DIRITTI UMANI libertà religiosa negata

DI MALE IN PEGGIO
In barba alla Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo,
la libertà religiosa
è sempre più calpestata,
specialmente in Asia, dove
le minoranze cristiane sono
le più esposte a repressioni
e persecuzioni.
Presentiamo alcuni casi.

Oltre 410 milioni di cattolici
soffrono limitazioni alla libertà
religiosa nel mondo.
Nei paesi islamici i cristiani sono sistematicamente
discriminati e posti
in condizione di inferiorità sociale,
quando non sono oggetto di massacri
e pulizie da parte di milizie islamiche:
in quelli con regimi comunisti
continuano a subire persecuzioni
e repressioni; negli stati a maggioranza
buddista e induista la situazione
non è affatto migliore.
L’Asia, soprattutto, si rivela il continente
in cui, anche nel 2001, la libertà
religiosa è stata maggiormente
negata: lo testimoniano i rapporti annuali
su tale argomento del Dipartimento
di stato americano, Amnesty
Inteational, Aiuto alle chiese che
soffrono e altri organismi inteazionali
in difesa dei diritti umani.
Gli esempi che riportiamo non sono
i peggiori, ma bastano a dare un’idea
di un problema sempre più grave
e di cui si parla sempre meno. Dove
il diritto alla libertà religiosa non
è rispettato, anche gli altri diritti fondamentali
vengono calpestati.

MYANMAR: proibito… cantare
Nell’ex Birmania è presente circa
un milione di cristiani, di cui 400 mila
cattolici, su una popolazione di
quasi 46 milioni di abitanti.
Dal 1996 il regime militare birmano
non concede licenze di costruzione
per edifici di culto e, dal luglio
2001, è in vigore un ordine governativo
per cui «le comunità cristiane
non possono riunirsi in luoghi di culto
costruiti meno di un secolo fa».
Da allora sono state chiuse oltre 80
chiese nella capitale Rangoon; altre
20 a Shwe Pyi Tar; a Haling Tai Yar,
invece, sono stati chiusi tutti gli edifici
di culto: i cristiani hanno il permesso
di riunirsi privatamente, ma
con l’ordine di non cantare.
A 5 ministri cristiani del culto è
stato ordinato di lasciare il paese; altri
17 hanno scelto la latitanza. È ancora
in carcere la pastora battista
Gracie, arrestata il 13 febbraio 2001
e inteata nel campo militare di
Haka con l’accusa di aver dato rifugio
a separatisti di etnia chin: il tribunale
le ha inflitto una condanna a
due anni di lavori forzati. Stessa condanna
è stata inflitta al fratello maggiore,
accusato dello stesso reato.
Per i fedeli del luogo, però, tali accuse
sono infondate e mirano a ridurre
la libertà religiosa.
In Myanmar è da anni in corso una
guerra civile contro vari gruppi etnici
separatisti e una spietata repressione
contro l’opposizione. A volte la
tensione politica sfocia in scontri a
sfondo religioso, soprattutto tra buddisti
e musulmani, provocando vittime
e distruzioni di case e moschee.
Nei confronti della minoranza islamica
(3,3%, contro il 69% buddista),
il governo persegue una politica
particolarmente repressiva, confinando
i musulmani in determinate
aree del paese e limitandone la libertà
di movimento. Nel corso del
2001, nello stato di Arakan, il governo
ha provveduto a distruggere 10
moschee e a programmare l’abbattimento
di altre 30.

BHUTAN:
cambiare religione… o paese

L’8 aprile 2001, domenica delle
palme, la polizia bhutanese schedò i
fedeli radunati davanti ai luoghi di
culto; molti pastori protestanti furono
arrestati e sottoposti a interrogatori
e minacce di detenzione. Altri fedeli
fuggirono per paura di essere identificati.
Il prezzo più salato lo
pagò il pastore Yakub, arrestato per
15 giorni e sottoposto a percosse affinché
abiurasse.
La campagna persecutoria è scattata
nel 2000, con l’invio a impiegati
pubblici e privati di speciali moduli
da compilare, in cui si chiedeva di
sottoscrivere «norme e regole che sovrintendono
la pratica della religione
»; la distribuzione dei moduli era
accompagnata da minacce ai cristiani:
«Abbandonate la vostra religione
o lasciate il paese».
Il governo del Bhutan, naturalmente,
nega schedature e ultimatum
e afferma che nel paese ognuno è libero
di professare e praticare la propria
fede. Ma la testimonianza dei
cristiani conferma che i non buddisti
soffrono discriminazioni politiche
e sociali e la persecuzione contro i
cristiani è ora estesa e sistematica, villaggio
per villaggio; in alcune città i
cristiani sono malmenati e non possono
riunirsi se non in case private;
non hanno promozioni sul lavoro;
subiscono licenziamenti immotivati,
la revoca di licenze commerciali,
vengono loro negati i benefici dell’assistenza
pubblica.
Su 1,8 milioni di abitanti, il 70,1%
della popolazione del Bhutan è costituita
da buddisti lamaisti, 24%
indù, 5% musulmani e 0,33% cristiani.
Il Bhutan è l’unico regno buddista
nel mondo: l’inno nazionale è
dedicato a Budda; il buddismo è religione
di stato; molti uffici pubblici
sono situati all’interno di monasteri
buddisti. Non ha una costituzione
che garantisce i diritti dei cittadini.

LAOS:
una chiesa da spazzare via

«Tutti i cittadini hanno diritto e libertà
di credere o non credere nelle
religioni» recita l’art. 30 della Costituzione
del Laos, quasi a sancire l’indifferenza
dello stato verso la religione,
anche se l’art. 9 afferma che «lo
stato rispetta e protegge tutte le attività
legali dei buddisti e dei fedeli
delle altre religioni; mobilita e incoraggia
monaci e novizi buddisti, così
come i preti di altre religioni, a partecipare
alle attività che sono di beneficio
al paese e al popolo… Sono
proibiti tutti gli atti che creano divisione
di religioni e classi di persone».
Tale conclusione, piuttosto vaga, è
fatta apposta per giustificare le restrizioni
all’esercizio della libertà religiosa.
L’art. 66 del Codice criminale
«proibisce a qualsiasi individuo di
organizzare o prendere parte a incontri
per creare disordine sociale».
Nel 1998, citando tale articolo, l’ambasciatore
laotiano in Usa spiegava
la filosofia del regime, affermando
che il governo «si oppone fermamente
all’abuso della libertà di religione
per promuovere il dissenso
politico e disordine interno».
Tale politica di «prevenzione» si
traduce in repressione, specialmente
contro la chiesa cattolica. I permessi
per costruire nuove chiese, per
esempio, sono dati solo in quei posti
dove già c’è stata una chiesa cattolica;
per qualsiasi tipo di riunione deve
essere richiesto un permesso speciale
dalle autorità locali a cui va presentata
anche la lista completa dei
partecipanti.
Vari testimoni riferiscono che a subire
maggiormente la repressione è
«la popolazione rurale nel nord del
paese». In diversi villaggi «le autorità
locali hanno esercitato una grande
pressione sulla gente in modo da
prevenire ogni possibile conversione
al cattolicesimo. A tale scopo ci
sono stati numerosi arresti di sacerdoti
e operatori pastorali. Sembra
che il governo usi ogni mezzo per evitare
la crescita del cattolicesimo».
Anche le altre confessioni cristiane
sono nel mirino del regime.
La repressione contro le comunità
cristiane, si è intensificata negli
ultimi anni ’90. Nel mirino ci sono
soprattutto i cristiani, presenti principalmente
tra le etnie minoritarie
hmong e khmu. In alcuni villaggi,
oltre alla rinuncia scritta al cristianesimo,
le autorità forzano i cristiani
a seguire riti animisti, che includono
sacrifici degli animali, bere il
loro sangue e parlare agli spiriti.
Ma anche in quella lao, maggioritaria,
non si fanno eccezioni: tra il
2000 e il 2001, il governo laotiano
ha arrestato e imprigionato oltre
550 cristiani hmong e lao e ha chiuso
in varie province oltre 65 chiese
cristiane e istituti religiosi. Il rapporto
del Dipartimento di stato americano
afferma che nel 2001 vari
cristiani lao «sono stati arrestati, detenuti,
minacciati con la perdita del
lavoro nel governo, fisicamente impediti
dalle forze di sicurezza di
partecipare alle celebrazioni delle
principali festività religiose».
Un caso esemplare: otto leaders
cristiani passarono il mese di giugno
2001 in prigione, perché si erano rifiutati
di firmare un documento in
cui rinunciavano alla fede cristiana.
Fu un mese di torture: venivano regolarmente
trascinati nel cortile della
prigione e «invitati» a firmare tale
rinuncia con una pistola puntata alla
testa. Al momento del rilascio, tre
di essi non erano più neanche in grado
di camminare.
Una trentina di cristiani sono ancora
in carcere, alcuni dei quali da oltre
due anni, per la maggior parte, in
totale isolamento. Altri vengono regolarmente
picchiati.
Il governo comunista del Laos
sembra impegnato a spazzare via la
chiesa dal paese. Impressioni confermate
dai membri della burocrazia
laotiana, in disaccordo con la persecuzione
dei cristiani, riportate dal Telegraph
di Bangkok nel luglio 2001:
«Il Politburo e le maggiori autorità
hanno ripetutamente espresso l’intenzione
di liberare il paese da ciò
che è sprezzantemente descritta come
una fede aliena».

NEPAL: i nipotini… di Mao
Il Codice penale nepalese sanziona
con la detenzione fino a tre anni
chi esercita qualsiasi forma di proselitismo
nei confronti di cittadini
indù. Tale sanzione è sfruttata dagli
estremisti induisti per accusare i
membri di una confessione diversa,
provocandone l’immediato arresto.
Ne hanno fatto le spese il missionario
protestante norvegese Trond
Berg e tre cittadini nepalesi: arrestati
nell’ottobre 2000 con l’accusa di aver
cercato di convertire con denaro
un indù, sono stati rilasciati dopo
quattro mesi, perché al processo non
si sono presentati gli accusatori.
Dal 1996 il Nepal respira un pesante
clima di tensione politica e sociale,
provocata dalla campagna dei
ribelli maoisti per rovesciare la monarchia
costituzionale e istituire una
repubblica comunista. Nella seconda
metà del 2001, numerose stragi
hanno mietuto centinaia di vittime
tra forze dell’ordine e terroristi.
Nel mirino maoista ci sono soprattutto
le scuole private, molte delle
quali hanno ricevuto lettere intimidatorie,
minacce e distruzioni. Dal
2000 hanno già chiuso 150 istituti. La
soppressione del sistema scolastico
privato danneggerebbe un milione di
studenti e 75 mila insegnanti.
Le scuole cattoliche del Nepal occidentale
sono state particolarmente
colpite, ma continuano a lottare
per rimanere aperte. Tali pressioni e
rappresaglie vengono da organizzazioni
politiche filo-cinesi, che si oppongono
alla presenza della chiesa
cattolica nel paese.

TURKMENISTAN:
ritorno alle… catacombe

Quella di Shagildy Atakov è una
storia esemplare di ciò che sta capitando
nel paese. Convertito alla chiesa
battista, 39 anni, moglie e quattro
figli, nel dicembre 1998 Atakov fu incarcerato
e pestato a sangue, fino a
perdere temporaneamente la vista.
Condannato per frode a due anni
di lavoro forzato, in appello la sentenza
fu commutata a quattro anni di
carcere e una multa pari a 12 mila euro.
Nessuno dubita che la sua condanna
sia stata una punizione per la
sua conversione al cristianesimo.
Rifiutatosi di rinunciare alla sua fede
e giurare fedeltà al presidente
Niyazov, Atakov fu sottoposto a maltrattamenti
e vessazioni; ricoverato
all’ospedale per un attacco cardiaco
(2000), fu subito rispedito al campo
di lavoro, poi in cella di isolamento in
un carcere di massima sicurezza.
Per un certo periodo, anche moglie
e figli furono messi agli arresti
domiciliari in un villaggio ai confini
con l’Iran e subirono varie pressioni
dai funzionari di sicurezza, affinché
si convertissero all’islam.
Il caso Atakov ha suscitato scalpore
a livello mondiale. Perfino il Parlamento
europeo e l’Organizzazione
per la sicurezza e la cooperazione in
Europa (Osce) si sono interessati del
suo caso. Ed è, forse, grazie alla pressione
internazionale che Atakov è
stato rilasciato nel febbraio 2002, prima
che scontasse l’intera pena. Ma,
privo di documenti d’identità, egli si
trova ancora sotto sorveglianza.
Casi come quelli di Atakov ne segnalano
a bizzeffe gli organismi in difesa
dei diritti umani. Fin dall’indipendenza
(1991), in Turkmenistan
c’è un crescendo di attacchi contro i
gruppi religiosi minoritari, tanto da
fae il più repressivo dei paesi dell’ex
Unione Sovietica in materia di libertà
religiosa.
Tale diritto è garantito dalla Costituzione
solo sulla carta. Secondo la
legge turkmena, ogni gruppo religioso
deve essere registrato; per ottenere
tale registrazione deve provare di
essere composto da almeno 500 persone
di età superiore ai 18 anni e residenti
nella stessa città. Tali requisiti
fanno sì che nessun gruppo, tranne
i musulmani sunniti (87% dei 4
milioni e mezzo di turkmeni) e la
chiesa ortodossa russa (6,4%), possa
ottenere il riconoscimento legale. I
cattolici (5 mila) e le altre chiese cristiane
hanno comunità di poche decine
di fedeli. Inoltre, col vento che
tira, i cristiani di origine turkmena sono
riluttanti a inserire i loro nomi in
un documento pubblico, rivelando
la loro conversione. Il passaggio dall’islam
al cristianesimo è malvisto dallo
stato e dalla società.
Le comunità religiose non riconosciute,
pur presenti nel paese, non
possono radunarsi, fare proselitismo
o distribuire materiale religioso. Non
è consentito neppure di incontrarsi
in case private: se vengono scoperti,
e lo sono spesso, dato lo zelo della polizia
di sicurezza, i partecipanti sono
soggetti a multe e arresti amministrativi
e accuse penali, che si traducono
in carcerazioni, torture, deportazioni
ed espulsioni, sequestri e distruzioni
di proprietà. L’accanimento
si riversa soprattutto sui leaders dei
gruppi cristiani, per spezzae la resistenza
e forzarli a rinunciare alla fede
o a lasciare il paese.
La chiesa cattolica è autorizzata a
celebrare le funzioni e a svolgere attività
religiose solo sul territorio della
nunziatura apostolica, coperto da
immunità diplomatica.
Ma anche gli unici due gruppi religiosi
riconosciuti dallo stato sono
soggetti a controllo, i musulmani soprattutto.
Per impedire l’ingresso di
movimenti islamici stranieri, il governo
usa vari modi: vieta la distribuzione
di materiale religioso islamico
pubblicato fuori del paese; paga
lo stipendio al clero islamico e
vieta l’insegnamento a certi imam;
chiude scuole coraniche; seleziona e
riduce al minimo i partecipanti al
pellegrinaggio annuale alla Mecca.
La ragione della politica di crescente
repressione della libertà religiosa
è spiegata chiaramente dall’ex
ministro degli esteri turkmeno,
Boris Shikhmuradov, in dissidio col
regime e per questo rifugiatosi a
Mosca: «Il presidente Niyazov
prende personalmente tutte le decisioni
su ogni aspetto della vita del
paese, incluse le questioni religiose,
sebbene egli non abbia alcuna idea
di cos’è la religione. Egli non
tollera alcun dissenso e si serve dei
servizi segreti e polizia di
sicurezza per controllare
il paese».

Dati e fatti riportati sono desunti da varie
fonti, non citate per non appesantire la
lettura, ma consultabili via internet:
– Rapporto 2002 sulla libertà religiosa nel
mondo (Aiuto alla chiesa che soffre)
www.alleanzacattolica.org
– Inteational Religious Freedom Report
for 2002 (Dipartimento di stato Usa)
www.state.gov/g/drl/rls/irf/2002
– Amnesty Inteational (www.amnesty.it)
– Keston News Service (www.keston.org)
– Human Rights Watch (www.hrw.org)

Benedetto Bellesi




IRAQ incontro con la gerarchia cattolica

«QUANTI PRETESTI PER ATTACCARCI!»
Saddam Hussein e le armi sono soltanto pretesti per controllare le ricchezze dell’Iraq.
Perché si attua una politica di 2 pesi e 2 misure? Israele è libero di non rispettare
le risoluzioni dell’Onu senza subire conseguenze, l’Iraq no.
Dichiarazioni fatte da esponenti del governo di Saddam? No, da due alti prelati
della gerarchia cattolica irachena: mons. Warduni, patriarca vicario di Baghdad,
e mons. Isaak, segretario del sinodo caldeo e rettore dell’università.
Due personaggi diversi nel valutare la situazione dei cristiani in Iraq, ma identici
nel denunciare l’ingiustificata aggressione al paese.

INTERVISTA/1: MONS. WARDUNI
Monsignor Ishlemoun Warduni è
patriarca vicario della chiesa cattolica
caldea, a Baghdad.
Monsignore, qual è la situazione
dei cristiani in Iraq oggi?
«Parlare della situazione dei cristiani
in Iraq vuol dire parlare non
di persecuzioni, quanto piuttosto di
restrizioni.
Nel 1980 la comunità cristiana irachena
contava circa un milione di
fedeli, ma proprio da quell’anno,
con l’inizio della guerra contro l’Iran,
la sua situazione ha cominciato
a peggiorare. La guerra del Golfo e
l’embargo imposto nel 1990 l’hanno
fatta poi precipitare, producendo
varie conseguenze come l’emigrazione.
Oggi il numero di cristiani
in Iraq è sceso a 600.000 fedeli.
Con due ulteriori problemi: il fatto
che, nella percezione comune, i cristiani
vengono sentiti come alleati
degli occidentali, piuttosto che come
iracheni; e la progressiva trasformazione
dell’Iraq da paese laico
a paese musulmano, complice la
“Campagna di fede” lanciata dal
governo a metà degli anni 90».
Eppure in Iraq, a differenza dell’Arabia
Saudita per esempio, i cristiani
hanno libertà di culto…
«Per questo parlo di restrizioni e
non di persecuzioni vere e proprie.
Le restrizioni che il governo cerca
di imporre hanno spinto tutti i
vescovi cristiani a protestare, e questa
protesta ha portato alla creazione
di una commissione mista, formata
da rappresentanti del ministero
del culto, dell’istruzione, degli
interni e da vescovi. La commissione
ha prodotto un documento consegnato
al Consiglio supremo della
rivoluzione, e firmato da monsignor
Hawa, vescovo siro-ortodosso e da
me, che non ha avuto però ad oggi
(25/09/2002) nessuna risposta da
parte del governo.
I punti di discussione sono vari.
Alcuni riguardano l’identità dei cristiani
iracheni. Un recente decreto,
per esempio, vieta l’imposizione di
nomi stranieri ai bambini, costringendo
a scegliere tra i nomi “arabi,
iracheni ed islamici”. Sebbene si sia
ancora in attesa di una lista ufficiale
dei nomi permessi, per adesso si
possono usare i nomi biblici riconosciuti
anche dall’islam, ma la loro
forma deve essere quella araba:
Mariam e non Maria, quindi.
Un altro decreto, già applicato
pur non essendo ancora ufficiale, riguarda
più specificatamente la religione.
Se fino ad ora sui documenti
di identità era possibile dichiarare la
propria fede religiosa scegliendo tra
musulmano e cristiano, adesso la
scelta è solo tra musulmano e “non”
musulmano. Un decreto che trasforma
l’identità dei cristiani, che
passano da un “essere” ad un “non
essere” quanto mai incerto nelle eventuali
conseguenze future».
Direbbe quindi che sta diventando
sempre più difficile essere cristiani
in Iraq?
«Direi di sì. Un esempio è quello
che riguarda i figli minorenni di una
coppia in cui uno dei genitori decida
di convertirsi all’islam. I figli,
che prima potevano attendere il
compimento del diciottesimo anno
di età per diventare musulmani, ora
vengono forzatamente e immediatamente
considerati come appartenenti
all’islam. I vescovi hanno
chiesto che a questa conversione
forzata possa almeno far seguito la
libertà di ritorno al cristianesimo alla
maggiore età, una richiesta che
però è stata respinta dato che dall’islam
non si può tornare indietro.
Oltre a ciò, sebbene la costituzione
irachena garantisca la libertà di
culto, il governo a volte chiude un
occhio su episodi che mettono in
dubbio tale libertà. Nella zona di
Mosul, per esempio, un tempo culla
del cristianesimo iracheno e ora
spopolata dai nostri correligionari
per l’emigrazione verso l’estero o
verso la capitale, e dove si sta imponendo
l’islam wahabita di stampo
saudita, ci sono molte pressioni psicologiche
affinché i cristiani rimasti
si convertano all’islam. Pressioni sui
giovani da parte dei loro coetanei di
fede musulmana, e pressioni più
forti, fatte di biglietti attaccati nottetempo
alle porte delle case dei cristiani
e dove è scritto: “Diventa musulmano
e sarai salvato”».
Allora le fonti che parlano di violenze
nei confronti dei cristiani non
sono false. Si citano episodi di incendi
di negozi appartenenti a cristiani,
di una suora uccisa a Baghdad
lo scorso agosto…
«Il governo iracheno ha indagato
su alcuni episodi di violenza, e li ha
imputati alla delinquenza comune,
che affligge questo paese come il resto
del mondo.
Per quanto riguarda la suora uccisa
a Baghdad è successo proprio
vicino alla mia chiesa di Mariam al
‘Adhra. Sorella Cecilia, di 71 anni,
era sola nella casa dove abitava. Le
consorelle erano assenti e lei aveva
rifiutato l’invito dei familiari a fermarsi
a dormire a casa loro. Non voleva lasciare la casa incustodita. È
stata una cosa terribile, hanno chiamato
me e sono stato io a trovarla.
Era svestita, mani e piedi legati insieme,
era stata picchiata… non mi
faccia dire di più, è troppo penoso,
aveva 71 anni e l’hanno uccisa barbaramente.
Hanno portato via i soldi
che aveva in casa, 35 dollari in
tutto e alcuni oggetti d’oro.
La polizia ha indagato e ha trovato
i colpevoli. Sono tre, tutti di questa
zona, uno abita proprio qui dietro
la chiesa. Le autorità hanno assicurato
che subiranno la giusta
punizione per quello che, malgrado
la ferocia con la quale è stato perpetrato,
è stato considerato un atto
di rapina. Un reato comune quindi…».
Una situazione non tranquilla
quindi…
«Sì. Il controllo delle chiese cristiane
è ora passato completamente
al ministero degli affari religiosi,
e la protesta che tutti i vescovi hanno
elevato nei confronti di questa
pesante ingerenza nella vita ecclesiale
non ha ancora avuto risposta.
In più dobbiamo registrare l’aumento
di attacchi nei confronti dei
cristiani apparsi su varie riviste e
giornali, come Babel, il quotidiano
più diffuso a Baghdad e controllato
dal governo, gli insegnamenti anticristiani
che si diffondono in ambito
scolastico, dove spesso si ricorre
alla similitudine: cristiani = crociati,
e il tentativo di minare i fondamenti
della nostra fede, per esempio
censurando i libri e le riviste che
contengano il riferimento a Gesù
come Figlio di Dio, in favore della
visione islamica della stessa figura
di Gesù: non più Figlio di Dio, ma
semplice profeta anteriore a Maometto».
Come influiscono i 12 anni di embargo?
«L’embargo ha colpito tutti gli iracheni,
indipendentemente dalla
fede. Ha creato una situazione di
tensione sociale prima sconosciuta,
nella quale valori consolidati, come
il rispetto per il credo altrui, si stanno
perdendo, e la Campagna di fede
varata dal governo sta ulteriormente
allontanando il paese dalla
laicità che lo contraddistingueva.
In questo contesto, fatto anche
dei continui attacchi dell’Occidente
(che mira ad impossessarsi delle
risorse del paese) e della politica di
due pesi e due misure applicata all’Iraq
e ad Israele (libero di non rispettare
le risoluzioni delle Nazioni
Unite senza subie alcuna conseguenza),
i cristiani, visti come più
vicini all’Occidente nemico che all’Iraq,
subiscono discriminazioni e
restrizioni. Malgrado, e voglio sottolinearlo,
il nostro essere e sentirci
iracheni. Si può dire che, se come
comunità fossimo sistematicamente
perseguitati, soffriremmo due
volte, in quanto perseguitati e sottoposti
ad embargo; non è così, ma
in quanto minoranza, noi soffriamo
una volta e mezza gli iracheni musulmani.
La sola speranza è che l’embargo
finisca, che l’Iraq riprenda ad essere
un paese normale, e che nella
normalità anche i cristiani, presenti
in questa terra dall’inizio della cristianità,
ritrovino la pace e la sicurezza».

INTERVISTA/2: MONS. ISAAK
Monsignor Jacques Isaak è segretario
generale del Sinodo dei vescovi
caldei e rettore del «Pontifical
Babel College for Philosophy and
Theology», a Baghdad.
Che importanza ha avuto, nell’ambito
del cammino ecumenico tra le
chiese caldeggiato da Giovanni Paolo
II, il decreto sinodale congiunto
del 1997, sottoscritto dal patriarca
della chiesa cattolica caldea, Mar
Raphael Bidawid I, e dall’eminenza
Mar Dinkha IV in rappresentanza
della chiesa assira dell’Est?
«L’ecumenismo è una caratteristica
delle chiese presenti in Iraq, e
in questo senso il decreto sinodale
non fa altro che sancire legalmente
una pratica già applicata normalmente.
Lo stesso fatto che nella nostra facoltà
teologica gli studenti appartengano
a varie chiese, dipendenti
o meno da Roma, pone delle solide
basi per l’ecumenismo vissuto come
condivisione della comune fede in
Cristo.
È capitato, per esempio, che due
seminaristi, uno caldeo ed uno assiro,
siano stati destinati per la loro azione
sacerdotale in due piccoli villaggi
nel nord dell’Iraq. Il fatto di aver
studiato e vissuto insieme per 7
anni, nel nostro collegio, ha cementato
la loro amicizia al punto che
quando uno dei due doveva assentarsi,
l’altro lo sostituiva, con piena
soddisfazione di entrambe le comunità
di fedeli.
Gli ostacoli al ritorno ad una sola
chiesa, com’era prima del 1551, non
esistono nella vita di tutti i giorni;
semmai sono posti dalle gerarchie
delle due chiese. A livello gerarchico,
per esempio, la chiesa assira dell’Est
ha due patriarchi: Mar Dinkha
IV, la cui sede è negli Stati Uniti, e
Mar Addai II, residente a Baghdad.
Se il decreto congiunto è stato ratificato
dal patriarca con sede in America
non è perché il Vaticano gli
riconosca una maggiore autorità,
ma perché Mar Addai è più conservatore,
pone maggiori resistenze all’ecumenismo,
e non intende cedere
l’indipendenza della sua chiesa in
favore di una qualsiasi forma di riconoscimento
dell’autorità papale.
Autorità che, peraltro, noi cattolici
caldei non ci sogneremmo mai di
mettere in discussione».
Nessun problema quindi tra i cristiani
in Iraq… e i rapporti con i
musulmani?
«Tutte le minoranze, in qualsiasi
paese, hanno dei problemi; tutto
sommato però il quadro della situazione
in Iraq è buono. In passato sono
stato per quattro anni vescovo di
Arbil, nel nord del paese, dove mi
trasferii con mia sorella. A Baghdad
rimase solo mia madre che continuò
a vivere in questa casa, in una strada
in cui la nostra era ed è l’unica famiglia
cristiana. Ebbene mia madre
non ha mai avuto nessun problema,
e ha trovato nei musulmani dei buoni
vicini, pronti a darle una mano
quando necessario».
Ed i rapporti tra le chiese e il ministero
degli affari religiosi che controlla
ogni aspetto della vita religiosa
del paese, anche quella dei
cristiani, in che termini sono?
«È una disputa, questa, di vecchia
data. Il precedente patriarca, Paul
Checko II, ebbe molti anni fa una
violenta discussione a proposito
dell’indipendenza delle chiese cristiane
dal ministero degli affari religiosi,
con l’allora ministro Faïsal
Chaher.
La faccenda si risolse con la rimozione
dal suo incarico del ministro,
voluta dal governo. Attualmente
il ministro è un laico laureato
in teologia, Abdul Munem, al
quale, sempre a proposito dello
stesso argomento, è stata indirizzata
una lettera di protesta da parte
dei vescovi. Non c’è ancora stata risposta;
per cui adesso la questione
è congelata».
Lei nega l’esistenza di problemi di
convivenza tra la popolazione, e mi
cita l’esempio di sua madre, a Baghdad.
La situazione è uguale nel
resto del paese? Cosa dice della dislocazione
forzata che colpisce le
popolazioni non arabe della zona
di Kirkuk?
«Tale processo esiste, ma non riguarda
i cristiani, bensì i kurdi ed i
turcomanni. Ai cristiani, anzi, il governo
ha concesso delle terre proprio
in quelle zone…».
Perché questo favoritismo nei confronti
dei cristiani?
«Perché il governo tiene alla cultura
dei cristiani, perché la preservazione
di una piccola, ma comunque
colta comunità cristiana, può
essere utile a fronteggiare il vero pericolo,
quello degli integralisti islamici.
Dopo i fatti dell’11 settembre anche
l’Occidente si è accorto del pericolo
che un certo islam può rappresentare.
Noi lo dicevamo da anni
con il risultato di essere stati
tacciati di fondamentalismo cristiano».
Questo interesse comune tra governo
e cristiani contro il fondamentalismo
islamico spiegherebbe
l’ordine del governo iracheno di
punire eventuali attacchi ai cristiani
all’indomani dell’inizio della
guerra in Afghanistan. Ora che l’Iraq
si trova ad affrontare «direttamente
» il pericolo di una guerra, lei
pensa che tale protezione ai cristiani
verrà di nuovo accordata?
«Sì. Il governo è il partito Baath.
E il Baath è laico e, se non accordasse
la protezione ai cristiani, negherebbe
la sua stessa essenza. Il governo
è contro l’islam fondamentalista,
tanto è vero che la censura
colpisce di più i libri provenienti
dall’estero di matrice islamica che
quelli di argomento religioso cristiano.
È vero che per decreto non si può
menzionare in un libro Gesù come
figlio di Dio, ma il controllo non è
così severo. Recentemente la commissione-
censura del ministero degli
affari religiosi ha preteso la cancellazione
di tale riferimento in un libro
sulla santissima Trinità, ma l’autore,
che è un sacerdote, ha reinserito la
formula e lo ha dato alle stampe nella
versione originale, e per adesso
nessuno ha trovato niente da dire.
Una situazione tranquilla quindi…
Ma allora perché le fonti d’informazione
estere sui cristiani iracheni,
americane soprattutto, parlano
di persecuzioni e violenze?
«L’esagerazione dei problemi è
volta a favorire la fuga dei cristiani
verso l’estero; cristiani che possono,
nella loro ricerca di una nuova patria,
fare appello alle persecuzioni
religiose. Tale esagerazione, però, è
dannosa per i cristiani che rimangono
in Iraq, tanto è vero che io
stesso, durante il mio ultimo viaggio
in America, ho accusato la nostra
comunità di egoismo, di non
pensare a chi, qui, potrebbe essere
danneggiato da una tale campagna
denigratoria verso il nostro governo.
Non c’è ragione per cui i cristiani
abbandonino il paese.
Se il nostro futuro è incerto è per
la guerra che il mondo ci muoverà,
per controllare le nostre ricchezze.
Il nostro petrolio è ciò che l’Occidente
vuole; tutto il resto (il governo
guidato da Saddam Hussein,
le armi di distruzione
di massa) sono
solo pretesti».

Luigia Storti




«ALLA GUERRA! ALLA GUERRA!»

Tutti dietro a George W. Bush?
L’ossessione per la guerra del presidente statunitense,
la sudditanza dei governi,
la propaganda dei media, l’impotenza dei popoli.

«Le umiliazioni – scrive Simone Weil (Lettera a
Georges Beanos, 1938) – che il mio paese infligge
sono per me più dolorose di quelle che può subire».
Non sappiamo con certezza se l’Italia parteciperà alla
guerra di George W. Bush contro l’Iraq. Pare però
che la strada sia segnata. Il ministro Martino ha già
fatto sapere (17 dicembre) che le forze militari statunitensi
saranno gradite ospiti sul territorio e nello spazio
aereo italiani (1).
Parlare di pace e non violenza di questi tempi non è
facile. Si rischia di essere ridicolizzati, perché sputiamo
(noi pacifisti) nel piatto in cui mangiamo, perché
non capiamo (o non vogliamo capire) come vanno le
cose del mondo, perché non siamo riconoscenti con
chi ci sta salvando dal male e dai cattivi. Ma questo è
un rischio che si deve correre, almeno per essere a
posto con la propria coscienza: «Quello che ciascuno
di noi deve fare – ha scritto il premio Nobel José Saramago
– è rispettare in primo luogo le proprie convinzioni,
non tacere in nessun caso e in nessun luogo.
Pur sapendo che non cambierà niente, ma con la certezza
che almeno tu non stai cambiando».
IL PAPA O… LA NATO?
«La bibbia è piena di guerre» ci scrisse una volta un
lettore molto irritato per le nostre posizioni pacifiste
rispetto all’ennesima guerra «giusta» (quella del Kosovo)
(2).
In queste occasioni, è interessante notare come le dichiarazioni
del papa vengano utilizzate. Quando esse
sono «funzionali» a un obiettivo, allora tutti sono pronti
a citarle, chinando il capo: «Il santo padre ha detto…».
Quando invece «disturbano», allora, come d’incanto,
nei discorsi dei politici, nei telegiornali, nelle pagine dei
giornali tutto cambia. Forse le dichiarazioni non scompaiono
del tutto, ma certo diventano meno rilevanti,
più piccole, sfumate, nascoste tra le righe o relegate
dopo altre notizie, altre dichiarazioni, altre immagini.
Nel messaggio per la giornata mondiale della pace
(1°gennaio 2003), Giovanni Paolo II non ha nascosto
la propria delusione per l’Organizzazione delle Nazioni
Unite: «la prospettiva di un’autorità pubblica internazionale
a servizio dei diritti umani, della libertà
e della pace, non si è ancora interamente realizzata»
(3). Inoltre, si legge più avanti, la mancanza di fiducia
porta la gente a «credere sempre meno all’utilità del
dialogo e confidare invece nell’uso della forza come
via per risolvere le controversie».
A natale non soltanto il papa ha parlato chiaramente
in favore della pace e contro la guerra. In Gran Bretagna
(il cui governo è un fedelissimo socio degli Usa)
anche Rowan Williams, neoarcivescovo di Canterbury
e primate della chiesa anglicana, è stato molto duro
contro i leaders del mondo, pronti ad infliggere nuove
sofferenze a popolazioni innocenti. Eppure sui media
è stato dato più rilievo all’opinione di George Robertson,
segretario generale della Nato. Secondo Robertson,
l’Alleanza Atlantica ha l’«obbligo morale» di
appoggiare gli Stati Uniti in caso di guerra all’Iraq.
Nell’era dell’iper-informazione, paradossalmente (ma
non tanto) è sempre più difficile essere informati correttamente
(4). A meno di non trascorrere il tempo a
mettere insieme i tasselli del «puzzle». Prendiamo, ad
esempio, la chiesa cattolica statunitense, sotto fortissima
pressione (soprattutto mediatica) a causa dello
scandalo della pedofilia. Domandiamoci questo: come
mai proprio ora e in modo così virulento? Non è
che il governo Usa voglia mettere al muro potenziali
e pericolosi oppositori ai propri progetti di guerra e
dominio? Come mai non si parla degli scandali che
coinvolgono l’esercito americano (dall’aereo militare
che fece strage in Trentino alle violenze perpetrate in
Giappone e da ultimo in Corea del Sud)?
Non è un azzardo affermare che queste sono scelte
del potere, per portare la gente dalla propria parte.
«CUI PRODEST?»
Che dietro la guerra all’Iraq ci siano interessi economici
sono quasi tutti ad ammetterlo (magari sottovoce).
Petrolio, industrie belliche, recessione statunitense
«vogliono» questa guerra.
Gli Usa non si fidano più dell’Arabia Saudita e quindi
debbono rimpiazzare il petrolio di Riyadh con quello
di Baghdad. D’altra parte, George W. Bush viene da
una famiglia di petrolieri e annovera tra i propri sponsors
elettorali le maggiori aziende mondiali nel campo
della produzione militare (aerei, missili, sistemi elettronici,
artiglieria): Lockheed Martin, Northrop
Grumman, General Dynamics, Raytheon. Nonostante
la fortissima depressione che caratterizza tutte
le borse mondiali, queste compagnie hanno visto
un costante incremento del valore delle loro azioni (fino
all’85%) a partire dall’11 settembre 2001 (5). Fatto
abbastanza comprensibile, se si guarda al crescente
budget militare statunitense, che da solo rappresenta
il 40% della spesa mondiale per la difesa. Già prima
dell’incremento per il 2003, gli Usa spendevano
più del doppio di tutti i 15 membri dell’Unione europea
messi insieme.
Infine, c’è la crisi economica degli Stati Uniti (finora
rimasta nascosta sotto la retorica della priorità della
lotta al terrorismo), che potrebbe essere attenuata (almeno
nel breve periodo) da una guerra a Saddam.
Insomma sono tanti gli interessi «privati» collegati al
conflitto. Proprio per questo George W. Bush e il suo
entourage hanno deciso da tempo che la guerra s’ha
da fare, indipendentemente dalle Nazioni Unite, dalle
relazioni degli ispettori, dalla contrarietà della maggior
parte dell’opinione pubblica mondiale.

NECESSARIA, DOVEROSA, POSSIBILE
Ha scritto Giorgio La Pira (Utopia o morte, 1974):
«No. La pace non è un’utopia, è il fine universale, fondamentale
della storia dell’umanità intera… La pace
è necessaria. La pace è doverosa. La pace è una certezza.
La pace è possibile». Purtroppo, l’insigne giurista
e politico democristiano non poteva prevedere
quanti progressi avrebbe fatto la propaganda di guerra,
assieme alla capacità di stravolgere i fatti (6) e soprattutto
i concetti di bene e male, di giusto e ingiusto.
Durante la prima guerra del Golfo i militari scrivevano
«frasi augurali» sui missili destinati ai bombardamenti,
oggi sui carri armati statunitensi è stato scritto:
«All the way to Baghdad». Che questa sia la sicurezza
dei «giusti» è tutto da dimostrare.
Si calcola che la guerra costerà un milione di dollari
al giorno. Nel computo economico mancano le vite umane,
le devastazioni materiali e l’esacerbarsi degli
«odi» in molte parti del mondo. «È il prezzo da pagare
alla pace futura, al mondo senza Saddam ecc. ecc.»
dirà qualcuno. Rispondiamo con le parole del professor
Ahmed S. Hashim (7): «Nel mondo arabo molti sono
convinti che i rappresentanti dell’amministrazione
Bush non siano motivati da un sincero desiderio di vedere
realizzata la democrazia in questa regione, bensì
da ragioni strumentali: nel senso che qualsiasi futuro
regime arabo verrebbe considerato democratico
purché non si opponga ai disegni degli Stati Uniti e di
Israele in questa parte del mondo (…). Se il Congresso
nazionale iracheno (8) giungesse al potere e decidesse
di rinunciare alle armi di distruzione di massa,
vendere a basso prezzo il petrolio alle compagnie americane,
stabilire rapporti con Israele e dissociarsi
dal resto del mondo arabo, il nuovo governo verrebbe
considerato democratico, anche se si dimostrasse
incapace di assicurare davvero la libertà».
Necessaria, doverosa, possibile non è la guerra, ma
la pace. Eppure ancora in troppi sono convinti del contrario.

IL CAMMINO VERSO LA GUERRA
(dal 19 dicembre 2002 al 27 gennaio 2003) (*)
19 dicembre: LA CONDANNA DI POWELL
Il rapporto di Baghdad sullo stato del proprio arsenale bellico non
soddisfa le attese degli Stati Uniti. Il segretario di stato Colin Powell
parla di violazione palese della risoluzione 1441.
20 dicembre: BUSH VUOLE LA GUERRA
George W. Bush non è soddisfatto del contenuto delle 12.000 pagine
del dossier stilato dall’Iraq. Il presidente Usa autorizza l’invio
nella regione di altri 50.000 militari, che si vanno ad aggiungere
ai 60.000 già in loco. La guerra sembra dietro l’angolo, anche se
l’Onu non ha ancora sentito gli ispettori né votato.
25 dicembre: GIOVANNI PAOLO II INVOCA LA PACE
Durante il messaggio «Urbi et Orbi», il papa invoca la pace per «spegnere
i sinistri bagliori di un conflitto, che con l’impegno di tutti
può essere evitato».
26 dicembre: IL «DOVERE MORALE» SECONDO ROBERTSON
Il segretario generale della Nato, George Robertson, afferma che
l’Alleanza Atlantica ha il «dovere morale» di appoggiare un eventuale
intervento armato statunitense contro Baghdad.
1-3 gennaio 2003: L’ENTUSIASMO DEI MILITARI USA
Mentre il papa ripete che la pace è doverosa e possibile, Bush (con
giubbotto militare) arringa gli uomini e le donne in partenza per il
Golfo. I soldati, entusiasti, sventolano bandierine a stelle e strisce.
3-6 gennaio: ANCORA BOMBARDAMENTI ANGLO-AMERICANI
Continuano i bombardamenti anglo-statunitensi nelle «no-fly zones
» dell’Iraq. Le azioni sono ormai quotidiane. Le zone di non-volo
NON sono mai state autorizzate dall’Onu.
27 gennaio: GLI ISPETTORI PARLANO ALL’ONU
Arriva la relazione definitiva degli ispettori. Da essa dovrebbe dipendere
ogni futura mossa. Bush accetterà un’eventuale decisione
del Consiglio di sicurezza contraria alla guerra?
(*) La prima parte di questa cronologia della guerra è stata pubblicata
nel nostro dossier sull’Iraq di dicembre 2002.

NOTE:
(1) Basi Usa in Italia: Aviano, Camp Darby, Capodichino,
Maddalena, Trapani, Brindisi, Sigonella. Basi Nato:
Gaeta, Bagnoli, Decimomannu, Augusta, Gioia del Colle.
(2) Per le lettere pro e contro la guerra pervenute alla
nostra redazione si veda M.C., settembre 1999.
(3) Messaggio pubblicato su L’Osservatore romano del
18 dicembre 2002.
(4) Si legga il capitolo Manuale per la propaganda di
guerra, nel libro di Carlo Gubitosa, L’informazione
alternativa, Emi 2002.
(5) Si veda il dossier sul supermarket delle armi pubblicato
sul numero di novembre di Mosaico di pace, la rivista
di Pax Christi.
(6) Sulla «guerra infinita» inventata da George W. Bush
esiste un’ampia letteratura. Qui segnaliamo: Michel
Chossudovsky, Guerra e globalizzazione, Ega, Torino
2002; John Pilger, I nuovi padroni del mondo,
Fandango Libri, Roma 2002; Giulietto Chiesa, La guerra
infinita, Feltrinelli, Milano 2002; Aldo Musci, La quarta
guerra mondiale, Datanews, Roma 2002.
Sugli affari tra la famiglia Bush e la famiglia Bin Laden
nell’ambito del gruppo «Carlyle» si veda il settimanale
Internazionale del 6 dicembre 2002.
(7) Si veda Limes di novembre-dicembre 2002.
(8) L’eterogeneo raggruppamento che si oppone a
Saddam Hussein.

Paolo Moiola




PERÙ viaggio nelle carceri

LA DIGNITÀ SEQUESTRATA

Dopo il decennio di Fujimori, da due anni il Perù è tornato alla democrazia.
Ma nelle carceri la strada da percorrere è ancora lunga.

«VENGO DALL’ITALIA.
VORREI VISITARE IL DETENUTO…»

Un’insegnante di italiano passa dalle conversazioni
con i genitori dei suoi alunni a quelle con i detenuti
nelle carceri del Perù.
Un’esperienza «sconvolgente, ma anche arricchente
e stimolante».

di Franca Pesce (*)
(*) Laureata in lettere all’Università cattolica
di Milano, FRANCA PESCE è insegnante
di italiano a Torino. Dall’anno
del giubileo si occupa della situazione
nelle carceri peruviane, aiutata
anche dai figli Melissa ed Alessandro.
Fa parte dell’associazione «Yanamayo»,
con sede a Vicenza.
Dall’anno del giubileo sono
entrata in corrispondenza
con alcuni prigionieri politici
peruviani del Movimento Rivoluzionario
Tupac Amaru (M.R.T.A.),
che nel luglio scorso sono andata a
visitare, per rendermi conto della situazione
che mi veniva esposta attraverso
le loro lettere.
È stata un’esperienza sconvolgente,
ma anche arricchente e stimolante,
da cui ho tratto insegnamenti
morali ed umani che oggi cerco
di comunicare e condividere con
i miei alunni.
Il Perù sta vivendo in una democrazia,
ma mantiene in carcere numerosi
prigionieri politici processati
da tribunali militari in base a leggi
emanate durante la dittatura di
Fujimori. Spesso la detenzione si
svolge in carceri situate lontano dai
luoghi d’origine e crea quindi difficoltà
oggettive per la visita dei familiari.
Lo stato sembra presente solo nel
suo aspetto repressivo: non riconosce
i suoi torti e non risarcisce, se
sbaglia. Chi è povero non può difendersi
da accuse ingiuste, perché
non può permettersi di assumere un
avvocato che si occupi del suo caso.
In un paese che oggi vuole giustamente
essere definito democratico,
si continuano a costruire carceri,
si reprime, ma non si eliminano
le cause del malessere sociale e
non si aiuta chi si trova in difficoltà.
Durante il mio viaggio, ho avuto
l’opportunità di visitare alcune carceri
(a Lima, Chorrillos, Chimbote,
Trujillo, Chiclayo) e parecchi prigionieri
politici del movimento Mrta,
osservare la loro situazione e
quella dei loro visitatori.
Queste sono alcune delle impressioni
che ne ho ricavato.

L’UMILIAZIONE
DELLE PERQUISIZIONI

All’entrata delle carceri le difficoltà
sono nate dall’arbitrio delle
guardie che quasi sempre cercano
di creare problemi, di intimidire i
visitatori e scoraggiae le visite.
Il giorno in cui mi sono recata al
carcere (penal) di Castro Castro a
Lima (dove ho visitato Juan Antonio
Leon Montero, Maximo Gargate
Cerda ed altri), quando ho presentato
i miei documenti al primo
controllo, non mi è stato reso quello
attestante il mio soggiorno. Alla
mia richiesta di restituzione, la
guardia ha finto di cercare e poi me
l’ha porto.
Alla porta d’ingresso, invece, si è
presentato il problema di una torta,
acquistata poco prima; essa non poteva
entrare perché, a detta della
guardia, poteva contenere droga. In
seguito alla mia richiesta di parlare
col direttore, mi è stato detto che avrei
dovuto tagliarla. Alla fine, la
torta è stata fatta passare intatta.
Alcuni giorni dopo, il problema si
è presentato con alcuni libri che io
avevo fotocopiato. Erano libri foitimi
da un interno e dunque portavano
già la stampigliatura della revisione
carceraria. Eppure mi hanno
detto che dovevano essere
sottoposti ad una nuova revisione.
Forse, per evitare questi inconvenienti,
avrei dovuto essere più gentile
facendo «cadere» o «perdendo»
qualcosa…
La perquisizione corporale viene
fatta da personale femminile, ma sovente
il suo comportamento umilia
chi subisce il controllo: madri, sorelle,
fidanzate, amiche dei carcerati.
Una madre mi ha confidato che si
possono subire palpeggiamenti osceni.
In un’occasione lei non ce
l’ha più fatta e ha reagito dando uno
schiaffo alla guardia e dicendole
che avrebbe dovuto vergognarsi e
pensare a che cosa proverebbe se
un domani accadesse a lei una cosa
simile.

MATRIMONIO NEL CARCERE
DI CHORRILLOS

Anche per entrare nel carcere
femminile di Chorrillos, alla periferia
di Lima, ho dovuto affrontare
qualche discussione.
Una guardia mi rispondeva dallo
spioncino, ma mi negava l’entrata.
Alle mie insistenze, è stato chiamato
un superiore.
Egli, evidentemente lusingato di
parlare con un’italiana, prima si è
intrattenuto con me a discutere di
mafia, di Roma e Venezia, di vini,
poi mi ha fatto entrare. Ringalluzzito,
ha dichiarato che le italiane sono
belle. Io ho risposto che anche le
peruviane lo sono, così come i peruviani. Ormai conquistato, finalmente
mi ha portato dalle detenute,
che ormai temevano avessi rinunciato
a visitarle.
Mi sono intrattenuta con loro:
Carolina Curahua Huerta, sua sorella
Delia, Hormecinda Feandez
Bravo, Lucinda Rojas Landa, Lucy
Garcia Lopez, Marcela Gonzales
Astudillo, Maria Concepcion Pincheira,
Milagros Chavez Gonzales,
Mirka De La Pietra Oliva, Nancy
Cuyubamba Puente, Pilar Hinojosa
Tellez, Yanire Bautista Saavedra,
Yolanda Cruz Santillan.
Tutte erano contente di vedere una
persona che arrivava da tanto
lontano e avevano un atteggiamento
dolce ed affettuoso.
Una di loro, la cilena Marcela, si
era sposata la settimana prima con
un suo amico d’infanzia, anch’egli
cileno, con una cerimonia officiata
dal cappellano, il comboniano padre
Luigi Gasparini, che le seguiva
con dedizione da anni (ma che, purtroppo,
pochi giorni dopo sarebbe
stato trasferito negli Stati Uniti, interrompendo
un lavoro di autentica
solidarietà cristiana e lasciando
un grande vuoto tra coloro che ne
avevano ricevuto aiuto e attenzione).
La cerimonia è stata molto
commovente, mista a sorrisi e lacrime.
Quasi tutte le settimane lo sposo,
innamoratissimo, si reca dal Cile
a visitare sua moglie, con cui non
può avere alcun momento di intimità,
in quanto alle donne è impedito
appartarsi da sole con uomini,
anche se questi sono mariti o fidanzati.
Le visite avvengono in presenza
di una guardia, che ne controlla
la «moralità».
Nelle carceri maschili, invece, tali
impedimenti non esistono, ma
spose, fidanzate e anche prostitute
possono entrare nelle celle degli uomini,
senza «controlli».

SOLTANTO
CON MENTE E CUORE

Al Penal Cambio Puente di Chimbote,
una prima guardia mi ha chiesto
soldi per l’acquisto di una scopa;
da una seconda guardia mi sono
stati chiesti 20 soles per articoli
di pulizia per i carcerati. Ho rifiutato,
chiedendo di poter parlare col
direttore, che però non era presente.
Mi sono allora avviata verso un
breve corridoio, stretto tra il muro
dell’ufficio e una parete di maglie di
ferro. La guardia mi ha richiamata,
dicendomi che non potevo stare lì,
perché pericoloso.
Le ho risposto che non capivo cosa
ci fosse di pericoloso, in quanto
non ero armata, ma soltanto dotata
di mente e cuore. Ho dovuto comunque
tornare indietro. Nel frattempo,
però, la mia presenza era
stata notata dagli interni, detenuti
comuni, che avevano iniziato a protestare
perché potessi visitarli. Grazie
a loro mi è stato concesso di accedere
al patio e parlare a lungo con
alcune intee (Anatolia Falceto,
Nelida Mundaca Diaz, Celina
Saenz ) e uno sfortunato marocchino,
Barry Palhavi Amar.
Mi ha colpito vedere che si aggirava
in mezzo a loro un bambino di
circa 5 anni, anche lui prigioniero in
quanto figlio di una detenuta, che
non aveva alcun familiare che si occupasse
di lui.
Quando sono entrata nel Penal El
Milagro di Trujillo, a non andare bene
erano le mie scarpe da ginnastica
color rosa. Ho chiesto spiegazioni
e mi è stato nuovamente risposto,
in tono arrogante, che non sarei potuta
entrare con quelle scarpe. Ho
protestato, chiedendo di parlare
con un superiore; mi è stato detto
che dovevo risolvere il problema
con la guardia. Alla fine, al gesto di
togliermi le calzature, mi è stato
permesso di entrare con le stesse ai
piedi.
A Trujillo ho visitato, nella parte
maschile, Moises Sancez, Victor Saquinaula,
Alberto Huaman e, nella
parte femminile, la signora Victoria
Salgano, moglie di Victor Saquinaula.

EMILIO, IL DETENUTO
CHE AMAVA L’ITALIANO

I problemi maggiori si sono presentati
nel Penal Picsi di Chiclayo,
dove ho incontrato Edisson Mori
Barrientos, Oscar Ordonez Huaman
e soprattutto Emilio Villalobos
Alva, ingegnere di 46 anni, condannato
all’ergastolo, molto interessato
alla lingua italiana e alla nostra
cultura.
In questo carcere le guardie spesso
attuano perquisizioni corporali
umilianti, che hanno indotto i detenuti
a protestare e ottenere che la
perquisizione avvenga solo alzando
gonna e camicetta e mostrandosi in
mutande e reggiseno.
Per quanto mi riguarda, i problemi
maggiori sono venuti dallo stesso
direttore del carcere, comandante
Victor De la Cruz Chafalote. Cosa
ha fatto il direttore? Di tutto pur
di rendere difficile il mio incontro
con i detenuti e, soprattutto, impedirmi
l’insegnamento dell’italiano e
della nostra cultura attraverso lezioni,
libri e videocassette. Mi ha indignato
che, invece di favorirlo, il
direttore e personale di guardia fossero
impegnati ad annientare il progresso
spirituale e culturale dei carcerati,
nonché a umiliare e allontanare
i loro familiari.
Per la mia ultima settimana, Emilio
Villalobos Alva aveva richiesto
che io potessi entrare al di fuori del
giorno di visita (permesso che viene
normalmente concesso a familiari
ed amici che vivono lontano e
che raramente possono recarsi in visita).
Il direttore Chafalote non ha stilato
alcun permesso scritto, ma verbalmente
ha consentito che io potessi
entrare il lunedì, martedì, giovedì,
venerdì seguenti.
Purtroppo il lunedì, non essendoci
un permesso scritto, mi hanno
fatto attendere per circa due ore al
primo posto di controllo. Poi, anche
a seguito di proteste fatte dagli
interni del carcere, sono entrata, ma
ho chiesto chiarimenti al direttore.
Questi, in presenza dei suoi collaboratori,
mi ha assicurato che l’indomani
sarei potuta entrare dalle 10
alle 11.
Il giorno dopo, però, presentatami
puntuale alle 10, mi hanno fatto
attendere perché non esisteva un
permesso scritto. Verso le 11,30 è
arrivato il direttore: a lui mi sono rivolta
per chiedere spiegazioni sull’accaduto
e mi ha assicurato che sarei
entrata subito. Ho invece dovuto
aspettare ancora, poi sono stata
invitata a parlare col direttore, che
si era sentito offeso per le mie rimostranze
e che perciò aveva deciso
che quel giorno dovevo ritornare
a casa.
Io ho risposto che, se questa era
la sua decisione, io l’avrei accettata,
ma comunque sarebbe stato meglio
da parte sua una posizione più chiara.
Gli ho accennato al ruolo rieducativo
delle carceri, ma non credo
che abbia inteso.
Poco dopo, stranamente, il direttore
ha capovolto la sua decisione,
consentendomi di entrare, ma relegandomi
nell’ufficio di psicologia,
un locale sporco e squallido. Non
potendo usare i libri, che erano nella
cella di Villalobos, ho utilizzato il
tempo parlando del contenuto e dei
personaggi de I promessi sposi, che
per molti versi propongono situazioni
simili a quelle che si stanno verificando
in Perù (Chafalote mi ha
ricordato la figura di don Abbondio).
Nel frattempo EmilioVillalobos,
è stato chiamato a rapporto. Il direttore
gli ha fatto intendere che era
disposto ad aiutarlo per l’ingresso
dell’apparecchio televisivo e del
videoregistratore fermi in «revisione
» (erano gli strumenti didattici
che io e alcuni amici gli avevamo regalato)
e anche a favorire una visita
«intima», «particolare».
Davanti alla reazione indignata
del detenuto, il direttore voleva che
mi informasse di riportare via quegli
strumenti. Villalobos si è rifiutato
di farlo, aggiungendo che egli in
persona avrebbe dovuto informarmi
di questa sua decisione. (Ho saputo
che in seguito il direttore ha
stilato un rapporto di mala conducta
del prigioniero politico in questione,
che potrebbe ritardargli
l’applicazione di eventuali «benefici
» carcerari).

«MA È UN PRIGIONIERO
DI “MAXIMA”!»

Al termine della mia lezione d’italiano,
una guardia mi ha comunicato
la decisione del signor direttore.
Io ho risposto che non mi sarei
ripresa né televisione né videoregistratore
e che inoltre avrei portato
a conoscenza del fatto i superiori, le
associazioni di diritti umani e i giornali.
A quel punto, il direttore mi ha
convocato e in disparte mi ha detto:
«Ma cara signora questo è un
prigioniero di Maxima!», aggiungendo
che io non avevo capito come
occorreva comportarsi. Ho risposto
che sarebbe stato più intelligente
e fruttuoso chiedermi un
programma sugli argomenti che avrei voluto trattare ed estendere
questa opportunità a più prigionieri,
invece di impedirmi di fatto di
poter insegnare.
Esausta per tanto mercanteggiare,
il giovedì e venerdì non mi sono
più recata nel carcere, ma, preoccupata
per la sorte delle nostre strumentazioni,
sono andata dal console
onorario di Chiclayo, Antonio Rinaldi,
cui ho consegnato la mia
testimonianza scritta. Il console mi
ha accolta con gentilezza e mi ha
fatto conoscere la direttrice dell’Associazione
italiana di Lambayeque,
nonché insegnante di italiano,
Carmen Clara Gamallo Palao. Per
suo merito siamo state ricevute dal
direttore regionale delle carceri del
Nord (Inpe Norte), Manuel Silva
Palacios, che ci ha assicurato che
tutto si sarebbe sistemato. Anzi,
questi si è spinto più in là dichiarando
che il signor Villalobos era un
prigioniero di grande intelligenza e
ottima condotta.

UNA STORIA DI LIBRI,
DIZIONARI E CULTURA

Dopo essere rientrata in Italia, ad
agosto ho inviato una grammatica,
un libro di proverbi e due di narrativa
ad una signora peruviana (per
precauzione, non ne scriviamo il
nome), che li ha portati nel carcere
di Picsi alla fine del mese.
Qui ha dovuto subire una perquisizione
corporale molto intrusiva,
per un evidente scopo punitivo
e intimidatorio. Infine gli stessi libri,
dopo circa due mesi di «revisione
», senza alcuna giustificazione
da parte delle autorità carcerarie e
senza alcuna comunicazione al signor
Villalobos cui erano destinati,
sono stati riportati da due guardie a
Lima, a casa della signora che li aveva
portati.
Contro tale episodio è stata fatta
formale denuncia dal detenuto interessato
alle autorità competenti.
Emilio Villalobos non si è dato
per vinto. Il 16 settembre ha iniziato
a insegnare gratuitamente ciò che
conosce dell’italiano ad una trentina
di suoi compagni, in un’attività
scolastica intitolata «Papà Cervi».
Venuta a conoscenza dell’iniziativa,
il 26 settembre ho inviato in Perù altri
testi (una grammatica, un vocabolario,
I promessi sposi), questa
volta al console onorario di Chiclayo.
Purtroppo questi libri sono arrivati
al signor Villalobos solo il 27
novembre (due mesi dopo), quando
egli aveva iniziato da due giorni
uno sciopero della fame per ottenere
che libri, riviste o materiale simile
possano circolare liberamente;
che non sia impedito l’accesso a
strumentazioni per uso didattico;
che venga istituito un servizio di ricezione
della posta nel carcere, evitando
di dover ricorrere a terzi per
la corrispondenza.
L’assurdo è che, mentre si è ostacolata
l’attività di diffusione della
nostra lingua e cultura, l’Aliance
Francaise, dopo poco più di un mese
di trattative, ha potuto entrare
nello stesso carcere e iniziare un
corso, a pagamento, per l’insegnamento
della lingua francese.
Grazie alle proteste dei prigionieri
e anche alle nostre, l’11 dicembre
la situazione sembrava essersi risolta
positivamente. Invece…

VIA DA PICSI:
«TUTTI A YANAMAYO!»

Alle tre di notte del 12 dicembre
c’è stato un improvviso trasferimento
di massa a Yanamayo, un
carcere a 4.000 (!) metri d’altezza,
giudicato da varie associazioni inteazionali
non adatto a una detenzione
rispettosa dei diritti umani.
I prigionieri trasferiti indossavano
indumenti leggeri, propri per una
città di mare come Chiclayo, ma
non ovviamente per un carcere d’alta
montagna. Tra i detenuti c’era anche
Emilio Villalobos Alva (*), reduce
da 16 giorni di sciopero della
fame.
Il trasferimento è stato comunicato
attraverso un documento firmato
dal direttore delle carceri del
Nord, quello stesso che mi aveva ricevuto
e che aveva avuto parole di
apprezzamento ed elogio per Emilio
Villalobos Alva, «il detenuto che
amava la lingua italiana».

«COM’È CAMBIATO IL MONDO,
FUORI?»

A colloquio con alcuni detenuti del carcere
di Ayacucho, nei luoghi dove (era il 1970)
nacque «Sendero Luminoso»,
uno dei più sanguinari movimenti rivoluzionari
della storia.

di Paolo Moiola

Ayacucho è una bella cittadina
coloniale sugli altopiani centrali
delle Ande peruviane. Il
carcere di Yanamilla è poco fuori il
centro abitato, in un posto panoramico,
accanto alla base militare e all’aeroporto.
Dopo una veloce perquisizione, le
guardie ci pongono un timbro sul
braccio destro. Al secondo controllo
ci vengono ritirate le borse e posto
un altro timbro, questa volta sul
braccio sinistro. Ci accompagna
Luis Bastidas Cuentas, responsabile
della sicurezza intea, che lavora
in ambito carcerario da 14 anni.
«La prigione di Yanamilla – spiega
– è stata inaugurata nel 1996. Attualmente
ospita 707 detenuti, tra i
quali 72 donne. La maggioranza è
qui per reati connessi al traffico di
droga. Ci sono poi una cinquantina
di persone imprigionate per terrorismo».
Come la gran parte delle carceri
peruviane, anche Yanamilla è diviso
in due sezioni: maxima per i delitti
più gravi (terrorismo, droga) e minima
per i delitti più lievi. A loro
volta, ciascuna sezione è divisa in
«padiglione A» e «padiglione B».
«Purtroppo – ammette l’ufficiale
-, almeno il 60% di loro è ancora in
attesa di sentenza. È cioè inculpado,
ma non sentenciado».
Ci muoviamo veloci, perché il direttore
ci attende. Sarà lui a dirci se
possiamo scattare delle foto e conversare
con i detenuti.
Siede a lato di una grande bandiera
del Perù. Alle spalle
un’immagine di Cristo, su cui
si legge «Amigo que nunca falla!»
(un amico che non sbaglia mai). Sull’ordinata
scrivania, accanto allo
stemma dell’Inpe (Instituto nacional
penitenciario), la targhetta con il nome:
Walter Gutierrez Zambrano.
Sembra giovane il direttore di Yanamilla.
«Ho 33 anni, ma già da 13
lavoro nell’amministrazione penitenziaria
», ci spiega subito.
Chiediamo come funziona Yanamilla.
«Nel nostro carcere – risponde
con visibile orgoglio -, il 90% dei
detenuti lavora nei laboratori artigiani
(tallers), soprattutto di carpenteria
e tessuti. Il “Centro educativo
occupazionale” del ministero
dell’educazione ci fornisce gli insegnanti
per istruire i prigionieri. Per
incentivare i reclusi, l’articolo 44
della legge 654 prevede dei benefici:
due giorni di lavoro (o studio) significano
un giorno in meno di pena».
Dunque, a sentire il direttore, Yanamilla
sembrerebbe un’isola di serenità.
Ma naturalmente non è proprio
così. «Anche noi – ammette –
soffriamo di sovraffollamento. In
questo momento ci sono 200 persone
in più rispetto alla capacità. Questo
significa che l’attenzione verso i
detenuti non può essere come si vorrebbe.
Inoltre, la disponibilità di
fondi pubblici è insufficiente; mancano
mobili, carta, computers, oggetti
quotidiani».
A giudicare dall’essenzialità del
suo ufficio, non dubitiamo che il direttore
stia dicendo il vero. Chiediamo
il permesso per la cosa che
più ci interessa: una visita ai padiglioni.
Il direttore ci affida a Jesus
Vidalon Robles, responsabile del lavoro
e dell’educazione.
Il cortile interno (patio) è pavimentato
con lastre di cemento.
Su un lato ci sono alcuni gradoni
per sedersi a conversare o per
guardare chi gioca a palla. Sui muri
bianchi campeggiano due grandi
scritte di ammonimento: «educa al
nino y no tendras que castigar de adulto
» (educa il bambino e non castigherai
l’adulto) e «la libertad es
don de Dios y la justicia obra del
hombre» (la libertà è dono di Dio,
la giustizia è opera dell’uomo).
È una giornata particolare per il
carcere di Yanamilla. Domani ci
sarà la fiera dei prodotti fatti dai prigionieri.
Si stanno preparando i
banchetti.
«Mi consigliavano di pentirmi.
Ma di cosa, se non avevo commesso
alcun delitto? Mi volevano utilizzare
per denunciare altre persone,
scritte in una lista da loro preparata.
Ma io non me la sentivo di incolpare
degli sconosciuti soltanto per avere
uno sconto di pena». Rosario
Rondinel Palomino è una bella signora
di 35 anni con gli occhi tristi
e una treccia che le scende sulle spalle.
È in carcere dal 1994. «Quando
mi arrestarono, mi rinchiusero nella stazione di polizia sottoponendomi
a 15 giorni di torture psicologiche
inimmaginabili. “Sendero – mi
dicevano – ti ha preparata a non parlare,
ma con noi non funzionerà”.
Poi, un tribunale di giudici senza
volto mi condannò a 20 anni per terrorismo».
Rosario faceva l’educatrice e studiava
filosofia e psicologia all’Università.
Sostiene di essere stata accusata
da una pentita e da prove
fabbricate. «A questo punto, soltanto
la mia avvocata può tirarmi
fuori da quest’incubo. Vorrei tornare
dalle mie tre figlie».
Mentre ci avviamo ai corridoi
che portano all’uscita, da
dietro una grata due detenuti
richiamano la nostra attenzione.
Vorrebbero scambiare qualche
parola con noi, ma il tempo della visita
sta per finire. Il più loquace dice
di chiamarsi Persy Hugo Francia:
«Mi hanno dato 14 anni per terrorismo
e ne ho già scontati 10. Com’è
cambiato il mondo fuori?».

Franca Pesce Paolo Moiola




ISTITUTI MISSIONARI la loro azione in Italia oggi

PRENDERE IL LARGO, INSIEME

Radiografia
(quasi scientifica)
di una presenza:
dati, statistiche,
percentuali…
E qualche punto
interrogativo.

All’inizio di febbraio dello scorso
anno, 15 istituti esclusivamente
missionari presenti in
Italia (cfr. inserto) si sono incontrati
ad Ariccia (Roma) all’insegna del tema:
«Insieme, prendere il largo».
Dall’analisi e discussione delle risposte
date dai singoli istituti a un
previo questionario, emergono i
problemi, difficoltà, timori e speranze
sul futuro della loro presenza
nella chiesa italiana. Oltre ai dati numerici
(quanti e dove sono i missionari
in Italia, che età hanno, quali i
loro impieghi, ecc.), sono importanti
le motivazioni e prospettive di tale
presenza, per un cammino di collaborazione.

NON SONO SOLO NUMERI
Quanti sono i missionari di origine
italiana e che percentuale occupano
nella composizione degli istituti?
Una domanda essenziale per «misurare
» il grado di inteazionalità.
Il primo dato stabilisce che sono
5.283 i missionari italiani appartenenti
ai vari istituti, su un totale di
19.797. Per il secondo dato, circa i
missionari e missionarie di origine
nordamericana, latinoamericana, asiatica
e africana, le percentuali sono
diverse, dovute all’origine, storia
e campi di azione dei singoli istituti.
Essi contano complessivamente
7.910 membri: 4.603 italiani e 3.307
non italiani (58,2% di origine italiana
e 41,8% non italiana). L’ultima
cifra rappresenta il grado d’inteazionalità
degli istituti missionari di
origine italiana.
Quanti sono i missionari in Italia
oggi? I numeri dicono 2.566. Ma
non tutti sono qui per lavoro; molti
sono in Italia per compiti istituzionali
(direzioni generali) o per riposo,
cura, aggioamento. Tale numero
comprende 84 stranieri, 27 dei quali
africani.
Ciò significa che l’inteazionalità
procede anche qui. Non si dà alcun
giudizio di valore: se è bene o male;
né si dice se il numero deve crescere
o diminuire. Si registra solo il dato.
Abbiamo pure la descrizione di alcune
categorie all’interno delle varie
comunità. Per gli istituti maschili, i
sacerdoti sono 630 e 135 i non sacerdoti.
Per gli istituti femminili, le
suore professe perpetue sono 1.366
e 22 le professe temporanee.
Più importante è la divisione nella
successiva categoria: in attività
1.264 (61,5%); in formazione 56
(2,7%); in riposo-malattia 733
(35,7%). Se appare impressionante
l’alta percentuale del personale in riposo-
malattia, stupisce la bassa percentuale
di coloro che sono in formazione.

DISPARITÀ TRA NORD E SUD
Un tempo in Italia c’erano molti
studentati di filosofia-teologia e noviziati.
Oggi la situazione è decisamente
cambiata. Il cambiamento diventa
più evidente quando si stabiliscono
le classi di età: il 68,8% dei
missionari e missionarie in Italia supera
i 65 anni, mentre solo il 6,6%
ha meno di 45 anni. L’invecchiamento, anagraficamente parlando, è
drammatico, anche in considerazione
del numero di opere che gli istituti
hanno. L’invecchiamento appare
più alto negli istituti femminili.
Circa la distribuzione del personale
nelle regioni italiane, 1.675
membri sono nel nord, 250 nel centro
(e Sardegna) e 167 nel sud (compresa
la Sicilia).
Dei membri «in attività», viene
specificato il tipo di impegno: incaricati
della formazione 52; e ciò desta
meraviglia, se si pensa come i
membri in formazione sono solo 56;
si potrebbe dire che sono quasi più
i formatori che i formati. Impegnati
nella guida e amministrazione delle
comunità sono 258.
Nell’animazione missionaria sono
impegnate 155 persone. Questo
numero appare veramente piccolo,
confrontato con le 420 persone occupate
nella pastorale e nell’insegnamento
(scuole e asili).
Un’attività che impegna numeroso
personale è quella riguardante la
cura-assistenza: 289 individui, pari
al 22,8% del personale attivo. Se da
una parte è da ammirare l’impegno
di missionari e missionarie in tale
campo, c’è da chiedersi se questa sia
la forma migliore per farsi sentire vicini
a loro, se siano le persone più adatte
per tale compito, se l’impegno
non provochi in alcuni frustrazione,
se non esistano modi alternativi.
Un altro dato: del personale missionario
in Italia, 1.825 su 2.207 sono
stati in missione. Questo solleva
due problemi: un percorso di reinserimento
e l’opportunità che la presenza
(specialmente di testimonianza)
sia adeguatamente valorizzata.
Molto importanti sono i dati sull’aspetto
vocazionale. Negli ultimi
11 anni gli istituti missionari hanno
avuto, nel loro insieme, 304 nuove
reclute di origine italiana, con una
media di 23,4 membri per istituto e
2,1 all’anno. In tale arco di tempo
non si notano tendenze significative,
né di crescita né di calo.
Circa la «provenienza» delle vocazioni,
sono ricordati in ordine decrescente:
parrocchie, movimenti,
volontariato, seminari e associazioni.
Sono nominati anche i gruppi
missionari giovanili, interni o collegati
alle parrocchie. I dati possono
stimolare una riflessione in questo
senso: le vocazioni provengono in
prevalenza da ambienti in cui è più
curata la formazione cristiana di base
o da ambienti in cui sono coltivati
i valori della solidarietà e mondialità,
ma senza uno specifico o implicito
riferimento alla fede cristiana?

CHE DIRE DI LORO?
Com’è giudicata la presenza dell’istituto
in Italia, sia dai missionari
fuori del paese sia da quelli presenti
sul territorio? Il confronto è importante,
perché misura, in maniera abbastanza
sottile, il grado di «frustrazione
» che possono avere i membri
degli istituti impegnati in Italia.
Vediamo le posizioni: mentre in
11 istituti su 12 i membri fuori Italia
dicono che l’istituto è adeguatamente
o eccessivamente presente, in
8 istituti i missionari che operano in
Italia dicono che la loro presenza è
insufficiente. Per tradurre i dati in
una battuta popolare, è come se in
11 casi su 12 i membri dicessero a
quelli in Italia: «Per ciò che fate, siete
anche troppi!»; e quelli in Italia
rispondessero, in 8 casi su 12: «Se
riusciamo a fare poco, è perché siamo
troppo pochi; o troppo pochi
sono quelli che possono veramente
fare qualcosa».
Percezioni del genere, se molto
diffuse, possono produrre scoraggiamento
nei missionari e missionarie.
Si potrebbe ipotizzare che gli istituti
debbano cogliere meglio «il
senso e la portata» della loro presenza
in Italia.
Che dire dell’opportunità di formare
comunità missionarie «miste»?
Con chi sarebbero disposti i membri
degli istituti a fare comunità, al di
fuori dei loro confratelli o consorelle?
Il quesito, forse, fa balenare una
prospettiva troppo nuova; tant’è vero
che 7 istituti su 13 la rifiutano; 6,
in particolari circostanze, sarebbero
disponibili a fare comunità con individui
di altri istituti; solo 3 con laici
e 2 con preti diocesani. Da notare
che, fra i 6 disponibili a comunità miste,
5 sono maschili e 1 femminile; i
3 disponibili a fare comunità con laici
e i 2 con sacerdoti diocesani sono
maschili.
In conclusione: solo 1 istituto femminile
su 7 è disposto a creare comunità
con membri diversi dal proprio
istituto e solo con membri di istituti
missionari.
ITALIA, TERRA DI MISSIONE?
C’è una domanda che pone un
problema molto attuale, dibattuto
anche a livello ufficiale: bisogna assumere
in Italia impegni assimilabili
a quelli della missione ad gentes?
Cinque istituti (3 maschili e 2 femminili)
sono nettamente contrari.
La ragione è che l’ad extra fa parte
integrale della vocazione missionaria
specifica. Qualcuno precisa che
non si tratta di un teorico ad extra
geografico, ma del fatto che gli spazi di prima evangelizzazione sono
immensamente più ampi in altri
paesi e continenti che in Italia.
Sono favorevoli, invece 8 istituti (5
femminili e 3 maschili) e le ragioni
sono riassunte così: dove c’è un compito
di prima evangelizzazione, questo
rientra nelle finalità di un istituto
esclusivamente missionario.
Ma quali sono i campi di azione
specificamente missionaria in Italia?
Le risposte sono in questa linea:
i missionari in Italia per le finalità
tradizionali (formazione, animazione
missionaria, cura degli anziani e
malati) possono meglio legare la loro
presenza ad ambienti che sono,
in qualche misura, «campi di azione
specificamente missionari». E
cioè: presenza e azione fra gli «ultimi
» (5) ed extracomunitari non cristiani
(6); nuova evangelizzazione
(5); dialogo interculturale e interreligioso
(11); rinnovamento del «modo
di essere chiesa» (3); impostazione
della pastorale in senso missionario
(9); catecumenato (6).
Tra le risposte tanto disparate,
spicca l’alta disponibilità per il dialogo
interculturale e interreligioso,
come pure la forte tendenza a impegnarsi
per un’impostazione della
pastorale delle chiese locali in senso
missionario. È questo lo scopo dell’animazione
missionaria, ma è percepita
in modo più ampio di quanto
non lo fosse tradizionalmente e
non appare legato a finalità intee
all’istituto.
Domanda finale: i missionari di altri
continenti, presenti in Italia, sono
da considerare ad extra e, quindi,
pienamente in linea con la condizione
di ad gentes? Per 9 istituti, sì; per
5, no. Ma la questione è molto dibattuta
e con argomenti diversi:
quello in positivo sostiene che tale situazione
risponde pienamente sia all’ad
gentes che all’ad extra.
Fra gli argomenti in negativo, invece,
ne emergono due: l’Italia non
può essere considerata un paese di
primo annuncio, ma solo di nuova evangelizzazione;
inoltre, la presenza
di non italiani finirebbe per rafforzare
le strutture dell’istituto, a scapito
delle nuove chiese.

DUE CONCLUSIONI
Pur non offrendo conoscenze
nuove all’interno di ogni istituto,
l’indagine può dare una visione
d’insieme e aiutare a raffrontare sia
le situazioni sia gli orientamenti di istituti
diversi, che però hanno la
stessa finalità. Alcuni problemi e risorse
possono essere messi meglio a
fuoco, per un migliore discernimento
e collaborazione.
In secondo luogo, negli istituti
missionari appare una certa rigidità,
intendendo con ciò che ogni istituto
è sensibile alla sua identità (e questo
è bene), ma la interpreta in senso difensivo,
avendo quasi il timore che
gli adattamenti alle situazioni, impegni
creativi e collaborazioni rappresentino
delle «contaminazioni».
Gli istituti missionari stanno vivendo
un momento di crisi: basti solo
pensare alle poche «nuove entrate» e alle difficoltà di collaborazione.
Tuttavia resiste la convinzione
sulla validità della loro presenza, pur
con interrogativi sulla sua valorizzazione
in novità di stili, di
modalità e di più vaste
collaborazioni.

Francesco Grasselli




MORTI E… RISORTI

Doncello, Colombia. Il paese cresce a vista d’occhio da quando il
governo ha diviso la foresta circostante in tante fette e le ha assegnate
a un centinaio di famiglie, fuggite dalla violenza e insicurezza di altre
regioni del paese. Con un prestito della Banca agraria, tirano su un ranchito
(capanna), disboscano tutto attorno qualche ettaro di selva e cominciano a
seminare riso, granturco, banane… finalmente felici di essere padroni di un
pezzo di terra. Ma il denaro scarseggia…
Francesco, padre di quattro figli, un giorno si presenta addolorato e piangente:
mi annuncia che sua moglie è morta. Conoscevo bene la sua signora; più di una
volta, visitando le famiglie, avevo dovuto fermarmi, accettare un caffè e benedire i
figli. Mi commuovo anch’io, quando mi chiede di aiutarlo a pagare il funerale e le
spese sostenute per la degenza della defunta all’ospedale di Florencia.
Svuoto il portafoglio; vado in chiesa, apro la cassetta delle elemosine,
raggranello 50 mila pesos e glieli consegno. «Grazie, padre!» e sparisce.
Ma 15 giorni dopo, ecco apparire la defunta. «Non sei morta» le domando.
Ignara di tutto, mi chiede di aiutarla con 20 pesos, per liberare dal carcere il
marito: aveva rubato e venduto un maiale e si era ubriacato.
«Eccoti i 20 pesos; ma di’ a Francesco di non combinare altre marachelle».
Due mesi dopo sono a Puertorico, circa 30 km da Doncello, per sostituire un
padre che deve assentarsi per alcuni giorni. Una sera, sull’imbrunire,
arrivano tre ragazzi e mi dicono trafelati: «Vieni, padre, c’è un morto
laggiù, in quella casa semiabbandonata». E mi accompagnano.
Su un tavolaccio c’è un uomo «morto», scalzo e senza camicia; quattro candele
illuminano l’ambiente e un catino posto ai suoi piedi. La gente è già arrivata
per pregare; prima di uscire, tutti depositano nel catino un’offerta per il
funerale. Faccio anch’io la mia elemosina.
Mentre prego, cerco di conoscere il tipo che, avendo la testa piegata
e nell’ombra, non riesco a riconoscere. Domando ai
presenti. Mi rispondono due sconosciuti: «Siamo venuti
a pescare ed è stato colto da infarto. Domani faremo i
funerali e toeremo a casa».
Ma il giorno dopo il morto è scomparso. Verso
mezzanotte, quando non c’era più nessuno a pregare, il
morto si era alzato, aveva raccolto i soldi nel catino e se
l’era svignata con i due amici: era il solito Francesco,
morto e risorto.

Giovanni De Michelis




NONVIOLENZA o, più semplicemente, vangelo…

NON È UTOPIA
Alle radici di una scelta non facile, ma per essere
davvero dalla parte dei più deboli
contro i sotterfugi dei potenti
e l’inganno delle parole.

Per un cristiano le ragioni dell’impegno
nonviolento partono
dalla bibbia. Sennonché i
biblisti presentano enormi differenze
d’interpretazione del testo biblico
circa l’argomento «guerra-pace».
Queste si ripercuotono sul magistero
ecclesiale e sul pensiero cristiano
in genere.

Occorre chiarire i princìpi, per superare
(possibilmente) dubbi e divisioni
che creano scandalo fra cristiani
e anche fra cattolici. Inoltre, è giocoforza
confrontare l’interpretazione
che riteniamo evangelica con
le punte estreme dei pronunciamenti
e comportamenti
cristiani
lungo
la storia, soprattutto
oggi.

MA LA BIBBIA DICE NO
ALLA VIOLENZA?

L’Antico Testamento non offre,
complessivamente, un messaggio di
nonviolenza. Ripetutamente è comminata
la pena di morte ai violatori
della legge; le guerre sono spesso esaltate,
anche se
non mancano esempi
elogiati di
nonviolenza. Lo
stesso futuro messia,
a volte, è presentato
nelle vesti
di un terribile condottiero
di eserciti.
Tuttavia, i profeti maggiori, Isaia e
Geremia, si caratterizzano per la loro
ostilità a soluzioni militari, al punto
da essere perseguitati e minacciati
di morte. In particolare, il messia,
preannunciato
da Isaia come
«servo di
Jahvè», non ha nulla
di militaresco; anzi, è presentato sotto
l’immagine spirituale dell’agnello
che salva, sacrificandosi per amore
dei peccatori: immagine che Gesù
stesso applica esplicitamente a sé,
drasticamente alternativa a quella di
un messia violento (Lc 4,16-21).
In ogni caso, l’Antico Testamento
va interpretato alla luce del Nuovo e
non viceversa. Gesù ha deluso in pieno
le attese del liberatore politico
violento. Non ha formulato la ricetta
antimilitarista: «Soldati di tutto il
mondo, disarmatevi!»; come non ha
dato la ricetta antischiavista: «Schiavi
di tutto il mondo, ribellatevi!». Ha
presentato, tuttavia, una serie di insegnamenti
ed esempi, improntati
all’amore nonviolento, per cui è indubbio
che il vangelo inculca, se non
comanda formalmente, il principio
della nonviolenza.
Nel «discorso della montagna» egli
richiede ai suoi seguaci un amore
straordinario e inedito: «È scritto:
occhio per occhio, dente per dente.
Ma io vi dico: amate i vostri nemici;
pregate per i vostri persecutori» (Mt
5,44).
L’ingiunzione a Pietro, nel giardino
degli ulivi, «metti via la spada, perché
chi di spada ferisce di spada perisce
» (Mt 26,52), è un altro di quei
pronunciamenti messianici che potrebbe
far pensare a una formula
antimilitarista, come l’ha
interpretata Tertulliano, che
scriveva: «Disarmando Pietro,
il Signore ha disarmato ogni
soldato» (De idolatria).
Per lo meno, non c’è alcun dubbio
sul principio evangelico della
nonviolenza.

EVOLUZIONE O DEVIAZIONE?
L’evoluzione storica del cristianesimo
sul problema di «guerra-pace»
è qualcosa di traumatico. Partendo
dal principio biblico della nonviolenza,
la chiesa dei primi tre secoli,
nella sua prevalenza, se non nella totalità,
ha enucleato la formula antimilitarista:
«Il cristiano non può fare
il soldato». Tale è, ad esempio,
l’affermazione martellante di Massimiliano
di Tebessa (Cartagine) nel
processo del 295 d. C., condannato
a morte per il suo rifiuto del servizio
militare: «Sono cristiano, non posso
fare il soldato!».
E non si tratta di una posizione isolata
del Nord Africa, succube dell’influsso
di Tertulliano; la Traditio Apostolica,
attribuita a Ippolito di Roma,
testimonia che tale prassi vigeva
pure nelle chiese dell’area mediterranea
verso il 215-220: «Il soldato
subalterno non deve uccidere nessuno.
Se riceve un ordine del genere,
non deve eseguirlo e non deve prestare
giuramento. Se non accetta tali
condizioni, sia respinto. Chi ha potere
di vita e di morte sugli altri o il magistrato
di una città, che porta la porpora
come emblema della sua autorità
suprema, deve dare le dimissioni,
altrimenti venga respinto. Il catecumeno
o il fedele che vogliono arruolarsi
e fare il soldato vengano respinti,
perché hanno disprezzato Dio».
In seguito, prima con sant’Ambrogio
di Milano, poi, in modo più compiuto,
con sant’Agostino di Ippona,
verrà formulata la «dottrina della
guerra giusta»: è la cosiddetta «svolta
costantiniana», che prende avvio
dall’imperatore Costantino in poi.
Sennonché, per alcuni permane
una riserva radicale contro gli eserciti
e la guerra (uso omicida della forza),
pur ammettendo un servizio, anche
armato, di polizia (uso non omicida
della forza). Tale distinzione tra
esercito e polizia è pure accennata in
un’interessante presa di posizione del
vescovo Gaetano Bonicelli, a suo
tempo ordinario militare. A proposito
dei cristiani dei primi secoli egli
scriveva: «Già allora si intravedeva
una distinzione fra milizia di pace
(ordine pubblico) e servizio di guerra:
un capitolo interessante e, forse,
in buona parte ancora da scrivere».
A conferma di ciò, vi è la dichiarazione
sorprendente del generale
Bruno Loi, comandante delle missioni
di pace in Libano e Somalia:
«Non si possono mandare gli eserciti
a fare azioni di polizia internazionale.
È un’altra struttura; un’altra
formazione. L’esercito va allo sbaraglio
e il soldato è addestrato a uccidere
e uccidere bene. La polizia non
deve uccidere; anzi, dovrebbe essere
dotata di armi intrinsecamente
non letali». Su questo punto è d’accordo
anche la maggior parte dei pacifisti,
che ammettono un corpo di
polizia internazionale alle dipendenze
di una vera Onu.
Con tutto ciò, l’alternativa sostanziale
agli eserciti e alla guerra non è
la polizia internazionale, bensì la «difesa
popolare nonviolenta». Questa
è snobbata dalla quasi totalità dei politici,
compresi molti cristiani e cattolici.
La nonviolenza non è passività
e nemmeno utopia. I grandi nonviolenti
non sono stati per nulla passivi,
ma hanno scritto pagine storiche
magnifiche. Tragico è, invece, il persistere
della mentalità che solo eserciti
e guerra siano adeguati alla soluzione
di controversie inteazionali.

«DELITTO CONTRO DIO»
È indispensabile e urgente tornare
alla nonviolenza evangelica radicale
dei primi secoli della chiesa. La
civiltà dell’amore esige di bandire totalmente
il «sistema militare» (eserciti-
ricerca-industria-commercio-costi-
eventi bellici). Il mondo è un villaggio
planetario, ancora senza
sindaco né consiglio comunale: un
paese di matti, votato al caos. Occorre
una vera Onu, ossia un parlamento
e governo mondiale, che dettino
un minimo di regole, di giustizia
e di pace al mondo dell’economia
(oggi egemone) e le faccia applicare
con metodi nonviolenti e, in caso estremo,
con il ricorso a un corpo di
polizia internazionale.
Il magistero della chiesa è pure
molto chiaro. La «Gaudium et spes»
del concilio Vaticano II dice: «Siamo
obbligati a considerare l’argomento
della guerra con mentalità completamente
nuova. Ogni atto di guerra,
che indiscriminatamente mira a distruggere
intere città o vaste regioni
e i loro abitanti, è delitto contro Dio
e contro la stessa umanità; con fermezza
deve essere condannato. La
corsa agli armamenti è una delle piaghe
più gravi dell’umanità. La provvidenza
divina esige da noi con insistenza
che ci liberiamo dall’antica
schiavitù della guerra; dobbiamo
sforzarci per preparare quel tempo
nel quale, mediante l’accordo delle
nazioni, si potrà interdire del tutto
qualsiasi ricorso alla guerra. Ciò esige
che venga istituita un’autorità
pubblica e universale. L’umanità, che
già si trova in grave pericolo, sarà forse
condotta funestamente a quell’ora
in cui non altra pace potrà sperimentare
se non la pace di una terribile
morte» (nn. 80-82).
Il Catechismo della Conferenza episcopale
italiana dice: «Abolire la
guerra, il mezzo più barbaro e inefficace
per risolvere i conflitti. Il mondo
civile dovrebbe bandirla totalmente.
Si dovrebbe togliere ai singoli
stati il diritto di farsi giustizia da soli
con la forza, come già è stato tolto
ai privati cittadini e comunità intermedie.
Appare urgente promuovere
nell’opinione pubblica il ricorso a
forme di difesa nonviolenta. Ugualmente
meritano sostegno le proposte
tendenti a cambiare struttura e
formazione dell’esercito, per assimilarlo
a un corpo di polizia internazionale.
La pretesa dei singoli stati
sovrani di porsi come vertice della
società organizzata sta diventando anacronistica.
Si va verso forme di
collaborazione sistematica, si moltiplicano
le istituzioni inteazionali,
si auspicano forme di governo sopranazionale
con larga autonomia
delle entità nazionali».

SEGNALI PERICOLOSI…
Le guerre attuali sono ormai fuori
ogni limite di moralità, anche di quelli
stabiliti dalla pur superata dottrina
della guerra giusta. Va anzitutto notata
la scelleratezza del cosiddetto
«nuovo modello di difesa». In Italia,
«i lineamenti di sviluppo delle forze
armate negli anni ’90», presentati in
parlamento nel 1991 dal Ministero
della difesa, parlano di «concetti strategici
di difesa degli interessi vitali, ovunque
minacciati o compromessi»,
anche fuori dai confini nazionali, abbandonando
il «tradizionale parametro
da chi difendersi, a favore di
una polarizzazione su cosa difendere
e come». Interessi vitali da difendere
ovunque sono «le materie prime, necessarie
alle economie dei paesi industrializzati
», presenti nel Sud del
mondo; l’Europa, e in particolare l’Italia,
avrebbe «il ruolo di ponte politico
ed economico tra l’occidente industrializzato
e il terzo mondo». Più
chiari e più cinici di così!
Altro segnale di militarismo montante
è il ritorno e diffusione di «eserciti
mercenari». Su questa strada
sono incamminati gli «eserciti professionali
» oggi di moda; ma faticano
a trovare volontari adatti alla professione
militare, nonostante le alte paghe,
crediti formativi, privilegi occupazionali
e pubblicità di ogni forma.
I corpi mercenari sono un business
già fiorente: scorte armate nei mari
pericolosi, controllo aereo e addestramento
di eserciti e guerriglie. Tim
Spicer, ex ufficiale inglese e precursore
dei nuovi soldati di fortuna, così
si esprime: «I miei uomini possono
intervenire dove l’Onu non riesce.
Costano meno e sono più bravi».
In base all’accordo-quadro, sottoscritto
a Faborough il 27 luglio
2000 dai ministri della difesa dei
principali paesi europei, il governo
Berlusconi ha approntato un disegno
di legge (n. 1927) per favorire
l’esportazione di armi e diminuie
i controlli previsti dalla legge
185/90, la cosiddetta: «Contro i mercanti
di morte». È in corso una grossa
campagna popolare di pressione
sul parlamento italiano in difesa, appunto,
della legge 185/90.
Ma il superamento di ogni limite
etico e religioso è il rilancio degli armamenti
nucleari, chimici e batteriologici,
in collegamento con la dottrina
Nato del «primo colpo nucleare
» e con l’intenzione dichiarata di
ritenere superati gli accordi di disarmo
su tali ordigni: dal momento che
si possiedono, si è pronti a usarli.
Le potenze nucleari hanno fatto di
tutto per costringere gli altri paesi a
sottoscrivere un «patto di non proliferazione
» di tali armi, ma non hanno
mai accettato di attuare un contemporaneo
disarmo, ripetutamente
richiesto in sede Onu dalla stragrande
maggioranza degli stessi paesi.
Anni fa, il parlamento francese ha
approvato una legge che autorizza il
governo all’uso della «force de frappe
», cioè l’atomica, per difendere gli
interessi vitali della nazione in qualsiasi
parte del mondo. Il giornale cattolico
La Croix, nel dae notizia,
non ha accennato a riserve di sorta
circa l’uso di tali ordigni nucleari!
L’attuale politica del governo italiano
mostra tutta la sua incongruenza:
da un lato è entrata in guerra
contro il terrorismo; dall’altro,
vuole abolire la legge 185/90 per incrementare
il commercio delle armi.
Anzi, il ministro della difesa, Martino,
propone la diffusione capillare
delle armi per l’autodifesa dei singoli
cittadini. Non si agevola, in tal modo,
pure il riarmo del terrorismo?
Anche le formule apparentemente
innovative, come «legittima difesa,
ingerenza umanitaria, ecc.», senza
i suddetti chiarimenti vengono
strumentalizzate per giustificare
qualsiasi guerra, come afferma il moralista
Enrico Chiavacci: «In pratica,
qualunque causa, giusta o ingiusta, è
potuta entrare in questo schema e il
clero ha sempre pregato per la vittoria
del proprio glorioso esercito».
È ora di voltare pagina e tornare,
senza compromessi, alla
nonviolenza evangelica
dei primi secoli della chiesa.

Angelo Cavagna




AFRICA il calcio, una piccola grande risorsa

VITA… IN CONTROPIEDE
Da oltre 20 anni, centinaia di giocatori africani militano in squadre europee:
al di là del business e rischi connessi al mondo del pallone, questi atleti
si stanno rivelando una risorsa preziosa per il futuro del loro continente.
Lo sostengono gli autori di questo articolo, sintesi di una tesi di laurea
su «Lo sviluppo del calcio africano».

Una delle più importanti risorse
del continente nero è,
oggi, lo sport: non solo coraggiosi
e infaticabili maratoneti, anche
validissimi giocatori di calcio.
Negli ultimi anni, infatti, le rappresentative
africane di football hanno
raggiunto risultati invidiabili: primo
posto nelle ultime due olimpiadi, ad
Atlanta 1996 con la spettacolare Nigeria,
a Sydney 2000 con il Camerun
che ha sconfitto clamorosamente la
Spagna e sempre ottimi piazzamenti
nei toei inteazionali giovanili.
Di fronte a queste certezze, la Fifa,
la federazione internazionale di calcio,
ha aumentato i posti per le squadre
africane nella Coppa del mondo,
la massima competizione per squadre
nazionali. Nell’ultima edizione
nippo-coreana (estate 2002), hanno
partecipato Nigeria, Camerun, Tunisia,
Sudafrica e Senegal. La squadra
senegalese, osannata dagli addetti ai
lavori per organizzazione di gioco e
per individualità, è riuscita a eguagliare
il record del Camerun, datato
1990, approdando ai quarti di finale.
Le prime avvisaglie di raggiunta
solidità del calcio africano,
almeno agli occhi degli europei,
si rivelarono proprio nella Coppa
del mondo del 1982, conquistata
dai nostri azzurri. Azzurri che, nel girone
di qualificazione, faticano inaspettatamente
per strappare un pareggio
ai «leoni indomabili» camerunesi,
che mostrano un’incredibile
esuberanza atletica e impressionante
potenza fisica. In quell’edizione
fece bella figura pure l’Algeria, in
grado di sconfiggere il wunderteam
tedesco, che poi raggiunse la finalissima
assieme all’Italia.
L’attenzione per il calcio d’Africa
si fece, quindi, sempre più forte: la
stessa Coppa d’Africa, il toeo per
le nazioni, si scoprì prestigiosa vetrina
per gli osservatori di tutto il mondo
a caccia di giovani promesse.
Anche nel nostro paese, grazie alla
liberalizzazione dei trasferimenti
avvenuta negli anni ‘80, cominciarono
a sbarcare diversi atleti africani. Il
primo fu François Zahoui, ventenne
della Costa d’Avorio, paese che si rivelerà
inesauribile fonte di talenti,
acquistato nel 1981 dal vulcanico
presidente dell’Ascoli, Costantino
Rozzi. Del giocatore si perdettero le
tracce quasi subito.
Stessa sorte subirono molti altri atleti
che in quegli anni arrivarono in
Europa. Erano ragazzi abituati a un
calcio ben differente da quello europeo,
praticato fin da piccoli sulle
strade, a piedi nudi, in condizioni di
assoluta povertà, come sfogo per dimenticare
o nascondere mille problemi.
Pur essendo abili tecnicamente
e abituati a condizioni climatiche
estreme, trovarono difficile
adattarsi ai rigori del calcio business
e relative regole, tatticismi e durissimi
allenamenti. Tutti limiti difficili
da correggere ancora oggi.
Le difficoltà d’ambientamento
di questi atleti, provenienti da
realtà così diverse, che si portano
dietro costumi, usanze, credi, in
molti casi a noi sconosciuti, sono
spesso insuperabili. Il calciatore africano
resta, tuttavia, un atleta forte,
temprato alla sofferenza, adulto
fin da piccolo, disposto ad abbandonare
casa e girare il mondo pur di
coronare il sogno di sfondare nel calcio
che conta.
Citiamo la storia Mohammed Kallon,
pedina importantissima per l’Inter.
Nato a Free Town (Sierra Leone)
e adocchiato giovanissimo dalla
squadra milanese, fu costretto a
passare, ogni anno, da
una squadra all’altra per
«farsi le ossa»: oggi, ancora
ventiduenne e già da quotazione
stratosferica, Mohammed
è un attaccante affidabile,
certamente più freddo di
fronte alla porta, rispetto a
qualche tempo prima.
Ma non tutti hanno la fortuna
di Kallon. I rischi sono
numerosi: si può anche finire nelle
mani di procuratori senza scrupoli,
veri e propri bracconieri, che
strappano i giovani dalla famiglia
per pochi milioni, li portano in Italia
e in Europa e, in caso di rendimento
inferiore alle aspettative, li scaricano
velocemente, lasciandoli magari a lavorare
vicino a un semaforo.
È la cosiddetta piaga dello sfruttamento
dei baby-calciatori, che si crea
quando gli europei cominciano a interessarsi
ansiosamente alle risorse
sportive del continente nero.
Tale sfruttamento può facilmente
fare leva sulla voglia di evadere degli
stessi ragazzi: essi sanno che in Africa
hanno poche possibilità per maturare
e migliorarsi. Le federazioni
africane, dal canto loro, sono spesso
gestite da personaggi divisi da invidia
e ambizioni personali, i quali
sfruttano malamente il denaro ricavato
dalle sponsorizzazioni. Gli stessi
regimi dittatoriali, alla guida di
molti paesi, non favoriscono certo il
libero e armonioso sviluppo delle discipline
sportive e del calcio: molte
convocazioni nazionali sono dettate
da volontà politiche, ad esempio.
Èsempre la stessa storia, un circolo
vizioso: anche l’Africa
del calcio, carente di strutture,
impianti, tecnologie, esperienza,
con allenatori, tecnici e medici ancora
impreparati, avrebbe
bisogno dell’uomo
bianco
per migliorarsi,
evolversi e diventare
più
competitiva.

Ma dell’uomo bianco, purtroppo,
non c’è mai da fidarsi, dato che ha
già tante colpe per la precarietà e instabilità
delle strutture sociali del
continente in generale.
Ci sembra che anche su questa immensa
risorsa dello sport e, in particolare,
del calcio, ci siano violente intromissioni
da parte degli stranieri,
con modalità ancora di tipo colonialista.
Eppure la prima a trae beneficio
dovrebbe essere la stessa Africa.
Anche i presidenti dei più prestigiosi
club africani hanno colpe gravi
ed evidenti, non esitando a vendere,
a cifre modeste, i giocatori più interessanti,
per ingrassare velocemente
le proprie casse, senza aiutare lo sviluppo
generale delle loro città, non
solo calcistico.
Spesso questi personaggi comprano,
a poco prezzo, squadre di serie
A, per poi smembrarle con la svendita
dissennata dei tesserati al resto
del mondo, facendole retrocedere
rapidamente di categoria, fino a farle
morire.
Il calcio, è uno dei più potenti fenomeni
mediatici; ogni evento che
gli è collegato ha una cassa di risonanza
estesissima; ai padroni e grandi
multinazionali di abbigliamento
sportivo (tra l’altro accusate a più riprese
di sfruttare la manodopera infantile
dei paesi in via di sviluppo)
conviene investire anche nelle realtà
più povere, come quella africana.
L’ultima edizione della Coppa
d’Africa ne è un esempio: si è disputata
in Mali, uno fra i dieci stati più
poveri al mondo, grazie a ingenti finanziamenti
francesi e cinesi, che
hanno consentito la costruzione di
imponenti impianti sportivi.
Ma il contatto con la cultura occidentale
è sempre rischioso, conduce
a compromessi pericolosi. È certo innegabile
che l’arrivo di molti allenatori
di stampo europeo nel continente
nero sia un fatto positivo: i nostri
Scoglio, Dossena, Mattè, Bersellini,
per esempio, hanno offerto il proprio
bagaglio di esperienze a squadre della
Tunisia, Ghana, Mali e Libia.
È altrettanto giusto ricordare che
gli stessi giocatori africani, militanti
in Europa, portano esperienza alle
proprie federazioni e squadre nazionali.
Sono centinaia, ormai, i giocatori
africani (camerunesi, nigeriani,
ghanesi, avoriani, senegalesi, tunisini,
marocchini, mozambicani, sudafricani),
insediatisi in Europa e soprattutto
nelle nazioni colonizzatrici,
Francia e Portogallo in testa.
Molti di questi hanno fatto fortuna,
vantano contratti principeschi e,
imitando i loro colleghi europei, reclamano
ricchi premi anche quando
giocano nelle proprie nazionali.
Quando si parla di calcio africano,
quindi, non bisogna fare troppa poesia,
pensando solo ai bimbi scalzi
che tirano calci nelle paludi a palloni
sgonfi. In Africa il calcio ha fatto
molta strada, sebbene difficilmente
potrà raggiungere quello europeo,
semplicemente per questione di risorse.
La stessa Fifa, in questi anni,
ha sprecato capitali in feste ed eventi
allo scopo di sviluppare nuovi progetti
in Africa.
In fondo, però, dobbiamo ammetterlo,
speriamo che questo
tipo di calcio non si occidentalizzi
troppo e conservi quella genuinità
e allegria che sinora lo ha contraddistinto.
Da un certo punto di vista, lo stesso
Senegal, protagonista di questi ultimi
mondiali, può essere criticato
perché, avendo tutte le potenzialità
per andare oltre i quarti, non ci è riuscito
forse per mancanza di ferrea disciplina:
i giocatori sono stati lasciati
troppo liberi nel ritiro e si è lasciato
spazio a feste, balli, cerimoniali.
D’altronde, è proprio grazie a questo
spirito che è riuscito a mostrare il
gioco più spumeggiante e divertente,
rimanendo al tempo stesso tatticamente
molto accorto, come una qualsiasi
nazionale europea dalla lunga
tradizione. E non per caso, dal momento
che quasi tutti i suoi atleti militano
nel campionato transalpino.
Mettendo da parte per un attimo
il calcio-business, vogliamo ricordare
come lo sport, il calcio, contribuiscano
alla realizzazione di progetti in
zone degradate dell’Africa, per lo
sviluppo non solo atletico, ma anche
culturale ed educativo dei ragazzini.
Naturalmente, alcuni di questi
progetti, magari finanziati da blasonati
club europei, non nascondono
l’obiettivo di scovare e allevare campioni
da far sbarcare in Europa; ma
molti altri sono votati alla mera beneficenza.
Gli stessi giocatori africani,
che in Europa hanno fatto fortuna
e miliardi, sono spesso coinvolti
in tali iniziative. Ne è un esempio
George Weah, prodigatosi come attivo
finanziatore, oltre che giocatore-
allenatore, per la propria nazionale,
la Liberia, paese stremato da fame
e da guerra. Anche per questo è
riconosciuto il più grande calciatore
africano di tutti i tempi; più di Roger
Milla che, a 38 anni, a suon di
goals, aveva portato il Camerun ai
quarti di finale nei mondiali del ‘90.
Weah ha fatto vincere tanto al Milan,
da essere insignito del pallone
d’oro, massima onorificenza per un
giocatore che milita in Europa, e diventare
un simbolo dell’espressione
calcistica africana
nel vecchio continente.

Gaetano Farina Malù Mpasinkatu




MGONGO (TANZANIA) tra i ragazzi di strada

LA CASA CHE RESTITUISCE I SOGNI

Iniziata con una ventina di ragazzi di strada,
oggi la Faraja house (casa della consolazione)
ne accoglie 130, con storie di emarginazione
che stanno diventando storie d’amore e solidarietà:
le racconta l’iniziatore di quest’opera.

Il 1° maggio del 1997, a Mgongo,
periferia di Iringa, c’era un edificio
con un gruppo di 11 bambini:
nasceva così la Faraja house (casa
della consolazione) per i ragazzi di
strada. Oggi è un grande villaggio
con tante case e casette, scuola elementare,
scuola tecnica, dispensario,
strutture per allevamenti e, al centro
del tutto, una bella chiesetta. E poi
tanti bambini e ragazzi di ogni età, figli
della miseria e abbandono. Le loro
storie sono una litania di abusi, fame,
furti, prigione… lotta per la sopravvivenza.

Il nostro diario è pieno di racconti
e avvenimenti, successi e insuccessi,
ma sempre conditi d’amore ed entusiasmo,
nonostante tutto.

VOGLIA DI CAREZZE
I primi arrivati ora sono «giovanotti
» e frequentano i corsi tecnici o
o le scuole superiori. Abi è uno di essi:
una storia dura per lui e per me;
un cammino difficile, ma fruttuoso.
Era un bambino pauroso e introverso.
Dodicenne era già condannato
a sette anni di carcere per aver rubato
una radio. Dopo due anni riuscì
a scappare. Vagabondò per un
altro anno, finché fu accolto in un
centro per ragazzi di strada che, sotto
il nome di Ong, ancora oggi sfrutta
bambini con impunità e la connivenza
di qualche pezzo grosso. Raccontava
che là picchiavano sodo e si
mangiava poco.
Scappato dalla casa di accoglienza,
Abi si fece altri sei mesi in galera
a Iringa; poi fu trasferito al carcere a
Mbeya. Riuscì quasi subito a evadere,
ma fu ripreso e sottoposto a botte,
lavoro, fame e castighi. Riuscì
nuovamente a evadere e fuggì a Iringa
dove si aggregò a una piccola banda
di ragazzi che vivevano di espedienti:
diventò maestro di furti e bugie
per sopravvivere.
Arrivò a Mgongo nel luglio del ‘97.
Mi raccontò la «sua» storia, quasi
tutta inventata: diceva che i genitori
erano morti quando lui era piccolo;
ma si lasciò sfuggire il nome del villaggio
d’origine, lontanissimo, nel
nord del Tanzania. Riuscii a risalire
alla famiglia attraverso il parroco del
luogo: suo padre pretendeva che il
figlio tornasse in prigione. Decisi di
tenermelo senza far sapere dov’era.
Dopo mesi arrivò la mamma, avvertita
in segreto. Era partita da casa
con uno stratagemma, perché il marito
non sapesse. S’informò del figlio,
che non vedeva da tre anni. Raccontò
che il padre lo odiava visceralmente,
perché il bambino era un ladruncolo
fin da piccolo. Una volta gli bruciarono
le mani, legate con erba secca;
ma non era servito a niente.
Quando Abi vide la mamma si
voltò dall’altra parte e si rifiutò di salutarla.
Mi sussurrò: «Quando ne avevo
bisogno, lei dov’era?». Era solo
un bambino abbandonato e «stanco
», ma con tanta voglia di carezze.

IN CERCA DI RADICI
Alì è uno degli ultimi arrivati. Lo
incontrai al mercato mentre ero in
giro con amici di Torino. Era affamato,
sporco, cencioso. Lo avvicinammo
e fummo subito circondati
da una turba di ragazzi e giovani habitué
del mercato che mi supplicarono
in coro: «Baba Faraja, prendilo
con te, perché è troppo piccolo e
non riesce a sopravvivere».
Guardai gli amici e lo invitammo
a salire in auto per parlargli con più
calma. Chi sei? Da dove vieni? Hai
parenti? Dalle poche parole che
riuscii a tirargli fuori, seppi
che aveva un padre e abitava
nei sobborghi della
città, l’ultima casa ai piedi
della montagna. Decidemmo
di andarlo a
trovare, anche se avevamo
fretta: stava per
scendere la sera. La capanna
era chiusa. Si avvicinò
un giovane e gli
chiedemmo informazioni. Arrivò una
donna che, dopo lunghe spiegazioni,
si presentò come «zia». Quante zie in
Africa. Risulterà poi essere la matrigna.
Il bimbo era spaurito. Pareva avere
8-9 anni; ma la zia disse che ne aveva
almeno 15. Ci spiegò che il padre
era al kilabu (osteria). Lo incontrammo
per strada: era ubriaco.
A vedere il figlio con dei bianchi,
l’uomo si spaventò e cercò di spiegarci
che «lui non c’entrava»: aveva
solo collaborato a metterlo al mondo;
la madre se n’era andata e non si
era fatta più vedere; per questo il ragazzo
era con la «zia».
Domandammo anche a lui quanti
anni avesse il figlio. Rispose che ne
aveva 17. Era chiaro che, passata la
sbornia, lo avrebbe fatto ringiovanire.
Lo invitammo a venire
al centro la domenica
seguente, per
foirci, a mente
lucida, altri chiarimenti,
ventilando,
se non si fosse
presentato, un’eventuale
denuncia
alla polizia per abbandono
di minore.
Per questo ci affidò il
figlio molto volentieri. A casa cominciò
un arduo lavoro di restauro
per renderlo presentabile: era pieno
di vermi, scabbia, pidocchi e altro.
Alì ha 12-13 anni, ma non li dimostra.
La madre morì quando ne aveva 2.
Se n’era preso cura una zia, vecchia e
sola, ma poco dopo lo aveva riportato
al padre: cominciò per lui una tremenda
vita di stenti, vagabondaggi,
fame, botte; finché andò a vivere sulla
strada.
Ora Alì va a scuola. Vuole rompere
col passato: si fa chiamare Rich, come
il protagonista di un film. Almeno
i sogni nessuno glieli può rubare.
È arrivato anche Fabian, amico inseparabile
di Alì-Rich: la notte dormivano
in un mucchio di crusca vicino
ad un mulino per tenersi caldi e
nascondersi; di giorno, in giro a cercare
di che sfamarsi, raspando tra i
rifiuti del mercato. Rimasto solo alla
stazione delle corriere, è venuto pure
lui, piuttosto malconcio, a chiedere
di essere accolto alla Faraja.
Fabian era scappato da casa dopo
la morte della madre. Veniva da molto
lontano, oltre 300 km da Iringa,
da qualche paese dell’Ukinga, di cui
non ricorda il nome. Per tre mesi, a
piedi, vagabondò di villaggio in villaggio.
Da 5 anni faceva vita da randagio
per le strade di Iringa.
Ho fatto delle ricerche, ma è stato
come cercare un ago nel pagliaio: il
suo cognome, Sanga, in quella zona
è comunissimo. Ora è con noi, senza
radici; ma ha ritrovato l’amico e una
casa per sognare. Ha solo 12 anni.

CARCERE DELLA VERGOGNA
La domenica molti ragazzi di strada
della città vengono alla Faraja per
lavarsi, mangiare e giocare con i nostri;
verso sera li riportiamo sulla
piazza del mercato. Intanto mi faccio
raccontare le loro storie. A seconda
dei casi, cerco di rintracciare
i parenti; li aiuto ad andare a scuola;
li tiro fuori dalla prigione. Con qualcuno
ci sono riuscito.
Anche Dicki, sorriso accattivante e
ladruncolo imbattibile a12 anni, mi
ha raccontato la sua storia di violenze:
arrestato per vagabondaggio, fu
buttato in prigione e rinchiuso in un
camerone con 52 adulti. Due di loro
l’hanno ripetutamente violentato di
fronte agli altri, senza che nessuno si
sia mosso a pietà delle sue grida.
Il giorno dopo il suo racconto, feci
irruzione nell’ufficio dell’assistenza
sociale con tanta rabbia in corpo
e grande sconforto: gli addetti a tale
ufficio fanno poco o niente; d’altronde
sono pochi, quasi senza mezzi
e con meno voglia e autorità.
La rabbia più forte la scaricai sul
capo delle prigioni: un omone mellifluo
e panciuto, da gran bevitore,
che, tra le altre cose, mi disse vigliaccamente
che ragazzi come Dicki
ci sono abituati e ci stanno. Mi viene
da credere che sia tutto combinato:
che ogni tanto arrestino qualche ragazzino
della strada per darlo in pasto
ai carcerati.

SOLIDARIETÀ DEI POVERI
Pochi giorni fa, passando per il
mercato, trovai una grande folla che
vociava e sghignazzava. M’informai
e mi dissero che stavano picchiando
un piccolo ladro. Sceso dall’auto, mi
avvicinai. La folla aprì un varco; tutti
mormoravano: «Baba faraja». Arrivato
sul luogo della scena, vidi che
alcune «guardie» del mercato stavano
bastonando Jonny e un energumeno
lo prendeva a calci in pancia,
mentre Tray cercava di frapporsi col
suo corpo e invocava pietà.
La mia presenza fermò i bastoni; i
ragazzi mi spiegarono l’accaduto:
Jonny aveva voluto aiutare un europeo
a portare la borsa per guadagnarsi
qualche soldo; ma qualcuno
aveva frainteso il gesto e si era messo
a gridare: «Al ladro! Al ladro!».
In tali occasioni tutti si trasformano
in «giustizieri» e diventano spietati,
fino a uccidere il malcapitato a
botte, oppure gli legano le mani, gli
infilano al collo un vecchio copertone
inzuppato di petrolio e danno
fuoco. È successo pure che a qualcuno
hanno bucato gli occhi.
Presi per mano i due ragazzi, veramente
malconci, e li portai all’ospedale.
Ancora oggi, Jonny e Tray
portano in faccia e sulle gambe i segni
di quelle botte. Tray ne è fiero:
«Solidarietà tra reietti!».
Questi bambini sono i famosi «ultimi
» del vangelo, destinati a «primi
». In certe occasioni si risveglia il
buon cuore anche dei più monelli,
tanto che bisogna frenarli. Nell’ultima
quaresima, per esempio, alcuni
ragazzi decisero in assemblea di «dare» qualcosa ai più poveri di loro. Le
idee erano tante: una delle squadriglie
(così sono organizzati i 130 ragazzi)
propose di rinunciare alla colazione
del mattino e dare l’equivalente
in denaro. Alla fine fu deciso
che il giovedì pomeriggio, invece della
solita partita a pallone, avrebbero
raccolto pietre da costruzione sulle
montagne vicine per poi venderle.
Per me il giovedì pomeriggio si trasformò
in un incubo, al vedere i fianchi
della montagna brulicare di bambini
e ragazzi che facevano rotolare
a valle grossi massi, preceduti e seguiti
da tante ansiose raccomandazioni.
Tra l’altro, temevo che da sotto
i massi uscisse qualche serpente,
anche se non credo che i ragazzi si sarebbero
spaventati più di tanto.
Ne raccolsero tre camionate. Il ricavato
lo usammo per aggiustare la
casetta di Huruma, un’orfana di 12
anni, che vive con la nonna cieca: oltre
ad accudirla, trova il tempo di andare
a scuola.

ADULTI DA SENSIBILIZZARE
Il numero dei ragazzi di strada
continua ad aumentare, anche a causa
dell’Aids. Orfani a causa di tale
pestilenza, essi non sono più assorbiti
nel tessuto sociale dei villaggi,
perché sono diventati troppo numerosi;
non resta loro che sciamare per
le strade delle città, organizzarsi in
bande e diventare facilmente piccoli
delinquenti.
È difficile trovare per tutti una soluzione
definitiva. Intanto, abbiamo
fretta di aprire un ufficio in città: un
centro di prima accoglienza o di primo
soccorso dei bambini in difficoltà
e, al tempo stesso, un mezzo
per spiegare e sensibilizzare gli adulti,
le comunità parrocchiali e i «capoccia
» di ogni genere, perché passino
dal disprezzo e paura a capire,
aiutare e (perché no?) amare
anche questi «figli di
Dio» meno fortunati.

Franco Sordella




PERÙ storie di immigrazione dal Sud del mondo

E NULLA
LI POTRÀ FERMARE
Arrivano travestiti da turisti o da uomini d’affari. Chi non può, attraversa
a piedi le frontiere. Spesso hanno un titolo di studio, che non possono
utilizzare. Si adattano a qualsiasi lavoro, vivendo nell’ombra, in attesa
di tempi migliori. Ora la legge Bossi-Fini è entrata in vigore, ma né
le frontiere né le leggi fermeranno chi non ha niente da perdere.

Tanti anni fa mi chiamarono
per andare a visitare
una persona anziana.
La donna era diabetica,
con una gamba amputata e aveva
problemi cardiaci. Morì
dopo pochi mesi. Si chiamava
Elena Rossi ed era nata a Genova.
L’unica cosa particolare
di questo breve e sbiadito ricordo
è il luogo.
La signora Elena viveva in una
decrepita catapecchia di esteras,
plastica e cartoni nel deserto
su cui si stava sviluppando
Villa El Salvador, alla
periferia estrema di Lima, in
Perù.
Poco distante, a Tablada de
Lurin, avevo avuto modo di
sorridere alla visione di una casa
che con il tempo era diventata
parte del paesaggio. Si
trattava di una casetta normale,
se si esclude la particolarità
di un cancello sormontato da
un grande ponte di Rialto, in
cemento armato, che fungeva
da trave. Non era una grande
opera. Anzi, direi che era di
cattivo gusto. Il proprietario
della casa – mi avevano raccontato
– era un orologiaio italiano che lavorava in una baracchetta
alla chancheria, il mercato centrale
di Villa El Salvador. Era fuggito
dall’Italia alla caduta del fascismo.
Se questi erano gli emigrati nostrani
che non avevano sfondato, Lima
invece è piena di segni del passaggio
di italiani. Una delle scuole
straniere più famose della capitale è
l’istituto italiano Raimondi, il dolce
tipico di natale è il panettone, si
mangiano spaghetti Molitalia e Nicolini,
i gelati principali portano il
nome D’Onofrio e – cosa scandalosa
per noi, ma devo dire molto appetitosa
– un piatto tipico di Lima è il
«musciame». Il musciame, vietatissimo
in Italia, è di origine genovese
(con lo stesso nome) e lo si può incontrare
ancora in ristorantini di
Chorrillos e Baranco. Si tratta di
«sfilaccetti» di delfino secco, conditi
con limone, e che a Lima ti servono
con fettine di avocado (assomigliano,
ma con un sapore più forte,
alla bresaola).
Insomma, a Lima ed in Perù, gli italiani
per lo più hanno sfondato eccetto
la signora Rossi di Genova, l’orologiaio
del ponte di Rialto ed il
mio amico Carlos Tozzi.

«NIENTE VISTO,
RIPROVI FRA TRE MESI»

Carlos è della selva, di Lamas, vicino
a Tarapoto. Il suo cognome,
Tozzi, è tipicamente italiano e lui si
arrabbia se lo chiamiamo charapa,
come vengono soprannominati gli
indigeni della zona. Ci ricorda infatti
che suo padre era maestro, che
vivevano nella «Plaza de armas» di
Lamas e che ha lontane origini italiane.
Carlos è una persona normale. Vive
a Villa El Salvador, possiede un
piccolo commercio di elettronica e,
fra gli alti e i bassi della sua attività,
si è dovuto far carico dei fratelli che
ha preso a lavorare con lui.
I fratelli sono cresciuti, ma il paese
(sempre in crisi economica) non
ha permesso a Carlos di sviluppare
il suo piccolo commercio. I fratelli,
insoddisfatti dello stipendio, hanno
cominciato a pensare di emigrare e
Carlos, spinto dalle pressioni della
famiglia, si è trovato a dover organizzare
e finanziare questo viaggio
della speranza.
Già un fratello di sua moglie era emigrato in Italia da alcuni anni, raggiungendo
la fidanzata (partita prima
di lui) e, quindi, una base di esperienza
già c’era. Il cognato di
Carlos, dopo quasi 10 anni di clandestinità
passata come cameriere in
una casa di lusso dell’Olgiata a Roma,
era riuscito ad ottenere il visto.
Ora, quando torna in Perù, prende
la famiglia ed offre loro un viaggio
in una zona turistica: non ne vuole
più sapere della povertà della periferia
di Lima. Si è comprato una casa
a Roma che affitta, per stanza, ad
altri peruviani. E lui continua a vivere
e lavorare all’Olgiata.
Un anno fa dissi a Carlos che non
ce l’avrebbe fatta a mandare i suoi
due fratelli in Italia, perché i controlli
erano rigorosi ed i visti quasi
impossibili. I due fratelli sono invece
tranquillamente nel nostro paese.
Clandestini, lavorano in nero e spediscono
soldi in Perù.
Bossi, Fini e Berlusconi hanno fallito
con i miei amici peruviani.
Grazie invece al nostro governo e
al Consolato italiano di Lima, non
sono riuscito a far viaggiare, per un
mese di vacanza in Italia, la mia figlioccia
che, finite le superiori, si era
iscritta a medicina a Lima. Sua
madre, professoressa universitaria
peruviana, è stata respinta dal Consolato,
pur potendo dimostrare il
suo stipendio (decente per il Perù,
anche se indecente per l’Italia), l’iscrizione
in un’università privata
della figlia e la mia lettera d’invito,
nella quale mi facevo carico dell’alloggio
e di ogni possibile spesa. Le
hanno detto: «Niente visto, riprovi
fra tre mesi… Fate tutti così e poi rimanete
in Italia».
Allora come ce l’hanno fatta i fratelli
di Carlos?

LA DISPERAZIONE
AGUZZA L’INGEGNO

Come ce la fanno le altre migliaia
di peruviani che viaggiano in Europa
e rimangono come clandestini?
(Si parla di 30.000 passaporti nuovi
emessi ogni mese in Perù e… certo
non per turismo).
I metodi sono tanti e vengono accuratamente
scelti in base alle caratteristiche
delle persone e delle variazioni
che si osservano nei paesi
europei.
Me ne hanno raccontati alcuni.
IL RICCO TURISTA
Si compra un tour, alberghi compresi,
per andare a visitare la Terra
Santa. Il viaggio prevede però una
sosta ad Amsterdam di due giorni,
perché non vi sono coincidenze immediate.
Viene rilasciato il «visto
Schengen» (vi aderiscono 15 paesi
europei, ndr) per la sosta, si va all’albergo
prenotato nella città olandese,
ci si riposa e, dopo una bella
doccia, si prende il primo aereo per
Roma. Arrivati alla dogana, ti chiedono
il perché di questa deviazione.
Rispondi che, avendo due giorni di
tempo, ne approfitti per visitare anche
il papa. Poi, fuori dell’aeroporto,
c’è qualcuno che ti aspetta. Lo
segui in silenzio fino alla macchina e
quindi sparisci.
IL MANAGER
Si sa che un manager deve poter
viaggiare e che il «negozio» non ha
frontiere. Il problema è che non tutti
sono manager. Bisogna allora scegliere
una piccola società (basta un
negozietto) che abbia la sede in un
buon quartiere di Lima (Miraflores
e San Isidro sono i più gettonati). Si
nomina la persona candidata a trasformarsi
in «emigrante clandestino» direttore generale. Con un documento
falso si dimostra l’elevato
stipendio dello stesso, e si chiede il
visto per un viaggio di affari.
Nel Consolato di uno dei paesi
Schengen (il paese viene cambiato
a seconda dell’aria che tira e ultimamente
mi dicono che venga utilizzata
spesso la Grecia) si ottiene il
visto e poi, arrivati in Europa, si
sparisce.
L’AVVENTUROSO
Forse questo modo di viaggiare è
meno caro degli altri. Conosco una
ragazza che è andata a lavorare a Milano,
passando per la Croazia e di là,
via terra, in Italia. Un altro è partito
per il Marocco e, non so per quali
vie, è arrivato in Italia.

VITA DA CLANDESTINO
Che fanno il ricco turista, il manager,
l’avventuroso una volta arrivati
in Italia?
Appoggiati da contatti in loco
(spesso familiari), un lavoro in nero
lo riescono a trovare. Di frequente
nelle case (i camerieri e le cameriere
peruviani sono molto apprezzati), in
piccole e medie imprese (ne conosco
uno che lavora in nero in una
concessionaria di una grossa società
di automobili). Ne ho conosciuto un
altro, che è riuscito a sposarsi con una
postina italiana di un’isola della
laguna di Venezia.
In Italia bisogna rigare dritto. La
vita deve essere tutta casa e lavoro,
evitare assembramenti, i locali dove
si riuniscono i peruviani, non creare
problemi, arrangiarsi se si sta male
e attendere l’occasione per diventare
regolare.
Carlos mi diceva che non capiva
perché i suoi fratelli se ne andassero
a cercare fortuna altrove. In fondo
un lavoro ce l’avevano e bastava aspettare
che l’economia si riprendesse
per migliorare la loro condizione
economica. Mi confessava che
non capiva come uno che avesse un
certo livello di studio, una certa responsabilità
nella gestione di una
piccola impresa, moglie e figli, decidesse
di abbandonare tutto per andare
a cambiar gomme alle auto o a
pulire i gabinetti di qualche ricca famiglia
italiana.
Poi però, riflettendo, confessava
che mentre suo cognato, pulendo i
cessi in Italia, era riuscito a comprarsi
un’auto e una casa a Roma, a
tornare a Lima ogni due anni e a fare
il signore, lui laureato ed impresario
in Perù stentava a tirare avanti.
«Questo è il problema – mi spiegava
– i nostri emigrati sono giovani
che hanno perso la speranza di un
futuro nel proprio paese». Quello
che cercano in Italia e in Europa è la
prospettiva di un domani diverso e
per questo sono disposti a pagare un
prezzo pesante: abbandonano mogli
o mariti, figli, affetti, dignità professionale,
ed accettano qualunque
lavoro.
«Un eventuale fallimento – mi diceva
Carlos -, la possibilità di un’espulsione,
l’andare come clandestini,
il pagare 5.000 dollari per viaggiare,
la vita di segregazione nei
vostri paesi, sono il prezzo da pagare
nella ricerca di una speranza e
quindi non sono un vero ostacolo».

ANDATA E RITORNO
Basta sedersi davanti alla mia casa
a Villa e parlare con i vicini per capire
molte cose e ascoltare tante storie.
L’Argentina sicuramente è stata una
tragedia per i peruviani. Un giorno
José bussò a casa e, con grande
vergogna, ci chiese 10 dollari. Sua
madre, in fuga dal disastro dell’Argentina,
era rimasta bloccata con il
pullman di linea a causa di una gran
nevicata su un alto passo ai confini
fra Argentina e Bolivia. Non aveva i
soldi per mangiare e se li era fatti
prestare da una compagna di viaggio.
Era partita solo un anno prima,
sbagliando i calcoli e trovando
un’Argentina senza possibilità di
darle un lavoro.
Roberto, ragazzo intelligente ed
inquieto, era riuscito a lavorare come
portiere in un’impresa televisiva
a Buenos Aires. Si era fatto raggiungere
dalla fidanzata e aveva messo su
casa. Poi il disastro argentino, il lavoro
perso e il ritorno a casa, a Villa
El Salvador. Ora vaga per il quartiere,
ben vestito, insoddisfatto della
povertà che lo circonda e pronto a
ripartire. Questa volta però per
l’Europa.
Gli Stati Uniti sono un’altra meta
desiderata e sognata.
La famiglia del farmacista Juan ha
mollato tutto. Prima un figlio in
Francia, poi anche l’altra figlia, infine
loro due, marito e moglie, li hanno
raggiunti, ma Eduardo no. Lui era
stato sempre un ribelle, elegante
e affascinante. Si era comprato una
bella macchina: aveva lavorato come
guardia del corpo in Perù e non
voleva andarsene. Poi qualche problema
con la coca, i primi figli, la crisi economica sempre più profonda
e la decisione di andare (anche lui!)
negli Stati Uniti. Un lavoro da scaricatore
(non riesco ad immaginarmi
questo ragazzo elegante e ribelle a
scaricare camion). Poi, con l’11 settembre,
l’impresa è stata colpita dalla
crisi, ma lui ha resistito, pur avendo
perso il lavoro. È riuscito a trovae
un altro e a chiamare moglie e
figli che poco tempo fa sono partiti
da Villa El Salvador per raggiungerlo
negli Stati Uniti.
Potrei ancora raccontarvi del difficile
anno di Sara a Milano, clandestina
e prigioniera in una casa borghese,
dove lavorava per una piccola
mancia quotidiana: schiava e
prigioniera. Una bella ragazza di poco
più di vent’anni, figlia di un amico
di Villa El Salvador, che mi aveva
pregato di aiutarla. Gli avevo
spiegato che non potevo fare granché,
ma gli avevo dato il mio indirizzo
e il numero di telefono per ogni
possibile problema.
Ogni tanto Sara mi telefonava. Si
sfogava, mi raccontava di come era
maltrattata e di come non poteva
reagire, perché minacciavano di denunciarla.
Non ce la fece a resistere
e toò in Perù. Adesso sta bene: si
è sposata ed è tornata serena. Ma
non vuole parlare di quell’anno trascorso
in Italia.

«PERÒ VIVONO»
Ci sono anche persone più fortunate.
Maria che si è sposata con un
francese e ora vive a Parigi; Feando
e Jorge che si sono sposati con
due spagnole e adesso vivono a Madrid
uno e a Barcellona l’altro. Certo
le loro parole sono piene di nostalgia
e i loro lavori non sono al livello
della preparazione e capacità.
Però vivono.
Specialmente Jorge è rimasto
sconvolto dallo scoprire la povertà.
Piangendo l’ho sentito raccontare la
povertà della vita e della morte dei
suoi genitori, della tubercolosi di un
suo fratello. Era la sua stessa povertà,
ma l’ha scoperta vivendo in
Spagna. Sono stato a casa sua a
Barcellona, bella, modea, con
tutto il necessario, ben diversa
dalla casetta della sua famiglia a
Villa El Salvador. Jorge è triste
e rimpiange la sua gente. Ma
non toerà.
Se solo potessi raccontarvi la
storia di Feando che in Perù
sognava di essere giornalista.
Ma non posso, perché neanche
lui vuole raccontarla. La conosco solo
grazie a due notti passate nella
stessa stanza d’albergo a Barcellona,
a qualche bicchiere di birra bevuto
insieme passeggiando per las Ramblas
e ad una parte di storia vissuta
con lui nel ruolo di «complice».
Ha attraversato le frontiere di
mezza Europa nascosto nel bagagliaio di un’automobile, venduto
palloncini nel Parque del Retiro di
Madrid, mangiato nelle mense dei
poveri, dormito agli angoli delle
strade. Ha fatto il «vu’ cumprà», e
poi lentamente è risalito per la china
di una vita che si è dovuto conquistare
palmo a palmo, fino ad iscriversi
all’università, a lavorare
come giornalista in un grosso periodico
di Madrid, e poi, perso il lavoro
per una crisi del giornale, a riciclarsi
come assistente di anziani.
Con lui sono in contatto settimanalmente
per E-mail.

CHI TROVA
LE FRONTIERE APERTE?

Chissà quale sarà la storia delle
persone che incontriamo quotidianamente
e che, genericamente, cataloghiamo
come «extracomunitari
». Sarà simile a quelle dei miei amici?
Una volta, nella bella città dove vivo,
Venezia, ero andato a comprare
il latte con mio figlio di 5 anni. Dentro
il negozio, c’era un grande, grosso
e nero «vu’ cumprà». Quella volta
non riuscì a trattenere un largo
sorriso di fronte a mio figlio e mi disse:
«Nel mio paese facevo il maestro,
i bambini sono belli in tutto il mondo
»! e se ne andò via con il suo borsone
pieno di borse contraffatte,
senza aspettare una mia risposta che
peraltro non avevo.
I transessuali peruviani viaggiano
tranquillamente e costantemente fra
Lima e Milano, dove svolgono il loro
«apprezzato» (inutile negare l’evidenza)
commercio e da Milano
portano l’Aids in Perù insieme a
manciate di soldi (tre di loro erano
nei sedili posteriori del volo Iberia
che a giugno mi riportava in Europa).
I commercianti di droga, le mafie
della prostituzione, i delinquenti incalliti
di tanti paesi possiedono ottimi
visti e per loro le frontiere sono
sempre aperte.
Come spiegare queste cose a Pamela,
la mia figlioccia di 17 anni?
Lei mi disse con candido stupore
che non capiva. Non capiva perché
io potevo viaggiare quando volevo
in Perù ed invece lei era respinta dall’Italia
per il suo sogno di una vacanza
promessa da tanti anni.
Aveva scoperto quella stupida e inutile
ingiustizia che le peserà per
tutta la vita (perché io sempre sarò
europeo e libero e lei peruviana e
prigioniera).

L’ILLUSIONE
DI CONTROLLARE IL MONDO

I ragazzi alla ricerca di una speranza
viaggeranno comunque. Passeranno
per il Marocco, la Slovenia,
la Turchia, la Grecia. Saliranno su
carrette del mare. Attraverseranno
le frontiere nascosti in camion o nei
bagagliai delle auto e, se verranno
trovati, saranno espulsi, ma sicuramente
ci riproveranno. E, quando
saranno vecchi, lo faranno i figli e
poi i figli dei figli.
No, Bossi, Fini e Berlusconi e la
maggioranza dei miei compaesani si
stanno illudendo. Le frontiere non
bloccano chi non ha niente da perdere
e cerca solo una speranza per
il proprio futuro. E non bastano pochi
aiuti ai loro paesi per evitare la
loro migrazione, perché – contrariamente
a quanto si crede – non sono
gli affamati che tentano l’avventura.
Bensì tutti quelli che nel loro paese
non hanno una speranza di un futuro
diverso.
Sono proprio loro, questi giovani
senza speranza, pericolosi, fastidiosi
immigrati che vengono a sconvolgere
le nostre illusioni
di poter controllare
il mondo.

Guido Sattin