Il buddhismo impegnato

Continua il viaggio nel buddismo (Cfr M.C. dicembre
2003), attraverso l’incontro con due grandi«movimenti» impegnati
nella pace,nella nonviolenza
e nel sociale.
Seguirà nei prossimi mesi l’inchiesta su islam, cristianesimo, ebraismo.

SOKA GAKKAI
SCUOLA DI PACE

«Q uando gli esseri viventi assistono alla fine di un kalpa1 e tutto arde in un grande fuoco, questa, la mia terra, rimane salva e illesa, costantemente popolata di dèi e di uomini.
Le sale e i palazzi nei suoi giardini e nei suoi boschi sono adoati di gemme di varia natura.
Alberi preziosi sono carichi di fiori e di frutti e là gli esseri viventi sono felici e a proprio agio.
Gli dèi suonano tamburi celesti creando un’incessante sinfonia di suoni.
Boccioli di mandarava piovono dal cielo posandosi sul Budda e sulla moltitudine.
La mia pura terra non viene distrutta, eppure gli uomini la vedono consumarsi nel fuoco: ansia, paura e altre sofferenze predominano ovunque» 2.

I l mondo sofferente è la «pura terra» del buddismo mahayana: la felicità non è in un luogo lontano e futuro, ma qui e ora, mentre si soffre, si lotta e si giornisce. Cioè, semplicemente, si vive. E tutti ne sono degni: uomini e donne, grandi e piccini, deboli e potenti, e di tutte le nazionalità. Il mondo intero, dunque. Tutti hanno la «buddità» e possono farla emergere dal profondo della propria esistenza, dovunque si trovino e in qualunque momento lo decidano, senza attendere momenti migliori, altre vite o altri mondi. È una condizione innata, permanente, ma… nascosta nelle profondità dell’essere. E va tirata fuori.
Questo è il messaggio «rivoluzionario» del monaco giapponese vissuto nel 1200: Nichiren Daishonin, un importante riformatore della corrente buddista mahayana.
Sul Sutra del Loto, uno dei testi sacri tramandati dal Buddha Shakyamuni (vedi M.C. dicembre 2003), il Daishonin incentrò la propria dottrina e insegnamento, sia a livello pratico sia teorico, basato sull’incoraggiamento, diretto a uomini e donne di ogni ceto sociale, a far riemergere la «buddità», l’illuminazione, dalla propria vita e a intraprendere così una rivoluzione umana, che porta anche a un profondo cambiamento nella società.
«Nel secolo xi il Giappone fu percorso da una serie di guerre tra monasteri che, diventati centri di potere economico, erano protetti da monaci guerrieri (sohei).
Dall’anno Mille il buddismo cominciò a conoscere un periodo di decadenza, mentre il paese era scosso da disastri di vario tipo; per questo motivo si svilupparono correnti di riformatori: lo Zen (con le due scuole di Soto e Rinzai), l’Amidismo e la scuola del monaco Nichiren Daishonin.
Quest’ultimo merita una speciale rivalutazione, perché la sua opera di riformatore (basata sul Sutra del Loto), molto decisa nelle confutazioni dottrinali e assolutamente nonviolenta nella pratica, per lungo tempo è stata giudicata, anche su importanti testi di storia del buddismo, intollerante e violenta. Lo spirito che animava il Daishonin era quello di restaurare il corretto insegnamento buddista, che si era perso anche per il connubio dei monasteri con il potere economico-politico»3.
A causa delle proprie idee, subì persecuzioni, esili, condanne. Ciononostante continuò la predicazione insegnando la strada verso l’illuminazione.
Nato in Giappone nel 1222, Nichiren aveva iniziato a studiare giovanissimo, com’era tradizione, in un tempio, divenendo monaco. Nel 1253 aveva proclamato che l’unico modo per raggiungere l’illuminazione e portare la pace nel paese era recitare il titolo del Sutra del Loto (in sanscrito, Saddharma-pundarica sutra, in giapponese Myo ho renge kyo) facendolo precedere dal titolo devozionale di Nam. Questo mantra si può tradurre con «Mi dedico alla mistica legge del Loto» (dove il Loto simboleggia la legge di «causa-effetto» presente nell’universo).
Come pratica, era ed è prevista la recitazione di questo mantra, e di due capitoli del Sutra: Hoben e Juryo. In Hoben «Shakyamuni afferma che la buddità è accessibile a tutti gli esseri e che ci si arriva solo con la fede (non con la conoscenza); in Juryo viene rivelato il Budda originale, cioè l’essenza e la saggezza cui tutti i budda partecipano.
Qual è la differenza tra un budda e una persona normale? Nessuna, secondo il Daishonin: «Quando una persona è illusa – scrive Nichiren – è chiamata comune mortale, ma una volta illuminata è chiamata Budda. Anche uno specchio appannato brillerà come un giorniello se viene lucidato. Una mente annebbiata dalle illusioni, derivate dall’oscurità innata della vita, è come uno specchio appannato, che però, una volta lucidato, diverrà chiaro e rifletterà l’illuminazione alla verità immutabile. Risveglia in te una profonda fede e lucida il tuo specchio notte e giorno. Come puoi lucidarlo? Solo recitando: Nam myo ho renge kyo».
«Oggetto di culto» davanti a cui recitare sutra e mantra è il gohonzon, «oggetto perfettamente dotato», il mandala che egli incise nel 1279 «per osservare la propria mente».

L a Soka Gakkai (Società per la creazione di valore) è uno dei movimenti del buddismo mahayana giapponese che si rifà alla scuola Nichiren. Fu fondata nel 1930 dal pedagogo Tsunesaburo Makiguchi (1871-1944), insegnante, direttore scolastico e saggista. Egli fu perseguitato per i suoi modelli pedagogici, che si opponevano all’autoritarismo della scuola giapponese e per la sua avversione alla guerra. Morì in carcere nel 1944.
Oggi i membri della scuola da lui fondata sono presenti in tutto il pianeta e ammontano a oltre 14 milioni (30 mila in Italia). Essi provengono dalle più diverse esperienze esistenziali, culturali e sociali.
L’attuale presidente della Soka Gakkai internazionale, lo scrittore e pacifista giapponese Daisaku Ikeda, è promotore di messaggi di nonviolenza, tolleranza e difesa dei diritti umani e sociali in tutto il mondo.
Obiettivo di questo movimento è l’incoraggiamento a compiere la propria auto-riforma interiore, vincere limiti e paure e raggiungere i propri obiettivi nel pieno rispetto della dignità della vita e dell’ambiente.
Caro alla Soka Gakkai è il principio di kosen rufu: atteggiamento di compassione, tolleranza e lotta per i diritti dell’uomo e dell’ecosistema e diffusione della pace a livello planetario. Una pace che, prima di tutto, parte dal superamento dei conflitti interiori, delle lacerazioni intee e si estende all’ambiente circostante.

Thich Nhat Hanh
sfida alla violenza
dei singoli e nazioni

«Q uando siamo arrabbiati, lo sappiamo, dovremmo evitare di reagire, in particolare di fare o dire qualunque cosa. Non è saggio dire o fare qualcosa quando sei in collera; è più urgente tornare a te stesso per prenderti cura della tua rabbia.
La rabbia è un campo di energia, fa parte di noi, è un bambino che soffre di cui dobbiamo prenderci cura. Il modo migliore di farlo è generare un altro campo di energia che possa abbracciare la rabbia e prendersene cura. Questo secondo campo è l’energia della presenza mentale. È l’energia del Budda; ne possiamo disporre perché siamo capaci di generarla con il respiro e la camminata consapevoli. “Il Budda dentro di noi” non è un mero concetto, non è una teoria o una nozione, è una realtà: noi tutti siamo capaci di generare l’energia della presenza mentale.
Presenza mentale significa essere presenti, essere consapevoli di ciò che sta accadendo» 4.

M onaco buddista-zen, vietnamita,Thich Nhat Hanh è famoso in tutto il mondo per il coraggioso impegno contro le guerre, le violenze e ogni forma di intolleranza religiosa, politica e culturale. Ha circa 80 anni, ma ne dimostra molti di meno.
Pacifista instancabile, negli anni della guerra in Vietnam si è adoperato senza sosta per la riconciliazione tra il nord e il sud del paese; ha soccorso i boat people e ha presieduto la delegazione buddista ai colloqui di pace di Parigi. E ancora oggi si schiera a favore dell’umanità sofferente, senza distinzione di fedi, di nazionalità o di ceto. Coraggiose sono le sue posizioni contro lo sfruttamento delle risorse terrestri, degli esseri umani e contro ogni forma di conflitto.
Negli anni ’60, a causa dell’impegno contro la violenza che stava colpendo la sua gente, è stato bandito sia dal governo non comunista sia da quello comunista; dal 1966 vive in esilio in Francia, dove, agli inizi degli anni ’80, ha fondato una piccola comunità. Qui insegna, scrive, lavora la terra e opera in favore dei rifugiati di tutto il mondo.
È molto attivo nel condurre training di «pienezza mentale» in Europa e Nordamerica, in aiuto di veterani, bambini, psicoterapeuti, artisti e migliaia di persone alla ricerca di pace interiore e planetaria.
Thich Nhat Hanh è monaco dall’età di sedici anni. È conosciuto in molti paesi sia come scrittore (in Italia sono decine i libri pubblicati da varie case editrici), relatore e, soprattutto, come leader religioso di un movimento noto come buddismo impegnato, che unisce le tradizionali pratiche di meditazione con la disobbedienza civile attiva nonviolenta. Da questo movimento, a Saigon, è sorto il più importante centro di studi buddisti: An Quang Pagoda.
Tra le sue tante iniziative ricordiamo la creazione di un’organizzazione di raccolta fondi per la ricostruzione dei villaggi vietnamiti distrutti; l’istituzione di una «Scuola giovanile per il servizio sociale» e di un corpo di pace per buddisti che lavorano in questo ambito; la pubblicazione di una rivista dedicata a tematiche pacifiste. È inoltre molto attivo nell’incoraggiare i leaders mondiali a usare lo strumento della nonviolenza nella risoluzione dei conflitti.
Lasciando il Vietnam, Thich Nhat Hanh si era posto l’obiettivo di diffondere il buddismo in tutto il mondo: nel 1966 si era recato negli Stati Uniti e, durante discorsi in campus universitari, incontri con politici e amministratori, aveva spiegato quale strada percorrere per porre fine alla guerra con il Vietnam. L’anno seguente, il premio nobel per la pace, Martin Luther King, lo aveva candidato per la stessa onorificenza.
Il vecchio sogno di Thich Nhat Hanh, realizzare una comunità dove la gente impegnata in opere di trasformazione sociale possa trovare momenti di riposo e nutrimento spirituale, si è concretizzato nel Plum Village, costruito nel cuore dei vigneti di Bordeaux, sud-ovest della Francia, che ospita una trentina di monaci, suore e laici. Migliaia sono anche i residenti transitori, uomini e donne, provenienti da tutto il mondo (e delle più diverse nazionalità, religioni e culture) a cui il monaco zen spiega come vivere in armonia e piena consapevolezza il momento presente e come apprezzare la vita.
La sua filosofia non è limitata a strutture religiose preesistenti, ma si rivolge al desiderio di pienezza e di calma interiori dell’individuo.

«V orrei soffermarmi sulle “cinque facoltà”, così come vengono insegnate e praticate nella tradizione buddista.
La prima è la fede. È una facoltà che abbiamo dentro di noi; e sappiamo che la fede è molto importante. La fede è un’energia che ci rende pienamente vivi. Prova a guardare negli occhi una persona senza fede: non ha vita. Se invece quella persona è animata dall’energia della fede, i suoi occhi scintillano; gliela leggi sul viso o nel sorriso. Quindi non possiamo permetterci di non avere fede. È una forma di energia, di potere.
Talvolta le “cinque facoltà” vengono presentate come cinque poteri. La fede è un potere. Con il potere della fede diventi molto attivo, non ti fermi davanti ad alcuna difficoltà o stanchezza, puoi far fronte a qualsiasi avversità.
L’energia della fede porta alla seconda facoltà: la diligenza. Sei attivo e hai in te energia e gioia. Ti piace… uscire e andare tra la gente per aiutarla a trasformare la propria sofferenza e cominciare ad assaporare la gioia del praticare. Ti piace innaffiare i semi positivi della consapevolezza e lasciare inaridire quelli negativi.
Spinto dalla fede, diventi una persona attiva e, praticando con diligenza, sviluppi dentro di te un altro tipo di energia chiamata presenza mentale, che è la terza facoltà…
La presenza mentale ti aiuta a guardare alle meraviglie della vita come fonte di nutrimento e guarigione. Ti aiuta anche ad abbracciare le tue afflizioni e a trasformarle in gioia e libertà.
Secondo gli insegnamenti del Budda, la vita può essere vissuta solo nel momento presente. Se sei distratto, se la tua mente non è lì con il corpo, perdi il tuo appuntamento con la vita…
Se c’è presenza mentale, allora c’è anche un altro tipo di energia, quella della concentrazione: la quarta facoltà… Quando vivi con concentrazione entri in contatto profondo con il mondo che ti circonda e inizi a comprenderne la profondità. Questa si chiama visione profonda…
Questo genere di comprensione è chiamata visione profonda, ed è l’ultima delle “cinque facoltà”. La visione profonda è frutto di un’esperienza diretta… Se vivi con una persona e non sai molto di lei, significa che non vivi con la realtà di quella persona, ma con il concetto che tu hai di lei…
Sei passato attraverso la sofferenza, la felicità, il confronto diretto con ciò che esiste, ed è su questo che si basa la tua fede. Nessuno te la può portare via. Può solo continuare a crescere. Se alimenti questo tipo di fede dentro di te, non diventerai mai un fanatico, perché la tua fede è una fede vera e non l’aggrapparsi a un concetto»5.

I suoi scritti. Sono più di settantacinque, tra saggi, raccolte di poesie e preghiere. Tra quelli pubblicati in Italia, ricordiamo il bellissimo volume Spegni il fuoco della rabbia, edito negli oscar Mondadori; Il segreto della pace. Trasformare la paura, conoscere la libertà e La luce del Dharma. Dialogo tra cristianesimo e buddhismo, sempre per la Mondadori; Insegnamenti sull’amore, per la Neri Pozza; Il Buddha vivente, il Cristo vivente, Editrice Tea; Perché un futuro sia possibile. Il Sutra per i discepoli laici del Buddha, Astrolabio; Essere pace, Ubaldini. •

Note

(1) Un lunghissimo periodo di tempo.
(2) Capitolo «durata della vita del Tathagata, ne Il Sutra del Loto, Milano 1998, e in «Felicità in questo mondo», ne Gli scritti di Nichiren Daishonin, cap. 4.
(3) Da Buddismo, a cura di R. Minganti, Firenze 1996.
(4) Thich Nhat Hanh, Spegni il fuoco della rabbia, Mondadori, Milano 2002, pag. 53.
(5) Thich Nhat Hanh, La luce del Dharma. Dialogo tra cristianesimo e buddhismo, Milano, 2003, pagg. 61-63.

Angela Lano




Il mago del fil di ferro

N el cuore del Burkina Faso, Ouagadougou si estende in tutte le direzioni, come una macchia d’olio su un piano senza barriere naturali. Da alcune centinaia di migliaia di abitanti degli inizi anni ’80 si stima oggi superi il milione e duecentomila, il 10% dell’intero paese. Continua l’esodo dei contadini dalle campagne in cerca di fortuna verso l’antica capitale dell’impero Mossì. Così i quartieri periferici si allargano, si gonfiano in una distesa di case basse, quasi tutte a un piano, massimo due.
La polvere è l’elemento onnipresente e, quando si solleva l’harmattan (il vento che soffia dal Sahara), avvolge ogni cosa. L’aria è resa irrespirabile da quel centinaio di migliaia di moto e motorini che sono diventati una caratteristica imprescindibile di questa città.
Solo in centro, alcuni palazzi a più piani, uffici amministrativi, banche, si elevano sul panorama urbano. Molti di questi edifici si concentrano lungo l’avenue Kwamé Nkrumah, la via dei grandi hotel e negozi con le vetrine della capitale. Ma intorno al corso a due carreggiate, girato l’angolo di una qualsiasi traversa, ci troviamo su strade sterrate, in un quartiere in cui molte case sono ancora in banko intonacato (mattoni di fango essiccato).
Siamo a Zangoetin, quartiere storico di Ouaga (come gli abitanti chiamano famigliarmente la città), che il governo ha deciso di demolire per edificarvi una zona commerciale, di strade asfaltate e palazzi con l’aria condizionata. È l’operazione Zaca, che porterà allo sfratto degli abitanti di cinque quartieri storici che, è previsto, saranno indennizzati.
Nei meandri
Entriamo in una di queste vie, a due passi dalla Nkrumah: è così stretta che due macchine non ci passano. Un’entrata sulla strada apre in una corte intea, piccola e piena di vita. Diverse porte di altrettante stanze danno sullo spazio aperto, ognuna è la dimora di una o più persone.
Ci accoglie un uomo di media corporatura, con le orecchie a sventola e un largo sorriso, a cui mancano un paio di denti. È Tasseré Derrà e questa è la casa di suo padre, dove la famiglia ha sempre vissuto per decenni. Il vecchio ha oggi più di cento anni.
Tasseré parla un buon francese, oltre che la sua lingua madre, il moore. Ha un problema a un piede, che lo costringe a camminare zoppicando. «Da piccolo – ricorda – ebbi una malattia e al dispensario mi fecero un’iniezione che mi paralizzò la gamba. Mia madre, allora, mi portò al suo villaggio di origine e qui i medici tradizionali, quelli che usano le erbe, riuscirono dopo vari giorni a farmi camminare».
Tasseré è un artista. Non solo. Con l’arte si guadagna la vita, sostiene la famiglia e dà lavoro ad alcuni ragazzi. È conosciuto nel paese e all’estero e tutto quello che fa, in pratica, lo costruisce con un solo semplice elemento: il fil di ferro.
«Sono nato a Ouaga nel 1962 e, all’età di 5 anni, mio padre mi mandò in Mali a frequentare la scuola coranica. Sono tornato nel ’74, a causa della guerra tra il Mali e l’Alto Volta, come si chiamava fino al 1984 il Burkina Faso. Qualche anno più tardi ho frequentato la scuola franco-araba di Ouaga, dove ho imparato il francese. Mi sono reso conto che stavo crescendo; mio padre invecchiava ed eravamo molto poveri. Decisi di lavorare e incominciai ad aiutare mio fratello commerciante a vendere al mercato».
La bicicletta
È qui, a Rood Woko, il grande mercato centrale di Ouagadougou, fatto costruire da Thomas Sankarà, il presidente rivoluzionario, negli anni ’80 e distrutto da un incendio lo scorso maggio, che il giovane vede macchinine fabbricate con il fil di ferro. Quasi ovunque, in Africa, i giochi per bambini sono semplici oggetti che sovente loro stessi ricavano con materiali di recupero: filo, scatolette di latta, strisce di camere d’aria. Un cerchione di bicicletta, un aquilone, le macchinine sono classici esempi.
Tasseré, per scherzo, inizia a copiare quanto vede, poi crea la moto e inventa una bicicletta giocattolo, con le parti meccaniche in movimento. «Alcuni amici francesi mi dissero che non avevano mai visto nulla di simile in Africa dell’ovest. Mi incoraggiarono e iniziai a produrre biciclette in fil di ferro».
Un giorno Pierre Ouedraogo, giornalista della televisione nazionale burkinabè, si mette sulle tracce dell’artigiano che fa biciclette. Un suo amico straniero gli aveva chiesto di trovarlo. «Philippe Chatela, dell’ong Enfants du Monde aveva visto una delle mie bici: dal 1991 al ’97 ne ordinò 650 pezzi».
Sotto tale stimolo, Tasseré inventa altri oggetti: portacandela, animali, portabiglietti da visita, oamenti, lampade, tutto rigorosamente in fil di ferro e si organizza per venderli.
Nel frattempo aveva insegnato ad alcuni bambini a fare le bici, e l’oggetto aveva invaso i mercati e chioschi di artigianato della capitale. «Ma non è la stessa qualità: oggi, come dieci anni fa, io faccio al massimo quattro bici in un giorno di lavoro. Gli altri ne fanno otto o dieci: e la differenza si vede».
Un ragazzo, Adama Zongo, resta a lavorare con lui. «Aveva 12 anni e, durante le vacanze scolastiche, suo padre lo affidava a me. Io gli ho insegnato tutto quello che so». Oggi Adama ha aperto il suo atelier e i due amici continuano a collaborare.
Incontro fatale
Nel ’98, l’artigiano incontra una coppia di padovani: Andrea e Federica Pozza, all’epoca residenti a Ouagadougou. «Andrea cercava un elefante in fil di ferro un po’ speciale. Piacque loro la mia realizzazione e ne ordinarono 100 per il loro matrimonio».
Inizia un’amicizia che avrà un certo peso nella vita di Tasseré. «Videro quello che producevo e portarono vari amici a comprare i miei oggetti. Ma, ancor più importante, mi insegnarono come meglio organizzare il lavoro. Per esempio, ad avere prodotti finiti in magazzino da proporre ai clienti, invece di lavorare solo su ordinazione, investire subito i ricavi in materiale. Federica mi ha insegnato l’uso del computer e della posta elettronica, strumento importante per avere ordini dall’estero. Nasce Artifer-creation».
Ma sono soprattutto i contatti umani e quella sua vivacità nel saperli sempre cogliere, che fanno la fortuna del mago del fil di ferro. Federica gli presenta Christophe.
Personaggio emblematico, direttore di grandi hotel a Parigi, questo francese ha lasciato tutto per creare, con un gruppo di artisti africani, la Fondazione Olorum a Ouagadougou. La fondazione crea arte modea africana che esporta in Europa.
Christophe aiuta Tasseré a esporre al Salone internazionale dell’artigianato di Ouagadougou (Siao), spazio dove ogni due anni artigiani e artisti di tutta l’Africa si ritrovano per mostrare i loro prodotti, vendere, scambiare contatti. «Era il Siao dell’anno 2000 e portai le mie opere al “padiglione della creatività”. Mi ero organizzato e lasciai una presentazione con numero di telefono e indirizzo di posta elettronica». Il talento fa il resto. Le opere piacciono e molti sono quelli che iniziano a contattare l’artigiano. Ma non basta. Christophe porta gli oggetti di fil di ferro fino alla Galerie Lafayette a Parigi.
Commercio… equo
Oggi Tasseré vende prevalentemente a stranieri, o a burkinabè che poi rivendono all’estero. Espone in modo permanente al Villaggio Artigianale di Ouagadougou, in alcuni mercati e in una boutique a Zogona, quartiere bene della capitale.
Grazie ancora a Federica e Andrea è entrato nel circuito del commercio equo in Italia: distribuisce attraverso la bottega La Tortuga di Padova; i suoi candelabri e animali in fil di ferro si possono trovare anche all’ong Cisv di Torino.
C’è poi una squadra ciclistica di Padova, la «Castellana», che continua ad acquistargli partite di biciclettine con i pedali che fanno girare la ruota posteriore.
Con lui lavorano in modo permanente quattro ragazzi di 16 e 17 anni, di cui uno è suo figlio. Gli altri sono della famiglia allargata e lui li alloggia e li nutre. Si è trasferito in una zona periferica di Ouaga, dove ha costruito una casa per sé e la famiglia con una piccola sala esposizione-vendita e un atelier per la fabbricazione.
I materiali sono sempre gli stessi: fil di ferro galvanizzato da 2 millimetri è il più usato.
Altre sezioni di fil di ferro (o di rame, come quello recuperato dai motori elettrici), bombolette di insetticidi, da cui ricava parti per i portacandele, perline di terracotta che produce suo fratello, vernice di vario colore.
«Cerco di migliorare sempre, aggiungendo piccoli particolari, come la terracotta». Studia nuove forme e sta sperimentando lavori con ferri più grossi, per i quali deve utilizzare la saldatura.
Continua a seguire la sua vocazione di insegnante: tiene corsi di «atelier di fil di ferro» ai bambini delle elementari di una nota scuola francese da ormai cinque anni e corsi privati a chi vuole cimentarsi con il filo.
Nella sua attività oggi pensa e realizza le nuove creazioni, tiene i contatti con i clienti (varie ambasciate, privati e vendita all’estero), partecipa a mercati natalizi e promuove il suo prodotto. Non è mai fermo: o muove le mani o è in sella del suo motorino per le vie della capitale. •

Marco Bello




All’ombra dei faraoni

Fuori dai grandi circuiti turistici,
la vita di gente semplice e povera.
Sempre in bilico
tra rivalità religiose,
sforzo di accoglienza e qualche… dispetto.

D opo giorni roventi e afosi, ha piovuto. Una bufera di vento, seguita da enormi goccioloni, presto assorbiti dalla terra. Oggi il cielo è rosato e il mare blu. Una brezza leggera s’infila nei vicoli, dove nessuno si è mai curato di rimuovere mucchi di rifiuti.
Siamo a El Quseir, porto abbandonato sul mar Rosso, da dove solevano partire i pellegrini per La Mecca. Restano le barche in secca e qualche bell’edificio in stile arabo-turco sul lungomare. Un signore svedese si è invaghito di questo posto e vi ha fondato un centro per scambi culturali tra insegnanti.
due santini
Incontro Peter e Alex, due giovani svedesi che stanno finendo il loro stage di sei mesi, entusiasti dell’esperienza, anche se ammettono di avere trovato qualche difficoltà di ambientamento. L’unica ragazza è già ritornata a casa, non ce la faceva più.
Per arrivare quaggiù, dal Cairo, ci sono volute quasi dieci ore di pullman, comprese le fermate: la prima, dopo Suez, lungo la costa arida e vuota; la seconda, per il cambio autista, a Hurghada. Siamo arrivati che era buio, dopo le dieci, ma chi continuava il viaggio fino in Sudan sarebbe giunto alle cinque del mattino.
Sono passata da Teresa, per salutare la famiglia. Il marito era in un angolo, accovacciato sulla sedia. Una gran febbre (forse la polio), da bambino, lo ha lasciato handicappato; ora si sposta solo con una moto speciale, datagli dallo stato. Così può anche andare a lavorare all’ufficio postale; ma oggi è a casa. Una stanzetta sul vicolo, dove parcheggia la moto, e altre due sul retro, tutte dipinte in un bel colore azzurro, per la moglie e due bambine.
Per sposarsi, Edel era andato a Esna, vicino a Luxor, dove c’è una comunità cristiana. Ha trovato Teresa, una ragazza povera, ma bella e molto dolce. Le bambine sono sagge, per la loro età. Marsa e Mariam mi mostrano le immagini incoiciate della Vergine e santa Barbara. Poi Edel mi regala due santini: la Madonna e san Giorgio, che qui chiamano Mar Girgis e venerano molto. Giù nel vicolo ci sono le botteghe del sarto e del ciabattino. Sono tutti cristiani copti. Loro lavorano fino a sera tardi, mentre il resto del paese bighellona tra fumerie e caffè.
La fabbrica italiana di fosfati è chiusa e gli italiani se ne sono andati da molti anni. Restano le case per i tecnici sul lungomare e il complesso di palazzine e capannoni, con la chiesetta. Tutto del 1920, in stile italiano dell’epoca. I camion arrugginiti e il piazzale vuoto mettono malinconia, ma la chiesa è stata ceduta a due abuna copti, che vivono nella casa accanto, con le loro famiglie.
In tutto ci saranno una trentina di famiglie copte in paese, che hanno ottimi rapporti con il resto della comunità. Le tensioni del Cairo e delle città sul Nilo qui sembrano smorzate dalla brezza del mare. Un mare bellissimo, ricco di pesci e meraviglie, ma che rischia di venire sfruttato: tra qualche mese si aprirà un nuovo aeroporto e, forse, questa cittadina perderà l’atmosfera antica.
seduzione… occidentale
Il padre di Nasser, El Sudany, lavorava nella miniera di fosfati. Beduino del Sinai, anche se il nome tradisce un’origine sudanese, ora deve fare molti chilometri per raggiungere l’impianto di Safaga, l’unico ancora in funzione. Nasser, invece, fa il guardiano alla centrale, ma stasera ci ha invitato a casa sua: la moglie preparerà il pesce.
Il matrimonio è stato combinato dalle famiglie, come d’uso, ma Nasser è inquieto e vorrebbe cambiare stile di vita. Lo stato gli ha dato in affitto un appartamento in periferia e lui l’ha arredato con mobili vistosi e lucidi, comprati con i soldi di due stagioni da tassista a Hurghada.
La moglie dovrebbe essere felice, con le due belle bambine, visto il relativo benessere della famigliola. Ma Nasser non è più lo stesso, da quando ha visto la vita degli occidentali. «Le russe sono bellissime», mi dice; ma poi aggiunge: «Hanno uomini mafiosi, sono gelide, cattive». E preferisce gli italiani e, appena può, scende in paese a cercarli.
Lasciamo il mar Rosso con Nasser che, per accompagnarci, si è fatto prestare un’auto quasi nuova. A Safaga ci uniamo al convoglio scortato dalla polizia e andiamo veloci, attraverso le montagne e il deserto.
Prima di Qena, si scatena il finimondo. I grossi pullman pieni di turisti fanno a gara per arrivare primi, superandosi con manovre rischiose, a più di 100 all’ora, senza rispettare le distanze. Questa, per loro, è la gita a Luxor, un breve intervallo culturale durante la vacanza. Molti gli italiani, francesi, tedeschi e russi. Ho notato che le donne sono spesso vestite in modo indecente, con calzoni corti e maglie scollate. Mi pare offensivo e pericoloso, in un paese islamico tradizionalista. Un motivo in più per farsi odiare.
La città di Luxor (antica Tebe, capitale dell’Alto Egitto), con i suoi templi e necropoli, non ha perso il suo fascino, nonostante il turismo di massa. I turisti sono sulle navi da crociera e pochi si avventurano nelle sue strade, piene di vita. La casa di Schiapparelli, il famoso archeologo italiano autore di importanti scoperte, è ora affidata alle suore francescane del Cuore immacolato di Maria. Sono egiziane e alcune di loro giovanissime.
Suor Carmelita è qui da 14 anni, ma è originaria di Malta. Oggi è molto arrabbiata, ma non vuole assolutamente che lo scriva. «La polizia segreta lo verrebbe a sapere e noi passeremmo dei guai. Controllano tutto, chi va e chi viene. Non possiamo fare nulla, neppure dare il bianco in cortile, senza il loro permesso» dice indignata.
Le suore gestiscono una scuola, un dispensario e un piccolo orfanotrofio, dove vengono curati gli orfani dei villaggi cattolici. Ma anche quello è meglio non dirlo. «I villaggi cattolici, sparsi nelle campagne intorno a Luxor, sono molto poveri. Nostro compito è quello di aiutarli a non perdere la fede».
Quello che la scandalizza è lo stile di vita dei musulmani. «Appena hanno due soldi, fanno gli schiavisti: prendono un poveraccio – qui se ne trovano sempre di disgraziati – lo fanno lavorare come una bestia e loro si siedono a far niente!».
una «calda» atmosfera
Accanto alle suore, la chiesa e la casa dei padri. Due i frati, un anziano italiano e l’egiziano padre Cyrillus: un viso da faraone con barba e occhi vivaci dietro le lenti spesse.
Per tanti anni Cyrillus ha vissuto ad Assyut, una città più a nord, sul Nilo, dove c’è una chiesa bellissima e un vescovo che porta il suo stesso nome. Ma è impossibile andarci: la polizia non permette agli stranieri di viaggiare fuori Luxor, eccetto che con un convoglio scortato. Ci sono stati disordini e uccisioni di cristiani, ma Cyrillus minimizza. «Ho sempre avuto un ottimo rapporto con musulmani e polizia. Bisogna fare le cose alla luce del sole. Chiedo, spiego i lavori che intendo fare e loro me lo permettono. Anzi, sono contenti. Noi lavoriamo per la popolazione».
Anche coi copti le cose vanno bene; anzi, sono proprio le suorine copte del monastero di san Taddeo che preparano e ricamano le tonache al padre francescano.
Accompagno padre Cyrillus nel deserto, in un pomeriggio rovente: il termometro supera i 38°. Attraversiamo il nuovo ponte sul Nilo. Il paesaggio è stupendo: i campi rigogliosi sono bordati da palmeti e le fattorie sembrano castelli di fango.
Lasciamo la strada asfaltata che conduce a Medinet Habu, il tempio di Ramses iii, e troviamo con qualche difficoltà la pista che conduce alla bassa costruzione di fango, oata da numerose, piccole cupole.
L’interno del monastero richiama la struttura di un’antica moschea: il cortile è circondato da celle a cupola; la chiesa è un labirinto di archi bassi come tende beduine; i tappeti logori e polverosi sul pavimento di pietra. Suor Anastasia ci apre il portone e madre Eufemia ci accoglie con grandi sorrisi. Hanno abito, tonaca e copricapo neri, col velo che incoicia il volto, stretto al mento. Luce e aria provengono da fori al centro delle cupole; il caldo sfinisce e, nell’attesa, ci viene offerta l’acqua del pozzo, nelle anfore di coccio, fresche e umide. Il padre scherza e l’atmosfera è serena. Non sento la tensione che pare vi sia tra ortodossi e cattolici.
Emil, il tassinaro
La moglie è mancata da pochi mesi e lui si occupa delle bambine. Sono tre, molto carine, bene educate e si chiamano Maryam, Mariana e Madonna. Quest’ultima ha un sorriso grande più di lei, che ha solo 10 anni. Gli occhi sgranati della mamma, quasi spaventati, mi guardano da una foto grande, appesa alla parete del piccolo soggiorno della loro casa, nel centro di Luxor. La povera donna soffriva da alcuni anni, ma solo da pochi mesi avevano scoperto il tumore allo stomaco che l’ha stroncata. Emil è rimasto solo e in casa ha pure mamma e suocera anziane da accudire. Ma è un uomo in gamba, si è fatto tutto da solo. Da niente, ora ha due pullman e tre taxi. I rapporti con la polizia sono ottimi e si fa stimare da tutti.
Emil è cattolico, ma in chiesa nessuno l’ha mai visto. Ci andava sua moglie alla messa, regolarmente, e ci portava le bambine. «Una donna molto pia», mi aveva detto padre Cyrillus. Questa sera sono invitata a cena e le ragazze mi circondano e premono con le loro domande ingenue. Studiano l’inglese, ma è chiaro che non hanno mai fatto una vera conversazione. Il pollo è buonissimo e l’insalata pure; così pure le banane, mature e dolcissime.
Passiamo nella stanza di famiglia, anch’essa decorata con tante foto del padrone di casa. Qui incontro il professore che dà ripetizioni di inglese alle ragazze. Un modo per arrotondare il magro stipendio di insegnante e dare una mano a Emil, che è preoccupato per le figlie e vuole dare loro una buona educazione.
Domani partirò e mi dispiace. Mi sono sentita bene, accolta come amica anche in questo paese. Ho visto cose bellissime. La tomba di Nefertari, la grazia delle immagini della regina e delle divinità, i colori vivi, i templi grandiosi. Ne avrò certamente nostalgia.
la culla dei faraoni
Assuan si trova in Nubia, una regione desertica tra Alto Egitto e Sudan, fino al xv secolo tutta cristiana.
Nel museo della Nubia, da poco inaugurato da Mubarak sulla collina che domina la prima cateratta del Nilo, vi sono le foto dei resti di numerose chiese e monasteri, risalenti ai primi secoli. Il museo è riparatore dell’ultima delle violenze subite da questo popolo fiero e bello. Il lago Nasser, creato con la grande diga, ha costretto gli abitanti delle rive del Nilo a migrare al nord, lasciando gli antichi villaggi di case di fango.
La bellezza della prima cateratta mi era rimasta nel cuore, dalla mia prima visita in Egitto, 15 anni fa. Ora il paesaggio è stato aggredito dalla speculazione edilizia: su una delle preziose isole, dalla vegetazione rara, è stato costruito un enorme albergo a cinque stelle, pare di proprietà del figlio del presidente.
Su una feluca, tradizionale e bella imbarcazione a vela, sospinta dalla brezza del mattino e guidata da due marinai nubiani, risaliremo fino all’isola di Sehel, sotto la vecchia diga. I massi di granito portano i segni dell’acqua che si è ritirata. L’isola, un tempo, era verde e coltivata; ora è un deserto, con le belle case nubiane dipinte di giallo e blu. La gente è povera; i giovani lavorano in città e il villaggio sopravvive come un museo all’aperto.
Sulla via del ritorno, mi fermo sull’isola Elefantina, che si trova nel centro di Assuan. Qui le case nubiane sono ancora più povere e la sporcizia invade le strade polverose. Eppure, è un luogo importante nell’antica storia d’Egitto: da qui vennero i faraoni della quinta dinastia.
la sfida
Oggi sono riuscita a sentire le campane. Mi hanno dato gioia: erano le sei del mattino. Di solito sento solo il richiamo del muezzin, che mi angoscia. Ho dovuto attraversare la città per arrivare nella piccola chiesa dei comboniani, nel cuore della città e del mercato.
È la domenica delle palme e i cristiani li riconosci per via di quelle sottili foglie che da ieri portano sottobraccio. Trovo padre Vittorio assorto, in piedi davanti al portone, sorvegliato da due giovani poliziotti col mitra.
Originario di Padova, dopo un periodo in Libano e 20 anni in Sudan, è approdato qui, in Alto Egitto. Le sue parole sono soffocate dal grido del muezzin. L’altoparlante della moschea vicina è posizionato in direzione della chiesa. «Fanno sempre così: lo fanno apposta, quasi per sfida».
Padre Vittorio è molto polemico e mi invita a entrare nel suo ufficio. Parliamo della guerra dimenticata, in Sudan, dove si continua a bombardare qualsiasi cosa, mandrie e villaggi. «In Sudan sono stati uccisi tre milioni di persone, una vera pulizia etnica. Le cause? Il paese è ricco di petrolio, uranio e altri minerali». Naturalmente sono sempre i cristiani i primi a essere perseguitati. Devono sparire, deve vincere l’islam, come vuole il governo fondamentalista.
Vittorio poi mi indica, accanto alla chiesa cattolica, la scuola tenuta dalle suore. Alcune sono italiane. «I maggiorenti della città iscrivono qui i loro figli e gli allievi sono per metà musulmani. Non ci sono problemi tra i ragazzi; ma l’islam rivela presto il suo lato aggressivo. Una sposa cristiana è molto ambita nelle ricche famiglie islamiche. Ma i figli devono crescere nella fede del padre; anche la sposa finisce poi per perdere i contatti con la chiesa».
Il missionario mi fa anche notare un altro problema. I cristiani sono pochissimi e, non potendosi sposare che tra di loro, rischiano pure di avere generazioni segnate da tare ereditarie. Anche i rapporti con i copti sono difficili, per i cattolici; migliori sono quelli con i musulmani, di cui condividono una certa mentalità. •
(continua)

Claudia Caramanti




NO ALLA ZIZZANIA

San Pedro / Incontro con Barthélemy Djabla (Costa d’Avorio)
Nato nel 1936, sacerdote dal 1964, rettore
del seminario di Abidjan, mons. Barthélemy Djabla
è da 12 anni vescovo di San Pedro, diocesi grande
tre volte il Veneto. Attento alla vita del paese,
ha partecipato al Forum per la riconciliazione
nazionale ed è impegnato nella ricostruzione
della convivenza tra tutte le popolazioni
della regione sud-occidentale della Costa d’Avorio.

Monsignore, qual è la situazione
attuale della Costa d’Avorio?

La popolazione della Costa d’Avorio, nel
suo insieme, è molto accogliente. Siamo
il paese dell’ospitalità e frateità.
Numerose persone dei paesi della Comunità
economica degli stati dell’Africa
dell’Ovest (Cedeao) e di altre parti
del continente sono immigrati nel nostro
paese. Il fenomeno si è accentuato
dopo l’indipendenza (1960). Li abbiamo
accolti e continuiamo ad accoglierli
frateamente. Vorrei ricordare
che la Costa d’Avorio è il paese al mondo
con la più alta percentuale di stranieri:
ufficialmente sono il 26%. È giusto
che questo si sappia all’estero.

Cos’è che attira tanti immigrati
nel paese?

Prima di tutto cercano pace; poi guadagnarsi
da vivere. Abbiamo milioni di
ettari di foresta e le porte del commercio
sono aperte a tutti. Questi nostri
fratelli si sono stabiliti in città e villaggi
per il piccolo commercio; altri sfruttano
le foreste con la coltura del cacao,
caucciù, caffè e piantagioni varie.
Ben presto essi hanno trovato tempo
per il divertimento e per lavorare, naturalmente;
grazie all’accoglienza fratea,
si sono bene integrati nelle nostre
comunità e nei villaggi.

Sembra che la pacifica convivenza
tra locali e immigrati dal
Burkina Faso sia in pericolo:
monsignore, cosa sta capitando
realmente?

Come ho già detto, la Costa d’Avorio è
un paese di accoglienza: i burkinabé
vivono mescolati ai vari gruppi etnici
locali. Non c’erano problemi fino a pochi
anni fa. Per capire ciò che sta accadendo,
bisogna analizzare le cose in
profondità e non è difficile.
Nel 1990 il presidente Houphouët Boigny
mise un economista a capo del governo:
fu un errore, anche perché non
risolse i problemi economici del paese.
Questo primo ministro si chiama Alassane
Dramane Ouattara: approfittando
della sua posizione, ha iniziato un lavoro
sotterraneo per destabilizzare la
situazione. Aveva ambizioni politiche,
ma ha agito in modo scorretto: ha messo
gli stranieri in opposizione agli avoriani.
Questa è la realtà.
La situazione è precipitata col colpo di
stato del natale 1999: in varie città ci
sono stati disordini socio-politici, violenze
e scontri sanguinosi. Ma il male
viene da là.
Qualcuno ha parlato di xenofobia…
Gli scontri etnici non hanno nulla da
spartire con la xenofobia e il razzismo,
che in Costa d’Avorio non esistono affatto.
Tutto viene da là: alcuni politici,
calpestando leggi e diritto, sfruttano
le differenze etniche degli autoctoni
per metterli in contrasto tra loro
e i burkinabé contro le popolazioni locali
della regione sud-occidentale del
paese.

Quindi anche nella diocesi di San
Pedro si sono avute violenze?

Nel novembre 1999, dopo decenni di
pacifica convivenza con gli stranieri,
commercianti e agricoltori, nella parrocchia
di Tabou i burkinabé si sono
scontrati con i locali sulla questione
terriera. Alcuni sono morti. Ma il problema
è fondiario e non etnico.
Per sfuggire alle violenze, 2-3 mila persone
si sono rifugiate nella missione,
dove hanno trovato protezione e aiuti
per sopravvivere. Superata l’emergenza,
bisognava trovare i mezzi per
promuovere la riconciliazione: la missione
cattolica di Tabou ha radunato
a Grebo i preti della diocesi insieme ai
capi locali e burkinabé per discutere,
chiarire e appianare i problemi tra stranieri
e autoctoni. Abbiamo concluso
l’incontro con la messa e tutti si sono
stretti la mano.

Si è parlato pure di guerra di religione:
come sono i rapporti tra
cristiani e musulmani?

In Costa d’Avorio le relazioni tra cristiani
e musulmani sono state sempre
buone e amichevoli. Poi è venuto un
individuo che, per motivi politici, ha
seminato la zizzania della discordia tra
autoctoni e stranieri, tra cristiani e musulmani.
Per colpa di tale individuo ci
sono state gravi incomprensioni nel
paese, sfociate in distruzioni e saccheggi
di edifici religiosi nell’ottobre
del 1999. I musulmani si sono armati.
Sono state trovate armi nascoste nelle
moschee: una scoperta che non ha fatto
piacere ai cristiani.
Anche in questa diocesi cristiani e musulmani
vivevano in pace, finché il seminatore
di zizzania non ha portato la
discordia. Ora la situazione è migliorata;
ma bisogna lavorare per ricucire
gli strappi e riparare il male fatto.
C’è chi afferma che, dopo i presidenti
cristiani e del sud, sia
ora che un uomo del nord e musulmano
guidi le sorti del paese.
Dall’indipendenza a oggi nella Costa
d’Avorio si sono succeduti presidenti
cattolici: Boigny, Bédié e l’attuale
Gbagbo. Ma il ragionamento è del tutto
sbagliato. La presidenza del paese
non è un problema di chiesa o di religione,
ma di gioco democratico. La
gente sceglie il candidato che presenta
il programma migliore. La chiesa
non s’immischia in politica, nel senso
che non si schiera con nessuno, né indica
quale candidato votare, ma lascia
ai fedeli piena libertà di scelta.
E poi, dividere il paese tra nord musulmano
e sud cristiano è totalmente falso;
tale divisione esiste solo nella testa
dei politici. Nel nord i musulmani sono
più numerosi che nel resto del paese,
ma ci sono anche molti cristiani e la
maggioranza della popolazione segue
la religione tradizionale e simpatizza
più per il cristianesimo che per l’islam.

Qual è il ruolo della chiesa nella
vita del paese?

La maggioranza degli avoriani pratica
la religione tradizionale. I cristiani non
raggiungono il 20%. La chiesa cattolica
è una minoranza, ma gode di grande
prestigio agli occhi di tutti, cristiani,
pagani e musulmani, a tale punto
che, quando sorge una situazione difficile,
tutti guardano alla chiesa, ai vescovi,
a cosa dicono e come si comportano;
e i loro suggerimenti vengono
accolti con rispetto e attenzione.
Tale prestigio deriva dal fatto che la
chiesa lavora per la pace e la giustizia,
è coinvolta nell’azione sociale, educazione
e campo sanitario per il bene di
tutta la popolazione, senza alcuna distinzione:
la chiesa è per tutti e, come
dice il papa, «è esperta in umanità».
Monsignore, lei ha partecipato
al Forum per la riconciliazione…
Tra ottobre e dicembre 2001 si è svolto
tale evento che abbiamo accolto con
favore. Vi ho partecipato come rappresentante
della chiesa e come testimone
dei problemi che hanno provocato
le violenze nella diocesi. Oltre 700 delegati
di partiti politici e gruppi religiosi
hanno affermato la volontà di rimarginare
le ferite e ricostruire la convivenza
pacifica delle varie componenti
sociali. Sono state prese delle decisioni,
che ora devono essere attuate. Il
vero lavoro deve ancora incominciare e
siamo tutti coinvolti e responsabili.
Anche a San Pedro vogliamo contribuire
a tale processo. Stiamo preparando
un sinodo dal tema: «Annunciare
la buona novella di Gesù Cristo alle
popolazioni del sud-ovest della Costa
d’Avorio». Usiamo il plurale di proposito,
poiché tali popolazioni, autoctone
e straniere, sono numerose, ma devono
costituire una famiglia unica nel
sud-ovest avoriano; tutte devono vivere
in pace. È questa la missione nostra
e della chiesa in Costa d’Avorio: far sì
che tutte le etnie vivano e lavorino frateamente.

A proposito, qual è la situazione
della diocesi di San Pedro?

È una diocesi giovane: è stata creata il
23 ottobre del 1989, staccandola dal
territorio di Gagnoa. Si estende per una
superficie di 35 mila kmq e conta oltre
un milione di abitanti: è una popolazione
cosmopolita, composta da stranieri
di molte nazionalità africane e
tutte le etnie autoctone del paese.
In questi 10 anni abbiamo accelerato
l’organizzazione pastorale con la creazione
di nuove parrocchie: ora sono 13.
Abbiamo un buon numero di agenti di
pastorale: missionari stranieri, preti fidei
donum, tre sacerdoti autoctoni e
numerose suore: tutti, missionari e
missionarie, religiosi e clero locale lavorano
insieme in perfetta comunione.
Inoltre abbiamo trasferito la cattedrale
dalla città in questa zona, poiché la
cappella costruita nel primitivo quartiere
era troppo piccola e non c’è spazio
per sviluppare altre opere. In questa
zona, ribattezzata quartiere cattedrale,
abbiamo ottenuto un grande
terreno in cui sono stati già costruiti
un centro di formazione, l’episcopio,
una scuola cattolica e un grande salone,
che per ora funge anche da chiesa
parrocchiale.
La cattedrale è ancora in fase di progettazione;
ma un giorno riusciremo a
realizzare anche quest’opera.

Quali problemi e quali speranze
per San Pedro?

La regione del sud-ovest è stata trascurata
prima e dopo l’indipendenza.
La diocesi è molto estesa e buona parte
è foresta. Fino a una dozzina di anni
fa una pista congiungeva Abidjan a
San Pedro e Tabou. Ora abbiamo la strada
asfaltata che lega la capitale alla
frontiera con la Liberia. Ma le vie di comunicazione
con l’interno sono ancora
costituite da piste e sentirneri impraticabili,
specialmente durante i mesi delle
piogge. Speriamo che, con lo sviluppo
economico della regione, sia possibile
estendere l’evangelizzazione anche a
quei villaggi che non hanno ancora incontrato
un missionario.
Inoltre le strutture (scuole, chiese…)
sono scarse e mancano mezzi e personale
per costruirle.
La pastorale vocazionale è una priorità
della diocesi. Le vocazioni ci sono; bisogna
seguirle e formarle per avere preti
autoctoni. Abbiamo due diaconi diocesani;
presto saranno ordinati preti.
La carenza maggiore riguarda le comunicazioni
sociali, indispensabili per
l’evangelizzazione: abbiamo bisogno di
una radio cattolica, giornali e pubblicazioni
di vario genere per trasmettere
il messaggio del vangelo anche ai villaggi
più isolati.

Quali sono le iniziative più significative
nel campo della promozione
umana?

La Caritas è attiva in tutte le parrocchie.
Religiosi e religiose sono impegnati
in numerose iniziative di promozione
umana, come le varie attività di
formazione umana e religiosa che i padri
della Consolata hanno intrapreso
nella baraccopoli di San Pedro; un fratello
della Consolata si occupa della salute,
con il dispensario di Grand Béréby
e la formazione di agenti di pastorale
sanitaria nelle comunità della foresta.
In molte comunità esistono scuole di
alfabetizzazione.

Un’ultima domanda, monsignore:
cosa si aspetta per il futuro
dai missionari della Consolata?

Prima di tutto li ringrazio per aver portato
nella diocesi uno spirito veramente
missionario e un entusiasmo di cui
abbiamo bisogno. Grazie soprattutto
per la disponibilità: hanno scelto di lavorare
nella baraccopoli del Bardot, la
zona più difficile della diocesi; hanno
aperto una missione a Sago, nel cuore
della foresta; hanno accettato una terza
missione a Grand Béréby.

Per il futuro? Auguro loro di continuare
a lavorare come sanno fare. Se aprissero
una nuova missione, non potrei
chiedere di più.

Benedetto Bellesi




Missione a Plati

Cari missionari,
un amico mi ha consegnato Missioni Consolata indicandomi l’articolo «Lamponi a Natale» (dicembre 2003). Con mia grande sorpresa e gioia si afferma: «È giunta l’ora della missione ad gentes anche in Europa»!
Da anni vivo in un campo rom alla periferia della bella e turistica Pisa, mosso dalla convinzione che gli istituti missionari (appartengo ai Saveriani) oggi sono chiamati ad «allargare» ad intra la dimensione ad gentes… Mi rallegra sapere che voi ponete la questione sul tavolo. Vi fa onore. Buona missione.

L’articolo «Lamponi a Natale» riguarda Platì (RC), dove la missione «scotta». Anche per i missionari ad gentes.

p. Agostino Rota




I GRANDI MISSIONARI: Il vangelo gridato con la vita


Annalena Tonelli Missionaria laica, per 33 anni a servizio dei più poveri e disprezzati tra le popolazioni somale, Annalena Tonelli ha testimoniato l’amore di Dio con radicalità evangelica fino alle estreme conseguenze.  È salita alla ribalta solo dopo la sua morte, assassinata nel suo ospedale, a 60 anni.

Piccola ed esile come una canna, viso magro circondato dal velo, occhi azzurri di bambina, sorriso disarmante e volontà di ferro: il ritratto di Annalena Tonelli è presto fatto. Ha speso oltre metà della vita tra le popolazioni somale musulmane, con un solo scopo: amare Cristo nei più poveri dei poveri, fino alla morte, 5 ottobre 2003, assassinata alla fine del servizio ordinario ai suoi malati.
Ha sempre aborrito riflettori e pubblicità. In rare occasioni ha parlato di sé e del suo lavoro, per poi rammaricarsi. Nel dicembre 2001, in un convegno per la Pastorale della salute tenuto in Vaticano, costretta dagli amici, accettò di mettere in pubblico la sua storia straordinaria: è il suo «testamento missionario».


IL PRIMO AMORE
«Sono nata a Forlì, il 2 aprile del 1943. Scelsi di essere per gli altri che ero ancora bambina» cominciava così le sue testimonianze.
Mentre frequentava l’Università di Bologna, ferquentò movimenti giovanili «terzomondisti»: si appassionò alla vita di Albert Schweitzer e all’opera dei missionari.
Laureata in giurisprudenza, per sei anni prestò servizio ai poveri della città natale, ai bambini e bambine orfani e disabili.
«Credevo di non potermi donare totalmente rimanendo nel mio paese: i confini della mia azione mi sembravano così stretti, asfittici». Sognava l’India; scelse l’Africa, nonostante i familiari la sconsigliassero. «Partii decisa a gridare il vangelo con la vita, sulla scia di Charles de Foucauld, che aveva infiammato la mia esistenza. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri in Lui».
All’inizio del 1969 era a Chinga, in Kenya, insegnante nella scuola secondaria della missione di Karima; l’anno seguente in quella governativa di Wajir, dove un altro romagnolo, Salvatore Baldazzi, missionario della Consolata, aveva avviato una Girl’s Town, per bambine orfane di guerre e carestie. Lo stesso anno fu raggiunta da Maria Teresa e insieme iniziarono una comunità.
Gli inizi non furono facili in quella regione desertica del nord-est del Kenya, tra popolazioni somale poverissime, rigidamente musulmane. Quando si seppe dell’arrivo di una maestrina bianca, gli studenti, quasi suoi coetanei o di poco più giovani, giurarono al preside che le avrebbero impedito di entrare in classe: vi insegnò fino al 1974 e fu pure preside della scuola secondaria di Mandera. Oggi molti di essi occupano posizioni importanti nella vita politica ed economica del Kenya e si vantano di averla avuta come insegnante.
«Quasi subito m’innamorai di un bimbo ammalato di sickle cell (anemia falciforme) e fame – racconta Annalena -. Gli donai il sangue e supplicai gli studenti di fare altrettanto. Uno di loro lo donò e dopo di lui tanti altri, vincendo così la resistenza dei pregiudizi. Fu la mia prima esperienza in cui, in un contesto islamico, l’amore generò amore».
Nel frattempo aprì un Centro di riabilitazione per bambini poliomielitici, ciechi, sordi, epilettici. Altre amiche romagnole si unirono a loro, diventando mamme a tempo pieno dei disabili.
«Eravamo una comunità di sette donne, tutte, in maniera e misura diverse, assetate di Dio. Quando capivamo che stavamo per perdere il senso del nostro servizio e la capacità di amare, ci ritiravamo in un eremo, per uno o più giorni di silenzio, ai piedi di Dio: là ritrovavamo equilibrio, saggezza, speranza e forza per combattere la battaglia di ogni giorno, prima di tutto con ciò che ci tiene schiavi dentro».
Mentre le compagne portavano avanti il Centro, Annalena frequentava il reparto dei tubercolosi dell’ospedale di Wajir. «M’innamorai di loro e fu amore per la vita. Erano in un reparto da disperati: li servivo sulle ginocchia; stavo loro accanto quando si aggravavano e non avevano nessuno che si occupasse di loro. Non sapevo nulla di medicina. Cominciai a studiare e osservare, poi a supervisionare la cura dei pazienti dopo la dimissione dall’ospedale».

UN PROGETTO PILOTA
La scoperta di una nuova medicina rendeva possibile curare la Tbc in 6 mesi, anziché i 12-18 richiesti fino allora, purché la cura fosse continua e regolare: condizioni impossibili per i nomadi che, al primo segno di miglioramento, ritornavano alla vita randagia.
Nel 1976 il governo del Kenya le affidò la direzione di un progetto pilota per il controllo e cura della tubercolosi a Wajir. Annalena inventò un sistema per garantire le terapie giornaliere per i sei mesi necessari, senza cambiare le abitudini dei pazienti: organizzò centri di cura a cielo aperto, chiamati T.B. Manyatta (villaggio). I nomadi arrivavano con le loro capanne legate sulla groppa dei cammelli, le smontavano e ricostruivano la loro abitazione. Fatte le diagnosi con l’esame dello sputo al microscopio, per sei mesi le foiture dei farmaci erano assolutamente regolari e l’ingestione rigorosamente supervisionata. Quando il malato era guarito, veniva sparsa la voce e la famiglia del paziente appariva magicamente in una settimana o poco più per riportarlo nel deserto.
«La T.B. Manyatta fu una grande avventura d’amore, un dono di Dio» confessa Annalena. Nel 1978, a Nairobi, tale esperienza fu presentata al Congresso mondiale sulla tubercolosi: il metodo venne subito adottato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e, col nome Dots (acronimo inglese per «breve terapia sotto diretta osservazione»), è ora applicato in tutto il mondo.

GENOCIDIO SCONGIURATO

Nel febbraio del 1984, alcuni camion di militari irruppero in alcuni quartieri di Wajir, incendiando case e arrestando i somali del gruppo degodia, accusati di essere shifta (predoni) o legati alla guerriglia: 5-6 mila uomini furono presi e rinchiusi nell’aeroporto Wagalla; per quattro giorni vennero sottoposti a torture e angherie. Cosparsi di benzina e incendiati, la maggior parte riuscirono a salvarsi togliendosi i vestiti. I sopravvissuti furono caricati sui camion e abbandonati nel deserto.
Quando si sparse la notizia della liberazione, la gente corse alla ricerca dei loro uomini, portando cibo e acqua. Annalena fece altrettanto. Così testimonia Barbara Lefkow, moglie di un diplomatico americano, fisioterapista che spesso si recava al Centro di riabilitazione: «Dipinse una croce rossa sulla Toyota, portò acqua ai sopravvissuti, li raccolse e li curò nel suo Centro; riuscì a salvae molti. Compilò e mi consegnò una lista di morti, perché la portassi a Nairobi di nascosto».
Sorpresa dai miliziani a seppellire i morti, Annalena fu picchiata. La difese un vecchio capo musulmano, confessando che lui non aveva fatto nulla per salvare la sua gente, mentre quella «straniera» aveva rischiato la vita; e gridò forte, perché tutti lo sentissero: «Nel nome di Allah, io ti dico che, se noi seguiremo le tue orme, noi andremo in paradiso».
Gioali e Bbc parlarono a lungo dell’intervento di Annalena; la lista dei morti e poi le fotografie arrivarono nelle ambasciate di vari paesi occidentali: il governo kenyano dovette porre fine al genocidio. «Avrebbero dovuto sterminare 50 mila persone. Ne uccisero mille» racconta Annalena.
Sfuggita miracolosamente a due imboscate, la missionaria fu arrestata e, portata davanti alla corte marziale, fu bandita dal Kenya nel 1985.

L’AMORE FA MIRACOLI

Dopo qualche mese in Italia, Annalena andò in Spagna per seguire un corso di specializzazione sulla lebbra, poi in Inghilterra, dove conseguì il diploma in medicina tropicale. Nel 1987 partì per la Somalia e prestò servizio volontario a Belet Weyne, in una struttura medica che faceva capo al ministero degli Affari esteri italiano e diventò responsabile del controllo della tubercolosi della regione del nord-est.
Intanto nel paese dilagava la guerriglia: nell’agosto del 1990, insieme al suo team di medici e infermieri, fu aggredita, derubata e sequestrata da un gruppo di ribelli. Le truppe governative riuscirono a liberarli. Per la seconda volta Annalena era miracolosamente viva, ma strappata ai suoi poveri e malati. Da Mogadiscio continuò a spedire loro aiuti e medicinali.
Costretta a lasciare temporaneamente la Somalia, Annalena vi fece ritorno nel marzo del 1991, a Merca, 50 km a sud di Mogadiscio. Vi regnavano anarchia totale e fame nera, come nel resto del paese, privo di tutto: ospedali, dispensari, scuole.
Con grinta da manager e il coinvolgimento della Caritas italiana, prima in denaro e poi con l’invio di volontari, Annalena fece fronte alle varie emergenze: carestia, rifugiati, bambini soli e affamati, bisognosi d’ogni genere e costruì un complesso sanitario e scolastico che ha del miracoloso.
«Cercò di creare speranza, incoraggiando la gente a muoversi, a ricostruire, specialmente se stessi – scriveva in una lettera del 1993 -. Siamo 8 europei, con 131 collaboratori somali: prepariamo 5 mila pasti al giorno; curiamo l’ospedale per Tbc con 148 pazienti, il day hospital con 250 bambini, più di 400 pazienti in terapia antitubercolare, piccoli gruppi di lebbrosi ed epilettici». Organizzò classi elementari e artigianato per i bambini, scuole coraniche per piccoli e grandi, di alfabetizzazione per adulti.
Al tempo stesso Annalena doveva lottare contro l’ambiente culturale. «La tubercolosi – racconta nel suo testamento – è stigma e maledizione: segno di una punizione di Dio per un peccato commesso, aperto o nascosto; per cui si incontra gente che si rifiuta di essere diagnosticata, curata e guarita, per non ammettere di essee affetta».
Furono anni drammatici, che la missionaria sintetizza così: «Sono stata tra guerre e conflitti, testimone di devastanti carestie, violazioni di diritti umani e genocidio: credevo che in vita mia non avrei mai più sorriso, se fossi sopravvissuta a quelle catastrofi».
Tenerissima con i poveri e malati, Annalena era rocciosa e inflessibile con i potenti e prepotenti. Negli ultimi due anni dovette affrontare estenuanti beghe, ricatti, ripetute minacce, un’aggressione e qualche percossa da parte di predoni, capi clan, signori della guerra, fondamentalisti islamici: tutti attirati dall’odore dei dollari che arrivavano per le opere di Merca. Finché passò il testimone a una dottoressa inviata dalla Caritas italiana, Graziella Fumagalli, assassinata tre mesi dopo, con tre colpi d’arma da fuoco alla testa, mentre stava curando un ammalato: era la domenica del 22 ottobre 1995, giornata missionaria mondiale.

«PRINCIPESSA DI BORAMA»
L’Oms le affidò l’ospedale di Borama, cittadina di 100 mila abitanti nel Somaliland, regione relativamente tranquilla nel nord-ovest del paese. Vi arrivò nel 1996. L’accoglienza non fu cordiale: i bambini tiravano i sassi contro la sua casa, gridando: «Allah, tieni lontano quel diavolo bianco!». Ma poi, col passare del tempo, governatore, sindaco, anziani, capi clan e tutto il villaggio era con lei, fino a darle il nome di «Sara Borama» (principessa di Borama). Gli adulti la chiamavano mamma, i bambini nonna.
Cominciò da zero. Con l’aiuto di organismi mondiali (Oms, Unhcr, Undp) e nazionali (Caritas, Comitato contro la fame nel mondo di Forlì) l’ospedale passò da 30 a 250 posti letto, più un centinaio di capanne; uno staff di oltre 50 persone tra medici, infermieri e tecnici di laboratorio; 118 pazienti curati il primo anno; 1.300 il secondo.
Due volte all’anno organizzava campagne per i ciechi: in quattro giorni, un gruppo di amici specialisti operavano di cataratta oltre 330 pazienti: più di 3.700 persone hanno riacquistato la vista.
Al tempo stesso fu avviata la scuola per i figli dei tubercolosi e disabili (la prima in tutta la Somalia e Djibuti), poi ampliata per accogliere i «normali», diventando una fucina di integrazione, tra alunni «normali» e bambini poliomielitici, mutilati di guerra, ciechi, sordi, rifiuti della società (figli di fabbri, conciatori, barbieri, etnie disprezzate). Per vivere e giocare con i sordomuti, i «normali» hanno imparato l’alfabeto muto.
«È una delle esperienze più consolanti e incoraggianti, più capaci di dare speranza in un mondo in cui gli uomini vorranno essere e saranno una cosa sola» racconta Annalena.
Nell’aprile 2003 l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), le assegnò il Nansen Refugee Award, il più importante premio assegnato a chi si occupa di profughi. Oltre a riconoscere la sua opera e i valori a cui si ispira, disse l’alto commissario Ruud Lubbers, il premio voleva «dimostrare che con mezzi limitati, ma con passione ed energia senza limiti, molte vite possono essere salvate e riaccendere la speranza in molti disperati».
Schiva da ogni visibilità, Annalena avrebbe voluto rinunciare; ma gli amici la convinsero a ritirare il premio (una medaglia e 100 mila dollari), anche perché quella era un’occasione per attirare l’attenzione sulla sua «amata Somalia».

«SONO NESSUNO»
A chi le domandava come facesse a gestire una struttura ospedaliera per mille malati, spendendo appena 1.000 dollari al mese, rispondeva: «Nessun segreto: non ho due basi a Nairobi e in Europa o in America; non ho da pagare stipendi da capogiro al personale espatriato; non compro nulla all’estero».
Essa stessa viveva nella più dignitosa e radicale povertà: due tuniche, due scialli e qualche libro era tutto il suo corredo. «Io sono “nobody”, nessuno – diceva di se stessa -. Vivo a servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza stipendio, senza versamento di contributi per la vecchiaia. Sono una cristiana, con una fede incrollabile, rocciosa, che non conosce crisi dai tempi della giovinezza… che mi manda avanti in condizioni di grande difficoltà».
Ed era felice. «Io impazzisco, perdo la testa per i brandelli di umanità ferita – si legge nel suo testamento -; più sono feriti, maltrattati, disprezzati, senza voce e di nessun conto agli occhi del mondo, più li amo. Non è merito, ma un’esigenza della mia natura. Rido di chi pensa che la mia sia una vita di rinuncia e sacrifici. La mia è pura felicità; chi altro al mondo ha una vita così bella?».
Unica «sofferenza indicibile» era la povertà spirituale: non aveva nessuno che condividesse la sua fede rocciosa e con cui condividere ciò che provava e sentiva dentro, eccetto il vescovo di Djibuti che, due volte l’anno, attorno a natale e pasqua, andava a Borama per celebrare la messa solo per lei e con lei.
A Borama, come era capitato a Wajir, la gente pregava per la sua «salvezza», cioè, perché diventasse musulmana. Gliene parlavano spesso, con discrezione. Ma, dopo che un imam aveva predicato che in tutta la sua vita non aveva mai visto fare quello che faceva quella «infedele» e che anch’essa sarebbe andata in paradiso, la lasciarono in pace.
Integrata profondamente nella vita della gente, Annalena poteva dire: «Ai somali molto ho dato. Dai somali molto ho ricevuto». Tre doni soprattutto: il valore della famiglia allargata, in cui tutto è condiviso, almeno all’interno del clan; l’esempio di preghiera, cinque volte al giorno, con l’interruzione di qualsiasi cosa per dare tempo e spazio a Dio; l’esempio di fede rocciosa, specie dei nomadi del deserto, l’abbandono incondizionato e la resa a Dio.
E continua: «Poi la vita mi ha insegnato che la mia fede senza l’amore è inutile… che l’eucaristia racchiude un messaggio rivoluzionario: “Questo è il mio corpo, fatto pane, perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini”».

L’ULTIMA BEATITUDINE
Ma agli occhi dei musulmani più fanatici Annalena aveva tre vizi capitali: era bianca, per cui considerata di razza inferiore a quella somala; era donna, per ciò di nessun peso in una società maschilista; era cristiana, quindi temuta, disprezzata, rifiutata; non era sposata, un assurdo in un mondo in cui il celibato non esiste ed è un non valore.
Inoltre, tubercolosi, Aids, disabilità, epilessia, malattie mentali… per gli integralisti sono sinonimi di castigo di Dio: Annalena aveva fatto di Borama un paese maledetto, screditato in varie parti del mondo dove era giunta la fama della sua opera.
Negli ultimi due anni, poi, Annalena aveva lottato contro certe aberrazioni culturali: con due infermiere ostetriche e due capi locali, portava avanti una grossa campagna per eradicare l’infibulazione e altre mutilazioni femminili. A qualcuno non andava a genio che una donna, bianca, infedele, cercasse di cambiare la loro cultura.
Un imam predicò che quella «infedele» se ne doveva andare: un gruppo di persone presero a sassate il centro ospedaliero, che dovette essere chiuso per tre mesi. Seguirono altre intimidazioni, finché la sera di domenica 5 ottobre 2003, appena rincasata dal solito giro in ospedale, Annalena fu assassinata con due colpi di pistola alla testa.
Si è parlato di un pazzo, di banditi, di vendetta, di fondamentalisti… Serve a poco scoprire il colpevole. Rimane la verità e la logica di tutta la sua esistenza: Annalena ha predicato il vangelo con la vita, vivendolo fino all’ultima beatitudine: «Vi perseguiteranno per causa mia; mentendo, diranno ogni male contro di voi; vi metteranno a morte, credendo di dare gloria a Dio».

Benedetto Bellesi




CAPO VERDE – Baciate dal sole, sferzate dai venti

Una dozzina di isole, di cui solo nove abitate.
Non arrivano brutte notizie: non vi è televisione
e il telefono funziona male. Gente amabile e allegra,
povera, ma dignitosa, in lotta contro le carestie,
sostenuta dai cappuccini piemontesi.

I l volo dura quasi sei ore. Sorvoliamo il deserto tra Marocco e Mauritania, poi un largo tratto di oceano, prima di atterrare su un lembo di terra arida, scura e inospitale. Poco più di una piattaforma che consente di atterrare in mezzo all’oceano. E siamo a Sal, una delle 9 isole abitate dell’arcipelago di Capo Verde. L’aeroporto fu costruito dagli italiani durante il fascismo, quando gli aerei dovevano sostare per i rifoimenti di carburante, prima di raggiungere il Brasile.
I volontari che hanno viaggiato con me proseguono per l’isola di Fogo, dove devono montare la sala operatoria dell’ospedale del centro San Francesco dei cappuccini piemontesi. Siamo partiti con un piccolo bagaglio a mano, per lasciar posto alle attrezzature da trasportare.
Per molti di essi questo non è il primo viaggio a Fogo. Maria Teresa Monte, moglie di un medico di Buttigliera, è da anni impegnata nel cornordinare la raccolta di materiale e apparecchiature ospedaliere. Artigiani, medici, architetti, vengono a passare nella missione parte delle loro vacanze con grande entusiasmo.
TRA ELISEI A ANTIELISEI
I primi a raggiungere l’arcipelago di Capo Verde furono forse navigatori arabi. I portoghesi arrivarono qualche anno prima della scoperta dell’America, insieme a un genovese, Antonio da Noli. Situate nel cuore del mondo, nel crocevia fra Europa, Africa e Americhe, le isole divennero poi la base per i traffici col Nuovo Mondo, compreso il mercato degli schiavi africani.
Durante i secoli della conquista coloniale arrivarono olandesi e francesi, inglesi e italiani. Le isole si popolarono così di gente di diverse lingue e tradizioni.
Il vento ha sempre avuto un ruolo importante. Gli alisei, che soffiano per 6 mesi verso ovest, aiutavano i navigatori nella traversata. Per altri sei mesi riportavano in Europa le navi, sospingendole però verso una rotta più a nord. In inverno arriva anche l’harmattan, un forte vento sahariano, che rende aride e polverose le campagne.
Nei secoli scorsi vi sono stati terribili periodi di carestia, che provocavano la morte per inedia di un’alta percentuale di abitanti.
Oggi ci sono molti più capoverdiani all’estero che in patria; le loro rimesse contribuiscono in modo determinante al benessere delle isole. L’area di Boston (Usa) e i paesi europei sono i preferiti. Tra questi il Portogallo, che ha dovuto concedere l’indipendenza nel 1975, dopo secoli di dominio coloniale.
Capo Verde ora è una repubblica democratica indipendente, che ha migliorato le condizioni di vita dei suoi abitanti e ha stretti rapporti con la comunità internazionale.
I cappuccini arrivarono nel 1945 a Mindelo, città portuale dell’isola di São Vicente, al seguito dell’esercito inglese, che li aveva inteati dopo la conquista dell’Eritrea. Ritornati in Italia, avevano descritto ai superiori la situazione drammatica trovata nell’isola. Le carestie sono sempre state una costante nell’arcipelago; il cui clima estremamente arido non consente coltivazioni redditizie.
DAL SALE AL SURF
L’isola di Sal deve il suo nome all’unica risorsa: una salina dalle strutture abbandonate, nel centro di un cratere. Oggi, i suoi abitanti cercano di fare conoscere il loro mare e le spiagge a un turismo di sportivi. Gli amanti del surf vi trovano le condizioni ideali per praticarlo.
Il paesaggio è lunare, segnato da strade diritte e incroci con strade inesistenti. Qualche gruppo di nuovi edifici lungo la costa non migliora l’ambiente. Solo i colori vivaci delle vecchie case riescono a rompere una monotonia deprimente.
Un breve volo ci porta a Praia, capitale dell’arcipelago, situata sull’isola di Santiago. La sera scende improvvisa. Le luci e il traffico fanno apparire Praia vivace e attiva.
La mattina una bruma grigia pesa sull’orizzonte. Il nucleo di edifici coloniali è situato su uno sperone alto sul porto, dove arrugginiscono le carcasse di due navi abbandonate. Troverò colore e suoni nel mercato degli alimentari accanto alla cattedrale. La gente è bella e fiera, risultato di incroci tra arabi e africani, portoghesi e altri europei. La cultura è particolare, la musica sicuramente è la parte più interessante.
A Praia i cappuccini hanno un’amica, Tetè, cantante magnifica, che ama il nostro paese e si è anche esibita a Torino, al Piccolo Regio, per far conoscere le opere di padre Ottavio. La sera la trascorriamo nella sua casa in riva all’oceano, insieme ai tre figli e al marito, un dentista messicano conosciuto durante gli studi fatti a Cuba.
Dopo l’indipendenza (1975), Capo Verde è stata a lungo nell’orbita sovietica, con stretti rapporti di collaborazione con Cuba. I medici nelle isole sono in gran parte cubani.
ALL’OMBRA DEL VULCANO
Fogo, l’isola scelta da padre Ottavio Fasano per il centro socio sanitario di «San Francesco», è un vulcano tuttora in attività. L’ultima eruzione risale al 1996: gli abitanti dovettero essere evacuati.
Questo cappuccino, nato a Racconigi, entusiasta e testardo, dopo aver realizzato molte opere nell’arcipelago a favore della popolazione (asili, ristrutturazioni e costruzioni, cistee), con l’aiuto del torinese Mario Bollito, nel 1992 ha fondato Radio Nova, che trasmette tutti i giorni e copre tutte le isole, e un settimanale Terranova.
Convinto che anche i cappuccini dovessero entrare nel mondo dei media con professionalità e competenza, nel 1982 aveva fondato a Torino la Nova T, casa di produzione televisiva, che vende in tutto il mondo. Recentemente ha fatto scalpore il fatto che uno dei loro filmati sulle guerre dimenticate sia stato acquistato da una televisione araba.
Arriviamo sull’isola di Fogo mentre è in programma l’inaugurazione della centrale elettrica, che darà la luce a un villaggio. I generatori vengono dall’Italia, donati ai cappuccini. Arriviamo sul posto nell’oscurità totale. Due ministri di Capo Verde sono presenti, insieme al sindaco di São Felipe e a padre Ottavio, che da anni mantiene cordiali rapporti con il governo. Dopo lunghi discorsi, finalmente si effettua il collegamento: i lampioni si illuminano tra l’emozione generale.
Padre Ottavio ora sta per realizzare un sogno: dotare l’isola di una struttura medica modea e attrezzata anche per le urgenze chirurgiche. Il centro San Francesco sorge in una magnifica posizione sull’oceano, a poca distanza dal capoluogo dell’isola, São Felipe. Gli ambulatori, divisi per specialità e perfettamente attrezzati, sono già operativi. La piccola chiesa, al centro del complesso, e la foresteria devono ancora essere completati, ma la comunità è attiva e impegnata.
Tra i numerosi volontari incontro Attilio, impegnato tutto il giorno come dentista. Anacleto è neurologo psichiatra: ha girato il mondo ed è approdato qui, dove pare vi sia molto bisogno delle sue cure. Il dott. Durando è chirurgo alle Molinette di Torino, appassionato velista, da anni coinvolto nei progetti dei cappuccini. Questa è la quarta volta che trascorre le ferie lavorando al centro.
Iolanda è la veterana del gruppo: analista di laboratorio, da quando è andata in pensione, due anni fa, si è trasferita a Fogo. Oramai conosce tutta l’isola e, con il suo carattere espansivo, tiene i contatti tra il centro e la gente del posto.
Grazie all’appoggio dei cappuccini, alcuni giovani capoverdiani hanno trascorso un periodo di studio in Italia, presso l’istituto alberghiero di Mondovì, ospiti di famiglie piemontesi. Mentre i suoi compagni hanno trovato lavoro nei villaggi turistici di Sal, Edna è rimasta a São Felipe, per lavorare nel centro.
Padre Ottavio ha in mente un nuovo progetto: costruire sui terreni donati dalla comunità capoverdiana un complesso residenziale, da affittare ai turisti: il ricavato contribuirà a mantenere il Centro che, data la sua importanza, avrà bisogno di notevoli risorse.
Dobbiamo far conoscere l’incanto di queste isole, fortunatamente ancora lontane dal turismo di massa. I paesaggi qui possono provocare sensazioni forti, ma il sorriso e l’amabilità della gente rende il soggiorno piacevole.
Per chi ha la forza di affrontare tre ore di fatica, l’ascesa al vulcano è un’esperienza da non perdere. Una giovane guida ci indica i punti in cui è meglio passare, perché il sentirnero non è segnato. Guardando dal basso le pareti lisce del vulcano, non avrei creduto di poter arrivare fin sul ciglio del cratere, un sottile orlo di rocce che riesco a raggiungere aiutandomi a forza di braccia. Lo spettacolo è grandioso, con l’oceano ricoperto da una coltre di nubi.
L’ULTIMO LEBBROSO
Casa Betania è un complesso di case bianche, circondate da oleandri, costruito in epoca coloniale in un luogo isolato e suggestivo, a pochi passi dal mare. Era un lebbrosario; ora ospita l’ultimo lebbroso, un anziano che soffre molto, a causa di un arto incurabile, che dovrà essere amputato.
Suor Teodora, una delle tre suore francescane del centro di San Francesco, ha deciso di portarlo a Praia, dove sarà accudito. «Se potessi restare accanto a lui, non soffrirebbe così» mi confida la suorina dal sorriso dolcissimo.
Nell’arcipelago ci sono diverse congregazioni di suore, tutte capoverdiane. Teodora è nata a Fogo, dove ha studiato in una scuola cattolica. Quando a tredici anni espresse il desiderio di farsi suora, trovò l’opposizione dei genitori. I sette fratelli maggiori di lei erano già emigrati a Boston, dove avevano trovato lavoro. Suor Teodora aveva le idee molto chiare. Sarebbe rimasta nell’isola, per aiutare la sua gente.
Ora, a distanza di anni, i genitori sono molto contenti di averla vicina. L’estate ricevono le visite di figli e nipoti americani. Quasi tutti gli emigrati ritornano, dopo una vita di lavoro all’estero. Intanto restaurano le vecchie abitazioni o ne costruiscono di nuove, dove trascorrono le vacanze.
«MANDATEMI… TURISTI»
Tutta l’isola di Fogo è magnifica, dominata dal cono perfetto del suo vulcano. Le spiagge hanno la sabbia fine, lucente e nerissima. L’oceano fa paura, con le onde gigantesche e la risacca. Ma si possono trovare cale tranquille, tra le rocce vulcaniche.
Le strade sono belle, pavimentate con piccole tessere di pietra, un lavoro fatto durante l’epoca coloniale dalle maestranze locali. Nel capoluogo, il nucleo di case coloniali ha colori pastello e comprende un vivace mercato, la chiesa, un piccolo museo delle tradizioni, tenuto da una signora svizzera, che ha deciso di passarvi il resto dei suoi anni.
Padre Orfeo, battagliero e deciso, abita a Mosterios, villaggio sulla costa nord di Fogo. Un luogo isolato, povero, umido, con qualche casa sparsa, tra campi coltivati. Strane piante succulente ricoprono le rocce vulcaniche a strapiombo sullo stretto litorale.
Qui la vita è molto semplice: si sopravvive lavorando la poca terra, che sembra molto fertile. Orfeo alleva galline, cura un asilo e la chiesa, che avrebbe urgente bisogno di restauro. «Mandatemi turisti, non volontari – dice con gli occhi lampeggianti -. Qui devo far lavorare la gente, stimolare i giovani: abbiamo bisogno di denaro».
Con le offerte che riceve, Orfeo aiuta gli studenti più bravi a proseguire negli studi. Quando i ragazzi si inseriscono nel mondo del lavoro, restituiscono quanto hanno ricevuto; così vengono finanziati altri giovani.
Originario di Bassano del Grappa, Orfeo partì giovane missionario per l’Angola, colonia portoghese. Restano i ricordi della foresta dove si trovava la missione, un «paradiso» a 600 metri sul mare, circondata da miniere di rame e piantagioni di caffè.
Arrivato a Capo Verde 25 anni fa, dopo essere stato a São Vicente, Sal e São Nicolão, Orfeo ha trascorso a Mosterios gli ultimi 12 anni. Una sua frase mi rimarrà impressa. «Più si diventa vecchi, più la vita diventa bella». Tutte le mattine, 80 bimbi affollano la mensa dell’asilo, mangiano uova e carne di pollo. «La soia che mi mandano fa i vermi e la do ai maiali» precisa.
Poi si parla di turismo, ma quale? Forse quello consapevole, che cerca di scoprire le realtà dei paesi, non solo sfruttae le bellezze e il clima. Le isole non sono una meta facile, la natura pare ostile, forse più di quello che è in realtà. Sarà anche per via delle rocce vulcaniche, drammatiche nelle forme e nel colore. Ma per chi è alla ricerca di luoghi lontani da traffico, mondanità e rumori, questo è un posto giusto.

Claudia Caramanti




COSTA D’AVORIO – Vangelo in bicicletta

L’autore dell’articolo, consigliere generale,
ha accompagnato il superiore generale nella visita canonica in Costa d’Avorio, paese martoriato
dalla guerra civile, dove i missionari continuano a condividere rischi, privazioni e speranze della gente.

Tutto è iniziato a Roma, attorno a due tabeacoli. Uno nuovo di zecca, con raggiera dorata; l’altro di seconda mano; il primo pieno di rosari; il secondo di vestitini per bambini. Ambedue imbottiti in soffici vestiti nuovi e adagiati in due scatoloni di cartone. Tutto ubbidiva ai più esigenti requisiti dell’arte dell’imballaggio.
A Fiumicino il primo intoppo: «Quelle cose lì non sono ammesse nei nostri aerei! Sono ingombranti!». Mi venne un brivido istantaneo, come quando a Mepanhira (Mozambico), gli iconoclasti marxisti mi dissero che, oltre alla chiesa, era nazionalizzato anche il Cristo dentro il tabeacolo. All’aeroporto la cosa era meno grave: il tabeacolo destinato a Cristo, «segno della presenza di Dio» era solo «ingombrante»; in entrambi i casi, però, le parole mi suonarono irriverenti e dissacranti. Ma, spiegato il contenuto degli scatoloni e identificati i portatori, i tabeacoli sono partiti.
Secondo intoppo ad Abidjan: solo un tabeacolo comparve sul tapis roulant; dell’altro abbiamo dato i connotati, con la vaga speranza di recuperarlo chissà quando.
Fuori ci aspettavano i padri Zachariah King’aru, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio, e Pietro Villa, preoccupati per il ritardo prolungato. «Non diteci che avete ritardato tanto a causa dei tabeacoli» ci salutarono: una battuta che coglieva tutto il senso della situazione.
Così la storia dei tabeacoli ci ha accompagnato per tutta la durata della visita. È normale smarrire un bagaglio viaggiando in aereo; ma il nostro non era un bagaglio comune!

A San Pedro passammo quasi due settimane di fratea comunione e condivisione con tutti i confratelli presenti in Costa d’Avorio. I primi 4 giorni furono dedicati alla «formazione permanente», trattando vari argomenti di attualità: il cammino missionario fatto in Costa d’Avorio dal 1995 al presente, la situazione politica e sociale del paese, ancora dilaniato da tensioni, le sfide ecclesiali e missionarie. Da tale lettura e confronto sono state aggiornate le linee operative di evangelizzazione per il futuro.
Poi iniziò la visita canonica vera e propria alle missioni del nord, nella diocesi di Odienné, a più di 500 km da San Pedro: Dianra dove lavorano i padri Ramón Lázaro e Michael Wamunyu, e Marandallah, dove sono da poco arrivati i padri Flavio Pante e José Martín Sea.
Ma è stata una visita «virtuale»: abbiamo potuto «visitare» solo i quattro confratelli, senza poter mettere piede nelle missioni, perché situate nel territorio controllato dai ribelli e quindi per noi irraggiungibile. Il paese, infatti, continua a essere diviso in due. I quattro missionari sono forzatamente abituati a vivere per mesi isolati da quelli che lavorano nella regione sud-occidentale.
Lavorano tra i senoufo, in maggioranza di religione tradizionale. Cristiani e musulmani sono pochi e le relazioni che intercorrono tra di loro sono buone. La loro è pure una presenza di solidarietà: corrono gli stessi rischi e condividono i medesimi stenti della gente, poiché comincia a mancare tutto e niente più funziona (telefono, posta e altri servizi).
E anche sotto l’aspetto ecclesiale la situazione non è rosea: il vescovo della diocesi, per il momento, si trovava ad Abidjan per motivi di salute e di sicurezza; il clero è ridotto a mezza dozzina di preti o poco più. E non si sa fino a quando durerà tale situazione.
Nonostante tutto, i quattro missionari hanno trasfuso a tutti noi tanta allegria e serenità. A Dianra e a Marandallah il lavoro non si ferma. Le strutture sono ridotte all’osso. Bicicletta e motoretta (prendendo in affitto veicolo e conduttore) da tempo sostituiscono le auto, per sottrarle alla cupidigia dei ribelli o da chi per essi. È capitato a padre Zachariah: tornava da una visita a questi confratelli del nord, fu fermato, l’auto requisita, la sua persona condannata a morte; ma si è salvato miracolosamente, grazie a un diverbio, scoppiato in estremis, tra alcuni componenti della banda.

L a visita continua, reale questa volta, alla missione di Grand Béréby, a circa 50 km da San Pedro, in una posizione incantevole, affacciata sull’oceano. I padri Pietro Villa e Jean Willy Ipan e fratel Rombaut Ngaba vi lavorano da quasi quattro anni e già si parla di consegnarla alla diocesi, secondo la convenzione fatta a suo tempo. Ma il vescovo ha fatto capire che è ancora presto, perché sia la diocesi che i suoi sacerdoti sono giovani.
A Grand Béréby, lavoro religioso e promozione umana vanno a braccetto. Fratel Rombaut ha organizzato un dispensario che, oltre ad attendere i malati vicini, ha tessuto una rete di assistenza a tutti i villaggi della parrocchia e prepara infermieri non qualificati, ma capaci di prestare i rimedi più immediati alle comunità della foresta.
Queste iniziative, assieme al dispensario «Consolata» di San Pedro, sono finanziate dai confratelli del Canada e costituiscono la pupilla degli occhi del vescovo. L’impegno nel migliorae i servizi tende a infondere in queste opere una vera e propria dimensione religiosa, perché diventi «ministero degli infermi».
Se si eccettua qualche infiltrazione di banditi, provenienti dalla Liberia, a Grand Béréby non ci sono problemi di guerriglia, anche perché le truppe francesi giocano di anticipo.

D a Grand Béréby siamo passati alla grande missione di Sago, 140 km oltre San Pedro. A farla «grande» sono i fabbricati in muratura, unici in tutto il villaggio: la bella casa costruita da fratel Pietro Menegon, l’imponente chiesa iniziata da padre Flavio e finita da padre Zachariah, l’asilo e il bel convento delle suore di Santa Gemma Galgani. Grandezza riconosciuta anche dal sindaco del posto; ci ha detto: «Prima del vostro arrivo, Sago non era niente; ora, invece, tutti la conoscono e la invidiano».
Attualmente Sago è la comunità più numerosa, vi operano i padri Zachariah King’aru, Victor Kota, Joseph Omondi e Killian Wambua. Due di essi erano da tempo destinati a una missione nuova, che la guerra ha impedito di aprire.
La parrocchia è divisa in settori pastorali, ciascuno con a capo uno dei missionari. Nella zona c’è una forte presenza di stranieri, soprattutto immigrati dal Burkina Faso. Le lingue sono molte: in chiesa, oltre al francese, tutto è tradotto almeno in altre due lingue.
È questo uno dei grandi problemi, non solo religiosi, di tutta la Costa d’Avorio: gli stranieri sono circa il 35% della popolazione e per lo più sono discriminati in tutti i sensi.
La visita si è conclusa di domenica, con una bella celebrazione eucaristica e grande partecipazione di fedeli, fino a riempire la chiesa. E sono tornati in ballo i tabeacoli. Quello nuovo, che non si era perso, era destinato a questa chiesa. Portato all’altare nella bella processione di offertorio, fu solennemente benedetto da padre Trabucco e collocato in un luogo provvisorio. Pareva tanto grande; invece sembra scomparire nella grande chiesa. Ora è «abitato». Attirerà certamente tanta gente, stimolata dall’esempio di missionari e missionarie.
T oati a San Pedro, abbiamo nuovamente incontrato tutti i confratelli in assemblea finale, per prendere visione della relazione dei visitatori, discutere e rispondere a due importanti interrogativi: che fine farà l’esperienza di «inserzione», iniziata in mezzo ai baraccati del Bardot e ora interrotta? Ce ne sarà un’altra per sostituirla? Dove e quando?
Si è discusso molto sulla spiritualità dell’«inserzione»: essa consiste nel vivere in «mezzo ai poveri con mezzi poveri». È un ideale su cui tutti i confratelli sono d’accordo e tutti vogliono perseguire nel proprio lavoro missionario; ma le iniziative concrete di inserzione nelle varie comunità devono essere studiate bene e abbinate alle parrocchie. Casi di «inserzione pura», cioè progetti staccati da una parrocchia, come voleva essere quella del Bardot, in futuro devono essere ponderati e assunti da tutti i componenti del gruppo operante nel paese.
Anche la seconda domanda ha ricevuto una risposta definitiva: la nuova apertura avverrà nei primi mesi del 2004 e sarà a Grand Zattry, quasi a metà strada tra le comunità del nord e quelle del sud.

Che fine ha fatto l’altro tabeacolo? Curiosità legittima! Ebbene, tra una discussione e l’altra, padre Flavio è riuscito ad aggiustae la porticina, lo ha lucidato fino a farlo apparire quasi nuovo; poi lo ha rimesso nello scatolone per portarlo nelle missioni del nord.
Sembra che, nell’ultimo tragitto, il tabeacolo non abbia incontrato intoppi. E quando sarà abitato dal Signore, diventerà un’altra sorgente di forza e coraggio per i missionari, di consolazione e speranza per i fedeli di quella terra tanto martoriata.

Norberto Louro




BOLIVIA – “Che fatica essere boliviani”

Con l’Argentina e Venezuela, la Bolivia è nell’occhio del «ciclone latinoamericano»; ma con differenze sostanziali: per esempio, non ha un accesso al mare.
La povertà si tocca con mano. Povero anche democraticamente, specialmente se si vive sotto tutela. E si muta governo ad ogni batter di ciglio.

All’inizio del nuovo millennio le nazioni che possono essere definite «democrazie» sono 86 su 193. Se un sistema politico è democratico allorché garantisce partecipazione alle decisioni e pluralismo politico, la Bolivia è un paese che può e vuole definirsi tale. Ma ha sofferto a lungo (e ancora soffre) per tale conquista.
Della Bolivia ci ha parlato Mauro Bertero Gutiérrez (*), stimolato da alcune domande e considerazioni.
STORIA POLITICA TORMENTATA
«Con il presidente Heán Siles Zuazo, 20 anni fa – ricorda il dottor Bertero -, siamo tornati alla democrazia. In una lunga storia repubblicana, caratterizzata da frequenti golpe di stato (oltre 170 presidenti in circa 150 anni), la Bolivia ha subìto gravi perdite territoriali nelle guerre coi vicini. Nella guerra contro il Cile (1879) la perdita vitale dell’accesso al mare: il Litoral marítimo, ancora oggi rivendicato (per questo le relazioni diplomatiche tra Bolivia e Cile si limitano a rappresentanze consolari e non di ambasciata); nel 1904 la cessione al Brasile dell’Acre, ricco di caucciù; nel 1933 il Chaco nel conflitto con il Paraguay. Complessivamente i territori perduti ammontano a circa 1 milione di kmq».
La mancanza di una via diretta al mare ha segnato i destini della Bolivia sia in senso commerciale, sia limitando l’immigrazione, specie verso l’Europa. La Bolivia annovera una numerosa popolazione indigena, che supera il 57% degli abitanti.
Dottor Bertero, che cosa è successo nella struttura politica boliviana dal 1982 ad oggi?
«Per capire, bisogna risalire alla rivoluzione nazionale del 1952, paragonabile a quella del 1900 in Messico e a quella cubana alla fine degli anni ’50. La rivoluzione boliviana poggiava su tre pilastri: voto universale (prima del 1952 indigeni e donne non votavano: ndr), riforma agraria e nazionalizzazioni.
Sono seguiti 12 anni di governo rivoluzionario con il cambiamento della Costituzione nel 1964 e un colpo di stato».
«Nel 1969-70 si sono avuti vari governi, sino al colpo di stato che ha portato al potere il generale Juan José Torres, di sinistra, ma che ha governato pochi mesi, perché destituito dal colonnello Hugo Banzer Suárez. Questi ha stretto forti legami con gli Stati Uniti e ha instaurato una rigida dittatura, tentando di rilanciare lo sviluppo economico, a spese però delle masse popolari, sollevando un’ondata di agitazioni che ne hanno determinato l’isolamento del paese».
E dopo questo evento?
«Nel 1978 c’è stata la pressione statunitense di Jimmy Carter e, sino al 1982, si sono succeduti sei governi di transizione, in seguito ai quali è ritornata la democrazia con Heán Siles Zuazo, che sosteneva: È necessario che questa terra continui ad essere la terra di uomini liberi! Il suo governo ha tentato invano di varare misure anticrisi, suscitando il malcontento delle masse popolari; ha rinunciato al suo mandato un anno prima della scadenza, per consentire nuove elezioni e stabilizzare l’economia con un nuovo governo».
«Nel 1985 è tornato al potere Victor Paz Estenssoro, leader del Mnr, che ha affrontato con qualche successo il riordino della finanza statale; più difficile si è rivelata la lotta alla corruzione e narcotraffico, divenuto una piaga nazionale».
Fino al 1982 in Bolivia i partiti politici sono stati un segno di speranza, mentre oggi sono forse la sommatoria di tutti i mali. Fino al 1982 c’è stata la possibilità di costruire una vera democrazia; ma in questi ultimi anni la situazione è diventata cruciale a causa di una politica «tradizionalista», per molti versi mal gestita e ingannevole. Dal 1952 al 1985 la Bolivia è passata dal capitalismo di stato a un’economia neoliberista.
È così, dottor Bertero?
«Dissento da tale modello, perché l’unica cosa che si è fatta nel 1985 è stata la stabilizzazione economica, con un modello rispondente alla disciplina fiscale: limitare le uscite rispetto alle entrate. Oggi ci ripetiamo le stesse domande: qual è il mezzo migliore per generare più crescita economica? Come trovare una più razionale ed equa distribuzione delle entrate? Come proteggere l’economia nazionale nei cicli critici dell’economia mondiale?».
Oggi in Bolivia l’indice di povertà è del 70% (34% in città): 7 individui su 10 non si alimentano a sufficienza. Sorge spontanea la domanda:
si può essere così «conservatori», senza recare insulto alla dignità di un essere umano?
«Ciò dipende da una falsa democrazia, che è solo rappresentativa e non partecipativa. Bisogna cambiare. Occorre rimpiazzare un modello economico che, finora, ha creato opportunità solo per pochi e ha lasciato ai margini una grandissima parte della popolazione. La società civile non si accontenta di essere rappresentata; vuole partecipare attivamente a proposte e soluzioni, rigettando ogni intermediazione».
FUGA DEL PRESIDENTE

Nell’ottobre 2003 si è dimesso il presidente Gonzalo Sanchez de Lozada. Aveva già governato dal 1993 al 1997, instaurando la capitalizzazione dello stato e facendo regredire tutto ciò che si era ottenuto dal 1952. Ritornato al potere nel 2002, non ha dato alcuna risposta positiva alle istanze del popolo, che chiedeva: Assemblea nazionale costituente, referendum sulla politica energetica di esportazione del gas (contro la legge sugli idrocarburi), l’annullamento della legge sul mercato della terra e la fine della libera contrattazione, la ridistribuzione della terra, il rispetto dei diritti sociali dei lavoratori e della proprietà comune originaria, la riattivazione dell’apparato produttivo nazionale, rigettando il libero commercio dell’Alca (Area di libero commercio delle Americhe), voluto dagli Stati Uniti.
Sanchez de Lozada è fuggito sottraendosi al giudizio-accusa di genocidio: 140 sono stati i morti durante le sommosse popolari di ottobre 2003. La gente è insorta in difesa della democrazia e delle risorse naturali del paese.
E commenta Bertero: «Noi crediamo molto nel governo, presieduto oggi da Carlos Mesa Gisbert, noto scrittore e profondo conoscitore della storia e cultura del paese. Egli è deciso a riportare l’ordine attraverso due strade: un referendum vincolante per l’Assemblea nazionale costituente e un governo senza partiti politici».
Poche risorse
molte necessità
Dottor Bertero, Washington non vede bene il nuovo presidente, e questo potrebbe far ritornare, come ai tempi della dittatura, la legge marziale. Cosa ne pensa?
«Certo, il governo di Washington ha avuto un ruolo nella crisi. Ma vi hanno contribuito anche alcuni nostri interventi, in quanto si prevedeva il rischio che a Sanchez de Lozada subentrasse Evo Morales, un leader dell’opposizione (rappresenta i coltivatori di coca nel Chapare, ndr). Secondo la Costituzione boliviana, se si dimette il presidente, gli subentra il vice presidente, evento che si è appunto verificato».
Il nuovo presidente ha riconosciuto la gravità della crisi, definendola strutturale, fonte di ribellioni, perché esclude i popoli indigeni. Sarà possibile riscrivere il contratto sociale e rifondare la nazione?
«La rifondazione è urgente. Carlos Mesa ha già dimostrato la sua sensibilità nella crisi politica che la Bolivia sta vivendo: per questo ha chiesto al Congresso di fare un governo senza partiti politici, riducendo la notevole pressione. Inoltre ha lanciato importanti messaggi, dimostrando di essere vincolato ad una società che domanda di partecipare alla vita democratica reale».
Ciò che preoccupa maggiormente Washington è l’Assemblea costituente, che potrebbe portare la Bolivia a una soluzione «alla venezuelana». È un timore fondato?
«Tutti i boliviani devono capire che bisogna favorire il cambio e non essere “conservatori”: non si può continuare a vivere in una democrazia basata sulla povertà. Abbiamo bisogno di cambiamenti strutturali: chi ha troppi privilegi deve rinunciarvi in parte, per una più equa ridistribuzione di beni e servizi».
Però, è impossibile un passo avanti, senza incidere nella politica latifondista in mano a poche famiglie? È possibile un’apertura in favore della collettività meno abbiente?
«Al riguardo c’è già un processo, iniziato qualche anno fa. Se un latifondista ha 100 mila ettari e li fa produrre, creando 2 mila impieghi, egli compie una funzione sociale ed economica. Invece preoccupa chi ha molte terre e non produce per il bene comune. Credo che sia possibile ridistribuire le risorse e, nel contempo, far capire alla gente che la terra bisogna lavorarla: con la riforma agraria del 1952, a ogni contadino si sono distribuite terre, ma non assistenza tecnica, credito agricolo… È indispensabile, per così dire, democratizzare lo sviluppo sia politico che economico».
Sarà possibile, con una democrazia più partecipata, la rifondazione istituzionale per un nuovo patto sociale?
«I partiti politici tradizionali vogliono che Carlos Mesa finisca il mandato nel 2007; capi dell’opposizione, invece, Evo Morales e Felipe Quispe, vogliono elezioni immediate, perché credono di vincerle. Mesa ha parlato di governo di transizione di almeno un anno. Ma i problemi non sono stati risolti con il cambio del presidente, a partire da quelli strutturali dell’intera economia».
Forse la Bolivia non sarà più la stessa, soprattutto per le troppe ferite subite in passato e di recente: lei è più ottimista?
«Il fallimento del processo rivoluzionario è dipeso dal non avere creato le condizioni per una identità nazionale: la vera sfida della Bolivia è «cominciare a essere Bolivia». Al nostro interno ci sono regioni che credono di avere la prevalenza sull’unità nazionale; per questo si teme la federazione. La sfida, quindi, è credere in uno stato in cui potersi identificare e che non può escludere lo sviluppo umano.
Personalmente sono ottimista: si può e si deve cambiare la pseudo democrazia in vera democrazia. Un cambiamento che deve avvenire attraverso l’istituzione di un governo capace di amministrare bene poche risorse per molte necessità. Ossia: privilegiare lo sviluppo umano e le necessità di chi ha meno». •

(*) Mauro Bertero Gutiérrez, 45 anni, boliviano di origine piemontese.
Dal 1985 al 1989 presidente della Banca Nazionale di Agricoltura e, dal 1989 al 1992, ministro dell’Agricoltura. Portavoce del presidente nel 1997 e poi ministro dell’Informazione. Oggi è segretario del partito «Azione democratica nazionalista». Si è laureato in Economia in Brasile e ha conseguito il «Ph.D.» in Scienze economiche alla Coell University di Ithaca, New York.

L’articolista ringrazia Domenico Bertero Gutiérrez, Console generale di Bolivia a Torino dal 1991, per avergli dato l’occasione di intervistare il fratello Mauro.

Eesto Bodini




GUATEMALA – L’ingiustizia non è un mondo divino

… ma dipende dall’uomo. Nel paese centroamericano poche famiglie detengono l’intero potere economico; poche famiglie posseggono quasi tutte le terre fertili; la corruzione e il crimine organizzato imperversano. Il ruolo delle sètte
evangeliche statunitensi è rilevante. Riuscirà il neo-presidente Oscar Berger
a portare un minimo di giustizia a sette anni dalla firma della pace?
Ne abbiamo parlato con padre Rigoberto Pérez Garrido, un prete di frontiera,
che per contribuire a portare pace e giustizia nel suo paese da anni rischia la vita.

Stringe il registratore tra le mani, quasi per «inchiodarvi» i pensieri. Parla a voce bassa, ma le sue parole sono pesanti e lasciano poco spazio all’immaginazione. Folti capelli neri e baffetti, Rigoberto Pérez Garrido è un sacerdote guatemalteco di 37 anni.
Ordinato sacerdote nel 1994, da cinque anni Rigoberto è parroco a Santa Maria de Nebaj, nel Quiché, una provincia ad altissima presenza maya. «Sono parroco in una parrocchia di gente maya – ci spiega -, ma io non sono un indigeno. Questo però non è mai stato un problema: con la gente ho un rapporto straordinario».

TRA FOSSE COMUNI
E CIMITERI CLANDESTINI
Rigoberto è una figura conosciuta, perché ha collaborato moltissimo con monsignor Gerardi. È stato il responsabile per la diocesi del Quiché del progetto Remhi per il recupero della memoria storica ed ha cornordinato l’azione degli agenti della pastorale, religiosi e laici, che dovevano raccogliere le testimonianze delle persone. Quando, nel gennaio del 2000, arrivò a Nebaj, padre Rigoberto iniziò ad aiutare le persone che volevano recuperare i resti dei desaparecidos, che i militari avevano buttato in fosse comuni o in cimiteri clandestini. La gente del luogo sapeva, ma non aveva mai osato fare qualcosa. Fu aiutata da padre Rigoberto, che per questo suo attivismo si attirò addosso attenzioni molto pericolose.
Una notte del febbraio 2002 gli incendiarono la casa parrocchiale, sperando di eliminarlo. Per sua fortuna, si trovava a Santa Cruz del Quiché. «Mi fu offerta una protezione – racconta il sacerdote -, ma io la rifiutai dicendo che la cosa migliore era continuare a fare quello che stavo facendo. Ho potuto contare sull’affetto di tutti, sulle loro preghiere, sul loro esempio, sulle loro testimonianze. Questo mi ha molto rallegrato».
Le minacce di morte continuarono e continuano tuttora tanto che il suo caso è stato preso in carico anche da Amnesty Inteational.
«Con l’assassinio di monsignor Gerardi – continua il sacerdote -, il paese è ripiombato in quelle tenebre che si credevano superate a partire dalla firma degli accordi di pace. Si sono riattivate tutte le strutture che, per 36 anni, avevano generato morte e sofferenze indicibili, strutture collegate agli ambienti politici ed economici. Con il governo del Fronte repubblicano guatemalteco (Frg) si è intensificato l’accanimento contro i difensori dei diritti umani e le persone impegnate nel processo di trasformazione. Per sostenere il potere, sono riapparsi anche i gruppi paramilitari che, in Guatemala, si chiamano Pattuglie di autodifesa civile (Pac). La scorsa estate, poco prima delle elezioni, migliaia di ex patrulleros sono calati in capitale per intimidire gli avversari di Rios Montt».

IL PERDONO,
MA ANCHE LA GIUSTIZIA
Il Guatemala ha una percentuale di popolazione indigena del 60% o più. E gli indigeni furono la popolazione più colpita durante il conflitto armato.
Perché? Che successe in quei 36 anni di conflitto? Chi furono i responsabili? Chi le vittime?
Presto ci si accorse che, per costruire un paese diverso, occorreva dar vita ad un processo di chiarimento storico. Era un’operazione ad alto rischio. Monsignor Gerardi sosteneva che era doloroso affrontare la realtà, ma che, d’altra parte, era un’azione necessaria e liberatrice: per poter superare il passato, era necessario conoscere e da questa conoscenza si poteva partire per costruire il futuro.
I collaboratori del progetto Remhi hanno potuto documentare 422 massacri, di questi 263 (ben 234 ad opera dell’esercito e dei paramilitari) vennero commessi nel Quiché e di questi decine a Nebaj, la zona dove opera anche padre Rigoberto.
«Nella regione del Quiché – spiega il sacerdote – il piano diocesano ha avuto come prioritaria la riconciliazione, che però può scaturire soltanto dalla verità, dal perdono e dalla giustizia. Posso testimoniare che il perdono c’è stato. Io stesso ho celebrato messe di commemorazione di massacri e i familiari (gente che perse i propri cari o che venne torturata) sono riusciti a perdonare: è una grande qualità della popolazione guatemalteca, incredibile ed impressionante».
«Purtroppo, sulle responsabilità e quindi sulla giustizia, il problema rimane aperto: ci sono casi di pentimento ai livelli più bassi, ma non a quelli più alti. Qui la porta è rimasta chiusa; mi riferisco ai livelli intellettuali e di comando, da dove cioè partirono gli ordini per distruggere la popolazione del Guatemala».
«Ciò che la società guatemalteca ad alta voce ha chiesto e chiede non è vendetta (ché altrimenti il paese sarebbe precipitato nuovamente in una spirale di violenza incontrollabile). Le vittime chiedono però che i responsabili riconoscano le loro colpe e diano segni concreti di pentimento, contribuendo anche a risarcire i danni causati. Su questa linea si muovono alcune associazioni per la difesa dei diritti umani, che stanno promuovendo processi contro i responsabili dei crimini. La società guatemalteca valuta positivamente queste iniziative, sebbene sia molto scettica a causa dell’alto grado di impunità che c’è nel paese».
La conclusione di padre Rigoberto è in perfetta coerenza con il suo ragionamento: «Noi speriamo che, alla fine di tutto questo, possa sorgere una nuova società, un nuovo Guatemala con più vita per tutti, compresi coloro che hanno commesso i crimini: anche loro hanno diritto a vivere la grazia di Dio».
Milioni di esistenze sono state segnate dalle vicende della guerra: per loro ricominciare una vita normale è un’impresa.
Padre Rigoberto lo sa: «Il dopoguerra presenta nuove sfide considerando tutte le indelebili sofferenze patite dalla popolazione. Perché, dopo un conflitto, restano gli scomparsi, gli orfani, le vedove, le comunità distrutte e disarticolate; restano i cimiteri clandestini e i genitori che cercano i propri figli; restano il dolore, la paura, i traumi. Nel dopoguerra bisogna occuparsi di tutte queste realtà, delle loro cause e delle loro possibili soluzioni».

IL MIRAGGIO
DELLA RIDISTRIBUZIONE
Da gennaio di quest’anno in Guatemala c’è un nuovo presidente e un nuovo partito di maggioranza. Cambierà qualcosa? «L’importante – spiega il padre – è stata la sconfitta di Rios Montt e del Frg, responsabili dei maggiori crimini nei 36 anni della guerra civile e di un governo fondato sulla corruzione».
Il partito del neo-presidente (Gran alianza nacional, Gana) è nato dalla nomenclatura economica del paese, cioè dagli industriali, nonché da politici e da militari che sono riusciti a darsi una patina di rispettabilità. Ma anche tra le sue fila si celano responsabili di crimini, come ammette amaramente padre Rigoberto: «I partiti credono che senza gli espertos en matar nessun governo potrà stare a lungo al potere».
Dicevamo che Gana ha avuto l’appoggio degli imprenditori. Questo potrebbe essere un piccolo vantaggio, se si considera che il problema economico è un’assoluta priorità. La povertà raggiunge livelli elevatissimi, in particolare nelle aree rurali e nelle periferie delle città.
La disoccupazione è molto alta e lo stato non svolge i propri compiti, soprattutto nei servizi primari. «È vergognoso – sbotta il sacerdote – che si spendano più soldi per il bilancio militare che per quello della salute e dell’educazione».
In quanto a capo di una coalizione di destra, difficilmente il presidente Berger intraprenderà una politica di ridistribuzione del reddito. L’analisi del padre guatemalteco è lucida e rigorosa.
«Il problema economico – spiega – ha radice in un sistema che concentra la ricchezza in poche, anzi in pochissime mani (en muy, pero muy pocos manos), creando diseguaglianze abissali. Il potere è detenuto da un ristretto gruppo di famiglie guatemalteche e alcune straniere residenti nel paese. Un’altra fetta dell’economia è appannaggio delle multinazionali. A queste si debbono, ad esempio, gli altissimi prezzi dei combustibili e dei medicinali».
Insomma, anche a guerra finita, la maggioranza dei guatemaltechi continua a vivere in condizioni disumane. E, come sempre accade, questa povertà colpisce soprattutto la parte più debole (ancorché maggioritaria) della società, gli indigeni.
La discriminazione risalta in tutta la sua evidenza nell’agricoltura, che è il settore economico a cui fa riferimento la maggioranza della popolazione guatemalteca.

LA TERRA,
UN PROBLEMA TABÙ
A partire dal 1800 si diffusero in Guatemala le monocolture da esportazione: prima il caffè, poi il banano. Con le banane arrivò in Guatemala la multinazionale «United Fruit Company», oggi nota come Chiquita. La compagnia nordamericana divenne talmente potente da condizionare la vita del paese. L’esempio più clamoroso si verificò nel periodo 1951-’54. All’epoca, il governo del presidente Jacobo Arbenz varò la prima riforma agraria nella storia del Guatemala. La United, sentendosi colpita nei propri interessi, informò del problema la Cia e l’amministrazione di Washington. Venne così organizzato un esercito, che entrò nel paese e rovesciò il legittimo governo di Arbenz.
Oggi le multinazionali nordamericane continuano a monopolizzare (come in tutti i paesi dell’area) il mercato delle banane, con comportamenti e politiche certamente poco rispettosi dei lavoratori, dell’ambiente e dell’etica.
L’altro pilastro dell’agricoltura del Guatemala è il caffè. Negli ultimi anni, il settore ha sofferto enormemente, a causa del crollo del prezzo sul mercato internazionale. Molti latifondisti hanno scaricato la riduzione degli introiti sugli stagionali, già ampiamente sfruttati. Alcuni proprietari hanno addirittura deciso di non fare la raccolta.
Tuttavia, per i contadini guatemaltechi, come per gran parte dei contadini dell’America Latina (e del mondo), il problema fondamentale è un altro: la proprietà della terra.
Secondo dati attendibili, in Guatemala l’85% della terra è in mano al 10% della popolazione. «È tremendo, lo so», ammette con sconforto padre Rigoberto.
Dopo gli accordi di pace, si è tentato qualcosa, ma i latifondisti hanno attaccato chi lottava per avere un pezzo di terra e coloro che appoggiavano queste rivendicazioni. Ci sono state molte minacce di morte, anche al vescovo Ramazzini, che si occupa di queste problematiche.
Si è tentata anche la strada dell’acquisto della terra per i contadini. Ma il risultato è stato l’incremento dei prezzi fino a 10 volte.
«Purtroppo, nel mio paese – conclude amaro Rigoberto – la questione della terra continua ad essere un tabù».
Difficile che la soluzione del problema sia nell’agenda di Oscar Berger, l’uomo che dallo scorso gennaio ha in mano le sorti del Guatemala. A sette anni dalla «pace».

(Fine – la prima parte
è stata pubblicata su MC di febbraio)

La chiesa cattolica e le sette evangeliche
Durante gli anni della guerra civile, la chiesa cattolica fu duramente perseguitata: migliaia di catechisti, dirigenti delle comunità cristiane, agenti pastorali, sacerdoti furono assassinati. Nonostante l’altissimo prezzo pagato, le diocesi continuarono ad emanare documenti che denunciavano le vessazioni contro la popolazione. Così come faceva la Conferenza episcopale.
Chiediamo a padre Rigoberto se l’attuale gerarchia della chiesa cattolica guatemalteca abbia proseguito sulla strada segnata da monsignor Gerardi, anche dopo il suo assassinio.
«Io vivo tra la gente e non nei palazzi – si scheisce -. Certo, la chiesa si è fatta dei nemici, soprattutto nel potere economico e in quello militare. Tuttavia, mi sembra che in questo ultimo periodo sia diventata un po’ silenziosa rispetto a prima, quando era guidata da Prospero Penados del Barrio, che fu praticamente annientato. Oggi è in pensione, perché molto malato; io lo definirei un martire vivente, che continua ad essere molto amato dalla gente».
Attualmente, la carica di arcivescovo primate e quella di presidente della Conferenza episcopale sono concentrate in una sola persona, l’arcivescovo Rodolfo Quezada Toruño. «Forse – chiosa il sacerdote – c’è troppo potere concentrato in una persona sola».
Abbiamo già spiegato (si veda MC di febbraio) in che modo il generale Rios Montt abbia utilizzato le sètte evangeliche. «Le sètte – racconta Rigoberto – entrarono nel paese nel 1891, quando governava il generale Justo Rufino Barrios. Venivano dagli Stati Uniti su impulso delle famiglie più potenti, interessate a trasformare i paesi dell’America Latina in luoghi ideali per lo sfruttamento. Il loro imperativo era: dividi e vincerai. Si moltiplicarono enormemente durante gli anni di maggiore violenza politica, cioè a partire dal 1980. È inutile fare nomi, dato che esistono più di 4.000 denominazioni differenti».
È durissimo il giudizio di padre Rigoberto. «Le sètte – dice – utilizzano la religione per contrastare la forza profetica della chiesa cattolica e per giustificare i crimini commessi durante il conflitto armato; oggi, invece, vorrebbero perpetuare quel sistema che tanti danni ha prodotto nel passato. Io credo che il compito fondamentale delle sètte sia di produrre inganno e confusione tra la gente e, soprattutto, anestetizzarla davanti alla realtà. Purtroppo, la religione mal utilizzata può diventare uno strumento molto utile per il dominio delle coscienze e quindi delle persone».
Pa.Mo.

Rigoberta Menchú Tum: aiutare Berger?

Il Guatemala è conosciuto in Italia soprattutto per merito di Rigoberta Menchú Tum (*). L’india maya riuscì a rompere il muro di silenzio che gravava sul suo paese grazie al libro Mi chiamo Rigoberta Menchú e poi alla campagna per assegnarle il Nobel per la pace. Il conferimento del prestigioso premio certamente diede la possibilità al suo paese di essere conosciuto in tutto il mondo. Tuttavia, come spesso capita, nemo propheta in patria: Rigoberta, in Guatemala, non è amata.
Spiega Maria Rosa Padovani del «Comitato di solidarietà» di Torino: «Periodicamente, si lanciano contro Rigoberta campagne denigratorie, accusandola di vivere nel lusso, di essere sempre in giro per il mondo, campagne orchestrate dai poteri che continuano ad essere presenti e operanti in Guatemala. Tra il popolo c’è chi la ama, c’è chi non la conosce e c’è chi si lascia influenzare dalle campagne».
Rigoberta da alcuni anni vive in Messico per le minacce che continuamente riceve». Ma nel suo paese ha messo in piedi la «Fondazione Rigoberta Menchú», che lavora soprattutto nel campo dei diritti umani e nella promozione dei diritti degli indigeni. C’è una sede della fondazione anche in Messico ed una più piccola a New York per via della sua collaborazione con l’Onu. Rigoberta lavora molto a livello di istituzioni inteazionali, soprattutto per le popolazioni indigene ed è tuttora ambasciatrice di buona volontà dell’Unesco. Va sempre in giro per il mondo, partecipando a moltissime iniziative. «Noi – spiega convinta Maria Rosa – la conosciamo bene. Abbiamo visto la semplicità con cui vive in Messico in una piccolissima casa dietro la Fondazione, con suo marito e con il figlio adottivo. Sappiamo che Rigoberta è sempre Rigoberta. Certo, il suo ruolo è cambiato: non può più venire quando un gruppo di solidarietà la chiama, perché ha un’agenda pienissima e ha anche bisogno di ricercare finanziamenti per i progetti della sua Fondazione. Quindi, il suo ruolo è cambiato. Forse in Guatemala c’erano più aspettative nel senso che si pensava che lei avrebbe lavorato solo a favore del suo paese, ma Rigoberta, come premio Nobel, si considera un po’ al servizio delle cause di tutte le popolazioni indigene del mondo, non soltanto di quelle del Guatemala».
Nel paese centroamericano la percentuale dei votanti è molto bassa, attorno al 30-35%. Questo avviene anche perché bisogna iscriversi alle liste elettorali e l’iscrizione si fa nel luogo dove si è nati. «Tutto ciò – spiega padre Rigoberto – costa: troppo, per gente già poverissima. Senza dimenticare che bisogna avere i documenti di identità che moltissimi, anzi la maggior parte, non hanno, soprattutto nelle zone rurali. E allora una delle campagne promosse dalla Fondazione Menchú è proprio questa: aiutare la gente a partecipare alla vita pubblica e civile del paese».

A fine dicembre, appena eletto presidente, Oscar Berger ha offerto un posto nel suo governo a Rigoberta Menchú. Tra conferme e smentite, la premio Nobel ha tentennato a lungo, accettando alla fine il ruolo di «ambasciatrice di buona volontà degli accordi di pace».
Un ruolo aleatorio per una scommessa comunque rischiosa: potrà Rigoberta aiutare il suo popolo attraverso il governo del conservatore Berger senza rimanee «bruciata»?
Pa.Mo.

(*) Si veda: «Incontro con Rigoberta Menchú Tum», di Marco Bello e Paolo Moiola, su Missioni Consolata n.5 del maggio 1996.

Paolo Moiola