MATIRI (KENYA): progetto «Acqua per la vita»

STREGATI DA UN SOGNO
È quello di padre Orazio
Mazzucchi, parroco di Matiri
(Kenya): dare elettricità,
acqua potabile e irrigua
alle popolazioni assetate
della sua missione.
Il progetto ha contagiato
numerose persone
e organismi, fino a tradurre
il sogno in realtà.

Indimenticabile Matiri! Vi arrivai
una sera dell’ottobre 1998, dopo
un paio d’ore di viaggio, fendendo
la polvere sollevata dall’auto
che ci precedeva. Nonostante i finestrini
chiusi, penetrava implacabile e
si amalgamava al sudore provocato
dal calore crescente a mano a mano
che dall’altopiano del Meru si scendeva
verso la regione del Tharaka.
Una bella doccia era in testa a tutti
i desideri; ma dovetti mettermi in
fila e attendere un paio d’ore prima
che il serbatornio dell’acqua si riempisse
nuovamente.
Il giorno dopo compresi le cause
dell’inghippo, quando padre Orazio
Mazzucchi mi portò sul ciglio della
collina dove sorgono le numerose
strutture della missione, mi indicò il
fiume Mutonga, sotto uno strapiombo
di un centinaio di metri, e una
pompa asmatica che rifoiva l’acqua
a tante opere.
«Presto un grande acquedotto foirà
acqua in abbondanza per le attività
della missione e le coltivazioni
agricole della gente della zona» disse
padre Orazio. E cominciò a spiegare
il progetto che aveva in mente e
i contatti già avviati con alcune associazioni
di sostegno.
In verità, quelle spiegazioni furono
subito cancellate dalla memoria,
sia dal sole canicolare che mi annubilava
la mente, sia perché mi sembravano
un progetto faraonico.
A quattro anni di distanza il sogno
si è materializzato: un tubo di 5 pollici
rifornisce in continuazione acqua
potabile a tutta la missione.

SAVANA INFUOCATA
Matiri è la prima missione fondata
nel cuore del Tharaka, una regione
dove il termometro sfonda spesso
i 40° gradi all’ombra e che i missionari
hanno sempre descritto
come un «foo», per non dire «inferno
». Anche il paesaggio, disseminato
di colline e neri massi vulcanici,
per la maggior parte dell’anno
non ha nulla di paradisiaco, ma solo
erba bruciata dal sole, cespugli spinosi
e serpenti velenosi.
Per questo il Tharaka e i suoi abitanti
furono sempre ignorati dall’amministrazione
coloniale, ma non
dai missionari che, stabilitisi negli altipiani
del Meru, cominciarono ad esplorare
la zona già nel 1911, vi costruirono
le prime scuole e, nel 1957,
si stabilirono definitivamente a Matiri,
dando poi origine ad altre due
missioni in quella landa infuocata.
Il Tharaka rimane ancora una delle
zone più povere del Kenya a causa
di diversi fattori: isolamento geografico,
mancanza d’acqua, scarsità di
strade e mezzi di comunicazione, disoccupazione
e malanni vari, come
alcolismo e presenza endemica di varie
malattie (malaria, tubercolosi, lebbra,
parassitosi, tracoma…).
La regione, dal tipico paesaggio
della savana, ha scarso potenziale agricolo;
ma esistono, lungo i pendii
delle colline e negli avvallamenti, aree
fertili, dove la gente cerca di trarre
il sostentamento per una vita grama,
coltivando miglio, sorgo, legumi
e fazzoletti di granoturco. Nel resto
pascolano alcune capre, pecore e pochi
bovini, allevati per avere un po’
di latte e carne, ma solo in occasioni
di feste e celebrazioni: il bestiame,
secondo il costume tradizionale, serve
per «comperare» la sposa.
Ma la sopravvivenza di uomini e
bestie è alla mercé del cielo: se un anno
non piove, è fame nera.
Le strade sono sterrate e impraticabili
durante la stagione delle piogge
e polverose nel periodo asciutto.
Manca lavoro e futuro, per cui si assiste
a una continua emorragia di
giovani, che cercano fortuna a Nairobi
o nelle città della costa.
Non esistono ospedali nella zona;
quei pochi sono lontani e proibitivi e
qualche volta si rifiutano di attendere
ai pazienti del Tharaka, sapendo
che non hanno un soldo in tasca.
Per rispondere alle esigenze della
popolazione della parrocchia, 46 mila
abitanti su un territorio di 600
kmq, Matiri si è sviluppata enormemente
e offre servizi d’importanza vitale:
un dispensario, dove ogni giorno
vengono curate circa 300 persone
e che sta diventando un piccolo ospedale,
grazie alla presenza continua
di una infermiera professionale, Rita
Drago, e alla presenza periodica di
medici volontari; una mateità con
20 posti letto, dove nascono circa 50
bambini al mese; una scuola matea
con 50 allievi, una scuola elementare
con 300 alunni, una scuola secondaria
maschile con 80 allievi; il Village
Politechnic (scuola professionale)
con 90 studenti.

UN LAVORO A OPERA D’ARTE
Con tante opere e persone, l’acqua
è questione di vita o di morte. Stufo
dei grattacapi causati dalla pompa asmatica, tre anni fa padre Orazio lanciò
una duplice sfida, riassunta nel
motto «Acqua per la vita»: portare
acqua potabile alla missione e quella
del fiume nei campi della popolazione
circostante.
Nel 2001 il guanto fu raccolto dal
gruppo missionario «La sola verità è
amarsi» di Barzanò, da decenni legato
al missionario, e dall’associazione
non governativa «Mondo giusto
» di Lecco, che stesero il progetto
e cominciarono ad attuarlo.
Un gruppo di volontari brianzoli
raggiunse Matiri e spianò la strada
per il passaggio dei macchinari dalla
missione al fiume. Altri membri delle
due associazioni avviarono la raccolta
di fondi, coinvolgendo in una
catena di Sant’Antonio persone, organismi
e istituzioni varie, compreso
il comune di Mairago, paese natale di
padre Orazio, sindaco in testa.
Proprio a Mairago, in una giornata
di raccolta, era intervenuto per caso
Osvaldo Felissari, presidente del
Consorzio acque potabili di Milano
(Cap), che fu contagiato dal progetto
e lo presentò al consiglio di amministrazione:
seduta stante fu deciso di
fornire tubature e assistenza tecnica.
Prima, però, bisognava studiare
bene la fattibilità del piano. Mappe,
elementi tecnici e indicazioni verbali
non erano sufficienti per un’impresa
così seria. Il Cap decise di inviare
un tecnico per studiae meglio
la fattibilità sul luogo. Si offrì volontario
un ex dipendente in pensione,
Marino Anselmi, che il 20 maggio
2002 raggiunse Matiri. Per un mese
e mezzo egli studiò il terreno e, via telefono,
chiedeva gioalmente aiuto
all’ingegnere capo del Cap per risolvere
i problemi che incontrava.
Quindi, da Milano furono spediti
vari container con tubi, pompa, filtri,
generatore e materiale di consumo;
da Barzanò furono inviati una ruspa,
martello pneumatico e ricambi; dalla
Malpensa partirono idraulici ed elettricisti
che, arrivati a Matiri, si misero
subito al lavoro, attorniati da un
nugolo di ragazzini e altri curiosi.
Si cominciò a riattivare un pozzo,
trivellato da tecnici svedesi a poche
decine di metri dal fiume Mutonga e
mai usato. Con l’impiego di 60 operai
locali, ne fu ampliata la bocca fino
a 37 metri di profondità e posta
la pompa: dopo una settimana il
pozzo era riattivato.
Ma il diavolo ci mise subito la coda:
la pompa si rivelò inadeguata e si
guastò irrimediabilmente. Nel giro
di pochi giorni, il Cap spedì per via
aerea altre due pompe (una di riserva)
di potenza superiore alla prima.
Ma i funzionari della dogana di Nairobi,
con scuse cavillose, fermarono
la cassa con i macchinari per una decina
di giorni, mettendo a dura prova
la pazienza dei tecnici milanesi.
Le nuove pompe erano perfette
per il pozzo africano: potevano erogare
1.000 litri di acqua in 8 minuti,
il tempo necessario per svuotare il
pozzo, che ritorna al livello primitivo
dopo 40 minuti. Una scelta tecnica
azzeccata: consentiva di risparmiare
carburante e non si rischiava il cedimento
delle pareti del pozzo, essendo
questo circondato dalla roccia.
A questo punto iniziò la seconda
fase dell’intervento: la posa delle tubature,
per una lunghezza complessiva
di 1.200 metri e con un dislivello
di 200.
Con la ruspa venne scavata la trincea
e disposta una duplice linea di
tubi: l’una in plastica (Pvc), destinata
all’acqua potabile; l’altra, molto
più grande, in acciaio, per il futuro
impianto di irrigazione. La saldatura
di questi ultimi richiese un lavoro
acrobatico, data la natura rocciosa e
il dislivello della collina.
Mentre si ponevano i tubi, i volontari
di Barzanò cornordinarono il
lavoro dei muratori nella costruzione
di una cabina per il pozzo riattivato
e un locale per la stazione di
pompaggio, a fianco del quale Anselmi
istallò un filtro a sabbia, per
depurare l’acqua dall’argilla, e un
bypass per il contro lavaggio, per facilitare
la manutenzione dell’impianto.

BRINDISI CON ACQUA GELATA
Il 2 giugno 2002 è un giorno storico
per Matiri: da un tubo di 5 esce la
prima acqua potabile, tra il tripudio
della gente. La sera, missionari, volontari
e tecnici brindano con bottiglie
di acqua refrigerata, quella che,
con ironia e malcelato orgoglio, Anselmi
battezza col suo nome: «Acqua
Marino: ha un sapore gradevole, incomparabilmente
migliore di quella
del fiume, da cui attinge la gente del
posto, mettendo a rischio la salute».
Le analisi successive ne confermeranno
la bontà.
Il signor Anselmi è tornato a casa
entusiasta dell’esperienza africana,
non solo per la riuscita del progetto,
ma per le tante cose imparate dalla
gente. «Da quando sono in pensione,
ho fatto tanti viaggi all’estero, in
Cina, Nepal, Africa, Messico; ma
tutti insieme non valgono questa esperienza».
Ciò che maggiormente lo ha sorpreso
è la preparazione tecnica di alcuni
collaboratori, usciti dalla scuola
professionale di Matiri. «Tutti eccellenti
– precisa Anselmi -, uno lo
era in modo particolare, Joseph: si è
dimostrato un bravissimo saldatore,
operaio affidabile e molto intelligente.
A qualcuno ho dovuto insegnare
come tenere il badile: lo imbracciava
all’apice del ferro, facendo fatica
doppia; ma una volta imparato, lavorava
con lena e ammirevole efficienza».

IL SOGNO CONTINUA
Terminato il primo acquedotto, i
tecnici del Cap hanno lasciato Matiri,
ma non è detto che non possano
tornare a dare gli ultimi ritocchi al lavoro
compiuto fino a oggi e a quello
ancora in corso e provvedere all’addestramento
di personale locale per
la manutenzione dei vari impianti idraulici.
Nella missione, infatti, è rimasto un
volontario di Barzanò per chiudere il
cerchio del progetto «Acqua per la
vita»; un sogno non meno ambizioso
di quello già portato a termine.
Superati gli intoppi provocati dalle
rivalità dei clan, è già stato scavato
un canale di 2,5 km per prelevare
l’acqua a monte del fiume e, con una
caduta di 15 metri, alimentare una
turbina elettrica, per poi essere convogliata
nei tubi di acciaio e irrorare
alcune aree agricole attorno alla missione.
Tale acquedotto permetterà alla
popolazione di rendersi economicamente
autonoma, coltivando prodotti
non solo per il sostentamento
familiare, ma destinati anche alla
commercializzazione.
La centrale idroelettrica, invece,
foirà la corrente necessaria alle numerose
strutture della missione. Il
surplus energetico diuo e notturno
sarà utilizzato per il pompaggio
dell’acqua potabile e irrigua.
Si prevede che per la seconda metà
di quest’anno l’opera sarà in funzione.
«Avremmo potuto ingaggiare
una compagnia di Nairobi, che avrebbe
fatto il lavoro in pochi mesi –
spiega Franco Godina, presidente
del gruppo “La sola verità è amarsi”
e sindaco di Barzanò -, ma abbiamo
preferito coinvolgere la gente, dando
lavoro e facendo in modo che
sentano il progetto come cosa propria,
anche se la realizzazione definitiva
richiederà un paio d’anni. Al
tempo stesso si prepara il personale
che possa curare la manutenzione
e gestione ordinaria
della struttura».

Benedetto Bellesi




IRAN: paese in evoluzione

RIFORMISMO AL CONTAGOCCE
Dopo 20 anni
di regime islamico,
l’Iran sta cambiando,
la gente
più velocemente
delle istituzioni.
I giovani, soprattutto,
vogliono più libertà.

Può sembrare strano: tra i principali
fautori delle riforme in
Iran, oggi, ci sono alcuni degli
ex-studenti che nel novembre 1979
assalirono l’ambasciata americana a
Teheran e la tennero in ostaggio per
444 giorni. Facciamo qualche nome.
Massumeh Ebtekar: interprete e
portavoce degli studenti, è stata vice
presidente per l’ambiente nel primo
governo del riformista Khatami e
prima donna a ricoprire una carica
politica tanto prestigiosa.
Ibrahim Asgharzadeh: con la rivoluzione
ha iniziato la sua carriera
politica: è stato eletto in parlamento;
poi ha perso il posto per avere criticato
il dispotismo dei religiosi.
Abbas Abdi: guidò l’assalto all’ambasciata;
scontò otto mesi d’isolamento
nel 1993 per avere criticato
il regime. Noto editorialista del quotidiano
Salaam, chiuso nel 1999 perché
troppo liberale, oggi è uno degli
strateghi dei riformisti. Sostiene la
necessità di un avvicinamento con
l’Occidente.
Akbar Ganji: diventato giornalista,
ha avuto il coraggio, durante un
processo che lo vedeva imputato per
aver preso parte a un convegno sull’Iran
a Berlino, di denunciare i mandanti
di una serie d’assassini di stato
commessi negli anni ’90.
Mohsen Mirdamadi: diventato
professore di scienze politiche, è uno
dei fondatori del partito riformista.

ERRORE DI GIOVENTÙ
Tale trasformazione può sembrare
strana, ma forse non lo è. È, piuttosto,
il segno di un fallimento e di una
nuova consapevolezza. Abbas Abdi
lo ammette apertamente: la rivoluzione
è stato un errore di gioventù.
Quei ragazzi non sono passati illesi
attraverso i 20 anni di regime islamico;
sono cambiati e sono giunti alla
conclusione che il loro clamoroso
gesto di un tempo non ha dato i risultati
che si aspettavano. È un’esperienza
comune a molti ex-rivoluzionari.
Coloro che mal tolleravano
il dispotismo dello scià hanno finito
per trovarsi a disagio anche col nuovo
ordinamento e subire analoghi
trattamenti, se tentavano di dare voce
al proprio dissenso. A molti è capitato
di sperimentare, dopo le prigioni
dello scià, quelle non meno dure
della Repubblica islamica.
Comunque lo si giudichi, questo
fatto la dice lunga sull’Iran d’oggi,
che, nel nostro immaginario collettivo,
continuiamo ad associare agli eccessi
del primo periodo rivoluzionario,
processi sommari, roghi di libri
nelle strade, folle fanatiche.
Sebbene il rituale di bruciare la
bandiera americana e gridare «morte
agli Usa» sia tuttora praticato, a tenere
viva questa triste tradizione è
una parte fortemente minoritaria della
popolazione: sono gli integralisti,
le fanatiche «guardie della rivoluzione
». La gente normale non prova odio
per l’America. Semmai indifferenza.
Non fosse altro perché moltissime
famiglie hanno almeno un
parente negli Stati Uniti o in Europa.

NUOVI SPAZI DI LIBERTÀ
Tutti i regimi rivoluzionari, una
volta consumatosi il movimento che
ne ha favorito l’ascesa, costringono i
cittadini a un doublethink, una doppia
vita: netta scissione tra comportamento
pubblico e privato. Il regime
khomeinista non fa eccezione.
In Iran si sta verificando, però, un
fenomeno nuovo: da un po’ di tempo
gli iraniani non si sforzano più di
nascondere quello che pensano. Per
strada e in luoghi pubblici ho assistito
a veri e propri sfoghi contro
l’oppressiva etichetta islamica e lo
strapotere dei mullah (clero). Nel
2001, occasioni per esprimere la voglia
di libertà e gridare slogan contro
i capi islamici sono diventate le celebrazioni
dopo le vittorie della nazionale
di calcio. L’incomprensibile
sconfitta contro la debole squadra
del Bahrein, con la conseguente
mancata qualifica degli iraniani ai
mondiali, si dice sia stata architettata
dal regime, stufo di quelle spontanee
manifestazioni di piazza.
Centimetro dopo centimetro gli iraniani
si conquistano nuovi spazi di
libertà. A Teheran, senz’altro la città
più spregiudicata, gli abiti delle donne
diventano ogni anno più succinti:
i pantaloni si accorciano (qualcuna
mostra addirittura le caviglie); le
maniche sono arrivate a metà avambraccio;
gli spolverini alle ginocchia;
eppure la polizia religiosa, i famigerati
sepah, non osa intervenire. Le
antenne satellitari sono proibite, ma
molti ce l’hanno lo stesso.

GIOVENTÙ FRUSTRATA
L’Iran è un paese anagraficamente
giovane: più di metà della popolazione
è sotto i 20 anni. Nel 1979
Khomeini invitò la gente a procreare,
senza prevedere quale minaccia
stesse preparando alla sua repubblica
islamica. Fu ascoltato. Adesso in
Iran ci sono 65 milioni di abitanti,
contro i 35 milioni di allora, e sono
in maggioranza giovani, per cui egli
non è che un’icona, tollerata, ma
vuota, un po’ come lo era Lenin nell’ex
Unione Sovietica.
Il mito di Khomeini è cominciato
a sfumare già negli anni ’90, subito
dopo la sua morte. Le nuove generazioni
non hanno vissuto l’epopea
della sua lotta contro lo scià. L’hanno
studiata sui libri, è vero, ma essa
rimane pur sempre remota. Ben più
concreti per loro sono i limiti e i sacrifici
che impone lo stato islamico.
Tra i giovani è molto diffuso il sentimento
che in Iran non ci sia futuro,
che per esprimere al meglio i propri
talenti sia necessario espatriare; e il
senso di frustrazione per non poterlo
fare.
I giovani sono dunque arcistufi
della tutela dei religiosi; ma non hanno
lo spirito rivoluzionario dei padri;
non vogliono fare la rivoluzione, ma
chiedono cambiamenti e, in più occasioni,
hanno dimostrato notevole
dose di coraggio e determinazione.
Nel luglio del 1999 l’Iran, stranamente,
tenne per qualche giorno le
prime pagine dei nostri giornali. Fu
quando a Teheran scoppiò una violenta rivolta studentesca, presto allargatasi
ad altri grossi centri universitari
del paese: all’università di
Teheran, l’8 luglio, si tenne una dimostrazione
di massa contro la chiusura
del giornale progressista Salaam
e contro un progetto di legge sulla
stampa, che avrebbe reso più vulnerabili
i giornalisti.
La giornata si concluse in modo
relativamente pacifico. Le violenze
vere e proprie si verificarono dopo
che, nella notte, truppe antisommossa
e vigilantes attaccarono i dormitori
degli studenti, picchiando i
presenti e distruggendo ogni cosa.
Tale invasione galvanizzò la protesta,
che si trasformò in vera e propria
guerriglia urbana.
Quell’estate avevo deciso di visitare
per la prima volta il paese e temevo
di dover rinunciare al viaggio. Poi,
d’improvviso tutto si chetò. Si ebbe
paura che la cosa potesse degenerare;
ci furono arresti, ma la repressione
fu relativamente poco cruenta.
Da allora ogni anno, il 10 luglio,
viene ricordato quell’episodio, ma
proteste così violente non ce ne sono
più state; gli studenti, per il momento,
hanno capito la lezione e sono
più attenti a non offrire il fianco
a provocazioni. Uno dei modi per esprimere la protesta è quello di partecipare
in massa ai discorsi pubblici
dei leader riformatori, in primis il
presidente Mohammed Khatami.

EPOCA KHATAMI
Quando si parla della storia recente
in Iran, il riferimento cronologico
è sempre uno: prima o dopo la rivoluzione.
Da qualche anno, però, è diventato
comune un altro termine di
riferimento: prima o dopo Khatami.
Il suo avvento ha segnato un’epoca.
Correva l’anno cristiano 1997; l’Iran
si apprestava a scegliere un nuovo
presidente. Quello uscente, Ali
Akbar Hashemi Rafsangiani, già al
secondo mandato, non poteva più
essere rieletto. C’era qualcosa di
nuovo nell’aria: la gente capì che
questa volta l’esito non era così scontato.
Sebbene il Consiglio dei guardiani
– organo formato da sei religiosi
e sei esperti legali laici, cui spetta, tra
l’altro, vagliare le leggi alla luce della
dottrina islamica e controllare l’affidabilità
morale dei candidati alle elezioni
– avesse approvato solo quattro
dei 238 candidati alla presidenza;
sebbene Nateq Nuri, il candidato sostenuto
dal clero conservatore, fosse
dato abbondantemente per favorito,
il 23 maggio la gente si riversò nei
seggi, facendo registrare la più alta
affluenza alle ue dai tempi della rivoluzione.
Khatami ottenne un vero
e proprio plebiscito.
Nella sua breve campagna elettorale
(era entrato in lizza relativamente
tardi) si era presentato con
uno stile ben diverso da quello degli
altri contendenti. Aveva parlato di
sé, della sua famiglia, dei suoi interessi,
dell’esigenza di creare una società
civile tollerante e libera. E, cosa
non da poco, aveva manifestato
un discreto senso dello humour.
Bisogna riconoscere che molte cose
sono cambiate negli anni della sua
presidenza: ci sono meno interferenze
nella vita privata dei cittadini,
sono cessati gli assassini politici di
stato, che fino al ’98 hanno colpito
l’intelligenzia dissidente, ci sono stati
maggiori riconoscimenti dei diritti
delle minoranze.
Anche i cristiani sono stati oggetto
dell’attenzione del presidente. Egli è
stato il primo capo islamico a visitare,
nel settembre del 2000, una chiesa
cristiana: Santa Maria a Urmiah.
Khatami è diventato il punto di riferimento
degli studenti e del movimento
riformista. Tuttavia, la sua politica
di democratizzazione delle istituzioni
e moderata apertura verso
l’occidente ha subito ripetuti contraccolpi,
perché il potere di cui gode
è molto relativo.

RIFORMISMO TIRA E MOLLA
Anche se la gente non vuole più sapee
dei mullah, considerati la
quintessenza dell’ipocrisia, e dei loro
turbanti, neri o bianchi che siano,
le istituzioni nate con la rivoluzione
consegnano il potere reale totalmente
nelle loro mani.
L’ordinamento della repubblica islamica
funziona secondo principi
contraddittori. Da una parte ci sono
un parlamento e un capo dello stato,
democraticamente eletti. Il primo esercita
il potere legislativo e il secondo
quello esecutivo, insieme al consiglio
dei ministri; dall’altra c’è la guida
suprema, un tempo Khomeini e
dal 1989 il suo successore Ali Khamenei,
che è la maggiore autorità
spirituale e politica della repubblica,
in carica a tempo illimitato.
Queste sono le sue prerogative:
designa il capo dell’esercito, il capo
delle guardie rivoluzionarie, nomina
i giudici della corte suprema, direttori
delle reti radio-televisive, può
bloccare le leggi del parlamento e le
iniziative dell’esecutivo. È, quindi,
molto più potente di presidente e
parlamento messi insieme.
Finché alla presidenza ci fu un
conservatore come Rafsangiani e in
parlamento i conservatori erano la
maggioranza, questa contraddizione
non fu così palese, ma dall’arrivo di
Khatami e, soprattutto, da quando,
con le elezioni del febbraio 2000, la
maggioranza parlamentare ha bruscamente
cambiato indirizzo, i conflitti
istituzionali sono esplosi. Clamoroso
è stato il fatto che Khamenei
abbia bloccato la legge sulla libertà
di stampa, promessa e voluta dal
nuovo parlamento riformista.
Khatami ha sempre tentato di evitare
lo scontro diretto, piegandosi,
quando non poteva fare diversamente,
all’autorità di Khamenei.
Non lo si può biasimare. Si rende
perfettamente conto che un conflitto
con la guida suprema potrebbe
innescare una miccia pericolosa.
Quest’atteggiamento conciliante
ha suscitato tra i suoi elettori un senso
di frustrazione; contrariamente
alle aspettative, tuttavia, essi si sono
ripresentati compatti alle elezioni
presidenziali del 2001 e gli hanno affidato
un secondo mandato. D’altra
parte, non avevano alternative e
hanno preferito esprimere così, anziché
con l’astensionismo, la loro
scelta per le riforme.
Naturalmente, con la rivoluzione i
religiosi hanno provveduto ad assumere,
oltre al potere politico, anche
quello economico. Imprese e banche
sono state nazionalizzate e sono stati
creati i boniad, fondazioni benefiche
che amministrano i beni confiscati
alla monarchia nel ’79.
I boniad operano sopra la legge:
non pagano le tasse, non hanno l’obbligo
di bilanci pubblici e rispondono
direttamente alla guida suprema.
Con il tempo essi sono diventati giganteschi
trust, che inglobano centinaia
di aziende, con interessi nei più
diversi campi economici. Non se ne
conosce la ricchezza effettiva, ma si
calcola che gestiscano circa un quinto
del bilancio dello stato.
Il nuovo parlamento ha tentato di
sottoporli a meccanismi di controllo,
ma il provvedimento è stato bloccato
dal Consiglio dei guardiani.
Il settore privato, invece, è penalizzato
da leggi limitanti e protezionistiche.
Di conseguenza il 40% dell’economia
si basa sul mercato nero,
dove fiorisce, tra l’altro, il contrabbando
di beni ufficialmente proibiti,
come cosmetici, cassette di musica,
film, alcolici.

RIPENSAMENTI DEI MULLAH
I leader religiosi non possono non
avvertire che il paese sta sfuggendo
loro di mano e la gente ha preso una
strada diversa dalla loro; tuttavia,
non intendendo cedere il potere,
stanno usando ogni mezzo per arrestare
un movimento che si fa sempre
più ampio. E di frecce al loro arco ne
hanno parecchie: ricorrono ai servizi
di sicurezza e mezzi d’informazione;
chiudono giornali e riviste liberali
con l’accusa di pubblicare materiale
ingiurioso dell’islam; arrestano
giornalisti, scrittori, attivisti politici.
Possono contare sulla totale acquiescenza
del sistema giudiziario. Essi
controllano i giudici e tanto basta,
perché nei tribunali non c’è obbligo
di processi pubblici e non è prevista
la giuria popolare.
Il parlamento non ha potuto far
nulla neanche in questo campo. Un
suo progetto di riforma della giustizia
è stato bloccato nel luglio 2001
dal Consiglio dei guardiani.
Tuttavia, la comunità dei religiosi
non è più compatta come una volta;
anche tra di loro si è da tempo manifestata
una certa dissidenza. Alcuni
mettono in dubbio il diritto del
clero al potere assoluto e condannano
la svolta autoritaria assunta dalla
dottrina khomeinista. È significativo
che Khatami abbia riscosso ampi
consensi perfino a Qhom, il maggiore
centro religioso del paese, insieme
a Mashad, e sede di prestigiose scuole
coraniche.
C’è un buon numero di religiosi
impegnati nel campo riformista, a
cominciare dallo stesso presidente
Khatami, che è stato discepolo di
Khomeini a Qhom e porta il turbante
nero dei discendenti di Maometto,
e da Hadi Khamenei, fratello della
guida suprema.
Tra i riformatori troviamo anche
alcuni religiosi che hanno svolto un
ruolo importante durante la rivoluzione,
come Mohammed Musavi
Khoeniha, consigliere spirituale degli
studenti che hanno assalito l’ambasciata
americana; o Abdollah Nuri,
un tempo guida religiosa delle
guardie della rivoluzione. Per le sue
idee liberali, nel novembre del 1999
è stato condannato a cinque anni di
carcere e altrettanti d’interdizione da
pubblici uffici. Gode di una così
grande popolarità che il suo discorso
di difesa al processo, pubblicato
col titolo di La cicuta
delle riforme, è andato esaurito
in poche ore.

IDENTITÀ IRANIANA
L’Iran sta cambiando
in fretta, la
gente più velocemente delle istituzioni,
ma anche quest’ultime dovranno
prima o poi adattarsi ai nuovi
tempi.
Non si deve, tuttavia, credere che
cambiamento per gli iraniani voglia
dire tornare nell’abbraccio del mondo
occidentale. Said Hagiarian, ideologo
delle riforme, coautore del
programma di Khatami per la campagna
elettorale del ’97, sostiene l’idea
di una società civile, democratica,
sì, ma basata sui valori dell’islam,
quindi non di tipo occidentale.
In questo sistema, però, la libertà
è considerata un valore primario. Lo
ha detto chiaramente Khatami in un
discorso tenuto davanti a migliaia di
studenti: «Nessuno può attentare alla
libertà con la scusa della religione».
La libertà è proprio ciò cui aspirano
i giovani innanzitutto. Essi ritengono
che, una volta tornati padroni
del proprio talento e delle
proprie risorse, troveranno la loro
strada, senza doversi rifare ad altri
modelli. Sono convinti di non dovere
imparare da nessuno né invidiare
alcuno: non sono forse i discendenti
degli achemenidi e sasanidi?
L’orgoglio di appartenere a una
civiltà millenaria viene, oggi, coltivato
con cura. Ci tengono ai loro
«sassi», li visitano, li restaurano, li
studiano. Ovunque nei siti archeologici,
grandi e piccoli, vicini e remoti,
si incontrano famiglie iraniane.
La valorizzazione del passato preislamico
è pure un modo per prendere
le distanze dagli arabi conquistatori,
con cui non vogliono essere
confusi e rispetto ai quali si sentono
superiori. Non è un caso che la festa
più popolare del calendario iraniano
sia il no ruz (capodanno), celebrato
il 21 marzo, e non una ricorrenza islamica.
Per questa celebrazione, nonostante
lo scontento delle autorità
islamiche, è stato recentemente ripristinato
anche il «salto del fuoco»,
una tradizione legata a Zoroastro.
L’Iran che cambia chiede anche a
noi di fare la nostra parte: uno sforzo
di conoscenza che permetta di
andare oltre i vecchi cliché con cui
troppo spesso lo etichettiamo, senza
sapere quanto diversa, ricca e feconda
sia la realtà di quel
paese.

Mariachiara B.




Chiese… calpestate

Secondo una tradizione fu l’apostolo Tommaso, negli anni
42-49, a evangelizzare i parti, medi, ircani, battriani,
margiani: tutti popoli dell’antica Persia, molto più estesa
dell’attuale Iran. Altre tradizioni attribuiscono la prima evangelizzazione
in Iran agli apostoli Bartolomeo e Taddeo.
È lecito supporre che a portare tra quei popoli i primi semi
del vangelo siano stati gli ebrei della diaspora: «Parti,
medi, elamiti e abitanti della Mesopotamia» (Atti 2,9), che
il giorno di pentecoste, a Gerusalemme, ascoltarono il primo
discorso di Pietro.
È certo che, tra il I e IV secolo, comunità cristiane e monasteri
si svilupparono a oriente dei confini dell’impero romano.
Prima del 313, il cristianesimo era già religione di
stato nei regni di Edessa e Armenia, evangelizzata nel II secolo
da Gregorio l’Illuminatore. A Urmia, Salamas (Khosrova),
Tabriz, Julfa… si svilupparono fiorenti comunità armene,
come testimoniano ancora oggi antiche chiese e monasteri.
Ne è un esempio Santa Maria a Urmia.
All’inizio i cristiani poterono espandersi e vivere in pace
sotto la dinastia sasanide (224-636). Ma quando re Sapòre
II (310-379) entrò in guerra con gli imperatori Costantino
e Costanzo, i cristiani furono considerati nemici della
Persia: le cronache parlano di 16 mila martiri.
Quando la dottrina di Nestorio sulla duplice personalità
di Cristo fu condannata dal concilio di Efeso (431),
molti suoi seguaci si rifugiarono in Persia e, nel terzo sinodo
di Seleucia (486) i vescovi proclamarono la «Chiesa
assira d’oriente», con patriarca proprio (catholicos), senza
mai rinnegare la sua comunione con Roma e la chiesa
universale.
Legate allo stato, isolate dal resto della cristianità, fuori
dai movimenti teologici e decisioni dei concili, la chiesa
armena rimase monofisita, quella di Edessa nestoriana; entrambe
diventarono quasi indipendenti, senza mai rinnegare
il legame con la sede di Pietro.
Nei secoli VIII e IX la chiesa assira ebbe grande vitalità ed
espansione, fino a contare 20 diocesi, 200 monasteri e 80
milioni di fedeli: i suoi missionari si spinsero in Cina, Mongolia,
Manchuria, Giappone. Con l’invasione islamica incominciò
la decadenza, peggiorata sotto il dominio dei mongoli.
Nel XIV secolo la loro vita cristiana era praticamente
concentrata nei monasteri.
Tale declino fu dovuto anche a fatti interni: nel 1450 il
catholicos Simon IV Denkha (1437-1497) stabilì che la carica
di patriarca fosse ereditaria: la chiesa era dominata da
un’unica famiglia, fino a eleggere minori poco istruiti. Alla
morte di Simon VII (1551), alcuni vescovi nestoriani rifiutarono
la successione del nipote e scelsero Giovanni Sulaka.
I francescani, che dal XIII secolo erano arrivati in Persia,
insieme ai domenicani, per riportare i cristiani alla comunione
con Roma, oltre che per convertire musulmani e mongoli,
suggerirono a Sulaka di chiedere la conferma del papa.
Nel 1553 Giulio III lo consacrò vescovo in San Pietro e
lo nominò patriarca di tutti i nestoriani che si sarebbero uniti
alla chiesa di Roma: nasceva la «chiesa caldea».
Sulaka si stabilì a Dyarbekir in Turchia; ma due anni dopo
fu imprigionato, torturato e giustiziato. Per oltre 200
anni vi furono tensioni fra comunità favorevoli o contrarie
a riconoscere l’unione con Roma. La situazione si stabilizzò
nel 1830, quando Pio VIII confermò il metropolita Giovanni
Hormizdas come capo di tutti i cattolici caldei, con il titolo
di «Patriarca di Babilonia dei caldei», con sede a Mossul,
nel nord dell’Iraq, poi trasferita a Baghdad (1950).
Nel secolo XVI salì al trono persiano una dinastia veramente
iranica: i safavidi, che riportò il regno all’antico
splendore. Lo scià Abbas (1588-1629) chiese aiuto al papa
e ai paesi d’occidente contro i turchi, in cambio aprì le
porte del regno ai missionari cristiani.
In pochi decenni gli agostiniani portoghesi, carmelitani,
gesuiti e cappuccini francesi si stabilirono nella capitale
Isfahan, Shiraz e altre città importanti, costruirono
scuole e chiese, promossero lo sviluppo del paese e riportarono
varie comunità armene e assire nell’alveo romano.
Fu il periodo d’oro delle missioni cattoliche. Lo stesso
scià partecipò a varie funzioni religiose di cattolici e armeni,
dicendo di essere cristiano nel cuore. Nel 1621 organizzò
pubbliche discussioni su argomenti religiosi tra cattolici,
anglicani e musulmani: un periodo di dialogo che la
Persia non sperimentò mai più.
Ma poiché nella lotta contro i turchi dall’occidente arrivarono
solo promesse, allo scià saltarono i nervi; a pagare
il conto fu l’agostiniano De Melo: inviato come ambasciatore
in Europa e Russia, accusato dai compagni di delegazione
come spia, nel 1614 fu arso vivo ad Astrakan.
Più sfortunati furono i cristiani armeni. Per fiaccare la
potenza turca, nel 1604 Abbas I distrusse le città di Erevan,
Julfa e Nakhchivan, ne deportò gli abitanti e li ricollocò
a Nuova Julfa, una città vicino a Isfahan. Ammirato
delle loro capacità industriali e commerciali, il re usò gli armeni
per avviare le industrie tessili, in concorrenza con
quelle turche.
Per avere più collaborazione degli armeni, lo scià finanziò
la costruzione di 13 chiese, ma non esitò a tartassarli.
Ogni volta che aveva bisogno di soldi, inventava una persecuzione
e il gioco era fatto: la borsa o la fede, cioè pagare
o diventare musulmani. Stesso trattamento era riservato
a caldei e assiri.
Nel 1708 la Persia firmò un trattato di amicizia con la
Francia e toò la pace, ma per poco. I turchi invasero l’Armenia, depredarono la popolazione e cominciarono lo sterminio;
ragazzi e ragazze andarono ad aumentare gli harem
dei padroni. Poi gli afghani occuparono il resto del paese.
I missionari dovettero fuggire e le missioni cattoliche andarono
in rovina: nel 1789 la capitale contava 7 cattolici;
chi non riuscì a scappare venne ucciso.
Così finivano 200 anni intessuti di sacrifici e umiliazioni,
persecuzioni e coraggio, illusione e speranza, fede e carità.
Nel 1808 Napoleone rinnovò il trattato di amicizia con
la Persia. I missionari lazzaristi poterono aprire missioni
a Khosrova; vi costruirono la cattedrale di San Givargis,
orgoglio dei cattolici; quindi un seminario. Tra i primi
11 preti c’era Paolo Bedjan, diventato famoso per gli studi
sulla lingua e letteratura siriaca: pubblicò 36 volumi, che
distribuì gratuitamente alle comunità caldee.
Da un viaggio in Francia, padre Bedjan toò con un harmonium:
la gente ne fu impressionata, perché «cantava con
la bocca, con le mani e con i piedi».
Dal XIX secolo missionari cattolici e protestanti tornarono
tra le comunità assire e caldee con scuole e assistenza
medica, elevandone cultura e condizioni di vita e promuovendone
l’identità linguistica e religiosa.
Anche le comunità armene poterono riappropriarsi della
loro identità, con scuole, giornali, stazioni radio, finché
scoppiò la prima guerra mondiale.
A cominciare dal 1914, i cristiani di Urmia e Salamas furono
oggetto di barbarità da parte di turchi e kurdi: chiese
e conventi saccheggiati; decine di migliaia di caldei e
armeni in fuga verso il Caucaso, decimati da fame e freddo.
Inutili furono i tentativi di resistenza degli armeni, di
cattolici e non-cattolici, comandati da Agha Petros Ellof, e
dei nestoriani, guidati dal patriarca Mar Shimun. Mentre
nelle città si consumava il genocidio, i cristiani della campagna,
60-80 mila, fuggirono verso il sud.
Nei decenni seguenti i cristiani furono più tollerati. Delegazioni
della Santa Sede e dello scià avevano appena
concordato alcuni punti di convivenza e dialogo tra islam e
cristiani, quando la rivoluzione di Khomeini (1978) azzerò
tutto. Anzi, le 14 scuole cattoliche, orgoglio della nazione,
furono chiuse; preti e suore espulsi e i dispensari confiscati.
Discriminati per motivi religiosi ed etnici, i cristiani furono
cacciati dall’amministrazione e insegnamento, esclusi
da attività commerciali e sottoposti a restrizioni d’ogni genere.
La fuga dall’oppressione islamica ha costretto i cristiani
a emigrare: in pochi anni sono passati da 320 mila a 120
mila (12 mila cattolici), riducendo la loro presenza allo
0,1% della popolazione iraniana.
Oggi la chiesa cattolica in Iran è organizzata in 3 riti (caldeo,
armeno e latino) e 5 diocesi, tre territoriali per i caldei
(Teheran, Urmia, Ahwaz) e due personali, per armenocattolici
e latini.
L’assassinio di alcuni leaders religiosi ha fatto temere una
nuova persecuzione. Con l’avvento al potere del presidente
Khatami, la situazione sembra migliorata, ma rimane ancora
molto buia.

Benedetto Bellesi




SENEGAL: viaggio tra le aspirazioni della gente

CAMARÀ O MARABOUT?
Islam, calcio, telenovelas
e tradizione del Senegal.
Come nasce l’antipatia per l’occidente?
Anche da una rovesciata volante.

Camarà e Marabout: chi sono?
Il primo è l’unico vero idolo
nazionale del Senegal, autore
del goal più importante della storia
dei «leoni» contro la Francia nell’ultima
coppa del mondo.
Se c’è una data che un senegalese
mai dimenticherà, questa è il 2 luglio
2002. A distanza di mesi, l’intero
paese freme ancora dalla gioia per la
vittoria sull’ex colonizzatore. Gli articoli
di giornale si sprecano, cartelloni
megagiganti, piazze commemorative,
ricordi da raccontare ai nipotini,
che accrescono il mito.
Non è da escludere che fra qualche
anno il risultato della partita sarà
lievitato dal reale uno a zero a un più
leggendario cinque a uno, gol della
bandiera generosamente concesso ai
francesi.
Il secondo, il marabout, un marabout
qualsiasi, è una figura tipicamente
maliana e senegalese dell’islam:
capo della scuola coranica della
città o villaggio, mezzo muezzino,
mezzo santone, mezzo autorità religiosa,
mezzo chissà cos’altro. Un ibrido,
un biohazard religioso quasi.
Lui, l’ibrido, sta combattendo una
guerra che non gli dispiace perdere;
anzi, più che una guerra, un derby.
Dall’alto dei minareti le nenie continuano
assordanti; la faccia del leader
spirituale della confrateita più
importante del Senegal, Mustafà
Cheick Mouhamadou Bamba, è
stampata in ogni dove; gli adesivi di
Osama Bin Laden sono in bella mostra
su tutti gli autobus… Nonostante
tutto, il marabout (ossia l’islam radicale
e oppressivo) perde d’interesse
soprattutto tra i giovani.
Isani valori dello sport: fatica, sacrificio
e anche la vittoria finale,
gettano nel cestino le cantilene
spacca-cervelli degli invasati, le varie
jihad, l’islam peloso che ingrassa sulle
spalle dei più deboli.
Dove non arriva la guerra del «bene
» contro il «male», di bushiana ideologia,
arrivano gli ubriacanti dribbling
di Henry Camarà e compagni.
Già, così potrebbe essere; ma così
non è: i giovani senegalesi si trovano
in un bel guaio, schiacciati tra il furore
islamico e la nuova religione laica,
spargisogni di plastica.
Parlando con questi ragazzi che
detestano ideologicamente l’occidente,
ma sbavano per tutto ciò che
questo gli propina, la situazione diventa
terribilmente complicata e pericolosa,
quanto un’illusione troppo
inseguita.
L’illusione della ricchezza materiale
trova il suo apice nel calcio e deborda
oltre i limiti della passione, per
diventare ossessione.
E non già tra i giovani poveri o poco
scolarizzati, bensì tra gli studenti
liceali: come prima cosa sognano il
pallone in una squadra italiana; poi,
in successione, il tecnico informatico
in Francia, il designer a Berlino, per
arrivare giù giù in fondo: qualsiasi lavoro,
purché fuori dal Senegal.
Coloro che potenzialmente potranno
guidare questo paese hanno
tutti, letteralmente, il desiderio di andare
via: in Italia soprattutto, ma anche
Francia, Spagna, Germania.
Il calcio, con i suoi stereotipi inossidabili
ricevuti in tutte le case
del Senegal, grazie alle paraboliche
che captano i segnali europei,
diventa una punta diamantata
nel processo di rimbambimento di
una generazione.
Quale può essere il futuro di un
paese dove il padre desidera che almeno
un figlio vada via dal Senegal e
tutti i figli desiderano scappare?
Fuggire non da qualcosa (la situazione
economico-politica senegalese
non è il paradiso, ma neppure l’inferno),
ma verso i peggiori cliché che
l’occidente esporta all’estero a palate:
soldi facili, sesso, dissolutezza,
mancanza di valori, ateismo.
Basta accendere il televisore e
guardare la telenovela più seguita del
Senegal: la storia di una ragazza che
s’innamora di uno spasimante telefonico,
che finge di essere un ricco
emigrato in Italia; è invece uno studente
squattrinato che, svenandosi,
la ricopre di regali e gingilli vari.
Calcio e televisione: episodi di costume,
si dirà. No! Anche il nuovo
presidente, Wade, spinge sui tasti
della religione e del progresso, a noi
tanto caro. Il suo credo si riassume
in due parole: Allah e sviluppo economico.
Progresso che comincia ad avere
aspetti inquietanti: esso potrebbe
essere rappresentato
dalle foreste vergini abbattute a colpi
di bulldozer per fare tamburi da
vendere ai turisti che, a casa, faranno
poi bong bong due volte; oppure dalla
totale sudditanza alimentare dalle
importazioni, a caro prezzo, di qualsiasi
prodotto, dimenticando gli alimenti
senegalesi tradizionali, perché
ormai troppo vecchi, non modei.
E ancora i mari depredati dalle meganavi
giapponesi, che in cambio donano
ai villaggi di pescatori qualche
scuola o fatiscente punto sanitario.
Anche i villaggi turistici per bianchi
sono chicche imperdibili. È particolarmente
istruttivo, ad esempio,
godersi la piscina in riva all’oceano,
oppure l’erbetta all’inglese, innaffiata
tutto il giorno, o ancora le fontanelle
a getto continuo. Però, fuori
dei muraglioni di cinta stile gulag sovietico
dei centri-vacanze, i senegalesi
fanno chilometri per attingere
qualche secchio d’acqua, poiché la
falda è scesa troppo nel sottosuolo.
Certo, tutto questo permette a
molte persone, soprattutto sulla costa,
di mettere insieme il pranzo con
la cena, una televisione e, magari, anche
un’auto. Tutto, però, appare precario
in questa economia, basata sul
desiderio consumistico dei «tubab»
(bianchi). Quest’anno, per esempio,
il mancato arrivo del rally Parigi-
Dakar, spostato sulle più danarose
spiagge egiziane di Sharm ash
Chaykh, ha provocato un tracollo di
entrate agli abitanti di Lac Rose.
E il marabout ride sotto la fluente
barba per questo crollo economico…
Così scorre il tempo e il fatalismo
attendista africano appare
addirittura meno pericoloso
di questo continuo indaffararsi dei
nuovi rampanti senegalesi.
Per tutti arriva il momento della caduta
dei miti e capiscono che non ci
sarà mai la possibilità di essere calciatore
della Juventus, tecnico informatico
a Parigi, designer della Volkswagen;
e nemmeno giù giù in fondo,
nei lavori più umili, li vorranno, perché
l’Europa ha chiuso le porte e non
si passa più.
Peccato che anche le foreste stiano
terminando, il mare diventi giorno
dopo giorno meno pescoso e la
gente dei villaggi adiacenti ai centri
turistici risulti sempre più infuriata,
a causa del viavai di ragazze, talvolta
anche bambine, che varcano le porte
carraie la sera per uscie al mattino
dopo…
Indovinate: nelle braccia di chi finisce
questa massa di disillusi, arrabbiati?
Chi gode per questo crollo
dei sogni made in Europe?
Bravi, avete capito.
Ecco come s’ingrossa l’odio verso
l’occidente (e anche contro i cristiani):
prima esso abbaglia con le sue lucine
e rovesciate volanti; poi lascia
tutti a bocca asciutta e li scaraventa
nelle braccia ben tese del radicalismo
musulmano. Così una generazione
si sente rifiutata da quei luoghi
che un tempo adoravano, ma che ora
disprezzano.
Dove risiede la speranza? Nell’interno
del paese; ed è molto
più di una speranza. Nei
villaggi ove sopravvivono ancora forti
tradizioni e culture antiche; dove
sia Camarà che il marabout altro non
sono che due esseri mal sopportati,
entrambi estranei al Senegal.
Villaggi dove si mangia ancora tutti
insieme, con le mani e dallo stesso
piatto; dove l’economia, sostanzialmente
chiusa, fa rima baciata con sobrietà
e, quindi, con felicità.
Qui nessuno ha l’ossessione della
maglietta del Manchester United;
perciò il marabout ha poco da aizzare
contro l’occidente, predone e infedele,
traditore di tante promesse.
Qui una partita a calcio resta ancora
un momento di svago e la preghiera
un attimo di gioia e
riflessione interiore, non
un giuramento di vendetta.

Maurizio Pagliassotti




VILANCULOS (Mozambico): Riflessioni missionarie

IL FUTURO CHE VERRÀ
Uomo
di «due continenti»,
padre Sandro Faedi
riflette sulla sua
esperienza missionaria.
Per tirare anche alcune
conclusioni sul futuro
che si sta delineando…

Dopo aver lavorato per circa
20 anni in America del Sud
(Venezuela), padre Sandro
Faedi si trova ora a Vilanculos, in
Mozambico. Direttore delle pontificie
Opere missionarie venezuelane,
ha dovuto occuparsi sia della pastorale,
che dell’animazione missionaria.
L’esperienza fatta gli può
dunque permettere di stabilire alcune
proiezioni interessanti circa il futuro
della missione.
Nel contesto attuale della chiesa,
molte sono le persone che si chiedono
quale sia il futuro della missione.
La globalizzazione ci ha portato il
mondo in casa e le realtà dei popoli
del Sud ci sono più familiari; il dialogo
interreligioso, l’evangelizzazione
e la promozione umana diventano
più che mai una sfida per la chiesa.
Ma, oggi, dove sono i missionari?
Le partenze sono sempre meno frequenti,
gli istituti missionari diminuiscono
di numero nei loro componenti,
le nuove entrate non riescono
più a sostituire coloro che, per
motivi di età, malattia o morte, sono
costretti a lasciare il proprio posto.
La domanda merita, dunque, di essere
posta. Ed è padre Sandro che
spiega un po’ le cose…

MISSIONE
SENZA MISSIONARI?

La missione, come noi
l’abbiamo pensata da anni
(cioè, una delle attività
della chiesa) avrà ancora un
posto significativo nel futuro?
Io credo che non rivedremo mai
più le spedizioni missionarie del passato!
Lo slancio e il dinamismo della
missione ad gentes sono state spazzate
via dal secolarismo, l’abbandono
della pratica religiosa e l’indifferenza;
d’altra parte, molte comunità
missionarie si sono ripiegate su
se stesse e, sull’esempio dei vari organismi
governativi, investono più
tempo in personale, soldi e problemi
interni, dimenticando lo scopo
per cui sono stati fondati.
Ma la chiesa non «ha una» missione,
perché essa stessa «è» missione!
Proprio come una pietra lanciata
nel mezzo di un lago, che continua
ad espandere le sue onde fino ai bordi.
Mi viene in mente la chiesa primitiva
e il modo con cui i primi discepoli
di Gesù hanno «pubblicizzato
» la nuova fede in tutto il mondo
conosciuto di allora. Penso anche alla
città di Milano, ai tempi di
sant’Ambrogio: metà dei suoi abitanti
erano pagani, l’altra metà divisa
tra cattolici e ariani. Non c’era ancora
la congregazione di Propaganda
fide. La predicazione di Ambrogio e
la testimonianza di vita dei fedeli furono
gli unici mezzi per raggiungere
i non credenti.
Ritoeremo a quei tempi? Probabilmente
no, anche se oggi la chiesa
ha questa nuova coscienza: definirsi
missionaria all’interno e all’esterno.
Ho chiesto ad un giovane che
era appena stato battezzato: «Perché
Dio ci ha creati?». Spontaneamente,
mi ha risposto: «Per conoscerlo, amarlo
e farlo conoscere e amare dai
miei compagni!».
È suonata l’ora di «ridare» la missione
alla chiesa: tutta la chiesa è missionaria,
ad intra e ad gentes. Anche
se sono meno numerosi, i praticanti
hanno una fede più dinamica e contagiosa:
ciò che noi abbiamo visto e
toccato, noi ve lo annunciamo.
«Ringraziamo le chiese d’Europa
che ci hanno portato Cristo; ma non
possiamo ringraziarle per non aver
fatto di noi dei missionari». Mi vengono
in mente queste parole di un
vescovo brasiliano in un congresso
missionario, alla vigilia delle celebrazioni
per i 500 anni di evangelizzazione
del continente latinoamericano. Parole vere: cristiani sì, missionari
no; una chiesa oggetto della
missione, una chiesa che riceve e non
dona. Lo zelo di cui tanti missionari
erano infiammati non è stato trasmesso
nel cuore delle chiese che
hanno fondato. Perché?
Quando un alunno viene bocciato,
ci sono due possibilità: o che sia
pigro, oppure il maestro un incapace.
Occorre cercare di risvegliare
l’interesse dell’alunno e migliorare il
metodo del professore. È ciò che si
cerca di fare in America Latina. Tutto
il lavoro e la riflessione teologicopastorale
di questi anni hanno avuto
di mira la costruzione di un nuovo
modello di chiesa: tutta apostolica,
meno centrata sui sacramenti e più
sul vangelo, meno portata all’interno
e più all’esterno, meno sui vicini
e più sui lontani, meno di parole e
più di testimonianza…
I frutti non sono tardati a venire:
l’entusiasmo missionario ha raggiunto
associazioni, comunità religiose,
preti, famiglie e… ammalati! Nella
chiesa tutti sono chiamati ad annunciare.
In Venezuela, soprattutto, abbiamo
visto rinascere una chiesa cosciente
e dinamica. Manifestazione
speciale e sorprendente di questo risveglio
sono stati i giovani laici missionari,
che hanno accettato di consacrare
un periodo delle loro vacanze
per andare a «fare missione» nei
villaggi, dove la presenza della chiesa
era minima; o ancora giovani laici
che, dopo aver ottenuto il diploma,
hanno deciso di «buttare» qualche
anno della loro vita al servizio degli
ultimi, in un vicariato apostolico o in
una missione fuori della patria.

LO SPIRITO SANTO E… LORO
Certo, per padre Sandro, la realtà
del Mozambico, dove si trova ora, è
ben diversa. La pasqua scorsa sono
stati celebrati 336 battesimi, dopo tre
anni di catecumenato: il 60% di loro
avevano più di 18 anni. Uomini e
donne che cercavano Cristo e hanno
trovato nella chiesa una risposta alla
loro fame e sete di Dio. Il numero è
quasi sempre lo stesso, tutti gli anni.
«Padre, cosa devo fare per essere
cristiano? Per pregare Dio, come
voi, la domenica?». Allora, chiedo
loro: «Perché vuoi essere cattolico?
». Quasi sempre la loro risposta
è: «È un mio vicino, un parente, un
amico che mi ha invitato… Ho visto
come siete uniti e organizzati, come
aiutate i poveri…».
Nel Mozambico di oggi, l’offerta
religiosa è importante: oltre alla nostra
chiesa, si trova una moltitudine
di sètte (cristiane o no) e pure l’islam.
La gente cerca qualcosa che riempia
il cuore e dia senso alla loro esistenza.
Non sono i missionari che chiamano,
non sono stato io ad avvicinare
queste persone, ma lo Spirito Santo,
la comunità cristiana. I veri
missionari sono i nostri cristiani che,
con la parola e l’esempio della loro
vita, condividono la gioia di credere,
trovarsi in comunità e servire i poveri;
per questo richiamano alla vita in
Gesù.
La missione è stata restituita alla
chiesa! Un catechista spiegava ad un
neo battezzato: «Dove è scritto che
tu hai ricevuto il battesimo per venire
a messa la domenica? Non sai che
Dio ti ha fatto battezzare perché aiutassi
i tuoi fratelli?». Questa è la chiesa
nuova che cresce, risposta alla nostra
angoscia e promessa per l’avvenire.
Oggi l’urgenza è «come» essere
missionari. Il missionario «capace di
fare tutto» è morto da tempo. Ora
abbiamo bisogno di missionari «dietro
le quinte», animatori, formatori,
e moltiplicatori di una chiesa nata
per annunciare. L’avvenire della
missione è stato così restituito alla
chiesa, cosciente di essere
inviata ovunque, sino ai
confini della terra!

C’è posto… per tutti
La missione cambia, lentamente, ma decisamente… Prima del concilio Vaticano
II, i missionari erano tutti preti, religiosi e religiose. Ma è lo stesso
concilio ad insegnare che tutti i discepoli di Cristo devono collaborare
alla missione. Visitando il Mozambico ho effettivamente incontrato laici impegnati
in questo senso, giovani e meno giovani.
Alcuni giovani – È a Cuamba che incontro alcuni laici missionari, che hanno
preso la decisione di dedicare un periodo di vita al servizio dei più poveri. È il
caso di Nuno Miguel Reis Prazeres, 28 anni. Pienamente integrato nell’équipe
pastorale della parrocchia di Cuamba, è professore sia nella scuola superiore,
come alla facoltà di agricoltura della nuova università cattolica del Mozambico.
Mi presenta anche tre ragazze, della stessa età, che lavorano tutte nell’insegnamento
o nell’amministrazione. In più, sono impegnate pure in parrocchia:
alla biblioteca, con i giovani e per dei corsi di informatica. Tutti questi giovani
missionari laici hanno un contratto con la diocesi e l’università.
Un pensionato – Titus Pereira risiede nel vescovado di Lichinga. È un portoghese
in pensione; ha lavorato tutta la vita nelle costruzioni. Non è architetto
né geometra, ma ci sa fare; per questo ha messo il suo talento al servizio della
diocesi ed è lui che cornordina la maggior parte delle nuove costruzioni.
Un laico IMC – Ma vi è pure un’altra possibilità: un contratto come laico missionario
della Consolata. Ne ho visto uno, a Vilanculos: Wilfer Javier Ramirez,
uno dei giovani formati in Venezuela da padre Nelson Lachance, con «Joven
Mission». Mentre il padre lavorava nelle pontificie Opere missionarie, aveva
fondato un’associazione di giovani: Javier ne divenne membro e, in seguito,
continuò ad interessarsi alle missioni, collaborando nelle pontificie Opere con
padre Sandro Faedi. Mi racconta come ha maturato la sua vocazione missionaria:
«In tutta la mia formazione e nei vari incontri, ho imparato molte cose
sulla missione. Sempre più volevo mettere in pratica ciò che avevo imparato e
avvertivo che, per rispondere alla chiamata del Signore, dovevo lasciare il Venezuela
e andare in un paese lontano». Era pronto, ma fu molto difficile per
via dei famigliari. Per questo, allo scadere del suo contratto dei tre anni, ritoerà
in Venezuela per sposarsi e occuparsi della famiglia.
Gli chiedo della sua esperienza: «Bella e interessante. Mi sentivo ben preparato.
È stato più duro per i miei genitori e la mia famiglia». Ora, a Vilanculos, aiuta
nel cornordinamento materiale delle tre scuole matee della missione. In ognuna
c’è una sessantina di bambini, è necessario procurare acqua e cibo: ed è proprio
Javier che si interessa di tutto. J. P.

Jean Paré




MESSICO viaggio tra le aspirazioni della gente

L’ERBA DEL VICINO…
Al di là dei monumenti delle varie civiltà
che si sono succedute nel paese, il Messico offre
una umanità palpitante di speranze e sogni,
sempre in attesa che diventino realtà.

Attraversata la frontiera, mi
trovo d’improvviso in un altro
mondo: dal lindore asettico
di San Diego (Stati Uniti) al degrado
ambientale e umano delle vie
intorno alla centrale Avenida de la
Revolucion di Tijuana, in Messico.
Sporcizia, buche nei marciapiedi,
prostitute, mendicanti, povere bancarelle
di donne indie in costume.
Sono disorientata nel vedere numerosissime
e linde farmacie, una accanto
all’altra. Incredibile anche il
numero degli studi medici, che attirano
i clienti nordamericani con co-
loriti cartelloni. In Usa le cure sono
costosissime; qui, invece, gli stessi farmaci
sono più a buon mercato. I medici
sono preparati, coscienziosi e umani
nel trattare i pazienti.
Ampi viali trafficati mi portano al
quartiere Rio, con i suoi centri commerciali
e direzionali: è un altro aspetto
di Tijuana, città che vuole
cambiare e ha già raggiunto importanti
mete nello sviluppo.
La periferia è immensa, ma non
sono solo favelas dei nuovi immigrati
quelle che si arrampicano sulle colline:
sono le «colonie», cioè i quartieri
di chi si è inserito bene nella
nuova economia.
Avrei bisogno di un prete. Uno
che mi racconti le cose come stanno;
che mi faccia capire.

UN PASSO DAL «PARADISO»
È già notte. Dal campanile di una
chiesa un orologio illuminato segna
le 10,15. Entro. La messa è quasi terminata.
I pochi fedeli escono e mi avvicino al prete. Ha una faccia simpatica;
si chiama padre Francisco Javier
Perez; mi invita a seguirlo per le preghiere
e a condividere la cena.
Mi trovo nel seminario maggiore
di Tijuana, un’oasi di tranquillità e
pulizia nel centro caotico della città.
«Vocazioni? Molte – risponde il padre
-. Abbiamo un centinaio di seminaristi;
stiamo progettando un edificio
più ampio, completo di campi
sportivi. La diocesi di Baja Califoia
del nord, sfoa ogni anno una dozzina
di preti, che si trovano subito oberati
di lavoro.
La città è cresciuta enormemente
in pochi anni e sta ancora ricevendo
immigrazione da tutto il Messico,
specialmente dalle zone più povere
e remote, nella speranza di varcare il
confine e stabilirsi negli Usa. I più
fortunati trovano sistemazione presso
parenti o amici. Chi non ce la fa,
bivacca e vive di espedienti».
In effetti oggi ho visto dei poveracci
dormire ai margini dei viadotti,
in mezzo all’immondizia. Parlare
con padre Francisco mi aiuta a capire
meglio la situazione, al di là del disgusto
provato all’arrivo.
Molti immigrati sono arrivati dopo
il terremoto di Città del Messico
del 1985. Un disastro reso più spaventoso
dal crollo di numerosi edifici
statali nuovi, prova di malgoverno
e corruzione negli appalti pubblici.
Tijuana offre ai nuovi arrivati maggiori
possibilità e un clima migliore
di tante città messicane; soprattutto,
siamo vicini agli Stati Uniti, tanto da
attraversare il confine a piedi. Molti
messicani vanno a lavorare oltre confine
e ritornano la sera. I più benestanti
portano i figli a scuola in uno
dei sobborghi di San Diego; i ricchi
vivono negli Usa, anche se gli affari
li hanno a Tijuana.
La Baja Califoia è la regione che
registra il maggior tasso di crescita economica
del Messico e, dal punto
di vista politico e sociale, si dimostra
più avanzata e intraprendente: è il
primo stato messicano a voltare pagina
nelle ultime elezioni, scegliendo
come presidente il leader dell’opposizione
Fox. Da qui è partita la spinta
al cambiamento, mandando a
spasso il potente e corrotto Partito
rivoluzionario istituzionale (Pri), che
per 60 anni ha gestito il potere a suo
esclusivo vantaggio.
Fox deve aver dato fastidio a molti
potenti, se è continuamente oggetto
di critiche e, recentemente, gli
è stato impedito di prendere parte a
conferenze inteazionali in Canada
e Usa: la costituzione prevede l’approvazione
del parlamento per i
viaggi del presidente all’estero.
Fox è un ricco impresario con una
buona volontà di cambiare le cose,
ma poca abilità politica. Comunque
ha avuto il coraggio di iniziare seri
cambiamenti e «pulizia» della società
messicana, cominciando dai poliziotti
legati al cartello della mafia della
droga. A causa della corruzione
della polizia, il controllo del traffico
di droga viene fatto dall’esercito.
Da quando gli Usa sono riusciti a
bloccare il traffico di stupefacenti
nell’area caraibica, quello di Tijuana
è diventato il più potente e pericoloso
cartello dell’America Latina.

MISSIONARI TORINESI
Fratel Luigi, della Sacra Famiglia
di Torino, abita sulla collina Buena
Vista, una «colonia» della periferia
di Tijuana. Non è facile trovare la sua
scuola, nel dedalo di vie senza nome
o senza numero.
I fratelli della Sacra Famiglia, due
italiani e uno spagnolo, per venire incontro
alle esigenze di una popolazione
in continuo aumento, hanno aperto
una scuola elementare e media
con quattro sezioni. Le famiglie sono
di estrazione medio-bassa, che
hanno capito l’importanza di una
buona educazione e cercano di iscrivere
i figli nelle scuole cattoliche,
perché rispondono a tale esigenza.
«Qui siamo fortunati. In Baja Califoia
il 95% dei bimbi va a scuola,
mentre in alcune zone del Messico
la situazione è molto diversa» racconta
fratel Luigi, entusiasta del suo
lavoro. Ma si lamenta delle difficoltà
create dal governo con cieca e assurda
burocrazia: «Si perde molto tempo
nel preparare i ragazzi a parate,
concorsi dell’inno nazionale, picchetti
d’onore… tutte attività che distraggono
i ragazzi dallo studio».

STORIA AMARA
Da Tijuana, l’aereo mi porta a Zacatecas,
antica città mineraria a 2.500
metri sul mare, che detiene tuttora la
più alta produzione d’argento del
Messico. La miniera Eden, chiusa da
qualche anno, un tempo era un vero
inferno per gli indigeni che vi lavoravano,
dovendo risalire per otto
piani con i massi auriferi e argentiferi
portati a spalla.
All’uscita della miniera, una funivia
mi porta sulla cima di un colle dove
sono i ricordi di un’altra storia:
statue in bronzo ritraggono, tra gli altri,
Pancho Villa, il mitico eroe della
rivoluzione messicana del 1914. In
basso si stende la città, magnifica nel
suo caldo color ocra delle costruzioni
antiche.
La cattedrale ha una ricca ed elaborata
facciata, ma l’interno, un tempo
splendido di ori e argenti, è stato
del tutto spogliato durante i periodi
di rivolta che hanno caratterizzato la
storia del paese. È stata coinvolta anche
la chiesa (vedi riquadro).
Di peggio è capitato al tempio secentesco
degli agostiniani, saccheggiato
dall’alticlericalismo di fine ’800
e trasformato in casinò. Ora ospita
una esposizione di arte modea,
mentre continuano i restauri per ricomporre,
almeno in parte, le decorazioni
barocche.
Tale situazione la ritrovo in varie
parti del Messico, testimone di una
storia amara e sconcertante, segnata
da una sequenza di fatti tragici, governi
corrotti, guerre civili, esecuzioni
e voltafaccia politici.
Storia anche recente, in cui l’arroganza
del potere è rimasta indifferente
ai bisogni della gente. Troppe
regioni, nonostante le loro potenzialità,
sono ancora depresse e lontane
da ogni forma di sviluppo; benché ci
siano stati miglioramenti nell’istruzione
popolare e maggiore presa di
coscienza degli strati poveri della popolazione,
rimane forte la sensazione
d’impotenza di fronte ai soprusi
della classe dominante.

CICATRICI IN MANI E CUORI
Salgo sulla corriera che unisce Ciudad
Juarez, al confine col Nuovo
Messico (Usa), alla capitale messicana.
Siedo accanto a un uomo che rimane
a lungo silenzioso. Poi mi mostra
le mani, grandi e segnate da tagli
e profonde cicatrici: «Machete e
canna da zucchero» mi spiega.
Inizia così la conversazione, anzi lo
sfogo di un uomo che, pur faticando
dalle 5 del mattino fino a tarda sera,
non riesce a risparmiare il denaro per
comprarsi la terra dove vive. «In questo
paese le macchine agricole sono
rare e il terreno che lavoro è ripido,
per cui bisogna fare tutto a mano»
continua Manuel Castillo Abrego.
Sta ritornando a casa, dopo un
lungo viaggio per accompagnare la
suocera al confine con gli Stati Uniti.
Due giorni fa si sono incontrati alla
frontiera con due cognati, da alcuni
anni emigrati in Califoia.
«Mia suocera ha pagato 4 mila dollari
per avere i documenti necessari
per espatriare. L’hanno aiutata i figli
a pagare tale somma. Vorrei anch’io
vivere in un paese dove c’è maggiore
speranza per i miei figli».
Manuel mi parla dei suoi quattro
bambini, da due a dodici anni, della
moglie e della sua casetta, circondata
da alberi di mango, in un villaggio
dello stato di Michoacan. Ha ancora
davanti parecchie ore di viaggio per
arrivare a Morelia, dove prenderà un
altro autobus per arrivare a casa.
Intanto indica sulla mappa la città
di Puruaran, dove ogni settimana
trasporta la canna per la lavorazione:
l’85% del ricavato va al proprietario
del terreno. «Lavorando duro, riesco
a guadagnare quanto basta per
sfamare i miei, nulla di più – continua
-. Se riuscissi a risparmiare qualcosa,
cercherei di emigrare con tutta la famiglia.
Non lascerei moglie e figli in
Messico, come fanno molti disperati,
che in Usa si rifanno una vita».
Manuel perse la mamma all’età di
tre anni, morta di parto dando alla
luce il decimo bambino. Trovatosi
con una nidiata da sfamare, il padre
pensò bene di risposarsi e, ben presto,
arrivarono altri 10 figli. La terra
non bastava per tutti, anche se i più
grandi lavoravano già.
Manuel mi consegna un foglio,
firmato dagli allievi della scuola professionale
San Pedro di Zacatecas: reclamano
il diritto a un posto di lavoro
e denunciano favoritismi. «Chi la-

vora per il governo è in una botte di
ferro; gli altri non hanno alcun diritto
– spiega sconsolato, per continuare
con orgoglio -: mia figlia Jasmine
è molto brava a scuola, ha preso diversi
premi. Ma solo i raccomandati
riescono a ottenere una cattedra
d’insegnante; anzi, possono anche avere
più di due scuole e trascurare le
lezioni».

OASI DI BELLEZZA
Dai 2.500 metri di Zacatecas siamo
scesi ai 1.800 di Guanajuato, una
città giorniello, ricchissima di monumenti,
chiese e palazzi, circondata da
monti metalliferi.
Scendiamo ancora e raggiungiamo
Queretaro, un’altra città coloniale,
dichiarata dall’Unesco patrimonio
dell’umanità. Dovrebbero essere così
tutte le città del mondo: linde, coloratissime,
con ampi spazi verdi a
disposizione di tutti. Le case sono
curate, anche in periferia, dove sorgono
modee imprese e industrie.
Il centro è un giorniello: non un edificio
moderno che stoni col tessuto
antico e ben conservato della città.
Ma ciò che incanta è l’atmosfera festosa
delle piazze, di giorno ombreggiate
dai ficus, la sera allietate da
pianisti e orchestrine, con anziani e
giovani che hanno tempo e spazio
per godersi il fresco.
Sontuose le numerose chiese e
conventi, quasi tutti trasformati in
musei e gallerie. Il più famoso e antico
è il convento francescano de la
Cruz. Lo visito in compagnia dell’anziano
frate Jesus Uzman. «Fondato
nel 1683, fu il primo collegio apostolico
di Propaganda fide. I frati
vi dimoravano due anni per prepararsi
alla missione tra gli indigeni nomadi
del Messico del nord. Successivamente
ne sorsero altri: 5 in Sierra
Gorda, 21 in Baja Califoia, 5 in
Texas, 1 a San Antonio. Per 87 anni,
a partire dal 1824, il convento fu occupato
dalle truppe. Quando lo restituirono,
la fuliggine e lo sporco avevano
ricoperto tutte le pitture».

SOGNANDO L’AFRICA
Sterminata metropoli, congestionata
dal traffico e con l’aria fortemente
inquinata: così viene descritta
la capitale, Città del Messico. Ero
preparata al peggio, ma rimango sorpresa.
I problemi sono ancora molti;
uno, almeno, è stato risolto felicemente:
ci si sposta benissimo con
metrò e bus, che passano in continuazione
e senza causare code alle
fermate.
Raggiungo facilmente Avenida Eugenia,
il viale che attraversa un quartiere
borghese, per visitare suor Edelmira.
La trovo nel suo studio di
direttrice della scuola gestita dalle
clarisse del Santo Sacramento.
Sempre uguale, sorridente e attiva,
mi accoglie con un abbraccio e subito
mi parla della Sierra Leone, dove
la conobbi per la prima volta nel
1992. «Le mie consorelle sono ritornate
da pochi giorni da un sopralluogo
a Lunsar, il villaggio della nostra
missione. Pare che presto si potrà
ritornare e dovremo ricominciare
tutto da capo. Spero proprio di poterci
andare anch’io. Il mio cuore è
rimasto laggiù».
Dirigere una scuola borghese della
capitale può dare soddisfazioni,
specialmente ora che le suore hanno
potuto aggiungere un nuovo edificio
per le varie attività delle studentesse.
Ma 30 anni di vita missionaria in Africa
hanno segnato per sempre l’esistenza
di suor Edelmira. La nostalgia
si fa sentire anche quando il paese
è disastrato, pericoloso
e difficile come è ancora
la Sierra Leone.

La Chiesa in Messico
Da quando arrivarono i primi missionari
nella Nuova Spagna, insieme
ai conquistatori spagnoli, la
chiesa messicana ha sempre sofferto.
Francescani e domenicani si distinsero
per il coraggio con cui cercarono di
difendere gli indigeni dagli eccessi
dei coloni. In breve tempo riuscirono
a convertire gran parte del paese e
fondarono centinaia di monasteri.
L’intera popolazione faceva parte della
chiesa, unica istituzione che assicurava
servizi sociali e istruzione.
Con l’espulsione dei gesuiti dal continente
americano nel 18° secolo, le relazioni
tra stato e chiesa entrarono in
crisi e i governi tentarono di limitare
il potere della chiesa, intervenendo
sulle proprietà che quest’ultima riusciva
ad accumulare più velocemente
dei corrotti capi di governo.
Per due secoli la chiesa cattolica messicana
ha avuto momenti di grande
turbolenza. Fu un parroco cattolico,
Miguel Hidalgo y Costilla, che nel
1810 lanciò il famoso «grito de dolores
» per esortare la gente a ribellarsi
al malgoverno degli spagnoli. I ribelli
riuscirono a conquistare Zacatecas,
ma un anno dopo furono sconfitti e il
povero prete giustiziato. La stessa fine
fece un suo allievo, prete pure lui,
durante la guerra d’indipendenza; una
vittoria che non riuscirà a portare il
paese a una stabilità politica.
La costituzione del 1917 stabilì che
i religiosi non potevano votare, esprimere
opinioni, possedere beni, né
gestire scuole o mezzi d’informazione.
Negli anni ’20 si arrivò alla guerra civile:
i cristeros bruciavano le scuole
statali e uccidevano gli insegnanti; i
governativi distruggevano o saccheggiavano
le chiese e uccidevano i preti.
Solo nel 1992 furono stabilite relazioni
diplomatiche tra Messico e Santa
Sede.
Non bisogna confondere, però, problemi
e persecuzione della chiesa cattolica
con la fede. I messicani restano
profondamente religiosi e legati
alle tradizioni cristiane.

Claudia Caramanti




DIALOGO il «laboratorio» delle scuole

«MAMMA, IL MIO COMPAGNO DI BANCO È…»
… latinoamericano, marocchino, albanese, cinese, nomade. La convivenza con l’altro è ormai un dato di fatto: sull’autobus, per strada, nei luoghi di lavoro.
Ma come si fa a passare dalla «convivenza» (dettata dalle circostanze) all’«incontro» (dettato dall’essere persona)?
L’esperienza nelle scuole, dove i bambini italiani condividono i banchi con coetanei
provenienti da ogni paese, è fondamentale per costruire la società del futuro, in cui «l’altro» sia accettato nella sua diversità, senza «se» e senza «ma».

Quale significato ha ancora
oggi il nostro essere cristiani?
Se ci analizziamo senza
veli, ci accorgiamo che siamo sempre
più influenzati dal vivere secondo la
nuova fede emergente, l’economia,
il mercato, e sempre meno secondo
il significato più profondo della nostra
fede, l’amore e la fratellanza per
i nostri simili.
Il consumismo sfrenato, il consumismo
ad ogni costo è ciò che detta
legge al nostro agire, anche ora che
da tutti i pori traspira aria di crisi, aria
di recessione.
Consumismo come unico piacere
che ci rimane, che ci illude perché
abbiamo perso il gusto per la gioia di
vivere vera, quella che scaturisce dalle
piccole cose, dall’incontro con gli
altri, dal vivere insieme.
Se siamo persone che hanno ancora
valori saldi in cui credere, dobbiamo
cercare di disinquinarci da
questo mondo, ritornare all’essenza
delle cose, a ciò che vale profondamente,
anziché autornassolverci sempre
perché… «tanto così fan tutti».
Ed è proprio per questo che noi,
come occidentali e specie in quanto
cristiani, abbiamo ancora qualcosa
da imparare e questo qualcosa lo
possiamo scoprire ricercando l’incontro
con l’altro, il diverso da noi,
con il quale conviviamo ormai gomito
a gomito: sull’autobus, per la
strada, nei luoghi di lavoro.
Tuttavia convivere non vuol dire
ancora incontrarsi per davvero; anzi,
spesso è solo un passarsi a fianco
di stranieri e italiani che si guardano
furtivamente, a volte con fastidio.
LA SCUOLA, LUOGO PRIVILEGIATO
La scuola, in particolare, è uno dei
luoghi privilegiati in cui la molteplicità
delle culture è chiamata a convivere.
I nostri istituti scolastici sono
sempre più popolati da bambini di
tutte le nazionalità: albanesi, senegalesi,
marocchini, cinesi, latinoamericani,
nomadi.
Noi insegnanti siamo chiamati ad
accogliere i bambini di queste famiglie
straniere: non avere atteggiamenti
di chiusura o
rifiuto, dettati dal pre-giudizio,
è già un primo passo.
Ma cosa vuol dire accogliere
veramente?
Spesso è, ancora una
volta, qualcosa che sta
sulla carta (il progetto
bello, che produce finanziamenti),
lontano
dalle persone reali.
Così non spostiamo di
una virgola la nostra
progettualità, non mettiamo
in discussione noi
stessi.
Si dice: «La nostra cultura
è quella cui loro si devono
adeguare. Non c’è altro da
aggiungere». Al massimo si
chiede al genitore di fede islamica
di tradurci in arabo
una frase augurale per il nostro
natale. Quale umiliazione
può essere più grande?
Negare la loro fede è negare
la loro identità.
Noi occidentali siamo abituati
da ormai lungo tempo ad esistere
come se fossimo il centro del
mondo e poi, suvvia, «sono loro che
sono venuti qui da noi… a rompere…;
che lavorino e stiano zitti… è già
tanto che li ospitiamo…».
Queste persone popolano i nostri
ambienti, la scuola in modo umile e
silenzioso, non ci si accorge di loro,
a meno che non si voglia aprire gli
occhi.
Se li apriamo e li guardiamo anche
con il «cuore», ci viene voglia di incontrarli
e conoscere la loro vita. Se
poi ti fermi un attimo e fai parlare loro
cominci a… vergognarti di essere
italiana.
Ti vergogni di far parte di una nazione
che ha approvato una legge
razzista com’è, di fatto, la legge Bossi-
Fini.
È capitato così un giorno di novembre.
Dopo aver aderito all’appello
per la giornata del «Dialogo
cristiano-isl-Amico» indetta per il
29/11/02, mi rileggo l’appello (vedere
riquadro) e penso che quanto si sta
organizzando è bellissimo. Occorre
tuttavia che ciascuno di noi concretizzi
questi ideali, calandoli nella
realtà quotidiana in cui opera. Ovvero:
dobbiamo dare risvolti sempre
più concreti alle nostre parole.
A scuola si parla di fare il presepe
perché «non dobbiamo rinnegare le
nostre tradizioni…» (anche se spesso
dentro di noi la fede è qualcosa di
così appiccicaticcio che, per sentirci
cristiani, dobbiamo accendere tutte
le luci e addobbarci come tanti alberi
di natale: non sarà perché siamo
spenti dentro?).
Va bene per il presepe, ma propongo
di dare spazio anche al ramadan.
La proposta inaspettatamente
passa. Così incontro e conosco Yasine,
la madre di Dalal, e le altre.

YASINE: MAMMA E IMMIGRATA
Queste mamme sono tutte persone
timide, umili, silenziose. Non ti rivolgono
la parola se tu non lo fai per
prima; caso mai un timido cenno di
saluto col capo.
Insieme cerchiamo di raccontare
semplicemente cos’è il ramadan: è un
piccolo spiraglio per favorire l’incontro
tra famiglie di culture diverse.
È un’opportunità da sperimentare.
Parlando e dialogando scopro e
ammiro la serenità, la forza, la convinzione
con cui queste persone vivono la loro fede. Penso a quanto abbiamo
da imparare noi cristiani sempre
più tiepidi, sempre meno praticanti
o praticanti per abitudine. Forse,
se c’è una cosa che dobbiamo
temere, è questa: la forza con cui
queste persone sostengono la loro fede
che a sua volta rafforza la volontà
di non perdere le proprie radici e la
propria identità.
E la serenità con cui vivono un periodo
di digiuno e sacrificio com’è il
ramadan fa a pugni con la realtà quotidiana
che sono costretti a vivere.
La mamma di Dalal, per esempio,
colta e istruita, qui in Italia non è nulla.
Il marito e lei hanno perso il lavoro,
perché la cornoperativa ha chiuso;
così da luglio in avanti tirano a campare.
«Come non so – mi dice -, ma
di certo… tutti i risparmi se ne sono
andati».
Hanno 2 figli: il più piccolo quest’estate
l’hanno lasciato in Marocco:
«…perché qui… come faccio a sfamarlo?». Poi il cuore ha battuto più
forte; così papà e mamma si sono fatti
imprestare i soldi da amici e l’hanno
riportato in Italia, con loro.
Ora pensano di vendersi la vecchia
macchina. Se hanno la macchina gli
vengono negati i sussidi, ma senza
come fare se capitasse al marito di
trovare un lavoro anche distante?
Per fortuna hanno il permesso di
soggiorno, ma questa vita quanto
può durare? E quanti sono quelli che
vivono nelle medesime condizioni?
Le insegnanti della vicina scuola elementare
hanno ripreso una vecchia
abitudine da tempo dimenticata:
riempire cartelle e zaini di diversi dei
loro alunni stranieri con i resti delle
merendine avanzate. In silenzio le famiglie
accettano queste offerte che
tamponano i loro enormi bisogni,
ma purtroppo sono ben lungi dal risolverli.
Le difficoltà del vivere tornano ad
essere sempre più presenti. Ce ne
stiamo accorgendo anche noi, o meglio
lo stanno sperimentando con
sempre più angoscia gli operai della
Fiat: di colpo le loro vite sono allo
sbaraglio.
Incertezza e insicurezza si fanno
strada. Forse questo ci dovrebbe far
capire, in questi momenti, che sono
più le cose che ci uniscono che quelle
che ci dividono.
Dobbiamo iniziare ad incontrarci
tra fratelli al di là delle religioni, delle
culture, delle appartenenze, cercare
quanto ci unisce e non quanto
ci divide.
Ed è stato questo l’obiettivo che ha
spinto molti credenti cristiani, in diverse
città d’Italia, ad attivare una
giornata di «Dialogo amico» tra persone
di fede cristiana e islamica.
Il 29 novembre vuole diventare a
tale scopo una ricorrenza per gli anni
a venire.
Le difficoltà della vita ci conducono
ormai a capire che, anziché strapparci
dalle mani una coperta sempre
più stretta, dobbiamo imparare a lottare
e costruire insieme.
Così anche le nostre fedi, in apparenza
così diverse, ci accomunano nei
valori che sono alla loro base: «… la
ricerca e costruzione della pace, della
giustizia, della dignità umana per
tutti, il rifiuto dell’oppressione del
debole, dell’emarginato».

PROVIAMO A PARLARCI
Anche a Torino sono stati organizzati
dal gruppo interreligioso «Insieme
per la pace» e dall’«Istituto islamico
per la pace» due momenti significativi
cui hanno aderito varie
associazioni tra cui: Il Foglio, Pax
Christi, il Centro culturale italo-arabo
Dar al-Hikma, Confrateita sufi
Jerrahi-Kalveti, Centro studi Maitri
Buddha, Meic-Laboratorio islam
«conoscere per dialogare».
Un primo momento a carattere evocativo
e spirituale è stata una preghiera
comune alla moschea di corso
Giulio Cesare che per l’occasione
si è aperta ad accogliere uomini e
donne di fede cristiana. A seguire vi è stata una cena comune
presso il Centro culturale italo-
arabo Dar al-Hikma. Si è così partecipato
alla consueta rottura del digiuno
del ramadan.
In serata vi è stato un vero incontro
e dialogo tra la nostra cultura occidentale
e quella araba, a partire
dalle nostre fedi islamica e cristiana.
La partecipazione è stata notevole,
specie da parte dei musulmani: erano
presenti molti giovani e piccoli
gruppetti di familiari. Si avvertiva un
clima di grande attenzione-interesse
e rispetto per il momento che tutti
i presenti avvertivano come fortemente
significativo.
Hanno preso la parola molti musulmani
ponendo diverse domande
o facendo interventi improntati a capire
noi occidentali e a farsi ascoltare,
raccontando la loro esperienza, le
difficoltà del vivere qui, cercando di
sottolineare i valori di fondo del loro
credo religioso.
Ci sono stati anche interventi rivolti
a comprendere la diversità: tra
questi ampio spazio è stato dato alla
condizione della donna nella loro
cultura. Il dialogo è risultato ricco e
intenso.
Molti giovani hanno proposto agli
organizzatori di dare corso ad altri
momenti analoghi, affinché questa
occasione non rimanga un fatto isolato,
ma possa aprire uno spazio di
vero incontro tra la loro cultura e la
nostra per capirci e incontrarci. E soprattutto
per metterci in atteggiamento
di ascolto. L’unico
che può portare ad un reciproco
rispetto.

(*) SILVANA VERGNANO, insegnante, è
membro di Pax Christi (sito internet:
www.paxchristi.it).

Il dialogo? Forse inizia da qui
Gli avvenimenti politici degli ultimi 16 mesi (l’attacco al World Trade
Center di New York, l’intervento militare in Afghanistan, le minacce di
guerra contro l’Iraq, la drammatica esasperazione della crisi israelo-palestinese
e di quella russo-cecena…) pesano sulle relazioni tra due comunità,
definite cristiano-occidentale e islamica, che ormai da anni convivono nelle
nostre città. Un certo tipo di informazione-spettacolo sta trasformando i
conflitti di interessi economico-politici in una contrapposizione fra due
civiltà e due tradizioni religiose che troppo sbrigativamente vengono presentate
come inevitabilmente contrapposte.
CONDANNIAMO un tale sfruttamento del sentimento religioso e una tale distorsione
delle due espressioni (storicamente e culturalmente differenti) della
fede che ci accomuna nei principi della pace, della giustizia, della dignità
umana per tutti, del rifiuto dell’oppressione del debole e dell’emarginato.
CHIEDIAMO a tutte le parti in causa di trovare soluzioni affinché la città di
Gerusalemme possa esprimere realmente la santità che le attribuiscono tutte
le fedi abramitiche, ma che è stata un punto di riferimento per la religiosità,
secondo l’ordine di Melchisedech, anche per chi si appella a un’immagine
pre-abramitica di Dio.
AFFERMIAMO che in tutte le espressioni religiose – a seconda delle intime scelte
di ciascuno – si possono coltivare i semi della giustizia e della pace che
possono condurre l’umanità a una concorde fratellanza universale, oppure le
radici dell’intolleranza e dell’autoritarismo che si nasconde dietro al nome di
Dio e all’apparente ossequio per le religioni, per provocare divisioni, dominare
e sfruttare i popoli governandoli con la menzogna.
RICONOSCIAMO che nella storia quasi nessuna religione è stata immune da questi
equivoci e ci impegniamo a vigilare affinché, per quanto può dipendere
da ciascuno di noi, non intervengano a guastare la trasparenza delle nostre
intenzioni, nei rapporti con i bambini, con i nostri familiari, con i colleghi
di lavoro, nell’impegno culturale, politico e sindacale.
CHIEDIAMO, soprattutto alle pubbliche amministrazioni (comuni, provincia,
scuola), per quanto di loro competenza, di favorire e promuovere la cultura
del dialogo offrendo spunti, spazi e momenti d’incontro tra coloro che abitano
le nostre città da molto tempo e quelli di più recente immigrazione,
affinché tutti possano meglio conoscersi e meglio conoscere la storia propria
e altrui.
INTENDIAMO impegnarci, inoltre, affinché il dialogo cristiano-islamico porti
effettivamente a un incontro AMICO tra tutte le persone che vivono quotidianamente
le stesse speranze e le stesse angosce, facendoci carico di portare
gli uni i pesi degli altri in una convivenza che sappia dare motivi di serenità
anche nei momenti più difficili.

Pax Christi, Centro culturale italo-arabo Dar al-Hikma, Confrateita sufi
Jerrahi-Kalveti, Meic-Laboratorio islam conoscere per dialogare, Foglio e, inoltre,
Centro studi Maitri Buddha.

Silvana Vergnano




MADADENI (SUDAFRICA) iniziative concrete contro l’Aids

UN MARCHIO INDELEBILE UN MARCHIO INDELEBILE

Il Sudafrica ha il più alto numero di malati di Aids.
A Madadeni i missionari della Consolata hanno dato vita a varie iniziative per prevenie la diffusione e accompagnare
persone e famiglie che ne sono colpite.

Da vari anni Nonhlanhla lavorava
come collaboratrice domestica
nella nostra casa. Si
era guadagnata la fiducia di tutti e, in
nostra assenza, la custodiva con
scrupolo e responsabilità.
Un giorno mi confidò di essere incinta.
Ma da quel momento cominciò
a indebolirsi. Si prese il periodo
di licenza per la gravidanza che le
spettava. La visitai… tossiva molto.
Diede alla luce la sua creatura, che
appariva molto fragile. Grazie alla fiducia
vicendevole, le parlai apertamente
e la consigliai di sottoporsi al
test dell’Aids. Accettò. I risultati arrivarono
troppo tardi: Nonhlanhla
era morta il giorno prima.
Thandi è un caso simile. La conobbi
pochi giorni dopo aver partorito
il suo bebè, morto quasi subito.
La donna ne era uscita molto indebolita.
Andai a farle visita: cantammo
e pregammo insieme. Si mostrava
molto forte interiormente.
Due mesi dopo, alla fine di una celebrazione
all’aperto durata più di 5
ore, venne a salutarmi. Stava bene.
Mi confidò un suo desiderio: lavorare
con i malati di Aids.

RIMBOCCANDOCI LE MANICHE
Nonhlanhla e Thandi sono due
nomi di una lunga lista: da quando
sono a Madadeni (periferia di Newcastle),
metà dei funerali sono stati di
uomini e donne che non hanno raggiunto
i 40 anni. Le statistiche prevedono
che, ben presto, la speranza
di vita in Sudafrica sarà di 38 anni
per gli uomini e 37 per le donne.
Sarà per questo, forse, che quando
domandai ai familiari di che cosa
è morto un giovane di 25 anni, mi
sentii rispondere: di morte naturale.
L’incontro con Thandi mi toccò
profondamente: non immaginavo di
vederla ristabilita in salute così presto;
il suo desiderio, soprattutto, diede
uno scossone all’abituale ritmo
del nostro lavoro missionario nelle
tre parrocchie di Madadeni.
Invitammo suor Immacolata, religiosa
delle Francescane di Nardini,
a predicare in tutte le messe. Da alcuni
anni, infatti, questa congregazione
si occupa dei malati di Aids:
hanno convertito parte di un convento
benedettino in un ospizio e
promuovono progetti per combattere
il flagello.
La risposta fu immediata e positiva:
alla fine della messa molti si iscrissero
come volontari. Nei mesi
successivi cominciò la loro preparazione.
Furono formati due gruppi
con scopi specifici: prevenzione e accompagnamento
dei colpiti da Aids.
Il primo era composto da studenti
delle scuole secondarie e giovani
che avevano appena finito gli studi.
Loro compito era aiutare i coetanei
a prendere coscienza della natura
dell’Aids e dei modi in cui viene trasmesso,
con la speranza di convincerli
che si trattava di un problema
grave e non di «propaganda» contro
le relazioni sessuali. Oltre 50 giovani
presero parte agli incontri formativi
guidati dalle suore.
L’altro gruppo, in maggioranza adulti,
con un corso di una settimana
fu preparato nell’accompagnamento
dei malati. Questi volontari s’impegnarono
a visitarli a domicilio e, al
tempo stesso, insegnare ai familiari a
convivere con un malato di Aids.

PRIME SFIDE
I corsi furono la parte più «facile»
di tutto il processo. Avevamo i volontari,
le religiose per dettare i corsi,
compreso chi s’impegnava a finanziarli.
Il difficile venne dopo.
Da dove cominciare? I giovani cercavano
spazi che non si aprivano.
Come aggregare i giovani? Da anni
si parla di Aids: molti sono stufi di ascoltare
sempre la stessa storia. Ma
non mancava loro la creatività: cominciarono
a farsi strada nei collegi,
organizzando eventi sportivi e attività
varie a livello locale.
Gli adulti, invece, cozzavano con
una realtà più dura. «Di questo non
si parla» si sentivano ripetere. Nessuno
ammetteva di essere ammalato
di Aids. Pur avendo il Sudafrica la
più elevata percentuale al mondo di
sieropositivi, questa malattia è considerata
un «marchio» infamante per
il portatore e la famiglia. Appena uno
ne è colpito, i parenti lo mandano a
«recuperarsi» o «aspettare» la morte
in casa di qualche familiare lontano,
in modo che i vicini non lo vedano.
Nelson Mandela pose un importante
precedente: durante un congresso
mondiale contro la povertà,
tenuto in Sudafrica, disse che alcuni
suoi parenti erano morti di Aids. Poi
l’ospedale ci aprì le porte: aveva bisogno
di noi. Non poteva trattenere
i malati, ma neppure disinteressarsene,
senza curarli in casa.
Ecco il piano: ogni volta che si fa
l’esame del sangue per scoprire
l’Aids, viene dato appoggio psicologico
prima e dopo il test, informando
l’interessato che, in caso risultasse
positivo, alcuni volontari sarebbero
disposti a visitarlo in casa. Se il
malato accetta, ci viene passata
l’informazione, che, naturalmente,
rimane riservata.
Un’altra idea vincente è la decisione
dei nostri volontari di visitare «tutti
» i malati di cui vengono a conoscenza.
Armati della parola di Dio e
muniti dell’«olio di esultanza», passano
di casa in casa, pregano con cattolici
e non cattolici e amministrano
un rito di unzione consentito pure ai
laici: in questo modo essi possono
rendersi conto della situazione e offrire
appoggio alle famiglie.
In molti casi, però, i volontari devono
sostituire i familiari, poiché
questi si disinteressano dei malati,
che vengono abbandonati in qualche
angolo recondito della casa,
quando non sono spediti da un parente
lontano.

COMINCIARE CON I PICCOLI
Il primo gruppo si dedicava ai loro
coetanei, ma non bastava. Data la
precocità dei nostri giovani, appariva
sempre più chiara la necessità di
cominciare a parlare del problema il
più presto possibile.
La diocesi di Durban aveva preparato
una serie di catechesi per aiutare
gli studenti dai 7 ai 15 anni a
puntualizzare gradualmente il problema.
Abbiamo adottato tale materiale
anche nelle nostre parrocchie.
Ogni sabato le otto classi, corrispondenti
al ciclo scolastico statale,
vengono in chiesa e i catechisti, insieme
ai volontari, portano avanti il
processo formativo degli alunni,
compatibile con la loro età.
Inoltre, una volta all’anno raduniamo
i ragazzi delle tre parrocchie
per una chiacchierata sugli «abusi
sessuali». L’iniziativa è stata suggerita
da un’assistente sociale, preoccupata
dall’alto numero di casi registrati
nella zona.
Vista da lontano, tale iniziativa può
sembrare esagerata; ma nell’ambiente
in cui viviamo, una catechesi che
non tocchi il vissuto quotidiano dei
ragazzi resterebbe alquanto sterile.

ORFANI
Una delle conseguenze più drammatiche
dell’Aids è l’aumento degli
orfani. Sempre più numerosi sono i
nuclei familiari formati solo da nonni
e nipotini; in molti casi i piccoli sono
abbandonati a se stessi: il maggiore,
a 10-11 anni, è già capofamiglia
e deve prendersi carico dei
fratellini più piccoli.
Un giorno un assistente sociale dell’ospedale
venne a dirci: «Nelle vostre
parrocchie avete tanti progetti di
promozione umana: vorrei incontrare
i vostri volontari e studiare insieme
il modo di rispondere al problema
degli orfani».
Tra le varie proposte fu scelta quella
di invitare i vicini a prendersi cura
dei piccoli, per non separarli e non
sradicarli dall’ambiente. Tanto più
che il governo dà un sussidio mensile
a chi si fa carico di un orfano.
L’idea è buona, ma non sempre facile
da realizzare. Bisogna convincere
le famiglie che l’Aids non è una
«macchia» infamante; vagliare la loro
disponibilità, perché non sia il luccichio
del denaro la ragione per
prendersi in casa un bambino. Ancor
più complicata è la trafila burocratica
per ottenere il sussidio.
I volontari si scontrano con un
problema tipico dei paesi africani:
molti figli non sono registrati al momento
della nascita, ma quando iniziano
ad andare a scuola. Se i genitori
muoiono senza aver provveduto
alla registrazione, nel migliore dei
casi tocca ai nonni fae richiesta. È
una pratica lunga ed estenuante, sia
per i vecchi, costretti a lunghe code,
sia per i volontari, che devono sobbarcarsi
il servizio di trasporto e assistenza
nel disbrigo delle pratiche.

CAMBIO DI VITA
Nel suo primo messaggio alla nazione
(1998), il presidente Thabo Mbeki
disse che ogni giorno 1.500
persone contraevano l’Aids; a cinque
anni di distanza, i dati statistici
continuano a parlare di 1.600 casi
giornalieri. In Sudafrica il morbo è
fuori controllo, nonostante gli sforzi
del governo per educare la gente a
combattere l’infezione.
Tali sforzi, però, non toccano la vita
e i comportamenti di giovani e adulti.
Con i volontari stiamo cercando
un cammino alternativo. Non basta
sapere cos’è l’Aids o come si
contrae, bisogna promuovere «un
cambio di vita» o, per usare il linguaggio
cristiano, occorre una radicale
conversione.
Per questo, con l’aiuto delle suore
della Misericordia, responsabili del
centro pastorale diocesano, organizziamo
periodicamente ritiri di fine
settimana per i giovani. Non sono raduni
d’informazione, ma d’incontro
con Cristo, che ci prende per mano
e ci indica la strada che porta alla pienezza, secondo la sua promessa:
«Sono venuto perché abbiate la gioia
e l’abbiate in abbondanza».

COOPERAZIONE ECUMENICA
«Se ci dicessero che un popolo
vorrebbe invaderci, ci troveremmo
uniti per affrontarlo e difendere l’identità
e la vita della nostra gente»
sentii proclamare in un incontro sull’Aids.
Di fatto, il Sudafrica è in guerra;
ma sembra che molti lo ignorino.
E poi, non bastano sforzi isolati per
vincere tale guerra.
«Siamo riusciti a sconfiggere l’apartheid;
abbiamo la forza per vincere
anche l’Aids», disse tempo fa Desmond
Tutu, il famoso vescovo anglicano
ora a riposo. È questa anche
la nostra speranza. Non ci sentiamo
più soli in questa lotta. Le notizie corrono
veloci e, data la stima di cui godiamo
come chiesa aperta a tutti i bisognosi,
siamo già stati invitati a
prendere parte a incontri con altre
organizzazioni civili e religiose per
scambiarci le idee e unire le forze.
Ogni mese ci riuniamo nell’ospedale
di Newcastle con membri della
polizia, sindacalisti, assistenti sociali
e carcerari… I frutti sono ancora magri;
c’è molta burocrazia; ma almeno
cominciamo a condividere idee, iniziative,
progetti e tentiamo di unire
gli sforzi e di sostenerci a vicenda.
Da parte nostra cerchiamo di mobilitare
tutti: abbiamo costituito un
consiglio di pastori delle chiese cristiane
e procuriamo loro sussidi e li
incoraggiamo ad avviare progetti simili
ai nostri nelle proprie comunità.
È tipico della chiesa cattolica annunciare
un vangelo che promuova
la dignità della persona; le altre denominazioni
cristiane sono più «spiritualiste
», ma qualcosa si sta muovendo
anche in esse.
Padre Rocco Marra, che da anni
lavora in diverse carceri, ha conosciuto
vari pastori che si occupano
dei detenuti: nel 2002 ha potuto organizzare
per loro un corso di quattro
incontri mensili sull’Aids; alla fine
è stato costituito un organismo ecumenico
chiamato: Agape, comfort
and care (amore e consolazione).

LE SFIDE CONTINUANO
Un giorno la madre di una volontaria
mi domandò: «Cosa fate per i
genitori dei giovani? Chi parla loro?
Chi li aiuta a prendere coscienza?
Chi fornisce loro “strumenti” per
aiutare i figli?».
Le questioni poste dalla donna
sottolineano la complessità del problema
e costituiscono un’altra sfida
dell’Aids: l’ho accolta con soddisfazione,
anche se, fino ad ora, non siamo
riusciti a dare una risposta concreta.
Ad ogni modo, questa madre
può essere un punto di partenza per
un’altra iniziativa.
La sfida più grande da vincere è
quella di «rompere il silenzio», quella
tremenda pressione che al danno
unisce la beffa: essere malato e non
potee parlare apertamente. Alcuni
anni fa, Gugu Dlamini, una operatrice
sociale, volle sfidare tale silenzio:
disse di essere malata di Aids.
La gente del quartiere la ammazzò.
Oggi, a Durban, esiste un grande
parco che porta il suo nome.
La gente del Sudafrica è fondamentalmente
cristiana, ma è evidente
che la fede non è ancora penetrata
in profondità, tanto da generare aperture
generose verso le vittime dell’Aids.
È la sfida più forte al nostro
lavoro missionario.
Non solo a Madadeni, ma in tutte
le missioni affidate ai missionari della
Consolata vogliamo dare risposte
concrete a tale sfida, formando i cristiani
alla misericordia e solidarietà,
a essere segni di consolazione di un
Dio che si è incarnato nella storia
quotidiana della gente e
ha trasformato la morte in
vita.

ALCUNI DATI
NEL MONDO
– A dicembre 2002, sono 42 milioni le
persone che vivono con l’Aids/Hiv:
38,6 milioni adulti (19,2 milioni donne)
e 3,2 milioni minori di 15 anni.
– Nel 2002 le nuove infezioni di Hiv
sono state 5 milioni: 4,2 milioni adulti
(2 milioni donne) e 800 mila minori.
– Nel 2002 sono decedute per Aids 3,1
milioni di persone: 2,5 milioni adulti
(1,2 milioni donne), 610 mila minori.
IN AFRICA
– L’Aids è prima causa di morte.
– 28,1 milioni di persone sono infette
da Hiv, con progressione di 3,4 milioni
all’anno: 9.300 al giorno.
– Nel 2002 sono morte di Aids 2,3 milioni
di persone, metà sono donne.
– In 20 anni, 13 milioni di minori sono
«orfani di Aids».
– Entro il 2010 il numero di tali orfani
è destinato a salire a 30 milioni.
– Per quanto riguarda lo sviluppo, l’Hiv
ha riportato indietro di 25 anni l’intero
continente.
AFRICA AUSTRALE
– Il Sudafrica è ritenuto il paese col
più alto numero di portatori di
Aids/Hiv.
– L’11,6% dei sudafricani è colpito da
Hiv; la cifra sale a 15,6% tra le persone
dai 15 ai 49 anni.
– Dei minori tra 2 e 14 anni, il 5,6%
sono sieropositivi e il 13% hanno perduto
uno o entrambi i genitori.
– Entro il 2010 l’epidemia potrebbe
uccidere da 5 a 7 milioni di sudafricani.
– Entro il 2010 in Sudafrica (come pure
in Botswana, Mozambico, Lesotho,
Swaziland) il numero dei morti supererà
quello delle nascite.

Gli Stati Uniti contro tutti
L’«APARTHEID
FARMACEUTICO»

Ginevra, 26 dicembre 2002. Gli
Stati Uniti si sono opposti all’accordo
tra i 144 paesi del Wto
(Omc, Organizzazione mondiale
del commercio) per la diffusione a
basso costo dei farmaci salvavita.
Questi riguardano l’Aids, ma anche
malaria, tubercolosi e una
quindicina di malattie tropicali.
Washington si è schierata a fianco
della potente lobby farmaceutica,
«Big Pharma», che non vuole vedere
intaccati i propri profitti
(+21% nel solo 2001). Nel caso
dell’Aids, per la cui terapia ci sono
i costi più alti (assolutamente inaccessibili
nei paesi del Sud del
mondo), continuerà il monopolio
delle 7 compagnie farmaceutiche
che hanno l’esclusiva dei brevetti
fino al 2016: Pfizer, Roche,
Glaxo-Smith-Kline, Merck, Abbot,
Boehringer, Bristol-Myers
Squibb.
Assediati dalla malattia, alcuni
paesi (tra i quali India, Brasile e Sudafrica)
già producono farmaci generici
(cioè con gli stessi principi
attivi dei farmaci brevettati).
Su queste tematiche si veda:
il «dossier Aids» su Missioni Consolata
di giugno 2001.

José Luis Ponce de León




SEIMEIZAN (GIAPPONE) dialogo interrreligioso

PAZIENZA E SILENZIO
Esperienza di un giovane italiano
in un centro giapponese,
dove s’impara l’arte
dell’ascolto e del dialogo.

Sulla cima del Narutaki, una
delle innumerevoli colline della
parte meridionale dell’isola
di Kyushu, tra verdi abetaie sorge il
centro di dialogo interreligioso Seimeizan,
termine che in giapponese
significa «Montagna della vita». Da
questa altura si ha una visione incantevole:
dalla vallata sottostante lo
sguardo si spinge sulla penisola di
Shimabara, sul mare di Ariake, fino
a toccare il monte Unzen, il più grande
cratere vulcanico del pianeta.
A Seimeizan tutto invita a guardare
lontano, non solo con gli occhi, e,
al tempo stesso, a scrutare dentro se
stessi.

TRE PERCORSI
Alla guida del Seimeizan c’è padre
Franco Sottocornola, 67 anni, missionario
saveriano, liturgista, poliglotta,
in passato docente di teologia al seminario
di Parma. Arrivato in Giappone
25 anni fa, ha fondato il Seimeizan
nel 1987 con un religioso buddista,
scomparso lo scorso anno.
Della comunità fanno parte suor
Maria De Giorgi, 55 anni, missionaria
saveriana, teologa, studiosa del
buddismo, in Giappone da quasi 12
anni, che segue le relazioni inteazionali
del centro; suor Shoji, giapponese,
70 anni, orsolina, che si occupa
dei rapporti tra il centro e l’amministrazione;
padre Yoshioka, 31 anni,
conventuale francescano, che cura tre
parrocchie della provincia rimaste
senza parroco; da ultimo sono arrivato
anch’io, discepolo alle prime armi.
La nostra vita è ritmata da un programma
che prevede quasi tre ore di
preghiera comunitaria giornaliera. Il
mattino inizia con lo zazen (meditazione);
seguono lodi e messa. Nel
primo pomeriggio abbiamo una breve
preghiera; prima di cena i vespri;
la giornata si conclude con la preghiera
di compieta.
Lodi e vespri sono recitati all’aperto,
rispettivamente nell’esatto
momento dell’alba e del tramonto;
di conseguenza i nostri orari variano
ogni tre o quattro settimane, seguendo
il ritmo del sole.
Parte della giornata è impiegata
nella manutenzione del centro. In
questo periodo mi occupo della pulizia
del parco: alberi cresciuti storti
da tagliare, con mio grande dispiacere;
sottobosco da ripulire e
quintali di foglie da raccogliere e
bruciare. Sto anche completando il
lavoro di veiciatura dell’ultimo edificio:
una casetta a due piani in legno,
costruita secondo lo stile tradizionale,
con un sistema di incastri
senza utilizzare un solo chiodo. A
tali occupazioni si aggiunge l’impegno
degli ospiti.
Oltre al lavoro e preghiera, mi dedico
allo studio in tre diverse direzioni.
Prima di tutto la lingua giapponese:
un ottimo libro mi aiuta a
memorizzare rapidamente gli ideogrammi;
lo studio della grammatica
e la conversazione coi membri della
comunità mi permettono le conversazioni
più elementari.
La seconda direttiva riguarda lo
studio del buddismo giapponese, attraverso
la lettura di libri, conversazioni
con padre Franco e suor Maria
e periodi di condivisione di vita. Ho
da poco trascorso quattro giorni in
un tempio zen, su una montagna a
un paio d’ore da qui. Ci si alzava alle
tre del mattino, si stava sempre a
piedi nudi e si praticava lo zazen
quattro ore e mezza al giorno. A parte
il dolore alle gambe, sono tornato
molto soddisfatto: ho imparato cose
nuove sulla meditazione e la vita
quotidiana nel tempio; ho fatto amicizia
con un aspirante bonzo giapponese.
Spero di ripetere una simile
esperienza in un tempio di Nagasaki.
Il terzo percorso consiste nella lettura,
sotto la guida di suor Maria, dei
documenti della chiesa riguardanti il
dialogo interreligioso, a partire dal
Concilio Vaticano II.

INCONTRI
In questo periodo abbiamo compiuto
una serie di visite particolarmente
interessanti: a un sito archeologico
dell’età del bronzo, un tempio
shintornista e monastero buddista, nel
quale abbiamo avuto un incontro
con un bonzo della scuola Tendai.
Altrettanto significativi sono gli
incontri con gli ospiti. Abbiamo avuto
12 seminaristi e giovani preti,
appartenenti a vari istituti missionari,
per un corso di introduzione alla
cultura e spiritualità giapponesi, con
conferenze tenute da padre Franco,
suor Maria e padre Sonoda.
In un altro incontro abbiamo invitato
al centro una maestra della cerimonia
del tè (cha-do) e della disposizione dei fiori (ka-do) per offrire ai
nostri ospiti un primo approccio a
queste arti tradizionali. Con grande
sorpresa ho notato che i giovani missionari
provenivano tutti da paesi del
sud del mondo: Filippine, Indonesia,
Messico, Congo e Vietnam.
Un momento particolare l’abbiamo
vissuto quando sono venuti al
centro 24 membri di un’organizzazione
protestante di Kyoto, in maggioranza
giapponesi, con alcuni tedeschi,
inglesi e un finlandese. Tale
organizzazione è stata la prima, in
Giappone, a occuparsi di dialogo interreligioso:
ora vorrebbe creare un
proprio centro sul modello del Seimeizan.
Per alcuni giorni si è parlato
della storia, organizzazione e spirito
del nostro centro. Tutti hanno
partecipato ai nostri momenti di
preghiera.
Spesso tutta la comunità si reca a
celebrare la messa domenicale nella
cittadina di Tamana, una delle tre
parrocchie che seguiamo. La chiesetta
è piccola e, come ovunque in
Giappone, bisogna togliersi le scarpe
prima di entrare. La comunità
parrocchiale è molto unita; prevalgono
le donne di una certa età; mentre
i giovani, una ventina, frequentano
solo raramente.
La domenica, infatti, le scuole organizzano
saggi e gare sportive, alle
quali gli alunni sono praticamente
obbligati a partecipare. Gli studenti
degli ultimi anni di scuola superiore,
invece, la domenica frequentano
corsi speciali di preparazione agli esami
di ammissione all’università.
Tempo fa, la parrocchia ha orga-

nizzato un bazar, cioè una serie di
bancarelle per la raccolta di fondi.
Sono finito nel reparto cucina e mi
sono distinto nel preparare la soba,
una pasta simile agli spaghetti che,
dopo essere lessata, viene grigliata alla
piastra con pancetta, insalata, carote,
germogli di soia e salsa.
Ciò che maggiormente ci procura
gioia e fiducia è il cammino delle persone
che si preparano al battesimo.
Suor Maria sta seguendo una signora
sposata, di 40 anni, e un ragazzo
di 18. Ogni mese teniamo un ritiro
di preghiera. Vi partecipano i fedeli
delle tre parrocchie e vari non cristiani
in ricerca.
Al «nucleo storico» dei partecipanti
a questi ritiri appartiene una signora
simpatica e attiva, splendido
esempio di laicato missionario: fin
dalla fondazione del Seimeizan ha
portato a questi ritiri amiche e conoscenti
non cristiane. Alcune di esse
hanno intrapreso il cammino dei catecumeni.
Alla messa domenicale nella parrocchia
di Tamana arriva pure, a piedi
e da sola, una signora di 90 anni.
È una maestra di sho-do, l’arte tradizionale
della calligrafia; alla sua veneranda
età, ha incominciato a
prendere lezioni di inglese. È interessata
al cristianesimo; per questo
ha iniziato a frequentare la messa
domenicale. Personaggi così non
sono rari qui in Giappone.
Non è facile entrare nell’animo
giapponese e cogliee le infinite
sfumature. Ma ciò che
è bello è l’atteggiamento che si vuole
instaurare nel confronto degli altri
credenti: rispetto, ascolto, armonia,
attenzione e… tanta pazienza.
Perché da tutto ciò nasca
in tutti la ricerca sincera
della verità.

Fabio Limonta, di Oggiono (LC), 30 anni,
è laico missionario della Consolata:
ha frequentato il nostro Centro di Bevera
e ha alle spalle alcune esperienze di
volontariato in Kenya, India e Giappone
(proprio presso il Seimeizan).

BUDDISMO
GIAPPONESE

Idea chiave del buddismo è che tutti
gli esseri viventi sono imprigionati in
un ciclo infinito di reincarnazioni; il
continuo nascere-e-morire è sperimentato
come sofferenza; da qui lo
scopo di questa religione: liberare
l’uomo da tale ciclo di rinascite, culminante
nell’«illuminazione».
Al di là di questa unità dottrinale, il
buddismo si presenta in un’infinità di
correnti con profonde differenze. In
Giappone esistono 13 denominazioni
o correnti, ulteriormente divise in
un centinaio di scuole. Tali differenze
sono di carattere storico, filosofico e
cultuale.
Dal punto di vista filosofico, alcune
denominazioni ritengono l’illuminazione
raggiungibile con le proprie
forze, con lo studio delle scritture,
ascesi, pratiche di tipo magico, meditazione.
A questa categoria appartiene,
il famoso zen.
Per altre correnti l’iIluminazione è raggiungibile
solo grazie all’intervento di
un’entità superiore. Elemento caratterizzante
di queste denominazioni è la
fede in una divinità chiamata Budda
Amida(da non confondere col Budda
storico, Siddharta Gautama), da cui il
nome del movimento: amidismo.
Attualmente, la denominazione più
numerosa è la nichiren(dal nome del
fondatore), che conta più di 30 milioni
di fedeli. Si distingue per una forte
impronta nazionalista e, contrariamente
alla tradizione buddista, manifesta
forti critiche nei confronti di altre
religioni e correnti buddiste.
Solidamente organizzata, è tesa al
proselitismo esasperato, fino a teorizzare
l’uso della violenza per diffondere
il proprio credo.
Benché in Occidente si parli di
«monaci e monasteri buddisti»,
nel buddismo giapponese non esiste
niente di equiparabile alla nostra tradizione
monastica. Quello del monaco
è, in molti casi, un mestiere che si tramanda
di padre in figlio. I «monaci»,
infatti, sono quasi tutti sposati e vivono
gestendo il tempio ereditato dalla
famiglia; i «monasteri» sono luoghi di
formazione dei giovani aspiranti, la
quale può durare da pochi mesi, per i
laureati in una università buddista, a
due anni per chi ha un titolo di studio
inferiore.

CRISTIANESIMO IN GIAPPONE
La prima evangelizzazione del Giappone risale alla metà del 1500, con l’arrivo
di san Francesco Saverio e altri gesuiti. Il cristianesimo conobbe subito una
rapida espansione, con centinaia di migliaia di battezzati, tra cui molti nobili e
signori locali. Ma alla fine di quel secolo sorse il timore che la diffusione del cristianesimo
potesse favorire propositi di conquista del paese da parte delle grandi
potenze cattoliche dell’epoca, Spagna e Portogallo. Iniziò, quindi, un’epoca di
tremende persecuzioni, con torture e crocifissioni di massa. Uno degli episodi più
noti ha per protagonisti san Paolo Miki e 25 compagni, religiosi e laici, crocifissi
a Nagasaki il 5 febbraio 1597.
L’apice della persecuzione fu raggiunta nel 1637: 37.000 contadini, in gran
parte cristiani, furono massacrati nella fortezza di Shimabara per essersi ribellati
alle vessazioni dei feudatari locali.
Per più di 200 anni l’intero paese rimase isolato dal resto del mondo, ma i cristiani
scampati alle persecuzioni conservarono di nascosto la propria fede.
Dopo l’apertura forzata dei porti del Giappone nel 1853, a Nagasaki si formarono
alcune comunità di europei e i francesi costruirono una cappella. Nel 1865,
un gruppo di «cristiani nascosti», riconosciuti i simboli della propria fede, si presentò
al sacerdote e si venne così a sapere dell’esistenza di queste antiche comunità
cristiane. La chiesetta fu ribattezzata «chiesa del ritrovamento» ed è uno dei
pochissimi edifici di Nagasaki sopravvissuti alla bomba atomica.
Gli editti contro il cristianesimo, però, erano ancora in vigore e, dal 1867 al
1873, i cristiani dovettero subire una nuova persecuzione con imprigionamenti e
deportazioni. Solo nel 1889, con la promulgazione della nuova costituzione, fu
garantita la libertà di culto.
Oggi il cristianesimo gode piena libertà, ma vari problemi ne impediscono l’espansione.
Prima di tutto l’idea che si tratti di una religione occidentale e,
come tale, estranea. Lo stesso buddismo, prima di essere completamente accettato,
ha impiegato secoli e subito un processo di «giapponesizzazione».
In secondo luogo il cristianesimo, anche dal punto di vista storico e culturale, è
quasi sconosciuto. Meno dell’1% della popolazione è cristiana e i libri di scuola
dicono pochissimo dell’evangelizzazione del XVI secolo. La chiesa cattolica è
conosciuta come ente filantropico, che gestisce scuole e ospedali. L’aspetto propriamente
religioso e spirituale è quasi ignorato.
Tra le difficoltà maggiori ci sono alcune peculiarità culturali. Per esempio, i giapponesi
privilegiano un tipo di pensiero concreto, rispetto a quello astratto a noi
familiare. Soprattutto non esiste l’idea del peccato come è inteso nel cristianesimo:
l’etica giapponese non è fondata sull’obbedienza a una legge morale, ma
piuttosto sul rispetto di un complesso sistema di convenzioni sociali. In altre parole,
il male non è violare un comandamento di Dio, ma rompere l’armonia all’interno
del gruppo d’appartenenza.
Infine, il processo di secolarizzazione e, in certa misura, una vera e propria decadenza
sta portando la
società giapponese all’indifferenza
verso i valori
spirituali, anche quelli
insiti nelle religioni tradizionali,
come il buddismo
e lo shintornismo. La
grave recessione economica
di questi anni sta
modificando molti aspetti
della vita sociale, dal
mondo del lavoro a quello
della scuola, per avvicinare
il paese al modello
occidentale, facendo così
crescere individualismo e
competizione.

Fabio Limonta




16 FEBBRAIO festa del beato Giuseppe Allamano

QUASI UNA VITA…

La corrispondenza spedita e ricevuta dal beato Giuseppe Allamano e altri documenti che lo riguardano: vi si colgono lo snodarsi di tutta la vita o «quasi» e gli infiniti tratti della sua poliedrica figura.

Con la pubblicazione dell’ultimo
volume della corrispondenza
del beato Giuseppe Allamano
(ottobre 2002), padre Candido
Bona ha posto la parola fine a un
lavoro immane, durato 12 anni. Sono
dieci, anzi, undici tomi (il nono volume
è doppio), per un totale di 8.045
pagine, che racchiudono 4 mila documenti,
di cui 1.812 lettere autografe
dell’Allamano.
Un’edizione integrale: lettere, relazioni,
cartoline postali, biglietti da
visita, saluti aggiunti ad altri scritti,
fatture di pagamenti, foglietti sparsi.
Tutto è stato pubblicato, senza tagli
né censure. Accanto agli scritti del
fondatore, figura pure una massa
notevole di lettere da lui ricevute.
Non è una semplice raccolta,
bensì un’edizione «critica»: qui
sta il suo straordinario valore,
anche storico. L’autore, infatti,
ha voluto offrirci la produzione
epistolare dell’Allamano
inquadrandola nel suo
tempo (la precisione delle
date!), arricchendola con
spiegazioni e chiarimenti,
riportando i dati biografici
delle innumerevoli persone citate,
anche le più umili e sconosciute;
stabilendo collegamenti sicuri o
probabili; rispettando, fino
allo scrupolo, il testo
originale; interpretando
perfino silenzi
e allusioni,
per rendere
meno oscuri
avvenimenti e
personaggi.
Un lavoro
scrupoloso
fatto di pazienti
ricerche, prime stesure, decine di
persone consultate, confronti d’ogni
tipo; poi correzioni, aggiunte e verifiche,
stesure definitive… E tutto con
lo stile di un ricercatore attento,
esigente e pignolo, fino a
spedire qualcuno due volte
sul campanile del santuario
della Consolata, per
verificare l’esattezza delle
iscrizioni sulle campane.
A Padre Candido Bona (che qualcuno chiama affettuosamente
«la storia») un bel grazie!
Come è nata questa «passione»
per il fondatore e l’idea di
pubblicarne il carteggio?
«Nel 1960 – inizia padre Bona – ricorreva
il centenario della morte di
san Giuseppe Cafasso, zio dell’Allamano.
La reliquia del suo braccio,
dopo aver fatto il giro delle parrocchie
e prigioni di Torino, arrivò pure
in casamadre. Fui incaricato di tenere
la commemorazione sul tema Il
Cafasso e le missioni. Cambiai tema
e titolo: Il servo di Dio Giuseppe Allamano
e un secolo di movimento
missionario in Piemonte. Per stendere
la relazione potei consultare liberamente
le lettere autografe del fondatore».
Quella conferenza, pubblicata e
ripubblicata in varie forme, diventò
uno stimolo e punto di riferimento
per ulteriori ricerche sulla figura del
fondatore e la storia dell’istituto. Fino
a quell’anno, infatti, esistevano una
biografia ufficiale dell’Allamano,
Dottrina Spirituale, alcune conferenze
e lettere circolari: missionari e
missionarie della Consolata sembravano
felici e contenti.
La relazione di padre Bona mette
in luce il grande fervore missionario
nato e cresciuto in Piemonte e nel resto
del Regno Sardo, per influsso
d’oltralpe, durante il secolo XIX, contagiando
e coinvolgendo vescovi,
preti e laici. Basti pensare che, nel
1858, c’erano «600 missionari sardi»
sparsi per il mondo e la chiesa piemontese
raccoglieva per l’Opera della
propagazione della fede più denaro
di tutte le diocesi italiane messe insieme.
In tale clima l’Allamano crebbe e
progettò la fondazione di un istituto
missionario, già nel 1885-1886: «fondazione
che va inserita nell’alveo di
tale movimento e, in certo senso, ne
è erede e coronamento» si legge in
quella relazione.
«Negli anni ’60 – continua padre
Bona – il superiore generale, Domenico
Fiorina, m’incaricò di fare ricerche
sui documenti riguardanti
l’Allamano, essendo in corso il processo
di canonizzazione. Per anni ho
battuto a tappeto tutti gli archivi di
chiese, santuari e diocesi, comunali
e nazionali, di dicasteri romani e istituti
religiosi… ovunque potessero
esserci tali documenti: scoprii una
mole di materiale e lettere, in gran
parte fino ad allora sconosciute: “Un
giorno dovranno pur essere pubblicate”
mi dissi».
Alla raccolta dei documenti si accompagnava
il lavoro di studio critico,
compilazione e pubblicazione:
negli anni ’80 uscirono tre volumi
con le conferenze e nel 1990 il primo
volume delle lettere.
Perché pubblicare anche le lettere
ricevute e perfino i frammenti
dei suoi scritti?
«Una briciola contiene tutta la sostanza:
a volte una persona si rivela
meglio in poche righe che in lunghe
composizioni – risponde padre Bona
-. Circa la corrispondenza ricevuta,
prima di tutto, essa rivela la vasta
gamma di relazioni che aveva
l’Allamano e di attività in cui era
coinvolto».
Basta scorrere l’indice dell’epistolario
per avere un’idea della molteplicità
delle relazioni: familiari e amici,
vescovi, cardinali e papi, principi
e re di casa Savoia, autorità civili
e religiose, benefattori e, soprattutto
i suoi figli, i missionari e missionarie
della Consolata.
È altrettanto sorprendente, sfogliando
qualche lettera, scoprire la
diversità di toni: dall’ufficialità burocratica,
sempre elaborata con cura,
magari con l’aiuto dei collaboratori,
alla spontaneità delle lettere
personali, scritte con lessico semplice,
talora con sottofondi dialettali,
con stile sobrio, misurato e incisivo,

capace di andare al cuore, caldo e
persuasivo.
«Molte lettere dell’Allamano sono
andate perdute – continua padre Bona
-: è dalle risposte che possiamo conoscere
contenuti e toni di quelle inviate.
Mancano, per esempio, le lettere
scritte per promuovere la causa
di beatificazione del Cafasso. Se non
avessimo le risposte, non avremmo
che una pallida idea della complessità
di tale processo, specialmente a
quei tempi, i problemi e difficoltà da
lui incontrate. Tra l’altro, sappiamo
che l’Allamano poté testimoniare per
uno speciale permesso della Santa
Sede, essendo parente del santo e
non avendo avuto esperienza diretta
dello zio, morto quando il fondatore
aveva nove anni; ma lo conosceva a
fondo, grazie alle innumerevoli testimonianze
sentite da altre persone.
Ci sono lettere «difficili», situazioni
complesse come la
beatificazione dello zio?
«Molte, come il carteggio con
mons. Jarosseau, vicario apostolico
dei galla, per definire dove avrebbero
dovuto lavorare i suoi missionari.
Consultando mappe e prendendo le
dovute informazioni, l’Allamano fece
presente che il territorio designato
dal vescovo con le cornordinate geografiche
non era sotto la sua giurisdizione,
che il luogo era malsano e
i galla erano stati cacciati dalle razzie
di vari gruppi etnici.
Scottante è pure il carteggio con Alexandre
Le Roy, superiore generale
dei padri dello Spirito Santo. In attesa
di tempi propizi per entrare in Etiopia,
i missionari della Consolata
furono accolti nel Kenya, ma l’Allamano
dovette promettere che essi
non avrebbero preteso un territorio
proprio, perché “i kikuyu sono una
etnia troppo piccola per due istituti”
diceva Le Roy. Ritardando la possibilità
di condurre in porto il progetto
originario, i missionari della Consolata
furono incoraggiati dagli stessi
padri dello Spirito Santo a fondare
missioni ed espandersi tra i kikuyu,
finché l’Allamano chiese a Propaganda
fide piena autonomia sul territorio
in cui lavoravano i suoi figli.
Le Roy gli rinfacciò di aver mancato
di parola. Nella lettera del 30
settembre 1905, l’Allamano ammise
e spiegò le ragioni del suo comportamento,
con delicatezza e fermezza,
concludendo: “Vôtre grandeur non
è al corrente dei fatti”.
Quando Giacomo Camisassa visitò
le missioni del Kenya (1911-12),
inviò al fondatore relazioni non troppo
consolanti su situazioni di personale
e problemi scottanti; l’Allamano
rispondeva con la sua istintiva
saggezza. Non meno sofferte sono le
lettere degli ultimi anni, indirizzate a
mons. Filippo Perlo, rimasto in Africa
per 14 mesi dopo l’elezione a vice
superiore dell’istituto con diritto
di successione».
Allora si può davvero definire
il fondatore «il Salgari della
missione»?
«Ma che Salgari! Costui ha inventato
tutto con la fantasia. L’Allamano,
invece, insieme a Camisassa, prima
di fondare l’istituto e, poi, prima
di inviare i suoi missionari, aveva letto
libri e resoconti di esploratori e
missionari, si era informato e aveva
fatto ricerche minuziose sui territori
in cui sarebbero andati i missionari.
E continuò a documentarsi. Nella
lettera a Propaganda fide del 18 dicembre
1912, per definire i confini
dell’erigenda prefettura del Kaffa e
smontare le obiezioni di Jarosseau,
viene citato perfino un esploratore
russo, Alexandr Bulatovic.
Quando il fondatore parlava ai
suoi missionari dell’Africa, dei suoi
popoli e costumi, problemi e situazioni,
lo faceva da esperto e innamorato,
come se in quel continente ci
fosse stato e continuasse a viverci.
Nel carteggio con Giulio Pestalozza,
console italiano a Zanzibar, per esempio,
le lettere dell’Allamano e del
Camisassa mostrano una profonda
conoscenza di tutti i problemi politici
e amministrativi, geografici e pratici,
e vengono studiate strategie per
entrare in Etiopia. Tra l’altro, si progettava
la costruzione di un battello
per risalire il fiume Tana; ma esso non
doveva avere più di mezzo metro di
pescaggio, poiché in certi punti il fiume
era troppo basso».
Oltre alla passione per l’Africa,
quale figura emerge dalle sue
lettere?
Padre Bona si lascia cadere le
braccia, poi risponde: «È impossibile
sintetizzare in poche righe la sua
personalità poliedrica che, di volta
in volta, è amico, parente, confratello,
rettore, padre, fondatore, consigliere, guida spirituale… È meglio
leggersi le lettere».
Ho capito l’antifona. Cambio la
domanda e gli chiedo di indicarmi
qualche lettera che lo ha particolarmente
impressionato. Scrive quattro
nomi e rispettive date, foendo
qualche dritta.
La lettera inviata nel 1882 a mons.
Gastaldi è un capolavoro di abilità
psicologica e diplomatica. Mentre il
clero torinese trema di paura davanti
al suo vescovo, l’Allamano, 31 anni,
gli ricorda le «voci maligne» che
circolano sul suo conto, per avere usato
il guanto di ferro sulla scuola di
morale per i neo-sacerdoti: voci che
solo il vescovo può smentire, ristabilendo
il Convitto ecclesiastico nella
sede naturale, la Consolata. E per facilitare
la soluzione, gli suggerisce
persone che sa gradite a monsignore
e il modo di cavarsela con onore.
Nella lettera ai primi membri della
casamadre (28 luglio 1901) manifesta
tutto il suo cuore paterno: si
rammarica di non poter essere più
frequentemente con loro e detta alcune
regole per il buon funzionamento
della comunità.
La corrispondenza tra l’Allamano
e fratel Benedetto Falda è pervasa da
profondo affetto e confidenza, raggiungendo
toni profetici. Unico superstite
della terza spedizione, il fratello
nutre qualche dubbio sulla propria
resistenza; l’Allamano gli scrive:
«Non mi stupisco delle tentazioni
temporanee di scoraggiamento…
Con la grazia di Dio ti passerà e riuscirai
un missionario di spirito… No,
la nostra missione andrà innanzi e
prospererà, perché è opera di Dio e
della Consolata. Passeranno gli uomini,
con merito più o meno secondo
il loro spirito, cadranno alcune
foglie, ma la pianta crescerà e verrà
albero gigantesco; io ne ho prove
prodigiose in mano. Fortunato chi
persevererà; egli vedrà esiti splendidi.
Felice te che per essere il primo
fratello a fare i voti perpetui, sarai capo
di una grande schiera di santi fratelli
in cielo, e di lassù dovrai anche
ringraziare me che non ti risparmiai
correzioni» (2 settembre 1908).
Quando il fratel Falda gli comunicò
di avere fatto in privato la professione
perpetua, l’Allamano gli
scrisse: «Con la mia benedizione intendo
confermarti come primo fratello
dell’istituto» (8 dicembre 1908).
Non mancano pennellate umoristiche,
come nella lettera a mons.
Ressia, vescovo di Mondovì e compagno
di corso dell’Allamano. Per
celebrare il giubileo sacerdotale
(1923), il vescovo avrebbe voluto i
compagni a Mondovì, ma l’Allamano
gli scrisse: «Siamo vecchi e sciancati;
a Mondovì daremmo ammirazione…
In Torino invece e nella Consolata
resteremmo ignoti».
Brioso è pure l’inizio dell’invito a
mons. Ressia per la beatificazione
del Cafasso (1925): «Nel vedere la
mia brutta calligrafia dirai, già nuovamente
quel noioso. Abbi pazienza;
vecchio con vecchio».
Rivelatrici del suo cuore sono pure
le ultime parole scritte dal beato
fondatore nel gennaio del 1926, pochi
giorni prima della morte: riformulando
il testamento conclude
così: «Arrivederci
tutti nel bel paradiso».

Benedetto Bellesi