ETIOPIA – Ciclica o endemica? A proposito di fame in Etiopia

Domenica 11 maggio 2003 a Cachachulo. Dopo la messa, i capi delle Associazioni contadine ripetono davanti a padre Paolo Marré una litania di problemi: «Nessuno ci aiuta. Dopo varie relazioni alle autorità, abbiamo solo promesse. Le organizzazioni umanitarie non vengono qui perché non ci sono strade. Intanto moriamo di fame e sete. Le donne fanno fino a 8 ore di cammino per attingere l’acqua. Buona parte del bestiame è morto. Venite a vedere».
Non ne abbiamo bisogno: abbiamo già incontrato carcasse di capre per la strada; il padre ha visitato le famiglie un mese fa. Finalmente può comunicare la bella notizia: mercoledì inizierà la distribuzione di cibo alle famiglie bisognose.
Cachachulo, a 95 km da Shashemane, ai confini sud-orientali dell’Oromia, con oltre 100 persone, è un’icona della disperazione di un intero paese con oltre 63 milioni di abitanti, di cui nove decimi vivono in aree rurali, le più colpite dalla carestia.

DISASTRO ANNUNCIATO
L’allarme fu lanciato dal Programma alimentare mondiale (Pam) fin dal giugno 2002: 6 milioni di persone in Etiopia rischiano di morire di fame. Il 18 novembre, a Londra, il primo ministro etiopico, Meles Zenawi, chiese più aiuti alla comunità internazionale, per la sopravvivenza di 12 milioni di etiopi; oggi si parla di 15 milioni e potrebbero arrivare a 20. «In un solo paese – afferma Georgia Shaver, segretario del Pam in Etiopia – il numero di bisognosi di cibo potrebbe essere pari a quello di tutto il resto dell’Africa».
Ad aggioare le cifre, oltre al Pam, l’agenzia di soccorsi umanitari dell’Onu, è pure la Commissione per prevenire e prepararsi ai disastri (Dppc), organo del governo etiopico per monitorare l’andamento della sicurezza alimentare nel paese e sollecitare gli aiuti inteazionali.
I paesi donatori (Usa in testa) hanno inviato tonnellate di granaglie; la Dppc ha riunito le Associazioni dei contadini, steso le liste delle famiglie bisognose e cominciato a distribuire mezzo quintale di grano a ogni gruppo di 5 persone: tale aiuto, però, si riduce a una manciata di grano tostato al giorno, con cui un’intera famiglia deve sopravvivere per un mese.
Per quanto misero, tale soccorso non arriva regolarmente a tutti, sia perché molte zone del paese sono lontane dai punti di distribuzione, sia perché gli aiuti inteazionali sono insufficienti: la tragedia è più grave del previsto e, dopo i primi mesi, l’attenzione mondiale è stata rivolta al disastro umanitario e alla ricostruzione dell’Iraq. Di fronte al disastro annunciato, i mezzi di comunicazione mondiale non hanno speso una parola, troppo assorbiti dalle vicende del Golfo.

«INCUBO RICORRENTE»
L’espressione è del presidente etiopico. La crisi è peggiore di quelle del 1983-84 e del 1993-94, in cui 10 milioni di persone furono colpite dalla carestia, causando un milione di vittime. Questa volta, il numero potrebbe essere triplicato, senza contare le conseguenze che la denutrizione lascerà nei superstiti.
Sembrerebbe che tale incubo ritorni ciclicamente ogni dieci anni. Le statistiche foite dal Dppc testimoniano che in Etiopia fame e denutrizione sono endemiche.
Dal 1984 tutti gli anni si susseguono carestie di varia intensità, con la differenza che, negli anni «normali», la distribuzione di cibo procede bene; quando la crisi è troppo estesa, la mancanza di strutture e risorse adeguate impedisce interventi rapidi e capillari. Di solito si dà la colpa ai fenomeni climatici. Nel caso attuale la crisi è attribuita al fatto che da un paio d’anni piove poco e nel 2002, soprattutto, le precipitazioni sono state pressoché nulle, sia durante le piccole (febbraio-maggio) che le grandi piogge (agosto-novembre).
In teoria, l’Etiopia non manca d’acqua: numerosi fiumi, tra cui il Nilo blu, nascono sugli altipiani, attraversano il paese ed esportano acqua in Sudan e Kenya; nella Rift Valley, una delle zone più colpite dalla carestia, ci sono una dozzina di laghi, alcuni grandi come il Garda. In alcune zone piove più che in Nord Italia: mentre in certe aree c’è la siccità, in altre i raccolti sono più che abbondanti.

DISASTRO POLITICO
Qual è, allora, la vera causa della fame in Etiopia? Il professor Mesfin Wolde Mariam, fondatore del locale Movimento per i diritti umani, studioso e autore di vari libri sul problema, afferma che la fame in Etiopia è di «origine socio-politica» e spiega: «L’85% della popolazione etiopica vive di agricoltura di sussistenza ed è vulnerabile alla fame, perché oppressa e sfruttata da regimi dispotici e sfavorita dalle condizioni di mercato. Il regime marxista ha nazionalizzato la terra e i contadini non hanno più diritto di proprietà né sicurezza di tenuta: essi possono coltivare piccoli appezzamenti di terreno finché esprimono lealtà al regime. L’obbligo di partecipare agli incontri di indottrinamento sottrae tempo prezioso al lavoro dei campi; la chiamata alle armi lascia il lavoro agricolo a donne, vecchi e bambini. Ogni anno, poi, al tempo del raccolto, piombano sui contadini esattori di tasse, contributi, debiti, forzandoli a pagare o andare in prigione. Gli agricoltori vendono i loro prodotti quasi allo stesso tempo, provocando il crollo dei prezzi. Più devono pagare più prodotti sono costretti a vendere: così 5-6 milioni di persone rimangono senza cibo e non hanno soldi per comperarlo, neppure negli anni di abbondanza.
Malnutrizione e fame si trascinano di anno in anno. Se poi falliscono le piogge stagionali, la fame diventa un killer di massa».
Per superare la povertà ereditata dal passato, il governo ricorre a iniziative come quelle del «cibo o denaro in cambio di lavoro», ma esse non bastano per mantenere la promessa di dare a tutti «tre pasti al giorno». Sono state introdotte misure positive: economia mista, liberalizzazione del mercato, decentramento amministrativo, investimenti nell’agricoltura, ma i risultati non si vedono.
Le spese militari assorbono almeno il 5% del prodotto interno lordo (Pil); il regime continua a essere oppressivo e l’amministrazione burocratica e corrotta; la proprietà è ancora negata; l’assegnazione della terra dipende dai venti politici; i sistemi di produzione e allevamento sono arretratissimi; le strutture di stoccaggio, mercato e ridistribuzione dei prodotti quasi inesistenti; la ricerca scientifica e difesa del suolo dalle erosioni totalmente assente…
E mentre milioni di persone rischiano di morire di fame, il problema più discusso dal governo sono i quattro sassi di Badme, per cui il paese si è dissanguato di uomini e denaro nella guerra contro l’Eritrea.

SINDROME DA DIPENDENZA
«Finché piove negli Stati Uniti e in Canada, non importa se le piogge sono totalmente assenti in Etiopia» recita una trita e ritrita facezia. A parte il sarcasmo, essa fotografa la crescente sindrome da dipendenza del paese.
Tale dipendenza fa comodo al regime. Le donazioni inteazionali sono la principale industria dell’Etiopia: quest’anno dovrebbero sfiorare il miliardo di dollari (un sesto del Pil). E poiché tali aiuti sono gestiti dalla Dppc, parte di essi resta impigliata tra le maglie dell’intricato labirinto burocratico, a livello nazionale e locale.
Inoltre, la fame può essere usata come strumento di potere per muovere le pedine della politica e degli equilibri etnici. Nonostante i proclami di sostegno all’agricoltura, afferma il prof. Mesfin, «la politica inespressa del regime consiste nel tenere i contadini politicamente senza potere, economicamente impoveriti e socialmente arretrati: così, nelle cosiddette elezioni, alcuni membri del partito ottengono fino al 100% dei voti e il regime mantiene una legittimazione di facciata per governare il paese».
La sindrome da dipendenza fa comodo anche alla comunità internazionale, che chiude un occhio sulle cause delle carestie, tutt’altro che inevitabili.
Controllata con pugno di ferro dall’esercito, l’Etiopia è diventato un paese strategico del Coo d’Africa nella lotta internazionale al terrorismo. Gli americani elogiano il ruolo di Addis Abeba in tale lotta e meditano di collocare basi militari Usa nel paese, lungo il confine con la Somalia. Lo ha rivelato il segretario alla difesa Usa, Donald Rumsfeld, a metà dicembre 2002, durante la visita al Coo d’Africa, dove ha incontrato il presidente Meles Zenawi.

SOLUZIONE POLITICA
«Le potenzialità agricole dell’Etiopia (terra, risorse idriche, diversità climatiche) possono diventare talmente produttive – continua il professor Mesfin – da permettere al paese di esportare una grande quantità di prodotti. Non ho alcun dubbio al riguardo. Ma fino a quando i contadini rimangono impotenti e in servitù, e fino a quando continua la cattiva amministrazione di tali risorse, la carestia sarà sempre un problema per il quale la comunità internazionale sarà chiamata a provvedere soccorsi di emergenza».
«In ultima analisi, la fame è una creazione politica e dobbiamo usare mezzi politici per porvi rimedio» afferma James Morris, direttore esecutivo del Pam. L’alternativa è il caos.
La fame provocò scioperi, manifestazioni studentesche e proteste generali, portando alla caduta dell’imperatore Hailé Salassié (1974). La carestia del 1983-84 diede origine ai partiti di opposizione e alla guerra civile, culminata con la fuga di Menghistu. Anche oggi le proteste di studenti e contadini vengono represse nel sangue. Se il regime non cambia atteggiamento, l’Etiopia potrebbe diventare teatro di una tragedia simile a quella dei Grandi Laghi.

Benedetto Bellesi




Piu’ contemplativi, più santi, più missionari

<b<GIORNATA MISSIONARIA MONDIALE

Alla riscoperta della preghiera del rosario, come strumento di ascolto, apertura agli altri, invocazione sul mondo.

Una premessa: a partire da quest’anno il messaggio del papa per la Giornata missionaria mondiale non è più pubblicato nella solennità di Pentecoste, ma viene reso noto nella festa del battesimo del Signore, per permettere a diocesi e parrocchie di inserirlo nei loro progetti pastorali. «Con tale iniziativa si vuole evitare – scrive il cardinale Sepe – che la missione ad gentes venga vissuta in termini di eccezionalità o straordinarietà. Non si può permettere, pena il tradimento del vangelo di Gesù Cristo, che la dimensione missionaria sia percepita come una sorta di cenerentola…. La missione è, infatti, parte nodale dell’itinerario di ogni comunità cristiana».
Quest’anno, la Giornata missionaria mondiale cade il 19 ottobre, in coincidenza con la celebrazione del XXV anniversario del pontificato di Giovanni Paolo II, con la beatificazione di madre Teresa di Calcutta e la chiusura dell’Anno del rosario. In tale prospettiva il papa ha voluto indicare la «preghiera del rosario» come tema di riflessione, per una chiesa più contemplativa, più santa, più missionaria.

1.Sin dall’inizio, ho voluto porre il mio pontificato sotto il segno della speciale protezione di Maria. Più volte, poi, ho invitato l’intera comunità dei credenti a rivivere l’esperienza del cenacolo, dove i discepoli «erano assidui e concordi nella preghiera… con Maria, la madre di Gesù» (At 1,14). Già nella prima enciclica Redemptor hominis scrivevo che solo in un clima di fervente orazione è possibile «ricevere lo Spirito Santo, che scende su di noi e divenire in questo modo testimoni di Cristo fino agli estremi confini della terra, come coloro che uscirono dal Cenacolo di Gerusalemme nel giorno di Pentecoste» (22).
La chiesa prende sempre più coscienza di essere «madre» come Maria. Essa è «la culla – notavo nella bolla Incaationis mysterium, in occasione del Grande Giubileo dell’anno 2000 – in cui Maria depone Gesù e lo affida all’adorazione e alla contemplazione di tutti i popoli» (11). Su questo cammino spirituale e missionario intende proseguire, sempre accompagnata dalla Vergine Santissima, stella della nuova evangelizzazione, aurora luminosa e guida sicura del nostro cammino (cfr. Novo millennio ineunte 58).

Maria e la missione
della chiesa
nell’anno del rosario

2.Nell’ottobre scorso, entrando nel 25° anno del mio ministero petrino, quasi a ideale prolungamento dell’anno giubilare, ho indetto uno speciale anno dedicato alla riscoperta della preghiera del rosario, tanto cara alla tradizione cristiana; un anno da vivere sotto lo sguardo di colei che, secondo l’arcano disegno divino, con il suo «sì» ha reso possibile la salvezza dell’umanità, e dal cielo continua a proteggere quanti a lei fanno ricorso specialmente nei momenti difficili dell’esistenza.
È mio desiderio che l’Anno del rosario costituisca per i credenti di ogni continente un’occasione propizia per approfondire il senso della vocazione cristiana. Alla scuola della Vergine e seguendo il suo esempio, ogni comunità potrà meglio far emergere la propria dimensione «contemplativa» e «missionaria».
La Giornata missionaria mondiale, che cade proprio alla fine di questo particolare anno mariano, se ben preparata, potrà imprimere un più generoso impulso a quest’impegno della comunità ecclesiale. Il ricorso fidente a Maria con la quotidiana recita del rosario e la meditazione dei misteri della vita di Cristo sottolineeranno che la missione della chiesa deve essere anzitutto sorretta dalla preghiera.
L’atteggiamento di «ascolto», che suggerisce la preghiera del rosario, avvicina i fedeli a Maria, che «serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). La ricorrente meditazione della Parola di Dio diventa un allenamento per vivere «in comunione viva con Gesù attraverso – potremmo dire – il cuore della madre» (Rosarium Virginis Mariae 2).

Chiesa più contemplativa:
il volto di Cristo
contemplato

3.Cum Maria contemplemur Christi vultum! Mi tornano spesso alla mente queste parole: contemplare il «volto» di Cristo con Maria. Quando parliamo del «volto» di Cristo ci riferiamo alle sue sembianze umane, nelle quali rifulge la gloria eterna del Figlio unigenito del Padre (cfr. Gv 1,14): «La gloria della divinità sfolgora sul volto di Cristo» (ibid. 21). Contemplare il volto di Cristo induce a una conoscenza profonda e coinvolgente del suo mistero. Contemplare Gesù con gli occhi della fede spinge a penetrare nel mistero di Dio-Trinità. Dice Gesù: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). Con il rosario ci inoltriamo in questo itinerario mistico «in compagnia e alla scuola della sua Madre Santissima» (Rosarium Virginis Mariae 3). Anzi, Maria stessa si fa nostra maestra e guida. Sotto l’azione dello Spirito Santo, ci aiuta ad acquisire quella «tranquilla audacia» che rende capaci di trasmettere agli altri l’esperienza di Gesù e la speranza che anima i credenti (cfr. Redemptoris missio 24).
Guardiamo sempre a Maria, modello insuperabile! Nel suo animo tutte le parole del vangelo trovano un’eco straordinaria. Maria è la «memoria» contemplativa della chiesa, che vive nel desiderio di unirsi più profondamente al suo sposo per incidere ancor più nella nostra società. Di fronte ai grandi problemi, dinanzi al dolore innocente, alle ingiustizie perpetrate con arrogante insolenza come reagire? Alla docile scuola di Maria, che è nostra madre, i credenti apprendono a riconoscere nell’apparente «silenzio di Dio» la parola che risuona nel silenzio per la nostra salvezza.

Chiesa più santa:
il volto di Cristo
imitato e amato

4.Tutti i credenti sono chiamati, grazie al battesimo, alla santità. Il Concilio Vaticano II, nella costituzione dogmatica Lumen gentium, sottolinea che la vocazione universale alla santità consiste nella chiamata di tutti alla perfezione della carità.
Santità e missione sono aspetti inscindibili della vocazione di ogni battezzato. L’impegno a diventare più santi è strettamente collegato con quello a diffondere il messaggio della salvezza. «Ogni fedele – ricordavo nella Redemptoris missio – è chiamato alla santità e alla missione» (90). Contemplando i misteri del rosario, il credente è incoraggiato a seguire Cristo e a condividee la vita sino a poter dire con san Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Se tutti i misteri del rosario costituiscono una significativa scuola di santità e di evangelizzazione, i misteri della luce pongono in evidenza aspetti singolari della nostra «sequela» evangelica. Il battesimo di Gesù al Giordano ricorda che ogni battezzato è eletto a diventare in Cristo «figlio nel Figlio» (Ef 1,5). Nelle nozze di Cana, Maria invita all’ascolto obbediente della parola del Signore: «Fate quello che vi dirà» (Gv 2,5).
L’annuncio del regno e l’invito alla conversione sono una chiara consegna per tutti a intraprendere il cammino della santità. Nella trasfigurazione di Gesù, il battezzato sperimenta la gioia che lo attende. Meditando l’istituzione dell’eucaristia, egli torna ripetutamente nel cenacolo, dove il divino maestro ha lasciato ai suoi discepoli il tesoro più prezioso: se stesso nel sacramento dell’altare.
Sono le parole che la Vergine pronuncia a Cana a costituire, in un certo modo, lo sfondo mariano di tutti i misteri della luce. L’annuncio del regno vicino, la chiamata alla conversione e alla misericordia, la trasfigurazione sul Tabor e l’istituzione dell’eucaristia trovano infatti nel cuore di Maria un’eco singolare. Maria mantiene gli occhi fissi su Cristo, fa tesoro di ogni sua parola ed indica a tutti noi come essere autentici discepoli del suo Figlio.

Chiesa più missionaria:
il volto di Cristo
annunciato

5.In nessuna epoca la chiesa ha avuto tante possibilità di annunciare Gesù come oggi, grazie allo sviluppo dei mezzi della comunicazione. Proprio per questo la chiesa è oggi chiamata a far trasparire il volto del suo sposo con una più rilucente santità. In questo sforzo, non facile, sa di essere sostenuta da Maria. Da lei «impara» a essere «vergine», totalmente dedicata al suo sposo, Gesù Cristo, e «madre» di molti figli che genera alla vita immortale.
Sotto lo sguardo vigile della Madre, la comunità ecclesiale cresce come una famiglia ravvivata dall’effusione potente dello Spirito e, pronta a raccogliere le sfide della nuova evangelizzazione, contempla il volto misericordioso di Gesù nei fratelli, specialmente nei poveri e bisognosi, nei lontani dalla fede e dal vangelo. In particolare, la chiesa non ha paura di gridare al mondo che Cristo è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); non teme di annunciare con gioia che «la buona notizia ha il suo centro, anzi il suo stesso contenuto, nella persona di Cristo, il Verbo fatto carne, unico Salvatore del mondo» (Rosarium Virginis Mariae 20).
Urge preparare evangelizzatori competenti e santi; è necessario che non si affievolisca il fervore negli apostoli, specialmente per la missione ad gentes. Il rosario, se pienamente riscoperto e valorizzato, offre un ordinario quanto fecondo aiuto spirituale e pedagogico per formare il popolo di Dio a lavorare nel vasto campo dell’azione apostolica.

Una precisa consegna

6.L’animazione missionaria deve continuare a essere impegno serio e coerente di ogni battezzato e di ogni comunità ecclesiale. Un ruolo più specifico e peculiare compete certo alle pontificie Opere missionarie, che ringrazio per quanto già generosamente stanno facendo.
A tutti vorrei suggerire di intensificare la recita del santo rosario, a livello personale e comunitario, per ottenere dal Signore quelle grazie di cui la chiesa e l’umanità hanno particolare necessità. Invito proprio tutti: bambini e adulti, giovani e anziani, famiglie, parrocchie e comunità religiose.
Tra le tante intenzioni, non vorrei dimenticare quella della pace. La guerra e l’ingiustizia hanno il loro inizio nel cuore «diviso». «Chi assimila il mistero di Cristo – e il rosario proprio a questo mira -, apprende il segreto della pace e ne fa un progetto di vita» (Rosarium Virginis Mariae 40). Se il rosario batterà il ritmo della nostra esistenza, potrà diventare strumento privilegiato per costruire la pace nel cuore degli uomini, nelle famiglie e tra i popoli. Con Maria tutto possiamo ottenere dal Figlio Gesù. Sorretti da Maria, non esiteremo a dedicarci con generosità alla diffusione dell’annuncio evangelico sino agli estremi confini della terra.
Con tali sentimenti, di cuore tutti vi benedico.

Dal Vaticano, 12 gennaio 2003,
festa del battesimo del Signore

Giovanni Paolo II

Giovanni Paolo II




MOZAMBICO – Gabbia di matti

Tra le malattie diffuse nel distretto di Mecanhelas, la pazzia rivela tutta la sua drammaticità; spesso è accompagnata da epilessia.
I missionari si sono fatti carico del problema, con buoni risultati, coinvolgendo le comunità cristiane in una rete di solidarietà che, con il nome di Caritas, è estesa ad altre situazioni.

Era un bel ragazzo di nome Marcellino, ma la droga gli aveva consumato il ben dell’intelletto. Mentre lo accompagnavo, insieme ad altri malati, all’ospedale psichiatrico di Nampula, si gettò dal treno che, sprovvisto di freni d’emergenza, si fermò dopo cinque minuti a una stazione. Diedi allo zio che lo accompagnava del denaro e il compito di recuperare il nipote fuggitivo con l’aiuto della polizia locale.
Il ragazzo fu recuperato una settimana più tardi, con vari segni di ferite, non dovute alla caduta dal treno, ma alle botte ricevute. Dopo la caduta, infatti, Marcellino si era subito rialzato, mettendosi a correre per riprendere il convoglio. Non essendoci riuscito, cercò di sopravvivere rubando galline, porcelli e divorandoli crudi nella foresta. Per tre volte i contadini lo avevano catturato e consegnato alla polizia; ma era sempre riuscito a evadere dalla prigione.
Il viaggio successivo Marcellino lo fece con una buona dose di tranquillanti in corpo. Dopo il recupero si è sposato e lavora la terra.
La sua storia è emblematica di quanto sto per raccontare.

NON SI VEDE, MA C’È
Quando arrivai come missionario laico nel distretto di Mecanhelas, nel maggio 1999, si pensava che esistessero nella zona quei cinque o sei casi, da considerare i classici «scemi del villaggio». Tre anni dopo, i malati mentali registrati dalla parrocchia erano quasi 200; nel giugno 2003 circa 700: quasi l’1% della popolazione del distretto.
La pazzia è poco visibile, perché molti malati passano l’esistenza legati con catene di bicicletta a un albero, vicino alla casa di famiglia. La loro sopravvivenza dipende dal buon cuore dei familiari: se questo manca, cosa non infrequente, la polenta quotidiana diminuisce giorno per giorno, provocando una lenta morte per inedia.
Spesso i malati mentali costituiscono un elemento di disturbo e di pericolo per le comunità: insultano, picchiano, bruciano le capanne, rubano… Finché il consiglio si riunisce e dispone che il malato venga soppresso in modo indolore, incaricando qualcuno di porgergli un piatto di cibo avvelenato. Non abbiamo dati precisi, ma riteniamo che una decina di malati mentali muoiano ogni anno per fame o per veleno.
Principale causa di tale malattia pare essere la suruma, un’erba allucinogena importata dal Malawi: provoca delirio, crisi di aggressività e uno stato simile alla schizofrenia. Viene fumata per lavorare senza sentire fatica e fame.
I contadini drogati (surmàticos) li si vede zappare la terra fin dalle prime luci dell’alba e continuano ininterrottamente fino al tramonto, senza assumere alcun cibo. Presto, però, alla voglia di lavorare subentrano delirio, aggressività e trascuratezza della propria persona.
Traumi dell’infanzia, risalenti ai tempi della guerra civile (1977-92) e incapacità della famiglia di educare i figli ad affrontare le difficoltà della vita incoraggiano la malattia mentale: una volta divenuti adulti, essi possono «perdere la testa» di fronte a un problema più grande del normale.
Circa il 75% dei malati mentali soffre anche di attacchi epilettici. In questi casi è chiamato in causa l’alcornolismo, che conduce al decadimento del cervello.
Un bicchiere di cachaça, bevanda superalcolica, costa pochi centesimi e aiuta a dimenticare la fame e le difficoltà della vita. Alcuni lavoratori vi spendono l’intero stipendio mensile appena percepito, ubriacandosi fin quasi a morire. Capita pure di incontrare ragazzini già ubriachi fradici di prima mattina. Parlare con i genitori non serve a molto.
Un’altra causa dell’epilessia può essere la presenza di parassiti intestinali nella stragrande maggioranza della popolazione locale, per mancanza d’igiene. Alcuni parassiti, tra cui la tenia, a volte migrano dall’intestino verso il cervello e vi depositano le uova: questo provocherebbe attacchi epilettici e comportamenti anormali.

MATTI DA LEGARE
All’inizio di dicembre 1999, apparve nei pressi della missione di Mecanhelas, un ragazzo di 20 anni, magro, sporco, muto, con un sorriso ebete. Antonio, questo il suo nome, cominciò a farsi notare montando sui cassoni dei fuoristrada, o arrampicandosi sugli alberi di mango, per lanciae i frutti ai passanti e aspettare che gli stessi glieli restituissero in faccia.
Poi Antonio cominciò a rompere i vetri della missione per impadronirsi delle tendine, con cui amava cingersi alla testa. Per il resto, indossava solo un paio di slip femminili.
La polizia non si interessava del caso. Noi missionari cominciammo a tirare giù Antonio dagli alberi, dove si rifugiava quando era inseguito, e rinchiuderlo in una cella improvvisata. Non sapevamo che negli slip nascondeva un coltello, con cui si liberò e scappò dalla finestra.
Catturato un’altra volta, fu legato a un albero, affinché, approfittando della pioggia torrenziale, si lavasse un poco. Dopo la doccia, Antonio ricevette un bel maglione di lana verde; il giorno dopo lo ridusse in decine di rocchetti di filo che collezionava in una borsa.
Dopo l’ennesima cattura, per vetri rotti e tendine strappate dalla casa dei missionari, era venuto il momento di occuparci seriamente di Antonio. Lo accompagnammo al manicomio più vicino (oltre 400 km da Mecanhelas), diretto da uno psichiatra missionario della congregazione di San Giovanni di Dio.
Dopo alcuni mesi toò ingrassato, parlava normalmente, salutava e ci ringraziava per averlo aiutato. Aprì un piccolo commercio di olio alimentare e sigarette e cominciò a vivere da persona normale.
Passò qualche mese e constatammo che Antonio stava peggiorando di nuovo, fino a ripiombare nella follia a causa della suruma. Lo riportammo al manicomio e fu di nuovo disintossicato. Adesso continua a vivere a Mecanhelas, ma non è del tutto normale. Il problema è che non ha una famiglia che lo sostenga a rimanere lontano dalla droga.
Stavamo occupandoci di Antonio quando apparve Francisco Pio: fratello dell’ex sindaco di Mecanhelas, alto e forte, era il terrore della gente: essendo parente di un «grande», non poteva essere picchiato.
Arrivò in missione con l’auto delle suore, su cui era salito abusivamente, bevendo allegramente lattine di birra prelevate dal carico. Alla sua apparizione i passanti scappavano e i lavoratori chiudevano a chiave le porte della missione.
Era furioso; brandiva un bastone; ma non ci lasciammo intimorire; lo mettemmo in fuga, fra le grida di esultanza della gente. Un’ora dopo apparve il fratello «grande» per chiederci di aiutarlo. Così anche Francisco venne accompagnato al manicomio, insieme a una cugina, impazzita in seguito all’amputazione di un braccio, e a un signore che vagava per la cittadina con una bibbia in mano, predicando l’apocalisse.
Dopo una settimana in manicomio, Francisco scappò e ritoò a casa da solo. Andai a trovarlo. Era molto più tranquillo; gli diedi degli psicofarmaci, invitandolo a farmi visita. Col tempo, Francisco, anche lui surmàtico e alcornolizzato, recuperò la normalità.

CAROVANA DI MATTI
Viste le quattro guarigioni, la gente di Mecanhelas cominciò a scendere dai monti e uscire dalle giungle per «colocar uma preocupação», come si dice eufemisticamente da queste parti. Tra i malati mentali c’erano varie madri di famiglia: per i loro bambini era un dramma avere una mamma pazza, vederla fare stramberie o legata a un albero come un cane.
Ogni mese, dalla missione cominciò a partire una macchina carica di pazienti che, trasferiti su uno scompartimento prenotato, raggiungevano in treno l’ospedale psichiatrico di Nampula; questo può accogliere una cinquantina di malati e serve tutto il Mozambico settentrionale. Ce ne sono solo altri due nel resto del paese.
La comitiva di matti era accompagnata da me, da un infermiere, munito di siringhe e tranquillanti, e da un parente per ogni malato, con la responsabilità di sorvegliarlo. Compito non sempre assolto: a volte gli stessi malati arrivavano da me trafelati per dirmi che qualcuno era scappato.
Arrivati a Nampula, la polizia non aveva nulla da eccepire, vedendo una decina di persone incatenate scendere dal treno e avviarsi a saltelli verso una macchina, sorvegliati da certi tipi con manganelli, tra cui c’ero anch’io.
I passanti, invece, pensando che fossi un poliziotto alle prese con chiconhocas (ladri) appena catturati, si avvicinavano minacciosi per picchiarli. Ci pensarono gli stessi malati a chiarire la situazione: «Siamo malucos (matti) diretti al manicomio».

SERVIZIO A DOMICILIO
Dalla fine del 2001 è aperta un’unità psichiatrica a Cuamba, a 91 km da Mecanhelas; non dobbiamo più percorree 440 per raggiungere il manicomio di Nampula.
A Cuamba opera il signor Sibinde, un tecnico psichiatra mozambicano. «Tecnico» significa che si tratta di un operatore sanitario, formatosi per tre anni, e non di un medico laureato. Egli dimostra una grande motivazione per il lavoro che fa: senza chiedere alcuna mancia, viene ogni mese nella parrocchia di Mecanhelas, si trattiene tre giorni, riuscendo a visitare un centinaio di pazienti alla volta. Non gli fa problemi andare in bicicletta o guadare paludi.
La maggior parte dei pazienti visitati viene trattata a domicilio, con psicofarmaci affidati alla responsabilità dei familiari. Tuttavia, ogni mese, quattro o cinque pazzi pericolosi devono essere trasferiti all’unità psichiatrica di Cuamba per una terapia intensiva di alcune settimane.
La terapia di recupero completo dura due o tre anni. La difficoltà principale è convincere i pazienti e le rispettive famiglie a perseverare nell’assumere psicofarmaci. Ma poiché, dopo qualche mese, i malati constatano un miglioramento, tendono a interrompere l’assunzione di medicine, col rischio di ricadere nella follia anche più grave.
Mentre tra i guariti da malattie fisiche solo uno su dieci viene a ringraziarci dopo la guarigione, quasi tutti gli ex matti vengono a esprimere la loro gratitudine per averli recuperati alla vita civile, nonostante gli eventuali trattamenti rudi subiti durante le crisi di aggressività.
A differenza di quanto avviene nella società europea, la persona affetta da malattia mentale, una volta guarita, non trova difficoltà a reinserirsi nella vita della famiglia e del villaggio: nessuno gli rinfaccia il suo passato. Ciò vale anche per i criminali, compresi quelli che, durante la guerra civile si macchiarono di torture e massacri.
Un proverbio makua dice al riguardo: «Il passato è passato, adesso dobbiamo vivere il presente». I makua, etnia pacifica e aliena da litigi, attua così una concreta forma di perdono che, tra l’altro, ha favorito il processo di pace che pose termine a 15 anni di guerra civile.

LA RETE DELLA CARITAS
Dal 1999 al 2002, gli animatori e i missionari di Mecanhelas hanno soccorso circa 180 malati di mente, recuperandone una cinquantina alla vita normale. A giugno 2003, nel distretto sono stati contati circa 700 malati mentali, 450 dei quali affetti anche da epilessia; di questi, dopo cure adeguate, un centinaio sono tornati alla vita normale, sposandosi e riprendendo a lavorare la terra.
Il lavoro con i malati mentali nella parrocchia di Mecanhelas, si inquadra in un progetto più ampio: la creazione di una rete di solidarietà fra cristiani locali, denominata caridade (carità).
Per comprendere tale processo, occorre una premessa. La lunga guerra civile (1977-92) ha deteriorato il sentimento di solidarietà di molti mozambicani. Diversi bambini sono cresciuti senza genitori (magari uccisi) né alcun tipo di educazione; sono cresciuti senza apprendere il rispetto verso l’autorità di parenti o capi tradizionali; hanno piuttosto sviluppato il culto della forza, delle armi, del denaro e dell’indifferenza verso le sorti del prossimo.
Inoltre, durante e dopo la guerra, agenzie umanitarie e missionari hanno distribuito aiuti indiscriminatamente, provocando tra la popolazione un atteggiamento passivo verso le difficoltà, con conseguente allentamento dei vincoli di solidarietà verso concittadini più poveri.
In campagna come in città, non è raro incontrare anziani genitori che patiscono fame e freddo, abbandonati da figli e parenti che vivono nello stesso villaggio senza problemi economici.
Nel distretto di Mecanhelas si calcolano 5 mila persone «povere», cioè non in grado di mantenersi con le proprie forze: anziani, invalidi e mutilati, malati cronici (lebbra, tbc, malaria, anemia, malattia mentale). A queste bisogna aggiungere vedove e orfani, spesso abbandonati a se stessi. Un villaggio di 400 abitanti (metà dei quali cristiani) ha in media 15-20 casi di tali persone, spesso condannate a morte per inedia.
In questo contesto, ho chiesto agli animatori delle comunità cristiane di impegnarsi ad aiutare i poveri, secondo le proprie possibilità. Ho suggerito loro di elaborare un progetto di assistenza, che includesse sia l’attività dei cristiani che quella dei missionari, promettendo che avrei «obbedito ai loro ordini».
Ne è scaturita questa idea: gli animatori avrebbero messo la loro forza lavoro a disposizione dei poveri del villaggio: coltivare i campi di chi non poteva più farlo, costruire le case, distribuire il cibo, raccolto tra i cristiani al termine delle messe domenicali. A me hanno chiesto di provvedere coperte per i poveri e soccorrere i malati.
Occuparsi di malati richiede una certa familiarità con gli ambienti ospedalieri, difficilmente presente in un animatore di estrazione contadina. Piano piano, però, ho abituato gli animatori a vincere la loro timidezza verso il personale ospedaliero.
Il denaro per l’acquisto di coperte e cure mediche viene messo dai missionari. Ma stiamo lavorando perché comunità e famiglie dei pazienti contribuiscano alle spese mediche e la rete di solidarietà dei cristiani raggiunga un certo grado di autonomia dalle finanze della missione.

ALCUNE CIFRE DELLA RETE

Oggi, la rete di solidarietà dei cristiani di Mecanhelas assiste circa 2 mila poveri. I missionari della Consolata hanno procurato un migliaio di coperte e 300 capi di vestiario per altrettanti poveri. Missionari e animatori provvedono a inviare regolarmente i malati fisici presso gli ospedali più adatti, a seconda della specialità richiesta.
Ogni due mesi vengono trattati 25 pazienti di chirurgia generale, più 6-8 malati che necessitano di interventi chirurgici specialistici, per un totale di 170 operazioni. Chi è affetto da malaria, anemia, tbc, lebbra, parassitosi, piccole ferite e ustioni, viene accompagnato dagli animatori all’ambulatorio di Mecanhelas.
Per aiutare gli invalidi alle gambe, la parrocchia provvede loro delle carrozzine triciclo: i cristiani del villaggio contribuiscono per coprire un terzo della spesa. Sempre nell’ambito della rete di solidarietà, i missionari hanno attivato un programma di mini-prestiti alle associazioni di animatori della parrocchia, perché possano avviare piccole attività economicamente redditizie.
I beneficiari dei prestiti vengono selezionati dai missionari e dagli animatori, valutando il loro impegno a favore dei poveri e ammalati e la capacità di lavorare in gruppo per gestire una piccola impresa. Del profitto ottenuto, la metà va ai membri dell’associazione, l’altra metà è impiegata per finanziare l’aiuto a poveri e malati. Finora, sono stati concessi prestiti per 180 euro a 6 imprese, i rimborsi ammontano a 150 euro.
Oltre a promuovere l’autonomia finanziaria delle comunità nel servizio ai poveri, le iniziative di microcredito indicano la via da percorrere per uno sviluppo futuro, fondato sullo spirito di una rete chiamata caridade

di Paolo Deriu*




INCHIESTA Multinazionale Gisas

Jesus (pronuncia gisas) risuona anche in Italia, da televisioni gestite da culti made in Usa e loro adepti. La Tbne (Trinity Broadcasting Network Europe), per esempio, piazza prodotti religiosi miracolosi. Alcuni abboccano, ma non molti.

Negli ultimi anni, l’offerta televisiva italiana si è «arricchita» di un nuovo prodotto: la Tbne (Trinity Broadcasting Network Europe), un canale televisivo di esclusiva programmazione religiosa, derivata dalla Tbn, televisione evangelical statunitense. (Evitiamo il termine evangelico, proprio delle chiese storiche del protestantesimo che si riconoscono nelle posizioni del Consiglio ecumenico delle chiese).
La Tbn è un colosso forte di 800 stazioni televisive sparse per il mondo e un patrimonio pari a 2 miliardi di euro. Per avere un termine di paragone: la capitalizzazione della Fiat ammonta a 5 miliardi di euro.
Ispirata da un pastore pentecostale dell’Assemblea di Dio, Paul Crouch, la Tbn fu fondata a Los Angeles nel 1978. Televisione eclettica, inizialmente molto spartana, essa dava voce ai predicatori più carismatici e di moda del tempo, alcuni dei quali coinvolti poi in scandali giudiziari e morali.
La Tbne italiana ha come scopo il proselitismo, ma non direttamente, non essendo una denominazione definita. Di fatto ai suoi microfoni si alternano predicatori dei gruppi più svariati. Costoro sono al vertice di para-chiese vicine alla Tbne, agenzie di servizio per persone che, ascoltati i predicatori, sono liberi di scegliere il gruppo che più piace, senza indicazione da parte della televisione.
A Torino, per esempio, sono decine le para-chiese segnalate dalla Tbne. Essa funge da centro di smistamento per persone che andranno a finire in molte altre denominazioni. Ovviamente l’ampiezza dell’offerta dipende dalla condivisione della teologia evangelicale, che è conservatrice, di stampo pentecostale o carismatico.
Nonostante gli sforzi, il travaso dal cattolicesimo al protestantesimo evangelicale è quasi assente, tranne in alcune zone del meridione, come l’hinterland napoletano e la Sicilia, dove risulta fondamentale il carisma dei predicatori di successo.
RELIGIONE… SPETTACOLARE
Non è facile trovare parole adatte per descrivere funzionamento e programmazione televisiva della Tbne. Due esempi possono evidenziare gli aspetti più grotteschi e pittoreschi del fenomeno nel suo complesso.
Il primo esempio riguarda la figura di Benny Hinn, un predicatore riconducibile al Faith Movement (movimento della fede, nato nel mondo pentecostale, molto diffuso in Svezia e Usa, che attribuisce alla preghiera la possibilità di conseguire successo, ricchezza e denaro).
In un libro autobiografico, «Buongiorno Spirito Santo», egli racconta la sua storia di anima persa e del risveglio avvenuto a Boston, grazie alla chiamata dello Spirito Santo.
Fine conoscitore della bibbia, aria mistica e grande comunicatore, mister Hinn è forse il più importante predicatore evangelical degli Stati Uniti e guarisce decine di ossessi, storpi, paralitici, malati di cancro, esauriti mentali grazie all’aiuto dello Spirito Santo con cui vive, lui dice, in comunione.
La televisione lo mostra in azione in uno stadio stracolmo, davanti a decine di migliaia di persone estasiate o in trance, braccia alzate, occhi socchiusi, guance rigate dalle lacrime, canti, urla. Benny inizia a soffiare nel microfono e il suono viene amplificato per tutto lo stadio. Gruppi di persone svengono, cadendo al suolo come pere mature.
Ecco il nostro Benny in un’altra scena spettacolare: sul palco di un palazzetto dello sport sfilano davanti a lui decine di casi umani che, a suo dire, hanno ottenuto grazie di vario genere; quindi arriva il suo magico tocco e le persone cadono stecchite; non si fracassano la testa grazie all’intervento di forzuti aiutanti, che acchiappano al volo i miracolati.
Talvolta però anche i migliori piazzisti si tradiscono…
Ecco salire sul palco una famigliola: spiegazione di disgrazie a profusione e relativi miracoli; poi Benny tocca papà e mamma che crollano al suolo. Ma i pargoli vengono cautamente evitati… Non si sa mai, con i bambini dispettosi che ci sono oggi, potrebbero rimanere in piedi.
Un secondo esempio, importante anche se non occupa molto spazio nella programmazione, delle rappresentazioni religiose della Tbne è quella dei Power Team: alcuni energumeni invocano il Cristo morto in croce per la remissione dei peccati di tutti i presenti; poi spaccano tronchi e mattoni, fanno scoppiare lattine di coca piene, oppure si esibiscono in altre prove di forza bruta e demenziale. Tali imprese sono accompagnate da paurosi momenti di estasi da parte degli spettatori, che pregano convinti affinché il muscoloso di tuo compia la prodezza che inizialmente non riesce a fare.
Un’americanata, si dirà. Vedere stadi stracolmi, in preda a un delirio collettivo, con mancamenti, lacrime, guarigioni, conversioni e molto altro, è impressionante, ma non aiuta a crescere nella fede, specialmente se si pensa alle nostre sparute parrocchie di campagna, dove il prete, che non veste griffato come le stars religiose made in Usa, fa i salti mortali tra una chiesa e l’altra.
La figura del profeta predicatore, guaritore non è un’invenzione di mister Hinn, della Tbne o altri predicatori che si alternano nei vari spettacoli religiosi. Il copione è il solito, cambia solamente l’approccio tecnologico: in un mondo perduto, il profeta, specie se carismatico, che crede in comunione con lo Spirito Santo, raccoglie adepti dalle correnti protestanti tradizionali che vedono in lui l’unica «arca della salvezza».
Miracoli e guarigioni sono mezzi con cui fare proselitismo, utilizzati per convincere della propria unicità e divina elezione.
PREDICATORI E MISSIONARI
C’è turbamento quando si confrontano questi quotidiani spettacoli miracolosi, rivolti a persone ricche e ben pasciute, con il lavoro di chi i miracoli li fa sul serio, mandando avanti scuole e ospedali a rischio della propria vita, nella foresta amazzonica, tra malaria e acqua fetida, o in altri posti del mondo anche peggiori. Di questi silenzio assoluto!
Centinaia di migliaia di persone corrono da tempo dietro una religione che assomiglia sempre più a un business show, dove chi la spara più grossa vince la partita: si accaparra fedeli e quindi fa incasso.
Gente in lacrime che sviene, ossessi che sbraitano, visioni collettive, paralitici che fanno volare le stampelle… in un tripudio di autosuggestione collettiva tutto è fattibile.
E poiché tra i film di Hollywood e realtà ormai non c’è più distinzione, anche la religione risulta inquinata dall’ossessiva richiesta da parte del pubblico di spettacolo mozzafiato.
Certo stiamo parlando di una cosa americana, che però viene propinata con la forza dirompente della televisione nelle case di milioni di persone in tutta Europa.
In una società che stravede per tutto quanto arrivi da oltre oceano, che luccichi di grandezza e opulenza, sfarzo e lusso sfrenato, la megalomania emanata dai vari predicatori ha successo. Denaro, potere, ricchezza passano per segni della benevolenza di Dio, in un’ottica calvinista-weberiana.
SODDISFAZIONE DEL CLIENTE
Durante il giorno vengono mandati in onda cartoni animati biblici per i bimbi, gruppi rock e rap che inneggiano al Signore, dibattiti religiosi, telegiornali e molto altro. E la programmazione è completa.
Parte dei programmi sono spezzoni ripresi dalla Tbn statunitense; l’altra è prodotta in Italia, nei nuovi studi di Varese. Tutto con una netta impostazione ultraconservatrice.
L’appoggio alla guerra in Iraq ne è un esempio eloquente; e tutto condito di accenni apocalittici, dal momento che i luoghi si dove si svolgevano i combattimenti è la biblica Babilonia.
Nell’abbondante parte di programmi prodotti in Italia, grande spazio è riservato a Chuck e Nora che, bibbia alla mano, portano avanti la raccolta di fondi per il finanziamento della Tbne, con iniziative come il lodathon: fai un’offerta e essi pregano per te in televisione.
In un ambiente ultra kitch, con ori e troni, ogni giorno vengono lette decine di lettere di persone che chiedono grazie e guarigioni da malattie più o meno serie.
SANTI E PECCATORI
Un’impresa commerciale quindi? Quando ci troviamo davanti a cifre da capogiro, viene il dubbio che qualcuno lucri alle spalle dei fedeli.
Il mondo dei predicatori televisivi presenta due aspetti: il primo, il più appariscente, è quello dell’opulenza e dello sfarzo; il secondo è più povero, dove persone idealisticamente motivate giungono a pagare di tasca propria gli spazi televisivi.
Un mondo di santi e peccatori. In fondo la Tbne non ha inventato nulla di originale: i fenomeni più inquietanti sono ripresi da ambienti già esistenti nel mondo protestante, soprattutto quello più caldo. Tutto, però, è ora unito alla potenza comunicativa della televisione, vero elemento innovatore di tutta questa storia.
Per chi volesse conoscere cosa pensa il mondo evangelical italiano che conta 300 mila persone, la Tbne rappresenta un buon strumento, anche se non tutti vi si riconoscono. Ma il suo proselitismo è scarso, indice che il tutto si ferma a un fenomeno di costume, almeno in Italia, dove più salda è la presa della chiesa cattolica. Oppure, molto più semplicemente, i nostri parroci sono più credibili degli spettacolari predicatori made in USA.

Maurizio Pagliassotti




I COLORI NON SONO NEUTRI

A volte anche parole e simboli diventano,
senza che ce ne rendiamo conto, «violenti».
Questione di abitudine, mentalità, cultura.
Così il razzismo è sempre in agguato…

I l «simbolo» non è un prodotto di natura, come l’acqua, l’aria, la luce, la pioggia che scende dal cielo… ma è un manufatto.
Un certo interesse, alquanto intellettuale, per un tema del genere, non dipende da motivi artistici o astratti: avendo dovuto insegnare in Mozambico per diversi anni ho voluto, usando tutto il tatto possibile per non ingenerare suscettibilità inutili, chiedere ai miei allievi che mi dessero il significato di alcuni vocaboli esistenti nelle loro lingue, tra cui anche quello di «simbolo». Avevo notato una certa perplessità nel rispondermi e mi ero convinto sempre più che probabilmente noi occidentali importiamo concetti che esulano dalla loro mentalità.
Il vocabolo «simbolo» (dal greco sun ballo) significa «mettere insieme» due elementi, di cui uno esistente in natura (come cosa) e l’altro con proprietà spirituali, dall’uomo e dalla sua capacità creativa. I simboli esistono perché esistono gli uomini, come il tempo. Forse i simboli sono il primo prodotto dell’uomo in quanto uomo.
Un giorno un africano scrisse una lettera ad un bianco (un bianco ipotetico) del seguente tenore:

Caro fratello bianco,
quando sono nato ero nero.
Quando sono cresciuto ero nero.
Quando mi metto al sole resto nero.
Quando muoio sarò sempre nero.

Ma tu, uomo bianco,
quando sei nato eri rosa.
Quando sei cresciuto eri bianco.
Quando vai al sole diventi marrone.
Quando sei arrabbiato di collera
diventi rosso.
Quando hai freddo diventi blu.
Quando hai paura diventi verde.
Quando sei ammalato diventi giallo.
Quando muori sei grigio.

E hai il coraggio di chiamare me
«uomo di colore»?

I colori sono simboli. Ma tra tutti, quello nero viene caricato generalmente di significati perversi e violenti.
LA NATURA DEI SIMBOLI
I simboli sono forme visibili di realtà invisibili. Ciò avviene quando un oggetto materiale si carica di valori o significati che vi mette l’uomo. Una bandiera, un mazzo di fiori, il canto della Marsigliese (è stata cantata anche nella rivoluzione russa del 1917!) o di alcune arie del Nabucco, l’uso magico del fuoco o dell’acqua (in tutte le culture)… vanno al di là della loro pura materialità.
Il simbolo è come un’impronta digitale ed è sempre allusivo. Tra i simboli, il più eccellente (e che non ha limiti nelle sue forme quasi infinite) è il dono. Tutto può essere trasformato in dono: un fiore di campo come una gemma preziosa; ma possiede sempre, oltre al valore dell’oggetto materiale, un plus valore di carattere spirituale, che aggiunge chi dona o chi riceve il dono.
Il simbolo è sempre un’uscita libera e concreta del nostro io verso altri. In genere i simboli, quelli veri, sono dei tentativi di perpetuare nel tempo qualcosa di noi. Come si fa con i testamenti e nei giuramenti di fedeltà. I simboli non sono delle forme algebriche, ma arabeschi e melodie. Non illuminano soltanto l’intelligenza, ma riscaldano il cuore.
È pure certo che l’uomo sente il bisogno di creare dei simboli. Perché tanta gente ha reso omaggio ad una donna di nome Diana? Il popolo non l’ha trasformato in un «mito», ma in simbolo: il che è diverso. Tutti noi siamo assetati e affamati di simboli.
Però c’è anche un risvolto negativo e pericoloso (come in tutte le cose belle) in questa necessità di creare e di servirci di simboli, specie quando quest’uso fosse inconscio. L’animo umano è generoso, specie nei «doni»; ma sovente è anche aggressivo e può servirsi dei simboli per ferire più ferocemente o, addirittura, uccidere: se non fisicamente, moralmente.
Viene in mente il romanzo di François Mauriac, Groviglio di vipere: il vecchio e ricco avvocato consuma la sua esistenza nell’odio contro tutti, compresi moglie e figli, e lo fa diseredando tutti, con un testamento feroce; osserva di nascosto i membri della famiglia in attesa del bottino, come si guarda una mosca alle prese con un ragno… Ma la moglie muore prima e così tutta la sua carica di vendetta sfuma.
Si pensi anche alla carica simbolica, non sempre positiva, che c’è nella nostra «domenica» cristiana, in confronto al «sabato» ebraico o al «venerdì» musulmano. Nel nostro mondo questi giorni sono legati anche alla pausa nel lavoro, quindi ci sono problemi finanziari e problemi sindacali, ma anche di carattere puramente simbolico. È solo con Costantino, infatti, quando la chiesa diventa istituzione di stato, che la «domenica» prevarica e si carica anche di violenza verso chi non è cristiano.
L SIMBOLO,
INESAURIBILE MINIERA

Si tratta di uno degli aspetti della creatività dell’uomo. Simboli sono anche le parole che ci escono dalla bocca: hanno una loro vita segreta e non esiste nulla che sia più soggetto alle bizzarrie della moda delle parole che sono nei nostri vocabolari. Come c’è accuratezza nella scelta dei vestiti, che possono anch’essi trasformarsi in simboli (presentarsi alla Camera dei deputati in jeans o vestiti da pagliacci!), così c’è accuratezza e varietà di sfumature nell’uso delle parole; ad esempio, storpiamo volutamente il nome di una persona.
Le parole possono scatenare una guerra sui nomi delle persone (ad esempio nelle etnie bantu, quasi tutta l’Africa subequatoriale, in India e altre località, i bambini ricevono tre nomi che hanno tutti un significato particolare). Con le parole si può giocare; le si può far camminare sul filo come se fossero dei funamboli, con sottintesi, analogie, paragoni, metafore. Per esempio, nelle lingue africane i nomi hanno i prefissi che indicano le categorie (o classi). C’è quindi la categoria degli animali, delle piante, ecc. L’uomo ha un certo prefisso: se per disprezzo a una persona, anziché mettergli il prefisso di uomo, gli si mette il prefisso di un animale, evidentemente gli si fa un’offesa profonda.
Nella nostra lingua italiana le parole «nero» e «negro» di per se non assumono un carattere dispregiativo, mentre negli Stati Uniti era in uso, e forse lo è ancora, in senso dispregiativo la parola nigger (in slang «niga»). Noi italiani, forse, faremmo bene a scrivere le parole negro, nero, afro-americano, africano, quando sono sostantivi, con l’iniziale maiuscola per eliminare nelle persone di razza nera ogni suscettibilità.
In pittura si potrebbe, ad esempio, citare il caso di Goya con le sue cosiddette «pitture nere»: in un momento triste della sua vita, ritiratosi in solitudine nella Quinta del sordo, dipinse le pareti di questa sua abitazione con immagini tragiche e ossessive, riflesse nella visione tetra della sua mente angosciata, per l’appunto pitture nere! Oppure nei dipinti di Van Gogh colori, immagini e vita fanno un tutt’uno.
C’è una carica simbolica nel velo. Nel medioevo il velo era considerato un capo elegante del vestiario femminile. Ne abbiamo uno stupendo sviluppo nell’arte italiana dei velari. Ma quale significato ha il velo imposto alle donne musulmane? Il racconto di Nataniel Hawthoe dal titolo Il pastore dal nero velo sul volto, velo mai deposto, neppure nella tomba, ha del macabro.
Nell’argentino Jorges Luis Borges, cieco, ci sono i simboli dello specchio e del labirinto; in Umberto Eco c’è il simbolo del pendolo, in Elsa Morante quello dell’isola e del mare.
IL SIMBOLO DEI COLORI

Un proverbio recita: «Non ha importanza il colore del gatto, purché acchiappi i topi». Un maestro delle elementari un giorno fece questa domanda ai suoi bambini: «Se tutte le persone buone fossero bianche e tutte quelle cattive fossero nere, voi di che colore sareste?». Una piccola risposta: «Signor maestro, io sarei a strisce». Ma una domanda del genere sarebbe opportuna in Africa, dove tutti i bambini sono neri o qui tra noi in una classe con bambini bianchi e neri?
Pare che gli antichi egiziani fossero raffinatissimi nell’uso dei colori, tanto da identificare l’essere di una persona con il colore. Cosa non insolita, perché nella cultura greca, ad esempio, la persona era qualificata dalla maschera che portava sul viso, il cosiddetto prosapon, che significava dare un colore, dare un valore alla persona.
In Egitto quando si affermava che non si conosceva il colore di una divinità, significava affermare la sua trascendenza e imperscrutabilità. Nelle nostre città del nord domina il nero-fumo; i semafori hanno il verde per indicare via libera, il rosso per indicare senso vietato.
Le bandiere sono dei simboli a colori per eccellenza (vedi riquadro). Si discute sul nostro «tricolore». Pare derivi dalla bandiera della rivoluzione francese (bianco, rosso, azzurro); l’azzurro, simbolo della rivoluzione, sarebbe stato sostituito al verde, colore massonico, ereditato dai giacobini e adottato dai fautori del risorgimento.
In Africa, su 51 stati almeno 17 hanno nelle loro bandiere il nero. Il verde, poi, appare in quasi tutte le bandiere degli stati musulmani: quella libica è tutta verde, l’algerina per metà è verde, perché il verde è il colore dell’islam. Forse anche l’accecamento causato dalla sabbia del deserto porta a considerare il verde, come un colore riposante.
Nella bibbia l’innamorata dice al suo amato: «Nigra sum, sed formosa» (ho la pelle scura, eppure sono bella, Cant 1,5). «Scura come le tende dei beduini, bella come i tendaggi del palazzo di Salomone».
Ma, al contrario, gli assediati in Gerusalemme, al tempo di Geremia, erano diventati tutti «neri». Di loro si diceva che «sembravano più neri della fuliggine e non si riconoscevano per le strade» (Lam 4, 8).
Nella liturgia cattolica sono in uso i quattro colori: bianco, rosso, verde, viola: colore, quest’ultimo, segno di penitenza e tristezza. C’era anche il nero nella liturgia dei defunti, ma fu abolito con la riforma liturgica.
In un testo cristiano molto antico, composto nel secondo secolo, la cosiddetta Lettera di Baaba, c’è un capitolo dal titolo «La via della luce» e un altro «La via delle tenebre». Quest’ultimo inizia così: «La via del Nero (con la «n» maiuscola!) invece è tortuosa e piena di maledizione». È evidente che qui «nero» sta per diavolo.
In Africa i colori basici sono il rosso, il nero e il bianco. Il rosso indica vita (dal sangue); il nero la notte, la sofferenza, le prove; il bianco la morte. Quindi tutto il contrario della nostra mentalità.
Senghor, ex-presidente del Senegal, cattolico, scriveva: «L’uomo nero con il suo colore è come immerso nella notte, notte primordiale: egli non vede l’oggetto, ma lo sente, l’intuisce, aperto com’è a tutte le onde della natura». Quindi il nero si distinguerebbe dai bianchi perché ha l’istinto pronto, intuisce le cose; è nella notte, però le percepisce ugualmente. E questa capacità intuitiva, più che raziocinante, starebbe alla base, secondo lui, della cosiddetta négritude.
Una cantante francese cantava: «Il nero è un colore di festa, di sera, di notte sfavillante, di dignità, di danza, di seduzione, e anche di dispiaceri. Bien sûr».
Montale inizia una sua poesia (Il raschino) con questo verso: «Crede che il pessimismo / sia davvero esistito»; e termina così: «… Ora tutti i colori esaltano / la natia tavolozza, escluso il nero». Il Corriere della sera (luglio 1997), a riguardo del concorso di «Miss Italia», vinto da Denny Mendez, intitolò un articolo: «Miss Italia, mai più nera».
Nel nostro linguaggio italiano (o nella nostra mentalità) il colore «nero» è sempre legato a qualcosa di tremendamente negativo, malefico e diabolico. Esso indica tutto ciò che c’è di più negativo in noi e intorno a noi. È una litania senza fine: umore nero, lavoro nero, mercato nero, borsa nera, toto nero, peste nera, pozzo nero, messe nere, persino «grazia nera»…
Il caso più patetico (oltre al film «Indovina chi viene a cena?») incontrato nella letteratura è il romanzo, dal titolo «Storie di bianchi», scritto da un americano nero, Langston Hughes. In questo romanzo troviamo una lettera scritta da un mulatto, di caagione però completamente bianca. La lettera è inviata alla madre negra. Questo giovane è ormai inserito nel mondo dei bianchi, ha una bella fidanzata bianca. In questa lettera chiede scusa a sua madre perché, avendola incontrata per strada a braccetto con la fidanzata, aveva fatto finta di non conoscerla. Egli scrive: «Quando ci si fa passare per bianchi, la cosa tragica è proprio questa, che si deve rinnegare in pubblico la propria famiglia e persino la propria madre. È una cosa terribile, mamma, e detesto il doverlo fare, anche se tu mi dici che ciò non ha importanza. Io sposerò una bianca… e se arrivasse un figlio nero, giurerò che non è mio figlio. Perché non intendo ricadere nel pantano nero».
Ciò che colpisce sono le parole «pantano nero». Si tratta di un romanzo, ma la fiction non è molto lontana dalla realtà.
Qui la violenza del simbolo è terribile e non solo da un punto di vista psicologico. I neri li abbiamo schiavizzati e umiliati anche così.

BANDIERE DI PACE
Ogni popolo, stato, nazione si identifica in una bandiera. Il suo uso risponde a un’esigenza elementare dell’uomo: sentirsi identificato a una comunità, etnia, gruppo… Tale simbolo, infatti, è in grado di dare maggiore rilevanza all’individuo, collocandolo in un contesto sociale più ampio, e lo rappresenta visivamente inserito in una realtà che trascende il singolo soggetto.O gni popolo, stato, nazione si identifica in una bandiera. Il suo uso risponde a un’esigenza elementare dell’uomo: sentirsi identificato a una comunità, etnia, gruppo… Tale simbolo, infatti, è in grado di dare maggiore rilevanza all’individuo, collocandolo in un contesto sociale più ampio, e lo rappresenta visivamente inserito in una realtà che trascende il singolo soggetto.
Bandiere, stendardi e vessilli hanno una funzione: in passato, aveva grande importanza sui campi di battaglia dove, mancando ogni trasmissione radiofonica, distinguere i propri colori da quelli dell’avversario significava praticamente avere salva la vita. Ancora oggi le bandiere utilizzate sulle navi sono mezzo di segnalazione e riconoscimento.
In prospettiva psicologica, la bandiera suscita nel cuore di milioni di persone emozioni e sentimenti legati a valori assoluti; essa diventa il segno più semplice ed efficace per assumere e «tradurre» tali valori in scelte esistenziali, coinvolgendo la persona nella sua globalità, fino a dare la vita per l’ideale da essa rappresentato o per la bandiera stessa.
Quando avvenimenti epocali sconvolgono assetti ed equilibri sociali e politici, le bandiere «parlano da sole». Ne è un esempio la portata storica che ebbe il tricouleur durante la rivoluzione francese e la bandiera rossa con la falce e martello durante la rivoluzione russa, modelli ripresi con molteplici varianti in vari paesi del mondo.

Si hanno testimonianze di simboli ed emblemi «nazionali» fin dall’antico Egitto, subito imitati da Assiri e Babilonesi. Nella bibbia sono ricordate le insegne delle 12 tribù d’Israele in marcia verso la terra promessa.
I Romani avevano i signa (insegne) per la fanteria e i vexila (vessilli) per la cavalleria; il simbolo dell’aquila era utilizzato dalle legioni romane in ogni angolo dell’impero.
Ai tempi di Costantino iniziò l’adozione di un labaro con la croce, simbolo poi largamente utilizzato dalle nazioni europee nate dallo sfascio dell’impero romano e bizantino.
Nelle conquiste del Medio Oriente e del bacino del Mediterraneo, gli arabi dispiegavano bandiere bianche, nere e verdi, rispettivamente degli omayyadi, abbasidi e alidi: colori tutt’ora preminenti (col rosso degli ottomani) nelle bandiere dei paesi arabi odiei.
A partire dal medioevo, la bandiera si affermò in tutti i regni europei come simbolo nazionale.
Suggestiva è la storia del dannebrog, la più antica bandiera del mondo, ancora in uso in Danimarca: narra una leggenda nordica che, durante una terribile battaglia contro gli estoni, a quel tempo ancora pagani, i danesi implorarono l’aiuto divino e dal cielo scese un drappo di lana rossa con una croce bianca, che terrorizzò i nemici e li mise in fuga.
Con diverse varianti di colore, il dannebrog è stato adottato da tutti i paesi del Nord Europa.
Curiosa è pure l’origine della bandiera pontificia: bianco e giallo erano i colori caratteristici degli stendardi di Goffredo da Buglione: dopo che il famoso condottiero conquistò Gerusalemme, nella prima crociata, tali colori furono adottati come simbolo dello Stato Pontificio, con l’aggiunta delle chiavi di san Pietro.
La bandiera è un simbolo che provoca ancora un grande impatto sull’opinione pubblica. Che emozioni abbiamo provato nel vedere migliaia di americani con le bandierine a stelle e strisce in mano nei momenti di preghiera dopo l’attentato delle Torri Gemelle; e dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando venne ammainata la bandiera rossa dal Cremlino sostituendola con il tricolore in uso sin dai tempi degli Zar; durante il «mitico 1989», quando i popoli dell’Est strappavano gli emblemi comunisti dalle bandiere nazionali per inalberare orgogliosamente bandiere lacere e strappate, finalmente affrancate dai simboli del dominio marxista. Abbiamo provato anche noi la sensazione dell’inizio di una nuova epoca di libertà per tutti.
Ma chi non sente un brivido per la schiena, vedendo giovani muscolosi e incoscienti brandire le svastiche, mentre inneggiano al nazismo e ostentano violenza e odio?
E come non sentire un’istintiva simpatia, di fronte alla mobilitazione dei popoli indigeni delle Ande che, rivendicando diritti e dignità, sventolano la whipala, la multicolore bandiera degli aymara e quechua: essa è composta da una serie di riquadri colorati, disposti su linee diagonali, il cui suggestivo riferimento cromatico raffigura l’iride e allude alle istanze della gente andina.
Sono gli stessi colori dell’arcobaleno, che un formidabile movimento di massa ha rilanciato su scala nazionale e mondiale, identificando in quel simbolo l’anelito di pace che gli arroganti di tuo hanno cercato di sbeffeggiare e soffocare. Forse è dai tempi del risorgimento che l’Italia non vede milioni di persone «vibrare» così intensamente di fronte a una bandiera.
La pace, anelito fondamentale di tutti gli uomini di buona volontà, ha fatto fiorire i balconi di tutta la penisola e garrire al vento questa immensa voglia di giustizia e libertà. Una bandiera questa, da non ammainare mai più.

don Mario Bandera

Igino Tubaldo




SUGLI ALTIPIANI DELL’ETIOPIA – 1a puntata

SEMI DI SPERANZA

Grande come mezza Italia, il vicariato di Meki
è stato fondato e organizzato dal sudore dei
missionari della Consolata. Per oltre 30 anni, essi
hanno «fatto un lavoro meraviglioso» afferma
il nuovo vescovo, mons. Abraham Desta; ma resta
molto da fare, sia nel campo dell’evangelizzazione
che in quello della promozione umana.

Il 10 maggio scorso è stata una
data storica per il vicariato apostolico
di Meki. Anche il cielo ha
voluto partecipare alla festa: un temporale
notturno ha spazzato via la
cappa caliginosa che ricopriva questo
infuocato angolo della Rift Valley,
promettendo una boccata d’aria
più respirabile. La mattina, un cielo
terso come uno specchio ha fatto da
sfondo al grande evento: l’ordinazione
episcopale di abba Abraham
Desta, secondo vescovo del vicariato
apostolico di Meki, successore di
mons. Johannes Waldeghiorghis, deceduto
nel settembre 2002.
Oltre ai 4 mila fedeli, missionari,
preti locali, religiose e religiosi impegnati
nel vicariato, hanno partecipato
alla celebrazione tutti i vescovi delle
nove diocesi dell’Etiopia, il nunzio
apostolico e vari vescovi e leaders ortodossi.
La stragrande maggioranza
dei convenuti è rimasta fuori della
cattedrale, seguendo la funzione da
due schermi televisivi. Beati loro! I
privilegiati ammessi all’interno della
chiesa hanno sudato le proverbiali
sette camicie per quasi quattro ore,
tanto è durata la funzione.

IL VESCOVO VENUTO DAL NORD
Ha presieduto la cerimonia mons.
Berhaneyesus Souraphile, arcivescovo
di Addis Abeba, assistito dai vescovi
di Adigrat e di Harar. La celebrazione
eucaristica è stata in lingua
amarica e rito latino; la consacrazione
episcopale in lingua ge’ez e rito orientale.
Non sono dettagli di pura curiosità:
le differenze dei riti rispecchiano
storia, organizzazione ecclesiastica
e strategia missionaria adottata in
Etiopia. Le regioni settentrionali del
paese (Tigrai e Shoa) furono evangelizzate
fin dal IV secolo; ma due secoli
dopo la chiesa etiopica si trovò
separata da Roma per incomprensioni
di teologia cristologica, dando
origine alla chiesa copta ortodossa.
Quando nel secolo XIX Agostino
De Jacobis (1839-60) cercò di attirare
gli ortodossi nella comunione con
Roma, conservò lingua, riti e legislazione
orientali.
Nelle regioni del sud, invece, abitate
da popolazioni prevalentemente
non cristiane, il card. Guglielmo
Massaia (1846-77) preferì adottare il
rito latino, ancora in vigore anche nel
vicariato di Meki.
L’uso del ge’ez e la presenza del vescovo
di Adigrat, inoltre, sottolinea
l’origine del nuovo vescovo, che, come
il suo predecessore, proviene dalla
diocesi tigrina.
Nato 51 anni fa, Abraham Desta
studiò nel seminario di Adigrat e, dopo
l’ordinazione, continuò gli studi
in Irlanda, presso un istituto dei Gesuiti,
conseguendo la licenza in teologia
dogmatica e diplomi in sviluppo
comunitario e teologia pastorale.
Tornato in patria, ricoprì vari incarichi:
per nove anni fu rettore del
seminario minore di Adigrat; poi segretario
del vescovo e responsabile
della pastorale e formazione dei giovani;
dopo sette anni fu nominato
cancelliere e direttore del Segretariato
cattolico della diocesi, finché,
nel gennaio scorso, fu raggiunto dalla
nomina di vescovo di Meki.
«È stata una sorpresa – confessa
abba Abraham -. All’inizio, com’è umanamente
comprensibile, mi sono
posto varie domande: sono la persona
giusta? Come potrò assolvere
questo compito? Ce la farò? Poi,
nella preghiera, ho chiesto a Dio Padre
di darmi la forza per accettare e
fare la sua volontà».

SPERANZA EVANGELICA
Ed è proprio durante un periodo
di preghiera e ritiro spirituale, in preparazione
della sua ordinazione, che
incontro abba Abraham e gli porgo
qualche domanda, a cui risponde volentieri.
Cosa pensa del vicariato che è
chiamato a guidare?
«Prima dell’ordinazione ho voluto
rendermi conto della vita della
chiesa in questa regione del paese, visitando
tutte le parrocchie, incontrando
la gente e i missionari e missionarie.
Sono stato felicemente impressionato
dalla mole di lavoro fatto
dal mio predecessore, dai missionari,
preti fidei donum, suore di varie
comunità religiose. Mi ha commosso
lo zelo di tante persone impegnate
nel portare alla gente la speranza
del vangelo, specialmente dei missionari
della Consolata, che sono all’origine
di questa diocesi».
Il vescovo si lancia in un elogio
sperticato dei missionari della Consolata, sciorinando nomi di missioni,
padri e fratelli. Ed è sincero.
Fin dai primi anni ’70, quando arrivarono
i padri Giovanni De Marchi,
Lorenzo Ori, Giovanni Bonzanino,
è stato fatto un lavoro gigantesco
(cfr. M.C. gennaio e maggio 2003):
in pochi anni, il territorio di Meki, distaccato
dalla chiesa madre di Harar
(1980), diventò prefettura apostolica
e poi vicariato (1992).
È una regione immensa, dallo Shoa
meridionale alla Somalia, localizzata
in gran parte nello stato dell’Oromia,
con estensioni in quello delle Nazioni
etniche meridionali. Misura oltre
156 mila chilometri quadrati (quasi
mezza Italia) e conta 5,3 milioni di abitanti,
in prevalenza oromo, con minoranze
etniche indigene (kambatta,
adya, wolaita, guraghe) o immigrate
(amhara e tigrini).
Gli oromo sono quasi tutti musulmani;
gli altri gruppi etnici sono cristiani
(ortodossi, cattolici e protestanti)
e di religione tradizionale.
Oggi il vicariato di Meki conta oltre
21 mila cattolici e oltre 2 mila catecumeni:
erano circa 4 mila i battezzati
nel 1980; 14 mila nel 1992.
L’adesione alla chiesa cattolica è forte
soprattutto tra le etnie minoritarie;
ma anche tra gli oromo si registra
il passaggio di famiglie intere dall’islam
al cattolicesimo.
Più delle cifre, sono le innumerevoli
opere sociali (scuole, asili, ospedale,
lebbrosari, dispensari, centri di
formazione religiosa e promozione
umana, pozzi e acquedotti, interventi
umanitari di emergenza…) a testimoniare
la mole di lavoro che la
chiesa di Meki continua a svolgere a
favore di centinaia di migliaia di persone
di ogni etnia e religione, seminando
tra la gente «speranza evangelica
» per un futuro migliore.

PALLA O… PATATA?
«Naturalmente c’è ancora molto
da fare – continua il vescovo -. Ho visto
che vaste zone sono ancora da evangelizzare.
I missionari della Consolata
sono essenziali; ma ho paura
che mi lascino solo».
La frase è sibillina, ma so a che cosa
allude. I missionari della Consolata
hanno sempre voluto dare massima
visibilità al clero locale: quando
fu creata la prefettura di Meki,
essi insistettero che fosse un prete etiopico
a guidarla; appena una parrocchia
è funzionante, premono perché
sia affidata al clero diocesano,
per aprire una nuova missione in zone
ancora incolte.
C’è ancora un posto di responsabilità,
da 30 anni in mano a un missionario
della Consolata: l’amministrazione
del vicariato. Tale carica richiede
continui contatti e trattative
con amministrazioni e governo, per
lo svolgimento dei programmi sociali
e di sviluppo del vicariato. Inoltre,
dal momento che Meki conta già
una quindicina di preti locali, i missionari
hanno ventilato l’idea di passare
loro la palla, ritenendo che un
prete oromo possa intendersi con le
autorità meglio di un visopallido.
Più che di palla, forse si tratta di…
patata bollente: basta guardare padre
Giovanni Monti, attuale amministratore
e direttore dei vari uffici
della curia: è rimasto pelle e ossa e,
in pochi mesi, ha aggiunto tre buchi
alla cinghia dei calzoni, anche se non
è mai stato in sovrappeso in vita sua.
«I missionari della Consolata hanno
svolto un compito meraviglioso;
il futuro della diocesi dipende ancora
dal loro supporto – continua il
nuovo vescovo incensando -. Sono
felice di lavorare e programmare insieme
a loro. Spero e prego, quindi,
che essi vedano le esigenze e problemi
della diocesi e aumentino la loro
presenza, per rispondere alle attese
sociali e religiose della gente, che in
tanti villaggi aspettano ancora la consolazione
del vangelo. Da soli non ce
la possiamo fare».

VISIONE E REALTÀ
A proposito di programmi, cosa
prevede per il futuro?
«Per ora non ho in mente nessun
piano, sarebbe prematuro. Prima di
delineare una strategia, ho bisogno
di sedermi con tutte le persone coinvolte
nelle attività del vicariato e ascoltare
cosa hanno da dire. Ma ho
una mia visione, un traguardo da
raggiungere. Nel vicariato ci sono già
molti cristiani: dobbiamo fare in modo
che si impegnino realmente, fino
a diventare autosufficienti e capaci
di aiutare gli altri. È pure il cammino
indicato dalla lettera pastorale
della Conferenza episcopale etiopica:
La chiesa che vogliamo essere.
È un cammino da fare tutti insieme:
vescovo, clero, religiosi, suore,
catechisti e fedeli, uniti in mente e
cuore, nella preghiera e comunione,
nella condivisione, diffusione e testimonianza
del vangelo. Vogliamo essere
una chiesa non ripiegata su se
stessa, ma che guarda sempre avanti,
che guarda fuori, come le comunità
primitive che, quando ricevettero
la missione di Cristo, non si chiusero
in se stesse, ma andarono a
portare altrove la buona notizia. Vogliamo
costruire una chiesa non dipendente,
ma capace di inviare missionari
e aiuti alle chiese in necessità
di altri luoghi.
Intanto, però…
«Siamo ancora una chiesa bisognosa
di personale e aiuti materiali.
Viviamo tra gente molto povera. Anche
quest’anno, l’intero paese è in
stato di emergenza a causa della siccità
e della fame; il vicariato di Meki
è parte del problema; soprattutto la
gente che vive nell’area della Rift Valley
si trova in una situazione disperata.
Dobbiamo pensare ai bisogni
materiali della gente. Non possiamo
aspettare, predicando solo cose spirituali;
devono anche riempire lo stomaco.
La comunità internazionale e
la chiesa universale ci stanno aiutando
molto. Ma non dobbiamo
perdere di vista il traguardo: edificare
una chiesa sempre più coinvolta
nello sviluppo del territorio, protagonista
di cambiamento, fino a rovesciare
la situazione di povertà
della nostra gente».
Come sono i rapporti con i musulmani?
La loro presenza è in aumento?
«A livello nazionale e internazionale,
il Coo d’Africa è nel mirino
della comunità mondiale e, nel suo
insieme, non so cosa accadrà in futuro.
Per ora direi che esiste una certa
“tensione” a livello psicologico;
ma sul piano pratico non vedo problemi
concreti e pericolosi.
Anche a livello locale non ho riscontrato
tensioni particolari. Ma ho
notato un fatto preoccupante: lungo
la strada da Shashemane al Bale ho
contato 10 moschee nuove: una ogni
dieci chilometri. Noi cattolici abbiamo
una chiesa ogni 100 chilometri.
Ho una certa apprensione: dobbiamo
intervenire in fretta. Non si
tratta di provocare contrasti, ma di
presenze pacifiche, per fare conoscere
l’etica della nostra religione e
la testimonianza della nostra carità evangelica.
Aspettare potrebbe essere
troppo tardi. Per questo ho intenzione
di aprire una nuova parrocchia
nel Bale.
Anche le sètte evangeliche sono in
aumento…
«E sono molte. Vengono con tanto
denaro e la gente povera è attratta
dai soldi. Anche a questo aspetto
dobbiamo fare fronte, non ricorrendo
ai loro metodi, denaro in cambio
di conversione, una prassi che aborriamo,
ma aiutando la gente a riscoprire
la propria dignità umana e formare
cristiani dalla fede solida.
Ho visto che i missionari hanno
fatto un grande lavoro in tale direzione,
e questo mi dà coraggio: hanno
preparato un buon numero di catechisti,
leaders e laici impegnati.
Occorre continuare.
L’unità e solidarietà della chiesa
cattolica, sia essa in Italia, Etiopia o
America, mi dà fiducia nell’assumere
la responsabilità di guidare una comunità
povera di personale e mezzi
come il vicariato di Meki. Confido
nella chiesa universale, per rispondere
alle infinite necessità della nostra
gente. Per questo faccio appello anche
alla generosità di quanti sostengono
i missionari della Consolata. E
li ringrazio di cuore. Sono certo che,
lavorando insieme, mano nella mano,
riusciremo a portare consolazione
e speranza evangelica in
questa remota parte dell’Etiopia».

STEMMA EPISCOPALE
Dall’alto: la corona (simbolo di santità
e buone opere), la tipica croce etiopica
e il pastorale (simbolo di servizio,
autorità e magistero).
I tre cerchi indicano la Trinità.
Il centro del campo è occupato dalla
Madonna con il bambino e la scritta
in caratteri etiopici: «Il verbo si è fatto
carne». Maria è rappresentata come
madre di Dio e in atteggiamento
di preghiera, figura della chiesa orante.
Il roveto ardente, oltre a ricordare
la figura di Mosè, simboleggia la rivelazione
definitiva di Dio mediante
l’incarnazione del Figlio.
La quercia a sinistra, tipica del paesaggio
dell’Oromia e presente nella
bandiera dello stato omonimo, simboleggia
fertilità e pace: alla sua ombra
si siedono gli anziani per discutere
i problemi della gente.
In basso il motto episcopale: «Lampada
ai miei passi è la tua parola, luce
sul mio cammino» (Sal 118,105).

SCHEDA DI MEKI
Superficie: 156.600 kmq.
Popolazione: 5,3 milioni.
Parrocchie e centri: 12.
Chiese cappelle: 64.
Cattolici: 21.520.
Catecumeni: 2.092.
Personale missionario:
17 missionari della Consolata,
3 fidei donum, salesiani, fratelli scuole
cristiane, suore di 12 istituti religiosi.
Personale locale: vescovo,
15 preti diocesani, una congregazione
di suore indigene.
Attività: seminario minore
e maggiore, evangelizzazione,
130 progetti (scuole, sanità, acqua,
agricoltura…) a beneficio di 2,47 milioni
di persone, per una spesa di 6 milioni
di euro in 5 anni.

Benedetto Bellesi




TORIBIO (COLOMBIA) bambini portatori di «handicap»

UN «CD» MUSICALE IN FAVORE DI…

Più che un articolo, è una lettera.
Per raccontare l’esperienza quotidiana
e invitare alla solidarietà,
nel rispetto della cultura locale,
in un contesto sociale drammatico.

TEATRO DI SCONTRI
Dall’alto delle Ande colombiane
un affettuoso saluto a tutti i lettori
di Missioni Consolata. Il nord del
Cauca, dove lavoro come missionario,
è sulla cordigliera centrale: quindi
è montagnoso, con altezze che variano
dai 1.400 ai 3.500 metri.
Non sono solo. Opero con altri
cinque missionari della Consolata,
un gruppetto di suore e alcuni laici.
Un saluto anche da parte loro. In équipe
serviamo quattro parrocchie:
Toribío, Tacueyó, Jambaló e Caldono.
Però, in realtà, la nostra attività
si estende a tutto il territorio indio
del popolo dei nasa, formato da 20
resguardos (riserve indigene).
Il luogo è ameno, con un clima favorevole:
è quasi un’eterna primavera
che permette di coltivare mais,
caffè e, nelle zone più calde e pianeggianti,
canna da zucchero. Non
manca la frutta.
Il mio saluto è anche preoccupato,
perché il nord del Cauca è teatro
di aspri conflitti sociali. Da circa 40
anni, data la posizione strategica di
ponte fra il nord e sud del paese, la
regione è una delle più cruciali della
Colombia, sede di gruppi guerriglieri:
Farc (Forze armate rivoluzionarie
colombiane) e Eln (Esercito di
liberazione nazionale). La zona recentemente
è diventata pure una via
di transito della cocaina.
Sul territorio si registrano continui
scontri armati fra la guerriglia, da una
parte, e l’esercito nazionale e le
milizie paramilitari dall’altra. La criminalità
organizzata, legata al traffico
di stupefacenti, rende il quadro
ancora più tetro.
E, come sempre accade, chi soffre
di più le conseguenze della lotta
armata è la popolazione civile,
aggredita, ferita e uccisa da personaggi
senza scrupoli. Ne deriva un
progressivo impoverimento delle
comunità.
Negli ultimi anni il nord del Cauca
ha registrato una forte crescita
demografica e, di conseguenza, una
maggiore richiesta di mezzi per l’educazione,
la salute e l’alimentazione;
ma non è seguito un corrispondente
aumento della produzione.
L’economia agricola è in grande parte
di sussistenza. Vittime soprattutto
di tale situazione sono i giovani e,
in maniera drammatica, i bambini.
Una cospicua parte delle attività
pastorali della parrocchia è diretta
proprio a quest’ultima fascia debole
della popolazione. Gli interventi
sono diversificati: vanno dalla catechesi
ordinaria, che consente un diretto
rapporto con i bambini nelle
scuole, alla preparazione ai sacramenti,
al sostegno dei Semilleros de
la paz (seminatori di pace). È questo
un movimento di educazione alla
pace; i bambini provengono sia
da centri urbani sia da frazioni di
campagna dove vive la maggioranza
della popolazione.
Ancora: da oltre un anno è in corso
un programma di adozioni a distanza,
appoggiato dall’associazione
Italia solidale, con la quale riusciamo,
grazie alle autorità indigene e al
lavoro di volontari locali, a raggiungere
i bambini più bisognosi.

SE LA VITA È DURA
Il contatto capillare con le famiglie
più povere ci ha aperto gli occhi
su altri problemi, non facilmente
percepibili ad un primo sguardo
sommario. Alludo alla situazione
dei bambini disabili o gravemente
malati, bisognosi di interventi specifici
di chirurgia o di rieducazione:
trattamenti che, data l’estrema povertà sociale, sono fuori della portata
dei genitori.
Ebbene, quando un amico di Torino,
Gabriele, mi ha parlato della
possibilità di incidere alcuni brani
musicali su CD per proporlo in «offerta
» e inviare i proventi alla nostra
missione, ho pensato subito ai piccoli
disabili. Il progetto di Gabriele
potrebbe essere condiviso anche da
altri amici italiani.
Ho scritto che il fenomeno della
«differenza» non è subito facilmente
avvertibile. Mi riferisco anche alle
barriere culturali, che tendono a
isolare e nascondere i bambini portatori
di handicap fisici o mentali.
Oggi una maggiore coscientizzazione
sul valore della persona permette
a molte creature sfortunate di
vivere: non vengano più soppresse
nelle prime ore di vita, per consentire
alla famiglia una sopravvivenza
senza il fardello ulteriore di un figlio
«esigente».
Ciò che a noi può apparire un dato
aberrante deve essere, però, letto
nel contesto di una vita durissima,
dove la lotta per sopravvivere è
quotidiana e dove un bambino handicappato
sottrae alla famiglia forze
importanti, che potrebbero consentire
agli altri membri maggiori
probabilità di crescere, di andare a
scuola, ecc.
Nella regione del Cauca il tasso
di mortalità infantile è elevato, e la
denutrizione è una delle cause principali
(se non la più grave) che porta
il bimbo a soccombere, oppure a
vivere con pesanti condizionamenti
fisici e psicologici.
A questo si aggiunge un altro fatto:
un figlio penalizzato fin dalla nascita
(anche se accettato) rimane sovente
abbandonato a se stesso. Una
terapia specifica potrebbe aiutarlo a
crescere, a sviluppare le sue potenzialità,
a unirlo di più alla comunità.
Questa, invece, tende a isolarlo.
In tale contesto l’azione «con» e
«sulla» famiglia è fondamentale per
intaccare il male alla sua radice. Però
molti genitori non sono in grado di
offrire ai figli un ambiente idoneo
dove possano almeno «non peggiorare» la già precaria situazione.

ALTRE BARRIERE
Il problema della famiglia è acuto.
Tanti nuclei familiari sono frutto
di unioni forzate, dovute a gravidanze precoci.
In numerosi casi il padre è assente,
fisicamente ed economicamente.
Tante madri sono incapaci di educare
i figli, che vengono pertanto affidati
alla nonna o ad una sorella
maggiore, con pochi anni di più. Risulta,
allora, quasi impossibile che
un bambino disabile, bisognoso di
particolare attenzione, abbia un adeguato
accompagnamento da parte
dei familiari, mentre necessiterebbe
di assistenza e riabilitazione
costanti in un ambiente che lo circondi
di affetto.
Incide molto anche la fede popolare
nel medico tradizionale (sciamano)
e nei benefici della sua medicina.
D’altro lato, c’è il sospetto e,
talvolta, la paura di affidarsi alle cure
della medicina occidentale; dal
dottore o all’ospedale si va se lo prescrive
lo sciamano. Tale credenza è
molto radicata nella gente, anche
per l’indubbio ruolo socio-religioso
che lo sciamano esercita all’interno
della società indigena.
La presa di distanza dalla medicina
occidentale fa sì che, sovente, la
donna preferisca partorire in casa,
aiutata da una partera e sotto gli auspici
dello sciamano, anche quando
il parto, per la sua difficoltà, richiederebbe
il ricovero in una struttura
ospedaliera. Va da sé che tali scelte
possono essere causa di handicap
nel nascituro e rischiose per l’incolumità
della puerpera.
Ai problemi di origine culturale si
aggiungono quelli più strettamente
economici. I genitori sono poveri e,
anche se volessero, sarebbe per loro
impossibile fornire ai figli, portatori
di handicap, un’attenzione sanitaria
in grado di aiutarli a vivere
meglio la disabilità.
La nostra regione, poi, non possiede
alcuna struttura capace di offrire
un’attenzione specializzata ai
portatori di handicap. Le famiglie
che possono o desiderano fare qualcosa
per loro devono, giocoforza, rivolgersi
altrove: alle strutture ospedaliere
di Santander de Quilichao,
Cali, Popayán.
E ciò è un freno alla buona volontà
di una famiglia di Toribío. Infatti
il solo viaggio in chiva (tipica
corriera colombiana) a Santander,
la cittadina più vicina (a 45 chilometri
percorribili in circa due ore)
può rappresentare un problema serio
per tante famiglie; senza contare
che, in molti casi, la specifica infermità
del bimbo esige un trasporto
su un’auto privata, sicuramente
più costoso. A questo si aggiunga la
tradizionale diffidenza del contadino
verso il mondo urbano e a quanto
egli percepisce come minaccia.
La situazione di scontro armato
peggiora ulteriormente le cose, visto
che la gente vive in un territorio interamente
controllato dalla guerriglia;
mentre nella zona pianeggiante,
all’imbocco della valle, stazionano
l’esercito e i paramilitari, sempre
pronti ad identificare o sospettare in
chi viene dalla montagna un simpatizzante
della guerriglia. Le troppe
persone uccise, sequestrate o fatte
sparire, in questo interminabile conflitto,
consigliano a tutti di muoversi
con estrema prudenza e, sempre,
con molta ansia.
E che dire del costo di una visita
specialistica, delle medicine, della
degenza in ospedale talvolta necessaria
in città?
Tutto ciò crea barriere insormontabili
per la quasi totalità delle famiglie.

PERÒ QUALCOSA C’È GIÀ
Con l’apporto di benefattori stranieri
e di medici colombiani sensibili
al problema, siamo riusciti ad
offrire interventi agli arti e al cuore
di alcuni bambini disabili. Però la
strada è ancora lunga e tortuosa.
Per ora il nostro progetto è assai
modesto: vorremmo creare una piccola
équipe di specialisti operanti in
loco, in grado di aiutare i bambini
bisognosi nei resguardos di Toribío,
San Francisco e Tacueyó. La prima
unità sanitaria dovrebbe essere formata
da un fisioterapista, un logopedista
e uno psicologo, che potrebbero
lavorare sia nel centro urbano
sia nelle veredas, visitando non
solo i bambini, ma anche le famiglie,
chiamate a garantire l’accompagnamento
costante dei piccoli pazienti.
Oltre a superare il problema del
trasporto, il sistema garantirebbe
pure un intervento medico rispettoso
della cultura locale. Sarebbe
impensabile un aiuto psicologico ignorando
il contesto socio-culturale
della popolazione.
Lo stato iniziale del progetto non
ci consente di quantificare l’aiuto
necessario per incominciare ad operare.
Sicuramente dovremo istituire
un piccolo centro, fornito di qualche
materiale per un’azione fisioterapica:
una cyclette, alcuni tappetini
di gomma piuma, una spalliera e
quanto ci verrà consigliato dal personale
addetto alla gestione del centro.
Tale personale può essere contattato
attraverso università specializzate
nel settore.
Intanto una ragazza di Tacueyó,
abilitata in logopedia, presto inizierà
a lavorare nel progetto, facendosi
carico dei bambini con problemi
di udito e parola. Ma abbiamo
bisogno di un piccolo fondo di
denaro per incominciare l’attività.
E, da questo, procedere con un progetto
concreto più definito.
Intendiamo partire dai casi più
semplici, che diano un risultato visibile
a breve termine, per mostrare
alle famiglie più scettiche che esiste
una luce, seppur fioca, all’uscita del
tunnel. Spesso le mamme non portano
i figli alla terapia, perché non
vedono miglioramenti e si rifugiano
nel classico: «Tanto non c’è nulla da
fare!». Oppure: «Campa cavallo!».
Con il vostro sostegno, cari amici,
ci piacerebbe sfatare
questi nefasti luoghi comuni.
Grazie.

(*) Padre Ugo Pozzoli, torinese,
dopo la laurea in filosofia all’università
cattolica di Washington, è
missionario in Colombia.
Ha vissuto anche una breve esperienza
in Ecuador.

Ugo Pozzoli




INDIA tensioni nello stato del Gujarat

POVERO GANDHI, SEMPRE MENO DI MODA!
Gujarat, uno dei 28 stati dell’«Unione».
Nel 2002 ha riproposto il drammatico «cliché»,
che fin dall’indipendenza (1947)
tormenta il subcontinente indiano:
lo scontro fra indù e musulmani.
Né mancano violenze verso i pochi cattolici.
C’è dell’altro: la religione del giainismo, per esempio.

SANGUE NEL GUJARAT
Che cosa è rimasto del sogno di
tolleranza di Gandhi nel luogo dove
è nato e cresciuto?
Oggi, 27 dicembre 2002, Rajkot
pare una città tranquilla. Pochi giorni
sono trascorsi dalle elezioni, che
hanno concluso un anno drammatico
della storia dello stato indiano del
Gujarat. La tragedia di Godhra, in
febbraio, quando un treno carico di
pellegrini indù fu incendiato da musulmani,
causando la morte di oltre
70 persone, ha segnato l’inizio di una
serie di violenze inaudite, dovute
all’estremismo religioso. La reazione
degli induisti, a marzo, causò
oltre mille morti e decine di migliaia
di senza tetto.
Il capo del governo del Gujarat,
Narendra Modi, non è riuscito a
controllare la situazione. Anzi, la
stampa indiana (che mi pare libera
e critica) lo accusa pesantemente di
aver soffiato sul fuoco, cavalcando
la rabbia popolare e pretendendo di
indire le elezioni in un clima guastato
da tensioni. «Il signore che divide,
che fomenta l’odio tra i cittadini
». Queste ed altre espressioni si riferiscono
al discusso personaggio, la
cui foto occupa da mesi le prime pagine
dei giornali. La vita di Modi,
che abita con l’anziana madre in una
modesta casa nei dintorni di Ahmedhabad,
è sobria, monacale: un
forte contrasto con la veemenza con
cui ha portato il partito induista BJP
(Bharatiya Janata Party) al trionfo
nelle elezioni dello stato…
Lascio l’auto davanti alla statua
bianca del mahatma Gandhi, che a
Rajkot è vissuto da ragazzo, quando
suo padre era il primo ministro del
raja del Saurashtra. Attraverso i giardini
e infilo una stretta via, bordata
dalle bancarelle del mercato. I colori
e gli odori sono quelli tipici dell’India.
La meta è la casa di Gandhi, dove
sono esposte foto e oggetti appartenuti
al mahatma. Nell’elaborare la filosofia
della non violenza, egli certamente
fu influenzato dal giainismo,
la religione che nel Gujarat ha
comunità e centri importanti. Grazie
all’intraprendenza dei fedeli jaina,
infatti, il Gujarat è uno degli stati
più ricchi dell’India. Notevoli sono
le industrie tessili ed elettroniche.
La convivenza tra popoli di diversa
religione, lingua e cultura è una
caratteristica del subcontinente indiano.
Negli ultimi anni, però, si sono
acuite le tensioni tra le comunità
indù, che rappresentano la maggioranza,
e quelle islamiche e cristiane.
L’islam penetrò in India da queste
terre e anche i primi contatti con
l’occidente avvennero qui, in Gujarat.
Quando i britannici decisero di
aprire una base commerciale, scelsero
Surat, mentre i portoghesi
mantennero una colonia a Diu e Daman
fino al 1961.
La regione del Saurashtra, dove
mi trovo, è una penisola stretta tra il
golfo di Cambay a est e il Kutch a ovest,
una landa desertica confinante
con il Pakistan. Essa non fece mai
parte del Raj britannico, ma restò divisa
in piccoli principati fino all’indipendenza.
Oggi molti tra i raja e le maharani,
per mantenere i loro palazzi, hanno
aperto le porte ai visitatori, che possono così godere del fascino di dimore
storiche. Ora tutto pare tranquillo.
Però l’anno che si chiude è
stato traumatico per lo stato indiano
del Gujarat.
PELLEGRINAGGIO SUL MONTE
La città di Junagadh, a sudovest di
Rajkot, è dominata da un colle, circondato
da una fortezza. Scavate
nella roccia sono numerose le grotte
buddiste finemente scolpite. Dentro
le mura possenti sorge una moschea,
costruita con colonne e fregi
di un tempio indù. Il Gujarat ha subito
nei secoli numerose incursioni
islamiche e non è raro trovare questo
tipo di costruzione. Ma l’induismo
ha resistito, a dispetto di tante
devastazioni.
Salgo sulla terrazza, da dove si gode
un bel panorama sui monti vicini
che, domani, saranno meta di una
visita-pellegrinaggio.
Parto prima dell’alba. Quando arrivo
alla base del monte Giar, è ancora
buio, ma la folla preme. C’è un
via vai di portatori e pellegrini, sadu
e venditori. Affronto la ripida ascesa,
che in 3 mila gradini mi porterà
a uno dei più famosi e antichi complessi
templari del giainismo. Passano
le portantine con corpose signore,
pesanti sulle spalle di magri individui
scalzi.
Cerco di resistere alla fatica, ma
ecco che mi viene offerto un bastone
su cui appoggiarmi: Nitika Jain
ha 16 anni ed è curiosa di sapere
tutto di me. Mi segue fino in cima al
monte, parlando fitto e rivolgendomi
tante domande, orgogliosa del
suo buon inglese. «Vengo da Ujain,
dello stato del Madhya Pradesh – mi
spiega -, dove frequento la scuola
nel convento delle suore cattoliche,
la migliore della città. Studio inglese
e informatica». Poi mi presenta
la sua famiglia: i genitori, in abiti
bianchi di pellegrini, una sorella e
un fratellino di 5 anni. Bella gente,
ma nessuno parla inglese.
Il cielo si rischiara e noi affrontiamo
l’ultimo tratto di salita, che ci fa
superare uno strapiombo roccioso.
Quando arriviamo nel luogo sacro,
l’aria si sta riscaldando.
Visito diversi templi; il più grande,
del XII secolo, è dedicato al 22°
saggio (Tirthankara), rappresentato
da una statua in marmo nero, dagli
occhi inquietanti, lucidi, di madreperla.
I templi jaina sono luoghi sereni,
pieni di vita e, sovente, testimoni di
un’arte raffinata. Si trovano templi
giainisti in migliaia di villaggi indiani,
spesso affiancati da ostelli, scuole,
biblioteche, accessibili a pellegrini
di ogni credo.

L’ISOLA PER BERE ALCOOLICI
Dopo aver attraversato rade foreste
di alberi di tek e le brulle pianure
del Kathiawar, arrivo a Somnath,
in riva al Mare Arabico. Qui sorgeva
il tempio d’oro di Somraj, il dio
della luna, che secondo la leggenda
è stato riedificato in argento, poi in
legno e infine in pietra. La fama del
ricco tempio giunse anche al terribile
Mahamud Ghazni, che nel 1024
scese dal suo regno afghano per razziare
e distruggere il sacro edificio.
Oggi il tempio di Somnath è una
costruzione complessa, ma senz’anima,
essendo stato rifatto negli anni
’50. Il sito è spettacolare, alto sulla
vasta spiaggia, battuta da onde. I
frammenti di pietra dell’antica costruzione
sono stati raccolti e vengono
conservati in un piccolo tempio
indù, trasformato in museo. Nel
villaggio si notano uomini con il copricapo
islamico e donne avvolte da
un manto.
Proseguo lungo la costa del Mare
Arabico e arrivo a Diu, l’isola che fu
un’enclave portoghese fino a pochi
anni fa e ora dipende dal governo
centrale di Delhi. Le strade della cittadina
sono animate e gli alberghi
pieni di visitatori. Questo è l’unico
luogo, nel Gujarat, dove è possibile
bere alcornolici e oggi, ultimo giorno
dell’anno, i locali sono presi d’assalto.
Le chiese e il forte che domina
l’abitato sono magnifici, ma malinconici.
La grandiosa chiesa di san Paolo
(l’unica rimasta aperta al culto) è in
uno stato penoso di abbandono. Il
chiostro, ricco di piante, è circondato
da un porticato splendido dall’intonaco
azzurro. Salgo attraverso
l’ampia scalinata che porta al primo
piano, dove sono le aule di catechismo.
Cerco un sacerdote o un fedele
che mi possa guidare nella visita,
ma non incontro nessuno. Uscendo,
l’unica persona desiderosa di darmi
qualche notizia è la venditrice di bibite,
dal suo banchetto sul viale, che
mi parla in portoghese.
L’ultima notte del 2002 la trascorro
a Gir, nella foresta che protegge
gli ultimi esemplari del leone asiatico.
Nel lodge della riserva alcune famiglie
di Delhi si stanno preparando
alla festa di fine anno. Incontro
pure tre ragazze in pantaloni e camicetta:
Medha, Mayanka e Shivika.
Sono «modee» e mettono subito
in chiaro di non volere seguire la tradizione
del loro paese. Viaggiando
in India è un po’ difficile incontrare
donne vestite all’occidentale.
Le giovani parlano molto bene inglese
e ne sono orgogliose. Due di
loro frequentano scuole cattoliche,
anche se sono indù. Stasera staremo
insieme in giardino, intorno al fuoco,
per assistere allo spettacolo dei
danzatori rabari, uomini vestiti di
bianco secondo la tradizione della
regione, con i pantaloni stretti al
polpaccio e l’ampia giacca arricciata
davanti.

UN’INTELLETTUALE ISLAMICA
Seema è un’intellettuale islamica,
che mi parla apertamente del suo
paese e dei gravi problemi che lo affliggono.
«La laicità dello stato oggi
è in pericolo – mi avverte -. L’India è
una nazione giovane che, tuttavia,
dà forti segni di invecchiamento, vacillando
sotto il peso di una popolazione
che esplode, con una povertà
crescente e carenza di pensiero. La
corruzione è dilagante. Dal sistema
delle caste derivano violenza, rabbia,
frustrazione».
L’India diventò indipendente nel
1947, dopo la sanguinosa spartizione
voluta dal separatismo islamico.
Gandhi allora si oppose fortemente
alla divisione, fatta su basi religiose.
Oggi l’indipendenza è minacciata
dal fascismo indù. Lo stato pare incapace
di fronteggiare le forze determinate
a fomentare paura, violenza
e disordini sulle strade, in base
alle differenze religiose.
La religione riveste un ruolo importante
in India, che vanta un numero
di confessioni e sètte superiore
a qualsiasi altro paese. Induismo,
buddismo e giainismo sono nati qui.
Presente è anche lo zoroastrismo, una
delle fedi più antiche del mondo.
Seema spiega: «I padri della patria
vollero fondare uno stato laico
e democratico, mentre oggi il primo
ministro Vajpayee pare orientato a
sostituire la laicità dello stato con la
teoria indù dell’Hindutva, definendola
aperta e illuminata. Anche Jinnah
(fondatore del Pakistan) aveva
cercato di convincere l’allora opinione
pubblica di un islam moderato,
puro, riformista e progressista.
Invece ne vediamo le conseguenze
in Pakistan, uno stato basato sulla
religione. Dopo 50 anni, il paese è
stretto nella morsa dei fondamentalisti,
coinvolti profondamente nella politica e pronti a strappare il potere
ai militari e ai moderati».
«Oggi noi ci ritroviamo personaggi
come Modi (presidente del Gujarat),
che assomigliano a nuovi Hitler.
Anche il nostro presidente, con
i suoi pensieri vaghi e i ragionamenti
ambigui e indecisi può minare le
fondamenta su cui è stata costruita
la nazione indiana… Nel ’47 Jinnah
diceva che l’islam era in pericolo;
oggi lo si dice per l’induismo. Però
né l’islam, né l’induismo, né il cristianesimo
sono in pericolo. Queste
religioni hanno dimostrato di saper
superare le prove del tempo, sopravvivendo
a battaglie e guerre, fanatismi,
invasioni e purghe, mentre
le nazioni crollavano».
Oggigiorno l’India deve affrontare
un grave pericolo: quello di politici
avidi che usano la religione
per mettere i cittadini gli
uni contro gli altri e distruggere
una nazione
costruita con saggezza
e tenacia sulle sue pluralità
e diversità.

RICORDANDO SAN TOMMASO
Una dimora regale, circondata da
un grande parco, ai margini di una
città portuale disordinata e caotica.
Sono a Bhavnagar. Qui una maharani,
oltre ad aver trasformato il palazzo
in un albergo di grande fascino,
ha creato e mantiene all’interno
una scuola matea per bambine.
Stasera le piccole si esibiranno in una
danza tradizionale, nei loro sari
colorati.
Mi affretto ad uscire, diretta alla
chiesa di St. Xavier, a pochi isolati di
distanza, accanto alle prigioni di stato.
Il complesso include l’edificio
scolastico, e l’unica luce nella sera
proviene dagli uffici del parroco. Mi
accoglie una suora in sari. Padre Emanuel
è un giovane
carmelitano di 36
anni, originario
del Kerala, lo
stato indiano
con la
più alta percentuale di cattolici. «I
frati carmelitani di Maria Immacolata
rappresentano la congregazione
più numerosa nel paese; ma ho molti
confratelli che vivono a Roma per
ragioni di studio».
La comunità cattolica di Bhavnagar
si compone di 170 famiglie, provenienti
da diverse parti dell’India.
Gli uomini lavorano al porto, nell’industria
di smantellamento delle
vecchie navi. Un lavoro durissimo,
fatto con mezzi rudimentali.
Parliamo del Kerala, che visitai alcuni
anni fa. Accanto ad una chiesa
di rito latino, voluta dai missionari,
ne esistono altre due: quella siromalabarese,
fondata secondo la tradizione
da san Tommaso nel 52 d.
C., e la chiesa malangara, stabilita
dai portoghesi di Vasco da Gama
nel 1498. In quest’ultima si distinguono
due gruppi: i siro-ortodossi,
che sono circa 3 milioni e hanno un
catholicos in Kerala, e gli ortodossi
giacobiti, con un patriarca in India
e uno in Antiochia.
Nella città di Bhavnagar operano
cinque scuole cattoliche, perché l’educazione
è una priorità per la chiesa
indiana. Purtroppo le violenze
verso i cattolici sono in aumento: nel
sud del Gujarat si bruciano le chiese
e si terrorizza la gente (*). I soprusi
riguardano soprattutto i «tribali
», i «fuori casta» dei villaggi, fra
i quali operano i sacerdoti.
C’è chi è contrario allo sviluppo e
l’educazione. Pertanto i paria devono
rimanere ignoranti, per ragioni
politiche. Anche le elezioni sono
manipolate e, per farlo, occorre
che la popolazione
sia incapace di disceere.

(*) Secondo un progetto di legge del
26 marzo 2003, in India le conversioni
religiose sono molto ostacolate; anzi,
sono considerate un crimine se si
ricorre alla forza. Nello stato del Gujarat
una simile conversione è punibile
con tre anni di prigione e una multa di
2.100 euro.
Le gerarchie cattoliche, protestanti e
ortodosse hanno criticato il disegno di
legge. L’arcivescovo cattolico Stanislaus
Feandes, di Gandhinagar, teme
che sia uno strumento per spaventare
i cristiani nella testimonianza della loro
fede (ndr).

INDIA: 28 STATI E 7 TERRITORI
Con 1 miliardo e 40 milioni di abitanti,
è il paese più popoloso
del mondo dopo la Cina. Vasta pure
la superficie: 3.287.263 chilometri
quadrati
.
È una repubblica federale o «unione», con capitale New Delhi.
L’unione comprende 28 stati, ciascuno
dotato di assemblea legislativa
e governo propri, e 7 territori
amministrati dal governo centrale
di New Delhi. Il potere è gestito
dal partito nazionalista indù BJP
(Bharatiya Janata Party). Tuttavia
nel 2002 il partito del congresso,
all’opposizione, ha vinto le elezioni
nello stato dell’Uttar Pradesh,
che è cruciale per
il controllo dell’intera unione.
Sempre alta la tensione nello stato
del Kashmir, a causa dei separatisti
musulmani. Anche il Gujarat,
nel febbraio-marzo 2002, è
stato sconvolto da violenze:
oltre 700 i morti.

La religione del giainismo
ANCHE CON IL VELO SULLA BOCCA
La religione del giainismo fu fondata nel VI secolo a.C. da Vardhamana,
detto Mahavira. A 30 anni lasciò la famiglia e i piaceri di una vita
agiata, per dedicarsi alla meditazione e all’ascetismo sulle orme di
alcuni saggi che lo avevano preceduto, chiamati Tirthankara.
Come il buddismo (di cui è contemporaneo), anche il giainismo nacque
come un movimento riformista dell’induismo; ne rifiutava la divisione
in caste, per esempio. Retta fede, retta condotta (con i cinque comandamenti:
non nuocere, non mentire, non rubare, castità, povertà)
e retta conoscenza sono le basi del credo jaina.
Un altro elemento essenziale per la salvezza è il rispetto verso ogni
essere vivente: ecco perché i jaina sono vegetariani rigorosi; e alcuni arrivano
persino a coprirsi la bocca con un velo per evitare di inghiottire
inavvertitamente qualche insetto. Uno stile di vita tanto rigoroso è riservato,
però, alle comunità religiose: 10 mila asceti, di cui 6 mila donne.
Il saddhi (asceta) errante incarna il rispetto per la vita dei jaina:
non ha Dio, né maestri. Accetta le opinioni e i credi diversi, per evitare
ogni forma di violenza. Pulisce la terra davanti ai piedi, per non rischiare
di pestare ogni minimo essere vivente.
Questi principi consentirebbero ad ognuno di diventare un «vittorioso
», liberarsi del proprio io, conseguendo l’illuminazione e la purificazione.
I fedeli laici hanno regole meno severe per la castità e la proprietà,
ma non devono arricchirsi a dismisura.
Sanno che la ricchezza
è un’illusione, uno stato passeggero;
e, quando hanno raggiunto
il benessere, possono decidere
di distribuire le loro ricchezze,
creando fondazioni educative
e caritatevoli.
Il giainismo non ha mai preteso
la conversione di masse, ma
l’esempio dei suoi asceti pellegrini
ha saputo attirare nella comunità
aristocratici, ministri e
persone facoltose.
Oggi i jaina sono solo 3 milioni
e mezzo, ma rappresentano
una delle comunità più influenti
e dinamiche dell’India.
Proprio sul monte Giar opera
Masturbai Lal Bhai, fondatore di
uno dei primi 15 imperi industriali
indiani. Superati i 50 anni,
si è ritirato dagli affari per
dedicarsi ad opere di bene e alla
manutenzione del maestoso
complesso templare sul Giar.

Claudia Caramanti




NOVA MAMBONE (Mozambico) opere di promozione umana

SAPORE DI SALE
Una missione, idee chiare sullo sviluppo,
un «fratello» tuttofare…
E tante attività che non sono venute mai meno,
anche nei momenti più difficili.
Grazie a un «ragioniere» onesto…

Dopo la seconda guerra
mondiale, i missionari della
Consolata che avevano evangelizzato
il nord-ovest del Mozambico
da 25 anni, decisero di aprire
un nuovo campo di lavoro
missionario. Fu scelta l’attuale regione
costiera a nord di Maputo,
nella provincia di Inhambane, diventata,
in seguito, la diocesi di
Inhambane.
Una serie di missioni fu pianificata
lungo la strada nazionale che univa
la capitale con la seconda città più
importante del paese, Beira, 100
chilometri più a nord. Agli inizi degli
anni ’50, padre Vespertini si installò
al limite estremo della provincia,
presso la città coloniale
di Nova Mambone, sulla riva
del fiume Save, che separa la
provincia di Inhambane da
quella di Beira. Fu lì che, nel
1954, inaugurò la parrocchia
del Sacro Cuore, sette chilometri
circa a ovest della città.
Tutto questo per far ricordare
come, nel 2004, si festeggeranno
i 50 anni di fondazione di questa
parrocchia. E bisogna dire che l’evangelizzazione
fu davvero intensa
se oggi i cattolici costituiscono il
6% della popolazione e i cristiani il
20%. Due sono le etnie che hanno
accolto il vangelo: i vatshwa e i vandau.
I primi abitano la regione costiera
(la maggioranza dei quali nella
provincia di Inhambane); i secondi
si sono piazzati lungo il corso
del fiume Save, all’interno, verso
lo Zimbabwe. Numerose sono le
sètte tra i vatshwa, mentre i vandau
sono rimasti più attaccati alle loro
tradizioni ancestrali.

UN «FRATELLO» E TANTE OPERE
Quando i missionari si installarono
a Doane (a circa 7 chilometri
dalla città di Nova Mambone), non
c’era praticamente nulla. Cominciarono,
dunque, non solo a evangelizzare,
ma anche a dedicarsi a
un’intensa promozione umana.
Questa cominciò subito attraverso
una fitta rete di scuole e
dispensari; ogni una decina di chilometri,
nasceva una scuoletta elementare,
mentre le superiori trovavano
posto nella missione centrale,
arricchite anche da un collegio per
gli alunni più lontani.
Accanto alle scuole, per venire
incontro ai bisogni sempre più numerosi
delle varie istituzioni e della
popolazione, cominciò anche a
sorgere un atelier (segheria e falegnameria),
famoso per la sua produzione
di sedie, mobili, banchi di
scuola (la prima segheria dei missionari
della Consolata era stata installata
in Kenya, nel 1905, da fratel
Benedetto Falda). Con le costruzioni
in muratura, divenne
indispensabile pensare a mattoni e
blocchi di cemento; da qui le varie
foaci e una scuola per preparare
valenti muratori. E, viste le distanze,
l’uso dei veicoli portò alla creazione
di garages e alla formazione
di numerosi meccanici.
Tutte queste incombenze «tecnico-
materiali» venivano normalmente
svolte dai «fratelli coadiutori
», preparati a questo scopo. A
Nova Mambone, maestro incontrastato
è fratel Pietro Bertone; è lui
a farmi da guida nei vari laboratori
e officine, mostrandomi un’infinità
di aggeggi, di cui talvolta ignoravo
non solo l’uso, ma perfino l’esistenza.
– Fratel Pietro, ma tu sei capace di
far funzionare tutti questi marchingegni?
– Sì, ma il problema più grosso è la
loro riparazione. Sovente manchiamo
di pezzi di ricambio e, per farli
arrivare, occorre talvolta molto
tempo e, soprattutto, pazienza. Allora,
supplisce la fantasia.
Naturalmente il fratello non è solo
in questa impresa; in 50 anni la
missione ha formato decine di giovani,
oggi esperti nei vari mestieri e
capaci di mantenere la famiglia con
la loro attività.
Parroco della missione è il giovane
Arlei Pivetta, originario del Brasile.
Mentre mi fa visitare la chiesa,
pur non essendo io un esperto, mi
accorgo che la costruzione, ormai
cinquantenaria, ha bisogno di
qualche riparazione. «Ma – mi spiega
il padre – non è solo questione di
anni, bensì anche del terribile ciclone,
che ha investito la regione
nel febbraio del 2000. Dalle cronache
risulta che i grandi nubifragi arrivano
raramente: due o tre per secolo;
quello del 2000 è stato uno di
questi. C’erano delle onde alte seisette
metri, che hanno spazzato via
tutto; centinaia di persone sono
morte e migliaia sono rimaste senza
casa».
Uno dei sogni della missione, in
occasione dei festeggiamenti per il
cinquantesimo, sarebbe quello di
una buona riparazione della chiesa,
soprattutto con la sostituzione totale
del tetto, davvero danneggiato.

IL SALE… DELLA SALVEZZA
Durante le guerre degli anni
scorsi era praticamente impossibile
fare arrivare denaro in Mozambico,
ma sotto la spinta del regime
marxista, bisognava arrangiarsi con
l’autofinanziamento, chiesa e missioni
comprese. Fu allora che il
parroco di Nova Mambone, padre
Amadio Marchiol, ebbe un’idea geniale:
dal momento che la missione
sorgeva in riva all’oceano, si sarebbe
potuto estrarre sale dal mare.
Dopo aver consultato qualche esperto,
la cosa risultò fattibile e il
progetto andò avanti.
È sempre fratel Pietro che mi
porta a visitare le saline. Ogni giorno,
a causa della rapida evaporazione,
una cinquantina di operai vi
lavora a tempo pieno; e, nei periodi
caldi e secchi, quando il sale può
essere estratto in sole 48 ore, il numero
degli operai raddoppia, arrivando
a un centinaio. Per quindici
giorni al mese la marea arriva fino
alle saline e due pompe «succhiano
» l’acqua del mare, inviandola in
un grande bacino. Attraverso diverse
vasche di decantazione, vengono
eliminati gli altri sali minerali
e nell’ultima (dove l’acqua raggiune
i 26-28°) rimane il sale pulito
e commestibile.
Non è il fratello a occuparsi direttamente
del funzionamento delle
saline, che è invece affidato a due
responsabili locali, molto ben preparati
e competenti. Sono proprio
loro a farmi vedere l’ultima tappa:
con dei grandi rastrelli si lava il sale
nell’acqua e poi lo si accumula su
dei piccoli marciapiedi. Viene poi
trasportato in magazzini speciali,
dove viene seccato e «iodato». L’ultima
operazione è l’insaccamento,
perché il sale sia pronto alla vendita
e al consumo.
Questo progetto fu la carta vincente:
da allora, la missione trovò la
sua fonte di sostentamento.
È per venire incontro ai bisogni
della gente e dei missionari che sono
state pensate e realizzate tutte
queste opere sociali: dispensari,
scuole, segherie, garages, falegnamerie…
La missione è così diventata
una vera e propria «azienda» con
un bel numero di operai. Fratel
Pietro mi aggioa sui numeri.
«Abbiamo circa cento-centocinquanta
operai, dei quali i due terzi
lavorano nelle saline. Ci sono poi
otto operai nella falegnameria e sei
meccanici. Sei ragazze lavorano
nell’asilo della parrocchia, mentre
i quattro ragazzi che costruiscono
blocchi di cemento non sono operai
effettivi: ogni mattina diamo loro
quattro sacchi di cemento, con i
quali riescono a produrre un po’
meno di duecento blocchi».
Ma la missione, con le sue scuole
e collegi deve anche mangiare;
per questo non manca l’orto e allevamenti
vari. Un solo operaio (sordomuto)
tiene a bada tutto, soprattutto
il frutteto da cui partono, per
la gente, frutti di varie qualità per
diversificare la loro alimentazione.
Mi sorge spontanea una domanda:
«Come mai tutta questa “impresa”
non è stata toccata durante
il periodo della nazionalizzazione e
della guerra civile?».
– È grazie al nostro “ragioniere” –
mi spiega sempre fratel Pietro -. È
lui che ha salvato la missione.
Quando l’esercito e il governatore
arrivarono a vedere le saline, lui
disse che erano sua proprietà. E dal
momento che venivano nazionalizzate
le opere della chiesa e non
quelle dei privati, tutto fu salvo. Per
parecchi mesi a Nova Mambone vi
fu un solo missionario, ma il ragioniere
continuò a gestire l’attività
con profonda onestà e sui conti
bancari i soldi non mancarono di
essere regolarmente depositati.
Oggi, il ragioniere è in pensione,
ma i due figli ne continuano
l’opera; sempre
allo stesso modo…

Jean Paré




UNA SOFFERENZA «IMPOSTA»

Julien Andavo Mbia vescovo di Isiro-Niangara (Congo R. D.)
Nato nel 1950 a Faradje (Isiro) da famiglia cristiana,
sacerdote dal 1979, mons. Julien Andavo
Mbia ha conseguito la licenza in teologia alle
Facoltà cattoliche di Kinshasa e il dottorato
in teologia morale a Fribourg (Svizzera). Viceparroco,
economo alle Facoltà cattoliche, professore
di morale al Teologato di Bunia, rettore
del Filosofato interdiocesano di Kisangani, è
stato nominato vescovo di Isiro-Niangara il 19
dicembre 2002 e consacrato il 19 marzo 2003.

Monsignor Julien, lei è il vescovo
eletto di Isiro. In questa città
è stato consacrato, il 19 marzo
scorso, dal card. Frédéric Etsou-
Nzabi Bamungwabi, arcivescovo
di Kinshasa. Date le difficoltà
del momento, perché far venire
a Isiro proprio l’arcivescovo di
Kinshasa?
È stato previsto che il card. Etsou
come primo consacrante, affiancato
da mons. Laurent Monsengwo Pasinya,
arcivescovo di Kisangani e dal
nunzio apostolico, mons. D’Aniello
Giovanni.
Vi sono molteplici ragioni per la
presenza del cardinale. È il presidente
della Conferenza episcopale del
Congo. La sua venuta a Isiro vuole
sottolineare l’unicità e l’unità del
paese e della nostra chiesa. Manifesta
la preoccupazione e la sollecitudine
della chiesa universale per una
chiesa locale che soffre. Diventa così
un momento di solidarietà e di incoraggiamento
per i cristiani di Isiro e
anche per me, loro giovane vescovo.
La presenza del cardinale, presidente
della Conferenza episcopale, dell’arcivescovo
Monsengwo, presidente
della Secam, e del nunzio, rappresentante
del papa nella R.D. del Congo,
vuole essere anche un appello alla
coscienza dei nostri dirigenti politici,
che sono molto incerti sul da
farsi. Penso che la questione dell’incoraggiamento
da parte della chiesa
sia veramente importante.
Situazione di crisi. Come la vive
e come sopravvive la gente della
sua diocesi?
C’è una crisi molto acuta sul piano
economico, sociale, e politico. Vi sono
da noi uomini che pretendono di
fare politica, ma non hanno né la capacità,
né i mezzi per farla; non sanno
che cosa sia la politica, arrivano
al potere senza essere eletti e pretendono
di vivere a spese della popolazione.
Una volta il paese stava
bene. Aveva risorse. C’era la coltivazione
del caffè. Ora non esiste più
nulla. La gente si sposta in bicicletta,
anche per lunghe distanze. Ha bisogno
di essere incoraggiata, spinta
a darsi da fare. Perciò è importante
che la chiesa sia sul posto, che io rimanga
tra la gente.
Qual è la consistenza numerica
dei cattolici nella sua diocesi e
che rapporti mantiene con i seguaci
delle altre religioni?
Dal punto di vista numerico, non
ho molto da dire. Non ho le cifre sotto
mano. Ma posso affermare che i
cattolici sono la maggioranza. Ci sono
i protestanti e i kibamguisti, che
però recentemente hanno cominciato
a fare delle affermazioni su Gesù
Cristo e sullo Spirito Santo che li mettono
fuori dal Consiglio ecumenico
delle chiese. Il problema sono le sètte,
le chiese indipendenti
che sorgono
un po’ ovunque.
Vorrei sottolineare
la vitalità della
comunità ecclesiale.
Tutti gli aspetti
della vita sociale,
economica e culturale
sono più o meno
segnati dal cristianesimo,
incluse
le cerimonie funebri,
tanto importanti
nella vita socio-
culturale e
religiosa dell’africano.
Nei funerali
è la famiglia ecclesiale che si confronta
con la morte. Le cerimonie si
svolgono in un contesto cristiano. È
un momento di grazia, per cercare di
radicare ancora di più il vangelo nel
tessuto vivo del popolo.
È necessario che i cristiani siano
aiutati a perseverare nella loro adesione
a Cristo. Bisognerebbe, per
esempio, fare più leva sulla presenza
della beata Clementine Anuarite sepolta
nella cattedrale di Isiro, sviluppae
la devozione, sottolineare i
valori che essa ha rappresentato con
la sua vita. Nei miei giri per il paese,
ho potuto constatare che tutti hanno
desiderio di venire in pellegrinaggio
ad Isiro, per venerare la beata.
L’islam? Per il momento non è un

vero problema. È presente, ma non
ha una reale influenza. Non ha peso
sulla fede in quanto tale. Le poche
conversioni sono per interessi politici
o economici.
Quali sono le linee pastorali che
intende seguire nel suo ministero
apostolico?
La priorità, per me, è principalmente
legata agli agenti pastorali, a
tutti i livelli: sacerdoti, suore, laici,
persone consacrate, sia congolesi che
provenienti dall’estero. Attraverso il
mio ministero, intendo infondere loro
fiducia, contare su di loro e dire
che, benché vescovo, non tocca solo
a me condurre il gregge.
Oggi, l’episcopato congolese parla
della chiesa-famiglia: famiglia che,
come comunità domestica e come comunità
ecclesiale, parrocchiale e diocesana,
rifletta i valori evangelici.
Anche questo vuol dire inculturazione
del messaggio a tutti i livelli. Il
vangelo deve dire qualcosa di concreto
nella vita personale, nella famiglia
e nella società, indicarci cosa
significhi essere salvati da Gesù. Bisogna
quindi portare la gente a fare
una lettura contestualizzata del vangelo,
affinché possiamo essere evangelizzati
integralmente.
Cosa si aspetta dai missionari e
missionarie?
Per quanto riguarda il rapporto con
i missionari, vorrei far notare che il
processo di evangelizzazione non è
finito, non è mai finito; finché l’uomo
vive, vi sarà evangelizzazione. È
in questo senso che la chiesa è universale.
Non è la chiesa della mia famiglia
o della mia società, o di Isiro:
è la chiesa di Gesù che chiama tutti
gli uomini, di ogni colore, a vivere la
vita di Dio là dove si trovano; una vita
di carità, di comunione, al di là di
ogni frontiera. È così che i missionari
conservano sempre il loro posto,
anche quando i cristiani sono molti.
Perché l’evangelizzazione è permanente
ed è sempre da riprendere. La
presenza del missionario è fonte di

coraggio, perché si tratta di un uomo,
di una donna venuti da lontano,
condotti qui solo dalla fede. Il missionario,
quindi, non deve supplire
soltanto a una mancanza, per cui
quando questa mancanza viene colmata,
ha finito il suo compito. Il missionario
è un testimone di Gesù e tutti
noi ne abbiamo bisogno.
Il Congo è devastato dalla guerra.
La gente di Isiro come vede
la guerra? Ha qualche speranza
che presto finisca?
La guerra è imposta alla gente. Non
è voluta. La gente vuole la pace. Tutti
si augurano che la guerra finisca
presto. Ma si ha l’impressione di trovarsi
in una tragica impasse (vicolo
cieco) e non si sa come uscie. Per
farla finire, è importante tagliare i legami
che essa ha con i paesi esteri.
I mezzi per fare la guerra, infatti,
vengono dall’estero, dall’Uganda, dal
Rwanda. Questi paesi, purtroppo,
hanno una stampa efficiente, pronta
a mostrare come essi non c’entrino
con la guerra, ne sono fuori. Ma la
realtà è diversa.
E la società civile?
La società civile, purtroppo, non è
bene organizzata. A questo proposito,
faccio di nuovo un richiamo alla
stampa che può svolgere un ruolo
molto importante, soprattutto sostenendo
la volontà della popolazione e
incoraggiandola.
La chiesa congolese è una chiesa
di martiri. Si fa qualche cosa
per conservae la memoria?
È importante salvaguardare la memoria
dei martiri, a livello parrocchiale,
diocesano e nazionale. Per
questo sono importanti gli archivi
storici. Ci dovrebbe essere un gruppo
incaricato di raccogliere dati e
fatti che costituiscono la storia di
uomini e donne che hanno dato la
vita per Cristo e per i loro fratelli e
sorelle. Non vi è niente di peggio che
ignorare la memoria, perdere le tracce
del proprio passato. Bisognerebbe
che, a tutti i livelli, si potessero
avere le testimonianze che possono
incoraggiarci nella fede e meritano
di essere messe in evidenza. Per il
centenario dell’inizio del cristianesimo
nella diocesi, intendiamo prendere
delle iniziative in questo senso.
Avremmo voluto farlo in condizioni
più felici. Ma non siamo noi i padroni
della storia.

Giovanni Battista Antonini