IMMIGRAZIONE ITALIA”Permesso sì, permesso no, permesso forse”

Scarsa conoscenza e molti pregiudizi nei confronti degli stranieri. La maggior parte degli italiani non sono né razzisti né menefreghisti. Sono semplicemente disinformati. Non sanno cosa significa, per uno straniero, aspettare «il permesso» (ad un tempo, incubo e parola magica), trovare una casa, imparare una lingua nuova, integrarsi nel mondo del lavoro o della scuola.
In questa nostra inchiesta, abbiamo dato voce agli immigrati incontrati in un Ufficio stranieri, ma anche ai poliziotti che vi lavorano. Un punto di vista diverso e interessante…

La civiltà europea è sempre stata divisa: liberi e schiavi, nobili e plebei, capitalisti e operai. Nell’Europa di oggi ci sono gli «europei» e gli «extracomunitari».
Le divisioni cambiano forma, ma non la sostanza. Invece dell’uguaglianza ci sono ancora le leggi che garantiscono la disuguaglianza, invece della fratellanza ci sono i cittadini di primo e secondo grado, invece dell’unità, alcuni paesi e popoli europei sono stati spinti, e poi lasciati marcire nella miseria e nella violenza.
Siamo nel terzo millennio. In quello precedente c’erano molte rivoluzioni, è stato sparso molto sangue, ma cosa abbiamo cambiato in sostanza?

«MA PERCHÉ VENGONO IN ITALIA?»

«Perché vengono gli stranieri in Italia?», questa è la domanda più frequente degli alunni durante i miei interventi nelle scuole superiori, come mediatrice interculturale.
Io rispondo: «Perché nei loro paesi c’è la guerra, o la miseria, o l’instabilità politica e sociale che non permette una vita serena. La maggior parte degli immigrati non lascerebbe mai il proprio paese se le condizioni permettessero una vita dignitosa lavorando onestamente. D’altra parte, ci sono paesi che hanno necessità di immigrati. Anche il nostro paese ha bisogno di operai per le costruzioni, di camionisti per i trasporti, di cameriere per gli alberghi, di badanti per gli anziani, di infermiere per i malati, ecc… e, non trovando questa manodopera tra gli italiani, deve ricorrere agli immigrati».
Poi seguono altre domande che rivelano una scarsa conoscenza e molti pregiudizi nei confronti degli stranieri. Molti pensano che gli stranieri abbiano dei vantaggi, che abbiano troppi diritti, che mettano in pericolo i cittadini italiani. Hanno paura che siano troppi e sanno poco o niente di come vivono in Italia, quali difficoltà hanno, quali disagi. A un razzista questo non interessa. Più disagio prova uno straniero, più contento è perché spera che avrà motivo di andarsene.
Ho sentito molte volte la frase: «Se non gli piace che vadano a casa loro!». Ma dov’è la loro casa? Alcuni sono rimasti senza le case, alcuni hanno la casa piena di gente che aspetta il loro aiuto per sopravvivere. Gli immigrati stanno meglio in Italia che nel proprio paese, ma sono ancora lontani dal benessere di un occidentale. I problemi, i disagi che incontra nel nuovo paese sono grandi, ma non può tornare perché sarebbe peggio.
La maggior parte degli immigrati sono costretti a scegliere il male minore. La maggior parte degli italiani non sono né razzisti né menefreghisti. Sono semplicemente disinformati. Non sanno quanta fatica fanno gli stranieri a trovare una casa, quali problemi hanno nell’integrarsi nel mondo del lavoro o della scuola, quanto è difficile imparare una lingua nuova in fretta per capire il datore di lavoro, o l’insegnante, o la pioggia di comunicazioni di vario genere. Quanto è difficile muoversi, orientarsi, in un paese dove tutto funziona in modo diverso dal proprio.

L’ESPERIENZA DI TRENTO E ROVERETO

Nella provincia di Trento, è stato fatto molto per aiutare gli immigrati: lo Sportello Cinformi è un importantissimo punto di riferimento per lo straniero, dove può avere tutte le informazioni per l’orientamento anche in madrelingua. Il Centro Millevoci offre una consulenza agli insegnanti che hanno in classe gli alunni stranieri, e ha formato molti mediatori interculturali che si occupano dell’integrazione dei figli degli immigrati nelle scuole trentine.
Ho fatto una piccola indagine, come mediatrice interculturale, nella mia cittadina, Rovereto (32 mila abitanti), per scoprire quali problemi e quali disagi incontrano adesso gli immigrati all’Ufficio stranieri del locale Commissariato di polizia.
Ho parlato con gli operatori, che hanno risposto gentilmente a tutte le mie domande.
Mi hanno spiegato come funziona il loro ufficio stranieri, i rapporti con la Questura di Trento, quali sono le difficoltà loro e quali quelle degli stranieri che chiedono il permesso di soggiorno.
Quello che segue è il risultato della mia inchiesta.

LAVORARE ALL’UFFICIO STRANIERI

Romano è un uomo alto e biondo, che ascolta con molta attenzione e pazienza le innumerevoli domande che pongono gli stranieri. Non smette di essere gentile neanche quando lo fermano nel corridoio. Lavora in quest’ufficio da quasi un anno. Mi spiega che l’ufficio è aperto dalle 9 alle 12.30 tutti i giorni (il giovedì anche nel pomeriggio) tranne il sabato e la domenica. Di solito ricevono 20 persone circa, tutte le mattine, tranne il giovedì quando ci sono 60 – 70 persone che aspettano il proprio tuo, dopo aver ritirato il numero all’entrata. È il giorno in cui si danno le informazioni e si ritirano i permessi di soggiorno.
«La maggiore difficoltà che trovo nel servizio è la mancanza di contatto con Trento, il fatto che non ci sono direttive ben precise».
E per gli stranieri cos’è la cosa più difficile?, chiedo. «Riuscire a portare tutta la documentazione. C’è un elenco di documenti che lo straniero deve portare». Romano mi mostra i fogli con l’elenco dei documenti, che sono diversi a seconda che si chieda un permesso di soggiorno nuovo o di rinnovarlo, o si domandi la carta di soggiorno. L’elenco cambia anche in relazione al tipo di permesso di soggiorno richiesto (motivi di turismo, di lavoro, di ricongiungimento familiare, ecc…).
«Durante il periodo di 2-3 mesi dal momento in cui il cittadino straniero riceve l’elenco e presenta la documentazione – continua a spiegarmi il funzionario -, può capitare qualche variazione, allora deve portare qualche certificato che non era incluso nell’elenco».
Come mai si aspetta così tanto? «Mancanza di personale e il lavoro si accumula».
Cos’è più fastidioso nel suo lavoro? «Quando la mia richiesta di rispettare la legge viene interpretata come razzismo. Per esempio, in caserma è vietato entrare con il volto coperto. Questa legge c’era da sempre e non è stata inventata per colpire i musulmani, ma per la semplice ragione che chi entra in un ufficio di polizia deve essere riconoscibile, identificabile. Questa legge non è cambiata, e il nostro dovere è di rispettarla. Non può entrare in polizia un ragazzo con il casco sulla testa, e per lo stesso motivo non può entrarci una donna musulmana con il velo sulla faccia. Ma quando io dico alla donna di togliersi il velo è un dramma. Anche le foto per i documenti con la testa coperta non sono accettate. Noi trattiamo tutti allo stesso modo e facciamo solo il nostro dovere. Io capisco che è difficile quando la legge dello stato non è conforme alla legge religiosa, ma il mio dovere non è cambiare la legge ma adempierla».
Gabriella è una bella poliziotta con capelli lunghi, raccolti in una coda e gli occhi blu. L’uniforme le dà un aspetto severo. In questo ufficio lavora da 4 anni. Per lei è più difficile spiegare le ragioni delle richieste che fanno tornare una persona più volte allo stesso sportello.
«È vero, si richiedono molti documenti. Mi dispiace quando leggo disperazione negli occhi di chi non riesce a procurarsi qualche certificato che si chiede. Ma non siamo noi che chiediamo certificati, è la Questura di Trento: noi controlliamo solo se c’è tutto prima di mandare loro la pratica».
Anche a Gabriella dà fastidio l’arroganza o i modi grezzi e poco rispettosi da parte di alcuni stranieri. Alcuni sfogano la propria insoddisfazione e rabbia. Chiedo se questo succede perché lei è una donna, ma lei nega dicendo che gli arroganti sono arroganti anche con i colleghi uomini. «Ma per fortuna di solito i rapporti sono normali e tranquilli», conclude sorridendo.
Romana lavora nell’Ufficio stranieri dal 2000. È una poliziotta molto giovane, con la pelle chiara, capelli lunghi, occhi azzurri, e un bel sorriso che fa vedere poco, perché c’è poco da sorridere davanti ai problemi della gente che incontra nel suo lavoro. Risuona la sua voce, per far sentire e far capire cosa serve, quando e perché, e non si stanca mai di ripetere sempre le stesse cose.
Non si capisce se non vogliono capire o non capiscono per davvero quello che diciamo. So che non è facile: non conoscono la lingua, e in alcuni casi non sanno dove andare a cercare i documenti richiesti. So che non è facile accettare che non si può rinnovare un permesso di soggiorno se manca una carta sola di tutte quelle richieste. Noi non siamo indifferenti. Gli stranieri non sono per noi solo i numeri o i fascicoli. Cerchiamo di andare loro incontro, di essere pazienti, ma quando una cosa non si può fare, è inutile insistere. Noi dobbiamo applicare la legge, non è una questione personale. Mi dispiace se una persona non può presentare il certificato che serve, ma io non posso farci niente. Ogni paese ha le sue leggi. Mi fa arrabbiare l’arroganza, la maleducazione e la mancanza di rispetto per le leggi del paese in cui sono arrivati da parte di alcune persone. C’è la gente che viene molte volte per una stessa cosa e io non capisco se non hanno capito quale documento devono portare, o non vogliono capire che io non posso mandare la pratica a Trento senza quel documento.
Rino lavora da poco presso questo sportello. È molto cordiale e comprensivo, ha una pazienza infinita e ascolta tutti quelli che lo fermano anche nel corridoio. Per lui il problema maggiore è la comunicazione.
«Quel problema non viene superato con la conoscenza della lingua – dice -. Con la conoscenza dell’italiano la comunicazione migliora, ma restano ostacoli di tipo culturale». Secondo Rino sarebbe utile la presenza del mediatore interculturale per rimuovere completamente tutti gli ostacoli di comunicazione. Aggiunge che il loro lavoro è diventato più facile e sereno da quando è aperto lo sportello presso il comprensorio di Rovereto dove si prendono gli appuntamenti. Loro adesso raccolgono la documentazione, prendono le impronte digitali e mandano tutto a Trento. Poi consegnano il permesso o la carta di soggiorno allo straniero.
«I tempi di attesa sono lunghi – continua Rino -. Anzi, sempre più lunghi: 2 – 3 mesi solo per prendere un appuntamento, un altro mese per finire la pratica e farla arrivare in questo ufficio. Nel frattempo, lo straniero non può lasciare l’Italia. Deve aspettare che arrivi il permesso di soggiorno per andare in ferie o andare a trovare la famiglia nel paese d’origine».
Abbiamo parlato sempre delle difficoltà. Che cosa è bello nel suo lavoro? «Io sono molto contento quando le persone riescono a prendere il permesso di soggiorno prima delle ferie. Tutti fanno le ferie nei paesi d’origine, vanno a trovare le famiglie, dei parenti e mi dà molto fastidio quando sono impediti di partire a causa delle lunghe attese per il rinnovo».
E lei, cosa si aspetta dagli stranieri? «La comprensione. Che comprendano le nostre difficoltà e i nostri limiti come noi cerchiamo di comprendere loro».
Quanto agli stranieri, sono tutti d’accordo che bisogna essere in regola con il permesso di soggiorno, ma non tutti sono d’accordo con le condizioni necessarie per ottenerlo. La legge è dura, e per molti (quelli che non potranno mai adempiere alle condizioni che lo stato impone) è crudele.
Inoltre, nessuna delle persone si dice contenta che, avendo le condizioni richieste per ottenere il permesso di soggiorno, occorra aspettare molti mesi per averlo.

«PERMESSO», INCUBO O PAROLA MAGICA?

La parola permesso la capiscono tutti. Usano questa parola italiana anche quando parlano in madrelingua. È una parola magica che apre o chiude molte porte nel nuovo paese.
Un algerino, in Italia da 15 anni, con la moglie e la figlia di due anni ha la carta di soggiorno. Lavora in fabbrica e vive con la sua famiglia in un appartamento di 60 metri quadrati. Per il momento non ha nessun problema. Lavora solo lui, la moglie sta a casa con la bambina, è contento in Italia. Ma se nasce un altro figlio, come lui e la moglie vorrebbero, potrà perdere la carta di soggiorno. Per rinnovarla, dovrà trovare un altro appartamento, più grande, non perché questo in cui è adesso per lui sarebbe piccolo, ma è piccolo per lo stato. La nuova casa non sarà facile da trovare, e anche se la trova, le case più grandi costano di più e poi non resta più niente per vivere.
Un altro algerino, pieno di rancore e delusioni, racconta che in Algeria ha la moglie e tre figli. È qui dal ’98. Dice che lavora in fabbrica, spende tutta la forza delle sue braccia per guadagnare onestamente lo stipendio, ma chissà se, e quando, potrà portare qui la sua famiglia. Tutta la sua permanenza ha accompagnato l’incubo del rinnovo del permesso di soggiorno: gli appuntamenti, le carte, le attese, la paura per le assenze dal lavoro. Per l’ultimo rinnovo, ha preso l’appuntamento a novembre per febbraio dell’anno dopo. Da febbraio, ogni mese rinnova il tagliando. Il permesso di soggiorno non è ancora pronto. E sono 8 mesi che non vede sua moglie e i suoi figli.
Un signore pakistano è arrivato in Italia 14 anni fa, con la moglie. In Italia sono nati i suoi tre figli. Ha la carta di soggiorno ma i suoi problemi non sono finiti. Per inserire un nuovo dato nella carta di soggiorno bisogna fare tutto da capo e aspettare. Lui è commerciante e deve viaggiare per il suo lavoro. Mentre aspetta, il lavoro si ferma. È solo lui che lavora. Succede che deve aspettare anche sei mesi il rinnovo.
Non chiediamo che cambi la legge – dice il pakistano -. Chiediamo solo di non aspettare così a lungo. Basterebbe aprire più sportelli che fanno le pratiche, assumere gli operatori quanti ne servono finché i tempi di attesa diventino ragionevoli.
Un albanese, in Italia dal ’93 con la famiglia (moglie e tre figli maggiorenni), mi racconta arrabbiato: «Per un errore amministrativo io non ho ancora la carta di soggiorno. Dopo 11 anni in Italia, ancora ho 5 permessi di soggiorno da rinnovare in continuazione, e questo mi costa soldi, tempo e nervi. Non è giusto che devo perdere tutto questo tempo e assentarmi dal lavoro. Non è giusto che non possiamo andare in ferie in Albania».
Una bella signora alta, con gli zigomi sporgenti e capelli biondi raccolti in una coda, in Italia dal ’95 dice: «L’informazione è migliorata molto, e le persone che lavorano presso gli sportelli informativi sono gentili, accoglienti, pazienti. Ma l’organizzazione che riguarda le pratiche è peggiorata. C’è qualcosa che non va e non può andare avanti così».
Questa nostra inchiesta dimostra che la critica è fondata: è aumentato il tempo di attesa; il numero di persone che aspettano; il numero di quelli che si chiedono fino a quando il datore di lavoro avrà pazienza di sopportare le assenze; il numero dei bambini che non possono passare l’estate dai nonni.
Nessuna persona di buon senso desidera che le leggi calpestino la dignità degli immigrati e i sentimenti dei loro bambini, futuri cittadini italiani ed europei. Sicuramente c’è una soluzione. Bisogna cercarla assieme.

BOX 1

IMMIGRATI «BUONI», IMMIGRATI «CATTIVI»

Vent’anni fa, quando arrivai a Rovereto, davanti all’Ufficio stranieri non c’era nessuno ad aspettare. Tutte le informazioni relative al mio permesso di soggiorno me le diede il signor Gabriele. Toai in quell’ufficio un paio di volte per delle informazioni, ma anche perché era piacevole fare due chiacchiere con il commissario che era simpatico e sempre di buon umore.
Adesso lui è in pensione e lo vedo quasi tutti i giorni nel centro della città, sempre negli stessi posti, a chiacchierare con i suoi amici. Adesso ha una faccia seria, sorride poco, non è più in uniforme ma è sempre vestito elegante e non ha perso niente del suo fascino di vent’anni fa. Ha accettato volentieri di parlare con me degli stranieri.
«Una volta era più semplice – mi spiega – e le pratiche si facevano più in fretta, perché la Questura di Rovereto era autorizzata a rilasciare il permesso di soggiorno, e perché c’erano meno stranieri. Adesso mandano tutto a Trento».
Come? Quando ce n’erano pochi, ogni Questura faceva le proprie pratiche, adesso che sono tanti le fa una sola. Non è assurdo? «È così. Adesso nell’Ufficio stranieri di Rovereto si raccoglie la documentazione, poi si manda tutto a Trento. Solo Trento è autorizzata a rilasciare il permesso di soggiorno».
Ricordo che, quando ci conoscemmo, a Rovereto c’erano 4 serbi e 1 croata, adesso invece ci sono centinaia di famiglie. Questa piccola città del Trentino ha cambiato il suo volto. È diventata una città variopinta: visi bianchi, neri e gialli; vestiti occidentali ed orientali; si sentono per strada i suoni di lingue sconosciute.
Chiedo all’ex funzionario come vive lui questi cambiamenti. «Conosco molti stranieri – mi dice -, che sono proprio brave persone. Ma altri non mi piacciono: gente volgare, arrogante, violenta, quelli che sputano per strada, che pretendono quello che nel loro paese non avrebbero mai».
Ma loro – obietto io – sono qui proprio per avere quello che nel proprio paese non possono avere. «D’accordo, ma non lo devono pretendere. Neanche ai cittadini italiani è stato regalato niente, ma hanno ottenuto tutto con anni di lavoro. A nessuno dà fastidio se loro mantengono gli usi e costumi del proprio paese, ma devono rispettare anche i nostri».
È vero. La mancanza di rispetto dà fastidio a tutti, agli italiani come agli stranieri.
«Infatti – continua il mio interlocutore -, molti stranieri sono persone che lavorano, cittadini onesti che meritano ogni rispetto, ma quelli che non rispettano le nostre leggi, i nostri usi e costumi, le nostre abitudini, io credo che dovrebbero andare via».
Molti italiani la pensano così. Purtroppo, succede che vengano mandati via anche i «buoni» e nelle prigioni finiscono anche gli innocenti. Succede. Perché i «buoni» e i «cattivi» sono mescolati fra di loro, in tutti i popoli e in tutti i luoghi del mondo.

S.Petrovic

Snezana Petrovic




SUDAFRICA dai campi agli agglomerati urbani

ORIZZONTI PIÙ VASTI
Sconfitta l’apartheid, il Sudafrica
è alle prese con nuovi e gravi problemi
economici e sociali. I 17 missionari
della Consolata presenti nel paese
non si nascondono le difficoltà,
ma hanno intrapreso un cammino
di rinnovamento per fronteggiare
le nuove sfide. Ce ne parla uno
dei consiglieri generali dell’Istituto,
a conclusione della visita canonica.

L’ultima visita canonica avvenne
l’anno dopo in cui era stata
sconfitta l’apartheid: tutti i
sudafricani erano estasiati per i risultati
miracolosi e pacifici con cui i loro
leaders li avevano traghettati verso
il nuovo Sudafrica. Grandi erano
le aspettative di libertà, giustizia, lavoro,
benessere, scuola e salute uguali
per tutti. Il cielo aveva baciato
la terra sudafricana: il successo sembrava
possibile e a portata di mano.
A sette anni di distanza, il panorama
è oscurato da dense nubi: molte
promesse sono ancora nel cassetto e
nuovi problemi sono sopraggiunti a
complicare la vita della società sudafricana.

APARTHEID ECONOMICA
La situazione economica non potrebbe
essere più squallida. Un quarto
dei sudafricani sopravvivono con
meno di un euro al giorno; metà della
popolazione vive in case fatiscenti,
con un introito inferiore a 100 euro
al mese. Un quarto dei bambini
sotto i sei anni è affetto da insufficienza
alimentare, con gravi rischi
per il loro sviluppo cerebrale.
Dal 1990 al 2000 la disoccupazione
è aumentata del 20%: un lavoratore
su tre è senza lavoro. In alcune
parti del paese la disoccupazione
raggiunge il 50%.
Problema cruciale per l’occupazione
è sempre la questione della terra,
in buona parte ancora nelle mani
di pochi proprietari storici del tempo
dell’apartheid. La riforma agraria,
con la relativa ridistribuzione delle
terre, ha fatto passi da lumaca: il governo
non ha fondi per riscattarle.
Milioni di africani, agricoltori per
cultura e tradizione, ma senza proprietà
terriera, sono privi di ogni sicurezza
economica e devono accontentarsi
di lavori provvisori, banali e
poco retribuiti.
La distanza tra ricchi e poveri diventa
sempre più abissale. La povertà,
poi, ha effetti devastanti nei
comportamenti umani e sociali, che
sfociano nella criminalità, violenza,
prostituzione… e conseguente diffusione
dell’Aids.
L’epidemia dell’Hiv/Aids ha raggiunto
proporzioni spaventose: è responsabile
di una morte su quattro.
Nel 2000 il morbo ha provocato il
40% dei decessi di giovani e adulti
tra i 15 e i 49 anni ed è diventato la
prima e più grande causa di morte
nel paese. Le previsioni sono più terrificanti:
nel 2010 l’Aids avrà ucciso
dai 5 ai 7 milioni di sudafricani.
La mancanza di moralità e la scarsità
di provvedimenti seri a tale proposito
da parte del governo sono i
peggiori nemici degli sforzi che da
varie parti si stanno facendo per
combattere l’epidemia. L’autorità civile
cerca di nascondere la cruda
realtà: gli stanziamenti dei fondi per
la sanità vengono impiegati soprattutto
per combattere le malattie più
convenzionali, come la tubercolosi,
ma poco o niente per prevenire e curare
l’Aids.

SOCIETÀ VIOLENTA
Ad aggravare la situazione del Sudafrica
contribuiscono i mali comuni
al resto del mondo: disonestà economica
ed evasione fiscale nel settore
privato, corruzione e nepotismo
in quello pubblico.
Nonostante le leggi abbiano abolito
ogni residuo di razzismo, permangono
ancora atteggiamenti culturali
e pratici di discriminazione,
specialmente nei riguardi della donna
di colore, in particolare nel mondo
del lavoro.
La famiglia continua ad essere minacciata
nei suoi valori tradizionali
dal sistema di lavoro migratorio: centinaia
di migliaia di lavoratori sono
lontani da casa per quasi tutto l’anno,
oppure la distanza del posto di lavoro
assorbe buona parte della giornata
in viaggi.
Per la maggior parte dei sudafricani
la lotta per la sopravvivenza si
traduce spesso in disperazione, frustrazione,
criminalità, violenza familiare,
dipendenza da droghe e in altri
gravi problemi sociali che tormentano
il paese: il Sudafrica è uno
dei paesi più violenti del mondo; i
suicidi aumentano ogni anno.
La mancanza di sicurezza è spaventosa.
La gente vive nel terrore di
essere aggredita e derubata anche in
pieno giorno, sia in casa che fuori,
per mano di forsennati che non esitano
a uccidere.
Tale insicurezza non risparmia sacerdoti
e religiosi; anzi, sembrano diventati
bersagli facili e preferiti: recentemente
sono stati uccisi due preti
delle diocesi in cui lavorano i
missionari della Consolata.

BISOGNO DI CAMBIAMENTI
In tale situazione, le chiese cristiane
sembrano aver perduto quello
smalto profetico e autorità morale
che le caratterizzavano al tempo dell’apartheid.
Esse sono ancora in prima
linea nella lotta contro l’Aids; rimangono
sempre la voce dei poveri,
anche se non si fa sentire come prima;
partecipano allo sforzo nazionale
per iniettare nella società principi
e valori morali, promuovere sicurezza,
giustizia, armonia e unità di tutti
i sudafricani.
In una società che cambia tanto
velocemente, anche le chiese hanno
bisogno di rinnovare i metodi di apostolato
e testimonianza della fede.
L’atmosfera di materialismo ed edonismo
che si respira nel paese ha appiattito
alcuni aspetti della vita e lavoro
ecclesiale: la distanza tra i più
ricchi e i più poveri, i comportamenti
razzisti e classisti, persistenti
nella società e perfino nelle istituzioni
ecclesiali, non fanno più problema
come una volta.
I missionari della Consolata, da oltre
30 anni, vivono l’evoluzione del
Sudafrica e cercano di adattare la loro
presenza a tali sfide. Vari cambiamenti
sono avvenuti negli ultimi sette
anni; prima di tutto nel numero e
inteazionalità del gruppo: sono 17
missionari, appartenenti a 8 nazionalità
e 4 continenti, in maggioranza
giovani africani e sudamericani.
Tale composizione, non priva di
sfide a livello comunitario, costituisce
una ricchezza di idee, metodi ed
esperienze di lavoro: diversità e unità
sono a servizio della stessa missione,
e diventa modello e testimonianza di
convivenza e collaborazione per una
società pluriculturale e multirazziale
come quella sudafricana.
Con l’aumento del personale è avvenuto
anche un cambiamento di orizzonte:
dopo 20 anni di lavoro nelle
zone rurali, i missionari della Consolata
hanno scelto i poveri dei
grandi agglomerati africani alle periferie
delle grandi città: le townships,
create per le popolazioni nere in
tempo di apartheid.
Oltre a Madadeni, Blaauwbosch,
Osizweni, alla periferia di Newcastle,
i missionari della Consolata hanno
esteso la loro presenza nella città
di Pretoria, prendendo la responsabilità
di una parrocchia nella township
di Mamelodi; sono ritornati in
quella di Embalenhle (Evander);
hanno avviato l’esplorazione di un’apertura
a Soweto (Johannesburg).
Il passaggio dalle piccole e disperse
comunità rurali alle masse delle
zone industrializzate ha provocato
un cambiamento e arricchimento
dei metodi di lavoro. Per rispondere
alle complesse situazioni urbane
non è più sufficiente la buona volontà
di «navigatori solitari», ma occorre
il lavoro di «squadra».
Per questo in quasi tutti i centri vi
sono tre missionari e il lavoro pastorale
è fatto in gruppo: pianificazione
delle attività, divisione delle incombenze,
verifica e valutazione del lavoro
fatto, delle difficoltà e facilitazioni
incontrate.
In un mondo governato dall’individualismo,
che non risparmia neppure
i missionari, è forse questo il più
significativo cambiamento e si dimostra
utile ed efficiente. Ne è prova
l’elogio che il vescovo di Dundee
ha espresso nei riguardi della nostra
presenza a Madadeni, definita «la
migliore parrocchia della diocesi».

SFIDE E PRIORITÀ
Se molto è stato fatto in questi ultimi
anni, ancora molto rimane da fare
per superare le sfide crescenti della
società sudafricana. Oltre a esortare
i missionari al rinnovamento
della vita interiore, per guardare avanti
con speranza, i visitatori hanno
indicato la via e le priorità per il futuro.
«L’evangelizzazione deve precedere
la sacramentalizzazione; la
preparazione di leaders laici deve diventare
la vostra priorità; il lavoro
con la gioventù, già fiorente in tutte
le missioni, deve intensificarsi; l’assistenza
ai malati di Aids, che fa già
parte della vostra preoccupazione
giornaliera, deve crescere; l’inculturazione,
già visibile nella liturgia e
nelle celebrazioni, deve nascere anche
in altri ambiti della vita ecclesiale;
il dialogo ecumenico e interreligioso
deve diventare parte integrante
della vostra missione».
Una delle priorità che si impone ai
missionari della Consolata è l’incremento
dell’animazione missionaria e
vocazionale. Essa è sentita come una
responsabilità, non solo nei riguardi
delle comunità loro affidate, ma da
estendere a tutte le diocesi in cui sono
inseriti. La chiesa e il paese stesso
hanno bisogno di tale servizio, per
diventare più universali, più aperti agli
altri, più accoglienti delle differenze
di razza e nazionalità.
Per lungo tempo i missionari della
Consolata sono stati consigliati di
limitarsi a promuovere le vocazioni
diocesane, poiché la diocesi di Dundee
non aveva alcun prete diocesano.
Da una dozzina d’anni è stato loro
richiesto di avviare la promozione
vocazionale anche a favore
dell’Istituto. Alcuni tentativi sono
stati fatti, ma senza successo.
È arrivato il momento di aiutare la
chiesa sudafricana a fare questo passo
ulteriore: inviare missionari in altre
nazioni e continenti. «Vi chiediamo
di dare priorità a questo settore –
suggeriscono i visitatori – e di considerare
se sia giunto il tempo di avere
un animatore a tempo pieno, di fondare
gruppi vocazionali, costruire una
casa per questo scopo, organizzare
commissioni vocazionali diocesane,
lavorare con altre congregazioni,
fare qualsiasi altra cosa che possa implementare
un più robusto programma
di animazione missionaria e
vocazionale».

GIUSTIZIA E PACE
Anche questa è una priorità continua.
Quando il Sudafrica sconfisse
l’apartheid, gli africani ebbero l’impressione
che il paese sarebbe diventato
modello di società giusta per gli
altri stati africani confinanti. Ciò non
è avvenuto. Molte situazioni ingiuste
continuano con effetti deleteri per il
presente e il futuro del paese. I missionari
della Consolata sono esortati
a stare in prima linea nel servizio e
promozione di «giustizia e pace»,
dando il loro contributo agli sforzi
che la chiesa e altre istituzioni religiose
e civili stanno facendo. Sono convinti
che l’impegno per la giustizia e
la pace non è optional: il paese ne abbisogna,
la missione lo richiede,
l’evangelizzazione,
senza di esso, è sterile.

Norberto Ribeiro Louro




VENEZUELA 2004 Tra Bolivar e Chávez (seconda puntata)

Venezuela 2004 (seconda puntata)


CHÁVEZ TI AMO, CHÁVEZ TI ODIO

In Venezuela la maggioranza della popolazione nasce da una combinazione di elementi indigeni, europei e africani. Ma un
dato di fatto è sotto gli occhi di tutti: il presidente Hugo Chávez è un meticcio, mentre i principali leaders dell’opposizione sono
bianchi. Esiste una componente etnica nella crisi del paese caraibico?
Ne abbiamo parlato con padre Agostinho Barbosa, superiore dei missionari della Consolata in Venezuela. Che tra l’altro
ammette: negare che le attuali divisioni politiche siano arrivate anche all’interno della chiesa e dei fedeli è negare
l’evidenza.


Caracas. «Il fatto è successo nove anni fa. Uccisero un ragazzo per rubargli un paio di scarpe, un evento allora piuttosto comune, soprattutto se si trattava di scarpe sportive. Anche i furti seguono le mode: ora, per esempio, va per la maggiore il furto di cellulari. C’è stato il momento delle pistole
dei poliziotti: venivano uccisi per rubare l’arma. Ebbene, durante i funerali del ragazzo mi avvicinai alla sorella che calzava un paio di scarpe sportive… uguali a quelle per cui il fratello era stato assassinato.
Le chiesi se non avesse paura di essere uccisa anche lei. La sua risposta fu che dobbiamo pur morire e, allora, perché avere paura?».
Portoghese, 38 anni, padre Agostinho Barbosa parla sottovoce, quasi avesse timore di offendere un paese a cui si sente profondamente
legato. Superiore dei missionari della Consolata nel paese caraibico, padre Agostinho ha pochi capelli, ma un aspetto giovanile.
«Ho ricordato – dice, trattenendosi
dal fumare un’altra sigaretta –
l’episodio delle scarpe non per giudicare
questo paese. Anzi, sono qui
già da 10 anni e mi dispiacerebbe
molto andare via».
I missionari vivono in una piccola
casa di un solo piano in una zona
chiamata El Paraíso. Il nome benaugurante
non è però sufficiente
per tenere lontani i problemi, che
sono molti, a cominciare dalla povertà
e dalla insicurezza.
A Caracas si concentrano 4 dei 24
milioni di venezuelani, molti attratti
e ingannati dai falsi miti della metropoli.
«Come spesso accade –
spiega padre Agostinho -, il paese
vero non si vede nella sua capitale.
Qui è tutto un correre: per il lavoro,
la casa, la sopravvivenza. Ora
poi tutto è più complicato a causa
dell’esplosione della crisi e della
violenza».

Attoo a El Paraíso ci sono vari
barrios: Las Vegas, Cota 905, Las
brisas del Paraíso, Las artigas, Antimano,
Carapita.

«Noi lavoriamo a Carapita – spiega
il missionario -. È un luogo difficile
e un sacerdote può cadere nella
tentazione di scoraggiarsi. Se tu
non esci, se non stai per strada, se
non cerchi il contatto, non c’è una
risposta della gente. Mi rallegra
molto la decisione che abbiamo
preso fin dall’inizio: andare dove c’è
più bisogno, dove anche i sacerdoti
diocesani non vogliono andare.
Lo stesso arcivescovo, quando gli
dicemmo che volevamo andare a
Carapita, si meravigliò, perché era
la parrocchia più difficile».

L’ALTRO VENEZUELA

La maggioranza dei venezuelani
sono meticci (o creoli, secondo una
terminologia più accademica). I
bianchi sono circa il 21% e vivono
a Caracas e nelle principali città. Gli
afrovenezuelani sono più o meno il
10% e abitano soprattutto a Barlovento
(stato di Miranda), a sud del
lago di Maracaibo (Zulia) e a Cumaná
(Sucre), tutte zone dove c’erano
(e ci sono) le piantagioni di
caffè e cacao. Gli amerindi (ovvero
i popoli indigeni) sono ormai ridotti
al 2% della popolazione totale; vivono
nella regione del bacino dell’Orinoco,
nella boscaglia della
Guayana e all’interno della giungla
amazzonica.

Dunque, fuori Caracas e in generale
fuori delle città, esiste un altro
Venezuela.
Fino al 1998 i missionari della
Consolata hanno operato tra gli indios
guajiros (1) nello stato di Zulia.
Padre Barbosa ha invece lavorato
per 8 anni nelle missioni di Barlovento,
tra i venezuelani discendenti
degli schiavi africani. Li chiama
negritos, non temendo di essere accusato
di patealismo.

«No, non è patealismo – spiega
tranquillo -. È affetto. Loro sono la
“mia” gente. Il venezuelano nero è
molto aperto, molto più del guajiro,
per esempio».
A Barlovento i missionari della
Consolata seguono 3 parrocchie
con 33 frazioni (caseríos). «Le distanze
sono notevoli – spiega
padre Agostinho -. E poi i
problemi organizzativi sono
complicati dal fatto
che le persone non si
preoccupano molto degli
orari (peraltro, ammetto
di non trovare
sgradevole questo aspetto
del carattere).
Loro dicono sempre:
“Vengo, vengo
un po’ più tardi”.
Sono stato in
Inghilterra e là
non era certo così. Qui devo fissare
un incontro alle 8 per poter cominciare
alle 9. Forse. Però, se uno si abitua,
non ci sono difficoltà».
«Ho trovato persone che vivono
alla giornata, nel senso che il domani
non ha molta importanza. O, meglio,
importa, ma non nel modo europeo
per cui bisogna risparmiare,
essere pronti per ogni futura evenienza.
Se c’è denaro va bene, se
non c’è non importa».
«Forse – continua padre Agostinho
-, è l’ambiente stesso, la natura
del tropico, che si riflette nei
comportamenti della gente. In Europa
devi avere una casa ben chiusa,
pronta per l’inverno; qui non è
necessario, dato che la temperatura
è sempre piacevole. Là
occorre seminare
nel giusto periodo
per
avere il raccolto nel mese adeguato;
qui non serve, perché il raccolto si
può fare varie volte all’anno».
«Non è vero che i negritos siano
dei fannulloni, come dicono molte
persone. Il fatto è che, a causa del
caldo, si lavora solo nelle prime ore
del mattino, per esempio nelle piantagioni
di cacao. Poi, verso le 10 del
mattino, li si vede già per strada, all’angolo
della chiesa o sotto un albero
di mango. Tutto ciò è comprensibile:
nessuno può lavorare
con 35-36 gradi e un tasso elevatissimo
di umidità. Magari, verso le 5-
6 del pomeriggio, quelle stesse persone
toeranno nei campi, ma la
maggior parte del giorno la passano
per strada».
Oggi la gente afro vive come
gli altri venezuelani
(anche se in condizioni
di più accentuata povertà), ma conserva le
proprie radici culturali. «Conosco –
racconta padre Agostinho – un afro
che è diventato avvocato e vive in
città. Ma, quando rientra a Barlovento,
si dimentica di tutto e torna
ad essere soltanto un nero con la sua
musica, i tamburi, i balli, l’acquavite».
Anche la loro cultura religiosa è
particolare, legata non tanto alle
tradizioni degli avi africani, quanto
piuttosto a quelle dei colonizzatori
spagnoli. «Guardano ai santi, alle
processioni – spiega il missionario –
. Per sentire che sono chiesa, che sono
cristiani, gli afro devono vedere
e toccare: toccare la statua del santo
o il padre».

PER SCHIARIRE LA PELLE

Incontriamo il dottor Manuel
Barroso, noto psicanalista, autore di
numerosi saggi. Ci spiega che in Venezuela
la «cultura dell’abbandono», importata dai colonizzatori,
continua a produrre moltissimi
danni nella struttura della società.
Nel paese ci sarebbe un 60% di figli
abbandonati o senza un genitore
(di norma il padre).

«Quella della famiglia è una questione
molto seria – ci conferma padre
Agostinho -, ma non mi limiterei
a spiegarla con il machismo. È
vero che il problema nasce per l’irresponsabilità
dell’uomo, ma anche
per colpa della donna a
cui della famiglia non importa
molto: quello che le interessa è
avere figli. Poi, se l’uomo non se
ne occupa, lo fa lei, cioè non lo
obbliga ad interessarsi di loro.
Quindi, è un fatto normale che i
fratelli abbiano padri differenti».
Per fortuna, c’è nella donna la capacità
di accettare i figli che il marito
ha avuto da un’altra. C’è anche la
disponibilità a crescerli come
se fossero suoi e a mantenere
buoni rapporti
con la madre naturale.
«Ho incontrato – racconta
il missionario – donne con
11 figli e solo 2 dello stesso
padre e questi comportamenti
si tramandano di generazione
in generazione. Ci sono
anche coppie stabili, ma i
numeri sono bassi. Personalmente
conosco due coppie sposate in chiesa (pochissime si sposano
in chiesa), che non hanno figli da
altre relazioni. Tutte le altre, anche
se magari convivono stabilmente,
hanno avuto figli fuori dal matrimonio.
Questi comportamenti riguardano
in modo particolare gli afrovenezuelani».
La sociologa Mercedes Pulido ha
spiegato a Noticias Aliadas (2) che
in Venezuela il colore della pelle è
sempre «caffè con latte. A volte con
un po’ più di caffè, a volte con un
po’ più di latte». La questione è se,
nel paese caraibico, il colore della
pelle sia o no un fattore discriminante
(3).

«Lo è, lo è – spiega padre Agostinho
-. Nella mia esperienza di
missionario, ho visto che ci sono negritas
che vogliono “migliorare” la
razza, schiarendo la pelle, perché a
loro non piace essere nere. Vedere
una afro con un figlio catir (quasi
bianco), mentre convive con un nero,
è facile. Molte donne di colore
cercano l’uomo bianco per avee
un figlio, ma rifiutano la convivenza
con lui.

C’era un italiano, un poliziotto,
che aveva avuto un figlio con una
donna afro: lei ha voluto il figlio, ma
non suo padre. Questo razzismo nasce
da un’autostima molto bassa,
probabilmente per un retaggio storico
duro a morire».
Per confermare questa sensazione,
padre Agostinho racconta altri
episodi accaduti durante i suoi anni
trascorsi tra gli afrovenezuelani.
Come il sacerdote cacciato perché
era «nero come noi». O il medico rifiutato
perché era «nero come noi».
O ancora la lite tra due donne afro
che si affrontavano dandosi del «taci
tu che sei più negra di me».

IL METICCIO CHÁVEZ
DIVIDE ANCHE IN CHIESA

Il presidente Hugo Chávez è un
mestizo. All’opposto la maggioranza
degli impresari, sindacalisti, politici
e giornalisti dell’opposizione
sono bianchi.

«Non so – spiega padre Agostinho
– quanto questa componente razziale influisca. So soltanto che la situazione
generale è complicata e
per noi anche molto delicata. Non
tanto perché il governo fa pressioni
sulla chiesa (questo non mi preoccupa),
ma perché abbiamo il difficile
compito di unire la gente mentre,
anche dentro la stessa chiesa, ci
sono persone che si odiano perché
uno ha un ideale e uno un altro, perché
uno ama Chávez e uno lo odia.
L’altro giorno una signora mi ha
raccontato che suo marito aveva
rotto il televisore, perché compariva
Chávez. Mi ha spiegato che non
ne avrebbe comperato un altro, dato
che il marito lo avrebbe rotto di
nuovo al riapparire del presidente e
ha aggiunto che non avrebbe fatto
la comunione perché provava un odio
fortissimo per Chávez. Un’altra
volta ho incontrato in chiesa una signora
inginocchiata e piangente. Mi
ha spiegato che stava chiedendo a
Dio che Chávez se ne andasse. Io ho
detto che, come per tutti, sarebbe
venuto anche il suo momento e che
Dio non parteggia per l’uno o per
l’altro dei contendenti.

D’altra parte, è altrettanto vero
che ci sono persone, soprattutto dei
quartieri più poveri, che amano il
presidente Chávez».

Il presidente è stato eletto con il
voto determinante delle classi meno
abbienti della popolazione. «Ma
non solo da loro – precisa padre Agostinho
-. Il Venezuela era in una
profonda crisi economica e sociale.
Anche per questo la gente ha votato
in massa Chávez, con la speranza
che lui salvasse il paese. Però non
si può dire che l’abbia fatto. Ha
grandi idee, buoni ideali, buoni
programmi, ma fino ad ora non si è
realizzato molto».

LA COSTITUZIONE
COME UN «BEST SELLER»

Per le vie del centro di Caracas
sulle bancarelle dei buhoneros (venditori
di strada) si trova in vendita
la «Costituzione della repubblica
bolivariana del Venezuela». Nelle
case dei quartieri poveri non manca
mai quel libretto, che può stare
nel taschino della camicia. Se Chávez
dovesse lasciare la presidenza, è
difficile pensare che tutto questo
venga dimenticato.

«È vero – ci conferma il missionario
-. Toare al passato non è più
possibile. Una cosa positiva è che la
rivoluzione bolivariana ha reso più
consapevoli i venezuelani. Questo
significa che il prossimo presidente,
chiunque esso sia, dovrà far i
conti con questa nuova coscienza
collettiva.
Oggi il paese è sul bordo del baratro.
Se dico che sono ottimista
mento, ma mento egualmente se dico
che sono pessimista.
Ricordo una frase che mi dissero
quando arrivai qui in Venezuela: il
venezuelano è molto tranquillo e
pacifico, ma non toccarlo nello stomaco:
è abituato ad avere cibo e
non sopporta di patire la fame».

QUELLA FIRMA DI APRILE

Durante i convulsi giorni dell’aprile
2002, la chiesa ufficiale venezuelana
si affrettò a riconoscere il
golpe contro il presidente Chávez.
In particolare, il cardinale Ignacio
Velasco, arcivescovo di Caracas,
firmò l’atto di accettazione del nuovo
governo di Pedro Carmona.
Padre Agostinho è molto cauto al
riguardo. «Io mi limito a pregare –
conclude il missionario -, affinché il
paese continui ad essere un paese
dove possano vivere sia gli uni che
gli altri. Noi cercheremo di giocare
il nostro ruolo senza metterci troppa
ideologia, se non è proprio indispensabile.
Come sacerdoti non dobbiamo
tanto schierarci contro Chávez, ma
piuttosto essere di stimolo affinché
il presidente torni ad orientarsi verso
i suoi ideali che erano buoni».

(FINE 2a. PUNTATA – CONTINUA)

Box

Fronte dei media. Come televisioni e giornali capovolgono la realtà

Tutti i principali canali televisivi e i
giornali nazionali del Venezuela sono
in mano all’opposizione. Non esiste
alcun tipo di «par condicio». Il presidente
non viene soltanto criticato (come
giusto e normale), ma deriso e insultato.
«Si sta consumando, nell’indifferenza e
nel silenzio del mondo – ha scritto il teologo
Giulio Girardi (1) -, un crimine
contro l’umanità: il soffocamento della
speranza dei poveri, rappresentata in
Venezuela dalla rivoluzione bolivariana
e dal presidente Chávez. Il silenzio che
avvolge e nasconde questa battaglia è
dovuto in larga misura alla complicità
dei mezzi di comunicazione di massa
(…), che presentano della situazione
un’immagine rovesciata, secondo cui un
popolo oppresso si starebbe ribellando
ad un presidente violento e repressivo».
I maggiori canali televisivi del Venezuela
sono:

• Canale 2, «Radio Caracas Televisión»
(di Marcel Granier)

• Canale 4, «Venevision» (Gustavo Cisneros)

• Canale 10, «Televen» (Omar Camero)

• Canale 16, «Globovision» (Federico Ravell).

Sul fronte opposto c’è Canale 8, «Venezolana
de Televisión», la piccola televisione
statale da dove, ogni domenica,
parla Chávez in prima persona nell’ambito
di un programma chiamato «Aló
Presidente!». La trasmissione è prolissa
(può durare ore) e spesso non rende
un buon servizio al presidente, che ha
nella sua «incontinenza verbale» un importante
punto debole.

Sono totalmente schierati con l’opposizione
anche i due principali quotidiani
del paese: «El Nacional» (di Miguel
Henrique Otero) e «El Universal»
(Andrés Mata Osorio).
Vanno inoltre segnalati due siti Web
particolarmente virulenti nei confronti
del governo Chávez e dei suoi sostenitori:
• www.reconocelos.com
• www.militaresdemocraticos.com
Il primo sito è una sorta di «wanted» elettronico
(o di modea «lista di proscrizione
»), dove appare il volto («Nunca
olvides estas caras»), il curriculum e le
abitudini di chiunque collabori e abbia
collaborato, a qualsiasi livello (dai ministri
ai giornalisti), con il governo; gli utenti
del sito possono inviare i loro commenti-invettive. Nella lista si trovano, ad
esempio, la dottoressa Osorio e l’ingegner
Giordani, colpevoli di essere ministri
del governo, o il giornalista Eesto
Villegas, reo di lavorare alla televisione
di stato. Il secondo è invece il sito dei militari
dissidenti che hanno il loro quartier
generale in piazza Altamira (2).

«In Venezuela – ha scritto Naomi
Klein (3) – perfino i telecronisti
sportivi vengono arruolati nel tentativo
dei mezzi d’informazione privati di cacciare
il governo democraticamente eletto
di Hugo Chávez. (…) Le tv private sono
di proprietà di ricche famiglie che
hanno seri interessi economici a sconfiggere
Chávez. (…) Nei giorni che hanno
portato al colpo di stato di aprile, Venevision,
Rctv, Globovision e Televen
(4) hanno sostituito la normale programmazione
con discorsi antichavisti,
interrotti solo da spot che invitavano gli
spettatori a scendere nelle strade. (…) E
se le tv si sono rallegrate apertamente alla
notizia delle “dimissioni” di Chávez,
quando le forze filochaviste si sono mobilitate
per ottenere il suo ritorno, è stato
imposto un blackout totale dell’informazione.
(…) Quando Chávez è
finalmente tornato al palazzo di Miraflores,
le tv (…) hanno mandato in onda
il film Pretty Woman e i cartoni animati
di Tom e Jerry».

(1) Si veda Adista del 4 gennaio 2003.

(2) Al riguardo si legga l’articolo pubblicato
su M.C. di maggio.

(3) Si veda Internazionale del 14 febbraio
2003.

(4) Alcuni siti web delle televisioni: www.globovision.
net; www.venevision.net. E dei due
maggiori quotidiani: www.eluniversal.com;
www.el-nacional.com. Il sito della presidenza:
www.venpres.gov.ve.

Paolo Moiola




Storie tristi a lieto fine

In my Father’s House (Nella casa del Padre mio) è una città dei ragazzi di Abor (Ghana). Nata per iniziativa del comboniano padre Peppino Rabbiosi, ospita 83 orfani dai 4 ai 17 anni, di ambo i sessi.

Nei due mesi di permanenza ad Abor, nel sud-est del Ghana, ai confini col Togo, sono stato obbligato dalle necessità a farmi carico dell’aspetto sanitario, pur non essendo medico: somministrazione di medicinali, medicazioni di ferite più o meno infette, fasciature, ecc., fra malati veri o… immaginari, desiderosi solo di un poco di attenzione. Così ho potuto entrare maggiormente in contatto con i ragazzi accolti In my Father’s House e guadagnae la fiducia.

FRANCIS E IL MOSTRO INSAZIABILE
– Pensi che dopo potrò giocare a pallone?
– Perché no?
Cosa si può rispondere a una domanda, così diretta, di un ragazzo che ti stringe come una morsa e si appiattisce sul tuo torace quasi voglia penetrarvi? Un ragazzo che sta entrando in sala operatoria, per un intervento dall’esito non scontato. La sua gamba sinistra è a forte rischio. Per tutti era e resta da amputare. Ma un chirurgo tedesco, in Ghana da una vita, forse può fare il miracolo. Forse riesce a salvarla.
Francis ha 16 anni; ma ne dimostra una dozzina scarsa. Il suo corpo è deformato e dilaniato da osternomielite spongiforme. Malnutrizione e carenze igieniche hanno ulteriormente aggravato la situazione.
Due occhi dolcissimi da gazzella, in cui si legge il terrore per ciò che potrebbe succedere oltre quella porta. Il terrore di essere di nuovo abbandonato, perché non utile alla comunità. Perché impossibilitato a lavorare come tutti gli altri. Il terrore che possa essere scaricato anche da quel padre che una «Mano» guidò un giorno nel suo villaggio e lo raccolse. Raccolse un povero mucchietto di ossa, corrose da un mostro insaziabile, ma alimentate da una forte volontà di vivere. Nonostante tutto e tutti.
Facendo leva su questa forza l’ho convinto a provarci. Ha fiducia in me. Quella «Mano» che un giorno guidò il missionario, forse ha aiutato anche me a trovare le parole giuste. Gli prometto di restare qui. Di aspettarlo e stargli vicino, anche se lui sarà addormentato. E quando, dopo alcune ore, la porta si apre e spunta il lettino, i miei occhi cercano immediatamente i piedi: «Grazie!».
Un pensiero al Grande Artefice, mentre gli occhi, velati di lacrime, sono fissi sui due piedi: sì, ci sono tutti e due.
Esce l’assistente, una dottoressa tedesca dalla imponente stazza, con un sorriso a tutta bocca. Mi conferma il buon risultato. Il chirurgo ha potuto fare un buon lavoro di ricostruzione dell’arto.
Dopo una ventina di giorni lo riporto a casa, In my Father’s House.
E l’ultimo, interminabile abbraccio prima di partire è per lui. Come gli avevo promesso.
Daniel, il giovane poeta
«Perché mi avete messo al mondo se poi mi dovevate abbandonare così presto? È dura la vita per un bambino se nessuno l’aiuta, se nessuno gli dice come fare…».
Questo atto d’accusa nei confronti dei genitori, colpevoli di averlo lasciato solo nei primi anni di vita (morti entrambi per malattia) è la sintesi di una lunga poesia, scritta da Daniel, quando aveva 12 anni. Recitata con l’angoscia nel cuore, gli è valsa un importante riconoscimento in un concorso di poesia tra gli studenti del Ghana.
Sì, Daniel, che ha appena compiuto 14 anni, scrive poesie. In ewe, la lingua della sua etnia. A una di queste la stampa locale ha dato importante spazio: esorta i giovani a essere fieri della propria africanità; a non fuggire in America o in Europa; a non ripudiare le loro radici e tradizioni per inseguie altre che non saranno mai assimilate. Cose sconvolgenti se dette da un ragazzino che ha sempre vissuto in poveri villaggi sulle rive del fiume Volta.
A 10 anni Daniel non sapeva ancora scrivere. Non era mai entrato in una scuola, benché lo volesse con tutte le sue forze. Per il parente (ammesso che lo fosse) a cui era stato ceduto, era un lusso che non si poteva permettere. Un’inutile perdita di tempo. Non era per gente come lui.
Solo lavorando duro poteva sperare in qualcosa da mangiare. Il lavoro era davvero duro: già a 7-8 anni Daniel s’immergeva, prima che facesse chiaro, nelle acque del fiume e poi andava nei mercati, con una cesta sulla testa, a rivendere il pescato. Sovente, se i frutti non erano soddisfacenti, severe punizioni condivano o sostituivano il poco cibo.
Ma curiosità e fame di sapere (non inferiore a quella del suo stomaco) non potevano passare inosservati. Le voci che riguardavano questo ragazzino, dai modi così educati, arrivarono anche al villaggio della vecchia nonna, a una trentina di chilometri. Nonostante gli acciacchi che le impedivano di muoversi normalmente, non esitò ad andarselo a riprendere, una volta appurato che si trattava del nipote.
Il direttore della locale scuola si interessò personalmente della sua istruzione. «Era sempre pronto a ricevere più di quanto gli riuscissi a dare. E le garantisco che non era poco» mi confidò quando lo andai a trovare.
Un giorno, quasi per caso, si accorse delle poesie che Daniel cominciava a scrivere. Lo incoraggiò. Lo designò come rappresentante della scuola alle varie selezioni, che Daniel superò senza problemi, di quel concorso per giovani poeti e musicisti. Nella giornata finale, 64 distretti scolastici erano rappresentati. Centinaia di persone lo hanno applaudito… e pianto con lui.
Ora, con 82 bambini che hanno alle spalle storie tristi come la sua, è In my Father’s House. Ha la fortuna di poter frequentare regolarmente la scuola e ha recuperato il tempo perduto. Daniel vuole diventare dottore. È conscio che sarà dura, ma promette di mettercela tutta:
«Anche se l’università mi porterà lontano, toerò nel mio villaggio. Troppi bambini hanno bisogno di cure e non se le possono permettere…».
Lo guardo; non riesco a credere che, dietro quegli occhi sinceri, ci sia solo un ragazzino di 14 anni, compiuti da pochi giorni.

SELASI E L’ATAVICA RASSEGNAZIONE
«Thank you» (grazie). Che dolce suono. È solo una parola pronunciata quasi sottovoce, ma ha lo stesso impatto di un concerto di campane.
«Thank you». È la prima parola che gli sento pronunciare da quando sono arrivato In my Father’s House. Una decina di giorni. E ne ho passate di ore accanto al suo letto.
«Thank you». Quasi non ci credo, mentre lo guardo negli occhi e vi scorgo finalmente un poco di luce.
L’ho aiutato a sedere nel letto e sto iniziando a imboccarlo. La febbre è calata; se si riesce ad alimentare normalmente, eliminiamo alcune flebo.
Selasi si sta riprendendo piano piano da un bruttissimo attacco malarico, con febbre sempre molto alta. Una sorta di foruncolosi, diffusa su tutto il corpo e diagnosticata inizialmente come varicella, ha ulteriormente aggravato la situazione.
Ha 12 anni Selasi; ma nel letto che gli abbiamo approntato accanto alla nostra camera per tenerlo maggiormente sotto controllo e per non correre rischi di contagio, sembra ancora più minuto di quanto sia in realtà.
«Ma allora non sei muto. Ce l’hai la voce» gli dico sorridendo.
Quante volte l’avevo esortato, anche in modo brusco, per farlo reagire: «Non pretendo che tu sorrida. Non ne avresti motivo. Ma fai qualcosa. Rispondimi anche male, se credi, ma parla. Dì qualcosa».
Il suo volto non cambiava espressione: una maschera senza vita. I suoi occhi, pur aperti, erano un monitor spento: non trasmettevano alcunché. Accettava passivamente ogni sorta di tortura, flebo o iniezioni che fossero. Come un automa ingurgitava decine di compresse. Inerte come un manichino, mentre lo imbiancavo da capo a piedi con un ributtante liquido dermatologico. Senza alcun gesto d’insofferenza si lasciava lavare prima di questa operazione.
Questa accettazione passiva di una grave malattia e la rassegnazione di fronte alle conseguenze più tragiche mi sconvolgeva. Quante volte è stata descritta l’atavica rassegnazione dei meno fortunati, quando aleggia minaccioso lo spettro di chi li vuole traghettare in un’altra vita. È capitato anche a me di vederla in India e in Mali. Pur essendo pugni nello stomaco, si trattava di persone che non conoscevo, con cui non avevo contatti diretti. Ma non riuscivo ad accettarla in questo dodicenne; descritto come pieno di vita e fanatico del pallone.
«Thank you». È solo una parola, ma intuisco che è l’inizio del suo risveglio, della sua riscossa. E infatti scompare la febbre e scompaiono… i biscotti che continuamente gli lascio sul tavolino.
«Thank you». Mentre sfebbrato, ma ancora debole, guarda il mare, dove i suoi compagni si stanno spruzzando e spintonando.
«Thank you». Mentre sudato e visibilmente soddisfatto, prende dalle mie mani il pallone che era uscito nei pressi.
«Thank you». Mentre una sera mi si viene a sedere vicino, sui gradini della chiesetta, dove stavo meditando sulla straordinaria esperienza che stavo vivendo: appoggia la testa sulle mie gambe e si addormenta.

L’ERNIA DI EMMANUEL
«Questo bimbo deve essere operato. Se si fa ora, a questa età, la cosa si risolve facilmente». G., il medico trentino che mi ha accompagnato nei primi giorni ad Abor, guarda l’eia ombelicale di Emmanuel, un bimbo di 4 anni, con occhi sempre luminosi come fari da stadio.
No problem. Le uniche obiezioni potrebbero forse venire dall’interessato, ma nessuno chiede il suo parere. L’intervento riesce perfettamente. Il chirurgo è soddisfatto. Molto meno Emmanuel quando, diminuiti gli effetti anestetici, comincia ad avvertire dolori che prima non sentiva. Quando vede sul suo ventre grossi cerotti che prima non aveva.
Odierà il nostro gruppetto, dottor G. compreso, per alcuni giorni. Odierà anche me, per le visite di controllo che lo porto successivamente a fare e per le medicazioni che gli devo praticare.
Ma una volta spariti i cerotti, sarà molto attivo nel contendere le mie ginocchia (sedile privilegiato) ai suoi coetanei Daniel e Cristopher.
Accanto alla macchina che mi conduce in aeroporto, mi prende un braccio, si scopre l’ombelico alzando la maglietta e, in un misto di inglese/ewe che risulta ben comprensibile: «Se non vai via, puoi mettere ancora medicine qui. Ti prometto che non piango più».
Ora possono SOGNARE
Quante storie. Tutte diverse, ma con denominatori comuni: tristezza, sofferenza, abbandono.
Bambini abbandonati perché orfani; perché la madre, con compagni spesso diversi, non poteva prendersi cura di loro. Trascurati perché, a causa di malformazioni, non erano in grado di garantire aiuto, perché mostri insaziabili divoravano loro le ossa o perché, a causa della malnutrizione, il loro ventre era gonfio come un pallone.
Bambini in tenerissima età, coetanei di quelli che da noi vengono accompagnati fino al portone della scuola, costretti ogni giorno a inventarsi come fare per sopravvivere. Il che non significa solo procurarsi qualcosa per tacitare i tormentosi morsi della fame.
Bambini che, tuttavia, hanno avuto il colpo di fortuna (mi sia consentita questa grottesca espressione, date le tragedie che li hanno visti protagonisti). Sì, ripeto, bambini fortunati, perché, fra migliaia e migliaia di altri come loro, sono stati sorteggiati. Hanno vinto una lotteria ben più importante di quelle che imperversano nel mondo, creando illusioni fra la povera gente. Hanno trovato qualcuno sulla loro strada che li ha raccolti e accompagnati In my Father’s House, dove ora possono mangiare regolarmente, dormire al coperto, lavarsi con acqua corrente, frequentare la scuola.
Possono sognare di diventare missionari, agronomi, dottori, informatici, chimici, autisti, meccanici, infermieri. Gioo dopo giorno imparano che in questo mondo c’è posto anche per loro e possono giocarvi un ruolo da protagonista.
Bambini e Generosità
Tra le tante cose che amo dell’Africa, c’è che nessuno fa caso alle… padelle che hai su maglietta e pantaloni. Se poi vivi fra bambini, diventano come i marchi inevitabili.
Entri nel refettorio con maglietta e pantaloncini freschi di bucato (cioè lavati alla benemeglio) e decine di mani unte di fufu (polentina tipica ghanese) sono pronte a lasciare affettuosamente le loro indelebili impronte.
Quelle mani ti sfiorano, ti accarezzano, reclamano attenzione; si alzano per offrirti un pesciolino, un pezzetto di carne, un morso di banana, togliendoli da razioni mai sufficienti per la fame arretrata: sono tutti abbondantemente sottopeso per la carente e inadeguata alimentazione prima di entrare In my Father’s House.
E tutto ciò ti commuove perché t’accorgi che non è solo un gesto di cortesia. Devi sfoderare tutta la diplomazia di cui disponi per rifiutare. Se lo accetti da uno, lo devi accettare da tutti. E sono 83. Allora sorridi, accarezzi la testa, baci una fronte e, quando non è sufficiente, ti inventi un mal di pancia.
Quando poi, prima di coricarti, ti sfili la maglietta, la guardi con simpatia, quasi fosse un’opera d’arte modea, realizzata appositamente per te.
Bambini e devozione
Alzi la mano chi, da bambino, ha sempre partecipato con entusiasmo al rosario che, almeno ai miei tempi, quotidianamente veniva recitato in famiglia o in chiesa. Chi non posava spesso gli occhi su quei grani che sembravano scorrere così lenti?
Nella Casa del Padre mio è adottato un sistema simpatico per tenere sempre attiva la partecipazione, soprattutto fra i più piccoli: un’Ave Maria a testa. Chi non ha la coroncina conta le teste di chi lo precede per capire se a lui capiterà un’Ave o il Gloria. Ma, ad onor del vero, va detto che anche le risposte dimostrano che è una pratica sentita, senza insofferenza.
La partecipazione è ancora più sentita quando si intonano i canti; quando le percussioni segnano il ritmo e a decine si può uscire dai banchi e, danzando, dare libero sfogo alla innata musicalità. I ritoelli sono continuamente alimentati e riproposti, rendendo i canti interminabili.
Si può pregare in tanti modi, anche cantando e danzando. Guardando loro, capisci che, al di là delle parole, questo è il loro modo più bello per rivolgersi all’Altissimo.

Mario Beltrani




“Il futuro che ci sfida”

Un osservatorio socio-pastorale per leggere
i segni dei tempi in America Latina.
Intervista a Rodrigo Guerra López,
cornordinatore di questa nuova realtà del CELAM (Consiglio episcopale latinoamericano).

Dal 13 al 15 febbraio scorso, si è tenuta nella città di Puebla la riunione dei direttivi e presidenti delle Conferenze episcopali dell’America Latina. Durante l’incontro, ricordando il 25° anniversario di Puebla, sono cominciati i preparativi per la realizzazione di una riunione straordinaria dei vescovi dell’America Latina e del Caribe.
Ecco, allora, un’intervista a Rodrigo Guerra López, cornordinatore dell’appena nato «Osservatorio» socio-pastorale del Celam.

Che significa il documento di Puebla, a 25 anni dalla pubblicazione?
Più che un documento, Puebla è stato un kairós, ossia un momento nella storia, in cui la Provvidenza divina si è manifestata e segna la comunità ecclesiale. Certo, Puebla è un testo. Ma la realtà da cui nasce e alla quale esso si riferisce è la vita concreta della chiesa, di fine anni settanta. Puebla esprime il modo con cui il popolo di Dio cammina nella storia e affronta sfide non sempre facili nel momento di testimoniare che Gesù Cristo è vivo.

Com’è cambiato il contesto della chiesa in America Latina in questi 25 anni?

Da una parte, un insieme di sfide fondamentali si sono acutizzate: povertà, indifferenza, attività di vari gruppi religiosi distinti dalla chiesa cattolica, mancanza di solidità delle nostre democrazie, ecc. Dall’altra parte, esiste un cambiamento culturale sottile, ma profondo: la modeità illuminata abbandona la sua antica egemonia per lasciar posto a una certa postmodeità latinoamericana. Entro queste cornordinate, la chiesa cattolica deve ritornare a leggere i «segni dei tempi», per poter scoprire quanto Dio chiede in questo nuovo scenario di massima pluralità, ibridazione e frammentarietà.

Questa potrebbe essere la «scusa» per pensare a un nuovo evento ecclesiale, come quello di Puebla?

Sì e no. Certamente un nuovo contesto esige uno sforzo di attualizzare la comprensione. Tuttavia, al di là di un certo aggioamento, è la vita della stessa chiesa che esige momenti forti di riflessione e preghiera per riproporre l’essenziale e rinnovare la conversione, comunione e solidarietà. Orbene, il cardinale Errázuriz, arcivescovo di Santiago del Cile e presidente del Celam (cfr. box: ndr) è stato molto chiaro nell’insistere sul fatto che il processo iniziato è appena un primo passo verso il momento formale in cui il papa possa eventualmente convocare, come in altre occasioni, una quinta assemblea generale, un sinodo o qualche altra forma di riunione.

Quali sono stati gli interventi più importanti, durante questi giorni di lavoro?

Da un punto di vista personale, mi hanno molto interessato gli interventi di mons. Jorge Jiménez e del card. Claudio Hummes, nel primo giorno. Ciascuno, con il proprio linguaggio, ha presentato gli elementi che configurano l’attuale momento della chiesa e dell’America Latina. Da una parte, dobbiamo proseguire un cammino. Medellín, Puebla e Santo Domingo non devono restarci indifferenti. Dall’altra, la globalizzazione esige oggi una nuova maniera di comunicare, che renda più evidente l’apporto specifico dei cristiani. L’identità cristiana deve rafforzarsi, tramite un rinnovato processo educativo. Nel momento accademico di commemorazione dei 25 anni di Puebla, la conferenza tenuta dal card. Darío Castrillón Hoyos è stata sommamente chiarificatrice: la dignità umana è una dimensione costitutiva della persona. Questo ingrediente è anche un elemento del vangelo. In tal modo, noi cristiani non possiamo che metterci al servizio della dignità umana perché, di fatto, la gloria di Dio è che l’uomo viva e viva in condizioni che siano all’altezza del suo valore intrinseco.

Non c’è rischio di prestare troppa attenzione al nuovo contesto, alla dignità umana e suoi diritti, ai progetti di azione sociale e perdere di vista la dimensione trascendente del cristianesimo?

In effetti, uno dei pericoli che attraversa la fede, oggi, è quello di perdere la sua specificità in una proposta di azione volontaristica, che pretenda di costruire il regno tramite un semplice programma di azione sociale (di destra o di sinistra). Tale approssimazione risponde essenzialmente all’antica eresia pelagiana.
Ma, nello stesso tempo, esiste anche un altro pericolo: la posizione di quanti ritengono la fede quale convinzione spiritualistica e al margine di una adeguata incidenza storico-sociale. Tale idea si avvicina molto all’eresia docetista: credere che la condizione incarnata del Verbo sia una finzione, una mera metafora. Il mistero dell’incarnazione, nucleo della nostra fede, si propone esattamente come qualcosa di diverso: Dio si è fatto uomo. Tutto ciò che è umano dev’essere assunto e redento in Cristo. Quando non si perde la dimensione d’incarnazione della fede, si vive in una continua tensione tra natura e grazia, in cui, come sottolinea il card. Errázuriz, il primato spetta sempre alla grazia. L’analisi dei contesti, la valorizzazione della dignità umana e dei diritti, l’azione fanno parte dell’itinerario che la chiesa deve compiere, conscia che la proposta del vangelo non si esaurisce certo in essi, ma che li supera senza negarli.

Toerà ad acquistare vigore nella chiesa latinoamericana l’opzione preferenziale per i poveri?

L’opzione preferenziale per i poveri è una dimensione costitutiva della nostra fede. Non ha mai cessato di esistere. Recentemente, Giovanni Paolo ii, nella Novo millennio ineunte, ci ha ribadito che le pagine del vangelo dove Gesù mostra il suo amore preferenziale ai poveri non sono un semplice richiamo alla carità, bensì un aspetto fondamentale della cristologia. Ancora di più: il papa afferma che, nel vivere il contenuto di queste pagine, la chiesa dimostra la sua fedeltà non meno che a livello di ortodossia.

Il nuovo «Osservatorio» del Celam avrà di mira lo studio della povertà nel continente?

Le nuove povertà in America Latina sono talmente estese che sarebbe irresponsabile e antievangelico restare indifferenti, come se non significassero nulla alla luce della fede. L’«Osservatorio» cercherà di offrire ai vescovi del materiale, che permetta loro di ampliare la visione della povertà e di molti altri fenomeni sociali, caratteristici della realtà che stiamo vivendo.

Cosa ha spinto i vescovi a creare un «Osservatorio» in seno al Celam?

Potrebbe sembrare che i vescovi stiano semplicemente costruendo un think tank. Tuttavia, mons. Carlos Aguiar, primo vicepresidente del Celam e vescovo responsabile dell’«Osservatorio», ha posto al centro della prospettiva di tale istituzione di essere un servizio anzitutto ecclesiale, cioè, con piena coscienza della natura della chiesa e delle sue preoccupazioni propriamente pastorali.
In certa qual misura l’«Osservatorio» nasce dalla vita ordinaria del Celam, specialmente dai processi già in atto nel Dipartimento di giustizia e solidarietà, diretto dal card. Oscar Rodríguez Maradiaga. Da tempo, egli ha cercato di conoscere con grande competenza la realtà sociale del continente e del mondo e, con il suo esempio, ci ha indicato l’importanza di riprendere a guardare e servire Cristo in mezzo alle sfide concrete della storia dei nostri popoli.
Zenit

Agenzia Zenit




ETIOPIA – Un pozzo di speranza

Oltre 1.500 kmq di superficie (pari alla provincia
di Savona), quasi 400 mila persone, zero strutture stradali, sanitarie e scolastiche, tanta fame e malattie endemiche… sono le sfide della nuova parrocchia
di Ropi-Kachachullo, figlia di Shashemane.

«Sono stato io il primo a mettere piede in quella zona, 25 anni fa» afferma sorridendo padre Silvio Sordella, rivendicando la pateità della nuova missione che padre Paolo Marré e fratel Domenico Brusa stanno costruendo a Ropi e Kachachullo, la zona più periferica della parrocchia di Shashemane, in cui padre Silvio svolse le sue prime esperienze missionarie e dove è ritornato come parroco.
Oggi Shashemane conta una scuola per più di 2 mila alunni e un’altra per 120 ciechi, un grande dispensario, un asilo per 600 bambini, un villaggio per ex lebbrosi, una casa per ragazzi di strada, varie attività di promozione umana e della donna, oltre a quattro comunità ben sviluppate, tra cui Alaba che ha un asilo con un centinaio di frequenze e che farà parte della nuova missione. I tre missionari sono coadiuvati dalla presenza di tre famiglie religiose.
Date le urgenze degli inizi, i missionari della Consolata hanno concentrato i loro sforzi in città e d’intorni, senza dimenticare quella parte periferica, con visite sporadiche, costruzione di una cappella a Kachachullo, attività di evangelizzazione mediante i catechisti. Ma per uno sviluppo più intenso si attendevano tempi migliori. E sono arrivati, insieme a padre Paolo.
Veramente, l’avvio della nuova missione è stato provocato da «tempi peggiori». Due anni di siccità hanno messo a rischio l’esistenza della popolazione della zona e i missionari non hanno potuto più procrastinare la loro presenza.

SOTTO LA CROSTA
Il territorio della nuova missione si estende per 100 km di lunghezza e 60 di larghezza nella Rift Valley, su un altopiano tra i 1.600-1.800 metri di altitudine. È una zona vulcanica: uno strato di terreno sabbioso sopra una distesa di pietra pomice, la cui fertilità dipende dal ritmo delle piogge. Prima della carestia c’erano 400 mila persone, ora sono scese a 300 mila: molti sono morti, altri hanno cercato futuro altrove.
Nel maggio 2003, quando visitai Kachachullo, la pioggia era appena caduta; sembrava un paradiso: prati verdi, granturco appena spuntato, due laghetti che parevano pezzi di cielo incastonati in terra come perle.
Ma poi, guardando da vicino, si scopriva una tragica realtà: strade divorate dell’erosione; donne e asini carichi di taniche per attingere acqua chi sa dove, scheletri di animali abbandonati lungo i sentirneri, fame stampata sul viso dei bambini.
La scena si fa ancora più penosa quando arriviamo a Kachachullo: la cappella è pericolante; un migliaio di uomini, donne e bambini attendono il missionario per la celebrazione della messa e per discutere sulla situazione. I vari capifamiglia ripetono la stessa litania: gli animali sono morti; le mucche ancora vive non danno latte o sono tubercolose; il governo ha fatto tante promesse, ma non le ha mantenute.
Padre Paolo assicura che a metà settimana inizierà la distribuzione degli aiuti alimentari in vari centri, con la presenza di due suore di Madre Teresa.
«La carestia ha già fatto migliaia di vittime – spiega padre Paolo -; almeno 100 mila sono a rischio. Il governo ha promesso foiture di granturco, ma ne è arrivato pochissimo, sia perché i camion non si azzardano in queste strade, sia perché questa gente al governo non interessa».
La zona di Kachachullo si trova alla periferia della regione amministrativa dell’Oromia, la popolazione è in prevalenza formata da adia, kambatta, wollaita e altri gruppi etnici, emarginati dalla maggioranza oromo che governa la regione.
La zona di Kachachullo è nella provincia di Siraro; ma il capoluogo, Agge, è distante anni luce da questa gente. «Si prevede la creazione di una nuova provincia, con Ropi capoluogo; ma la divisione non è ancora fattibile, perché non esiste un numero sufficiente di persone che sappiano leggere e scrivere, capaci di ricoprire le cariche amministrative» spiega ancora padre Paolo.

ZERO PIÙ ZERO
«La stagione è promettente, ma l’emergenza durerà almeno altri quattro o cinque mesi, quando saranno mature le prime pannocchie di granturco. Passerà la fame, ma rimangono altri problemi» continua padre Paolo.
Il conto dei problemi è presto fatto. Elettricità zero: la linea elettrica più vicina passa a 40 km di distanza. Strade asfaltate o in terra battuta zero: a ogni temporale, le piste diventano torrenti, scavando buche ad altezza d’uomo. Sanità quasi zero: un medico e 4 infermiere non specializzate per tutta la provincia, con un poliambulatorio ad Agge e tre piccoli dispensari serviti saltuariamente. Ci sono 19 scuole, delle quali 10 arrivano alla terza elementare, 9 all’ottava classe, quando la scuola dell’obbligo in Etiopia ne prevede dieci. Nessuna meraviglia (si fa per dire) se il tasso di analfabetismo della parrocchia è del 90%.
«Ma il problema più grave è l’approvvigionamento idrico» spiega padre Paolo, mentre mi porta a vedere il fiume Billate. L’acqua è abbondante, ma così melmosa che perfino gli animali sembrano schifarla. «Eppure tanta gente fa 8 ore di cammino per attingere questa porcheria e altrettante per tornare a casa – continua il missionario -. In tutta la zona esiste un solo pozzo in funzione, a Ropi, e fornisce una media di 2 litri al giorno per persona ai quasi 30 mila abitanti; mentre sulla zona ne gravitano 100 mila. C’era un pozzo a Sambaté, ma la pompa è bruciata per il sovraccarico».
E quelle due perle di laghetti? «Sono belli da fotografare – spiega padre Paolo -. Dalle analisi risulta che l’acqua ha un elevato tasso di alcalinità (pH 10.1), di fluoro, zolfo e altre sostanze che la rendono dannosa persino per gli animali».
Un rudimentale sistema di approvvigionamento è quello di scavare grandi buche ai bordi della strada, per convogliarvi l’acqua durante la stagione delle piogge. Dove rimane più a lungo, l’acqua imputridisce in fretta, essendo utilizzata da uomini e bestiame, e diventa fonte di malaria, poiché favorisce la proliferazione di zanzare e relative epidemie di malaria.

CASSETTO… APERTO
L’emergenza del 2003 ha messo a nudo le necessità della nuova missione, soprattutto l’impossibilità di una gestione «a distanza». Padre Paolo e fratel Domenico, infatti, risiedono a Shashemane e impiegano 3 ore di andata e altrettante di ritorno per raggiungere Kachachullo.
Le suore di Madre Teresa, che hanno curato la distribuzione degli aiuti alimentari, si sono sistemate nella chiesa di Ropi, facendo tui di 15 giorni: sono tornate a casa regolarmente malate. Il medico che lavorava con le suore è morto di malaria cerebrale.
I missionari hanno cominciato a stilare programmi concreti, secondo priorità immediate, progetti a breve e lungo termine. La costruzione di una casa per i missionari è una priorità assoluta, per vivere tra la gente, capire i veri problemi, rispondere alle loro esigenze, seguire da vicino i programmi di sviluppo e di eventuali emergenze, che si ripeteranno.
Il primo sogno è già fuori del cassetto: come sede della missione è stata scelta Ropi, sia perché è al centro del territorio, sia perché dovrebbe diventare il capoluogo della nuova provincia. Sul terreno, acquistato un paio di anni fa, sta sorgendo la nuova abitazione.
Kachachullo, invece, rimarrà come il luogo «storico» della missione: avrà la chiesa più grande, dal momento che su di essa gravitano quasi 3 mila persone. Un grande mucchio di pietre, accatastate attorno alla cappella sgangherata, aspetta solo il via per diventare casa di Dio e della comunità.
Tra le priorità c’è pure la perforazione di due pozzi, uno a Ropi, dove si prevede di trovare acqua a oltre 270 metri di profondità; l’altro a Kachachullo, vicino al fiume Billate, nella speranza che le falde acquifere non siano troppo profonde. Da qui, l’acqua sarà pompata, per 3 km, vicino alla chiesa, scuole e dispensario.
Tra i progetti a breve termine di Kachachullo, infatti, figura la costruzione di un dispensario e una scuola per 2 mila alunni e relative case per i maestri. È questa la zona più periferica e ufficialmente trascurata, infestata da malaria, tifo, tubercolosi, tracoma e altri malanni tropicali. La chiesa cattolica vi ha aperto una scuoletta e un ambulatorio, ma è poco più di zero: delle tre aule scolastiche, una è crollata, insieme al piccolo dispensario.
Anche nelle varie comunità sono in cantiere la costruzione di strutture più solide, per ora nella forma tradizionale: legno ricoperto di fango e paglia. In quasi tutti questi centri è stato comperato il terreno per la cappella, scuola, servizi igienici e cimitero. Quest’ultimo fa parte essenziale dell’identità di una comunità che si rispetti.
E poi ci sono progetti a lungo termine: un asilo a Ropi, pozzi ad Alemtena e Basa, grondaie e cistee in tutti i centri, per raccogliere l’acqua piovana, quando il ciel la manda. «Pensiamo di intervenire in campo agricolo – continua padre Paolo -, con la creazione di cornoperative agricole, piccoli sistemi di irrigazione, diversificazione delle colture, costruzione di silos per conservare il granturco, sia per fare fronte ai periodi di vacche magre, sia per venderlo quando il prezzo è più conveniente e avee una riserva per il momento della semina, quando i prezzi salgono alle stelle».

LA MESSE È MOLTA…
Nonostante il cumulo di sfide ed emergenze, prosegue il lavoro specificatamente religioso. La nuova missione comprende una decina di piccole comunità di base, che continuano a crescere, nonostante la carenza di strutture adeguate. La cappella di Kachachullo è in rovina; Sinta, Shirko, Damine hanno cappelle di legno e fango; Alemtena e Sambaté case in affitto; altre comunità si radunano sotto gli alberi o, quando piove, in case private. Solo la chiesetta di Ropi sembra in forma: i muri di legno e fango sono ricoperti da intonaco in cemento.
Le comunità più consistenti hanno la messa ogni 15 giorni, le altre ogni due o tre mesi. Tutte, però, si radunano ogni settimana, sotto la guida di catechisti (5 a tempo pieno e una trentina volontari) per pregare, ascoltare la parola di Dio, istruzione catechetica, preparazione dei catecumeni, sensibilizzazione sociale.
Nei giorni feriali le cappelle diventano aule scolastiche, dove una quindicina di maestri a tempo pieno e altrettanti part-time insegnano ai più piccoli a leggere e scrivere.
«Una quindicina di altri posti hanno chiesto la nostra presenza – racconta padre Paolo -. Abbiamo ricevuto petizioni firmate da 100 capifamiglia. Calcolando che ogni nucleo familiare è composto da una decina di persone… fai tu il conto. Ci dispiace non poter rispondere a tali richieste. In alcuni luoghi mandiamo i catechisti, almeno una volta al mese, per preparare il terreno e avviare il catecumenato. Appena ci saremo stabiliti a Ropi e avremo più personale potremo dissodare anche quei campi».
La gente nutre profonda simpatia per la chiesa cattolica. Adia, kambatta e altre etnie minori non vogliono avere nulla da spartire con l’islam, simbolo di oppressione ed emarginazione secolari, protratte fino ai nostri giorni. Per questo tali gruppi etnici vedono nel cristianesimo un’occasione di liberazione e distinzione dagli oromo, in maggioranza musulmani, e di affermazione della propria identità.
«Nella spinta alla conversione giocano anche motivi razziali – spiega padre Paolo -. Da parte nostra insistiamo sulla convivenza pacifica e solidale con tutti. “Come facciamo a considerarli fratelli, quando ci hanno ammazzato fino a ieri?”, ci dicono. Anche alcuni musulmani vogliono diventare cristiani; ma facciamo un discorso molto chiaro: se volete entrare nella chiesa per ricevere più aiuti, lasciate perdere, perché noi aiutiamo tutti, cristiani e musulmani».
Anche se tutti vorrebbero ricevere il battesimo, il cammino è lungo e la selezione rigorosa: il catecumenato dura 4 anni e i candidati devono dare segni evidenti di sincerità, inserendosi concretamente nelle varie attività sociali delle rispettive comunità.
«Ogni anno abbiamo centinaia di nuovi battezzati – conclude padre Paolo -. La mietitura si prospetta abbondante e preghiamo il Padrone della messe di mandare più operai».

Benedetto Bellesi




SRI LANKA – Triste isola splendente

Nonostante miti e leggende
di un passato felice, l’isola «più bella»
è, ormai da un ventennio, dilaniata da una lotta,
che oppone tra loro due etnie, diverse per lingua e religione.
I tentativi di riconciliazione non mancano, ma la pace
è davvero dura da conquistare.

L’isola radiosa. Pensavo di arrivare in un paradiso di natura incontaminata e gente felice; invece, mi sono trovata in un paese devastato da una guerra civile lunga 20 anni, divisioni intee, corruzione politica e grave crisi economica. La vita per la popolazione è molto dura. L’isola, che Marco Polo descrisse come la più bella, detiene il più alto tasso di suicidi al mondo.
ora, la povertà
Dai tempi di Polo, molte cose sono cambiate. I primi occidentali a prendere possesso dell’isola furono i portoghesi; poi arrivarono gli olandesi, che non furono meno oppressori dei primi. Nel 1800, gli inglesi riuscirono ad assoggettare il regno di Kandy, la bella capitale nel cuore dell’isola. Da allora, il territorio ha subìto pesanti modifiche: le foreste di essenze pregiate hanno fatto posto a estese piantagioni di tè; una ripida e lenta ferrovia si arrampica fino a 1.900 metri, tra le cime arrotondate dei colli, coperti da file ordinate di arbusti verdi.
Le raccoglitrici sono donne minute, con la cesta sul dorso, legata da una fascia appoggiata sulla fronte. Sono discendenti dai lavoratori che giunsero dal Tamil Nadu, con gli inglesi. Tuttora abitano misere casupole, senza servizi e in condizioni disumane.
Le condizioni delle lavoratrici cingalesi sono comunque sempre dure. Il 90% della forza lavoro nelle fabbriche è composta da donne.
Una polemica sui giornali riguardava l’apertura di una residenza, creata dallo stato, per dare una sistemazione alle operaie di una multinazionale dell’abbigliamento: 300 posti, suddivisi in camerate a sei letti a castello, per un totale di 30 mila operaie, ospitate nei villaggi vicini in condizioni spaventose. Ebbene, solo 11 donne hanno accettato la nuova «decente» sistemazione: l’affitto è troppo caro per la paga che ricevono (equivalente a 5 euro al mese), che deve servire pure per i familiari a casa e un futuro incerto.
Anche per gli uomini la vita non è facile, sia nelle campagne, in parte abbandonate, sia nella capitale Colombo. Il treno dei pendolari la mattina è stracolmo, con grappoli di passeggeri appesi alle porte e finestrini. Il traffico è caotico e pericoloso ovunque.
Tra un villaggio e l’altro non vi è soluzione di continuità: file di casupole e botteghe misere, fogne a cielo aperto. Il caldo e l’alto tasso di umidità rendono tutto più faticoso. Qualche villino nuovo c’è, perché chi emigra ritorna per costruirsi la casa e lo fa in stile moderno, dimenticando la tradizione.
La pesca potrebbe essere fonte di ricchezza, ma è sfruttata dai soliti giapponesi, mentre la maggior parte dei cingalesi dispone solo di una barca e usa metodi antiquati.
anche a palermo…
È domenica e nel tardo pomeriggio cerco una chiesa cattolica. Mi trovo ad Habarana, un villaggio di case sparse e strutture alberghiere nascoste dalla foresta. Il centro è un incrocio di strade, con piccole botteghe allineate e qualche officina. Un crocifisso in legno, piantato su una collinetta, mi indica il luogo: un piccolo complesso, con la scuola di catechismo e le abitazioni delle suore e del parroco.
Padre Eric Feando è giovane, alto e magro. Sorride quando mi presento: «Il mio è un nome portoghese, molto comune nel paese». La lunga tonaca bianca ha collo e polsini logori, ma puliti. Peccato, la messa è appena terminata, ma c’è tempo per parlare e si unisce a noi un suo amico, Neel Wijesinghe.
Neel appartiene alla polizia militare e subito mi spiega che nel suo paese non vi è leva obbligatoria, ma molti giovani entrano nell’esercito per avere un’istruzione e una paga. «C’è molta povertà – aggiunge – e la gente è spinta a emigrare nei paesi del Golfo e in Europa».
Molte donne lavorano nei paesi arabi del Golfo come domestiche e bambinaie e, sovente, vengono maltrattate dai padroni. Vi sono casi penosi, che rimbalzano sui quotidiani. Come quella donna suicida, a Dubai, che si era gettata dalla finestra dell’ultimo piano; o quel marito disperato, rimasto solo ad Habarana con 5 figli: la moglie, emigrata, è scomparsa dopo un’unica telefonata, fatta mesi dopo la partenza. Poi, più nulla. L’indirizzo dato dall’agenzia che le aveva procurato il lavoro era falso, il telefono pure.
Nonostante ciò, continuano a partire con ogni mezzo, sulle carrette del mare, rischiando la vita in mano a trafficanti di uomini senza scrupoli, a cui versano somme ingenti. Vogliono sfuggire le guerre e la miseria dell’isola splendente.
Neel mi dà una notizia sorprendente: «Come in molti altri paesi, anche in Italia, e precisamente a Palermo, esiste una base tamil. La mafia siciliana aiuta i nostri concittadini e poi li arruola. Ci sono molti modi per far arrivare le armi dall’estero».
Il cessate il fuoco tra i governativi e le «Tigri tamil» (Ltte) è durato solo un anno. Poco tempo fa, una nave senza insegne fu intercettata dalla marina militare: non ottenendo risposta, fu affondata. Poi fu scoperto che apparteneva alle Ltte e trasportava armi dall’Indonesia.
Il rischio di una crisi è vivo. I territori del nord e nord-est sono stati rovinati da 20 anni di guerra e, nonostante la lunga e attenta mediazione dei norvegesi, le cose stanno per prendere di nuovo una brutta piega. Il mosaico etnico culturale dello Sri Lanka è certo un problema, ma solo dopo l’indipendenza sono incominciate le violenze.
La divisione è data dalla lingua e dalla religione. Infatti, molti cingalesi hanno anche sangue tamil. Per noi, è difficile distinguere un tamil da un cingalese sulla base dei tratti somatici. I primi arrivarono dal sud dell’India, mentre i secondi discendono dai primitivi abitanti che, pare, ebbero origine dal nord dell’India. I cingalesi sono il 74% e sono buddisti, mentre i tamil sono circa il 20%. I discendenti di commercianti arabi sono musulmani, vivono sulla costa e in alcuni villaggi dell’interno.
nei «giardini delle spezie»
Da molti anni il turismo ha scoperto le bellezze dell’isola. Nonostante i lunghi anni di guerra civile e le bombe scoppiate anche nel centro di Colombo, gli arrivi sono continuati. La maggior parte degli stranieri viene a godersi il sole delle belle spiagge sulla costa, ma sono molti anche quelli che visitano siti storici e archeologici. Le antiche capitali, che guerre e invasioni hanno raso al suolo, conservano imponenti ruderi di pagode e statue del Budda.
L’isola splendente è luogo di miti e leggende. Il poema epico indiano Ramayana racconta del viaggio del principe Rama alla ricerca della sposa Sita, nel regno del demone Ravana, re di Lanka, che l’aveva rapita. Aiutato da Hanuman, dio delle scimmie, attraversò lo stretto che separa l’isola dal sud dell’India, punteggiato da una serie di isole.
Le invasioni dal continente continuarono nel corso dei secoli e spinsero gli abitanti a spostare le loro capitali sempre più a sud, all’interno dell’isola. Dall’India arrivò anche il buddismo, che caratterizza e identifica la maggior parte della popolazione, ispirandone la cultura.
Ashoka, il grande imperatore maurya, inviò suo figlio come missionario, nel iii secolo a. C. e, da qui, la nuova dottrina si diffuse in tutto l’Oriente. Anuradhapura fu capitale per mille anni. Qui, in un recinto sacro, si protegge e si venera l’albero più antico del mondo, nato da un virgulto di quello di Bodhgaya, India, sotto cui il Budda ebbe l’illuminazione. Fu portato qui dalla principessa Sangamitta, figlia di Ashoka.
I turisti ripartono felici dopo visite e soggiorni, ospiti di splendidi alberghi, al riparo da brutte notizie e cattivi incontri. Arrivano e ripartono in comodi pullman, che si fermano solo nei luoghi del turismo classico: negozi di falso artigianato, dove i batik sono teli stampati chissà dove. Nei «giardini delle spezie» vengono smerciati prodotti industriali e gli spettacoli folkloristici sono stati adattati al gusto di noi occidentali.
una dolorosa divisione
Lo Sri Lanka ottenne l’indipendenza nel 1948 e, fino allora, non vi erano mai stati problemi tra la maggioranza cingalese e il 10% di minoranza tamil. Tra questi ultimi bisogna distinguere i «tamil dello Sri Lanka», abitanti il nord del paese, giunti in epoca antica e i «tamil indiani» , discendenti dagli immigrati del Tamil Nadu, giunti nel 1800 dal sud dell’India per lavorare nelle piantagioni di tè, situate nel cuore dell’isola.
Questi vivevano in condizioni di pesante sfruttamento e povertà; per evitare che si potessero alleare con le classi povere urbane, nelle loro rivendicazioni, l’élite locale (che aveva ricevuto il potere dagli inglesi) si fece premura di emanare una legge sulla cittadinanza. Per la prima volta si introdusse il concetto di appartenenza etnica, che portò alla negazione dei diritti per la maggior parte dei tamil indiani. Oltre mezzo milione di tamil avrebbero dovuto trasferirsi in India, ma molti rimasero, senza le garanzie che solo la cittadinanza poteva dare.
Alla comunità era negato il voto, l’educazione superiore, la possibilità di acquistare proprietà statali, accedere a programmi di sviluppo rurale, ottenere il passaporto. L’opportunità di mobilità sociale era nulla: i tamil erano costretti al duro lavoro nelle piantagioni, con un salario minimo. Con l’etnicizzazione della forza lavoro, si spezzava la solidarietà delle classi povere.
La comunità dei tamil srilankiani venne invece coinvolta da tensioni negli anni successivi, a causa della questione linguistica. Mentre dal ’51 si pensava di introdurre sia il cingalese che il tamil nelle scuole, per riconoscere poi entrambe come lingue ufficiali, due anni dopo si sviluppò una corrente nazionalista cingalese-buddista, ispirata dall’influente clero. Ignorando così l’esistenza storica di buddisti e studiosi del buddismo di lingua tamil. Per la prima volta, i tamil srilankiani venivano considerati «altri», nemici in grado di minacciare i valori culturali.
Il movimento, nato intorno allo slogan Sinhala only, si rafforzò durante la fase di declino economico. Alle associazioni dei monaci si unirono insegnanti, medici e studenti di lingua cingalese disoccupati, che spingevano per ottenere il solo riconoscimento del cingalese. Nel 1956, il governo di Solomon Bandaranaike, padre dell’attuale presidente, approvò la legge che riconosceva il cingalese unica lingua ufficiale. Tentativi di fare alcune concessioni sull’uso della lingua tamil vennero violentemente osteggiati dal clero buddista militante.
Nel ’58 esplose la prima grave manifestazione di violenza etnica, con oltre mille morti. A Colombo, 12 mila tamil si rifugiarono in campi profughi, per poi essere trasferiti a Jaffna. L’accesso al pubblico impiego veniva così limitato e, dal ’69, anche l’ammissione all’università veniva stabilito in base a quote su base etnica. Chi sosteneva esami in lingua tamil doveva ottenere voti più alti rispetto a quelli sufficienti per i compagni di lingua cingalese. Nacque così frustrazione e malcontento, difficoltà di occupazione e mobilità, da cui scaturirà l’opzione del ricorso alle armi.
Nel 1972, la nuova costituzione negava lo status costituzionale alla lingua tamil, introducendo disposizioni a favore del buddismo. L’ideologia cingalese-buddista aveva vinto e si era estesa a tutti gli strati sociali, compresi i partiti di sinistra.
l’astuzia delle «tigri»
Quasi 20 anni di guerra civile, dal 1983 al 2001, quando si è firmato un armistizio che non pare definitivo. Le Tigri tamil hanno combattuto per ottenere uno stato indipendente, con costi enormi per il paese: molte vittime tra i civili, difficoltà economiche create da impegno di risorse a fini bellici, violazioni continue dei diritti umani. La spesa per la difesa, negli scorsi anni, assorbiva circa un terzo delle entrate dello stato, sottraendo risorse preziose allo sviluppo del paese. Il conflitto ha alimentato, negli anni, una serie di attività economiche: l’industria bellica ha impiegato sempre più persone, oltre 400 mila nuovi posti su 18 milioni di abitanti.
La gente è stanca della guerra e non solo i civili. L’esercito, in 20 anni, è decuplicato nelle sue dimensioni, ma molti si arruolavano per sostenere le famiglie povere. Ora vi sono molte diserzioni. Il governo ha sempre ostacolato la presenza di giornalisti, privando la popolazione del diritto di sapere e sottraendo il governo al dovere di rispondere del proprio operato.
Le Tigri hanno dimostrato di essere agguerrite, ben rifoite di armamenti, capaci di contrastare gli interventi governativi per il controllo del nord del paese. I tamil, fuggiti all’estero dalle regioni orientali, inviano rimesse pari a circa 500 milioni di dollari l’anno, che alimentano l’economia sommersa.
Entrambe le parti combattenti hanno regolarmente violato i diritti umani nelle regioni del conflitto. L’arruolamento viene fatto nelle zone più povere, da ambe le parti. I tamil arruolano anche i bambini, che rapiscono dai villaggi. La popolazione ha sofferto moltissimo per bombardamenti e combattimenti. Hanno perso la casa, sofferto la fame e subìto stupri da militari e poliziotti.
I governativi pare abbiano detenuto, torturato e ucciso persone sospettate di essere legate alle Ltte. A volte imprigionavano tamil solo sulla base della loro appartenenza etnica, per cui la presidente Kumaratunga è intervenuta a nominare uno speciale comitato per evitare arbìtri.
Con numerosi attentati, specie a Colombo, le Tigri hanno causato molte vittime. Nelle zone di guerra, chi si rifiutava di cornoperare con i tamil veniva torturato e ucciso. Inoltre, le Tigri hanno sempre attuato la pratica dell’omicidio politico, per affermare il controllo sul territorio.
Quando, nel 1998, si indissero le elezioni a Jaffna, ex roccaforte della Ltte riportata sotto il controllo governativo due anni prima, vi fu un’affluenza scarsissima: 17%. Vinse una donna, Sarojini Yogeswaran, del Tulf (Tamil United Liberation Front). Poco dopo, veniva uccisa dalle Tigri e stessa sorte toccava al sindaco della città. Le campagne elettorali sono sempre state accompagnate da violenze, malcostume, incidenti.
Intanto, il governo ha proseguito la politica di privatizzazione, cedendo agli stranieri anche la Telekom e le linee aeree Airlanka, nonostante le opposizioni della sinistra.
Oggi va segnalato l’impegno di mediazione del governo norvegese, che dal 2000 si è dichiarato disponibile a facilitare le trattative coi tamil.
una donna per la pace
Chandrika Bandaranaike Kumaratunga, presidente dello Sri Lanka, appartiene a una famiglia che ha segnato la vita politica del suo paese. La madre si è ritirata dopo le elezioni del ’99, a 84 anni, dalla carica di capo del governo.
Alla guida del Pa (People Alliance), fu eletta per la prima volta nel 1994, riconfermata nel ’99, con l’obiettivo di impegnarsi per pacificare il paese, da molti anni dilaniato dalla guerra civile. Il progetto di dare autonomia alle 9 province doveva alleggerire la tensione delle regioni del nord, abitate da tamil e teatro della guerra civile; ma non poté essere realizzato per l’ostilità sia del partito di opposizione Unp (United National Party), che dell’influente clero buddista. Il governo stava per indire un referendum popolare per ottenere la modifica costituzionale, quando la Ltte, partito dei ribelli tamil, fece esplodere un’autobomba a Kandy.
L’attentato ebbe luogo nel tempio più sacro del buddismo, che racchiude una preziosa reliquia del Budda. L’oltraggio portò tensione nel paese, irrigidimento del governo e stallo nel processo che doveva condurre alla pace…

Claudia Caramanti




IL MONDO VISTO DA GIU’I telefonini in Africa

Il telefonino conquista l’Africa

Dalla metà degli anni ’90, anche nei paesi più poveri dell’Africa arriva il telefono cellulare. Il boom si ha a fine decennio, con il Gsm e schede prepagate. In paesi dove le linee fisse sono poche, a causa delle grandi distanze o mancanza di infrastrutture, il telefonino risolve non pochi problemi di comunicazione.
Nelle città africane spuntano ovunque rivenditori di apparecchi e accessori, pubblicità culturalmente «integrate», come l’offerta ramadan o tabaski (vendite promozionali durante le maggiori feste islamiche, oltre che cristiane, e civili, come san Valentino) e dappertutto persone con il minuscolo apparecchio che squilla o appeso al collo.
Anche nelle zone rurali che hanno la fortuna di essere «illuminate» dalle onde elettromagnetiche, qualcuno riesce a permettersi l’aspirato gingillo. Così capita che il contadino burkinabé oltre all’inseparabile dabà (zappa), mostri il suo Nokia di seconda mano, acquistato al mercato della città più vicina.
Il telefonino è subito uno status symbol; ma diventa presto una soluzione tecnicamente vantaggiosa, spesso molto utile, secondo alcuni, oggi, «imprescindibile». L’impatto sulla vita della gente, però, non sempre è positivo e alcuni usi culturali, come i lunghi saluti prima di iniziare ogni discorso, si riducono drasticamente a causa dei costi.

L a gente non sembra vedere troppo i lati negativi. Abbiamo ascoltato alcuni cittadini del Burkina Faso, dove sono presenti tre operatori: uno statale e due privati. Il signor Sanou, insegnante, afferma che il telefonino «permette a noi funzionari di trattare questioni amministrative ed entrare in contatto con i colleghi per avere delle informazioni in modo molto rapido», il che sembrerebbe molto importante per il suo mestiere. Boukary, pompista in una stazione di benzina, vede un’utilità economica: «Mi permette di spostarmi di meno. Basta una chiamata per annullare o confermare un appuntamento, così non spreco la benzina del motorino».
Tutti ritengono un vantaggio il fatto di essere ovunque raggiungibili, ma occorre essere in una zona coperta. Spesso tali coperture, in Africa, sono limitate alle città principali, loro dintorni e alcuni assi stradali del paese.
«Con il fisso però – dice Etienne, tecnico di una radio – spesso si perdono le comunicazioni perché, sei fuori ufficio, chi risponde al tuo posto non ti trasmette il messaggio». Di fatto, il telefono fisso non è molto diffuso nelle case burkinabé, neanche nella capitale, ma è piuttosto un oggetto da ufficio.
Etienne mette in luce un altro aspetto, più sociale e curioso: «Molti si dicono uomini d’affari e sostengono di usare il cellulare per questioni di lavoro. Capita, invece, che si usi per questioni più losche. Ad esempio, alcuni non sono d’accordo che una donna abbia il cellulare perché pensano che in questo modo possa dare il suo numero a uomini che poi la infastidiscono… Per questo ci sono uomini e donne che non rispondono a chiamate in presenza del proprio consorte. Vi lascio immaginare perché».
«È uno strumento molto utile – ribadisce Urbain Ouedraogo, direttore di banca -. Sul piano sociale mi permette di essere in comunicazione con i miei cari, la famiglia, gli amici: la comunicazione è molto importante nella vita di un uomo. Non c’è nulla di più pericoloso di quando ti trovi isolato e lontano dai tuoi».
E sul piano economico? «Naturalmente il cellulare è caro, soprattutto se consideriamo il potere d’acquisto di un burkinabé medio. Ma è anche vero che ti permette di risparmiare su certi spostamenti e anche i rischi connessi. A volte siamo in centro città, stressati, abbiamo fretta e dobbiamo fare molte cose in poco tempo. Con il telefono mobile riusciamo a risolvere molti problemi senza rischi e magari risparmiando».

E ppure mantenere un cellulare è caro, soprattutto per un giovane. L’acquisto è abbordabile, le promozioni sono fatte per questo: con 50 mila franchi cfa (75 euro) si ha l’apparecchio; l’abbonamento è di 5 mila franchi. Ma uno stipendio medio alto in Burkina Faso è di circa 100 mila franchi al mese.
Per evitare problemi con clienti insolventi, qui si utilizza unicamente il metodo della scheda prepagata da 5 mila cfa, che ha però la scadenza di un mese. Per risparmiare, ci si fa chiamare sul cellulare dai telefoni fissi delle cabine pubbliche o da quelli degli uffici, che alla fine del mese si vedono arrivare bollette gonfiate.
«Mantenere il telefonino costa dai 60 ai 100 mila franchi all’anno – calcola Constantin Dabire, impiegato -, una spesa insostenibile per uno studente».
Constantin s’interroga anche sugli effetti per la salute: «Sembra che possa avere effetti perversi, come il cancro, e ogni tanto alla televisione cercano di spiegare questi inconvenienti».
Un altro fatto che lo disturba è l’uso incontrollato: «La gente abusa del telefono: nelle riunioni ce n’è sempre qualcuno che suona. Saper spegnere il proprio cellulare penso sia una questione di rispetto e di convivenza».

I l telefonino ha portato nuovi mestieri: i venditori di schede telefoniche affollano ogni incrocio delle città; molti si lanciano nella vendita di accessori (batterie usa e getta, auricolari, gusci colorati e apparecchi), come ambulanti o in piccoli chioschi ai bordi delle strade. Altri mestieri (tassista, elettricista, commercianti dell’economia informale) sono diventati più dinamici.
Molti dicono che il cellulare in Africa sta creando una «rivoluzione silenziosa»; sarà anche motore di sviluppo?
Jean Victor Ouedraogo
e Marco Bello

Marco Bello e Jean Victor Ouodreago




TANZANIAPiccole oasi di speranza

Tra i tanti bisogni di una società in crescita,
il mondo della scuola non può essere dimenticato.
Soprattutto quando povertà e limiti impediscono di dare
a tutti la speranza
di un futuro. Per questo i missionari, rimboccandosi
le maniche, si sono dati da fare e…

Attraversando i villaggi del Tanzania, si resta colpiti dall’assenza di uomini, spesso partiti per Dar es Salaam o un’altra città in cerca di lavoro. Le donne ereditano tutti i compiti: curare i numerosi bambini (5 o 6 per famiglia), coltivare i campi, macinare farina per la polenta quotidiana, risolvere mille altri problemi…
Poiché la maggior parte dei genitori sono poco inclinati all’istruzione, sovente i bambini non vengono mandati a scuola. E quando il missionario insiste, tutte le scuse sono buone: è ancora piccolo, la scuola è troppo lontana, deve custodire gli animali, è indispensabile per andare ad attingere l’acqua…
Quale sarà il futuro di questi ragazzi? Li si vede sulla strada, ancora piccoli. Pascolano qualche bestia, trasportano legna da ardere, bidoni di acqua sulla testa per chilometri a piedi nudi, ai bordi di strade pericolose. Perdono così l’opportunità di istruirsi e… giocare.
Dove sono andati a finire i diritti dei minori? Milioni di loro vivono di queste situazioni o anche peggio! Molti, in Tanzania, hanno perso i genitori per l’Aids (il più grande flagello attuale del paese). Alcuni sono affidati ai nonni; altri abbandonati a se stessi. Quanti si troveranno ad affrontare la società e il futuro senza istruzione né un mestiere?
Piuttosto che sacrificare l’avvenire, coltivando un piccolo campo per assicurare la sopravvivenza dei famigliari, o occuparsi del bestiame, molti cercheranno un lavoro in città. Arrivano a centinaia, ogni giorno, nella capitale. Ma non trovano niente: hanno fame, rubano, si nascondono dai poliziotti, spesso vengono messi in prigione e maltrattati. Alcuni si drogano, altri si prostituiscono, l’Aids è sempre in agguato… e quelli che ne vengono colpiti ritornano a casa per morirvi.
Di fronte a questa dura realtà, con i problemi che ne derivano, i missionari della Consolata non sono rimasti con le mani in mano, ma hanno cercato di creare alcune «oasi di speranza».
«consolazione»
a largo respiro
A Tosamaganga, dove i missionari della Consolata arrivarono nel 1919, padre Luis Zubía ha realizzato, con la collaborazione delle suore di Santa Teresa del Bambino Gesù e personale laico locale, un’opera magnifica per gli orfani. I più piccoli, che hanno tra i 10 mesi e i 2 anni, occupano il nido; quelli di 2-3 anni sono collocati in un’altra sala, ma ve ne sono altri ancora più grandi.
È commovente vedere con quale tenerezza, attenzione e amore sono trattati: una compensazione per ciò che non riceveranno mai dai loro genitori. Padre Luis non lascia passare un giorno senza venire a portare un po’ di affetto a ciascuno dei suoi piccoli protetti.
A Mgongo, ultima missione fondata nel 1997, i padri Franco Sordella e Giulio Belotti, con fratel Mutisya Kyalo, Teresa e Paolo (una coppia di laici missionari portoghesi) hanno creato la Faraja House (casa della consolazione). Suo scopo è accogliere i bambini di strada e offrire loro una vita migliore, partendo dalle cose più semplici: accogliendoli con amore, lavandoli, nutrendoli, vestendoli ed educandoli nel miglior modo possibile.
Il compito è talvolta arduo, poiché questi ragazzi sono vissuti a lungo senza regole ai margini della società. Devono imparare a stare insieme, rispettarsi, svolgere incarichi e sviluppare il senso di responsabilità. Ognuno deve lavarsi i propri vestiti, partecipare alla pulizia della casa, lavorare nei campi o nell’allevamento del bestiame (10 vacche, 200 pecore, 65 maiali…). Tutto ciò, sotto la direzione di personale adulto.
L’istruzione occupa un posto importante. Tra i 75 ragazzi (tra 7 e 18 anni), 10 frequentano le superiori, 7 imparano un mestiere alla scuola tecnica, mentre gli altri vanno alla scuola elementare di Mgongo, costruita dai missionari della Consolata, ma gestita dall’amministrazione del villaggio.
Lo sport, soprattutto calcio e karaté, è compreso tra i mezzi di formazione: molti ragazzi, infatti, troppo occupati a sopravvivere, non hanno nemmeno avuto il tempo di giocare, di essere bambini…
Ricerche vengono fatte sulla loro provenienza, ambiente famigliare, natura dei loro problemi e, quando è possibile, sono reinseriti in famiglia, al termine delle scuole elementari. Scopo ultimo è di dare loro un mestiere che li possa rendere autosufficienti e permetta di vivere felici come adulti responsabili.
Certo, la perfezione non è di questo mondo: succede che qualcuno non riesca ad adattarsi e torna sulla strada, anche se il prezzo della libertà è molto caro. Tuttavia, la maggioranza diventa capace di vivere in società, lavorare e prendere in mano la propria vita, con una grande speranza di felicità.
Sempre nella diocesi di Iringa, alla missione di Madege, aperta dai missionari della Consolata nel 1996, i padri Dieudonné Ambinikosi e George Gichuki, coscienti del problema di adattamento di tanti ragazzi dei villaggi che i genitori non mandano a scuola, hanno inventato una specie di comunità per accogliere quelli dai 5 agli 8 anni, preparandoli a integrarsi nella scuola pubblica. Senza questo tipo di aiuto, molti non frequenterebbero mai la scuola e altrettanti l’abbandonerebbero prima di finire le elementari.
La collocazione di questa comunità è facilmente accessibile, per evitare ai piccoli alunni di dover camminare parecchi chilometri nell’andata e ritorno. Tutto viene messo in opera per venire incontro ai piccoli alunni di Madege e villaggi vicini.
La «stella del mattino»
Kasanga e Mindu sono due villaggi nella diocesi di Morogoro, dove padre Thomas Ishengoma, direttore dell’Allamano Seminary, si reca regolarmente con i seminaristi, per aiutare i bambini poveri o i cui genitori sono colpiti dall’Aids. Attualmente, in tale ambiente, l’80% dei ragazzi non va a scuola e l’istruzione non è percepita come priorità.
Semillero ya Consolata è il nome del progetto educativo che si è proposto padre Thomas. Si trova in un centro posto a Kasanga; l’obiettivo è favorire tutto ciò che può assicurare ai ragazzi una migliore integrazione umana e sociale, attraverso attività sportive o esercizi centrati sulla creatività, che aiutano la scoperta dei veri valori. Si aggiunge l’appoggio intenso per chi sta vivendo momenti di instabilità, dovuti spesso alla morte dei genitori o a gravi problemi economici. È un’assistenza personalizzata, che permette a ognuno di scoprire la propria dimensione umana e spirituale, potenzialità e possibili orizzonti futuri.
Sfortunatamente, tra coloro che riusciranno a terminare la scuola elementare, solo il 25% avrà accesso alle scuole superiori. Le distanze da percorrere sono ancora più grandi, ma questo non è l’unico problema: i costi sono troppo elevati per tanti poveri che, sovente, riescono con fatica a sopravvivere.
A Ilamba ci sono due istituzioni per favorire la frequenza all’istruzione superiore: scuola dei genitori e centro educativo Nyota ya asubuhi (stella del mattino), evocazione di quella stella che ogni giorno porta qualcosa di bello e nuovo.
La scuola dei genitori di Ilamba è stata costruita grazie alla generosità di benefattori spagnoli, «stimolati» da padre Salvador Del Molino, che ha permesso l’acquisto di un generatore, equipaggiamento da cucina e un trattore. Gli alunni che frequentano la scuola pagano le spese di iscrizione e dei pasti. Così, l’accesso alla scuola superiore è offerto a un più grande numero di ragazzi.
Nonostante questo progetto finanziato dai genitori, molti ragazzi di 15-16 anni non possono accedervi. Che fare? Cercare lavoro a Dar es Salaam, Makambako o Dodoma? Non è facile senza competenze professionali. Rimanere al villaggio, dove li attende il lavoro della campagna o l’allevamento del bestiame?
Tali attività rurali di semplice sopravvivenza hanno poche attrattive. Alcuni sceglieranno di restare in città, preferendo la sua miseria a quella del villaggio: piuttosto la fame che la schiavitù della terra o degli animali, sempre in balia delle bizzarrie del clima.
Come aiutare tutti questi ragazzi? Per loro è diretta la «Stella del mattino»: è un centro di formazione umana, morale, accademica (di livello superiore) e professionale, diretto da due suore della Consolata.
All’inizio del progetto, quattro anni fa, suor Cecilia Maingi, fondatrice del centro, aveva soltanto una piccola capanna in terra battuta e tetto di paglia; ma, pure con pochi mezzi, il fuoco della missione la bruciava. In poco tempo è riuscita a trovare risorse e manodopera per costruire aule, dormitori e laboratori, dove viene impartita la formazione a livello superiore e vengono insegnati vari mestieri a un gruppo di 120 studenti, che saranno sarti, cuochi, falegnami, muratori…
Alla fine dei corsi, i giovani affronteranno gli esami del Veta (Vocational Education Training Association) per ottenere il certificato di abilitazione professionale.
Suor Maria Artura, che da due anni si dedica a questi ragazzi, ci ha confidato che il Signore ha fatto miracoli per il centro, poiché alcuni benefattori italiani hanno accettato di installarvi acqua corrente ed elettricità, hanno donato un camion, indispensabile in questi luoghi così lontani dalla città, dove le strade sono impraticabili.
La scuola professionale ha una certa somiglianza con quella tecnica di Mgongo; è anche approvata dal Veta, che riconosce cinque specializzazioni: falegnameria, meccanica, calzoleria, segreteria e informatica.
Alla fine dei tre anni di studio, i giovani lasciano la scuola con un diploma riconosciuto dal governo e una cassetta di attrezzi per iniziare un’attività in proprio.

Ecco, dunque, alcune delle opere missionarie che lo Spirito Santo ha ispirato a padri, fratelli, suore e laici della Consolata per venire incontro ai più poveri. Proprio come aveva insegnato e sognato il beato Giuseppe Allamano: piccole oasi destinate ai ragazzi del Tanzania, perché trovino in esse la speranza di una vita migliore.

Ghislaine Chrete




KENYASinfonia di aiuti

Anche nei posti più difficili, è possibile far sorgere un’opera «quasi impossibile», come un ospedale. Eppure, unendo insieme fantasia, generosità
e competenza, il sogno può avverarsi. Come è successo nell’arido Tharaka…

S orta nel 1957 in uno sperduto lembo del Tharaka, 180 km a nord di Nairobi, la missione di Matiri copre un’area di 600 kmq con una popolazione di 46 mila abitanti di vari gruppi bantu.
La popolazione vive di pastorizia e, malgrado le frequenti siccità, di agricoltura di sussistenza, limitata alla coltivazione di miglio e granturco, dai quali ricava una polenta che è spesso l’unico pasto quotidiano.
Le strade sono pessime, l’acqua scarseggia. Per migliorare le condizioni di vita dei suoi parrocchiani, padre Orazio Mazzucchi, missionario della Consolata, unendo al servizio pastorale una capacità manageriale, ha trasformato Matiri in un perenne cantiere. La missione ospita varie strutture scolastiche e, fin dai primi anni ’60, un ambulatorio che per anni ha rappresentato l’unica forma di assistenza alla popolazione, afflitta delle principali malattie tropicali: malaria, tubercolosi, parassiti, lebbra, tracoma, Aids.
Rita: un volto
accanto a… Cristo
Nel 1987, il dispensario ha fatto un primo salto di qualità, grazie a un’infermiera volontaria piemontese, Rita Drago, arrivata sul posto con il Cuamm (medici missionari); da allora, non è più ripartita.
La sua dedizione e competenza le hanno subito guadagnato stima e fiducia della popolazione, in particolare delle donne, che hanno trovato in lei un valido aiuto sia nelle emergenze sanitarie, che nella gestione della vita familiare e prevenzione di malattie infettive. Tanto è l’affetto della gente di Matiri, che, al momento di adornare la modesta chiesa della missione con un ciclo di affreschi ispirati al vangelo, hanno voluto inserire anche il volto di Rita tra le figure che attorniano il Cristo.
Già allora frequentavano Matiri i volontari dell’Avi (Associazione volontariato insieme, di Montebelluna TV), nata su impulso del concittadino padre Pierino Schiavinato, uno dei tanti missionari della Consolata usciti dal seminario di Biadene. Tramite Rita, le donne tharaka presentarono all’Avi l’esigenza di assistenza continua e qualificata durante la gravidanza. Grazie all’associazione montebellunese, la collaborazione dei clan locali e gruppi organizzati femminili, nel 1995 si è potuto inaugurare una piccola mateità che, con i suoi 15 posti letto, ha garantito assistenza a circa 700 parti l’anno.
Fondamentale si rivelava l’apporto, sia in termini di lavoro personale che finanziario, del decano dell’Avi, Mario Olivato, che, con questa struttura a servizio dei bambini, ha voluto ricordare un figlio scomparso precocemente.
tutti insieme,
appassionatamente
Nel corso degli anni, la mateità ha trovato la collaborazione di vari medici volontari, che passano le loro vacanze a Matiri, dando una mano a Rita. Ma la mancanza di una sala operatoria e modee attrezzature diagnostiche non permette una piena risposta alle necessità dei pazienti; per di più, i 40 km di sterrato, che separano Matiri dall’ospedale più vicino (impercorribili durante la stagione delle piogge), potevano trasformare in tragedia anche la più banale patologia.
Tra i medici volontari passati a Matiri c’è anche Giorgio Giaccaglia, primario dell’Unità terapia intensiva dell’ospedale di Migliarino (Ferrara), che ha alle spalle una breve esperienza di volontariato presso l’ospedale di Sololo, nel nord del Kenya: ormai prossimo alla pensione, quando, come tanti suoi colleghi, potrebbe dedicarsi interamente ai guadagni dorati della libera professione, non accetta di assistere impotente alla perdita di tante vite e matura l’idea di trasferirsi in pianta stabile a Matiri, per avviare la costruzione di un vero ospedale.
La moglie Antonia, a sua volta infermiera, è la prima a condividere e incoraggiare il progetto. Giorgio ne parla, nel 1999, con un altro montebellunese, padre Livio Tessari, all’epoca responsabile dell’ufficio di cornordinamento degli ospedali africani dei missionari della Consolata; comincia a coinvolgere attorno a quest’idea colleghi e amministratori della sanità ferrarese, con i quali dà vita all’«Associazione Emiliano De Marco». Ancora una volta l’impegno per i bambini del Tharaka si lega al ricordo di un giovane italiano, mancato precocemente.
Padre Livio lo mette in contatto con Gino Merlo, presidente dell’Avi, e il progetto prende forma, potendo contare anche sul parallelo intervento di altre realtà del volontariato, come l’Ong «Mondo giusto» di Lecco e l’Associazione «La sola verità è amarsi» di Barzanò (LC).
I volontari lombardi sono alle prese con la costruzione di un acquedotto per fornire acqua alle opere di Matiri, di una centralina idroelettrica da 70 kw e un progetto di sviluppo agricolo: tutto sfruttando le acque del fiume Mutonga (cfr. Missioni Consolata, marzo 2003).
Tra il 2000 ed il 2003 si susseguono i rilievi e la progettazione, curata dall’architetto Zarattini di Ferrara, i contatti con la diocesi di Meru, le autorità locali e le varie iniziative di raccolta fondi, che coinvolgono banche, enti locali e donatori privati del Veneto e dell’Emilia. Vengono anche raccolte e rigenerate varie attrezzature sanitarie dismesse dagli ospedali.
con la benedizione
di sant’orsola
Nel luglio 2001, mons. Silas Silvius Njiru, vescovo di Meru, pone la prima pietra del costruendo ospedale, che, nel frattempo, vede nascere a Caserta un nuovo gruppo di sostenitori, riuniti nell’associazione «Una mano tesa per Tharaka».
I lavori di muratura vengono affidati ad Agrikenya Ltd, un’impresa di Nairobi gestita da un costruttore italiano, e decine di volontari trevigiani e ferraresi spendono le loro vacanze occupandosi di impiantistica, generatori elettrici, pannelli fotovoltaici, macchinari elettromedicali e quant’altro.
Non mancano (è ovvio!) né imprevisti e ritardi legati alla situazione locale, né le incomprensioni tra persone che stanno imparando a conoscersi strada facendo; ma, a eccezione di un residuo contenzioso con Agrikenya, l’entusiasmo, la fantasia e la consapevolezza dei bisogni che attendono una soluzione consentono di superare ogni ostacolo.
Il primo ottobre 2003, l’ospedale entra in attività e, nella sua gestione, viene coinvolta la congregazione delle Orsoline, che manda a Matiri tre suore indiane con competenze infermieristiche e amministrative. In un’area dove solo lo 0,5% della popolazione dispone di una stabile occupazione, l’ospedale significa anche una sessantina di nuovi posti di lavoro tra infermieri, assistenti sanitari, inservienti e addetti alla cucina.
Grande è la gioia per questo risultato, anche se velata dalla scomparsa di padre Livio Tessari, spentosi a Torino appena tre mesi prima.
Questo primo stralcio funzionale si sviluppa su circa 2.000 mq di superficie e dispone di due sale operatorie, sala parto, 50 posti letto di degenza, radiologia, ecografia, laboratorio analisi, ambulatori e locali di servizio. È la prima struttura del Tharaka a essere realizzata con copertura in tegole e tetto autoventilante, il che garantisce una buona temperatura intea. Ad essa si affiancano una casa per le suore e una per i volontari; sono state gettate le fondamenta per un terzo alloggio, destinato ai medici residenti.
L’assistenza medica e chirurgica è affidata a Giorgio Giaccaglia e all’infettivologa Marina Tadolini, ai quali si affiancano medici e paramedici emiliani e campani (si spera a breve anche veneti), anche se a regime l’ospedale dovrà necessariamente assumere personale medico locale. L’impegno di spesa ha già superato i 600 mila euro (senza contare l’apporto personale dei volontari) e almeno altri 200 mila di attrezzature e opere sono stati foiti dal Consorzio acquedotto del Po per l’approvvigionamento idrico.
Le previsioni per le spese di gestione sono di 250/300 mila euro all’anno, che sicuramente non possono essere reperiti sul posto e continueranno a lungo a impegnare le associazioni che ne hanno promosso la costruzione; mentre le aspettative che la popolazione riversa sulla struttura richiederebbero, già oggi, l’avvio di un primo ampliamento.
Il 31 gennaio 2004, il vescovo di Meru ha benedetto il nuovo ospedale dedicandolo a sant’Orsola, con una cerimonia nella quale padre Orazio Mazzucchi e Giorgio Giaccaglia hanno dato un emozionato benvenuto al superiore generale della Consolata, padre Pietro Trabucco, al superiore regionale padre Luigi Brambilla, autorità locali, volontari di Ferrara (accompagnati dall’assessore Alessandra Chiappini), di Montebelluna, Caserta, Barzanò, Fano e altre realtà che gravitano attorno alla missione. Il rappresentante del governo kenyano, che ha partecipato alla cerimonia, si è sbilanciato: ha promesso l’arrivo di una linea elettrica. Staremo a vedere.
A 80 anni suonati, è presente anche Mario Olivato che, nel frattempo, lasciata in buone mani la crescita della «sua» mateità, ha trovato tempo, energie e risorse per occuparsi di bambini orfani o abbandonati, affidati alle cure di Rita. Grazie a Mario, oggi Matiri può ospitarli in una nuova casa. La benedizione ai 65 degenti e le loro patologie, che spaziano dal morso del coccodrillo alle grandi ustioni, alla gravidanza complicata da malaria acuta, danno l’idea dei bisogni che affliggono la popolazione, mentre l’attaccamento alla vita di una piccola creatura, salvata il giorno prima con un cesareo dall’équipe di Giorgio, rafforza in tutti l’entusiasmo e la determinazione per continuare a lavorare.

La festa ha rischiato di trasformarsi in tragedia: sulla via del ritorno a Nairobi, alcuni partecipanti all’inaugurazione, tra cui l’assessore Chiappini e Antonia Giaccaglia, sono stati coinvolti in un incidente, riportando varie fratture. Ricoverati al Nairobi Hospital, hanno avuto la conferma che dalla sanità privata puoi trovare aiuto solo se disponi di adeguata carta di credito.
A Matiri invece, come ha ricordato nel suo saluto il vice presidente Avi, Francesco Tartini, l’ospedale di sant’Orsola si ispira al principio che la salute non è né un’opera di carità, né un bene di consumo; ma un diritto umano fondamentale.

Francesco Tartini