“Il futuro che ci sfida”

Un osservatorio socio-pastorale per leggere
i segni dei tempi in America Latina.
Intervista a Rodrigo Guerra López,
cornordinatore di questa nuova realtà del CELAM (Consiglio episcopale latinoamericano).

Dal 13 al 15 febbraio scorso, si è tenuta nella città di Puebla la riunione dei direttivi e presidenti delle Conferenze episcopali dell’America Latina. Durante l’incontro, ricordando il 25° anniversario di Puebla, sono cominciati i preparativi per la realizzazione di una riunione straordinaria dei vescovi dell’America Latina e del Caribe.
Ecco, allora, un’intervista a Rodrigo Guerra López, cornordinatore dell’appena nato «Osservatorio» socio-pastorale del Celam.

Che significa il documento di Puebla, a 25 anni dalla pubblicazione?
Più che un documento, Puebla è stato un kairós, ossia un momento nella storia, in cui la Provvidenza divina si è manifestata e segna la comunità ecclesiale. Certo, Puebla è un testo. Ma la realtà da cui nasce e alla quale esso si riferisce è la vita concreta della chiesa, di fine anni settanta. Puebla esprime il modo con cui il popolo di Dio cammina nella storia e affronta sfide non sempre facili nel momento di testimoniare che Gesù Cristo è vivo.

Com’è cambiato il contesto della chiesa in America Latina in questi 25 anni?

Da una parte, un insieme di sfide fondamentali si sono acutizzate: povertà, indifferenza, attività di vari gruppi religiosi distinti dalla chiesa cattolica, mancanza di solidità delle nostre democrazie, ecc. Dall’altra parte, esiste un cambiamento culturale sottile, ma profondo: la modeità illuminata abbandona la sua antica egemonia per lasciar posto a una certa postmodeità latinoamericana. Entro queste cornordinate, la chiesa cattolica deve ritornare a leggere i «segni dei tempi», per poter scoprire quanto Dio chiede in questo nuovo scenario di massima pluralità, ibridazione e frammentarietà.

Questa potrebbe essere la «scusa» per pensare a un nuovo evento ecclesiale, come quello di Puebla?

Sì e no. Certamente un nuovo contesto esige uno sforzo di attualizzare la comprensione. Tuttavia, al di là di un certo aggioamento, è la vita della stessa chiesa che esige momenti forti di riflessione e preghiera per riproporre l’essenziale e rinnovare la conversione, comunione e solidarietà. Orbene, il cardinale Errázuriz, arcivescovo di Santiago del Cile e presidente del Celam (cfr. box: ndr) è stato molto chiaro nell’insistere sul fatto che il processo iniziato è appena un primo passo verso il momento formale in cui il papa possa eventualmente convocare, come in altre occasioni, una quinta assemblea generale, un sinodo o qualche altra forma di riunione.

Quali sono stati gli interventi più importanti, durante questi giorni di lavoro?

Da un punto di vista personale, mi hanno molto interessato gli interventi di mons. Jorge Jiménez e del card. Claudio Hummes, nel primo giorno. Ciascuno, con il proprio linguaggio, ha presentato gli elementi che configurano l’attuale momento della chiesa e dell’America Latina. Da una parte, dobbiamo proseguire un cammino. Medellín, Puebla e Santo Domingo non devono restarci indifferenti. Dall’altra, la globalizzazione esige oggi una nuova maniera di comunicare, che renda più evidente l’apporto specifico dei cristiani. L’identità cristiana deve rafforzarsi, tramite un rinnovato processo educativo. Nel momento accademico di commemorazione dei 25 anni di Puebla, la conferenza tenuta dal card. Darío Castrillón Hoyos è stata sommamente chiarificatrice: la dignità umana è una dimensione costitutiva della persona. Questo ingrediente è anche un elemento del vangelo. In tal modo, noi cristiani non possiamo che metterci al servizio della dignità umana perché, di fatto, la gloria di Dio è che l’uomo viva e viva in condizioni che siano all’altezza del suo valore intrinseco.

Non c’è rischio di prestare troppa attenzione al nuovo contesto, alla dignità umana e suoi diritti, ai progetti di azione sociale e perdere di vista la dimensione trascendente del cristianesimo?

In effetti, uno dei pericoli che attraversa la fede, oggi, è quello di perdere la sua specificità in una proposta di azione volontaristica, che pretenda di costruire il regno tramite un semplice programma di azione sociale (di destra o di sinistra). Tale approssimazione risponde essenzialmente all’antica eresia pelagiana.
Ma, nello stesso tempo, esiste anche un altro pericolo: la posizione di quanti ritengono la fede quale convinzione spiritualistica e al margine di una adeguata incidenza storico-sociale. Tale idea si avvicina molto all’eresia docetista: credere che la condizione incarnata del Verbo sia una finzione, una mera metafora. Il mistero dell’incarnazione, nucleo della nostra fede, si propone esattamente come qualcosa di diverso: Dio si è fatto uomo. Tutto ciò che è umano dev’essere assunto e redento in Cristo. Quando non si perde la dimensione d’incarnazione della fede, si vive in una continua tensione tra natura e grazia, in cui, come sottolinea il card. Errázuriz, il primato spetta sempre alla grazia. L’analisi dei contesti, la valorizzazione della dignità umana e dei diritti, l’azione fanno parte dell’itinerario che la chiesa deve compiere, conscia che la proposta del vangelo non si esaurisce certo in essi, ma che li supera senza negarli.

Toerà ad acquistare vigore nella chiesa latinoamericana l’opzione preferenziale per i poveri?

L’opzione preferenziale per i poveri è una dimensione costitutiva della nostra fede. Non ha mai cessato di esistere. Recentemente, Giovanni Paolo ii, nella Novo millennio ineunte, ci ha ribadito che le pagine del vangelo dove Gesù mostra il suo amore preferenziale ai poveri non sono un semplice richiamo alla carità, bensì un aspetto fondamentale della cristologia. Ancora di più: il papa afferma che, nel vivere il contenuto di queste pagine, la chiesa dimostra la sua fedeltà non meno che a livello di ortodossia.

Il nuovo «Osservatorio» del Celam avrà di mira lo studio della povertà nel continente?

Le nuove povertà in America Latina sono talmente estese che sarebbe irresponsabile e antievangelico restare indifferenti, come se non significassero nulla alla luce della fede. L’«Osservatorio» cercherà di offrire ai vescovi del materiale, che permetta loro di ampliare la visione della povertà e di molti altri fenomeni sociali, caratteristici della realtà che stiamo vivendo.

Cosa ha spinto i vescovi a creare un «Osservatorio» in seno al Celam?

Potrebbe sembrare che i vescovi stiano semplicemente costruendo un think tank. Tuttavia, mons. Carlos Aguiar, primo vicepresidente del Celam e vescovo responsabile dell’«Osservatorio», ha posto al centro della prospettiva di tale istituzione di essere un servizio anzitutto ecclesiale, cioè, con piena coscienza della natura della chiesa e delle sue preoccupazioni propriamente pastorali.
In certa qual misura l’«Osservatorio» nasce dalla vita ordinaria del Celam, specialmente dai processi già in atto nel Dipartimento di giustizia e solidarietà, diretto dal card. Oscar Rodríguez Maradiaga. Da tempo, egli ha cercato di conoscere con grande competenza la realtà sociale del continente e del mondo e, con il suo esempio, ci ha indicato l’importanza di riprendere a guardare e servire Cristo in mezzo alle sfide concrete della storia dei nostri popoli.
Zenit

Agenzia Zenit




ETIOPIA – Un pozzo di speranza

Oltre 1.500 kmq di superficie (pari alla provincia
di Savona), quasi 400 mila persone, zero strutture stradali, sanitarie e scolastiche, tanta fame e malattie endemiche… sono le sfide della nuova parrocchia
di Ropi-Kachachullo, figlia di Shashemane.

«Sono stato io il primo a mettere piede in quella zona, 25 anni fa» afferma sorridendo padre Silvio Sordella, rivendicando la pateità della nuova missione che padre Paolo Marré e fratel Domenico Brusa stanno costruendo a Ropi e Kachachullo, la zona più periferica della parrocchia di Shashemane, in cui padre Silvio svolse le sue prime esperienze missionarie e dove è ritornato come parroco.
Oggi Shashemane conta una scuola per più di 2 mila alunni e un’altra per 120 ciechi, un grande dispensario, un asilo per 600 bambini, un villaggio per ex lebbrosi, una casa per ragazzi di strada, varie attività di promozione umana e della donna, oltre a quattro comunità ben sviluppate, tra cui Alaba che ha un asilo con un centinaio di frequenze e che farà parte della nuova missione. I tre missionari sono coadiuvati dalla presenza di tre famiglie religiose.
Date le urgenze degli inizi, i missionari della Consolata hanno concentrato i loro sforzi in città e d’intorni, senza dimenticare quella parte periferica, con visite sporadiche, costruzione di una cappella a Kachachullo, attività di evangelizzazione mediante i catechisti. Ma per uno sviluppo più intenso si attendevano tempi migliori. E sono arrivati, insieme a padre Paolo.
Veramente, l’avvio della nuova missione è stato provocato da «tempi peggiori». Due anni di siccità hanno messo a rischio l’esistenza della popolazione della zona e i missionari non hanno potuto più procrastinare la loro presenza.

SOTTO LA CROSTA
Il territorio della nuova missione si estende per 100 km di lunghezza e 60 di larghezza nella Rift Valley, su un altopiano tra i 1.600-1.800 metri di altitudine. È una zona vulcanica: uno strato di terreno sabbioso sopra una distesa di pietra pomice, la cui fertilità dipende dal ritmo delle piogge. Prima della carestia c’erano 400 mila persone, ora sono scese a 300 mila: molti sono morti, altri hanno cercato futuro altrove.
Nel maggio 2003, quando visitai Kachachullo, la pioggia era appena caduta; sembrava un paradiso: prati verdi, granturco appena spuntato, due laghetti che parevano pezzi di cielo incastonati in terra come perle.
Ma poi, guardando da vicino, si scopriva una tragica realtà: strade divorate dell’erosione; donne e asini carichi di taniche per attingere acqua chi sa dove, scheletri di animali abbandonati lungo i sentirneri, fame stampata sul viso dei bambini.
La scena si fa ancora più penosa quando arriviamo a Kachachullo: la cappella è pericolante; un migliaio di uomini, donne e bambini attendono il missionario per la celebrazione della messa e per discutere sulla situazione. I vari capifamiglia ripetono la stessa litania: gli animali sono morti; le mucche ancora vive non danno latte o sono tubercolose; il governo ha fatto tante promesse, ma non le ha mantenute.
Padre Paolo assicura che a metà settimana inizierà la distribuzione degli aiuti alimentari in vari centri, con la presenza di due suore di Madre Teresa.
«La carestia ha già fatto migliaia di vittime – spiega padre Paolo -; almeno 100 mila sono a rischio. Il governo ha promesso foiture di granturco, ma ne è arrivato pochissimo, sia perché i camion non si azzardano in queste strade, sia perché questa gente al governo non interessa».
La zona di Kachachullo si trova alla periferia della regione amministrativa dell’Oromia, la popolazione è in prevalenza formata da adia, kambatta, wollaita e altri gruppi etnici, emarginati dalla maggioranza oromo che governa la regione.
La zona di Kachachullo è nella provincia di Siraro; ma il capoluogo, Agge, è distante anni luce da questa gente. «Si prevede la creazione di una nuova provincia, con Ropi capoluogo; ma la divisione non è ancora fattibile, perché non esiste un numero sufficiente di persone che sappiano leggere e scrivere, capaci di ricoprire le cariche amministrative» spiega ancora padre Paolo.

ZERO PIÙ ZERO
«La stagione è promettente, ma l’emergenza durerà almeno altri quattro o cinque mesi, quando saranno mature le prime pannocchie di granturco. Passerà la fame, ma rimangono altri problemi» continua padre Paolo.
Il conto dei problemi è presto fatto. Elettricità zero: la linea elettrica più vicina passa a 40 km di distanza. Strade asfaltate o in terra battuta zero: a ogni temporale, le piste diventano torrenti, scavando buche ad altezza d’uomo. Sanità quasi zero: un medico e 4 infermiere non specializzate per tutta la provincia, con un poliambulatorio ad Agge e tre piccoli dispensari serviti saltuariamente. Ci sono 19 scuole, delle quali 10 arrivano alla terza elementare, 9 all’ottava classe, quando la scuola dell’obbligo in Etiopia ne prevede dieci. Nessuna meraviglia (si fa per dire) se il tasso di analfabetismo della parrocchia è del 90%.
«Ma il problema più grave è l’approvvigionamento idrico» spiega padre Paolo, mentre mi porta a vedere il fiume Billate. L’acqua è abbondante, ma così melmosa che perfino gli animali sembrano schifarla. «Eppure tanta gente fa 8 ore di cammino per attingere questa porcheria e altrettante per tornare a casa – continua il missionario -. In tutta la zona esiste un solo pozzo in funzione, a Ropi, e fornisce una media di 2 litri al giorno per persona ai quasi 30 mila abitanti; mentre sulla zona ne gravitano 100 mila. C’era un pozzo a Sambaté, ma la pompa è bruciata per il sovraccarico».
E quelle due perle di laghetti? «Sono belli da fotografare – spiega padre Paolo -. Dalle analisi risulta che l’acqua ha un elevato tasso di alcalinità (pH 10.1), di fluoro, zolfo e altre sostanze che la rendono dannosa persino per gli animali».
Un rudimentale sistema di approvvigionamento è quello di scavare grandi buche ai bordi della strada, per convogliarvi l’acqua durante la stagione delle piogge. Dove rimane più a lungo, l’acqua imputridisce in fretta, essendo utilizzata da uomini e bestiame, e diventa fonte di malaria, poiché favorisce la proliferazione di zanzare e relative epidemie di malaria.

CASSETTO… APERTO
L’emergenza del 2003 ha messo a nudo le necessità della nuova missione, soprattutto l’impossibilità di una gestione «a distanza». Padre Paolo e fratel Domenico, infatti, risiedono a Shashemane e impiegano 3 ore di andata e altrettante di ritorno per raggiungere Kachachullo.
Le suore di Madre Teresa, che hanno curato la distribuzione degli aiuti alimentari, si sono sistemate nella chiesa di Ropi, facendo tui di 15 giorni: sono tornate a casa regolarmente malate. Il medico che lavorava con le suore è morto di malaria cerebrale.
I missionari hanno cominciato a stilare programmi concreti, secondo priorità immediate, progetti a breve e lungo termine. La costruzione di una casa per i missionari è una priorità assoluta, per vivere tra la gente, capire i veri problemi, rispondere alle loro esigenze, seguire da vicino i programmi di sviluppo e di eventuali emergenze, che si ripeteranno.
Il primo sogno è già fuori del cassetto: come sede della missione è stata scelta Ropi, sia perché è al centro del territorio, sia perché dovrebbe diventare il capoluogo della nuova provincia. Sul terreno, acquistato un paio di anni fa, sta sorgendo la nuova abitazione.
Kachachullo, invece, rimarrà come il luogo «storico» della missione: avrà la chiesa più grande, dal momento che su di essa gravitano quasi 3 mila persone. Un grande mucchio di pietre, accatastate attorno alla cappella sgangherata, aspetta solo il via per diventare casa di Dio e della comunità.
Tra le priorità c’è pure la perforazione di due pozzi, uno a Ropi, dove si prevede di trovare acqua a oltre 270 metri di profondità; l’altro a Kachachullo, vicino al fiume Billate, nella speranza che le falde acquifere non siano troppo profonde. Da qui, l’acqua sarà pompata, per 3 km, vicino alla chiesa, scuole e dispensario.
Tra i progetti a breve termine di Kachachullo, infatti, figura la costruzione di un dispensario e una scuola per 2 mila alunni e relative case per i maestri. È questa la zona più periferica e ufficialmente trascurata, infestata da malaria, tifo, tubercolosi, tracoma e altri malanni tropicali. La chiesa cattolica vi ha aperto una scuoletta e un ambulatorio, ma è poco più di zero: delle tre aule scolastiche, una è crollata, insieme al piccolo dispensario.
Anche nelle varie comunità sono in cantiere la costruzione di strutture più solide, per ora nella forma tradizionale: legno ricoperto di fango e paglia. In quasi tutti questi centri è stato comperato il terreno per la cappella, scuola, servizi igienici e cimitero. Quest’ultimo fa parte essenziale dell’identità di una comunità che si rispetti.
E poi ci sono progetti a lungo termine: un asilo a Ropi, pozzi ad Alemtena e Basa, grondaie e cistee in tutti i centri, per raccogliere l’acqua piovana, quando il ciel la manda. «Pensiamo di intervenire in campo agricolo – continua padre Paolo -, con la creazione di cornoperative agricole, piccoli sistemi di irrigazione, diversificazione delle colture, costruzione di silos per conservare il granturco, sia per fare fronte ai periodi di vacche magre, sia per venderlo quando il prezzo è più conveniente e avee una riserva per il momento della semina, quando i prezzi salgono alle stelle».

LA MESSE È MOLTA…
Nonostante il cumulo di sfide ed emergenze, prosegue il lavoro specificatamente religioso. La nuova missione comprende una decina di piccole comunità di base, che continuano a crescere, nonostante la carenza di strutture adeguate. La cappella di Kachachullo è in rovina; Sinta, Shirko, Damine hanno cappelle di legno e fango; Alemtena e Sambaté case in affitto; altre comunità si radunano sotto gli alberi o, quando piove, in case private. Solo la chiesetta di Ropi sembra in forma: i muri di legno e fango sono ricoperti da intonaco in cemento.
Le comunità più consistenti hanno la messa ogni 15 giorni, le altre ogni due o tre mesi. Tutte, però, si radunano ogni settimana, sotto la guida di catechisti (5 a tempo pieno e una trentina volontari) per pregare, ascoltare la parola di Dio, istruzione catechetica, preparazione dei catecumeni, sensibilizzazione sociale.
Nei giorni feriali le cappelle diventano aule scolastiche, dove una quindicina di maestri a tempo pieno e altrettanti part-time insegnano ai più piccoli a leggere e scrivere.
«Una quindicina di altri posti hanno chiesto la nostra presenza – racconta padre Paolo -. Abbiamo ricevuto petizioni firmate da 100 capifamiglia. Calcolando che ogni nucleo familiare è composto da una decina di persone… fai tu il conto. Ci dispiace non poter rispondere a tali richieste. In alcuni luoghi mandiamo i catechisti, almeno una volta al mese, per preparare il terreno e avviare il catecumenato. Appena ci saremo stabiliti a Ropi e avremo più personale potremo dissodare anche quei campi».
La gente nutre profonda simpatia per la chiesa cattolica. Adia, kambatta e altre etnie minori non vogliono avere nulla da spartire con l’islam, simbolo di oppressione ed emarginazione secolari, protratte fino ai nostri giorni. Per questo tali gruppi etnici vedono nel cristianesimo un’occasione di liberazione e distinzione dagli oromo, in maggioranza musulmani, e di affermazione della propria identità.
«Nella spinta alla conversione giocano anche motivi razziali – spiega padre Paolo -. Da parte nostra insistiamo sulla convivenza pacifica e solidale con tutti. “Come facciamo a considerarli fratelli, quando ci hanno ammazzato fino a ieri?”, ci dicono. Anche alcuni musulmani vogliono diventare cristiani; ma facciamo un discorso molto chiaro: se volete entrare nella chiesa per ricevere più aiuti, lasciate perdere, perché noi aiutiamo tutti, cristiani e musulmani».
Anche se tutti vorrebbero ricevere il battesimo, il cammino è lungo e la selezione rigorosa: il catecumenato dura 4 anni e i candidati devono dare segni evidenti di sincerità, inserendosi concretamente nelle varie attività sociali delle rispettive comunità.
«Ogni anno abbiamo centinaia di nuovi battezzati – conclude padre Paolo -. La mietitura si prospetta abbondante e preghiamo il Padrone della messe di mandare più operai».

Benedetto Bellesi




SRI LANKA – Triste isola splendente

Nonostante miti e leggende
di un passato felice, l’isola «più bella»
è, ormai da un ventennio, dilaniata da una lotta,
che oppone tra loro due etnie, diverse per lingua e religione.
I tentativi di riconciliazione non mancano, ma la pace
è davvero dura da conquistare.

L’isola radiosa. Pensavo di arrivare in un paradiso di natura incontaminata e gente felice; invece, mi sono trovata in un paese devastato da una guerra civile lunga 20 anni, divisioni intee, corruzione politica e grave crisi economica. La vita per la popolazione è molto dura. L’isola, che Marco Polo descrisse come la più bella, detiene il più alto tasso di suicidi al mondo.
ora, la povertà
Dai tempi di Polo, molte cose sono cambiate. I primi occidentali a prendere possesso dell’isola furono i portoghesi; poi arrivarono gli olandesi, che non furono meno oppressori dei primi. Nel 1800, gli inglesi riuscirono ad assoggettare il regno di Kandy, la bella capitale nel cuore dell’isola. Da allora, il territorio ha subìto pesanti modifiche: le foreste di essenze pregiate hanno fatto posto a estese piantagioni di tè; una ripida e lenta ferrovia si arrampica fino a 1.900 metri, tra le cime arrotondate dei colli, coperti da file ordinate di arbusti verdi.
Le raccoglitrici sono donne minute, con la cesta sul dorso, legata da una fascia appoggiata sulla fronte. Sono discendenti dai lavoratori che giunsero dal Tamil Nadu, con gli inglesi. Tuttora abitano misere casupole, senza servizi e in condizioni disumane.
Le condizioni delle lavoratrici cingalesi sono comunque sempre dure. Il 90% della forza lavoro nelle fabbriche è composta da donne.
Una polemica sui giornali riguardava l’apertura di una residenza, creata dallo stato, per dare una sistemazione alle operaie di una multinazionale dell’abbigliamento: 300 posti, suddivisi in camerate a sei letti a castello, per un totale di 30 mila operaie, ospitate nei villaggi vicini in condizioni spaventose. Ebbene, solo 11 donne hanno accettato la nuova «decente» sistemazione: l’affitto è troppo caro per la paga che ricevono (equivalente a 5 euro al mese), che deve servire pure per i familiari a casa e un futuro incerto.
Anche per gli uomini la vita non è facile, sia nelle campagne, in parte abbandonate, sia nella capitale Colombo. Il treno dei pendolari la mattina è stracolmo, con grappoli di passeggeri appesi alle porte e finestrini. Il traffico è caotico e pericoloso ovunque.
Tra un villaggio e l’altro non vi è soluzione di continuità: file di casupole e botteghe misere, fogne a cielo aperto. Il caldo e l’alto tasso di umidità rendono tutto più faticoso. Qualche villino nuovo c’è, perché chi emigra ritorna per costruirsi la casa e lo fa in stile moderno, dimenticando la tradizione.
La pesca potrebbe essere fonte di ricchezza, ma è sfruttata dai soliti giapponesi, mentre la maggior parte dei cingalesi dispone solo di una barca e usa metodi antiquati.
anche a palermo…
È domenica e nel tardo pomeriggio cerco una chiesa cattolica. Mi trovo ad Habarana, un villaggio di case sparse e strutture alberghiere nascoste dalla foresta. Il centro è un incrocio di strade, con piccole botteghe allineate e qualche officina. Un crocifisso in legno, piantato su una collinetta, mi indica il luogo: un piccolo complesso, con la scuola di catechismo e le abitazioni delle suore e del parroco.
Padre Eric Feando è giovane, alto e magro. Sorride quando mi presento: «Il mio è un nome portoghese, molto comune nel paese». La lunga tonaca bianca ha collo e polsini logori, ma puliti. Peccato, la messa è appena terminata, ma c’è tempo per parlare e si unisce a noi un suo amico, Neel Wijesinghe.
Neel appartiene alla polizia militare e subito mi spiega che nel suo paese non vi è leva obbligatoria, ma molti giovani entrano nell’esercito per avere un’istruzione e una paga. «C’è molta povertà – aggiunge – e la gente è spinta a emigrare nei paesi del Golfo e in Europa».
Molte donne lavorano nei paesi arabi del Golfo come domestiche e bambinaie e, sovente, vengono maltrattate dai padroni. Vi sono casi penosi, che rimbalzano sui quotidiani. Come quella donna suicida, a Dubai, che si era gettata dalla finestra dell’ultimo piano; o quel marito disperato, rimasto solo ad Habarana con 5 figli: la moglie, emigrata, è scomparsa dopo un’unica telefonata, fatta mesi dopo la partenza. Poi, più nulla. L’indirizzo dato dall’agenzia che le aveva procurato il lavoro era falso, il telefono pure.
Nonostante ciò, continuano a partire con ogni mezzo, sulle carrette del mare, rischiando la vita in mano a trafficanti di uomini senza scrupoli, a cui versano somme ingenti. Vogliono sfuggire le guerre e la miseria dell’isola splendente.
Neel mi dà una notizia sorprendente: «Come in molti altri paesi, anche in Italia, e precisamente a Palermo, esiste una base tamil. La mafia siciliana aiuta i nostri concittadini e poi li arruola. Ci sono molti modi per far arrivare le armi dall’estero».
Il cessate il fuoco tra i governativi e le «Tigri tamil» (Ltte) è durato solo un anno. Poco tempo fa, una nave senza insegne fu intercettata dalla marina militare: non ottenendo risposta, fu affondata. Poi fu scoperto che apparteneva alle Ltte e trasportava armi dall’Indonesia.
Il rischio di una crisi è vivo. I territori del nord e nord-est sono stati rovinati da 20 anni di guerra e, nonostante la lunga e attenta mediazione dei norvegesi, le cose stanno per prendere di nuovo una brutta piega. Il mosaico etnico culturale dello Sri Lanka è certo un problema, ma solo dopo l’indipendenza sono incominciate le violenze.
La divisione è data dalla lingua e dalla religione. Infatti, molti cingalesi hanno anche sangue tamil. Per noi, è difficile distinguere un tamil da un cingalese sulla base dei tratti somatici. I primi arrivarono dal sud dell’India, mentre i secondi discendono dai primitivi abitanti che, pare, ebbero origine dal nord dell’India. I cingalesi sono il 74% e sono buddisti, mentre i tamil sono circa il 20%. I discendenti di commercianti arabi sono musulmani, vivono sulla costa e in alcuni villaggi dell’interno.
nei «giardini delle spezie»
Da molti anni il turismo ha scoperto le bellezze dell’isola. Nonostante i lunghi anni di guerra civile e le bombe scoppiate anche nel centro di Colombo, gli arrivi sono continuati. La maggior parte degli stranieri viene a godersi il sole delle belle spiagge sulla costa, ma sono molti anche quelli che visitano siti storici e archeologici. Le antiche capitali, che guerre e invasioni hanno raso al suolo, conservano imponenti ruderi di pagode e statue del Budda.
L’isola splendente è luogo di miti e leggende. Il poema epico indiano Ramayana racconta del viaggio del principe Rama alla ricerca della sposa Sita, nel regno del demone Ravana, re di Lanka, che l’aveva rapita. Aiutato da Hanuman, dio delle scimmie, attraversò lo stretto che separa l’isola dal sud dell’India, punteggiato da una serie di isole.
Le invasioni dal continente continuarono nel corso dei secoli e spinsero gli abitanti a spostare le loro capitali sempre più a sud, all’interno dell’isola. Dall’India arrivò anche il buddismo, che caratterizza e identifica la maggior parte della popolazione, ispirandone la cultura.
Ashoka, il grande imperatore maurya, inviò suo figlio come missionario, nel iii secolo a. C. e, da qui, la nuova dottrina si diffuse in tutto l’Oriente. Anuradhapura fu capitale per mille anni. Qui, in un recinto sacro, si protegge e si venera l’albero più antico del mondo, nato da un virgulto di quello di Bodhgaya, India, sotto cui il Budda ebbe l’illuminazione. Fu portato qui dalla principessa Sangamitta, figlia di Ashoka.
I turisti ripartono felici dopo visite e soggiorni, ospiti di splendidi alberghi, al riparo da brutte notizie e cattivi incontri. Arrivano e ripartono in comodi pullman, che si fermano solo nei luoghi del turismo classico: negozi di falso artigianato, dove i batik sono teli stampati chissà dove. Nei «giardini delle spezie» vengono smerciati prodotti industriali e gli spettacoli folkloristici sono stati adattati al gusto di noi occidentali.
una dolorosa divisione
Lo Sri Lanka ottenne l’indipendenza nel 1948 e, fino allora, non vi erano mai stati problemi tra la maggioranza cingalese e il 10% di minoranza tamil. Tra questi ultimi bisogna distinguere i «tamil dello Sri Lanka», abitanti il nord del paese, giunti in epoca antica e i «tamil indiani» , discendenti dagli immigrati del Tamil Nadu, giunti nel 1800 dal sud dell’India per lavorare nelle piantagioni di tè, situate nel cuore dell’isola.
Questi vivevano in condizioni di pesante sfruttamento e povertà; per evitare che si potessero alleare con le classi povere urbane, nelle loro rivendicazioni, l’élite locale (che aveva ricevuto il potere dagli inglesi) si fece premura di emanare una legge sulla cittadinanza. Per la prima volta si introdusse il concetto di appartenenza etnica, che portò alla negazione dei diritti per la maggior parte dei tamil indiani. Oltre mezzo milione di tamil avrebbero dovuto trasferirsi in India, ma molti rimasero, senza le garanzie che solo la cittadinanza poteva dare.
Alla comunità era negato il voto, l’educazione superiore, la possibilità di acquistare proprietà statali, accedere a programmi di sviluppo rurale, ottenere il passaporto. L’opportunità di mobilità sociale era nulla: i tamil erano costretti al duro lavoro nelle piantagioni, con un salario minimo. Con l’etnicizzazione della forza lavoro, si spezzava la solidarietà delle classi povere.
La comunità dei tamil srilankiani venne invece coinvolta da tensioni negli anni successivi, a causa della questione linguistica. Mentre dal ’51 si pensava di introdurre sia il cingalese che il tamil nelle scuole, per riconoscere poi entrambe come lingue ufficiali, due anni dopo si sviluppò una corrente nazionalista cingalese-buddista, ispirata dall’influente clero. Ignorando così l’esistenza storica di buddisti e studiosi del buddismo di lingua tamil. Per la prima volta, i tamil srilankiani venivano considerati «altri», nemici in grado di minacciare i valori culturali.
Il movimento, nato intorno allo slogan Sinhala only, si rafforzò durante la fase di declino economico. Alle associazioni dei monaci si unirono insegnanti, medici e studenti di lingua cingalese disoccupati, che spingevano per ottenere il solo riconoscimento del cingalese. Nel 1956, il governo di Solomon Bandaranaike, padre dell’attuale presidente, approvò la legge che riconosceva il cingalese unica lingua ufficiale. Tentativi di fare alcune concessioni sull’uso della lingua tamil vennero violentemente osteggiati dal clero buddista militante.
Nel ’58 esplose la prima grave manifestazione di violenza etnica, con oltre mille morti. A Colombo, 12 mila tamil si rifugiarono in campi profughi, per poi essere trasferiti a Jaffna. L’accesso al pubblico impiego veniva così limitato e, dal ’69, anche l’ammissione all’università veniva stabilito in base a quote su base etnica. Chi sosteneva esami in lingua tamil doveva ottenere voti più alti rispetto a quelli sufficienti per i compagni di lingua cingalese. Nacque così frustrazione e malcontento, difficoltà di occupazione e mobilità, da cui scaturirà l’opzione del ricorso alle armi.
Nel 1972, la nuova costituzione negava lo status costituzionale alla lingua tamil, introducendo disposizioni a favore del buddismo. L’ideologia cingalese-buddista aveva vinto e si era estesa a tutti gli strati sociali, compresi i partiti di sinistra.
l’astuzia delle «tigri»
Quasi 20 anni di guerra civile, dal 1983 al 2001, quando si è firmato un armistizio che non pare definitivo. Le Tigri tamil hanno combattuto per ottenere uno stato indipendente, con costi enormi per il paese: molte vittime tra i civili, difficoltà economiche create da impegno di risorse a fini bellici, violazioni continue dei diritti umani. La spesa per la difesa, negli scorsi anni, assorbiva circa un terzo delle entrate dello stato, sottraendo risorse preziose allo sviluppo del paese. Il conflitto ha alimentato, negli anni, una serie di attività economiche: l’industria bellica ha impiegato sempre più persone, oltre 400 mila nuovi posti su 18 milioni di abitanti.
La gente è stanca della guerra e non solo i civili. L’esercito, in 20 anni, è decuplicato nelle sue dimensioni, ma molti si arruolavano per sostenere le famiglie povere. Ora vi sono molte diserzioni. Il governo ha sempre ostacolato la presenza di giornalisti, privando la popolazione del diritto di sapere e sottraendo il governo al dovere di rispondere del proprio operato.
Le Tigri hanno dimostrato di essere agguerrite, ben rifoite di armamenti, capaci di contrastare gli interventi governativi per il controllo del nord del paese. I tamil, fuggiti all’estero dalle regioni orientali, inviano rimesse pari a circa 500 milioni di dollari l’anno, che alimentano l’economia sommersa.
Entrambe le parti combattenti hanno regolarmente violato i diritti umani nelle regioni del conflitto. L’arruolamento viene fatto nelle zone più povere, da ambe le parti. I tamil arruolano anche i bambini, che rapiscono dai villaggi. La popolazione ha sofferto moltissimo per bombardamenti e combattimenti. Hanno perso la casa, sofferto la fame e subìto stupri da militari e poliziotti.
I governativi pare abbiano detenuto, torturato e ucciso persone sospettate di essere legate alle Ltte. A volte imprigionavano tamil solo sulla base della loro appartenenza etnica, per cui la presidente Kumaratunga è intervenuta a nominare uno speciale comitato per evitare arbìtri.
Con numerosi attentati, specie a Colombo, le Tigri hanno causato molte vittime. Nelle zone di guerra, chi si rifiutava di cornoperare con i tamil veniva torturato e ucciso. Inoltre, le Tigri hanno sempre attuato la pratica dell’omicidio politico, per affermare il controllo sul territorio.
Quando, nel 1998, si indissero le elezioni a Jaffna, ex roccaforte della Ltte riportata sotto il controllo governativo due anni prima, vi fu un’affluenza scarsissima: 17%. Vinse una donna, Sarojini Yogeswaran, del Tulf (Tamil United Liberation Front). Poco dopo, veniva uccisa dalle Tigri e stessa sorte toccava al sindaco della città. Le campagne elettorali sono sempre state accompagnate da violenze, malcostume, incidenti.
Intanto, il governo ha proseguito la politica di privatizzazione, cedendo agli stranieri anche la Telekom e le linee aeree Airlanka, nonostante le opposizioni della sinistra.
Oggi va segnalato l’impegno di mediazione del governo norvegese, che dal 2000 si è dichiarato disponibile a facilitare le trattative coi tamil.
una donna per la pace
Chandrika Bandaranaike Kumaratunga, presidente dello Sri Lanka, appartiene a una famiglia che ha segnato la vita politica del suo paese. La madre si è ritirata dopo le elezioni del ’99, a 84 anni, dalla carica di capo del governo.
Alla guida del Pa (People Alliance), fu eletta per la prima volta nel 1994, riconfermata nel ’99, con l’obiettivo di impegnarsi per pacificare il paese, da molti anni dilaniato dalla guerra civile. Il progetto di dare autonomia alle 9 province doveva alleggerire la tensione delle regioni del nord, abitate da tamil e teatro della guerra civile; ma non poté essere realizzato per l’ostilità sia del partito di opposizione Unp (United National Party), che dell’influente clero buddista. Il governo stava per indire un referendum popolare per ottenere la modifica costituzionale, quando la Ltte, partito dei ribelli tamil, fece esplodere un’autobomba a Kandy.
L’attentato ebbe luogo nel tempio più sacro del buddismo, che racchiude una preziosa reliquia del Budda. L’oltraggio portò tensione nel paese, irrigidimento del governo e stallo nel processo che doveva condurre alla pace…

Claudia Caramanti




IL MONDO VISTO DA GIU’I telefonini in Africa

Il telefonino conquista l’Africa

Dalla metà degli anni ’90, anche nei paesi più poveri dell’Africa arriva il telefono cellulare. Il boom si ha a fine decennio, con il Gsm e schede prepagate. In paesi dove le linee fisse sono poche, a causa delle grandi distanze o mancanza di infrastrutture, il telefonino risolve non pochi problemi di comunicazione.
Nelle città africane spuntano ovunque rivenditori di apparecchi e accessori, pubblicità culturalmente «integrate», come l’offerta ramadan o tabaski (vendite promozionali durante le maggiori feste islamiche, oltre che cristiane, e civili, come san Valentino) e dappertutto persone con il minuscolo apparecchio che squilla o appeso al collo.
Anche nelle zone rurali che hanno la fortuna di essere «illuminate» dalle onde elettromagnetiche, qualcuno riesce a permettersi l’aspirato gingillo. Così capita che il contadino burkinabé oltre all’inseparabile dabà (zappa), mostri il suo Nokia di seconda mano, acquistato al mercato della città più vicina.
Il telefonino è subito uno status symbol; ma diventa presto una soluzione tecnicamente vantaggiosa, spesso molto utile, secondo alcuni, oggi, «imprescindibile». L’impatto sulla vita della gente, però, non sempre è positivo e alcuni usi culturali, come i lunghi saluti prima di iniziare ogni discorso, si riducono drasticamente a causa dei costi.

L a gente non sembra vedere troppo i lati negativi. Abbiamo ascoltato alcuni cittadini del Burkina Faso, dove sono presenti tre operatori: uno statale e due privati. Il signor Sanou, insegnante, afferma che il telefonino «permette a noi funzionari di trattare questioni amministrative ed entrare in contatto con i colleghi per avere delle informazioni in modo molto rapido», il che sembrerebbe molto importante per il suo mestiere. Boukary, pompista in una stazione di benzina, vede un’utilità economica: «Mi permette di spostarmi di meno. Basta una chiamata per annullare o confermare un appuntamento, così non spreco la benzina del motorino».
Tutti ritengono un vantaggio il fatto di essere ovunque raggiungibili, ma occorre essere in una zona coperta. Spesso tali coperture, in Africa, sono limitate alle città principali, loro dintorni e alcuni assi stradali del paese.
«Con il fisso però – dice Etienne, tecnico di una radio – spesso si perdono le comunicazioni perché, sei fuori ufficio, chi risponde al tuo posto non ti trasmette il messaggio». Di fatto, il telefono fisso non è molto diffuso nelle case burkinabé, neanche nella capitale, ma è piuttosto un oggetto da ufficio.
Etienne mette in luce un altro aspetto, più sociale e curioso: «Molti si dicono uomini d’affari e sostengono di usare il cellulare per questioni di lavoro. Capita, invece, che si usi per questioni più losche. Ad esempio, alcuni non sono d’accordo che una donna abbia il cellulare perché pensano che in questo modo possa dare il suo numero a uomini che poi la infastidiscono… Per questo ci sono uomini e donne che non rispondono a chiamate in presenza del proprio consorte. Vi lascio immaginare perché».
«È uno strumento molto utile – ribadisce Urbain Ouedraogo, direttore di banca -. Sul piano sociale mi permette di essere in comunicazione con i miei cari, la famiglia, gli amici: la comunicazione è molto importante nella vita di un uomo. Non c’è nulla di più pericoloso di quando ti trovi isolato e lontano dai tuoi».
E sul piano economico? «Naturalmente il cellulare è caro, soprattutto se consideriamo il potere d’acquisto di un burkinabé medio. Ma è anche vero che ti permette di risparmiare su certi spostamenti e anche i rischi connessi. A volte siamo in centro città, stressati, abbiamo fretta e dobbiamo fare molte cose in poco tempo. Con il telefono mobile riusciamo a risolvere molti problemi senza rischi e magari risparmiando».

E ppure mantenere un cellulare è caro, soprattutto per un giovane. L’acquisto è abbordabile, le promozioni sono fatte per questo: con 50 mila franchi cfa (75 euro) si ha l’apparecchio; l’abbonamento è di 5 mila franchi. Ma uno stipendio medio alto in Burkina Faso è di circa 100 mila franchi al mese.
Per evitare problemi con clienti insolventi, qui si utilizza unicamente il metodo della scheda prepagata da 5 mila cfa, che ha però la scadenza di un mese. Per risparmiare, ci si fa chiamare sul cellulare dai telefoni fissi delle cabine pubbliche o da quelli degli uffici, che alla fine del mese si vedono arrivare bollette gonfiate.
«Mantenere il telefonino costa dai 60 ai 100 mila franchi all’anno – calcola Constantin Dabire, impiegato -, una spesa insostenibile per uno studente».
Constantin s’interroga anche sugli effetti per la salute: «Sembra che possa avere effetti perversi, come il cancro, e ogni tanto alla televisione cercano di spiegare questi inconvenienti».
Un altro fatto che lo disturba è l’uso incontrollato: «La gente abusa del telefono: nelle riunioni ce n’è sempre qualcuno che suona. Saper spegnere il proprio cellulare penso sia una questione di rispetto e di convivenza».

I l telefonino ha portato nuovi mestieri: i venditori di schede telefoniche affollano ogni incrocio delle città; molti si lanciano nella vendita di accessori (batterie usa e getta, auricolari, gusci colorati e apparecchi), come ambulanti o in piccoli chioschi ai bordi delle strade. Altri mestieri (tassista, elettricista, commercianti dell’economia informale) sono diventati più dinamici.
Molti dicono che il cellulare in Africa sta creando una «rivoluzione silenziosa»; sarà anche motore di sviluppo?
Jean Victor Ouedraogo
e Marco Bello

Marco Bello e Jean Victor Ouodreago




TANZANIAPiccole oasi di speranza

Tra i tanti bisogni di una società in crescita,
il mondo della scuola non può essere dimenticato.
Soprattutto quando povertà e limiti impediscono di dare
a tutti la speranza
di un futuro. Per questo i missionari, rimboccandosi
le maniche, si sono dati da fare e…

Attraversando i villaggi del Tanzania, si resta colpiti dall’assenza di uomini, spesso partiti per Dar es Salaam o un’altra città in cerca di lavoro. Le donne ereditano tutti i compiti: curare i numerosi bambini (5 o 6 per famiglia), coltivare i campi, macinare farina per la polenta quotidiana, risolvere mille altri problemi…
Poiché la maggior parte dei genitori sono poco inclinati all’istruzione, sovente i bambini non vengono mandati a scuola. E quando il missionario insiste, tutte le scuse sono buone: è ancora piccolo, la scuola è troppo lontana, deve custodire gli animali, è indispensabile per andare ad attingere l’acqua…
Quale sarà il futuro di questi ragazzi? Li si vede sulla strada, ancora piccoli. Pascolano qualche bestia, trasportano legna da ardere, bidoni di acqua sulla testa per chilometri a piedi nudi, ai bordi di strade pericolose. Perdono così l’opportunità di istruirsi e… giocare.
Dove sono andati a finire i diritti dei minori? Milioni di loro vivono di queste situazioni o anche peggio! Molti, in Tanzania, hanno perso i genitori per l’Aids (il più grande flagello attuale del paese). Alcuni sono affidati ai nonni; altri abbandonati a se stessi. Quanti si troveranno ad affrontare la società e il futuro senza istruzione né un mestiere?
Piuttosto che sacrificare l’avvenire, coltivando un piccolo campo per assicurare la sopravvivenza dei famigliari, o occuparsi del bestiame, molti cercheranno un lavoro in città. Arrivano a centinaia, ogni giorno, nella capitale. Ma non trovano niente: hanno fame, rubano, si nascondono dai poliziotti, spesso vengono messi in prigione e maltrattati. Alcuni si drogano, altri si prostituiscono, l’Aids è sempre in agguato… e quelli che ne vengono colpiti ritornano a casa per morirvi.
Di fronte a questa dura realtà, con i problemi che ne derivano, i missionari della Consolata non sono rimasti con le mani in mano, ma hanno cercato di creare alcune «oasi di speranza».
«consolazione»
a largo respiro
A Tosamaganga, dove i missionari della Consolata arrivarono nel 1919, padre Luis Zubía ha realizzato, con la collaborazione delle suore di Santa Teresa del Bambino Gesù e personale laico locale, un’opera magnifica per gli orfani. I più piccoli, che hanno tra i 10 mesi e i 2 anni, occupano il nido; quelli di 2-3 anni sono collocati in un’altra sala, ma ve ne sono altri ancora più grandi.
È commovente vedere con quale tenerezza, attenzione e amore sono trattati: una compensazione per ciò che non riceveranno mai dai loro genitori. Padre Luis non lascia passare un giorno senza venire a portare un po’ di affetto a ciascuno dei suoi piccoli protetti.
A Mgongo, ultima missione fondata nel 1997, i padri Franco Sordella e Giulio Belotti, con fratel Mutisya Kyalo, Teresa e Paolo (una coppia di laici missionari portoghesi) hanno creato la Faraja House (casa della consolazione). Suo scopo è accogliere i bambini di strada e offrire loro una vita migliore, partendo dalle cose più semplici: accogliendoli con amore, lavandoli, nutrendoli, vestendoli ed educandoli nel miglior modo possibile.
Il compito è talvolta arduo, poiché questi ragazzi sono vissuti a lungo senza regole ai margini della società. Devono imparare a stare insieme, rispettarsi, svolgere incarichi e sviluppare il senso di responsabilità. Ognuno deve lavarsi i propri vestiti, partecipare alla pulizia della casa, lavorare nei campi o nell’allevamento del bestiame (10 vacche, 200 pecore, 65 maiali…). Tutto ciò, sotto la direzione di personale adulto.
L’istruzione occupa un posto importante. Tra i 75 ragazzi (tra 7 e 18 anni), 10 frequentano le superiori, 7 imparano un mestiere alla scuola tecnica, mentre gli altri vanno alla scuola elementare di Mgongo, costruita dai missionari della Consolata, ma gestita dall’amministrazione del villaggio.
Lo sport, soprattutto calcio e karaté, è compreso tra i mezzi di formazione: molti ragazzi, infatti, troppo occupati a sopravvivere, non hanno nemmeno avuto il tempo di giocare, di essere bambini…
Ricerche vengono fatte sulla loro provenienza, ambiente famigliare, natura dei loro problemi e, quando è possibile, sono reinseriti in famiglia, al termine delle scuole elementari. Scopo ultimo è di dare loro un mestiere che li possa rendere autosufficienti e permetta di vivere felici come adulti responsabili.
Certo, la perfezione non è di questo mondo: succede che qualcuno non riesca ad adattarsi e torna sulla strada, anche se il prezzo della libertà è molto caro. Tuttavia, la maggioranza diventa capace di vivere in società, lavorare e prendere in mano la propria vita, con una grande speranza di felicità.
Sempre nella diocesi di Iringa, alla missione di Madege, aperta dai missionari della Consolata nel 1996, i padri Dieudonné Ambinikosi e George Gichuki, coscienti del problema di adattamento di tanti ragazzi dei villaggi che i genitori non mandano a scuola, hanno inventato una specie di comunità per accogliere quelli dai 5 agli 8 anni, preparandoli a integrarsi nella scuola pubblica. Senza questo tipo di aiuto, molti non frequenterebbero mai la scuola e altrettanti l’abbandonerebbero prima di finire le elementari.
La collocazione di questa comunità è facilmente accessibile, per evitare ai piccoli alunni di dover camminare parecchi chilometri nell’andata e ritorno. Tutto viene messo in opera per venire incontro ai piccoli alunni di Madege e villaggi vicini.
La «stella del mattino»
Kasanga e Mindu sono due villaggi nella diocesi di Morogoro, dove padre Thomas Ishengoma, direttore dell’Allamano Seminary, si reca regolarmente con i seminaristi, per aiutare i bambini poveri o i cui genitori sono colpiti dall’Aids. Attualmente, in tale ambiente, l’80% dei ragazzi non va a scuola e l’istruzione non è percepita come priorità.
Semillero ya Consolata è il nome del progetto educativo che si è proposto padre Thomas. Si trova in un centro posto a Kasanga; l’obiettivo è favorire tutto ciò che può assicurare ai ragazzi una migliore integrazione umana e sociale, attraverso attività sportive o esercizi centrati sulla creatività, che aiutano la scoperta dei veri valori. Si aggiunge l’appoggio intenso per chi sta vivendo momenti di instabilità, dovuti spesso alla morte dei genitori o a gravi problemi economici. È un’assistenza personalizzata, che permette a ognuno di scoprire la propria dimensione umana e spirituale, potenzialità e possibili orizzonti futuri.
Sfortunatamente, tra coloro che riusciranno a terminare la scuola elementare, solo il 25% avrà accesso alle scuole superiori. Le distanze da percorrere sono ancora più grandi, ma questo non è l’unico problema: i costi sono troppo elevati per tanti poveri che, sovente, riescono con fatica a sopravvivere.
A Ilamba ci sono due istituzioni per favorire la frequenza all’istruzione superiore: scuola dei genitori e centro educativo Nyota ya asubuhi (stella del mattino), evocazione di quella stella che ogni giorno porta qualcosa di bello e nuovo.
La scuola dei genitori di Ilamba è stata costruita grazie alla generosità di benefattori spagnoli, «stimolati» da padre Salvador Del Molino, che ha permesso l’acquisto di un generatore, equipaggiamento da cucina e un trattore. Gli alunni che frequentano la scuola pagano le spese di iscrizione e dei pasti. Così, l’accesso alla scuola superiore è offerto a un più grande numero di ragazzi.
Nonostante questo progetto finanziato dai genitori, molti ragazzi di 15-16 anni non possono accedervi. Che fare? Cercare lavoro a Dar es Salaam, Makambako o Dodoma? Non è facile senza competenze professionali. Rimanere al villaggio, dove li attende il lavoro della campagna o l’allevamento del bestiame?
Tali attività rurali di semplice sopravvivenza hanno poche attrattive. Alcuni sceglieranno di restare in città, preferendo la sua miseria a quella del villaggio: piuttosto la fame che la schiavitù della terra o degli animali, sempre in balia delle bizzarrie del clima.
Come aiutare tutti questi ragazzi? Per loro è diretta la «Stella del mattino»: è un centro di formazione umana, morale, accademica (di livello superiore) e professionale, diretto da due suore della Consolata.
All’inizio del progetto, quattro anni fa, suor Cecilia Maingi, fondatrice del centro, aveva soltanto una piccola capanna in terra battuta e tetto di paglia; ma, pure con pochi mezzi, il fuoco della missione la bruciava. In poco tempo è riuscita a trovare risorse e manodopera per costruire aule, dormitori e laboratori, dove viene impartita la formazione a livello superiore e vengono insegnati vari mestieri a un gruppo di 120 studenti, che saranno sarti, cuochi, falegnami, muratori…
Alla fine dei corsi, i giovani affronteranno gli esami del Veta (Vocational Education Training Association) per ottenere il certificato di abilitazione professionale.
Suor Maria Artura, che da due anni si dedica a questi ragazzi, ci ha confidato che il Signore ha fatto miracoli per il centro, poiché alcuni benefattori italiani hanno accettato di installarvi acqua corrente ed elettricità, hanno donato un camion, indispensabile in questi luoghi così lontani dalla città, dove le strade sono impraticabili.
La scuola professionale ha una certa somiglianza con quella tecnica di Mgongo; è anche approvata dal Veta, che riconosce cinque specializzazioni: falegnameria, meccanica, calzoleria, segreteria e informatica.
Alla fine dei tre anni di studio, i giovani lasciano la scuola con un diploma riconosciuto dal governo e una cassetta di attrezzi per iniziare un’attività in proprio.

Ecco, dunque, alcune delle opere missionarie che lo Spirito Santo ha ispirato a padri, fratelli, suore e laici della Consolata per venire incontro ai più poveri. Proprio come aveva insegnato e sognato il beato Giuseppe Allamano: piccole oasi destinate ai ragazzi del Tanzania, perché trovino in esse la speranza di una vita migliore.

Ghislaine Chrete




KENYASinfonia di aiuti

Anche nei posti più difficili, è possibile far sorgere un’opera «quasi impossibile», come un ospedale. Eppure, unendo insieme fantasia, generosità
e competenza, il sogno può avverarsi. Come è successo nell’arido Tharaka…

S orta nel 1957 in uno sperduto lembo del Tharaka, 180 km a nord di Nairobi, la missione di Matiri copre un’area di 600 kmq con una popolazione di 46 mila abitanti di vari gruppi bantu.
La popolazione vive di pastorizia e, malgrado le frequenti siccità, di agricoltura di sussistenza, limitata alla coltivazione di miglio e granturco, dai quali ricava una polenta che è spesso l’unico pasto quotidiano.
Le strade sono pessime, l’acqua scarseggia. Per migliorare le condizioni di vita dei suoi parrocchiani, padre Orazio Mazzucchi, missionario della Consolata, unendo al servizio pastorale una capacità manageriale, ha trasformato Matiri in un perenne cantiere. La missione ospita varie strutture scolastiche e, fin dai primi anni ’60, un ambulatorio che per anni ha rappresentato l’unica forma di assistenza alla popolazione, afflitta delle principali malattie tropicali: malaria, tubercolosi, parassiti, lebbra, tracoma, Aids.
Rita: un volto
accanto a… Cristo
Nel 1987, il dispensario ha fatto un primo salto di qualità, grazie a un’infermiera volontaria piemontese, Rita Drago, arrivata sul posto con il Cuamm (medici missionari); da allora, non è più ripartita.
La sua dedizione e competenza le hanno subito guadagnato stima e fiducia della popolazione, in particolare delle donne, che hanno trovato in lei un valido aiuto sia nelle emergenze sanitarie, che nella gestione della vita familiare e prevenzione di malattie infettive. Tanto è l’affetto della gente di Matiri, che, al momento di adornare la modesta chiesa della missione con un ciclo di affreschi ispirati al vangelo, hanno voluto inserire anche il volto di Rita tra le figure che attorniano il Cristo.
Già allora frequentavano Matiri i volontari dell’Avi (Associazione volontariato insieme, di Montebelluna TV), nata su impulso del concittadino padre Pierino Schiavinato, uno dei tanti missionari della Consolata usciti dal seminario di Biadene. Tramite Rita, le donne tharaka presentarono all’Avi l’esigenza di assistenza continua e qualificata durante la gravidanza. Grazie all’associazione montebellunese, la collaborazione dei clan locali e gruppi organizzati femminili, nel 1995 si è potuto inaugurare una piccola mateità che, con i suoi 15 posti letto, ha garantito assistenza a circa 700 parti l’anno.
Fondamentale si rivelava l’apporto, sia in termini di lavoro personale che finanziario, del decano dell’Avi, Mario Olivato, che, con questa struttura a servizio dei bambini, ha voluto ricordare un figlio scomparso precocemente.
tutti insieme,
appassionatamente
Nel corso degli anni, la mateità ha trovato la collaborazione di vari medici volontari, che passano le loro vacanze a Matiri, dando una mano a Rita. Ma la mancanza di una sala operatoria e modee attrezzature diagnostiche non permette una piena risposta alle necessità dei pazienti; per di più, i 40 km di sterrato, che separano Matiri dall’ospedale più vicino (impercorribili durante la stagione delle piogge), potevano trasformare in tragedia anche la più banale patologia.
Tra i medici volontari passati a Matiri c’è anche Giorgio Giaccaglia, primario dell’Unità terapia intensiva dell’ospedale di Migliarino (Ferrara), che ha alle spalle una breve esperienza di volontariato presso l’ospedale di Sololo, nel nord del Kenya: ormai prossimo alla pensione, quando, come tanti suoi colleghi, potrebbe dedicarsi interamente ai guadagni dorati della libera professione, non accetta di assistere impotente alla perdita di tante vite e matura l’idea di trasferirsi in pianta stabile a Matiri, per avviare la costruzione di un vero ospedale.
La moglie Antonia, a sua volta infermiera, è la prima a condividere e incoraggiare il progetto. Giorgio ne parla, nel 1999, con un altro montebellunese, padre Livio Tessari, all’epoca responsabile dell’ufficio di cornordinamento degli ospedali africani dei missionari della Consolata; comincia a coinvolgere attorno a quest’idea colleghi e amministratori della sanità ferrarese, con i quali dà vita all’«Associazione Emiliano De Marco». Ancora una volta l’impegno per i bambini del Tharaka si lega al ricordo di un giovane italiano, mancato precocemente.
Padre Livio lo mette in contatto con Gino Merlo, presidente dell’Avi, e il progetto prende forma, potendo contare anche sul parallelo intervento di altre realtà del volontariato, come l’Ong «Mondo giusto» di Lecco e l’Associazione «La sola verità è amarsi» di Barzanò (LC).
I volontari lombardi sono alle prese con la costruzione di un acquedotto per fornire acqua alle opere di Matiri, di una centralina idroelettrica da 70 kw e un progetto di sviluppo agricolo: tutto sfruttando le acque del fiume Mutonga (cfr. Missioni Consolata, marzo 2003).
Tra il 2000 ed il 2003 si susseguono i rilievi e la progettazione, curata dall’architetto Zarattini di Ferrara, i contatti con la diocesi di Meru, le autorità locali e le varie iniziative di raccolta fondi, che coinvolgono banche, enti locali e donatori privati del Veneto e dell’Emilia. Vengono anche raccolte e rigenerate varie attrezzature sanitarie dismesse dagli ospedali.
con la benedizione
di sant’orsola
Nel luglio 2001, mons. Silas Silvius Njiru, vescovo di Meru, pone la prima pietra del costruendo ospedale, che, nel frattempo, vede nascere a Caserta un nuovo gruppo di sostenitori, riuniti nell’associazione «Una mano tesa per Tharaka».
I lavori di muratura vengono affidati ad Agrikenya Ltd, un’impresa di Nairobi gestita da un costruttore italiano, e decine di volontari trevigiani e ferraresi spendono le loro vacanze occupandosi di impiantistica, generatori elettrici, pannelli fotovoltaici, macchinari elettromedicali e quant’altro.
Non mancano (è ovvio!) né imprevisti e ritardi legati alla situazione locale, né le incomprensioni tra persone che stanno imparando a conoscersi strada facendo; ma, a eccezione di un residuo contenzioso con Agrikenya, l’entusiasmo, la fantasia e la consapevolezza dei bisogni che attendono una soluzione consentono di superare ogni ostacolo.
Il primo ottobre 2003, l’ospedale entra in attività e, nella sua gestione, viene coinvolta la congregazione delle Orsoline, che manda a Matiri tre suore indiane con competenze infermieristiche e amministrative. In un’area dove solo lo 0,5% della popolazione dispone di una stabile occupazione, l’ospedale significa anche una sessantina di nuovi posti di lavoro tra infermieri, assistenti sanitari, inservienti e addetti alla cucina.
Grande è la gioia per questo risultato, anche se velata dalla scomparsa di padre Livio Tessari, spentosi a Torino appena tre mesi prima.
Questo primo stralcio funzionale si sviluppa su circa 2.000 mq di superficie e dispone di due sale operatorie, sala parto, 50 posti letto di degenza, radiologia, ecografia, laboratorio analisi, ambulatori e locali di servizio. È la prima struttura del Tharaka a essere realizzata con copertura in tegole e tetto autoventilante, il che garantisce una buona temperatura intea. Ad essa si affiancano una casa per le suore e una per i volontari; sono state gettate le fondamenta per un terzo alloggio, destinato ai medici residenti.
L’assistenza medica e chirurgica è affidata a Giorgio Giaccaglia e all’infettivologa Marina Tadolini, ai quali si affiancano medici e paramedici emiliani e campani (si spera a breve anche veneti), anche se a regime l’ospedale dovrà necessariamente assumere personale medico locale. L’impegno di spesa ha già superato i 600 mila euro (senza contare l’apporto personale dei volontari) e almeno altri 200 mila di attrezzature e opere sono stati foiti dal Consorzio acquedotto del Po per l’approvvigionamento idrico.
Le previsioni per le spese di gestione sono di 250/300 mila euro all’anno, che sicuramente non possono essere reperiti sul posto e continueranno a lungo a impegnare le associazioni che ne hanno promosso la costruzione; mentre le aspettative che la popolazione riversa sulla struttura richiederebbero, già oggi, l’avvio di un primo ampliamento.
Il 31 gennaio 2004, il vescovo di Meru ha benedetto il nuovo ospedale dedicandolo a sant’Orsola, con una cerimonia nella quale padre Orazio Mazzucchi e Giorgio Giaccaglia hanno dato un emozionato benvenuto al superiore generale della Consolata, padre Pietro Trabucco, al superiore regionale padre Luigi Brambilla, autorità locali, volontari di Ferrara (accompagnati dall’assessore Alessandra Chiappini), di Montebelluna, Caserta, Barzanò, Fano e altre realtà che gravitano attorno alla missione. Il rappresentante del governo kenyano, che ha partecipato alla cerimonia, si è sbilanciato: ha promesso l’arrivo di una linea elettrica. Staremo a vedere.
A 80 anni suonati, è presente anche Mario Olivato che, nel frattempo, lasciata in buone mani la crescita della «sua» mateità, ha trovato tempo, energie e risorse per occuparsi di bambini orfani o abbandonati, affidati alle cure di Rita. Grazie a Mario, oggi Matiri può ospitarli in una nuova casa. La benedizione ai 65 degenti e le loro patologie, che spaziano dal morso del coccodrillo alle grandi ustioni, alla gravidanza complicata da malaria acuta, danno l’idea dei bisogni che affliggono la popolazione, mentre l’attaccamento alla vita di una piccola creatura, salvata il giorno prima con un cesareo dall’équipe di Giorgio, rafforza in tutti l’entusiasmo e la determinazione per continuare a lavorare.

La festa ha rischiato di trasformarsi in tragedia: sulla via del ritorno a Nairobi, alcuni partecipanti all’inaugurazione, tra cui l’assessore Chiappini e Antonia Giaccaglia, sono stati coinvolti in un incidente, riportando varie fratture. Ricoverati al Nairobi Hospital, hanno avuto la conferma che dalla sanità privata puoi trovare aiuto solo se disponi di adeguata carta di credito.
A Matiri invece, come ha ricordato nel suo saluto il vice presidente Avi, Francesco Tartini, l’ospedale di sant’Orsola si ispira al principio che la salute non è né un’opera di carità, né un bene di consumo; ma un diritto umano fondamentale.

Francesco Tartini




VENEZUELA 2004 Tra Bolivar e Chávez (prima puntata)

Introduzione
VENEZUELA 2004
(e la maledizione del petrolio)

Sono molte le immagini che si sono
impresse nella mente durante il mio viaggio in Venezuela. Dire che il
paese è diviso in due parti antitetiche e contrapposte può sembrare
semplicistico, ma l’affermazione non si discosta troppo dalla realtà.
Ricordo le lacrime silenziose della ministra dell’ambiente, Ana Elisa
Osorio, medico, quando raccontava delle «amiche» che l’hanno ripudiata
perché lei è entrata nel governo dell’odiato Hugo Chávez Frias. Ricordo
la faccia triste dell’ex ministro della pianificazione, Jorge Giordani,
ingegnere laureato a Bologna, quando ci raccontava il comportamento dei
suoi vicini di casa: costoro ogni sera, per mesi, avevano inscenato
rumorose ed offensive proteste davanti ai cancelli della sua abitazione
perché lui e la sua famiglia se ne andassero dalla zona. Ricordo gli
occhi pieni di felicità di Maylin Rodriguez Beltran, giovane mamma del
barrio Sucre, a Caracas, quando ci mostrava l’atto di proprietà della
propria casa (già abusiva), appena ricevuto dal governo.

Ricordo
il racconto di padre Agostinho, missionario della Consolata: «Le
divisioni tra chavisti e anti-chavisti si manifestano anche nella mia
chiesa. Qualche tempo fa, una signora durante una messa ha chiesto agli
altri fedeli di pregare perché Chávez se ne vada. Davanti a questi
fatti io, prete, come debbo comportarmi?». Ricordo l’accorato
comunicato di un gruppo di suore favorevoli a Chávez (chiamato «hermano
Presidente»), che si concludeva così: «Noi gridiamo che vale la pena di
vivere in Venezuela: oggi, qui ed ora».

Il Venezuela è uno dei
maggiori esportatori mondiali di petrolio. In America Latina è il primo
produttore. La «Petróleos de Venezuela» (Pdvsa, detta Pedevesa nel
linguaggio corrente), la compagnia petrolifera di proprietà pubblica,
ha sempre generato enormi profitti, che però invece di arrivare nelle
casse dello stato in larga parte sono andati a gonfiare conti bancari
privati, in patria come all’estero. Forse per questo i dirigenti di
Pedevesa si sono apertamente schierati con la «Coordinadora
democratica» (l’eterogenea alleanza che raggruppa gli anti-chavisti).
Poco importerebbe se essi non fossero riusciti a bloccare per mesi
(attraverso uno sciopero, ma anche con autentici atti di sabotaggio) la
produzione di greggio, portando il paese ad un passo dalla bancarotta.
Difficile fare previsioni sul futuro del Venezuela. Il presidente
Chávez (ammesso che resista) indirà le elezioni nel prossimo agosto? Se
sì, i contendenti accetteranno il successivo responso delle ue? Un
eventuale ritorno dell’opposizione al governo, comporterà anche un
ritorno ad un modello economico dove l’80 per cento dei venezuelani è
costretto a vivere nella miseria?

Pa.Mo.


VOCI DA PIAZZA ALTAMIRA:
«NOI TORNEREMO»

Dicono
che il presidente Hugo Chávez Frias sia un dittatore, legato a Fidel
Castro e al comunismo internazionale. Ma non parlano da un carcere o
dall’esilio. I militari ribelli hanno il loro quartiere generale in un
albergo che si affaccia su piazza Altamira, luogo simbolo
dell’opposizione venezuelana, situato nella parte est di Caracas, il
quartiere delle classi ricche. Abbiamo incontrato uno dei comandanti
ammutinati, il generale Néstor Gonzáles Gonzáles. Ecco le sue risposte
e i suoi giudizi sulla situazione venezuelana e sul futuro.

Caracas.
Alle spalle della piazza si alza il monte Avila, che per la sua altezza
svolge una funzione di orientamento per chiunque non conosca Caracas.
La piazza si chiama Francia, ma è comunemente conosciuta come Altamira.
Costituisce il fulcro di Chacao, il municipio più ricco di Caracas,
dove ci sono le maggiori entrate fiscali, dove le strade sono ordinate
e dove il colore della pelle delle persone è tendenzialmente sul
bianco… Il sindaco di Chacao si chiama Leopoldo Lopez e, con il suo
movimento Primero justicia, è uno dei leader emergenti dell’opposizione
venezuelana.
La piazza Altamira è diventata famosa in tempi recenti.
Tutta circondata da palazzi modei e posta in leggera salita, negli
ultimi due anni essa si è trasformata in una sorta di santuario del
movimento che si oppone al presidente Hugo Chávez. In senso simbolico,
ma anche effettivo.
Sotto l’obelisco che sta al centro della
piazza è stato eretto una specie di altare con una grande statua della
Madonna e sotto di essa altre di dimensioni minori. Attoo grandi
casse acustiche, microfoni, un palco per le riprese televisive, un
orologio che scandisce ore e minuti trascorsi dall’inizio
dell’occupazione della piazza. E ancora striscioni contro Chávez
(«rinuncia subito ») e in favore del generale Martinez; cartelli con il
sito internet e il numero di conto corrente bancario dei «militari
democratici». Il tutto è infiocchettato da drappi gialli, azzurri,
rossi, i colori del Venezuela.
Stiamo per scattare qualche foto,
quando alcune persone si avvicinano per consigliarci di andare a
chiedere il permesso. «Il permesso?» chiediamo stupiti.
– È meglio. Potrebbero confondervi per spie chaviste.
– E a chi dovremmo chiedere questo permesso?
– Entrate nell’hotel.
L’hotel è il «Four Seasons», moderno e mai entrato in funzione. Da mesi
divenuto una sorta di quartier generale dell’opposizione e, in
particolare, degli ufficiali che hanno lasciato Chávez. Sono qui dallo
scorso 22 ottobre e con una buona dose di enfasi hanno dichiarato
piazza Altamira «territorio liberato». Alcune persone ci indirizzano
dal generale. Con un basco sulla testa rasata a zero e un giubbotto
antiproiettile che sbuca dalla giacca d’ordinanza carica di lustrini
militari, l’ufficiale non può passare inosservato neppure agli occhi di
persone totalmente estranee al mondo militare. Dimentichiamo subito il
motivo per cui siamo entrati. L’occasione è troppo ghiotta: chiediamo
di avere una breve intervista. Ci dice di aspettare un attimo. Ritorna
dopo pochi minuti, impettito come si conviene a un generale, stringendo
tra le mani il bastone del comando.
Generale, cominciamo con una breve autopresentazione.
«Sono Néstor Gonzáles Gonzáles, generale di brigata dell’esercito
venezuelano. Sono uscito dall’accademia militare nel 1974. Ho 28 anni e
mezzo di servizio attivo, più quattro anni all’accademia».
Dunque, lei ha quasi 33 anni di vita militare alle spalle. Con quali incarichi?
«Ho avuto incarichi di comando della truppa in tutta la mia carriera e sono
stato anche istruttore per tutte le armi. Sono stato comandante dei
reparti di artiglieria, vicecomandante del reggimento della guardia
d’onore durante i governi di Carlos Andrés Pérez (1989-1993) e di
Rafael Caldera (1994-1998) in una situazione sommamente critica. Questo
le da un’idea di quanto siamo democratici e del fatto che non siamo
golpisti. Sono stato secondo comandante della 31° brigata di fanteria;
direttore della scuola di artiglieria dell’esercito; comandante della
brigata cacciatori dell’esercito; comandante del teatro di operazione
numero 2.
Il mio ultimo incarico è come direttore del personale dell’esercito e comandante di tutte le scuole dell’esercito».
Un curriculum di tutto rispetto per un ufficiale. Ora, però, le chiediamo: che ci fa in questa piazza?
«Questa è una situazione che molte persone non capiscono. Bisogna sapere che
prima di arrivare a ciò sono state fatte tutte le denunce attraverso i
canali legali per far sì che il presidente rispettasse la costituzione».
In cosa Chávez non avrebbe rispettato la costituzione?
«Per esempio, il tradimento della patria con la consegna del territorio
venezuelano alla guerriglia colombiana. Ho manifestato pubblicamente e
attraverso tutti i canali ufficiali (dell’esercito, del ministro della
difesa e della presidenza della repubblica) il mio scontento e la mia
indisposizione ad accettare che la politica fosse introdotta
all’interno dei quadri dell’esercito. Sostenevo che questa
politicizzazione delle forze armate avrebbe portato a problemi di
divisione, di leadership e di operatività. Tutte queste mie
osservazioni non sono state prese in considerazione. Poi sono avvenuti
i fatti dell’11 aprile 2002 (vedere cronologia, ndr). Io ho fermato le
truppe e i tanks perché non uscissero per strada a massacrare il popolo
venezuelano, che chiedeva la rinuncia del presidente. L’intento di
Chávez era proprio quello di usare le truppe per sequestrare il popolo
venezuelano e imporre un progetto comunista di tipo totalitario,
diretto da Fidel Castro e dalla sinistra internazionale. Una volta che
è successo tutto questo, io ed altri ufficiali democratici abbiamo
ritenuto che non esistesse più uno stato di diritto all’interno del
nostro paese e siamo scesi in piazza Altamira a denunciare quello che
stava succedendo. Era il 22 ottobre 2002. Siamo ancora qui, perché lo
stato di diritto non è stato ripristinato e non esiste neppure un luogo
dove presentare le nostre denunce, dato che tutti i poteri dello stato
hanno un atteggiamento ostile nei nostri confronti.
Per tutto questo abbiamo deciso di ritirarci dall’esercito e venire in questa
piazza per denunciare all’opinione pubblica nazionale e internazionale
quello che sta facendo il presidente Hugo Chávez contro il popolo
venezuelano. Questa persona ha permesso a elementi stranieri di entrare
nel nostro paese per reprimere la rivolta popolare; ha distrutto tutte
le istituzioni e sfrutta la miseria per portare avanti un progetto di
sinistra con lo scopo di destabilizzare tutto il continente
latinoamericano e probabilmente la pace e la tranquillità del mondo».
Quante persone condividono la vostra ribellione?
«All’interno
del territorio liberato di piazza Altamira ci sono 126 militari. Ma non
tutti vivono qui. Alcuni vanno ai loro luoghi di residenza, altri
invece dormono sempre in case diverse per motivi di sicurezza. C’è
repressione contro di noi, contro le nostre famiglie».
Lei parla di repressione. Però, è molto originale che ci sia un gruppo di ufficiali
che si sono ammutinati e non riconoscono questo governo e che tuttavia
non vengono arrestati…
«In questo momento abbiamo 9 ufficiali
con ordini di cattura. Gli altri no. Nemmeno io, che continuo ad essere
militare attivo delle forze armate venezuelane. Siamo 4 generali. Gli
altri sono stati abbassati di grado senza nessuna giustificazione,
senza nessun diritto alla difesa, senza il processo che si deve seguire
in questi casi.
Abbiamo un generale detenuto nella sua residenza
per motivi politici, il generale Alfonso Martinez. Inoltre, a parte
noi, ci sono molti generali che sono a casa o senza incarichi o che si
sono ritirati dal servizio, che lavorano per ottenere l’abbandono della
presidenza da parte di Hugo Chávez».
Lei ovviamente sta parlando di un’uscita pacifica, giusto?
«Qualsiasi uscita! Perché quando si vende la patria, quando si tradisce un popolo
per imporre un regime alieno, che non si identifica con il benessere,
la tranquillità e la pace della gente, si deve arrivare alla libertà a
qualsiasi costo.
Abbiamo iniziato pacificamente, ma se dovremo
ricorrere ad altri metodi lo faremo. Dobbiamo recuperare la libertà di
una nazione e di un popolo che sta soffrendo. Purtroppo, la comunità
internazionale non ha inteso totalmente la nostra situazione».
Perché non avrebbe inteso la situazione? I media hanno parlato molto del Venezuela…
«Semplicemente perché il governo ha manipolato l’informazione. Con molto denaro ha
costruito una lobby internazionale a cui mostra continuamente una
costituzione che non rispetta. Hugo Chávez vuole dimostrare che è un
democratico, mentre in realtà è un dittatore che tenta di imporre un
regime comunista e fondamentalista».
Parliamo di numeri. Secondo lei, quanta gente sta con Chávez?
«Calcoliamo
che ha una popolarità “dura” tra il 12% e il 15%. Poi c’è un altro 15%
che, per così dire, è chavista light, molti anche all’interno delle
forze armate, perché sono pagati, corrotti. Chávez ha comprato la
dignità e la coscienza della maggior parte delle persone che lavorano
con lui, ma quando il denaro finirà queste lo lasceranno perché non si
identificano con lui».
Se solo il 30% della popolazione sta con
Chávez, questo significa che il presidente è stato abbandonato anche da
gran parte della gente povera…
«Molti pensano che gli abitanti
dei barrios poveri stiano dalla sua parte, ma non è così. Ad esempio,
durante il firmazo (raccolta di firme contro il presidente indetta
dall’opposizione, ndr), molta gente è scesa a Caracas per manifestare
la propria volontà di smettere di soffrire».
E le forze armate da che parte stanno?
«Chi
crede che le forze armate stiano con il presidente si sbaglia! Proprio
perché non è così, Chávez ha portato tanti stranieri sul territorio
venezuelano: gruppi della guerriglia colombiana pronti ad intervenire
con le armi; cubani mascherati da istruttori sportivi, ma ugualmente
armati. Poi, con la scusa di difendere la rivoluzione, ha armato anche
parte della popolazione».
Lei si riferisce ai cosiddetti circoli bolivariani?
«Certo!
Lui ha organizzato questi circoli perché sa che le forze armate non
stanno dalla sua parte, che hanno una posizione istituzionalista e che
un giorno si uniranno assieme al popolo per cacciarlo».
E cosa pensa della cornordinadora democratica?
«Un
elemento della politica di Hugo Chávez è cercare di dividere
l’opposizione. La cornordinadora democratica non è sfuggita a questo
tentativo. Così si sono create divisioni tra i politici che si
oppongono a Chávez per interessi personali, economici o di partito.
Queste persone vengono automaticamente messe da parte quando ci si
accorge che esse non si identificano con l’interesse generale del
popolo venezuelano».
E quali vie d’uscita propone la cornordinadora democratica?
«Chávez
disprezza qualsiasi opzione democratica e si burla costantemente di
ogni soluzione proposta dal popolo, perché se è vero che il presidente
gode ancora di un 25-30% di supporto popolare, è anche vero che ha un
70% di rifiuto che viene espresso regolarmente nelle strade di Caracas
e non solo in piazza Altamira.
Questo non era mai successo con
nessun presidente venezuelano, nemmeno con Caldera che arrivò ad avere
un 15% di popolarità, ma il restante 85% della popolazione rimaneva
indifferente e viveva la vita così come veniva. Tutto restava confinato
all’interno di un contesto democratico, senza creare in nessun momento
divisioni tra ricchi e poveri o tra bianchi e neri, come cerca di fare
in questo momento Chávez».
Generale Gonzáles, che cosa pensa per il futuro immediato?
«Il
futuro immediato impone al popolo venezuelano di continuare a scendere
in piazza per far capire alla comunità internazionale che la nostra
lotta è giusta. La pace, la libertà, la tranquillità e il futuro del
Venezuela significano molto non soltanto all’interno del continente
sudamericano, ma anche nel contesto occidentale e mondiale. Non può
essere che un gruppo minoritario sequestri la libertà e la tranquillità
di un paese. Pertanto dobbiamo continuare ad andare avanti. A qualsiasi
costo».

(Fine 1a. puntata)

BOX
SCHEDA VENEZUELA

Superficie: 915.000 Kmq (circa 3 volte l’Italia)
Popolazione: 23.706.000 (1999)
Gruppi etnici: meticci (67%), bianchi (21%), neri (10%), amerindi (2%)
Capitale: Caracas
Religione: cattolici (92,7%)
Tasso alfabetizzazione: 91%
Ordinamento politico: repubblica presidenziale guidata da Hugo Chávez Frias, il cui mandato scade nel 2006
Economia:
si fonda sull’industria estrattiva di petrolio e gas naturale (laguna
di Maracaibo, Golfo di Paria, ecc.); l’agricoltura (caffè, cacao, canna
da zucchero, tabacco) non copre le necessità intee
Lavoro: secondo alcune inchieste, il 53% della popolazione economicamente attiva ha un lavoro di tipo «informale»
Sotto
la soglia di povertà: le cifre non sono concordi; tuttavia, non si
sbaglia di molto dicendo che l’80% della popolazione vive in povertà,
il 50% in estrema povertà

Cronologia essenziale
DALL’ASCESA DI HUGO CHÁVEZ AL FEBBRAIO 2003

1989-2001, DAL CARCERE ALLA PRESIDENZA
27 FEBBRAIO 1989: SOLLEVAZIONE POPOLARE
A
Caracas esplode la protesta di vasti settori della popolazione. La
manifestazione si tramuta in insurrezione violenta con saccheggi e
devastazioni. La rivolta si estende anche in altre città del Venezuela.
Il presidente Carlos Andrés Pérez manda contro la folla l’esercito che
apre il fuoco. I morti sono migliaia.
4 FEBBRAIO 1992: SOLLEVAZIONE MILITARE
Il
tenente colonnello Hugo Chávez e altri quattro comandanti tentano un
golpe contro Carlos Andrés Pérez. La sollevazione fallisce.
MARZO 1994: FUORI DAL CARCERE
Il nuovo presidente Rafael Caldera libera Chávez.
1997: NASCE IL PARTITO DI CHÁVEZ
Chávez fonda il «Movimento V (Quinta) Repubblica», partito con il quale si candida alla presidenza del paese.
6 DICEMBRE 1998: VITTORIA
Chávez viene eletto presidente del Venezuela con il 56,49% dei voti.
2 FEBBRAIO 1999: GIURAMENTO
Al momento del giuramento, il neo-presidente afferma di prestare giuramento sopra una «costituzione moribonda».
APRILE – DICEMBRE 1999: NUOVA COSTITUZIONE
La
maggioranza dei venezuelani approva la proposta di convocare
un’assemblea costituente per redigere una nuova costituzione (25
aprile). Il raggruppamento di Chávez conquista 122 seggi su 131
all’interno della costituente (25 luglio). Il 15 dicembre un referendum
approva la nuova costituzione «bolivariana».
30 LUGLIO 2000: NUOVA VITTORIA DI CHÁVEZ
Chávez ottiene il 59% dei voti nelle elezioni indette in conformità alla nuova costituzione.
13 NOVEMBRE 2001: LE 49 LEGGI
Sulla
base di una deroga di legge (la cosiddetta «ley habilitante »), il
governo di Chávez approva per decreto 49 leggi di grande impatto
economico e sociale (sono comprese materie come la proprietà della
terra, l’imprenditorialità, la pesca). Le associazioni degli
imprenditori contestano le nuove norme.

2002, L’ANNO DEL GOLPE
5 MARZO 2002: ALLEANZA TRA OPPOSITORI
La
principale organizzazione imprenditoriale, «Fedecámaras», e la
corrottissima «Confederación de trabajadores de Venezuela» (Ctv) si
alleano per trovare un’uscita alla crisi del paese. Il governo non
viene neppure interpellato.
11 APRILE: LA RIVOLTA DEGLI «ANTI-CHAVISTI»
L’opposizione
convoca una marcia fino al palazzo presidenziale di Miraflores per
chiedere la rinuncia di Chávez. Ci sono scontri con i simpatizzanti del
presidente. Sul terreno rimangono almeno 12 morti e centinaia di
feriti.
12 APRILE: RINUNCIA DI CHÁVEZ?
Ore convulse. Viene
annunciato che il presidente è stato portato via da Caracas e che ha
rinunciato all’incarico. L’opposizione nomina l’imprenditore Pedro
Carmona, presidente di «Fedecámaras», capo di un governo di
transizione. Gli Stati Uniti dichiarano il proprio appoggio al golpe.
13 APRILE: LA RIVOLTA DEI «CHAVISTI»
Un
decreto del governo transitorio azzera l’Assemblea nazionale. Le strade
di Caracas iniziano a riempirsi di gente che reclama il ritorno del
presidente Chávez.
14 APRILE: IL RITORNO DI CHÁVEZ
La mattina
di domenica Hugo Chávez torna nel palazzo presidenziale di Miraflores.
Il golpe dell’opposizione è durato soltanto 48 ore.
22 OTTOBRE: I COMANDANTI DI PIAZZA ALTAMIRA
Quattordici
alti ufficiali dell’esercito venezuelano si ammutinano. Approntano il
loro «quartier generale» in piazza Altamira, (nella parte est di
Caracas), dichiarandola «territorio liberato».
28 OTTOBRE: MEDIAZIONE
Cesare
Gaviria, segretario generale dell’«Organizzazione degli stati
americani» (Oea), comincia una difficile mediazione tra governo ed
opposizione.
2 DICEMBRE: SCIOPERO GENERALE
L’opposizione,
guidata da «Fedecámaras» e dalla «Confederación de trabajadores de
Venezuela» (Ctv), e sostenuta dai principali mezzi di comunicazione,
proclama uno sciopero generale (paro civico nacional). Obiettivo
primario è la paralisi dell’industria petrolifera (Pdvsa), la
principale fonte di ricchezza del paese.

2003, CROLLANO LE ENTRATE DELLO STATO
15 GENNAIO 2003: GRUPPO DEI «PAESI AMICI»
A
Quito, in Ecuador, si costituisce il «gruppo dei paesi amici del
Venezuela». È formato da 6 stati: Brasile, Cile, Messico, Spagna,
Portogallo e Stati Uniti. L’idea, nata da una proposta del presidente
brasiliano Lula, inizialmente non prevedeva la presenza di Washington.
2 FEBBRAIO: TERMINA LO SCIOPERO
L’opposizione
decide di revocare lo sciopero che dura da 63 giorni. Ma la fermata del
settore petrolifero ha determinato un crollo verticale delle entrate
fiscali. Il governo riuscirà a sopravvivere anche con le casse vuote?

Paolo Moiola




ROMANIA – Via del silenzio n° 13

1989: a Berlino crolla il muro della vergogna.
Scoppia… «la terza guerra mondiale»,
che libera l’Est europeo dal comunismo:
una guerra unica nella storia, perché incruenta.
Fa eccezione la Romania, che trucida lo stesso presidente Nicolae Ceausescu.
A 15 anni di distanza, come si vive a Bucarest?
La fatica è palpabile.
La testimonianza anche di un nunzio e un arcivescovo.

Tutti affermano che sia sempre spettinato e noi lo confermiamo. Così, almeno, ci è apparso durante il nostro soggiorno in Romania, ospiti in casa sua con padre Antonio Rovelli, direttore dell’animazione vocazionale dei missionari della Consolata in Italia.
Eccolo, con i capelli arruffati, ad accoglierci all’aeroporto della capitale Bucarest. «Benvenuti in Romania! Avete fatto buon viaggio?». Si esprime in italiano, oltre che in francese, tedesco e romeno naturalmente. La sua stretta di mano è calorosa, vigorosa. Gli occhi sorridenti. Si chiama Martin Cabalas (*), sacerdote cattolico di rito latino. Supera di poco la cinquantina, ma dalla sua chioma bianca e strapazzata sembra più attempato.
Saliamo sull’auto del prete romeno. È rumorosa e abbastanza sgangherata. «Dovrei cambiarla – mormora nell’accorgersi che fatichiamo un po’ a chiudere la porta -. Però una nuova macchina è cara in Romania». Lungo la strada adocchiamo file di vetture come quella (se non peggiori) del nostro conducente.
A una curva, ci balza incontro un palazzone mastodontico, curioso e pacchiano, con numerosi piani, tutto a guglie dentate. È un centro amministrativo del governo, «dono» a suo tempo del popolo sovietico a quello romeno, allorché l’Urss era una superpotenza politica e militare. Ne ricordiamo altri, tutti identici, fotografati in Cina e, ovviamente, in Russia.
L’automobile rallenta, gira a sinistra e imbocca Strada Linistei (Via del Silenzio), tutta buche e sassi, che accentua la precarietà del mezzo di trasporto. Ma il tratto è breve, perché al numero 13 di Via del Silenzio siamo a destinazione, nell’abitazione di padre Martin.
Appena entrati, udiamo di nuovo parlare italiano. È una voce del nostro tg1: annuncia che a Roma due romeni sono stati rinvenuti carbonizzati in una baracca, anch’essa bruciata.
Erano immigrati clandestini.

SENZA SPERANZA

L’emigrazione di romeni, esplosa dopo la scomparsa di Nicolae Ceausescu (1989), è un tema di conversazione con l’arcivescovo Jean Claude Perisset, svizzero di lingua francese, nunzio apostolico del Vaticano in Romania. Secondo il presule, circa un milione e mezzo di romeni vivono all’estero: non pochi su una popolazione di 23 milioni. Il piccolo Israele, da solo, ne accoglie 50 mila. L’emorragia non si è ancora arrestata, considerando che il 20% dei giovani intende abbandonare il paese.
«Con le rimesse di denaro – osserva Perisset – gli emigrati costituiscono senza dubbio un reddito per le loro famiglie. Ma il prezzo umano pagato è salato. Si veda, per esempio, la tragica fine di quei due poveretti carbonizzati a Roma». Scartato l’incidente domestico, non è inverosimile la vendetta di qualche gruppo straniero, clandestino e malavitoso.
«Per non parlare delle ragazze – incalza l’arcivescovo -. Spesso, ingannate, finiscono sui marciapiedi delle vostre città italiane. In ogni caso si emigra dal paese per mancanza di speranza».
La Romania è candidata a entrare nell’Unione Europea. Questo fatto non potrebbe costituire un’iniezione di fiducia?
«Potrebbe – è la risposta di mons. Perisset -. Ma il processo sarà lento e faticoso. Prima, bisogna arginare la corruzione dilagante, ridimensionare la burocrazia, privatizzare con intelligenza, ridurre l’indebitamento dello stato (che al contrario aumenta). Nel frattempo il divario sociale fra ricchi e poveri si sta accentuando: il 36% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. C’è persino chi afferma che i disagiati raggiungano il 45%».
Alcuni imprenditori italiani, veneti in particolare, operano in Romania. A Timisoara e dintorni sarebbero circa 3 mila le piccole aziende nostrane. Garantiscono un po’ di benessere anche agli operai locali?
«Certo – risponde Perisset -. Ma non si dimentichi lo sfruttamento di manodopera a basso costo. Inoltre sembra che il boom dei vostri piccoli imprenditori stia sgonfiandosi. Alcuni stanno già smobilitando, per andare in Cina».
I segni materiali del degrado sociale a Bucarest sono evidenti: strade dissestate, autobus obsoleti, caseggiati malandati, fogne scoperte. Grava la tristissima eredità di Ceausescu. Il paese non ha saputo o potuto capovolgere la situazione, perché condizionato ancora dalla Russia. Così, economicamente, ha perso l’ultimo decennio.
Impressiona la penuria degli anziani, che sognano il ritorno del comunismo, o quella dei «barboni»; questi ultimi sarebbero circa 5 mila nella sola Bucarest.
Un’altra piaga è costituita dal numero di aborti: un milione all’anno. A prescindere dalla gravità morale, il fenomeno denuncia il problema di molte bocche da sfamare senza mezzi. Oppure si abbandonano i neonati non desiderati.

RAGAZZE DI STRADA

L’abbandono di bambini era praticato durante il comunismo: un fenomeno che lo stato arginava con gli orfanotrofi. Ma, raggiunti i 18 anni, gli orfani erano messi in libertà, dovendo badare a se stessi, ma senza alcun sostegno economico. Ossia erano buttati sulla strada.
Abbiamo incontrato quattro ragazze, sopra i 20 anni, provenienti dagli orfanotrofi statali e dalla strada. Si sono salvate dalla prostituzione coalizzandosi fra loro, fuggendo da «protettori» senza scrupoli, trascorrendo lunghe notti rannicchiate sotto i ponti. Oggi, con altre compagne dello stesso ambiente (una ventina), si avvalgono dell’aiuto morale e organizzativo di suor Anna, romena, della congregazione di santa Giovanna Antida. Vivono insieme in appartamenti. Lavorano part time come colf o in piccole aziende, accontentandosi di qualsiasi stipendio, con il quale pagano l’affitto dell’alloggio, le spese di condominio e si mantengono. Come altri romeni (complice la televisione), si esprimono un po’ in italiano.
– Perché non mi porti in Italia – si fa avanti una.
– Anch’io, anch’io! – fanno coro tutte le altre.
– E che cosa farete in Italia?
– Lavoreremo tutto il giorno. Poi ci compreremo un alloggio qui a Bucarest.
Possedere una casa è il sogno di tutti i cittadini in affitto, perché il costo di un alloggio è pazzesco nei centri urbani: a Bucarest, per due stanze, un cucinino e il solo water, si pagano 130-150 euro al mese, a fronte di stipendi che si aggirano su 90 euro. Insomma: la casa in proprio, più che un sogno, è un miraggio.
Le quattro ragazze parlano e ridono con eccitazione. Una però è tacitua, assente: e quasi subito si abbandona a succhiare il dito come una bimba. «Psicologicamente sono tutte infantili, anche se hanno 20-25 anni – commenta suor Anna -. Bambine tarate dalle umiliazioni e percosse subite durante i tanti anni di orfanotrofio. Vorrebbero sposarsi e formare una famiglia. Ma temono gli uomini. Non si fidano neppure dei loro padri, perché le hanno abbandonate».
Una sera inoltrata, mentre rincasavamo camminando verso Via del Silenzio, abbiamo notato alcune ombre aggirarsi attorno ai tombini dell’acqua. Erano «ragazzi di strada», anch’essi rifiutati dai genitori e provenienti da orfanotrofi statali. In città vivono di espedienti.
E che facevano quella sera? Stavano organizzandosi per passare la notte in un meandro della rete idrica di Bucarest: sempre meglio dell’addiaccio, specie se piove o spira la gelida tramontana. Qualcuno li ha battezzati «i ragazzi delle fogne».
Alcuni coetanei sono ritornati dai genitori; ma, trovandosi a disagio tra passato e presente, trascorrono molte ore dai missionari maristi, per esempio, che mettono a disposizione sale con libri, computer e giochi.
I maristi (due spagnoli e un greco) non sono sacerdoti, ma fratelli religiosi, con voto di povertà, castità e obbedienza. «Non siamo molto apprezzati – si lamentano -. Secondo l’opinione pubblica ortodossa (ma anche cattolica), non siamo né carne né pesce. Qui, a Bucarest, sembra che non vi sia spazio e lavoro per i fratelli. Per questo pensiamo di trasferirci altrove».

LA CALATA DEI BARBARI

Caduto il regime ateo di Ceausescu, numerose congregazioni religiose dell’Europa occidentale hanno messo piede in Romania. Secondo il nunzio J. C. Perisset, sarebbero troppi gli istituti religiosi stranieri approdati nel paese: addirittura un centinaio, di cui 80 femminili. Tutti per… reclutare vocazioni. «Nei primi anni ’90 – spiega mons. Perisset – i giovani che entravano in seminario o convento erano tanti. Ma ora non più: a tal punto che alcuni centri, costruiti in fretta per accogliere tutti i candidati al sacerdozio e alla vita religiosa, oggi stanno tramutandosi in collegi per studenti».
Al comunismo si è quasi subito sostituito il materialismo dell’«usa e getta» del capitalismo. Di qui la brusca frenata delle vocazioni sacerdotali. Inoltre non si scordi che la stragrande maggioranza dei preti e delle suore romeni proviene dalla regione della Moldavia (da non confondere con l’omonima repubblica indipendente), dove i cattolici raggiungono il 20%.
Indubbiamente nel 1989 la caduta del muro di Berlino ha offerto alla chiesa cattolica nuove possibilità. Per convertire la popolazione al cristianesimo? Ma la Romania non è «pagana», anzi è cristiana. Quindi è fuori luogo parlare di conversione.
In realtà le istituzioni cattoliche occidentali hanno guardato all’Est europeo, in genere, con lo spirito di una «nuova evangelizzazione», alla stregua del papa polacco Karol Wojtila. Tuttavia i gruppi religiosi stranieri, soprattutto cattolici, sono accusati di proselitismo dal clero ortodosso: attirerebbero i fedeli nelle proprie comunità con gesti accattivanti di beneficenza. Di più: la loro discesa in campo è stata talora paragonata alla «calata dei barbari».
In Romania lo stesso clero cattolico, sia di rito latino sia di rito orientale, non è interamente soddisfatto dei confratelli stranieri, anche perché troppo innovativi nella pastorale e nella liturgia. Ce l’ha ricordato Ioan Robu, arcivescovo cattolico di Bucarest. Secondo il prelato, la comunione in mano ai fedeli, per esempio, è prematura e i canti liturgici, accompagnati da chitarre, suscitano perplessità.
Il 7-9 maggio 1999 Giovanni Paolo ii visitò la Romania. Fu una visita altamente ecumenica, che smussò alquanto le spigolosità anticattoliche dei gerarchi ortodossi e avallò il desiderio profondo di unità di tutti i cristiani. Il grido «unitate, unitate!», al termine della visita del papa, fu inatteso quanto gradito. Inoltre il viaggio calamitò l’attenzione mondiale grazie alla «Dichiarazione comune» delle chiese (cattolica, ortodossa e protestante) sulla guerra in Kosovo, proprio mentre infuriava il fuoco bellico. «Dove sono le nostre chiese, quando il dialogo tace e le armi fanno sentire il loro linguaggio di morte?» si domandò il pontefice.
Al di là delle discussioni teologiche, il cammino verso l’unità delle chiese cristiane passa attraverso comuni impegni sociali, non esenti da scelte politiche controcorrente. Ciò sarebbe rivoluzionario per le chiese ortodosse, autocefale, spesso vincolate alla nazione di appartenenza anche politicamente.

Oscurità e foschia ovattano Via del Silenzio, rendendola più muta. Sennonché, di tanto in tanto, si odono uggiolii di cani o grida festanti di bambini, zingari rom, che giocano intorno a un falò all’interno di una staccionata…
Domani ritoeremo a Torino.
Alle ore 19 padre Martin Cabalas invita cortesemente il collega Antonio Rovelli a presiedere l’eucaristia in italiano.
– In italiano, no – replica istintivamente il missionario.
– Non temere! Qui sono abituati…
È vero. Da anni, durante l’estate, vari gruppi giovanili (specialmente della diocesi di Treviso), accompagnati da un «don», sono ospiti del sacerdote romeno per campi di conoscenza e lavoro. Tra l’altro padre Antonio è a Bucarest per organizzae uno speciale, che prevede giovani italiani, spagnoli e portoghesi, legati ai missionari della Consolata nei rispettivi paesi.
Alla messa partecipano anche le suore di santa Antida, i fratelli maristi, nonché tre missionarie di madre Teresa di Calcutta: tre volti differenti, cioè uno indiano, uno tanzaniano e uno polacco. La liturgia è animata da un concerto di sei chitarre, che secondo padre Martin non «stonano», anzi! Qualche fedele riceve la comunione in mano.
Dopo l’«andate in pace» del sacerdote, si celebra un’altra eucaristia, ma in rito orientale, perché padre Martin condivide la chiesa con altri credenti, giacché… esiste «una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio, Padre di tutti».
«Questo è un merito ecumenico, esclusivo del nostro parroco – dichiara una certa Maria -. Sì, perché il prete greco-ortodosso, se disponesse di una sua chiesa, probabilmente non ricambierebbe il favore ai cattolici».
Maria, a pochi passi dal sorridente e costantemente spettinato padre Martin, è avvolta in uno scialle nero, che le incoicia con grazia il volto. Per contrasto, i suoi occhi azzurri brillano di un fulgore abbagliante.
Si congeda con una piccola genuflessione, scandendo: «Laudetur Iesus Christus!». Nientemeno.

Nel baratroda lui stesso scavato

«Conducator» in romeno significa conduttore: di un autobus, per esempio. Un termine comune per un’attività normale. Ma in Romania, allorché il conducator si chiamava Nicolae Ceausescu, la vita si inasprì maledettamente.
«Securitate» (sicurezza) è un’altra parola di uso corrente. Però la Securitate, al soldo del despota Ceausescu, si tramutò in famigerate repressioni da parte della polizia segreta. E il tonfo del dittatore marxista fu tragico. Si tenne un processo-farsa: il conducator e la corrotta consorte Elena furono giustiziati in segreto nel natale del 1989. Fu pure una vergogna in un paese che si dichiara cristiano quasi al 100 per cento.
Eppure, solo un mese prima, gli oltre 3.300 delegati al Congresso del Partito comunista avevano osannato il conducator e l’intera sua famiglia. Ma dal 24 novembre 1989 (fine del Congresso) al 15 dicembre (inizio delle rivolte contro il regime a Timisoara) la Romania imboccò un’altra via. Il vento della perestrojka sovietica, che aveva già abbattuto il muro di Berlino, investì furioso anche Nicolae Ceausescu e lo travolse.

Tutto fu quasi fulmineo, perché la voragine di miseria, scavata in 25 anni di dittatura, era enorme e profonda: code interminabili davanti ai negozi di alimentari e razionamento di cibo (ad esempio: un chilo di carne per famiglia, ossa comprese); sottoproduzione agricola in un paese che, in antecedenza, esportava cereali; coabitazione di vari nuclei familiari in uno stesso e squallido appartamento; spopolamento di migliaia di villaggi per una politica agricola diversa, dove i contadini erano sottoposti a controlli capillari; arretratezza di impianti industriali per mancanza di investimenti; culto dei «papaveri» del partito ed esportazione in Svizzera di ricchezze sottratte al paese; nepotismo e privilegi concessi ai 20 mila adepti della Securitate (con offesa dell’esercito); fuga di intellettuali, quali Eugène Jonesco, Paul Goma, ecc.
E, soprattutto, la scomparsa di 60 mila persone. Ma le vittime sono state più numerose: 60 mila sarebbero solo i morti in seguito alle repressioni dei tumulti popolari di dicembre 1989 (cfr. La Civiltà Cattolica, 7 aprile 1990).
Tuttavia, all’estero Ceausescu aveva brillato come una stella di prima grandezza: Richard Nixon e Charles de Gaulle lo avevano applaudito, perché oppositore dell’Unione Sovietica; la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e la Comunità economica europea gli avevano spalancato le porte.

Al conducator successe un ex comunista, Ion Iliescu. Però la pace sociale era lontana.
Nel 1999, a un decennio dalla fine del regime di Ceausescu, Nicolae Coeanu, arcivescovo ortodosso di Timisoara, dichiarò: «La democrazia ha creato non poche difficoltà: la più grande riguarda il campo economico-finanziario. A livello politico, la democrazia ha prodotto una sorta di caos. Vi sono persone, formate durante la dittatura comunista… e queste non possono più cambiare radicalmente. Spero che le difficoltà siano superate nel corso dei prossimi anni» (cfr. Il regno, 8/1999).
Nel dicembre dello stesso 1999, uno sciopero di minatori (migliaia e migliaia di litri di cianuro furono versati nei fiumi) e aspri dissidi politici costrinsero il governo di Radu Vasile alle dimissioni. Al potere ritoò Iliescu, in carica tutt’oggi.
Fra gli obiettivi del leader spicca il progetto di entrare nell’Unione Europea. È un obiettivo non facile, perché suppone un risanamento economico con «lacrime e sangue».

Francesco Beardi




REP. DOMINICANA – Cattiva, cattivissima

Santo Domingo è nota pure a diversi italiani,
che la raggiungono per ballare, e non solo.
A due passi dalle discoteche, casinò e spiagge
della città caraibica, incontri la piccola Mercedes.
E la musica cambia.

«Padre Franco, vorrei confessarmi di tutti i peccati dell’anno passato…». La richiesta arriva da Mercedes, cinque anni, un visetto furbo, profilo indio, zigomi sporgenti, occhi vispi. Questa volta, mentre parla, gli occhi li tiene bassi e sul volto ha un’ombra di tristezza.
– Mercedes, sei ancora troppo piccola per confessarti: prima devi partecipare agli incontri del gruppo di catechesi…
– Ma, padre Franco, io sono stata proprio cattiva l’anno passato – interrompe Mercedes, mentre un lacrimone le riga il viso -. E quest’anno i re magi non mi hanno portato nulla!
Ecco: nelle lacrime di Mercedes, nella delusione di questa bimba che non ha ricevuto nulla per la festa dell’epifania (giorno in cui è tradizione che i re magi lascino ai bambini giochi, dolci, vestiti), c’è il dramma vissuto dall’intero popolo della Repubblica Dominicana.

Recessione economica. Sono due parole tecniche, che diventano insostenibili davanti al pianto di Mercedes, nel barrio di Guaricano, alla periferia di Santo Domingo. Oppure davanti al ragionamento ironicamente amaro di Jos: anche lui, quest’anno, alla sua bimba di otto anni non ha potuto regalare nulla.
«Natale è una festa ingiusta – mi ha detto -. Vedi, mia figlia è stata buona tutto l’anno: ha raggiunto risultati eccellenti a scuola, è sempre disponibile in casa per i piccoli lavoretti, ogni domenica è lei che ci butta giù dal letto per andare a messa. E non ha ricevuto regali, perché non ce li possiamo permettere. Invece, quanti figli di ricchi sono cattivi e ricevono regali favolosi! Natale, la festa che premia i cattivi, purché siano figli dei ricchi!».
Recessione economica. A gennaio del 2003 potevi comprare un dollaro con circa 17 pesos. Oggi, dopo un anno, per comprare un dollaro occorrono almeno 50 pesos, con un’inflazione del 61 per cento. E, siccome tutta l’economia della Dominicana si basa su prodotti importati, il costo della vita è raddoppiato, triplicato in pochi mesi. Mentre i salari sono rimasti gli stessi.
Dietro a questa situazione, vi sono speculazioni che non possiamo neanche immaginare: ad alcuni conviene che il dollaro sia caro, perché così possono ottenere guadagni stratosferici (si pensi al settore turistico, dove tutti i pagamenti avvengono in moneta straniera).
E il governo? Mesi fa, quando il tasso di cambio del dollaro si è impennato, il presidente della repubblica, in una dichiarazione ufficiale, ha affermato che entro pochi giorni il governo avrebbe preso provvedimenti drastici e severi. Mentre si aspettava di sapere quali, il prezzo del dollaro, per l’effetto psicologico dell’annuncio del presidente, è sceso di qualche punto, permettendo un po’ di respiro.
Il presidente ha notificato i provvedimenti: ha convocato gli operatori economici e, dato che non aveva trovato plausibili giustificazioni per un così alto costo del dollaro, ha ordinato di farlo scendere, affermando che avrebbe utilizzato l’esercito per verificare se si adempisse a questa disposizione.
L’effetto è stato che adesso, se uno ha dollari da vendere, glieli pagano al prezzo stabilito dal governo (e ci rimettono quanti sono aiutati da parenti che, emigrati all’estero, lavorano per inviare dollari alla propria famiglia!); però se uno li vuole comprare, è impossibile trovae al prezzo stabilito dal governo (che non è il prezzo reale del mercato).
Alcune casas de cambio (sportelli di cambiavalute aperti al pubblico) sono state chiuse dalla polizia, perché non hanno rispettato le norme stabilite dal governo e hanno continuato a comprare e vendere dollari a prezzi alti.
Così è nato il mercato nero del dollaro, che sta prosperando in barba agli oculati e rigorosissimi rimedi governativi. Il tutto è ulteriormente aggravato dal fatto che molti generi iniziano a scarseggiare; e anche chi potrebbe permettersi di comprarli ora deve fae a meno: senza dollari, all’estero non si compra.

Per esempio, il gas per cucinare. Sono settimane che non si trova. Anche se hai soldi, non ce n’è! La gente del barrio ha cercato di organizzarsi: chi ha ancora un poco di gas cucina pure per le altre famiglie. Si vedono i primi capannelli di donne che cucinano in strada bruciando carbone (poco, perché costa!) e legna.
Paradossalmente, i problemi più gravi sono per chi, tra i poveri, è meno povero: chi vive nelle baracche riesce a bruciare un po’ di legna all’aperto; ma chi vive all’ultimo piano dei multis (case popolari costruite su quattro piani) ha molte più difficoltà a cucinare.
A questo si aggiunga la mancanza d’acqua: sono mesi e mesi che nelle case non arriva acqua. Penso alla famiglia di papà Miguel e mamma Juana: loro due, con tre bimbi e tre vecchi. Non si può scaldare il latte per il piccolo, non si può sancochar (bollire) il platano per la colazione, non si può cucinare il riso per il pranzo, non si può lavare la casa, non si può fare il bagnetto al bimbo…
Allora ogni mattina i due bambini più grandi, accompagnati dalla nonna, fanno due chilometri a piedi per raggiungere il posto più vicino dove riempire tre secchi da 10 litri, che nel tragitto di ritorno quasi si svuotano del tutto, fra la strada che è impossibile, il caldo, il peso, un vicino che ti chiede se gli permetti di riempirsi la brocca per lavarsi.
Quando i tre secchi arrivano a destinazione, uno è per una vecchia sola al terzo piano, che proprio non ce la fa a procurarsi l’acqua (senza retorica: i poveri sanno essere generosi all’inverosimile), e gli altri due bastano appena per lavarsi.
Una trovata (geniale) l’hanno escogitata alcuni ricchi, proprietari di autobotti: portano l’acqua a domicilio e la vendono a quattro pesos al secchio (non è acqua potabile, anche se molti la bevono, con immaginabili conseguenze). Forse è grazie a loro e al commercio che il problema dell’acqua non ha soluzione.
L’acqua il buon Dio la dona gratis, anche troppa a volte. Verso la fine del 2003 c’è stata un’inondazione: ha provocato 15 morti, centinaia di feriti e migliaia di case danneggiate (se n’è parlato nel ricco nord del mondo?). Di fronte ai danni e al dramma della gente, il governo ha dichiarato che le abbondanti precipitazioni, anche se hanno provocato disagi, favoriranno il futuro raccolto del riso…
Intanto quest’acqua, che ha riempito gli enormi serbatorni costruiti nel barrio alla vigilia delle elezioni, potrebbe arrivare senza problemi in tutte le case: basterebbe girare una valvola e permetterle di scorrere nelle tubature. Invece quest’acqua, se la vuoi, la devi pagare cuatro pesos a la cubeta.

C’è il problema della luce. Ma i politici dicono che non dovremmo lamentarci: nei giorni di festa l’abbiamo avuta anche per otto ore di seguito. Però da alcuni giorni l’abbiamo per tre o quattro ore al massimo. I giornali ci avvertono che ci saranno disagi ulteriori, perché il governo non ha pagato le compagnie che assicurano il servizio elettrico e sono prevedibili ritorsioni.
«Per fortuna» che la maggioranza della gente non sa leggere o legge solo le pagine sportive dei periodici (in Italia c’è il dio football, qui c’è il dio baseball). Insomma, una situazione esplosiva.
Per non parlare della campagna elettorale. Qui tutti sono impegnatissimi, compresi i governanti che, anziché governare, si fanno propaganda politica. Le elezioni presidenziali sono in maggio. Due dei tre principali partiti non sono riusciti a mettersi d’accordo sul candidato unico da presentare. Complessivamente si sono avuti 10 candidati per 3 partiti.
Il problema è che la costituzione della Repubblica Dominicana proibisce che si presentino più candidati per lo stesso partito politico. I politici allora, per una volta quasi tutti d’accordo, hanno pensato che, se la legge impedisce loro di essere in due o tre, la soluzione è semplice: fare una nuova legge che sancisca ciò che conviene a loro (questo mi ricorda qualcuno in Italia).

Quanti altri problemi si potrebbero aggiungere a quelli già presentati! Voglio però concludere con una nota positiva.
Oggi, qui, ciò di cui si sta facendo maggiormente esperienza, ciò che fa sentire dentro un’incontenibile voglia di lottare e dà la misura di quanto la gente sia pronta per una trasformazione radicale… è il fatto che non si è persa la speranza. Anzi.
Nel nostro barrio del Guaricano, tra la gente povera di Santo Domingo, in un paese afflitto da una situazione ogni giorno più insostenibile, non c’è solo un bisogno dirompente e assoluto di speranza. Qui, tra gli ultimi, il miracolo della speranza è già iniziato. Non la speranza basata su promesse elettorali o sul denaro del «buono di tuo». Speranza.
«C’è un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?» (Gv 6, 9). Una speranza concreta, fatta di gesti concreti, condivisione concreta (come i cinque pani e due pesci, che basterebbero appena per me). I poveri già hanno iniziato il processo di solidarietà che rende storia la speranza.
Speriamo pure che chi è ricco, prima o poi, oltre a elargire un po’ di inutile superfluo, magari per sentirsi buono a natale o pasqua, dia consistenza autentica alla speranza, condividendo le migliaia di pani e pesci che possiede e che trasformerebbero definitivamente la speranza in libertà.
Compiendo un atto non tanto di amore, quanto di giustizia. I care.

Franco Bruno




BENIN – Odore di futuro

In Benin dal 1987,
i cappuccini marchigiani promuovono attività
di evangelizzazione, promozione umana
e vocazionale; già
si vedono i primi frutti:
frati beninesi seguono
le orme di Francesco, camminando
accanto agli ultimi.</b< A Malanville, nell’estremo nord del Benin, i camion aspettano in fila prima di attraversare la frontiera con il Niger. La città è un enorme mercato a cielo aperto. Tra i chioschi si parla una lingua chiamata dendi; nelle strade tantissime buste di plastica impolverate si rincorrono, infilate dall’harmattan, il vento secco proveniente dal deserto.
La gente sembra molto rilassata. E sorride. Alcuni bambini sguazzano in un grande acquitrino, fuscelli neri accanto al grande fiume Niger. Sopra le loro piccole teste si allunga il ponte che collega le due dogane. Delle donne trasportano legna sul capo. Arriva a bassa velocità una vecchia auto, stracarica e ammaccata. Il conducente ci saluta con il clacson. Il doganiere abbassa la corda, fa un cenno con la mano, sembra scherzare, e li lascia passare.
Abbandoniamo Malanville in direzione sud, per ritornare sulla costa. Percorriamo una pista sterrata che fende tutta la grande distesa di savana. Se si lascia la via principale si possono prendere i sentirneri che portano diritti all’Africa vera, quella dei villaggi di capanne con i muri di terra rossa e i tetti di paglia.
Qui si parla il bariba e l’odore non è più quello di animali sgozzati sui banconi, ma di erba bruciata.

STREGONI… MANCATI

Siamo a Ina, diocesi di N’Dali, a 250 chilometri dal confine. Qui, nel novembre 2003, i cappuccini hanno inaugurato la parrocchia di Sant’Andrea. La nuova casa è stata affidata a padre Giansante, affiancato da un giovane frate africano. Insieme a loro si trovano anche quattro suore indiane. Tutti coinvolti in questa terra di evangelizzazione, dove i problemi non mancano.
Anzitutto la cronica mancanza di acqua potabile spinge a realizzare nuovi pozzi. Inoltre, questa è una zona in cui la disponibilità di elettricità è molto scarsa, per cui si fa ancora più rilevante la costruzione di un ambulatorio attrezzato e di una mensa per i poveri.
Tuttavia, le basi per iniziare un lavoro proficuo ci sono tutte. Le scuole liceali, agricole e tecniche, sono piene di giovani e la loro disponibilità sembra calda e sincera. Certo, gli ostacoli sul piano sociale e culturale non possono essere minimizzati. La lingua prima di tutto. Infatti le sacre scritture sono tradotte negli idiomi locali e le fatiscenti chiesette dei villaggi avrebbero bisogno di urgenti ristrutturazioni.
Padre Giansante se la sta cavando egregiamente. Il suo bariba migliora e la sua efficacia comunicativa sta ottenendo i primi risultati: i catechisti, formati dalla diocesi, sono già stati attivati per allacciare un bel rapporto tra la parrocchia e i vari villaggi. Perché lo scopo è formare una comunità unita e serena.
Infine, al frate marchigiano non guasterebbe una nuova jeep con gli assi rinforzati, per coprire la strada piena di buche che circonda le sue otto nuove stazioni, i nuovi piccoli mattoni della sua parrocchia, dove il tempo sembra essersi fermato in qualche ovattata cavità.
Le donne impastano la manioca o il mais, i bimbi sbadigliano avviluppati alla schiena delle madri, mentre gli uomini vanno a tagliare la legna nella boscaglia e i ragazzi più grandi tirano frustate alle poche vacche magre, intontite dal sole e lente sul sentirnero nascosto tra la sterpaglia.
Qualcuno, ai bordi della via principale, vende gli igname, un tubero simile alla patata. Non si muore per fame, sebbene l’alimentazione sia insufficiente. Superare i primi cinque anni di vita, però, è una battaglia vera: la mortalità infantile è ancora pesante.
Sulla via principale è stato costruito un modesto ambulatorio, dove incontriamo delle donne che aspettano di essere visitate. Comunichiamo a gesti. Loro fanno parte dell’etnia peul, una popolazione semi-nomade. Sulla porta del medico c’è un manifesto in cui si ricorda l’importanza delle vaccinazioni. È scritto in francese e sfortunatamente non tutti vanno a scuola. Le donne ancora di meno, costrette ad arrangiarsi, in una società patriarcale in cui la poligamia è una pratica molto diffusa.
Il capo del villaggio è da millenni maschio e anche lo stregone, al quale si può affiancare una sacerdotessa nella celebrazione del rito. Lo stregone ha il potere, parla con gli spiriti e confeziona le fatture, i grigri, per le quali gli viene corrisposta una lauta parcella.
Qui è terra di vudù, attraverso il quale, sin dall’alba dei tempi, gli uomini invocano gli dei per ottenere ricchezza, salute e prosperità.
Spesso, all’ingresso del villaggio, si può trovare una sorta di basso tabeacolo fatto in terracotta, contenente i feticci che rappresentano gli spiriti degli antenati e del mondo soprannaturale. I tabeacoli sono i guardiani, non fanno entrare la malasorte.
Ogni piccolo insediamento ha una capanna-feticcio dove su una pietra allungata, che funge da altare, si offrono piccoli sacrifici animali e libagioni, per rendere propizie le forze del mondo invisibile. Un tempo venivano fatti anche sacrifici umani.
A Oenou, una piccola frazione nella diocesi di N’Dali, si sta inaugurando un centro per bambini in difficoltà. Alcuni di essi sono stati diseredati dalla famiglia, perché accusati di essere bambini-stregoni. La superstizione detta che soltanto famiglie prescelte possono mettere al mondo gli autentici stregoni.
Se il neonato di una famiglia a cui è precluso procreare stregoni manifesta certi segni, come mettere prima i dentini superiori rispetto a quelli inferiori, o uscire dalla pancia con i piedi, significa che è uno stregone, ma spuntato nel posto sbagliato, e perciò rischia di essere eliminato. Molti vengono abbandonati, lasciati fuori dal villaggio in preda ai crampi allo stomaco.
Il centro che li ospita consta di dormitorio, refettorio e scuola elementare. Il progetto è andato in porto grazie anche alla generosità di una signora italiana che lo ha finanziato.
Alla cerimonia sono presenti autorità civili e religiose. Insieme al vescovo, partecipano i rappresentanti della comunità islamica. Prendono il microfono anche i capi del villaggio, custodi dell’eredità del passato: nell’elogiare la bontà dell’opera sociale, riconoscono il cinismo di alcuni precetti della tradizione.

BABELE RELIGIOSA

Salutiamo Oenou, inseguiti da una nuvola di bambini festanti, e ci dirigiamo verso la capitale economica, Cotonou, città portuale affacciata sull’oceano Atlantico. Le impronte del colonialismo francese sono ancora visibili: innanzitutto l’idioma, che si mescola tuttavia con la lingua del sud, il fon; poi l’organizzazione sociale, in quanto la cultura tribale è stata sconvolta da febbrili attività commerciali, inquinamento, traffico senza regole e, infine, da una crescente baraccopoli strapiena di poveri, che sopravvivono con pochi franchi al mese.
Sono gli esclusi, che si trascinano ai margini dei quartieri destinati ai signori della burocrazia ministeriale, corrotta e inconcludente, o davanti alle ville dei mercanti, che fanno affari con l’euro, l’occhio patealistico che sorveglia su tutto ciò che si muove, laddove un tempo sventolava la bandiera di Parigi.
Ma a Cotonou si tocca anche un altro aspetto della cultura dell’Africa modea: il sincretismo. In ogni angolo si erge un luogo di culto. Oltre a quelle cattoliche, ci sono chiese ortodosse e protestanti e poi numerose moschee: imponenti edifici, alcuni tutt’ora in costruzione, dove tranquillamente i musulmani pregano il Corano.
Di tanto in tanto, nella babele di motorini-taxi e macchine che sfrecciano da tutte le parti, si intravedono i templi dei cristiani celesti, seguaci di una setta che lega elementi del vangelo con spicchi di animismo. Questo pentolone, in cui ribolle il muezzin, il suono ossessivo del tam-tam e la preghiera cristiana, rispecchia la mentalità di perpetuare un rapporto magico con il mondo spirituale e la grande sensibilità del popolo africano per i segni della natura.
Quindi durante la messa i canti e le danze della tradizione si fondono con la liturgia, perché da queste parti l’incontro con il divino è pur sempre una festa.
Lo abbiamo constatato partecipando alle cerimonie di professione perpetua di tre giovani del luogo e di ordinazione del primo frate cappuccino del Benin, Aubin Aguessy. Le chiese erano stracolme, vive e pulsanti di tanti colori, segno di una comunità che si stringe e si impegna intorno ai simboli della parrocchia.
I missionari cappuccini, a cui abbiamo fatto visita, operano in questa striscia di continente dal 1987. Dove un tempo c’era solo un’enorme e desolante discarica, ora sorge un funzionante convento, accogliente , tra palmeti e alberi di mango, che ospita non solo religiosi e postulanti, ma anche viaggiatori che vengono dall’Italia.

ACCANTO AGLI ULTIMI

Intoo al convento ruotano le attività legate alla Caritas, alle corali che animano le funzioni religiose e alla gioventù francescana, un gruppo di ragazzi che portano conforto in giro per la città alle persone che stanno male.
Nella stessa area si trovano le comunità delle clarisse e delle suore terziarie francescane. Quest’ultime hanno lasciato circa 10 anni fa il Sud America, ora gestiscono un ambulatorio e un istituto femminile, dove si insegna il mestiere della sarta.
L’aids avanza drammaticamente e la malaria continua inesorabilmente a mietere vittime. Davanti all’ambulatorio le donne con i bambini fanno la fila per qualche farmaco, mentre a scuola si lavora in laboratorio, lentamente, perché il caldo sfianca.
Le alternative alla prostituzione non sono tante: la parrucchiera o la sarta. In Benin l’arte del pettine e delle forbici ha un grosso peso culturale. Infatti dal tipo di taglio si può dedurre se la ragazza è libera, quindi in cerca di un compagno, o se è impegnata. A occhio e croce il giro d’affari che si accumula intorno ai capelli è fortissimo, almeno dal punto di vista sociale, se si contano i numerosi «negozi di bellezza» disseminati per tutto il paese.
Le trecce forse leniscono la durezza dell’arrangiarsi; ma per chi dai villaggi giunge nella metropoli la vita non è affatto facile. Le ragazzine che sfuggono all’usanza dei matrimoni combinati trovano spesso la violenza della strada.
Per le donne, in generale, i diritti non sono estesi. Le mamme non hanno la tutela dei figli e, soprattutto nel clan familiare, contano zero, molto meno delle sorelle del marito. Il risultato di questa discriminazione è che molte ragazze scelgono di lasciare la famiglia per cercare fortuna in città. Dove spesso non la trovano. Alcune, invece, trovano i due orfanotrofi che i cappuccini hanno inaugurato da poco tempo, in cui sostegno e affetto ci sono sempre. Qui possono studiare, ricevere le cure adeguate, dormire al sicuro e mangiare tutti i giorni.
I presupposti per un intervento serio nel settore sociale ci sono, sebbene la prova del nove sarà quando il testimone passerà nelle mani dei frati africani, di chi, nato in questa terra, dovrà portare avanti il magistero e l’esempio vivo dei missionari venuti dalle Marche.
E i successori già sono stati designati o, per lo meno, si apprestano a esserlo. Sono i novizi, ragazzi non solo del Benin, ma anche del Camerun e Costa d’Avorio, che si preparano al sacerdozio nella terza casa dei cappuccini, quella di Ouidah, a 40 chilometri da Cotonou, sulla strada verso il Togo. A loro è affidata la costruzione di un ponte ideale tra Assisi e l’Africa, al fine di proseguire concretamente l’opera di occuparsi degli ultimi, in un continente che è davvero trattato a bastonate, ma che odora di futuro.
Verso il domani corrono i suoi bambini: ogni giorno si alzano per un tozzo di pane sempre amaro. Poi ineluttabilmente giunge la notte. La città si spegne, i mercati diventano silenziosi. Chi ha guadagnato, chi ha rubato, chi ha rimesso, chi ha comprato: ormai tutto si confonde nel buio.
Dalla foresta di palmeti volano in alto le strida degli uccelli e il rumore dei tamburi. Si fa festa, si fa il vudù. L’oceano ruggisce in lontananza, si espande il cielo nero violato qua e là da qualche luce.
Certo, non è la notte eterna del nord, dove le stelle sono l’energia elettrica, eppure anche stavolta la magia ha fatto la sua parte per rendere quel pezzo di pane meno amaro.

Paolo Brunacci