Iraq – “Aspettiamo la pace. Con pazienza”

Si chiama Emmanuel III Karim Delly
la nuova guida della chiesa caldea irachena. Pur arrivando con una fama di moderato,
il patriarca di Baghdad non evade le domande della nostra inviata. Sulla guerra: nessuno
in Iraq la voleva. Sulle truppe d’occupazione: dovrebbero andarsene,
ma gradualmente. Sull’islam: sono ottimi i nostri rapporti con i musulmani. Sull’Arabia Saudita: non lavora per la pacificazione. Sui compiti delle guide spirituali: indicare ai fedeli la retta via. Con un obiettivo preciso:
riportare un minimo di normalità nel paese.

Basilica di San Pietro, 5 dicembre 2003. In una suggestiva atmosfera, l’aramaico, la lingua che discende da quella di Gesù e che è patrimonio della maggioranza dei cristiani iracheni, è riecheggiato tra le volte sottolineando i momenti più salienti della cerimonia di nomina del nuovo patriarca della chiesa cattolica caldea, Emmanuel III Delly.
Gli auguri del pontefice sono arrivati attraverso la voce del cardinale Ignazio Daoud Moussa, prefetto della Congregazione per le chiese orientali. Nel suo messaggio, Giovanni Paolo II ha rinnovato l’unione tra la chiesa caldea e quella romana che, con altee vicende, ha avuto inizio ben 502 anni fa quando dal monastero di Rabban Hormizd, nel nord dell’Iraq, l’abate Yohanna Sulaqa partì alla volta di Roma per ricercare l’unione che la chiesa d’Oriente, cui tutti i cristiani della Mesopotamia appartenevano, aveva perso nel 431 A.D. al Concilio di Efeso, quando era stata accusata di eresia per aver sposato la dottrina di Nestorio.
La nomina di mar («mio signore», in siriaco antico) Emmanuel III, come sarà chiamato dai suoi fedeli, non è stata priva di problemi. Prima di tutto è avvenuta in un momento molto delicato per la storia dell’Iraq; in secondo luogo, per essa si è dovuto fare ricorso al canone 72 del codice di diritto canonico per le chiese orientali, secondo il quale se, durante il sinodo elettivo, nessun candidato raggiunge almeno i 2/3 dei voti, la decisione sul nome del patriarca passa al pontefice romano. Nessun nome infatti era uscito dal sinodo tenutosi a Baghdad (dal 19 agosto al 2 settembre 2003).
La scelta di mar Emmanuel III appare allora il frutto di un’equilibrata politica vaticana tesa a dare alla chiesa cattolica caldea una guida spirituale in grado di sedare le tensioni venutesi a creare dopo la scomparsa (avvenuta a Beirut il 7 luglio 2003) del precedente patriarca, mar Raphael I Bedaweed, tra i vescovi residenti in Iraq e quelli della diaspora caldea, più risoluti a partecipare attivamente alla vita politica del paese.
Mar Delly, inoltre, sembra, almeno per ora, avere un atteggiamento più collaborativo nei riguardi dei nuovi organi di governo iracheni di quanto avrebbe potuto avere il defunto patriarca, distintosi negli anni nella difesa ad oltranza del governo di Saddam, ed essere, di conseguenza, più gradito agli stessi.

Mar Emmanuel III Karim Delly è nato a Telkeif, un villaggio vicino Mosul, nel 1927. Nominato vescovo nel 1963 ed arcivescovo nel 1967, si è ritirato nell’ottobre del 2002. Il 21 dicembre, data della cerimonia di consacrazione svoltasi a Baghdad, ha coinciso con il compimento del suo 53° anno di servizio sacerdotale.
Il giorno dopo la sua nomina romana lo abbiamo raggiunto per una breve intervista dai toni pacati.

Beatitudine (termine con cui ci si rivolge ai patriarchi caldei, ndr), la chiesa caldea, che accoglie circa il 70% dei cristiani iracheni ha di nuovo una guida spirituale. Che riflessi avrà la sua nomina, in un momento così delicato?
«La mia nomina non cambierà le cose perché il cammino della chiesa è immutabile nei secoli e la sua missione rimane quella di essere portatrice di pace e fratellanza come ci ha insegnato nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo bisogno di pace e serenità perché abbiamo sofferto troppo; le guerre contro i curdi e contro l’Iran, la guerra del Golfo, 13 anni di embargo ed ora questo conflitto non ancora finito hanno stremato la popolazione irachena, ed i cristiani non fanno eccezione.
I problemi sono ancora molti, così come sono molti gli iracheni, specialmente giovani, che vorrebbero abbandonare il paese. Prima volevano farlo per evitare il servizio militare che durava anni ed era durissimo, ora a spingerli sono le difficoltà economiche e quelle legate alla mancanza di sicurezza e lavoro. Purtroppo però è ancora molto difficile per gli iracheni ottenere i visti da paesi stranieri».

Come vede il futuro del paese?
«Nessuno in Iraq, cristiano o musulmano, voleva la guerra, perché la pace non si dà con essa, ma con il dialogo. Noi siamo grati alla Francia ed all’Italia la cui popolazione si è espressa contro la guerra. D’altra parte, colgo l’occasione per porgere le mie più sentite condoglianze alle famiglie dei carabinieri e dei soldati italiani che hanno perso la vita nell’attentato di Nassiriya. E per ringraziare tutti quei bravi ragazzi, italiani e non, che erano lì per servirci e proteggerci, ma purtroppo hanno trovato la morte».

Questi episodi sono atti di terrorismo o di resistenza?
«Bisognerebbe sapere chi li compie, ed io non lo so. Ciò che so è che nessun uomo di fede, che sia cristiano o musulmano, se segue le parole del vangelo o del corano, può compiere tali crimini. La maggior parte degli iracheni, infatti, non vi è coinvolta e non li approva, ma certamente ci sono ancora elementi fedeli al Baath, altri legati ad Al Qaeda e qualche paese straniero che vuole un Iraq instabile».

Qualche nome?
«L’Arabia Saudita, ad esempio, che non gradisce che l’Iraq diventi una democrazia e che le sue ricchezze possano essere, come ci auguriamo, patrimonio non più solo del regime, ma dell’intero popolo. Se così sarà, la famiglia saudita che invece detiene tutte le ricchezze del paese (che in campo petrolifero sono addirittura superiori a quelle irachene) potrebbe soffrire nel paragone con noi».
I tempi per il raggiungimento della pace hanno di gran lunga superato quelli della guerra intesa come confronto tra eserciti. Che speranze ci sono perché essa si realizzi?
«Ci hanno promesso la pace, ma per averla ci vuole pazienza ed io dico “dateci tempo, abbiate pazienza”. Dobbiamo sperare e chiediamo a tutto il mondo, quello cristiano e non, di pregare e di affidare a Dio il destino di questa terra di pace, la terra di Abramo».
Il nuovo corso della politica americana in Iraq vede un’accelerazione del disimpegno Usa nel paese ed un più rapido passaggio di potere agli iracheni. Qual è la sua opinione al riguardo?
«Certamente le truppe di occupazione dovranno lasciare l’Iraq, ma sarebbe auspicabile che lo facessero gradualmente. Se si comporteranno in maniera appropriata, saranno gli stessi iracheni a chiedere loro di rimanere».
Se ho ben compreso, lei dice che le truppe rimangano pure, ma a ben precise condizioni. Quali?
«A condizione che rivedano da subito i loro comportamenti. Non si possono uccidere 54 persone in un solo giorno accusandoli di essere terroristi, perché non tutti sono terroristi, come non tutti gli iracheni facevano parte del Baath, il partito al potere. Gli americani hanno anche sbagliato a licenziare tutti i funzionari, i soldati ed i poliziotti con l’accusa di complicità con il regime, perché così facendo hanno ridotto sul lastrico intere famiglie lasciate senza alcun reddito. Avrebbero dovuto distinguere tra i criminali da condannare e le persone normali».
Perché questa guerra?
«La guerra all’Iraq è stata fatta per tutti i beni che la terra irachena possiede. Volevano i nostri beni? Bene! Che se li prendano, ma che li usino a favore del popolo iracheno, depredato di essi dal passato regime che li usava per acquistare armi. Che li usino a favore delle popolazioni povere del Medio Oriente e dell’Africa».

Che rapporti ci sono ora tra la comunità cristiana e quella musulmana?
«Ottimi. Da quando sono stato nominato patriarca ho già ricevuto delle telefonate di congratulazioni proprio da alcun capi religiosi musulmani, sunniti e sciiti. Quando toerò in Iraq mi recherò personalmente nelle loro case per ringraziarli e iniziare il dialogo necessario per vivere in pace nel futuro».

Il ministero degli Affari religiosi che regolava ogni aspetto della vita religiosa del paese è stato sciolto. Chi e cosa ne fa le veci?
«Sono state create 3 distinte commissioni: una per i sunniti, una per gli sciiti ed una per i non musulmani che si occuperanno degli affari amministrativi. La presidenza della commissione per i non musulmani è stata affidata ad un cristiano cattolico caldeo».

I decreti che il regime di Saddam Hussein aveva approvato e che discriminavano la popolazione non cristiana sono ancora in vigore?
«Quasi tutti i decreti approvati dal Baath sono stati annullati. Ora possiamo battezzare i nostri bambini con qualsiasi nome: non dobbiamo più scegliere tra quelli biblici ma presenti anche nel corano, e non siamo più obbligati ad usare la loro versione araba.
Per quanto riguarda i figli di un genitore cristiano convertito all’islam, ai quali veniva di fatto imposta la conversione ad esso, è un problema non ancora risolto ma ho fiducia che lo possa essere nel futuro».

Potrete riaprire le scuole confessionali, confiscate e nazionalizzate in passato?
«Sì. Potremmo farlo fin da ora, ma abbiamo deciso di aspettare un po’. Le scuole hanno bisogno di essere rimesse a posto e gli insegnanti devono poter contare su adeguati stipendi. Tutte cose che, per ora, sono al di fuori della nostra portata, ma che sicuramente realizzeremo».

C’è ancora l’obbligo di dichiarare sui documenti di identità la propria appartenenza etnica (arabo o curdo) e la propria religione (musulmano o non musulmano)?
«Anche questo è un problema ancora non risolto. Ciò che io mi auguro è che un domani i nostri documenti possano riportare solo la scritta “iracheno” senza nessuna aggiunta. La religione è solo di Dio e spero che questo sarà ben chiaro nella nuova costituzione».

Che ruolo avrà la chiesa nel processo di pacificazione del paese?
«I capi religiosi iracheni, cristiani e musulmani, hanno il compito di instillare nei propri fedeli la pazienza di sopportare l’attuale situazione. Per quanto riguarda i cristiani il nostro dovere è di seguire le parole di San Paolo che ci hanno insegnato ad obbedire ai nostri superiori. Abbiamo obbedito al passato governo e lo faremo con il prossimo».

Quale sarà il suo coinvolgimento nel futuro politico del suo paese?
«Non bisogna chiedere ad un medico di costruire una casa perché quella casa crollerebbe, né chiedere da un ingegnere di operare un paziente perché quel paziente morirebbe, così non si può chiedere ad un religioso di fare il politico. Il compito dei capi spirituali, sia cristiani che musulmani, è conoscere la politica ma non impegnarsi attivamente in essa. Ciò che possiamo fare è guidare i nostri fedeli, consigliando loro la retta via, secondo i precetti della religione. Ma possiamo, appunto, solo consigliarli, non obbligarli. E sperare che seguano le nostre parole».

È troppo presto per valutare se il desiderio espresso dal nuovo patriarca caldeo di occuparsi delle anime dei suoi fedeli e non di politica potrà avverarsi. Certo dovrà lottare per farlo, se nel collegio romano, che ha ospitato i partecipanti al sinodo, a soli due giorni dalla sua nomina, era presente di persona, armato di volantini propagandistici, Minas Ibrahim al Yusufi, presidente di uno dei tanti partiti nati nel dopo Saddam, l’Iraqi Christian Democratic Party, alla ricerca di visibilità ed appoggi.

Luigia Storti




Iraq – Che succede tra Caldei e Assiri?

L’Iraq è un paese a maggioranza musulmana, ma è anche terra di antichissima cristianità, dove la parola di Dio giunse già dal 54 A.D., quando San Tommaso, nel suo viaggio verso l’Estremo Oriente, la predicò nell’area che ancora era chiamata Mesopotamia.
Guerre e persecuzioni hanno contribuito a diminuire drammaticamente il numero dei cristiani d’Iraq, ridotti oggi a non più di 600 mila. Sono pochi ed anche divisi i cristiani d’Iraq. Se non si contano le confessioni di derivazione anglosassone (protestanti, evangelici, avventisti) la maggior parte di essi appartengono alle chiese assira dell’est, sira, armena e soprattutto cattolica caldea che ne accoglie circa il 70%.
Nell’Iraq del dopo Saddam dove l’ansia di libertà si è concretizzata nel sorgere di una miriade di partiti (si dice ce ne siano già 85) anche i cristiani stanno cercando una loro visibilità politica. Per adesso, sono rappresentati, nell’Iraqi Goveing Council, il governo provvisorio iracheno voluto ed insediato dall’amministrazione Usa nel luglio scorso, da Yonadam Kanna, capo dell’Assyrian Democratic Movement, ma da subito questa nomina ha creato dei malumori, specialmente tra i membri della chiesa caldea che, forti del loro essere maggioritari, chiedono un proprio rappresentante nell’organismo di governo. Ne abbiamo parlato con monsignor Jacques Isaak, segretario generale del sinodo dei vescovi caldei e rettore dell’Università pontificia di Baghdad.

«Le differenze tra caldei ed assiri, che fanno quasi tutti capo alla chiesa assira dell’est, esistono – dice monsignor Isaak – e la più grossa è che la chiesa caldea vuole e riconosce l’autorità del pontefice romano, mentre la chiesa dell’est la rifiuta».
«Noi caldei, inoltre, rappresentiamo la maggioranza dei cristiani in Iraq, e sebbene il nostro atteggiamento verso i diversi poteri che si sono succeduti nel nostro paese sia sempre stato di maggiore accettazione rispetto a quello tenuto dagli assiri, ora è venuto il momento di avere una rappresentanza politica distinta».
Rappresentanza politica distinta chiesta ufficialmente da 19 vescovi sui 20 che hanno partecipato al sinodo che si è tenuto ad agosto a Baghdad per nominare il nuovo patriarca, e che hanno emesso a proposito un documento ufficiale ispirato da monsignor Sarhad Jammo, vescovo dell’eparchia di San Diego in Califoia.
«Ho cominciato a pensare che fosse necessario stabilire dei confini politici tra gli assiri ed i caldei già 30 anni fa – ci dice monsignor Jammo -, ma sono stato sempre frenato nel farlo dalla posizione ufficiale al riguardo assunta dal nostro precedente patriarca, Mar Bedaweed I, che nel 2000 dichiarò di essere un assiro dal punto di vista etnico ed un caldeo dal punto di vista religioso».
«Noi non accettiamo chi si fregia del titolo di rappresentante dei “caldeo-assiri” – continua monsignor Jammo – perché questo è un tentativo da parte degli assiri di inglobare i caldei e di fae un punto di forza. Gli assiri in Iraq sono pochi, e sanno di non poter contare nulla nel paese, se non in alleanza con i caldei. Sebbene già in passato io abbia riconosciuto la legittimità di entrambi i nomi, non accetto la denominazione comune di caldeo-assiro, e per questo sostengo il congresso dei partiti e delle associazioni caldee che si terrà a Baghdad il 24 febbraio del 2004, e che finalmente ci vedrà protagonisti non solo della vita religiosa del paese, ma anche di quella politica».
Gli assiri, pochi in Iraq e molti in diaspora, hanno un’abitudine radicata al confronto politico, i caldei, molti in Iraq e meno all’estero, solo ora, con la caduta del regime e la scomparsa del precedente patriarca, sono quindi liberi di esprimere le proprie rivendicazioni sulla scena politica.

Questi contrasti sicuramente daranno vita ad un dibattito che promette di essere agguerrito ed interessante, dal quale però è tenuta fuori l’istituzione che in Iraq vede lavorare insieme i cristiani: il Babel College, l’Università pontificia affiliata all’Università urbaniana di Roma, che accoglie studenti caldei, assiri, siri ed armeni.
Il Babel College è diretto da monsignor Jacques Isaak che ha proibito la diffusione di volantini e scritti che trattino la questione politica. È un uomo di cultura monsignor Isaak, e quali siano le sue posizioni politiche, vuole che esse non guastino l’atmosfera di collaborazione ed amicizia tra studenti appartenenti alle diverse chiese, che ha sempre caratterizzato il suo collegio.
«C’erano due studenti, un caldeo ed un assiro che distribuivano volantini al riguardo, li ho chiamati ed ho detto loro che erano liberi di farlo al di fuori delle mura del collegio, ma non all’interno. È nostro compito trasmettere i valori della cristianità ma anche offrire ai nostri studenti, la maggior parte laici, gli strumenti culturali adatti ad affrontare il futuro del paese. Bisogna tenere la cultura divisa dalla politica, almeno per ora, e dare ai giovani la possibilità di formarsi, studiando, un’opinione personale. Il dialogo potrà aiutare il paese nel cammino verso la pace, dialogo sia tra le diverse confessioni cristiane, sia con i musulmani: per capirsi bisogna parlarsi».
Il Pontifical Babel College di Baghdad, che accoglie studenti delle diverse confessioni cristiane, è in questo senso un’istituzione unica. Per l’anno accademico 2002-’03 gli studenti iscritti erano 280, la maggior parte laici e tra essi c’erano anche molte donne.
I corsi, che durano 7 anni e che comprendono materie come filosofia, teologia, lingua siriaca, araba ed inglese sono stati interrotti il 17 marzo, ma il giorno stesso della caduta della statua di Saddam in piazza al Furdus, evento che ha mediaticamente segnato la caduta del regime, si è tenuta la prima riunione operativa dei dirigenti del collegio.
Durante il conflitto le postazioni missilistiche che l’esercito iracheno aveva posto lungo le mura estee hanno fatto del collegio un bersaglio. I danni sono stati ingenti. Sono stati distrutti il Centro dell’Arte Sacra, la sala computer, molti infissi estei e l’impianto di condizionamento dell’aria, ma la volontà di ricominciare era tanta ed i lavori sono iniziati appena possibile con un criterio di priorità che potesse favorire la ripresa degli studi.
Infissi, impianti di condizionamento e nuovi servizi igienici hanno avuto la precedenza, ma si è proceduto anche al recupero del Centro dell’Arte Sacra e della sala computer che conta oggi 13 postazioni, ed alla sistemazione ed ampliamento della biblioteca per passare dai 12 posti a sedere ai 90 attuali, e per accogliere i libri che sono stati ad essa destinati per lasciti ereditari, compreso quello del defunto patriarca Mar Bedaweed I.
Ad aspettare, invece, dovrà essere la St. Aprham Hall, la sala conferenze da 750 posti la cui costruzione era iniziata da qualche anno. Nei giorni successivi alla caduta del regime i saccheggiatori hanno colpito anche il Babel College portando via ciò che era più facilmente asportabile. Nel caos generale monsignor Isaak aveva chiesto protezione agli americani che però non l’hanno accordata. A distanza di mesi quella mancata protezione è considerata provvidenziale. «Ora abbiamo solo 5 guardie armate, 3 musulmani e 2 cristiani, ed è meglio così. Se gli americani avessero accettato di proteggerci saremmo stati accomunati a loro. Il fatto che le guardie siano locali, invece, ci ha fino ad ora accordato una sorta di immunità perché la gente può distinguere tra noi, cristiani iracheni e gli americani, forza di occupazione».
Che i rapporti tra questa massima istituzione di studio cristiana ed il mondo musulmano siano improntati alla collaborazione più che allo scontro lo si capisce dal fatto che da quando, ad ottobre, i corsi sono ripresi, il numero dei docenti musulmani che si occupano dell’insegnamento della filosofia è passato da 5 a 7, e che ci sono già stati dei contatti tra il Babel College e la facoltà di studi islamici di Baghdad che ha richiesto un docente che possa spiegare agli studenti musulmani la storia del cristianesimo. Una facoltà ecumenica ed interreligiosa, quindi, che rappresenta una speranza ed un augurio in un paese che deve fare i conti con divisioni etniche e religiose.
I progetti per il Babel College sono molti, monsignor Isaak, malgrado impegnato anche a dirigere due riviste: Nagm al Mashrik (Stella d’Oriente) e Beit Nahrein (Mesopotamia) è un vulcano di idee ed iniziative.
«Vogliamo che il Babel College diventi anche una facoltà di lingue perché non è un bene che i nostri sacerdoti parlino solo l’arabo. A questo proposito abbiamo già contattato l’ambasciata di Francia che si è impegnata ad inviarci da Parigi un docente, ed anche l’ambasciata britannica. Speriamo, in un prossimo futuro, di poter insegnare anche l’italiano».
Oltre alla facoltà di teologia e filosofia il Babel College ospita il Cathechetical Christian Institute dove, in 3 anni di corsi, vengono formati i catechisti. Il college si trova in una zona difficile da raggiungere per molti studenti, e si è così deciso di trasferire temporaneamente i corsi presso la chiesa di Mar Elyia e di istituire dal prossimo anno una sede dell’istituto anche a Mosul per evitare agli studenti provenienti dalle regioni del nord il viaggio bisettimanale di andata e ritorno da Baghdad.
Molte idee e progetti quindi che sicuramente sotto la guida di monsignor Isaak si realizzeranno perché all’interno delle mura del collegio, ora libere da missili, tutti i cristiani, ed anche i musulmani, possano imparare a convivere pacificamente.
Luigia Storti

Luigia Storti




“La violenza è come un virus”

Lo scorso novembre l’ex dittatore Efraín Ríos Montt non è riuscito a farsi eleggere presidente. Ma questa è la sola buona notizia che proviene dal paese centroamericano. Dietro i colori sgargianti che contraddistinguono la sua gente, si nascondono povertà, disoccupazione e violenza. La guerra civile durata 36 anni è formalmente terminata, ma le ferite inferte al paese sono difficili da rimarginare. E gli accordi di pace del 1996 sono rimasti sulla carta.

«Gli avevano tagliato la lingua. Era bendato con fasce e cerotti sugli occhi. Aveva fori ovunque (…) Era irriconoscibile; solo perché io ho vissuto per molti anni con lui e sapevo di alcune cicatrici, capii che era mio marito» (1).
Sono due le date che caratterizzano la storia recente del Guatemala: dicembre 1996 e aprile 1998. La prima ha segnato la fine di una guerra civile durata 36 anni, la seconda la morte di una persona che su quei 36 anni aveva indagato svelandone le atrocità e le responsabilità.
Mons. Juan José Gerardi Conedera, vescovo ausiliario del Guatemala, era cornordinatore generale dell’«Ufficio per i diritti umani dell’arcivescovado guatemalteco» (Oficina de derechos humanos del Arzobispado de Guatemala, Odhag).
Fu assassinato domenica 26 aprile 1998, soltanto 48 ore dopo aver presentato, nella cattedrale metropolitana di Città del Guatemala, il rapporto Guatemala: nunca más, risultato finale del progetto interdiocesano Recuperación de la memoria histórica (Remhi).
Aveva detto: «Quando si affrontano temi economici e politici, molta gente reagisce dicendo: “perché la chiesa si occupa di queste cose?”. Vorrebbero che ci dedicassimo unicamente ai ministeri. Però la chiesa ha una missione da compiere nell’ordinamento della società, che comprende i valori etici, morali ed evangelici».
Valeva la pena spendere 3 anni di lavoro per raccogliere migliaia di interviste (individuali e collettive) in 15 idiomi maya? «Il chiarimento storico – si legge in una famosa lettera pastorale (2) – non solo è necessario, ma indispensabile perché il passato non si ripeta (…). Finché non si saprà la verità, le ferite del passato rimarranno aperte e non potranno cicatrizzarsi».
L’obiettivo di Nunca más era, pertanto, duplice: preservare la memoria storica attraverso l’accertamento dei fatti e tentare di ricostruire il tessuto sociale, disintegrato da 36 anni di atrocità.
«Conoscere la verità fa soffrire però è, senza dubbio, un’azione altamente salutare e liberatrice», aveva concluso mons. Gerardi, in quella domenica del 26 aprile 1998.

LE ORIGINI DEL CONFLITTO
Cosa dette origine a un conflitto durato dal 1960 al 1996? La risposta la troviamo nelle parole di monsignor Próspero Penados del Barrio, scritte nella presentazione del rapporto: «Se riflettiamo sulle condizioni in cui viveva un’altissima percentuale della popolazione, emarginata per la carenza delle sue più elementari necessità (cibo, salute, educazione, casa, salario dignitoso, diritto di organizzazione, rispetto del proprio pensiero politico, ecc…) che non le permetteva di svilupparsi nelle condizioni a cui ha diritto ogni essere umano; se riflettiamo sull’anarchia che viveva in quel momento il nostro paese (…); se pensiamo che per alcuni gruppi furono chiusi gli spazi politici, possiamo comprendere che la guerra (…) era qualcosa che non si poteva fermare. Il desiderio di cambiamento per creare una società più giusta e l’impossibilità di portarlo avanti (…) provocò un coinvolgimento nella rivoluzione non solo di coloro che volevano il cambiamento della società secondo logiche socialiste, ma di molti che – pur non essendo marxisti e non avendo una posizione politica impegnata – si convinsero e si videro costretti ad appoggiare un movimento che sembrava essere l’unica via possibile: la lotta armata».
Chi fu il vincitore della guerra?, si chiede monsignor del Barrio: «Tutti abbiamo perso. Non credo che alcuno abbia il cinismo di salire sul carro della vittoria carico di migliaia di morti (…)».
Nei 36 anni di guerra le vittime accertate furono almeno 200 mila. Per non parlare delle vittime indirette (bambini orfani e donne vedove), delle persone segnate per sempre dalla violenza, dei villaggi distrutti, delle comunità disgregate.

EFRAÍN RÍOS MONTT,
L’«UNTO DEL SIGNORE»

L’impegno della chiesa cattolica guatemalteca nella ricerca della pace trovò (e trova) il proprio contrappasso proprio nel modus operandi del generale Efraín Ríos Montt, che fece della religione uno strumento del proprio dominio, a tal punto da proclamarsi «unto del Signore».
In questo Ríos Montt non si è discostato dal comportamento di altri dittatori latinoamericani (si pensi al generale cileno Pinochet o alla giunta militare argentina), anche se il suo percorso personale è stato diverso.
Nel 1978 Ríos Montt abbandonò la fede cattolica e aderì alla Iglesia del Verbo, una setta evangelica-pentecostale di cui divenne pastore. I 17 mesi della sua dittatura (dal marzo 1982 all’agosto 1983) furono i più sanguinari della storia recente del Guatemala; gran parte dei massacri avvennero in quel breve periodo (192 nel solo 1982).
I suoi discorsi erano infarciti di citazioni bibliche. Lui, «unto del Signore», aveva il compito di combattere «i quattro cavalieri del moderno Apocalisse»: la fame, la miseria, l’ignoranza e la sovversione.
Ma chi erano i sovversivi? Chiunque, direttamente o indirettamente, potesse favorire la «minaccia comunista». L’attenzione di Ríos Montt si concentrò, in particolare, su contadini e indigeni, poiché – così si giustificava – la loro immaturità verso i valori patriottici e il loro analfabetismo li rendevano particolarmente vulnerabili di fronte al proselitismo del comunismo internazionale.
Nella concezione del generale-pastore a volte il «buon cristiano» deve sapersi districare «con la bibbia e con la mitraglietta».
«Il suo eloquio fanatico – ha scritto una guatemalteca vittima della dittatura (3) -, che manipolava i sentimenti e i timori religiosi, era trasmesso da radio e televisione in piccole dosi domenicali, nelle quali mescolava abilmente citazioni bibliche e messaggi che inducevano al senso di colpa».
Scrive il rapporto Nunca más: «Il far sentire le vittime e i sopravvissuti colpevoli e responsabili di quanto succedeva fu un elemento centrale nella strategia controinsurrezionale. Per raggiungere questo obiettivo, l’esercito utilizzò vari meccanismi, i più importanti dei quali furono: la propaganda e la guerra psicologica, la militarizzazione, le pressioni – con ogni mezzo – per ottenere la massima obbedienza, servendosi in particolare delle Patrullas de autodefensa civil e delle sétte religiose. (…) La paura di professare la religione cattolica, che l’esercito considerava una dottrina sovversiva, fu il motivo più frequente per bloccare la pratica religiosa nell’area rurale. Le pratiche religiose, tanto della religione maya come di quella cattolica, dovettero per forza cambiare a causa della perdita delle cappelle e dei luoghi sacri. (…) La penetrazione crescente delle sétte evangeliche, che cominciavano allora a diffondersi, colmò il vuoto religioso lasciato dalla repressione e fu favorita dall’esercito come una forma di controllo della gente.
Le sétte diffusero la loro versione della violenza, incolpando le vittime e promuovendo una ristrutturazione della vita religiosa delle comunità basata sulla separazione in piccoli gruppi, su messaggi di legittimazione del potere dell’esercito e di salvezza individuale, con cerimonie che favorivano lo sfogo emotivo di massa. La violenza divenne allora il più potente propulsore delle sétte evangeliche, con una grande diffusione in buona parte del paese».
Nonostante le pesantissime responsabilità nella guerra civile, il generale-pastore Efraín Ríos Montt, l’«unto del Signore», è riuscito a rimanere il vero uomo forte del paese centroamericano fino alle presidenziali del novembre 2003. E non è affatto detto che quella sconfitta elettorale lo abbia effettivamente posto fuori gioco…

LA VIOLENZA
COME STILE DI VITA

In tempi di guerra globale e continua, appaiono drammaticamente attuali le parole di Edgar Gutiérrez, responsabile del progetto Remhi: «La violenza è come un virus. Penetra in tutto il corpo e si propaga in forma epidemica. Quando diviene endemica, si trasforma in irrazionalità pura».
Su questo concetto della violenza come patologia sembrano concordare in molti.
«L’esercito – ha scritto Dante Liano (4) – non solo ha vinto la guerra con le armi, ma ha creato uno stile di vita fra la gente. La mentalità dominante è la violenza e dappertutto regna la volgarità da caserma, in un paese che era famoso per i modi cortesi e cerimoniosi. Quasi tutti girano armati e chi non lo fa, si circonda di guardie del corpo. Ci sono uomini armati con fucili a canne mozze nelle banche, nei magazzini, nei centri commerciali, nei parcheggi privati, negli ingressi alle zone ricche della capitale. (…) Forse, dopo una guerra durata quarant’anni in cui sono stati commessi dei massacri inauditi, il corollario naturale è questo: una società dominata da una mentalità violenta, arbitraria e prepotente».
Il problema è che oggi, a 7 anni dagli accordi di pace, in Guatemala non sono affatto mutate le situazioni che furono alla base del conflitto: povertà estrema, emarginazione, fame, disoccupazione, clima di impunità, corruzione, concentrazione delle terre in pochissime mani.
(Fine 1a. parte – continua)

(1) Caso n. 3031 datato 1981 riportato nel rapporto Nunca más.
(2) In Urge la verdadera paz, lettera della Conferenza episcopale del Guatemala (1996).
(3) «Il trionfo del genocida», di Ana Lucrecia Molina, su Latinoamerica n. 78 – 1.2002. Il fratello quindicenne di Ana fu sequestrato dall’esercito nel 1981.
(4) «Il vento del terrore», di Dante Liano, su Latinoamerica n. 73 – 4.2000. Liano, guatemalteco, insegna letteratura ispanoamericana a Milano.

Paolo Moiola




Guatemala – Donne dalla pelle dura

«Mio padre sparì per mano dei militari nella notte del 9 luglio 1982. Dopo tre giorni i militari tornarono e dissero a mia madre di non cercarlo più perché era già morto. La sua sorte non era stata uguale a quella di tanti altri che trascorsero anni, tra sofferenze infinite, nelle prigioni dell’esercito. Mio marito era un dirigente campesino. Scomparve nel maggio del 1985. Non ho mai saputo dove lo portarono, dove abbandonarono il suo corpo. Soprattutto non ho mai potuto dire con sicurezza ai miei figli se il loro papà sarebbe tornato».
I lunghi capelli neri le cadono sul coloratissimo scialle. Piccola e robusta come la maggior parte delle donne maya, Rosalina Tujuc ha lo sguardo di chi ne ha viste tante, ma il suo sorriso rimane dolce e disarmante. La sua storia fa rabbrividire, ma non è un’eccezione in Guatemala. Anzi, si può dire che sia la regola. I 36 anni di guerra civile hanno, infatti, prodotto 40.000 vedove. Nel 1988, un gruppo di queste decise di unire le forze in un’associazione battezzata Coordinadora nacional de viudas de Guatemala (Conavigua).
«Il nostro lavoro – ci spiega Rosalina – inizia nel settembre del 1988, quando donne dell’occidente e del nord cominciano a lavorare per fermare la militarizzazione del paese, per impedire che i nostri figli siano portati nelle caserme, ma anche per ritrovare i nostri mariti, i nostri familiari, assassinati dall’esercito e abbandonati in cimiteri clandestini. Un altro compito è quello di ricercare forme di sopravvivenza per le donne: il 25% delle donne che lavorano in Conavigua sono vedove di guerra. Ma ci sono anche donne sposate, nubili, madri nubili: quello che ci unisce è il desiderio comune di batterci, di lottare per la giustizia e contro l’impunità. All’inizio di questa esperienza la maggioranza di noi non sapeva o aveva appena imparato a parlare lo spagnolo; la gran parte non sapeva leggere né scrivere e quindi il nostro lavoro con le compagne era tutto a voce, orale».
Oggi Conavigua raggruppa circa 10 mila donne. Una realtà ancora più straordinaria, se si considera che essa è nata ed opera in un paese dove il machismo continua ad essere una caratteristica dominante della società.

Prima di lavorare con Conavigua, Rosalina Tujuc è stata deputata, arrivando anche a rivestire la carica di vicepresidente del parlamento guatemalteco. La sua conoscenza del paese è quindi molto approfondita.
«La situazione economica – spiega l’esponente maya – è molto difficile. La firma degli accordi di pace del dicembre 1996 ha portato a terminare con gli scontri armati, ma gli altri pilastri degli accordi non hanno avuto una reale attuazione. Per esempio, non sono riusciti a cambiare le strutture militari ed economiche del paese e quindi ancor meno si sono potuti risolvere i problemi della povertà, della discriminazione, dell’esclusione dei popoli indigeni.
In Guatemala la disoccupazione è grande. Gli accordi di pace avevano, tra l’altro, l’obiettivo di realizzare una serie di misure tributarie, che non sono state fatte; al contrario, si è proceduto con le privatizzazioni. I capitali privati, a quanto pare, non vengono investiti all’interno, ma vengono dirottati fuori dal paese. Quindi, direi che la situazione di povertà, prima concentrata nelle campagne, ora è diventata generalizzata. Tutto questo non ha permesso al Guatemala di aprirsi allo sviluppo economico.
Da un punto di vista politico, non si è riusciti ad organizzare un piano di sicurezza per tutti i cittadini; ancora oggi i più implicati in violazioni dei diritti umani continuano ad essere i membri della polizia. Assistiamo anche a continue intimidazioni, rivolte soprattutto contro le organizzazioni per i diritti umani: i loro uffici vengono assaliti, derubati dei computers, si arriva alle minacce di morte per chi vi lavora».
Prima di salutarci, torniamo a parlare della condizione delle donne, le più colpite dalla disastrosa situazione economica del paese.
«Le donne – ci conferma Rosalina – raggiungono il 60-70% di disoccupazione. Inoltre, quasi tutte le indigene non hanno un’educazione. Senza lavoro e senza speranza, dunque. Ma anche quando hanno un lavoro le donne sono vittime. Penso soprattutto alle zone urbane o comunque vicine alle città dove ci sono molte maquilas (fabbriche che producono esclusivamente per l’estero, ndr). In queste fabbriche non ci sono garanzie per un lavoro dignitoso e rispettoso della persona. Se però le donne cominciano a lottare per i loro diritti, subiscono violenze e torture. Quando non vengono uccise».
Pa.Mo.

Paolo Moiola




Ritorno al futuro

È ancora scuro quando imbocchiamo la «strada imperiale» che congiunge Addis Abeba alla regione orientale dell’Etiopia. Siamo diretti a Shambu, a 240 km dalla capitale, nel cuore del Wollega, la regione dove i missionari e missionarie della Consolata lavorarono per 25 anni, finché, allo scoppio della seconda guerra mondiale, furono cacciati dagli inglesi (1941).
Nonostante il nome pomposo della strada, la gibbosità dell’asfalto, curve e i saliscendi rallentano la corsa. In compenso possiamo gustare gli scenari, sempre vari e pittoreschi e, soprattutto, rivivere pagine di vita missionaria, apprese in gioventù dai missionari che sono passati per questa stessa via, quando era meno «imperiale».
A CACCIA DI MEMORIE
Il percorso che ora compiamo in sette ore di automobile, allora richiedeva giornate di cammino; anzi, settimane di estenuanti carovane, quando dalla capitale venivano trasportati i materiali necessari alla costruzione delle missioni.
Dopo 120 km e quasi tre ore di viaggio, entriamo nel Wollega; ci fermiamo ad Ambo, cittadina già rinomata per le piscine termali, oggi famosa in tutta l’Etiopia per l’omonima acqua minerale. Ma a noi rievoca altre memorie.
Per tre anni, dal 1938 al 1941, alloggiando in abitazioni provvisorie, padri e suore della Consolata svolsero attività scolastiche e sanitarie (vedi riquadro). Appena deciso di dare una sede definitiva alla missione e gettate le fondamenta della chiesa, dovettero abbandonare tutto.
A una dozzina di chilometri da Ambo, visitiamo la missione di Guder, fondata nel 1926 e abbandonata nel 1941, al colmo dello sviluppo (vedi riquadro). Del mulino e segheria rimane il piccolo canale d’acqua che ne azionava i motori; delle scuole elementari non è sfuggito al saccheggio neppure un mattone; stessa sorte è toccata alla casa dei padri.
Più fortunata è stata quella delle missionarie: una parte è ancora in piedi, anche se, caduto l’intonaco, le pareti di terra e paglia sembrano un animale spelacchiato. Più in basso si scorge il tetto del noviziato delle Ancelle della Consolata: l’edificio è in buone condizioni, grazie a profondi ammodeamenti.
Della chiesa resta la piattaforma del presbiterio e gradini sconnessi. La sorpresa è a pochi metri: in una minuscola cappella ortodossa possiamo ammirare una bella immagine della Consolata, scolpita sulla grande lunetta di pietra che oava la facciata della chiesa.
IL RITORNO
La Consolata è rimasta nel Wollega e ha richiamato i suoi figli. Nel 1970 i missionari della Consolata sono tornati in Etiopia e organizzato il vicariato di Meki, con la segreta speranza di rientrare in quello di Gimma, oggi vicariato di Nekemte.
Le suore vi sono arrivate prime, per svolgere attività apostoliche, sanitarie e di promozione umana in tre missioni: Sakko (1974), Komto e Konchi (1977). Nel 2001 il sogno si è completato: padri, fratelli e suore hanno iniziato a lavorare in équipe nella zona di Shambu, ai piedi dei monti Acca, una regione con grandi possibilità di prima evangelizzazione tra vari gruppi oromo.
Uno di tali gruppi, gli higgu, aveva chiesto di entrare nella chiesa cattolica, grazie alle visite saltuarie di preti etiopici di Nekemte e del catechista Addisù Yadessa, che vi aveva soggiornato più a lungo e svolto un’attività di primo annuncio del vangelo.
La decisione di iniziare l’evangelizzazione degli higgu ha avuto una lunga gestazione. Nel luglio 2001 abba Johannes, fratel Brusa e suor Lena Emilia hanno fatto lunghe trasferte per visitare la gente, famiglia per famiglia, conoscere la loro cultura, saggiae le intenzioni e studiare le possibilità di iniziare la missione con uno stile nuovo.
Nel febbraio seguente, padri e suore si sono stabiliti definitivamente nel paese, affittando due casette di fango in periferia; in una terza accolgono dei giovani che vengono da lontano per frequentare la scuola e vi tengono incontri di formazione umana e religiosa, insieme a corsi di lingua inglese.
«Non siamo venuti con progetti di strutture per opere sociali, necessarie in altre zone, come Meki, per poi annunciare il vangelo – spiega suor Lena Emilia -. Vogliamo stare con la gente e dare priorità all’evangelizzazione; eventualmente, le attività sociali verranno in seguito».
Tale esperienza è possibile per il fatto che i due missionari destinati a Shambu, abba Johannes e abba Teklu, sono etiopici, entrambi di etnia oromo, e non hanno bisogno di permessi governativi per svolgere attività esclusivamente religiose.
DAL VECCHIO
AL NUOVO TESTAMENTO
«Visitando le famiglie – racconta abba Johannes -, abbiamo trovato una società rimasta all’Antico Testamento, in una tremenda ignoranza religiosa, terrorizzata da superstizioni, anche se la maggioranza della gente è battezzata. Unico punto di riferimento della loro religiosità è il tabot. La prima domanda che ci hanno fatto è se lo abbiamo anche noi».
Nella mentalità etiopica non c’è vera chiesa senza tabot, ma la gente non sa dire cosa sia e quale funzione abbia. Portato in processione, sul capo del pope, avvolto in drappi e veli multicolori, il tabot è oggetto di venerazione e di mistero: non si vede, non si tocca, non lo si può avvicinare.
«Per inaugurare la cappella – continua abba Johannes – abbiamo portato il nostro tabot: una pietra benedetta dal vescovo e ben addobbata. E da qui siamo partiti per iniziare la nostra catechesi, spiegando che esso è simbolo della presenza di Dio e ricorda l’arca dell’antica alleanza, dove venivano conservate le tavole della legge, la manna e il bastone di Aronne. Tutto questo per concludere che, ora, il nostro tabot è Cristo Gesù, morto e risorto, presente nell’eucaristia».
«Quest’anno, per la festa del tabot – continua suor Lena Emilia -, alla celebrazione della messa è seguita la processione col Santissimo, invitando i fedeli a riconoscere la vera presenza di Dio. “Finalmente sappiamo che cosa è il tabot” ha detto la gente entusiasta, contemplando l’ostensorio senza veli».
«È solo il primo passo – continua abba Johannes -. Ci vorranno anni prima di passare dal Vecchio al Nuovo Testamento, specialmente tra gli adulti». I giovani sono più aperti e desiderosi di conoscere la fede. Fanno domande profonde e impegnative. Già 27 di essi, ragazzi e ragazze, dopo un’adeguata catechesi, hanno ricevuto la prima comunione.
GUERRA AL MALIGNO
La sfida più grande è la superstizione. Gli higgu credono che in ogni famiglia ci sia uno spirito da tenere a bada e ricorrono all’indovino, che ordina loro cosa fare per placarlo: offrire sacrifici di animali presso determinati alberi, fonti, fiumi e montagne.
Tale credenza alimenta la schiavitù del terrore e dissangua le famiglie, costrette a spendere gli scarsi introiti per comperare gli animali da sacrificare e pagare l’indovino. In tutti gli angoli delle case, poi, sono sparsi amuleti d’ogni genere, recipienti con latte, sangue animale e altre offerte per lo spirito.
E sembra che tali spiriti inseguino la gente fino in chiesa. «Abbiamo tanti casi di isteria» osserva timidamente suor Lena Emilia. E seguono racconti impressionanti di donne e ragazze che, appena entrano nel recinto della cappella, cominciano a dimenarsi e urlare come forsennate; e solo dopo lunghe preghiere di tutta la comunità e abbondanti aspersioni di acqua benedetta ritornano normali.
A volte tali fenomeni capitano all’inizio della messa, allora il male può diventare contagioso: scacciato da una persona, lo spirito si impossessa di un’altra. Abba Johannes non ha dubbi: si tratta di possessione diabolica. E quando egli accenna alla storia di Drrebe, anche suor Lena Emilia sembra vacillare nella sua spiegazione razionale.
«È una bella ragazza – continua la suora -. Un giorno venne in chiesa con occhi stralunati; all’inizio della celebrazione eucaristica cominciò a gridare con una voce caveosa, da uomo: “Io possedevo già sua madre. Questa ragazza non la lascerò mai. Se mi cacciate, toerò di nuovo da sua madre”».
«Era un demonio amara – incalza abba Johannes -. La giovane raccontò tutta la sua storia parlando in amarico, lingua che non conosceva e non aveva mai parlato in vita sua».
Dopo un’ora di preghiere, esorcismi e aspersioni la giovane ritoò normale. Fu accompagnata a casa, dove la madre, vedendola tornare insieme a tanta gente, cominciò a gridare come una disperata. Quando anch’essa si calmò, furono raccolti tutti gli amuleti della casa e bruciati nel cortile. «Ora la ragazza è felice e sorridente come non era stata mai» conclude suor Lena Emilia.
Abba Teklu ricorda il caso del mago Negheri. Malato e debole, non prendeva cibo da vari giorni, quando alcuni cristiani lo invitarono a cambiare vita e venire in chiesa. «Appena il coro intonò il canto di inizio della messa – racconta abba Teklu -, il vecchio cominciò a danzare e si portò di fronte all’assemblea, gridando e gesticolando come un ossesso. Tre giovani riuscirono a stento a portarlo fuori dalla cappella: dieci minuti di preghiera furono sufficienti a farlo ritornare in sé. Toò in chiesa calmo come un angioletto».
Dopo la messa raccontò la sua storia e disse che si sentiva libero finalmente. Ma per completare l’opera, lo accompagnarono a casa, dove radunò tutti i suoi amuleti, ne fece un bel mucchio e vi appiccò il fuoco.
«Ora è sano e vegeto; sempre primo ad arrivare in chiesa, insieme a tutta la famiglia, che nel frattempo è stata battezzata» conclude abba Johannes.
SFIDE E SPERANZE
La liberazione dalla paura è una sfida difficile e impegnativa, ma già si raccoglie qualche frutto. «Nei primi tempi, quando visitavamo le famiglie – racconta suor Lena Emilia – donne e ragazze scappavano o rimanevano chiuse in casa; incontrandole per strada, non si riusciva a guardarle in faccia; ora salutano, sorridono, parlano come persone normali. All’inizio venivano in chiesa solo gli uomini; oggi essi portano tutta la famiglia». Il lavoro non è facile, specialmente tra gli adulti che, per mentalità e abitudini ancestrali, hanno un concetto utilitaristico della fede e ricorrono numerosi alle benedizioni e preghiere del prete per essere liberati dal malocchio e altre diavolerie. Più facile, invece è lavorare con i giovani. Tenendo presente che Shambu conta 9 mila studenti di scuola elementare e secondaria, è chiaro che il campo di lavoro è sterminato.
Ma nel centro di Shambu, il lavoro è praticamente impossibile, anche se missionari e missionarie sono ben voluti dalla gente: la loro presenza è sgradita ai preti ortodossi che, con prediche e proiezioni di video-cassette, dipingono la chiesa cattolica come incarnazione del male e arrivano a proibire i loro fedeli di salutare padri e suore.
Fuori del paese, nelle campagne e nelle zone montagnose, non ci sono problemi; molti gruppi rurali chiedono la presenza dei missionari. Tra questi, a una sessantina di chilometri, vicino al Nilo Bianco, c’è Asendabo, una cittadina dove soggioò il cardinal Massaia. È in progetto di iniziare il lavoro missionario anche in quella zona e riprendere il lavoro del grande missionario: fa parte del carisma dei missionari della Consolata, fondati dal beato Giuseppe Allamano proprio per continuare l’opera del cardinal Massaia. •

Benedetto Bellesi




I sogni di Lodovico

Una colonia di lebbrosi
è diventata una comunità viva e autosufficiente
per opera di padre Lodovico Crimella, deceduto 10 anni fa.
I suoi ideali e progetti sono stati ereditati
da un prete diocesano locale, che continua
a tradurli in realtà.

«L a civiltà non è né il numero, né la forza, né il denaro. La civiltà è il desiderio paziente, appassionato che vi siano sulla terra meno ingiustizie, meno dolori, meno sventure», tuonava Raoul Follereau, l’apostolo dei malati di lebbra, nato 100 anni fa in Francia (Névers, 17 agosto 1903).
Tra i tanti seguaci di Follereau, padre Lodovico Crimella, missionario della Consolata, nato nel 1937 a Valmadrera e tornato alla casa del Padre il 4 dicembre 1994, ha lasciato un’importante e originale eredità sulle sponde del Lago do Aleixo (Brasile).
Padre Joaquim Hudson, il ventinovenne sacerdote dell’Amazzonia, attualmente cornordinatore della comunità del Lago do Aleixo, racconta: «Conobbi padre Lodovico nel 1987, quando avevo 13 anni: quasi per caso, accompagnai mia sorella alla comunità del Lago do Aleixo, perché vi portava due conoscenti, marito e moglie, malati di lebbra con deformità visibili.
La comunità Onze de Maio era l’unica in tutta l’Amazzonia che poteva offrire ospitalità a persone con quella sofferenza. Mi parve di arrivare in paradiso. Padre Lodovico ci accolse bene e fui molto impressionato per quanto erano riusciti a realizzare in un ambiente che, pochi anni prima, era considerato un ghetto. Di tanto in tanto con mia sorella andavo a trovare quelle persone, che morirono due anni dopo serene e con dignità – sottolinea con convinzione padre Hudson -. Solo a 17 anni entrai nel seminario di Manaus, interessandomi sempre ai più poveri ed emarginati delle favelas.
Nel 1994, quando avevo ormai 20 anni, appresi della morte di padre Crimella, che fu ricordato nella preghiera in tutte le parrocchie di Manaus, e di come un suo confratello, padre Josè Maria Fumagalli, diventato monaco benedettino, si fosse impegnato di seguire la comunità per un anno.
Padre Fumagalli si fermò per ben quattro anni, ma poi, nel 1998, dovette far ritorno al suo convento. In quel periodo stavo terminando il seminario e tutti i giorni pregavo con il vescovo di Manaus, mons. Louis Suarez Vieira. Ogni mattina durante la preghiera il vescovo chiedeva: “C’è qualcuno che desidera prendersi la responsabilità della comunità del Lago do Aleixo?”. Nessuno voleva andarci: è una parrocchia di 40 mila persone, divisa in 12 comunità, con ancora 1.550 hanseniani disabili o in cura.
Una mattina, pensando a quanto aveva fatto padre Crimella, mi ritrovai a dire: “Ci vado io”. E così, nel 1999, appena ordinato sacerdote, iniziai il mio servizio al Lago do Aleixo, nella stessa casa dove tanti anni prima avevo incontrato padre Lodovico, che ricordo tutti i giorni nella santa messa».
Ma che cosa ha fatto padre Lodovico, che nel 1993 fu insignito del premio Raoul Follereau dall’Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau (Aifo)? Avevo conosciuto quest’intrepido missionario della Consolata nel 1992 e, ascoltando la sua storia, mi ero ben presto convinto che i progetti sviluppati con la comunità hanseniana del Lago do Aleixo erano in perfetta sintonia con l’etica dello sviluppo e rispondevano all’ideale di civiltà, sollecitato da Raoul Follereau.

B ravo amministratore, dieci anni di esperienza nella diocesi di Roraima, padre Lodovico si ritrovò, nel 1980, ad ascoltare le sofferenze di 300 famiglie, con uno o due ammalati di lebbra, abbandonate in stato di povertà sulle sponde del Lago do Aleixo dopo la chiusura della Colonia per lebbrosi avvenuta nel 1978. Grande ammiratore di don Milani, padre Lodovico ascoltò e pregò per queste persone; poi con loro iniziò la grande avventura.
Nel novembre del 1981 si tennero moltissime assemblee. Tutti erano liberi di partecipare e offrire il loro contributo, dibattendo temi vitali per la comunità come: acqua potabile, lavoro, scuola, pesca, casa, assistenza medica. L’arcivescovo diede a quell’insieme di famiglie l’entità giuridica di «parrocchia» (anche se i cattolici si contavano sulla punta delle dita), con la condizione che padre Lodovico fungesse da orientatore. Fu democraticamente eletto un consiglio di sette persone che decise di sviluppare piccole attività cornoperative utili per la comunità: allevamento di polli e maiali, acqua potabile, pesca, coltivazione razionale del terreno, rivendita dei prodotti.
Nel 1992 la comunità del Lago do Aleixo contava 20 mila persone con circa 1.600 malati di lebbra in cura, seguiti dall’ospedale governativo. Il consiglio era ormai formato da ragazzi che avevano frequentato le scuole e ogni famiglia era impegnata in un progetto cornoperativo, che permetteva di guadagnarsi dignitosamente da vivere.
Padre Crimella puntò sempre all’autosufficienza di ogni attività; perciò non accettò mai grandi interventi che avrebbero ucciso lo spirito d’iniziativa della comunità, ma solo piccole somme, come capitale iniziale legato a progetti specifici, per aiutare il decollo della piccola società cornoperativa.
L’opuscolo CSELA em ação (Comunità sociale educativa del Lago do Aleixo in azione), pubblicato nel 2000, mostra chiaramente come tutte le attività iniziate dalla comunità insieme a padre Lodovico, continuate con padre Fumagalli ed ora cornordinate da padre Hudson si siano sviluppate o modificate, mantenendo lo spirito originale: sviluppo armonioso della comunità con partecipazione democratica e responsabilità di tutti.
La comunità conta ormai 40 mila persone (20% bambini fino a 12 anni, 35% adolescenti da 13 a 20 anni, 30% adulti e 15% oltre i 60). Circa 250 famiglie sono impegnate direttamente nelle cornoperative del Csela, altri lavorano a Manaus. I cattolici della parrocchia San Giovanni Battista, suddivisi in 12 comunità sono ormai 35 mila. Per malati ed ex-malati di lebbra si ha cura della prevenzione e riabilitazione sociale.

I nfatti, padre Hudson, prossimo alla laurea in psicologia, racconta: «Abbiamo iniziato corsi di nuoto per i bambini, perché purtroppo molti sono morti nel lago. L’esame medico per ammettere i bambini ai corsi è molto rigoroso: lo scorso anno abbiamo scoperto 6 casi di lebbra. Curati subito, i bambini guariscono in 6 mesi. Abbiamo ancora tanti casi di ex-malati di lebbra con deformità visibile, ma si cerca di inserirli in attività produttive. Ne è un esempio l’attività di calzoleria, ormai gestita da un ex-hanseniano, che userà il silicone per fabbricare calzari adatti ai piedi con ulcere degli ex-malati di lebbra».
Con gratitudine il sacerdote dell’Amazzonia ricorda l’importante presenza di quattro suore della Consolata, da anni impegnate nella comunità del Lago do Aleixo: «Sono ormai più di 10 anni che suor Giuditta si trova nella comunità e si occupa di bambini, mentre suor Severa è impegnata nella scuola, suor Teresa nella farmacia e suor Renata nel lavoro pastorale. Le suore sono, comunque, inserite in tutti i settori dove c’è bisogno e sono molto amate dalla gente. Due anni fa, quando sembrava dovessero ritirarsi, la gente fece una mezza rivoluzione».
Tanti amici continuano ad appoggiare il Csela, seguito con particolare affetto dagli «Amici del Lago do Aleixo», formato da fratelli e conoscenti di padre Lodovico, impegnati a sostenere piccoli progetti significativi cari a padre Crimella e vitali per la comunità. Memorabile è stato il 2000, anno del Giubileo, quando al Lago do Aleixo, accanto al cippo commemorativo in memoria di padre Lodovico, fu issata la campana proveniente da Valmadrera.
Nel settembre 2002 don Carlo Ellena, sacerdote Fidei donum della diocesi di Torino, con 25 anni di missione in Brasile, ha visitato per il gruppo Bakhita-Follereau di Torino la Comunità del Lago do Aleixo ed ha scritto: «Padre Joaquim Hudson, parroco della Comunità e praticante di psicologia presso l’ospedale dei lebbrosi, è un’ottima persona, con idee molto chiare e avanzate su come affrontare i problemi delle gente, degli ex malati di lebbra e le varie iniziative sociali, ereditate dai sacerdoti che lo hanno preceduto. Le attività stanno procedendo molto bene e con un chiaro indirizzo non patealistico, ma di promozione, mirando alla gestione autonoma delle attività. Alcune sono già indipendenti, altre lo stanno diventando, altre sono ancora in fase di sperimentazione…
In una parola mi pare che l’idea grande di padre Lodovico Crimella sia seguita ed anche perfezionata. Per giungere all’indipendenza si punta chiaramente alla produzione di rendita (si produce per vendere e autosostenersi)… Abbiamo visitato le varie attività, progetti e iniziative, che sono moltissime e sparse nelle varie comunità, ma gestite con lo stesso stile e filosofia. Ho incontrato gente simpatica, generosa e disponibile alla collaborazione… Sono realtà che lasciano il segno».

P adre Joaquim Hudson è fiducioso per il futuro, anche se ben cosciente della difficoltà, e ci confessa il suo sogno: «La cosa bella della comunità è che tante attività vanno avanti bene, abbiamo sviluppato tante cornoperative e moltissimo lo sport, che tiene i giovani impegnati e lontani dalla delinquenza dilagante nei quartieri periferici di Manaus. Abbiamo ben 35 squadre di calcio, di cui 5 formate da ragazze; ci sono corsi di ginnastica, anche per la terza età, di capoeira, di nuoto e di canottaggio.
Ma la mia preoccupazione maggiore è la scuola. Tutti, finalmente, terminano le elementari, ma è difficile farli proseguire: abbiamo una sola laureata in pedagogia proveniente dalla comunità. Con la nuova biblioteca e alcuni computer, speriamo di invogliare i giovani allo studio. Il mio sogno è di avere laureati provenienti da questa comunità, per formare qualificati gruppi dirigenti, capaci di orientare al meglio lo sviluppo di tutta la comunità e cancellare definitivamente lo stigma legato alla lebbra».
Il grande sogno di padre Lodovico è diventato il sogno di padre Hudson.

Silvana Bottignole




La sfida infinita

Per 5 secoli la chiesa latinoamericana ha ricevuto missionari da altrove; da 40 anni sta recuperando la sua coscienza missionaria: oggi invia i suoi evangelizzatori in altri continenti.
Tale maturazione è ancora in corso, con un cammino esemplare, come testimonia l’ultimo Congresso missionario.

«È arrivato il tempo per l’America Latina di intensificare i servizi mutui tra le chiese particolari, era scritto nel documento di Puebla 25 anni fa. Che cosa è stato fatto in tutto questo tempo?» ha domandato appassionatamente il cardinale Oscar Rodríguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa (Honduras), ai partecipanti del secondo Congresso americano missionario (Cam2/Comla7). «Il nostro continente contiene il 50 per cento dei cattolici mondiali, ma non ha il 50 per cento dei missionari del mondo» ha continuato il porporato.
Per quasi 500 anni l’America Latina si è considerata «terra di missione» passiva, cioè dipendente, in fatto di personale, mezzi e idee, dalle chiese europee e, più recentemente, da quelle nordamericane.
Pur avendo ancora bisogno di essere alimentata dall’estero, essa sta diventando sempre più una «chiesa missionaria attiva», evangelizzando i gruppi umani che ancora non credono a Cristo e inviando missionari al di là delle proprie frontiere, «dando della sua povertà».
DALLA CRISTIANIZZAZIONE
ALL’EVANGELIZZAZIONE
Per secoli la sfida missionaria della chiesa in America Latina è stata quella d’insegnare alla gente a praticare le espressioni religiose secondo i modelli della cultura dominante: formare buoni cristiani con l’appartenenza alla chiesa, imparando la dottrina, osservando i comandamenti, ricevendo i sacramenti e partecipando alle devozioni cattoliche.
Più che di evangelizzazione, si è trattato di un processo di cristianizzazione, in cui le culture indigene non avevano alcuna importanza (non solo in America Latina) nell’espressione della vita cristiana. I missionari ritenevano quella occidentale come l’unica via, o la più adeguata, per esprimere il vangelo.
Ma il 35% degli abitanti del continente (amerindi, afroamericani e minoranze asiatiche) non sono affatto «latini» nelle loro radici culturali; metà della popolazione è costituita da mestizos, con un grande miscuglio anche sotto l’aspetto etnico e culturale.
Tuttavia, la cristianizzazione ha fatto sì che il cristianesimo non fosse sentito in America come una religione straniera; anzi, la predicazione del vangelo è sempre stata accettata e desiderata. Ma ne è nata una chiesa introversa, occupata a conservare la fede delle sue comunità e la propria influenza sulla società, senza alcuna preoccupazione di comunicare il vangelo ai non cristiani in Asia e Africa. Tale era la mentalità alla vigilia del Concilio Vaticano ii.
Quanto il Concilio definì missioni «le iniziative dei divulgatori del vangelo in mezzo ai popoli e gruppi umani che ancora non credono in Cristo» (Ad Gentes 6), una sessantina di vescovi brasiliani suggerì una differente formulazione: sono missioni «le attività dirette a tutte le creature, particolarmente ai popoli e gruppi umani che ancora non credono in Cristo».
L’aggiunta dell’avverbio non passò, per non annacquare il concetto di missione; in compenso fu aggiunta questa nota: «È evidente che in questa nozione dell’attività missionaria sono incluse obiettivamente anche le parti dell’America Latina, in cui non c’è né gerarchia propria, né maturità di vita cristiana né sufficiente predicazione del vangelo» (AG 6, nota 15).
Con questa nota l’America Latina continuava a ritenersi «terra di missione» in senso passivo e geografico, in quanto vari gruppi umani si presumevano già cristianizzati, ma ancora ignoranti o indifferenti circa la fede cristiana.
Ma a partire dalla seconda metà del secolo xx nella chiesa latinoamericana si è fatta strada la coscienza dell’evangelizzazione in senso specifico, come annuncio del vangelo ai gruppi umani più emarginati, per renderli capaci di un incontro personale col Cristo vivente, attraverso una vera conversione e la sequela.
RINNOVAMENTO DAL BASSO
Cominciò negli anni ’50. Vari missionari impegnati nei paesi delle Ande (Bolivia, Perù, Ecuador) e Centroamerica (Messico e Guatemala), dove si concentra il 90% dei popoli indigeni, sentirono l’urgenza di una nuova evangelizzazione. A tale scopo formarono catechisti e animatori responsabili di annunciare il vangelo nella propria lingua, guidare il culto e la vita ecclesiale delle proprie comunità; soprattutto, studiarono le esperienze religiose ed espressioni culturali dei vari gruppi etnici, le confrontarono con le sacre scritture e le valorizzarono per esprimere la fede cristiana in termini comprensibili ai membri delle singole culture e farla rivivere secondo la loro identità.
Nasceva così la missiologia latinoamericana, le cui radici non sono nelle facoltà teologiche, ma nelle sfide di base dell’apostolato locale.
A risvegliare la coscienza missionaria della chiesa latinoamericana ha contribuito, soprattutto, il rinnovamento della teologia cattolica, operato dal Vaticano ii. Nel 1966, il Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) prese sul serio l’affermazione conciliare che l’intera chiesa è missionaria «per sua natura», che ogni battezzato è responsabile dell’annuncio del vangelo ai non cristiani (Ad Gentes 2). Per animare le singole conferenze episcopali, il Celam diede vita al Departamento de missiones (Demis).
Questo si mise subito al lavoro: in due incontri (nel 1967 in Ecuador e nel 1968 in Colombia) cominciò a identificare le situazioni specifiche missionarie, a stabilire le priorità e tracciare le linee guida della nuova evangelizzione. Fu coniato il termine «situazioni missionarie», riferite ai gruppi umani da evangelizzare, non perché vivono in giurisdizioni ufficialmente designate come «territori di missione», ma perché le loro culture non hanno ancora incontrato la forza vivificante del vangelo.
Erano gli anni in cui si stava affermando la teologia della liberazione: essa si interessava anche degli indigeni, ma quasi esclusivamente sotto l’aspetto socio-economico, dando poca importanza a quello culturale. Perfino la seconda Conferenza del Celam, tenuta a Medellín nel 1968, pur riconoscendo l’esistenza dei popoli indigeni, li considerò come gruppi socialmente emarginati, non come popoli la cui identità culturale sfidava la chiesa nell’attività missionaria specifica.
Ma poiché il 90% degli indigeni era concentrato in soli 5 paesi; le altre 17 conferenze episcopali prestarono poco interesse al lavoro del Demis, considerato come un dipartimento del Celam per gli affari indios o di antropologia.
Anzi, la proposta di mons. Samuel Ruiz, vescovo del Chiapas (Messico), presidente del Demis dal 1969 al 1974, di formare chiese diversificate tra i popoli indigeni fu considerata irrealistica, un’esagerazione, se non una minaccia.
Ironia della sorte, gli orientamenti teologici e pastorali del vescovo messicano, sono diventati dottrina ufficiale della chiesa, da quando Paolo vi, in Evangelii nuntiandi (1975), parla di «evangelizzazione delle culture».
LA GRANDE SVOLTA
Dal 1975, grazie all’Evangelii nuntiandi, vescovi e teologi latinoamericani cominciarono a prendere sul serio la relazione tra vangelo e cultura. La terza Assemblea generale del Celam (Puebla 1979) segnò una svolta di 360 gradi nella coscienza e azione missionaria: i vescovi riconobbero l’esistenza di «situazioni missionarie» non solo tra gli indigeni, ma anche tra gli afroamericani (30% della popolazione del continente), a lungo ignorati dall’apostolato della chiesa ed ora considerati «i più poveri dei poveri», una «situazione missionaria permanente».
Se fino a Puebla erano stati i missionari a promuovere la valorizzazione teologica delle culture tradizionali, da quel momento saranno i pensatori indigeni e afroamericani ad approfondire tale argomento, nella ricerca di una teologia propria: si cominciò a parlare di «teologia india» e «teologia afroamericana».
CONGRESSI MISSIONARI
Il cambiamento più profondo aperto da Puebla è il senso di urgenza impresso alla chiesa latinoamericana ad accogliere la sfida dell’evangelizzazione dei popoli fuori delle proprie frontiere, in Africa e Asia, «dando dalla propria povertà» (DP 368) di personale e mezzi.
A svegliare e forgiare questo nuovo spirito missionario furono, negli ultimi 25 anni, i congressi missionari. Già prima di Puebla, le Pontificie opere missionarie (Pom) ne avevano organizzati alcuni a livello nazionale; a quello messicano, tenuto a Torreón nel 1977, parteciparono vari delegati dei paesi latinoamericani e furono presi impegni sull’animazione missionaria e vocazioni missionarie a livello continentale. Così nacque il Comla (Congresso missionario latinoamericano), sigla ufficiale ratificata nel secondo convegno, tenuto a Tlaxcala (Messico) nel 1983. Come segno di comunione e partecipazione all’evangelizzazione del mondo, fu richiesto alle diocesi più ricche di personale di inviare i loro sacerdoti alle chiese più bisognose.
Il terzo Comla, tenuto a Bogotá nel 1987, ribadì la responsabilità missionaria delle chiese diocesane. Il quarto, celebrato a Lima nel 1991, mobilitò la chiesa latinoamericana nell’invio di missionari ad gentes, come atto fondamentale della propria fede. Il quinto Comla, nel 1995 a Belo Horizonte (Brasile), mise in risalto i problemi dell’inculturazione e la vocazione missionaria degli afroamericani.
Sulle orme del Sinodo dei vescovi d’America (1997), che «considerò il continente come una realtà unica», missionari provenienti dal Canada alla Terra del Fuoco parteciparono al sesto Comla, tenuto nel 1999 a Paraná (Argentina), che diventò il primo Congresso americano missionario (Cam1).
PONTE TRA NORD E SUD

Il Cam2-Comla7 si è tenuto nella capitale del Guatemala dal 25 al 30 novembre 2003. La scelta di questo paese è estremamente significativa: il Centroamerica è cuore del continente, un ponte che unisce nord e sud e ha il compito di favorire la comunione e la solidarietà effettiva tra tutti i popoli americani.
In un’atmosfera quasi pentecostale, dinamica, entusiasta e ricchezza di simboli, hanno partecipato oltre 3.000 congressisti: 8 cardinali, 113 vescovi, 800 tra sacerdoti, religiosi e religiose, diaconi e pellegrini provenienti dalle regioni delle Americhe.
Partendo dal motto «Chiesa in America, la tua vita è missione», nelle conferenze e riflessioni di gruppo sono stati dibattuti temi legati alla missione: spiritualità e nuovi cammini di animazione e formazione delle chiese locali e comunità parrocchiali, inculturazione e dialogo interreligioso, le attuali sfide della migrazione e globalizzazione.
«La missione a partire dalla piccolezza, povertà e martirio» è stato certamente il tema chiave di tutto il congresso, sviluppato e approfondito nelle sue radici evangeliche. Il Guatemala ne era una icona vivente: paese piccolo, povero e, soprattutto, insanguinato dalla persecuzione e uccisione di migliaia di martiri, catechisti e semplici fedeli, oltre a preti, religiosi e religiose, per culminare con l’assassinio di mons. Juan José Girardi (1998).
Un applauso commosso ha accolto la proposta di avviare il processo di beatificazione di 103 martiri guatemaltechi, la cui documentazione storica è foita nella ricerca che è costata la vita a mons. Girardi.
Suggestiva è stata pure la liturgia della giornata dedicata alla «missione e martirio». In una preghiera in rito tradizionale maya, un gruppo di donne sono entrate in chiesa danzando e portando con sé pane, acqua delle sorgenti delle loro montagne, il fuoco, l’incenso, la bibbia tradotta nella loro lingua, le foto dei martiri e le loro reliquie. Hanno pregato per le tante vedove provate dalla violenza, ma anche per la vita che continua a nascere. Per intercessione di tutti i loro martiri, hanno rivolto la preghiera a Dio Padre/Madre, creatore e formatore.
La preghiera ha richiamato, ancora una volta, l’attenzione sulla possibilità di «evangelizzare» i riti tradizionali e «inculturare» il messaggio evangelico nel contesto culturale maya e di altre etnie.
VERSO IL FUTURO
I temi trattati sono stati ripresi e sintetizzati nel messaggio finale, inviato alle chiese del continente, intitolato: «Non possiamo tacere ciò che abbiamo visto e sentito». Senza cedere all’enfasi retorica, il documento vuole «parlare» alla chiesa universale e al mondo intero, con la consapevolezza del contributo originale che le chiese d’America possono dare proprio a partire dalla loro povertà e martirio.
Nel messaggio viene riaffermata «l’unità fondamentale» di tutti i popoli del continente, che deriva «dalla comunione nella stessa fede, stessa speranza e stessa carità»; un’unità che neppure le frontiere esistenti tra i diversi paesi e le barriere rappresentate dalle differenti lingue e culture possono ostacolare.
Il documento offre pure indicazioni per il cammino futuro. La più concreta è certamente la decisione di aprire nell’America Centrale, entro il 2005, un «Centro per la formazione e animazione dei missionari ad gentes», in cui sono coinvolti tutti gli episcopati della regione.
Il tema della «piccolezza, povertà e martirio» è una ennesima occasione per sottolineare la dignità di quelle popolazioni americane che, nonostante l’emarginazione economica e sociale, sono immensamente ricche, perché possiedono la fede.
Non poteva mancare nel testo un riferimento esplicito alla presenza al Congresso degli indigeni del Guatemala, che hanno suscitato profonda impressione in tutta l’assemblea. «Con la loro preghiera – dice il messaggio – gli indigeni ci portano a contemplare Dio nella creazione, a confidargli dolore e sofferenza, a conservare la speranza, anche quando l’orizzonte sembra completamente buio, a scoprire la sua presenza provvidenziale nelle cose e nei gesti più semplici, a ringraziarlo». Di fronte alla fede degli indigeni, prosegue il testo, si rafforza in tutti la convinzione che «il regno di Dio nasce nei cuori dalla piccolezza, povertà e martirio».
Naturalmente, viene ribadito l’invito alla missione ad gentes: «Dobbiamo condividere ciò che di più bello abbiamo ricevuto nel giorno del battesimo: il dono della fede». In tale prospettiva entrano anche il problema degli immigrati e il fermo impegno delle chiese d’origine ad accompagnarli e delle chiese di destinazione ad accoglierli con maggior calore.
Uomini e donne del Centroamerica, come i primi cristiani fuggiti da Gerusalemme a causa della persecuzione, arrivando nel nord del continente «armati della loro fede profonda e del loro immenso amore alla chiesa», possono ricordare a quanti vivono nell’abbondanza i valori autentici del vangelo.
L’ultimo punto riprende il titolo del messaggio. «Non possiamo tacere ciò che abbiamo visto e sentito», ossia l’incontro con Cristo risorto. Da qui un lungo elenco di richiami a fare della missione la propria vita: dai bambini, che sono «la primavera missionaria della chiesa»; ai giovani, perché dedichino la loro vita a Cristo; ai cristiani, chiamati ad essere missionari in virtù del battesimo; ai consacrati, chiamati alla sequela radicale di Cristo; ai presbiteri, perché siano disponibili ad essere inviati in ogni parte della terra, in virtù dell’ordinazione; ai vescovi, perché vivano a fondo la natura missionaria del loro ministero.

Benedetto Bellesi




Un’immensa vergogna

Guerre, differenze etniche, cupidigia dei paesi vicini hanno fatto dell’est della Repubblica democratica del Congo una zona di «non-diritto» assoluto.
Ai massacri e saccheggi, bisogna aggiungere l’orrore delle violenze sessuali.

«Èarrivata ieri sera; cinque uomini armati l’hanno violentata la notte precedente, a qualche chilometro da qui – confida Mathilde Muhindo, direttrice di una struttura di aiuti sociali della diocesi di Bukavu, nell’estremità est della Repubblica democratica del Congo -. Questa mattina piangeva continuamente. Ho pianto con lei».
Uscendo dal suo ufficio, si scorge, attraverso una finestra, la silhouette di una donna, dalle spalle ripiegate, il viso nascosto tra le mani, seduta raggomitolata su se stessa al bordo del letto. Di fronte, lo sguardo abbraccia un paesaggio di infinita tranquillità. Lontano, le colline del Rwanda emergono dalla foschia. Sullo sfondo di un grigio intenso, le acque del lago Kivu riflettono come uno specchio.
«Nel 2000, sono arrivate le prime donne con lesioni mai viste in precedenza. Raccontavano storie raccapriccianti per spiegare le loro ferite» ricorda il dottor Denis Mukwege, direttore dell’ospedale di Panzi, a qualche chilometro dal centro della città.
le origini del conflitto
Tutto era iniziato nel 1994. Il Fronte patriottico rwandese, dominato dai tutsi, aveva messo fine al genocidio pianificato da Hutu Power (probabilmente 800 mila morti) prendendo il potere in Rwanda. I cosiddetti autori del «genocidio» fuggirono in Congo: circa un milione e mezzo di rifugiati hutu, reclutati contro il regime rwandese. Per arrivare ad una soluzione, quest’ultimo iniziava una prima guerra nel 1996, sul suolo congolese, durante la quale fu «necessario» decimare almeno 200 mila di questi rifugiati (uomini, donne, anziani, bambini…), indistintamente etichettati come «autori di genocidio», perché fuggivano davanti alle loro truppe.
Ma è stata la cultura di una violenza parossistica, alimentata dall’odio etnico, che ha trovato sfogo sul suolo del Congo, includendo lo stupro, come atto di genocidio.
Poi i fattori di sicurezza sono spariti davanti al «guadagno», obiettivo supremo della «seconda guerra», iniziata nel 1998. «Reti d’élites», secondo la definizione di esperti dell’Onu, composti di capi militari, dirigenti politici, imprenditori senza scrupoli, a Kigali, a Kampala e oltre, appoggiati dalla mafia internazionale, hanno saccheggiato le risorse dell’est del Congo (diamanti, oro, legname…), costruendo i loro circuiti economici per profitti personali. Hanno dovuto perciò ricorrere alla forza, ma senza fare apparire i loro obiettivi reali.
Rwanda e Uganda hanno mascherato le loro imprese di saccheggio, mantenendo quasi clandestinamente truppe più o meno regolari e, soprattutto, pilotando bande armate, sempre a forte connotazione etnica, organizzate secondo i bisogni dei loro mandanti. Gli scontri sono stati raramente seguiti da vittorie o disfatte definitive, poiché l’insicurezza doveva perpetuarsi per giustificare una militarizzazione della regione, indispensabile a coprire i saccheggi. Le popolazioni hanno pagato un prezzo terrificante.
Secondo le stime di un gruppo di esperti dell’Onu, il numero dei morti «supplementari», direttamente imputabili all’occupazione rwandese e ugandese, può essere valutata tra i 3 e i 3,5 milioni. Questo conflitto è stato il più micidiale dalla seconda guerra mondiale. In certe zone del Congo, le inchieste di «Medici senza frontiere» hanno stabilito che un bambino su quattro muore prima dei cinque anni: «Questi posti sono i più toccati dalla mortalità nel mondo».
Infine, le violenze sessuali sono state senza precedenti per numero, il loro carattere sistematico, la brutalità e la perversità con cui sono state fatte. Secondo un dipartimento dell’Onu, «in media, una quarantina di donne erano quotidianamente violentate, tra ottobre 2002 e febbraio 2003, nella città di Uvira e dintorni», dove vivono quotidianamente 200-300 mila persone. Una rete di 8 Ong locali, appoggiate da Inteational Rescue Comittee, ha raccolto ogni mese circa un migliaio di donne, ragazze e ragazzi, vittime delle violenze nel nord e sud di Kivu.
Il centro di Mathilde Muhindo, da solo, ne ha ricevuti, unicamente in giugno, ben 145. Sovraccarichi, alcuni di questi centri ricevevano le donne a gruppi di dieci. Le comunità parrocchiali, che avevano un ruolo determinante nella prima assistenza, dovevano mandarle unicamente a tuo.
E questa è solo una piccolissima parte visibile dell’iceberg. Arrivavano solamente le donne informate dell’esistenza di queste strutture di sostegno, abbastanza forti da recarsi in questi centri, camminando, a volte, per parecchi giorni. Poiché c’erano anche saccheggi sistematici, venivano spesso ridotte a chiedere a una vicina un vestito. Dovevano poi pagare il «diritto di passaggio» ad ogni sbarramento che incontravano e pure le spese mediche; poche tra loro sapevano che questo tipo di cure era quasi gratuito: un’eccezione, in un paese in cui le strutture sanitarie sono obbligate ad essere interamente autofinanziate. Queste vittime hanno soprattutto osato rompere il tabù della condanna, che tocca tutte le donne violentate.
una popolazione
«scorticata viva»
L’assalto generale iniziava, di solito, qualche ora prima del calare della notte. Dopo aver accerchiato un villaggio, gli uomini armati si dividevano in gruppi, che saccheggiavano e violentavano a tuo. Verso le due, tre del mattino, requisivano degli uomini per portare il bottino fino alla base. Le bande armate più irregolari, quelle i cui rifugi si trovavano nelle foreste, mai-mai e hutu armati, rapivano donne e ragazze. Queste diventavano loro schiave sessuali e domestiche per settimane o mesi e, a volte, venivano scambiate da una banda all’altra.
Le violenze sessuali erano così frequenti, da diventare quasi una norma: più uomini violentavano una donna e a più riprese. Il marito veniva legato in una specie di gabbia, i bambini portati vicino e tutti erano costretti ad essere presenti. «Otto o dieci mi hanno violentata – confida una vittima -. Mio marito me l’ha detto». Lei era, infatti, svenuta molto prima della fine.
Sempre più gli assalitori obbligavano a degli incesti tra padri e figlie o fratelli e sorelle. Arrivavano a sodomizzare gli uomini, una pratica assolutamente inconcepibile nelle campagne africane. L’età delle vittime andava dai 4 agli 80 anni. «Ne ha quattordici» mormora l’infermiere che è accanto ad una ragazza, alla quale il dolore chiude gli occhi a metà.
La sala, che ospita una ventina di pazienti, è stranamente vuota e silenziosa: in un ospedale africano, famiglie rumorose e indaffarate circondano abitualmente il malato. Tutte o quasi sono attaccate a sonde. «Sappiate che l’odore è molto forte» aveva avvisato un medico. Seduta sul letto, una donna lavora ai ferri una matassa di un bianco luminoso e un’altra di un verde brillante, i due colori tradizionali del corredino per neonati. Di fronte, un uomo prega, dondolando la testa, la mano posta sulla fronte di una malata senza vita. Un quinto dei 250 letti dell’ospedale di Panzi è occupato da donne, che devono subire sino a sei interventi chirurgici per riparare le violenze sessuali subite, o devono essere trattate per le mutilazioni. Nell’ospedale, queste donne sono due o tre volte più numerose dei civili, ricoverati per ferite d’armi, e quattro o cinque volte di più dei militari, curati per le stesse ragioni.
Il tasso di sieropositività dei pazienti è del 19% secondo alcune statistiche mediche, del 30% secondo altre. La metà è colpita dalla sifilide e ciò moltiplica i rischi di un ulteriore contagio. Si calcola che almeno due terzi dei combattenti regolari o irregolari siano contaminati dall’Aids. Di fronte a una popolazione «scorticata viva» da una lunga e crudele guerra, queste percentuali sono sufficienti per denunciare il piano machiavellico di sterminio, un vero tentativo di «genocidio».
Argomento supplementare: questa ondata di stupri sarebbe partita dalle file dell’esercito regolare rwandese, agli inizi del 2000, quando Kigali aveva deciso di fare dell’est congolese il suo punto d’appoggio, per rendere il Congo intero suo satellite. Si è concordi, oggi, nell’affermare che tutti i gruppi armati, senza nessuna eccezione, si sono dedicati a queste pratiche e le peggiori sono probabilmente state le bande armate hutu.
Ma perché? Mathilde Muhindo evoca inizialmente «la violenza per la violenza», dato che «i combattenti non sapevano più perché si battevano e neppure contro chi». Ma l’aumento della barbarie sarebbe stato soprattutto «un’arma di guerra», un tentativo di destabilizzazione pianificata, non solamente con le armi, ma anche con l’Aids e la fame.
«Pianificata»? Nessuno ne ha la prova formale. Ma, nell’est del Congo, violentare (anche con estrema ferocia) «è il lavoro dei militari», gridava uno di loro a una sua vittima. L’impunità totale dei colpevoli era quasi sempre assicurata, anche quando la popolazione riusciva a catturarli e consegnarli alle autorità. Il comando lasciava fare, compreso quello dell’esercito rwandese, famoso per la sua disciplina.
La migliore prova, come ha rivelato Human Rights Watch, è che, se le truppe e la guerriglia rwandese rispettavano «più o meno» i diritti di guerra sul suolo del loro paese, questo ritegno spariva quando erano fuori; in Kivu, per esempio.
Queste violenze sono state «una guerra nella guerra» sostiene l’organizzazione; «una dimostrazione di forza» afferma un medico. Bisognava dimostrare al marito, alla famiglia, al villaggio che erano tutti impotenti. È come se i violentatori avessero detto loro: «Noi possiamo farvi tutto ciò che vogliamo». Umiliare e terrorizzare, dimostrando l’assenza di ogni ricorso, finché la popolazione si rassegnasse a sottomettersi. «Non siamo andati in Congo per essere popolari; sicuramente non per mostrare ai congolesi quanto siamo buoni» aveva avvertito Paul Kagamé, l’uomo forte di Kigali.
ridotte ad essere
«più nulla»
Destabilizzazione economica anche. La produzione e il commercio agricolo sono entrati in caduta libera: la popolazione cercava rifugio lontano dai villaggi per passare la notte, ma le aggressioni si moltiplicavano anche in pieno giorno, nei campi e per le strade. Sono le donne che coltivano; per questo erano costrette a recarsi a lavorare in gruppo nei campi di una di loro, sperando che il numero desse un po’ di protezione.
Le donne assicurano anche il piccolo commercio tra villaggi e città, ma le violenze sessuali avevano reso ogni spostamento sempre più azzardato. E la malnutrizione saliva vertiginosamente. «C’era una politica deliberata per svuotare le campagne e fare affluire la gente nelle città, dove non c’era da mangiare» afferma un’alta personalità religiosa. Una politica che racchiude assalitori e vittime in una spirale infeale: da suicidio per i primi, omicidio per le seconde.
Mentre aumentava la violenza, diminuiva la produzione; poiché gli assalitori trovavano sempre meno da saccheggiare, le estorsioni diventano sempre più violente. I loro capi facevano bene attenzione a non dare nemmeno il minimo salario e il cibo, ad eccezione delle truppe regolari del Rwanda.
Destabilizzazione morale e sociale. «Ho dovuto aprire il mio pareo davanti a qualcuno che non era mio marito – dicono le vittime -; il violentatore mi ha ridotta a non essere più nulla», soprattutto perché marito, figli e villaggio ne sono a conoscenza. Tutte e tutti risentono di un’immensa vergogna. «Avrò la malattia che non ho cercato» temono tutte. «Da noi – precisa un avvocato – un uomo non riprende una donna che è stata con un altro, anche se violentata: è come un atto di infedeltà». Numerose tra loro sono ripudiate, una donna senza marito è relegata sullo scalino più basso della scala sociale.
Infine, essendo state sistematicamente derubate e spogliate di ogni utensile da cucina, anche del più piccolo attrezzo agricolo, come potrebbero assumere quello che è considerato il loro ruolo principale: curare e nutrire la famiglia?
«Tuttavia, queste donne restano in generale estremamente forti» constata Karin Watcher, che dirige un programma dell’Inteational Rescue Committee. Nelle riunioni alle quali chiedono di partecipare, sono zappe, semi, pentole le priorità di cui fanno richiesta.
Sono queste stesse forze che una suora, specializzata nel diminuire il trauma delle vittime, cerca di tirare fuori, chiedendo loro, senza stancarsi: «Cosa non ti hanno tolto?», finché lo trovano esse stesse: l’amore che hanno per i figli e il marito. Senza sosta, fa loro raccontare le circostanze della violenza subìta, insistendo su ciò che hanno tentato per sfuggirvi.
Allora, racconta la suora, si risollevano, anche fisicamente, come se stessero per ritrovare la loro fierezza e dignità. Si ricordano: «Ho resistito, fino al limite delle mie forze».

Tradotto e adattato da: René Lefort, La guerra nella guerra. Violenze sessuali contro donne e ragazze nell’est del Congo, in «Human Rights Watch», giugno 2002.

Renè Lefort




Romano d’Africa

Per la prima volta Romano Prodi, presidente della Commissione europea, si è recato in visita ufficiale inAfrica dell’Ovest, toccando Senegal, Costa d’Avorio e Burkina Faso.
Al centro dei suoi incontri la cooperazione tra i paesi dell’area e i rapporti
con l’Unione europea. Ma soprattutto una grande preoccupazione: portare la pace in Costa d’Avorio.
Missioni Consolata l’ha intervistato in esclusiva per i propri lettori.

Romano Prodi si presenta nell’edificio della delegazione della Commissione europea a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, poco prima del suo ritorno in Europa.
Dopo un’intensa giornata durante la quale ha lavorato con il presidente della Repubblica Blaise Compaoré e con il primo ministro Paramanga Yonli; ha fatto un discorso all’Assemblea nazionale (il parlamento); ha visitato la sede dell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (Uemoa), incontrando il suo omologo, Moussa Touré, e i commissari al completo. È stato anche fuori città, a visitare la diga di Ziga, finanziata in parte dall’Ue, che crea un bacino di 200 milioni di metri cubi d’acqua e salverà la capitale dalla penuria idrica.
Arriva dopo un incontro imprevisto (almeno nell’agenda ufficiale) a tre, con Compaoré e il primo ministro avoriano Seydou Diarra. Nell’aria c’è il tentativo di sbloccare la crisi in Costa d’Avorio, paese testa di ponte per l’economia di questa regione. Crisi che ha collegamenti con il vicino Burkina Faso.
Appare un po’ stanco, Romano Prodi, lo si vede dal volto, ma anche visibilmente soddisfatto. Lo dice lui stesso, e sembra a suo agio nell’edificio moderno, perennemente immerso nell’aria condizionata. Scherza con la padrona di casa, la sorridente signora Sari Suomalainen, ambasciatore e rappresentante della Commissione europea in questo paese. Parla in un buon francese, al quale trasferisce il suo intercalare riflessivo. È accompagnato dal ministro degli Esteri Youssouf Ouedraogo e, soprattutto, dal suo consigliere speciale, con il quale si scambiano occhiate, gesti e fogliettini.
L’ultimo atto ufficiale del suo viaggio è la colorata conferenza stampa affollata da giornalisti burkinabè. Chi in gran boubou (vestito lungo maschile, di alto livello, ndr), chi in sgargianti camicione africane e chi in tenuta più occidentale. È incuriosito della presenza, in questo contesto, di un giornalista italiano, forse il più folkloristico, perché l’unico non africano.
Mi avvicino e, mentre la guardia del corpo mi ringhia di sparire, lui la blocca con uno sguardo, mi prende per un braccio come mi conoscesse e chiede: «Mi dica, lei per chi scrive?». Per tutta risposta, io gli allungo in mano una copia del numero monografico di MC sulle guerre. «Ah! Missioni Consolata – dice compiaciuto -. La conosco, allora! Bene, bene, mi fa piacere che lei sia qui».

Signor presidente, al termine della sua visita che impressioni ha avuto della democrazia in questi tre paesi?
«Sono molto incoraggiato perché la democrazia ha fatto dei progressi, c’è un dibattito politico molto forte, vivo e c’è un desiderio di cooperazione tra paesi. Ma è per questo che la situazione avoriana mi rende triste, perché la Costa d’Avorio ha una grande tradizione democratica, e adesso, come ho detto ieri ai vostri colleghi avoriani, il linguaggio dei giornali e dei media avoriani, così forte, si sente l’odio. È molto preoccupante, da un’idea di una lotta politica troppo dura e con molte tensioni».
(Romano Prodi si riferisce ad alcuni quotidiani, ma anche la televisione nazionale in Costa d’Avorio che, a più riprese, hanno incitato alla caccia all’immigrato, vedi MC ottobre 2003).

Da settembre in Costa d’Avorio i ministri delle Forze nuove, gli ex ribelli, contestano le scelte del presidente Gbagbo sostenendo che non rispetta gli accordi di Marcoussis (località vicino a Parigi dove si firmarono gli accordi a gennaio 2003). Il processo di pace è bloccato e il paese spaccato in due. Lei ha incontrato il presidente e il primo ministro Diarra. Pochi minuti fa ha avuto ancora un incontro con Diarra e il presidente burkinabè Compaoré. Cosa sta cercando di fare l’Ue per risolvere la crisi?
«Penso di aver lavorato per, e penso sia meglio che le Forze nuove entrino nel governo, per poter ritrovare l’unità del paese. Sicuramente, allo stesso tempo, bisogna impegnarsi ad approvare e mettere in opera le nuove leggi, definite a Marcoussis: proprietà fondiaria, cittadinanza, voto.
Non so se ci sono riuscito, non ho alcun potere di imporre la mia volontà, perché questa è una decisione della Costa d’Avorio, ma io ho tentato tutte le pressioni possibili, nel limite del rispetto del paese. Ho incontrato il primo ministro con il presidente Compaoré, abbiamo parlato insieme, perché bisogna dire le stesse cose in tutti i campi. Penso che sia stato molto utile parlare in modo aperto tra amici. E spero che produrrà delle conseguenze positive. Io ho fatto e farò tutti gli sforzi, perché il problema è di terribile urgenza. Il paese è diviso, l’economia di tutti i paesi (dell’Africa dell’Ovest) Burkina Faso incluso, ha sofferto molto, non si può fare alcuna organizzazione di tipo regionale senza la Costa d’Avorio, allora bisogna fare tutto per chiudere la crisi.
Il giorno della conclusione a Kleber (ultimo atto di Marcoussis, ndr.) mi sono impegnato con 400 milioni di euro e li ho preparati, di urgenza. Non abbiamo sospeso, ma è impossibile versare questi soldi, perché sono legati alla pacificazione e alla riunificazione. Abbiamo chiari i problemi della sofferenza del popolo e non sospendiamo l’aiuto umanitario. Ma questa è una quantità di soldi straordinaria per il rilancio della vita politica condizionato all’applicazione concreta delle decisioni di Marcoussis».

La pace è imprescindibile per lo sviluppo. Ma le guerre nel mondo e in Africa sono in aumento. Qual è il ruolo dell’Ue nella prevenzione dei conflitti?
«La via scelta è sempre stata quella di favorire in anticipo le cornoperazioni regionali. Quando c’è una cooperazione regionale che funziona bene il conflitto non viene, proprio perché esiste una rete di protezione di conoscenza dall’esterno. Purtroppo nel caso della Costa d’Avorio il conflitto è partito lo stesso, però secondo me sono stati proprio i legami inteazionali che hanno impedito che diventasse sanguinoso. Nonostante tutto se non abbiamo avuto le stragi e le tragedie che ci sono state in altri paesi, penso sia perché abbiamo lavorato molto sulla cooperazione regionale. Non vedo altre misure di prevenzione dei conflitti con gli strumenti che abbiamo oggi».

A livello concreto cosa vuol dire?
«Appoggiare le istituzioni regionali, come l’Uemoa, a livello di budget come facciamo, fino alla cooperazione, anche di carattere militare. Siamo arrivati al punto di dire che siamo disponibili, quando sarà capace di farlo, di dare all’Unione Africana i mezzi finanziari per costruire una forza di pace, perché io sono convintissimo che è inutile che noi pensiamo che la pace in Africa possa essere garantita da forze estee».
La riduzione della povertà è l’obiettivo centrale dell’accordo di Cotonou. Quali politiche e metodi l’Ue sta mettendo in pratica affinché i poveri non siano esclusi dalla crescita economica, per ottenere un vero sviluppo sostenibile?
«Con Cotonou abbiamo delle strategie ben definite, di aiuto agli investimenti, di aiuto alla riorganizzazione della società civile, ma anche di aiuto alla cooperazione internazionale (intesa tra paesi limitrofi, ndr.), perché per noi lo sviluppo dei paesi isolati è quasi impossibile. Abbiamo incontrato il presidente dell’Uemoa e abbiamo detto che la cooperazione è stata necessaria in Europa, ma è ancora più necessaria nei paesi poveri, altrimenti non ci sarà mai uno sviluppo. Non abbiamo imposto delle dottrine generali per tutti i paesi. Per noi è soprattutto un dialogo di tipo paritario».

L’Ue è molto avanzata in termini di integrazione. Cosa devono fare i paesi dell’Uemoa per raggiungere gli stessi risultati?
«La pace! – esclama Romano Prodi con un guizzo negli occhi -. Le strutture di cooperazione di questi paesi sono molto simili alle nostre, hanno avuto l’unione monetaria prima di noi. Il problema è di seguire la strada che hanno iniziato. Capite perché per me il problema della Costa d’Avorio è un’ossessione, non c’è alcuna possibilità di fare una vera cooperazione senza quel paese. Il presidente dell’Uemoa mi ha appena detto che, dal momento in cui c’è stata la crisi, ha perso 40% del budget. In questo modo non c’è alcuna possibilità di avere un funzionamento effettivo dell’istituzione».

E che appoggio l’Unione europea può portare all’Uemoa?
«Noi abbiamo un programma di lavoro in comune, contatti regolari e un sostegno completo. L’Uemoa è anche il pivot dell’accordo di partenariato economico, che abbiamo firmato in ottobre, tra Ue e Africa dell’Ovest. Noi abbiamo cercato una cooperazione internazionale non solamente su rapporti bilaterali. Penso che sia la sola via per lo sviluppo di questa regione».

L’incontro dell’Organizzazione mondiale del commercio a Cancun doveva essere l’incontro tra paesi poveri e ricchi sul piano commerciale. È stato un fallimento. Che fare adesso?
«Chiaro che siamo delusi dal fallimento di Cancun, ma non abbassiamo le braccia, perché il mondo, e soprattutto i paesi meno sviluppati hanno bisogno di regole che li proteggano dall’arbitrario e dall’unilateralismo».

Un gruppo di paesi africani, tra cui il Burkina Faso, a Cancun ha chiesto la revisione delle politiche di sovvenzione di Ue e Usa sulla produzione del cotone, bene primario di esportazione per questi paesi. L’accordo non c’è stato. Quali sono i vostri impegni concreti?
«Non è solo un impegno. Abbiamo già deciso di ridurre del 60% il sostegno ai prezzi del cotone, questo per diminuire il problema di concorrenza ai produttori africani. Il 40% resta, ma mi sono impegnato a spingere per riformare anche questo, pur non avendo scadenze certe. Nella nostra politica è chiaro che occorre aiutare i paesi africani ad avere un potere sul mercato del cotone; oggi ciò è impedito a causa delle sovvenzioni ai produttori, negli Usa e in Europa. Noi abbiamo modificato la politica agricola, ma vorrei andare a fondo della questione e dire agli Usa che anche loro dovrebbero cambiarla».

Quale politica dell’Ue sull’immigrazione, nel momento in cui gli stati membri stanno edificando dei muri per proteggere la fortezza Europa?
«La politica europea sull’immigrazione è ancora in fase di costruzione. Abbiamo approvato l’Agenzia per l’immigrazione, che è un’istituzione molto importante ma con funzioni soprattutto tecniche di cooperazione. La Commissione aveva proposto di definire con i paesi dell’Africa e soprattutto del Mediterraneo delle quote di immigrazione, ma non è stato possibile. Questo ambito resta quindi degli stati membri. Secondo me tra pochi anni non sarà più possibile avere una politica frammentaria e sarà necessaria una politica europea».

Ma con l’allargamento dell’Unione non sarà ancora più complesso?
«Con l’allargamento dal punto pratico la situazione dell’immigrazione africana cambierà, perché pensiamo che, con l’allargamento, avremo un’immigrazione dai 10 nuovi paesi verso gli attuali. Da questo punto di vista, secondo me non c’è più spazio per l’immigrazione non europea. È chiaro che i flussi diminuiranno nel momento in cui ci sarà una nuova speranza di sviluppo. E nei paesi membri dell’allargamento c’è una nuova speranza di sviluppo interno».

Alcune associazioni burkinabè chiedono l’annullamento del debito estero. Lei cosa risponde?
«Non abbiamo alcun potere diretto sul debito perché è gestito da altre istituzioni, ma la posizione della Commissione è sempre stata in favore della remissione del debito dei paesi più poveri nelle condizioni definite. Noi abbiamo sempre votato e spinto in favore di questo».

Marco Bello




La pietà affogata nella retorica

Sacrificio per la patria o tragedia dell’irresponsabilità umana?
Lacrime pubbliche o lacrime private? Guerra al terrorismo o lotta al terrorismo? Missioni di guerra o missioni di pace? Soldi pubblici ai bilanci militari
o allo stato sociale? Gioalismo al servizio del potere o giornalismo al servizio della verità? A mente fredda, abbiamo chiesto ad alcuni uomini di chiesa com’è cambiata l’Italia dopo la strage di Nassiriya nell’interminabile guerra irachena e in un momento di terrorismo dilagante.
Le loro risposte sono state tutt’altro che scontate…

«Noi siamo i buoni. Cos’altro dobbiamo sapere?». Così ragionano, secondo il settimanale statunitense The Nation (1), i neo-conservatori che, con George W. Bush, guidano attualmente gli Usa.
In epoca di globalizzazione e di imitazione pedissequa delle idee del più forte, il ragionamento si è propagato per ogni dove. Le obiezioni e le critiche, ancorché motivate, sono subito messe a tacere, con le buone o con le cattive.
La guerra preventiva è lo strumento migliore contro il terrorismo? Perché, invece di ridursi, il fenomeno è aumentato a dismisura? I militari italiani in Iraq sono un contingente di guerra o di pace? L’articolo 11 della Costituzione italiana è stato rispettato? La risoluzione 1511 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (ovvero l’autorizzazione alla creazione di una forza multinazionale in Iraq) ha sanato ex post l’illegalità della guerra di George W. Bush? E ancora: si può ottenere il «burro» dai «cannoni»? Fuor di metafora, è lecito utilizzare le armi e le guerre per dare impulso all’economia? La risposta dovrebbe essere ovvia, ma la realtà dice l’opposto.
Lo scorso novembre il Congresso statunitense ha approvato il bilancio della difesa per il 2004: oltre 400 miliardi di dollari, il doppio del prodotto interno lordo (pil) della Danimarca, più di quello della Russia. In questi stessi mesi, il pil degli Usa è in crescita vertiginosa (e forse drogata), dopo un biennio di recessione. I due dati sono in stretta relazione: le spese militari hanno dato una spinta decisiva alla crescita dell’economia. È lecito chiedersi se è morale incentivare la crescita economica di un paese con spese immorali (e che, tra l’altro, andranno a danneggiare altri)?
Guardiamo all’Italia. La campagna Sbilanciamoci, promossa da 30 organizzazioni della società civile (da Altreconomia al Wwf, passando per Mani Tese e Pax Christi), ha prodotto uno straordinario libretto di 66 pagine dal titolo: Cambiamo finanziaria. Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace e l’ambiente (2). Se qualcuno dei grandi giornali italiani decidesse di regalare questo volumetto ai propri lettori (al posto dei consueti gadgets), farebbe un grande servizio all’informazione e soprattutto alla formazione degli italiani.
«La manovra 2004 – si legge a pagina 28 – prevede uno stanziamento (fondo di riserva) di 1 miliardo e 200 milioni di euro per le necessità finanziarie legate alla proroga delle “missioni di pace”. Ma quali “missioni di pace”? Quella in Iraq è ben altro: un contributo all’occupazione del paese, al di fuori delle decisioni dell’Onu. In sostanza un aumento surrettizio di oltre il 5% delle spese militari del nostro paese, che negli ultimi anni erano già aumentate del 10%. Anche perché (…) le missioni vengono poi finanziate con nuovi decreti ad hoc, e mai con i fondi del bilancio della Difesa. La presentazione dell’aumento come finanziamento delle “missioni di pace” è un modo per dare maggiore disponibilità di fondi alla Difesa che, tra l’altro, in questi anni li ha utilizzati male e con molti sprechi».

Nella maggior parte dei paesi occidentali i governi stanno tagliando le spese che vanno al cosiddetto «stato sociale» (welfare state): ancora meno soldi pubblici alla sanità, all’istruzione, all’assistenza, alla previdenza.
Oggi questi governi hanno una motivazione in più per tagliare i finanziamenti statali: la lotta al terrorismo, che ha bisogno di molte risorse. È un crescendo di intensità, con l’aiuto determinante dei telegiornali e dei programmi televisivi, non soltanto quelli di «approfondimento», ma anche quelli di «intrattenimento» (che raggiungono un pubblico più vasto e popolare).
Ormai è impossibile distinguere dove inizia il vero pericolo e dove quello costruito ad hoc. Padre Giulio Albanese parla di una «voglia di scontro di civiltà», secondo la nota tesi (3), che anche don Bruno Forte rifiuta in toto.
«I morti italiani in Iraq come quelli ebrei in Turchia – scrive il teologo napoletano (4) – non sono semplicemente vittime di una follia ideologica che falsamente si appella a ragioni religiose; essi pagano purtroppo anche il prezzo di scelte culturali e politiche sulla cui infondatezza storica, morale e religiosa si era levata fra tante la voce altissima di Giovanni Paolo II. Quando la Santa sede insisteva nel considerare la guerra in Iraq immorale, illegale, inutile e dannosa, la sua voce è stata disattesa».

Il 29 novembre è toccato alla Spagna pagare il fio dell’alleanza con gli Stati Uniti. In un agguato della guerriglia irachena sono stati uccisi 7 uomini appartenenti ai servizi segreti di Madrid. Oltre a queste nuove morti, quello che ha impressionato e, forse, fatto riflettere sono stati quei cadaveri presi a calci tra scene di giubilo.
Com’è possibile?, ci si è chiesti. Ormai tutto è possibile. Il vaso di Pandora dell’Iraq è stato scoperchiato e la violenza che ne esce sembra senza fine e soprattutto sembra travalicato ogni limite alla barbarie dell’uomo bellico.
Davanti alla deriva, non tutti riescono a stare zitti e ad accettare ogni giustificazione calata dall’alto. C’è anche qualcuno che osa dire l’indicibile: «Per quanto possa sembrare strano – ha scritto, ad esempio, il magistrato Domenico Gallo (5) -, non tutto il popolo iracheno ha considerato la conquista e l’occupazione militare americana come una “liberazione”».
Dalla fine della seconda guerra mondiale l’Italia si era ritagliata un importante ruolo di mediazione, di cerniera tra l’Europa e il mondo arabo-islamico. Con l’intervento nella guerra irachena (tra l’altro, per conto terzi) questo ruolo è stato gettato alle ortiche, esponendo il paese e la sua popolazione a possibili vendette dei terroristi.
All’indomani della strage di Nassiriya, su un importante quotidiano un giornalista parlò della «nuova Italia che non scappa» (6). Quasi che «il valore morale» di un paese dipendesse non dal proprio vivere civile all’interno e nel mondo, ma dal comportamento macho in una guerra. In quell’articolo si legge che, dopo Nassiriya, l’Italia non è più «l’Italietta di sempre», non è «un paese molle», ma un paese che ha ritrovato «l’orgoglio nazionale»…
Viene allora in mente padre Eesto Balducci: «L’uomo ha qualcosa di pre-umano in sé, ed è appunto l’aggressività distruttiva».

Paolo Moiola