a modo proprio quando Dio e
il suo Messaggero hanno deciso qualcosa», (sura XXXIII, v.36). Il
credente non è dunque libero di decidere se abbandonare o meno la
religione islamica. Anzi, l’apostasia è giudicata come un vero e
proprio tradimento.

La pena
capitale: sì, però…

Premesso tutto ciò, se una
persona rinnega l’islam pubblicamente e senza subire costrizioni, se è
pienamente cosciente ed adulta, la pena prescritta dalla shari‘a è la
morte per i maschi e la prigione a vita  per le donne.

Le modalità che portano alla
condanna per apostasia possono essere molteplici, e vanno dalla
dichiarazione esplicita del fedele («Io associo a Dio altre
divinità»), ad affermazioni che risultano blasfeme («Dio ha forma e
sostanza materiale»), ad azioni blasfeme come tenere con incuria il
corano o sporcarlo (ponendolo in posto sudicio, macchiandolo,
sfogliandolo con le dita sporche o appena portate alla bocca). Un
musulmano diventa apostata quando entra in una chiesa, prega un idolo
o pratica riti magici, oppure se dichiara che l’universo è esistito
dall’eternità, oppure che dopo la morte l’anima trasmigrerà o si
reincarnerà. Anche la diffamazione della personalità del profeta o
l’accusa agli angeli di avere qualità negative o il mettere in dubbio
le virtù ascetiche di Muhammad costituisce apostasia.

Chi rifiuta l’islam pur
essendo figlio di musulmani commette un «tradimento contro Dio», ed è
chiamato murtad fitri (apostata naturale). Se si pente può essere
perdonato.

Chi si converte all’islam e
poi cambia idea è definito murtad milli (apostata dalla comunità). Il
suo è considerato un tradimento contro la comunità e ai maschi può
essere comminata la pena di morte anche se si pentono.

Nel caso, raro, in cui un
apostata venga condannato a morte, la tradizione prevede l’esecuzione
attraverso il taglio della testa.

Tra i malikiti, gli hanbaliti
e gli shafi‘iti la pena inflitta a donne e uomini è quella capitale.

Tuttavia, il fatto stesso che
una sura, la IV, v. 137, possa recitare «Coloro che credettero e poi
negarono, ricredettero e poi rinnegarono, non fecero che accrescere la
loro miscredenza. Dio non perdonerà loro né li guiderà verso il
Sentiero», dimostrerebbe, secondo alcuni studiosi, come nel corano
l’apostasia sia possibile senza incorrere nella condanna a morte. Come
farebbe infatti il miscredente a credere e rinnegare, poi ricredere
per poi rinnegare se al primo abbandono venisse ucciso?

Molti studiosi sostengono che
i passaggi in cui Muhammad chiede la testa dei traditori della
religione siano da riferirsi a casi di alto tradimento, come
dichiarare guerra all’islam, al profeta stesso, mettere in pericolo la
ummah e così via. Casi storici circostanziati o di palese minaccia,
dunque. Sembra infatti che né Muhammad né i suoi successori abbiano
mai condannato a morte alcun apostata.

 A. L.

Riferimenti bibliografici:

 

Hamza Roberto Piccardo (a cura
di), Il corano, Edizioni Newton Compton, Roma 1996;

Abdurrahmani al-Djaziri (a
cura di), The penalties for apostasy in islam, in Light of Life,
Austria 1997;

Jean-Marie Gaudeul, Vengono
dall’islam chiamati da Cristo, Emi Editrice, Bologna 1995;

Mohammad Talbi, Le vie del
dialogo nell’islam, Edizioni della Fondazione Agnelli, Torino 1999;

Aa.Vv., Dibattito
sull’applicazione della shari‘a, Edizioni della Fondazione Agnelli,
Torino 1995;

Sito internet:
www.religioustolerance.org

 

(1) Ahmad Faiz bin Abdul
Rahman, «Malaysian laws on apostasy inadequate», at
http://www.iol.ie/afifi/

 

 

A colloquio con
don Fredo Olivero

(responsabile dell’ufficio
Migranti della Caritas di Torino)

 Don Fredo, hai mai incontrato
musulmani che ti chiedono di aiutarli a diventare cristiani?

«Sì. Ma voglio premettere che,
secondo noi, gli immigrati devono vivere bene la propria fede. Poi, se
qualcuno ci chiede informazioni sul cristianesimo, gliele foiamo».

 Quanti sono quelli che si sono
avvicinati alla chiesa cattolica?

«La cifra esatta è difficile da
quantificare, ma sono almeno un centinaio, negli ultimi anni, quelli che
hanno chiesto di avere una bibbia in arabo o in francese. A tutti coloro
che ci chiedono di abbracciare la fede cattolica noi consigliamo
un’attenta riflessione; gli diciamo: “Fate attenzione, perché nei vostri
paesi perdete ogni diritto. Se avete programmato di stare qui per sempre,
va bene, ma se avete intenzione di far ritorno in patria, può diventare
pericoloso”. Molti, alla fine, ci ripensano.

Saida, una ragazza somala,
recentemente mi ha detto: “Ora basta. Sono due anni che metti ostacoli
alla mia conversione. Ho deciso: voglio diventare cristiana. Sono stata
accolta da voi e non mi avete chiesto nulla: ecco ciò che mi ha
conquistata. Per queste ragioni voglio farmi battezzare”. Adesso sta
seguendo il percorso catechistico e fra due anni potrà ricevere il
battesimo.

Ma anche momenti come “Estate
ragazzi”, al Centro Asai, possono servire affinché gli adolescenti,
italiani e immigrati di fede islamica, si conoscano e facciano amicizia.
Ci sono infatti molti ragazzini musulmani che frequentano l’oratorio e il
catechismo: loro ci parlano della loro religione e noi della nostra. È
molto bello. È un’occasione preziosa di dialogo».

 Quali sono i gruppi etnici di
fede islamica che hanno chiesto il battesimo in questi ultimi anni?

«Senegalesi, ivoriani, somali,
maghrebini, albanesi».

 Quanti sono stati finora?

«Due o tre all’anno. Prima erano
solo albanesi, nell’ordine di una decina e altrettanti dai paesi dell’Est.
Mi viene in mente una coppia, lui regista, lei attrice di teatro. Da anni
risiedono in Italia e sono diventati cristiani dopo un lungo percorso di
studio e ricerca.

Comunque, noi non cerchiamo di
convertire nessuno. Tentiamo soltanto di far conoscere all’immigrato
musulmano l’ambiente culturale e religioso in cui ha scelto di vivere. È
importante che l’accoglienza parta da una solida identità sia del paese
ospite sia delle comunità immigrate.

Gli albanesi invece spesso
confondono la religione cristiana con la cittadinanza italiana, quasi che
la prima possa aiutare ad ottenere la seconda. Ma non è così, ovviamente».

 Ti è mai capitato che qualche
musulmano ti chieda di abbracciare l’islam?

«Certo. E gli rispondo: “Ciascuno
di noi pensa che la propria fede sia la migliore. Allora, tu ti tieni la
tua ed io la mia”. E così, in condizioni di parità, possiamo ragionare sul
valore dell’amicizia, per esempio.

Qui, alla Caritas-Migranti,
portiamo avanti un confronto dove ognuno accetta l’altro senza cercare di
convertirlo. È necessario che passi il concetto della “diversità” e della
tolleranza».

 E come la metti con il divieto
islamico dell’apostasia?

«Generalmente, all’interno di una
comunità etnica tutti vengono a sapere se una persona ha lasciato l’islam
per il cristianesimo. Qui in Italia ciò che rischiano è, al massimo,
qualche insulto.

Nei paesi d’origine il pericolo è
maggiore, e si può essere oggetto di discriminazione e minacce di morte.
Questo non vale per gli albanesi: la religione non conta molto. I
marocchini, invece, disprezzano i convertiti, li considerano gente venduta
all’Occidente».

 

 

A colloquio con
don Tino Negri

(direttore del Centro diocesano di
Torino per le relazioni cristiano-islamiche)

 

Don Tino, quanti sono i
musulmani che si sono convertiti al cattolicesimo?

«È impossibile saperlo, perché non
vanno in giro a raccontarlo».

 

Ne hai incontrato qualcuno?
Puoi parlarne?

«Due o tre, ma non ho saputo quasi
nulla dei motivi che li hanno spinti alla conversione. Occorre del tempo
per entrare in amicizia: le persone che ho conosciuto si sono limitate a
comunicarmi che sono diventate cristiane e a partecipare alla messa da me
celebrata facendo la comunione. Ed è già molto».

 

Perché, nella ummah islamica,
la conversione di musulmani albanesi è più tollerata rispetto a quella
degli arabi?

«Perché gli arabi considerano se
stessi il centro del mondo e della fede islamica e pensano che solo loro
siano in grado di esserle fedeli, mentre gli altri gruppi etnici possono
diventare dei traditori, perché non appartenenti alla “culla
dell’islam”». 

 

Come si pone la chiesa di
fronte al fenomeno delle conversioni di musulmani?

«La chiesa è mandata da Cristo ad
evangelizzare e, dunque, deve accogliere nella comunità coloro che
chiedono il battesimo. Tuttavia occorre qualche prudenza. Prima di tutto,
è necessario verificare la vera disponibilità alla conversione; poi, è
indispensabile una seria e lunga preparazione catecumenale, e verificare
che la persona sia indipendente, che abbia cioè un lavoro, che non
coinvolga la moglie (nel caso sia sposato e questa non voglia seguirlo
nella sua scelta), che sia libero da pressioni dei genitori e da
ritorsioni del suo ambiente, e così via.

Il battesimo non dovrà essere un
atto pubblico (soprattutto se si tratta di un arabo), e sarà
indispensabile per lui o lei essere inseriti in una comunità veramente
accogliente.

Sarà necessario un accompagnamento
continuo nella fede, perché molti neofiti incorrono in problemi ulteriori
e rischiano di abbandonare la strada che stanno percorrendo.

Per tutte queste difficoltà
bisogna evitare di battezzare i minori, a meno che non ci sia l’appoggio o
la conversione dei genitori».

 

Che dimensioni ha, secondo te,
il fenomeno delle conversioni? Si tratta di casi isolati?

«A mio parere si tratta ancora di
pochi casi. È certo che, se fossero liberi di scegliere, molti musulmani
passerebbero al cristianesimo. Troppi hanno paura di farlo e altri non
conoscono il cristianesimo, perché l’islam ne dà un’immagine sbagliata,
proibendo anche di leggere i vangeli».

Angela Lano




IL MEGLIO È LA CARITÀ

Carissimi fratelli e sorelle!
La missione della
chiesa è l’annuncio
dell’amore e della misericordia
di Dio, rivelati agli uomini
mediante la vita, la morte
e la risurrezione di Gesù Cristo…
È la proclamazione che
Dio ci vuole tutti uniti nel suo
amore, perdonandoci e chiedendoci
di perdonare.
La riconciliazione ci è stata
affidata, perché è Dio a riconciliare
a sé il mondo in
Cristo, non imputando agli
uomini le loro colpe e affidando
a noi la parola del perdono
(cfr. 2 Cor 5, 19). E Cristo
stesso sulla croce ha pregato:
«Padre, perdonali, perché non sanno quello che
fanno» (Lc 23, 34).
La missione è annuncio di perdono. Lo si ripete sempre,
ma il fatto non perde il suo significato e la sua importanza,
perché la missione costituisce la nostra risposta
al comando di Gesù: «Andate dunque e ammaestrate
tutte le nazioni… insegnando loro ad
osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19).
Si impone con maggiore urgenza il dovere della
missione, perché «il numero di coloro che ignorano
Gesù Cristo e non fanno parte della chiesa è
in aumento; anzi, dalla fine del Concilio, è quasi raddoppiato.
Di fronte a questa umanità immensa, amata
dal Padre che per essa ha inviato
il suo Figlio, è evidente
l’urgenza della missione
(cfr. Redemptoris missio, 3).
Con il grande evangelizzatore
san Paolo, vogliamo ripetere:
«Non è per me un
vanto predicare il vangelo;
è un dovere: e guai a me se
non lo faccio!» (1 Cor 9,
16).
Solo l’amore di Dio, capace
di affratellare gli uomini di
ogni razza e cultura, farà
scomparire le dolorose divisioni,
i contrasti ideologici,
le disparità economiche
e le violente sopraffazioni
che ancora opprimono l’umanità.
Conosciamo le guerre e le rivoluzioni che hanno
insanguinato il secolo trascorso, nonché i conflitti
che continuano ad affliggere il mondo. Non sfugge, al
tempo stesso, l’anelito di tanti uomini e donne che, pur
vivendo in grave povertà spirituale e materiale, sperimentano
la sete di Dio e del suo amore misericordioso.
Pertanto l’invito del Signore ad annunciare la buona
notizia rimane valido; anzi diventa sempre più urgente.
Nella lettera apostolica Novo millennio ineunte
ho sottolineato l’importanza della contemplazione
del volto dolente e glorioso di Cristo. Il
cuore del messaggio cristiano è l’annuncio del mistero

pasquale di Cristo crocifisso e risorto. Il volto dolente
del Crocifisso ci conduce ad accostare l’aspetto più paradossale
del suo mistero, quale emerge nell’ora della
croce (cfr. 25). È la croce la chiave che dà libero accesso
ad una sapienza che non è di questo mondo, né dei
suoi dominatori, ma alla sapienza divina, misteriosa, che
è rimasta nascosta (cfr. 1 Cor 2, 6.7).
Dalla contemplazione della croce impariamo a vivere
nell’umiltà e nel perdono, nella pace e nella comunione.
Questa è stata l’esperienza di san Paolo, che scriveva
agli Efesini: «Vi esorto io, prigioniero del Signore,
a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete
ricevuto, con umiltà, mansuetudine e pazienza,
sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare
l’unità dello Spirito nel vincolo della pace» (Ef
4, 1-3).
E ai Colossesi aggiungeva: «Rivestitevi come eletti di
Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, bontà,
umiltà, mansuetudine, pazienza, sopportandovi a vicenda
e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno
abbia da lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore
vi ha perdonato, fate anche voi. Al di sopra di tutto
vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione. E la
pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete
stati chiamati in un solo corpo» (Col 3, 12-15).
Il grido di Gesù sulla croce non tradisce l’angoscia
di un disperato, ma è la preghiera del Figlio che offre
la sua vita al Padre per la salvezza di tutti. Dalla
croce Gesù indica a quali condizioni è possibile esercitare
il perdono. All’odio, con cui i persecutori lo avevano
inchiodato sulla croce, risponde pregando per
loro. Non solo li ha perdonati, ma continua ad amarli e
intercede per loro.
La sua morte diventa la realizzazione dell’amore.
Davanti alla croce non possiamo che prostrarci in adorazione.
«Per riportare all’uomo il volto del Padre,
Gesù ha dovuto non soltanto assumere il volto dell’uomo,
ma caricarsi persino del volto
del peccato. “Colui che non aveva
conosciuto il peccato, Dio lo
trattò da peccatore, perché potessimo
diventare per mezzo di
lui giustizia di Dio” (2 Cor 5, 21)»
(Novo millennio ineunte, 25).
Dal perdono di Cristo anche per
i suoi persecutori inizia la nuova
giustizia del regno di Dio.
Cristo risorto dona ai suoi
discepoli la pace. La chiesa,
fedele al comando del
suo Signore, continua a proclamae
e diffondee la pace. Mediante
l’evangelizzazione, i credenti
aiutano gli uomini a riconoscersi
fratelli: pellegrini sulla terra
e su strade diverse, sono tutti incamminati verso la patria
comune che Dio, attraverso vie solo a Lui note, non
cessa di additare.
La strada maestra della missione è il dialogo sincero
(cfr. Ad gentes, 7; Nostra aetate, 2); il dialogo che
«non nasce da tattica o interesse» (Redemptoris missio,
56), e neppure è fine a se stesso. Il dialogo, piuttosto,
fa parlare all’altro con stima e comprensione, affermando
i principi in cui si crede e annunciando con
amore le verità profonde della fede, che sono gioia,
speranza e senso dell’esistenza. Il dialogo è la realizzazione
di un impulso spirituale, che «tende alla purificazione
e conversione interiore, la quale, se perseguita
con docilità allo Spirito, sarà spiritualmente fruttuosa» (ibid., 56).
L’impegno ad un dialogo attento e rispettoso è conditio
sine qua non per un’autentica testimonianza dell’amore
salvifico di Dio.
Questo dialogo è profondamente legato alla volontà
di perdono, perché colui che perdona apre il cuore agli
altri e diventa capace d’amare, di comprendere il fratello
e di entrare in sintonia con lui. La pratica del perdono,
sull’esempio di Gesù, sfida e apre i cuori, risana
le ferite del peccato e della divisione, crea una vera comunione.
Con la giornata missionaria mondiale è data a tutti
l’opportunità di misurarsi con le esigenze dell’amore
di Dio. Amore che domanda fede; amore
che invita a porre tutta la propria fiducia in Lui.
«Senza la fede è impossibile essergli graditi; chi infatti
si accosta a Dio deve credere che Egli esiste e che ricompensa
coloro che lo cercano» (Eb 11, 6).
In questa annuale ricorrenza siamo invitati a pregare
per le missioni e a collaborare con ogni mezzo alle attività
che la chiesa svolge in tutto il mondo per costruire
il regno di Dio. Siamo chiamati anzitutto a testimoniare con la vita l’adesione totale a Cristo e al suo vangelo.
Non ci si deve mai vergognare del vangelo, né avere
paura di proclamarsi cristiani, tacendo la propria fede.
È necessario, invece, continuare a parlare, allargare gli
spazi dell’annuncio della salvezza, perché Gesù ha promesso
di rimanere sempre e comunque presente in
mezzo ai suoi discepoli.
La giornata missionaria, vera festa della missione, ci
aiuta a meglio scoprire il valore della nostra vocazione
personale e comunitaria. Ci stimola, altresì, a venire in
aiuto ai «fratelli più piccoli» (cfr. Mt 25, 40) attraverso
i missionari sparsi in ogni parte del mondo.
Fratelli e sorelle carissimi! Affidiamo il nostro impegno
per l’annuncio del vangelo, come pure l’intera
attività evangelizzatrice della chiesa, a Maria
Santissima, regina delle missioni. Sia lei ad accompagnarci
nel nostro cammino di scoperta, annuncio e testimonianza
dell’amore di Dio, che perdona e dona la
pace all’uomo.

IOHANNES PAULUS II




KENYA, AMORE NOSTRO

Sull’onda del cambiamento
I missionari
allargano
l’orizzonte:
da Meru
a Marsabit.
E non solo…

Ancora quattro missionari,
cavalcando «tre asini ed un cavallo
bigio abissino, scortati da due
cani», si mettono in viaggio alla «conquista»
del territorio dei MERU. Non mancano
scoraggiamenti e ritardi. Alla fine si
fondano alcune «roccheforti avanzate nel
cuore del paganesimo». È il 1911…
Nel 1964 è la volta del deserto
di Marsabit. Scrive padre Luigi Graiff
(poi martire nella terra dei SAMBURU):
«Quando arrivai non c’era nulla. I serpenti
erano i padroni assoluti. Capii che
un grande lavoro mi attendeva. Misurai
a lunghi passi i confini della futura
missione (Laisamis), mi rimboccai le
maniche e, con l’aiuto di alcuni
volenterosi, cominciai a rimuovere
le pietre».

SENZA MAI
ARRENDERSI

Resi ormai «esperti»
dal lavoro tra i kikuyu,
i missionari
si spingono più in là,
lasciandosi perfino
innamorare
da un posto sterile
come il «Tharaka»,
nella terra
dei meru…

I kikuyu furono «il primo amore»
dei missionari della Consolata in
Kenya. Fu tra loro che impegnarono
gli sforzi maggiori, cercando
di entrare in un mondo tutto da
scoprire. Ma il territorio kikuyu, attorno
a Nyeri, cominciava a diventare
stretto e lo sguardo, da tempo, si
spingeva oltre i confini imposti dal
governo inglese ai missionari italiani.
Verso il 1911, anche per gli europei
arrivò il permesso di varcare il
territorio dei meru… e mons. Filippo
Perlo non era rimasto ad aspettare.
Dopo un viaggio di esplorazione, si
era convinto che il nuovo territorio
era «incantevole, fertilissimo e molto
popolato»: per cui mise in atto la
sua strategia di «occupazione».
I primi quattro missionari (G. Balbo,
G. Aimo Boot, L. Olivero e G.
Toselli) cavalcando «tre asini ed un
cavallo bigio abissino, scortati da due
cani», si misero in viaggio alla «conquista
» del territorio. Non mancarono
incertezze, scoraggiamenti e ritardi,
ma alla fine vennero fondate
nel Meru «quattro roccheforti avanzate
nel cuore del paganesimo»: sono
Egoji, Mujwa, Tigania e Igembe.
Il ricominciare da capo, l’isolamento,
la nuova lingua, la scarsità di
mezzi, l’apparente disinteresse della
popolazione… resero la penetrazione
nel territorio lenta e logorante.

DOPO LA BUFERA
Non ci mancava che la prima guerra
mondiale, con il conseguente reclutamento
di portatori e soldati, a
bloccare il lavoro pastorale; poi carestie
ed epidemie, cui i missionari
cercarono di fare fronte con iniziative
di carità, che convinsero (finalmente!)
i meru ad avvicinarsi agli
«stranieri», venuti unicamente per
loro.
Dopo anni di provvisorietà, lo sviluppo
delle missioni prendeva slancio
con una sistemazione più decorosa
per padri e suore. Nel biennio
1924-25 le attività essenziali nel Meru
furono le nuove fondazioni (Embu,
Mikinduri e Kyeni) e il consolidamento
delle precedenti, tanto da
ritenere giunto il momento di rendere
indipendente la nuova realtà.
Il 10 marzo 1926 fu decretato dalla
Santa Sede lo smembramento del
vicariato apostolico del Kenya (che
prese il nome di Nyeri) e l’erezione
della prefettura apostolica di Meru.
Questa, secondo la relazione inviata
a Propaganda Fide, comprendeva:
1.940 cattolici, 850 protestanti, 300
mila pagani; vi lavoravano 10 padri,
2 fratelli coadiutori e 14 suore della
Consolata; coadiuvavano l’attività 52
catechisti e 36 maestri (per 20 scuole
maschili e 12 femminili). Prefetto
apostolico fu nominato padre Giovanni
Balbo, che (ahimè), pur essendo
un ottimo missionario, non risultò
all’altezza della situazione; tant’è che,
nel 1929 fu sostituito con padre Carlo
Re, missionario senza storia particolare,
che «trovò, nei calli delle sue
mani laboriose e nell’esperienza dei
due anni passati a Mikinduri, il coraggio
di accettare».
Sì, perché malumori e scontentezze
tra i missionari non mancavano:
le casse erano vuote, il personale
scarso e anche in Kenya si viveva la
drammatica situazione dell’Istituto,
sconquassato dalla «visita apostolica
» che stava mettendo in forse la
stessa sopravvivenza dell’opera voluta
dall’Allamano.
La tempesta, un po’ alla volta, cominciò
a diradarsi. Il piccolo drap-
pello di missionari non si lasciò vincere
dai problemi e, lentamente, il lavoro
trovò il verso giusto, anche se i
risultati (battesimi) non furono consistenti.

GUERRA, PRIGIONIA
E… MAU MAU

Nel 1936 fu padre Nepote Fus ad
assumere la responsabilità del vicariato
di Meru, che contava allora 15
padri, 6 fratelli coadiutori e una trentina
di suore: un bel passo avanti!
Il punto debole del lavoro missionario
erano però le scuole; tanto che
il nuovo responsabile sentì la necessità
di cercare personale preparato
soprattutto per questo. «Il Meru è
molto indietro e se si dorme…» – scriveva
ai superiori di Torino, sollecitando
un aiuto per le scuole, da lui ritenute
il problema più urgente per la
prefettura.
Purtroppo lo scoppio del secondo
conflitto mondiale segnò, ancora
una volta, l’arresto di ogni attività; i
missionari della Consolata diventati
«nemici» degli inglesi, furono deportati
nei campi di concentramento
in Sudafrica e sostituiti da missionari
inglesi, mentre migliaia di giovani
africani furono inviati sui campi
di battaglia. Costretti ad inattività, i
«prigionieri» approfittarono per perfezionare
la conoscenza della lingua
meru, compilae grammatica e dizionario,
tradurre la bibbia e i testi liturgici.
Non fu facile il rientro alle missioni
dopo la guerra, anche perché
l’essere italiano non era gradito alle
autorità. Ci vollero molta pazienza,
diplomazia e generosità per supera-
re le difficoltà…
Intanto, mentre si preparava l’indipendenza
del paese (1963), si scatenò
la «bufera» del movimento Mau
Mau. Furono momenti di paura e di
grande prova. Il «giuramento mau
mau», cui la popolazione veniva costretta,
obbligava a rinnegare il governo
e i missionari; in caso contrario,
ne derivavano attacchi, violenza
ed anche morte.
Le missioni furono prese d’assalto:
a Gikondi tre catechisti furono
uccisi, mentre presiedevano la preghiera
comunitaria; a Barichu le suore
Cecilia Wangeci e Rosetta Njeri
(della congregazione locale dell’Immacolata
Concezione) caddero vittime
della furia omicida; a Imenti il 28
settembre 1953 veniva trucidata suor
Eugenia Cavallo, mentre padre Edmondo
Cavicchi fu brutalmente picchiato
e padre Aldo Cremasco rimase
ferito da un’arma da fuoco.
Amministratore apostolico unico,
a Nyeri e Meru, era mons. Carlo Cavallera,
una figura dinamica che diede
slancio e coraggio ai missionari,
riorganizzò le scuole e i centri sanitari
e iniziò una grande politica di espansione
con «teste di ponte» per
occupare un territorio molto vasto.

ACQUA E STAMPELLE
Il 3 marzo 1954, altro cambio di
guardia: Meru, divenuta diocesi autonoma,
accoglieva il nuovo vescovo
Lorenzo Bessone. Favorito da buone
doti di amministratore, fu capace
di creare un clima di famiglia con i
suoi missionari, anche se la situazione
risentiva pesantemente del passaggio
dei Mau Mau; di questi si avvertivano
ancora le sacche terminali,
come la situazione delle scuole, dove
i maestri erano diminuiti del 35%.
Venendo anche ampliati i confini
della diocesi, si presentò subito l’urgenza
di nuovo personale, cui il vescovo
pensò con l’istituzione di un
seminario per preti locali: la prima
pietra fu posta il 3 settembre 1955.
L’anno seguente il vescovo iniziava
la congregazione delle Nazareth
Sisters of Annunciation per l’istruzione
religiosa e l’opera sociale nel
campo femminile.
Le prime e vaste missioni vennero
smembrate e ne sorsero di nuove, affidate
a padri coraggiosi e intraprendenti come Giovanni Bonzanino,
Luigi Eandi (cfr. box), Angelo Sala…
e soprattutto un piccolo drappello di
coadiutori. Tra questi, il mitico fratel
Giuseppe Argese: insieme ad altri, egli
sconfisse il dramma della mancanza
d’acqua, creando con intelligenza
e fantasia un acquedotto di 270
chilometri, che ancora oggi sa… di miracolo.
Significativa al riguardo la testimonianza
di una donna del posto:
«Passeranno tanti anni, molti saranno
dimenticati, ma noi non dimenticheremo
mai i fratelli dell’acqua».
Di fronte alle carenze sanitarie
della popolazione, la diocesi si impegnò
a tutto campo per la realizzazione
di dispensari e ospedali, alcuni dei
quali famosi come quello di Nkubu
e Kyeni, elogiato dallo stesso presidente
Kenyatta. Fiore all’occhiello
divenne, poi, il centro per bambini
handicappati di Tuuru, iniziato da
padre Franco Soldati e capace di operare
i «miracoli delle stampelle»,
non solo per il recupero fisico dei
piccoli, ma per l’affetto (dei missionari
e della gente) con cui vennero
circondati. L’opera fu affidata
nel 1972 alle
suore del Cottolengo,
che ritornarono
così, dopo quasi 70
anni, a lavorare accanto
ai missionari
della Consolata, in
quel Kenya
che le aveva viste tra i pionieri.
Le suore della Consolata diedero
il loro contributo nella promozione
della donna con il «Centro sociale
femminile» di Getoro (alla periferia
di Meru) e una serie di corsi per assistenti
sociali, segretarie d’azienda,
assistenti all’infanzia.
Lentamente, ma tenacemente, la
chiesa di Meru poteva camminare
con le proprie gambe; finito il tempo
dei pionieri, si camminava verso la
maturità. E questo avvenne il 2 ottobre
1975, quando mons. Silas Silvius
Njru, originario della diocesi, veniva
nominato vescovo di Meru.
L’anno seguente, all’ospedale di
Nkubu si spegneva mons. Bessone:
dopo 22 anni, lasciava in diocesi ben
200 mila cristiani e tante opere sociali
e religiose. Scrisse di lui padre Bonzanino:
«Le chiese, le scuole, le cappelle,
gli ospedali, i dispensari, i seminari
che spuntarono a Meru in 20
anni di attività sbalordiscono. Questo
lavoro gli calzava come un guanto
in una mano ben fatta. Era il vescovo
che ci voleva per una diocesi
nuova, la più vasta del Kenya, dove
c’era tutto da fare. Adesso che lui
non c’è più, resta quello che ha fatto.
E non c’è nulla da ritoccare, perché
fu fatto bene… alla Bessone!».
O, meglio, all’«Allamano».

SIINO IN FONDO
AEgandene (Meru) la raccolta prometteva bene. C’era una cristianità
giovane, dove il battesimo non era soltanto un bel rito. C’era una
chiesa viva, sana, non handicappata da sfasature o compromessi. C’erano
debolezze e difetti, perché un cristiano, anche quando ce la mette
tutta, non è mai un angelo, è soltanto un santo in «potenza». E c’era
un missionario che, mezzo eroe e mezzo profeta, ci viveva dentro. Un
missionario che non aveva nulla di singolare, se non la tempra di un uomo
diritto e onesto. Non gli fu concesso di vivere a lungo. Quando è
morto, non aveva ancora 40 anni. Non si era ancora rimesso dalla gioia
di essere missionario, dal desiderio di pregare, di ringraziare, di adorare
e di lavorare. Nei suoi pochi anni di missione amò Egandene e la sua
gente, dalla quale fu riamato con grande sincerità.
Quando un missionario ama ed è amato come padre Luigi Eandi (1932-
1970), può morire in qualsiasi momento senza rimorsi e in qualunque
modo. Anche con un tuffo dall’alto, dentro uno stagno d’acqua sporca.
Come morì lui, all’improvviso, in un pomeriggio di sole. Quando lo ritrovarono,
il volto era sfigurato, vischioso, gonfio. Non aveva più nulla
di quell’espressione grave e serena d’un tempo. Più nulla di quel sorriso
giovane e spontaneo, che è un prodotto della grazia di Dio. Perché
era passato all’aldilà, oltre il tempo, ricongiunto finalmente al suo Dio
per cui era vissuto.
Gli anni passano a Egandene e la intensa memoria di padre Eandi resta.
Perché è stato un missionario che non è rimasto a mezza strada. È
andato fino in fondo e il suo essere in Africa è stata la sua vita. È stato
duro, ostinato, anti-fariseo, vigoroso, e ha calcato la mano, ma sempre
alla misura del vangelo e dell’amore. È stato un uomo che con semplicità,
chiarezza e amore ha cercato di viverla. L’ha vissuta sui colli di Egandene,
dove si è accalcati di verde, dove misere capanne sembrano
navate di basiliche, dove la gente vive in una liturgia di povertà, e dove
si vedono brecce d’azzurro tra la nuvolaglia itinerante sui bianchi picchi
del Kenya.
P. GIOVANNI BONZANINO

TRA PAURA E CORAGGIIO
Nel 1945 venne fondato in Kenya il
«Kenya African Union» (Kanu), un
partito politico che rivendicava l’indipendenza
della colonia dagli inglesi e che
ebbe, nel 1946, come presidente Jomo
Kenyatta, rientrato nel paese dopo 15
anni di esilio. Nonostante i comizi infiammati
e le pubblicazioni inneggianti
alla libertà, il partito seppe mantenersi
nei binari della legalità rifiutando, per
principio, la violenza fisica e l’opposizione
armata.
Visti gli scarsi risultati, sorse, accanto
al Kanu, un‘altra formazione, che scelse
la violenza, il terrore e la clandestinità
come strategia per ottenere l’allontanamento
dei bianchi e l’indipendenza. Era
il movimento Mau Mau, che fece la sua
comparsa nel 1950 nel distretto di Kiambu,
vicino a Nairobi e a Naivasha. Era
guidato soprattutto dai kikuyu, che contavano
la maggioranza dei contadini senza
terra e dei disoccupati usciti dalle
scuole. Si presentava come una società
segreta e, tra gli obiettivi, non si prefisse
solo l’indipendenza del Kenya, ma anche
il recupero delle terre sottratte dai
bianchi e il ritorno alla cultura tradizionale
secondo i costumi, le tradizioni e la
religiosità degli antenati. Per questo anche
i missionari erano, in un certo senso,
nel mirino dei rivoluzionari decisi a
tutto, pur di raggiungere il loro scopo.
L’affiliazione alla società segreta avveniva
tramite un giuramento: si rinnegava
il battesimo e le convinzioni cristiane,
si dichiarava odio ai bianchi e ci
si impegnava a lottare con ogni mezzo,
accettando le conseguenze funeste in caso
di mancato adempimento ai doveri
della Mau Mau. «Se userai ancora il tuo
nome cristiano, che tu sia ucciso da questo
giuramento!».
All’inizio i missionari e il governo non
considerarono l’impatto del movimento
sulla popolazione, sottovalutandone
la pericolosità. Un’azione eclatante
ne rivelò, tuttavia, la consistenza nell’ottobre
del 1952, quando, in occasione
dell’arrivo del nuovo governatore della
colonia, sir Evelyn Baring, venne ucciso
il capo kikuyu Warouhiou, collaborazionista
dei bianchi. L’attentato convinse
le autorità a prendere la cosa sul serio e
ad opporsi con tutti i mezzi.
Iniziò così una lunga serie di attentati
e scontri, vendette e guerriglie, che si
protrasse per anni. Nel 1953 Yomo
Kenyatta, presidente del Kanu, fu condannato
come leader del movimento a
sette anni di prigione e poi a domicilio
coatto fino al 1961.
Carlo Cavallera, vescovo di Nyeri, e i
missionari vissero quegli anni con paura,
ma rifiutarono di abbandonare i loro posti,
anche se cercarono di difendersi evitando
le occasioni di pericolo, costruendo
case solide e appoggiandosi alle forze
di polizia. Il vescovo, soprattutto, interpretò
la drammatica situazione in chiave
di fede, preoccupato del pericolo di apostasia
dei cristiani.
Il 16 maggio 1952 scrisse una lettera
pastorale sui Mau Mau, condannando il
movimento: loro scopo è quello di distruggere
la chiesa di Cristo, iniettando
nelle persone «false brame di progresso
con un’incomprensibile ingratitudine per
gli innumerevoli benefici ricevuti dalla
chiesa e dal governo»; costituiscono un
pericolo di perversione per gli aderenti,
costretti al giuramento e a seguire «l’istinto
brutale delle loro malvagie passioni,
il loro orgoglio infantile e l’impulso
alla ribellione»; l’adesione ai Mau Mau
è proibita dalla chiesa per essere «un sacrilego
movimento» e dal governo, in
quanto impedisce «di tutelare il buon ordine
del paese».
Per contrastarlo, il vescovo non trovò
di meglio che fargli fronte con un «partito
cristiano», che promuovesse il benessere
della colonia e attirasse le simpatie
dei giovani per gli ideali di progresso;
per coloro che entravano a far
parte del movimento Mau Mau c’era la
scomunica!
I missionari temevano l’odio antireligioso
del movimento e certe azioni li convinsero
nel loro timore.
«La sera del 30 novembre si avvicinò
una gang di Mau Mau vestiti da poliziotti…
Entrarono in chiesa, spaccarono il
tabeacolo e, estratta la pisside e il ciborio
dell’ostia grande, le sparsero sulla
predella e sull’altare dicendo che non esiste
Gesù Cristo e che il solo dio è Yomo
Kenyatta… Si dissero comunisti!».
L’autorità inglese trovò in mons. Cavallera
un collaboratore, di cui fidarsi.
Per sicurezza, la popolazione fu costretta
a riunirsi in circa 450 villaggi di emergenza,
circondati da filo spinato, siepi
e steccati, con severe regole di entrata
e uscita. Qui, però, ben presto la gente
soffrì la fame e ogni malattia.
Èperò impressionante rilevare come
tutte le testimonianze della gente
sottolineino con gratitudine l’aiuto dei
missionari durante l’emergenza.
Ad esempio, padre Francesco Comoglio
è ricordato per avere «salvato molti cristiani
e persino dei detenuti»; padre Bartolomeo
Favaro è considerato «un vero
artefice di pace e questo lo si potè notare
soprattutto durante la sollevazione dei
Mau Mau, quando aiutò molta gente che,
altrimenti, sarebbe morta»; o ancora padre
Bartolomeo Negro, lodato «perché aveva
salvato molte vite e nutrito tante
famiglie con i fondi della parrocchia».
Ha scritto Joseph Ki-Zerbo nella sua
«Storia dell’Africa Nera»: «Il bilancio
ufficiale dei Mau Mau è di 7.811 morti
e oltre 100 mila prigionieri; quello riguardante
le forze dell’ordine è di 460 africani
e 68 europei, morti tra militari e
civili».
Le azioni militari durarono fino a tutto
il 1954; ma la tensione continuò fino
al 1960 (con strascichi locali fino al
1963), quando il Kenya raggiunse l’indipendenza
e Jomo Kenyatta ne fu il primo
presidente.

La dentiera di Filippo
Filippo è un cristiano molto in gamba.
Lo chiamo «il martire». Ed ecco il perché.
Erano gli anni della guerriglia per l’indipendenza
del Kenya. Quella che in
Europa fu chiamata la rivolta dei Mau
Mau e qui «emergenza»…
Filippo scelse la via della fedeltà a Cristo
e al suo dovere di maestro. Nonostante
le minacce di morte, continuò a
fare scuola. E pagò caro il suo coraggio.
Gli chiesi un giorno:
Filippo, non avevi paura che un giorno
o l’altro ti avrebbero fatto fuori?
– Eh sì! Speravo sempre di no, ma ne
vedevo tanta di gente massacrata. Sapevo
di essere dalla parte del Signore e
Lui mi dava forza.
Com’è che ti hanno assalito e non ti
hanno ammazzato?
– Non lo so. Toavo da scuola. Mi vidi
circondato dai Mau Mau. Tentai di
scappare, ma mi furono addosso. Capii
che ero finito. Caddi in ginocchio e mi
misi a recitare l’Ave Maria. A quel tempo
pregavo molto la Madre di Gesù che
mi aiutasse nell’ora della morte. Non
so cosa mi accadde. Aprii gli occhi e vidi
qualcuno che mi soccorreva.
Cos’era capitato?
– Non so. Forse, sentendo arrivare gente,
sono scappati. Forse hanno creduto
che fossi morto. Sai, io non gridavo,
pregavo. Forse è stata la Madonna che,
in quell’ora di morte, ha avuto compassione
della mia famiglia. Il fatto è che
sono passati 15 anni e io sono ancora
qui, sano e salvo. Sia ringraziato il Signore,
che è stato davvero buono con
me…
«Beh, proprio sano e salvo non direi –
mi disse alcuni giorni dopo Donatella,
la suora infermiera. Sai perché porta il
bastone? Non fu possibile aggiustargli
il ginocchio».
– Sì, ho visto.
– Hai notato che bei denti ha? Glieli ha
messi il vescovo.
– Oh bella! Non sapevo che il vescovo
facesse anche il dentista.
– Non capisci niente! Glieli ha fatti mettere
il vescovo, perché i suoi erano partiti
tutti. E come avrebbe fatto a masticare
granoturco e fagioli?… Che paura
quel giorno! Ero qui in ambulatorio come
adesso. Non mi avevano mai minacciata.
Curavo anche loro, i Mau Mau.
Ne avevano un gran bisogno, poveretti,
con la vita grama che conducevano nella
foresta. Sentii delle grandi urla che
aumentavano sempre più. Poi mi parve
di sentire le parole «ammazzato… Filippo». Sono corsa fuori. Che orrore! Tutto
sangue. Vedevo solo sangue. Era
proprio Filippo. Cosa potevo fare?
L’ho lavato, disinfettato e fasciato in
tutta fretta. Poi il padre l’ha portato all’ospedale.
Se chiudo gli occhi, lo vedo
ancora. Tu scherzi quando lo chiami «il
martire», ma lo è davvero.
– Sorella, io non scherzo affatto. Gli voglio
un gran bene e mi sento una pulce
davanti a lui.
GIUSEPPE MAGGIONI,
autore di «Storie africane», EMI,
Bologna 1987

A PIEDI, SOTTO IL SOLE
I missionari protestanti e cattolici cominciarono ad
aprire missioni nella «Riserva Africana del Forte
Meru» nella prima decade del 1900, piazzandosi sull’altopiano
nei pressi di Meru. Vedevano bene quel posto…
I cattolici diedero un’occhiata pure alla regione
del Tharaka: la giudicarono un «foo» inospitale
e poco popolato. Scarsi di numero e mezzi, si consacrarono
ai soli altopiani popolati e climaticamente più
ospitali del Kenya e del Nyambene, in attesa di tempi
migliori.
Ma nel ’50 il vescovo Carlo Cavallera ruppe ogni indugio:
Gesù offriva la sua salvezza anche ai Tharaka
e, quindi, anch’essi avevano diritto a godee i benefici:
come pure quelli che l’Europa poteva offrire loro
con lo sviluppo tecnico e culturale. Accompagnato dal
meglio navigato padre Vittorio Pacchiardo e guidato
dal capo Mburugu, il vescovo consacrò 9 giorni al Tharaka:
lo esplorò in lungo e in largo e incontrò più gente
possibile per pianificare con intelligenza e saggezza
l’attività missionaria. Nel suo diario il vescovo annotò:
«A piedi e sotto il sole». Una nota scaa, che ai missionari
andati poi a risiedere parla di fatiche e costanza
degne di grande ammirazione.
L’anno seguente prese il via Ntonyai Mission: non
era però nel Tharaka, ma ai suoi margini e raggiungibile
da Meru solo con la pista carrozzabile. Quella gente
ne fu felicissima, perché si era accorta dello sviluppo
sociale portato dalle missioni sull’altopiano del
Meru. Tanto che il capo Muraga si fece subito avanti
per offrire il terreno necessario per due scuole e a richiedere
altri missionari.
Ntonyai Mission ebbe vita travagliata e breve per
la forte opposizione dei metodisti di Meru Mission, che
ritenevano la zona loro feudo missionario, e per lo svilupparsi
della guerriglia mau mau.
Passata la bufera, padre Pietro Fissore, il fondatore
di Ntonyai, decise di spostare il centro della missione
nel cuore del popolo tharaka e dette il via a Materi
nel sud. Fu così più facile seminare nel Tharaka
scuole e cappelle, catecumeni e cristiani.
La scuola-cappella fondata presso il mercato di Gatunga,
quasi 30 km più a nord, prese un avvio molto
promettente. Veniva seguita con attenzioni particolari:
messa ogni domenica e tre visite settimanali dell’ambulatorio
mobile. Nel ’63 Gatunga contava già 900
cristiani e 10 scuole-cappelle con buoni catecumenati.
Fu, quindi, più che naturale promuovere quella
succursale a sede di missione, per assicurare un’adeguata
assistenza al Tharaka del nord.
Nacque così «Gatunga Mission». Il fondatore fu
padre Guido Baggio, un artista come pochi. Ma si adattò
a vivere in una capanna di fango e paglia, a costruire
blocchi di sabbia e cemento, a cuocere mattoni
al sole per rendere il centro della missione più ospitale
per i suoi successori.
Non era facile vivere a Gatunga. Una decina di anni
dopo, padre Aimone Rondina scrisse: «Posto da dissodare,
primitivo. C’è bisogno di acqua e cibo prima
che di istruzione… Un popolo duro e difficile come la
terra che coltivano. Vivono di bestiame e miglio. Lottano
per la vita. Il Tharaka è posto malarico e vi sono
numerosissime altre malattie cagionate da malnutrizione
e mancanza di vitamine. Paese poco ben servito
climaticamente».

Èbene
ricordare prima di tutto che qui, tra i meru, al
contrario dei nostri paesi cosiddetti civili, la chioma
è curata in maniera tutta speciale dal sesso forte…
poiché le donne vanno abitualmente rasate e rasate
proprio completamente. Gli uomini, invece, se i capelli
donati loro da madre natura s’attardano ad allungarsi
sì da potersi fare un bel codino, te li allungano con cordicelle
e fili, impiastricciando tutto di ocra rossa, così
che capelli veri e aggiunta di cordini, diventano un quid
unum e danno materia per abbellire il bellimbusto che,
quando ha il codino, si crede
giunto all’apogeo della
bellezza.
Il neonato dev’essere rasato
al terzo o quinto giorno
dalla nascita e, finché
non sono tagliati questi capelli,
la madre non può uscire
di casa. Non può essere
rasata per allontanare e
seppellire (insieme coi capelli
raschiati) tutto quel
non so che di sacro e inviolabile
che ha la capanna,
dove abita col bimbo nei
primi giorni della nascita. Il
bimbo rasato può essere
portato a vedere ai parenti
e anche il padre, per lo meno
di sotterfugio, potrà dargli
un’occhiata; la madre è
libera d’attendere alle sue
consuete occupazioni e i capelli,
oggetto di tanto terrore,
sono con ogni riguardo
seppelliti ai piedi del letto
della madre, perché piede
profano non calpesti la
«mambura» (capigliatura)
del neonato.
Però, col crescere del bimbo, ricrescono i capelli e crescono
davvero, perché per tagliarli una seconda volta,
occorre ancora più solennità. Si richiede la presenza dello
stregone e, si sa, costui non lavora gratis: occorre un
montone, che viene ucciso per la cerimonia e la cui carne
e pelle sarà la sua paga. Ma, tra i meru, vi sono molti,
anzi troppi poveracci che difficilmente trovano tanto
presto il montone necessario; intanto si aspetta e il
bimbo cresce fino a sei, dieci e più anni e… i capelli non
sono più riccioli spioventi sulle spalle, ma formano una
boscaglia aspra o forte «che nel cor rinserra… ogni
lordura». Oh, non importa! Nessuno li tocca, nessuno li
deve toccare: sono cosa sacra!
Ricordo un fatterello. Tra i marmocchi che frequentavano
la scuola di Egoji, parecchi anni fa, c’era un
ragazzetto di una dozzina d’anni, molto, ma molto intelligente
e anche tanto,
ma tanto bravino, che si attirò
l’attenzione premurosa
della suora maestra. E davvero
faceva progressi a
scuola; ma la maestra, poveretta,
ogni volta che doveva
avvicinarlo per raddrizzargli
la penna in mano
o che so io, sentiva una ripugnanza
indescrivibile,
ché il ragazzo aveva appunto
in testa una di quelle capigliature
arruffate e incolte
da più di dieci anni.
Un bel giorno le venne un’idea
e, senz’altro, prese le
forbici, s’improvvisò parrucchiera
per amore del
prossimo; e il ragazzetto fu
libero dalla boscaglia!
Venne poi il pandemonio
quando il bimbo toò a casa.
Padre e madre, come
spiritati, giunsero alla missione.
Era troppo l’insulto
fatto loro, quasi non avessero
un montone per chiamare
lo stregone a tagliare
i capelli al loro Kaibi. Chi
salvò la faccenda, oltre la mia barba un poco temuta,
fu l’osservazione di un vecchio, presente alla scena, che
tagliò corto dicendo che non c’era nessun problema, perché
i capelli non erano stati «rasati», ma semplicemente
tagliati con le «magazi» (forbici). E fu fatta la
pace…
P. ANGELO BELLANI

FRA LE ROSE DEL DESERTO
È quasi l’ultima tappa di un «andare sempre più in là»,
fino agli estremi confini del Kenya.
Il piccolo seme è diventato un albero dai molti frutti.
Alcuni, anche rossi di sangue…

Dopo Meru, arriva Marsabit.
Questa «diocesi del deserto»,
nel nord del Kenya, nacque
dalla stima di Paolo VI per il vescovo
Carlo Cavallera e crebbe in fretta,
grazie alla dedizione sconfinata di
una trentina di missionari e suore,
con un piccolo gruppo di cornoperatori
laici.

SASSI E SERPENTI
Niente giustificava, il 4 novembre
1964, l’erezione di una nuova diocesi
in un territorio arido, poco popolato
da pastori nomadi. Fino al 1963
il governo vi permetteva a stento la
residenza agli europei. Ma era un sogno
antico che si realizzava, risalente
addirittura a monsignor Filippo
Perlo, quando nel 1902 pensava già
all’evangelizzazione dei masai.
Un contatto con il nord, i missionari
della Consolata l’avevano avuto
nel 1914 quando, con una sfortunata
spedizione guidata da padre Angelo
Dal Canton, tentarono di penetrare
in Etiopia. Rispediti indietro,
rimasero a Moyale per tre anni (in attesa
del permesso di tornare a Nyeri)
e ne approfittarono per un apostolato
spicciolo. Un’altra occasione
persa la si ebbe nel 1925, quando,
per mancanza di mezzi e personale, i
missionari declinarono l’invito del
governo inglese ad aprire un dispensario
a Marsabit, battuti dagli anglicani
che vi si installarono nel 1931.
Però nel 1948 Carlo Cavallera, vicario
apostolico di Nyeri e amministratore
della prefettura di Meru, decise
di «esplorare» il vasto territorio
a lui affidato, fino agli estremi confini
della Northe Province, per studiare
la possibilità di una presenza
stabile. Prese contatto con i capi locali,
discusse con le autorità civili, conobbe
la sparuta e isolata presenza
dei cattolici: instancabile e deciso a
trovare una fessura in quel vasto e inospitale
territorio e iniziare l’evangelizzazione
delle varie tribù presenti
(turkana, samburu, masai, rendille,
gabbra, el molo, ecc.).
Le esplorazioni del vescovo continuarono,
finché nel 1951 arrivò il
sospirato permesso di una prima installazione
a Baragoi. La missione divenne
operativa l’anno successivo,
con padre Carlo Andrione e, in seguito,
con tre suore della Consolata.
Nel 1963 nacquero contemporaneamente
le missioni di Laisamis, Archer’s
Post e Marsabit.
Inutile tentare di raccontare in poche
righe le difficoltà a installarsi in
posti simili: difficoltà di trasporti, isolamento,
malaria, caldo soffocante
e soggiorno in tenda rendevano
l’impresa quasi eroica. Scrisse padre
Luigi Graiff, iniziando la missione di
Laisamis: «Quando arrivai non c’era
nulla. I serpenti erano i padroni assoluti.
Compresi subito che un grande
lavoro mi attendeva. Misurai a
lunghi passi i confini della futura
missione, mi rimboccai le maniche e,
con l’aiuto di alcuni volenterosi, cominciai
a rimuovere le pietre».
C’era tutto da fare e la prima cosa
era dare al territorio, dal punto di vista
ecclesiale, un’autonomia giuridica.
La cosa fu facilitata dal vescovo
Cavallera che bruciò le tappe: nonostante
le esitazioni da parte delle autorità
romane, si offrì a diventare il
primo pastore di quella diocesi desertica,
lasciando la ben avviata chiesa
di Nyeri al vescovo africano Cesare
Gatimu.
Il 25 novembre 1964 veniva così
eretta la diocesi di Marsabit e, il 25
febbraio dell’anno seguente, con un
rituale sobrio ed essenziale, il coraggioso
missionario «prendeva possesso
» del nuovo campo di lavoro.

SANGUE SULLA SABBIA
Non erano solo le condizioni ambientali
a rendere difficile l’evangelizzazione.
Il contesto era totalmente
diverso da quello sperimentato dai
missionari fra i kikuyu e i meru con
popolazioni agricole e sedentarie. Invece
le tribù che pascolavano le mandrie
nel vasto bacino, confinante con
Etiopia e Somalia, potevano avere
con i missionari soltanto sporadici
contatti. Quindi anche la metodologia
missionaria doveva essere diversa:
più mobile e capace di adattarsi
alla situazione.
Data la precarietà, le prime attenzioni
furono rivolte alla situazione sanitaria,
con dispensari, cliniche mobili
e, soprattutto, con la realizzazione
dell’ospedale di Wamba, uno dei
progetti più sofferti ed ambiziosi.
Nato dal nulla nel 1969, con 40 posti
letto, fu reso possibile dalla generosità
di tante persone (benefattori,
amici, medici, missionari) e, specialmente,
dalla presenza del dottor Silvio Prandoni, insostituibile figura di
medico dalla generosità sconfinata.
Accanto all’ospedale, nel 1967 sorgeva
pure una «clinica oculistica»,
grazie all’interessamento del prof.
Angelo Vannini (di Torino), padre
Mario Valli e una lunga serie di oculisti
italiani che vi si recavano, alternandosi,
per brevi periodi di lavoro.
Nel campo dell’istruzione ci si impegnò
per scuole secondarie, decine
di scuole elementari, matee e una
di arti e mestieri, superando la non
piccola difficoltà di avere insegnanti
preparati in luoghi così lontani e inospitali.
Una triste nota che caratterizzò
il lavoro di mons. Cavallera
furono le ricorrenti siccità, che costrinsero
il vescovo alla ricerca ossessiva
di aiuti all’estero e ad organizzare
le missioni, perché fossero
centri di assistenza a gente stremata
dalla fame.
La presenza nel territorio di Marsabit
aveva come scopo primario l’evangelizzazione,
che si rivelò però
più difficile del previsto per il carattere
mobile delle popolazioni, l’insicurezza
causata dai predatori shifta e
anche l’influenza (in alcuni posti) dei
musulmani. Per questo i missionari
puntarono la loro azione su tre direzioni,
con una strategia che teneva
conto non solo delle forze umane e,
soprattutto, della fede (era il «pallino» del vescovo).
In primo luogo, una «presenza»
costante ai «piedi dell’Eucaristia»: in
modo che, in tutta la giornata, venisse
garantita nell’intera diocesi la preghiera
continua. Poi fu curata la pastorale
scolastica, affinché gli alunni
ricevessero una formazione cristiana
(oltre che un esempio di vita), così da
far nascere in loro l’esigenza di chiedere
il battesimo e costituire nuove
comunità. E, infine, studio serio delle
(difficili) lingue locali, insieme a usi
e costumi, per inculturare il messaggio
del vangelo, conoscere la gente
in profondità e rispondere ai loro
bisogni.
Il vescovo sognava anche una «pastorale
nomade». Ma l’impresa si rivelò
difficile, sia perché il governo
impose ai missionari la residenza fissa,
in luoghi sicuri e protetti dalla polizia,
sia perché la «squadra volante»
di padri, destinata a seguire gli spostamenti
dei nomadi, ripiegò sulla
creazione di strutture di aiuto che,
gradualmente, divennero stabili; più
che fare gli itineranti, i missionari si
dedicarono a sviluppare i posti difficili
e lontani.
Fondamentale si rivelò anche l’opera
dei catechisti e catechiste, per i
quali fu creato il Centro pastorale di
Maralal, attentamente studiato e adattato
alle esigenze locali. E prese
sempre più corpo l’idea che fosse ormai
giunto il momento di pensare a
preti locali. Dopo lunghe riflessioni,
nel 1979 si aprì il seminario «Buon
Pastore», da cui uscirà nel 1988 il primo
sacerdote samburu, Dominic Lesaion.
Intanto la forte fibra del vescovo
Cavallera cominciava a cedere, sotto
la spinta di una lunga e intensa attività,
svolta in condizioni disagevoli;
dopo 36 anni di episcopato al servizio
della chiesa kenyana, le sue dimissioni
furono accolte il 12 luglio
1981. Ritiratosi a Torino, potè realizzare
quello che era sempre stato il
suo sogno: preghiera e contemplazione.
Al suo posto arrivò padre Ambrogio
Ravasi, presente in Kenya da
una decina d’anni, che dovette sobbarcarsi
la non facile eredità dell’infaticabile
predecessore: vi riuscì con
il suo ottimismo, semplicità, realismo
pastorale e vicinanza patea a tutti.
Ultima tappa nelle vicende della
diocesi di Marsabit è stata la sua divisione,
con la creazione della nuova
diocesi di Maralal, per la quale veniva
nominato vescovo Virgilio Pante,
consacrato il 6 ottobre 2001. Il vescovo
giusto: veterano del posto, appassionato
di moto e caccia, profondo
conoscitore degli usi e costumi locali,
vero «nomade» del Signore!

SAPER RICOMINCIARE
Dopo il Concilio ecumenico Vaticano
II, la chiesa entrava in una fase
di rinnovamento; c’era voglia di cambio,
novità, vie pastorali non ancora
battute. Anche la missione non rimase
indenne al vento dell’«aggioamento», anche se dovette fare i
conti con il calo drastico di vocazioni
e la critica (talvolta ingiusta) ai metodi
del passato, considerati lesivi
delle culture e dei diritti dei popoli.
Maturava anche una nuova «strategia
», che riconosceva ai missionari
non più il ruolo di protagonisti, bensì
quello di (umili) «accompagnatori
» delle chiese locali, fino alla loro
piena autonomia. Famosa la definizione
di missionario, che circolava in
quei tempi: «Straniero, in casa di mio
padre». Si parlava di «trapasso», con
l’evidente allusione al sacrificio e al
distacco materiale che il missionario
era chiamato ad affrontare, nel momento
di affidare la sua «creatura»
ad altre mani. Nel frattempo doveva
imparare a collaborare con altre forze
che cominciavano a fare capolino:
come i laici missionari che, da pochi,
diventavano una presenza stabile e
consistente; o come i sacerdoti fidei
donum, presenti dai primi anni ’60, a
cui verrà affidata, nel 1996, la diocesi
di Isiolo, «figlia» della missionemadre
di Mujwa (Meru).
E si faceva sempre più strada una
parola capace di far rizzare i capelli e
battere il cuore, soprattutto ai missionari
di una certa età: «ridimensionamento
», ossia ridurre le presenze
nelle diocesi ormai consolidate. La
scelta poteva far pensare a una fatale
necessità dell’istituto, causata dall’inesorabile
e lenta riduzione di personale;
ma, sul versante positivo, diventava
pure la strada obbligata per
riqualificare le presenze in situazioni
più consone all’ad gentes.
Non è che i vescovi africani fossero
tanto d’accordo. Mons. Gatimu,
vescovo di Nyeri, scriveva ai superiori
di Torino: «Non mi si portino
via i missionari migliori per la mia
diocesi; se non ne approfittiamo ora,
domani potrebbe essere troppo tardi!…
». Ma il ridimensionamento era
(ed è) una «cura» obbligata e cominciò
ad attuarsi. I 224 missionari,
presenti in Kenya nel 1975, scesero a
171 nell’81, quando il settimo Capitolo
generale affrontò il problema
delle nuove presenze sul territorio.
Vennero lasciate missioni «storiche
», iniziate da zero dai primi missionari,
come Embu, Kyeni, Chuka,
Gikondi, Nyeri (il «Vaticano» della
Consolata, dato il complesso di opere:
parrocchia, tipografia, centro catechistico,
ospedale, ecc.), Murang’a,
Nanyuki, Karatina… per scegliere situazioni
di «frontiera»: come tra i
musulmani di Mombasa (1991); o a
Chiga (1992) tra il popolo dei luo, in
diocesi di Kisumu; o nella periferia di
Nairobi, tra i baraccati degli slums a
Kahawa (1993) e Lileleshwa (2001).
Emergeva, inoltre, tra i missionari
una nuova priorità: quella dell’animazione
missionaria e vocazionale,
che assorbe ancora oggi persone e
mezzi, spingendo a nuove presenze
anche fuori dal Kenya, come a Kampala
(Uganda).
Per anni il Kenya ha accolto evangelizzatori
che venivano dall’estero:
un dono prezioso, che ha permesso
a questa chiesa di diventare adulta e,
a sua volta, di restituire ad altri il dono
ricevuto. È un salto di qualità, che
rivela come il lavoro missionario abbia
dato i suoi frutti.
Oggi sono 121 i missionari della
Consolata kenyani, la maggior parte
dei quali è sparsa nei vari paesi del
mondo; ultimo, la Corea del Sud, che
ha appena accolto Joseph Otieno e
Peter Njoroge, due giovani freschi di
ordinazione e decisi ad affrontare una
cultura (e una lingua) così lontana
dalla loro.
Chi avrebbe mai pensato che la
Consolata, assumendo pure il volto
kenyano, arrivasse a tanto?

ATLETA, SOLDATO, CONTEMPLATIVO
Nell’apostolato Carlo Cavallera è impegnato non solo ad amministrare
battesimi, ma ad evangelizzare le culture. Iniziando la missione di
Marsabit, ha ben chiaro in mente che, nell’inculturazione del vangelo,
gli agenti principali sono gli stessi nomadi. Essi, perciò, devono vivere
la fede cristiana in armonia con la loro identità culturale ed esprimere
la propria maturità ecclesiale con il favorire la nascita di vocazioni sacerdotali.
Il vescovo si spende tutto per l’evangelizzazione:
la sua vita è la corsa di un atleta
eccezionale, la battaglia di un soldato valoroso,
il servizio di un amministratore fedele.
Per lui «contemplazione» significa avere
il tempio come epicentro del proprio
essere e agire: stare nel recinto sacro per
guardare il mondo con gli occhi di Dio e
giudicare la storia con il criterio della sua
logica misericordiosa.
In comunità la tensione contemplativa lo
rende capace di comunicare e convocare,
comprendere e concordare, compensare e
convincere, comporre e conservare, completare
e consolidare, commuovere e convertire,
compatire e confortare, compiangere
e consolare. La sua grandezza è proprio
questa: in lui, «la missione diventa
contemplazione».
Lino Zamuner
(autore di «Mons. Carlo Cavallera – Quando la missione invade la vita»,
Edizioni Missioni Consolata, Roma 2000)

NON CI RESTA CHE PREGARE
Padre Luigi Graiff è destinato
a South Horr (diocesi di
Marsabit), con l’incarico di occuparsi
anche dell’avamposto di
Parkati, aperto due anni prima
e sua prossima destinazione. La
regione è abitata dai turkana,
tribù nomade minacciata periodicamente
da fame, malattie e
dalle incursioni dei banditi Ngorokos,
un corpo clandestino con
intenti politici eversivi, che si alimenta
di rivalità tribali e di oscure
ingerenze straniere, come
fanno supporre le sofisticate armi di cui sono dotati.
Da South Horr padre Luigi scende ogni settimana nella
valle di Sukuta, dove si trova Parkati: vi si reca in jeep
attraversando la solitudine della steppa, portando viveri,
medicinali, materiale da costruzione e tutto quanto può
servire alle necessità di quelle popolazioni, tra le più povere
della diocesi. Ogni viaggio in quelle distese pietrose
e arroventate è compiuto nel segno del rischio, e rappresentava
una sfida agli Ngorokos, ostili verso chiunque si
sia reso testimone dei loro soprusi e razzie e resi sospettosi
nei confronti del missionario che, raccogliendo le confidenze
di chi va da lui per farsi curare, potrebbe conoscere
gli autori di tante violenze e scorrerie. Di questo rischio padre
Luigi è ben consapevole, ma continua nella sua dedizione.
Prima di compiere il suo ultimo viaggio, padre Luigi è
alla missione di Baragoi, sulla via del lago Turkana,
per rifoirsi di viveri. Mentre carica la Land Rover, suor
Christiana Sestero, sapendo che pochi sono i cristiani rimasti,
date le continue scorrerie delle bande di razziatori,
gli ha detto: «Sono scappati tutti da Parkati: perché si reca
ancora là?». «Faccio solo il mio dovere – è la risposta -;
vi sono ancora i bambini della scuola e i vecchi che non
sono riusciti a fuggire: se non porto loro un po’ di farina,
che cosa mangeranno?».
Questa volta però il missionario non è completamente
tranquillo, anche se ha deciso di partire: sa che la gente
attende, come una benedizione, la
sua visita per ricevere da lui farina,
olio, zucchero, medicine, ma soprattutto
un po’ di coraggio.
All’alba dell’11 gennaio 1981,
dopo aver celebrato la messa, lascia
anche Parkati per raggiungere
Tuum, un piccolo mercato a una
ventina di chilometri. Un viaggio
già compiuto decine di volte
per garantire alla piccola comunità
di cristiani l’assistenza religiosa, ma
anche per promuovere istruzione,
cura dei malati, approvvigionamento
di acqua e viveri in modo da
ovviare ai disagi della siccità. In
macchina con lui ci sono due ragazzi
di South Horr e il fedele catechista
Patrick: hanno il compito
di animare la liturgia e aiutare
il missionario a distribuire
viveri.
Il viaggio procede senza intoppi,
ma ad una dozzina di chilometri
da Tuum ecco l’imprevisto:
alcuni uomini a bordo di una
jeep, armati di mitra e fucili,
costringono padre Luigi a fermare
il mezzo. Il missionario intuisce
il pericolo, sa che i razziatori tendono spesso imboscate
e che, per poco, sono disposti a compiere qualsiasi
azione delittuosa. Vano è il tentativo di invertire la
marcia per evitare lo scontro: alcuni spari bloccano infatti
l’auto, che viene accerchiata. Vano è anche il tentativo
di avere un colloquio con i banditi.
Ormai non c’è più nulla da fare: «Non ci resta che pregare
» sembra abbia sussurrato, rivolgendosi al catechista.
È la sua ultima esortazione.
Il missionario vorrebbe almeno salvare i ragazzi che lo
accompagnano, ma la spietatezza degli assalitori compie
l’inevitabile e la speranza che si limitino a depredare
l’automezzo si infrange ai primi spari. Padre Luigi cade a
terra raggiunto da varie pallottole, assieme ai ragazzi, pure
loro colpiti a morte. Sul corpo del missionario, gli assassini
infieriscono impietosamente: gli squarciano il torace,
i visceri sono sparsi sul terreno, la cavità riempita di
sassi; il cuore gli viene selvaggiamente strappato e al suo
posto gli viene posta una grossa pietra.
La tragedia è consumata, la strada sassosa è una pozzanghera
di sangue delle vittime. Il posto si è trasformato
in un nuovo golgota d’amore e di morte insieme, sul quale
si è compiuto il sacrificio.
Passata la furia dei banditi Ngorokos, il catechista, già
ferito, riconosce nel giovane che gli sta spianando contro
il fucile un suo ex alunno: abbassata l’arma, il guerriero gli
risparmia la vita, perché racconti l’accaduto…
«Martire dell’amore e della fede» si
legge sulla lapide, divenuta per
quella comunità un centro di affetti
e di preghiera. Nei 30 anni vissuti
in terra di missione, tra avversità
e pericoli, padre Luigi ha sempre
voluto rimanere al suo posto
ed essere fedele al suo compito.
MICHELE NICCOLINI

GIACOMO MAZZOTTI




UIRAMUTAN, L’ULTIMA FRONTIERA

Lo scorso maggio il governo brasiliano
ha inaugurato una caserma militare
in pieno territorio indigeno. È l’ennesimo
atto di prepotenza, che mette a rischio
la sopravvivenza dei popoli autoctoni
dell’Amazzonia, già prostrati da problemi
più grandi di loro.
Nel frattempo, su iniziativa dei missionari
della Consolata, parte una nuova,
grande campagna in favore degli indigeni
di Roraima. Si chiama «Vogliamo vivere!».
Lo scorso maggio il governo brasiliano
ha inaugurato una caserma militare
in pieno territorio indigeno. È l’ennesimo
atto di prepotenza, che mette a rischio
la sopravvivenza dei popoli autoctoni
dell’Amazzonia, già prostrati da problemi
più grandi di loro.
Nel frattempo, su iniziativa dei missionari
della Consolata, parte una nuova,
grande campagna in favore degli indigeni
di Roraima. Si chiama «Vogliamo vivere!».

Il 2 maggio 2002 l’esercito brasiliano
ha inaugurato, nella località
di Uiramutàn, nello stato di
Roraima, con festeggiamenti, spari
e grande dispiegamento militare, la
caserma del 6° plotone di frontiera.
Hanno partecipato soldati, ufficiali,
quattro generali, politici, fazendeiros.
La cerimonia è stata impeccabile,
ma nell’aria e nel cuore
degli organizzatori non c’era tanto
lo spirito di chi è lieto per aver portato
a termine una buona impresa,
quanto piuttosto il sentimento segreto
di chi è conscio (anche se non
lo dice) di aver affermato il suo potere
per prevenire qualsiasi velleità
di ribellione.
Era presente anche un gruppo di
indios, antichi e veri abitatori della
regione, incapaci, eccetto pochi, di
comprendere la ragione, la portata
e le conseguenze di quella costruzione
e della festa. Erano stati spinti
a venire dal desiderio di vedere, in
un luogo di solito silenzioso, tanti
aerei in una sola volta, soldati che
sfilano, ufficiali che danno ordini,
trombette che suonano, politici ben
vestiti e compiacenti, discorsi altisonanti.
Davanti a questo spettacolo inusuale
gli indios si sono sentiti ancora
più piccoli ed estranei al mondo
dei bianchi.

CORPO ESTRANEO
Uiramutàn è il nome del villaggio
e della regione, situata molto lontano
dai grandi centri abitati, ma non
distante dal monte Roraima (2.772
metri) che dà il nome allo stato. Chi
vi giunge ha subito l’impressione di
essere in un altro mondo, tale è il silenzio,
la pace e serenità.
È una regione poco abitata: c’è il
piccolo villaggio di Uiramutàn e pochi
altri, sparsi e distanti chilometri
gli uni dagli altri. Impressionante a
quell’altezza è la luminosità intensa
e il panorama formato da una distesa
di basse montagne intramezzate
da vallate strette ed erbose. Il suolo,
quasi tutto arenoso, non ha molta
vegetazione. Qua e là qualche albero
di piccole dimensioni, mentre è
più intensa la presenza di arbusti
lungo i due piccoli torrenti portanti
scarsa acqua e infossati rispetto all’altopiano.
Sono questi torrenti la sola riserva
idrica per la popolazione indigena
locale le cui semplici abitazioni, fat-
te di materiale raccolto nella zona, si
allineano in una ristretta area. Il terreno
coltivabile è limitato e appena
sufficiente agli abitanti, che non sanno
cosa sia il mercato: ciascuna famiglia
produce il proprio sostentamento
o se lo procura con la caccia
e la pesca (anche queste, invero,
piuttosto scarse).
Oltre alle abitazioni degli indios,
si trovavano nell’area, fino a poco
tempo fa, poche costruzioni in muratura:
una chiesetta, la scuola, il
municipio e rare abitazioni di bianchi.
Oggi c’è anche la caserma del 6°
plotone. Perché – si chiede qualcuno
– una costruzione così grande?
Perché una simile ostentazione di
forze, potere e superiorità al cospetto
di abitanti tanto ingenui?

DIFESA DA CHI?
I giornali di Boa Vista e di altri stati
del Brasile hanno commentato gli
eventi del 2 maggio ripetendo il solito
ritornello stereotipato e trionfalistico:
«difesa delle frontiere, onore
della patria».
La frontiera con la Guyana, costituita
dal fiume Maù, si trova poco
lontana ed oltre la stessa esiste una
regione ugualmente montagnosa, arida
e totalmente spopolata. È difficile
immaginare che possano esistere
nemici da quelle parti, tanto più
che, da secoli, la bandiera brasiliana
sventola anche nei villaggi indigeni.
Chi la porta e la difende, ora come
nel passato, sono gli indios. Chi parla
la lingua brasiliana e porta un nome
brasiliano sono gli indios.
Mai gli indios furono nemici, ma
al contrario sempre amici e difensori
del suolo nazionale. Lo dimostra
chiaramente il libro As muralhas do
Sertão, scritto dalla storiografa Farage.
Gli indios della regione sono di
etnia macuxì del gruppo karib.
Hanno una cultura analoga a quella
di tanti altri indios e vivono in un regime
comunitario, pacifici, ma
preoccupati della vicinanza dei
bianchi e timorosi della ingordigia
della società che si dice civile. Non
c’è ragione che qualcuno vada a turbare
la loro pace e i loro modi di vivere.
Anche i legislatori brasiliani
hanno compreso questo e la Costituzione
del 1988 decreta che siano
demarcate le terre dei popoli indigeni,
allo scopo di difenderli da invasioni
e aggressioni.
Lungo la storia furono sovente attaccati
e persino fatti prigionieri e
schiavi per lavorare nelle fazendas
dei grandi latifondisti dell’Amazzonia
a sud del fiume Amazonas. Ma
poi le relazioni con i bianchi ebbero
momenti di concordia e con la legge
suprema del paese si pensava che
le invasioni, le violenze e lo sfruttamento
sarebbero cessate. Invece no:
la demarcazione è stata iniziata e
non conclusa, forze politiche si opposero
ad essa e, fatte rare eccezioni,
le comunità indigene continuarono
a essere oppresse, a volte con
modi astutamente amichevoli, altre
con la prepotenza e le minacce.
L’insediamento militare, realizzato
con tanta pompa al cospetto delle
rocce montagnose, pare costituire
un’aggressione camuffata contro
una popolazione inerme e pacifica.
Il 2 maggio soltanto una voce si è
posta fuori dal coro, quella del
tuxaua Orlando, capo indigeno del
villaggio. Questi, dopo i discorsi laudatori
ufficiali, ha affermato che la
caserma militare è deleteria per la
convivenza, perché viene a sopraffare
costumi ed abitudini indigene,
stronca il naturale avvicinamento ai
bianchi e, quel che è peggio, porta
prostituzione e diffusione delle bevande
alcoliche contro le quali i responsabili
delle comunità stanno da
tempo lottando.

L’ARROGANZA DEI BIANCHI
I giornali che hanno descritto l’evento
danno rilievo al fatto che i
massimi esponenti delle forze militari
si sono stupiti dello svolgersi
«pacifico» delle cerimonie. C’era
quindi la coscienza di fare qualcosa
che feriva gli animi dei gruppi indigeni,
soprattutto di quelli organizzati
nella associazione chiamata
Conselho Indigena de Roraima (Cir),
che da anni difende i diritti e la dignità
degli indios. Gli organizzatori
della festa avevano quindi timore
che l’esile organizzazione facesse dimostrazioni
pubbliche di dissenso.
Ma era assurdo pensarlo.
Gli indios, da tanti secoli umiliati
perché nullatenenti e differenti, abituati
allo sfruttamento, alla prepotenza
e arroganza dei bianchi, ma
anche attratti dal benessere a cui in
cuor loro ambiscono, cosa potevano
fare contro quello spiegarsi di
forze militari? E poi perché opporsi
quando essi si sentono parte della
nazione brasiliana?
Trovano sbagliato e incoerente
con lo spirito della Costituzione la
caserma nel bel mezzo di un loro villaggio
ed hanno manifestato il loro
disappunto all’inizio dei lavori di costruzione.
Poi, facendo violenza su
se stessi, hanno dichiarato apertamente
l’opposizione al progetto, ricorrendo
ai tribunali. Questi hanno
dato loro ragione, ma i militari hanno
fatto ricorso e benché non sia ancora
venuta la sentenza, essi – sfidando
la giustizia – hanno proseguito
i lavori e terminato la costruzione,
fiduciosi di prevalere sulla legge.
Così, come tante volte nella storia,
le autorità che devono difendere la
popolazione specialmente la più umile
e indifesa, si sono comportate
da aggressore.
La coscienza etnica, che da qualche
anno si è risvegliata negli indios,
ora si sente non solo impotente ma
costeata ed esasperata. Anni addietro
era il piede delle mucche del
fazendeiro che calpestava il suolo e
l’animo degli indios, oggi è il crepitio
delle pallottole e il fragore delle
bombe che esplodono durante le
manovre militari eseguite intenzionalmente
in terre indigene per intimorire
un popolo inerme.

<b<LA CASERMA COME «CAVALLO DI TROIA»
I missionari, obbedienti al vangelo,
da decine di anni stanno vicini a
tutto il popolo brasiliano, impegnato
seriamente a consolidare le strutture
nazionali e progredire sulla via
del benessere. Essi sono pure compagni
delle numerose etnie indigene
che vivono nel territorio dello stato
di Roraima, condividendo lo sforzo
per raggiungere un tenore di vita
degno, senza rinunciare alla loro
cultura e valori tradizionali.
A questo scopo, i missionari cercano
di infondere coraggio e speranza
per resistere contro chi tenta
di farli scomparire distruggendone
l’identità. Purtroppo anche a Uiramutàn
si sta mettendo in atto questa
strategia di eliminazione delle etnie
indigene. Chi conosce i retroscena,
non ha difficoltà a comprendere cosa
si nasconde dietro l’apparato militare
esterno.
Quello che si vuole ottenere non
è una conquista del territorio «manu
militare», perché è chiaro come
il sole che non ce n’è bisogno. Invece,
una caserma militare abitata da
60 giovani soldati, situata in mezzo
a villaggi indigeni, è proprio quello
che ci vuole perché le giovani donne
indie mettano al mondo un grande
numero di meticci, inquinando e
snervando la loro etnia.
Tale progetto già è in atto nella regione
della serra Surucucus, a ponente
di Roraima, con effetti disastrosi
per gli indios yanomami.
È questo progetto, sottinteso a
tanto apparato celebrativo, che naturalmente
rattrista. Il popolo indio
che ha voglia di crescere ed essere
autosufficiente e che porta in se tanti
valori morali, è forzato ad accettare
situazioni avvilenti e a veder corrosa
la propria identità e dignità per
obbedire a interessi nascosti sotto la
scusa della integrità territoriale nazionale.
L’indio Massaranduba, tuxaua emerito
di Uiramutàn, ora con 104
anni, nel giorno festivo della inaugurazione,
è stato premiato davanti
alla comunità che lo venera, con la
consegna di un simbolico «bastone
di comando».
Quando lo incontrai la prima volta,
nel suo villaggio, nel gennaio del
1976, mi si avvicinò, nella oscurità
della notte per dirmi triste, che un
bianco, venuto abusivamente da poco
a risiedere presso il loro villaggio,
proibiva, con minacce, tutta la comunità
indigena di allevare galline
ed ogni animale da cortile. L’arroganza
del bianco faceva soffrire lui
e la sua gente, e anche temere.
Ora, passati 25 anni, astutamente
manipolato con vane illusioni,
da persone interessate, Massaranduba
accetta non solo un fazendeiro
che impone ordini nel suo piccolo
villaggio, ma addirittura una
caserma di militari. Quegli stessi
militari, che consegnandogli il bastone
del comando, invece di onorarlo,
in realtà gli hanno tolto, senza
che l’anziano capo se ne accorgesse,
tutta l’autorità e il
potere che la legge indigena
gli conferisce.

(*) Mons. Aldo Mongiano è stato
vescovo di Roraima dal 1975 al
1996.

Sul problema dell’insediamento
militare, nel luglio 2001 «MISSIONI
CONSOLATA» aveva lanciato una
campagna dal titolo «Ma la caserma
no!». Tutto è stato inutile, come ben
si comprende dall’articolo. Oggi si
riparte con una campagna di più
ampio respiro, perché abbraccia
una pluralità di tematiche.

VOGLIAMO VIVERE!
Da troppo tempo i popoli indigeni dello stato brasiliano di Roraima soffrono continue aggressioni fisiche, psicologiche e culturali.
Latifondisti, risicoltori, cercatori d’oro, imprese del legname e minerarie, nazionali e multinazionali, occupano le loro terre causando la
distruzione dell’ambiente naturale e minacciandone la sopravvivenza. Un’intera classe politica pratica varie forme di razzismo e
discriminazione e semina l’odio all’interno dei gruppi indigeni, mettendo comunità contro comunità, provocandone così la disgregazione
socio-culturale. Inoltre, continua ad incentivare, verso una foresta inadatta all’agricoltura, la migrazione di coloni dalle zone più povere del
Paese, creando masse di diseredati che si riversano nelle periferie dei centri urbani o premono sulle terre indigene. Infine, i militari si
oppongono alla demarcazione delle aree indigene creando disagi e conflitti in tali aree.
Per porre fine a questa lunga serie di violenze, i popoli di Roraima hanno rivolto alle organizzazioni della società civile nazionale e
internazionale una richiesta di appoggio nella lotta che essi conducono per il riconoscimento dei loro diritti fondamentali, come popoli
indigeni e come esseri umani.
Preso atto della gravità della situazione, nonché dell’appello del Consiglio Indigeno e della Diocesi di Roraima, chiediamo:
Al Goveo brasiliano:
– L’approvazione dello “Statuto dei Popoli Indigeni”, tenendo conto dei suggerimenti proposti da questi ultimi nell’aprile 2001,
– la demarcazione immediata in area continua delle terre indigene prevista dalla Costituzione vigente, il mantenimento dei limiti di
quelle già demarcate e l’omologazione dell’Area Raposa/Serra do Sol,
– di regolamentare la presenza militare nelle terre indigene di frontiera,
– di fermare il disboscamento, l’inquinamento, lo sfruttamento minerario e agricolo e l’allevamento, in atto o programmato, sulle terre
indigene
– di non incoraggiare con false speranze l’afflusso di coloni verso le terre di Roraima.
Al Parlamento europeo:
– di controllare l’utilizzo dei fondi inteazionali ed europei destinati all’Amazzonia brasiliana e, in particolare, allo stato di Roraima,
affinché essi siano usati prioritariamente per la tutela dei diritti dei popoli indigeni,

– di farsi interprete delle suddette richieste davanti al governo e al parlamento brasiliano.
Alle organizzazioni della società civile brasiliana e internazionale:

– di sottoscrivere questo appello ed aderire alla campagna in tutte le forme possibili.

Coordinamento italiano della Campagna Internazionale“VOGLIAMO VIVERE!”
in difesa della foresta amazzonica e della vita dei suoi abitanti.
e-mail: indiosroraimabrasile@libero.it

Aldo Mongiano