All’ombra dei faraoni

Fuori dai grandi circuiti turistici,
la vita di gente semplice e povera.
Sempre in bilico
tra rivalità religiose,
sforzo di accoglienza e qualche… dispetto.

D opo giorni roventi e afosi, ha piovuto. Una bufera di vento, seguita da enormi goccioloni, presto assorbiti dalla terra. Oggi il cielo è rosato e il mare blu. Una brezza leggera s’infila nei vicoli, dove nessuno si è mai curato di rimuovere mucchi di rifiuti.
Siamo a El Quseir, porto abbandonato sul mar Rosso, da dove solevano partire i pellegrini per La Mecca. Restano le barche in secca e qualche bell’edificio in stile arabo-turco sul lungomare. Un signore svedese si è invaghito di questo posto e vi ha fondato un centro per scambi culturali tra insegnanti.
due santini
Incontro Peter e Alex, due giovani svedesi che stanno finendo il loro stage di sei mesi, entusiasti dell’esperienza, anche se ammettono di avere trovato qualche difficoltà di ambientamento. L’unica ragazza è già ritornata a casa, non ce la faceva più.
Per arrivare quaggiù, dal Cairo, ci sono volute quasi dieci ore di pullman, comprese le fermate: la prima, dopo Suez, lungo la costa arida e vuota; la seconda, per il cambio autista, a Hurghada. Siamo arrivati che era buio, dopo le dieci, ma chi continuava il viaggio fino in Sudan sarebbe giunto alle cinque del mattino.
Sono passata da Teresa, per salutare la famiglia. Il marito era in un angolo, accovacciato sulla sedia. Una gran febbre (forse la polio), da bambino, lo ha lasciato handicappato; ora si sposta solo con una moto speciale, datagli dallo stato. Così può anche andare a lavorare all’ufficio postale; ma oggi è a casa. Una stanzetta sul vicolo, dove parcheggia la moto, e altre due sul retro, tutte dipinte in un bel colore azzurro, per la moglie e due bambine.
Per sposarsi, Edel era andato a Esna, vicino a Luxor, dove c’è una comunità cristiana. Ha trovato Teresa, una ragazza povera, ma bella e molto dolce. Le bambine sono sagge, per la loro età. Marsa e Mariam mi mostrano le immagini incoiciate della Vergine e santa Barbara. Poi Edel mi regala due santini: la Madonna e san Giorgio, che qui chiamano Mar Girgis e venerano molto. Giù nel vicolo ci sono le botteghe del sarto e del ciabattino. Sono tutti cristiani copti. Loro lavorano fino a sera tardi, mentre il resto del paese bighellona tra fumerie e caffè.
La fabbrica italiana di fosfati è chiusa e gli italiani se ne sono andati da molti anni. Restano le case per i tecnici sul lungomare e il complesso di palazzine e capannoni, con la chiesetta. Tutto del 1920, in stile italiano dell’epoca. I camion arrugginiti e il piazzale vuoto mettono malinconia, ma la chiesa è stata ceduta a due abuna copti, che vivono nella casa accanto, con le loro famiglie.
In tutto ci saranno una trentina di famiglie copte in paese, che hanno ottimi rapporti con il resto della comunità. Le tensioni del Cairo e delle città sul Nilo qui sembrano smorzate dalla brezza del mare. Un mare bellissimo, ricco di pesci e meraviglie, ma che rischia di venire sfruttato: tra qualche mese si aprirà un nuovo aeroporto e, forse, questa cittadina perderà l’atmosfera antica.
seduzione… occidentale
Il padre di Nasser, El Sudany, lavorava nella miniera di fosfati. Beduino del Sinai, anche se il nome tradisce un’origine sudanese, ora deve fare molti chilometri per raggiungere l’impianto di Safaga, l’unico ancora in funzione. Nasser, invece, fa il guardiano alla centrale, ma stasera ci ha invitato a casa sua: la moglie preparerà il pesce.
Il matrimonio è stato combinato dalle famiglie, come d’uso, ma Nasser è inquieto e vorrebbe cambiare stile di vita. Lo stato gli ha dato in affitto un appartamento in periferia e lui l’ha arredato con mobili vistosi e lucidi, comprati con i soldi di due stagioni da tassista a Hurghada.
La moglie dovrebbe essere felice, con le due belle bambine, visto il relativo benessere della famigliola. Ma Nasser non è più lo stesso, da quando ha visto la vita degli occidentali. «Le russe sono bellissime», mi dice; ma poi aggiunge: «Hanno uomini mafiosi, sono gelide, cattive». E preferisce gli italiani e, appena può, scende in paese a cercarli.
Lasciamo il mar Rosso con Nasser che, per accompagnarci, si è fatto prestare un’auto quasi nuova. A Safaga ci uniamo al convoglio scortato dalla polizia e andiamo veloci, attraverso le montagne e il deserto.
Prima di Qena, si scatena il finimondo. I grossi pullman pieni di turisti fanno a gara per arrivare primi, superandosi con manovre rischiose, a più di 100 all’ora, senza rispettare le distanze. Questa, per loro, è la gita a Luxor, un breve intervallo culturale durante la vacanza. Molti gli italiani, francesi, tedeschi e russi. Ho notato che le donne sono spesso vestite in modo indecente, con calzoni corti e maglie scollate. Mi pare offensivo e pericoloso, in un paese islamico tradizionalista. Un motivo in più per farsi odiare.
La città di Luxor (antica Tebe, capitale dell’Alto Egitto), con i suoi templi e necropoli, non ha perso il suo fascino, nonostante il turismo di massa. I turisti sono sulle navi da crociera e pochi si avventurano nelle sue strade, piene di vita. La casa di Schiapparelli, il famoso archeologo italiano autore di importanti scoperte, è ora affidata alle suore francescane del Cuore immacolato di Maria. Sono egiziane e alcune di loro giovanissime.
Suor Carmelita è qui da 14 anni, ma è originaria di Malta. Oggi è molto arrabbiata, ma non vuole assolutamente che lo scriva. «La polizia segreta lo verrebbe a sapere e noi passeremmo dei guai. Controllano tutto, chi va e chi viene. Non possiamo fare nulla, neppure dare il bianco in cortile, senza il loro permesso» dice indignata.
Le suore gestiscono una scuola, un dispensario e un piccolo orfanotrofio, dove vengono curati gli orfani dei villaggi cattolici. Ma anche quello è meglio non dirlo. «I villaggi cattolici, sparsi nelle campagne intorno a Luxor, sono molto poveri. Nostro compito è quello di aiutarli a non perdere la fede».
Quello che la scandalizza è lo stile di vita dei musulmani. «Appena hanno due soldi, fanno gli schiavisti: prendono un poveraccio – qui se ne trovano sempre di disgraziati – lo fanno lavorare come una bestia e loro si siedono a far niente!».
una «calda» atmosfera
Accanto alle suore, la chiesa e la casa dei padri. Due i frati, un anziano italiano e l’egiziano padre Cyrillus: un viso da faraone con barba e occhi vivaci dietro le lenti spesse.
Per tanti anni Cyrillus ha vissuto ad Assyut, una città più a nord, sul Nilo, dove c’è una chiesa bellissima e un vescovo che porta il suo stesso nome. Ma è impossibile andarci: la polizia non permette agli stranieri di viaggiare fuori Luxor, eccetto che con un convoglio scortato. Ci sono stati disordini e uccisioni di cristiani, ma Cyrillus minimizza. «Ho sempre avuto un ottimo rapporto con musulmani e polizia. Bisogna fare le cose alla luce del sole. Chiedo, spiego i lavori che intendo fare e loro me lo permettono. Anzi, sono contenti. Noi lavoriamo per la popolazione».
Anche coi copti le cose vanno bene; anzi, sono proprio le suorine copte del monastero di san Taddeo che preparano e ricamano le tonache al padre francescano.
Accompagno padre Cyrillus nel deserto, in un pomeriggio rovente: il termometro supera i 38°. Attraversiamo il nuovo ponte sul Nilo. Il paesaggio è stupendo: i campi rigogliosi sono bordati da palmeti e le fattorie sembrano castelli di fango.
Lasciamo la strada asfaltata che conduce a Medinet Habu, il tempio di Ramses iii, e troviamo con qualche difficoltà la pista che conduce alla bassa costruzione di fango, oata da numerose, piccole cupole.
L’interno del monastero richiama la struttura di un’antica moschea: il cortile è circondato da celle a cupola; la chiesa è un labirinto di archi bassi come tende beduine; i tappeti logori e polverosi sul pavimento di pietra. Suor Anastasia ci apre il portone e madre Eufemia ci accoglie con grandi sorrisi. Hanno abito, tonaca e copricapo neri, col velo che incoicia il volto, stretto al mento. Luce e aria provengono da fori al centro delle cupole; il caldo sfinisce e, nell’attesa, ci viene offerta l’acqua del pozzo, nelle anfore di coccio, fresche e umide. Il padre scherza e l’atmosfera è serena. Non sento la tensione che pare vi sia tra ortodossi e cattolici.
Emil, il tassinaro
La moglie è mancata da pochi mesi e lui si occupa delle bambine. Sono tre, molto carine, bene educate e si chiamano Maryam, Mariana e Madonna. Quest’ultima ha un sorriso grande più di lei, che ha solo 10 anni. Gli occhi sgranati della mamma, quasi spaventati, mi guardano da una foto grande, appesa alla parete del piccolo soggiorno della loro casa, nel centro di Luxor. La povera donna soffriva da alcuni anni, ma solo da pochi mesi avevano scoperto il tumore allo stomaco che l’ha stroncata. Emil è rimasto solo e in casa ha pure mamma e suocera anziane da accudire. Ma è un uomo in gamba, si è fatto tutto da solo. Da niente, ora ha due pullman e tre taxi. I rapporti con la polizia sono ottimi e si fa stimare da tutti.
Emil è cattolico, ma in chiesa nessuno l’ha mai visto. Ci andava sua moglie alla messa, regolarmente, e ci portava le bambine. «Una donna molto pia», mi aveva detto padre Cyrillus. Questa sera sono invitata a cena e le ragazze mi circondano e premono con le loro domande ingenue. Studiano l’inglese, ma è chiaro che non hanno mai fatto una vera conversazione. Il pollo è buonissimo e l’insalata pure; così pure le banane, mature e dolcissime.
Passiamo nella stanza di famiglia, anch’essa decorata con tante foto del padrone di casa. Qui incontro il professore che dà ripetizioni di inglese alle ragazze. Un modo per arrotondare il magro stipendio di insegnante e dare una mano a Emil, che è preoccupato per le figlie e vuole dare loro una buona educazione.
Domani partirò e mi dispiace. Mi sono sentita bene, accolta come amica anche in questo paese. Ho visto cose bellissime. La tomba di Nefertari, la grazia delle immagini della regina e delle divinità, i colori vivi, i templi grandiosi. Ne avrò certamente nostalgia.
la culla dei faraoni
Assuan si trova in Nubia, una regione desertica tra Alto Egitto e Sudan, fino al xv secolo tutta cristiana.
Nel museo della Nubia, da poco inaugurato da Mubarak sulla collina che domina la prima cateratta del Nilo, vi sono le foto dei resti di numerose chiese e monasteri, risalenti ai primi secoli. Il museo è riparatore dell’ultima delle violenze subite da questo popolo fiero e bello. Il lago Nasser, creato con la grande diga, ha costretto gli abitanti delle rive del Nilo a migrare al nord, lasciando gli antichi villaggi di case di fango.
La bellezza della prima cateratta mi era rimasta nel cuore, dalla mia prima visita in Egitto, 15 anni fa. Ora il paesaggio è stato aggredito dalla speculazione edilizia: su una delle preziose isole, dalla vegetazione rara, è stato costruito un enorme albergo a cinque stelle, pare di proprietà del figlio del presidente.
Su una feluca, tradizionale e bella imbarcazione a vela, sospinta dalla brezza del mattino e guidata da due marinai nubiani, risaliremo fino all’isola di Sehel, sotto la vecchia diga. I massi di granito portano i segni dell’acqua che si è ritirata. L’isola, un tempo, era verde e coltivata; ora è un deserto, con le belle case nubiane dipinte di giallo e blu. La gente è povera; i giovani lavorano in città e il villaggio sopravvive come un museo all’aperto.
Sulla via del ritorno, mi fermo sull’isola Elefantina, che si trova nel centro di Assuan. Qui le case nubiane sono ancora più povere e la sporcizia invade le strade polverose. Eppure, è un luogo importante nell’antica storia d’Egitto: da qui vennero i faraoni della quinta dinastia.
la sfida
Oggi sono riuscita a sentire le campane. Mi hanno dato gioia: erano le sei del mattino. Di solito sento solo il richiamo del muezzin, che mi angoscia. Ho dovuto attraversare la città per arrivare nella piccola chiesa dei comboniani, nel cuore della città e del mercato.
È la domenica delle palme e i cristiani li riconosci per via di quelle sottili foglie che da ieri portano sottobraccio. Trovo padre Vittorio assorto, in piedi davanti al portone, sorvegliato da due giovani poliziotti col mitra.
Originario di Padova, dopo un periodo in Libano e 20 anni in Sudan, è approdato qui, in Alto Egitto. Le sue parole sono soffocate dal grido del muezzin. L’altoparlante della moschea vicina è posizionato in direzione della chiesa. «Fanno sempre così: lo fanno apposta, quasi per sfida».
Padre Vittorio è molto polemico e mi invita a entrare nel suo ufficio. Parliamo della guerra dimenticata, in Sudan, dove si continua a bombardare qualsiasi cosa, mandrie e villaggi. «In Sudan sono stati uccisi tre milioni di persone, una vera pulizia etnica. Le cause? Il paese è ricco di petrolio, uranio e altri minerali». Naturalmente sono sempre i cristiani i primi a essere perseguitati. Devono sparire, deve vincere l’islam, come vuole il governo fondamentalista.
Vittorio poi mi indica, accanto alla chiesa cattolica, la scuola tenuta dalle suore. Alcune sono italiane. «I maggiorenti della città iscrivono qui i loro figli e gli allievi sono per metà musulmani. Non ci sono problemi tra i ragazzi; ma l’islam rivela presto il suo lato aggressivo. Una sposa cristiana è molto ambita nelle ricche famiglie islamiche. Ma i figli devono crescere nella fede del padre; anche la sposa finisce poi per perdere i contatti con la chiesa».
Il missionario mi fa anche notare un altro problema. I cristiani sono pochissimi e, non potendosi sposare che tra di loro, rischiano pure di avere generazioni segnate da tare ereditarie. Anche i rapporti con i copti sono difficili, per i cattolici; migliori sono quelli con i musulmani, di cui condividono una certa mentalità. •
(continua)

Claudia Caramanti




Cara Anna maria

CARLO
URBANI
lettere
a una
claustrale

Solo dopo la sua morte è venuto alla ribalta l’impegno umanitario, professionale e scientifico di Carlo Urbani.
Una prima biografia ne delinea anche il suo mondo interiore, con molti scritti inediti e privati, tra i quali le lettere a suor Anna Maria Vissini, sua «assistente spirituale», del monastero di Castelplanio.
Ne pubblichiamo alcuni stralci,da cui traspaiono fede, ideali e valori di un uomo che si è donato senza posa.

«Le lettere, alcune delle più significative, che dono alla lettura di chi desidera entrare nell’interiorità di Carlo, manifestano anche la particolare relazione spirituale che ha avuto con me, in quanto religiosa e sorella nel Signore. Esse sono come una piccola finestra sul balcone del mondo, da cui esce un fascio di luce così intensa da stupirci: un faro che, illuminando la realtà e le vicende dell’oggi, permette di individuare i lati più luminosi della generosità e della forza d’animo». (Suor Anna Maria)
VOGLIO TORNARE A VOLARE
C ara suor Anna Maria,
non è facile scriverti. Ho pochi argomenti per brillanti conversazioni, ne avevo. Ho poca possibilità di farti sorridere, ne avevo. Ho pochi progetti da esporti, per farti brillare gli occhi, ma ne avevo. E se già stai pensando «ma guarda questo come si è depresso, che momentaccio che ha scelto per scrivermi», credimi se ti dico che ti sbagli. Ho scelto un momento in cui mi sento più sereno…
Da adolescente, verso il 2°-3° anno di liceo, seguivo un personaggio carismatico: l’insegnante di filosofia. In freddi pomeriggi invernali, io e un gruppetto di compagni andavamo a farle visita. Davanti a una tazza di tè, parlavamo dei personaggi nei quali più credevamo: noi. A tuo ci faceva sedere al centro del salotto e autorizzava gli altri a martellare di domande il protagonista dell’incontro.
A volte le domande graffiavano, colpivano nell’intimo, con la cattiveria che in quegli anni era utilizzata come arma: qualcuno scoppiava a piangere. Poi lei mediava, aiutava, suggeriva e concludeva, disegnando sempre, con nostro grande stupore, i tratti della personalità dell’intervistato. Quando venne il mio tuo non piansi; anzi, riuscivo a divertire i compagni e la professoressa, rispondendo in modo brillante e ironico a tutte le domande…
Quella sera uscimmo tutti con allegria e insieme con la professoressa andammo a prendere una pizza. Per il freddo camminavamo a braccetto; la mia insegnante si strinse al mio fianco: «Carlo, ammiro la tua forza; so che non ti mancherà mai e che ti permetterà grossi traguardi».
Ricordo bene quelle parole, perché da allora ogni tanto me le ripeto. Allora, a 17 anni, sentirmele dire da chi ritenevo una grande autorità, fine conoscitrice della psiche, è stata una incredibile vittoria. Divenni così anche più forte…
Crebbi con questo motto: so difendermi. Con gli anni conobbi sempre prove più impegnative, dure, dolorose. Conobbi il dolore di altri e passai pomeriggi per cercare di trasmettere questo mio pensare positivo all’amico in difficoltà.
Maturavo col tempo nella fede: riuscivo tanto bene a trasmettere speranza che mi trovai invitato a predicare in una settimana missionaria in un paese del Saleitano…
E la vita continuava, conobbi anche l’esperienza dei primi pianti da adulto, ma duravano poco e ne uscivo con un sorriso… E prego Dio perché un giorno, dopo questo tempo di prova, le vele riprendano tono.
Quando volo mi piace osservare, ai miei fianchi, la tela delle ali del deltaplano che, tesa dal vento, mi fa galleggiare sul mondo che amo. E quando ogni volta mi separo dalla mia ombra, che resta sotto di me dopo il decollo, sento l’alito dell’universo circondarmi e sorreggermi, provo infinita pace.
Ho provato più volte che una manovra errata ti può mettere in una cattiva posizione rispetto a quell’alito; allora la tela delle ali non vibra più, si affloscia; per un attimo non senti il vento sul viso, tutto si ferma, non sai bene cosa sta succedendo; e mentre pensi a questo, già inizi a precipitare, lo stomaco ti arriva in bocca, a stento elabori le azioni per interrompere la caduta: una piccola pressione sulla barra, un po’ di potenza al motore ed esci da quella caduta, che si chiama stallo. E riprendi a volare.
Suor Anna Maria: da questo stallo io non so uscire. Ho provato tante manovre, che per un attimo mi hanno fatto riprendere quota, ma volo sempre più in basso. Che Dio abbia pietà di me… Voglio tornare a volare al più presto, ma non ci riesco. Nelle preghiere ho già detto a Dio quanto tu sia brava. Se ne ricorderà!
Con grande affetto e stima,
Carlo
Castelplanio, 7 gennaio 1995
PICCOLI LUMI
IN UN MAGMA DI DOLORE
Carissimi don Mariano (parroco di Castelplanio ndr) e suor Anna Maria,
scusate se mi indirizzo a voi nella stessa lettera; vi assicuro, non lo faccio per risparmiare sui francobolli! In realtà le giornate scivolano via strapiene… Allora ho pensato di parlarvi insieme, perché tutto sommato siamo abituati a parlare insieme: in entrambi ho sempre trovato la calda attenzione dell’amico e la dolce acutezza dell’assistente spirituale…
Cosa sto facendo della mia fede? Beh, qualche volta, magari incollati a un ventilatore per il caldo torrido che c’è anche di notte, diciamo insieme qualche preghiera; ogni 15 giorni partecipiamo alla messa per la comunità francofona nella missione.
La messa è molto piacevole, semplice, sentita. È bello scoprire come quella famiglia di figli di Dio, alla quale diciamo di appartenere, ma che in realtà immaginiamo come un concetto astratto, in realtà esiste in carne e ossa ed è pronta ad accoglierti tra le sue braccia anche in posti lontani come questo.
Ma poi nella fede cerco, soprattutto in questo tempo, la luce per rispondere ad angoscianti interrogativi che mi tengono sveglio. Il primo è la fatidica questione sulla vera natura dell’uomo. Quanto vedo qui, quanto sento nei racconti dei colleghi provenienti dalle mille ferite di questa terra, campi di battaglia, campi profughi, profonda povertà delle bidonvilles, assurde lotte fratricide, carceri grondanti sangue di tutti i regimi dittatoriali del mondo… tutto questo scoraggia un po’; a volte vedere qualche cosa di buono nell’altro, in chi ti è «prossimo», diventa veramente difficile e invita a chiudersi in se stessi.
Ma i piccoli lumi, che brillano nei cuori di quanti si prodigano in questo magma di dolore, lasciano sperare; e il ricordo di chi ha deciso di scendere in questo scenario di continui soprusi e guerre, per poi morire su una croce, mi fa credere che una luce di pace sarà pure nascosta dietro qualche orizzonte.
Vi so vicini e a volte vorrei che vedeste con i miei occhi, per fissarvi su quegli sguardi di chi ha perso tutto, la famiglia nella guerra, il raccolto nell’alluvione, il figlio per la diarrea, i risparmi per un ladro, o per scaldarvi il cuore alla vista di una donna che partorisce sola, in una palafitta, lontano da tutto e da tutti, con il marito inginocchiato al fianco, un legno che arde in un braciere per scaldarla… non credo che in altre scene potreste vedere meglio rappresentato il mistero della natività, di questa che ho visto due settimane fa, a Sdau, piccolo villaggio nel nord.
Spero risentirvi presto. Ricordiamoci nella preghiera. Con affetto,
Carlo
Phnom Penh, 11 febbraio 1997
DOVE SCOPRO LA SUA BELTÀ
Carissima suor Anna Maria,
… poche sere fa, sfogliavo per addormentarmi un libro di preghiere di varie religioni e ho trovato questa di tradizione indiana: «Signore, fai che il mio lavoro nel mondo e per il mondo diminuisca giorno dopo giorno. Vedo che il mio lavoro, moltiplicandosi, minaccia di impedirmi sempre la Tua beltà! A volte immagino di compiere i miei doveri quotidiani senza essere attaccato alle cose del mondo, ma non so in quale misura mi illuda e veramente lavori senza attaccamento. Faccio la carità ed ecco che cerco di brillare agli occhi degli uomini. Proprio non so come fare».
Questa è la sensazione con la quale qualche volta la sera mi addormento. Mai come in questo periodo sono stato tanto preso dal lavoro. Sono come entrato in un vortice, dove l’amore per la professione e la scoperta che il lavoro che faccio incarna gli ideali che sempre hanno aleggiato sul mio cammino, sono come sirene alle quali non riesco a sottrarmi. Non credo che sia solo per brillare agli occhi degli uomini, ma è che mi sento un grande privilegiato, al quale il Padre Buono ha offerto una vita ricca, dove alcuni campi fertili non aspettano altro che vi semini responsabilmente i miei talenti.
A volte riscopro la Sua beltà nell’oggetto del mio lavoro, nei misteriosi fiumi che risalgo, fiumi d’acqua e fiumi di conoscenze, nei volti dei magri bambini nati come Lui in una capanna, o nei sorrisi coraggiosi di chi condivide il mio lavoro.
Credimi, è bello muovere passi in questo grande villaggio e scoprie le ferite e le glorie. Credo che la Sua beltà ci si manifesti in mille modi; benché convinto che nel silenzio di un monastero o nelle limitazioni della clausura sia visibile, amo troppo scoprirla in nuovi orizzonti o dietro nuovi occhi… Con affetto ti auguro un sereno natale.
Carlo
Macerata, 24 dicembre 1997
PRIORITÀ DEL PADRE BUONO
Carissima sorella,
… qui la vita scorre, la mia abbastanza comodamente, quella della gente un po’ meno, a causa della povertà e malattie che ne derivano. Ammiro comunque l’orgoglio e forza di volontà di questo popolo; invidio un po’ il loro senso di appartenenza a una nazione…
Sono occupato con meeting a livello centrale qui ad Hanoi, per discutere con le autorità sanitarie la situazione del Vietnam, riguardo i parassiti intestinali, che rappresentano una priorità, soprattutto nei bambini. Ma poi mi sposto spesso nei villaggi più remoti, per verificare se la situazione sul terreno è come mi viene presentata ad Hanoi…
Ovviamente il tempo che trascorro sul terreno è il più piacevole e interessante. Ammiro la dignità che accompagna la povertà e la profonda gratitudine che manifestano verso chi si interessa ai loro problemi. E sì che il solo interesse non li risolve…
Quello che colpisce nelle campagne è la presenza di chiese. Sapevo che il cattolicesimo sta rimontando in Vietnam: il 14% circa sono cristiani; ma è uno strano spettacolo vedere enormi costruzioni con bizantini campanili dominare villaggi di povere casupole. Sembrano astronavi atterrate da chissà quale pianeta. Molte di queste chiese risalgono agli anni della colonia. Ed ora i vietnamiti, convertendosi, se devono fare una chiesa, la costruiscono nello stesso modo: appariscente e costoso.
È facile porsi degli interrogativi. Ne discutevo durante un viaggio con il mio interprete. Mi chiese se credevo in Dio. Gli risposi di sì. Lui replicò: «Allora credi nel papa e nei vescovi?». «Non esattamente – dissi -. Credo in Dio e apprezzo quello che il papa e vescovi a volte dicono per aiutarci a essere bravi cristiani; ma, ad esempio, non sarei d’accordo con il vescovo che decida di costruire una chiesa in un villaggio dove i bambini si ammalano e muoiono di malattie parassitarie perché non ci sono latrine».
Scoppiò a ridere, dicendomi: «Secondo te, il vostro Dio preferisce che ci siano latrine per i poveri, piuttosto che chiese per onorarlo?». Gli risposi che la mia opinione non rappresenta forse quella della chiesa, ma la risposta è decisamente sì.
Abbiamo continuato su questo tono, dicendo lui (ridendo) che, se così fosse, la mia religione è vicina al popolo forse come il comunismo!
So cosa stai per replicarmi: che la fede è molto più che promuovere il sociale; che tante altre cose sono importanti nella fede, oltre a curare i malati e costruire ripari per i poveri. Ma cosa è prioritario? Cosa farebbe un Padre Buono per i suoi figli, se non curarli e coccolarli sotto un confortevole tetto?
Sono certo che nel determinare conversioni qui gioca molto questo aspetto di potenza che le grosse chiese suscitano, quasi di qualcosa che va temuto e che potrebbe proteggerli materialmente dalle difficoltà della vita. Non credi sia scorretto presentarsi così?
E tu, come va? Ricordati che sono sempre il tuo medico (almeno spero)! Come io non esiterei a dirti che mi fa male un ginocchio, anche se tu ti occupi dello spirito, apprezzerei sapere che, se avrai un problema dell’anima, magari me lo accennerai!
Fatti sentire e sii forte.
Con affetto,
Carlo
Vietnam, 10 ottobre 1998
BIANCO E NERO
Carissima suor Anna Maria,
… avrei voglia di rivederti, anche per sapere di te e della tua vita divenuta preghiera. Non che non lo fosse prima, ma ora ti immagino più tesa verso l’Altissimo che prossima agli uomini. E questa dimensione la conosco meno, a volte ho anche difficoltà a immaginarla e mi piacerà sentire da te cosa sia.
La mia dimensione «verticale» invece credo sia sempre meno evidente, o meglio, si vede meno, ma credo di sentirla con lo stesso calore. A volte sussurrare una Ave Maria in silenziosi tramonti mi causa leggeri brividi di emozione; non smetto di raccomandarmi al Signore ogni volta che vedo una prova sul mio cammino. Non so se questo basti; anzi, immagino che ci si aspetti di più da un «bravo cristiano», per cui sto quasi pensando di rimuovere il «bravo» dal cristiano che sono! Ma non ho dubbi che il Padre Buono saprà sempre alzare una mano per appoggiarmi carezze sul capo, almeno spero!
Nella vita sono sempre più esigente. La superficialità mi è divenuta intollerabile, l’indifferenza mi fa diventare quasi violento. Si dice in genere che non esiste mai una situazione con il bianco e il nero ben distinti, ma che si può trovare della ragione e del torto ovunque. Io invece, per una dolorosa passione e romanticismo, continuo a credere che si possa dire senza titubare «questo è sbagliato» o «questo fa schifo».
Occorre saper distinguere dove il Bene sta, e dove il Male si annida. Le altre letture più equilibrate e moderate mi sembrano sempre più gravi ipocrisie. A tutto si tenta di trovare giustificazioni. Sia nei fatti gravi che nel quotidiano.
Io sto con quelli che dicono che l’Afghanistan non si bombarda, che il morto americano vale esattamente quanto l’ignoto pastorello afghano o irakeno; lo stesso vale per Israele e gli abusi commessi in Palestina. Così continuo a dire che il mercato è malato e va cambiato, e così via…
Nella più semplice vita privata purtroppo ho lo stesso rigido schema mentale. Questo mi rende difficile avere amicizie con persone di cui non condivido la visione, almeno nelle cose più importanti.
Ma credimi, serpeggia un sentimento così fastidioso di razzismo, paura/rifiuto del diverso, superiorità sociale, tra gli stranieri della parte «importante» della comunità internazionale di Hanoi (qui come altre capitali) che a volte mi prende la nausea a sentire certi discorsi durante feste e ricevimenti. Sono tutti pronti a chiamarsi tra i «buoni» e condannare razzismo e violenza, ma poi dovresti vedere come trattano le baby sitters dei loro figli, o come pagano i loro dipendenti!
Per me vivere all’estero deve essere una testimonianza di barriere abbattute. Se sto in Vietnam, pur se continuo a sognare i miei dolci colli e saporiti salumi delle Marche, mi piace mangiare vietnamita, essere loro ospite quando capita, scoprire i loro costumi e cultura, ed a questo abituare i miei figli. Con loro devo dire che sono proprio contento.
Come sto? In generale sento che ho raggiunto la mia leggenda personale. Nella vita credo di aver saputo distinguere gli indizi che mi hanno guidato fino a qua; per arrivarci ho accettato di affrontare burrasche e scogli, ma ora non chiederei di meglio dalla vita.
Ringrazio Dio per tanta generosità nei miei confronti e mi sforzo di sdebitarmi, lasciando che i miei «talenti» producano germogli e piante. Vorrei fare di meglio, non tanto nel lavoro, dove do tanto, ma con gli affetti più prossimi. So quanto Giuliana, Tommaso, Luca e Maddalena (moglie e figli ndr) abbiano un dannato bisogno di me. D’altra parte ognuno di loro è per me parte essenziale della vita; a volte, soprattutto al rientro dai numerosi viaggi, avrei voglia di guardarli e toccarli per ore, per sentirli miei e far sentire loro il mio affetto.
Viaggio molto, in Cina, Thailandia, Laos, Cambogia, Filippine, altrove… Mi capita anche di fare viaggi «sul terreno», come diciamo in gergo. Lì trovo l’essenza del mio lavoro, sento l’odore della povertà e della privazione che alimenta come benzina il fuoco che anima la mia passione.
La settimana scorsa ho portato Giuliana, Luca e Maddalena in una zona montagnosa, tra minoranze etniche. Godevo al vedere i miei figli dentro capanne affumicate, a curiosare tra il nulla che costituisce la vita dei poveri.
Vorrei continuare a parlare con te… ma ti sto rubando troppo tempo. Ti abbraccio, risentendo il sapore della fratellanza in Cristo.
Con grande affetto,
Carlo
Hanoi, 5 maggio 2002

Benedetto Bellesi




KENYA – Abbondanza di mucche e di… parole

Alcuni fortunati europei hanno potuto assistere
a una cerimonia che da secoli
si ripete uguale tra i masai di Kenya e Tanzania,
per ottenere benedizione e salute.

L’ orologio che scandisce la vita pastorale dell’etnia masai (Kenya e Tanzania) ha un ritmo lento, ma perseverante. In questa nostra era, è davvero inimmaginabile imbattersi in cerimonie tribali, celebrate così raramente che, a volte, la memoria umana non riesce più a registrarle.
Il fotoreportage illustra una di queste cerimonie solenni: erano ormai più di trent’anni che non veniva celebrata!

Siamo nel profondo cuore della riserva masai del Kenya, verso i confini del Tanzania, dove vivono gruppi di masai che, salvo l’orologio al braccio o la radiolina a pile, potrebbero benissimo essere scambiati per pastori di secoli fa, guidati dal sole e dalla luna, dalle piogge e dalle immigrazioni degli animali della savana.
Alcune suore cattoliche e una dottoressa italiana, per gentile invito, hanno potuto partecipare a questa solenne cerimonia e immortalare, per la prima volta nella storia, alcuni momenti del rito della fertilità.
Nell’immenso spiazzo (boma) lasciato libero temporaneamente dai numerosi greggi di capre e mandrie di mucche, si è radunata tutta la comunità femminile della regione. È il più solenne e sacro raduno delle mamme masai dei dintorni. Siamo a El Kisongo, uno sperduto puntino nell’area geografica del Kenya, territorio non ancora intaccato dai furori della civiltà.
I soli uomini presenti sono i grandi dignitari, rappresentanti i vari clan che ruotano intorno alle zone di pascolo di El Kisongo. Spicca tra tutti ’loiboni o grande sacerdote. Ostenta una parrucca di peli di coda di mucca, una sgargiante coperta azzurra, orecchini nuovi e collane dal significato a noi sconosciuto. Regge una zucchetta contenente latte, che sarà usato durante la cerimonia.
Gli altri assistenti, avvolti nelle coperte rosse, i fianchi cinti da un perizoma, sono rasati di fresco (segno di purificazione). Tutti si sono portati appresso il famoso scranno treppiede (a volte anche quadripiede): grande segno di autorità.
Le donne – tutte mamme – in lunghe vesti coloratissime, fanno girotondo nell’ampio recinto. Quelle ancora giovanissime si sono portate dietro i pargoletti appesi alla schiena, ben protetti sia dal sole, come dal vento che spira (a volte pungente) dal vicino Kilimangiaro. Anche se la giornata è serena e il sole abbacina, il manto di cotone che tutti e tutte portano allacciato alla spalla, ripara e, nello stesso tempo, dona un colore di festa.

Il primo atto della cerimonia è il sacrificio di un bue, alla presenza del gran sacerdote e dignitari. Il luogo del sacrificio viene così considerato «santificato»: sarà il centro di tutte le cerimonie che via via verranno effettuate.
Davanti a un grande drappo nero appeso a due paletti, viene scavata una buca, che viene poi ricoperta di pelli e in cui si verserà del latte di vacca. Ogni donna e anche la sua bambina (non i maschietti) passeranno a lavarsi i piedi in quel latte, sotto il controllo di un anziano.
Accanto al drappo nero, garrisce al vento una fronda di palma. Questa ha un particolare significato e sarà uno dei temi della grande preghiera del ’loiboni durante la benedizione finale: la foglia di palma che si lacera al vento, formando così altrettante foglie, vuole indicare l’uomo e la donna che si ripetono in tanti figli, trasmettendo in essi la loro stessa vita.
La fila di donne passa davanti al gran sacerdote, che impone su ognuna una speciale collana e, come segno di benedizione di Enkai (Dio), colora la fronte di caolino bianco e latte. Anche gli anziani ripetono la cerimonia del gran sacerdote. Bere latte fresco di mucca e latte cagliato significa partecipazione comunitaria delle donne alla «preghiera della fertilità». Le bevute si susseguono… mentre passano le ore. Non sembra vi sia fretta alcuna, se gli strilli dei pargoli ogni tanto richiamano alla realtà di allattamenti soccorritori. Pluff!… con curiosa manovra la mamma fa saltare con destrezza il piccolo, che se ne sta dietro la schiena, e lo riceve delicatamente sul davanti… pronto alla pappa!
La preghiera comunitaria guidata dal ’loiboni invoca, ora, su tutta la gente ogni bene:
«Enkai, tu resterai fermo
al di sopra di tutte le cime dei monti
del monte splendente (Kilimangiaro).
Sii lacerato come le orecchie
della palma
lacerata dal vento…» (allusione alla frasca di palma, che sta davanti al panno nero, simbolo della divinità).
Le richieste a Dio di «beni» comprendono l’abbondanza di mucche (sempre prime nella scala dei valori), di piogge, di pascoli, di mamme e di prole. Si chiede a Dio protezione contro gli animali feroci e le malattie del bestiame e degli uomini. E siccome, invitati speciali di onore ci sono le suore e una dottoressa, si chiede anche per loro «che possano essere mamme di tanti figli e curare tutti i loro malanni».
La cerimonia finale, come segno di partecipazione alla grande festa, sarà l’imposizione di una strisciolina di panno nero, messo al braccio destro di ogni mamma (simbolo dell’accompagnamento di Dio). Infine, tra canti e danze a Enkai, la distribuzione di vari amuleti protettori.
Il sipario si chiude quando il sole traccia ombre lunghe sul boma. Già intorno ci sono le mucche e le capre, tornate dal pascolo, in attesa di entrare nel recinto per essere munte del poco latte (un bicchiere appena). E poi i guerrieri, con le loro lance, si metteranno in guardia tutt’intorno, per proteggere il loro tesoro contro le bestie feroci della notte.

Non lontano, le nevi splendenti del Kilimangiaro continueranno a riflettere la luce della luna, testimoni, da secoli, di vita e cerimonie di un popolo che non ama calendari e tanto meno il ruggire di motori e fermate di autobus; o arrembaggi di uffici alla ricerca di un segretario che abbia la pazienza di scrivere una carta d’identità dove, insieme a un nome, ci sia anche la compiacente definizione «over 18», con la quale si fa livello di tutte le età, dai diciotto anni ai cento.
Con buona pace di tutti quanti.

Giuseppe Quattrocchio e Francesca Lipeti




Giù il mitra, signore!

Gesù subisce violenza, e non solo
perché viene crocifisso. Per esempio: riceve uno schiaffo dal servo del sommo sacerdote. Però non ritorce il gesto
e neppure presenta l’altra guancia,
ma chiede ragione dell’ingiusta
offesa subita (cfr. Gv 18,22-23).
Un comportamento emblematico
di nonviolenza del figlio di Dio.

C’é dio e… dio

La bibbia è parola di Dio, ma con espressioni umane. Il messaggio di salvezza ci giunge attraverso immagini prodotte da uomini e donne, secondo vari contesti storico-culturali. Pertanto, anche nella bibbia, è necessario distinguere «Dio» dalle «immagini su Dio», perché il Signore è sempre altro e non può essere ritratto da alcuna raffigurazione.
Noi conosciamo Dio attraverso le esperienze che altri ci hanno trasmesso: Mosè, Davide, i profeti, gli apostoli… Si pone, allora, il problema dell’autenticità e della verità delle immagini: in quale misura esse esprimano la vera identità di Dio. Il problema si fa cruciale quando la bibbia (specie l’Antico Testamento) presenta un «dio violento».
L’Eteo appare come il Giano bifronte, avvolto in un mysterium tremendum: dona la vita ad alcuni (popolo d’Israele) causando la morte ad altri (egiziani); offre la terra a Israele strappandola ai cananei; salva il popolo d’Israele a spese di altre genti… Però queste violenze non sono opera di Dio, ma gli sono attribuite da uomini violenti in situazioni violente.
L’immagine di un «dio guerriero» risponde, in fondo, all’intimo bisogno dell’uomo che sulla terra si faccia finalmente giustizia. Quindi, per una causa giusta, non si esita a giustificare la violenza anche da parte di Dio e del suo popolo eletto.
Questa visione è superata da Gesù Cristo. Le pagine dell’Antico Testamento, che presentano Dio come amore e misericordia, trovano pieno compimento nella rivelazione di Gesù, immagine del Dio vivente (cfr. Col 1,15): un Dio che preferisce gli ultimi, i poveri, gli oppressi, i peccatori; un Dio che ricostruisce le persone dal di dentro e le reintegra nella società; un Dio che non usa violenza, mai e con nessuno. Anzi, egli stesso ne è vittima.
Alla luce della morte di Gesù (l’innocente) e della sua risurrezione, si intende meglio il senso della passione del giusto: egli accetta su di sé le sofferenze degli altri; non annienta i suoi carnefici, ma li perdona; abbatte con il suo martirio il muro che divide i popoli, per fare di tutti una sola nuova famiglia (cfr. Ef 2,14). Pertanto si inaugura un nuovo stile di vita; si rifiuta la violenza come mezzo per risolvere i conflitti.
Il giudizio finale e universale, impostato su «avevo fame e mi avete dato da mangiare» ecc. (cfr. Mt 25, 35-40), è molto più di un’esortazione morale. L’identificazione di Gesù con i poveri impone alla chiesa una scelta preferenziale per essi (cfr. Giovanni Paolo ii, Novo millennio ineunte, 49).
Da qui scaturiscono alcune direttrici per il comportamento del cristiano:
– essere persone mosse dal Creator Spiritus, che costruiscono e portano ovunque immagini positive di Dio, amore-grazia-pace-misericordia, che rifiuta la violenza;
– essere chiesa-comunità più povera e libera, senza troppi appoggi ufficiali, senza cedere agli integralismi;
– resistere alle attrazioni distruttive, all’inganno delle soluzioni sbrigative, inservibili per la pace.
La vera immagine
Gesù Cristo rivela l’immagine vera e definitiva di Dio. Dio è proprio come Gesù ce lo mostra. Gesù è la guida che conduce a Dio. Fidarsi di Gesù è garanzia di verità, autenticità e identità su Dio, prima ancora di essere impegno morale di sequela.
In Gesù, con il quale i cristiani si identificano, l’ideale e la prassi della nonviolenza assumono una solida consistenza. In tal modo si supera il rischio di fermarsi solo ad un programma, sia pur generoso, per seguire una persona.
Gesù è un facitore nonviolento di pace, oltre che un ispiratore di nonviolenza. Il regno di Dio in bocca a Gesù è nonviolento. Il «siate perfetti» di Matteo (5,48), comprensibile all’ambiente giudaico, viene espresso da Luca con «siate misericordiosi» (6,36), in termini più universali di benevolenza e gratuità.
La shalom di Gesù è radicata nella bibbia, soprattutto nell’identificazione tra giustizia e pace, sorelle gemelle. La prassi di Gesù rivela l’agire di Dio: un agire misericordioso verso i peccatori e gli infelici, che tende continuamente a ristabilire il diritto di giustizia e che è forza liberante (non spiritualista) degli oppressi e diseredati.
Gesù è lontano dal messianismo degli esseni di Qumran, suoi contemporanei. Questi, insieme all’assoluta purezza interiore, propugnavano la condanna del peccatore e teorizzavano sulla guerra santa. Invece Gesù, oltre alla beatitudine della pace, offre la sua «pace», diversa da altre: il suo programma coniuga la gloria di Dio e la pace in terra.
Ecco alcune prospettive per un’azione globale di pace e nonviolenza:
– più consistente deve essere la riflessione nella teologia, spiritualità e pastorale, nelle pubblicazioni, nei circoli di studio e nelle assemblee;
– la nonviolenza diventi spiritualità incarnata, aderente alla storia, senza evadere dai problemi veri;
– pace e nonviolenza sono frutti che maturano nel tempo; la loro acquisizione è un lento cammino verso le sorti dell’umanità (cfr. Giovanni Paolo ii, Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2004);
– bisogna riscoprire la Pacem in terris di Giovanni xxiii (1963), che definì la guerra «alienum a ratione». «La guerra è roba da matti» disse il compianto vescovo Tonino Bello.
Oltre a predicare la nonviolenza, come ha chiesto Giovanni Paolo ii nell’Angelus del 30-11-03, vi sono scelte operative quotidiane, quali: il consumo critico, la banca etica, l’adesione alle campagne e dichiarazioni a favore di pace e nonviolenza.
Fondamenti storici e culturali
«La verità e nonviolenza sono antiche come le montagne» (Gandhi), ma è altrettanto vero che la violenza è la regina della storia. Tuttavia la gente continua a lavorare e soffrire per la pace. La speranza della nonviolenza risiede nel popolo.
I modelli di nonviolenza sono tanti e ricchi. Accanto a personaggi e avvenimenti celebri (Martin Luther King, Nelson Mandela, la resistenza nelle Filippine nel 1986, il crollo del muro di Berlino nel 1989, ecc.), vi sono altri casi significativi, anche se meno noti: casi di non collaborazione, disubbidienza civile, obiezione di coscienza, disarmo.
La nonviolenza è una galassia, un ecosistema. È interessante esplorae i fondamenti culturali e antropologici:
– trovare in se stessi qualcosa che ci fa sentire vicini all’altro;
– applicare la regola d’oro (di tutte le religioni): «Fai agli altri ciò che vuoi sia fatto a te» e «non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te»;
– uccidere è la ragione della guerra e «non uccidere» (presente in tutti i codici dei popoli) è il motivo della non guerra;
– prendere e far prendere coscienza che «uccidere» va contro il Creatore, che è l’atto più irreligioso; per la guerra vale «mors tua vita mea», per la pace conta «vita tua vita mea»;
– «non uccidere e non lasciare uccidere» era già un insegnamento di Budda; se è il sistema che porta alla distruzione, è necessario fermarlo;
– capire il senso e il limite del potere, di qualunque potere, per evitare che, «scambiando il mondo per un chiodo da battere» (F. W. Nietzsche), si compiano violenze fisiche, economiche, culturali, religiose;
– il potere legittimo, nato dal voto, non è matematicamente sinonimo di democrazia; questa è tale solo se favorisce la circolazione di idee e valori per la ricerca del bene comune (Amartya Sen, premio Nobel per l’economia);
– essere testimoni di un monoteismo garante di convivialità fra tutti i popoli; il mistero di Dio è così sfaccettato che nessuna religione può esaurirlo; tutte le religioni si completano a vicenda (possono scambiarsi doni) nella comprensione dell’unico Dio; allora nasce una visione tollerante verso le religioni quali vie a Dio, senza però cadere nel relativismo secondo il quale una religione vale l’altra;
– vincere l’intransigenza religiosa, per cui si vorrebbe far scendere il fuoco dal cielo o strappare subito la zizzania (cfr. Lc 9,54; Mt 13,28);
– opporsi alla rassegnazione di chi considera la guerra come un male inevitabile, essendo parte del sistema.
«Tra mezzi e fine esiste lo stesso rapporto che c’è fra seme e albero: non ci si può aspettare frutti buoni se si semina violenza» (Gandhi). La pace si costruisce con mezzi pacifici.
trasformare i conflitti
Alla base dei comportamenti violenti c’è un «nemico» in ciascuno di noi: pregiudizio, rifiuto degli altri, odio. In ognuno c’è aggressività dovuta pure a stress, corse, orari. Basta poco per «saltare» in famiglia, sul lavoro, nel traffico.
Emerge il nocciolo fondamentale: non c’è pace estea senza quella intea, se il cuore non è in pace. E non ci sarà pace senza il coinvolgimento personale nei valori dell’accoglienza verso tutti, del perdono e della riconciliazione.
Tuttavia l’amore ai nemici è alieno da sentimentalismi; può convivere con l’indignazione, il dispiacere, la preghiera. È pure necessario distinguere fra «ricordare» e «odiare»: non si ha un potere assoluto sulla memoria, mentre si può controllare gli atti di volontà. È possibile ricordare senza odio.
I conflitti si possono trasformare in opportunità di vita. Il conflitto non è sinonimo di guerra, né di violenza. I conflitti vanno guidati, tenendo presente che le vittime della violenza strutturale sono più numerose di quelle della violenza fisica (il rapporto è di 24 a 1).
È possibile intervenire sul conflitto, prima che degeneri in violenza, grazie a metodi di prevenzione e progetti socioculturali; durante il conflitto, operare con forze nonviolente, per ridurre i mali; dopo il conflitto, favorire la riconciliazione e costruzione (vedi i casi di Sudafrica, Mozambico, Perú, Rwanda, Guatemala, Argentina, ecc.).
La nonviolenza è un processo di liberazione interiore da complessi e paure sia negli oppressi sia negli oppressori. In tale processo è fondamentale la comunicazione tra gli uni e gli altri, come pure tra questi due gruppi e le «parti estee» al conflitto, dentro o fuori del paese. Però occorre che non intervengano strumentalizzazioni.
La riconciliazione è un processo a tappe, quali: accertamento della verità dei fatti, pentimento, confessione, perdono, pena, pietà. Molto opportunamente Giovanni Paolo ii, nella Giornata missionaria mondiale del 2002, ha rilanciato il perdono.
Il processo di pace, nonviolenza e riconciliazione ottiene i migliori risultati quando si comincia dal basso, dagli enti locali, che sono più disponibili, meno condizionati. «Ogni popolo guardi il dolore dell’altro – disse nel 2003 il cardinale Carlo M. Martini – e sarà pace».
Per i missionari e le loro comunità emergono compiti esigenti:
– essere attivi nelle scuole di nonviolenza per formare le coscienze;
– operare coraggiosamente la riconversione economica degli stili di vita, assumendo stili alternativi;
– vivere la missione come scambio di doni alla pari, grazie all’interculturalità, della quale i missionari hanno una particolare esperienza.
spiritualità della nonviolenza
È significativa la testimonianza di Gandhi, un laico che ha saputo coniugare spiritualità e politica in modo sistematico e durevole, dando un notevole contributo alla riforma della spiritualità in genere.
Anche Gesù (un altro laico!) opera un rinnovamento della vita religiosa: la sua legge consiste nell’amare i nemici (cfr. Mt 5), fino al perdono dalla croce. Gesù conferisce pure un valore comunitario ai precetti della legge, che di norma erano vissuti a livello individuale, quasi spiritualista, senza incidenza pubblica. Invece Gesù «sobilla il popolo» (cfr. Lc 23,2) e per questo viene ucciso.
La nonviolenza, di cui Gesù è un modello e maestro, non è una nuova religione, ma è previa a tutti i credo religiosi, perché si riferisce ad un patrimonio comune: la fratellanza universale, spesso però minacciata e distrutta da violenze e guerre. Se le religioni non si ritrovano su questa «spiritualità», non hanno alcun servizio da rendere all’umanità.
La spiritualità della pace nonviolenta deve fronteggiare alcune sfide:
– affrontare la vita politica ed economica valutando con cura le mediazioni, ma senza transigere sui valori morali;
– dare la preminenza alle relazioni interpersonali, basate su solidarietà, fratellanza ed empatia, preferendole alle tattiche furbesche dei politici;
– non fermarsi alla conversione individuale, ma puntare alla conversione delle strutture di peccato (cfr. Giovanni Paolo ii, Sollicitudo rei socialis, 1987);
– la critica all’attuale modello di società è legittima e doverosa.
Un altro mondo è possibile. Anzi, solo un altro mondo è possibile, di fronte (per esempio) al pericolo dell’inquinamento globale.
E che dire delle armi di distruzione di massa? Giovanni Paolo ii, per contrastare guerre e armi, convoca tutte le religioni a scegliere sempre e solo la pace: non ci deve più essere guerra. Se ogni religione (ciascuna con i suoi seguaci), attingendo al pozzo comune della frateità, è per la pace, la guerra è sconfitta.
Il no alla corsa armamentistica per il cristiano non ammette alternative o concessioni; deve essere totale e risoluto. È immorale (perché contro la vita) che si spendano ogni anno 1.000 miliardi di euro (400 miliardi negli Stati Uniti) per armamenti, destinati ad uccidere, mentre i diritti di 5 miliardi di poveri passano in secondo ordine. Il no alla produzione di armi è una scelta per la vita, in nome del vangelo.
E non basta sapere. È indispensabile l’invocazione dello Spirito di sapienza. Gandhi parlava di «forza attiva della verità».
Per un cristiano la spiritualità della nonviolenza è per fede trinitaria. Padre-Figlio-Spirito Santo sono in comunione perfetta. Sono sorgente e modello di vita, donata a tutti e in abbondanza (cfr. Gv 10, 10).

L’articolo rielabora la sintesi conclusiva di padre Romeo Ballan, comboniano, del Convegno «Spiritualità e prassi della nonviolenza: linee e sfide per l’animazione missionaria in Italia».
Il Convegno, organizzato dal Suam (Segretariato unitario di animazione missionaria in Italia), si svolse a Pacognano (NA) il 3-7 febbraio 2004.
Segretario nazionale del Suam è padre Gottardo Pasqualetti, missionario della Consolata.

Francesco Beardi




Ma quanto mi costi!

Il dono nuziale, o dote, sigilla la conclusione del matrimonio
nella società siriana. Ma le pretese sono troppo alte per tante famiglie:
sposarsi rimane un sogno irraggiungibile.

La laurea in lingue e letterature orientali e il lavoro mi hanno portata a soggioare per lunghi periodi in Medio Oriente. Soprattutto la Siria è stata una delle mie mete più frequentate. Il mondo delle donne in particolare mi ha sempre affascinata e incuriosita.
La vita di una donna in Siria, come in altri paesi musulmani, ruota attorno al matrimonio, alla procreazione e alla creazione di una famiglia, vista come pilastro della società. Mi sono dedicata molto allo studio delle tradizioni e consuetudini matrimoniali, che riguardano non solo la comunità musulmana, ma anche quella cristiana. Infatti uno dei miei approfondimenti è stato proprio quello di tracciare dei paralleli tra le due comunità.
SICUREZZA PER LA SPOSA
Per concludere un matrimonio, nei paesi di religione musulmana, occorre la stipulazione di un contratto bilaterale privato. Non è necessario solennizzarlo con un rito religioso: basta che i due futuri sposi si scambino la promessa di matrimonio alla presenza di due testimoni qualificati, solitamente due notai, abilitati a redigere atti del genere e obbligati a trasmettee copia allo stato civile.
La stipulazione del contratto viene generalmente accompagnata dalla recita della fatiha (il primo capitolo del Corano). Ma il contratto risulta valido solo se sono rispettate alcune condizioni. Una di queste è il pagamento di una dote o dono nuziale (mahar).
La dote non è un costume introdotto dall’islam; nei paesi musulmani si parla di dote molto tempo prima dell’arrivo di Maometto.
In Mesopotamia, durante la dinastia babilonese, Hammurabi (1792-1750 a.C.) compilò il primo codice legislativo, ispirandosi a vari testi giuridici più antichi. Riguardo al matrimonio, il codice prescriveva un contratto in cui il fidanzato doveva fare una donazione, in denaro o in natura, al futuro suocero; questi, in compenso, costituiva una dote alla figlia, di cui la donna avrebbe goduto personalmente i benefici.
Oggi, come all’epoca di Hammurabi, la dote è un dono, un’offerta, una concessione; non è, come si è portati a pensare, un prezzo per la donna. Non è una tariffa per poter godere della donna, ma è un segno del rispetto a lei dovuto.
La dote è un diritto legittimo della sposa; al tempo stesso è una prova di fedeltà dell’uomo. Come dice un versetto del Corano: «Date spontaneamente alle donne la dote e se a loro piace farvene partecipi, godetevela pure in pace e tranquillità (Sura iv, versetto 4).
Purtroppo, non è l’esistenza della dote in sé a creare un problema, quanto piuttosto il suo ammontare. In molti paesi musulmani l’eccessivo prezzo della dote è di ostacolo alla conclusione di matrimoni. Per alcuni, come la Siria, sta diventando addirittura un enorme problema sociale, in quanto i matrimoni diminuiscono sempre più.
Ma che cosa esattamente comprende la dote? Che cosa comporta la dote per la famiglia di uno sposo?
«Normalmente, la dote consiste nel versamento di una somma di denaro» cerca di spiegarmi il trentenne Firas, che vive a Damasco e gestisce con il padre un negozio di antichità. «Questa somma è divisa in due parti, una pagata prima della consumazione del matrimonio, generalmente durante la stipulazione del contratto, l’altra versata in caso di divorzio o al decesso del marito».
La scissione in due parti della dote è usuale nel mondo islamico. Nata inizialmente per facilitare lo sposo non ricco, questa usanza ha assunto in seguito altre due valenze. Poiché rimane nelle mani della donna, la metà della dote diventa una sorta di arma contro il pericolo del ripudio: la minaccia di un reclamo della seconda parte di dote serve infatti a dissuadere l’uomo da potenziali intenzioni di separazione.
Questa quota di dote serve inoltre ad assicurare l’assistenza della donna dopo la fine del matrimonio, sia per decesso del marito, sia per divorzio. Molte famiglie esigono una seconda parte alquanto sostanziosa, di modo che il marito sia costretto a riflettere a lungo prima di volere la separazione dalla moglie.
La sharia, la legge islamica, non fissa un limite massimo o minimo, ma lascia questo aspetto materiale allo sposo, che calcola il poco e il tanto da sborsare; soprattutto tale calcolo dipende da consuetudini e tradizioni, diverse da paese a paese; l’importante è la reciproca intesa.
SOLO SE LA SPOSA… È RICCA
«Purtroppo il prezzo della dote ha assunto delle proporzioni vertiginose – prosegue Firas – in rapporto ai nostri redditi. Per noi musulmani la dote è obbligatoria, non come per i cristiani; essa viene segnata nel contratto matrimoniale. Durante il primo incontro tra le famiglie dei due futuri sposi si stabiliscono, oltre alle date di fidanzamento e matrimonio, anche l’ammontare delle due somme. Ed è la famiglia della sposa che fissa le cifre da pagare».
«Nella forma siriana – aggiunge Firas con rammarico – vengono completamente tradite le intenzioni del profeta, che in uno dei suoi hadith (detti) aveva affermato: “Sposatevi e moltiplicatevi; io mi glorificherò di voi il giorno del giudizio universale”. Attualmente la dote è diventata un grosso ostacolo al matrimonio.
Per noi siriani la procreazione e il matrimonio sono i fattori più importanti nella vita di un uomo. È il modo di vivere al quale tutti aspirano, non esiste una vita serena al di fuori della realtà matrimoniale. Una donna per essere completa deve avere al suo fianco un uomo, che si occupi di lei, del suo futuro, che le dia una casa, dei figli. Purtroppo, per motivi economici spesso ci è impossibile aspirare a formare una famiglia.
Io ho 30 anni e vorrei tanto potermi sposare; ma al momento mi è impossibile: la mia famiglia non ha sufficiente denaro; unica soluzione è che trovi una donna ricca, che possa pagare tutto lei» conclude Firas sorridendo.
Certamente non è un caso sentire parlare di matrimoni in cui la donna, anzi la sua famiglia, paga tutto. I genitori, pur di non tenere una figlia zitella, si sobbarcano a tutte le spese, anche al pagamento della dote.
NELLE FAMIGLIE CRISTIANE
L’usanza di dare una dote alla sposa esiste anche presso i cristiani, anche se non fa parte del contratto matrimoniale. Me lo conferma Raife, una cristiana (massihiyya: da al-masyh, il messia). Non si è mai sposata, perché scelta dalla famiglia a restare nella casa patea, a Bab Tuma nel quartiere cristiano di Damasco, per accudire la madre molto anziana. In compenso si è occupata del matrimonio di tutti i suoi fratelli e parecchi nipoti.
«Mio fratello Attaf ha tre figli maschi – dice Raife preoccupata -, ma a causa dell’eccessivo prezzo della dote non riesce a sposarli tutti. La dote, considerata presso i musulmani come somma da versare al padre della sposa, esiste anche presso noi cristiani, benché essa non venga inserita nel contratto di matrimonio. È una consuetudine molto antica e ancora molto rispettata anche nelle famiglie cristiane».
Un matrimonio in Siria ha dei costi considerevoli, che superano spesso i redditi medi di una famiglia. «Sulla famiglia dello sposo pesa l’onere più alto – spiega Raife -. Oltre alla dote da versare, deve sobbarcarsi alle spese per l’organizzazione del matrimonio e della festa di fidanzamento. Tra l’altro, presso noi cristiani, vi è la consuetudine che il padre dello sposo regali alle parenti più prossime dei vestiti per festeggiare il matrimonio del figlio».
Anche per i cristiani la dote viene pagata in due volte. «La prima parte viene consegnata al padre o a un rappresentante legale della futura sposa – riprende Raife -. Ma ciò non significa assolutamente che il genitore consideri la dote come prezzo di sua figlia; ma è semplicemente indice della cultura patriarcale della famiglia. Inoltre, considerata la sua giovane età, la ragazza è spesso poco esperta e poco qualificata per fare gli acquisti per le nozze e per gestire l’ingente somma. La seconda parte viene pagata, come per i musulmani, in caso di divorzio o di decesso del marito».
«A volte in alcune famiglie cristiane della Siria – aggiunge Raife – viene pagata la dutta o ba’ina, una dote alla rovescia, in quanto è il padre della sposa a versare denaro al genitore dello sposo. Tuttavia, a parte casi rari, le spose cristiane pretendono le doti dai futuri mariti, alla maniera musulmana».
In base alla legge, la donna è libera di disporre della sua dote. Sia tra i cristiani che tra i musulmani, una parte della somma viene utilizzata per comprare il corredo, che la sposa porterà nella casa nuziale. Per tradizione, esso dovrebbe comprendere vestiti, biancheria e giornielli per la sposa, mobili e oggetti per la casa, materassi, coperte e cuscini.
Attualmente, però, buona parte della dote viene spesa per l’acquisto di vestiti e, soprattutto, giornielli. È molto importante che nel giorno del matrimonio la ragazza indossi molto oro, per valorizzare la sua avvenenza, ma anche per dimostrare il suo stato di sposa.
Anche se nel Corano l’oro non è sempre tollerato, la bramosia è tale da contagiare anche i musulmani, di tutti i livelli sociali.
PREZZI DA ABBASSARE
I giuristi musulmani contemporanei dedicano molte pagine a questo argomento. Pur confermando l’importanza della dote, essi ne contestano l’elevatezza del prezzo, sottolineano le difficoltà che essa crea per i giovani desiderosi di sposarsi e rivendicano un ridimensionamento al ribasso.
Dai loro studi è emerso che già agli inizi del ’900 in Siria vi erano dibattiti sull’eccessivo valore del dono nuziale. A Damasco, negli anni ’30, fu addirittura creato un comitato d’azione per l’abbassamento del prezzo della dote: in un bollettino vennero esposte le cause del problema, denunciati gli effetti negativi e invitate le famiglie siriane a combattere tale tradizione.
Questo bollettino fu pubblicato sui giornali; le idee furono diffuse attraverso il comitato, con l’appoggio dei capi religiosi di Damasco, ma senza portare molto frutto. Il loro appello alla riduzione della dote si scontrava con la mentalità dei siriani, che vedono la felicità di una sposa solo nella ricchezza e opulenza, con la conseguenza di dissipare il valore del dono nuziale nell’acquisto di lussuosi corredi per le spose. Anzi, molti genitori, come sottolinea il comitato, si considerano umiliati se accettano doti basse.
A quasi 80 anni di distanza la situazione in Siria non è cambiata. I matrimoni diminuiscono sempre più, soprattutto nelle città, dove il tenore di vita è più alto. Nella società siriana contemporanea la dote è forse ancora più consistente di quanto non fosse in passato. È diventato un reale problema sociale, che balza agli occhi leggendo il giornale, ascoltando la radio o guardando la televisione.
Parlando con ragazzi e ragazze, prima o poi si arrivava ad affrontare questo argomento. Il matrimonio per alcuni giovani è quasi un sogno. Impossibile per molti riuscire a racimolare almeno una piccola parte di quello richiesto dalla famiglia della ragazza.
La situazione delle ragazze non è tanto migliore; spesso si vedono proporre uno sposo molto più attempato di loro: un uomo che, per accumulare una dote, si sposa in età più che matura.

Elisabetta Bondovalli




Il buddhismo impegnato

Continua il viaggio nel buddismo (Cfr M.C. dicembre
2003), attraverso l’incontro con due grandi«movimenti» impegnati
nella pace,nella nonviolenza
e nel sociale.
Seguirà nei prossimi mesi l’inchiesta su islam, cristianesimo, ebraismo.

SOKA GAKKAI
SCUOLA DI PACE

«Q uando gli esseri viventi assistono alla fine di un kalpa1 e tutto arde in un grande fuoco, questa, la mia terra, rimane salva e illesa, costantemente popolata di dèi e di uomini.
Le sale e i palazzi nei suoi giardini e nei suoi boschi sono adoati di gemme di varia natura.
Alberi preziosi sono carichi di fiori e di frutti e là gli esseri viventi sono felici e a proprio agio.
Gli dèi suonano tamburi celesti creando un’incessante sinfonia di suoni.
Boccioli di mandarava piovono dal cielo posandosi sul Budda e sulla moltitudine.
La mia pura terra non viene distrutta, eppure gli uomini la vedono consumarsi nel fuoco: ansia, paura e altre sofferenze predominano ovunque» 2.

I l mondo sofferente è la «pura terra» del buddismo mahayana: la felicità non è in un luogo lontano e futuro, ma qui e ora, mentre si soffre, si lotta e si giornisce. Cioè, semplicemente, si vive. E tutti ne sono degni: uomini e donne, grandi e piccini, deboli e potenti, e di tutte le nazionalità. Il mondo intero, dunque. Tutti hanno la «buddità» e possono farla emergere dal profondo della propria esistenza, dovunque si trovino e in qualunque momento lo decidano, senza attendere momenti migliori, altre vite o altri mondi. È una condizione innata, permanente, ma… nascosta nelle profondità dell’essere. E va tirata fuori.
Questo è il messaggio «rivoluzionario» del monaco giapponese vissuto nel 1200: Nichiren Daishonin, un importante riformatore della corrente buddista mahayana.
Sul Sutra del Loto, uno dei testi sacri tramandati dal Buddha Shakyamuni (vedi M.C. dicembre 2003), il Daishonin incentrò la propria dottrina e insegnamento, sia a livello pratico sia teorico, basato sull’incoraggiamento, diretto a uomini e donne di ogni ceto sociale, a far riemergere la «buddità», l’illuminazione, dalla propria vita e a intraprendere così una rivoluzione umana, che porta anche a un profondo cambiamento nella società.
«Nel secolo xi il Giappone fu percorso da una serie di guerre tra monasteri che, diventati centri di potere economico, erano protetti da monaci guerrieri (sohei).
Dall’anno Mille il buddismo cominciò a conoscere un periodo di decadenza, mentre il paese era scosso da disastri di vario tipo; per questo motivo si svilupparono correnti di riformatori: lo Zen (con le due scuole di Soto e Rinzai), l’Amidismo e la scuola del monaco Nichiren Daishonin.
Quest’ultimo merita una speciale rivalutazione, perché la sua opera di riformatore (basata sul Sutra del Loto), molto decisa nelle confutazioni dottrinali e assolutamente nonviolenta nella pratica, per lungo tempo è stata giudicata, anche su importanti testi di storia del buddismo, intollerante e violenta. Lo spirito che animava il Daishonin era quello di restaurare il corretto insegnamento buddista, che si era perso anche per il connubio dei monasteri con il potere economico-politico»3.
A causa delle proprie idee, subì persecuzioni, esili, condanne. Ciononostante continuò la predicazione insegnando la strada verso l’illuminazione.
Nato in Giappone nel 1222, Nichiren aveva iniziato a studiare giovanissimo, com’era tradizione, in un tempio, divenendo monaco. Nel 1253 aveva proclamato che l’unico modo per raggiungere l’illuminazione e portare la pace nel paese era recitare il titolo del Sutra del Loto (in sanscrito, Saddharma-pundarica sutra, in giapponese Myo ho renge kyo) facendolo precedere dal titolo devozionale di Nam. Questo mantra si può tradurre con «Mi dedico alla mistica legge del Loto» (dove il Loto simboleggia la legge di «causa-effetto» presente nell’universo).
Come pratica, era ed è prevista la recitazione di questo mantra, e di due capitoli del Sutra: Hoben e Juryo. In Hoben «Shakyamuni afferma che la buddità è accessibile a tutti gli esseri e che ci si arriva solo con la fede (non con la conoscenza); in Juryo viene rivelato il Budda originale, cioè l’essenza e la saggezza cui tutti i budda partecipano.
Qual è la differenza tra un budda e una persona normale? Nessuna, secondo il Daishonin: «Quando una persona è illusa – scrive Nichiren – è chiamata comune mortale, ma una volta illuminata è chiamata Budda. Anche uno specchio appannato brillerà come un giorniello se viene lucidato. Una mente annebbiata dalle illusioni, derivate dall’oscurità innata della vita, è come uno specchio appannato, che però, una volta lucidato, diverrà chiaro e rifletterà l’illuminazione alla verità immutabile. Risveglia in te una profonda fede e lucida il tuo specchio notte e giorno. Come puoi lucidarlo? Solo recitando: Nam myo ho renge kyo».
«Oggetto di culto» davanti a cui recitare sutra e mantra è il gohonzon, «oggetto perfettamente dotato», il mandala che egli incise nel 1279 «per osservare la propria mente».

L a Soka Gakkai (Società per la creazione di valore) è uno dei movimenti del buddismo mahayana giapponese che si rifà alla scuola Nichiren. Fu fondata nel 1930 dal pedagogo Tsunesaburo Makiguchi (1871-1944), insegnante, direttore scolastico e saggista. Egli fu perseguitato per i suoi modelli pedagogici, che si opponevano all’autoritarismo della scuola giapponese e per la sua avversione alla guerra. Morì in carcere nel 1944.
Oggi i membri della scuola da lui fondata sono presenti in tutto il pianeta e ammontano a oltre 14 milioni (30 mila in Italia). Essi provengono dalle più diverse esperienze esistenziali, culturali e sociali.
L’attuale presidente della Soka Gakkai internazionale, lo scrittore e pacifista giapponese Daisaku Ikeda, è promotore di messaggi di nonviolenza, tolleranza e difesa dei diritti umani e sociali in tutto il mondo.
Obiettivo di questo movimento è l’incoraggiamento a compiere la propria auto-riforma interiore, vincere limiti e paure e raggiungere i propri obiettivi nel pieno rispetto della dignità della vita e dell’ambiente.
Caro alla Soka Gakkai è il principio di kosen rufu: atteggiamento di compassione, tolleranza e lotta per i diritti dell’uomo e dell’ecosistema e diffusione della pace a livello planetario. Una pace che, prima di tutto, parte dal superamento dei conflitti interiori, delle lacerazioni intee e si estende all’ambiente circostante.

Thich Nhat Hanh
sfida alla violenza
dei singoli e nazioni

«Q uando siamo arrabbiati, lo sappiamo, dovremmo evitare di reagire, in particolare di fare o dire qualunque cosa. Non è saggio dire o fare qualcosa quando sei in collera; è più urgente tornare a te stesso per prenderti cura della tua rabbia.
La rabbia è un campo di energia, fa parte di noi, è un bambino che soffre di cui dobbiamo prenderci cura. Il modo migliore di farlo è generare un altro campo di energia che possa abbracciare la rabbia e prendersene cura. Questo secondo campo è l’energia della presenza mentale. È l’energia del Budda; ne possiamo disporre perché siamo capaci di generarla con il respiro e la camminata consapevoli. “Il Budda dentro di noi” non è un mero concetto, non è una teoria o una nozione, è una realtà: noi tutti siamo capaci di generare l’energia della presenza mentale.
Presenza mentale significa essere presenti, essere consapevoli di ciò che sta accadendo» 4.

M onaco buddista-zen, vietnamita,Thich Nhat Hanh è famoso in tutto il mondo per il coraggioso impegno contro le guerre, le violenze e ogni forma di intolleranza religiosa, politica e culturale. Ha circa 80 anni, ma ne dimostra molti di meno.
Pacifista instancabile, negli anni della guerra in Vietnam si è adoperato senza sosta per la riconciliazione tra il nord e il sud del paese; ha soccorso i boat people e ha presieduto la delegazione buddista ai colloqui di pace di Parigi. E ancora oggi si schiera a favore dell’umanità sofferente, senza distinzione di fedi, di nazionalità o di ceto. Coraggiose sono le sue posizioni contro lo sfruttamento delle risorse terrestri, degli esseri umani e contro ogni forma di conflitto.
Negli anni ’60, a causa dell’impegno contro la violenza che stava colpendo la sua gente, è stato bandito sia dal governo non comunista sia da quello comunista; dal 1966 vive in esilio in Francia, dove, agli inizi degli anni ’80, ha fondato una piccola comunità. Qui insegna, scrive, lavora la terra e opera in favore dei rifugiati di tutto il mondo.
È molto attivo nel condurre training di «pienezza mentale» in Europa e Nordamerica, in aiuto di veterani, bambini, psicoterapeuti, artisti e migliaia di persone alla ricerca di pace interiore e planetaria.
Thich Nhat Hanh è monaco dall’età di sedici anni. È conosciuto in molti paesi sia come scrittore (in Italia sono decine i libri pubblicati da varie case editrici), relatore e, soprattutto, come leader religioso di un movimento noto come buddismo impegnato, che unisce le tradizionali pratiche di meditazione con la disobbedienza civile attiva nonviolenta. Da questo movimento, a Saigon, è sorto il più importante centro di studi buddisti: An Quang Pagoda.
Tra le sue tante iniziative ricordiamo la creazione di un’organizzazione di raccolta fondi per la ricostruzione dei villaggi vietnamiti distrutti; l’istituzione di una «Scuola giovanile per il servizio sociale» e di un corpo di pace per buddisti che lavorano in questo ambito; la pubblicazione di una rivista dedicata a tematiche pacifiste. È inoltre molto attivo nell’incoraggiare i leaders mondiali a usare lo strumento della nonviolenza nella risoluzione dei conflitti.
Lasciando il Vietnam, Thich Nhat Hanh si era posto l’obiettivo di diffondere il buddismo in tutto il mondo: nel 1966 si era recato negli Stati Uniti e, durante discorsi in campus universitari, incontri con politici e amministratori, aveva spiegato quale strada percorrere per porre fine alla guerra con il Vietnam. L’anno seguente, il premio nobel per la pace, Martin Luther King, lo aveva candidato per la stessa onorificenza.
Il vecchio sogno di Thich Nhat Hanh, realizzare una comunità dove la gente impegnata in opere di trasformazione sociale possa trovare momenti di riposo e nutrimento spirituale, si è concretizzato nel Plum Village, costruito nel cuore dei vigneti di Bordeaux, sud-ovest della Francia, che ospita una trentina di monaci, suore e laici. Migliaia sono anche i residenti transitori, uomini e donne, provenienti da tutto il mondo (e delle più diverse nazionalità, religioni e culture) a cui il monaco zen spiega come vivere in armonia e piena consapevolezza il momento presente e come apprezzare la vita.
La sua filosofia non è limitata a strutture religiose preesistenti, ma si rivolge al desiderio di pienezza e di calma interiori dell’individuo.

«V orrei soffermarmi sulle “cinque facoltà”, così come vengono insegnate e praticate nella tradizione buddista.
La prima è la fede. È una facoltà che abbiamo dentro di noi; e sappiamo che la fede è molto importante. La fede è un’energia che ci rende pienamente vivi. Prova a guardare negli occhi una persona senza fede: non ha vita. Se invece quella persona è animata dall’energia della fede, i suoi occhi scintillano; gliela leggi sul viso o nel sorriso. Quindi non possiamo permetterci di non avere fede. È una forma di energia, di potere.
Talvolta le “cinque facoltà” vengono presentate come cinque poteri. La fede è un potere. Con il potere della fede diventi molto attivo, non ti fermi davanti ad alcuna difficoltà o stanchezza, puoi far fronte a qualsiasi avversità.
L’energia della fede porta alla seconda facoltà: la diligenza. Sei attivo e hai in te energia e gioia. Ti piace… uscire e andare tra la gente per aiutarla a trasformare la propria sofferenza e cominciare ad assaporare la gioia del praticare. Ti piace innaffiare i semi positivi della consapevolezza e lasciare inaridire quelli negativi.
Spinto dalla fede, diventi una persona attiva e, praticando con diligenza, sviluppi dentro di te un altro tipo di energia chiamata presenza mentale, che è la terza facoltà…
La presenza mentale ti aiuta a guardare alle meraviglie della vita come fonte di nutrimento e guarigione. Ti aiuta anche ad abbracciare le tue afflizioni e a trasformarle in gioia e libertà.
Secondo gli insegnamenti del Budda, la vita può essere vissuta solo nel momento presente. Se sei distratto, se la tua mente non è lì con il corpo, perdi il tuo appuntamento con la vita…
Se c’è presenza mentale, allora c’è anche un altro tipo di energia, quella della concentrazione: la quarta facoltà… Quando vivi con concentrazione entri in contatto profondo con il mondo che ti circonda e inizi a comprenderne la profondità. Questa si chiama visione profonda…
Questo genere di comprensione è chiamata visione profonda, ed è l’ultima delle “cinque facoltà”. La visione profonda è frutto di un’esperienza diretta… Se vivi con una persona e non sai molto di lei, significa che non vivi con la realtà di quella persona, ma con il concetto che tu hai di lei…
Sei passato attraverso la sofferenza, la felicità, il confronto diretto con ciò che esiste, ed è su questo che si basa la tua fede. Nessuno te la può portare via. Può solo continuare a crescere. Se alimenti questo tipo di fede dentro di te, non diventerai mai un fanatico, perché la tua fede è una fede vera e non l’aggrapparsi a un concetto»5.

I suoi scritti. Sono più di settantacinque, tra saggi, raccolte di poesie e preghiere. Tra quelli pubblicati in Italia, ricordiamo il bellissimo volume Spegni il fuoco della rabbia, edito negli oscar Mondadori; Il segreto della pace. Trasformare la paura, conoscere la libertà e La luce del Dharma. Dialogo tra cristianesimo e buddhismo, sempre per la Mondadori; Insegnamenti sull’amore, per la Neri Pozza; Il Buddha vivente, il Cristo vivente, Editrice Tea; Perché un futuro sia possibile. Il Sutra per i discepoli laici del Buddha, Astrolabio; Essere pace, Ubaldini. •

Note

(1) Un lunghissimo periodo di tempo.
(2) Capitolo «durata della vita del Tathagata, ne Il Sutra del Loto, Milano 1998, e in «Felicità in questo mondo», ne Gli scritti di Nichiren Daishonin, cap. 4.
(3) Da Buddismo, a cura di R. Minganti, Firenze 1996.
(4) Thich Nhat Hanh, Spegni il fuoco della rabbia, Mondadori, Milano 2002, pag. 53.
(5) Thich Nhat Hanh, La luce del Dharma. Dialogo tra cristianesimo e buddhismo, Milano, 2003, pagg. 61-63.

Angela Lano




Missione a Plati

Cari missionari,
un amico mi ha consegnato Missioni Consolata indicandomi l’articolo «Lamponi a Natale» (dicembre 2003). Con mia grande sorpresa e gioia si afferma: «È giunta l’ora della missione ad gentes anche in Europa»!
Da anni vivo in un campo rom alla periferia della bella e turistica Pisa, mosso dalla convinzione che gli istituti missionari (appartengo ai Saveriani) oggi sono chiamati ad «allargare» ad intra la dimensione ad gentes… Mi rallegra sapere che voi ponete la questione sul tavolo. Vi fa onore. Buona missione.

L’articolo «Lamponi a Natale» riguarda Platì (RC), dove la missione «scotta». Anche per i missionari ad gentes.

p. Agostino Rota




NO ALLA ZIZZANIA

San Pedro / Incontro con Barthélemy Djabla (Costa d’Avorio)
Nato nel 1936, sacerdote dal 1964, rettore
del seminario di Abidjan, mons. Barthélemy Djabla
è da 12 anni vescovo di San Pedro, diocesi grande
tre volte il Veneto. Attento alla vita del paese,
ha partecipato al Forum per la riconciliazione
nazionale ed è impegnato nella ricostruzione
della convivenza tra tutte le popolazioni
della regione sud-occidentale della Costa d’Avorio.

Monsignore, qual è la situazione
attuale della Costa d’Avorio?

La popolazione della Costa d’Avorio, nel
suo insieme, è molto accogliente. Siamo
il paese dell’ospitalità e frateità.
Numerose persone dei paesi della Comunità
economica degli stati dell’Africa
dell’Ovest (Cedeao) e di altre parti
del continente sono immigrati nel nostro
paese. Il fenomeno si è accentuato
dopo l’indipendenza (1960). Li abbiamo
accolti e continuiamo ad accoglierli
frateamente. Vorrei ricordare
che la Costa d’Avorio è il paese al mondo
con la più alta percentuale di stranieri:
ufficialmente sono il 26%. È giusto
che questo si sappia all’estero.

Cos’è che attira tanti immigrati
nel paese?

Prima di tutto cercano pace; poi guadagnarsi
da vivere. Abbiamo milioni di
ettari di foresta e le porte del commercio
sono aperte a tutti. Questi nostri
fratelli si sono stabiliti in città e villaggi
per il piccolo commercio; altri sfruttano
le foreste con la coltura del cacao,
caucciù, caffè e piantagioni varie.
Ben presto essi hanno trovato tempo
per il divertimento e per lavorare, naturalmente;
grazie all’accoglienza fratea,
si sono bene integrati nelle nostre
comunità e nei villaggi.

Sembra che la pacifica convivenza
tra locali e immigrati dal
Burkina Faso sia in pericolo:
monsignore, cosa sta capitando
realmente?

Come ho già detto, la Costa d’Avorio è
un paese di accoglienza: i burkinabé
vivono mescolati ai vari gruppi etnici
locali. Non c’erano problemi fino a pochi
anni fa. Per capire ciò che sta accadendo,
bisogna analizzare le cose in
profondità e non è difficile.
Nel 1990 il presidente Houphouët Boigny
mise un economista a capo del governo:
fu un errore, anche perché non
risolse i problemi economici del paese.
Questo primo ministro si chiama Alassane
Dramane Ouattara: approfittando
della sua posizione, ha iniziato un lavoro
sotterraneo per destabilizzare la
situazione. Aveva ambizioni politiche,
ma ha agito in modo scorretto: ha messo
gli stranieri in opposizione agli avoriani.
Questa è la realtà.
La situazione è precipitata col colpo di
stato del natale 1999: in varie città ci
sono stati disordini socio-politici, violenze
e scontri sanguinosi. Ma il male
viene da là.
Qualcuno ha parlato di xenofobia…
Gli scontri etnici non hanno nulla da
spartire con la xenofobia e il razzismo,
che in Costa d’Avorio non esistono affatto.
Tutto viene da là: alcuni politici,
calpestando leggi e diritto, sfruttano
le differenze etniche degli autoctoni
per metterli in contrasto tra loro
e i burkinabé contro le popolazioni locali
della regione sud-occidentale del
paese.

Quindi anche nella diocesi di San
Pedro si sono avute violenze?

Nel novembre 1999, dopo decenni di
pacifica convivenza con gli stranieri,
commercianti e agricoltori, nella parrocchia
di Tabou i burkinabé si sono
scontrati con i locali sulla questione
terriera. Alcuni sono morti. Ma il problema
è fondiario e non etnico.
Per sfuggire alle violenze, 2-3 mila persone
si sono rifugiate nella missione,
dove hanno trovato protezione e aiuti
per sopravvivere. Superata l’emergenza,
bisognava trovare i mezzi per
promuovere la riconciliazione: la missione
cattolica di Tabou ha radunato
a Grebo i preti della diocesi insieme ai
capi locali e burkinabé per discutere,
chiarire e appianare i problemi tra stranieri
e autoctoni. Abbiamo concluso
l’incontro con la messa e tutti si sono
stretti la mano.

Si è parlato pure di guerra di religione:
come sono i rapporti tra
cristiani e musulmani?

In Costa d’Avorio le relazioni tra cristiani
e musulmani sono state sempre
buone e amichevoli. Poi è venuto un
individuo che, per motivi politici, ha
seminato la zizzania della discordia tra
autoctoni e stranieri, tra cristiani e musulmani.
Per colpa di tale individuo ci
sono state gravi incomprensioni nel
paese, sfociate in distruzioni e saccheggi
di edifici religiosi nell’ottobre
del 1999. I musulmani si sono armati.
Sono state trovate armi nascoste nelle
moschee: una scoperta che non ha fatto
piacere ai cristiani.
Anche in questa diocesi cristiani e musulmani
vivevano in pace, finché il seminatore
di zizzania non ha portato la
discordia. Ora la situazione è migliorata;
ma bisogna lavorare per ricucire
gli strappi e riparare il male fatto.
C’è chi afferma che, dopo i presidenti
cristiani e del sud, sia
ora che un uomo del nord e musulmano
guidi le sorti del paese.
Dall’indipendenza a oggi nella Costa
d’Avorio si sono succeduti presidenti
cattolici: Boigny, Bédié e l’attuale
Gbagbo. Ma il ragionamento è del tutto
sbagliato. La presidenza del paese
non è un problema di chiesa o di religione,
ma di gioco democratico. La
gente sceglie il candidato che presenta
il programma migliore. La chiesa
non s’immischia in politica, nel senso
che non si schiera con nessuno, né indica
quale candidato votare, ma lascia
ai fedeli piena libertà di scelta.
E poi, dividere il paese tra nord musulmano
e sud cristiano è totalmente falso;
tale divisione esiste solo nella testa
dei politici. Nel nord i musulmani sono
più numerosi che nel resto del paese,
ma ci sono anche molti cristiani e la
maggioranza della popolazione segue
la religione tradizionale e simpatizza
più per il cristianesimo che per l’islam.

Qual è il ruolo della chiesa nella
vita del paese?

La maggioranza degli avoriani pratica
la religione tradizionale. I cristiani non
raggiungono il 20%. La chiesa cattolica
è una minoranza, ma gode di grande
prestigio agli occhi di tutti, cristiani,
pagani e musulmani, a tale punto
che, quando sorge una situazione difficile,
tutti guardano alla chiesa, ai vescovi,
a cosa dicono e come si comportano;
e i loro suggerimenti vengono
accolti con rispetto e attenzione.
Tale prestigio deriva dal fatto che la
chiesa lavora per la pace e la giustizia,
è coinvolta nell’azione sociale, educazione
e campo sanitario per il bene di
tutta la popolazione, senza alcuna distinzione:
la chiesa è per tutti e, come
dice il papa, «è esperta in umanità».
Monsignore, lei ha partecipato
al Forum per la riconciliazione…
Tra ottobre e dicembre 2001 si è svolto
tale evento che abbiamo accolto con
favore. Vi ho partecipato come rappresentante
della chiesa e come testimone
dei problemi che hanno provocato
le violenze nella diocesi. Oltre 700 delegati
di partiti politici e gruppi religiosi
hanno affermato la volontà di rimarginare
le ferite e ricostruire la convivenza
pacifica delle varie componenti
sociali. Sono state prese delle decisioni,
che ora devono essere attuate. Il
vero lavoro deve ancora incominciare e
siamo tutti coinvolti e responsabili.
Anche a San Pedro vogliamo contribuire
a tale processo. Stiamo preparando
un sinodo dal tema: «Annunciare
la buona novella di Gesù Cristo alle
popolazioni del sud-ovest della Costa
d’Avorio». Usiamo il plurale di proposito,
poiché tali popolazioni, autoctone
e straniere, sono numerose, ma devono
costituire una famiglia unica nel
sud-ovest avoriano; tutte devono vivere
in pace. È questa la missione nostra
e della chiesa in Costa d’Avorio: far sì
che tutte le etnie vivano e lavorino frateamente.

A proposito, qual è la situazione
della diocesi di San Pedro?

È una diocesi giovane: è stata creata il
23 ottobre del 1989, staccandola dal
territorio di Gagnoa. Si estende per una
superficie di 35 mila kmq e conta oltre
un milione di abitanti: è una popolazione
cosmopolita, composta da stranieri
di molte nazionalità africane e
tutte le etnie autoctone del paese.
In questi 10 anni abbiamo accelerato
l’organizzazione pastorale con la creazione
di nuove parrocchie: ora sono 13.
Abbiamo un buon numero di agenti di
pastorale: missionari stranieri, preti fidei
donum, tre sacerdoti autoctoni e
numerose suore: tutti, missionari e
missionarie, religiosi e clero locale lavorano
insieme in perfetta comunione.
Inoltre abbiamo trasferito la cattedrale
dalla città in questa zona, poiché la
cappella costruita nel primitivo quartiere
era troppo piccola e non c’è spazio
per sviluppare altre opere. In questa
zona, ribattezzata quartiere cattedrale,
abbiamo ottenuto un grande
terreno in cui sono stati già costruiti
un centro di formazione, l’episcopio,
una scuola cattolica e un grande salone,
che per ora funge anche da chiesa
parrocchiale.
La cattedrale è ancora in fase di progettazione;
ma un giorno riusciremo a
realizzare anche quest’opera.

Quali problemi e quali speranze
per San Pedro?

La regione del sud-ovest è stata trascurata
prima e dopo l’indipendenza.
La diocesi è molto estesa e buona parte
è foresta. Fino a una dozzina di anni
fa una pista congiungeva Abidjan a
San Pedro e Tabou. Ora abbiamo la strada
asfaltata che lega la capitale alla
frontiera con la Liberia. Ma le vie di comunicazione
con l’interno sono ancora
costituite da piste e sentirneri impraticabili,
specialmente durante i mesi delle
piogge. Speriamo che, con lo sviluppo
economico della regione, sia possibile
estendere l’evangelizzazione anche a
quei villaggi che non hanno ancora incontrato
un missionario.
Inoltre le strutture (scuole, chiese…)
sono scarse e mancano mezzi e personale
per costruirle.
La pastorale vocazionale è una priorità
della diocesi. Le vocazioni ci sono; bisogna
seguirle e formarle per avere preti
autoctoni. Abbiamo due diaconi diocesani;
presto saranno ordinati preti.
La carenza maggiore riguarda le comunicazioni
sociali, indispensabili per
l’evangelizzazione: abbiamo bisogno di
una radio cattolica, giornali e pubblicazioni
di vario genere per trasmettere
il messaggio del vangelo anche ai villaggi
più isolati.

Quali sono le iniziative più significative
nel campo della promozione
umana?

La Caritas è attiva in tutte le parrocchie.
Religiosi e religiose sono impegnati
in numerose iniziative di promozione
umana, come le varie attività di
formazione umana e religiosa che i padri
della Consolata hanno intrapreso
nella baraccopoli di San Pedro; un fratello
della Consolata si occupa della salute,
con il dispensario di Grand Béréby
e la formazione di agenti di pastorale
sanitaria nelle comunità della foresta.
In molte comunità esistono scuole di
alfabetizzazione.

Un’ultima domanda, monsignore:
cosa si aspetta per il futuro
dai missionari della Consolata?

Prima di tutto li ringrazio per aver portato
nella diocesi uno spirito veramente
missionario e un entusiasmo di cui
abbiamo bisogno. Grazie soprattutto
per la disponibilità: hanno scelto di lavorare
nella baraccopoli del Bardot, la
zona più difficile della diocesi; hanno
aperto una missione a Sago, nel cuore
della foresta; hanno accettato una terza
missione a Grand Béréby.

Per il futuro? Auguro loro di continuare
a lavorare come sanno fare. Se aprissero
una nuova missione, non potrei
chiedere di più.

Benedetto Bellesi




I GRANDI MISSIONARI: Il vangelo gridato con la vita


Annalena Tonelli Missionaria laica, per 33 anni a servizio dei più poveri e disprezzati tra le popolazioni somale, Annalena Tonelli ha testimoniato l’amore di Dio con radicalità evangelica fino alle estreme conseguenze.  È salita alla ribalta solo dopo la sua morte, assassinata nel suo ospedale, a 60 anni.

Piccola ed esile come una canna, viso magro circondato dal velo, occhi azzurri di bambina, sorriso disarmante e volontà di ferro: il ritratto di Annalena Tonelli è presto fatto. Ha speso oltre metà della vita tra le popolazioni somale musulmane, con un solo scopo: amare Cristo nei più poveri dei poveri, fino alla morte, 5 ottobre 2003, assassinata alla fine del servizio ordinario ai suoi malati.
Ha sempre aborrito riflettori e pubblicità. In rare occasioni ha parlato di sé e del suo lavoro, per poi rammaricarsi. Nel dicembre 2001, in un convegno per la Pastorale della salute tenuto in Vaticano, costretta dagli amici, accettò di mettere in pubblico la sua storia straordinaria: è il suo «testamento missionario».


IL PRIMO AMORE
«Sono nata a Forlì, il 2 aprile del 1943. Scelsi di essere per gli altri che ero ancora bambina» cominciava così le sue testimonianze.
Mentre frequentava l’Università di Bologna, ferquentò movimenti giovanili «terzomondisti»: si appassionò alla vita di Albert Schweitzer e all’opera dei missionari.
Laureata in giurisprudenza, per sei anni prestò servizio ai poveri della città natale, ai bambini e bambine orfani e disabili.
«Credevo di non potermi donare totalmente rimanendo nel mio paese: i confini della mia azione mi sembravano così stretti, asfittici». Sognava l’India; scelse l’Africa, nonostante i familiari la sconsigliassero. «Partii decisa a gridare il vangelo con la vita, sulla scia di Charles de Foucauld, che aveva infiammato la mia esistenza. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri in Lui».
All’inizio del 1969 era a Chinga, in Kenya, insegnante nella scuola secondaria della missione di Karima; l’anno seguente in quella governativa di Wajir, dove un altro romagnolo, Salvatore Baldazzi, missionario della Consolata, aveva avviato una Girl’s Town, per bambine orfane di guerre e carestie. Lo stesso anno fu raggiunta da Maria Teresa e insieme iniziarono una comunità.
Gli inizi non furono facili in quella regione desertica del nord-est del Kenya, tra popolazioni somale poverissime, rigidamente musulmane. Quando si seppe dell’arrivo di una maestrina bianca, gli studenti, quasi suoi coetanei o di poco più giovani, giurarono al preside che le avrebbero impedito di entrare in classe: vi insegnò fino al 1974 e fu pure preside della scuola secondaria di Mandera. Oggi molti di essi occupano posizioni importanti nella vita politica ed economica del Kenya e si vantano di averla avuta come insegnante.
«Quasi subito m’innamorai di un bimbo ammalato di sickle cell (anemia falciforme) e fame – racconta Annalena -. Gli donai il sangue e supplicai gli studenti di fare altrettanto. Uno di loro lo donò e dopo di lui tanti altri, vincendo così la resistenza dei pregiudizi. Fu la mia prima esperienza in cui, in un contesto islamico, l’amore generò amore».
Nel frattempo aprì un Centro di riabilitazione per bambini poliomielitici, ciechi, sordi, epilettici. Altre amiche romagnole si unirono a loro, diventando mamme a tempo pieno dei disabili.
«Eravamo una comunità di sette donne, tutte, in maniera e misura diverse, assetate di Dio. Quando capivamo che stavamo per perdere il senso del nostro servizio e la capacità di amare, ci ritiravamo in un eremo, per uno o più giorni di silenzio, ai piedi di Dio: là ritrovavamo equilibrio, saggezza, speranza e forza per combattere la battaglia di ogni giorno, prima di tutto con ciò che ci tiene schiavi dentro».
Mentre le compagne portavano avanti il Centro, Annalena frequentava il reparto dei tubercolosi dell’ospedale di Wajir. «M’innamorai di loro e fu amore per la vita. Erano in un reparto da disperati: li servivo sulle ginocchia; stavo loro accanto quando si aggravavano e non avevano nessuno che si occupasse di loro. Non sapevo nulla di medicina. Cominciai a studiare e osservare, poi a supervisionare la cura dei pazienti dopo la dimissione dall’ospedale».

UN PROGETTO PILOTA
La scoperta di una nuova medicina rendeva possibile curare la Tbc in 6 mesi, anziché i 12-18 richiesti fino allora, purché la cura fosse continua e regolare: condizioni impossibili per i nomadi che, al primo segno di miglioramento, ritornavano alla vita randagia.
Nel 1976 il governo del Kenya le affidò la direzione di un progetto pilota per il controllo e cura della tubercolosi a Wajir. Annalena inventò un sistema per garantire le terapie giornaliere per i sei mesi necessari, senza cambiare le abitudini dei pazienti: organizzò centri di cura a cielo aperto, chiamati T.B. Manyatta (villaggio). I nomadi arrivavano con le loro capanne legate sulla groppa dei cammelli, le smontavano e ricostruivano la loro abitazione. Fatte le diagnosi con l’esame dello sputo al microscopio, per sei mesi le foiture dei farmaci erano assolutamente regolari e l’ingestione rigorosamente supervisionata. Quando il malato era guarito, veniva sparsa la voce e la famiglia del paziente appariva magicamente in una settimana o poco più per riportarlo nel deserto.
«La T.B. Manyatta fu una grande avventura d’amore, un dono di Dio» confessa Annalena. Nel 1978, a Nairobi, tale esperienza fu presentata al Congresso mondiale sulla tubercolosi: il metodo venne subito adottato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e, col nome Dots (acronimo inglese per «breve terapia sotto diretta osservazione»), è ora applicato in tutto il mondo.

GENOCIDIO SCONGIURATO

Nel febbraio del 1984, alcuni camion di militari irruppero in alcuni quartieri di Wajir, incendiando case e arrestando i somali del gruppo degodia, accusati di essere shifta (predoni) o legati alla guerriglia: 5-6 mila uomini furono presi e rinchiusi nell’aeroporto Wagalla; per quattro giorni vennero sottoposti a torture e angherie. Cosparsi di benzina e incendiati, la maggior parte riuscirono a salvarsi togliendosi i vestiti. I sopravvissuti furono caricati sui camion e abbandonati nel deserto.
Quando si sparse la notizia della liberazione, la gente corse alla ricerca dei loro uomini, portando cibo e acqua. Annalena fece altrettanto. Così testimonia Barbara Lefkow, moglie di un diplomatico americano, fisioterapista che spesso si recava al Centro di riabilitazione: «Dipinse una croce rossa sulla Toyota, portò acqua ai sopravvissuti, li raccolse e li curò nel suo Centro; riuscì a salvae molti. Compilò e mi consegnò una lista di morti, perché la portassi a Nairobi di nascosto».
Sorpresa dai miliziani a seppellire i morti, Annalena fu picchiata. La difese un vecchio capo musulmano, confessando che lui non aveva fatto nulla per salvare la sua gente, mentre quella «straniera» aveva rischiato la vita; e gridò forte, perché tutti lo sentissero: «Nel nome di Allah, io ti dico che, se noi seguiremo le tue orme, noi andremo in paradiso».
Gioali e Bbc parlarono a lungo dell’intervento di Annalena; la lista dei morti e poi le fotografie arrivarono nelle ambasciate di vari paesi occidentali: il governo kenyano dovette porre fine al genocidio. «Avrebbero dovuto sterminare 50 mila persone. Ne uccisero mille» racconta Annalena.
Sfuggita miracolosamente a due imboscate, la missionaria fu arrestata e, portata davanti alla corte marziale, fu bandita dal Kenya nel 1985.

L’AMORE FA MIRACOLI

Dopo qualche mese in Italia, Annalena andò in Spagna per seguire un corso di specializzazione sulla lebbra, poi in Inghilterra, dove conseguì il diploma in medicina tropicale. Nel 1987 partì per la Somalia e prestò servizio volontario a Belet Weyne, in una struttura medica che faceva capo al ministero degli Affari esteri italiano e diventò responsabile del controllo della tubercolosi della regione del nord-est.
Intanto nel paese dilagava la guerriglia: nell’agosto del 1990, insieme al suo team di medici e infermieri, fu aggredita, derubata e sequestrata da un gruppo di ribelli. Le truppe governative riuscirono a liberarli. Per la seconda volta Annalena era miracolosamente viva, ma strappata ai suoi poveri e malati. Da Mogadiscio continuò a spedire loro aiuti e medicinali.
Costretta a lasciare temporaneamente la Somalia, Annalena vi fece ritorno nel marzo del 1991, a Merca, 50 km a sud di Mogadiscio. Vi regnavano anarchia totale e fame nera, come nel resto del paese, privo di tutto: ospedali, dispensari, scuole.
Con grinta da manager e il coinvolgimento della Caritas italiana, prima in denaro e poi con l’invio di volontari, Annalena fece fronte alle varie emergenze: carestia, rifugiati, bambini soli e affamati, bisognosi d’ogni genere e costruì un complesso sanitario e scolastico che ha del miracoloso.
«Cercò di creare speranza, incoraggiando la gente a muoversi, a ricostruire, specialmente se stessi – scriveva in una lettera del 1993 -. Siamo 8 europei, con 131 collaboratori somali: prepariamo 5 mila pasti al giorno; curiamo l’ospedale per Tbc con 148 pazienti, il day hospital con 250 bambini, più di 400 pazienti in terapia antitubercolare, piccoli gruppi di lebbrosi ed epilettici». Organizzò classi elementari e artigianato per i bambini, scuole coraniche per piccoli e grandi, di alfabetizzazione per adulti.
Al tempo stesso Annalena doveva lottare contro l’ambiente culturale. «La tubercolosi – racconta nel suo testamento – è stigma e maledizione: segno di una punizione di Dio per un peccato commesso, aperto o nascosto; per cui si incontra gente che si rifiuta di essere diagnosticata, curata e guarita, per non ammettere di essee affetta».
Furono anni drammatici, che la missionaria sintetizza così: «Sono stata tra guerre e conflitti, testimone di devastanti carestie, violazioni di diritti umani e genocidio: credevo che in vita mia non avrei mai più sorriso, se fossi sopravvissuta a quelle catastrofi».
Tenerissima con i poveri e malati, Annalena era rocciosa e inflessibile con i potenti e prepotenti. Negli ultimi due anni dovette affrontare estenuanti beghe, ricatti, ripetute minacce, un’aggressione e qualche percossa da parte di predoni, capi clan, signori della guerra, fondamentalisti islamici: tutti attirati dall’odore dei dollari che arrivavano per le opere di Merca. Finché passò il testimone a una dottoressa inviata dalla Caritas italiana, Graziella Fumagalli, assassinata tre mesi dopo, con tre colpi d’arma da fuoco alla testa, mentre stava curando un ammalato: era la domenica del 22 ottobre 1995, giornata missionaria mondiale.

«PRINCIPESSA DI BORAMA»
L’Oms le affidò l’ospedale di Borama, cittadina di 100 mila abitanti nel Somaliland, regione relativamente tranquilla nel nord-ovest del paese. Vi arrivò nel 1996. L’accoglienza non fu cordiale: i bambini tiravano i sassi contro la sua casa, gridando: «Allah, tieni lontano quel diavolo bianco!». Ma poi, col passare del tempo, governatore, sindaco, anziani, capi clan e tutto il villaggio era con lei, fino a darle il nome di «Sara Borama» (principessa di Borama). Gli adulti la chiamavano mamma, i bambini nonna.
Cominciò da zero. Con l’aiuto di organismi mondiali (Oms, Unhcr, Undp) e nazionali (Caritas, Comitato contro la fame nel mondo di Forlì) l’ospedale passò da 30 a 250 posti letto, più un centinaio di capanne; uno staff di oltre 50 persone tra medici, infermieri e tecnici di laboratorio; 118 pazienti curati il primo anno; 1.300 il secondo.
Due volte all’anno organizzava campagne per i ciechi: in quattro giorni, un gruppo di amici specialisti operavano di cataratta oltre 330 pazienti: più di 3.700 persone hanno riacquistato la vista.
Al tempo stesso fu avviata la scuola per i figli dei tubercolosi e disabili (la prima in tutta la Somalia e Djibuti), poi ampliata per accogliere i «normali», diventando una fucina di integrazione, tra alunni «normali» e bambini poliomielitici, mutilati di guerra, ciechi, sordi, rifiuti della società (figli di fabbri, conciatori, barbieri, etnie disprezzate). Per vivere e giocare con i sordomuti, i «normali» hanno imparato l’alfabeto muto.
«È una delle esperienze più consolanti e incoraggianti, più capaci di dare speranza in un mondo in cui gli uomini vorranno essere e saranno una cosa sola» racconta Annalena.
Nell’aprile 2003 l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), le assegnò il Nansen Refugee Award, il più importante premio assegnato a chi si occupa di profughi. Oltre a riconoscere la sua opera e i valori a cui si ispira, disse l’alto commissario Ruud Lubbers, il premio voleva «dimostrare che con mezzi limitati, ma con passione ed energia senza limiti, molte vite possono essere salvate e riaccendere la speranza in molti disperati».
Schiva da ogni visibilità, Annalena avrebbe voluto rinunciare; ma gli amici la convinsero a ritirare il premio (una medaglia e 100 mila dollari), anche perché quella era un’occasione per attirare l’attenzione sulla sua «amata Somalia».

«SONO NESSUNO»
A chi le domandava come facesse a gestire una struttura ospedaliera per mille malati, spendendo appena 1.000 dollari al mese, rispondeva: «Nessun segreto: non ho due basi a Nairobi e in Europa o in America; non ho da pagare stipendi da capogiro al personale espatriato; non compro nulla all’estero».
Essa stessa viveva nella più dignitosa e radicale povertà: due tuniche, due scialli e qualche libro era tutto il suo corredo. «Io sono “nobody”, nessuno – diceva di se stessa -. Vivo a servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza stipendio, senza versamento di contributi per la vecchiaia. Sono una cristiana, con una fede incrollabile, rocciosa, che non conosce crisi dai tempi della giovinezza… che mi manda avanti in condizioni di grande difficoltà».
Ed era felice. «Io impazzisco, perdo la testa per i brandelli di umanità ferita – si legge nel suo testamento -; più sono feriti, maltrattati, disprezzati, senza voce e di nessun conto agli occhi del mondo, più li amo. Non è merito, ma un’esigenza della mia natura. Rido di chi pensa che la mia sia una vita di rinuncia e sacrifici. La mia è pura felicità; chi altro al mondo ha una vita così bella?».
Unica «sofferenza indicibile» era la povertà spirituale: non aveva nessuno che condividesse la sua fede rocciosa e con cui condividere ciò che provava e sentiva dentro, eccetto il vescovo di Djibuti che, due volte l’anno, attorno a natale e pasqua, andava a Borama per celebrare la messa solo per lei e con lei.
A Borama, come era capitato a Wajir, la gente pregava per la sua «salvezza», cioè, perché diventasse musulmana. Gliene parlavano spesso, con discrezione. Ma, dopo che un imam aveva predicato che in tutta la sua vita non aveva mai visto fare quello che faceva quella «infedele» e che anch’essa sarebbe andata in paradiso, la lasciarono in pace.
Integrata profondamente nella vita della gente, Annalena poteva dire: «Ai somali molto ho dato. Dai somali molto ho ricevuto». Tre doni soprattutto: il valore della famiglia allargata, in cui tutto è condiviso, almeno all’interno del clan; l’esempio di preghiera, cinque volte al giorno, con l’interruzione di qualsiasi cosa per dare tempo e spazio a Dio; l’esempio di fede rocciosa, specie dei nomadi del deserto, l’abbandono incondizionato e la resa a Dio.
E continua: «Poi la vita mi ha insegnato che la mia fede senza l’amore è inutile… che l’eucaristia racchiude un messaggio rivoluzionario: “Questo è il mio corpo, fatto pane, perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini”».

L’ULTIMA BEATITUDINE
Ma agli occhi dei musulmani più fanatici Annalena aveva tre vizi capitali: era bianca, per cui considerata di razza inferiore a quella somala; era donna, per ciò di nessun peso in una società maschilista; era cristiana, quindi temuta, disprezzata, rifiutata; non era sposata, un assurdo in un mondo in cui il celibato non esiste ed è un non valore.
Inoltre, tubercolosi, Aids, disabilità, epilessia, malattie mentali… per gli integralisti sono sinonimi di castigo di Dio: Annalena aveva fatto di Borama un paese maledetto, screditato in varie parti del mondo dove era giunta la fama della sua opera.
Negli ultimi due anni, poi, Annalena aveva lottato contro certe aberrazioni culturali: con due infermiere ostetriche e due capi locali, portava avanti una grossa campagna per eradicare l’infibulazione e altre mutilazioni femminili. A qualcuno non andava a genio che una donna, bianca, infedele, cercasse di cambiare la loro cultura.
Un imam predicò che quella «infedele» se ne doveva andare: un gruppo di persone presero a sassate il centro ospedaliero, che dovette essere chiuso per tre mesi. Seguirono altre intimidazioni, finché la sera di domenica 5 ottobre 2003, appena rincasata dal solito giro in ospedale, Annalena fu assassinata con due colpi di pistola alla testa.
Si è parlato di un pazzo, di banditi, di vendetta, di fondamentalisti… Serve a poco scoprire il colpevole. Rimane la verità e la logica di tutta la sua esistenza: Annalena ha predicato il vangelo con la vita, vivendolo fino all’ultima beatitudine: «Vi perseguiteranno per causa mia; mentendo, diranno ogni male contro di voi; vi metteranno a morte, credendo di dare gloria a Dio».

Benedetto Bellesi




CAPO VERDE – Baciate dal sole, sferzate dai venti

Una dozzina di isole, di cui solo nove abitate.
Non arrivano brutte notizie: non vi è televisione
e il telefono funziona male. Gente amabile e allegra,
povera, ma dignitosa, in lotta contro le carestie,
sostenuta dai cappuccini piemontesi.

I l volo dura quasi sei ore. Sorvoliamo il deserto tra Marocco e Mauritania, poi un largo tratto di oceano, prima di atterrare su un lembo di terra arida, scura e inospitale. Poco più di una piattaforma che consente di atterrare in mezzo all’oceano. E siamo a Sal, una delle 9 isole abitate dell’arcipelago di Capo Verde. L’aeroporto fu costruito dagli italiani durante il fascismo, quando gli aerei dovevano sostare per i rifoimenti di carburante, prima di raggiungere il Brasile.
I volontari che hanno viaggiato con me proseguono per l’isola di Fogo, dove devono montare la sala operatoria dell’ospedale del centro San Francesco dei cappuccini piemontesi. Siamo partiti con un piccolo bagaglio a mano, per lasciar posto alle attrezzature da trasportare.
Per molti di essi questo non è il primo viaggio a Fogo. Maria Teresa Monte, moglie di un medico di Buttigliera, è da anni impegnata nel cornordinare la raccolta di materiale e apparecchiature ospedaliere. Artigiani, medici, architetti, vengono a passare nella missione parte delle loro vacanze con grande entusiasmo.
TRA ELISEI A ANTIELISEI
I primi a raggiungere l’arcipelago di Capo Verde furono forse navigatori arabi. I portoghesi arrivarono qualche anno prima della scoperta dell’America, insieme a un genovese, Antonio da Noli. Situate nel cuore del mondo, nel crocevia fra Europa, Africa e Americhe, le isole divennero poi la base per i traffici col Nuovo Mondo, compreso il mercato degli schiavi africani.
Durante i secoli della conquista coloniale arrivarono olandesi e francesi, inglesi e italiani. Le isole si popolarono così di gente di diverse lingue e tradizioni.
Il vento ha sempre avuto un ruolo importante. Gli alisei, che soffiano per 6 mesi verso ovest, aiutavano i navigatori nella traversata. Per altri sei mesi riportavano in Europa le navi, sospingendole però verso una rotta più a nord. In inverno arriva anche l’harmattan, un forte vento sahariano, che rende aride e polverose le campagne.
Nei secoli scorsi vi sono stati terribili periodi di carestia, che provocavano la morte per inedia di un’alta percentuale di abitanti.
Oggi ci sono molti più capoverdiani all’estero che in patria; le loro rimesse contribuiscono in modo determinante al benessere delle isole. L’area di Boston (Usa) e i paesi europei sono i preferiti. Tra questi il Portogallo, che ha dovuto concedere l’indipendenza nel 1975, dopo secoli di dominio coloniale.
Capo Verde ora è una repubblica democratica indipendente, che ha migliorato le condizioni di vita dei suoi abitanti e ha stretti rapporti con la comunità internazionale.
I cappuccini arrivarono nel 1945 a Mindelo, città portuale dell’isola di São Vicente, al seguito dell’esercito inglese, che li aveva inteati dopo la conquista dell’Eritrea. Ritornati in Italia, avevano descritto ai superiori la situazione drammatica trovata nell’isola. Le carestie sono sempre state una costante nell’arcipelago; il cui clima estremamente arido non consente coltivazioni redditizie.
DAL SALE AL SURF
L’isola di Sal deve il suo nome all’unica risorsa: una salina dalle strutture abbandonate, nel centro di un cratere. Oggi, i suoi abitanti cercano di fare conoscere il loro mare e le spiagge a un turismo di sportivi. Gli amanti del surf vi trovano le condizioni ideali per praticarlo.
Il paesaggio è lunare, segnato da strade diritte e incroci con strade inesistenti. Qualche gruppo di nuovi edifici lungo la costa non migliora l’ambiente. Solo i colori vivaci delle vecchie case riescono a rompere una monotonia deprimente.
Un breve volo ci porta a Praia, capitale dell’arcipelago, situata sull’isola di Santiago. La sera scende improvvisa. Le luci e il traffico fanno apparire Praia vivace e attiva.
La mattina una bruma grigia pesa sull’orizzonte. Il nucleo di edifici coloniali è situato su uno sperone alto sul porto, dove arrugginiscono le carcasse di due navi abbandonate. Troverò colore e suoni nel mercato degli alimentari accanto alla cattedrale. La gente è bella e fiera, risultato di incroci tra arabi e africani, portoghesi e altri europei. La cultura è particolare, la musica sicuramente è la parte più interessante.
A Praia i cappuccini hanno un’amica, Tetè, cantante magnifica, che ama il nostro paese e si è anche esibita a Torino, al Piccolo Regio, per far conoscere le opere di padre Ottavio. La sera la trascorriamo nella sua casa in riva all’oceano, insieme ai tre figli e al marito, un dentista messicano conosciuto durante gli studi fatti a Cuba.
Dopo l’indipendenza (1975), Capo Verde è stata a lungo nell’orbita sovietica, con stretti rapporti di collaborazione con Cuba. I medici nelle isole sono in gran parte cubani.
ALL’OMBRA DEL VULCANO
Fogo, l’isola scelta da padre Ottavio Fasano per il centro socio sanitario di «San Francesco», è un vulcano tuttora in attività. L’ultima eruzione risale al 1996: gli abitanti dovettero essere evacuati.
Questo cappuccino, nato a Racconigi, entusiasta e testardo, dopo aver realizzato molte opere nell’arcipelago a favore della popolazione (asili, ristrutturazioni e costruzioni, cistee), con l’aiuto del torinese Mario Bollito, nel 1992 ha fondato Radio Nova, che trasmette tutti i giorni e copre tutte le isole, e un settimanale Terranova.
Convinto che anche i cappuccini dovessero entrare nel mondo dei media con professionalità e competenza, nel 1982 aveva fondato a Torino la Nova T, casa di produzione televisiva, che vende in tutto il mondo. Recentemente ha fatto scalpore il fatto che uno dei loro filmati sulle guerre dimenticate sia stato acquistato da una televisione araba.
Arriviamo sull’isola di Fogo mentre è in programma l’inaugurazione della centrale elettrica, che darà la luce a un villaggio. I generatori vengono dall’Italia, donati ai cappuccini. Arriviamo sul posto nell’oscurità totale. Due ministri di Capo Verde sono presenti, insieme al sindaco di São Felipe e a padre Ottavio, che da anni mantiene cordiali rapporti con il governo. Dopo lunghi discorsi, finalmente si effettua il collegamento: i lampioni si illuminano tra l’emozione generale.
Padre Ottavio ora sta per realizzare un sogno: dotare l’isola di una struttura medica modea e attrezzata anche per le urgenze chirurgiche. Il centro San Francesco sorge in una magnifica posizione sull’oceano, a poca distanza dal capoluogo dell’isola, São Felipe. Gli ambulatori, divisi per specialità e perfettamente attrezzati, sono già operativi. La piccola chiesa, al centro del complesso, e la foresteria devono ancora essere completati, ma la comunità è attiva e impegnata.
Tra i numerosi volontari incontro Attilio, impegnato tutto il giorno come dentista. Anacleto è neurologo psichiatra: ha girato il mondo ed è approdato qui, dove pare vi sia molto bisogno delle sue cure. Il dott. Durando è chirurgo alle Molinette di Torino, appassionato velista, da anni coinvolto nei progetti dei cappuccini. Questa è la quarta volta che trascorre le ferie lavorando al centro.
Iolanda è la veterana del gruppo: analista di laboratorio, da quando è andata in pensione, due anni fa, si è trasferita a Fogo. Oramai conosce tutta l’isola e, con il suo carattere espansivo, tiene i contatti tra il centro e la gente del posto.
Grazie all’appoggio dei cappuccini, alcuni giovani capoverdiani hanno trascorso un periodo di studio in Italia, presso l’istituto alberghiero di Mondovì, ospiti di famiglie piemontesi. Mentre i suoi compagni hanno trovato lavoro nei villaggi turistici di Sal, Edna è rimasta a São Felipe, per lavorare nel centro.
Padre Ottavio ha in mente un nuovo progetto: costruire sui terreni donati dalla comunità capoverdiana un complesso residenziale, da affittare ai turisti: il ricavato contribuirà a mantenere il Centro che, data la sua importanza, avrà bisogno di notevoli risorse.
Dobbiamo far conoscere l’incanto di queste isole, fortunatamente ancora lontane dal turismo di massa. I paesaggi qui possono provocare sensazioni forti, ma il sorriso e l’amabilità della gente rende il soggiorno piacevole.
Per chi ha la forza di affrontare tre ore di fatica, l’ascesa al vulcano è un’esperienza da non perdere. Una giovane guida ci indica i punti in cui è meglio passare, perché il sentirnero non è segnato. Guardando dal basso le pareti lisce del vulcano, non avrei creduto di poter arrivare fin sul ciglio del cratere, un sottile orlo di rocce che riesco a raggiungere aiutandomi a forza di braccia. Lo spettacolo è grandioso, con l’oceano ricoperto da una coltre di nubi.
L’ULTIMO LEBBROSO
Casa Betania è un complesso di case bianche, circondate da oleandri, costruito in epoca coloniale in un luogo isolato e suggestivo, a pochi passi dal mare. Era un lebbrosario; ora ospita l’ultimo lebbroso, un anziano che soffre molto, a causa di un arto incurabile, che dovrà essere amputato.
Suor Teodora, una delle tre suore francescane del centro di San Francesco, ha deciso di portarlo a Praia, dove sarà accudito. «Se potessi restare accanto a lui, non soffrirebbe così» mi confida la suorina dal sorriso dolcissimo.
Nell’arcipelago ci sono diverse congregazioni di suore, tutte capoverdiane. Teodora è nata a Fogo, dove ha studiato in una scuola cattolica. Quando a tredici anni espresse il desiderio di farsi suora, trovò l’opposizione dei genitori. I sette fratelli maggiori di lei erano già emigrati a Boston, dove avevano trovato lavoro. Suor Teodora aveva le idee molto chiare. Sarebbe rimasta nell’isola, per aiutare la sua gente.
Ora, a distanza di anni, i genitori sono molto contenti di averla vicina. L’estate ricevono le visite di figli e nipoti americani. Quasi tutti gli emigrati ritornano, dopo una vita di lavoro all’estero. Intanto restaurano le vecchie abitazioni o ne costruiscono di nuove, dove trascorrono le vacanze.
«MANDATEMI… TURISTI»
Tutta l’isola di Fogo è magnifica, dominata dal cono perfetto del suo vulcano. Le spiagge hanno la sabbia fine, lucente e nerissima. L’oceano fa paura, con le onde gigantesche e la risacca. Ma si possono trovare cale tranquille, tra le rocce vulcaniche.
Le strade sono belle, pavimentate con piccole tessere di pietra, un lavoro fatto durante l’epoca coloniale dalle maestranze locali. Nel capoluogo, il nucleo di case coloniali ha colori pastello e comprende un vivace mercato, la chiesa, un piccolo museo delle tradizioni, tenuto da una signora svizzera, che ha deciso di passarvi il resto dei suoi anni.
Padre Orfeo, battagliero e deciso, abita a Mosterios, villaggio sulla costa nord di Fogo. Un luogo isolato, povero, umido, con qualche casa sparsa, tra campi coltivati. Strane piante succulente ricoprono le rocce vulcaniche a strapiombo sullo stretto litorale.
Qui la vita è molto semplice: si sopravvive lavorando la poca terra, che sembra molto fertile. Orfeo alleva galline, cura un asilo e la chiesa, che avrebbe urgente bisogno di restauro. «Mandatemi turisti, non volontari – dice con gli occhi lampeggianti -. Qui devo far lavorare la gente, stimolare i giovani: abbiamo bisogno di denaro».
Con le offerte che riceve, Orfeo aiuta gli studenti più bravi a proseguire negli studi. Quando i ragazzi si inseriscono nel mondo del lavoro, restituiscono quanto hanno ricevuto; così vengono finanziati altri giovani.
Originario di Bassano del Grappa, Orfeo partì giovane missionario per l’Angola, colonia portoghese. Restano i ricordi della foresta dove si trovava la missione, un «paradiso» a 600 metri sul mare, circondata da miniere di rame e piantagioni di caffè.
Arrivato a Capo Verde 25 anni fa, dopo essere stato a São Vicente, Sal e São Nicolão, Orfeo ha trascorso a Mosterios gli ultimi 12 anni. Una sua frase mi rimarrà impressa. «Più si diventa vecchi, più la vita diventa bella». Tutte le mattine, 80 bimbi affollano la mensa dell’asilo, mangiano uova e carne di pollo. «La soia che mi mandano fa i vermi e la do ai maiali» precisa.
Poi si parla di turismo, ma quale? Forse quello consapevole, che cerca di scoprire le realtà dei paesi, non solo sfruttae le bellezze e il clima. Le isole non sono una meta facile, la natura pare ostile, forse più di quello che è in realtà. Sarà anche per via delle rocce vulcaniche, drammatiche nelle forme e nel colore. Ma per chi è alla ricerca di luoghi lontani da traffico, mondanità e rumori, questo è un posto giusto.

Claudia Caramanti