ETIOPIA – Fame di Dio

Crocevia tra nord, sud ed est del paese, Modjo è pure un luogo strategico delle attività dei missionari della Consolata: opere sociali e pastorali, seminario minore e animazione missionaria vocazionale, fino a diventare un punto di riferimento per la formazione giovanile e centro di spiritualità per preti e religiosi.

Non c’era un filo d’erba verde, 10 anni fa, quando padre Domenico Zordan mi fece visitare il luogo dove stava costruendo la missione di Modjo, lembo meridionale della diocesi di Addis Abeba. Non un albero per ripararsi dal sole, che, sull’altipiano etiopico, sembra più implacabile che altrove. Nel grande prato arido, reso più vasto dalla mancanza di recinzione, unico segno di vita erano i muratori, intenti a ultimare la costruzione dell’asilo e innalzare i muri del salone e del seminario.

Oggi, ritornato nello stesso luogo, mi sembra di sognare: un bel viale di jacarande immette in un’oasi di pace, con prati verdi, vialetti alberati e siepi in fiore che circondano una nutrita serie di edifici; da una parte la casa dei padri, il seminario, il salone l’ampia chiesa e gli edifici del centro di animazione missionaria; dall’altra parte, divisa da una rete metallica e un enorme cancello in ferro, sorgono l’asilo, il dispensario, il centro di promozione della donna e l’abitazione delle suore della Consolata che gestiscono queste attività; in fondo c’è la scuola elementare, costruita dai missionari e consegnata alla gestione governativa. Nonostante l’ampiezza dello spazio, tanti edifici sembrano allo stretto.

UNA SCELTA RESPONSABILE

Si sa come vanno le cose in Etiopia: la chiesa cattolica è considerata quasi come una Ong e la presenza di missionari è condizionata dalla gestione di opere sociali; ma, una volta ottemperata a tale condizione, è libera di svolgere le attività religiose a piacimento.
È così che a Modjo, nel grande terreno concesso dal comune per le opere sociali, i missionari della Consolata hanno costruito anche un seminario minore, per preparare gli aspiranti missionari.

«Attualmente abbiamo sette seminaristi – spiega padre Antonio Benitez -: quattro hanno terminato i dieci anni della scuola d’obbligo e frequentano l’undicesima e dodicesima classe nella scuola statale della città; gli altri tre fanno un anno di propedeutica, cioè di preparazione per entrare nel seminario maggiore di Addis Abeba e frequentare i corsi di filosofia».

Padre Antonio, giovane missionario della Consolata colombiano, è arrivato in Etiopia due anni fa e da pochi mesi è approdato a Modjo, immergendosi totalmente nella vita della missione: insegna nella scuola matea, aiuta nella pastorale e nella formazione dei seminaristi. Anzi, al momento della visita ha la piena responsabilità del seminario, poiché il direttore, il kenyano padre Gabriel Odwori, è in vacanza.

«È un’esperienza gratificante – continua il padre -, anche se non mancano le difficoltà, soprattutto a livello di comunicazione: io sono ancora alle prese con l’apprendimento della lingua amarica e i seminaristi, provenienti da diverse etnie, kambatta, adiya, oromo, hanno difficoltà ad esprimersi in inglese».

Quello dell’inglese è un problema cruciale per tutti i giovani che vogliono accedere agli studi superiori, dove l’insegnamento è impartito in questa lingua: un esame di stato, tutto in inglese, dichiara l’idoneità a tale passaggio. Ma poiché nella scuola statale questa lingua viene appresa ad orecchio, senza badare troppo alla scrittura, per affrontare tale esame è necessario un supplemento di preparazione.

Per questo, buona parte del tempo dell’anno propedeutico è impiegato dai seminaristi nello studio dell’inglese e in corsi di vario genere, per colmare eventuali lacune nella formazione intellettuale e spirituale.

«Anzitutto – continua padre Antonio – i giovani hanno bisogno di approfondire la dottrina cristiana, poiché le nozioni apprese sono alquanto superficiali e tradizionali; inoltre, diamo loro lezioni di bibbia, psicologia e formazione umana. Essi sono ancora alla ricerca della loro vocazione e hanno bisogno di chiarire le motivazioni delle loro scelte».

Negli anni passati il seminario di Modjo aveva più di una ventina di aspiranti missionari; quest’anno sono solo sette. Eppure in Etiopia c’è abbondanza di ordinazioni sacerdotali e vocazioni alla vita religiosa.
«È vero. Ma dovremmo domandarci come mai ci siano tante vocazioni – interviene padre Paolo Angheben -. Si rimane stupiti se le confrontiamo col piccolo numero dei nostri cristiani. Una superiora provinciale etiopica, passando a Modjo, mi fece questa confessione: “Se in Etiopia ci fosse più lavoro, ci sarebbero meno vocazioni”. Venendo da una suora locale, questa frase dice molto. Data la disoccupazione, i problemi di sopravvivenza, l’incertezza del futuro, non mi meraviglio più di tanto che tanti giovani vogliano entrare in seminario, dove hanno da mangiare e possono proseguire gli studi. Capitava così anche in Italia, subito dopo la guerra. La tentazione è forte. Per questo è necessario aiutare questi giovani a un serio discernimento e alla responsabilità delle loro scelte».

GIORNI DI FUOCO

Padre Paolo è ormai un veterano in Etiopia. Vi arrivò nel 1985 e, dopo un intermezzo nel Centro missionario di spiritualità nella Certosa di Pesio (Cuneo), è ritornato al primo amore, prendendo le redini della complessa missione di Modjo.

Essa è nata e cresce come «Centro di animazione missionaria vocazionale»; ma l’arrivo di padre Paolo ha aggiunto una nuova dimensione: è diventata pure centro di spiritualità, un servizio di cui la chiesa locale ha estrema necessità.

In Etiopia, infatti, non ci sono solo problemi di carattere economico e sociale, ma anche a livello di chiesa, soprattutto nella formazione del clero: i giovani affrontano gli studi di filosofia e teologia con profonde carenze di base e la scarsità di personale non permette al seminario maggiore di offrire una formazione adeguata alle sfide della situazione.
«In Etiopia c’è tanta fame, non solo di pane, ma anche di Dio – afferma padre Paolo -. Preti, suore, religiose sentono il bisogno di maggiore profondità spirituale. I sette anni di esperienza nella Certosa di Pesio mi hanno preparato a rispondere a questa sfida della chiesa in Etiopia».

Per ora il centro di Modjo organizza incontri e ritiri spirituali di una giornata; ogni mese si svolge la scuola di preghiera: il sabato per le religiose, la domenica per i giovani, il lunedì per i sacerdoti. Sono chiamati «la tre giorni di fuoco». Nel corso dell’anno sono accolti gruppi giovanili delle singole parrocchie della diocesi di Addis Abeba e di quelle circostanti, per una giornata di formazione e approfondimento della vita cristiana.
L’iniziativa sta riscuotendo un crescente successo: oltre all’apprezzamento del vescovo, sono molte le singole persone, preti, suore e laici impegnati, che vengono al Centro per trascorrere un fine settimana o più giorni in preghiera e meditazione, o fare un ritiro spirituale sotto la direzione di padre Paolo.

A tale scopo, Modjo offre molte possibilità: la città è un nodo stradale di comunicazione tra nord, sud ed est del paese; la missione è lontana dal traffico, per cui offre ampi spazi di silenzio; l’ambiente è ombreggiato e il Centro è dotato di alcune camerette semplici ma confortevoli.

Sono molte le richieste di corsi prolungati da parte di giovani e catechisti. «Finora mi sono recato nelle singole parrocchie – spiega padre Paolo – e ho guidato settimane di formazione e spiritualità nel centro catechetico di Gighessa; ma ci stiamo attrezzando per accogliere e alloggiare i gruppi giovanili anche a Modjo. Avere dei giovani che risiedono per più giorni in questo centro dà la possibilità di fare un lavoro più in profondità. Non bisogna dimenticare che la vocazione nasce dalla preghiera e noi vogliamo formare i giovani alla preghiera».

STORIA DELLA SALVEZZA

Per comprendere meglio lo scopo del suo lavoro, padre Angheben mi porta in cappella e mi spiega il significato degli oggetti che ne adoano le pareti. «È la cappella della storia della salvezza» spiega il padre.
Nella parete di fondo, in basso a sinistra, un ceppo secco richiama la profezia di Isaia: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto spunterà dalle sue radici». Il germoglio, promessa di nuova speranza per il popolo d’Israele e per tutta la storia umana, è Gesù, spiega padre Paolo, indicando l’icona della Madonna della tenerezza, che raffigura Maria mentre stringe al petto il figlio divino.

La storia della salvezza culmina nella morte e risurrezione di Cristo, raffigurata in una grande croce etiopica che domina il centro della parete. «È la croce gloriosa, la croce della risurrezione, secondo la tradizione etiopica».

Sotto la croce c’è un bastone rosso. Esso ricorda il serpente di bronzo di Mosè, che Gesù prese come simbolo del suo innalzamento sulla croce (cfr Giovanni cap. 3); al tempo stesso, richiama il bastone del pellegrino, che nell’iconografia è sempre di colore rosso. Il bastone è sostenuto da una specie di contenitore rotondo, tipico della tradizione etiopica: i viandanti vi mettono il cibo per il viaggio; qui funge da tabeacolo, dove è conservata l’eucaristia, il cibo che sostiene il pellegrinaggio della vita cristiana. «Meta del nostro cammino è la comunione con la Trinità» continua padre Paolo, indicando, a destra della croce, la grande icona della Trinità di Rublev.

«Questa storia la celebriamo ogni giorno nella messa. Al centro della cappella ci sono due massob, altro oggetto tipico della cultura etiopica: viene regalato agli sposi il giorno delle nozze: è il loro tavolo da pranzo. Quello più grande lo usiamo come altare per celebrare l’eucaristia, il banchetto delle nozze etee dell’Agnello. Su quello più piccolo c’è una bibbia aperta: entrambi i massob ci ricordano il pane della parola e il pane del corpo di Cristo».

Sulla parete destra è appeso un grande quadro del beato Giuseppe Allamano. «L’eucaristia porta subito alla missione – conclude padre Paolo -. È necessario raccontare agli altri la storia della salvezza, come ha fatto e continua a fare il nostro fondatore, chiamando e inviando i suoi missionari».

I FIGLI DEL MASSAIA

La missione di Modjo ha tutte le attività di una parrocchia. La comunità è ancora piccola: conta appena una decina di famiglie cattoliche e altrettante miste, con un genitore cattolico e l’altro ortodosso. È una situazione familiare non priva di tensioni, ma potrebbe diventare un punto di partenza per il dialogo ecumenico, con un approccio ancora tutto da inventare.
La maggior parte di coloro che frequentano la chiesa sono giovani, a volte con afflusso massiccio, ma incostante, attirati dalle iniziative religiose e sportive promosse dalla missione e, forse, dalla speranza di avere qualche aiuto materiale.

Modjo dà l’impressione di essere una zona ricca; ma in realtà c’è molta povertà, soprattutto morale. Essendo un importante nodo stradale nel cuore del paese, la cittadina è nata e vive di attività legate a piccoli commerci e alberghetti per gente di passaggio, specie camionisti, con conseguente diffusione di prostituzione e Aids. Un bambino su cinque è orfano a causa di tale flagello.

«Non è facile parlare di Dio in una situazione del genere – confessa padre Paolo – Modjo è una missione complessa e difficile. Tuttavia facciamo il possibile per rispondere ai problemi della popolazione col nostro lavoro pastorale, di formazione giovanile e opere sociali».

In queste attività, i missionari sono affiancati dalle suore missionarie della Consolata, che gestiscono l’asilo, dispensario medico e un centro di promozione della donna, frequentato da ragazze e madri di famiglia. In esso imparano cucito, economia domestica e a gestire piccoli progetti con cui guadagnare qualche soldo e sostenere dignitosamente la famiglia.
Provvidenziale è pure il lavoro che le suore svolgono nel dispensario, sia nella cura della popolazione della città, sia con campagne di vaccinazioni nei vari villaggi della zona.

La missione, infatti, si sta estendendo anche nelle zone rurali. A Dibandiba, periferia della città, è stata costruita una scuola cappella che raccoglie 250 bambini e giovani della zona; un’altra è in progetto a Ejersa, a 15 km da Modjo: per ora giovani e bambini si radunano all’ombra di un grosso sicomoro.

Di recente, padre Paolo ha visitato anche i villaggi più lontani da Modjo, dove si trovano alcuni discendenti dei cattolici battezzati dal cardinal Massaia, rifugiatisi in questa zona per fuggire alle persecuzioni che, negli anni 1880, l’imperatore Giovanni iv, istigato dal patriarca copto, scatenò contro il grande missionario e la chiesa da lui fondata. Anche questi cristiani hanno fame di Dio.

Benedetto Bellesi




TANZANIA – Otto ragazzi dal baba…

Il missionario è Camillo Calliari e il vescovo
Alfred Maluma. Otto giovani italiani in Tanzania
li osservano e pongono domande anche spinose:
sull’aids, per esempio.

Intanto, nell’anno internazionale dell’acqua,
i ragazzi danno una mano a completare un acquedotto
di 7 chilometri.

Sud del Tanzania. Dalla città di Njombe alla missione di Kipengere un pulmino arranca su ripide salite sterrate e geme nella morsa dei freni nei tratti di vorticosa discesa. Al passaggio del mezzo, i viandanti lungo la strada voltano le spalle e si coprono la bocca con una mano per proteggersi dal polverone, reso più denso dall’incombere della sera.

«Come te
non c’è nessuno…»
Il pulmino trasportava otto giovani italiani.

«Stop, per piacere! – si rivolsero ad un tratto gli italiani all’autista tanzaniano -. Ci piacerebbe fotografare quei bambini alla fontana». «Avrete altre e migliori occasioni – rispose il conducente -. Fra non molto è notte, e padre Camillo ci attende un po’ ansioso a Kipengere…».
A Kipengere opera padre Camillo Calliari, più noto come «baba Camillo». Il baba ha votato se stesso alla causa del vangelo: il vangelo della «vita in abbondanza». Vita che è pure acqua.

Fra tante e significative iniziative di promozione umana, il missionario ha inventato pure un acquedotto, sostenuto dal coinvolgimento della popolazione locale e dalla solidarietà di numerosi amici in Italia, non ultimi gli otto giovani del pulmino.

L’acquedotto è un’opera necessaria, costosa ed imponente, realizzata con tenacia nell’arco di anni su un vasto territorio, ricco di sorgenti d’acqua potabile, a circa 2.200 metri di quota. Dunque un’impresa in montagna, che ha esaltato baba Camillo, trentino di Romeno, in Val di Non. Un’opera surriscaldata dai raggi ultravioletti del sole, con gli uomini che disboscano il percorso dei tubi con un coltellaccio su terreni scoscesi, mentre le donne aggrediscono il suolo roccioso a colpi di zappa. E questo per chilometri e chilometri: 210 per la precisione, se si sommano gli 80 chilometri della condotta principale dell’acquedotto ai 130 delle diramazioni…

Spalla a spalla con i tanzaniani, gli otto giovani nostrani aggiunsero altri sette chilometri all’acquedotto, innalzando tre fontane nel villaggio di Ihagala e due in quello di Ilindiwe, a 20 chilometri da Kipengere. «Per noi è stato il modo migliore per celebrare l’anno internazionale dell’acqua» commentò uno dei protagonisti ad opera finita.

Quando l’acqua potabile sgorgò giorniosa e cristallina dai candidi rubinetti, fu un trionfo. I bambini dei villaggi cantavano: «Baba Camillo, hakuna mtu kama wewe» (come te non c’è nessuno).

Ma il missionario della Consolata abbassava la testa, pensando forse al prossimo «appuntamento» già fissato: un nuovo ramo dell’acquedotto di 15 chilometri. «Ah, dimenticavo! – disse anche ai ragazzi rincasando a Kipengere dopo la festa – l’acquedotto è… ecumenico, poiché vi ha contribuito anche la chiesa luterana pagando il trasporto di materiali e persone».

Chi offre una sedia?

«Il vescovo è arrivato» annunciò Laura. «Come lo sai?» chiese Mario. «Ho visto un uomo con un vistoso anello al dito…».

Sì, monsignor Alfred Maluma era giunto. Desiderava incontrare Laura e Mario, come pure Alessio ed Elena, Barbara, Lucia, Valeria e Francesca: gli otto giovani italiani che, nell’agosto scorso, trascorsero alcune settimane a Kipengere, missione della diocesi di Njombe.

«Buon pomeriggio» accolsero il vescovo i ragazzi. «Buon pomeriggio a voi e benvenuti nella nostra diocesi di Njombe!».

Il presule si rivelò subito affabile, con un sorriso accattivante, padrone di un buon italiano e in grado di rispondere a tutte le domande degli ospiti.
– Quale vescovo, come giudica la nostra presenza nella sua diocesi?

«Desidero che la diocesi sia accogliente: chi viene qui deve sentirsi a casa. Voi siete cristiani, penso. Allora ricordo che la chiesa è una famiglia che riunisce tutti. Come afferma san Paolo, dopo Gesù Cristo non ci sono più arabi, ebrei, italiani. Siamo tutti figli di Dio.
Qui, fra i missionari della Consolata, c’è baba Camillo, che lavora da tanti anni e ha fatto ottime cose. Voi pure, insieme a lui, avete contribuito a portare l’acqua potabile in due villaggi… I missionari lavorano, presentandosi come fratelli di tutti nella grande famiglia di Cristo. Questa è la nostra fede. È come un albero con tanti rami, e voi siete alcuni rami che continuano a spuntare. Mi auguro che la vostra presenza porti anche frutto. Per la gente locale siete una testimonianza di carità».

– Lei, forse, non è nato cattolico. Ebbene, com’è avvenuto il suo incontro con la chiesa?
«Io sono nato cattolico. In questa regione c’era una scuola elementare cattolica. I miei genitori vi lavoravano… e, con il tempo, sono stati battezzati. Quindi io sono nato cattolico. Però non tutti i miei coetanei sono cattolici. Ma i missionari hanno sempre annunciato il vangelo, accompagnato da servizi sociali: scuole, ospedali, coltivazioni. E la gente si interroga: chi è il missionario? In che cosa crede? Se crede in Gesù Cristo, anche la popolazione è pronta a farlo».
– In Tanzania molti vivono in condizioni difficili. Che fa la chiesa per promuovere lo sviluppo?

«Sono già state fatte molte opere, perché la chiesa ha sempre presentato il vangelo con i fatti: per esempio, l’istruzione scolastica in Tanzania è opera dei missionari. Fino agli anni ’70 era quasi impensabile un’istruzione senza le scuole missionarie, che sono state centri di sviluppo. Ma resta ancora molto da fare».
– Monsignore, ci parli di lei…

«Sono vescovo da appena un anno e sto avendo una drammatica esperienza visitando le parrocchie. Io sono figlio di contadini, ma forse non conosco la loro vita. La prima volta che, da vescovo, sono stato in un villaggio per conferire la cresima, ho dovuto cambiare la predica preparata, per non battere l’aria. Ero di fronte a tantissimi bambini: coglievo nei loro occhi una grande aspettativa, ma non sapevo cosa dire.

Uscendo di chiesa, ho chiesto ai genitori: cosa possiamo fare per i giovani? La risposta è stata: noi non siamo più in grado di educare, specialmente le ragazze… Ho invitato tutti a pregare, a riflettere maggiormente, ad incontrarsi. L’hanno fatto giungendo a questa conclusione: la chiesa dovrebbe impegnarsi di più nella scuola, dall’asilo all’università… Ecco perché la mia prima lettera pastorale, brevissima, affronta il tema dell’educazione-istruzione.
Se ci impegneremo di più nell’educazione, assicureremo il benessere integrale ai ragazzi di oggi».

– Pertanto il vescovo costruirà scuole?

«Il vescovo, da solo, non può costruire scuole, perché non ha soldi e la diocesi è povera. Siamo tutti poveri. Però se ognuno fa qualcosa (una finestra, una porta, una sedia)… Se anche voi, giovani, costruirete un muro di un’aula scolastica, contribuirete all’educazione. Non lasciatevi scoraggiare… La diocesi conta 240 mila abitanti; quelli che possono dare qualcosa sono 100 mila; ma, se tutti costoro lo faranno, costruiremo due nuove scuole, o almeno una».

AIDS E PRESERVATIVO

Il vescovo di Njombe e i giovani italiani conversavano all’aperto, seduti su una panca. Improvvisamente si levò un vento freddo, che costrinse tutti ad entrare in casa, cioè la baita, dove i ragazzi alloggiavano. Sul prefabbricato spicca una targa: «Dono degli alpini di Giussano».

L’intervista ad Alfred Maluma riprese attorno a un tavolo, ingentilito da un mazzo di splendide calle.
– Eccellenza, qual è il rapporto con i non cristiani?
«Nella regione di Njombe ci sono cattolici, luterani, anglicani e altre piccole denominazioni religiose. In passato c’era fra loro antagonismo; oggi questa malattia sta scomparendo. Fin da piccoli siamo abituati a vivere in armonia con ogni fede».

– Anche con i musulmani?

«Con i musulmani il problema si fa acuto di fronte ai fondamentalisti, che vengono dai paesi arabi. Ma con i musulmani tanzaniani (salvo qualche eccezione), non ci sono grosse difficoltà. Partecipiamo anche ai loro matrimoni e funerali. È un dovere di famiglia».
– Aids. In Italia si dice che in Africa servono soprattutto i preservativi. Lei, che dice?
«È essenziale cambiare abitudini e mentalità. Anche l’aspetto economico influisce molto: si cerca di lucrare sfruttando l’aids, cioè produrre e vendere preservativi. Invece si pensa troppo poco alla prevenzione, basata sull’educazione.

L’aids è esploso come una bomba per povertà e ignoranza: per esempio, se andate in un villaggio, vedete che si usano siringhe scadute, non sterilizzate, già impiegate per più individui. Vi sono medici tradizionali (un po’ stregoni) che incidono i corpi di vari pazienti con la stessa lametta, senza neppure disinfettarla. Lo stesso avviene nelle pratiche chirurgiche dell’iniziazione femminile e maschile. Sono fatti macroscopici.

Prevenzione contro l’aids significa investire sulla formazione dei giovani: questo comporta anche la revisione di alcuni costumi sessuali legati alla tradizione. È una trappola dire: “Tanto prenderò il preservativo!” (che in Africa è magari difettoso).
Io ho lavorato con i giovani subito dopo l’ordinazione sacerdotale. I giovani, prima che con il male, cercano di identificarsi con il bene. Ma se non lo vedono, perdono la speranza. Di qui l’urgenza di prospettare ideali positivi».

– Noi siamo qui a Kipengere anche per imparare. Secondo lei, che cosa possiamo apprendere?
«Questo dipende da voi. Io sono a casa mia, e non posso propormi a voi. Voi dovete scegliere. Tuttavia vi dò un consiglio: osservate con attenzione le persone, informatevi sui loro problemi, rifuggite dai luoghi comuni proposti dai mass media. In ogni caso siate solidali, generosi…».

Alfred Maluma saluta Laura e amici prima di cena, mentre la campana della missione di Kipengere suona l’Ave Maria. Congedato il vescovo, baba Camillo entra in chiesa per la preghiera della sera. In cielo splende la luna.
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Francesco Beardi




KENYA – Quando Gesù nacque bambina

Una piccola orfana
è accolta in una famiglia africana: la notte
di natale, prende il posto di Gesù bambino
nel presepe e continua
ad essere accolta e amata come una benedizione divina.

È l’antivigilia di natale; l’estate calda e piena di luce: restare a casa a far poco o nulla è scoraggiante quanto mai. Mancano due settimane alla riapertura delle scuole (in Kenya l’anno scolastico inizia in gennaio), ma la gioia della vacanza e della festa del natale elettrizza non solo i bimbi d’Europa, ma anche quelli del continente nero.

– Vieni, Scolastica; andiamo a trovare alcuni amici.
L’invito di mamma Mary alla figlioletta, ultima di quattro figli, non poteva giungere più accetto.

– Dove andiamo, mami?

– Partiamo e vedrai.

Mamma Mary mise in una borsa di plastica una manciata di samosa (specie di frittelle ripiene di carne e spezie) e prese la strada che porta alla grande bolgia di Kibera: una delle più grandi e tristi bidonville di Nairobi, ove si accalca mezzo milione di individui di tutte le etnie del Kenya.

– Hai degli amici qui dentro? – riprese Scolastica, quasi paurosa di quel luogo da tutti ritenuto un covo di briganti.

– Non aver paura. Mami è con te.
Mamma Mary puntò dritta verso una costruzione di vecchi pezzi di assi tenuti insieme faticosamente da listelli e fil di ferro. Il tetto, fatto di vecchie latte di benzina spianate col martello, ormai arrugginite e sforacchiate, riparava dal sole, non certo dalla pioggia. Chiamarla casetta avrebbe offeso anche un apprendista carpentiere; definirla pollaio… si sarebbero offese le galline.

– Odi? (permesso?) – chiese mamma Mary, mentre spingeva una specie di paravento di pezzi di plastica e sacco catramato.

Nell’interno, diventato tutto ad un tratto silenzioso, decine di puntini luminosi fendevano la semioscurità: sembravano altrettanti occhi di gattini spalancati.
– Hamjambo watoto! (salve bambini) – salutò la donna.
– Hatujambo, mama! (salve, mamma) – fece eco un coro di vocine.

Anche Scolastica, che si era quasi nascosta dietro la mamma, si fece avanti per stringere una selva di manine, che avrebbero avuto bisogno di tanta acqua e sapone.

Quella «topaia» (questa volta senza offesa per i topi) voleva essere un «orfanotrofio». Venti o trenta bambini erano stipati in quella stanza, sotto la sorveglianza benevola di una matrona africana, che aveva tentato di intrecciare il suo grande cuore e la monumentale statura con la estrema povertà e la triste realtà di un gruppo di bambini rimasti orfani e da tutti abbandonati. Almeno potevano avere un luogo per dormire, scaldandosi a vicenda, una scodella dove pescare qualche foglia di cavolo, una manciata di polenta da divorare.

Mamma Mary conosceva già quella situazione. Ma Scolastica ebbe un momento di brivido, specie quando sentì due mani umide aggrapparsi alle sue gambe, come per sostenersi a qualcosa e non lasciarsela scappare.

Scolastica guardò in basso; i suoi occhi si incontrarono con quelli lucenti di una bimba dai vestiti scoloriti e laceri. Non una parola. Una guardava in giù, l’altra guardava in su, con occhi di speranza. Neanche la distribuzione dei samosa interruppe quella specie di abbraccio.

– Hai idea di chi possa essere questa bimba? – chiese alla matrona mamma Mary, che aveva notato lo strano comportamento della bimba.

– Me l’hanno portata dopo che anche la mamma fu trovata morta. La piccola aveva tanta fame. Dovrebbe essere di etnia luo, poiché i genitori venivano dalla regione del lago Vittoria. Niente di più. Neppure il nome. Ho cominciato a chiamarla Owino ed essa mi risponde quando uso questo nome.

Owino restava imperterrita attaccata alle gonne di Scolastica.

– Vedi, Scolastica? Ti vuole bene! E se le regalassimo un po’ di amore in questi giorni di natale?

– Ci sto!

Non furono necessari lunghi discorsi: la matrona non ebbe difficoltà a concedere ad Owino la «libera uscita».
Documenti? E quali documenti? Papà e mamma sconosciuti, morti di aids, sepolti o abbandonati chissà dove. Ben venga uno spiraglio di bontà e per una creatura che ha tutti i diritti di vivere!

E uscirono in tre da quella stanza, tenendosi per mano. Scolastica stringeva forte la manina di quella «bambola in carne ed ossa», per paura che nella ressa della bidonville qualcuno gliela portasse via.

A casa la bimba fu accolta con gioia. Gli altri tre figli, uno dei quali universitario, si dissero onorati di far posto alla bimba piovuta dal cielo.

Il bagnetto nella vaschetta di plastica, con tanto di spugna e sapone, fu una commedia per tutta la nuova tribù. Owino spuntò fuori come se fosse stata rifatta nuova; fu rivestita dei vecchi abiti di Scolastica: alcuni spilli e qualche ritocco, ed ecco la nuova star della famiglia.

«Che nome le mettiamo? – domandò Scolastica, dando subito la risposta -. Propongo Little Mary, (piccola Maria) in onore di mamma che l’ha scovata». Apprato senza fiatare.

La notte Little Mary dormì un sonno tranquillo, anche perché non sentiva, una volta tanto, gli stimoli della fame arretrata. Dormì in una culla, la prima volta in vita sua: la vecchia culla di famiglia, usata da tutti e quattro i figli.

Il giorno seguente c’era un gran da fare in casa Mary per preparare il natale: pulire, lavare, cucinare qualcosa di speciale senza la solita polenta.

Giunge la sera. La «messa di mezzanotte», in certi posti del Kenya, non è pensabile per le difficoltà di trasporto e motivi di sicurezza.

– Mamma, abbiamo dimenticato il presepio! – disse Scolastica, guardando attorno come se avesse smarrito qualcosa d’importante.
– Ma non abbiamo la capanna né le statuine dei pastori.

– Abbiamo Gesù bambino in carne ed ossa, la nostra Little Mary, che Gesù ci ha regalato per natale. Noi faremo Maria, Giuseppe e i pastori; a mezzanotte porteremo Little Mary nel nostro presepio.
– Dove metteremo il nostro Bambin Gesù? La culla non va bene!

– Nel cestino del nostro cucciolo. Bob avrà pazienza di aspettare la fine della festa.
Verso mezzanotte, in un’aura di gioia e fantasia tutta africana, il presepio vivente prese a muoversi dalla cucina alla camera da letto; Maria e Giuseppe portavano un cesto di vimini tutto addobbato; Scolastica, seria e compunta, reggeva in braccio Little Mary e la depose delicatamente nella cesta di Bob. Poi mamma Mary intonò in kikuyu «Tu scendi dalle stelle…».

Il coro era piccolo e neppure troppo intonato, ma tanto gradito al cielo e agli angeli, presenti e osannanti anche quella notte.

La storia avrebbe voluto che nella mangiatornia ci fosse un «bambino» Gesù; ma credo che anche il buon Dio avrà sorriso alla fantasia del cuore africano, che in questa bella notte aveva fatto nascere un Gesù «bambina», nella cesta del cucciolo di famiglia.

T re giorni dopo natale, mamma Mary, che da tanti anni è segretaria tuttofare in casa nostra, mi raccontò quanto era successo in famiglia, come se fosse la cosa più naturale al mondo.
– Hai pensato, Mary, al rischio in cui ti sei cacciata? – le domando.

– Ci ho pensato a lungo e ne ho parlato con i figli: abbiamo deciso di tenerla come un dono di Dio. Da quando nacque Scolastica, dieci anni fa, e mio marito se ne è andato, lasciandomi sola, senza lavoro e mezzi, intorno a me ho sempre trovato tanta bontà. Sono riuscita ad allevare i miei figli dignitosamente e mandarli tutti e quattro a scuola. Dio ci ha benedetti. È ora che anch’io restituisca al Signore tanta bontà che ha usato verso di noi.

Cercai di guardare altrove, fingendo di essere occupato, perché due lacrimoni mi scendevano dagli occhi.

– Mary, hai pensato che anche la bimba possa avere il male dei suoi genitori?
– Sì. La farò visitare e saprò curarla. La bimba ha bisogno di medicine e, soprattutto, dell’amore di una madre e il calore di una famiglia.

Una visita accurata rivelò che Little Mary aveva ereditato il male dei genitori. Ma la notizia non scombussolò né cambiò il progetto di accettarla in famiglia.

O ggi Little Mary è cresciuta. Si è rinforzata in salute, grazie anche all’aiuto di amici italiani a cui ho raccontato questo «fioretto africano». Ha ancora bisogno di cure; ma l’amore che ha trovato intorno a sé è la migliore medicina e l’aiuta a superare le difficoltà.
Alla scuola di Scolastica e mamma, Little Mary ha imparato a parlare tre lingue, si destreggia bene tra le compagne dell’asilo ed è pronta per passare alla scuola elementare.

Nessuno è ancora riuscito a sapere esattamente come si chiamasse. Ma che importa? Forse un giorno qualche pignolo ufficiale governativo vorrà sapee di più. E allora – ci scommetto – mamma Mary, con la sua furbizia e senso dello humour, tirerà fuori questa spiegazione: «È un Gesù “bambina”, venuta dal cielo, accolta provvisoriamente nella cesta del nostro cucciolo, ma amata da tutti noi, come l’ultima figliola che il Signore mi ha donato».

Giuseppe Quattrocchio




ITALIA – Lamponi a Natale

Da tre anni i missionari della Consolata operano nella parrocchia di Platì (Reggio Calabria), paese alla ribalta di cronache giudiziarie e imprese mafiose. La gente è stufa di essere segnata a dito
a causa di una minoranza criminale: la voglia
di riscatto matura insieme a piccole imprese che producono fragole e lamponi.

Era il 4 ottobre 2001, quando Enrico Redaelli e Luigi Manco, missionari della Consolata, presero ufficialmente possesso della parrocchia di Platì, provincia di Reggio Calabria, diocesi di Locri-Gerace, nel cuore dell’Aspromonte.

Con tanto bisogno di missionari nel sud del mondo, perché finire in uno sperduto paese della punta estrema dello stivale? La domanda è naturale e la risposta doverosa. L’ultimo Capitolo generale dell’Istituto (1999) aveva lanciato un’urgenza profetica: «È giunta l’ora della missione ad gentes anche in Europa».

L’anno seguente, nella Conferenza regionale, i missionari della Consolata in Italia hanno accolto l’appello: fatte le dovute ricerche, la scelta del nuovo campo missionario è caduta sulla Locride, diocesi con forti sfide pastorali a livello ecclesiale e socio-ambientale.
Così i due missionari sono approdati a Platì e, data la scarsità di clero, servono altre due piccole parrocchie confinanti.

PAESE A «DUE PIANI»

Adagiato sul versante orientale dell’Aspromonte, Platì era un centro agricolo, commerciale e artigianale rinomato per creatività, laboriosità e ospitalità degli abitanti. Della grandezza passata rimangono solo le vestigia nei falegnami, veri maestri del legno, e nei foai, che foiscono il fragrante «pane di Platì» a una ventina di paesi della Locride.

Quarant’anni fa il paese contava oltre 7 mila persone; ora la popolazione è quasi dimezzata, nonostante vanti il più alto tasso di natalità in Italia. Molte case sono da anni in costruzione; altre sono chiuse e malandate: aprono i battenti una o due volte all’anno, quando i proprietari, emigrati in Nord Italia e in America, ritornano in paese per qualche giorno di vacanza.

Platì non ha una biblioteca, né campo di calcio, né cinema, né altro luogo di ritrovo. Chi può, manda i figli a studiare altrove. Gli insegnanti della scuola locale scappano appena suona la campanella; e perfino il sindaco, nativo di Platì: alle 13 chiude il municipio con imposte di ferro e si rifugia a Locri.

Gli stessi platiesi ammettono che, da qualche decennio a questa parte, il paese sta andando alla deriva. Platì è diventato tristemente famoso per alcuni episodi giudiziari, sequestri di persona, traffici illeciti, delitti di mafia e latitanti. Ma è inutile domandare chi sono i mafiosi. La gente sorride e risponde con un’altra domanda: «E chi lo sa? Noi vediamo solo padri di famiglia che si alzano all’alba e tornano al tramonto».
Ma non è tutta omertà. In realtà molte persone non sanno niente e non si accorgono di nulla. Tra queste ci sono spesso anche i familiari e le stesse mogli dei malavitosi. Il malaffare è gestito da una minoranza, composta da «manovali» e pochi «specialisti» che vivono nel paese, ma collegati con i vertici della malavita nazionale e internazionale.

Una pittoresca immagine lo definisce «paese a due piani», in senso metaforico e reale. L’11 dicembre 2001, l’arresto di un pregiudicato della ‘ndrangheta, da 11 anni latitante, soprannominato «l’imprendibile», ha portato alla scoperta di bunker sotterranei, collegati con alcune palazzine e le fogne del paese, dotati di marchingegni elettronici altamente sofisticati: porte scorrevoli, chiusure antiproiettile, scalette di granito, che scivolano senza il minimo fruscio, e camere dotate di tutte le comodità.

VOGLIA DI RISCATTO

Una settantina di famiglie di Platì hanno un familiare in prigione o in latitanza. Madri e figli sono le prime vittime di tale situazione, sia perché devono portare da mangiare ai fuiùti (fuggitivi), sia, soprattutto, per le frequenti perquisizioni poliziesche: nel cuore della notte i militari sfondano la porta a calci, mettono a soq-quadro l’abitazione e la riempiono di terrore.
Quando un fuggiasco si consegna alla polizia, in famiglia c’è grande festa, perché finisce finalmente l’incubo di altre irruzioni delle forze dell’ordine.
Ma anche la gente del «piano superiore» è stufa di sentirsi segnata a dito per colpa di una minoranza sotterranea. «La maggioranza dei platiesi è gente normale e buona – afferma padre Emanuele Maggioni, parroco insieme a padre Enrico -. Alcuni mettono piede in chiesa in speciali circostanze, per onorare i morti, insieme ai rispettivi compari e comari; altri frequentano regolarmente, collaborano nelle attività comunitarie e si prodigano silenziosamente per aiutare malati, anziani, bisognosi».

A Platì c’è voglia di riscatto; ne è un segno la massiccia presenza della gente alla messa e fiaccolata del 15 dicembre del 2001, per manifestare solidarietà verso tante famiglie colpite dalla scomparsa dei loro congiunti: dal 1994 al novembre del 2001, ben 7 persone, dai 22 ai 40 anni, sono sparite nel nulla e non danno più notizie di sé.

All’omelia, mons. Giancarlo Bregantini, il vescovo di Locri-Gerace, ha letto i nomi degli scomparsi ed espresso il suo dolore verso i loro parenti, alcuni dei quali coraggiosamente presenti; poi ha raccomandato ai giovani il rispetto di sé e delle cose altrui, di studiare e formarsi una coscienza responsabile. Infine, alzando la voce perché arrivasse a chi di dovere, ha chiesto che, prima del ponte sullo Stretto, si provveda i centri dell’Aspromonte di strutture che li facciano uscire dall’isolamento e dal degrado.

Alla fine della messa, una giovane donna coraggiosa ha letto questo messaggio: «Popolo di Platì, svegliati; unisciti a noi per costruire un futuro di pace per i nostri figli. Noi siamo contro ogni forma di violenza e vandalismo; uniamoci per abolire questi misfatti. Abbandonati da tutti, abbiamo sempre chinato la testa con triste rassegnazione. Adesso è ora di far sentire la nostra voce. Un grido di pace, di perdono, contro ogni male. Impegniamoci a riscattare il nostro paese per tutto quello che è successo nel passato e nel presente».

La manifestazione è proseguita con una fiaccolata per le vie di Platì, in cui hanno partecipato uno straordinario numero di giovani, sventolando uno striscione lungo 30 metri, con i colori dell’arcobaleno. La processione, frammista a preghiere, si è conclusa nel cortile della scuola, dove per la seconda volta sono stati letti i nomi degli scomparsi. Poi il vescovo ha invitato tutti a gridare: «Viva Platì! Coraggio Platì! Viva la pace!».
Erano presenti molti adulti, donne soprattutto, dal volto segnato dalla fatica. Illuminati dalle torce, i loro occhi esprimevano commozione, mista a rassegnazione, come se dicessero: «A Platì non cambia nulla!».

INSIEME SI PUÒ

A scuotere la Locride dal fatalismo è arrivato, 9 anni fa, il vescovo Giancarlo Bregantini, un trentino dalla tempra tenace e carismatica, visceralmente inculturato nei valori più nobili e forti dell’antichissima colonia della Magna Grecia.

«Appena entrato in diocesi – racconta padre Giancarlo, così si fa chiamare – ho capito che il dramma maggiore è la disoccupazione: un destino a cui i giovani sembravano condannati e che costituisce il pericolo maggiore per la Calabria; più ancora della mafia, perché è l’humus sul quale la mafia si alimenta».
Da qui è partita, nel 1995, l’idea di mettere in piedi un’impresa cornoperativa con alcuni coraggiosi. «Da piccolo facevo come tanti ragazzi trentini: portavo il latte al caseificio; la cooperazione per me è stata esperienza di vita» racconta il vescovo.

All’entusiasmo iniziale sono seguiti momenti di stanca. «Una cornoperativa non è solo un soggetto economico; è soprattutto un passaggio culturale, una crescita sociale che non si svolge naturalmente. Bisogna sedersi, studiare, capire, pensare, uscire, confrontarsi, guardare oltre l’Aspromonte» scrive padre Giancarlo nella lettera: «La terra e la gente, la speranza in cui credo». Il confronto è iniziato nel 1996: per una settimana alcuni giovani di Platì hanno visitato le cornoperative che fioriscono in Trentino; sono rimasti impressionati da quella di Sant’Orsola, in Val dei Mòcheni, da dove, fino a 20 anni fa, la gente migrava per sfuggire a una vita di stenti e povertà, come avviene ancora oggi in Calabria. Nella mente dei ragazzi una convinzione è penetrata come un chiodo: «Se qui era così, vuol dire che anche a Platì si può cambiare».
«Cambiare si può» è diventato lo slogan di Platì. «Ma per volare occorrono le ali» continua padre Giancarlo. Le hanno foite due tecnici della Sant’Orsola, che si sono recati nella Locride, ne hanno studiato clima e terreno, foendo vari suggerimenti: «Avete terra, acqua e sole: perché non producete i lamponi a natale? Sì, durante l’inverno. Noi penseremo a inserire i vostri prodotti nella nostra catena commerciale». Sembrava una presa in giro. Ma, dati alla mano, la cosa parve possibile: a Platì i lamponi non vengono ad agosto, ma a dicembre, quando il Trentino è sotto il gelo. «Adottammo un secondo slogan, rubato a don Gelmini, ma che calza a pennello al nostro cammino di solidarietà: Solo tu puoi farcela; ma non puoi farcela da solo» continua la lettera del vescovo, sottolineando i legami di collaborazione tra trentini e calabresi.

Iniziata con 2 mila metri quadri di terreno, dopo cinque anni la cornoperativa «Valle del Bonamico» ne contava 200 mila; ad essa fanno capo 15 aziende, che danno lavoro a oltre 200 persone, soprattutto donne in difficoltà, come vedove e mogli di detenuti, e producono mille quintali di lamponi. Questi vengono immessi nel circuito della cornoperativa trentina, per finire sulle tavole dei tedeschi. E a prezzi altissimi, senza alcuna concorrenza, perché Platì è l’unico posto in tutta l’Europa in cui tali frutti maturano d’inverno.

Intanto la cornoperativa cresce: altri contadini chiedono di entrarvi; migliaia di lamponi, piantati in agosto, daranno frutti già a dicembre; la produzione si diversifica, estendendosi all’ortocultura biologica. In alcune zone sono stati piantati i ciliegi e sotto le serre di Platì stanno maturando una ventina di varietà di fragole, per studiare il tipo e le caratteristiche giuste per una nuova produzione.

LAMPONI… ANTIMAFIA

Al di là del significato economico, afferma padre Giancarlo, con la cornoperativa «sparisce il perbenismo e inizia a sgretolarsi l’invidia che, come annotava il grande scrittore calabrese Corrado Alvaro, “è il peccato mortale dei poveri”; si sono affrontati e superati tantissimi ostacoli, come la chiusura culturale e la diffidenza nell’uscire. Non è stato facile inviare al nord ragazze e spose, per apprendere il modo giusto di raccogliere i frutti…

La malavita finora ha osservato da lontano, ma potrebbe sempre infiltrarsi sottilmente. Queste e le mille difficoltà che ogni cornoperativa deve affrontare, ma che nella Locride si fanno cento volte più gravi, rendono quei frutti cento volte più saporiti».

«Il vescovo ci ha presi per mano e ci ha condotti fin qui – afferma Pasquale, uno dei primi protagonisti della cornoperativa -. Ci ha aiutati, lui così concreto, anche a minimizzare certi fatti, come quelli del giugno 2001, quando sono arrivate le minacce e poi la distruzione di 2 mila piante di lamponi, subito sostituite con quelle di pomidori. Forse alcuni balordi ben organizzati volevano che assumessimo determinati operai invece di altri». La Bonamico è diventata una scuola di maturazione sociale, dove s’impara il senso di solidarietà, reciprocità, partecipazione e responsabilità: ognuno deve dare il proprio contributo per migliorare le cose e la società. Insieme ai lamponi matura una nuova cultura, arma pacifica per combattere la mafia.
«La forza dello Spirito – conclude la lettera del vescovo – spinge sempre oltre; spinge a cambiare, distruggendo le barriere di una schiavitù culturale che obbedisce al “destino”. Nel vedere quelle serre, distese al sole d’inverno, ai piedi della suggestiva Pietra Cappa, nel misterioso Aspromonte, sento vera l’intuizione del papa: è la speranza a cambiare il mondo!».

Benedetto Bellesi




INCHIESTA – Religioni strumento di pace

In un’epoca di profonda oscurità, di guerre e di ingiustizie globalmente diffuse e perpetrate dai potenti della terra a detrimento delle popolazioni, dei singoli e di chiunque rappresenti, in qualche modo, un «obiettivo sensibile» (perché ha la sfortuna di possedere importanti risorse naturali o di essere strategicamente interessante), la pace sembra una méta sempre più lontana e irraggiungibile.
Dittatori, imperatori vecchi e nuovi, terroristi, capi di stato neoliberisti, semplici fedeli, aggressori e aggrediti, ognuno si arroga il sacro diritto di parlare a nome del proprio Dio. Bush, con i vangeli in mano, massacra iracheni e afghani con i suoi aerei da guerra; Bin Laden addestra il suo esercito di terroristi salmodiando il corano; Sharon, in nome del Jahwé biblico, fa pulizia etnica tra i palestinesi…
Ma Dio che c’entra con tutto ciò? E i sacri testi?
Religioni e violenze, religioni e pace: da sempre le fedi religiose sono state strumentalizzate a fini politici, economici, militari.
Ma esse sono, nella loro essenza più assoluta, uno strumento di pace e di giustizia. Un mezzo di autoriforma e di miglioramento personale, sociale e politico. Un mezzo… e non un fine.
Come trasformare l’odio in compassione e tolleranza, il veleno in elisir? «Senza sottovalutare le reali distinzioni tra ciascuna tradizione, penso si possa comunque affermare che tutte le religioni hanno avuto origine da impulsi caratteristici dell’individuo – il desiderio di comprendere qual è il posto dell’essere umano nell’universo, affrontare i misteri della vita e della morte, il desiderio di sperimentare gioia e dare significato all’inevitabilità della sofferenza e della perdita. (…) Si creerà valore assoluto quando ognuna di queste (religioni) si cimenterà in una “corsa alla pace”, impegnandosi ad alleviare la sofferenza e a essere portatrice di gioia. Oltre a rafforzare la pace, loro imperativo spirituale, le religioni possono contribuire al benessere umano in altri modi – attraverso la cultura, la ricerca della verità e le tradizioni di studio ed educazione di cui sono portatrici. Sono profondamente convinto che la religione esista per servire l’umanità; l’umanità non esiste per servire la religione» (1).
Con questo numero inizieremo un viaggio alla scoperta della pace e della nonviolenza nelle più grandi religioni del mondo: buddismo, ebraismo, cristianesimo, islam.

I SEGUACI DI SIDDHARTAI

I concetti di nonviolenza e pace sono profondamente radicati nella storia
del buddismo. Fin dal suo nascere esso
si è posto l’obiettivo dell’autoriforma interiore, un cambiamento che però coinvolge
pienamente anche l’ambito sociale e politico.

In lingua pali, il termine pace si dice santi, in sanscrito, shanti. Con queste parole s’intende la «pace interiore» e la totale assenza di aggressività, di desiderio e della sofferenza che da esso viene generata: il nirvana. «Nel buddismo e in altre religioni dell’India l’accento principale è sugli aspetti individuali della pace, mentre si considera che le sue conseguenze in ambito sociale derivino solo dalla psicologia dell’individuo» (2). Odio, illusione e avidità sono alla base delle azioni malvagie, della violenza, delle guerre: gli unici rimedi che possano contrastare questi sentimenti distruttivi sono la benevolenza, la generosità e la saggezza.

Uno degli elementi fondanti la dottrina propagata da Shakyamuni è il principio delle «quattro nobili verità»: l’esistenza nel nostro mondo è segnata dalla sofferenza; la sofferenza è generata dai desideri; sradicando i desideri, l’essere umano può liberarsi dalla sofferenza e raggiungere una condizione di pace e illuminazione (nirvana); per arrivare a questo traguardo è necessario seguire una disciplina. Essa viene definita anche «ottuplice sentirnero», un insieme di regole morali che incoraggiano a seguire una «retta visione», un «retto pensiero», «rette parole», «rette azioni», un «retto modo di vivere», «retti sforzi», «retta concentrazione» e «retta meditazione». L’obiettivo di questa pratica è quello di «risvegliare l’individuo alla vera essenza della realtà e aiutarlo a liberarsi dall’ignoranza e dalla sofferenza».

Dunque, sviluppare pensieri, sentimenti positivi e benevolenti nei confronti di se stessi e dell’umanità – quella che si incontra tutti i giorni e quella lontana – rappresenta una delle pratiche della nonviolenza buddista.

«Nel primo di una serie di esercizi chiamati “stati mentali” (brahma vihara), la benevolenza è accompagnata dalla pratica della compassione (karuna, “simpatia” verso coloro che soffrono), dalla gioia (mudita, apprezzamento per la buona fortuna degli altri) e dall’equanimità (upekkha, mantenere l’imparzialità nei momenti di guadagno e di perdita).
L’approccio buddista verso la nonviolenza, quindi, si fonda su una sistematica “regolazione dell’atteggiamento”, dove gli stati d’animo negativi e reattivi come l’odio, la brama e l’illusione vengono trasformati in orientamenti sociali positivi attraverso l’autoesercizio della meditazione» (3). Importantissima è la virtù, o la pratica, della compassione: «Il Buddha indicò nella “Via di mezzo” il cammino da seguire: non una vita dedita al piacere, ma neanche alla privazione (Via di mezzo significa anche eliminare ogni forma di dualità, ndr). (…) L’egoismo impedisce una visione chiara della vita: esso va sconfitto con la saggezza, la pratica e facendo scaturire la “compassione”.
Nell’Upasakasila-sutra si legge: “Se tu vedi esseri umani in disarmonia cerca di creare armonia. Parla dei pregi altrui e mai dei difetti. Coltiva buoni propositi anche verso il tuo nemico. Attieniti alla compassione e considera tutte le creature come se fossero i tuoi genitori”» (4).

Fondamentale, nella dottrina buddista, è il concetto di karma («azione compiuta» (5), legge morale di causa-effetto), che è stata mutuata dal pensiero induista da cui il buddismo si sviluppò, e del samsara, il ciclo di reincarnazione che interessa esseri umani, animali, divinità e demoni. «Secondo questo principio (del karma, ndr) tutte le azioni morali compiute da una persona, sia buone sia cattive, producono nella sua vita determinati effetti che non si manifestano necessariamente nell’immediato ma possono richiedere un certo lasso di tempo. Secondo la visione indiana, gli esseri viventi passano attraverso un ciclo infinito di nascite e morti e gli effetti negativi di un’azione malvagia compiuta in una vita possono essere differiti a un’esistenza successiva, ma inevitabilmente si manifesteranno, prima o poi. Ne segue che solo sforzandosi di compiere azioni positive nell’esistenza presente si possono evitare sofferenze ancora maggiori nelle vite future» (6). Ricompensa e punizione sono dunque individuali, ogni persona riceve come mercede ciò che ha seminato. E questo dovrebbe rappresentare un deterrente nei confronti di comportamenti malvagi o scorretti e un incoraggiamento verso quelli eticamente e moralmente corretti.

Ma non ci sono solo il karma e il samsara a guidare verso la nonviolenza. Importante è anche il concetto di «origine dipendente», l’interdipendenza, cioè, di tutte le azioni e di tutti gli esseri viventi nel ciclo di nascita e morte, e la relazione causale tra ignoranza e sofferenza. La natura dei fenomeni, delle cose che permeano l’universo, si basa sui legami causali che li uniscono tra loro. Come a dire, nulla è per caso e a se stante. Questo significa che l’universo intero è permeato da una ricchezza, da un potenziale immenso, in continuo sviluppo e mutamento e pronto a manifestarsi. In questo sta l’intuizione illuminante del Buddha Shakyamuni (7). E la metafora della rete di Indra – una trama di giornielli dove le facce di ciascuno rispecchiano quelle di tutti gli altri – ben esprime il concetto dell’interdipendenza tra tutti gli esseri viventi.
Tutto ciò non rappresenta solo il tessuto di una concezione teorica «psico-cosmica» ma ha profonde conseguenze etico-morali sulle relazioni tra gli esseri umani e tra questi e l’ambiente. Implica rispetto, assoluto, di ogni espressione di vita, pena una pesante retribuzione karmica.

Ulteriori insegnamenti di pace e nonviolenza si svilupparono insieme alla corrente mahayana (si veda il box), dove un ruolo fondamentale viene rappresentato dalle figure dei bodhisattva (sattva, essere, bodhi, buddità). «Nel buddismo delle prime generazioni scopo fondamentale della pratica religiosa era raggiungere lo stato di arhat (“essere perfetto”), ovvero colui che “non ha più nulla da apprendere” ed è libero dal ciclo delle rinascite negli stati inferiori dell’esistenza. Ma anche per raggiungere questa condizione si riteneva che occorresse un impegno instancabile per molte esistenze. Il buddismo mahayana, invece, indirizzò immediatamente i suoi seguaci, uomini e donne, verso il supremo stadio di illuminazione, lo stato di buddità. In questo processo di crescita spirituale sarebbero stati di grande aiuto i cosiddetti bodhisattva, esseri dotati di immensa compassione che, oltre a coltivare la propria illuminazione, si sforzavano di aiutare gli altri a fare lo stesso. (…) Nei testi mahayana, come il Sutra del Loto, i bodhisattva sono rappresentati in numero illimitato, capaci di vedere e di aver cura di ognuno, sempre pronti a soccorrere senza esitazione coloro che si appellano a loro con fede sincera» (8).

Santi buddisti o saggi, i bodhisattva hanno in comune una determinazione che è anche una solenne promessa: aspettare di entrare nel nirvana (9) e rimanere nel samsara il tempo di salvare gli esseri umani dal male e portarli verso l’illuminazione.
«Questo è il mio pensiero costante. Come posso fare in modo che tutti gli esseri viventi possano conquistare l’accesso alla più alta Via e raggiungere rapidamente la buddità», questa è la preoccupazione fondamentale, di cui si fa cenno nel capitolo juryo del Sutra del Loto, del Buddha e di tutti coloro che a questo stato di illuminazione vogliono accedere. Questo Sutra (saddharma-pundarika-sutra, in sanscrito) è considerato da molti studiosi il testo sacro più importante della corrente mahayana. Esso contiene una raccolta di metafore e di racconti o eventi che fanno riferimento ad un mondo di dimensioni amplissime, che rispecchia, in un certo senso, la cosmologia indiana tradizionale. Si pensava infatti che tale mondo fosse formato da quattro continenti collocati attorno ad una montagna mastodontica, il monte Sumero. Oltre al nostro ce ne sarebbero molti altri, abitati da Buddha. Peculiarità di quello abitato dalle creature viventi «comuni» è l’esistenza di sei regni: inferno, avidità e desiderio incessante, animalità, violenza o dominio sugli altri (i cosiddetti cattivi sentirneri); umanità, divinità o estasi. A questi ultimi il buddismo mahayana aggiunge i «nobili mondi», rappresentanti l’esistenza illuminata: quello popolato dagli «ascoltatori della voce» o studiosi delle dottrine del buddismo; i «pratyekabuddha», coloro, cioè, «che raggiungono l’illuminazione da soli» e che hanno compreso la verità fondamentale della vita ma che non si preoccupano di insegnarla agli altri. Il nono mondo, o stato, è quello dei bodhisattva, caratterizzato dalla compassione verso tutti gli esseri viventi: l’individuo si dedica alla felicità altrui scegliendo di seguire la via della perfezione, e dunque l’ingresso nella buddità, attraverso lo sforzo di liberare le persone dalla sofferenza.

L’ultimo stadio è quello della buddità: saggezza, compassione, perfetto io eterno e totale purezza di vita ne sono le caratteristiche. Esso rappresenta una condizione ideale a cui tutti gli esseri, attraverso la pratica buddista, possono mirare di accedere, poiché fa parte del loro infinito potenziale. Ecco dunque la grande rivoluzione del buddismo mahayana contenuta nel Sutra del Loto (10): tutti possiedono intrinsecamente la natura di buddità e dunque possono raggiungere l’illuminazione; il Buddha non vive in un luogo particolare e non ha una natura soprannaturale; la vita, nella sua essenza più profonda, esiste incessantemente attraverso passato, presente e futuro; non esistono categorie di esseri viventi che non possono raggiungere la buddità, neanche le persone più malvagie. Bellissimo è, al riguardo, il capitolo «Devadatta»: qui si comprende che, come il cattivo Devadatta, reo di crimini terribili, o la giovane figlia del re dei naga, ovvero i draghi, anche le persone più cattive possono ambire alla salvezza, e che bene e male non sono due eterni opposti la cui sopravvivenza dell’uno escluda quella dell’altro, ma due facce della stessa medaglia – luce e tenebre -, continuamente in lotta fra di loro.

Attraverso le sue dottrine rivoluzionarie, il Sutra del Loto ci rivela che l’illuminazione travalica le distinzioni di sesso, specie, spazio, tempo e i limiti posti dalla mente umana, e con la sua promessa di liberare tutte le persone, soprattutto quelle collocate al fondo della scala sociale, anticipa, in un certo senso, l’odiea concezione dei diritti umani.

(prima parte, continua)

Angela Lano




AMERICA LATINA – Sarà il continente di Bush o Lula?

Crisi economica diffusa, povertà, violenza eppure le popolazioni latinoamericane
sono più vive che mai, pronte a raccogliere la speranza là dove sembra spuntare.
Ne abbiamo parlato con il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez,
con monsignor Jaime Henrique Chemello (già presidente della Conferenza episcopale
del Brasile) e con un giovane sacerdote.

IL TEOLOGO
GUSTAVO GUTIÉRREZ:
«Ma i giovani
statunitensi
mi dicono che…»

Lo scorso ottobre,
a Oviedo, il fondatore della «teologia
della liberazione»
ha ricevuto
il prestigioso
«Premio Principe
delle Asturie».
Padre Gutiérrez insegna anche
negli Stati Uniti, all’Università
di Notre Dame,
nello stato dell’Indiana.
Ci ha raccontato questa sua esperienza.

«Il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez è l’iniziatore della corrente spirituale innovatrice conosciuta come “teologia della liberazione”. La corrente propugna un’attenzione particolare al mondo degli esclusi, suggerendo che la “liberazione” sostenuta dal messaggio cristiano non è applicabile unicamente all’aspetto spirituale dell’essere umano, ma anche alle sue condizioni sociali e materiali. In quest’ottica, la proposta della teologia della liberazione non si limita a costruire una base teorica, ma al tempo stesso è una pratica che, specialmente nei paesi meno sviluppati, ha stimolato l’elevazione in dignità delle condizioni di vita di milioni di esseri umani».
Con questa motivazione la giuria del prestigioso «Premio Principe delle Asturie» ha assegnato a padre Gustavo Gutiérrez (1) il riconoscimento 2003 nella categoria della comunicazione e lettere umane. I premi, destinati ogni anno dal 1981 ad esponenti di 8 aree del sapere, sono considerati i Nobel dell’area ibero-latinoamericana.
Ad inizio anno, l’«Accademia delle Arti e delle Scienze» di Cambridge (Massachussets, Usa) aveva incluso il teologo peruviano tra i suoi membri onorari. Noi lo intervistammo per la prima volta alla fine del 1997, a Lima (2). Pochi mesi dopo, padre Gutiérrez sorprese tutti entrando, alla bella età di 70 anni, nell’Ordine dei domenicani.
Negli ultimi anni lei è vissuto più all’estero che in Perù, suo paese natale. Dove lavora ora, padre Gutiérrez?
«Dal 2001 sono negli Stati Uniti, dove insegno teologia. A Lima, però, continuo il mio lavoro pastorale in una parrocchia e le altre attività nel Centro Bartolomé de las Casas».

Padre, che cosa significa insegnare teologia negli Stati Uniti, cioè nel paese che ha riesumato il concetto di «guerra preventiva»?
«Gli Stati Uniti non sono un paese, ma un continente. È vero che gli americani sono favorevoli alla guerra, ma è altrettanto vero che molti altri sono contro, per esempio all’Università di Notre Dame, nell’Indiana, dove insegno».

Cos’è la guerra?
«È una minaccia. È un crimine. È la volontà di potere della più grande potenza del mondo. Non possiamo accettarlo né come uomini, né come cristiani. Dobbiamo lottare per la pace, ma una pace, come si dice nella bibbia, fondata sulla giustizia».

Che pensa del Perù di Alessandro Toledo?
«Se facciamo il paragone con il periodo della dittatura e della corruzione, adesso in Perù abbiamo un clima democratico, seppur con molte difficoltà economiche e politiche.
Non è facile la transizione da un regime corrotto come quello di Fujimori (che è ancora presente in molte istituzioni del Perù) e andare verso una democrazia; ma questo processo è in atto, seppure non in modo stabile e solido. Insomma, è già qualcosa».

Con tutto il rispetto per il Perù, tutti guardano al nuovo Brasile di Lula, sul quale pesano aspettative enormi. Ma la sfida dell’ex operaio e sindacalista è tremendamente difficile…
«In questo momento, Lula è una grande speranza non solo per il Brasile, ma per tutta l’America Latina. Certamente la sua non sarà un’impresa facile.
Noi abbiamo avuto in America Latina altri momenti di svolta: il Cile, il Nicaragua, la Bolivia. Ma oggi la sfida è più importante, perché il Brasile è un grande paese ed ha una dirigenza politica preparata. Agli amici brasiliani dobbiamo suggerire di essere non tanto prudenti (che non è la parola esatta), quanto maturi politicamente per andare bene. Credo che il programma di Lula sia molto buono, molto chiaro. Sono convinto che tutto questo sia veramente importante».
Sembra che nel mondo si stia creando una netta divisione tra paesi cristiani e paesi islamici. Secondo lei, questa è una scusa, oppure c’è una vera contrapposizione religiosa?
«In larga misura è un pretesto. A dire il vero, si potrebbe dire che la contrapposizione è tra paesi ricchi e potenti e paesi islamici poveri. La divisione religiosa non è la più importante, ma è facile per certe persone dei paesi ricchi parlare di una contrapposizione religiosa. Così rimangono oscure le vere ragioni del contrasto.
Questa tesi della contrapposizione tra civiltà occidentali e orientali non è poi così rilevante e forse interessa soltanto gli intellettuali. Credo che ci siano altri aspetti più importanti della civilizzazione. Dobbiamo fare altre analisi. Personalmente, sono contro i paesi ricchi per molti aspetti, ma non perché la mia civiltà sia differente dalla loro».

Toiamo al suo lavoro di professore negli Stati Uniti. Che cosa racconta ai suoi studenti dell’Università di Notre Dame?
«Parlo di spiritualità. Spiego la teologia della liberazione e l’opzione preferenziale per i poveri, trovando dei giovani molto aperti».

Quanti anni hanno i giovani a cui lei insegna?
«Attoo ai 25 anni, qualcuno un po’ meno, altri un po’ di più, ma tutti sono molto aperti».

Ma che cosa pensano del loro presidente George W. Bush, che considera la guerra uno strumento per risolvere i problemi inteazionali e per far prevalere gli interessi statunitensi?
«I miei studenti (ovviamente non posso parlare di tutti gli studenti) sono contro la guerra, assolutamente contro. Allo stesso tempo, il loro contesto è totalmente differente da quello dei latinoamericani, dei peruviani per esempio. È un altro mondo, ma trovo questa gente seria e molto aperta per lavorare».

Come sta la «teologia della liberazione» nel 2003, cioè 32 anni dopo la sua nascita?
«Sta bene. Lavoriamo molto. In questi ultimi anni ci stiamo dedicando anche ad altri aspetti e all’approfondimento di un’intuizione originale che, nei primi scritti, abbiamo chiamato “la complessità della libertà”. Significa prestare attenzione non soltanto agli aspetti economici delle realtà, ma anche a quelli culturali, razziali, di genere.
Un altro aspetto è la critica al pensiero unico neoliberista e il nostro punto di partenza è “l’opzione preferenziale per i poveri”, che ancora oggi costituisce il punto centrale della teologia della liberazione».

JAIME HENRIQUE CHEMELLO:
«La fame
e l’Amazzonia sono la priorità»

Fino allo scorso maggio, era presidente
della «Conferenza episcopale
del Brasile» (Cnbb), oggi è presidente della commissione che si occupa dell’Amazzonia. Vescovo molto noto, monsignor Chemello è comprensivo
con tutti,
ma non con la guerra
né con la politica degli Stati Uniti.

Nato nel municipio di São Marcos (Rio Grande do Sul) nel 1932, Jaime Henrique Chemello è vescovo dal 1969. Fino allo scorso maggio presidente della «Conferenza episcopale del Brasile» (Cnbb) (1), oggi monsignor Chemello è a capo della «Commissione episcopale per l’Amazzonia».
Come uomo e come vescovo, che pensa della guerra?
«Penso che la guerra sia proprio una cosa cattiva, deplorevole, tristissima. Il Santo padre ha già detto queste cose e ha pregato molto per la pace non solo in Iraq, ma anche in Palestina».

Il presidente Bush ha reintrodotto i concetti di guerra «preventiva» e di guerra «giusta» contro quelli che lui giudica essere nemici dell’umanità. È concepibile?/
«Non credo che possa esistere il concetto di guerra “giusta”.
La guerra non porta mai niente di buono. Perché essa è distruzione, soprattutto di vite umane».
Lei è un vescovo molto noto. Come vede il nuovo Brasile di Lula?
«Io lo vedo come tutto il popolo: con speranza, ma non sono sicuro che andrà sempre bene. Bisogna lavorare molto, collaborare, perché Lula da solo non può fare niente. Il popolo deve dare il suo appoggio, lottare perché l’idea è buona».
Lula potrebbe lavorare anche se avesse una parte della comunità internazionale, quella che detiene il capitale finanziario, contraria alle sue decisioni?
«Sarebbe molto difficile, ma Lula sta facendo di tutto per adattarsi alla situazione internazionale. Va in giro per il mondo per spiegare la sua posizione rispetto alla realtà. Molta gente lo ascolta perché ha una personalità molto forte».
È indubbio che il Brasile abbia moltissimi problemi. Volendone fare un elenco, lei che cosa metterebbe ai primi posti?
«La fame e poi anche il non poter lavorare, guadagnarsi la vita con dignità. Anche la violenza è una cosa tristissima. Il Brasile necessita quasi di tutto.
Anche per la Conferenza episcopale (2) la lotta per superare il problema della fame è prioritario. E poi c’è l’Amazzonia, che è una questione molto grande per noi e i suoi abitanti».
Che ci dice del «Movimento dei sem terra»?
«È un’organizzazione che ho già aiutato molto. È un movimento difficile perché affronta una lotta difficile. I contadini senza terra hanno lottato e sofferto molto e per questo bisogna capirli».
I rapporti della chiesa cattolica con le altre religioni del Brasile.
«Grazie a Dio abbiamo fatto molta strada, perché l’ecumenismo e il dialogo interreligioso per noi è molto importante».
Ma con chi esattamente avete dialogato?
«Dialoghiamo soprattutto con chi aderisce al “Consiglio nazionale delle chiese cristiane del Brasile” (Conic) (3), che raccoglie le chiese tradizionali. Con questo organismo facciamo anche iniziative sociali in comune».
In Brasile c’è un numero esagerato di sétte evangeliche. Rappresentano un problema? E, se sì, come lo si affronta?
«Già il termine sétte non ci piace. Non è che sia sbagliato, ma sottintende qualcosa di cattivo. Noi li chiamiamo “movimenti religiosi autonomi”. Comunque, il problema esiste e qualche volta è difficile. Ma, nonostante le difficoltà, bisogna lottare sempre».
Monsignore, cosa pensa dell’influenza che gli Stati Uniti hanno sull’America Latina in generale?
«Credo che adesso gli Stati Uniti stiano facendo una politica molto complessa, ma dalle reazioni dei popoli di tutto il mondo (non solo dell’America Latina) pare che questa loro politica non sia affatto giusta. Sono sempre di più i paesi contro gli Usa. Lo vedo di persona: in tutti i posti dove mi reco, c’è sempre una riserva contro la politica praticata da Washington».

Paolo Moiola




ETIOPIA – Ragnatela d’amore e vita

Asili, scuole, acquedotto, dispensario medico, campagne di vaccinazioni, soccorsi di emergenza… sono alcuni fili della «rete» di progetti di promozione umana della parrocchia di Wonji, insieme a un’intensa attività di evangelizzazione.

I contadini delle montagne circostanti la chiamano col termine di «verde». E tale appare Wonji, vista da lontano: una grande conca verde cupo, che si estende a perdita d’occhio. Il colore le deriva dalle estese piantagioni di canna da zucchero, irrigate con le acque del fiume Awash.
Ma il centro abitato non è un paradiso: le abitazioni sono quasi tutte di fango; le strade sporche e sconquassate, con uomini e bestie in libertà; auto scassate e biciclette sono l’unico segno di progresso.
Gli oltre 18 mila abitanti della città vivono (si fa per dire) grazie all’industria dello zucchero: la maggioranza di essi si spaccano mani e schiena nelle piantagioni per 30 dollari al mese; gli operai dei due zuccherifici non sono più fortunati.
Fuori dal «verde», poi, l’impressione è più penosa, specialmente in questi mesi: l’anno scorso sono mancate le piogge stagionali e in molte zone è fame nera.
ACQUA «CATTOLICA»
Mentre guardo il panorama, in piedi sulla grande cisterna costruita in cima a una collina a ovest del paese, padre Giuseppe Giovanetti mi spiega il paradosso: il fiume Awash è generoso, ma inquinato; la falda acquifera è a soli 10 metri sotto terra, ma l’acqua dei pozzi contiene un’alta percentuale di fluoro che rovina denti e ossa. Ancora oggi si incontrano ragazzi con i denti neri e anziani ringobbiti.
Lo spettacolo doveva essere più impressionante nel 1980, quando padre Tarcisio Rossi fu nominato parroco del luogo: il progetto dell’acqua potabile fu una priorità. Scavò un pozzo non lontano dal fiume Awash, costruì un serbatornio da 50 mila litri e cominciò la distribuzione dell’acqua in varie zone dell’abitato.
«Quando arrivai per la prima volta a Wonji, nel 1992-93 – continua padre Giovanetti -, la popolazione era aumentata enormemente: scavai un altro pozzo e raddoppiai questo serbatornio. Ora che sono tornato, continuo a occuparmi del progetto».
Notte e giorno, due pompe spingono l’acqua nei due serbatorni da 100 mila litri; una rete di oltre 12 km di tubi la porta in 18 punti di distribuzione pubblica e ad altre strutture private (scuole, bar, banca, moschea, chiese ortodosse e protestanti).
Mentre visitiamo alcune fontane, dove si allineano serpentoni di bidoni gialli, padre Giovanetti spiega: «Ogni famiglia preleva una tanica al giorno, per un totale di 1.000 litri al mese, pagando due birr (20 centesimi di euro); le strutture private hanno il contatore e pagano secondo il consumo. Ma tale compenso non basta a pagare il personale addetto alla manutenzione e gestione del progetto».
Intanto aumenta la richiesta d’acqua. Per accontentare tutti, la distribuzione è razionata: le famiglie attingono solo al mattino; durante la notte le condutture vengono chiuse, per evitare che eventuali sprechi o abusi dei privati provochino l’entrata di aria nelle tubature, creando disguidi per tutta la popolazione.
I problemi arrivano, soprattutto, quando una pompa si brucia, a causa degli sbalzi di corrente: prima che arrivi il tecnico da Addis Abeba e ripari i guasti, parte della città rimane a secco per oltre dieci giorni.
Per diminuire tali rischi, padre Giovanetti sta pensando di costruire un altro serbatornio di 50 mila litri e ha fatto appello per una pompa più potente. La Caritas italiana ha accolto la richiesta.
Sembra che anche il governo si stia muovendo. Alcuni tecnici hanno visitato il progetto, sono rimasti contenti e vorrebbero portare acqua potabile da Nazaret e immetterla nel progetto della missione. «Ho accettato subito. Almeno la gente, che da oltre 20 anni beve acqua “cattolica”, non darà la colpa alla chiesa, quando i rubinetti rimarranno asciutti» conclude il padre sorridendo.

FAFA «MORMONE»
Fin dagli inizi, la chiesa di Wonji è impegnata pure nel campo sanitario. Il dispensario, oltre a curare la gente che accorre alla missione, svolge varie attività nelle zone rurali e di montagna: sensibilizzazione igienica e sanitaria, campagne di vaccinazioni, formazione di levatrici tradizionali e agenti di sviluppo comunitario.
«La chiesa cattolica promuove la coscientizzazione sui problemi basilari della gente» spiega padre Giovanetti, mentre mi porta nel suo quartiere generale, dove una dozzina di giovani sono impiegati nei vari progetti sociali e umanitari della missione. Sono tutti indaffarati nei preparativi per il giorno seguente: trasferta ad Amude, 62 km da Wonji, per distribuire 180 quintali di cibo a oltre 4 mila persone.
«È ancora la chiesa cattolica a portare alla ribalta i problemi della gente e a prestare i primi soccorsi» continua il padre. Alla fine dell’anno, durante le varie visite per le attività sanitarie, abbiamo scoperto che i contadini avevano finito le loro scorte di cibo: era la fame, causata dal fallimento delle grandi piogge autunnali. Abbiamo subito avvisato il Dppc (Disaster prevention and preparedness commission), l’organismo governativo incaricato di prevenire i disastri naturali. Ho dovuto smuovere capi politici della sanità, educazione, agricoltura, portandoli sul posto; ho pure suggerito una possibilità di soluzione».
La soluzione si chiama Crs (Catholic relief service), l’organizzazione dell’episcopato americano, con programmi di aiuti in vari paesi africani. «Dapprima il governo disse che avrebbe preso in mano la situazione – continua padre Giovanetti -. Ma in un incontro tra autorità federali e Ong, parlando a nome del Crs, dissi chiaro e tondo che i donatori volevano che fosse la chiesa a gestire il progetto: e ce lo ha permesso; cosa che prima non accadeva».
Il principale donatore si chiama Gary Flake, incaricato delle attività caritative della Chiesa di Gesù Cristo dei santi dell’ultimo giorno (mormoni). Si era rivolto al Crs offrendo aiuto contro la fame. «La signora Anne Bousquet, rappresentante del Crs lo mandò da me – racconta il padre -. Ci incontrammo in un hotel di Nazaret e mi fece grande impressione. A un certo punto, rivolgendosi a due signore che lo accompagnavano disse: “Io sono un mormone, ma mi metto nelle mani di un prete cattolico; sono felice di essere qui, per fare del bene insieme al mio fratello padre Giuseppe Giovanetti”. Poi, rivolto a me, disse che era disposto a pagare fino a 35 mila tonnellate di cibo».
Era un’impresa grande e complessa. Fu fatto un accordo con mister Flake, il Crs e la chiesa di Wonji: il primo paga le fatture all’Unimix, una fabbrica locale di fafa (miscela di farine, vitamine, proteine, zuccheri…); il Crs provvede ai contratti con la fabbrica, al trasporto e alle spese per il personale; alla chiesa la responsabilità di organizzare la distribuzione.

LA RAGNATELA…
Come supervisore, padre Giovanetti ha impiegato un mese per organizzare tale impresa: ha preparato gli impiegati (3 supervisori, 7 animatori, 12 distributori); ha visitato le autorità locali (sindaci di città e capi di Associazioni dei contadini) per stendere il piano e risolvere i problemi logistici.
«L’avventura è cominciata a febbraio – spiega il padre, mentre andiamo al centro di distribuzione di Amude -. L’abbiamo chiamata Web of love, help and life: ragnatela di amore, aiuto e vita, perché coinvolge donatori e beneficiari. La rete è composta da 8 centri (5 nel distretto di Adama e 3 in quello di Dodota Sire, in cui è Amude), coinvolge 42 Associazioni di contadini con oltre 40 mila persone e distribuisce ogni mese 1.400 quintali di fafa. Il nostro è un progetto integrativo: mentre il governo dovrebbe aiutare le famiglie affamate con la distribuzione di granaglie, noi aiutiamo donne gestanti, allattanti e bambini sotto i 5 anni».
Ad Amude arriviamo quando il sole è allo zenit; troviamo una marea di donne in attesa di essere servite. Alcune siedono pazientemente al sole o sotto un albero; altre sono attorno agli impiegati, che controllano schede, confrontano liste di nominativi, fanno apporre la firma (impronte digitali) sulle tessere; intanto si formano file variopinte ai punti di distribuzione.
È la scena che si svolge ogni mese negli 8 centri di distribuzione. Per padre Giovanetti e i suoi aiutanti tale è un lavoro snervante, ma gratificante. Più noiose, invece, sono le giornate passate in ufficio a stilare resoconti dettagliati del lavoro fatto da inviare al Crs e alle autorità governative; preparare il piano, altrettanto dettagliato, con date, luoghi e quantità di cibo necessario per il mese seguente.
Tale avventura continuerà fino a ottobre, quando si spera che la gente possa avere i primi raccolti. «Ma la ragnatela non scomparirà – continua il padre -. Ho preso accordi con varie capi locali per pesare tutti i bambini e controllare se abbiano superato la crisi o siano ancora denutriti e bisognosi di ulteriore aiuto».

FAME DI SAPERE
Dei sette progetti sociali gestiti dalla missione, quattro riguardano l’educazione: un asilo vicino alla chiesa parrocchiale e un altro ad Awash Melkasa, nella parte opposta delle piantagioni di canna; una scuola elementare e media con oltre 700 alunni a Wonji e un’altra a Bati Bora, a 12 km dalla sede parrocchiale.
Di tali opere si occupa padre Matthieu Kasinzi, missionario della Consolata congolese, eccetto Bati Bora, gestita da padre Giovanetti.
Mentre ci rechiamo a visitarla, traballando su una sassosa mulattiera, il padre racconta: «Piccola e malandata, la scuola stava per chiudere, poiché le famiglie non potevano pagare le tasse scolastiche, a causa della fame. Ho fatto un patto con i genitori: li avrei esonerati dalle tasse per un anno, purché mandassero i figli a scuola. Non l’avessi mai detto! Da 113, gli alunni sono saltati a 715. Ma con l’aiuto di alcuni amici italiani sono riuscito a mandare avanti la baracca e ingrandire gli edifici».
Siamo in vista della scuola; ma un’enorme erosione ci costringe a fare l’ultimo chilometro a piedi, attraversando un profondo burrone. Le aule sono piene come un uovo: le classi oscillano tra i 95 e i 110 alunni; alcune seguono il ciclo regolare di quattro anni; in altre i programmi vengono condensati in due anni: lo chiamano «sistema informale» ed è riconosciuto dal governo.
Ciò che colpisce nelle aule «informali» è la scala delle teste: nelle prime file esse sporgono dai banchi a malapena; nelle ultime si ergono ragazzotti e signorine in età da matrimonio.
Un particolare fa gongolare di gioia padre Giovanetti: in alcune classi le ragazze sono più numerose dei maschi. «È un fatto nuovo in Etiopia – osserva il padre -. La gente ha capito l’importanza della scuola per il futuro dei loro figli, in modo particolare per le donne, anch’esse affamate di sapere».

FAME DI DIO
Wonji non è solo progetti sociali, ma svolge una capillare opera di evangelizzazione e formazione di comunità cristiane. Il parroco, Ghebre Egziabher Gebru, missionario della Consolata etiopico, cornordina il lavoro religioso e pastorale, visita le famiglie, malati e anziani. È coadiuvato da padre Matthieu, responsabile dei giovani. La domenica, padre Giovanetti dà una mano a tutti e due, celebrando la messa nelle comunità rurali.
Wonji è la parrocchia più grande del vicariato di Meki: conta 18 comunità; alcune sono disseminate nella piantagione; altre sparse in campagne e colline; quella di Alentena è la più sviluppata e richiede tanta attenzione come la sede centrale.
Tutte le comunità sono caratterizzate da un comune denominatore: la fame di Dio. Per questo ha avuto un grande sviluppo: dalle poche centinaia di 20 anni fa, i cattolici sono passati a 5.700, un quarto della popolazione cattolica di tutto il vicariato.
L’attività di evangelizzazione, corroborata dalla testimonianza della carità dei progetti sociali e umanitari, continua a rispondere alla più profonda fame e sete della popolazione di Wonji: anche qui «i poveri hanno fame di Dio; non solo di pane e libertà» (RM 83).

Benedetto Bellesi




ETIOPIA – Ciclica o endemica? A proposito di fame in Etiopia

Domenica 11 maggio 2003 a Cachachulo. Dopo la messa, i capi delle Associazioni contadine ripetono davanti a padre Paolo Marré una litania di problemi: «Nessuno ci aiuta. Dopo varie relazioni alle autorità, abbiamo solo promesse. Le organizzazioni umanitarie non vengono qui perché non ci sono strade. Intanto moriamo di fame e sete. Le donne fanno fino a 8 ore di cammino per attingere l’acqua. Buona parte del bestiame è morto. Venite a vedere».
Non ne abbiamo bisogno: abbiamo già incontrato carcasse di capre per la strada; il padre ha visitato le famiglie un mese fa. Finalmente può comunicare la bella notizia: mercoledì inizierà la distribuzione di cibo alle famiglie bisognose.
Cachachulo, a 95 km da Shashemane, ai confini sud-orientali dell’Oromia, con oltre 100 persone, è un’icona della disperazione di un intero paese con oltre 63 milioni di abitanti, di cui nove decimi vivono in aree rurali, le più colpite dalla carestia.

DISASTRO ANNUNCIATO
L’allarme fu lanciato dal Programma alimentare mondiale (Pam) fin dal giugno 2002: 6 milioni di persone in Etiopia rischiano di morire di fame. Il 18 novembre, a Londra, il primo ministro etiopico, Meles Zenawi, chiese più aiuti alla comunità internazionale, per la sopravvivenza di 12 milioni di etiopi; oggi si parla di 15 milioni e potrebbero arrivare a 20. «In un solo paese – afferma Georgia Shaver, segretario del Pam in Etiopia – il numero di bisognosi di cibo potrebbe essere pari a quello di tutto il resto dell’Africa».
Ad aggioare le cifre, oltre al Pam, l’agenzia di soccorsi umanitari dell’Onu, è pure la Commissione per prevenire e prepararsi ai disastri (Dppc), organo del governo etiopico per monitorare l’andamento della sicurezza alimentare nel paese e sollecitare gli aiuti inteazionali.
I paesi donatori (Usa in testa) hanno inviato tonnellate di granaglie; la Dppc ha riunito le Associazioni dei contadini, steso le liste delle famiglie bisognose e cominciato a distribuire mezzo quintale di grano a ogni gruppo di 5 persone: tale aiuto, però, si riduce a una manciata di grano tostato al giorno, con cui un’intera famiglia deve sopravvivere per un mese.
Per quanto misero, tale soccorso non arriva regolarmente a tutti, sia perché molte zone del paese sono lontane dai punti di distribuzione, sia perché gli aiuti inteazionali sono insufficienti: la tragedia è più grave del previsto e, dopo i primi mesi, l’attenzione mondiale è stata rivolta al disastro umanitario e alla ricostruzione dell’Iraq. Di fronte al disastro annunciato, i mezzi di comunicazione mondiale non hanno speso una parola, troppo assorbiti dalle vicende del Golfo.

«INCUBO RICORRENTE»
L’espressione è del presidente etiopico. La crisi è peggiore di quelle del 1983-84 e del 1993-94, in cui 10 milioni di persone furono colpite dalla carestia, causando un milione di vittime. Questa volta, il numero potrebbe essere triplicato, senza contare le conseguenze che la denutrizione lascerà nei superstiti.
Sembrerebbe che tale incubo ritorni ciclicamente ogni dieci anni. Le statistiche foite dal Dppc testimoniano che in Etiopia fame e denutrizione sono endemiche.
Dal 1984 tutti gli anni si susseguono carestie di varia intensità, con la differenza che, negli anni «normali», la distribuzione di cibo procede bene; quando la crisi è troppo estesa, la mancanza di strutture e risorse adeguate impedisce interventi rapidi e capillari. Di solito si dà la colpa ai fenomeni climatici. Nel caso attuale la crisi è attribuita al fatto che da un paio d’anni piove poco e nel 2002, soprattutto, le precipitazioni sono state pressoché nulle, sia durante le piccole (febbraio-maggio) che le grandi piogge (agosto-novembre).
In teoria, l’Etiopia non manca d’acqua: numerosi fiumi, tra cui il Nilo blu, nascono sugli altipiani, attraversano il paese ed esportano acqua in Sudan e Kenya; nella Rift Valley, una delle zone più colpite dalla carestia, ci sono una dozzina di laghi, alcuni grandi come il Garda. In alcune zone piove più che in Nord Italia: mentre in certe aree c’è la siccità, in altre i raccolti sono più che abbondanti.

DISASTRO POLITICO
Qual è, allora, la vera causa della fame in Etiopia? Il professor Mesfin Wolde Mariam, fondatore del locale Movimento per i diritti umani, studioso e autore di vari libri sul problema, afferma che la fame in Etiopia è di «origine socio-politica» e spiega: «L’85% della popolazione etiopica vive di agricoltura di sussistenza ed è vulnerabile alla fame, perché oppressa e sfruttata da regimi dispotici e sfavorita dalle condizioni di mercato. Il regime marxista ha nazionalizzato la terra e i contadini non hanno più diritto di proprietà né sicurezza di tenuta: essi possono coltivare piccoli appezzamenti di terreno finché esprimono lealtà al regime. L’obbligo di partecipare agli incontri di indottrinamento sottrae tempo prezioso al lavoro dei campi; la chiamata alle armi lascia il lavoro agricolo a donne, vecchi e bambini. Ogni anno, poi, al tempo del raccolto, piombano sui contadini esattori di tasse, contributi, debiti, forzandoli a pagare o andare in prigione. Gli agricoltori vendono i loro prodotti quasi allo stesso tempo, provocando il crollo dei prezzi. Più devono pagare più prodotti sono costretti a vendere: così 5-6 milioni di persone rimangono senza cibo e non hanno soldi per comperarlo, neppure negli anni di abbondanza.
Malnutrizione e fame si trascinano di anno in anno. Se poi falliscono le piogge stagionali, la fame diventa un killer di massa».
Per superare la povertà ereditata dal passato, il governo ricorre a iniziative come quelle del «cibo o denaro in cambio di lavoro», ma esse non bastano per mantenere la promessa di dare a tutti «tre pasti al giorno». Sono state introdotte misure positive: economia mista, liberalizzazione del mercato, decentramento amministrativo, investimenti nell’agricoltura, ma i risultati non si vedono.
Le spese militari assorbono almeno il 5% del prodotto interno lordo (Pil); il regime continua a essere oppressivo e l’amministrazione burocratica e corrotta; la proprietà è ancora negata; l’assegnazione della terra dipende dai venti politici; i sistemi di produzione e allevamento sono arretratissimi; le strutture di stoccaggio, mercato e ridistribuzione dei prodotti quasi inesistenti; la ricerca scientifica e difesa del suolo dalle erosioni totalmente assente…
E mentre milioni di persone rischiano di morire di fame, il problema più discusso dal governo sono i quattro sassi di Badme, per cui il paese si è dissanguato di uomini e denaro nella guerra contro l’Eritrea.

SINDROME DA DIPENDENZA
«Finché piove negli Stati Uniti e in Canada, non importa se le piogge sono totalmente assenti in Etiopia» recita una trita e ritrita facezia. A parte il sarcasmo, essa fotografa la crescente sindrome da dipendenza del paese.
Tale dipendenza fa comodo al regime. Le donazioni inteazionali sono la principale industria dell’Etiopia: quest’anno dovrebbero sfiorare il miliardo di dollari (un sesto del Pil). E poiché tali aiuti sono gestiti dalla Dppc, parte di essi resta impigliata tra le maglie dell’intricato labirinto burocratico, a livello nazionale e locale.
Inoltre, la fame può essere usata come strumento di potere per muovere le pedine della politica e degli equilibri etnici. Nonostante i proclami di sostegno all’agricoltura, afferma il prof. Mesfin, «la politica inespressa del regime consiste nel tenere i contadini politicamente senza potere, economicamente impoveriti e socialmente arretrati: così, nelle cosiddette elezioni, alcuni membri del partito ottengono fino al 100% dei voti e il regime mantiene una legittimazione di facciata per governare il paese».
La sindrome da dipendenza fa comodo anche alla comunità internazionale, che chiude un occhio sulle cause delle carestie, tutt’altro che inevitabili.
Controllata con pugno di ferro dall’esercito, l’Etiopia è diventato un paese strategico del Coo d’Africa nella lotta internazionale al terrorismo. Gli americani elogiano il ruolo di Addis Abeba in tale lotta e meditano di collocare basi militari Usa nel paese, lungo il confine con la Somalia. Lo ha rivelato il segretario alla difesa Usa, Donald Rumsfeld, a metà dicembre 2002, durante la visita al Coo d’Africa, dove ha incontrato il presidente Meles Zenawi.

SOLUZIONE POLITICA
«Le potenzialità agricole dell’Etiopia (terra, risorse idriche, diversità climatiche) possono diventare talmente produttive – continua il professor Mesfin – da permettere al paese di esportare una grande quantità di prodotti. Non ho alcun dubbio al riguardo. Ma fino a quando i contadini rimangono impotenti e in servitù, e fino a quando continua la cattiva amministrazione di tali risorse, la carestia sarà sempre un problema per il quale la comunità internazionale sarà chiamata a provvedere soccorsi di emergenza».
«In ultima analisi, la fame è una creazione politica e dobbiamo usare mezzi politici per porvi rimedio» afferma James Morris, direttore esecutivo del Pam. L’alternativa è il caos.
La fame provocò scioperi, manifestazioni studentesche e proteste generali, portando alla caduta dell’imperatore Hailé Salassié (1974). La carestia del 1983-84 diede origine ai partiti di opposizione e alla guerra civile, culminata con la fuga di Menghistu. Anche oggi le proteste di studenti e contadini vengono represse nel sangue. Se il regime non cambia atteggiamento, l’Etiopia potrebbe diventare teatro di una tragedia simile a quella dei Grandi Laghi.

Benedetto Bellesi




Piu’ contemplativi, più santi, più missionari

<b<GIORNATA MISSIONARIA MONDIALE

Alla riscoperta della preghiera del rosario, come strumento di ascolto, apertura agli altri, invocazione sul mondo.

Una premessa: a partire da quest’anno il messaggio del papa per la Giornata missionaria mondiale non è più pubblicato nella solennità di Pentecoste, ma viene reso noto nella festa del battesimo del Signore, per permettere a diocesi e parrocchie di inserirlo nei loro progetti pastorali. «Con tale iniziativa si vuole evitare – scrive il cardinale Sepe – che la missione ad gentes venga vissuta in termini di eccezionalità o straordinarietà. Non si può permettere, pena il tradimento del vangelo di Gesù Cristo, che la dimensione missionaria sia percepita come una sorta di cenerentola…. La missione è, infatti, parte nodale dell’itinerario di ogni comunità cristiana».
Quest’anno, la Giornata missionaria mondiale cade il 19 ottobre, in coincidenza con la celebrazione del XXV anniversario del pontificato di Giovanni Paolo II, con la beatificazione di madre Teresa di Calcutta e la chiusura dell’Anno del rosario. In tale prospettiva il papa ha voluto indicare la «preghiera del rosario» come tema di riflessione, per una chiesa più contemplativa, più santa, più missionaria.

1.Sin dall’inizio, ho voluto porre il mio pontificato sotto il segno della speciale protezione di Maria. Più volte, poi, ho invitato l’intera comunità dei credenti a rivivere l’esperienza del cenacolo, dove i discepoli «erano assidui e concordi nella preghiera… con Maria, la madre di Gesù» (At 1,14). Già nella prima enciclica Redemptor hominis scrivevo che solo in un clima di fervente orazione è possibile «ricevere lo Spirito Santo, che scende su di noi e divenire in questo modo testimoni di Cristo fino agli estremi confini della terra, come coloro che uscirono dal Cenacolo di Gerusalemme nel giorno di Pentecoste» (22).
La chiesa prende sempre più coscienza di essere «madre» come Maria. Essa è «la culla – notavo nella bolla Incaationis mysterium, in occasione del Grande Giubileo dell’anno 2000 – in cui Maria depone Gesù e lo affida all’adorazione e alla contemplazione di tutti i popoli» (11). Su questo cammino spirituale e missionario intende proseguire, sempre accompagnata dalla Vergine Santissima, stella della nuova evangelizzazione, aurora luminosa e guida sicura del nostro cammino (cfr. Novo millennio ineunte 58).

Maria e la missione
della chiesa
nell’anno del rosario

2.Nell’ottobre scorso, entrando nel 25° anno del mio ministero petrino, quasi a ideale prolungamento dell’anno giubilare, ho indetto uno speciale anno dedicato alla riscoperta della preghiera del rosario, tanto cara alla tradizione cristiana; un anno da vivere sotto lo sguardo di colei che, secondo l’arcano disegno divino, con il suo «sì» ha reso possibile la salvezza dell’umanità, e dal cielo continua a proteggere quanti a lei fanno ricorso specialmente nei momenti difficili dell’esistenza.
È mio desiderio che l’Anno del rosario costituisca per i credenti di ogni continente un’occasione propizia per approfondire il senso della vocazione cristiana. Alla scuola della Vergine e seguendo il suo esempio, ogni comunità potrà meglio far emergere la propria dimensione «contemplativa» e «missionaria».
La Giornata missionaria mondiale, che cade proprio alla fine di questo particolare anno mariano, se ben preparata, potrà imprimere un più generoso impulso a quest’impegno della comunità ecclesiale. Il ricorso fidente a Maria con la quotidiana recita del rosario e la meditazione dei misteri della vita di Cristo sottolineeranno che la missione della chiesa deve essere anzitutto sorretta dalla preghiera.
L’atteggiamento di «ascolto», che suggerisce la preghiera del rosario, avvicina i fedeli a Maria, che «serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). La ricorrente meditazione della Parola di Dio diventa un allenamento per vivere «in comunione viva con Gesù attraverso – potremmo dire – il cuore della madre» (Rosarium Virginis Mariae 2).

Chiesa più contemplativa:
il volto di Cristo
contemplato

3.Cum Maria contemplemur Christi vultum! Mi tornano spesso alla mente queste parole: contemplare il «volto» di Cristo con Maria. Quando parliamo del «volto» di Cristo ci riferiamo alle sue sembianze umane, nelle quali rifulge la gloria eterna del Figlio unigenito del Padre (cfr. Gv 1,14): «La gloria della divinità sfolgora sul volto di Cristo» (ibid. 21). Contemplare il volto di Cristo induce a una conoscenza profonda e coinvolgente del suo mistero. Contemplare Gesù con gli occhi della fede spinge a penetrare nel mistero di Dio-Trinità. Dice Gesù: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). Con il rosario ci inoltriamo in questo itinerario mistico «in compagnia e alla scuola della sua Madre Santissima» (Rosarium Virginis Mariae 3). Anzi, Maria stessa si fa nostra maestra e guida. Sotto l’azione dello Spirito Santo, ci aiuta ad acquisire quella «tranquilla audacia» che rende capaci di trasmettere agli altri l’esperienza di Gesù e la speranza che anima i credenti (cfr. Redemptoris missio 24).
Guardiamo sempre a Maria, modello insuperabile! Nel suo animo tutte le parole del vangelo trovano un’eco straordinaria. Maria è la «memoria» contemplativa della chiesa, che vive nel desiderio di unirsi più profondamente al suo sposo per incidere ancor più nella nostra società. Di fronte ai grandi problemi, dinanzi al dolore innocente, alle ingiustizie perpetrate con arrogante insolenza come reagire? Alla docile scuola di Maria, che è nostra madre, i credenti apprendono a riconoscere nell’apparente «silenzio di Dio» la parola che risuona nel silenzio per la nostra salvezza.

Chiesa più santa:
il volto di Cristo
imitato e amato

4.Tutti i credenti sono chiamati, grazie al battesimo, alla santità. Il Concilio Vaticano II, nella costituzione dogmatica Lumen gentium, sottolinea che la vocazione universale alla santità consiste nella chiamata di tutti alla perfezione della carità.
Santità e missione sono aspetti inscindibili della vocazione di ogni battezzato. L’impegno a diventare più santi è strettamente collegato con quello a diffondere il messaggio della salvezza. «Ogni fedele – ricordavo nella Redemptoris missio – è chiamato alla santità e alla missione» (90). Contemplando i misteri del rosario, il credente è incoraggiato a seguire Cristo e a condividee la vita sino a poter dire con san Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Se tutti i misteri del rosario costituiscono una significativa scuola di santità e di evangelizzazione, i misteri della luce pongono in evidenza aspetti singolari della nostra «sequela» evangelica. Il battesimo di Gesù al Giordano ricorda che ogni battezzato è eletto a diventare in Cristo «figlio nel Figlio» (Ef 1,5). Nelle nozze di Cana, Maria invita all’ascolto obbediente della parola del Signore: «Fate quello che vi dirà» (Gv 2,5).
L’annuncio del regno e l’invito alla conversione sono una chiara consegna per tutti a intraprendere il cammino della santità. Nella trasfigurazione di Gesù, il battezzato sperimenta la gioia che lo attende. Meditando l’istituzione dell’eucaristia, egli torna ripetutamente nel cenacolo, dove il divino maestro ha lasciato ai suoi discepoli il tesoro più prezioso: se stesso nel sacramento dell’altare.
Sono le parole che la Vergine pronuncia a Cana a costituire, in un certo modo, lo sfondo mariano di tutti i misteri della luce. L’annuncio del regno vicino, la chiamata alla conversione e alla misericordia, la trasfigurazione sul Tabor e l’istituzione dell’eucaristia trovano infatti nel cuore di Maria un’eco singolare. Maria mantiene gli occhi fissi su Cristo, fa tesoro di ogni sua parola ed indica a tutti noi come essere autentici discepoli del suo Figlio.

Chiesa più missionaria:
il volto di Cristo
annunciato

5.In nessuna epoca la chiesa ha avuto tante possibilità di annunciare Gesù come oggi, grazie allo sviluppo dei mezzi della comunicazione. Proprio per questo la chiesa è oggi chiamata a far trasparire il volto del suo sposo con una più rilucente santità. In questo sforzo, non facile, sa di essere sostenuta da Maria. Da lei «impara» a essere «vergine», totalmente dedicata al suo sposo, Gesù Cristo, e «madre» di molti figli che genera alla vita immortale.
Sotto lo sguardo vigile della Madre, la comunità ecclesiale cresce come una famiglia ravvivata dall’effusione potente dello Spirito e, pronta a raccogliere le sfide della nuova evangelizzazione, contempla il volto misericordioso di Gesù nei fratelli, specialmente nei poveri e bisognosi, nei lontani dalla fede e dal vangelo. In particolare, la chiesa non ha paura di gridare al mondo che Cristo è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); non teme di annunciare con gioia che «la buona notizia ha il suo centro, anzi il suo stesso contenuto, nella persona di Cristo, il Verbo fatto carne, unico Salvatore del mondo» (Rosarium Virginis Mariae 20).
Urge preparare evangelizzatori competenti e santi; è necessario che non si affievolisca il fervore negli apostoli, specialmente per la missione ad gentes. Il rosario, se pienamente riscoperto e valorizzato, offre un ordinario quanto fecondo aiuto spirituale e pedagogico per formare il popolo di Dio a lavorare nel vasto campo dell’azione apostolica.

Una precisa consegna

6.L’animazione missionaria deve continuare a essere impegno serio e coerente di ogni battezzato e di ogni comunità ecclesiale. Un ruolo più specifico e peculiare compete certo alle pontificie Opere missionarie, che ringrazio per quanto già generosamente stanno facendo.
A tutti vorrei suggerire di intensificare la recita del santo rosario, a livello personale e comunitario, per ottenere dal Signore quelle grazie di cui la chiesa e l’umanità hanno particolare necessità. Invito proprio tutti: bambini e adulti, giovani e anziani, famiglie, parrocchie e comunità religiose.
Tra le tante intenzioni, non vorrei dimenticare quella della pace. La guerra e l’ingiustizia hanno il loro inizio nel cuore «diviso». «Chi assimila il mistero di Cristo – e il rosario proprio a questo mira -, apprende il segreto della pace e ne fa un progetto di vita» (Rosarium Virginis Mariae 40). Se il rosario batterà il ritmo della nostra esistenza, potrà diventare strumento privilegiato per costruire la pace nel cuore degli uomini, nelle famiglie e tra i popoli. Con Maria tutto possiamo ottenere dal Figlio Gesù. Sorretti da Maria, non esiteremo a dedicarci con generosità alla diffusione dell’annuncio evangelico sino agli estremi confini della terra.
Con tali sentimenti, di cuore tutti vi benedico.

Dal Vaticano, 12 gennaio 2003,
festa del battesimo del Signore

Giovanni Paolo II

Giovanni Paolo II




MOZAMBICO – Gabbia di matti

Tra le malattie diffuse nel distretto di Mecanhelas, la pazzia rivela tutta la sua drammaticità; spesso è accompagnata da epilessia.
I missionari si sono fatti carico del problema, con buoni risultati, coinvolgendo le comunità cristiane in una rete di solidarietà che, con il nome di Caritas, è estesa ad altre situazioni.

Era un bel ragazzo di nome Marcellino, ma la droga gli aveva consumato il ben dell’intelletto. Mentre lo accompagnavo, insieme ad altri malati, all’ospedale psichiatrico di Nampula, si gettò dal treno che, sprovvisto di freni d’emergenza, si fermò dopo cinque minuti a una stazione. Diedi allo zio che lo accompagnava del denaro e il compito di recuperare il nipote fuggitivo con l’aiuto della polizia locale.
Il ragazzo fu recuperato una settimana più tardi, con vari segni di ferite, non dovute alla caduta dal treno, ma alle botte ricevute. Dopo la caduta, infatti, Marcellino si era subito rialzato, mettendosi a correre per riprendere il convoglio. Non essendoci riuscito, cercò di sopravvivere rubando galline, porcelli e divorandoli crudi nella foresta. Per tre volte i contadini lo avevano catturato e consegnato alla polizia; ma era sempre riuscito a evadere dalla prigione.
Il viaggio successivo Marcellino lo fece con una buona dose di tranquillanti in corpo. Dopo il recupero si è sposato e lavora la terra.
La sua storia è emblematica di quanto sto per raccontare.

NON SI VEDE, MA C’È
Quando arrivai come missionario laico nel distretto di Mecanhelas, nel maggio 1999, si pensava che esistessero nella zona quei cinque o sei casi, da considerare i classici «scemi del villaggio». Tre anni dopo, i malati mentali registrati dalla parrocchia erano quasi 200; nel giugno 2003 circa 700: quasi l’1% della popolazione del distretto.
La pazzia è poco visibile, perché molti malati passano l’esistenza legati con catene di bicicletta a un albero, vicino alla casa di famiglia. La loro sopravvivenza dipende dal buon cuore dei familiari: se questo manca, cosa non infrequente, la polenta quotidiana diminuisce giorno per giorno, provocando una lenta morte per inedia.
Spesso i malati mentali costituiscono un elemento di disturbo e di pericolo per le comunità: insultano, picchiano, bruciano le capanne, rubano… Finché il consiglio si riunisce e dispone che il malato venga soppresso in modo indolore, incaricando qualcuno di porgergli un piatto di cibo avvelenato. Non abbiamo dati precisi, ma riteniamo che una decina di malati mentali muoiano ogni anno per fame o per veleno.
Principale causa di tale malattia pare essere la suruma, un’erba allucinogena importata dal Malawi: provoca delirio, crisi di aggressività e uno stato simile alla schizofrenia. Viene fumata per lavorare senza sentire fatica e fame.
I contadini drogati (surmàticos) li si vede zappare la terra fin dalle prime luci dell’alba e continuano ininterrottamente fino al tramonto, senza assumere alcun cibo. Presto, però, alla voglia di lavorare subentrano delirio, aggressività e trascuratezza della propria persona.
Traumi dell’infanzia, risalenti ai tempi della guerra civile (1977-92) e incapacità della famiglia di educare i figli ad affrontare le difficoltà della vita incoraggiano la malattia mentale: una volta divenuti adulti, essi possono «perdere la testa» di fronte a un problema più grande del normale.
Circa il 75% dei malati mentali soffre anche di attacchi epilettici. In questi casi è chiamato in causa l’alcornolismo, che conduce al decadimento del cervello.
Un bicchiere di cachaça, bevanda superalcolica, costa pochi centesimi e aiuta a dimenticare la fame e le difficoltà della vita. Alcuni lavoratori vi spendono l’intero stipendio mensile appena percepito, ubriacandosi fin quasi a morire. Capita pure di incontrare ragazzini già ubriachi fradici di prima mattina. Parlare con i genitori non serve a molto.
Un’altra causa dell’epilessia può essere la presenza di parassiti intestinali nella stragrande maggioranza della popolazione locale, per mancanza d’igiene. Alcuni parassiti, tra cui la tenia, a volte migrano dall’intestino verso il cervello e vi depositano le uova: questo provocherebbe attacchi epilettici e comportamenti anormali.

MATTI DA LEGARE
All’inizio di dicembre 1999, apparve nei pressi della missione di Mecanhelas, un ragazzo di 20 anni, magro, sporco, muto, con un sorriso ebete. Antonio, questo il suo nome, cominciò a farsi notare montando sui cassoni dei fuoristrada, o arrampicandosi sugli alberi di mango, per lanciae i frutti ai passanti e aspettare che gli stessi glieli restituissero in faccia.
Poi Antonio cominciò a rompere i vetri della missione per impadronirsi delle tendine, con cui amava cingersi alla testa. Per il resto, indossava solo un paio di slip femminili.
La polizia non si interessava del caso. Noi missionari cominciammo a tirare giù Antonio dagli alberi, dove si rifugiava quando era inseguito, e rinchiuderlo in una cella improvvisata. Non sapevamo che negli slip nascondeva un coltello, con cui si liberò e scappò dalla finestra.
Catturato un’altra volta, fu legato a un albero, affinché, approfittando della pioggia torrenziale, si lavasse un poco. Dopo la doccia, Antonio ricevette un bel maglione di lana verde; il giorno dopo lo ridusse in decine di rocchetti di filo che collezionava in una borsa.
Dopo l’ennesima cattura, per vetri rotti e tendine strappate dalla casa dei missionari, era venuto il momento di occuparci seriamente di Antonio. Lo accompagnammo al manicomio più vicino (oltre 400 km da Mecanhelas), diretto da uno psichiatra missionario della congregazione di San Giovanni di Dio.
Dopo alcuni mesi toò ingrassato, parlava normalmente, salutava e ci ringraziava per averlo aiutato. Aprì un piccolo commercio di olio alimentare e sigarette e cominciò a vivere da persona normale.
Passò qualche mese e constatammo che Antonio stava peggiorando di nuovo, fino a ripiombare nella follia a causa della suruma. Lo riportammo al manicomio e fu di nuovo disintossicato. Adesso continua a vivere a Mecanhelas, ma non è del tutto normale. Il problema è che non ha una famiglia che lo sostenga a rimanere lontano dalla droga.
Stavamo occupandoci di Antonio quando apparve Francisco Pio: fratello dell’ex sindaco di Mecanhelas, alto e forte, era il terrore della gente: essendo parente di un «grande», non poteva essere picchiato.
Arrivò in missione con l’auto delle suore, su cui era salito abusivamente, bevendo allegramente lattine di birra prelevate dal carico. Alla sua apparizione i passanti scappavano e i lavoratori chiudevano a chiave le porte della missione.
Era furioso; brandiva un bastone; ma non ci lasciammo intimorire; lo mettemmo in fuga, fra le grida di esultanza della gente. Un’ora dopo apparve il fratello «grande» per chiederci di aiutarlo. Così anche Francisco venne accompagnato al manicomio, insieme a una cugina, impazzita in seguito all’amputazione di un braccio, e a un signore che vagava per la cittadina con una bibbia in mano, predicando l’apocalisse.
Dopo una settimana in manicomio, Francisco scappò e ritoò a casa da solo. Andai a trovarlo. Era molto più tranquillo; gli diedi degli psicofarmaci, invitandolo a farmi visita. Col tempo, Francisco, anche lui surmàtico e alcornolizzato, recuperò la normalità.

CAROVANA DI MATTI
Viste le quattro guarigioni, la gente di Mecanhelas cominciò a scendere dai monti e uscire dalle giungle per «colocar uma preocupação», come si dice eufemisticamente da queste parti. Tra i malati mentali c’erano varie madri di famiglia: per i loro bambini era un dramma avere una mamma pazza, vederla fare stramberie o legata a un albero come un cane.
Ogni mese, dalla missione cominciò a partire una macchina carica di pazienti che, trasferiti su uno scompartimento prenotato, raggiungevano in treno l’ospedale psichiatrico di Nampula; questo può accogliere una cinquantina di malati e serve tutto il Mozambico settentrionale. Ce ne sono solo altri due nel resto del paese.
La comitiva di matti era accompagnata da me, da un infermiere, munito di siringhe e tranquillanti, e da un parente per ogni malato, con la responsabilità di sorvegliarlo. Compito non sempre assolto: a volte gli stessi malati arrivavano da me trafelati per dirmi che qualcuno era scappato.
Arrivati a Nampula, la polizia non aveva nulla da eccepire, vedendo una decina di persone incatenate scendere dal treno e avviarsi a saltelli verso una macchina, sorvegliati da certi tipi con manganelli, tra cui c’ero anch’io.
I passanti, invece, pensando che fossi un poliziotto alle prese con chiconhocas (ladri) appena catturati, si avvicinavano minacciosi per picchiarli. Ci pensarono gli stessi malati a chiarire la situazione: «Siamo malucos (matti) diretti al manicomio».

SERVIZIO A DOMICILIO
Dalla fine del 2001 è aperta un’unità psichiatrica a Cuamba, a 91 km da Mecanhelas; non dobbiamo più percorree 440 per raggiungere il manicomio di Nampula.
A Cuamba opera il signor Sibinde, un tecnico psichiatra mozambicano. «Tecnico» significa che si tratta di un operatore sanitario, formatosi per tre anni, e non di un medico laureato. Egli dimostra una grande motivazione per il lavoro che fa: senza chiedere alcuna mancia, viene ogni mese nella parrocchia di Mecanhelas, si trattiene tre giorni, riuscendo a visitare un centinaio di pazienti alla volta. Non gli fa problemi andare in bicicletta o guadare paludi.
La maggior parte dei pazienti visitati viene trattata a domicilio, con psicofarmaci affidati alla responsabilità dei familiari. Tuttavia, ogni mese, quattro o cinque pazzi pericolosi devono essere trasferiti all’unità psichiatrica di Cuamba per una terapia intensiva di alcune settimane.
La terapia di recupero completo dura due o tre anni. La difficoltà principale è convincere i pazienti e le rispettive famiglie a perseverare nell’assumere psicofarmaci. Ma poiché, dopo qualche mese, i malati constatano un miglioramento, tendono a interrompere l’assunzione di medicine, col rischio di ricadere nella follia anche più grave.
Mentre tra i guariti da malattie fisiche solo uno su dieci viene a ringraziarci dopo la guarigione, quasi tutti gli ex matti vengono a esprimere la loro gratitudine per averli recuperati alla vita civile, nonostante gli eventuali trattamenti rudi subiti durante le crisi di aggressività.
A differenza di quanto avviene nella società europea, la persona affetta da malattia mentale, una volta guarita, non trova difficoltà a reinserirsi nella vita della famiglia e del villaggio: nessuno gli rinfaccia il suo passato. Ciò vale anche per i criminali, compresi quelli che, durante la guerra civile si macchiarono di torture e massacri.
Un proverbio makua dice al riguardo: «Il passato è passato, adesso dobbiamo vivere il presente». I makua, etnia pacifica e aliena da litigi, attua così una concreta forma di perdono che, tra l’altro, ha favorito il processo di pace che pose termine a 15 anni di guerra civile.

LA RETE DELLA CARITAS
Dal 1999 al 2002, gli animatori e i missionari di Mecanhelas hanno soccorso circa 180 malati di mente, recuperandone una cinquantina alla vita normale. A giugno 2003, nel distretto sono stati contati circa 700 malati mentali, 450 dei quali affetti anche da epilessia; di questi, dopo cure adeguate, un centinaio sono tornati alla vita normale, sposandosi e riprendendo a lavorare la terra.
Il lavoro con i malati mentali nella parrocchia di Mecanhelas, si inquadra in un progetto più ampio: la creazione di una rete di solidarietà fra cristiani locali, denominata caridade (carità).
Per comprendere tale processo, occorre una premessa. La lunga guerra civile (1977-92) ha deteriorato il sentimento di solidarietà di molti mozambicani. Diversi bambini sono cresciuti senza genitori (magari uccisi) né alcun tipo di educazione; sono cresciuti senza apprendere il rispetto verso l’autorità di parenti o capi tradizionali; hanno piuttosto sviluppato il culto della forza, delle armi, del denaro e dell’indifferenza verso le sorti del prossimo.
Inoltre, durante e dopo la guerra, agenzie umanitarie e missionari hanno distribuito aiuti indiscriminatamente, provocando tra la popolazione un atteggiamento passivo verso le difficoltà, con conseguente allentamento dei vincoli di solidarietà verso concittadini più poveri.
In campagna come in città, non è raro incontrare anziani genitori che patiscono fame e freddo, abbandonati da figli e parenti che vivono nello stesso villaggio senza problemi economici.
Nel distretto di Mecanhelas si calcolano 5 mila persone «povere», cioè non in grado di mantenersi con le proprie forze: anziani, invalidi e mutilati, malati cronici (lebbra, tbc, malaria, anemia, malattia mentale). A queste bisogna aggiungere vedove e orfani, spesso abbandonati a se stessi. Un villaggio di 400 abitanti (metà dei quali cristiani) ha in media 15-20 casi di tali persone, spesso condannate a morte per inedia.
In questo contesto, ho chiesto agli animatori delle comunità cristiane di impegnarsi ad aiutare i poveri, secondo le proprie possibilità. Ho suggerito loro di elaborare un progetto di assistenza, che includesse sia l’attività dei cristiani che quella dei missionari, promettendo che avrei «obbedito ai loro ordini».
Ne è scaturita questa idea: gli animatori avrebbero messo la loro forza lavoro a disposizione dei poveri del villaggio: coltivare i campi di chi non poteva più farlo, costruire le case, distribuire il cibo, raccolto tra i cristiani al termine delle messe domenicali. A me hanno chiesto di provvedere coperte per i poveri e soccorrere i malati.
Occuparsi di malati richiede una certa familiarità con gli ambienti ospedalieri, difficilmente presente in un animatore di estrazione contadina. Piano piano, però, ho abituato gli animatori a vincere la loro timidezza verso il personale ospedaliero.
Il denaro per l’acquisto di coperte e cure mediche viene messo dai missionari. Ma stiamo lavorando perché comunità e famiglie dei pazienti contribuiscano alle spese mediche e la rete di solidarietà dei cristiani raggiunga un certo grado di autonomia dalle finanze della missione.

ALCUNE CIFRE DELLA RETE

Oggi, la rete di solidarietà dei cristiani di Mecanhelas assiste circa 2 mila poveri. I missionari della Consolata hanno procurato un migliaio di coperte e 300 capi di vestiario per altrettanti poveri. Missionari e animatori provvedono a inviare regolarmente i malati fisici presso gli ospedali più adatti, a seconda della specialità richiesta.
Ogni due mesi vengono trattati 25 pazienti di chirurgia generale, più 6-8 malati che necessitano di interventi chirurgici specialistici, per un totale di 170 operazioni. Chi è affetto da malaria, anemia, tbc, lebbra, parassitosi, piccole ferite e ustioni, viene accompagnato dagli animatori all’ambulatorio di Mecanhelas.
Per aiutare gli invalidi alle gambe, la parrocchia provvede loro delle carrozzine triciclo: i cristiani del villaggio contribuiscono per coprire un terzo della spesa. Sempre nell’ambito della rete di solidarietà, i missionari hanno attivato un programma di mini-prestiti alle associazioni di animatori della parrocchia, perché possano avviare piccole attività economicamente redditizie.
I beneficiari dei prestiti vengono selezionati dai missionari e dagli animatori, valutando il loro impegno a favore dei poveri e ammalati e la capacità di lavorare in gruppo per gestire una piccola impresa. Del profitto ottenuto, la metà va ai membri dell’associazione, l’altra metà è impiegata per finanziare l’aiuto a poveri e malati. Finora, sono stati concessi prestiti per 180 euro a 6 imprese, i rimborsi ammontano a 150 euro.
Oltre a promuovere l’autonomia finanziaria delle comunità nel servizio ai poveri, le iniziative di microcredito indicano la via da percorrere per uno sviluppo futuro, fondato sullo spirito di una rete chiamata caridade

di Paolo Deriu*