INCHIESTA Multinazionale Gisas

Jesus (pronuncia gisas) risuona anche in Italia, da televisioni gestite da culti made in Usa e loro adepti. La Tbne (Trinity Broadcasting Network Europe), per esempio, piazza prodotti religiosi miracolosi. Alcuni abboccano, ma non molti.

Negli ultimi anni, l’offerta televisiva italiana si è «arricchita» di un nuovo prodotto: la Tbne (Trinity Broadcasting Network Europe), un canale televisivo di esclusiva programmazione religiosa, derivata dalla Tbn, televisione evangelical statunitense. (Evitiamo il termine evangelico, proprio delle chiese storiche del protestantesimo che si riconoscono nelle posizioni del Consiglio ecumenico delle chiese).
La Tbn è un colosso forte di 800 stazioni televisive sparse per il mondo e un patrimonio pari a 2 miliardi di euro. Per avere un termine di paragone: la capitalizzazione della Fiat ammonta a 5 miliardi di euro.
Ispirata da un pastore pentecostale dell’Assemblea di Dio, Paul Crouch, la Tbn fu fondata a Los Angeles nel 1978. Televisione eclettica, inizialmente molto spartana, essa dava voce ai predicatori più carismatici e di moda del tempo, alcuni dei quali coinvolti poi in scandali giudiziari e morali.
La Tbne italiana ha come scopo il proselitismo, ma non direttamente, non essendo una denominazione definita. Di fatto ai suoi microfoni si alternano predicatori dei gruppi più svariati. Costoro sono al vertice di para-chiese vicine alla Tbne, agenzie di servizio per persone che, ascoltati i predicatori, sono liberi di scegliere il gruppo che più piace, senza indicazione da parte della televisione.
A Torino, per esempio, sono decine le para-chiese segnalate dalla Tbne. Essa funge da centro di smistamento per persone che andranno a finire in molte altre denominazioni. Ovviamente l’ampiezza dell’offerta dipende dalla condivisione della teologia evangelicale, che è conservatrice, di stampo pentecostale o carismatico.
Nonostante gli sforzi, il travaso dal cattolicesimo al protestantesimo evangelicale è quasi assente, tranne in alcune zone del meridione, come l’hinterland napoletano e la Sicilia, dove risulta fondamentale il carisma dei predicatori di successo.
RELIGIONE… SPETTACOLARE
Non è facile trovare parole adatte per descrivere funzionamento e programmazione televisiva della Tbne. Due esempi possono evidenziare gli aspetti più grotteschi e pittoreschi del fenomeno nel suo complesso.
Il primo esempio riguarda la figura di Benny Hinn, un predicatore riconducibile al Faith Movement (movimento della fede, nato nel mondo pentecostale, molto diffuso in Svezia e Usa, che attribuisce alla preghiera la possibilità di conseguire successo, ricchezza e denaro).
In un libro autobiografico, «Buongiorno Spirito Santo», egli racconta la sua storia di anima persa e del risveglio avvenuto a Boston, grazie alla chiamata dello Spirito Santo.
Fine conoscitore della bibbia, aria mistica e grande comunicatore, mister Hinn è forse il più importante predicatore evangelical degli Stati Uniti e guarisce decine di ossessi, storpi, paralitici, malati di cancro, esauriti mentali grazie all’aiuto dello Spirito Santo con cui vive, lui dice, in comunione.
La televisione lo mostra in azione in uno stadio stracolmo, davanti a decine di migliaia di persone estasiate o in trance, braccia alzate, occhi socchiusi, guance rigate dalle lacrime, canti, urla. Benny inizia a soffiare nel microfono e il suono viene amplificato per tutto lo stadio. Gruppi di persone svengono, cadendo al suolo come pere mature.
Ecco il nostro Benny in un’altra scena spettacolare: sul palco di un palazzetto dello sport sfilano davanti a lui decine di casi umani che, a suo dire, hanno ottenuto grazie di vario genere; quindi arriva il suo magico tocco e le persone cadono stecchite; non si fracassano la testa grazie all’intervento di forzuti aiutanti, che acchiappano al volo i miracolati.
Talvolta però anche i migliori piazzisti si tradiscono…
Ecco salire sul palco una famigliola: spiegazione di disgrazie a profusione e relativi miracoli; poi Benny tocca papà e mamma che crollano al suolo. Ma i pargoli vengono cautamente evitati… Non si sa mai, con i bambini dispettosi che ci sono oggi, potrebbero rimanere in piedi.
Un secondo esempio, importante anche se non occupa molto spazio nella programmazione, delle rappresentazioni religiose della Tbne è quella dei Power Team: alcuni energumeni invocano il Cristo morto in croce per la remissione dei peccati di tutti i presenti; poi spaccano tronchi e mattoni, fanno scoppiare lattine di coca piene, oppure si esibiscono in altre prove di forza bruta e demenziale. Tali imprese sono accompagnate da paurosi momenti di estasi da parte degli spettatori, che pregano convinti affinché il muscoloso di tuo compia la prodezza che inizialmente non riesce a fare.
Un’americanata, si dirà. Vedere stadi stracolmi, in preda a un delirio collettivo, con mancamenti, lacrime, guarigioni, conversioni e molto altro, è impressionante, ma non aiuta a crescere nella fede, specialmente se si pensa alle nostre sparute parrocchie di campagna, dove il prete, che non veste griffato come le stars religiose made in Usa, fa i salti mortali tra una chiesa e l’altra.
La figura del profeta predicatore, guaritore non è un’invenzione di mister Hinn, della Tbne o altri predicatori che si alternano nei vari spettacoli religiosi. Il copione è il solito, cambia solamente l’approccio tecnologico: in un mondo perduto, il profeta, specie se carismatico, che crede in comunione con lo Spirito Santo, raccoglie adepti dalle correnti protestanti tradizionali che vedono in lui l’unica «arca della salvezza».
Miracoli e guarigioni sono mezzi con cui fare proselitismo, utilizzati per convincere della propria unicità e divina elezione.
PREDICATORI E MISSIONARI
C’è turbamento quando si confrontano questi quotidiani spettacoli miracolosi, rivolti a persone ricche e ben pasciute, con il lavoro di chi i miracoli li fa sul serio, mandando avanti scuole e ospedali a rischio della propria vita, nella foresta amazzonica, tra malaria e acqua fetida, o in altri posti del mondo anche peggiori. Di questi silenzio assoluto!
Centinaia di migliaia di persone corrono da tempo dietro una religione che assomiglia sempre più a un business show, dove chi la spara più grossa vince la partita: si accaparra fedeli e quindi fa incasso.
Gente in lacrime che sviene, ossessi che sbraitano, visioni collettive, paralitici che fanno volare le stampelle… in un tripudio di autosuggestione collettiva tutto è fattibile.
E poiché tra i film di Hollywood e realtà ormai non c’è più distinzione, anche la religione risulta inquinata dall’ossessiva richiesta da parte del pubblico di spettacolo mozzafiato.
Certo stiamo parlando di una cosa americana, che però viene propinata con la forza dirompente della televisione nelle case di milioni di persone in tutta Europa.
In una società che stravede per tutto quanto arrivi da oltre oceano, che luccichi di grandezza e opulenza, sfarzo e lusso sfrenato, la megalomania emanata dai vari predicatori ha successo. Denaro, potere, ricchezza passano per segni della benevolenza di Dio, in un’ottica calvinista-weberiana.
SODDISFAZIONE DEL CLIENTE
Durante il giorno vengono mandati in onda cartoni animati biblici per i bimbi, gruppi rock e rap che inneggiano al Signore, dibattiti religiosi, telegiornali e molto altro. E la programmazione è completa.
Parte dei programmi sono spezzoni ripresi dalla Tbn statunitense; l’altra è prodotta in Italia, nei nuovi studi di Varese. Tutto con una netta impostazione ultraconservatrice.
L’appoggio alla guerra in Iraq ne è un esempio eloquente; e tutto condito di accenni apocalittici, dal momento che i luoghi si dove si svolgevano i combattimenti è la biblica Babilonia.
Nell’abbondante parte di programmi prodotti in Italia, grande spazio è riservato a Chuck e Nora che, bibbia alla mano, portano avanti la raccolta di fondi per il finanziamento della Tbne, con iniziative come il lodathon: fai un’offerta e essi pregano per te in televisione.
In un ambiente ultra kitch, con ori e troni, ogni giorno vengono lette decine di lettere di persone che chiedono grazie e guarigioni da malattie più o meno serie.
SANTI E PECCATORI
Un’impresa commerciale quindi? Quando ci troviamo davanti a cifre da capogiro, viene il dubbio che qualcuno lucri alle spalle dei fedeli.
Il mondo dei predicatori televisivi presenta due aspetti: il primo, il più appariscente, è quello dell’opulenza e dello sfarzo; il secondo è più povero, dove persone idealisticamente motivate giungono a pagare di tasca propria gli spazi televisivi.
Un mondo di santi e peccatori. In fondo la Tbne non ha inventato nulla di originale: i fenomeni più inquietanti sono ripresi da ambienti già esistenti nel mondo protestante, soprattutto quello più caldo. Tutto, però, è ora unito alla potenza comunicativa della televisione, vero elemento innovatore di tutta questa storia.
Per chi volesse conoscere cosa pensa il mondo evangelical italiano che conta 300 mila persone, la Tbne rappresenta un buon strumento, anche se non tutti vi si riconoscono. Ma il suo proselitismo è scarso, indice che il tutto si ferma a un fenomeno di costume, almeno in Italia, dove più salda è la presa della chiesa cattolica. Oppure, molto più semplicemente, i nostri parroci sono più credibili degli spettacolari predicatori made in USA.

Maurizio Pagliassotti




I COLORI NON SONO NEUTRI

A volte anche parole e simboli diventano,
senza che ce ne rendiamo conto, «violenti».
Questione di abitudine, mentalità, cultura.
Così il razzismo è sempre in agguato…

I l «simbolo» non è un prodotto di natura, come l’acqua, l’aria, la luce, la pioggia che scende dal cielo… ma è un manufatto.
Un certo interesse, alquanto intellettuale, per un tema del genere, non dipende da motivi artistici o astratti: avendo dovuto insegnare in Mozambico per diversi anni ho voluto, usando tutto il tatto possibile per non ingenerare suscettibilità inutili, chiedere ai miei allievi che mi dessero il significato di alcuni vocaboli esistenti nelle loro lingue, tra cui anche quello di «simbolo». Avevo notato una certa perplessità nel rispondermi e mi ero convinto sempre più che probabilmente noi occidentali importiamo concetti che esulano dalla loro mentalità.
Il vocabolo «simbolo» (dal greco sun ballo) significa «mettere insieme» due elementi, di cui uno esistente in natura (come cosa) e l’altro con proprietà spirituali, dall’uomo e dalla sua capacità creativa. I simboli esistono perché esistono gli uomini, come il tempo. Forse i simboli sono il primo prodotto dell’uomo in quanto uomo.
Un giorno un africano scrisse una lettera ad un bianco (un bianco ipotetico) del seguente tenore:

Caro fratello bianco,
quando sono nato ero nero.
Quando sono cresciuto ero nero.
Quando mi metto al sole resto nero.
Quando muoio sarò sempre nero.

Ma tu, uomo bianco,
quando sei nato eri rosa.
Quando sei cresciuto eri bianco.
Quando vai al sole diventi marrone.
Quando sei arrabbiato di collera
diventi rosso.
Quando hai freddo diventi blu.
Quando hai paura diventi verde.
Quando sei ammalato diventi giallo.
Quando muori sei grigio.

E hai il coraggio di chiamare me
«uomo di colore»?

I colori sono simboli. Ma tra tutti, quello nero viene caricato generalmente di significati perversi e violenti.
LA NATURA DEI SIMBOLI
I simboli sono forme visibili di realtà invisibili. Ciò avviene quando un oggetto materiale si carica di valori o significati che vi mette l’uomo. Una bandiera, un mazzo di fiori, il canto della Marsigliese (è stata cantata anche nella rivoluzione russa del 1917!) o di alcune arie del Nabucco, l’uso magico del fuoco o dell’acqua (in tutte le culture)… vanno al di là della loro pura materialità.
Il simbolo è come un’impronta digitale ed è sempre allusivo. Tra i simboli, il più eccellente (e che non ha limiti nelle sue forme quasi infinite) è il dono. Tutto può essere trasformato in dono: un fiore di campo come una gemma preziosa; ma possiede sempre, oltre al valore dell’oggetto materiale, un plus valore di carattere spirituale, che aggiunge chi dona o chi riceve il dono.
Il simbolo è sempre un’uscita libera e concreta del nostro io verso altri. In genere i simboli, quelli veri, sono dei tentativi di perpetuare nel tempo qualcosa di noi. Come si fa con i testamenti e nei giuramenti di fedeltà. I simboli non sono delle forme algebriche, ma arabeschi e melodie. Non illuminano soltanto l’intelligenza, ma riscaldano il cuore.
È pure certo che l’uomo sente il bisogno di creare dei simboli. Perché tanta gente ha reso omaggio ad una donna di nome Diana? Il popolo non l’ha trasformato in un «mito», ma in simbolo: il che è diverso. Tutti noi siamo assetati e affamati di simboli.
Però c’è anche un risvolto negativo e pericoloso (come in tutte le cose belle) in questa necessità di creare e di servirci di simboli, specie quando quest’uso fosse inconscio. L’animo umano è generoso, specie nei «doni»; ma sovente è anche aggressivo e può servirsi dei simboli per ferire più ferocemente o, addirittura, uccidere: se non fisicamente, moralmente.
Viene in mente il romanzo di François Mauriac, Groviglio di vipere: il vecchio e ricco avvocato consuma la sua esistenza nell’odio contro tutti, compresi moglie e figli, e lo fa diseredando tutti, con un testamento feroce; osserva di nascosto i membri della famiglia in attesa del bottino, come si guarda una mosca alle prese con un ragno… Ma la moglie muore prima e così tutta la sua carica di vendetta sfuma.
Si pensi anche alla carica simbolica, non sempre positiva, che c’è nella nostra «domenica» cristiana, in confronto al «sabato» ebraico o al «venerdì» musulmano. Nel nostro mondo questi giorni sono legati anche alla pausa nel lavoro, quindi ci sono problemi finanziari e problemi sindacali, ma anche di carattere puramente simbolico. È solo con Costantino, infatti, quando la chiesa diventa istituzione di stato, che la «domenica» prevarica e si carica anche di violenza verso chi non è cristiano.
L SIMBOLO,
INESAURIBILE MINIERA

Si tratta di uno degli aspetti della creatività dell’uomo. Simboli sono anche le parole che ci escono dalla bocca: hanno una loro vita segreta e non esiste nulla che sia più soggetto alle bizzarrie della moda delle parole che sono nei nostri vocabolari. Come c’è accuratezza nella scelta dei vestiti, che possono anch’essi trasformarsi in simboli (presentarsi alla Camera dei deputati in jeans o vestiti da pagliacci!), così c’è accuratezza e varietà di sfumature nell’uso delle parole; ad esempio, storpiamo volutamente il nome di una persona.
Le parole possono scatenare una guerra sui nomi delle persone (ad esempio nelle etnie bantu, quasi tutta l’Africa subequatoriale, in India e altre località, i bambini ricevono tre nomi che hanno tutti un significato particolare). Con le parole si può giocare; le si può far camminare sul filo come se fossero dei funamboli, con sottintesi, analogie, paragoni, metafore. Per esempio, nelle lingue africane i nomi hanno i prefissi che indicano le categorie (o classi). C’è quindi la categoria degli animali, delle piante, ecc. L’uomo ha un certo prefisso: se per disprezzo a una persona, anziché mettergli il prefisso di uomo, gli si mette il prefisso di un animale, evidentemente gli si fa un’offesa profonda.
Nella nostra lingua italiana le parole «nero» e «negro» di per se non assumono un carattere dispregiativo, mentre negli Stati Uniti era in uso, e forse lo è ancora, in senso dispregiativo la parola nigger (in slang «niga»). Noi italiani, forse, faremmo bene a scrivere le parole negro, nero, afro-americano, africano, quando sono sostantivi, con l’iniziale maiuscola per eliminare nelle persone di razza nera ogni suscettibilità.
In pittura si potrebbe, ad esempio, citare il caso di Goya con le sue cosiddette «pitture nere»: in un momento triste della sua vita, ritiratosi in solitudine nella Quinta del sordo, dipinse le pareti di questa sua abitazione con immagini tragiche e ossessive, riflesse nella visione tetra della sua mente angosciata, per l’appunto pitture nere! Oppure nei dipinti di Van Gogh colori, immagini e vita fanno un tutt’uno.
C’è una carica simbolica nel velo. Nel medioevo il velo era considerato un capo elegante del vestiario femminile. Ne abbiamo uno stupendo sviluppo nell’arte italiana dei velari. Ma quale significato ha il velo imposto alle donne musulmane? Il racconto di Nataniel Hawthoe dal titolo Il pastore dal nero velo sul volto, velo mai deposto, neppure nella tomba, ha del macabro.
Nell’argentino Jorges Luis Borges, cieco, ci sono i simboli dello specchio e del labirinto; in Umberto Eco c’è il simbolo del pendolo, in Elsa Morante quello dell’isola e del mare.
IL SIMBOLO DEI COLORI

Un proverbio recita: «Non ha importanza il colore del gatto, purché acchiappi i topi». Un maestro delle elementari un giorno fece questa domanda ai suoi bambini: «Se tutte le persone buone fossero bianche e tutte quelle cattive fossero nere, voi di che colore sareste?». Una piccola risposta: «Signor maestro, io sarei a strisce». Ma una domanda del genere sarebbe opportuna in Africa, dove tutti i bambini sono neri o qui tra noi in una classe con bambini bianchi e neri?
Pare che gli antichi egiziani fossero raffinatissimi nell’uso dei colori, tanto da identificare l’essere di una persona con il colore. Cosa non insolita, perché nella cultura greca, ad esempio, la persona era qualificata dalla maschera che portava sul viso, il cosiddetto prosapon, che significava dare un colore, dare un valore alla persona.
In Egitto quando si affermava che non si conosceva il colore di una divinità, significava affermare la sua trascendenza e imperscrutabilità. Nelle nostre città del nord domina il nero-fumo; i semafori hanno il verde per indicare via libera, il rosso per indicare senso vietato.
Le bandiere sono dei simboli a colori per eccellenza (vedi riquadro). Si discute sul nostro «tricolore». Pare derivi dalla bandiera della rivoluzione francese (bianco, rosso, azzurro); l’azzurro, simbolo della rivoluzione, sarebbe stato sostituito al verde, colore massonico, ereditato dai giacobini e adottato dai fautori del risorgimento.
In Africa, su 51 stati almeno 17 hanno nelle loro bandiere il nero. Il verde, poi, appare in quasi tutte le bandiere degli stati musulmani: quella libica è tutta verde, l’algerina per metà è verde, perché il verde è il colore dell’islam. Forse anche l’accecamento causato dalla sabbia del deserto porta a considerare il verde, come un colore riposante.
Nella bibbia l’innamorata dice al suo amato: «Nigra sum, sed formosa» (ho la pelle scura, eppure sono bella, Cant 1,5). «Scura come le tende dei beduini, bella come i tendaggi del palazzo di Salomone».
Ma, al contrario, gli assediati in Gerusalemme, al tempo di Geremia, erano diventati tutti «neri». Di loro si diceva che «sembravano più neri della fuliggine e non si riconoscevano per le strade» (Lam 4, 8).
Nella liturgia cattolica sono in uso i quattro colori: bianco, rosso, verde, viola: colore, quest’ultimo, segno di penitenza e tristezza. C’era anche il nero nella liturgia dei defunti, ma fu abolito con la riforma liturgica.
In un testo cristiano molto antico, composto nel secondo secolo, la cosiddetta Lettera di Baaba, c’è un capitolo dal titolo «La via della luce» e un altro «La via delle tenebre». Quest’ultimo inizia così: «La via del Nero (con la «n» maiuscola!) invece è tortuosa e piena di maledizione». È evidente che qui «nero» sta per diavolo.
In Africa i colori basici sono il rosso, il nero e il bianco. Il rosso indica vita (dal sangue); il nero la notte, la sofferenza, le prove; il bianco la morte. Quindi tutto il contrario della nostra mentalità.
Senghor, ex-presidente del Senegal, cattolico, scriveva: «L’uomo nero con il suo colore è come immerso nella notte, notte primordiale: egli non vede l’oggetto, ma lo sente, l’intuisce, aperto com’è a tutte le onde della natura». Quindi il nero si distinguerebbe dai bianchi perché ha l’istinto pronto, intuisce le cose; è nella notte, però le percepisce ugualmente. E questa capacità intuitiva, più che raziocinante, starebbe alla base, secondo lui, della cosiddetta négritude.
Una cantante francese cantava: «Il nero è un colore di festa, di sera, di notte sfavillante, di dignità, di danza, di seduzione, e anche di dispiaceri. Bien sûr».
Montale inizia una sua poesia (Il raschino) con questo verso: «Crede che il pessimismo / sia davvero esistito»; e termina così: «… Ora tutti i colori esaltano / la natia tavolozza, escluso il nero». Il Corriere della sera (luglio 1997), a riguardo del concorso di «Miss Italia», vinto da Denny Mendez, intitolò un articolo: «Miss Italia, mai più nera».
Nel nostro linguaggio italiano (o nella nostra mentalità) il colore «nero» è sempre legato a qualcosa di tremendamente negativo, malefico e diabolico. Esso indica tutto ciò che c’è di più negativo in noi e intorno a noi. È una litania senza fine: umore nero, lavoro nero, mercato nero, borsa nera, toto nero, peste nera, pozzo nero, messe nere, persino «grazia nera»…
Il caso più patetico (oltre al film «Indovina chi viene a cena?») incontrato nella letteratura è il romanzo, dal titolo «Storie di bianchi», scritto da un americano nero, Langston Hughes. In questo romanzo troviamo una lettera scritta da un mulatto, di caagione però completamente bianca. La lettera è inviata alla madre negra. Questo giovane è ormai inserito nel mondo dei bianchi, ha una bella fidanzata bianca. In questa lettera chiede scusa a sua madre perché, avendola incontrata per strada a braccetto con la fidanzata, aveva fatto finta di non conoscerla. Egli scrive: «Quando ci si fa passare per bianchi, la cosa tragica è proprio questa, che si deve rinnegare in pubblico la propria famiglia e persino la propria madre. È una cosa terribile, mamma, e detesto il doverlo fare, anche se tu mi dici che ciò non ha importanza. Io sposerò una bianca… e se arrivasse un figlio nero, giurerò che non è mio figlio. Perché non intendo ricadere nel pantano nero».
Ciò che colpisce sono le parole «pantano nero». Si tratta di un romanzo, ma la fiction non è molto lontana dalla realtà.
Qui la violenza del simbolo è terribile e non solo da un punto di vista psicologico. I neri li abbiamo schiavizzati e umiliati anche così.

BANDIERE DI PACE
Ogni popolo, stato, nazione si identifica in una bandiera. Il suo uso risponde a un’esigenza elementare dell’uomo: sentirsi identificato a una comunità, etnia, gruppo… Tale simbolo, infatti, è in grado di dare maggiore rilevanza all’individuo, collocandolo in un contesto sociale più ampio, e lo rappresenta visivamente inserito in una realtà che trascende il singolo soggetto.O gni popolo, stato, nazione si identifica in una bandiera. Il suo uso risponde a un’esigenza elementare dell’uomo: sentirsi identificato a una comunità, etnia, gruppo… Tale simbolo, infatti, è in grado di dare maggiore rilevanza all’individuo, collocandolo in un contesto sociale più ampio, e lo rappresenta visivamente inserito in una realtà che trascende il singolo soggetto.
Bandiere, stendardi e vessilli hanno una funzione: in passato, aveva grande importanza sui campi di battaglia dove, mancando ogni trasmissione radiofonica, distinguere i propri colori da quelli dell’avversario significava praticamente avere salva la vita. Ancora oggi le bandiere utilizzate sulle navi sono mezzo di segnalazione e riconoscimento.
In prospettiva psicologica, la bandiera suscita nel cuore di milioni di persone emozioni e sentimenti legati a valori assoluti; essa diventa il segno più semplice ed efficace per assumere e «tradurre» tali valori in scelte esistenziali, coinvolgendo la persona nella sua globalità, fino a dare la vita per l’ideale da essa rappresentato o per la bandiera stessa.
Quando avvenimenti epocali sconvolgono assetti ed equilibri sociali e politici, le bandiere «parlano da sole». Ne è un esempio la portata storica che ebbe il tricouleur durante la rivoluzione francese e la bandiera rossa con la falce e martello durante la rivoluzione russa, modelli ripresi con molteplici varianti in vari paesi del mondo.

Si hanno testimonianze di simboli ed emblemi «nazionali» fin dall’antico Egitto, subito imitati da Assiri e Babilonesi. Nella bibbia sono ricordate le insegne delle 12 tribù d’Israele in marcia verso la terra promessa.
I Romani avevano i signa (insegne) per la fanteria e i vexila (vessilli) per la cavalleria; il simbolo dell’aquila era utilizzato dalle legioni romane in ogni angolo dell’impero.
Ai tempi di Costantino iniziò l’adozione di un labaro con la croce, simbolo poi largamente utilizzato dalle nazioni europee nate dallo sfascio dell’impero romano e bizantino.
Nelle conquiste del Medio Oriente e del bacino del Mediterraneo, gli arabi dispiegavano bandiere bianche, nere e verdi, rispettivamente degli omayyadi, abbasidi e alidi: colori tutt’ora preminenti (col rosso degli ottomani) nelle bandiere dei paesi arabi odiei.
A partire dal medioevo, la bandiera si affermò in tutti i regni europei come simbolo nazionale.
Suggestiva è la storia del dannebrog, la più antica bandiera del mondo, ancora in uso in Danimarca: narra una leggenda nordica che, durante una terribile battaglia contro gli estoni, a quel tempo ancora pagani, i danesi implorarono l’aiuto divino e dal cielo scese un drappo di lana rossa con una croce bianca, che terrorizzò i nemici e li mise in fuga.
Con diverse varianti di colore, il dannebrog è stato adottato da tutti i paesi del Nord Europa.
Curiosa è pure l’origine della bandiera pontificia: bianco e giallo erano i colori caratteristici degli stendardi di Goffredo da Buglione: dopo che il famoso condottiero conquistò Gerusalemme, nella prima crociata, tali colori furono adottati come simbolo dello Stato Pontificio, con l’aggiunta delle chiavi di san Pietro.
La bandiera è un simbolo che provoca ancora un grande impatto sull’opinione pubblica. Che emozioni abbiamo provato nel vedere migliaia di americani con le bandierine a stelle e strisce in mano nei momenti di preghiera dopo l’attentato delle Torri Gemelle; e dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando venne ammainata la bandiera rossa dal Cremlino sostituendola con il tricolore in uso sin dai tempi degli Zar; durante il «mitico 1989», quando i popoli dell’Est strappavano gli emblemi comunisti dalle bandiere nazionali per inalberare orgogliosamente bandiere lacere e strappate, finalmente affrancate dai simboli del dominio marxista. Abbiamo provato anche noi la sensazione dell’inizio di una nuova epoca di libertà per tutti.
Ma chi non sente un brivido per la schiena, vedendo giovani muscolosi e incoscienti brandire le svastiche, mentre inneggiano al nazismo e ostentano violenza e odio?
E come non sentire un’istintiva simpatia, di fronte alla mobilitazione dei popoli indigeni delle Ande che, rivendicando diritti e dignità, sventolano la whipala, la multicolore bandiera degli aymara e quechua: essa è composta da una serie di riquadri colorati, disposti su linee diagonali, il cui suggestivo riferimento cromatico raffigura l’iride e allude alle istanze della gente andina.
Sono gli stessi colori dell’arcobaleno, che un formidabile movimento di massa ha rilanciato su scala nazionale e mondiale, identificando in quel simbolo l’anelito di pace che gli arroganti di tuo hanno cercato di sbeffeggiare e soffocare. Forse è dai tempi del risorgimento che l’Italia non vede milioni di persone «vibrare» così intensamente di fronte a una bandiera.
La pace, anelito fondamentale di tutti gli uomini di buona volontà, ha fatto fiorire i balconi di tutta la penisola e garrire al vento questa immensa voglia di giustizia e libertà. Una bandiera questa, da non ammainare mai più.

don Mario Bandera

Igino Tubaldo




SUGLI ALTIPIANI DELL’ETIOPIA – 1a puntata

SEMI DI SPERANZA

Grande come mezza Italia, il vicariato di Meki
è stato fondato e organizzato dal sudore dei
missionari della Consolata. Per oltre 30 anni, essi
hanno «fatto un lavoro meraviglioso» afferma
il nuovo vescovo, mons. Abraham Desta; ma resta
molto da fare, sia nel campo dell’evangelizzazione
che in quello della promozione umana.

Il 10 maggio scorso è stata una
data storica per il vicariato apostolico
di Meki. Anche il cielo ha
voluto partecipare alla festa: un temporale
notturno ha spazzato via la
cappa caliginosa che ricopriva questo
infuocato angolo della Rift Valley,
promettendo una boccata d’aria
più respirabile. La mattina, un cielo
terso come uno specchio ha fatto da
sfondo al grande evento: l’ordinazione
episcopale di abba Abraham
Desta, secondo vescovo del vicariato
apostolico di Meki, successore di
mons. Johannes Waldeghiorghis, deceduto
nel settembre 2002.
Oltre ai 4 mila fedeli, missionari,
preti locali, religiose e religiosi impegnati
nel vicariato, hanno partecipato
alla celebrazione tutti i vescovi delle
nove diocesi dell’Etiopia, il nunzio
apostolico e vari vescovi e leaders ortodossi.
La stragrande maggioranza
dei convenuti è rimasta fuori della
cattedrale, seguendo la funzione da
due schermi televisivi. Beati loro! I
privilegiati ammessi all’interno della
chiesa hanno sudato le proverbiali
sette camicie per quasi quattro ore,
tanto è durata la funzione.

IL VESCOVO VENUTO DAL NORD
Ha presieduto la cerimonia mons.
Berhaneyesus Souraphile, arcivescovo
di Addis Abeba, assistito dai vescovi
di Adigrat e di Harar. La celebrazione
eucaristica è stata in lingua
amarica e rito latino; la consacrazione
episcopale in lingua ge’ez e rito orientale.
Non sono dettagli di pura curiosità:
le differenze dei riti rispecchiano
storia, organizzazione ecclesiastica
e strategia missionaria adottata in
Etiopia. Le regioni settentrionali del
paese (Tigrai e Shoa) furono evangelizzate
fin dal IV secolo; ma due secoli
dopo la chiesa etiopica si trovò
separata da Roma per incomprensioni
di teologia cristologica, dando
origine alla chiesa copta ortodossa.
Quando nel secolo XIX Agostino
De Jacobis (1839-60) cercò di attirare
gli ortodossi nella comunione con
Roma, conservò lingua, riti e legislazione
orientali.
Nelle regioni del sud, invece, abitate
da popolazioni prevalentemente
non cristiane, il card. Guglielmo
Massaia (1846-77) preferì adottare il
rito latino, ancora in vigore anche nel
vicariato di Meki.
L’uso del ge’ez e la presenza del vescovo
di Adigrat, inoltre, sottolinea
l’origine del nuovo vescovo, che, come
il suo predecessore, proviene dalla
diocesi tigrina.
Nato 51 anni fa, Abraham Desta
studiò nel seminario di Adigrat e, dopo
l’ordinazione, continuò gli studi
in Irlanda, presso un istituto dei Gesuiti,
conseguendo la licenza in teologia
dogmatica e diplomi in sviluppo
comunitario e teologia pastorale.
Tornato in patria, ricoprì vari incarichi:
per nove anni fu rettore del
seminario minore di Adigrat; poi segretario
del vescovo e responsabile
della pastorale e formazione dei giovani;
dopo sette anni fu nominato
cancelliere e direttore del Segretariato
cattolico della diocesi, finché,
nel gennaio scorso, fu raggiunto dalla
nomina di vescovo di Meki.
«È stata una sorpresa – confessa
abba Abraham -. All’inizio, com’è umanamente
comprensibile, mi sono
posto varie domande: sono la persona
giusta? Come potrò assolvere
questo compito? Ce la farò? Poi,
nella preghiera, ho chiesto a Dio Padre
di darmi la forza per accettare e
fare la sua volontà».

SPERANZA EVANGELICA
Ed è proprio durante un periodo
di preghiera e ritiro spirituale, in preparazione
della sua ordinazione, che
incontro abba Abraham e gli porgo
qualche domanda, a cui risponde volentieri.
Cosa pensa del vicariato che è
chiamato a guidare?
«Prima dell’ordinazione ho voluto
rendermi conto della vita della
chiesa in questa regione del paese, visitando
tutte le parrocchie, incontrando
la gente e i missionari e missionarie.
Sono stato felicemente impressionato
dalla mole di lavoro fatto
dal mio predecessore, dai missionari,
preti fidei donum, suore di varie
comunità religiose. Mi ha commosso
lo zelo di tante persone impegnate
nel portare alla gente la speranza
del vangelo, specialmente dei missionari
della Consolata, che sono all’origine
di questa diocesi».
Il vescovo si lancia in un elogio
sperticato dei missionari della Consolata, sciorinando nomi di missioni,
padri e fratelli. Ed è sincero.
Fin dai primi anni ’70, quando arrivarono
i padri Giovanni De Marchi,
Lorenzo Ori, Giovanni Bonzanino,
è stato fatto un lavoro gigantesco
(cfr. M.C. gennaio e maggio 2003):
in pochi anni, il territorio di Meki, distaccato
dalla chiesa madre di Harar
(1980), diventò prefettura apostolica
e poi vicariato (1992).
È una regione immensa, dallo Shoa
meridionale alla Somalia, localizzata
in gran parte nello stato dell’Oromia,
con estensioni in quello delle Nazioni
etniche meridionali. Misura oltre
156 mila chilometri quadrati (quasi
mezza Italia) e conta 5,3 milioni di abitanti,
in prevalenza oromo, con minoranze
etniche indigene (kambatta,
adya, wolaita, guraghe) o immigrate
(amhara e tigrini).
Gli oromo sono quasi tutti musulmani;
gli altri gruppi etnici sono cristiani
(ortodossi, cattolici e protestanti)
e di religione tradizionale.
Oggi il vicariato di Meki conta oltre
21 mila cattolici e oltre 2 mila catecumeni:
erano circa 4 mila i battezzati
nel 1980; 14 mila nel 1992.
L’adesione alla chiesa cattolica è forte
soprattutto tra le etnie minoritarie;
ma anche tra gli oromo si registra
il passaggio di famiglie intere dall’islam
al cattolicesimo.
Più delle cifre, sono le innumerevoli
opere sociali (scuole, asili, ospedale,
lebbrosari, dispensari, centri di
formazione religiosa e promozione
umana, pozzi e acquedotti, interventi
umanitari di emergenza…) a testimoniare
la mole di lavoro che la
chiesa di Meki continua a svolgere a
favore di centinaia di migliaia di persone
di ogni etnia e religione, seminando
tra la gente «speranza evangelica
» per un futuro migliore.

PALLA O… PATATA?
«Naturalmente c’è ancora molto
da fare – continua il vescovo -. Ho visto
che vaste zone sono ancora da evangelizzare.
I missionari della Consolata
sono essenziali; ma ho paura
che mi lascino solo».
La frase è sibillina, ma so a che cosa
allude. I missionari della Consolata
hanno sempre voluto dare massima
visibilità al clero locale: quando
fu creata la prefettura di Meki,
essi insistettero che fosse un prete etiopico
a guidarla; appena una parrocchia
è funzionante, premono perché
sia affidata al clero diocesano,
per aprire una nuova missione in zone
ancora incolte.
C’è ancora un posto di responsabilità,
da 30 anni in mano a un missionario
della Consolata: l’amministrazione
del vicariato. Tale carica richiede
continui contatti e trattative
con amministrazioni e governo, per
lo svolgimento dei programmi sociali
e di sviluppo del vicariato. Inoltre,
dal momento che Meki conta già
una quindicina di preti locali, i missionari
hanno ventilato l’idea di passare
loro la palla, ritenendo che un
prete oromo possa intendersi con le
autorità meglio di un visopallido.
Più che di palla, forse si tratta di…
patata bollente: basta guardare padre
Giovanni Monti, attuale amministratore
e direttore dei vari uffici
della curia: è rimasto pelle e ossa e,
in pochi mesi, ha aggiunto tre buchi
alla cinghia dei calzoni, anche se non
è mai stato in sovrappeso in vita sua.
«I missionari della Consolata hanno
svolto un compito meraviglioso;
il futuro della diocesi dipende ancora
dal loro supporto – continua il
nuovo vescovo incensando -. Sono
felice di lavorare e programmare insieme
a loro. Spero e prego, quindi,
che essi vedano le esigenze e problemi
della diocesi e aumentino la loro
presenza, per rispondere alle attese
sociali e religiose della gente, che in
tanti villaggi aspettano ancora la consolazione
del vangelo. Da soli non ce
la possiamo fare».

VISIONE E REALTÀ
A proposito di programmi, cosa
prevede per il futuro?
«Per ora non ho in mente nessun
piano, sarebbe prematuro. Prima di
delineare una strategia, ho bisogno
di sedermi con tutte le persone coinvolte
nelle attività del vicariato e ascoltare
cosa hanno da dire. Ma ho
una mia visione, un traguardo da
raggiungere. Nel vicariato ci sono già
molti cristiani: dobbiamo fare in modo
che si impegnino realmente, fino
a diventare autosufficienti e capaci
di aiutare gli altri. È pure il cammino
indicato dalla lettera pastorale
della Conferenza episcopale etiopica:
La chiesa che vogliamo essere.
È un cammino da fare tutti insieme:
vescovo, clero, religiosi, suore,
catechisti e fedeli, uniti in mente e
cuore, nella preghiera e comunione,
nella condivisione, diffusione e testimonianza
del vangelo. Vogliamo essere
una chiesa non ripiegata su se
stessa, ma che guarda sempre avanti,
che guarda fuori, come le comunità
primitive che, quando ricevettero
la missione di Cristo, non si chiusero
in se stesse, ma andarono a
portare altrove la buona notizia. Vogliamo
costruire una chiesa non dipendente,
ma capace di inviare missionari
e aiuti alle chiese in necessità
di altri luoghi.
Intanto, però…
«Siamo ancora una chiesa bisognosa
di personale e aiuti materiali.
Viviamo tra gente molto povera. Anche
quest’anno, l’intero paese è in
stato di emergenza a causa della siccità
e della fame; il vicariato di Meki
è parte del problema; soprattutto la
gente che vive nell’area della Rift Valley
si trova in una situazione disperata.
Dobbiamo pensare ai bisogni
materiali della gente. Non possiamo
aspettare, predicando solo cose spirituali;
devono anche riempire lo stomaco.
La comunità internazionale e
la chiesa universale ci stanno aiutando
molto. Ma non dobbiamo
perdere di vista il traguardo: edificare
una chiesa sempre più coinvolta
nello sviluppo del territorio, protagonista
di cambiamento, fino a rovesciare
la situazione di povertà
della nostra gente».
Come sono i rapporti con i musulmani?
La loro presenza è in aumento?
«A livello nazionale e internazionale,
il Coo d’Africa è nel mirino
della comunità mondiale e, nel suo
insieme, non so cosa accadrà in futuro.
Per ora direi che esiste una certa
“tensione” a livello psicologico;
ma sul piano pratico non vedo problemi
concreti e pericolosi.
Anche a livello locale non ho riscontrato
tensioni particolari. Ma ho
notato un fatto preoccupante: lungo
la strada da Shashemane al Bale ho
contato 10 moschee nuove: una ogni
dieci chilometri. Noi cattolici abbiamo
una chiesa ogni 100 chilometri.
Ho una certa apprensione: dobbiamo
intervenire in fretta. Non si
tratta di provocare contrasti, ma di
presenze pacifiche, per fare conoscere
l’etica della nostra religione e
la testimonianza della nostra carità evangelica.
Aspettare potrebbe essere
troppo tardi. Per questo ho intenzione
di aprire una nuova parrocchia
nel Bale.
Anche le sètte evangeliche sono in
aumento…
«E sono molte. Vengono con tanto
denaro e la gente povera è attratta
dai soldi. Anche a questo aspetto
dobbiamo fare fronte, non ricorrendo
ai loro metodi, denaro in cambio
di conversione, una prassi che aborriamo,
ma aiutando la gente a riscoprire
la propria dignità umana e formare
cristiani dalla fede solida.
Ho visto che i missionari hanno
fatto un grande lavoro in tale direzione,
e questo mi dà coraggio: hanno
preparato un buon numero di catechisti,
leaders e laici impegnati.
Occorre continuare.
L’unità e solidarietà della chiesa
cattolica, sia essa in Italia, Etiopia o
America, mi dà fiducia nell’assumere
la responsabilità di guidare una comunità
povera di personale e mezzi
come il vicariato di Meki. Confido
nella chiesa universale, per rispondere
alle infinite necessità della nostra
gente. Per questo faccio appello anche
alla generosità di quanti sostengono
i missionari della Consolata. E
li ringrazio di cuore. Sono certo che,
lavorando insieme, mano nella mano,
riusciremo a portare consolazione
e speranza evangelica in
questa remota parte dell’Etiopia».

STEMMA EPISCOPALE
Dall’alto: la corona (simbolo di santità
e buone opere), la tipica croce etiopica
e il pastorale (simbolo di servizio,
autorità e magistero).
I tre cerchi indicano la Trinità.
Il centro del campo è occupato dalla
Madonna con il bambino e la scritta
in caratteri etiopici: «Il verbo si è fatto
carne». Maria è rappresentata come
madre di Dio e in atteggiamento
di preghiera, figura della chiesa orante.
Il roveto ardente, oltre a ricordare
la figura di Mosè, simboleggia la rivelazione
definitiva di Dio mediante
l’incarnazione del Figlio.
La quercia a sinistra, tipica del paesaggio
dell’Oromia e presente nella
bandiera dello stato omonimo, simboleggia
fertilità e pace: alla sua ombra
si siedono gli anziani per discutere
i problemi della gente.
In basso il motto episcopale: «Lampada
ai miei passi è la tua parola, luce
sul mio cammino» (Sal 118,105).

SCHEDA DI MEKI
Superficie: 156.600 kmq.
Popolazione: 5,3 milioni.
Parrocchie e centri: 12.
Chiese cappelle: 64.
Cattolici: 21.520.
Catecumeni: 2.092.
Personale missionario:
17 missionari della Consolata,
3 fidei donum, salesiani, fratelli scuole
cristiane, suore di 12 istituti religiosi.
Personale locale: vescovo,
15 preti diocesani, una congregazione
di suore indigene.
Attività: seminario minore
e maggiore, evangelizzazione,
130 progetti (scuole, sanità, acqua,
agricoltura…) a beneficio di 2,47 milioni
di persone, per una spesa di 6 milioni
di euro in 5 anni.

Benedetto Bellesi




TORIBIO (COLOMBIA) bambini portatori di «handicap»

UN «CD» MUSICALE IN FAVORE DI…

Più che un articolo, è una lettera.
Per raccontare l’esperienza quotidiana
e invitare alla solidarietà,
nel rispetto della cultura locale,
in un contesto sociale drammatico.

TEATRO DI SCONTRI
Dall’alto delle Ande colombiane
un affettuoso saluto a tutti i lettori
di Missioni Consolata. Il nord del
Cauca, dove lavoro come missionario,
è sulla cordigliera centrale: quindi
è montagnoso, con altezze che variano
dai 1.400 ai 3.500 metri.
Non sono solo. Opero con altri
cinque missionari della Consolata,
un gruppetto di suore e alcuni laici.
Un saluto anche da parte loro. In équipe
serviamo quattro parrocchie:
Toribío, Tacueyó, Jambaló e Caldono.
Però, in realtà, la nostra attività
si estende a tutto il territorio indio
del popolo dei nasa, formato da 20
resguardos (riserve indigene).
Il luogo è ameno, con un clima favorevole:
è quasi un’eterna primavera
che permette di coltivare mais,
caffè e, nelle zone più calde e pianeggianti,
canna da zucchero. Non
manca la frutta.
Il mio saluto è anche preoccupato,
perché il nord del Cauca è teatro
di aspri conflitti sociali. Da circa 40
anni, data la posizione strategica di
ponte fra il nord e sud del paese, la
regione è una delle più cruciali della
Colombia, sede di gruppi guerriglieri:
Farc (Forze armate rivoluzionarie
colombiane) e Eln (Esercito di
liberazione nazionale). La zona recentemente
è diventata pure una via
di transito della cocaina.
Sul territorio si registrano continui
scontri armati fra la guerriglia, da una
parte, e l’esercito nazionale e le
milizie paramilitari dall’altra. La criminalità
organizzata, legata al traffico
di stupefacenti, rende il quadro
ancora più tetro.
E, come sempre accade, chi soffre
di più le conseguenze della lotta
armata è la popolazione civile,
aggredita, ferita e uccisa da personaggi
senza scrupoli. Ne deriva un
progressivo impoverimento delle
comunità.
Negli ultimi anni il nord del Cauca
ha registrato una forte crescita
demografica e, di conseguenza, una
maggiore richiesta di mezzi per l’educazione,
la salute e l’alimentazione;
ma non è seguito un corrispondente
aumento della produzione.
L’economia agricola è in grande parte
di sussistenza. Vittime soprattutto
di tale situazione sono i giovani e,
in maniera drammatica, i bambini.
Una cospicua parte delle attività
pastorali della parrocchia è diretta
proprio a quest’ultima fascia debole
della popolazione. Gli interventi
sono diversificati: vanno dalla catechesi
ordinaria, che consente un diretto
rapporto con i bambini nelle
scuole, alla preparazione ai sacramenti,
al sostegno dei Semilleros de
la paz (seminatori di pace). È questo
un movimento di educazione alla
pace; i bambini provengono sia
da centri urbani sia da frazioni di
campagna dove vive la maggioranza
della popolazione.
Ancora: da oltre un anno è in corso
un programma di adozioni a distanza,
appoggiato dall’associazione
Italia solidale, con la quale riusciamo,
grazie alle autorità indigene e al
lavoro di volontari locali, a raggiungere
i bambini più bisognosi.

SE LA VITA È DURA
Il contatto capillare con le famiglie
più povere ci ha aperto gli occhi
su altri problemi, non facilmente
percepibili ad un primo sguardo
sommario. Alludo alla situazione
dei bambini disabili o gravemente
malati, bisognosi di interventi specifici
di chirurgia o di rieducazione:
trattamenti che, data l’estrema povertà sociale, sono fuori della portata
dei genitori.
Ebbene, quando un amico di Torino,
Gabriele, mi ha parlato della
possibilità di incidere alcuni brani
musicali su CD per proporlo in «offerta
» e inviare i proventi alla nostra
missione, ho pensato subito ai piccoli
disabili. Il progetto di Gabriele
potrebbe essere condiviso anche da
altri amici italiani.
Ho scritto che il fenomeno della
«differenza» non è subito facilmente
avvertibile. Mi riferisco anche alle
barriere culturali, che tendono a
isolare e nascondere i bambini portatori
di handicap fisici o mentali.
Oggi una maggiore coscientizzazione
sul valore della persona permette
a molte creature sfortunate di
vivere: non vengano più soppresse
nelle prime ore di vita, per consentire
alla famiglia una sopravvivenza
senza il fardello ulteriore di un figlio
«esigente».
Ciò che a noi può apparire un dato
aberrante deve essere, però, letto
nel contesto di una vita durissima,
dove la lotta per sopravvivere è
quotidiana e dove un bambino handicappato
sottrae alla famiglia forze
importanti, che potrebbero consentire
agli altri membri maggiori
probabilità di crescere, di andare a
scuola, ecc.
Nella regione del Cauca il tasso
di mortalità infantile è elevato, e la
denutrizione è una delle cause principali
(se non la più grave) che porta
il bimbo a soccombere, oppure a
vivere con pesanti condizionamenti
fisici e psicologici.
A questo si aggiunge un altro fatto:
un figlio penalizzato fin dalla nascita
(anche se accettato) rimane sovente
abbandonato a se stesso. Una
terapia specifica potrebbe aiutarlo a
crescere, a sviluppare le sue potenzialità,
a unirlo di più alla comunità.
Questa, invece, tende a isolarlo.
In tale contesto l’azione «con» e
«sulla» famiglia è fondamentale per
intaccare il male alla sua radice. Però
molti genitori non sono in grado di
offrire ai figli un ambiente idoneo
dove possano almeno «non peggiorare» la già precaria situazione.

ALTRE BARRIERE
Il problema della famiglia è acuto.
Tanti nuclei familiari sono frutto
di unioni forzate, dovute a gravidanze precoci.
In numerosi casi il padre è assente,
fisicamente ed economicamente.
Tante madri sono incapaci di educare
i figli, che vengono pertanto affidati
alla nonna o ad una sorella
maggiore, con pochi anni di più. Risulta,
allora, quasi impossibile che
un bambino disabile, bisognoso di
particolare attenzione, abbia un adeguato
accompagnamento da parte
dei familiari, mentre necessiterebbe
di assistenza e riabilitazione
costanti in un ambiente che lo circondi
di affetto.
Incide molto anche la fede popolare
nel medico tradizionale (sciamano)
e nei benefici della sua medicina.
D’altro lato, c’è il sospetto e,
talvolta, la paura di affidarsi alle cure
della medicina occidentale; dal
dottore o all’ospedale si va se lo prescrive
lo sciamano. Tale credenza è
molto radicata nella gente, anche
per l’indubbio ruolo socio-religioso
che lo sciamano esercita all’interno
della società indigena.
La presa di distanza dalla medicina
occidentale fa sì che, sovente, la
donna preferisca partorire in casa,
aiutata da una partera e sotto gli auspici
dello sciamano, anche quando
il parto, per la sua difficoltà, richiederebbe
il ricovero in una struttura
ospedaliera. Va da sé che tali scelte
possono essere causa di handicap
nel nascituro e rischiose per l’incolumità
della puerpera.
Ai problemi di origine culturale si
aggiungono quelli più strettamente
economici. I genitori sono poveri e,
anche se volessero, sarebbe per loro
impossibile fornire ai figli, portatori
di handicap, un’attenzione sanitaria
in grado di aiutarli a vivere
meglio la disabilità.
La nostra regione, poi, non possiede
alcuna struttura capace di offrire
un’attenzione specializzata ai
portatori di handicap. Le famiglie
che possono o desiderano fare qualcosa
per loro devono, giocoforza, rivolgersi
altrove: alle strutture ospedaliere
di Santander de Quilichao,
Cali, Popayán.
E ciò è un freno alla buona volontà
di una famiglia di Toribío. Infatti
il solo viaggio in chiva (tipica
corriera colombiana) a Santander,
la cittadina più vicina (a 45 chilometri
percorribili in circa due ore)
può rappresentare un problema serio
per tante famiglie; senza contare
che, in molti casi, la specifica infermità
del bimbo esige un trasporto
su un’auto privata, sicuramente
più costoso. A questo si aggiunga la
tradizionale diffidenza del contadino
verso il mondo urbano e a quanto
egli percepisce come minaccia.
La situazione di scontro armato
peggiora ulteriormente le cose, visto
che la gente vive in un territorio interamente
controllato dalla guerriglia;
mentre nella zona pianeggiante,
all’imbocco della valle, stazionano
l’esercito e i paramilitari, sempre
pronti ad identificare o sospettare in
chi viene dalla montagna un simpatizzante
della guerriglia. Le troppe
persone uccise, sequestrate o fatte
sparire, in questo interminabile conflitto,
consigliano a tutti di muoversi
con estrema prudenza e, sempre,
con molta ansia.
E che dire del costo di una visita
specialistica, delle medicine, della
degenza in ospedale talvolta necessaria
in città?
Tutto ciò crea barriere insormontabili
per la quasi totalità delle famiglie.

PERÒ QUALCOSA C’È GIÀ
Con l’apporto di benefattori stranieri
e di medici colombiani sensibili
al problema, siamo riusciti ad
offrire interventi agli arti e al cuore
di alcuni bambini disabili. Però la
strada è ancora lunga e tortuosa.
Per ora il nostro progetto è assai
modesto: vorremmo creare una piccola
équipe di specialisti operanti in
loco, in grado di aiutare i bambini
bisognosi nei resguardos di Toribío,
San Francisco e Tacueyó. La prima
unità sanitaria dovrebbe essere formata
da un fisioterapista, un logopedista
e uno psicologo, che potrebbero
lavorare sia nel centro urbano
sia nelle veredas, visitando non
solo i bambini, ma anche le famiglie,
chiamate a garantire l’accompagnamento
costante dei piccoli pazienti.
Oltre a superare il problema del
trasporto, il sistema garantirebbe
pure un intervento medico rispettoso
della cultura locale. Sarebbe
impensabile un aiuto psicologico ignorando
il contesto socio-culturale
della popolazione.
Lo stato iniziale del progetto non
ci consente di quantificare l’aiuto
necessario per incominciare ad operare.
Sicuramente dovremo istituire
un piccolo centro, fornito di qualche
materiale per un’azione fisioterapica:
una cyclette, alcuni tappetini
di gomma piuma, una spalliera e
quanto ci verrà consigliato dal personale
addetto alla gestione del centro.
Tale personale può essere contattato
attraverso università specializzate
nel settore.
Intanto una ragazza di Tacueyó,
abilitata in logopedia, presto inizierà
a lavorare nel progetto, facendosi
carico dei bambini con problemi
di udito e parola. Ma abbiamo
bisogno di un piccolo fondo di
denaro per incominciare l’attività.
E, da questo, procedere con un progetto
concreto più definito.
Intendiamo partire dai casi più
semplici, che diano un risultato visibile
a breve termine, per mostrare
alle famiglie più scettiche che esiste
una luce, seppur fioca, all’uscita del
tunnel. Spesso le mamme non portano
i figli alla terapia, perché non
vedono miglioramenti e si rifugiano
nel classico: «Tanto non c’è nulla da
fare!». Oppure: «Campa cavallo!».
Con il vostro sostegno, cari amici,
ci piacerebbe sfatare
questi nefasti luoghi comuni.
Grazie.

(*) Padre Ugo Pozzoli, torinese,
dopo la laurea in filosofia all’università
cattolica di Washington, è
missionario in Colombia.
Ha vissuto anche una breve esperienza
in Ecuador.

Ugo Pozzoli




INDIA tensioni nello stato del Gujarat

POVERO GANDHI, SEMPRE MENO DI MODA!
Gujarat, uno dei 28 stati dell’«Unione».
Nel 2002 ha riproposto il drammatico «cliché»,
che fin dall’indipendenza (1947)
tormenta il subcontinente indiano:
lo scontro fra indù e musulmani.
Né mancano violenze verso i pochi cattolici.
C’è dell’altro: la religione del giainismo, per esempio.

SANGUE NEL GUJARAT
Che cosa è rimasto del sogno di
tolleranza di Gandhi nel luogo dove
è nato e cresciuto?
Oggi, 27 dicembre 2002, Rajkot
pare una città tranquilla. Pochi giorni
sono trascorsi dalle elezioni, che
hanno concluso un anno drammatico
della storia dello stato indiano del
Gujarat. La tragedia di Godhra, in
febbraio, quando un treno carico di
pellegrini indù fu incendiato da musulmani,
causando la morte di oltre
70 persone, ha segnato l’inizio di una
serie di violenze inaudite, dovute
all’estremismo religioso. La reazione
degli induisti, a marzo, causò
oltre mille morti e decine di migliaia
di senza tetto.
Il capo del governo del Gujarat,
Narendra Modi, non è riuscito a
controllare la situazione. Anzi, la
stampa indiana (che mi pare libera
e critica) lo accusa pesantemente di
aver soffiato sul fuoco, cavalcando
la rabbia popolare e pretendendo di
indire le elezioni in un clima guastato
da tensioni. «Il signore che divide,
che fomenta l’odio tra i cittadini
». Queste ed altre espressioni si riferiscono
al discusso personaggio, la
cui foto occupa da mesi le prime pagine
dei giornali. La vita di Modi,
che abita con l’anziana madre in una
modesta casa nei dintorni di Ahmedhabad,
è sobria, monacale: un
forte contrasto con la veemenza con
cui ha portato il partito induista BJP
(Bharatiya Janata Party) al trionfo
nelle elezioni dello stato…
Lascio l’auto davanti alla statua
bianca del mahatma Gandhi, che a
Rajkot è vissuto da ragazzo, quando
suo padre era il primo ministro del
raja del Saurashtra. Attraverso i giardini
e infilo una stretta via, bordata
dalle bancarelle del mercato. I colori
e gli odori sono quelli tipici dell’India.
La meta è la casa di Gandhi, dove
sono esposte foto e oggetti appartenuti
al mahatma. Nell’elaborare la filosofia
della non violenza, egli certamente
fu influenzato dal giainismo,
la religione che nel Gujarat ha
comunità e centri importanti. Grazie
all’intraprendenza dei fedeli jaina,
infatti, il Gujarat è uno degli stati
più ricchi dell’India. Notevoli sono
le industrie tessili ed elettroniche.
La convivenza tra popoli di diversa
religione, lingua e cultura è una
caratteristica del subcontinente indiano.
Negli ultimi anni, però, si sono
acuite le tensioni tra le comunità
indù, che rappresentano la maggioranza,
e quelle islamiche e cristiane.
L’islam penetrò in India da queste
terre e anche i primi contatti con
l’occidente avvennero qui, in Gujarat.
Quando i britannici decisero di
aprire una base commerciale, scelsero
Surat, mentre i portoghesi
mantennero una colonia a Diu e Daman
fino al 1961.
La regione del Saurashtra, dove
mi trovo, è una penisola stretta tra il
golfo di Cambay a est e il Kutch a ovest,
una landa desertica confinante
con il Pakistan. Essa non fece mai
parte del Raj britannico, ma restò divisa
in piccoli principati fino all’indipendenza.
Oggi molti tra i raja e le maharani,
per mantenere i loro palazzi, hanno
aperto le porte ai visitatori, che possono così godere del fascino di dimore
storiche. Ora tutto pare tranquillo.
Però l’anno che si chiude è
stato traumatico per lo stato indiano
del Gujarat.
PELLEGRINAGGIO SUL MONTE
La città di Junagadh, a sudovest di
Rajkot, è dominata da un colle, circondato
da una fortezza. Scavate
nella roccia sono numerose le grotte
buddiste finemente scolpite. Dentro
le mura possenti sorge una moschea,
costruita con colonne e fregi
di un tempio indù. Il Gujarat ha subito
nei secoli numerose incursioni
islamiche e non è raro trovare questo
tipo di costruzione. Ma l’induismo
ha resistito, a dispetto di tante
devastazioni.
Salgo sulla terrazza, da dove si gode
un bel panorama sui monti vicini
che, domani, saranno meta di una
visita-pellegrinaggio.
Parto prima dell’alba. Quando arrivo
alla base del monte Giar, è ancora
buio, ma la folla preme. C’è un
via vai di portatori e pellegrini, sadu
e venditori. Affronto la ripida ascesa,
che in 3 mila gradini mi porterà
a uno dei più famosi e antichi complessi
templari del giainismo. Passano
le portantine con corpose signore,
pesanti sulle spalle di magri individui
scalzi.
Cerco di resistere alla fatica, ma
ecco che mi viene offerto un bastone
su cui appoggiarmi: Nitika Jain
ha 16 anni ed è curiosa di sapere
tutto di me. Mi segue fino in cima al
monte, parlando fitto e rivolgendomi
tante domande, orgogliosa del
suo buon inglese. «Vengo da Ujain,
dello stato del Madhya Pradesh – mi
spiega -, dove frequento la scuola
nel convento delle suore cattoliche,
la migliore della città. Studio inglese
e informatica». Poi mi presenta
la sua famiglia: i genitori, in abiti
bianchi di pellegrini, una sorella e
un fratellino di 5 anni. Bella gente,
ma nessuno parla inglese.
Il cielo si rischiara e noi affrontiamo
l’ultimo tratto di salita, che ci fa
superare uno strapiombo roccioso.
Quando arriviamo nel luogo sacro,
l’aria si sta riscaldando.
Visito diversi templi; il più grande,
del XII secolo, è dedicato al 22°
saggio (Tirthankara), rappresentato
da una statua in marmo nero, dagli
occhi inquietanti, lucidi, di madreperla.
I templi jaina sono luoghi sereni,
pieni di vita e, sovente, testimoni di
un’arte raffinata. Si trovano templi
giainisti in migliaia di villaggi indiani,
spesso affiancati da ostelli, scuole,
biblioteche, accessibili a pellegrini
di ogni credo.

L’ISOLA PER BERE ALCOOLICI
Dopo aver attraversato rade foreste
di alberi di tek e le brulle pianure
del Kathiawar, arrivo a Somnath,
in riva al Mare Arabico. Qui sorgeva
il tempio d’oro di Somraj, il dio
della luna, che secondo la leggenda
è stato riedificato in argento, poi in
legno e infine in pietra. La fama del
ricco tempio giunse anche al terribile
Mahamud Ghazni, che nel 1024
scese dal suo regno afghano per razziare
e distruggere il sacro edificio.
Oggi il tempio di Somnath è una
costruzione complessa, ma senz’anima,
essendo stato rifatto negli anni
’50. Il sito è spettacolare, alto sulla
vasta spiaggia, battuta da onde. I
frammenti di pietra dell’antica costruzione
sono stati raccolti e vengono
conservati in un piccolo tempio
indù, trasformato in museo. Nel
villaggio si notano uomini con il copricapo
islamico e donne avvolte da
un manto.
Proseguo lungo la costa del Mare
Arabico e arrivo a Diu, l’isola che fu
un’enclave portoghese fino a pochi
anni fa e ora dipende dal governo
centrale di Delhi. Le strade della cittadina
sono animate e gli alberghi
pieni di visitatori. Questo è l’unico
luogo, nel Gujarat, dove è possibile
bere alcornolici e oggi, ultimo giorno
dell’anno, i locali sono presi d’assalto.
Le chiese e il forte che domina
l’abitato sono magnifici, ma malinconici.
La grandiosa chiesa di san Paolo
(l’unica rimasta aperta al culto) è in
uno stato penoso di abbandono. Il
chiostro, ricco di piante, è circondato
da un porticato splendido dall’intonaco
azzurro. Salgo attraverso
l’ampia scalinata che porta al primo
piano, dove sono le aule di catechismo.
Cerco un sacerdote o un fedele
che mi possa guidare nella visita,
ma non incontro nessuno. Uscendo,
l’unica persona desiderosa di darmi
qualche notizia è la venditrice di bibite,
dal suo banchetto sul viale, che
mi parla in portoghese.
L’ultima notte del 2002 la trascorro
a Gir, nella foresta che protegge
gli ultimi esemplari del leone asiatico.
Nel lodge della riserva alcune famiglie
di Delhi si stanno preparando
alla festa di fine anno. Incontro
pure tre ragazze in pantaloni e camicetta:
Medha, Mayanka e Shivika.
Sono «modee» e mettono subito
in chiaro di non volere seguire la tradizione
del loro paese. Viaggiando
in India è un po’ difficile incontrare
donne vestite all’occidentale.
Le giovani parlano molto bene inglese
e ne sono orgogliose. Due di
loro frequentano scuole cattoliche,
anche se sono indù. Stasera staremo
insieme in giardino, intorno al fuoco,
per assistere allo spettacolo dei
danzatori rabari, uomini vestiti di
bianco secondo la tradizione della
regione, con i pantaloni stretti al
polpaccio e l’ampia giacca arricciata
davanti.

UN’INTELLETTUALE ISLAMICA
Seema è un’intellettuale islamica,
che mi parla apertamente del suo
paese e dei gravi problemi che lo affliggono.
«La laicità dello stato oggi
è in pericolo – mi avverte -. L’India è
una nazione giovane che, tuttavia,
dà forti segni di invecchiamento, vacillando
sotto il peso di una popolazione
che esplode, con una povertà
crescente e carenza di pensiero. La
corruzione è dilagante. Dal sistema
delle caste derivano violenza, rabbia,
frustrazione».
L’India diventò indipendente nel
1947, dopo la sanguinosa spartizione
voluta dal separatismo islamico.
Gandhi allora si oppose fortemente
alla divisione, fatta su basi religiose.
Oggi l’indipendenza è minacciata
dal fascismo indù. Lo stato pare incapace
di fronteggiare le forze determinate
a fomentare paura, violenza
e disordini sulle strade, in base
alle differenze religiose.
La religione riveste un ruolo importante
in India, che vanta un numero
di confessioni e sètte superiore
a qualsiasi altro paese. Induismo,
buddismo e giainismo sono nati qui.
Presente è anche lo zoroastrismo, una
delle fedi più antiche del mondo.
Seema spiega: «I padri della patria
vollero fondare uno stato laico
e democratico, mentre oggi il primo
ministro Vajpayee pare orientato a
sostituire la laicità dello stato con la
teoria indù dell’Hindutva, definendola
aperta e illuminata. Anche Jinnah
(fondatore del Pakistan) aveva
cercato di convincere l’allora opinione
pubblica di un islam moderato,
puro, riformista e progressista.
Invece ne vediamo le conseguenze
in Pakistan, uno stato basato sulla
religione. Dopo 50 anni, il paese è
stretto nella morsa dei fondamentalisti,
coinvolti profondamente nella politica e pronti a strappare il potere
ai militari e ai moderati».
«Oggi noi ci ritroviamo personaggi
come Modi (presidente del Gujarat),
che assomigliano a nuovi Hitler.
Anche il nostro presidente, con
i suoi pensieri vaghi e i ragionamenti
ambigui e indecisi può minare le
fondamenta su cui è stata costruita
la nazione indiana… Nel ’47 Jinnah
diceva che l’islam era in pericolo;
oggi lo si dice per l’induismo. Però
né l’islam, né l’induismo, né il cristianesimo
sono in pericolo. Queste
religioni hanno dimostrato di saper
superare le prove del tempo, sopravvivendo
a battaglie e guerre, fanatismi,
invasioni e purghe, mentre
le nazioni crollavano».
Oggigiorno l’India deve affrontare
un grave pericolo: quello di politici
avidi che usano la religione
per mettere i cittadini gli
uni contro gli altri e distruggere
una nazione
costruita con saggezza
e tenacia sulle sue pluralità
e diversità.

RICORDANDO SAN TOMMASO
Una dimora regale, circondata da
un grande parco, ai margini di una
città portuale disordinata e caotica.
Sono a Bhavnagar. Qui una maharani,
oltre ad aver trasformato il palazzo
in un albergo di grande fascino,
ha creato e mantiene all’interno
una scuola matea per bambine.
Stasera le piccole si esibiranno in una
danza tradizionale, nei loro sari
colorati.
Mi affretto ad uscire, diretta alla
chiesa di St. Xavier, a pochi isolati di
distanza, accanto alle prigioni di stato.
Il complesso include l’edificio
scolastico, e l’unica luce nella sera
proviene dagli uffici del parroco. Mi
accoglie una suora in sari. Padre Emanuel
è un giovane
carmelitano di 36
anni, originario
del Kerala, lo
stato indiano
con la
più alta percentuale di cattolici. «I
frati carmelitani di Maria Immacolata
rappresentano la congregazione
più numerosa nel paese; ma ho molti
confratelli che vivono a Roma per
ragioni di studio».
La comunità cattolica di Bhavnagar
si compone di 170 famiglie, provenienti
da diverse parti dell’India.
Gli uomini lavorano al porto, nell’industria
di smantellamento delle
vecchie navi. Un lavoro durissimo,
fatto con mezzi rudimentali.
Parliamo del Kerala, che visitai alcuni
anni fa. Accanto ad una chiesa
di rito latino, voluta dai missionari,
ne esistono altre due: quella siromalabarese,
fondata secondo la tradizione
da san Tommaso nel 52 d.
C., e la chiesa malangara, stabilita
dai portoghesi di Vasco da Gama
nel 1498. In quest’ultima si distinguono
due gruppi: i siro-ortodossi,
che sono circa 3 milioni e hanno un
catholicos in Kerala, e gli ortodossi
giacobiti, con un patriarca in India
e uno in Antiochia.
Nella città di Bhavnagar operano
cinque scuole cattoliche, perché l’educazione
è una priorità per la chiesa
indiana. Purtroppo le violenze
verso i cattolici sono in aumento: nel
sud del Gujarat si bruciano le chiese
e si terrorizza la gente (*). I soprusi
riguardano soprattutto i «tribali
», i «fuori casta» dei villaggi, fra
i quali operano i sacerdoti.
C’è chi è contrario allo sviluppo e
l’educazione. Pertanto i paria devono
rimanere ignoranti, per ragioni
politiche. Anche le elezioni sono
manipolate e, per farlo, occorre
che la popolazione
sia incapace di disceere.

(*) Secondo un progetto di legge del
26 marzo 2003, in India le conversioni
religiose sono molto ostacolate; anzi,
sono considerate un crimine se si
ricorre alla forza. Nello stato del Gujarat
una simile conversione è punibile
con tre anni di prigione e una multa di
2.100 euro.
Le gerarchie cattoliche, protestanti e
ortodosse hanno criticato il disegno di
legge. L’arcivescovo cattolico Stanislaus
Feandes, di Gandhinagar, teme
che sia uno strumento per spaventare
i cristiani nella testimonianza della loro
fede (ndr).

INDIA: 28 STATI E 7 TERRITORI
Con 1 miliardo e 40 milioni di abitanti,
è il paese più popoloso
del mondo dopo la Cina. Vasta pure
la superficie: 3.287.263 chilometri
quadrati
.
È una repubblica federale o «unione», con capitale New Delhi.
L’unione comprende 28 stati, ciascuno
dotato di assemblea legislativa
e governo propri, e 7 territori
amministrati dal governo centrale
di New Delhi. Il potere è gestito
dal partito nazionalista indù BJP
(Bharatiya Janata Party). Tuttavia
nel 2002 il partito del congresso,
all’opposizione, ha vinto le elezioni
nello stato dell’Uttar Pradesh,
che è cruciale per
il controllo dell’intera unione.
Sempre alta la tensione nello stato
del Kashmir, a causa dei separatisti
musulmani. Anche il Gujarat,
nel febbraio-marzo 2002, è
stato sconvolto da violenze:
oltre 700 i morti.

La religione del giainismo
ANCHE CON IL VELO SULLA BOCCA
La religione del giainismo fu fondata nel VI secolo a.C. da Vardhamana,
detto Mahavira. A 30 anni lasciò la famiglia e i piaceri di una vita
agiata, per dedicarsi alla meditazione e all’ascetismo sulle orme di
alcuni saggi che lo avevano preceduto, chiamati Tirthankara.
Come il buddismo (di cui è contemporaneo), anche il giainismo nacque
come un movimento riformista dell’induismo; ne rifiutava la divisione
in caste, per esempio. Retta fede, retta condotta (con i cinque comandamenti:
non nuocere, non mentire, non rubare, castità, povertà)
e retta conoscenza sono le basi del credo jaina.
Un altro elemento essenziale per la salvezza è il rispetto verso ogni
essere vivente: ecco perché i jaina sono vegetariani rigorosi; e alcuni arrivano
persino a coprirsi la bocca con un velo per evitare di inghiottire
inavvertitamente qualche insetto. Uno stile di vita tanto rigoroso è riservato,
però, alle comunità religiose: 10 mila asceti, di cui 6 mila donne.
Il saddhi (asceta) errante incarna il rispetto per la vita dei jaina:
non ha Dio, né maestri. Accetta le opinioni e i credi diversi, per evitare
ogni forma di violenza. Pulisce la terra davanti ai piedi, per non rischiare
di pestare ogni minimo essere vivente.
Questi principi consentirebbero ad ognuno di diventare un «vittorioso
», liberarsi del proprio io, conseguendo l’illuminazione e la purificazione.
I fedeli laici hanno regole meno severe per la castità e la proprietà,
ma non devono arricchirsi a dismisura.
Sanno che la ricchezza
è un’illusione, uno stato passeggero;
e, quando hanno raggiunto
il benessere, possono decidere
di distribuire le loro ricchezze,
creando fondazioni educative
e caritatevoli.
Il giainismo non ha mai preteso
la conversione di masse, ma
l’esempio dei suoi asceti pellegrini
ha saputo attirare nella comunità
aristocratici, ministri e
persone facoltose.
Oggi i jaina sono solo 3 milioni
e mezzo, ma rappresentano
una delle comunità più influenti
e dinamiche dell’India.
Proprio sul monte Giar opera
Masturbai Lal Bhai, fondatore di
uno dei primi 15 imperi industriali
indiani. Superati i 50 anni,
si è ritirato dagli affari per
dedicarsi ad opere di bene e alla
manutenzione del maestoso
complesso templare sul Giar.

Claudia Caramanti




NOVA MAMBONE (Mozambico) opere di promozione umana

SAPORE DI SALE
Una missione, idee chiare sullo sviluppo,
un «fratello» tuttofare…
E tante attività che non sono venute mai meno,
anche nei momenti più difficili.
Grazie a un «ragioniere» onesto…

Dopo la seconda guerra
mondiale, i missionari della
Consolata che avevano evangelizzato
il nord-ovest del Mozambico
da 25 anni, decisero di aprire
un nuovo campo di lavoro
missionario. Fu scelta l’attuale regione
costiera a nord di Maputo,
nella provincia di Inhambane, diventata,
in seguito, la diocesi di
Inhambane.
Una serie di missioni fu pianificata
lungo la strada nazionale che univa
la capitale con la seconda città più
importante del paese, Beira, 100
chilometri più a nord. Agli inizi degli
anni ’50, padre Vespertini si installò
al limite estremo della provincia,
presso la città coloniale
di Nova Mambone, sulla riva
del fiume Save, che separa la
provincia di Inhambane da
quella di Beira. Fu lì che, nel
1954, inaugurò la parrocchia
del Sacro Cuore, sette chilometri
circa a ovest della città.
Tutto questo per far ricordare
come, nel 2004, si festeggeranno
i 50 anni di fondazione di questa
parrocchia. E bisogna dire che l’evangelizzazione
fu davvero intensa
se oggi i cattolici costituiscono il
6% della popolazione e i cristiani il
20%. Due sono le etnie che hanno
accolto il vangelo: i vatshwa e i vandau.
I primi abitano la regione costiera
(la maggioranza dei quali nella
provincia di Inhambane); i secondi
si sono piazzati lungo il corso
del fiume Save, all’interno, verso
lo Zimbabwe. Numerose sono le
sètte tra i vatshwa, mentre i vandau
sono rimasti più attaccati alle loro
tradizioni ancestrali.

UN «FRATELLO» E TANTE OPERE
Quando i missionari si installarono
a Doane (a circa 7 chilometri
dalla città di Nova Mambone), non
c’era praticamente nulla. Cominciarono,
dunque, non solo a evangelizzare,
ma anche a dedicarsi a
un’intensa promozione umana.
Questa cominciò subito attraverso
una fitta rete di scuole e
dispensari; ogni una decina di chilometri,
nasceva una scuoletta elementare,
mentre le superiori trovavano
posto nella missione centrale,
arricchite anche da un collegio per
gli alunni più lontani.
Accanto alle scuole, per venire
incontro ai bisogni sempre più numerosi
delle varie istituzioni e della
popolazione, cominciò anche a
sorgere un atelier (segheria e falegnameria),
famoso per la sua produzione
di sedie, mobili, banchi di
scuola (la prima segheria dei missionari
della Consolata era stata installata
in Kenya, nel 1905, da fratel
Benedetto Falda). Con le costruzioni
in muratura, divenne
indispensabile pensare a mattoni e
blocchi di cemento; da qui le varie
foaci e una scuola per preparare
valenti muratori. E, viste le distanze,
l’uso dei veicoli portò alla creazione
di garages e alla formazione
di numerosi meccanici.
Tutte queste incombenze «tecnico-
materiali» venivano normalmente
svolte dai «fratelli coadiutori
», preparati a questo scopo. A
Nova Mambone, maestro incontrastato
è fratel Pietro Bertone; è lui
a farmi da guida nei vari laboratori
e officine, mostrandomi un’infinità
di aggeggi, di cui talvolta ignoravo
non solo l’uso, ma perfino l’esistenza.
– Fratel Pietro, ma tu sei capace di
far funzionare tutti questi marchingegni?
– Sì, ma il problema più grosso è la
loro riparazione. Sovente manchiamo
di pezzi di ricambio e, per farli
arrivare, occorre talvolta molto
tempo e, soprattutto, pazienza. Allora,
supplisce la fantasia.
Naturalmente il fratello non è solo
in questa impresa; in 50 anni la
missione ha formato decine di giovani,
oggi esperti nei vari mestieri e
capaci di mantenere la famiglia con
la loro attività.
Parroco della missione è il giovane
Arlei Pivetta, originario del Brasile.
Mentre mi fa visitare la chiesa,
pur non essendo io un esperto, mi
accorgo che la costruzione, ormai
cinquantenaria, ha bisogno di
qualche riparazione. «Ma – mi spiega
il padre – non è solo questione di
anni, bensì anche del terribile ciclone,
che ha investito la regione
nel febbraio del 2000. Dalle cronache
risulta che i grandi nubifragi arrivano
raramente: due o tre per secolo;
quello del 2000 è stato uno di
questi. C’erano delle onde alte seisette
metri, che hanno spazzato via
tutto; centinaia di persone sono
morte e migliaia sono rimaste senza
casa».
Uno dei sogni della missione, in
occasione dei festeggiamenti per il
cinquantesimo, sarebbe quello di
una buona riparazione della chiesa,
soprattutto con la sostituzione totale
del tetto, davvero danneggiato.

IL SALE… DELLA SALVEZZA
Durante le guerre degli anni
scorsi era praticamente impossibile
fare arrivare denaro in Mozambico,
ma sotto la spinta del regime
marxista, bisognava arrangiarsi con
l’autofinanziamento, chiesa e missioni
comprese. Fu allora che il
parroco di Nova Mambone, padre
Amadio Marchiol, ebbe un’idea geniale:
dal momento che la missione
sorgeva in riva all’oceano, si sarebbe
potuto estrarre sale dal mare.
Dopo aver consultato qualche esperto,
la cosa risultò fattibile e il
progetto andò avanti.
È sempre fratel Pietro che mi
porta a visitare le saline. Ogni giorno,
a causa della rapida evaporazione,
una cinquantina di operai vi
lavora a tempo pieno; e, nei periodi
caldi e secchi, quando il sale può
essere estratto in sole 48 ore, il numero
degli operai raddoppia, arrivando
a un centinaio. Per quindici
giorni al mese la marea arriva fino
alle saline e due pompe «succhiano
» l’acqua del mare, inviandola in
un grande bacino. Attraverso diverse
vasche di decantazione, vengono
eliminati gli altri sali minerali
e nell’ultima (dove l’acqua raggiune
i 26-28°) rimane il sale pulito
e commestibile.
Non è il fratello a occuparsi direttamente
del funzionamento delle
saline, che è invece affidato a due
responsabili locali, molto ben preparati
e competenti. Sono proprio
loro a farmi vedere l’ultima tappa:
con dei grandi rastrelli si lava il sale
nell’acqua e poi lo si accumula su
dei piccoli marciapiedi. Viene poi
trasportato in magazzini speciali,
dove viene seccato e «iodato». L’ultima
operazione è l’insaccamento,
perché il sale sia pronto alla vendita
e al consumo.
Questo progetto fu la carta vincente:
da allora, la missione trovò la
sua fonte di sostentamento.
È per venire incontro ai bisogni
della gente e dei missionari che sono
state pensate e realizzate tutte
queste opere sociali: dispensari,
scuole, segherie, garages, falegnamerie…
La missione è così diventata
una vera e propria «azienda» con
un bel numero di operai. Fratel
Pietro mi aggioa sui numeri.
«Abbiamo circa cento-centocinquanta
operai, dei quali i due terzi
lavorano nelle saline. Ci sono poi
otto operai nella falegnameria e sei
meccanici. Sei ragazze lavorano
nell’asilo della parrocchia, mentre
i quattro ragazzi che costruiscono
blocchi di cemento non sono operai
effettivi: ogni mattina diamo loro
quattro sacchi di cemento, con i
quali riescono a produrre un po’
meno di duecento blocchi».
Ma la missione, con le sue scuole
e collegi deve anche mangiare;
per questo non manca l’orto e allevamenti
vari. Un solo operaio (sordomuto)
tiene a bada tutto, soprattutto
il frutteto da cui partono, per
la gente, frutti di varie qualità per
diversificare la loro alimentazione.
Mi sorge spontanea una domanda:
«Come mai tutta questa “impresa”
non è stata toccata durante
il periodo della nazionalizzazione e
della guerra civile?».
– È grazie al nostro “ragioniere” –
mi spiega sempre fratel Pietro -. È
lui che ha salvato la missione.
Quando l’esercito e il governatore
arrivarono a vedere le saline, lui
disse che erano sua proprietà. E dal
momento che venivano nazionalizzate
le opere della chiesa e non
quelle dei privati, tutto fu salvo. Per
parecchi mesi a Nova Mambone vi
fu un solo missionario, ma il ragioniere
continuò a gestire l’attività
con profonda onestà e sui conti
bancari i soldi non mancarono di
essere regolarmente depositati.
Oggi, il ragioniere è in pensione,
ma i due figli ne continuano
l’opera; sempre
allo stesso modo…

Jean Paré




UNA SOFFERENZA «IMPOSTA»

Julien Andavo Mbia vescovo di Isiro-Niangara (Congo R. D.)
Nato nel 1950 a Faradje (Isiro) da famiglia cristiana,
sacerdote dal 1979, mons. Julien Andavo
Mbia ha conseguito la licenza in teologia alle
Facoltà cattoliche di Kinshasa e il dottorato
in teologia morale a Fribourg (Svizzera). Viceparroco,
economo alle Facoltà cattoliche, professore
di morale al Teologato di Bunia, rettore
del Filosofato interdiocesano di Kisangani, è
stato nominato vescovo di Isiro-Niangara il 19
dicembre 2002 e consacrato il 19 marzo 2003.

Monsignor Julien, lei è il vescovo
eletto di Isiro. In questa città
è stato consacrato, il 19 marzo
scorso, dal card. Frédéric Etsou-
Nzabi Bamungwabi, arcivescovo
di Kinshasa. Date le difficoltà
del momento, perché far venire
a Isiro proprio l’arcivescovo di
Kinshasa?
È stato previsto che il card. Etsou
come primo consacrante, affiancato
da mons. Laurent Monsengwo Pasinya,
arcivescovo di Kisangani e dal
nunzio apostolico, mons. D’Aniello
Giovanni.
Vi sono molteplici ragioni per la
presenza del cardinale. È il presidente
della Conferenza episcopale del
Congo. La sua venuta a Isiro vuole
sottolineare l’unicità e l’unità del
paese e della nostra chiesa. Manifesta
la preoccupazione e la sollecitudine
della chiesa universale per una
chiesa locale che soffre. Diventa così
un momento di solidarietà e di incoraggiamento
per i cristiani di Isiro e
anche per me, loro giovane vescovo.
La presenza del cardinale, presidente
della Conferenza episcopale, dell’arcivescovo
Monsengwo, presidente
della Secam, e del nunzio, rappresentante
del papa nella R.D. del Congo,
vuole essere anche un appello alla
coscienza dei nostri dirigenti politici,
che sono molto incerti sul da
farsi. Penso che la questione dell’incoraggiamento
da parte della chiesa
sia veramente importante.
Situazione di crisi. Come la vive
e come sopravvive la gente della
sua diocesi?
C’è una crisi molto acuta sul piano
economico, sociale, e politico. Vi sono
da noi uomini che pretendono di
fare politica, ma non hanno né la capacità,
né i mezzi per farla; non sanno
che cosa sia la politica, arrivano
al potere senza essere eletti e pretendono
di vivere a spese della popolazione.
Una volta il paese stava
bene. Aveva risorse. C’era la coltivazione
del caffè. Ora non esiste più
nulla. La gente si sposta in bicicletta,
anche per lunghe distanze. Ha bisogno
di essere incoraggiata, spinta
a darsi da fare. Perciò è importante
che la chiesa sia sul posto, che io rimanga
tra la gente.
Qual è la consistenza numerica
dei cattolici nella sua diocesi e
che rapporti mantiene con i seguaci
delle altre religioni?
Dal punto di vista numerico, non
ho molto da dire. Non ho le cifre sotto
mano. Ma posso affermare che i
cattolici sono la maggioranza. Ci sono
i protestanti e i kibamguisti, che
però recentemente hanno cominciato
a fare delle affermazioni su Gesù
Cristo e sullo Spirito Santo che li mettono
fuori dal Consiglio ecumenico
delle chiese. Il problema sono le sètte,
le chiese indipendenti
che sorgono
un po’ ovunque.
Vorrei sottolineare
la vitalità della
comunità ecclesiale.
Tutti gli aspetti
della vita sociale,
economica e culturale
sono più o meno
segnati dal cristianesimo,
incluse
le cerimonie funebri,
tanto importanti
nella vita socio-
culturale e
religiosa dell’africano.
Nei funerali
è la famiglia ecclesiale che si confronta
con la morte. Le cerimonie si
svolgono in un contesto cristiano. È
un momento di grazia, per cercare di
radicare ancora di più il vangelo nel
tessuto vivo del popolo.
È necessario che i cristiani siano
aiutati a perseverare nella loro adesione
a Cristo. Bisognerebbe, per
esempio, fare più leva sulla presenza
della beata Clementine Anuarite sepolta
nella cattedrale di Isiro, sviluppae
la devozione, sottolineare i
valori che essa ha rappresentato con
la sua vita. Nei miei giri per il paese,
ho potuto constatare che tutti hanno
desiderio di venire in pellegrinaggio
ad Isiro, per venerare la beata.
L’islam? Per il momento non è un

vero problema. È presente, ma non
ha una reale influenza. Non ha peso
sulla fede in quanto tale. Le poche
conversioni sono per interessi politici
o economici.
Quali sono le linee pastorali che
intende seguire nel suo ministero
apostolico?
La priorità, per me, è principalmente
legata agli agenti pastorali, a
tutti i livelli: sacerdoti, suore, laici,
persone consacrate, sia congolesi che
provenienti dall’estero. Attraverso il
mio ministero, intendo infondere loro
fiducia, contare su di loro e dire
che, benché vescovo, non tocca solo
a me condurre il gregge.
Oggi, l’episcopato congolese parla
della chiesa-famiglia: famiglia che,
come comunità domestica e come comunità
ecclesiale, parrocchiale e diocesana,
rifletta i valori evangelici.
Anche questo vuol dire inculturazione
del messaggio a tutti i livelli. Il
vangelo deve dire qualcosa di concreto
nella vita personale, nella famiglia
e nella società, indicarci cosa
significhi essere salvati da Gesù. Bisogna
quindi portare la gente a fare
una lettura contestualizzata del vangelo,
affinché possiamo essere evangelizzati
integralmente.
Cosa si aspetta dai missionari e
missionarie?
Per quanto riguarda il rapporto con
i missionari, vorrei far notare che il
processo di evangelizzazione non è
finito, non è mai finito; finché l’uomo
vive, vi sarà evangelizzazione. È
in questo senso che la chiesa è universale.
Non è la chiesa della mia famiglia
o della mia società, o di Isiro:
è la chiesa di Gesù che chiama tutti
gli uomini, di ogni colore, a vivere la
vita di Dio là dove si trovano; una vita
di carità, di comunione, al di là di
ogni frontiera. È così che i missionari
conservano sempre il loro posto,
anche quando i cristiani sono molti.
Perché l’evangelizzazione è permanente
ed è sempre da riprendere. La
presenza del missionario è fonte di

coraggio, perché si tratta di un uomo,
di una donna venuti da lontano,
condotti qui solo dalla fede. Il missionario,
quindi, non deve supplire
soltanto a una mancanza, per cui
quando questa mancanza viene colmata,
ha finito il suo compito. Il missionario
è un testimone di Gesù e tutti
noi ne abbiamo bisogno.
Il Congo è devastato dalla guerra.
La gente di Isiro come vede
la guerra? Ha qualche speranza
che presto finisca?
La guerra è imposta alla gente. Non
è voluta. La gente vuole la pace. Tutti
si augurano che la guerra finisca
presto. Ma si ha l’impressione di trovarsi
in una tragica impasse (vicolo
cieco) e non si sa come uscie. Per
farla finire, è importante tagliare i legami
che essa ha con i paesi esteri.
I mezzi per fare la guerra, infatti,
vengono dall’estero, dall’Uganda, dal
Rwanda. Questi paesi, purtroppo,
hanno una stampa efficiente, pronta
a mostrare come essi non c’entrino
con la guerra, ne sono fuori. Ma la
realtà è diversa.
E la società civile?
La società civile, purtroppo, non è
bene organizzata. A questo proposito,
faccio di nuovo un richiamo alla
stampa che può svolgere un ruolo
molto importante, soprattutto sostenendo
la volontà della popolazione e
incoraggiandola.
La chiesa congolese è una chiesa
di martiri. Si fa qualche cosa
per conservae la memoria?
È importante salvaguardare la memoria
dei martiri, a livello parrocchiale,
diocesano e nazionale. Per
questo sono importanti gli archivi
storici. Ci dovrebbe essere un gruppo
incaricato di raccogliere dati e
fatti che costituiscono la storia di
uomini e donne che hanno dato la
vita per Cristo e per i loro fratelli e
sorelle. Non vi è niente di peggio che
ignorare la memoria, perdere le tracce
del proprio passato. Bisognerebbe
che, a tutti i livelli, si potessero
avere le testimonianze che possono
incoraggiarci nella fede e meritano
di essere messe in evidenza. Per il
centenario dell’inizio del cristianesimo
nella diocesi, intendiamo prendere
delle iniziative in questo senso.
Avremmo voluto farlo in condizioni
più felici. Ma non siamo noi i padroni
della storia.

Giovanni Battista Antonini




DOVE OSANO GLI AQUILOTTI

ROVERETO (ITALIA)la «Consolata trentina»
Quando i missionari
della Consolata arrivarono
in Trentino per fondarvi
un seminario, nel 1925,
ad attenderli c’era
la «Consolatrice»,
venerata nel santuario
della Madonna del Monte,
di cui si celebra
il 4° centenario.
Da questo luogo oltre 150,
tra sacerdoti, fratelli,
suore e volontari laici
hanno spiccato il volo
per le missioni
della Consolata in Africa
e America Latina.

C’era una volta… un «capitel».
Così veniva chiamato in
dialetto trentino il pilone
con l’immagine della Madonna, costruito
a metà strada sulla via montana
che unisce Lizzana e Rovereto.
Ne fa menzione, per la prima volta,
Domenico Porta, in un atto notarile
del 21 gennaio 1485. Vi sorgeva accanto
un romitaggio, dove viveva in
preghiera e penitenza frate Pietro,
un domenicano bavarese.
Poi, per oltre un secolo, il capitel
fu dimenticato dalla «storia» e trascurato
dalla gente: rovi ed erbacce
d’ogni genere erano cresciute tutto
attorno, fino a nasconderlo agli occhi
dei passanti… fino al 1602.
Un giorno, all’inizio di quell’anno,
un certo Andrea
Rossi, di Rovereto, si sentì
interiormente invitato a salire fino al
capitel. Benché non si reggesse bene
in piedi, essendo da vari anni sofferente
di artrosi deformante, arrancò
con le stampelle fino a quel luogo, si
aprì a fatica un varco tra gli arbusti
e si trovò di fronte all’immagine
sbiadita della Madonna.
Subito fu preso da commozione e
da una nuova ispirazione: «Se solo
avessi un po’ di forza – pregò rivolto
all’immagine – taglierei tutti questi
rovi e farei restaurare questa nicchia».
Non aveva finito di pregare che
sentì tornare in sé le forze, gettò a terra
le grucce e cominciò a gridare
«grazie» alla Madonna. Piangendo
di gioia, corse a casa ad abbracciare
i familiari.
Il fatto prodigioso si sparse in un
baleno: la gente di Rovereto aiutò il
signor Rossi a ripulire il luogo e restituire
alla vista dei passanti la «columna
lateritii operis… pictura certe
non rustica… colores jam jam evanescentes
», come la descriveva il gesuita
padre Gumpperberc (colonna in
mattoni, pittura per niente rustica…
colori evanescenti).
Per restaurare immagine e colonna,
il signor Rossi si rivolse a un suo
amico pittore, un certo Giovanni di
Rovereto, detto «Giona». All’inizio
questi ricusò l’incarico, poiché una
contrazione di nervi alla mano destra
gli impediva di usare il pennello. Ma
poi, più per la devozione alla Madonna
che per guadagno, si mise all’opera.
Al primo tocco di pennello
si accorse di maneggiarlo con fermezza,
sicurezza e agilità, come se la
mano non fosse stata mai malata.
Anche questa notizia si propagò
rapidamente a Rovereto e nei dintorni.
Il capitel cominciò ad essere
meta di pellegrinaggio, sia per curiosità,
sia per chiedere conforto alla
Madonna. Tra i pellegrini ci fu pure
una nobil donna roveretana, Domenica
Millana, da tanti anni affetta
da cecità completa: fattasi accompagnare
dai domestici, la donna raggiunse
il capitel, si prostrò davanti all’immagine
della Vergine e pregava
con tanta fede e fiducia da commuovere
i presenti.
Improvvisamente si mise a gridare:
«Miracolo! Ci vedo! La Madonna
mi ha guarita». La gente che
poc’anzi piangeva di compassione,
ora versava lacrime di gioia e si stringeva
intorno alla miracolata.
Tali guarigioni suscitarono scalpore
in tutta la Val Lagarina e attirarono
l’attenzione dell’autorità ecclesiastica.
Il parroco di Lizzana,
don Alessio Tomasi, sotto la cui giurisdizione
era il luogo dei miracoli,
fu nominato «commissario» dell’inchiesta
per appurare la veridicità dei
fatti. Ne uscì così convinto, che la
sua relazione fu approvata dal vescovo
e lui stesso si diede da fare per
proteggere il luogo sacro.
Il capitel fu subito circondato da una
protezione in legno; poi, nell’autunno
dello stesso anno 1602, fu iniziata
la costruzione di una cappella
in muratura e di un altare davanti alla
sacra immagine.
Ben presto la Madonna del
Monte, come cominciò a essere
chiamata l’anonima icona,
diventò il centro della devozione
di tutta la Val Lagarina e altre valli
confluenti. I devoti accorrevano numerosi,
specie nelle feste mariane,
tanto che la cappella non poteva più
contenerli. Con l’aiuto della gente,
di alcune famiglie facoltose e il contributo
della curia di Trento, la cappella
fu ulteriormente ampliata, raggiungendo
la grandezza attuale. Nel
1607 l’opera era compiuta.
Da quell’anno il capitel diventò meta
di numerosi pellegrinaggi, tanto da
richiedere la presenza di una comunità
religiosa per la cura del santuario
e l’assistenza spirituale dei fedeli.
Fu contattato un gruppo di minori
riformati, ma la loro presenza fu contestata
dai frati già presenti a Rovereto,
che non vedevano di buon occhio
l’arrivo di altri concorrenti.
Intanto la gente accorreva a chiedere
grazie alla Madonna, specie durante
il tristissimo periodo della peste
(1630), tappezzando le pareti della
chiesa di ex voto per grazie
ricevute. Nel 1636 il vescovo di
Trento si recò in visita pastorale alla
popolazione di Rovereto e ne approfittò
per consacrare il santuario
della Madonna del Monte.
Nel frattempo, accanto al santuario,
i parrocchiani di Lizzana avevano
fatto costruire una casetta per il
cappellano che si recava a celebrare
la messa per i pellegrini. Ma la sua
presenza saltuaria non era più sufficiente:
bocciata l’idea di un convento,
si ripiegò sulla fondazione di un
«romitaggio».
A partire dal 1640 la casa del cappellano
fu occupata da due o tre eremiti
che, vivendo con i proventi
della questua e del proprio lavoro,
provvedevano alla cura spirituale del
santuario.
Nel 1650, il parroco di Lizzana,
don Domenico Lunardelli, decise,
assieme al popolo, la costruzione
dell’attuale artistica facciata, assegnando
l’opera allo scultore Sartori
da Castione, su disegno dell’ingegnere
Giovanni Scottini da Lizzana.
Nei primi decenni del secolo XVIII
fu posta, alla base del pilone, una lapide
con la scritta che toglieva la Madonna
del Monte dall’anonimato:
«Dedicato alla beata vergine Maria,
Consolatrice degli afflitti». Negli anni
seguenti Orlando Fattori da Desenzano
affrescò le pareti del presbiterio
con le raffigurazioni che si
vedono attualmente; poi toccò alle
pareti laterali della navata e alla volta,
nel cui grande ovale fu dipinta
l’assunzione della Vergine. Lo stesso
pittore, tra il 1760 e il 1770, abbellì
la facciata con un’esuberante decorazione
barocca.
Al tempo stesso, l’artista Marco
Marini da Crossano rifece il pavimento:
«Un ricamo di fine marmo
bianco, con intarsi di diversi colori»,
come lo descrisse uno storico dell’epoca.
Intanto una fosca nube scendeva
dall’Austria: l’imperatore Giuseppe
II (1741-1790) cominciò a
ficcare il naso nella vita della chiesa,
meritandosi il nomignolo di «re sacrestano
»: soppresse molti pellegrinaggi,
feste, confrateite; proibì la
recita del rosario in pubblico; chiuse
diversi conventi, monasteri, romitaggi
e santuari, allontanandone i religiosi
e confiscandone i beni.
Un decreto del 1786 colpì anche il
romitaggio e il santuario della Madonna
del Monte, incamerati dal comune
di Rovereto e subito messi all’asta.
Il primo bando andò a vuoto:
nessuno si fece avanti per comperare
il santuario e i beni annessi; a un
secondo, nel 1788, li comperò un tale
Valentino Gasperini di Villa Lagarina,
per 850 fiorini, una ventesima
parte del valore reale.
Egli si limitò a coltivare il terreno
e abitare nella casa degli eremiti.
Forse voleva riaprire al culto il santuario,
ma la legge lo proibiva e, dopo
un anno, rivendette tutto a un
certo Giuseppe Grandi, uomo senza
scrupoli, che spogliò la chiesa degli
arredi più preziosi e vendette i
due altari laterali.
Anche quello centrale stava per essere
asportato, quando intervenne la
gente di Rovereto: una notte di fine
febbraio 1790, uomini bene armati
salirono al Monte, presero possesso
della chiesa, riordinarono l’altare, accesero
lumi all’interno e fuochi all’esterno,
segnalando alla città e ai paesi
vicini la riapertura del santuario.
I soldati imperiali e le autorità civili,
senza intervenire con la forza,
concordarono con i preti della zona
di riaprire la chiesa al pubblico, con
una grande festa, celebrata il 6 marzo
1790.
Intanto il santuario, «con annessi
e connessi», fu riscattato da altri
compratori e, nel 1794, passò totalmente
nelle mani della nobile famiglia
Tacchi. Il nuovo proprietario si
diede subito da fare per avere il permesso
di riaprire la chiesa al culto
pubblico, per restaurare l’edificio
saccheggiato e provvedere un cappellano
stabile, che si curasse dell’assistenza
spirituale di fedeli e pellegrini.
Ma solo nel 1829 arrivò il primo
cappellano, nella persona di don
Valentino Zampiccoli.
Sotto l’attenzione della famiglia
Tacchi e con la presenza di un cappellano
stabile, la Madonna del
Monte diventò uno dei più importanti
e venerati santuari del Trentino.
Per oltre un secolo la Madonna continuò
a consolare, asciugare lacrime
e ascoltare i sospiri di generazioni di
devoti, che ricambiavano favori e
grazie ricoprendo le pareti della
chiesa di dipinti, ricordi, documenti
ed ex voto svariati e suggestivi.
Alla vigilia dello scoppio della prima
guerra mondiale (1914), Rovereto
si affidò, con una solenne processione,
alla protezione della Vergine;
poi ci fu una dispersione generale.
Anche il rettore del santuario, don
Francesco Menapace, fervente irredentista,
dovette scappare, per non
cadere nelle mani degli austriaci e finire
sulla forca, come il compaesano
Damiano Chiesa.
Nel furore delle battaglie combattute
nella zona, il santuario fu colpito
da varie granate, che ne sfondarono
il tetto, distruggendo l’affresco
della volta e gli ex voto che coprivano
le pareti laterali.
Finita la guerra iniziarono i lavori
di restauro; ma soltanto nel 1937 il
cav. Giovanni Tacchi commise il rifacimento
degli affreschi. E sopravvenne
la seconda grande guerra, che
sfondò il tetto una seconda volta. Tra
le macerie, rimasero incolumi il presbiterio
e il capitel.
Nel frattempo, la cura del santuario
era passata nelle mani dei missionari
della Consolata, che ne curarono
i restauri e lo riportarono agli
splendori di arte e di fede del secolo
XVIII.
Correva l’anno 1925. Mons.
Filippo Perlo, vice generale
dei missionari della Consolata,
aveva esteso il reclutamento di vocazioni
a tutta l’Italia e cercava luoghi
strategici in regioni promettenti.
Il Trentino era una di esse.
I padri incaricati della ricerca,
Giuseppe Gallea e Francesco Gamberutti,
dopo vari tentativi, stavano
per arrendersi, quando il sig. Cesare
Tommasini, direttore dell’Ufficio di
propaganda missionaria di Rovereto,
e la zelante sorella Amelia suggerirono
di stabilirsi nel santuario della
Madonna del Monte, da dieci anni
senza cappellano.
Fu grande la sorpresa dei due missionari,
quando, prendendo visione
del luogo, lessero l’iscrizione sotto la
nicchia: «Dedicato alla beata Vergine
Consolatrice». Si trovarono subito
a casa. Fu firmato con la famiglia
Tacchi un contratto di affitto per 25
anni; il 7 luglio 1925 il vescovo di
Trento diede l’autorizzazione per aprire
la casa religiosa; il 21 dello stesso
mese arrivarono il padre Umberto
Bessone, direttore, e il chierico
Lorenzo Gaudissard, «propagandista» e formatore.
Era quella la prima casa che i missionari
della Consolata aprivano
fuori del Piemonte. L’apprensione era
naturale. Ma, quando il padre
Bessone, alla vigilia della partenza da
Torino, andò a salutare il padre fondatore,
l’Allamano lo rincuorò così:
«Devi andare a Rovereto volentieri,
perché la Madonna del Monte è venerata
in quel santuario proprio col
titolo di Consolatrix afflictorum, l’identico
titolo della nostra Consolata.
È quindi semplicemente un cambiamento
di nome, ma sempre nella
casa della stessa madre».
All’inizio di settembre di quello
stesso anno, l’antico romitaggio risuonava
della voce di una dozzina di
ragazzi trentini, «un nido di aquilotti
– scriveva uno storico di quegli anni
– che, all’ombra del santuario e
scaldati dall’amore della nostra Madonna,
si apprestano a spiccare il volo
in lontane contrade ultramarine,
per portare la lieta notizia che Cristo
è nato anche per loro».
Nel centro di reclutamento o, come
si diceva a quei tempi, «casa apostolica
», gli allievi venivano soltanto
«accettati e disgrossati, ossia aiutati a
comprendere cosa significava diventare
missionari della Consolata e preparati
ai corsi ginnasiali nella casa
madre di Torino». Una ventina d’anni
dopo il centro fu trasformato in vero
e proprio seminario.
Le fatiche e speranze furono subito
premiate: a 11 anni di distanza, nel
1936, 12 «aquilotti» trentini furono
ordinati sacerdoti e tre fratelli fecero
la professione religiosa, pronti a
spiccare il volo verso «le lontane
contrade ultramarine»; il primo fu
padre Ruggero Angheben, partito
per le missioni del Kaffa (Etiopia) alla
fine dello stesso anno.
Dopo 78 anni di presenza alla Madonna
del Monte, i missionari della
Consolata contano nelle loro file 66
trentini, tra padri e fratelli (37 hanno
già spiccato il volo per il cielo) e
altrettante suore. E continuano ad animare
la chiesa trentina
nell’amore alla Madonna
e alla missione.

Benedetto Bellesi




COREA DEL NORD prove di… cambiamento


ENIGMA DA DECIFRARE

Da una decina d’anni la Corea del Nord ha intrapreso la strada delle riforme in campo economico, religioso e diritti umani. I leaders del Nord e del Sud Corea si sono stretti la mano, ma la riunificazione è ancora un sogno. Persistono enormi difficoltà economiche e, sotto l’aspetto strategico, il paese rimane nel mirino americano.

Nella piazza Kim Il Sung di Pyongyang, centinaia di studenti allineati si muovono all’unisono seguendo il ritmo scandito dalla voce della coreografa. Nello slargo laterale, altre ragazze in divisa militare marciano seguite dalla loro istruttrice. Tutto intorno la vita scorre normalmente: le macchine dei funzionari di partito, di governo e organizzazioni non governative accreditate
nel paese, si incrociano con i tram e i pullman pieni di passeggeri che tornano a casa dopo una giornata di lavoro.
Ogni tanto, una delle centrali elettriche che alimentano diversi settori della città cessa di funzionare: allora i tram si fermano, le luci dei lampioni e delle case si spengono e su tutto cade un silenzio che urla la difficile situazione in cui l’intero paese è costretto a vivere.

CAMBIO DI GUARDIA

La crisi generalizzata, che da anni sta colpendo l’economia nordcoreana, non risparmia nessun campo. Dal 1991, anno del dissolvimento dell’Urss e del Comecon, il sistema che garantiva l’interscambio economico tra i vari paesi del blocco socialista, la Corea del Nord si è trovata di punto in bianco a dover fronteggiare, praticamente da sola, una situazione economica aggravata da un’impressionante serie di catastrofi naturali. L’improvvisa morte del leader e fondatore della Repubblica democratica popolare di Corea, Kim Il Sung, avvenuta nel 1994, ha aggravato ulteriormente la già precaria condizione sociale, aprendo numerose e inquietanti incognite sul corso politico che il suo successore designato, Kim Jong Il, avrebbe impartito al governo. Le scene di pianti e di isteria collettiva, trasmesse dalla televisione nordcoreana appena divulgata la notizia della dipartita del Grande Leader, si alternavano alle tensioni che lungo il 38° parallelo andavano facendosi sempre più tangibili. Pochi giorni prima, Jimmy Carter, a nome dell’amministrazione Clinton, aveva incontrato Kim Il Sung, riuscendo faticosamente a strappargli la promessa di incontrare il collega della Corea del Sud. Al tempo stesso il problema della centrale nucleare di Yongbyon, da cui, secondo gli Stati Uniti, veniva trattato il combustibile esausto per estrarre plutonio in quantità sufficiente per preparare due-cinque bombe atomiche, era un’altra questione insoluta che aggravava i rapporti tra Pyongyang e Washington. La successione al vertice ora rimetteva tutto in discussione.

PERSONAGGIO RIVALUTATO

I giornali di tutto il mondo dipingevano Kim Jong Il esattamente come lo avevano descritto per anni i servizi segreti sudcoreani e statunitensi: un gigolò viziato, totalmente incompetente di economia e politica, quanto esperto di belle donne. Sul suo conto si raccontava che era alcolizzato, amava le macchine sportive, in particolare le Ferrari, con cui scorrazzava per le strade della capitale, divertendosi a investire i pedoni, che possedesse un’intera collezione dei film di 007 e che, per trastullarsi nelle noiose notti nord coreane, faceva rapire belle fanciulle scandinave. Chiaro che, con un leader di questo genere, la Corea del Nord e il mondo intero non avevano di che rallegrarsi. Eppure bastarono pochi mesi perché Kim Jong Il sconfessasse tutti i suoi detrattori, sorprendendo gli analisti: in poche settimane venne firmato un trattato con gli Usa, in cui la Corea del Nord s’impegnava a non proseguire ricerche nucleari, rivolte a scopi militari, e subito dopo cominciò ad aprire spiragli di dialogo con i suoi vicini. I vertici militari, il cui assenso è indispensabile per mantenere saldo il potere in Nord Corea, vennero rimpastati, così pure quelli del Partito dei lavoratori, mentre il carisma del nuovo leader, offuscato da quello del padre, fu rafforzato grazie ad una capillare campagna di propaganda. «In un paese come la Corea del Nord, per salire i gradini del potere non basta avere il pedigree di famiglia – mi dice Noriyuki Suzuki, direttore di Radiopress, l’agenzia giapponese che monitorizza e analizza tutti i dispacci e i comunicati ufficiali di Pyongyang -. La concorrenza al posto di segretario generale del partito era spietata e sarebbe bastato un minimo passo falso perché Kim fosse spodestato. Un pazzo o un burocrate robotizzato non avrebbe certo potuto giocare le sue carte con oculata saggezza come ha fatto lui». Sulla stessa linea è il parere di uno dei maggiori analisti sudcoreani del Nord, Lee Jong Suk dell’Istituto Sejong di Seoul: «Leggendo gli articoli dei mass media occidentali, sembrava che si stesse giocando una partita a scacchi tra concorrenti a cui erano rimasti solo i pedoni, mentre Kim Jong Il aveva a disposizione regina, torri, cavalli e alfieri. In realtà la successione non è mai stata sicura e sono note le divisioni all’interno della famiglia stessa di Kim Il Sung, con la potente alleanza tra la seconda moglie del Grande Leader, Kim Song Ae, che premeva per favorire il suo figlio naturale, Kim Pyong Il, e il fratello di Kim Il Sung, Kim Yong Ju. Il fatto che Jong Il sia riuscito a sconfiggere le opposizioni gioca a favore della sua abilità come politico». Tutto questo, a detta degli stessi osservatori più esperti, dimostra quanto poco si conosca della Corea del Nord e dei suoi politici, al di fuori dei propri confini. La figura di Kim Jong Il, pur continuando a venire dipinta con tinte fosche, viene rivalutata, in particolare in Sud Corea, dove lo stesso Nord non è più visto come un antagonista contro cui combattere, bensì come un interlocutore con cui dialogare e da aiutare. Specialmente ora che la contrapposizione con gli Stati Uniti di Bush rischia di creare tensioni sempre più pericolose nella regione. La recente nuova crisi nucleare, scoppiata in tutta la sua drammatica pericolosità nell’ottobre 2002, con la dichiarazione di Pyongyang di voler riattivare le centrali di Yongbyon e le ricerche nucleari, ha origine dalla decisione di Bush di voler sospendere unilateralmente gli invii di combustibile, sottoscritti dall’accordo del 1994. Seoul, comprendendo la pericolosità della situazione, ha chiamato Pyongyang ai tavoli delle trattative, contravvenendo alle disposizioni della Casa Bianca. E Pyongyang ha risposto.

ECONOMIA DISASTRATA

A livello economico, le riforme suggerite dagli organismi finanziari internazionali e introdotte nel sistema hanno cominciato a creare qualche crepa nel controllo statale della produzione e della distribuzione dei beni di consumo. I tradizionali mercati dei contadini, che ogni decade vengono allestiti nei distretti nordcoreani, se prima erano appena tollerati dalle autorità, oggi hanno una sorta di protezione anche da parte del governo, che ha aumentato anche l’area di terreno a uso privato concesso a ogni famiglia. Nelle fabbriche, almeno le poche che il petrolio, oramai centellinato, permette di far funzionare, i lavoratori si sono visti assegnare salari in base alla produttività. Il problema è che, spesso e volentieri, questa è crollata, non per negligenza degli operai, ma per i numerosi black-out che straziano la continuità lavorativa. Nelle cooperative, i raccolti, dopo anni di carestie, hanno cominciato ad essere abbondanti; ma la micidiale mistura fatta di varie penurie, penuria di mezzi, penuria di parti di ricambio, penuria di carburante, non ha migliorato la situazione alimentare nei villaggi più isolati. I raccolti spesso marciscono sui campi dove sono accumulati per mancanza di mezzi di trasporto. Persino i funzionari governativi di rango più elevato, quelli residenti a Pyongyang, ad esempio, incontrano molte difficoltà nell’espletare i loro impegni. La guida incaricata di accompagnarmi in visita alla Corea, obbligatoria per ogni straniero, mi fa immediatamente capire che la situazione economica è disastrosa e che un eventuale contributo per le spese di benzina è benaccetto, anche se non obbligatorio. La crisi non risparmia neppure l’apparato militare: le forze armate nordcoreane appaiono, anche al profano, deboli, male armate e spesso capita di vedere, lungo le autostrade deserte che si diramano da Pyongyang, mezzi militari in panne o a secco di carburante. Anche a Panmunjom, al 38° parallelo, dove le due Coree si incontrano, i soldati nordcoreani, seppure scelti tra i più robusti e alimentati con razioni più abbondanti rispetto ai commilitoni dislocati nelle zone interne, appaiono piuttosto mingherlini se confrontati con i colleghi sudcoreani. Insomma, quello che gli Stati Uniti continuano a definire il terzo esercito del mondo, pronto ad attaccare il Sud è, in realtà, molto meno temibile e aggressivo di quanto si voglia far apparire.

QUALCOSA STA CAMBIANDO

Del resto il governo, ansioso di ottenere aiuti, non fa mistero della crisi. La prima volta che sono sbarcato in Nord Corea, nel 1996, era difficile far ammettere a un qualsiasi funzionario che il paese era economicamente impantanato e i visitatori venivano convogliati in fabbriche, scuole, ospedali modello.
Poi, piano piano, durante le successive visite, qualcosa è cambiato: altre porte hanno cominciato ad aprirsi. Prima spiragli, poi si sono spalancate, mostrando l’aspetto più reale della nazione: cittadini che spigolano chicchi di riso o grano, che raccolgono legna da ardere per far fronte ai rigidi invei, ospedali regionali privi di medicine, orfanotrofi che ospitano bambini scheletrici.
«C’è stato un periodo in cui si raccoglievano e si mangiavano cortecce, radici ed erbe selvatiche» mi dice Kim Hyoun Ho, direttore del dipartimento europeo del Comitato per le relazioni culturali con i paesi esteri.
Oggi, grazie agli aiuti delle Ong presenti e paesi donatori, la situazione comincia a migliorare, anche se il contrabbando con la Cina continua a rappresentare una pratica comune e chi ha i soldi per corrompere le guardie di frontiera, può importare ogni genere di mercanzia, per rivenderla al fiorente mercato nero. Chi, per lavoro o parentela, può contare su rapporti con l’estero, ha la possibilità di ottenere valuta pregiata, grazie alla quale comprare prodotti importati nei grandi magazzini delle città: stereo, televisori a colori, radio, telecamere, macchine fotografiche, pasta, liquori, vino, abbigliamento.
Con i dollari, euro o yen, c’è solo l’imbarazzo della scelta, e in una società dove, teoricamente, la divisione di classe è ridotta al minimo, sono proprio questi status simbol occidentali a individuare le reali differenze sociali esistenti nel paese.

PIÙ LIBERTÀ RELIGIOSA

Ma i cambiamenti in atto in Corea del Nord non si individuano solo a livello economico o sociale: i diritti umani, che durante gli anni Sessanta-Ottanta venivano calpestati, per lo meno come lo erano al Sud, oggi cominciano ad essere più rispettati.
Le condizioni di vita nei campi di rieducazione (in realtà vere e proprie aree di centinaia di chilometri quadrati, vietate anche ai cittadini liberi nordcoreani e adibiti a ospitare migliaia di prigionieri), sono diventate più tollerabili. Le amnistie, la necessità di nuova forza lavoro e l’attento monitoraggio delle organizzazioni che si occupano di diritti umani hanno indotto e autorità nordcoreane a chiudere numerosi campi e liberarne i detenuti.
Accanto a questi esempi di liberalizzazione, si è parallelamente sviluppata una maggiore libertà religiosa, già avviata, peraltro, alla metà degli anni Ottanta, con l’inaugurazione di nuovi templi buddisti e chiese cristiane, tra cui quella cattolica di Changchung.
Anzi, proprio con il Vaticano il governo di Pyongyang ha mantenuto buoni rapporti. Le organizzazioni di assistenza sociale cattoliche, come la Caritas, Misereor, i monaci benedettini lavorano già all’interno del paese, godendo della stima dei funzionari nordcoreani.
Questa fiducia, riposta principalmente per via dell’assenza di secondi intenti politici a cui sottoporre gli aiuti, rischia però di essere rovinata dalla presenza delle sètte cristiane e buddiste sudcoreane, giapponesi e statunitensi, appostate lungo i confini settentrionali cinesi.
Finanziate dai vari dipartimenti del governo Usa, la maggior parte di queste chiese avvicinano i contrabbandieri nordcoreani dando loro soldi e pacchi viveri da distribuire nei villaggi all’interno della nazione. Si spera, così facendo, di creare un retroterra culturale e religioso adatto per stabilire eventuali chiese e punti di informazione per controllare la reale consistenza del regime.
A Pyongyang e nelle principali città, questo lavoro è affidato a missionari che, camuffati da uomini d’affari, hanno la possibilità di girare in lungo e in largo ampie zone del paese e contattare direttamente le famiglie.
Elargendo generosamente yen e dollari, sembra si siano già creati una rete di proseliti, i cui uomini più fidati sono veri e propri «dormienti», informatori al servizio dei servizi segreti sudcoreani, statunitensi e giapponesi, pronti a uscire allo scoperto e agire, in caso di una sollevazione popolare.

SCONTRO IN VISTA

Un’ipotesi, questa della rivolta, che nessun governo della regione nordorientale dell’Asia si augura, perché la caduta improvvisa del regime di Kim Jong Il destabilizzerebbe, in modo forse irrimediabilmente pericoloso, i fragili equilibri instauratisi tra le varie capitali.
È con questa paura che Seoul e, in misura più timida, Tokyo, hanno mostrato freddezza nei confronti di Bush e della politica da lui intrapresa nella regione. Il Rapporto Armitage, lungo i cui parametri si dipana la ragion di stato della Casa Bianca, afferma testualmente che «se non è possibile giungere a una soluzione diplomatica, è meglio scoprirlo prima che dopo, per proteggere meglio i nostri interessi di sicurezza. Se la Corea del Nord non lascia altra scelta che il confronto, questo deve essere giocato secondo i nostri termini, non i loro».
Questo confronto coinvolgerebbe anche la Cina, la quale è una potenza fondamentale in Asia. Il ruolo che il Rapporto Armitage affida a Pechino, però, preoccupa gli alleati USA:
«Nessun approccio con la Corea del Nord può essere vincente, se non ci si assicura la cooperazione con la Cina. Pechino deve capire che sarà punita per il fallimento o sarà premiata per la sua cooperazione». E ancora: «La cooperazione attiva della Cina è vitale e dato che Cina e Usa dividono comuni interessi nella penisola coreana, ci si aspetta che la Cina agisca in maniera positiva. Nel caso scoppi un conflitto, come risultante di una inadeguata cooperazione, Pechino dovrà assumersene la responsabilità».
Con queste premesse, appare chiaro che il futuro dell’Asia nordorientale è più nelle mani dei governanti di Washington che dei paesi interessati ad un eventuale conflitto.

Scheda Corea del Nord

Superficie: 122.762 Kmq (meno della metà dell’Italia)
Popolazione: 24.039.000 (2000)
Gruppi etnici: coreani, cinesi (0,2%)
Capitale: Pyongyang
Religione: buddisti, confuciani, cattolici
Tasso alfabetizzazione: 95%
Ordinamento politico: repubblica socialista dinastica guidata (dal luglio 1994) da Kim Jong Il, figlio di Kim Il Sung
Economia: l’industria è in grave crisi, anche a causa dell’isolamento internazionale; il paese gode di una buona dote di risorse minerarie; l’agricoltura (riso, mais, frumento), arretrata e colpita da calamità naturali (inondazioni e siccità), non copre le necessità interne, tanto che la carestia è cronica Sotto la soglia di povertà: non esistono cifre ufficiali
Relazioni interazionali: dal giugno 2000 sono in corso colloqui con la Corea del Sud, mentre rimangono tese le relazioni con gli Stati Uniti; per le relazioni economiche è importante il vicino Giappone.

Piergiorgio Pescali

 



GUATEMALA aspettando il «Comla7»

DA ROMERO A GERARDI

Tutta la chiesa
americana si prepara
a vivere un nuovo
congresso missionario
che si celebrerà
a Città del Guatemala
dal 19 al 30 novembre
2003, dal titolo:
«Chiesa in America,
la tua vita in missione».
Obiettivo generale
è «animare la vita
delle chiese particolari
del continente affinché,
a partire dalla loro
esperienza
evangelizzatrice,
assumano in maniera
responsabile e solidale
l’impegno della missione
ad gentes».

«Vogliamo vivere un congresso
che, a partire dalla
piccolezza, povertà e
martirio, rafforzi la comunione, rivitalizzi
la missione e animi la testimonianza».
Con questa prospettiva, la chiesa
in Guatemala e in tutta l’America ha
iniziato il suo cammino verso la celebrazione
del settimo Congresso
missionario continentale. L’appuntamento
è a Città del Guatemala, dal
19 al 30 novembre 2003.

LE TAPPE
La scelta del Guatemala come sede
del nuovo Congresso missionario
è stata fatta nell’ottobre del 1999 a
conclusione del Comla6/Cam1 nella
città di Paranà (Argentina). Questo
del Guatemala, sarà il Comla7:
settimo Congresso di una giusta e
benemerita iniziativa che ha già fatto
le nozze d’argento, da quando, nel
1977 a Torreón (Messico), è iniziato
il cammino missionario latinoamericano
dei Comla.
Un cammino che si è affermato a
Tlaxcala (Messico 1983), consolidato
a Bogotá (Colombia 1987), aperto
all’immenso mondo missionario
con il Comla4 di Lima (Perù 1991),
ha integrato le culture dei popoli con
il Comla5 di Belo Horizonte (Brasile
1995), ha rafforzato una maggiore
consapevolezza missionaria nella
chiesa locale con il Comla6 di Paranà
(Argentina 1999).
Quest’ultimo ha preso il nome anche
di Cam1 per l’inserimento della
chiesa degli Stati Uniti e del Canada
in un comune ambito missionario.

LA FISIONOMIA
Ogni Comla ha avuto la propria fisionomia
e proiezione, in base al momento
storico-ecclesiale e alla particolare
sensibilità del paese organizzatore
e ospitante. Guardando la
cartina dell’America, proprio nel
punto in cui il continente, fra nord e
sud, diventa più stretto (si può dire
più debole), vi è il Guatemala e gli altri
paesi dell’America Centrale. In
questo punto del logotipo del congresso
brilla una stella: il continente
non si spezza, ma si rafforza nella fede
e nella missione; da questo punto
si irradia una luce che vuole proiettarsi
con nuovo vigore verso l’evangelizzazione
del mondo intero.
Per il Guatemala e per tutta la
chiesa in America Centrale il contributo
specifico alla missione si fonda
su un’esperienza evangelizzatrice
che parte dalla piccolezza, dalla povertà
e dal martirio: tre realtà che caratterizzano
la chiesa pellegrina in
questi paesi. Siamo di fronte a una
chiesa con poche risorse umane e
materiali, ma con una fede viva e radicata.
Salta agli occhi, innanzitutto, la
piccolezza, situazione geografica,
politica ed ecclesiale, che i paesi dell’istmo
americano condividono con
le vicine isole dei Caraibi: incombe
su di loro il rischio costante di perdere
lo spazio minimo della propria
autonomia.
Questa fragilità endemica è aggravata
dalla povertà generalizzata, che
condanna la maggior parte di queste
nazioni a essere i paesi più deboli e
poveri del continente e del mondo.
Su questi paesi piccoli e poveri si
sono accaniti gli imperi del mondo
per dominarle, impiantandovi ideologie,
imponendo governi, calpestando
i diritti delle persone e delle
istituzioni, scalzandone l’identità
culturale e religiosa per mezzo di sètte
straniere e locali, seminando ovunque,
in questi paesi dell’istmo,
terrore e morte.
Il caso più emblematico è stato
quello del Guatemala, dove, negli ultimi
decenni, le morti violente, secondo
i calcoli più conservatori, hanno
superato ampiamente il numero
di centomila, fra indigeni, catechisti,
sacerdoti, religiose, compreso il vescovo
ausiliare della capitale, mons.
Juan José Gerardi Conedera. Difensore
della vita e dei diritti umani, fu
assassinato in circostanze non ancora
accertate, nella cantina della sua
casa parrocchiale, il 26 aprile 1998,
due giorni dopo (è significativo) la
pubblicazione del rapporto della
commissione nazionale della verità,
da lui presieduta, su numerose uccisioni
di contadini, catechisti e altri civili
e religiosi, da parte delle forze
dell’ordine e militari.
Chiunque abbia una minima conoscenza
della storia recente dei paesi dell’America Centrale, e in particolare
del Guatemala, condivide
queste affermazioni che io stesso ho
ascoltato da testimoni degni di fede,
nei luoghi dove si sono svolti i fatti.
La triplice prospettiva della missione
a partire dall’America Centrale
– piccolezza, povertà e martirio –
risuona nell’inno del Cam2:
«Dal cuore dell’America
dalla nostra piccolezza
e dalla nostra povertà
andiamo a dare amore.
Per le strade del mondo
a predicare Gesù
con Gerardi e con Romero
porteremo la nostra croce.
Con Gerardi e con Romero
trionfo della croce».
Ancora una volta si dimostra che
il martirio è duro, ma qualificante.

RAFFORZARE
L’IDENTIKIT CATTOLICO

Nonostante interessi stranieri abbiano
cercato di smembrae l’unità
nazionale e religiosa, per mezzo di una
semina pestifera di sètte di ogni tipo,
nella regione centroamericana, e
specialmente in Guatemala, sussistono
tre amori, tenuti in gran conto
dal popolo e che il congresso missionario
si propone di rafforzare; è
una eredità irrinunciabile per l’identikit
del cattolico: l’eucaristia, la Madonna
e il papa.
Qualche mese fa, in occasione di
un incontro regionale preparatorio
del Cam2, ho partecipato in Guatemala
a una fervente processione eucaristica,
arricchita da motivi e segni
della cultura indigena: tappeti di fiori
e rami, un altare tipico, invocazioni
particolari.
Accanto alla sede delle Pontificie
opere missionarie (Pom) e alla segreteria
del congresso sta per terminare
la costruzione di un santuario eucaristico
per l’adorazione perpetua: iniziativa
di Antonio Beasconi, direttore
delle Pom e cornordinatore generale
del congresso, ardente devoto
dell’eucaristia, cuore della missione.
Durante il suddetto incontro, all’inizio
dei lavori, vi è stata l’intronizzazione
di un’immagine della vergine
di Luján, portata dall’Argentina,
per indicare la continuità con il Cam
precedente, e ogni giorno si cominciavano
le attività portando in processione
un’immagine tipica della
vergine venerata nei paesi dell’America
Centrale.
Anche nel luogo in cui si sta preparando
il congresso, si diffonde la
devozione alla Madonna, soprattutto
con la recita frequente del rosario.
Papa Giovanni Paolo II sta seguendo
le tappe di preparazione al
Cam2: ha benedetto il manifesto del
congresso che padre Beasconi,
cornordinatore del Cam2, gli ha presentato
a maggio 2002; ha composto
una preghiera speciale per il congresso;
il 30 luglio 2002 è stato in
Guatemala per canonizzare, in un
clima di grande fervore popolare,
fratel Pedro de Betancur, primo santo
dell’America Centrale, «uomo fatto
carità», esempio di evangelizzatore
secolare con un ardente zelo missionario.
Infine, a novembre, il papa
sarà presente nella persona di un inviato
speciale, che porterà il suo messaggio
e presiederà il Cam2.

MISSIONE E COLLEGIALITÀ
Fin dagli inizi, la preparazione del
Cam2/Comla7 si sta realizzando sotto
la responsabilità comune delle
conferenze episcopali dei sei paesi
dell’istmo, cornordinati dal segretariato
episcopale e direttori nazionali
delle Pom. Oltre ai vescovi, spesso
partecipano alle riunioni preparatorie
i vicari generali e i vicari della pastorale
delle diocesi centroamericane,
una novità rispetto ai congressi
precedenti.
In questo modo, la missione rientra
a pieno titolo nella pastorale ordinaria
delle diocesi, come chiedeva
il concilio e come chiede Giovanni
Paolo II (cfr. RM 83). Nei sei paesi, a
rotazione, si sono svolte riunioni preparatorie
regionali, oltre a quelle
proprie di ogni paese, per i diversi
gruppi ecclesiali: famiglie, seminari,
infanzia e altri.

ANNO SANTO MISSIONARIO
La realizzazione del congresso in
Guatemala è un’occasione perché
crescano nelle chiese particolari la
comunione e la solidarietà, non solo
fra i paesi dell’America Centrale e
dei vicini Caraibi, ma in tutto il continente,
dal Canada all’Argentina.
Il Cam2/Comla7 vuole offrire ai
popoli del continente la possibilità
di mostrare a tutto il mondo come
viene vissuto e annunciato il vangelo
in queste loro realtà e, allo stesso
tempo, l’opportunità di scambiarsi
esperienze, a partire dalle diverse
forme di inculturazione del vangelo
al servizio della stessa missione.
Questi e molti altri punti sono contenuti
in forma chiara e pedagogica
nelle nove schede dello strumento di
lavoro del congresso, per la preparazione
di persone e gruppi di tutto
il continente, durante l’anno santo.
Dall’1 dicembre 2002 al 23 novembre
2003, la chiesa centroamericana
si prepara al congresso con un
«Anno santo missionario», per vivere
in modo intenso e creativo questo
«passaggio del Signore nelle nostre
nazioni che hanno un bisogno urgente
di giustizia, verità e pace», come
affermano i vescovi dell’America
Centrale.
E continuano: «L’Anno santo missionario
deve rilanciare con rinnovato
entusiasmo un’ampia e intensa
missione evangelizzatrice, che comprenda
tutti senza differenze: cattolici
che si sono allontanati e non cattolici
», dentro e fuori dal continente.
L’Anno santo missionario «deve
essere ritmato sull’anno liturgico, affinché
emerga con forza la natura
missionaria della chiesa».
Quest’anno è previsto come un
tempo per condividere la ricchezza
di un vangelo capace di trasformare
la persona e la società, un tempo per
intraprendere iniziative di solidarietà
e comunione, «per lottare contro il
sottosviluppo, estrema povertà ed esclusione,
ispirandoci alla testimonianza
dei nostri martiri e ai valori
che caratterizzano le nostre comunità
», promuovendo anche gesti concreti
di pace, giustizia e riconciliazione
tra famiglie e popoli. Da queste
nazioni, colpite da povertà, guerre,
instabilità politica, disastri naturali,
forti migrazioni, scaturiscono pure
luci di speranza, stimolanti esperienze
di evangelizzazione e di missione.
Il Cam2 vuole essere un’occasione
privilegiata, un kairós, per proporre
un’evangelizzazione nuova e più inculturata,
non solo con e fra i poveri
e i «piccoli», bensì a partire da
questi, e che, allo stesso tempo, si radichi
in un terreno propizio, reso fecondo
dal sangue dei suoi martiri di
ieri e di oggi.
Nel logotipo del congresso, la croce
di Cristo spezza le barriere (indicate
dal guscio dell’uomo)
affinché nascano la vita e
la gioia per tutti.

Romeo Ballan