CIADMedici laici in missione

Il racconto semplice, ma convinto
di una giovane coppia di medici, che ha voluto
«affondare la sua radice» in terra africana.
In nome della fede, alimentata dalla «linfa vitale»
di una frateità a tutto campo.

«Siamo stranieri, ma ci sentiamo a casa; abbiamo imparato a vivere una vita più semplice, ma piena di senso. Per la sua precarietà, le storie di cui veniamo a conoscenza, gli stessi impegni che abbiamo, la vita in Ciad ci richiama continuamente al senso ultimo della vita. Abbiamo affondato nell’humus della terra una nuova radice, che speriamo ci renda più solidi e nutra la nostra famiglia con la linfa vitale della frateità e comunione». Con queste parole Emanuela e Paolo hanno voluto terminare il racconto che mi hanno fatto della loro esperienza missionaria: sei anni vissuti con amore e fede sul territorio africano.

VOGLIA DI CONDIVIDERE

Entrambi medici, si sono incontrati per la prima volta a un corso di medicina tropicale, organizzato dal Cuamm di Padova. Spiega Emanuela: «Indipendentemente l’uno dall’altra, inseguivamo il forte desiderio di dedicare almeno una parte della nostra vita professionale a un paese in via di sviluppo e tutti e due eravamo orientati all’Africa».
Già qualche anno prima di approdare a Padova, avevano avuto modo di toccare da vicino la realtà sanitaria africana: Emanuela era stata in viaggio in Uganda, presso un ospedale missionario; Paolo aveva visitato un ospedale del Burkina Faso, entrambi gestiti da medici del Cuamm. Sono state proprio queste brevi esperienze che hanno fatto crescere il desiderio di passare più tempo sul suolo africano e li hanno spinti a seguire il corso padovano.
Due anni dopo il primo incontro, nel 1993, si sono sposati; pur continuando a pensare, prima o poi, di fare le valigie, hanno cominciato a lavorare in Italia, frequentando scuole di specializzazione in linea con il corso che la loro vita stava prendendo: Emanuela medicina intea e Paolo pediatria.
«In quegli anni, in Italia si era verificata una grande crisi della cooperazione internazionale – ricorda Paolo -. In seguito al crollo del muro di Berlino, gran parte degli investimenti era stata “dirottata” all’Europa dell’Est. Altro duro colpo fu lo scandalo del Fondo Aiuti Italiano (Fai), sull’onda di mani pulite».
Aggiunge Emanuela: «Cercavamo contratti per partire come cooperanti per un periodo minimo di due anni e non ne trovavamo. Da quegli anni in poi si è sviluppata la moda dell’emergenza e contratti a breve termine: sei mesi, massimo un anno. Come prima esperienza, ciò non ci interessava; eravamo convinti che ci volesse un certo tempo per entrare in contatto con la realtà».
Un periodo così breve non avrebbe, infatti, permesso di calarsi fino in fondo nelle situazioni locali, di capire il modo di vivere della gente; avrebbe permesso di portare un aiuto isolato, sicuramente valido ma, per certi versi, fine a se stesso; mentre quello che cercava la giovane coppia era la costruzione di rapporti umani, l’integrazione, per quanto possibile, con la popolazione del posto, per costruire con loro qualcosa che rimanesse nel tempo, oltre il giorno del loro rientro in Italia.

PRIMA… MISSIONARI

Mentre ragionavano sul loro futuro, una coppia di amici, Marta e Marco, si stava preparando a partire per l’Africa, come missionari laici. «Avevamo conosciuto il centro in cui seguivano la formazione, a Piombino in Toscana (Centro frateità missionarie, vedi riquadro) e spesso li accompagnavamo, perché ci sembrava una formazione molto bella, che avrebbe potuto servire anche a noi» ricordano con piacere.
«In effetti, per noi la dimensione della fede restava fondamentale e ci chiedevamo in che modo poterla vivere, anche in un’esperienza prettamente professionale come quella della cooperazione. Nei nostri viaggi in Uganda e Burkina Faso avevamo entrambi notato come la fede fosse sì la motivazione fondamentale di molti, ma spesso restava in secondo piano nella vita concreta, a causa del sovraccarico di lavoro e richieste infinite. Inoltre, ci sembrava che la vita dei cooperanti fosse tutta tesa all’apporto professionale, senza un contatto normale, quotidiano, con la gente, se non quello di medico-paziente. A poco a poco, continuando a seguire la formazione a Piombino anche dopo la partenza dei nostri amici per il Ciad, ci siamo resi conto che la proposta del Centro frateità missionarie poteva fare al caso nostro».
Una presa di coscienza abbastanza faticosa per tutti e due: «Ci veniva chiesto di spogliarci, almeno momentaneamente, del ruolo di medici che a noi stava tanto bene… Prima di tutto dovevamo sentirci inviati, cioè missionari, portatori dell’annuncio evangelico».
All’inizio sembrava tutto troppo difficile. Ma i numerosi aspetti della proposta del Centro frateità missionarie hanno avuto la meglio. «Alla fine del 1996 è arrivata la proposta della frateità di N’Djamena, che era allora composta proprio da Marta e Marco e da don Aldo, della diocesi di Milano. Vivevano insieme da due anni nella periferia della città» racconta Paolo.
Dopo un viaggio conoscitivo e il sì definitivo, lasciato anche il lavoro, la coppia ha dedicato tutto il 1997 a una preparazione più approfondita: un mese al Centro di Piombino; il corso al Centro unitario missionario (Cum) a Verona; due mesi e mezzo in Ciad per imparare il francese; sei mesi al corso di medicina tropicale ad Anversa, in Belgio. «Sono state tutte occasioni preziose, sia per approfondire la riflessione sul cammino che ci accingevamo a percorrere, sia per conoscere tante persone con cui abbiamo iniziato bellissime amicizie. Già nel periodo di preparazione cominciavamo a ricevere il centuplo promesso!» tiene a sottolineare Emanuela.

«TORNIAMO A CASA?»

«Il 4 aprile 1998 siamo arrivati a N’Djamena – continua Emanuela -. Una data impossibile da dimenticare: in piena stagione calda e la peggiore degli ultimi 30 anni! Il termometro arrivava a 48-50 gradi all’ombra. La casa, disabitata da qualche mese, perché Marta e Marco erano in Italia per ragioni di salute, era sepolta sotto uno strato di polvere. C’era di che scoraggiare i più intrepidi. Giovanni, il nostro primogenito, che allora aveva due anni, dopo un’ora ha esclamato: “Papà, adesso torniamo a casa!”. Era quello che tutti pensavamo». Invece Emanuela e Paolo non si sono mossi e sono ancora lì, dopo sei anni!
Nonostante il quadro scoraggiante, almeno per chi vive in Europa, la loro prima impressione, fortissima e che ancora conservano, è stata la gente: nonostante tutto vive ed è contenta. Di fronte a tutto quello che hanno iniziato a vedere e toccare con mano, durante i primi mesi di permanenza sono stati assaliti da un senso di inutilità: «È un sentimento che ci sembra bene risvegliare ogni tanto, per ricordarci che qui non siamo eterni, che è la gente che deve essere protagonista delle scelte e che, se siamo qui, è per uno scambio, il più possibile alla pari».
Il primo anno è passato ad ambientarsi, conoscere le persone, i luoghi, fra cui le strutture sanitarie, imparare l’arabo ciadiano. Nello stesso tempo la coppia ha cercato di capire, anche con l’aiuto della chiesa locale, come mettere al servizio degli altri le loro conoscenze professionali. Così, dal 1999, Paolo ha cominciato a lavorare nell’ospedale governativo del quartiere dove vivevano ed Emanuela nel servizio diocesano per i malati di Aids, campo per il quale c’era stata una richiesta pressante da parte del vescovo.
Nel frattempo, nel marzo 1999, è nata la seconda bambina, Sofia. La famiglia che veniva dall’Italia ha così cominciato a prendere una forma accettabile per lo standard africano, due coniugi con un solo figlio non sono quasi considerati famiglia.
La presenza dei bambini che crescevano ha facilitato una conoscenza sempre maggiore del vicinato e un’integrazione a tutti gli effetti, come avevano sempre voluto: «I bambini non hanno barriere, spontaneamente si infilano nelle case altrui, cosa che qui è assolutamente normale; e noi, per recuperarli, abbiamo potuto conoscere gli adulti degli altri cortili che si affacciano sulla nostra strada» spiega Emanuela.

RITORNO… COME PARTENZA

Spesso, si pensa che chi vive in paesi «lontani» (geograficamente, economicamente o culturalmente) abbia un’organizzazione della giornata e della vita profondamente diversa dagli standard cosiddetti occidentali. In realtà, guardando lo scandire delle ore della numerosa famiglia di Emanuela e Paolo (nel frattempo è arrivato anche Carlo, che ora ha due anni), non si trovano grandi differenze.
Al mattino si accompagnano i bambini a scuola, che inizia alle 7,30. Si tratta di una scuola ciadiana, fondata da una chiesa protestante; nelle classi del ciclo elementare ci sono dai 50 ai 70 bambini, mentre l’asilo è meno frequentato. I loro figli sono gli unici europei, il che ha loro creato qualche difficoltà, vista la curiosità ai limiti dell’invadenza dei bambini africani.
Il ritorno da scuola è intorno a mezzogiorno, ora in cui cominciano le scorribande con i ragazzini del vicinato; una banda di una decina di scatenati, che giocano usando tutta la fantasia e l’energia possibili. Anche il più piccolino, Carlo, saltella dietro il gruppo contento di potersi associare ai giochi, più o meno sorvegliato dagli amici più grandi.
Come in un qualsiasi paese industrializzato, in cui mamma e papà lavorano, anche nella loro organizzazione familiare ci sono due donne che danno una mano nel curare i bambini e gestire la casa.
«Paolo ed io lavoriamo 3-4 giorni la settimana, in ambito sanitario. Abbiamo scelto di avere un impegno a metà tempo per conservare lo spazio per gli incontri di frateità: una volta la settimana sul vangelo della domenica successiva, un’altra per una riunione di riflessione su un aspetto della nostra vita, o più operativa se c’è qualche scadenza imminente. Spesso, comunque, le tre giornate di lavoro medico sono completate da riunioni e incontri che si svolgono soprattutto al pomeriggio. Qui non esiste una vita nottua, il tempo è gestito seguendo la luce solare. La sera, dopo cena, si è spesso così stanchi che non si può far altro che buttarsi sul letto».

Agiugno di quest’anno Emanuela e Paolo sono rientrati in Italia definitivamente: rientro previsto e non più procrastinabile, soprattutto a causa della scolarità dei figli. «Come le altre famiglie del Centro di Piombino già rientrate, consideriamo questo ritorno come una nuova partenza – spiega Paolo -. Ci metteremo in ascolto della realtà italiana, nella città in cui andremo a vivere e ci reinseriremo, come abbiamo fatto in Ciad; con la differenza che, questa volta, abbiamo già un minimo di conoscenza della cultura… Certamente non consideriamo questo tratto di vita come una parentesi da chiudere, ma come un tesoro da spendere nella nostra società italiana. La vita in Africa ci ha sicuramente cambiati: nelle piccole come nelle grandi cose».
Per Emanuela, che ha vissuto 30 anni in una città come Milano, è stata dura abituarsi all’interessamento continuo dei vicini africani sulla loro vita, ai saluti degli sconosciuti: «Qui si dice che, quando qualcuno ti saluta, vuol dire che sei vivo. Un africano si sentirebbe come morto in una delle nostre città, dove si è un po’ tutti indifferenti gli uni agli altri. Ho imparato il grande valore delle relazioni, anche fatte di cose apparentemente insignificanti. Inoltre, lo sforzo di inserirsi in una cultura diversa, la coscienza di essere stranieri (dunque, ospiti) ci ha insegnato una grande umiltà nell’approccio con gli altri. Molti pregiudizi che come occidentali abbiamo incamerato senza accorgercene, si sono dissolti come neve al sole».

Valeria Confalonieri




KENYAUna bibbia in ogni famiglia

All’inizio del 2004, in varie diocesi del Kenya si è svolta con successo la campagna
per la diffusione della bibbia nelle famiglie,
con l’invito alla lettura quotidiana della parola
di Dio. A Nairobi l’evento ha avuto luogo
nella parrocchia-santuario della Consolata.

Mentre cresceva nel villaggio rurale di Mwala, diocesi di Machakos, il futuro vescovo di Nairobi, Raphael Ndingi Mwana ‘a Nzeki, non ebbe mai l’opportunità di sedersi e leggere la bibbia, finché non entrò nel seminario maggiore. Non è che il ragazzo ignorasse le scritture. «Prima di tutto la bibbia era disponibile solo in latino; in secondo luogo la chiesa non sempre incoraggiava i laici a leggere le scritture» ha detto l’arcivescovo ai cristiani di Nairobi.
In quei giorni, la bibbia era apparentemente destinata solo al clero. Ma il Concilio Vaticano ii ha capovolto la situazione. Nel 1965 Paolo vi impresse un forte impulso alla costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, Dei Verbum, in cui si raccomanda di provvedere perché «tutti i fedeli abbiano facile accesso alle sacre scritture».
Negli ultimi 40 anni, la bibbia è stata tradotta in tutte le lingue del Kenya, ma l’abitudine di leggere non è diventata abbastanza popolare o, secondo l’umorismo protestante, molti cattolici hanno tale rispetto per la bibbia che non osano aprirla.
«Resta ancora tanto lavoro pastorale da fare, non solo per mettere la bibbia nelle mani dei cristiani, ma anche per aiutarli a capire quanto essa sia importante nelle loro esperienze quotidiane» ha detto Alexander Schweitzer, segretario generale della Federazione biblica cattolica (Cbf), mentre visitava il paese lo scorso febbraio. Egli si è rivolto agli agenti di pastorali perché suscitino la consapevolezza tra i cristiani sull’importanza delle sacre scritture come compagna quotidiana nel loro cammino spirituale.
È precisamente questo che le suore Paoline hanno messo in moto a Nairobi e Nanyuki, all’inizio dell’anno, organizzando la «giornata biblica», all’insegna del motto «la bibbia in ogni famiglia».
A Nairobi, l’evento ebbe luogo il 24 gennaio 2004 nella parrocchia-santuario della Consolata: con una solenne cerimonia fu intronizzata la bibbia, quindi l’arcivescovo Ndingi e il nunzio apostolico Giovanni Tonucci, insieme a vari studiosi, parlarono ai fedeli e risposero alle loro domande. A Nanyuki lo stesso evento fu preparato durante il mese di gennaio e concluso il 14 febbraio 2004.

LA BIBBIA: NON È UN LIBRO, MA UNA BIBLIOTECA

Nella sua presentazione, mons. Tonucci tracciò una breve storia della composizione della bibbia, spiegando che i 73 libri della bibbia cattolica (46 nel Primo e 27 nel Nuovo Testamento; i protestanti ne hanno solo 66) furono scritti da autori differenti, in circostanze storiche e culturali differenti, con linguaggi e stili differenti, in un periodo di mille anni. E questo, ha spiegato il nunzio, fa sì che la bibbia sia una biblioteca di libri da leggere con attenzione.
«I libri della bibbia furono scritti in ebraico e greco – ha continuato -. Ciò che noi oggi usiamo sono traduzioni; e benché i traduttori facciano del loro meglio, esse non sempre riflettono perfettamente gli originali». Portò l’esempio della parola Geova, presente in alcune traduzioni della bibbia e usato da alcuni cristiani come nome di Dio: tale termine, ha detto, non è mai esistito nelle versioni originali in ebraico e greco.
Anche i differenti stili usati nello scrivere la bibbia devono essere tenuti in mente quando si leggono le scritture. Alcuni libri devono essere letti come storia, altri come romanzi, altri ancora come canti; alcuni contengono testi per meditazione e preghiera, mentre altri riportano statistiche, come il 1° libro delle Cronache, che contiene 9 capitoli di numeri, ha continuato mons. Tonucci: «Puoi pregare e meditare sulla misericordia di Dio, rivelata nella parabola del figliol prodigo in Luca 15; non altrettanto si riesce a fare con i 9 capitoli delle Cronache».
Inoltre, la bibbia riflette le differenti culture del Medio Oriente antico: una comprensione di tali culture è essenziale per una lettura significativa delle scritture, ha spiegato il nunzio, aggiungendo che i cambiamenti che avvengono in una lingua attraverso il tempo incide sul significato originale delle scritture.

LA BIBBIA: È CIBO, NON MEDICINA

Nonostante queste difficoltà, i cristiani devono leggere regolarmente la bibbia, ha sottolineato il nunzio: «Essa è la parola vivente solo quando la leggi. Ai nostri fratelli e sorelle protestanti piace andare in giro con la bibbia sotto il braccio: buon per loro; per noi, la bibbia rimane in casa, dove la leggiamo con calma e tranquillità».
Egli ha pure messo in guardia sulla lettura selettiva e ha spronato i cristiani a leggee il libro o capitolo intero, perché la bibbia deve essere considerata come un pasto da consumare, non una medicina da ingoiare a piccole dosi quando sorge un bisogno. «La bibbia non è una miniera di buone citazioni per sostenere le proprie idee, ma una sorgente d’ispirazione nel suo insieme, e sempre sotto la guida della chiesa».
Il nunzio ha confutato la visione protestante, secondo cui la bibbia ha fatto la chiesa. «Non è la bibbia che ha creato la chiesa, ma il contrario: essa è esistita prima del vangelo scritto; è nata nella sala dell’ultima cena, sul calvario, a Pentecoste… La buona notizia della salvezza era già stata predicata molti anni prima che fosse scritto il primo libro del Nuovo Testamento. Più tardi, quando numerosi libri pretendevano di essere racconti della vita e lavoro di Gesù, fu la chiesa a selezionare quelli che erano genuini per essere inclusi tra le sacre scritture.

LA BIBBIA: GUIDA PER LA FAMIGLIA CRISTIANA

Arcivescovo Ndingi, dopo una breve riflessione sulla famiglia come «chiesa domestica», ha detto che la bibbia ha guidato il popolo di Dio nella sua vita quotidiana. «La paragono alla costituzione di una nazione – ha affermato, esortando le famiglie cristiane a fare della parola di Dio il centro della loro vita -. Nella famiglia ha inizio la chiesa universale… I membri della famiglia dovrebbero leggere ogni giorno un passo della bibbia per trae ispirazione».
Padre Henry Akaabian, direttore del Centro biblico per l’Africa e Madagascar (Bicam), ha parlato su come fare della bibbia la guida della propria vita. «Il mio richiamo ai cristiani africani è che abbiamo mancato di testimoniare i valori del vangelo con la nostra vita… Perché leggiamo ciò che Dio richiede da noi e poi non lo traduciamo nella vita delle nostre comunità?». Egli ha messo in risalto come la bibbia deve portare il cristiano a una vera conversione: non si tratta semplicemente di una conoscenza accurata di ciò che dice la scrittura, ma piuttosto di un personale incontro con Cristo.
Padre Vincent Kamiri, dell’Università cattolica dell’Africa orientale (Cuea), ha discusso sul ruolo di Maria nella bibbia e nella chiesa.

IN GUARDIA CONTRO GLI ABUSI

A Nanyuki, la «giornata biblica» ha avuto luogo nella parrocchia di Cristo Re. Mons. Tonucci è stato l’oratore principale. Rivolgendosi ai 10 mila fedeli del decanato di Nanyuki, ha ripetuto la presentazione fatta a Nairobi, quindi ha risposto alle domande presentategli in antecedenza.
Molte di esse tradivano l’influenza della predicazione protestante ed evangelica e riguardavano la Madonna, il sabato, le bevande alcoliche, l’uso delle immagini nel culto cattolico, uso dei pantaloni da parte delle donne, il fondamento biblico della data del natale… Oltre a mettere in guardia i cattolici contro l’uso errato delle sacre scritture, mons. Tonucci ha spiegato che la bibbia non dice nulla su argomenti scientifici. «Gli autori della bibbia hanno scritto libri di teologia e non di scienze. Per cui non si può sostenere che la teoria dell’evoluzione sia errata perché la bibbia parla di creazione. Essa non si occupa di verità scientifica».
Il nunzio si è rammaricato che molti cattolici siano stati fuorviati dalla lettura selettiva e interpretazione spuria della bibbia da parte di alcune chiese cristiane, prevalentemente fissate sul primo testamento.
Incoraggiando i fedeli a leggere la bibbia ogni giorno, egli ha pure avvertito che la verità nella bibbia non è questione di interpretazione personale: «Abbiamo bisogno della guida della chiesa per comprendere la scrittura» ha detto, aggiungendo che i cattolici non vedono la bibbia come unica sorgente di rivelazione divina, come avviene nelle altre denominazioni cristiane. Nella costituzione dogmatica Dei Verbum, la chiesa, mentre esorta i fedeli a sviluppare l’abitudine di leggere la bibbia, afferma che le tre sorgenti della divina rivelazione sono la sacra scrittura, la tradizione e l’insegnamento o magistero della chiesa.
La «giornata biblica» a Nanyuki si concluse con la celebrazione eucaristica, presieduta da mons. Nicodemus Kirima, arcivescovo di Nyeri.

Henry Makori




APPELLO KENYAViva Nairobi viva

Il 55% della popolazione di Nairobi (Kenya) vive in 168 baraccopoli, dove i servizi sono inesistenti. Il governo del Kenya ha deciso
la demolizione di 42 mila strutture (baracche, scuole, chiese, centri comunitari, cliniche, mercatini, ecc.), lasciando senza casa né speranza oltre 354 persone. Le demolizioni
sono già cominciate, senza preavviso né offerta
di alcuna alternativa o compensazione.
Il «Coordinamento delle parrocchie negli insediamenti informali» (slums) di Nairobi ha lanciato un appello per fermare le demolizioni
e avviare un tavolo di trattative serio, finalizzato a trovare soluzioni accettabili: limitazione dei trasferimenti, rilocazione concordata, indennizzi per gli sgomberati.
Varie associazioni e personalità inteazionali hanno aderito all’appello e lanciato la campagna «Viva Nairobi Viva», tra cui i volontari di AfrikaSì, impegnati negli slums della parrocchia della Consolata di Westlands, Nairobi
(vedi dossier in M.C. marzo 2004).

La notizia della demolizione sistematica degli slum a Nairobi ha colto noi operatori volontari in quel territorio di sorpresa, lasciandoci basiti.
Chi conosce gli slum sa perfettamente quali siano le condizioni di degrado estremo di quella realtà che si svolge al di fuori di ogni canone di vita compatibile con gli esseri umani. Ma cacciarli di lì senza alcuna azione concreta di ristrutturazione migliorativa o no, significa togliere loro l’unica risorsa di cui dispongono: la speranza.
È per dar loro la speranza di una vita accettabile e civile che noi di AfrikaSì andiamo laggiù a operare, immergendoci nella loro miseria materiale e spirituale e nella loro vita. Noi, un pugno di volontari, andiamo a portare il poco che possiamo materialmente, il tanto che abbiamo nel nostro cuore, commossi e profondamente turbati dal loro dolore, nascosto spesso dietro un sorriso e la rassegnazione.
Cacciarli di lì, da quei tuguri che rappresentano l’unico «bene» e certezza, non è propriamente un atto di civiltà, come si vorrebbe far credere, ma un ulteriore crudeltà della civiltà delle ruspe e della tecnologia.
Possiamo comprendere, noi occidentali, come spianare il loro fango misto a sterco, allontanando il loro fetore, possa essere liberatorio per noi, per le nostre case e la nostra «pulizia»; diversa forse la loro ottica. Buttar via quelle quattro assi e quegli stracci, unici loro beni, significa compiere l’ultimo gesto di negazione e di rifiuto, dopo aver loro rubato le terre, le case rurali, la realtà contadina decorosa e civile in chiave con le loro radici e tradizioni a favore del latifondo, con l’inganno supremo di un lavoro in città, con il miraggio di un benessere migliorativo.
Questo il primo passo della nuova Repubblica kenyana, il primo intervento nei confronti dei diseredati della terra.
«Son sempre i cenci che vanno all’aria» diceva Manzoni. Le ruspe contro le forchette come sempre, come adesso «esportare la democrazia» è il nuovo look politico di questa epoca che, nella sua grande violenza e ipocrisia, aggredisce i deboli, togliendo loro il molto o il nulla che posseggono, peraltro ammantando la prevaricazione, il sopruso, l’offesa sotto la veste etica della democrazia, foriera per definizione di libertà, benessere, bene assoluto.
Bene per chi? Non certo per coloro che non hanno voce, mezzi, armi per difendersi. Perché non fare altrettanto e quindi esportare le nostre ideologie sacre in quei paesi e territori ove la democrazia è carente, ma dove si incontrerebbe una reazione, una risposta altrettanto forte a difesa delle proprie radici, della propria terra, magari una risposta con armi tecnologiche altrettanto distruttive e offensive delle nostre? Semplice, questa è la legge dei prepotenti e dei vigliacchi di questo sporco mondo che, adducendo lo spettro del terrorismo, nascondono agli stolti e ai ciechi che esso nasce proprio dalla violenza, aggressività e ingiustizia e come il perpetuarsi di queste dinamiche sia la causa prima che alimenta la reazione dei poveri con le loro armi: pietre, sangue, pianti e disperata estrema reazione: il suicidio.
Con queste nostre semplici ma oggettive valutazioni, intrise di amarezza e di dolore, unite allo sconforto e all’impotenza intendiamo denunciare con grido lacerante la nostra più vibrata protesta insieme a quella di tutti coloro che vivono e soffrono con noi l’ingiustizia, la prevaricazione, la stupidità. Grido associato in modo irrevocabile alla nostra volontà di andare avanti e di combattere per questi sacri, eterni ideali.

Ennio Di Giulio




RUSSIACittadini russi e profughi ex sovietici

«Dov’è la propiska, la cittadinanza?».
È la domanda che milioni di ex cittadini sovietici
si sentono rivolgere, per poter vivere in pace
e con un minimo di garanzie.
Ma a cui non possono rispondere.
Nascono così le nuove ondate di «migranti forzati»dentro la propria patria. Senza un futuro.

Stavo raccogliendo materiale sui senzatetto in Russia e contattavo diverse organizzazioni umanitarie. «No, non ci occupiamo di senzatetto – mi sentii rispondere dall’altro capo del filo – ma di profughi». «Profughi a Mosca? Ceceni, probabilmente» azzardai io. «Non solo». Non indagai oltre in quell’occasione, ma lo feci in seguito. Si parla di 5, addirittura di 8 milioni di persone che hanno varcato i confini della Russia dai primi anni Novanta.
L’Urss ha smesso di esistere il 31 dicembre 1991. La mattina del 1° gennaio 1992, gli ormai ex-cittadini sovietici si risvegliarono abitanti di diversi paesi. Fuori dei confini della neonata Federazione Russa rimasero circa 25 milioni di persone, che vivevano nelle altre repubbliche dell’Unione Sovietica e che, fino al giorno prima, avevano avuto una posizione di preminenza, non solo dal punto di vista politico. Di punto in bianco essi si ritrovarono cittadini di seconda categoria rispetto agli indigeni, la cosiddetta «etnia titolare».
Diventarono gradualmente oggetto di discriminazione: impossibilità di fare carriera, licenziamenti, requisizione di alloggi, obbligo di utilizzare solo la lingua locale. Si cominciò a chiudere le scuole russe, giornali, radio: un desiderio di rivalsa nei confronti di quella che per secoli era stata la nazione dominante.
Tale reazione, presente non solo in tutta l’area ex-sovietica (eccetto in Armenia e Bielorussia), ma anche nell’Est-Europa, può essere, fino a un certo punto, comprensibile, sebbene mai giustificabile. Meno comprensibile è, invece, il fatto che la Russia faccia ben poco per difendere gli interessi dei russi delle repubbliche, nonostante abbia tutte le possibilità di esercitare pressioni in tal senso su quegli stati, assai inferiori a lei per peso politico ed economico. Non solo non li difende, ma crea ostacoli al loro rientro in patria, rendendo arduo l’iter per ottenere la cittadinanza.

<b<IMMIGRATI UNA RISORSA NECESSARIA

Caterina Belugina si era trasferita dalla Russia in Uzbekistan con la famiglia nel 1975; qui aveva terminato gli studi e iniziato la carriera di giornalista. Poi, nel 1992, aveva preso la cittadinanza uzbeka, per non essere costretta ad abbandonare immediatamente il paese.
Qualche tempo fa ha dovuto difendersi dall’accusa di diffamazione a seguito di un articolo, in cui denunciava il comportamento di un alto funzionario statale. Tutto il processo si è tenuto in uzbeko, che Caterina non conosce, e si è concluso con la sua condanna. Ha capito, allora, che quello non era più posto per lei e, come molti altri, si è rivolta al consolato russo per fare domanda di cittadinanza, primo passo per rientrare in patria con tutti i diritti.
«Era chiaro che non ne avrei cavato niente. Al consolato russo c’erano file di tre giorni, la gente dormiva fuori. Anche se fossi riuscita ad avviare la pratica, ci sarebbero voluti due anni e mezzo per ricevere la cittadinanza». Caterina non ha voluto aspettare tanto. È venuta a Mosca dalla sorella, abbandonando quasi tutti i propri averi.
«Avevamo un grande appartamento, l’abbiamo venduto per due soldi. Accade sempre così. Si sa che i russi sono costretti ad andarsene e devono accettare il prezzo che è loro offerto. Non ho portato con me quasi niente. Le tasse doganali erano troppo alte». L’amarezza maggiore Caterina la esprime nei confronti del proprio paese: «La Russia non aiuta i propri figli. C’era da noi un’invalida d’origine tedesca: la Germania non solo le ha dato la cittadinanza, ma le ha mandato una sedia a rotelle e l’ha aiutata a trasferirsi. Anche gli ebrei ricevono assistenza. Di noi, nessuno si occupa. Al contrario. Il nostro consolato a Tashkent chiede il pagamento delle spese consolari in dollari, quando tutti sanno che il possesso di valuta straniera è illegale in Uzbekistan e attira l’attenzione delle autorità».
Tutti gli stati occidentali sono messi in serie difficoltà dalla pressione degli immigrati stranieri sui propri confini; ma nel caso della Russia l’immigrazione è costituita principalmente dagli stessi russi (circa il 77%); e poi, il paese ha un gran bisogno di nuova energia, di braccia e cervelli; d’altri abitanti, insomma.
La catastrofica situazione demografica sta minacciando l’economia e la sicurezza dello stato. Il numero di coscritti al servizio di leva è già considerato insufficiente, tanto che nel dicembre 2003 il distretto militare di Mosca ha organizzato vere e proprie retate per le strade della capitale, fermando e arruolando a forza i giovani, senza dare loro nemmeno la possibilità di avvertire la famiglia.
Se l’emorragia non s’arresta, ci sarà presto penuria di forza lavoro e la necessità d’importare lavoratori e specialisti da altri paesi. Ed ecco che milioni di persone tornano a casa, hanno voglia di lavorare, sono disposte a fare di tutto, pur di ritrovare una vita dignitosa e sfamare la propria famiglia. Sono persone che hanno spesso alle spalle una solida esperienza professionale e anni di convivenza con altre culture, da cui sono stati arricchiti. Inoltre provengono da regioni di cultura musulmana, quindi non hanno abitudine al bere: una qualità assai preziosa per una nazione che paga un alto costo per l’eccessivo consumo di alcolici.

SENZA PERSONE, NESSUN PROBLEMA!

Stando ai dati del Ministero per le nazionalità e politiche migratorie, in Russia ci sono circa 900 mila persone con regolare status di Forced migrants (Fm) o di rifugiati. Sono cifre molto al di sotto della realtà. Basti pensare che dei 100 mila afghani arrivati durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan e rimasti anche dopo il 1989, solo 513 hanno ottenuto tale status; gli altri sono considerati illegali.
È indubbio che l’arrivo di tanta gente pone allo stato notevoli problemi. Affrontarli adeguatamente comporterebbe un grosso impegno, intelligenza, lungimiranza e lo stanziamento di appositi fondi. Nessuno ha ancora smentito il noto aforisma attribuito a Stalin: «Se c’è la persona, c’è il problema; se la persona non c’è, non c’è il problema». Si spiega così la riluttanza delle autorità a concedere lo status di Fm o profugo. Il rifiuto può essere motivato da ragioni formali, come il non rispetto dei termini di presentazione della domanda che molti, tra l’altro, ignorano; oppure può non essere motivato affatto.
Senza lo status i profughi sono considerati come stranieri arrivati di propria volontà e giuridicamente trattati di conseguenza, senza obblighi particolari. Ma anche verso i profughi ufficialmente riconosciuti come tali, le risorse messe a disposizione sono di gran lunga insufficienti a far fronte ai due bisogni fondamentali: casa e lavoro. Negli ultimi anni, tra l’altro, queste risorse si sono andate continuamente riducendo. Il 2002 ha visto drastici tagli delle spese sociali, e non solo in questo campo.
I migranti registrati presso i Servizi immigrazione vengono raccolti in centri dove possono vivere per anni in baracche precarie, senza servizi. Si cerca di mandarli in aree rurali, indipendentemente dal loro ambiente di provenienza e professione. Il principio è di ripopolare le zone che si stanno svuotando.
Di loro si occupano anche organizzazioni umanitarie inteazionali, in primis l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur), che in Russia è molto presente, e lo Iom (Inteational Organization for Migration). «Anche i migranti registrati hanno difficoltà a ricevere assistenza medica a causa del cattivo funzionamento del servizio sanitario statale – spiega Edwin McClain, responsabile Iom per la Russia -. Per questo abbiamo allestito ambulatori nelle zone di raccolta dei migranti. Purtroppo, abbiamo risorse limitate; quindi, ci rivolgiamo soprattutto alle categorie più vulnerabili: madri sole, handicappati, anziani. Abbiamo anche avviato un programma di microcredito».
Il vantaggio di essere un «migrante ufficiale» non sta solo nel ricevere gli aiuti statali (comunque miseri), ma nel vedersi più facilmente riconosciuti alcuni diritti fondamentali della persona che si tende, invece, a negare agli altri migranti, contrariamente ai dettami della costituzione.
Un espediente utilizzato per escludere intere categorie di persone da servizi destinati a tutti è quello della propiska, o registrazione del luogo di residenza (vedi Missioni Consolata, giugno 2001), che in Russia non è, nella pratica, la semplice constatazione di un dato di fatto, come vorrebbe la costituzione, dove viene sancita la libertà di movimento.

I NUOVI SCHIAVI

Per la registrazione, le autorità regionali introducono pre-requisiti di cui non si parla nelle leggi federali: c’è chi condiziona la registrazione alla presenza di familiari che già vivono sul posto da 5-10 anni; chi chiede garanzie di lavoro e alloggio da parte di aziende locali, o il pagamento di tasse non previste dalla legge; chi adduce criteri di ampiezza dell’alloggio, chi richiede particolari certificati medici, chi introduce quote d’ingresso nella regione e chi, addirittura, nega la registrazione a interi gruppi di persone, ad esempio, ai ceceni.
Il primo e più grande beffeggiatore della costituzione è il comune di Mosca, che respinge migranti e profughi da scuole, luoghi di lavoro, ospedali. Si è così creata una situazione alquanto paradossale. Al Cremlino è insediato il presidente Putin, massima autorità della Federazione, garante supremo delle sue leggi, al municipio di Mosca, c’è il sindaco, il sig. Luzhkov, che di queste leggi se ne fa un baffo.
«Per essere registrata presso mia sorella a Mosca ho dovuto procurarmi documenti che dimostrano il nostro legame di parentela». È ancora Caterina Belugina che racconta. A lei è andata bene. Quando ci siamo incontrate la prima volta, era appena rimpatriata e disoccupata, ma, grazie alla sua esperienza di giornalista, ha trovato lavoro presso il «Forum delle unioni dei migranti». Ha iniziato solo qualche mese fa, ma ha già tante storie da raccontare.
«Sergej viveva con la madre in Kazakistan. All’età di 14 anni decise di venire ad abitare dal padre a Mosca. Da allora, sono passati diversi anni, ma non è riuscito ad ottenere né la registrazione, né la cittadinanza, perché… non è cittadino russo. Vedono dal documento che è nato in Kazakistan e lo spediscono all’ambasciata kazaka. Lì gli spiegano che, non essendo più residente in Kazakistan e non avendovi svolto il servizio di leva, non gli possono dare la cittadinanza. Il militare, Sergej l’ha fatto in Russia, con la promessa che ciò gli avrebbe dato diritto alla cittadinanza, ma non ha ottenuto nulla».
Senza registrazione Sergej è un fuorilegge. Come lui a Mosca sono migliaia. Vivono senza garanzie sociali, né assistenza medica gratuita, né un lavoro regolare, poiché è vietato assumere persone prive di registrazione. Chiuse le possibilità di un impiego legale, le autorità moscovite aprono le porte al lavoro nero e al commercio illegale, innescando un meccanismo perverso: gli «illegali» sono costretti a corrompere la polizia; tale pratica porta alla criminalizzazione della polizia e via di seguito.
«Profughi e migranti sono fonte di guadagno per le autorità locali e la polizia – continua Caterina – che li trattano, tra l’altro, come persone di seconda categoria. E la popolazione, ne assimila il disprezzo». La condizione di senza-diritti in cui i migranti si vengono a trovare li rende oggetto di ogni possibile arbitrio e genera nuove forme di schiavitù.
È il caso di Tat’jana: in Kazakistan lavorava in un centro di ricerca come geologa. Ora fa la mungitrice in una fattoria; vivono in quattro nel gabbiotto del custode. Il figlio è andato ad arruolarsi al distretto militare; la propiska non gliela danno lo stesso; ma almeno riceve cibo e vestiti.
O il caso di un gruppo di migranti, tiranneggiati dal presidente di un kolchoz della regione di Mosca. Tra di loro c’è una famiglia venuta dal Kirghizistan: si ammala il figlioletto di pochi mesi; per tre giorni lo tengono in ospedale senza pagare, ma poi chiedono loro una retta di 300 rubli al giorno, perché non hanno la cittadinanza. Ma soldi non ne hanno: il kolchoz non li paga da mesi e non si possono rivalere perché sono irregolari.
Per lo stesso motivo ai Bogonenko, arrivati dal Kirghizistan, ci è voluto un anno per iscrivere all’anagrafe il loro nuovo nato. Dov’è la propiska? chiedevano i funzionari. Così molti non ci provano neanche a denunciare la nascita di un figlio. Neppure i matrimoni vengono riconosciuti, se uno dei fidanzati non ha la cittadinanza.

LO STATO ASSENTE

Lo stato non solo fa poco o nulla per sostenere i migranti, ma crea condizioni tali che rendono ancora più difficile e disperata la loro posizione e ostacola i tentativi di una soluzione autonoma dei problemi.
Alcune organizzazioni non governative russe assistono i migranti e li aiutano a difendersi dall’arroganza dei pubblici funzionari. Al «Comitato di assistenza civica» di Mosca ho incontrato Khava Sultanovna, una profuga cecena addetta ai problemi sociali. Anche per lei, come per Caterina, trovare lavoro presso una Ong è stata una benedizione. «Abbiamo gente dalle 10 del mattino alle 10 di sera. Anche quando siamo chiusi, c’è sempre qualcuno di tuo per i casi urgenti.
Distribuiamo una piccola somma di denaro mensile e vestiario a chi ne fa richiesta, ma soprattutto offriamo assistenza legale. I nostri avvocati spiegano cosa bisogna fare nel caso di angherie da parte della polizia o venga rifiutato lo status di profugo. Io aiuto i genitori a stendere richieste, perché i figli vengano ammessi a scuola. Scriviamo agli ospedali, alle questure, spiegando la loro situazione. Le risposte sono quasi sempre positive. D’altra parte, un rifiuto per iscritto è sempre più impegnativo».
Le Ong che prendono le parti dei cittadini ce la mettono tutta. «Come fate a sostenervi? Chi vi dà i soldi?» domando a Khava. «Locali, stipendi ed equipaggiamento ci sono offerti dall’Acnur. È molto, ma non basta, così chiediamo soldi a tutti. Lo stato non dà niente; sponsors russi non ne troviamo. Due anni fa, un miliardario ceceno ci ha dato 3 mila dollari, ma si era giusto prima delle elezioni. Per il momento rimangono solo gli sponsors stranieri».

Ascolto, ma non riesco a rallegrarmi per tali successi, perché altre considerazioni s’impongono. Amare considerazioni. Dunque, quando non possono fare altrimenti, i funzionari agiscono secondo la legge. Quando i cittadini si riuniscono per far valere i propri diritti, quando c’è qualcuno dietro di te a darti man forte o tu stesso, cosciente di quello che ti spetta, non ti lasci intimorire… qualcosa si riesce ad ottenere.
Ho un amico che vive da sempre a Mosca senza propiska. Le autorità lo sanno, ma non osano toccarlo, perché è un tipo che si sa ben difendere. Però sono ancora troppo pochi coloro che sanno o vogliono difendersi; così chi ha in mano il potere, grande o piccolo che sia, ha buon gioco. La sottomissione, l’inerzia e, purtroppo, anche la mancanza di solidarietà tra la gente, finiscono per corrompere il potere che diventa sempre più sfacciato, se non trova argini nella società civile.

BOX 1

POLLI DA SPENNARE

Stavo raccogliendo materiale sui senzatetto in Russia e contattavo diverse organizzazioni umanitarie. «No, non ci occupiamo di senzatetto – mi sentii rispondere dall’altro capo del filo – ma di profughi». «Profughi a Mosca? Ceceni, probabilmente» azzardai io. «Non solo». Non indagai oltre in quell’occasione, ma lo feci in seguito. Si parla di 5, addirittura di 8 milioni di persone che hanno varcato i confini della Russia dai primi anni Novanta.
L’Urss ha smesso di esistere il 31 dicembre 1991. La mattina del 1° gennaio 1992, gli ormai ex-cittadini sovietici si risvegliarono abitanti di diversi paesi. Fuori dei confini della neonata Federazione Russa rimasero circa 25 milioni di persone, che vivevano nelle altre repubbliche dell’Unione Sovietica e che, fino al giorno prima, avevano avuto una posizione di preminenza, non solo dal punto di vista politico. Di punto in bianco essi si ritrovarono cittadini di seconda categoria rispetto agli indigeni, la cosiddetta «etnia titolare».
Diventarono gradualmente oggetto di discriminazione: impossibilità di fare carriera, licenziamenti, requisizione di alloggi, obbligo di utilizzare solo la lingua locale. Si cominciò a chiudere le scuole russe, giornali, radio: un desiderio di rivalsa nei confronti di quella che per secoli era stata la nazione dominante.
Tale reazione, presente non solo in tutta l’area ex-sovietica (eccetto in Armenia e Bielorussia), ma anche nell’Est-Europa, può essere, fino a un certo punto, comprensibile, sebbene mai giustificabile. Meno comprensibile è, invece, il fatto che la Russia faccia ben poco per difendere gli interessi dei russi delle repubbliche, nonostante abbia tutte le possibilità di esercitare pressioni in tal senso su quegli stati, assai inferiori a lei per peso politico ed economico. Non solo non li difende, ma crea ostacoli al loro rientro in patria, rendendo arduo l’iter per ottenere la cittadinanza.
immigrati:
una risorsa necessaria
Caterina Belugina si era trasferita dalla Russia in Uzbekistan con la famiglia nel 1975; qui aveva terminato gli studi e iniziato la carriera di giornalista. Poi, nel 1992, aveva preso la cittadinanza uzbeka, per non essere costretta ad abbandonare immediatamente il paese.
Qualche tempo fa ha dovuto difendersi dall’accusa di diffamazione a seguito di un articolo, in cui denunciava il comportamento di un alto funzionario statale. Tutto il processo si è tenuto in uzbeko, che Caterina non conosce, e si è concluso con la sua condanna. Ha capito, allora, che quello non era più posto per lei e, come molti altri, si è rivolta al consolato russo per fare domanda di cittadinanza, primo passo per rientrare in patria con tutti i diritti.
«Era chiaro che non ne avrei cavato niente. Al consolato russo c’erano file di tre giorni, la gente dormiva fuori. Anche se fossi riuscita ad avviare la pratica, ci sarebbero voluti due anni e mezzo per ricevere la cittadinanza». Caterina non ha voluto aspettare tanto. È venuta a Mosca dalla sorella, abbandonando quasi tutti i propri averi.
«Avevamo un grande appartamento, l’abbiamo venduto per due soldi. Accade sempre così. Si sa che i russi sono costretti ad andarsene e devono accettare il prezzo che è loro offerto. Non ho portato con me quasi niente. Le tasse doganali erano troppo alte». L’amarezza maggiore Caterina la esprime nei confronti del proprio paese: «La Russia non aiuta i propri figli. C’era da noi un’invalida d’origine tedesca: la Germania non solo le ha dato la cittadinanza, ma le ha mandato una sedia a rotelle e l’ha aiutata a trasferirsi. Anche gli ebrei ricevono assistenza. Di noi, nessuno si occupa. Al contrario. Il nostro consolato a Tashkent chiede il pagamento delle spese consolari in dollari, quando tutti sanno che il possesso di valuta straniera è illegale in Uzbekistan e attira l’attenzione delle autorità».
Tutti gli stati occidentali sono messi in serie difficoltà dalla pressione degli immigrati stranieri sui propri confini; ma nel caso della Russia l’immigrazione è costituita principalmente dagli stessi russi (circa il 77%); e poi, il paese ha un gran bisogno di nuova energia, di braccia e cervelli; d’altri abitanti, insomma.
La catastrofica situazione demografica sta minacciando l’economia e la sicurezza dello stato. Il numero di coscritti al servizio di leva è già considerato insufficiente, tanto che nel dicembre 2003 il distretto militare di Mosca ha organizzato vere e proprie retate per le strade della capitale, fermando e arruolando a forza i giovani, senza dare loro nemmeno la possibilità di avvertire la famiglia.
Se l’emorragia non s’arresta, ci sarà presto penuria di forza lavoro e la necessità d’importare lavoratori e specialisti da altri paesi. Ed ecco che milioni di persone tornano a casa, hanno voglia di lavorare, sono disposte a fare di tutto, pur di ritrovare una vita dignitosa e sfamare la propria famiglia. Sono persone che hanno spesso alle spalle una solida esperienza professionale e anni di convivenza con altre culture, da cui sono stati arricchiti. Inoltre provengono da regioni di cultura musulmana, quindi non hanno abitudine al bere: una qualità assai preziosa per una nazione che paga un alto costo per l’eccessivo consumo di alcolici.
senza persone,
nessun problema!
Stando ai dati del Ministero per le nazionalità e politiche migratorie, in Russia ci sono circa 900 mila persone con regolare status di Forced migrants (Fm) o di rifugiati. Sono cifre molto al di sotto della realtà. Basti pensare che dei 100 mila afghani arrivati durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan e rimasti anche dopo il 1989, solo 513 hanno ottenuto tale status; gli altri sono considerati illegali.
È indubbio che l’arrivo di tanta gente pone allo stato notevoli problemi. Affrontarli adeguatamente comporterebbe un grosso impegno, intelligenza, lungimiranza e lo stanziamento di appositi fondi. Nessuno ha ancora smentito il noto aforisma attribuito a Stalin: «Se c’è la persona, c’è il problema; se la persona non c’è, non c’è il problema». Si spiega così la riluttanza delle autorità a concedere lo status di Fm o profugo. Il rifiuto può essere motivato da ragioni formali, come il non rispetto dei termini di presentazione della domanda che molti, tra l’altro, ignorano; oppure può non essere motivato affatto.
Senza lo status i profughi sono considerati come stranieri arrivati di propria volontà e giuridicamente trattati di conseguenza, senza obblighi particolari. Ma anche verso i profughi ufficialmente riconosciuti come tali, le risorse messe a disposizione sono di gran lunga insufficienti a far fronte ai due bisogni fondamentali: casa e lavoro. Negli ultimi anni, tra l’altro, queste risorse si sono andate continuamente riducendo. Il 2002 ha visto drastici tagli delle spese sociali, e non solo in questo campo.
I migranti registrati presso i Servizi immigrazione vengono raccolti in centri dove possono vivere per anni in baracche precarie, senza servizi. Si cerca di mandarli in aree rurali, indipendentemente dal loro ambiente di provenienza e professione. Il principio è di ripopolare le zone che si stanno svuotando.
Di loro si occupano anche organizzazioni umanitarie inteazionali, in primis l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur), che in Russia è molto presente, e lo Iom (Inteational Organization for Migration). «Anche i migranti registrati hanno difficoltà a ricevere assistenza medica a causa del cattivo funzionamento del servizio sanitario statale – spiega Edwin McClain, responsabile Iom per la Russia -. Per questo abbiamo allestito ambulatori nelle zone di raccolta dei migranti. Purtroppo, abbiamo risorse limitate; quindi, ci rivolgiamo soprattutto alle categorie più vulnerabili: madri sole, handicappati, anziani. Abbiamo anche avviato un programma di microcredito».
Il vantaggio di essere un «migrante ufficiale» non sta solo nel ricevere gli aiuti statali (comunque miseri), ma nel vedersi più facilmente riconosciuti alcuni diritti fondamentali della persona che si tende, invece, a negare agli altri migranti, contrariamente ai dettami della costituzione.
Un espediente utilizzato per escludere intere categorie di persone da servizi destinati a tutti è quello della propiska, o registrazione del luogo di residenza (vedi Missioni Consolata, giugno 2001), che in Russia non è, nella pratica, la semplice constatazione di un dato di fatto, come vorrebbe la costituzione, dove viene sancita la libertà di movimento.
i nuovi schiavi
Per la registrazione, le autorità regionali introducono pre-requisiti di cui non si parla nelle leggi federali: c’è chi condiziona la registrazione alla presenza di familiari che già vivono sul posto da 5-10 anni; chi chiede garanzie di lavoro e alloggio da parte di aziende locali, o il pagamento di tasse non previste dalla legge; chi adduce criteri di ampiezza dell’alloggio, chi richiede particolari certificati medici, chi introduce quote d’ingresso nella regione e chi, addirittura, nega la registrazione a interi gruppi di persone, ad esempio, ai ceceni.
Il primo e più grande beffeggiatore della costituzione è il comune di Mosca, che respinge migranti e profughi da scuole, luoghi di lavoro, ospedali. Si è così creata una situazione alquanto paradossale. Al Cremlino è insediato il presidente Putin, massima autorità della Federazione, garante supremo delle sue leggi, al municipio di Mosca, c’è il sindaco, il sig. Luzhkov, che di queste leggi se ne fa un baffo.
«Per essere registrata presso mia sorella a Mosca ho dovuto procurarmi documenti che dimostrano il nostro legame di parentela». È ancora Caterina Belugina che racconta. A lei è andata bene. Quando ci siamo incontrate la prima volta, era appena rimpatriata e disoccupata, ma, grazie alla sua esperienza di giornalista, ha trovato lavoro presso il «Forum delle unioni dei migranti». Ha iniziato solo qualche mese fa, ma ha già tante storie da raccontare.
«Sergej viveva con la madre in Kazakistan. All’età di 14 anni decise di venire ad abitare dal padre a Mosca. Da allora, sono passati diversi anni, ma non è riuscito ad ottenere né la registrazione, né la cittadinanza, perché… non è cittadino russo. Vedono dal documento che è nato in Kazakistan e lo spediscono all’ambasciata kazaka. Lì gli spiegano che, non essendo più residente in Kazakistan e non avendovi svolto il servizio di leva, non gli possono dare la cittadinanza. Il militare, Sergej l’ha fatto in Russia, con la promessa che ciò gli avrebbe dato diritto alla cittadinanza, ma non ha ottenuto nulla».
Senza registrazione Sergej è un fuorilegge. Come lui a Mosca sono migliaia. Vivono senza garanzie sociali, né assistenza medica gratuita, né un lavoro regolare, poiché è vietato assumere persone prive di registrazione. Chiuse le possibilità di un impiego legale, le autorità moscovite aprono le porte al lavoro nero e al commercio illegale, innescando un meccanismo perverso: gli «illegali» sono costretti a corrompere la polizia; tale pratica porta alla criminalizzazione della polizia e via di seguito.
«Profughi e migranti sono fonte di guadagno per le autorità locali e la polizia – continua Caterina – che li trattano, tra l’altro, come persone di seconda categoria. E la popolazione, ne assimila il disprezzo». La condizione di senza-diritti in cui i migranti si vengono a trovare li rende oggetto di ogni possibile arbitrio e genera nuove forme di schiavitù.
È il caso di Tat’jana: in Kazakistan lavorava in un centro di ricerca come geologa. Ora fa la mungitrice in una fattoria; vivono in quattro nel gabbiotto del custode. Il figlio è andato ad arruolarsi al distretto militare; la propiska non gliela danno lo stesso; ma almeno riceve cibo e vestiti.
O il caso di un gruppo di migranti, tiranneggiati dal presidente di un kolchoz della regione di Mosca. Tra di loro c’è una famiglia venuta dal Kirghizistan: si ammala il figlioletto di pochi mesi; per tre giorni lo tengono in ospedale senza pagare, ma poi chiedono loro una retta di 300 rubli al giorno, perché non hanno la cittadinanza. Ma soldi non ne hanno: il kolchoz non li paga da mesi e non si possono rivalere perché sono irregolari.
Per lo stesso motivo ai Bogonenko, arrivati dal Kirghizistan, ci è voluto un anno per iscrivere all’anagrafe il loro nuovo nato. Dov’è la propiska? chiedevano i funzionari. Così molti non ci provano neanche a denunciare la nascita di un figlio. Neppure i matrimoni vengono riconosciuti, se uno dei fidanzati non ha la cittadinanza.
Lo stato assente
Lo stato non solo fa poco o nulla per sostenere i migranti, ma crea condizioni tali che rendono ancora più difficile e disperata la loro posizione e ostacola i tentativi di una soluzione autonoma dei problemi.
Alcune organizzazioni non governative russe assistono i migranti e li aiutano a difendersi dall’arroganza dei pubblici funzionari. Al «Comitato di assistenza civica» di Mosca ho incontrato Khava Sultanovna, una profuga cecena addetta ai problemi sociali. Anche per lei, come per Caterina, trovare lavoro presso una Ong è stata una benedizione. «Abbiamo gente dalle 10 del mattino alle 10 di sera. Anche quando siamo chiusi, c’è sempre qualcuno di tuo per i casi urgenti.
Distribuiamo una piccola somma di denaro mensile e vestiario a chi ne fa richiesta, ma soprattutto offriamo assistenza legale. I nostri avvocati spiegano cosa bisogna fare nel caso di angherie da parte della polizia o venga rifiutato lo status di profugo. Io aiuto i genitori a stendere richieste, perché i figli vengano ammessi a scuola. Scriviamo agli ospedali, alle questure, spiegando la loro situazione. Le risposte sono quasi sempre positive. D’altra parte, un rifiuto per iscritto è sempre più impegnativo».
Le Ong che prendono le parti dei cittadini ce la mettono tutta. «Come fate a sostenervi? Chi vi dà i soldi?» domando a Khava. «Locali, stipendi ed equipaggiamento ci sono offerti dall’Acnur. È molto, ma non basta, così chiediamo soldi a tutti. Lo stato non dà niente; sponsors russi non ne troviamo. Due anni fa, un miliardario ceceno ci ha dato 3 mila dollari, ma si era giusto prima delle elezioni. Per il momento rimangono solo gli sponsors stranieri».

A scolto, ma non riesco a rallegrarmi per tali successi, perché altre considerazioni s’impongono. Amare considerazioni. Dunque, quando non possono fare altrimenti, i funzionari agiscono secondo la legge. Quando i cittadini si riuniscono per far valere i propri diritti, quando c’è qualcuno dietro di te a darti man forte o tu stesso, cosciente di quello che ti spetta, non ti lasci intimorire… qualcosa si riesce ad ottenere.
Ho un amico che vive da sempre a Mosca senza propiska. Le autorità lo sanno, ma non osano toccarlo, perché è un tipo che si sa ben difendere. Però sono ancora troppo pochi coloro che sanno o vogliono difendersi; così chi ha in mano il potere, grande o piccolo che sia, ha buon gioco. La sottomissione, l’inerzia e, purtroppo, anche la mancanza di solidarietà tra la gente, finiscono per corrompere il potere che diventa sempre più sfacciato, se non trova argini nella società civile.

Bianca Maria Balestra




ESPERIENZA ITALIA: Novizi fuori le mura

Sei novizi dei missionari della Consolata, tre italiani e tre coreani, si «allenano» alla missione ad gentes, cioè ad andare al di là delle frontiere, discriminazioni, condizionamenti politici e sociali, dentro il cuore
della gente… 15 giorni a Platì
è parte di tale allenamento.

La vita del novizio, si sa, ha una programmazione ben precisa e strutturata. Tuttavia, i sei giovani del noviziato di Rivoli, tre italiani e tre coreani, hanno aperto una breccia nel muro «protettivo» e, accompagnati dal loro formatore, si sono recati nella Locride (Calabria), più precisamente a Platì, ai piedi dell’Aspromonte.
Per 15 giorni sono vissuti accanto a due missionari della Consolata, i padri Enrico Redaelli ed Emanuele Maggioni, per apprendere «il mestiere» e sperimentare se stessi in quella vita alla quale si stanno preparando giorno dopo giorno: la missione.
Hanno visto, sentito, toccato con mano. Da veri discepoli, hanno camminato accanto a missionari già sperimentati. A Natile Nuovo sono stati alloggiati in una casa – quella di Maria Zagaglia – che sembrava un prolungamento della casa di Betania, dove il maestro Gesù era accolto con calda ospitalità.
Si sono trovati immersi nella religiosità popolare, nelle sue espressioni più dense del triduo pasquale: si sa, «il religioso» esprime la radice più arcaica e le vibrazioni più sacre di un popolo.
Quindici giorni sono pochi, ma è un «assaggio» per apprezzare, incuriosirsi, dialogare, e, soprattutto, ascoltare. Sì, ascoltare, quell’atteggiamento di stupore, che sa di riverenza, di «stare-accanto», mediante il quale si crea un’osmosi d’intesa, di rispetto, travasamento di persone a partire dalla loro più profonda interiorità.
Un’esperienza di «missione» che lasciamo raccontare ai protagonisti.

Missione è… uscire dalla propria casa. Abituati all’ordine e puntualità, a prevedere ogni dettaglio della vita comune e programmare con scrupolo il da farsi per non girare a vuoto, l’esperienza di Platì, ci ha fatto piombare di colpo nella «programmazione da affanno». Sono saltati e quasi schizzati appuntamenti, orari, agende.
Si è realizzato tutto e anche più del previsto. Ma ognuno di noi si è sentito chiamare in causa per dare il meglio di sé, estrarre dal profondo motivazioni e convinzioni, adattarsi alla realtà presente e non cercare quella immaginata e preventivata.
In questo bagno improvviso di adattabilità, fuori dalla pace e quiete del noviziato e dei ritmi comunitari, è stato necessario «arrangiarsi» per strappare spazi di preghiera, silenzio interiore e formazione personale, per «ricaricare» le pile che fanno girare la missione. L’imprevisto sembrava il tessuto quotidiano e bisognava farvi fronte… uscendo di casa!
Che cosa mi ha maggiormente impressionato? La gente. La ricchezza di Platì è la gente; i bambini soprattutto. Li abbiamo visitati nelle scuole e incontrati a frotte per le strade. Sono simpaticissimi, vivacissimi, di una abbordabilità e amicizia fresca e istantanea.
Amano lo scherzo. Se accetti un giretto in motorino, ti strapazzano, correndo a tutto gas per le viuzze del paesino, che conoscono come se avessero antenne da pipistrello. Poi, alle tue grida isteriche, «fammi scendere, sto’ male…», finalmente mostrano compassione e ti scaricano in parrocchia. Quella sera, di certo, salti la cena.
A scuola, per intrattenerli, facevamo domande tra cultura varia e curiosità. Una ragazzina di quinta elementare, la domanda ce la pone lei: «Che cosa pensate di quello che scrivono i giornali su Platì?».
Siamo colti impreparati. Ma con prontezza di spirito uno di noi risponde con un proverbio: «Prima di giudicare una persona bisognerebbe mangiarci assieme un chilo di sale». La ragazzina afferra il significato e si apre a un sorriso di pace.
Nella classe, però, si fa un attimo di silenzio, facile da interpretare: è amarezza e speranza insieme; passato che si vorrebbe seppellire e futuro da inventare. Il loro sguardo sa di volontà di riscatto, per qualcosa che non fa onore; ma esprime tanti valori che non fanno rumore sui mass media, che però esistono realmente e sono onestà, sudore, dignità mai barattata, ma troppe volte imbrattata; e vorrebbero fosse loro pubblicamente restituita!
Sono istanti che ci fanno rivivere il loro dramma, in quella notte del 13 novembre 2003: circa 1.000 carabinieri circondarono il paesino, penetrarono a forza nelle case, strapparono dal sonno uomini, donne, anziani, giovani. In quella notte da incubo, come spesso succede, il dramma nel dramma: si voleva colpire qualcuno legato alla malavita e si fece d’ogni erba un fascio tra grida e lacrime di innocenti… e banalità da parte di qualcuno con addosso la divisa dell’arma.
Le conseguenze di quella notte si sono protratte per lunghi mesi, aumentando il già diffuso senso di sfiducia nel loro futuro. Ma un’alba nuova sembra che cominci a dissipare incubi, paure, sospetti.
L’ospitalità dei platiesi è al di là del pensabile. È straordinaria. Ci hanno invitato nelle loro case, ci hanno riempiti di regali: pane, formaggi, salami, olio d’oliva…
Una sera fummo invitati dalla signora Maria, suocera di Antonio, proprietario di una tabaccheria in paese. Alla fine della serata, quasi per sfogarsi, la signora ci racconta come era Platì fino a 30 anni fa: un paese attivo nell’alta sartoria e artigianato; esportava pipe ed altri prodotti in tutto il mondo. Con orgoglio ci racconta dell’attivismo politico di suo padre, il quale partì da Platì nel 1943 per unirsi ai partigiani e combattere contro la dittatura.
Denys

Missione è… solidarietà. L’esperienza a Platì è coincisa con il tempo pasquale, i giorni in cui riviviamo il mistero del Dio solidale con noi fino alla morte. Tale coincidenza ci rese più coscienti del messaggio di cui siamo portatori, al di là delle nostre persone.
Accanto ai missionari, negli incontri con gli alunni delle scuole e i giovani impegnati nelle attività parrocchiali, nell’ospitalità delle famiglie… abbiamo sentito la sfida di dovere scoprire e mostrare il «Dio che salva», a «sostenere la speranza», a impegnarci per ricevere dal Padre la pace e per costruire un mondo di giustizia, libertà e frateità.
Alimentare la speranza significa risvegliare le coscienze, testimoniare e proporre cammini di liberazione e promozione umana. Per questo abbiamo presentato alla gente di Platì una proposta di solidarietà, chiedendo l’appoggio alla campagna Nós Existimos.
Il primo passo nel cammino della solidarietà è la conoscenza; perciò, dove ci è stato possibile, abbiamo cercato di ampliare gli orizzonti di interesse e fatto conoscere la situazione di Roraima, le sfide e gli obiettivi di tale iniziativa.
Il gesto in cui si è espressa la solidarietà, semplice ma personale, che non impegna il portafoglio ma muove la coscienza, è stato apporre il proprio nome sulla scheda per la raccolta delle firme di sostegno alle rivendicazioni dei popoli emarginati di Roraima.
Qualcuno ha fatto un passo in più: si è interrogato sul valore, conseguenze, potenzialità di tale gesto. Ha capito che apporre una firma per sostenere una campagna internazionale è un atto di responsabilità di fronte a ciò che capita nel mondo, uno strumento efficace per cambiarlo, anche a livello locale.
La storia di popoli diversi, con problemi ed esigenze differenti, ma accomunati da esclusione e sfruttamento, uniti dalla comune speranza in un futuro migliore, in lotta per il rispetto dei propri diritti e dignità, ha costretto la gente a guardare in casa propria.
Ed è in quest’ottica «locale» che i bambini di Platì hanno partecipato a una maratona per le vie del loro paese, indossando una maglietta su cui campeggiava la scritta: Nós Existimos. Quel grido di popoli lontani è diventato il grido di Platì: anche noi esistiamo; ci siamo anche noi; anche noi vogliamo contare qualcosa!
Corrado

Missione è… incontrare l’uomo dove vive. In un paese di montagna il bar costituisce un importante luogo di ritrovo. A Platì ce ne sono per tutti i gusti: per juventini e reggini (le due tifoserie, ci tengo a dirlo, non sono in conflitto), per giovani e meno giovani.
Ne abbiamo frequentato un paio anche noi. Ottima è stata l’accoglienza, non solo perché le consumazioni sono state sempre offerte. Nei bar abbiamo condiviso un po’ di vita dei platiesi, la loro storia, il presente, le speranze e le attese.
Siamo venuti a sapere che a Platì ci sono una decina di foi, il cui pane arriva fino a Reggio e Catanzaro. È un pane particolare, a lievitazione naturale. Lo abbiamo mangiato anche noi ed è davvero ottimo; si mantiene fresco per diversi giorni. A Platì si produce anche dell’ottimo formaggio di latte vaccino e caprino.
Al bar abbiamo incontrato soprattutto i giovani. Con loro si è scherzato tanto, ma hanno pure manifestato molto interesse per la nostra scelta di vita missionaria, per il nostro voto di castità, così distante dal loro modo di pensare. Almeno così ci è parso di intendere. È stata un’impresa trovare il modo più semplice per spiegarlo.
Camminando per le strade di Platì, ci si scopre avvolti da grande cordialità. È molto importante fermarsi, salutare, dare e chiedere la propria fiducia attraverso i gesti che la buona educazione ci ha insegnato: un cenno, un sorriso, una stretta di mano per i platiesi sono forme di rispetto molto importanti.
Abituati all’anonimato cittadino, all’inizio ci sembrava strano questo «dover salutare tutti». Eppure, dopo poco tempo si è scoperto che non era un atto dovuto, ma semplicemente un segno di riconoscenza verso l’accoglienza che continuamente ricevevamo. Tanti ci hanno invitato a entrare nelle loro case per un caffè, una chiacchierata, accompagnata da qualche dolce tipico che, se non lo finivamo, dovevamo portare a casa.
Marco

Missione è… inculturazione. Platì è una cittadina bella e simpatica; ma all’inizio abbiamo dovuto abituarci e superare quell’impressione di «facce dure», specialmente quelle mascoline!
Fatto questo sforzo ti accorgi che la gente è tanto buona, accogliente e generosa, come le persone semplici della nostra Corea del Sud.
Per noi coreani, trapiantati in Italia da poco più di un anno e alle prese con la lingua, con cui riusciamo appena a farci capire, l’approccio con la gente, specialmente con i simpaticissimi bambini, è stato duro: tutti parlavano il dialetto a una velocità mozzafiato. E questo ci ha resi più consapevoli di una delle più grandi difficoltà della vita missionaria: la lingua della popolazione alla quale saremo inviati.
Nonostante ciò, gli incontri nelle strade, nelle scuole elementari e medie sono stati una bellissima esperienza che conserveremo sempre nel profondo: in Corea, a Platì o in qualunque altra parte del mondo, i bambini sono sempre uguali: si fanno amare, sono semplici; ti danno tanto e non ti fanno sentire straniero.
I ragazzi più cresciuti e i giovani sono un po’ diversi: corrono sulle moto sparati e senza casco; si esibiscono in temerarie prove di bravura, per mostrare in qualche modo la personalità emergente. Peccato che non investano tale personalità, così ricca e originale, in una professione o nello studio.
Questo non vuole essere un giudizio: abbiamo intravisto quante difficoltà ci sono in questo campo, dovute a mancanza di lavoro e di prospettiva. L’unica strada aperta, da tanti già imboccata, è quella dell’emigrazione. Ad eccezione dei bar, questi giovani non hanno punti di incontro per stare insieme e passare il tempo libero, per dare spazio alla propria cultura e creatività.
Le ragazze, poi, nella loro vita tanto ritirata, sembrano ancora più penalizzate. Il fatto che si sposano così giovani (18-20 anni) ha suscitato una certa meraviglia in noi coreani. Al di là di cultura e tradizione, forse lo sposarsi presto è causato anche dalla mancanza di lavoro, alla necessità di emigrare. Nonostante la fatica per adattarci alla lingua e scoprire la cultura della gente, abbiamo vissuto con intensità il nostro soggiorno a Platì. Non abbiamo capito tutto, ma di una cosa siamo certi: Platì ha tanta voglia di speranza e una nuova stagione della sua storia sta già lievitando.

Martino, Pietro, Giuseppe

Novizi missionari IMC




TOGOLa spesa dello stregone

In Africa occidentale le religioni tradizionali sono molto radicate. La cosmogonia è complessa e cambia per ogni etnia.
Divinità, curatori, oracoli e oggetti sacri di ogni tipo
mostrano una grande ricchezza e varietà di queste tradizioni.
Da profani, visitiamo un centro di vendita, rinomato in tutta la regione.

CCapitale ordinata e pulita, Lomé si apre come un ventaglio sul golfo di Guinea. La sua bellezza è nel litorale, le lunghe spiagge di sabbia chiara, punteggiate di palme. Il mercato centrale è colorato di frutta e vestiti della gente; le vie sono invase da banchetti di venditori di ogni genere, che indossano cappelli di paglia per ripararsi dal sole. Le auto cercano di passare in mezzo alla folla brulicante.
Prendiamo una delle grandi vie asfaltate che, a raggiera, portano fuori città. Cerchiamo il quartiere d’Akodessewa, verso nord-est. La strada taglia in due una laguna: il panorama è particolarmente bello. La gente è gentile e cerca di spiegarci come raggiungere la nostra meta.
Arriviamo al grande mercato di quartiere, ma non è quello che stiamo cercando. Un giovane ci si avvicina, incuriosito dagli stranieri. Ha un viso pulito, parla tranquillo in un francese stentato. Gli spieghiamo cosa stiamo cercando: «Il mercato dei fétiches, è qui?».

Stregoni africani

I féticheurs, coloro che utilizzano i fétiches, in una traduzione approssimativa, si potrebbero chiamare «stregoni». Mezzi medici e mezzi maghi, in Africa sono coloro che detengono l’arte dell’uso delle erbe, ma anche dei talismani, delle cure tradizionali e della capacità di parlare con gli spiriti. Alcuni sono più indovini, altri più curatori. È tramite loro che si tramanda la spiritualità degli antenati: in pratica i sacerdoti animisti.
Foiscono su richiesta i gris-gris, amuleti personalizzati, che hanno molteplici scopi: allontanano i malefici o esaltano le forze (nei diversi campi) di chi li possiede.
I fétiches (feticci) sono oggetti sacri che proteggono case o villaggi e comunicano direttamente con le divinità ancestrali, o meglio: ne sono la rappresentazione fisica. In questa regione ogni etnia (ce ne sono centinaia) ha il suo pantheon di spiriti, il proprio animale totem, i geni protettori e tutte hanno una sorprendente varietà di feticci.
Ci era stato detto che proprio a Lomé esiste una specie di supermercato degli stregoni, dove un «iniziato» può trovare tutti gli strumenti del mestiere, tutto ciò di cui ha bisogno per poter praticare.
Moise, il nostro nuovo amico, annuisce: «È qui vicino. Posso accompagnarvi io». Cammina lentamente, per la strada polverosa. Supera il grande mercato ed entra in profondità nel quartiere. Ad un tratto si apre un piccolo spiazzo, sul quale sono allineate file di bancarelle. Da lontano sembra un qualsiasi mercatino locale, ma appena ci avviciniamo notiamo che la mercanzia esposta non annovera pomodori e cipolle.
Vediamo file di gusci di tartarughe, con l’animale essiccato al suo interno, uccelli di tante specie diverse, anche loro imbalsamati, montagne di teschi bianchi che riflettono il sole…
Prima di riuscire ad avvicinarci, ecco che un ometto ci viene incontro e confabula con Moise. «Questo è il mercato dei fétiches di Akodessewa – annuncia solennemente dopo averci salutati -; qui è consuetudine, per gli stranieri, avere una guida». Naturalmente acconsentiamo: non bisogna mai andare contro le abitudini africane. E così siamo al secondo accompagnatore.

Supermercato dell’impossibile

Il signor Calixte Ganyehesson ci guida alla visita di questo mercato incredibile e talvolta raccapricciante. I banchetti, uno in fila all’altro sono colmi di teschi di scimmie, coa di animali vari, ratti squartati e sapientemente essiccati, rane e pesci gatto che hanno subìto una sorte simile. Ciuffi di peli e piume sono un po’ ovunque. Ma i pezzi più ricercati sono una grossa zampa di ippopotamo, con pelle e tutto il resto, quella di un elefante; un’intera testa di cavallo, teste di giaguaro con le fauci aperte. In un banchetto sono sovrapposte, con estremo ordine, decine di teste di coccodrillo di diversa dimensione.
«Tutte queste cose – spiega Calixte – sono materiali e ingredienti molto importanti per i curatori tradizionali e i féticheurs delle nostre parti. Solo qui si riesce a trovare tanta varietà. Ci sono pezzi, come quel teschio di elefante (e indica un ammasso di grosse ossa) che arrivano direttamente dalla Nigeria».
Andiamo avanti. I banchetti di grezze assi di legno qui li chiamano «stand» e portano delle insegne, dipinte a mano, con scritte del tipo: «Guedenon Christian, guérisseur en médicine traditionnelle, stand n. 11» (guaritore in medicina tradizionale). O ancora: «Herboriste – guérisseur, docteur en médicine traditionnelle»; oppure: «Terapeute traditionnel». Tutti accompagnati dal numero di stand, di telefono ed eventualmente di cellulare.
Tecnologia e tradizione convivono alla perfezione, come spesso accade oggi in Africa. Un po’ inquietante l’insegna con la scritta: «Membre de sciences occultes des forces vodous africaines»; in realtà, ci sembra preparata apposta per i turisti stranieri.

Dal Benin al mondo

Calixte ci spiega che tutti i venditori-curatori di questo mercato sono di origine beninese. Il Benin, paese confinante, è la culla di alcuni riti africani molto importanti, classificati come vudù ed esportati anche nelle Americhe, attraverso la tratta degli schiavi. Riti originari di queste zone e con molti tratti comuni oggi sono praticati in Brasile, Cuba, Haiti e altre isole dei Caraibi. Differenti riti vudù sono originari della Nigeria.
In un angolo vediamo alcuni scatoloni pieni di materiale appena arrivato e ancora da sistemare: pipistrelli secchi, camaleonti e uccelli di varia dimensione.
Il nostro accompagnatore ci mostra delle statuette di legno, alcune addobbate con piccole conchiglie cauris (pronuncia corì), un tempo moneta in tutta l’Africa occidentale e oggi strumento importante di veggenti e guaritori. Gettate a terra con un certo rito, esse permettono all’indovino esperto di leggere il futuro del cliente che gli sta davanti. Ce ne sono in gran quantità in tutti i mercati di questa regione.
«Sono semplici statue, non sono fétiches, ma potrebbero diventarlo con un rito» precisa Calixte. Sono anche esposte e ben allineate sculture in legno di organi maschili: «Servono per riti e cure contro l’impotenza» spiega il nostro accompagnatore.
In effetti, in questo supermercato dei curatori tradizionali, ogni pezzo, per quanto strano o truculento possa sembrare a un osservatore straniero (soprattutto se animalista), ha un significato e un utilizzo ben preciso. Il buon tradi-terapeuta o stregone, sa in che occasione dovrà usare il guscio di tartaruga, il dente di coccodrillo o la pelle di camaleonte.

Un amuleto per…

Per un non africano è difficile credere ad alcune pratiche di questi popoli. Eppure qui possono risultare molto importanti e molto «presenti» nello spirito della gente. Alcune persone sono iniziate, altre consultano il guaritore quando hanno piccoli o grandi problemi; altre ancora dicono e pensano di non crederci, ma in fondo quasi tutti ne sono influenzati.
Il nostro accompagnatore vuole farci vedere qualcosa di più. Ci porta in una baracca ai margini del mercato. «Qui – sostiene – se volete potete incontrare un féticheur. Si tratta del figlio di un grande, che ha ereditato alcuni poteri».
Entriamo nella piccola capanna fatta di bastoni di legno. È buio. Venendo da un ambiente con il sole splendente, le pupille dei nostri occhi impiegano qualche minuto prima di allargarsi. Finalmente riusciamo a vedere: davanti a noi, nell’angusto stanzino, compaiono statue di diverse dimensioni, alcune a due teste, altre con una sigaretta in bocca, altre immerse nella cenere o con piume che fuoriescono da orifizi. Il tutto ricoperto di una polvere che fa sembrare le cose più vecchie, in un’atmosfera misteriosa e mistica. Ci troviamo di fronte a un gruppo di veri fétiches.
Il giovane stregone ci propone degli amuleti. Degli oggetti che ci possono servire nella nostra vita quotidiana, ma che devono essere «benedetti» da lui, alla presenza dei fétiches. Un nocciolo di karité da mettere sotto il cuscino la notte serve per aumentare la memoria; una minuscola statuetta per avere un buon viaggio; un sacchettino di erbe da appendere al collo per essere protetti dal male; un altro oggetto per avere fortuna con il proprio amato.
Ogni gris-gris, posto in un guscio di tartaruga vuoto, subisce un rituale di fronte a un feticcio e con la partecipazione del destinatario. Ma attenzione, una volta a casa gli amuleti devono essere accuditi.
Il tutto, a noi scettici, sembra una sceneggiata per turisti. Di fatto è una procedura semplificata di quello che normalmente si fa con chi crede a questo tipo di riti. Il momento è comunque carico di solennità e capiamo che siamo in un contesto reale. Solo noi, stranieri a questa cultura, siamo l’unica cosa fuori posto. Anche questa è l’Africa e non deve essere banalizzata. •

Marco Bello




IMMIGRAZIONE ITALIA”Permesso sì, permesso no, permesso forse”

Scarsa conoscenza e molti pregiudizi nei confronti degli stranieri. La maggior parte degli italiani non sono né razzisti né menefreghisti. Sono semplicemente disinformati. Non sanno cosa significa, per uno straniero, aspettare «il permesso» (ad un tempo, incubo e parola magica), trovare una casa, imparare una lingua nuova, integrarsi nel mondo del lavoro o della scuola.
In questa nostra inchiesta, abbiamo dato voce agli immigrati incontrati in un Ufficio stranieri, ma anche ai poliziotti che vi lavorano. Un punto di vista diverso e interessante…

La civiltà europea è sempre stata divisa: liberi e schiavi, nobili e plebei, capitalisti e operai. Nell’Europa di oggi ci sono gli «europei» e gli «extracomunitari».
Le divisioni cambiano forma, ma non la sostanza. Invece dell’uguaglianza ci sono ancora le leggi che garantiscono la disuguaglianza, invece della fratellanza ci sono i cittadini di primo e secondo grado, invece dell’unità, alcuni paesi e popoli europei sono stati spinti, e poi lasciati marcire nella miseria e nella violenza.
Siamo nel terzo millennio. In quello precedente c’erano molte rivoluzioni, è stato sparso molto sangue, ma cosa abbiamo cambiato in sostanza?

«MA PERCHÉ VENGONO IN ITALIA?»

«Perché vengono gli stranieri in Italia?», questa è la domanda più frequente degli alunni durante i miei interventi nelle scuole superiori, come mediatrice interculturale.
Io rispondo: «Perché nei loro paesi c’è la guerra, o la miseria, o l’instabilità politica e sociale che non permette una vita serena. La maggior parte degli immigrati non lascerebbe mai il proprio paese se le condizioni permettessero una vita dignitosa lavorando onestamente. D’altra parte, ci sono paesi che hanno necessità di immigrati. Anche il nostro paese ha bisogno di operai per le costruzioni, di camionisti per i trasporti, di cameriere per gli alberghi, di badanti per gli anziani, di infermiere per i malati, ecc… e, non trovando questa manodopera tra gli italiani, deve ricorrere agli immigrati».
Poi seguono altre domande che rivelano una scarsa conoscenza e molti pregiudizi nei confronti degli stranieri. Molti pensano che gli stranieri abbiano dei vantaggi, che abbiano troppi diritti, che mettano in pericolo i cittadini italiani. Hanno paura che siano troppi e sanno poco o niente di come vivono in Italia, quali difficoltà hanno, quali disagi. A un razzista questo non interessa. Più disagio prova uno straniero, più contento è perché spera che avrà motivo di andarsene.
Ho sentito molte volte la frase: «Se non gli piace che vadano a casa loro!». Ma dov’è la loro casa? Alcuni sono rimasti senza le case, alcuni hanno la casa piena di gente che aspetta il loro aiuto per sopravvivere. Gli immigrati stanno meglio in Italia che nel proprio paese, ma sono ancora lontani dal benessere di un occidentale. I problemi, i disagi che incontra nel nuovo paese sono grandi, ma non può tornare perché sarebbe peggio.
La maggior parte degli immigrati sono costretti a scegliere il male minore. La maggior parte degli italiani non sono né razzisti né menefreghisti. Sono semplicemente disinformati. Non sanno quanta fatica fanno gli stranieri a trovare una casa, quali problemi hanno nell’integrarsi nel mondo del lavoro o della scuola, quanto è difficile imparare una lingua nuova in fretta per capire il datore di lavoro, o l’insegnante, o la pioggia di comunicazioni di vario genere. Quanto è difficile muoversi, orientarsi, in un paese dove tutto funziona in modo diverso dal proprio.

L’ESPERIENZA DI TRENTO E ROVERETO

Nella provincia di Trento, è stato fatto molto per aiutare gli immigrati: lo Sportello Cinformi è un importantissimo punto di riferimento per lo straniero, dove può avere tutte le informazioni per l’orientamento anche in madrelingua. Il Centro Millevoci offre una consulenza agli insegnanti che hanno in classe gli alunni stranieri, e ha formato molti mediatori interculturali che si occupano dell’integrazione dei figli degli immigrati nelle scuole trentine.
Ho fatto una piccola indagine, come mediatrice interculturale, nella mia cittadina, Rovereto (32 mila abitanti), per scoprire quali problemi e quali disagi incontrano adesso gli immigrati all’Ufficio stranieri del locale Commissariato di polizia.
Ho parlato con gli operatori, che hanno risposto gentilmente a tutte le mie domande.
Mi hanno spiegato come funziona il loro ufficio stranieri, i rapporti con la Questura di Trento, quali sono le difficoltà loro e quali quelle degli stranieri che chiedono il permesso di soggiorno.
Quello che segue è il risultato della mia inchiesta.

LAVORARE ALL’UFFICIO STRANIERI

Romano è un uomo alto e biondo, che ascolta con molta attenzione e pazienza le innumerevoli domande che pongono gli stranieri. Non smette di essere gentile neanche quando lo fermano nel corridoio. Lavora in quest’ufficio da quasi un anno. Mi spiega che l’ufficio è aperto dalle 9 alle 12.30 tutti i giorni (il giovedì anche nel pomeriggio) tranne il sabato e la domenica. Di solito ricevono 20 persone circa, tutte le mattine, tranne il giovedì quando ci sono 60 – 70 persone che aspettano il proprio tuo, dopo aver ritirato il numero all’entrata. È il giorno in cui si danno le informazioni e si ritirano i permessi di soggiorno.
«La maggiore difficoltà che trovo nel servizio è la mancanza di contatto con Trento, il fatto che non ci sono direttive ben precise».
E per gli stranieri cos’è la cosa più difficile?, chiedo. «Riuscire a portare tutta la documentazione. C’è un elenco di documenti che lo straniero deve portare». Romano mi mostra i fogli con l’elenco dei documenti, che sono diversi a seconda che si chieda un permesso di soggiorno nuovo o di rinnovarlo, o si domandi la carta di soggiorno. L’elenco cambia anche in relazione al tipo di permesso di soggiorno richiesto (motivi di turismo, di lavoro, di ricongiungimento familiare, ecc…).
«Durante il periodo di 2-3 mesi dal momento in cui il cittadino straniero riceve l’elenco e presenta la documentazione – continua a spiegarmi il funzionario -, può capitare qualche variazione, allora deve portare qualche certificato che non era incluso nell’elenco».
Come mai si aspetta così tanto? «Mancanza di personale e il lavoro si accumula».
Cos’è più fastidioso nel suo lavoro? «Quando la mia richiesta di rispettare la legge viene interpretata come razzismo. Per esempio, in caserma è vietato entrare con il volto coperto. Questa legge c’era da sempre e non è stata inventata per colpire i musulmani, ma per la semplice ragione che chi entra in un ufficio di polizia deve essere riconoscibile, identificabile. Questa legge non è cambiata, e il nostro dovere è di rispettarla. Non può entrare in polizia un ragazzo con il casco sulla testa, e per lo stesso motivo non può entrarci una donna musulmana con il velo sulla faccia. Ma quando io dico alla donna di togliersi il velo è un dramma. Anche le foto per i documenti con la testa coperta non sono accettate. Noi trattiamo tutti allo stesso modo e facciamo solo il nostro dovere. Io capisco che è difficile quando la legge dello stato non è conforme alla legge religiosa, ma il mio dovere non è cambiare la legge ma adempierla».
Gabriella è una bella poliziotta con capelli lunghi, raccolti in una coda e gli occhi blu. L’uniforme le dà un aspetto severo. In questo ufficio lavora da 4 anni. Per lei è più difficile spiegare le ragioni delle richieste che fanno tornare una persona più volte allo stesso sportello.
«È vero, si richiedono molti documenti. Mi dispiace quando leggo disperazione negli occhi di chi non riesce a procurarsi qualche certificato che si chiede. Ma non siamo noi che chiediamo certificati, è la Questura di Trento: noi controlliamo solo se c’è tutto prima di mandare loro la pratica».
Anche a Gabriella dà fastidio l’arroganza o i modi grezzi e poco rispettosi da parte di alcuni stranieri. Alcuni sfogano la propria insoddisfazione e rabbia. Chiedo se questo succede perché lei è una donna, ma lei nega dicendo che gli arroganti sono arroganti anche con i colleghi uomini. «Ma per fortuna di solito i rapporti sono normali e tranquilli», conclude sorridendo.
Romana lavora nell’Ufficio stranieri dal 2000. È una poliziotta molto giovane, con la pelle chiara, capelli lunghi, occhi azzurri, e un bel sorriso che fa vedere poco, perché c’è poco da sorridere davanti ai problemi della gente che incontra nel suo lavoro. Risuona la sua voce, per far sentire e far capire cosa serve, quando e perché, e non si stanca mai di ripetere sempre le stesse cose.
Non si capisce se non vogliono capire o non capiscono per davvero quello che diciamo. So che non è facile: non conoscono la lingua, e in alcuni casi non sanno dove andare a cercare i documenti richiesti. So che non è facile accettare che non si può rinnovare un permesso di soggiorno se manca una carta sola di tutte quelle richieste. Noi non siamo indifferenti. Gli stranieri non sono per noi solo i numeri o i fascicoli. Cerchiamo di andare loro incontro, di essere pazienti, ma quando una cosa non si può fare, è inutile insistere. Noi dobbiamo applicare la legge, non è una questione personale. Mi dispiace se una persona non può presentare il certificato che serve, ma io non posso farci niente. Ogni paese ha le sue leggi. Mi fa arrabbiare l’arroganza, la maleducazione e la mancanza di rispetto per le leggi del paese in cui sono arrivati da parte di alcune persone. C’è la gente che viene molte volte per una stessa cosa e io non capisco se non hanno capito quale documento devono portare, o non vogliono capire che io non posso mandare la pratica a Trento senza quel documento.
Rino lavora da poco presso questo sportello. È molto cordiale e comprensivo, ha una pazienza infinita e ascolta tutti quelli che lo fermano anche nel corridoio. Per lui il problema maggiore è la comunicazione.
«Quel problema non viene superato con la conoscenza della lingua – dice -. Con la conoscenza dell’italiano la comunicazione migliora, ma restano ostacoli di tipo culturale». Secondo Rino sarebbe utile la presenza del mediatore interculturale per rimuovere completamente tutti gli ostacoli di comunicazione. Aggiunge che il loro lavoro è diventato più facile e sereno da quando è aperto lo sportello presso il comprensorio di Rovereto dove si prendono gli appuntamenti. Loro adesso raccolgono la documentazione, prendono le impronte digitali e mandano tutto a Trento. Poi consegnano il permesso o la carta di soggiorno allo straniero.
«I tempi di attesa sono lunghi – continua Rino -. Anzi, sempre più lunghi: 2 – 3 mesi solo per prendere un appuntamento, un altro mese per finire la pratica e farla arrivare in questo ufficio. Nel frattempo, lo straniero non può lasciare l’Italia. Deve aspettare che arrivi il permesso di soggiorno per andare in ferie o andare a trovare la famiglia nel paese d’origine».
Abbiamo parlato sempre delle difficoltà. Che cosa è bello nel suo lavoro? «Io sono molto contento quando le persone riescono a prendere il permesso di soggiorno prima delle ferie. Tutti fanno le ferie nei paesi d’origine, vanno a trovare le famiglie, dei parenti e mi dà molto fastidio quando sono impediti di partire a causa delle lunghe attese per il rinnovo».
E lei, cosa si aspetta dagli stranieri? «La comprensione. Che comprendano le nostre difficoltà e i nostri limiti come noi cerchiamo di comprendere loro».
Quanto agli stranieri, sono tutti d’accordo che bisogna essere in regola con il permesso di soggiorno, ma non tutti sono d’accordo con le condizioni necessarie per ottenerlo. La legge è dura, e per molti (quelli che non potranno mai adempiere alle condizioni che lo stato impone) è crudele.
Inoltre, nessuna delle persone si dice contenta che, avendo le condizioni richieste per ottenere il permesso di soggiorno, occorra aspettare molti mesi per averlo.

«PERMESSO», INCUBO O PAROLA MAGICA?

La parola permesso la capiscono tutti. Usano questa parola italiana anche quando parlano in madrelingua. È una parola magica che apre o chiude molte porte nel nuovo paese.
Un algerino, in Italia da 15 anni, con la moglie e la figlia di due anni ha la carta di soggiorno. Lavora in fabbrica e vive con la sua famiglia in un appartamento di 60 metri quadrati. Per il momento non ha nessun problema. Lavora solo lui, la moglie sta a casa con la bambina, è contento in Italia. Ma se nasce un altro figlio, come lui e la moglie vorrebbero, potrà perdere la carta di soggiorno. Per rinnovarla, dovrà trovare un altro appartamento, più grande, non perché questo in cui è adesso per lui sarebbe piccolo, ma è piccolo per lo stato. La nuova casa non sarà facile da trovare, e anche se la trova, le case più grandi costano di più e poi non resta più niente per vivere.
Un altro algerino, pieno di rancore e delusioni, racconta che in Algeria ha la moglie e tre figli. È qui dal ’98. Dice che lavora in fabbrica, spende tutta la forza delle sue braccia per guadagnare onestamente lo stipendio, ma chissà se, e quando, potrà portare qui la sua famiglia. Tutta la sua permanenza ha accompagnato l’incubo del rinnovo del permesso di soggiorno: gli appuntamenti, le carte, le attese, la paura per le assenze dal lavoro. Per l’ultimo rinnovo, ha preso l’appuntamento a novembre per febbraio dell’anno dopo. Da febbraio, ogni mese rinnova il tagliando. Il permesso di soggiorno non è ancora pronto. E sono 8 mesi che non vede sua moglie e i suoi figli.
Un signore pakistano è arrivato in Italia 14 anni fa, con la moglie. In Italia sono nati i suoi tre figli. Ha la carta di soggiorno ma i suoi problemi non sono finiti. Per inserire un nuovo dato nella carta di soggiorno bisogna fare tutto da capo e aspettare. Lui è commerciante e deve viaggiare per il suo lavoro. Mentre aspetta, il lavoro si ferma. È solo lui che lavora. Succede che deve aspettare anche sei mesi il rinnovo.
Non chiediamo che cambi la legge – dice il pakistano -. Chiediamo solo di non aspettare così a lungo. Basterebbe aprire più sportelli che fanno le pratiche, assumere gli operatori quanti ne servono finché i tempi di attesa diventino ragionevoli.
Un albanese, in Italia dal ’93 con la famiglia (moglie e tre figli maggiorenni), mi racconta arrabbiato: «Per un errore amministrativo io non ho ancora la carta di soggiorno. Dopo 11 anni in Italia, ancora ho 5 permessi di soggiorno da rinnovare in continuazione, e questo mi costa soldi, tempo e nervi. Non è giusto che devo perdere tutto questo tempo e assentarmi dal lavoro. Non è giusto che non possiamo andare in ferie in Albania».
Una bella signora alta, con gli zigomi sporgenti e capelli biondi raccolti in una coda, in Italia dal ’95 dice: «L’informazione è migliorata molto, e le persone che lavorano presso gli sportelli informativi sono gentili, accoglienti, pazienti. Ma l’organizzazione che riguarda le pratiche è peggiorata. C’è qualcosa che non va e non può andare avanti così».
Questa nostra inchiesta dimostra che la critica è fondata: è aumentato il tempo di attesa; il numero di persone che aspettano; il numero di quelli che si chiedono fino a quando il datore di lavoro avrà pazienza di sopportare le assenze; il numero dei bambini che non possono passare l’estate dai nonni.
Nessuna persona di buon senso desidera che le leggi calpestino la dignità degli immigrati e i sentimenti dei loro bambini, futuri cittadini italiani ed europei. Sicuramente c’è una soluzione. Bisogna cercarla assieme.

BOX 1

IMMIGRATI «BUONI», IMMIGRATI «CATTIVI»

Vent’anni fa, quando arrivai a Rovereto, davanti all’Ufficio stranieri non c’era nessuno ad aspettare. Tutte le informazioni relative al mio permesso di soggiorno me le diede il signor Gabriele. Toai in quell’ufficio un paio di volte per delle informazioni, ma anche perché era piacevole fare due chiacchiere con il commissario che era simpatico e sempre di buon umore.
Adesso lui è in pensione e lo vedo quasi tutti i giorni nel centro della città, sempre negli stessi posti, a chiacchierare con i suoi amici. Adesso ha una faccia seria, sorride poco, non è più in uniforme ma è sempre vestito elegante e non ha perso niente del suo fascino di vent’anni fa. Ha accettato volentieri di parlare con me degli stranieri.
«Una volta era più semplice – mi spiega – e le pratiche si facevano più in fretta, perché la Questura di Rovereto era autorizzata a rilasciare il permesso di soggiorno, e perché c’erano meno stranieri. Adesso mandano tutto a Trento».
Come? Quando ce n’erano pochi, ogni Questura faceva le proprie pratiche, adesso che sono tanti le fa una sola. Non è assurdo? «È così. Adesso nell’Ufficio stranieri di Rovereto si raccoglie la documentazione, poi si manda tutto a Trento. Solo Trento è autorizzata a rilasciare il permesso di soggiorno».
Ricordo che, quando ci conoscemmo, a Rovereto c’erano 4 serbi e 1 croata, adesso invece ci sono centinaia di famiglie. Questa piccola città del Trentino ha cambiato il suo volto. È diventata una città variopinta: visi bianchi, neri e gialli; vestiti occidentali ed orientali; si sentono per strada i suoni di lingue sconosciute.
Chiedo all’ex funzionario come vive lui questi cambiamenti. «Conosco molti stranieri – mi dice -, che sono proprio brave persone. Ma altri non mi piacciono: gente volgare, arrogante, violenta, quelli che sputano per strada, che pretendono quello che nel loro paese non avrebbero mai».
Ma loro – obietto io – sono qui proprio per avere quello che nel proprio paese non possono avere. «D’accordo, ma non lo devono pretendere. Neanche ai cittadini italiani è stato regalato niente, ma hanno ottenuto tutto con anni di lavoro. A nessuno dà fastidio se loro mantengono gli usi e costumi del proprio paese, ma devono rispettare anche i nostri».
È vero. La mancanza di rispetto dà fastidio a tutti, agli italiani come agli stranieri.
«Infatti – continua il mio interlocutore -, molti stranieri sono persone che lavorano, cittadini onesti che meritano ogni rispetto, ma quelli che non rispettano le nostre leggi, i nostri usi e costumi, le nostre abitudini, io credo che dovrebbero andare via».
Molti italiani la pensano così. Purtroppo, succede che vengano mandati via anche i «buoni» e nelle prigioni finiscono anche gli innocenti. Succede. Perché i «buoni» e i «cattivi» sono mescolati fra di loro, in tutti i popoli e in tutti i luoghi del mondo.

S.Petrovic

Snezana Petrovic




SUDAFRICA dai campi agli agglomerati urbani

ORIZZONTI PIÙ VASTI
Sconfitta l’apartheid, il Sudafrica
è alle prese con nuovi e gravi problemi
economici e sociali. I 17 missionari
della Consolata presenti nel paese
non si nascondono le difficoltà,
ma hanno intrapreso un cammino
di rinnovamento per fronteggiare
le nuove sfide. Ce ne parla uno
dei consiglieri generali dell’Istituto,
a conclusione della visita canonica.

L’ultima visita canonica avvenne
l’anno dopo in cui era stata
sconfitta l’apartheid: tutti i
sudafricani erano estasiati per i risultati
miracolosi e pacifici con cui i loro
leaders li avevano traghettati verso
il nuovo Sudafrica. Grandi erano
le aspettative di libertà, giustizia, lavoro,
benessere, scuola e salute uguali
per tutti. Il cielo aveva baciato
la terra sudafricana: il successo sembrava
possibile e a portata di mano.
A sette anni di distanza, il panorama
è oscurato da dense nubi: molte
promesse sono ancora nel cassetto e
nuovi problemi sono sopraggiunti a
complicare la vita della società sudafricana.

APARTHEID ECONOMICA
La situazione economica non potrebbe
essere più squallida. Un quarto
dei sudafricani sopravvivono con
meno di un euro al giorno; metà della
popolazione vive in case fatiscenti,
con un introito inferiore a 100 euro
al mese. Un quarto dei bambini
sotto i sei anni è affetto da insufficienza
alimentare, con gravi rischi
per il loro sviluppo cerebrale.
Dal 1990 al 2000 la disoccupazione
è aumentata del 20%: un lavoratore
su tre è senza lavoro. In alcune
parti del paese la disoccupazione
raggiunge il 50%.
Problema cruciale per l’occupazione
è sempre la questione della terra,
in buona parte ancora nelle mani
di pochi proprietari storici del tempo
dell’apartheid. La riforma agraria,
con la relativa ridistribuzione delle
terre, ha fatto passi da lumaca: il governo
non ha fondi per riscattarle.
Milioni di africani, agricoltori per
cultura e tradizione, ma senza proprietà
terriera, sono privi di ogni sicurezza
economica e devono accontentarsi
di lavori provvisori, banali e
poco retribuiti.
La distanza tra ricchi e poveri diventa
sempre più abissale. La povertà,
poi, ha effetti devastanti nei
comportamenti umani e sociali, che
sfociano nella criminalità, violenza,
prostituzione… e conseguente diffusione
dell’Aids.
L’epidemia dell’Hiv/Aids ha raggiunto
proporzioni spaventose: è responsabile
di una morte su quattro.
Nel 2000 il morbo ha provocato il
40% dei decessi di giovani e adulti
tra i 15 e i 49 anni ed è diventato la
prima e più grande causa di morte
nel paese. Le previsioni sono più terrificanti:
nel 2010 l’Aids avrà ucciso
dai 5 ai 7 milioni di sudafricani.
La mancanza di moralità e la scarsità
di provvedimenti seri a tale proposito
da parte del governo sono i
peggiori nemici degli sforzi che da
varie parti si stanno facendo per
combattere l’epidemia. L’autorità civile
cerca di nascondere la cruda
realtà: gli stanziamenti dei fondi per
la sanità vengono impiegati soprattutto
per combattere le malattie più
convenzionali, come la tubercolosi,
ma poco o niente per prevenire e curare
l’Aids.

SOCIETÀ VIOLENTA
Ad aggravare la situazione del Sudafrica
contribuiscono i mali comuni
al resto del mondo: disonestà economica
ed evasione fiscale nel settore
privato, corruzione e nepotismo
in quello pubblico.
Nonostante le leggi abbiano abolito
ogni residuo di razzismo, permangono
ancora atteggiamenti culturali
e pratici di discriminazione,
specialmente nei riguardi della donna
di colore, in particolare nel mondo
del lavoro.
La famiglia continua ad essere minacciata
nei suoi valori tradizionali
dal sistema di lavoro migratorio: centinaia
di migliaia di lavoratori sono
lontani da casa per quasi tutto l’anno,
oppure la distanza del posto di lavoro
assorbe buona parte della giornata
in viaggi.
Per la maggior parte dei sudafricani
la lotta per la sopravvivenza si
traduce spesso in disperazione, frustrazione,
criminalità, violenza familiare,
dipendenza da droghe e in altri
gravi problemi sociali che tormentano
il paese: il Sudafrica è uno
dei paesi più violenti del mondo; i
suicidi aumentano ogni anno.
La mancanza di sicurezza è spaventosa.
La gente vive nel terrore di
essere aggredita e derubata anche in
pieno giorno, sia in casa che fuori,
per mano di forsennati che non esitano
a uccidere.
Tale insicurezza non risparmia sacerdoti
e religiosi; anzi, sembrano diventati
bersagli facili e preferiti: recentemente
sono stati uccisi due preti
delle diocesi in cui lavorano i
missionari della Consolata.

BISOGNO DI CAMBIAMENTI
In tale situazione, le chiese cristiane
sembrano aver perduto quello
smalto profetico e autorità morale
che le caratterizzavano al tempo dell’apartheid.
Esse sono ancora in prima
linea nella lotta contro l’Aids; rimangono
sempre la voce dei poveri,
anche se non si fa sentire come prima;
partecipano allo sforzo nazionale
per iniettare nella società principi
e valori morali, promuovere sicurezza,
giustizia, armonia e unità di tutti
i sudafricani.
In una società che cambia tanto
velocemente, anche le chiese hanno
bisogno di rinnovare i metodi di apostolato
e testimonianza della fede.
L’atmosfera di materialismo ed edonismo
che si respira nel paese ha appiattito
alcuni aspetti della vita e lavoro
ecclesiale: la distanza tra i più
ricchi e i più poveri, i comportamenti
razzisti e classisti, persistenti
nella società e perfino nelle istituzioni
ecclesiali, non fanno più problema
come una volta.
I missionari della Consolata, da oltre
30 anni, vivono l’evoluzione del
Sudafrica e cercano di adattare la loro
presenza a tali sfide. Vari cambiamenti
sono avvenuti negli ultimi sette
anni; prima di tutto nel numero e
inteazionalità del gruppo: sono 17
missionari, appartenenti a 8 nazionalità
e 4 continenti, in maggioranza
giovani africani e sudamericani.
Tale composizione, non priva di
sfide a livello comunitario, costituisce
una ricchezza di idee, metodi ed
esperienze di lavoro: diversità e unità
sono a servizio della stessa missione,
e diventa modello e testimonianza di
convivenza e collaborazione per una
società pluriculturale e multirazziale
come quella sudafricana.
Con l’aumento del personale è avvenuto
anche un cambiamento di orizzonte:
dopo 20 anni di lavoro nelle
zone rurali, i missionari della Consolata
hanno scelto i poveri dei
grandi agglomerati africani alle periferie
delle grandi città: le townships,
create per le popolazioni nere in
tempo di apartheid.
Oltre a Madadeni, Blaauwbosch,
Osizweni, alla periferia di Newcastle,
i missionari della Consolata hanno
esteso la loro presenza nella città
di Pretoria, prendendo la responsabilità
di una parrocchia nella township
di Mamelodi; sono ritornati in
quella di Embalenhle (Evander);
hanno avviato l’esplorazione di un’apertura
a Soweto (Johannesburg).
Il passaggio dalle piccole e disperse
comunità rurali alle masse delle
zone industrializzate ha provocato
un cambiamento e arricchimento
dei metodi di lavoro. Per rispondere
alle complesse situazioni urbane
non è più sufficiente la buona volontà
di «navigatori solitari», ma occorre
il lavoro di «squadra».
Per questo in quasi tutti i centri vi
sono tre missionari e il lavoro pastorale
è fatto in gruppo: pianificazione
delle attività, divisione delle incombenze,
verifica e valutazione del lavoro
fatto, delle difficoltà e facilitazioni
incontrate.
In un mondo governato dall’individualismo,
che non risparmia neppure
i missionari, è forse questo il più
significativo cambiamento e si dimostra
utile ed efficiente. Ne è prova
l’elogio che il vescovo di Dundee
ha espresso nei riguardi della nostra
presenza a Madadeni, definita «la
migliore parrocchia della diocesi».

SFIDE E PRIORITÀ
Se molto è stato fatto in questi ultimi
anni, ancora molto rimane da fare
per superare le sfide crescenti della
società sudafricana. Oltre a esortare
i missionari al rinnovamento
della vita interiore, per guardare avanti
con speranza, i visitatori hanno
indicato la via e le priorità per il futuro.
«L’evangelizzazione deve precedere
la sacramentalizzazione; la
preparazione di leaders laici deve diventare
la vostra priorità; il lavoro
con la gioventù, già fiorente in tutte
le missioni, deve intensificarsi; l’assistenza
ai malati di Aids, che fa già
parte della vostra preoccupazione
giornaliera, deve crescere; l’inculturazione,
già visibile nella liturgia e
nelle celebrazioni, deve nascere anche
in altri ambiti della vita ecclesiale;
il dialogo ecumenico e interreligioso
deve diventare parte integrante
della vostra missione».
Una delle priorità che si impone ai
missionari della Consolata è l’incremento
dell’animazione missionaria e
vocazionale. Essa è sentita come una
responsabilità, non solo nei riguardi
delle comunità loro affidate, ma da
estendere a tutte le diocesi in cui sono
inseriti. La chiesa e il paese stesso
hanno bisogno di tale servizio, per
diventare più universali, più aperti agli
altri, più accoglienti delle differenze
di razza e nazionalità.
Per lungo tempo i missionari della
Consolata sono stati consigliati di
limitarsi a promuovere le vocazioni
diocesane, poiché la diocesi di Dundee
non aveva alcun prete diocesano.
Da una dozzina d’anni è stato loro
richiesto di avviare la promozione
vocazionale anche a favore
dell’Istituto. Alcuni tentativi sono
stati fatti, ma senza successo.
È arrivato il momento di aiutare la
chiesa sudafricana a fare questo passo
ulteriore: inviare missionari in altre
nazioni e continenti. «Vi chiediamo
di dare priorità a questo settore –
suggeriscono i visitatori – e di considerare
se sia giunto il tempo di avere
un animatore a tempo pieno, di fondare
gruppi vocazionali, costruire una
casa per questo scopo, organizzare
commissioni vocazionali diocesane,
lavorare con altre congregazioni,
fare qualsiasi altra cosa che possa implementare
un più robusto programma
di animazione missionaria e
vocazionale».

GIUSTIZIA E PACE
Anche questa è una priorità continua.
Quando il Sudafrica sconfisse
l’apartheid, gli africani ebbero l’impressione
che il paese sarebbe diventato
modello di società giusta per gli
altri stati africani confinanti. Ciò non
è avvenuto. Molte situazioni ingiuste
continuano con effetti deleteri per il
presente e il futuro del paese. I missionari
della Consolata sono esortati
a stare in prima linea nel servizio e
promozione di «giustizia e pace»,
dando il loro contributo agli sforzi
che la chiesa e altre istituzioni religiose
e civili stanno facendo. Sono convinti
che l’impegno per la giustizia e
la pace non è optional: il paese ne abbisogna,
la missione lo richiede,
l’evangelizzazione,
senza di esso, è sterile.

Norberto Ribeiro Louro




VENEZUELA 2004 Tra Bolivar e Chávez (seconda puntata)

Venezuela 2004 (seconda puntata)


CHÁVEZ TI AMO, CHÁVEZ TI ODIO

In Venezuela la maggioranza della popolazione nasce da una combinazione di elementi indigeni, europei e africani. Ma un
dato di fatto è sotto gli occhi di tutti: il presidente Hugo Chávez è un meticcio, mentre i principali leaders dell’opposizione sono
bianchi. Esiste una componente etnica nella crisi del paese caraibico?
Ne abbiamo parlato con padre Agostinho Barbosa, superiore dei missionari della Consolata in Venezuela. Che tra l’altro
ammette: negare che le attuali divisioni politiche siano arrivate anche all’interno della chiesa e dei fedeli è negare
l’evidenza.


Caracas. «Il fatto è successo nove anni fa. Uccisero un ragazzo per rubargli un paio di scarpe, un evento allora piuttosto comune, soprattutto se si trattava di scarpe sportive. Anche i furti seguono le mode: ora, per esempio, va per la maggiore il furto di cellulari. C’è stato il momento delle pistole
dei poliziotti: venivano uccisi per rubare l’arma. Ebbene, durante i funerali del ragazzo mi avvicinai alla sorella che calzava un paio di scarpe sportive… uguali a quelle per cui il fratello era stato assassinato.
Le chiesi se non avesse paura di essere uccisa anche lei. La sua risposta fu che dobbiamo pur morire e, allora, perché avere paura?».
Portoghese, 38 anni, padre Agostinho Barbosa parla sottovoce, quasi avesse timore di offendere un paese a cui si sente profondamente
legato. Superiore dei missionari della Consolata nel paese caraibico, padre Agostinho ha pochi capelli, ma un aspetto giovanile.
«Ho ricordato – dice, trattenendosi
dal fumare un’altra sigaretta –
l’episodio delle scarpe non per giudicare
questo paese. Anzi, sono qui
già da 10 anni e mi dispiacerebbe
molto andare via».
I missionari vivono in una piccola
casa di un solo piano in una zona
chiamata El Paraíso. Il nome benaugurante
non è però sufficiente
per tenere lontani i problemi, che
sono molti, a cominciare dalla povertà
e dalla insicurezza.
A Caracas si concentrano 4 dei 24
milioni di venezuelani, molti attratti
e ingannati dai falsi miti della metropoli.
«Come spesso accade –
spiega padre Agostinho -, il paese
vero non si vede nella sua capitale.
Qui è tutto un correre: per il lavoro,
la casa, la sopravvivenza. Ora
poi tutto è più complicato a causa
dell’esplosione della crisi e della
violenza».

Attoo a El Paraíso ci sono vari
barrios: Las Vegas, Cota 905, Las
brisas del Paraíso, Las artigas, Antimano,
Carapita.

«Noi lavoriamo a Carapita – spiega
il missionario -. È un luogo difficile
e un sacerdote può cadere nella
tentazione di scoraggiarsi. Se tu
non esci, se non stai per strada, se
non cerchi il contatto, non c’è una
risposta della gente. Mi rallegra
molto la decisione che abbiamo
preso fin dall’inizio: andare dove c’è
più bisogno, dove anche i sacerdoti
diocesani non vogliono andare.
Lo stesso arcivescovo, quando gli
dicemmo che volevamo andare a
Carapita, si meravigliò, perché era
la parrocchia più difficile».

L’ALTRO VENEZUELA

La maggioranza dei venezuelani
sono meticci (o creoli, secondo una
terminologia più accademica). I
bianchi sono circa il 21% e vivono
a Caracas e nelle principali città. Gli
afrovenezuelani sono più o meno il
10% e abitano soprattutto a Barlovento
(stato di Miranda), a sud del
lago di Maracaibo (Zulia) e a Cumaná
(Sucre), tutte zone dove c’erano
(e ci sono) le piantagioni di
caffè e cacao. Gli amerindi (ovvero
i popoli indigeni) sono ormai ridotti
al 2% della popolazione totale; vivono
nella regione del bacino dell’Orinoco,
nella boscaglia della
Guayana e all’interno della giungla
amazzonica.

Dunque, fuori Caracas e in generale
fuori delle città, esiste un altro
Venezuela.
Fino al 1998 i missionari della
Consolata hanno operato tra gli indios
guajiros (1) nello stato di Zulia.
Padre Barbosa ha invece lavorato
per 8 anni nelle missioni di Barlovento,
tra i venezuelani discendenti
degli schiavi africani. Li chiama
negritos, non temendo di essere accusato
di patealismo.

«No, non è patealismo – spiega
tranquillo -. È affetto. Loro sono la
“mia” gente. Il venezuelano nero è
molto aperto, molto più del guajiro,
per esempio».
A Barlovento i missionari della
Consolata seguono 3 parrocchie
con 33 frazioni (caseríos). «Le distanze
sono notevoli – spiega
padre Agostinho -. E poi i
problemi organizzativi sono
complicati dal fatto
che le persone non si
preoccupano molto degli
orari (peraltro, ammetto
di non trovare
sgradevole questo aspetto
del carattere).
Loro dicono sempre:
“Vengo, vengo
un po’ più tardi”.
Sono stato in
Inghilterra e là
non era certo così. Qui devo fissare
un incontro alle 8 per poter cominciare
alle 9. Forse. Però, se uno si abitua,
non ci sono difficoltà».
«Ho trovato persone che vivono
alla giornata, nel senso che il domani
non ha molta importanza. O, meglio,
importa, ma non nel modo europeo
per cui bisogna risparmiare,
essere pronti per ogni futura evenienza.
Se c’è denaro va bene, se
non c’è non importa».
«Forse – continua padre Agostinho
-, è l’ambiente stesso, la natura
del tropico, che si riflette nei
comportamenti della gente. In Europa
devi avere una casa ben chiusa,
pronta per l’inverno; qui non è
necessario, dato che la temperatura
è sempre piacevole. Là
occorre seminare
nel giusto periodo
per
avere il raccolto nel mese adeguato;
qui non serve, perché il raccolto si
può fare varie volte all’anno».
«Non è vero che i negritos siano
dei fannulloni, come dicono molte
persone. Il fatto è che, a causa del
caldo, si lavora solo nelle prime ore
del mattino, per esempio nelle piantagioni
di cacao. Poi, verso le 10 del
mattino, li si vede già per strada, all’angolo
della chiesa o sotto un albero
di mango. Tutto ciò è comprensibile:
nessuno può lavorare
con 35-36 gradi e un tasso elevatissimo
di umidità. Magari, verso le 5-
6 del pomeriggio, quelle stesse persone
toeranno nei campi, ma la
maggior parte del giorno la passano
per strada».
Oggi la gente afro vive come
gli altri venezuelani
(anche se in condizioni
di più accentuata povertà), ma conserva le
proprie radici culturali. «Conosco –
racconta padre Agostinho – un afro
che è diventato avvocato e vive in
città. Ma, quando rientra a Barlovento,
si dimentica di tutto e torna
ad essere soltanto un nero con la sua
musica, i tamburi, i balli, l’acquavite».
Anche la loro cultura religiosa è
particolare, legata non tanto alle
tradizioni degli avi africani, quanto
piuttosto a quelle dei colonizzatori
spagnoli. «Guardano ai santi, alle
processioni – spiega il missionario –
. Per sentire che sono chiesa, che sono
cristiani, gli afro devono vedere
e toccare: toccare la statua del santo
o il padre».

PER SCHIARIRE LA PELLE

Incontriamo il dottor Manuel
Barroso, noto psicanalista, autore di
numerosi saggi. Ci spiega che in Venezuela
la «cultura dell’abbandono», importata dai colonizzatori,
continua a produrre moltissimi
danni nella struttura della società.
Nel paese ci sarebbe un 60% di figli
abbandonati o senza un genitore
(di norma il padre).

«Quella della famiglia è una questione
molto seria – ci conferma padre
Agostinho -, ma non mi limiterei
a spiegarla con il machismo. È
vero che il problema nasce per l’irresponsabilità
dell’uomo, ma anche
per colpa della donna a
cui della famiglia non importa
molto: quello che le interessa è
avere figli. Poi, se l’uomo non se
ne occupa, lo fa lei, cioè non lo
obbliga ad interessarsi di loro.
Quindi, è un fatto normale che i
fratelli abbiano padri differenti».
Per fortuna, c’è nella donna la capacità
di accettare i figli che il marito
ha avuto da un’altra. C’è anche la
disponibilità a crescerli come
se fossero suoi e a mantenere
buoni rapporti
con la madre naturale.
«Ho incontrato – racconta
il missionario – donne con
11 figli e solo 2 dello stesso
padre e questi comportamenti
si tramandano di generazione
in generazione. Ci sono
anche coppie stabili, ma i
numeri sono bassi. Personalmente
conosco due coppie sposate in chiesa (pochissime si sposano
in chiesa), che non hanno figli da
altre relazioni. Tutte le altre, anche
se magari convivono stabilmente,
hanno avuto figli fuori dal matrimonio.
Questi comportamenti riguardano
in modo particolare gli afrovenezuelani».
La sociologa Mercedes Pulido ha
spiegato a Noticias Aliadas (2) che
in Venezuela il colore della pelle è
sempre «caffè con latte. A volte con
un po’ più di caffè, a volte con un
po’ più di latte». La questione è se,
nel paese caraibico, il colore della
pelle sia o no un fattore discriminante
(3).

«Lo è, lo è – spiega padre Agostinho
-. Nella mia esperienza di
missionario, ho visto che ci sono negritas
che vogliono “migliorare” la
razza, schiarendo la pelle, perché a
loro non piace essere nere. Vedere
una afro con un figlio catir (quasi
bianco), mentre convive con un nero,
è facile. Molte donne di colore
cercano l’uomo bianco per avee
un figlio, ma rifiutano la convivenza
con lui.

C’era un italiano, un poliziotto,
che aveva avuto un figlio con una
donna afro: lei ha voluto il figlio, ma
non suo padre. Questo razzismo nasce
da un’autostima molto bassa,
probabilmente per un retaggio storico
duro a morire».
Per confermare questa sensazione,
padre Agostinho racconta altri
episodi accaduti durante i suoi anni
trascorsi tra gli afrovenezuelani.
Come il sacerdote cacciato perché
era «nero come noi». O il medico rifiutato
perché era «nero come noi».
O ancora la lite tra due donne afro
che si affrontavano dandosi del «taci
tu che sei più negra di me».

IL METICCIO CHÁVEZ
DIVIDE ANCHE IN CHIESA

Il presidente Hugo Chávez è un
mestizo. All’opposto la maggioranza
degli impresari, sindacalisti, politici
e giornalisti dell’opposizione
sono bianchi.

«Non so – spiega padre Agostinho
– quanto questa componente razziale influisca. So soltanto che la situazione
generale è complicata e
per noi anche molto delicata. Non
tanto perché il governo fa pressioni
sulla chiesa (questo non mi preoccupa),
ma perché abbiamo il difficile
compito di unire la gente mentre,
anche dentro la stessa chiesa, ci
sono persone che si odiano perché
uno ha un ideale e uno un altro, perché
uno ama Chávez e uno lo odia.
L’altro giorno una signora mi ha
raccontato che suo marito aveva
rotto il televisore, perché compariva
Chávez. Mi ha spiegato che non
ne avrebbe comperato un altro, dato
che il marito lo avrebbe rotto di
nuovo al riapparire del presidente e
ha aggiunto che non avrebbe fatto
la comunione perché provava un odio
fortissimo per Chávez. Un’altra
volta ho incontrato in chiesa una signora
inginocchiata e piangente. Mi
ha spiegato che stava chiedendo a
Dio che Chávez se ne andasse. Io ho
detto che, come per tutti, sarebbe
venuto anche il suo momento e che
Dio non parteggia per l’uno o per
l’altro dei contendenti.

D’altra parte, è altrettanto vero
che ci sono persone, soprattutto dei
quartieri più poveri, che amano il
presidente Chávez».

Il presidente è stato eletto con il
voto determinante delle classi meno
abbienti della popolazione. «Ma
non solo da loro – precisa padre Agostinho
-. Il Venezuela era in una
profonda crisi economica e sociale.
Anche per questo la gente ha votato
in massa Chávez, con la speranza
che lui salvasse il paese. Però non
si può dire che l’abbia fatto. Ha
grandi idee, buoni ideali, buoni
programmi, ma fino ad ora non si è
realizzato molto».

LA COSTITUZIONE
COME UN «BEST SELLER»

Per le vie del centro di Caracas
sulle bancarelle dei buhoneros (venditori
di strada) si trova in vendita
la «Costituzione della repubblica
bolivariana del Venezuela». Nelle
case dei quartieri poveri non manca
mai quel libretto, che può stare
nel taschino della camicia. Se Chávez
dovesse lasciare la presidenza, è
difficile pensare che tutto questo
venga dimenticato.

«È vero – ci conferma il missionario
-. Toare al passato non è più
possibile. Una cosa positiva è che la
rivoluzione bolivariana ha reso più
consapevoli i venezuelani. Questo
significa che il prossimo presidente,
chiunque esso sia, dovrà far i
conti con questa nuova coscienza
collettiva.
Oggi il paese è sul bordo del baratro.
Se dico che sono ottimista
mento, ma mento egualmente se dico
che sono pessimista.
Ricordo una frase che mi dissero
quando arrivai qui in Venezuela: il
venezuelano è molto tranquillo e
pacifico, ma non toccarlo nello stomaco:
è abituato ad avere cibo e
non sopporta di patire la fame».

QUELLA FIRMA DI APRILE

Durante i convulsi giorni dell’aprile
2002, la chiesa ufficiale venezuelana
si affrettò a riconoscere il
golpe contro il presidente Chávez.
In particolare, il cardinale Ignacio
Velasco, arcivescovo di Caracas,
firmò l’atto di accettazione del nuovo
governo di Pedro Carmona.
Padre Agostinho è molto cauto al
riguardo. «Io mi limito a pregare –
conclude il missionario -, affinché il
paese continui ad essere un paese
dove possano vivere sia gli uni che
gli altri. Noi cercheremo di giocare
il nostro ruolo senza metterci troppa
ideologia, se non è proprio indispensabile.
Come sacerdoti non dobbiamo
tanto schierarci contro Chávez, ma
piuttosto essere di stimolo affinché
il presidente torni ad orientarsi verso
i suoi ideali che erano buoni».

(FINE 2a. PUNTATA – CONTINUA)

Box

Fronte dei media. Come televisioni e giornali capovolgono la realtà

Tutti i principali canali televisivi e i
giornali nazionali del Venezuela sono
in mano all’opposizione. Non esiste
alcun tipo di «par condicio». Il presidente
non viene soltanto criticato (come
giusto e normale), ma deriso e insultato.
«Si sta consumando, nell’indifferenza e
nel silenzio del mondo – ha scritto il teologo
Giulio Girardi (1) -, un crimine
contro l’umanità: il soffocamento della
speranza dei poveri, rappresentata in
Venezuela dalla rivoluzione bolivariana
e dal presidente Chávez. Il silenzio che
avvolge e nasconde questa battaglia è
dovuto in larga misura alla complicità
dei mezzi di comunicazione di massa
(…), che presentano della situazione
un’immagine rovesciata, secondo cui un
popolo oppresso si starebbe ribellando
ad un presidente violento e repressivo».
I maggiori canali televisivi del Venezuela
sono:

• Canale 2, «Radio Caracas Televisión»
(di Marcel Granier)

• Canale 4, «Venevision» (Gustavo Cisneros)

• Canale 10, «Televen» (Omar Camero)

• Canale 16, «Globovision» (Federico Ravell).

Sul fronte opposto c’è Canale 8, «Venezolana
de Televisión», la piccola televisione
statale da dove, ogni domenica,
parla Chávez in prima persona nell’ambito
di un programma chiamato «Aló
Presidente!». La trasmissione è prolissa
(può durare ore) e spesso non rende
un buon servizio al presidente, che ha
nella sua «incontinenza verbale» un importante
punto debole.

Sono totalmente schierati con l’opposizione
anche i due principali quotidiani
del paese: «El Nacional» (di Miguel
Henrique Otero) e «El Universal»
(Andrés Mata Osorio).
Vanno inoltre segnalati due siti Web
particolarmente virulenti nei confronti
del governo Chávez e dei suoi sostenitori:
• www.reconocelos.com
• www.militaresdemocraticos.com
Il primo sito è una sorta di «wanted» elettronico
(o di modea «lista di proscrizione
»), dove appare il volto («Nunca
olvides estas caras»), il curriculum e le
abitudini di chiunque collabori e abbia
collaborato, a qualsiasi livello (dai ministri
ai giornalisti), con il governo; gli utenti
del sito possono inviare i loro commenti-invettive. Nella lista si trovano, ad
esempio, la dottoressa Osorio e l’ingegner
Giordani, colpevoli di essere ministri
del governo, o il giornalista Eesto
Villegas, reo di lavorare alla televisione
di stato. Il secondo è invece il sito dei militari
dissidenti che hanno il loro quartier
generale in piazza Altamira (2).

«In Venezuela – ha scritto Naomi
Klein (3) – perfino i telecronisti
sportivi vengono arruolati nel tentativo
dei mezzi d’informazione privati di cacciare
il governo democraticamente eletto
di Hugo Chávez. (…) Le tv private sono
di proprietà di ricche famiglie che
hanno seri interessi economici a sconfiggere
Chávez. (…) Nei giorni che hanno
portato al colpo di stato di aprile, Venevision,
Rctv, Globovision e Televen
(4) hanno sostituito la normale programmazione
con discorsi antichavisti,
interrotti solo da spot che invitavano gli
spettatori a scendere nelle strade. (…) E
se le tv si sono rallegrate apertamente alla
notizia delle “dimissioni” di Chávez,
quando le forze filochaviste si sono mobilitate
per ottenere il suo ritorno, è stato
imposto un blackout totale dell’informazione.
(…) Quando Chávez è
finalmente tornato al palazzo di Miraflores,
le tv (…) hanno mandato in onda
il film Pretty Woman e i cartoni animati
di Tom e Jerry».

(1) Si veda Adista del 4 gennaio 2003.

(2) Al riguardo si legga l’articolo pubblicato
su M.C. di maggio.

(3) Si veda Internazionale del 14 febbraio
2003.

(4) Alcuni siti web delle televisioni: www.globovision.
net; www.venevision.net. E dei due
maggiori quotidiani: www.eluniversal.com;
www.el-nacional.com. Il sito della presidenza:
www.venpres.gov.ve.

Paolo Moiola




Storie tristi a lieto fine

In my Father’s House (Nella casa del Padre mio) è una città dei ragazzi di Abor (Ghana). Nata per iniziativa del comboniano padre Peppino Rabbiosi, ospita 83 orfani dai 4 ai 17 anni, di ambo i sessi.

Nei due mesi di permanenza ad Abor, nel sud-est del Ghana, ai confini col Togo, sono stato obbligato dalle necessità a farmi carico dell’aspetto sanitario, pur non essendo medico: somministrazione di medicinali, medicazioni di ferite più o meno infette, fasciature, ecc., fra malati veri o… immaginari, desiderosi solo di un poco di attenzione. Così ho potuto entrare maggiormente in contatto con i ragazzi accolti In my Father’s House e guadagnae la fiducia.

FRANCIS E IL MOSTRO INSAZIABILE
– Pensi che dopo potrò giocare a pallone?
– Perché no?
Cosa si può rispondere a una domanda, così diretta, di un ragazzo che ti stringe come una morsa e si appiattisce sul tuo torace quasi voglia penetrarvi? Un ragazzo che sta entrando in sala operatoria, per un intervento dall’esito non scontato. La sua gamba sinistra è a forte rischio. Per tutti era e resta da amputare. Ma un chirurgo tedesco, in Ghana da una vita, forse può fare il miracolo. Forse riesce a salvarla.
Francis ha 16 anni; ma ne dimostra una dozzina scarsa. Il suo corpo è deformato e dilaniato da osternomielite spongiforme. Malnutrizione e carenze igieniche hanno ulteriormente aggravato la situazione.
Due occhi dolcissimi da gazzella, in cui si legge il terrore per ciò che potrebbe succedere oltre quella porta. Il terrore di essere di nuovo abbandonato, perché non utile alla comunità. Perché impossibilitato a lavorare come tutti gli altri. Il terrore che possa essere scaricato anche da quel padre che una «Mano» guidò un giorno nel suo villaggio e lo raccolse. Raccolse un povero mucchietto di ossa, corrose da un mostro insaziabile, ma alimentate da una forte volontà di vivere. Nonostante tutto e tutti.
Facendo leva su questa forza l’ho convinto a provarci. Ha fiducia in me. Quella «Mano» che un giorno guidò il missionario, forse ha aiutato anche me a trovare le parole giuste. Gli prometto di restare qui. Di aspettarlo e stargli vicino, anche se lui sarà addormentato. E quando, dopo alcune ore, la porta si apre e spunta il lettino, i miei occhi cercano immediatamente i piedi: «Grazie!».
Un pensiero al Grande Artefice, mentre gli occhi, velati di lacrime, sono fissi sui due piedi: sì, ci sono tutti e due.
Esce l’assistente, una dottoressa tedesca dalla imponente stazza, con un sorriso a tutta bocca. Mi conferma il buon risultato. Il chirurgo ha potuto fare un buon lavoro di ricostruzione dell’arto.
Dopo una ventina di giorni lo riporto a casa, In my Father’s House.
E l’ultimo, interminabile abbraccio prima di partire è per lui. Come gli avevo promesso.
Daniel, il giovane poeta
«Perché mi avete messo al mondo se poi mi dovevate abbandonare così presto? È dura la vita per un bambino se nessuno l’aiuta, se nessuno gli dice come fare…».
Questo atto d’accusa nei confronti dei genitori, colpevoli di averlo lasciato solo nei primi anni di vita (morti entrambi per malattia) è la sintesi di una lunga poesia, scritta da Daniel, quando aveva 12 anni. Recitata con l’angoscia nel cuore, gli è valsa un importante riconoscimento in un concorso di poesia tra gli studenti del Ghana.
Sì, Daniel, che ha appena compiuto 14 anni, scrive poesie. In ewe, la lingua della sua etnia. A una di queste la stampa locale ha dato importante spazio: esorta i giovani a essere fieri della propria africanità; a non fuggire in America o in Europa; a non ripudiare le loro radici e tradizioni per inseguie altre che non saranno mai assimilate. Cose sconvolgenti se dette da un ragazzino che ha sempre vissuto in poveri villaggi sulle rive del fiume Volta.
A 10 anni Daniel non sapeva ancora scrivere. Non era mai entrato in una scuola, benché lo volesse con tutte le sue forze. Per il parente (ammesso che lo fosse) a cui era stato ceduto, era un lusso che non si poteva permettere. Un’inutile perdita di tempo. Non era per gente come lui.
Solo lavorando duro poteva sperare in qualcosa da mangiare. Il lavoro era davvero duro: già a 7-8 anni Daniel s’immergeva, prima che facesse chiaro, nelle acque del fiume e poi andava nei mercati, con una cesta sulla testa, a rivendere il pescato. Sovente, se i frutti non erano soddisfacenti, severe punizioni condivano o sostituivano il poco cibo.
Ma curiosità e fame di sapere (non inferiore a quella del suo stomaco) non potevano passare inosservati. Le voci che riguardavano questo ragazzino, dai modi così educati, arrivarono anche al villaggio della vecchia nonna, a una trentina di chilometri. Nonostante gli acciacchi che le impedivano di muoversi normalmente, non esitò ad andarselo a riprendere, una volta appurato che si trattava del nipote.
Il direttore della locale scuola si interessò personalmente della sua istruzione. «Era sempre pronto a ricevere più di quanto gli riuscissi a dare. E le garantisco che non era poco» mi confidò quando lo andai a trovare.
Un giorno, quasi per caso, si accorse delle poesie che Daniel cominciava a scrivere. Lo incoraggiò. Lo designò come rappresentante della scuola alle varie selezioni, che Daniel superò senza problemi, di quel concorso per giovani poeti e musicisti. Nella giornata finale, 64 distretti scolastici erano rappresentati. Centinaia di persone lo hanno applaudito… e pianto con lui.
Ora, con 82 bambini che hanno alle spalle storie tristi come la sua, è In my Father’s House. Ha la fortuna di poter frequentare regolarmente la scuola e ha recuperato il tempo perduto. Daniel vuole diventare dottore. È conscio che sarà dura, ma promette di mettercela tutta:
«Anche se l’università mi porterà lontano, toerò nel mio villaggio. Troppi bambini hanno bisogno di cure e non se le possono permettere…».
Lo guardo; non riesco a credere che, dietro quegli occhi sinceri, ci sia solo un ragazzino di 14 anni, compiuti da pochi giorni.

SELASI E L’ATAVICA RASSEGNAZIONE
«Thank you» (grazie). Che dolce suono. È solo una parola pronunciata quasi sottovoce, ma ha lo stesso impatto di un concerto di campane.
«Thank you». È la prima parola che gli sento pronunciare da quando sono arrivato In my Father’s House. Una decina di giorni. E ne ho passate di ore accanto al suo letto.
«Thank you». Quasi non ci credo, mentre lo guardo negli occhi e vi scorgo finalmente un poco di luce.
L’ho aiutato a sedere nel letto e sto iniziando a imboccarlo. La febbre è calata; se si riesce ad alimentare normalmente, eliminiamo alcune flebo.
Selasi si sta riprendendo piano piano da un bruttissimo attacco malarico, con febbre sempre molto alta. Una sorta di foruncolosi, diffusa su tutto il corpo e diagnosticata inizialmente come varicella, ha ulteriormente aggravato la situazione.
Ha 12 anni Selasi; ma nel letto che gli abbiamo approntato accanto alla nostra camera per tenerlo maggiormente sotto controllo e per non correre rischi di contagio, sembra ancora più minuto di quanto sia in realtà.
«Ma allora non sei muto. Ce l’hai la voce» gli dico sorridendo.
Quante volte l’avevo esortato, anche in modo brusco, per farlo reagire: «Non pretendo che tu sorrida. Non ne avresti motivo. Ma fai qualcosa. Rispondimi anche male, se credi, ma parla. Dì qualcosa».
Il suo volto non cambiava espressione: una maschera senza vita. I suoi occhi, pur aperti, erano un monitor spento: non trasmettevano alcunché. Accettava passivamente ogni sorta di tortura, flebo o iniezioni che fossero. Come un automa ingurgitava decine di compresse. Inerte come un manichino, mentre lo imbiancavo da capo a piedi con un ributtante liquido dermatologico. Senza alcun gesto d’insofferenza si lasciava lavare prima di questa operazione.
Questa accettazione passiva di una grave malattia e la rassegnazione di fronte alle conseguenze più tragiche mi sconvolgeva. Quante volte è stata descritta l’atavica rassegnazione dei meno fortunati, quando aleggia minaccioso lo spettro di chi li vuole traghettare in un’altra vita. È capitato anche a me di vederla in India e in Mali. Pur essendo pugni nello stomaco, si trattava di persone che non conoscevo, con cui non avevo contatti diretti. Ma non riuscivo ad accettarla in questo dodicenne; descritto come pieno di vita e fanatico del pallone.
«Thank you». È solo una parola, ma intuisco che è l’inizio del suo risveglio, della sua riscossa. E infatti scompare la febbre e scompaiono… i biscotti che continuamente gli lascio sul tavolino.
«Thank you». Mentre sfebbrato, ma ancora debole, guarda il mare, dove i suoi compagni si stanno spruzzando e spintonando.
«Thank you». Mentre sudato e visibilmente soddisfatto, prende dalle mie mani il pallone che era uscito nei pressi.
«Thank you». Mentre una sera mi si viene a sedere vicino, sui gradini della chiesetta, dove stavo meditando sulla straordinaria esperienza che stavo vivendo: appoggia la testa sulle mie gambe e si addormenta.

L’ERNIA DI EMMANUEL
«Questo bimbo deve essere operato. Se si fa ora, a questa età, la cosa si risolve facilmente». G., il medico trentino che mi ha accompagnato nei primi giorni ad Abor, guarda l’eia ombelicale di Emmanuel, un bimbo di 4 anni, con occhi sempre luminosi come fari da stadio.
No problem. Le uniche obiezioni potrebbero forse venire dall’interessato, ma nessuno chiede il suo parere. L’intervento riesce perfettamente. Il chirurgo è soddisfatto. Molto meno Emmanuel quando, diminuiti gli effetti anestetici, comincia ad avvertire dolori che prima non sentiva. Quando vede sul suo ventre grossi cerotti che prima non aveva.
Odierà il nostro gruppetto, dottor G. compreso, per alcuni giorni. Odierà anche me, per le visite di controllo che lo porto successivamente a fare e per le medicazioni che gli devo praticare.
Ma una volta spariti i cerotti, sarà molto attivo nel contendere le mie ginocchia (sedile privilegiato) ai suoi coetanei Daniel e Cristopher.
Accanto alla macchina che mi conduce in aeroporto, mi prende un braccio, si scopre l’ombelico alzando la maglietta e, in un misto di inglese/ewe che risulta ben comprensibile: «Se non vai via, puoi mettere ancora medicine qui. Ti prometto che non piango più».
Ora possono SOGNARE
Quante storie. Tutte diverse, ma con denominatori comuni: tristezza, sofferenza, abbandono.
Bambini abbandonati perché orfani; perché la madre, con compagni spesso diversi, non poteva prendersi cura di loro. Trascurati perché, a causa di malformazioni, non erano in grado di garantire aiuto, perché mostri insaziabili divoravano loro le ossa o perché, a causa della malnutrizione, il loro ventre era gonfio come un pallone.
Bambini in tenerissima età, coetanei di quelli che da noi vengono accompagnati fino al portone della scuola, costretti ogni giorno a inventarsi come fare per sopravvivere. Il che non significa solo procurarsi qualcosa per tacitare i tormentosi morsi della fame.
Bambini che, tuttavia, hanno avuto il colpo di fortuna (mi sia consentita questa grottesca espressione, date le tragedie che li hanno visti protagonisti). Sì, ripeto, bambini fortunati, perché, fra migliaia e migliaia di altri come loro, sono stati sorteggiati. Hanno vinto una lotteria ben più importante di quelle che imperversano nel mondo, creando illusioni fra la povera gente. Hanno trovato qualcuno sulla loro strada che li ha raccolti e accompagnati In my Father’s House, dove ora possono mangiare regolarmente, dormire al coperto, lavarsi con acqua corrente, frequentare la scuola.
Possono sognare di diventare missionari, agronomi, dottori, informatici, chimici, autisti, meccanici, infermieri. Gioo dopo giorno imparano che in questo mondo c’è posto anche per loro e possono giocarvi un ruolo da protagonista.
Bambini e Generosità
Tra le tante cose che amo dell’Africa, c’è che nessuno fa caso alle… padelle che hai su maglietta e pantaloni. Se poi vivi fra bambini, diventano come i marchi inevitabili.
Entri nel refettorio con maglietta e pantaloncini freschi di bucato (cioè lavati alla benemeglio) e decine di mani unte di fufu (polentina tipica ghanese) sono pronte a lasciare affettuosamente le loro indelebili impronte.
Quelle mani ti sfiorano, ti accarezzano, reclamano attenzione; si alzano per offrirti un pesciolino, un pezzetto di carne, un morso di banana, togliendoli da razioni mai sufficienti per la fame arretrata: sono tutti abbondantemente sottopeso per la carente e inadeguata alimentazione prima di entrare In my Father’s House.
E tutto ciò ti commuove perché t’accorgi che non è solo un gesto di cortesia. Devi sfoderare tutta la diplomazia di cui disponi per rifiutare. Se lo accetti da uno, lo devi accettare da tutti. E sono 83. Allora sorridi, accarezzi la testa, baci una fronte e, quando non è sufficiente, ti inventi un mal di pancia.
Quando poi, prima di coricarti, ti sfili la maglietta, la guardi con simpatia, quasi fosse un’opera d’arte modea, realizzata appositamente per te.
Bambini e devozione
Alzi la mano chi, da bambino, ha sempre partecipato con entusiasmo al rosario che, almeno ai miei tempi, quotidianamente veniva recitato in famiglia o in chiesa. Chi non posava spesso gli occhi su quei grani che sembravano scorrere così lenti?
Nella Casa del Padre mio è adottato un sistema simpatico per tenere sempre attiva la partecipazione, soprattutto fra i più piccoli: un’Ave Maria a testa. Chi non ha la coroncina conta le teste di chi lo precede per capire se a lui capiterà un’Ave o il Gloria. Ma, ad onor del vero, va detto che anche le risposte dimostrano che è una pratica sentita, senza insofferenza.
La partecipazione è ancora più sentita quando si intonano i canti; quando le percussioni segnano il ritmo e a decine si può uscire dai banchi e, danzando, dare libero sfogo alla innata musicalità. I ritoelli sono continuamente alimentati e riproposti, rendendo i canti interminabili.
Si può pregare in tanti modi, anche cantando e danzando. Guardando loro, capisci che, al di là delle parole, questo è il loro modo più bello per rivolgersi all’Altissimo.

Mario Beltrani