Storie tristi a lieto fine

In my Father’s House (Nella casa del Padre mio) è una città dei ragazzi di Abor (Ghana). Nata per iniziativa del comboniano padre Peppino Rabbiosi, ospita 83 orfani dai 4 ai 17 anni, di ambo i sessi.

Nei due mesi di permanenza ad Abor, nel sud-est del Ghana, ai confini col Togo, sono stato obbligato dalle necessità a farmi carico dell’aspetto sanitario, pur non essendo medico: somministrazione di medicinali, medicazioni di ferite più o meno infette, fasciature, ecc., fra malati veri o… immaginari, desiderosi solo di un poco di attenzione. Così ho potuto entrare maggiormente in contatto con i ragazzi accolti In my Father’s House e guadagnae la fiducia.

FRANCIS E IL MOSTRO INSAZIABILE
– Pensi che dopo potrò giocare a pallone?
– Perché no?
Cosa si può rispondere a una domanda, così diretta, di un ragazzo che ti stringe come una morsa e si appiattisce sul tuo torace quasi voglia penetrarvi? Un ragazzo che sta entrando in sala operatoria, per un intervento dall’esito non scontato. La sua gamba sinistra è a forte rischio. Per tutti era e resta da amputare. Ma un chirurgo tedesco, in Ghana da una vita, forse può fare il miracolo. Forse riesce a salvarla.
Francis ha 16 anni; ma ne dimostra una dozzina scarsa. Il suo corpo è deformato e dilaniato da osternomielite spongiforme. Malnutrizione e carenze igieniche hanno ulteriormente aggravato la situazione.
Due occhi dolcissimi da gazzella, in cui si legge il terrore per ciò che potrebbe succedere oltre quella porta. Il terrore di essere di nuovo abbandonato, perché non utile alla comunità. Perché impossibilitato a lavorare come tutti gli altri. Il terrore che possa essere scaricato anche da quel padre che una «Mano» guidò un giorno nel suo villaggio e lo raccolse. Raccolse un povero mucchietto di ossa, corrose da un mostro insaziabile, ma alimentate da una forte volontà di vivere. Nonostante tutto e tutti.
Facendo leva su questa forza l’ho convinto a provarci. Ha fiducia in me. Quella «Mano» che un giorno guidò il missionario, forse ha aiutato anche me a trovare le parole giuste. Gli prometto di restare qui. Di aspettarlo e stargli vicino, anche se lui sarà addormentato. E quando, dopo alcune ore, la porta si apre e spunta il lettino, i miei occhi cercano immediatamente i piedi: «Grazie!».
Un pensiero al Grande Artefice, mentre gli occhi, velati di lacrime, sono fissi sui due piedi: sì, ci sono tutti e due.
Esce l’assistente, una dottoressa tedesca dalla imponente stazza, con un sorriso a tutta bocca. Mi conferma il buon risultato. Il chirurgo ha potuto fare un buon lavoro di ricostruzione dell’arto.
Dopo una ventina di giorni lo riporto a casa, In my Father’s House.
E l’ultimo, interminabile abbraccio prima di partire è per lui. Come gli avevo promesso.
Daniel, il giovane poeta
«Perché mi avete messo al mondo se poi mi dovevate abbandonare così presto? È dura la vita per un bambino se nessuno l’aiuta, se nessuno gli dice come fare…».
Questo atto d’accusa nei confronti dei genitori, colpevoli di averlo lasciato solo nei primi anni di vita (morti entrambi per malattia) è la sintesi di una lunga poesia, scritta da Daniel, quando aveva 12 anni. Recitata con l’angoscia nel cuore, gli è valsa un importante riconoscimento in un concorso di poesia tra gli studenti del Ghana.
Sì, Daniel, che ha appena compiuto 14 anni, scrive poesie. In ewe, la lingua della sua etnia. A una di queste la stampa locale ha dato importante spazio: esorta i giovani a essere fieri della propria africanità; a non fuggire in America o in Europa; a non ripudiare le loro radici e tradizioni per inseguie altre che non saranno mai assimilate. Cose sconvolgenti se dette da un ragazzino che ha sempre vissuto in poveri villaggi sulle rive del fiume Volta.
A 10 anni Daniel non sapeva ancora scrivere. Non era mai entrato in una scuola, benché lo volesse con tutte le sue forze. Per il parente (ammesso che lo fosse) a cui era stato ceduto, era un lusso che non si poteva permettere. Un’inutile perdita di tempo. Non era per gente come lui.
Solo lavorando duro poteva sperare in qualcosa da mangiare. Il lavoro era davvero duro: già a 7-8 anni Daniel s’immergeva, prima che facesse chiaro, nelle acque del fiume e poi andava nei mercati, con una cesta sulla testa, a rivendere il pescato. Sovente, se i frutti non erano soddisfacenti, severe punizioni condivano o sostituivano il poco cibo.
Ma curiosità e fame di sapere (non inferiore a quella del suo stomaco) non potevano passare inosservati. Le voci che riguardavano questo ragazzino, dai modi così educati, arrivarono anche al villaggio della vecchia nonna, a una trentina di chilometri. Nonostante gli acciacchi che le impedivano di muoversi normalmente, non esitò ad andarselo a riprendere, una volta appurato che si trattava del nipote.
Il direttore della locale scuola si interessò personalmente della sua istruzione. «Era sempre pronto a ricevere più di quanto gli riuscissi a dare. E le garantisco che non era poco» mi confidò quando lo andai a trovare.
Un giorno, quasi per caso, si accorse delle poesie che Daniel cominciava a scrivere. Lo incoraggiò. Lo designò come rappresentante della scuola alle varie selezioni, che Daniel superò senza problemi, di quel concorso per giovani poeti e musicisti. Nella giornata finale, 64 distretti scolastici erano rappresentati. Centinaia di persone lo hanno applaudito… e pianto con lui.
Ora, con 82 bambini che hanno alle spalle storie tristi come la sua, è In my Father’s House. Ha la fortuna di poter frequentare regolarmente la scuola e ha recuperato il tempo perduto. Daniel vuole diventare dottore. È conscio che sarà dura, ma promette di mettercela tutta:
«Anche se l’università mi porterà lontano, toerò nel mio villaggio. Troppi bambini hanno bisogno di cure e non se le possono permettere…».
Lo guardo; non riesco a credere che, dietro quegli occhi sinceri, ci sia solo un ragazzino di 14 anni, compiuti da pochi giorni.

SELASI E L’ATAVICA RASSEGNAZIONE
«Thank you» (grazie). Che dolce suono. È solo una parola pronunciata quasi sottovoce, ma ha lo stesso impatto di un concerto di campane.
«Thank you». È la prima parola che gli sento pronunciare da quando sono arrivato In my Father’s House. Una decina di giorni. E ne ho passate di ore accanto al suo letto.
«Thank you». Quasi non ci credo, mentre lo guardo negli occhi e vi scorgo finalmente un poco di luce.
L’ho aiutato a sedere nel letto e sto iniziando a imboccarlo. La febbre è calata; se si riesce ad alimentare normalmente, eliminiamo alcune flebo.
Selasi si sta riprendendo piano piano da un bruttissimo attacco malarico, con febbre sempre molto alta. Una sorta di foruncolosi, diffusa su tutto il corpo e diagnosticata inizialmente come varicella, ha ulteriormente aggravato la situazione.
Ha 12 anni Selasi; ma nel letto che gli abbiamo approntato accanto alla nostra camera per tenerlo maggiormente sotto controllo e per non correre rischi di contagio, sembra ancora più minuto di quanto sia in realtà.
«Ma allora non sei muto. Ce l’hai la voce» gli dico sorridendo.
Quante volte l’avevo esortato, anche in modo brusco, per farlo reagire: «Non pretendo che tu sorrida. Non ne avresti motivo. Ma fai qualcosa. Rispondimi anche male, se credi, ma parla. Dì qualcosa».
Il suo volto non cambiava espressione: una maschera senza vita. I suoi occhi, pur aperti, erano un monitor spento: non trasmettevano alcunché. Accettava passivamente ogni sorta di tortura, flebo o iniezioni che fossero. Come un automa ingurgitava decine di compresse. Inerte come un manichino, mentre lo imbiancavo da capo a piedi con un ributtante liquido dermatologico. Senza alcun gesto d’insofferenza si lasciava lavare prima di questa operazione.
Questa accettazione passiva di una grave malattia e la rassegnazione di fronte alle conseguenze più tragiche mi sconvolgeva. Quante volte è stata descritta l’atavica rassegnazione dei meno fortunati, quando aleggia minaccioso lo spettro di chi li vuole traghettare in un’altra vita. È capitato anche a me di vederla in India e in Mali. Pur essendo pugni nello stomaco, si trattava di persone che non conoscevo, con cui non avevo contatti diretti. Ma non riuscivo ad accettarla in questo dodicenne; descritto come pieno di vita e fanatico del pallone.
«Thank you». È solo una parola, ma intuisco che è l’inizio del suo risveglio, della sua riscossa. E infatti scompare la febbre e scompaiono… i biscotti che continuamente gli lascio sul tavolino.
«Thank you». Mentre sfebbrato, ma ancora debole, guarda il mare, dove i suoi compagni si stanno spruzzando e spintonando.
«Thank you». Mentre sudato e visibilmente soddisfatto, prende dalle mie mani il pallone che era uscito nei pressi.
«Thank you». Mentre una sera mi si viene a sedere vicino, sui gradini della chiesetta, dove stavo meditando sulla straordinaria esperienza che stavo vivendo: appoggia la testa sulle mie gambe e si addormenta.

L’ERNIA DI EMMANUEL
«Questo bimbo deve essere operato. Se si fa ora, a questa età, la cosa si risolve facilmente». G., il medico trentino che mi ha accompagnato nei primi giorni ad Abor, guarda l’eia ombelicale di Emmanuel, un bimbo di 4 anni, con occhi sempre luminosi come fari da stadio.
No problem. Le uniche obiezioni potrebbero forse venire dall’interessato, ma nessuno chiede il suo parere. L’intervento riesce perfettamente. Il chirurgo è soddisfatto. Molto meno Emmanuel quando, diminuiti gli effetti anestetici, comincia ad avvertire dolori che prima non sentiva. Quando vede sul suo ventre grossi cerotti che prima non aveva.
Odierà il nostro gruppetto, dottor G. compreso, per alcuni giorni. Odierà anche me, per le visite di controllo che lo porto successivamente a fare e per le medicazioni che gli devo praticare.
Ma una volta spariti i cerotti, sarà molto attivo nel contendere le mie ginocchia (sedile privilegiato) ai suoi coetanei Daniel e Cristopher.
Accanto alla macchina che mi conduce in aeroporto, mi prende un braccio, si scopre l’ombelico alzando la maglietta e, in un misto di inglese/ewe che risulta ben comprensibile: «Se non vai via, puoi mettere ancora medicine qui. Ti prometto che non piango più».
Ora possono SOGNARE
Quante storie. Tutte diverse, ma con denominatori comuni: tristezza, sofferenza, abbandono.
Bambini abbandonati perché orfani; perché la madre, con compagni spesso diversi, non poteva prendersi cura di loro. Trascurati perché, a causa di malformazioni, non erano in grado di garantire aiuto, perché mostri insaziabili divoravano loro le ossa o perché, a causa della malnutrizione, il loro ventre era gonfio come un pallone.
Bambini in tenerissima età, coetanei di quelli che da noi vengono accompagnati fino al portone della scuola, costretti ogni giorno a inventarsi come fare per sopravvivere. Il che non significa solo procurarsi qualcosa per tacitare i tormentosi morsi della fame.
Bambini che, tuttavia, hanno avuto il colpo di fortuna (mi sia consentita questa grottesca espressione, date le tragedie che li hanno visti protagonisti). Sì, ripeto, bambini fortunati, perché, fra migliaia e migliaia di altri come loro, sono stati sorteggiati. Hanno vinto una lotteria ben più importante di quelle che imperversano nel mondo, creando illusioni fra la povera gente. Hanno trovato qualcuno sulla loro strada che li ha raccolti e accompagnati In my Father’s House, dove ora possono mangiare regolarmente, dormire al coperto, lavarsi con acqua corrente, frequentare la scuola.
Possono sognare di diventare missionari, agronomi, dottori, informatici, chimici, autisti, meccanici, infermieri. Gioo dopo giorno imparano che in questo mondo c’è posto anche per loro e possono giocarvi un ruolo da protagonista.
Bambini e Generosità
Tra le tante cose che amo dell’Africa, c’è che nessuno fa caso alle… padelle che hai su maglietta e pantaloni. Se poi vivi fra bambini, diventano come i marchi inevitabili.
Entri nel refettorio con maglietta e pantaloncini freschi di bucato (cioè lavati alla benemeglio) e decine di mani unte di fufu (polentina tipica ghanese) sono pronte a lasciare affettuosamente le loro indelebili impronte.
Quelle mani ti sfiorano, ti accarezzano, reclamano attenzione; si alzano per offrirti un pesciolino, un pezzetto di carne, un morso di banana, togliendoli da razioni mai sufficienti per la fame arretrata: sono tutti abbondantemente sottopeso per la carente e inadeguata alimentazione prima di entrare In my Father’s House.
E tutto ciò ti commuove perché t’accorgi che non è solo un gesto di cortesia. Devi sfoderare tutta la diplomazia di cui disponi per rifiutare. Se lo accetti da uno, lo devi accettare da tutti. E sono 83. Allora sorridi, accarezzi la testa, baci una fronte e, quando non è sufficiente, ti inventi un mal di pancia.
Quando poi, prima di coricarti, ti sfili la maglietta, la guardi con simpatia, quasi fosse un’opera d’arte modea, realizzata appositamente per te.
Bambini e devozione
Alzi la mano chi, da bambino, ha sempre partecipato con entusiasmo al rosario che, almeno ai miei tempi, quotidianamente veniva recitato in famiglia o in chiesa. Chi non posava spesso gli occhi su quei grani che sembravano scorrere così lenti?
Nella Casa del Padre mio è adottato un sistema simpatico per tenere sempre attiva la partecipazione, soprattutto fra i più piccoli: un’Ave Maria a testa. Chi non ha la coroncina conta le teste di chi lo precede per capire se a lui capiterà un’Ave o il Gloria. Ma, ad onor del vero, va detto che anche le risposte dimostrano che è una pratica sentita, senza insofferenza.
La partecipazione è ancora più sentita quando si intonano i canti; quando le percussioni segnano il ritmo e a decine si può uscire dai banchi e, danzando, dare libero sfogo alla innata musicalità. I ritoelli sono continuamente alimentati e riproposti, rendendo i canti interminabili.
Si può pregare in tanti modi, anche cantando e danzando. Guardando loro, capisci che, al di là delle parole, questo è il loro modo più bello per rivolgersi all’Altissimo.

Mario Beltrani




“Il futuro che ci sfida”

Un osservatorio socio-pastorale per leggere
i segni dei tempi in America Latina.
Intervista a Rodrigo Guerra López,
cornordinatore di questa nuova realtà del CELAM (Consiglio episcopale latinoamericano).

Dal 13 al 15 febbraio scorso, si è tenuta nella città di Puebla la riunione dei direttivi e presidenti delle Conferenze episcopali dell’America Latina. Durante l’incontro, ricordando il 25° anniversario di Puebla, sono cominciati i preparativi per la realizzazione di una riunione straordinaria dei vescovi dell’America Latina e del Caribe.
Ecco, allora, un’intervista a Rodrigo Guerra López, cornordinatore dell’appena nato «Osservatorio» socio-pastorale del Celam.

Che significa il documento di Puebla, a 25 anni dalla pubblicazione?
Più che un documento, Puebla è stato un kairós, ossia un momento nella storia, in cui la Provvidenza divina si è manifestata e segna la comunità ecclesiale. Certo, Puebla è un testo. Ma la realtà da cui nasce e alla quale esso si riferisce è la vita concreta della chiesa, di fine anni settanta. Puebla esprime il modo con cui il popolo di Dio cammina nella storia e affronta sfide non sempre facili nel momento di testimoniare che Gesù Cristo è vivo.

Com’è cambiato il contesto della chiesa in America Latina in questi 25 anni?

Da una parte, un insieme di sfide fondamentali si sono acutizzate: povertà, indifferenza, attività di vari gruppi religiosi distinti dalla chiesa cattolica, mancanza di solidità delle nostre democrazie, ecc. Dall’altra parte, esiste un cambiamento culturale sottile, ma profondo: la modeità illuminata abbandona la sua antica egemonia per lasciar posto a una certa postmodeità latinoamericana. Entro queste cornordinate, la chiesa cattolica deve ritornare a leggere i «segni dei tempi», per poter scoprire quanto Dio chiede in questo nuovo scenario di massima pluralità, ibridazione e frammentarietà.

Questa potrebbe essere la «scusa» per pensare a un nuovo evento ecclesiale, come quello di Puebla?

Sì e no. Certamente un nuovo contesto esige uno sforzo di attualizzare la comprensione. Tuttavia, al di là di un certo aggioamento, è la vita della stessa chiesa che esige momenti forti di riflessione e preghiera per riproporre l’essenziale e rinnovare la conversione, comunione e solidarietà. Orbene, il cardinale Errázuriz, arcivescovo di Santiago del Cile e presidente del Celam (cfr. box: ndr) è stato molto chiaro nell’insistere sul fatto che il processo iniziato è appena un primo passo verso il momento formale in cui il papa possa eventualmente convocare, come in altre occasioni, una quinta assemblea generale, un sinodo o qualche altra forma di riunione.

Quali sono stati gli interventi più importanti, durante questi giorni di lavoro?

Da un punto di vista personale, mi hanno molto interessato gli interventi di mons. Jorge Jiménez e del card. Claudio Hummes, nel primo giorno. Ciascuno, con il proprio linguaggio, ha presentato gli elementi che configurano l’attuale momento della chiesa e dell’America Latina. Da una parte, dobbiamo proseguire un cammino. Medellín, Puebla e Santo Domingo non devono restarci indifferenti. Dall’altra, la globalizzazione esige oggi una nuova maniera di comunicare, che renda più evidente l’apporto specifico dei cristiani. L’identità cristiana deve rafforzarsi, tramite un rinnovato processo educativo. Nel momento accademico di commemorazione dei 25 anni di Puebla, la conferenza tenuta dal card. Darío Castrillón Hoyos è stata sommamente chiarificatrice: la dignità umana è una dimensione costitutiva della persona. Questo ingrediente è anche un elemento del vangelo. In tal modo, noi cristiani non possiamo che metterci al servizio della dignità umana perché, di fatto, la gloria di Dio è che l’uomo viva e viva in condizioni che siano all’altezza del suo valore intrinseco.

Non c’è rischio di prestare troppa attenzione al nuovo contesto, alla dignità umana e suoi diritti, ai progetti di azione sociale e perdere di vista la dimensione trascendente del cristianesimo?

In effetti, uno dei pericoli che attraversa la fede, oggi, è quello di perdere la sua specificità in una proposta di azione volontaristica, che pretenda di costruire il regno tramite un semplice programma di azione sociale (di destra o di sinistra). Tale approssimazione risponde essenzialmente all’antica eresia pelagiana.
Ma, nello stesso tempo, esiste anche un altro pericolo: la posizione di quanti ritengono la fede quale convinzione spiritualistica e al margine di una adeguata incidenza storico-sociale. Tale idea si avvicina molto all’eresia docetista: credere che la condizione incarnata del Verbo sia una finzione, una mera metafora. Il mistero dell’incarnazione, nucleo della nostra fede, si propone esattamente come qualcosa di diverso: Dio si è fatto uomo. Tutto ciò che è umano dev’essere assunto e redento in Cristo. Quando non si perde la dimensione d’incarnazione della fede, si vive in una continua tensione tra natura e grazia, in cui, come sottolinea il card. Errázuriz, il primato spetta sempre alla grazia. L’analisi dei contesti, la valorizzazione della dignità umana e dei diritti, l’azione fanno parte dell’itinerario che la chiesa deve compiere, conscia che la proposta del vangelo non si esaurisce certo in essi, ma che li supera senza negarli.

Toerà ad acquistare vigore nella chiesa latinoamericana l’opzione preferenziale per i poveri?

L’opzione preferenziale per i poveri è una dimensione costitutiva della nostra fede. Non ha mai cessato di esistere. Recentemente, Giovanni Paolo ii, nella Novo millennio ineunte, ci ha ribadito che le pagine del vangelo dove Gesù mostra il suo amore preferenziale ai poveri non sono un semplice richiamo alla carità, bensì un aspetto fondamentale della cristologia. Ancora di più: il papa afferma che, nel vivere il contenuto di queste pagine, la chiesa dimostra la sua fedeltà non meno che a livello di ortodossia.

Il nuovo «Osservatorio» del Celam avrà di mira lo studio della povertà nel continente?

Le nuove povertà in America Latina sono talmente estese che sarebbe irresponsabile e antievangelico restare indifferenti, come se non significassero nulla alla luce della fede. L’«Osservatorio» cercherà di offrire ai vescovi del materiale, che permetta loro di ampliare la visione della povertà e di molti altri fenomeni sociali, caratteristici della realtà che stiamo vivendo.

Cosa ha spinto i vescovi a creare un «Osservatorio» in seno al Celam?

Potrebbe sembrare che i vescovi stiano semplicemente costruendo un think tank. Tuttavia, mons. Carlos Aguiar, primo vicepresidente del Celam e vescovo responsabile dell’«Osservatorio», ha posto al centro della prospettiva di tale istituzione di essere un servizio anzitutto ecclesiale, cioè, con piena coscienza della natura della chiesa e delle sue preoccupazioni propriamente pastorali.
In certa qual misura l’«Osservatorio» nasce dalla vita ordinaria del Celam, specialmente dai processi già in atto nel Dipartimento di giustizia e solidarietà, diretto dal card. Oscar Rodríguez Maradiaga. Da tempo, egli ha cercato di conoscere con grande competenza la realtà sociale del continente e del mondo e, con il suo esempio, ci ha indicato l’importanza di riprendere a guardare e servire Cristo in mezzo alle sfide concrete della storia dei nostri popoli.
Zenit

Agenzia Zenit




ETIOPIA – Un pozzo di speranza

Oltre 1.500 kmq di superficie (pari alla provincia
di Savona), quasi 400 mila persone, zero strutture stradali, sanitarie e scolastiche, tanta fame e malattie endemiche… sono le sfide della nuova parrocchia
di Ropi-Kachachullo, figlia di Shashemane.

«Sono stato io il primo a mettere piede in quella zona, 25 anni fa» afferma sorridendo padre Silvio Sordella, rivendicando la pateità della nuova missione che padre Paolo Marré e fratel Domenico Brusa stanno costruendo a Ropi e Kachachullo, la zona più periferica della parrocchia di Shashemane, in cui padre Silvio svolse le sue prime esperienze missionarie e dove è ritornato come parroco.
Oggi Shashemane conta una scuola per più di 2 mila alunni e un’altra per 120 ciechi, un grande dispensario, un asilo per 600 bambini, un villaggio per ex lebbrosi, una casa per ragazzi di strada, varie attività di promozione umana e della donna, oltre a quattro comunità ben sviluppate, tra cui Alaba che ha un asilo con un centinaio di frequenze e che farà parte della nuova missione. I tre missionari sono coadiuvati dalla presenza di tre famiglie religiose.
Date le urgenze degli inizi, i missionari della Consolata hanno concentrato i loro sforzi in città e d’intorni, senza dimenticare quella parte periferica, con visite sporadiche, costruzione di una cappella a Kachachullo, attività di evangelizzazione mediante i catechisti. Ma per uno sviluppo più intenso si attendevano tempi migliori. E sono arrivati, insieme a padre Paolo.
Veramente, l’avvio della nuova missione è stato provocato da «tempi peggiori». Due anni di siccità hanno messo a rischio l’esistenza della popolazione della zona e i missionari non hanno potuto più procrastinare la loro presenza.

SOTTO LA CROSTA
Il territorio della nuova missione si estende per 100 km di lunghezza e 60 di larghezza nella Rift Valley, su un altopiano tra i 1.600-1.800 metri di altitudine. È una zona vulcanica: uno strato di terreno sabbioso sopra una distesa di pietra pomice, la cui fertilità dipende dal ritmo delle piogge. Prima della carestia c’erano 400 mila persone, ora sono scese a 300 mila: molti sono morti, altri hanno cercato futuro altrove.
Nel maggio 2003, quando visitai Kachachullo, la pioggia era appena caduta; sembrava un paradiso: prati verdi, granturco appena spuntato, due laghetti che parevano pezzi di cielo incastonati in terra come perle.
Ma poi, guardando da vicino, si scopriva una tragica realtà: strade divorate dell’erosione; donne e asini carichi di taniche per attingere acqua chi sa dove, scheletri di animali abbandonati lungo i sentirneri, fame stampata sul viso dei bambini.
La scena si fa ancora più penosa quando arriviamo a Kachachullo: la cappella è pericolante; un migliaio di uomini, donne e bambini attendono il missionario per la celebrazione della messa e per discutere sulla situazione. I vari capifamiglia ripetono la stessa litania: gli animali sono morti; le mucche ancora vive non danno latte o sono tubercolose; il governo ha fatto tante promesse, ma non le ha mantenute.
Padre Paolo assicura che a metà settimana inizierà la distribuzione degli aiuti alimentari in vari centri, con la presenza di due suore di Madre Teresa.
«La carestia ha già fatto migliaia di vittime – spiega padre Paolo -; almeno 100 mila sono a rischio. Il governo ha promesso foiture di granturco, ma ne è arrivato pochissimo, sia perché i camion non si azzardano in queste strade, sia perché questa gente al governo non interessa».
La zona di Kachachullo si trova alla periferia della regione amministrativa dell’Oromia, la popolazione è in prevalenza formata da adia, kambatta, wollaita e altri gruppi etnici, emarginati dalla maggioranza oromo che governa la regione.
La zona di Kachachullo è nella provincia di Siraro; ma il capoluogo, Agge, è distante anni luce da questa gente. «Si prevede la creazione di una nuova provincia, con Ropi capoluogo; ma la divisione non è ancora fattibile, perché non esiste un numero sufficiente di persone che sappiano leggere e scrivere, capaci di ricoprire le cariche amministrative» spiega ancora padre Paolo.

ZERO PIÙ ZERO
«La stagione è promettente, ma l’emergenza durerà almeno altri quattro o cinque mesi, quando saranno mature le prime pannocchie di granturco. Passerà la fame, ma rimangono altri problemi» continua padre Paolo.
Il conto dei problemi è presto fatto. Elettricità zero: la linea elettrica più vicina passa a 40 km di distanza. Strade asfaltate o in terra battuta zero: a ogni temporale, le piste diventano torrenti, scavando buche ad altezza d’uomo. Sanità quasi zero: un medico e 4 infermiere non specializzate per tutta la provincia, con un poliambulatorio ad Agge e tre piccoli dispensari serviti saltuariamente. Ci sono 19 scuole, delle quali 10 arrivano alla terza elementare, 9 all’ottava classe, quando la scuola dell’obbligo in Etiopia ne prevede dieci. Nessuna meraviglia (si fa per dire) se il tasso di analfabetismo della parrocchia è del 90%.
«Ma il problema più grave è l’approvvigionamento idrico» spiega padre Paolo, mentre mi porta a vedere il fiume Billate. L’acqua è abbondante, ma così melmosa che perfino gli animali sembrano schifarla. «Eppure tanta gente fa 8 ore di cammino per attingere questa porcheria e altrettante per tornare a casa – continua il missionario -. In tutta la zona esiste un solo pozzo in funzione, a Ropi, e fornisce una media di 2 litri al giorno per persona ai quasi 30 mila abitanti; mentre sulla zona ne gravitano 100 mila. C’era un pozzo a Sambaté, ma la pompa è bruciata per il sovraccarico».
E quelle due perle di laghetti? «Sono belli da fotografare – spiega padre Paolo -. Dalle analisi risulta che l’acqua ha un elevato tasso di alcalinità (pH 10.1), di fluoro, zolfo e altre sostanze che la rendono dannosa persino per gli animali».
Un rudimentale sistema di approvvigionamento è quello di scavare grandi buche ai bordi della strada, per convogliarvi l’acqua durante la stagione delle piogge. Dove rimane più a lungo, l’acqua imputridisce in fretta, essendo utilizzata da uomini e bestiame, e diventa fonte di malaria, poiché favorisce la proliferazione di zanzare e relative epidemie di malaria.

CASSETTO… APERTO
L’emergenza del 2003 ha messo a nudo le necessità della nuova missione, soprattutto l’impossibilità di una gestione «a distanza». Padre Paolo e fratel Domenico, infatti, risiedono a Shashemane e impiegano 3 ore di andata e altrettante di ritorno per raggiungere Kachachullo.
Le suore di Madre Teresa, che hanno curato la distribuzione degli aiuti alimentari, si sono sistemate nella chiesa di Ropi, facendo tui di 15 giorni: sono tornate a casa regolarmente malate. Il medico che lavorava con le suore è morto di malaria cerebrale.
I missionari hanno cominciato a stilare programmi concreti, secondo priorità immediate, progetti a breve e lungo termine. La costruzione di una casa per i missionari è una priorità assoluta, per vivere tra la gente, capire i veri problemi, rispondere alle loro esigenze, seguire da vicino i programmi di sviluppo e di eventuali emergenze, che si ripeteranno.
Il primo sogno è già fuori del cassetto: come sede della missione è stata scelta Ropi, sia perché è al centro del territorio, sia perché dovrebbe diventare il capoluogo della nuova provincia. Sul terreno, acquistato un paio di anni fa, sta sorgendo la nuova abitazione.
Kachachullo, invece, rimarrà come il luogo «storico» della missione: avrà la chiesa più grande, dal momento che su di essa gravitano quasi 3 mila persone. Un grande mucchio di pietre, accatastate attorno alla cappella sgangherata, aspetta solo il via per diventare casa di Dio e della comunità.
Tra le priorità c’è pure la perforazione di due pozzi, uno a Ropi, dove si prevede di trovare acqua a oltre 270 metri di profondità; l’altro a Kachachullo, vicino al fiume Billate, nella speranza che le falde acquifere non siano troppo profonde. Da qui, l’acqua sarà pompata, per 3 km, vicino alla chiesa, scuole e dispensario.
Tra i progetti a breve termine di Kachachullo, infatti, figura la costruzione di un dispensario e una scuola per 2 mila alunni e relative case per i maestri. È questa la zona più periferica e ufficialmente trascurata, infestata da malaria, tifo, tubercolosi, tracoma e altri malanni tropicali. La chiesa cattolica vi ha aperto una scuoletta e un ambulatorio, ma è poco più di zero: delle tre aule scolastiche, una è crollata, insieme al piccolo dispensario.
Anche nelle varie comunità sono in cantiere la costruzione di strutture più solide, per ora nella forma tradizionale: legno ricoperto di fango e paglia. In quasi tutti questi centri è stato comperato il terreno per la cappella, scuola, servizi igienici e cimitero. Quest’ultimo fa parte essenziale dell’identità di una comunità che si rispetti.
E poi ci sono progetti a lungo termine: un asilo a Ropi, pozzi ad Alemtena e Basa, grondaie e cistee in tutti i centri, per raccogliere l’acqua piovana, quando il ciel la manda. «Pensiamo di intervenire in campo agricolo – continua padre Paolo -, con la creazione di cornoperative agricole, piccoli sistemi di irrigazione, diversificazione delle colture, costruzione di silos per conservare il granturco, sia per fare fronte ai periodi di vacche magre, sia per venderlo quando il prezzo è più conveniente e avee una riserva per il momento della semina, quando i prezzi salgono alle stelle».

LA MESSE È MOLTA…
Nonostante il cumulo di sfide ed emergenze, prosegue il lavoro specificatamente religioso. La nuova missione comprende una decina di piccole comunità di base, che continuano a crescere, nonostante la carenza di strutture adeguate. La cappella di Kachachullo è in rovina; Sinta, Shirko, Damine hanno cappelle di legno e fango; Alemtena e Sambaté case in affitto; altre comunità si radunano sotto gli alberi o, quando piove, in case private. Solo la chiesetta di Ropi sembra in forma: i muri di legno e fango sono ricoperti da intonaco in cemento.
Le comunità più consistenti hanno la messa ogni 15 giorni, le altre ogni due o tre mesi. Tutte, però, si radunano ogni settimana, sotto la guida di catechisti (5 a tempo pieno e una trentina volontari) per pregare, ascoltare la parola di Dio, istruzione catechetica, preparazione dei catecumeni, sensibilizzazione sociale.
Nei giorni feriali le cappelle diventano aule scolastiche, dove una quindicina di maestri a tempo pieno e altrettanti part-time insegnano ai più piccoli a leggere e scrivere.
«Una quindicina di altri posti hanno chiesto la nostra presenza – racconta padre Paolo -. Abbiamo ricevuto petizioni firmate da 100 capifamiglia. Calcolando che ogni nucleo familiare è composto da una decina di persone… fai tu il conto. Ci dispiace non poter rispondere a tali richieste. In alcuni luoghi mandiamo i catechisti, almeno una volta al mese, per preparare il terreno e avviare il catecumenato. Appena ci saremo stabiliti a Ropi e avremo più personale potremo dissodare anche quei campi».
La gente nutre profonda simpatia per la chiesa cattolica. Adia, kambatta e altre etnie minori non vogliono avere nulla da spartire con l’islam, simbolo di oppressione ed emarginazione secolari, protratte fino ai nostri giorni. Per questo tali gruppi etnici vedono nel cristianesimo un’occasione di liberazione e distinzione dagli oromo, in maggioranza musulmani, e di affermazione della propria identità.
«Nella spinta alla conversione giocano anche motivi razziali – spiega padre Paolo -. Da parte nostra insistiamo sulla convivenza pacifica e solidale con tutti. “Come facciamo a considerarli fratelli, quando ci hanno ammazzato fino a ieri?”, ci dicono. Anche alcuni musulmani vogliono diventare cristiani; ma facciamo un discorso molto chiaro: se volete entrare nella chiesa per ricevere più aiuti, lasciate perdere, perché noi aiutiamo tutti, cristiani e musulmani».
Anche se tutti vorrebbero ricevere il battesimo, il cammino è lungo e la selezione rigorosa: il catecumenato dura 4 anni e i candidati devono dare segni evidenti di sincerità, inserendosi concretamente nelle varie attività sociali delle rispettive comunità.
«Ogni anno abbiamo centinaia di nuovi battezzati – conclude padre Paolo -. La mietitura si prospetta abbondante e preghiamo il Padrone della messe di mandare più operai».

Benedetto Bellesi




ROMANIA – Via del silenzio n° 13

1989: a Berlino crolla il muro della vergogna.
Scoppia… «la terza guerra mondiale»,
che libera l’Est europeo dal comunismo:
una guerra unica nella storia, perché incruenta.
Fa eccezione la Romania, che trucida lo stesso presidente Nicolae Ceausescu.
A 15 anni di distanza, come si vive a Bucarest?
La fatica è palpabile.
La testimonianza anche di un nunzio e un arcivescovo.

Tutti affermano che sia sempre spettinato e noi lo confermiamo. Così, almeno, ci è apparso durante il nostro soggiorno in Romania, ospiti in casa sua con padre Antonio Rovelli, direttore dell’animazione vocazionale dei missionari della Consolata in Italia.
Eccolo, con i capelli arruffati, ad accoglierci all’aeroporto della capitale Bucarest. «Benvenuti in Romania! Avete fatto buon viaggio?». Si esprime in italiano, oltre che in francese, tedesco e romeno naturalmente. La sua stretta di mano è calorosa, vigorosa. Gli occhi sorridenti. Si chiama Martin Cabalas (*), sacerdote cattolico di rito latino. Supera di poco la cinquantina, ma dalla sua chioma bianca e strapazzata sembra più attempato.
Saliamo sull’auto del prete romeno. È rumorosa e abbastanza sgangherata. «Dovrei cambiarla – mormora nell’accorgersi che fatichiamo un po’ a chiudere la porta -. Però una nuova macchina è cara in Romania». Lungo la strada adocchiamo file di vetture come quella (se non peggiori) del nostro conducente.
A una curva, ci balza incontro un palazzone mastodontico, curioso e pacchiano, con numerosi piani, tutto a guglie dentate. È un centro amministrativo del governo, «dono» a suo tempo del popolo sovietico a quello romeno, allorché l’Urss era una superpotenza politica e militare. Ne ricordiamo altri, tutti identici, fotografati in Cina e, ovviamente, in Russia.
L’automobile rallenta, gira a sinistra e imbocca Strada Linistei (Via del Silenzio), tutta buche e sassi, che accentua la precarietà del mezzo di trasporto. Ma il tratto è breve, perché al numero 13 di Via del Silenzio siamo a destinazione, nell’abitazione di padre Martin.
Appena entrati, udiamo di nuovo parlare italiano. È una voce del nostro tg1: annuncia che a Roma due romeni sono stati rinvenuti carbonizzati in una baracca, anch’essa bruciata.
Erano immigrati clandestini.

SENZA SPERANZA

L’emigrazione di romeni, esplosa dopo la scomparsa di Nicolae Ceausescu (1989), è un tema di conversazione con l’arcivescovo Jean Claude Perisset, svizzero di lingua francese, nunzio apostolico del Vaticano in Romania. Secondo il presule, circa un milione e mezzo di romeni vivono all’estero: non pochi su una popolazione di 23 milioni. Il piccolo Israele, da solo, ne accoglie 50 mila. L’emorragia non si è ancora arrestata, considerando che il 20% dei giovani intende abbandonare il paese.
«Con le rimesse di denaro – osserva Perisset – gli emigrati costituiscono senza dubbio un reddito per le loro famiglie. Ma il prezzo umano pagato è salato. Si veda, per esempio, la tragica fine di quei due poveretti carbonizzati a Roma». Scartato l’incidente domestico, non è inverosimile la vendetta di qualche gruppo straniero, clandestino e malavitoso.
«Per non parlare delle ragazze – incalza l’arcivescovo -. Spesso, ingannate, finiscono sui marciapiedi delle vostre città italiane. In ogni caso si emigra dal paese per mancanza di speranza».
La Romania è candidata a entrare nell’Unione Europea. Questo fatto non potrebbe costituire un’iniezione di fiducia?
«Potrebbe – è la risposta di mons. Perisset -. Ma il processo sarà lento e faticoso. Prima, bisogna arginare la corruzione dilagante, ridimensionare la burocrazia, privatizzare con intelligenza, ridurre l’indebitamento dello stato (che al contrario aumenta). Nel frattempo il divario sociale fra ricchi e poveri si sta accentuando: il 36% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. C’è persino chi afferma che i disagiati raggiungano il 45%».
Alcuni imprenditori italiani, veneti in particolare, operano in Romania. A Timisoara e dintorni sarebbero circa 3 mila le piccole aziende nostrane. Garantiscono un po’ di benessere anche agli operai locali?
«Certo – risponde Perisset -. Ma non si dimentichi lo sfruttamento di manodopera a basso costo. Inoltre sembra che il boom dei vostri piccoli imprenditori stia sgonfiandosi. Alcuni stanno già smobilitando, per andare in Cina».
I segni materiali del degrado sociale a Bucarest sono evidenti: strade dissestate, autobus obsoleti, caseggiati malandati, fogne scoperte. Grava la tristissima eredità di Ceausescu. Il paese non ha saputo o potuto capovolgere la situazione, perché condizionato ancora dalla Russia. Così, economicamente, ha perso l’ultimo decennio.
Impressiona la penuria degli anziani, che sognano il ritorno del comunismo, o quella dei «barboni»; questi ultimi sarebbero circa 5 mila nella sola Bucarest.
Un’altra piaga è costituita dal numero di aborti: un milione all’anno. A prescindere dalla gravità morale, il fenomeno denuncia il problema di molte bocche da sfamare senza mezzi. Oppure si abbandonano i neonati non desiderati.

RAGAZZE DI STRADA

L’abbandono di bambini era praticato durante il comunismo: un fenomeno che lo stato arginava con gli orfanotrofi. Ma, raggiunti i 18 anni, gli orfani erano messi in libertà, dovendo badare a se stessi, ma senza alcun sostegno economico. Ossia erano buttati sulla strada.
Abbiamo incontrato quattro ragazze, sopra i 20 anni, provenienti dagli orfanotrofi statali e dalla strada. Si sono salvate dalla prostituzione coalizzandosi fra loro, fuggendo da «protettori» senza scrupoli, trascorrendo lunghe notti rannicchiate sotto i ponti. Oggi, con altre compagne dello stesso ambiente (una ventina), si avvalgono dell’aiuto morale e organizzativo di suor Anna, romena, della congregazione di santa Giovanna Antida. Vivono insieme in appartamenti. Lavorano part time come colf o in piccole aziende, accontentandosi di qualsiasi stipendio, con il quale pagano l’affitto dell’alloggio, le spese di condominio e si mantengono. Come altri romeni (complice la televisione), si esprimono un po’ in italiano.
– Perché non mi porti in Italia – si fa avanti una.
– Anch’io, anch’io! – fanno coro tutte le altre.
– E che cosa farete in Italia?
– Lavoreremo tutto il giorno. Poi ci compreremo un alloggio qui a Bucarest.
Possedere una casa è il sogno di tutti i cittadini in affitto, perché il costo di un alloggio è pazzesco nei centri urbani: a Bucarest, per due stanze, un cucinino e il solo water, si pagano 130-150 euro al mese, a fronte di stipendi che si aggirano su 90 euro. Insomma: la casa in proprio, più che un sogno, è un miraggio.
Le quattro ragazze parlano e ridono con eccitazione. Una però è tacitua, assente: e quasi subito si abbandona a succhiare il dito come una bimba. «Psicologicamente sono tutte infantili, anche se hanno 20-25 anni – commenta suor Anna -. Bambine tarate dalle umiliazioni e percosse subite durante i tanti anni di orfanotrofio. Vorrebbero sposarsi e formare una famiglia. Ma temono gli uomini. Non si fidano neppure dei loro padri, perché le hanno abbandonate».
Una sera inoltrata, mentre rincasavamo camminando verso Via del Silenzio, abbiamo notato alcune ombre aggirarsi attorno ai tombini dell’acqua. Erano «ragazzi di strada», anch’essi rifiutati dai genitori e provenienti da orfanotrofi statali. In città vivono di espedienti.
E che facevano quella sera? Stavano organizzandosi per passare la notte in un meandro della rete idrica di Bucarest: sempre meglio dell’addiaccio, specie se piove o spira la gelida tramontana. Qualcuno li ha battezzati «i ragazzi delle fogne».
Alcuni coetanei sono ritornati dai genitori; ma, trovandosi a disagio tra passato e presente, trascorrono molte ore dai missionari maristi, per esempio, che mettono a disposizione sale con libri, computer e giochi.
I maristi (due spagnoli e un greco) non sono sacerdoti, ma fratelli religiosi, con voto di povertà, castità e obbedienza. «Non siamo molto apprezzati – si lamentano -. Secondo l’opinione pubblica ortodossa (ma anche cattolica), non siamo né carne né pesce. Qui, a Bucarest, sembra che non vi sia spazio e lavoro per i fratelli. Per questo pensiamo di trasferirci altrove».

LA CALATA DEI BARBARI

Caduto il regime ateo di Ceausescu, numerose congregazioni religiose dell’Europa occidentale hanno messo piede in Romania. Secondo il nunzio J. C. Perisset, sarebbero troppi gli istituti religiosi stranieri approdati nel paese: addirittura un centinaio, di cui 80 femminili. Tutti per… reclutare vocazioni. «Nei primi anni ’90 – spiega mons. Perisset – i giovani che entravano in seminario o convento erano tanti. Ma ora non più: a tal punto che alcuni centri, costruiti in fretta per accogliere tutti i candidati al sacerdozio e alla vita religiosa, oggi stanno tramutandosi in collegi per studenti».
Al comunismo si è quasi subito sostituito il materialismo dell’«usa e getta» del capitalismo. Di qui la brusca frenata delle vocazioni sacerdotali. Inoltre non si scordi che la stragrande maggioranza dei preti e delle suore romeni proviene dalla regione della Moldavia (da non confondere con l’omonima repubblica indipendente), dove i cattolici raggiungono il 20%.
Indubbiamente nel 1989 la caduta del muro di Berlino ha offerto alla chiesa cattolica nuove possibilità. Per convertire la popolazione al cristianesimo? Ma la Romania non è «pagana», anzi è cristiana. Quindi è fuori luogo parlare di conversione.
In realtà le istituzioni cattoliche occidentali hanno guardato all’Est europeo, in genere, con lo spirito di una «nuova evangelizzazione», alla stregua del papa polacco Karol Wojtila. Tuttavia i gruppi religiosi stranieri, soprattutto cattolici, sono accusati di proselitismo dal clero ortodosso: attirerebbero i fedeli nelle proprie comunità con gesti accattivanti di beneficenza. Di più: la loro discesa in campo è stata talora paragonata alla «calata dei barbari».
In Romania lo stesso clero cattolico, sia di rito latino sia di rito orientale, non è interamente soddisfatto dei confratelli stranieri, anche perché troppo innovativi nella pastorale e nella liturgia. Ce l’ha ricordato Ioan Robu, arcivescovo cattolico di Bucarest. Secondo il prelato, la comunione in mano ai fedeli, per esempio, è prematura e i canti liturgici, accompagnati da chitarre, suscitano perplessità.
Il 7-9 maggio 1999 Giovanni Paolo ii visitò la Romania. Fu una visita altamente ecumenica, che smussò alquanto le spigolosità anticattoliche dei gerarchi ortodossi e avallò il desiderio profondo di unità di tutti i cristiani. Il grido «unitate, unitate!», al termine della visita del papa, fu inatteso quanto gradito. Inoltre il viaggio calamitò l’attenzione mondiale grazie alla «Dichiarazione comune» delle chiese (cattolica, ortodossa e protestante) sulla guerra in Kosovo, proprio mentre infuriava il fuoco bellico. «Dove sono le nostre chiese, quando il dialogo tace e le armi fanno sentire il loro linguaggio di morte?» si domandò il pontefice.
Al di là delle discussioni teologiche, il cammino verso l’unità delle chiese cristiane passa attraverso comuni impegni sociali, non esenti da scelte politiche controcorrente. Ciò sarebbe rivoluzionario per le chiese ortodosse, autocefale, spesso vincolate alla nazione di appartenenza anche politicamente.

Oscurità e foschia ovattano Via del Silenzio, rendendola più muta. Sennonché, di tanto in tanto, si odono uggiolii di cani o grida festanti di bambini, zingari rom, che giocano intorno a un falò all’interno di una staccionata…
Domani ritoeremo a Torino.
Alle ore 19 padre Martin Cabalas invita cortesemente il collega Antonio Rovelli a presiedere l’eucaristia in italiano.
– In italiano, no – replica istintivamente il missionario.
– Non temere! Qui sono abituati…
È vero. Da anni, durante l’estate, vari gruppi giovanili (specialmente della diocesi di Treviso), accompagnati da un «don», sono ospiti del sacerdote romeno per campi di conoscenza e lavoro. Tra l’altro padre Antonio è a Bucarest per organizzae uno speciale, che prevede giovani italiani, spagnoli e portoghesi, legati ai missionari della Consolata nei rispettivi paesi.
Alla messa partecipano anche le suore di santa Antida, i fratelli maristi, nonché tre missionarie di madre Teresa di Calcutta: tre volti differenti, cioè uno indiano, uno tanzaniano e uno polacco. La liturgia è animata da un concerto di sei chitarre, che secondo padre Martin non «stonano», anzi! Qualche fedele riceve la comunione in mano.
Dopo l’«andate in pace» del sacerdote, si celebra un’altra eucaristia, ma in rito orientale, perché padre Martin condivide la chiesa con altri credenti, giacché… esiste «una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio, Padre di tutti».
«Questo è un merito ecumenico, esclusivo del nostro parroco – dichiara una certa Maria -. Sì, perché il prete greco-ortodosso, se disponesse di una sua chiesa, probabilmente non ricambierebbe il favore ai cattolici».
Maria, a pochi passi dal sorridente e costantemente spettinato padre Martin, è avvolta in uno scialle nero, che le incoicia con grazia il volto. Per contrasto, i suoi occhi azzurri brillano di un fulgore abbagliante.
Si congeda con una piccola genuflessione, scandendo: «Laudetur Iesus Christus!». Nientemeno.

Nel baratroda lui stesso scavato

«Conducator» in romeno significa conduttore: di un autobus, per esempio. Un termine comune per un’attività normale. Ma in Romania, allorché il conducator si chiamava Nicolae Ceausescu, la vita si inasprì maledettamente.
«Securitate» (sicurezza) è un’altra parola di uso corrente. Però la Securitate, al soldo del despota Ceausescu, si tramutò in famigerate repressioni da parte della polizia segreta. E il tonfo del dittatore marxista fu tragico. Si tenne un processo-farsa: il conducator e la corrotta consorte Elena furono giustiziati in segreto nel natale del 1989. Fu pure una vergogna in un paese che si dichiara cristiano quasi al 100 per cento.
Eppure, solo un mese prima, gli oltre 3.300 delegati al Congresso del Partito comunista avevano osannato il conducator e l’intera sua famiglia. Ma dal 24 novembre 1989 (fine del Congresso) al 15 dicembre (inizio delle rivolte contro il regime a Timisoara) la Romania imboccò un’altra via. Il vento della perestrojka sovietica, che aveva già abbattuto il muro di Berlino, investì furioso anche Nicolae Ceausescu e lo travolse.

Tutto fu quasi fulmineo, perché la voragine di miseria, scavata in 25 anni di dittatura, era enorme e profonda: code interminabili davanti ai negozi di alimentari e razionamento di cibo (ad esempio: un chilo di carne per famiglia, ossa comprese); sottoproduzione agricola in un paese che, in antecedenza, esportava cereali; coabitazione di vari nuclei familiari in uno stesso e squallido appartamento; spopolamento di migliaia di villaggi per una politica agricola diversa, dove i contadini erano sottoposti a controlli capillari; arretratezza di impianti industriali per mancanza di investimenti; culto dei «papaveri» del partito ed esportazione in Svizzera di ricchezze sottratte al paese; nepotismo e privilegi concessi ai 20 mila adepti della Securitate (con offesa dell’esercito); fuga di intellettuali, quali Eugène Jonesco, Paul Goma, ecc.
E, soprattutto, la scomparsa di 60 mila persone. Ma le vittime sono state più numerose: 60 mila sarebbero solo i morti in seguito alle repressioni dei tumulti popolari di dicembre 1989 (cfr. La Civiltà Cattolica, 7 aprile 1990).
Tuttavia, all’estero Ceausescu aveva brillato come una stella di prima grandezza: Richard Nixon e Charles de Gaulle lo avevano applaudito, perché oppositore dell’Unione Sovietica; la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e la Comunità economica europea gli avevano spalancato le porte.

Al conducator successe un ex comunista, Ion Iliescu. Però la pace sociale era lontana.
Nel 1999, a un decennio dalla fine del regime di Ceausescu, Nicolae Coeanu, arcivescovo ortodosso di Timisoara, dichiarò: «La democrazia ha creato non poche difficoltà: la più grande riguarda il campo economico-finanziario. A livello politico, la democrazia ha prodotto una sorta di caos. Vi sono persone, formate durante la dittatura comunista… e queste non possono più cambiare radicalmente. Spero che le difficoltà siano superate nel corso dei prossimi anni» (cfr. Il regno, 8/1999).
Nel dicembre dello stesso 1999, uno sciopero di minatori (migliaia e migliaia di litri di cianuro furono versati nei fiumi) e aspri dissidi politici costrinsero il governo di Radu Vasile alle dimissioni. Al potere ritoò Iliescu, in carica tutt’oggi.
Fra gli obiettivi del leader spicca il progetto di entrare nell’Unione Europea. È un obiettivo non facile, perché suppone un risanamento economico con «lacrime e sangue».

Francesco Beardi




REP. DOMINICANA – Cattiva, cattivissima

Santo Domingo è nota pure a diversi italiani,
che la raggiungono per ballare, e non solo.
A due passi dalle discoteche, casinò e spiagge
della città caraibica, incontri la piccola Mercedes.
E la musica cambia.

«Padre Franco, vorrei confessarmi di tutti i peccati dell’anno passato…». La richiesta arriva da Mercedes, cinque anni, un visetto furbo, profilo indio, zigomi sporgenti, occhi vispi. Questa volta, mentre parla, gli occhi li tiene bassi e sul volto ha un’ombra di tristezza.
– Mercedes, sei ancora troppo piccola per confessarti: prima devi partecipare agli incontri del gruppo di catechesi…
– Ma, padre Franco, io sono stata proprio cattiva l’anno passato – interrompe Mercedes, mentre un lacrimone le riga il viso -. E quest’anno i re magi non mi hanno portato nulla!
Ecco: nelle lacrime di Mercedes, nella delusione di questa bimba che non ha ricevuto nulla per la festa dell’epifania (giorno in cui è tradizione che i re magi lascino ai bambini giochi, dolci, vestiti), c’è il dramma vissuto dall’intero popolo della Repubblica Dominicana.

Recessione economica. Sono due parole tecniche, che diventano insostenibili davanti al pianto di Mercedes, nel barrio di Guaricano, alla periferia di Santo Domingo. Oppure davanti al ragionamento ironicamente amaro di Jos: anche lui, quest’anno, alla sua bimba di otto anni non ha potuto regalare nulla.
«Natale è una festa ingiusta – mi ha detto -. Vedi, mia figlia è stata buona tutto l’anno: ha raggiunto risultati eccellenti a scuola, è sempre disponibile in casa per i piccoli lavoretti, ogni domenica è lei che ci butta giù dal letto per andare a messa. E non ha ricevuto regali, perché non ce li possiamo permettere. Invece, quanti figli di ricchi sono cattivi e ricevono regali favolosi! Natale, la festa che premia i cattivi, purché siano figli dei ricchi!».
Recessione economica. A gennaio del 2003 potevi comprare un dollaro con circa 17 pesos. Oggi, dopo un anno, per comprare un dollaro occorrono almeno 50 pesos, con un’inflazione del 61 per cento. E, siccome tutta l’economia della Dominicana si basa su prodotti importati, il costo della vita è raddoppiato, triplicato in pochi mesi. Mentre i salari sono rimasti gli stessi.
Dietro a questa situazione, vi sono speculazioni che non possiamo neanche immaginare: ad alcuni conviene che il dollaro sia caro, perché così possono ottenere guadagni stratosferici (si pensi al settore turistico, dove tutti i pagamenti avvengono in moneta straniera).
E il governo? Mesi fa, quando il tasso di cambio del dollaro si è impennato, il presidente della repubblica, in una dichiarazione ufficiale, ha affermato che entro pochi giorni il governo avrebbe preso provvedimenti drastici e severi. Mentre si aspettava di sapere quali, il prezzo del dollaro, per l’effetto psicologico dell’annuncio del presidente, è sceso di qualche punto, permettendo un po’ di respiro.
Il presidente ha notificato i provvedimenti: ha convocato gli operatori economici e, dato che non aveva trovato plausibili giustificazioni per un così alto costo del dollaro, ha ordinato di farlo scendere, affermando che avrebbe utilizzato l’esercito per verificare se si adempisse a questa disposizione.
L’effetto è stato che adesso, se uno ha dollari da vendere, glieli pagano al prezzo stabilito dal governo (e ci rimettono quanti sono aiutati da parenti che, emigrati all’estero, lavorano per inviare dollari alla propria famiglia!); però se uno li vuole comprare, è impossibile trovae al prezzo stabilito dal governo (che non è il prezzo reale del mercato).
Alcune casas de cambio (sportelli di cambiavalute aperti al pubblico) sono state chiuse dalla polizia, perché non hanno rispettato le norme stabilite dal governo e hanno continuato a comprare e vendere dollari a prezzi alti.
Così è nato il mercato nero del dollaro, che sta prosperando in barba agli oculati e rigorosissimi rimedi governativi. Il tutto è ulteriormente aggravato dal fatto che molti generi iniziano a scarseggiare; e anche chi potrebbe permettersi di comprarli ora deve fae a meno: senza dollari, all’estero non si compra.

Per esempio, il gas per cucinare. Sono settimane che non si trova. Anche se hai soldi, non ce n’è! La gente del barrio ha cercato di organizzarsi: chi ha ancora un poco di gas cucina pure per le altre famiglie. Si vedono i primi capannelli di donne che cucinano in strada bruciando carbone (poco, perché costa!) e legna.
Paradossalmente, i problemi più gravi sono per chi, tra i poveri, è meno povero: chi vive nelle baracche riesce a bruciare un po’ di legna all’aperto; ma chi vive all’ultimo piano dei multis (case popolari costruite su quattro piani) ha molte più difficoltà a cucinare.
A questo si aggiunga la mancanza d’acqua: sono mesi e mesi che nelle case non arriva acqua. Penso alla famiglia di papà Miguel e mamma Juana: loro due, con tre bimbi e tre vecchi. Non si può scaldare il latte per il piccolo, non si può sancochar (bollire) il platano per la colazione, non si può cucinare il riso per il pranzo, non si può lavare la casa, non si può fare il bagnetto al bimbo…
Allora ogni mattina i due bambini più grandi, accompagnati dalla nonna, fanno due chilometri a piedi per raggiungere il posto più vicino dove riempire tre secchi da 10 litri, che nel tragitto di ritorno quasi si svuotano del tutto, fra la strada che è impossibile, il caldo, il peso, un vicino che ti chiede se gli permetti di riempirsi la brocca per lavarsi.
Quando i tre secchi arrivano a destinazione, uno è per una vecchia sola al terzo piano, che proprio non ce la fa a procurarsi l’acqua (senza retorica: i poveri sanno essere generosi all’inverosimile), e gli altri due bastano appena per lavarsi.
Una trovata (geniale) l’hanno escogitata alcuni ricchi, proprietari di autobotti: portano l’acqua a domicilio e la vendono a quattro pesos al secchio (non è acqua potabile, anche se molti la bevono, con immaginabili conseguenze). Forse è grazie a loro e al commercio che il problema dell’acqua non ha soluzione.
L’acqua il buon Dio la dona gratis, anche troppa a volte. Verso la fine del 2003 c’è stata un’inondazione: ha provocato 15 morti, centinaia di feriti e migliaia di case danneggiate (se n’è parlato nel ricco nord del mondo?). Di fronte ai danni e al dramma della gente, il governo ha dichiarato che le abbondanti precipitazioni, anche se hanno provocato disagi, favoriranno il futuro raccolto del riso…
Intanto quest’acqua, che ha riempito gli enormi serbatorni costruiti nel barrio alla vigilia delle elezioni, potrebbe arrivare senza problemi in tutte le case: basterebbe girare una valvola e permetterle di scorrere nelle tubature. Invece quest’acqua, se la vuoi, la devi pagare cuatro pesos a la cubeta.

C’è il problema della luce. Ma i politici dicono che non dovremmo lamentarci: nei giorni di festa l’abbiamo avuta anche per otto ore di seguito. Però da alcuni giorni l’abbiamo per tre o quattro ore al massimo. I giornali ci avvertono che ci saranno disagi ulteriori, perché il governo non ha pagato le compagnie che assicurano il servizio elettrico e sono prevedibili ritorsioni.
«Per fortuna» che la maggioranza della gente non sa leggere o legge solo le pagine sportive dei periodici (in Italia c’è il dio football, qui c’è il dio baseball). Insomma, una situazione esplosiva.
Per non parlare della campagna elettorale. Qui tutti sono impegnatissimi, compresi i governanti che, anziché governare, si fanno propaganda politica. Le elezioni presidenziali sono in maggio. Due dei tre principali partiti non sono riusciti a mettersi d’accordo sul candidato unico da presentare. Complessivamente si sono avuti 10 candidati per 3 partiti.
Il problema è che la costituzione della Repubblica Dominicana proibisce che si presentino più candidati per lo stesso partito politico. I politici allora, per una volta quasi tutti d’accordo, hanno pensato che, se la legge impedisce loro di essere in due o tre, la soluzione è semplice: fare una nuova legge che sancisca ciò che conviene a loro (questo mi ricorda qualcuno in Italia).

Quanti altri problemi si potrebbero aggiungere a quelli già presentati! Voglio però concludere con una nota positiva.
Oggi, qui, ciò di cui si sta facendo maggiormente esperienza, ciò che fa sentire dentro un’incontenibile voglia di lottare e dà la misura di quanto la gente sia pronta per una trasformazione radicale… è il fatto che non si è persa la speranza. Anzi.
Nel nostro barrio del Guaricano, tra la gente povera di Santo Domingo, in un paese afflitto da una situazione ogni giorno più insostenibile, non c’è solo un bisogno dirompente e assoluto di speranza. Qui, tra gli ultimi, il miracolo della speranza è già iniziato. Non la speranza basata su promesse elettorali o sul denaro del «buono di tuo». Speranza.
«C’è un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?» (Gv 6, 9). Una speranza concreta, fatta di gesti concreti, condivisione concreta (come i cinque pani e due pesci, che basterebbero appena per me). I poveri già hanno iniziato il processo di solidarietà che rende storia la speranza.
Speriamo pure che chi è ricco, prima o poi, oltre a elargire un po’ di inutile superfluo, magari per sentirsi buono a natale o pasqua, dia consistenza autentica alla speranza, condividendo le migliaia di pani e pesci che possiede e che trasformerebbero definitivamente la speranza in libertà.
Compiendo un atto non tanto di amore, quanto di giustizia. I care.

Franco Bruno




BENIN – Odore di futuro

In Benin dal 1987,
i cappuccini marchigiani promuovono attività
di evangelizzazione, promozione umana
e vocazionale; già
si vedono i primi frutti:
frati beninesi seguono
le orme di Francesco, camminando
accanto agli ultimi.</b< A Malanville, nell’estremo nord del Benin, i camion aspettano in fila prima di attraversare la frontiera con il Niger. La città è un enorme mercato a cielo aperto. Tra i chioschi si parla una lingua chiamata dendi; nelle strade tantissime buste di plastica impolverate si rincorrono, infilate dall’harmattan, il vento secco proveniente dal deserto.
La gente sembra molto rilassata. E sorride. Alcuni bambini sguazzano in un grande acquitrino, fuscelli neri accanto al grande fiume Niger. Sopra le loro piccole teste si allunga il ponte che collega le due dogane. Delle donne trasportano legna sul capo. Arriva a bassa velocità una vecchia auto, stracarica e ammaccata. Il conducente ci saluta con il clacson. Il doganiere abbassa la corda, fa un cenno con la mano, sembra scherzare, e li lascia passare.
Abbandoniamo Malanville in direzione sud, per ritornare sulla costa. Percorriamo una pista sterrata che fende tutta la grande distesa di savana. Se si lascia la via principale si possono prendere i sentirneri che portano diritti all’Africa vera, quella dei villaggi di capanne con i muri di terra rossa e i tetti di paglia.
Qui si parla il bariba e l’odore non è più quello di animali sgozzati sui banconi, ma di erba bruciata.

STREGONI… MANCATI

Siamo a Ina, diocesi di N’Dali, a 250 chilometri dal confine. Qui, nel novembre 2003, i cappuccini hanno inaugurato la parrocchia di Sant’Andrea. La nuova casa è stata affidata a padre Giansante, affiancato da un giovane frate africano. Insieme a loro si trovano anche quattro suore indiane. Tutti coinvolti in questa terra di evangelizzazione, dove i problemi non mancano.
Anzitutto la cronica mancanza di acqua potabile spinge a realizzare nuovi pozzi. Inoltre, questa è una zona in cui la disponibilità di elettricità è molto scarsa, per cui si fa ancora più rilevante la costruzione di un ambulatorio attrezzato e di una mensa per i poveri.
Tuttavia, le basi per iniziare un lavoro proficuo ci sono tutte. Le scuole liceali, agricole e tecniche, sono piene di giovani e la loro disponibilità sembra calda e sincera. Certo, gli ostacoli sul piano sociale e culturale non possono essere minimizzati. La lingua prima di tutto. Infatti le sacre scritture sono tradotte negli idiomi locali e le fatiscenti chiesette dei villaggi avrebbero bisogno di urgenti ristrutturazioni.
Padre Giansante se la sta cavando egregiamente. Il suo bariba migliora e la sua efficacia comunicativa sta ottenendo i primi risultati: i catechisti, formati dalla diocesi, sono già stati attivati per allacciare un bel rapporto tra la parrocchia e i vari villaggi. Perché lo scopo è formare una comunità unita e serena.
Infine, al frate marchigiano non guasterebbe una nuova jeep con gli assi rinforzati, per coprire la strada piena di buche che circonda le sue otto nuove stazioni, i nuovi piccoli mattoni della sua parrocchia, dove il tempo sembra essersi fermato in qualche ovattata cavità.
Le donne impastano la manioca o il mais, i bimbi sbadigliano avviluppati alla schiena delle madri, mentre gli uomini vanno a tagliare la legna nella boscaglia e i ragazzi più grandi tirano frustate alle poche vacche magre, intontite dal sole e lente sul sentirnero nascosto tra la sterpaglia.
Qualcuno, ai bordi della via principale, vende gli igname, un tubero simile alla patata. Non si muore per fame, sebbene l’alimentazione sia insufficiente. Superare i primi cinque anni di vita, però, è una battaglia vera: la mortalità infantile è ancora pesante.
Sulla via principale è stato costruito un modesto ambulatorio, dove incontriamo delle donne che aspettano di essere visitate. Comunichiamo a gesti. Loro fanno parte dell’etnia peul, una popolazione semi-nomade. Sulla porta del medico c’è un manifesto in cui si ricorda l’importanza delle vaccinazioni. È scritto in francese e sfortunatamente non tutti vanno a scuola. Le donne ancora di meno, costrette ad arrangiarsi, in una società patriarcale in cui la poligamia è una pratica molto diffusa.
Il capo del villaggio è da millenni maschio e anche lo stregone, al quale si può affiancare una sacerdotessa nella celebrazione del rito. Lo stregone ha il potere, parla con gli spiriti e confeziona le fatture, i grigri, per le quali gli viene corrisposta una lauta parcella.
Qui è terra di vudù, attraverso il quale, sin dall’alba dei tempi, gli uomini invocano gli dei per ottenere ricchezza, salute e prosperità.
Spesso, all’ingresso del villaggio, si può trovare una sorta di basso tabeacolo fatto in terracotta, contenente i feticci che rappresentano gli spiriti degli antenati e del mondo soprannaturale. I tabeacoli sono i guardiani, non fanno entrare la malasorte.
Ogni piccolo insediamento ha una capanna-feticcio dove su una pietra allungata, che funge da altare, si offrono piccoli sacrifici animali e libagioni, per rendere propizie le forze del mondo invisibile. Un tempo venivano fatti anche sacrifici umani.
A Oenou, una piccola frazione nella diocesi di N’Dali, si sta inaugurando un centro per bambini in difficoltà. Alcuni di essi sono stati diseredati dalla famiglia, perché accusati di essere bambini-stregoni. La superstizione detta che soltanto famiglie prescelte possono mettere al mondo gli autentici stregoni.
Se il neonato di una famiglia a cui è precluso procreare stregoni manifesta certi segni, come mettere prima i dentini superiori rispetto a quelli inferiori, o uscire dalla pancia con i piedi, significa che è uno stregone, ma spuntato nel posto sbagliato, e perciò rischia di essere eliminato. Molti vengono abbandonati, lasciati fuori dal villaggio in preda ai crampi allo stomaco.
Il centro che li ospita consta di dormitorio, refettorio e scuola elementare. Il progetto è andato in porto grazie anche alla generosità di una signora italiana che lo ha finanziato.
Alla cerimonia sono presenti autorità civili e religiose. Insieme al vescovo, partecipano i rappresentanti della comunità islamica. Prendono il microfono anche i capi del villaggio, custodi dell’eredità del passato: nell’elogiare la bontà dell’opera sociale, riconoscono il cinismo di alcuni precetti della tradizione.

BABELE RELIGIOSA

Salutiamo Oenou, inseguiti da una nuvola di bambini festanti, e ci dirigiamo verso la capitale economica, Cotonou, città portuale affacciata sull’oceano Atlantico. Le impronte del colonialismo francese sono ancora visibili: innanzitutto l’idioma, che si mescola tuttavia con la lingua del sud, il fon; poi l’organizzazione sociale, in quanto la cultura tribale è stata sconvolta da febbrili attività commerciali, inquinamento, traffico senza regole e, infine, da una crescente baraccopoli strapiena di poveri, che sopravvivono con pochi franchi al mese.
Sono gli esclusi, che si trascinano ai margini dei quartieri destinati ai signori della burocrazia ministeriale, corrotta e inconcludente, o davanti alle ville dei mercanti, che fanno affari con l’euro, l’occhio patealistico che sorveglia su tutto ciò che si muove, laddove un tempo sventolava la bandiera di Parigi.
Ma a Cotonou si tocca anche un altro aspetto della cultura dell’Africa modea: il sincretismo. In ogni angolo si erge un luogo di culto. Oltre a quelle cattoliche, ci sono chiese ortodosse e protestanti e poi numerose moschee: imponenti edifici, alcuni tutt’ora in costruzione, dove tranquillamente i musulmani pregano il Corano.
Di tanto in tanto, nella babele di motorini-taxi e macchine che sfrecciano da tutte le parti, si intravedono i templi dei cristiani celesti, seguaci di una setta che lega elementi del vangelo con spicchi di animismo. Questo pentolone, in cui ribolle il muezzin, il suono ossessivo del tam-tam e la preghiera cristiana, rispecchia la mentalità di perpetuare un rapporto magico con il mondo spirituale e la grande sensibilità del popolo africano per i segni della natura.
Quindi durante la messa i canti e le danze della tradizione si fondono con la liturgia, perché da queste parti l’incontro con il divino è pur sempre una festa.
Lo abbiamo constatato partecipando alle cerimonie di professione perpetua di tre giovani del luogo e di ordinazione del primo frate cappuccino del Benin, Aubin Aguessy. Le chiese erano stracolme, vive e pulsanti di tanti colori, segno di una comunità che si stringe e si impegna intorno ai simboli della parrocchia.
I missionari cappuccini, a cui abbiamo fatto visita, operano in questa striscia di continente dal 1987. Dove un tempo c’era solo un’enorme e desolante discarica, ora sorge un funzionante convento, accogliente , tra palmeti e alberi di mango, che ospita non solo religiosi e postulanti, ma anche viaggiatori che vengono dall’Italia.

ACCANTO AGLI ULTIMI

Intoo al convento ruotano le attività legate alla Caritas, alle corali che animano le funzioni religiose e alla gioventù francescana, un gruppo di ragazzi che portano conforto in giro per la città alle persone che stanno male.
Nella stessa area si trovano le comunità delle clarisse e delle suore terziarie francescane. Quest’ultime hanno lasciato circa 10 anni fa il Sud America, ora gestiscono un ambulatorio e un istituto femminile, dove si insegna il mestiere della sarta.
L’aids avanza drammaticamente e la malaria continua inesorabilmente a mietere vittime. Davanti all’ambulatorio le donne con i bambini fanno la fila per qualche farmaco, mentre a scuola si lavora in laboratorio, lentamente, perché il caldo sfianca.
Le alternative alla prostituzione non sono tante: la parrucchiera o la sarta. In Benin l’arte del pettine e delle forbici ha un grosso peso culturale. Infatti dal tipo di taglio si può dedurre se la ragazza è libera, quindi in cerca di un compagno, o se è impegnata. A occhio e croce il giro d’affari che si accumula intorno ai capelli è fortissimo, almeno dal punto di vista sociale, se si contano i numerosi «negozi di bellezza» disseminati per tutto il paese.
Le trecce forse leniscono la durezza dell’arrangiarsi; ma per chi dai villaggi giunge nella metropoli la vita non è affatto facile. Le ragazzine che sfuggono all’usanza dei matrimoni combinati trovano spesso la violenza della strada.
Per le donne, in generale, i diritti non sono estesi. Le mamme non hanno la tutela dei figli e, soprattutto nel clan familiare, contano zero, molto meno delle sorelle del marito. Il risultato di questa discriminazione è che molte ragazze scelgono di lasciare la famiglia per cercare fortuna in città. Dove spesso non la trovano. Alcune, invece, trovano i due orfanotrofi che i cappuccini hanno inaugurato da poco tempo, in cui sostegno e affetto ci sono sempre. Qui possono studiare, ricevere le cure adeguate, dormire al sicuro e mangiare tutti i giorni.
I presupposti per un intervento serio nel settore sociale ci sono, sebbene la prova del nove sarà quando il testimone passerà nelle mani dei frati africani, di chi, nato in questa terra, dovrà portare avanti il magistero e l’esempio vivo dei missionari venuti dalle Marche.
E i successori già sono stati designati o, per lo meno, si apprestano a esserlo. Sono i novizi, ragazzi non solo del Benin, ma anche del Camerun e Costa d’Avorio, che si preparano al sacerdozio nella terza casa dei cappuccini, quella di Ouidah, a 40 chilometri da Cotonou, sulla strada verso il Togo. A loro è affidata la costruzione di un ponte ideale tra Assisi e l’Africa, al fine di proseguire concretamente l’opera di occuparsi degli ultimi, in un continente che è davvero trattato a bastonate, ma che odora di futuro.
Verso il domani corrono i suoi bambini: ogni giorno si alzano per un tozzo di pane sempre amaro. Poi ineluttabilmente giunge la notte. La città si spegne, i mercati diventano silenziosi. Chi ha guadagnato, chi ha rubato, chi ha rimesso, chi ha comprato: ormai tutto si confonde nel buio.
Dalla foresta di palmeti volano in alto le strida degli uccelli e il rumore dei tamburi. Si fa festa, si fa il vudù. L’oceano ruggisce in lontananza, si espande il cielo nero violato qua e là da qualche luce.
Certo, non è la notte eterna del nord, dove le stelle sono l’energia elettrica, eppure anche stavolta la magia ha fatto la sua parte per rendere quel pezzo di pane meno amaro.

Paolo Brunacci




TANZANIA – Piedone l’africano

Una sconosciuta località africana ha conservato,
per milioni d’anni, i «segni» di una presenza umana.
Quasi un piccolo miracolo, che lascia ammirati e pensosi.

Laetoli è una piccola località del Tanzania, a 45 km da Olduvai, sul confine con il Kenya. Fra tutti i luoghi di interesse di ricerca fossile nella Rift Valley, che ormai sono moltissimi, Laetoli è davvero un luogo molto strano, diverso da tutti gli altri.
Il comune denominatore degli altri siti fossili è il deserto, o un luogo assai caldo, disidratato, inabitabile, anche se in un’epoca remotissima era forse rigoglioso, magari lacustre o, almeno, servito da tortuosi torrenti. Laetoli, invece, ha conservato la caratteristica di un tempo, circondato da diversi piccoli laghi. Non è certo il paradiso dei fossili, dato che non compaiono a fior di terra come nel triangolo di Afar (Etiopia) o nei canyon dell’Omo.
Louis Leakey, padre dell’attuale paleontologo Richard Leakey, sin dal 1935 aveva fatto un sopralluogo a Laetoli, in cerca di fossili ominidi. Aveva trovato qualcosa, ma aveva definito la sua scoperta «un canino di babbuino» e, con questa etichetta, ne aveva fatto omaggio al British Museum di Londra.
Quel dentino restò nascosto in mezzo ai tanti altri finché, nel 1979, un giovane studioso di nome Tim White non lo notò e lo studiò a fondo e finì per essere «riscoperto» come il più antico reperto fossile di ominide esistente. Se Leakey l’avesse saputo, avrebbe fatto salti di gioia, nonostante i suoi proverbiali dolori artritici.
Leakey abbandonò Laetoli, lasciando il posto a un tedesco, Kohn Larsen, che scoprì un pezzo di mascella con un paio di premolari. Anche questo studioso si accontentò di classificare il reperto con l’etichetta di «scimmia antropomorfa». A quel tempo, oltre 60 anni fa, era inconcepibile per gli antropologi pensare a un fossile del genere homo o ominide, vecchio di milioni di anni.

La fortuna… in tasca

Ma fortuna e gloria stavano per tornare a bussare in casa Leakey, grazie a sua moglie, anch’essa assai patita come lui di roba fossile. Mary, nel 1976, decise di fare un ennesimo tentativo di ricerca a Laetoli.
Aveva un aiutante kenyano da lei bene addestrato, Kaymoya Kimeu, che in poco tempo scoprì un fossile di ominide. Mary Leakey si precipitò sul luogo con una nutrita squadra e mise insieme 42 reperti. Uno ebbe l’onore di essere classificato «assai interessante»: una mandibola con infissi 9 denti. Il mondo paleoantropologico lo conosce come il fossile ominide lh-4. Ma a rendere ancor più interessante è il fatto che in quel luogo gli ominidi hanno lasciato le loro impronte: orme di piedi umani! Una caratteristica esclusiva di Laetoli per molti anni; oggi condivisa da altri quattro luoghi in Siria, Ungheria, Francia e Italia.
Come è stato possibile che queste orme si siano conservate per oltre 3 milioni di anni?

All’inizio… un’eruzione

Lontano da ogni fantasticheria, uno studioso è riuscito a ricostruire la scena, avvenuta 3,5 milioni di anni fa, quando il vulcano Sadiman si spense per sempre. Sul terreno rimase un sottile strato di carbonatite, simile a finissima sabbia di spiaggia. Poi piovve. Impregnata di acqua, la cenere formò una pasta, come cemento fresco, sulla quale le creature di quel luogo lasciarono le loro impronte: elefanti, giraffe, antilopi, maiali, lepri… e persino struzzi, galline e piccoli insetti.
Ben presto, lo strato di cenere si indurì al sole e, prima che piovesse una seconda volta, il vulcano riprese a eruttare, coprendo le orme con uno strato di cenere di una ventina di centimetri.
La scoperta avvenne in modo fortuito: il gruppo di ricercatori di Mary si divertiva alla… guerra, usando come proiettili l’abbondante sterco di elefante, disseminato in quell’area. A un tratto, un giovanotto di nome Andrew Hill, mentre tentava di sfuggire al lancio di un proiettile e cercava altre munizioni per rispondere, notò strani incavi nel letto asciutto di un torrentello; si fermò a contemplare quelle impronte, che definì subito di animali; ma non diede importanza alla scoperta: erano solo impronte di animali del passato.
Trascorre un anno. Nel 1977 il figlio di Mary, Philip, toò a Laetoli con un collaboratore e scoprì altre orme e tracce; sospettò che alcune di esse fossero di piede umano… o ominide. Mary Leakey diede la notizia della scoperta in una conferenza negli Usa, lavorando anche un po’ troppo di fantasia: parlò anche di un pozzo d’acqua, attorno al quale animali e uccelli dovevano essersi radunati, del panico che dovevano avere provato, fuggendo spaventati per la pioggia di polvere vulcanica.
Alcuni paleoantropologi risero sotto i baffi; altri rimasero elettrizzati dalla descrizione. Un’esperta americana di orme, Louise Robbins, accettò di unirsi alla squadra di ricercatori per l’anno seguente, seguita da altri tre studiosi, seri e critici. La conclusione della campagna di scavi e ricerche mise tutti in subbuglio e in disaccordo.
Paul Abell, uno dei tre studiosi, un giorno scoprì una speciale orma, molto più chiara delle altre e la fotografò. Ma Robbins la definì subito e senza pensarci troppo: impronta simile a quella di una mucca. Abell non ne era convinto, ma dovette ubbidire anche lui agli ordini di Mary Leakey che, esasperata, fece sospendere tutti gli scavi.
Ma Jones, un altro dei tre studiosi aggregati, era sempre più convinto dell’interpretazione di Abell e riuscì a strappare a Mary il permesso di fare ancora un «piccolo» scavo.
«Ma piccolo piccolo!» insisteva Mary. E, per mostrare la sua sfiducia, incaricò degli scavi Ndibo, un uomo addetto alla manutenzione del campo. Questi, pacioccone, si mise all’opera, imitando i suoi «professori» e il giorno dopo toò tutto giulivo.
– Vieni a vedere, mama: ho trovato non una, ma due orme. Una piccola e una molto grande, di 30 cm!
– Ndibo! Sei davvero uno spaccone. Non contare frottole!
– Ndibo non conta frottole!
Mary andò a vedere; rimase con gli occhi spalancati, incapace di credere a se stessa: le orme si dirigevano a nord, verso un intrico di vegetazione, protette da una zona erbosa.
Gli studiosi tornarono all’opera con entusiasmo ed esasperante lentezza. Orma dopo orma, liberarono un lungo pezzo di terreno: alla fine, più di 50 orme appaiate, una piccola e una molto più grande, procedevano in linea retta per circa 23 metri: 3 milioni 700 mila anni or sono, ominidi in posizione eretta avevano camminato su della cenere caduta da poco, a Laetoli, lasciando ai posteri il ricordo del loro passaggio.

Come impronte sulla spiaggia

La conservazione di queste orme ha del «miracoloso». Un incredibile concorso di vari fattori ha permesso tutto ciò. Basti pensare a quanto resistono le orme di un piede umano sulla sabbia, in un pantano o sulla terra umida.
Viene voglia di dubitare sulla sicurezza di questi studiosi, che hanno scoperto e definito tali orme «di ominidi». Ma non ci sono motivi plausibili per controbattere. La serietà degli esami del tufo vulcanico, in cui le impronte sono rimaste impresse, permette di stabilire anche la datazione. L’esame con il metodo potassio-argo ha confermato che i due tipi di tufo esaminati risalgono rispettivamente a 3,59 e 3,77 milioni di anni fa.
Descrivendo la scoperta di Laetoli, così dice Tim White: «Sono orme come quelle di un essere umano moderno. Se ce ne fosse una su qualsiasi spiaggia, oggi, e si chiedesse a un bambino di quattro anni di cosa si tratti, quel bimbo direbbe subito che è di qualcuno che camminava; non la troverebbe differente da altre centinaia. Nelle impronte di Laetoli la morfologia estea è la stessa: tallone moderno ben formato; arcata sostenuta, polpastrelli delle dita. L’alluce è bene allineato, non sporge di lato come quello di una scimmia antropomorfa o di tanti disegni di australopiteci, che si possono vedere riprodotti nei libri.
Non intendo dire che non ci potessero essere delle piccole differenze nella struttura ossea del piede; questo dobbiamo aspettarcelo. Ma, a tutti gli effetti, gli ominidi di Laetoli camminavano eretti come noi, non con andatura strascicata, come molti hanno sostenuto per tanto tempo. Credo che queste orme siano allo stesso livello delle più fantastiche e illuminanti scoperte di questo secolo».

SIAMO TUTTI UN PO’ AFRICANI

Un giorno, parlando con un antropologo sull’insostenibilità del significato scientifico del concetto di razza, questi mi disse: «In fondo siamo tutti africani» volendo intendere, con questa sua frase, che l’antenato comune all’intera umanità compì i primi passi proprio sull’attuale continente africano.
Dalle foreste verdeggianti e rigogliose, il genere umano si è poi espanso ed evoluto, dominando il globo, dimenticando spesso la sua comune origine. Questo ha fatto sì che, per molti europei, l’Africa altro non sia che una terra da contrapporre, generalmente in senso negativo, alla nostra civiltà: è il «continente nero» (non volendo, tra l’altro, vedere che in Africa vivono decine di milioni di altri gruppi umani, tra cui anche i bianchi).
Quante Afriche conosciamo? Sappiamo di una terra in cui è bello e chic andare a trascorrere un paio di settimane l’anno, purché «protetti» dalle rassicuranti mura di un villaggio dell’agenzia di viaggio, dove gli africani li vedi solo quando ti portano gli spaghetti al tavolo o puliscono la camera.
Oppure conosciamo un’Africa meno umana e più animale, dove ti propinano visite «mordi e fuggi» a tribù locali come contorno ai safari.
Infine, c’è un’altra Africa, purtroppo la più vera, raccontata dai mass media e missionari: denutrita, devastata dal colonialismo, dissanguata dalle guerre, sfruttata dalle multinazionali, dileggiata dai razzisti, umiliata dai leaders africani (incivili e antidemocratici), che restano al potere perché appoggiati da governi occidentali (democratici e civili).

Spesso si afferma che l’Africa si è ridotta in questo stato perché è abitata dagli africani, negando a questi una specificità culturale e organizzativa.
È proprio per confutare questo modo di pensare che inviterei a visitare il Museo africano della Basella di Urgnano, ideato e realizzato dai padri Passionisti.
Per dissipare ogni dubbio sin dall’inizio, diciamo subito che nel museo non troveremo l’Africa dei depliant turistici e neppure quella dei negozietti che vendono collanine e statuette comprate per pochi soldi, ma riproposte a caro prezzo.
L’Africa che troveremo, invece, è quella del popolo, dell’africano che finalmente ritrova, nello spazio della Pianura Padana, il suo più ampio respiro.
Quello della Basella è un museo unico nel suo genere, in cui le preziose sculture esposte, per la maggior parte lignee, dimostrano quale elevata forma artistica abbiano raggiunto popolazioni che ci ostiniamo a definire «primitive», per il solo fatto che hanno seguito filosofie e percorsi di sviluppo propri, non coincidenti con i nostri.
Così è possibile restare estasiati ad ammirare l’intensa espressività di una mateità dei bambara del Mali, dove un bambino si avvinghia attorno alla vita della madre, protetto dalle sue braccia, o il realismo di un volto bronzeo degli ashanti o la spiritualità che emana un reliquiario bwestern.

Per evitare che il visitatore meno attento si smarrisca culturalmente tra le figure esposte, i curatori del museo hanno scelto di esibire solo le opere artisticamente più significative (una quarantina in tutto), dislocate in teche di vetro. Attraverso una serie di percorsi tematici, si è condotti da un fascio di luce, accompagnato da una voce fuori campo, a percorrere differenti itinerari che si soffermano su particolari gruppi scultorei. Di particolare interesse è il circuito dedicato alla fertilità della donna, che, oltre a mostrare le opere più interessanti esposte nella sala, delinea l’importanza del ruolo femminile nelle società africane.
Per chi volesse entrare più a contatto con la realtà attuale del continente, un filmato di una ventina di minuti dà allo spettatore la visione dei variegati aspetti delle società africane: dai calmi ritmi di vita delle popolazioni tribali alla frenesia delle città modee, senza trascurare le immagini degli slums che avvinghiano come serpenti i ricchi centri commerciali delle megalopoli.

Ma la grande peculiarità del museo, sicuramente la più amata dai bambini e numerose scolaresche che vi fanno visita, rimane la parte dedicata alle attività interdisciplinari qui proposte. Laboratori di musica e danza guidati da artisti africani o atelier di scultura e pittura, aiutano i ragazzi a immedesimarsi nel vero spirito di un continente geograficamente a noi vicino, ma intellettualmente lontano.
Per i più grandicelli, le mostre tematiche, rinnovate periodicamente, rappresentano un ulteriore approfondimento di usi e costumi delle popolazioni locali. Attualmente il museo ospita una interessante esposizione sulla simbologia dei gesti nelle varie culture africane attraverso cui ci si può rendere conto di come semplici azioni quotidiane possono assumere significati differenti, spesso addirittura opposti, a seconda delle latitudini dove questi vengono espressi.
Nel lasciare il Museo d’arte e cultura africana mi rimane impressa una frase raccolta nella locandina del museo: «C’è comunque un gesto che è universale e che ha lo stesso significato in tutta l’Africa come in tutto il mondo: il sorriso».
E questo gesto, il sorriso, a pensarci bene, in un certo senso ci rende più simili agli africani.
In fondo, tutti noi siamo un po’ africani.
Piergiorgio Pescali

Giuseppe Quattrocchio




VENEZUELA 2004 Tra Bolivar e Chávez (prima puntata)

Introduzione
VENEZUELA 2004
(e la maledizione del petrolio)

Sono molte le immagini che si sono
impresse nella mente durante il mio viaggio in Venezuela. Dire che il
paese è diviso in due parti antitetiche e contrapposte può sembrare
semplicistico, ma l’affermazione non si discosta troppo dalla realtà.
Ricordo le lacrime silenziose della ministra dell’ambiente, Ana Elisa
Osorio, medico, quando raccontava delle «amiche» che l’hanno ripudiata
perché lei è entrata nel governo dell’odiato Hugo Chávez Frias. Ricordo
la faccia triste dell’ex ministro della pianificazione, Jorge Giordani,
ingegnere laureato a Bologna, quando ci raccontava il comportamento dei
suoi vicini di casa: costoro ogni sera, per mesi, avevano inscenato
rumorose ed offensive proteste davanti ai cancelli della sua abitazione
perché lui e la sua famiglia se ne andassero dalla zona. Ricordo gli
occhi pieni di felicità di Maylin Rodriguez Beltran, giovane mamma del
barrio Sucre, a Caracas, quando ci mostrava l’atto di proprietà della
propria casa (già abusiva), appena ricevuto dal governo.

Ricordo
il racconto di padre Agostinho, missionario della Consolata: «Le
divisioni tra chavisti e anti-chavisti si manifestano anche nella mia
chiesa. Qualche tempo fa, una signora durante una messa ha chiesto agli
altri fedeli di pregare perché Chávez se ne vada. Davanti a questi
fatti io, prete, come debbo comportarmi?». Ricordo l’accorato
comunicato di un gruppo di suore favorevoli a Chávez (chiamato «hermano
Presidente»), che si concludeva così: «Noi gridiamo che vale la pena di
vivere in Venezuela: oggi, qui ed ora».

Il Venezuela è uno dei
maggiori esportatori mondiali di petrolio. In America Latina è il primo
produttore. La «Petróleos de Venezuela» (Pdvsa, detta Pedevesa nel
linguaggio corrente), la compagnia petrolifera di proprietà pubblica,
ha sempre generato enormi profitti, che però invece di arrivare nelle
casse dello stato in larga parte sono andati a gonfiare conti bancari
privati, in patria come all’estero. Forse per questo i dirigenti di
Pedevesa si sono apertamente schierati con la «Coordinadora
democratica» (l’eterogenea alleanza che raggruppa gli anti-chavisti).
Poco importerebbe se essi non fossero riusciti a bloccare per mesi
(attraverso uno sciopero, ma anche con autentici atti di sabotaggio) la
produzione di greggio, portando il paese ad un passo dalla bancarotta.
Difficile fare previsioni sul futuro del Venezuela. Il presidente
Chávez (ammesso che resista) indirà le elezioni nel prossimo agosto? Se
sì, i contendenti accetteranno il successivo responso delle ue? Un
eventuale ritorno dell’opposizione al governo, comporterà anche un
ritorno ad un modello economico dove l’80 per cento dei venezuelani è
costretto a vivere nella miseria?

Pa.Mo.


VOCI DA PIAZZA ALTAMIRA:
«NOI TORNEREMO»

Dicono
che il presidente Hugo Chávez Frias sia un dittatore, legato a Fidel
Castro e al comunismo internazionale. Ma non parlano da un carcere o
dall’esilio. I militari ribelli hanno il loro quartiere generale in un
albergo che si affaccia su piazza Altamira, luogo simbolo
dell’opposizione venezuelana, situato nella parte est di Caracas, il
quartiere delle classi ricche. Abbiamo incontrato uno dei comandanti
ammutinati, il generale Néstor Gonzáles Gonzáles. Ecco le sue risposte
e i suoi giudizi sulla situazione venezuelana e sul futuro.

Caracas.
Alle spalle della piazza si alza il monte Avila, che per la sua altezza
svolge una funzione di orientamento per chiunque non conosca Caracas.
La piazza si chiama Francia, ma è comunemente conosciuta come Altamira.
Costituisce il fulcro di Chacao, il municipio più ricco di Caracas,
dove ci sono le maggiori entrate fiscali, dove le strade sono ordinate
e dove il colore della pelle delle persone è tendenzialmente sul
bianco… Il sindaco di Chacao si chiama Leopoldo Lopez e, con il suo
movimento Primero justicia, è uno dei leader emergenti dell’opposizione
venezuelana.
La piazza Altamira è diventata famosa in tempi recenti.
Tutta circondata da palazzi modei e posta in leggera salita, negli
ultimi due anni essa si è trasformata in una sorta di santuario del
movimento che si oppone al presidente Hugo Chávez. In senso simbolico,
ma anche effettivo.
Sotto l’obelisco che sta al centro della
piazza è stato eretto una specie di altare con una grande statua della
Madonna e sotto di essa altre di dimensioni minori. Attoo grandi
casse acustiche, microfoni, un palco per le riprese televisive, un
orologio che scandisce ore e minuti trascorsi dall’inizio
dell’occupazione della piazza. E ancora striscioni contro Chávez
(«rinuncia subito ») e in favore del generale Martinez; cartelli con il
sito internet e il numero di conto corrente bancario dei «militari
democratici». Il tutto è infiocchettato da drappi gialli, azzurri,
rossi, i colori del Venezuela.
Stiamo per scattare qualche foto,
quando alcune persone si avvicinano per consigliarci di andare a
chiedere il permesso. «Il permesso?» chiediamo stupiti.
– È meglio. Potrebbero confondervi per spie chaviste.
– E a chi dovremmo chiedere questo permesso?
– Entrate nell’hotel.
L’hotel è il «Four Seasons», moderno e mai entrato in funzione. Da mesi
divenuto una sorta di quartier generale dell’opposizione e, in
particolare, degli ufficiali che hanno lasciato Chávez. Sono qui dallo
scorso 22 ottobre e con una buona dose di enfasi hanno dichiarato
piazza Altamira «territorio liberato». Alcune persone ci indirizzano
dal generale. Con un basco sulla testa rasata a zero e un giubbotto
antiproiettile che sbuca dalla giacca d’ordinanza carica di lustrini
militari, l’ufficiale non può passare inosservato neppure agli occhi di
persone totalmente estranee al mondo militare. Dimentichiamo subito il
motivo per cui siamo entrati. L’occasione è troppo ghiotta: chiediamo
di avere una breve intervista. Ci dice di aspettare un attimo. Ritorna
dopo pochi minuti, impettito come si conviene a un generale, stringendo
tra le mani il bastone del comando.
Generale, cominciamo con una breve autopresentazione.
«Sono Néstor Gonzáles Gonzáles, generale di brigata dell’esercito
venezuelano. Sono uscito dall’accademia militare nel 1974. Ho 28 anni e
mezzo di servizio attivo, più quattro anni all’accademia».
Dunque, lei ha quasi 33 anni di vita militare alle spalle. Con quali incarichi?
«Ho avuto incarichi di comando della truppa in tutta la mia carriera e sono
stato anche istruttore per tutte le armi. Sono stato comandante dei
reparti di artiglieria, vicecomandante del reggimento della guardia
d’onore durante i governi di Carlos Andrés Pérez (1989-1993) e di
Rafael Caldera (1994-1998) in una situazione sommamente critica. Questo
le da un’idea di quanto siamo democratici e del fatto che non siamo
golpisti. Sono stato secondo comandante della 31° brigata di fanteria;
direttore della scuola di artiglieria dell’esercito; comandante della
brigata cacciatori dell’esercito; comandante del teatro di operazione
numero 2.
Il mio ultimo incarico è come direttore del personale dell’esercito e comandante di tutte le scuole dell’esercito».
Un curriculum di tutto rispetto per un ufficiale. Ora, però, le chiediamo: che ci fa in questa piazza?
«Questa è una situazione che molte persone non capiscono. Bisogna sapere che
prima di arrivare a ciò sono state fatte tutte le denunce attraverso i
canali legali per far sì che il presidente rispettasse la costituzione».
In cosa Chávez non avrebbe rispettato la costituzione?
«Per esempio, il tradimento della patria con la consegna del territorio
venezuelano alla guerriglia colombiana. Ho manifestato pubblicamente e
attraverso tutti i canali ufficiali (dell’esercito, del ministro della
difesa e della presidenza della repubblica) il mio scontento e la mia
indisposizione ad accettare che la politica fosse introdotta
all’interno dei quadri dell’esercito. Sostenevo che questa
politicizzazione delle forze armate avrebbe portato a problemi di
divisione, di leadership e di operatività. Tutte queste mie
osservazioni non sono state prese in considerazione. Poi sono avvenuti
i fatti dell’11 aprile 2002 (vedere cronologia, ndr). Io ho fermato le
truppe e i tanks perché non uscissero per strada a massacrare il popolo
venezuelano, che chiedeva la rinuncia del presidente. L’intento di
Chávez era proprio quello di usare le truppe per sequestrare il popolo
venezuelano e imporre un progetto comunista di tipo totalitario,
diretto da Fidel Castro e dalla sinistra internazionale. Una volta che
è successo tutto questo, io ed altri ufficiali democratici abbiamo
ritenuto che non esistesse più uno stato di diritto all’interno del
nostro paese e siamo scesi in piazza Altamira a denunciare quello che
stava succedendo. Era il 22 ottobre 2002. Siamo ancora qui, perché lo
stato di diritto non è stato ripristinato e non esiste neppure un luogo
dove presentare le nostre denunce, dato che tutti i poteri dello stato
hanno un atteggiamento ostile nei nostri confronti.
Per tutto questo abbiamo deciso di ritirarci dall’esercito e venire in questa
piazza per denunciare all’opinione pubblica nazionale e internazionale
quello che sta facendo il presidente Hugo Chávez contro il popolo
venezuelano. Questa persona ha permesso a elementi stranieri di entrare
nel nostro paese per reprimere la rivolta popolare; ha distrutto tutte
le istituzioni e sfrutta la miseria per portare avanti un progetto di
sinistra con lo scopo di destabilizzare tutto il continente
latinoamericano e probabilmente la pace e la tranquillità del mondo».
Quante persone condividono la vostra ribellione?
«All’interno
del territorio liberato di piazza Altamira ci sono 126 militari. Ma non
tutti vivono qui. Alcuni vanno ai loro luoghi di residenza, altri
invece dormono sempre in case diverse per motivi di sicurezza. C’è
repressione contro di noi, contro le nostre famiglie».
Lei parla di repressione. Però, è molto originale che ci sia un gruppo di ufficiali
che si sono ammutinati e non riconoscono questo governo e che tuttavia
non vengono arrestati…
«In questo momento abbiamo 9 ufficiali
con ordini di cattura. Gli altri no. Nemmeno io, che continuo ad essere
militare attivo delle forze armate venezuelane. Siamo 4 generali. Gli
altri sono stati abbassati di grado senza nessuna giustificazione,
senza nessun diritto alla difesa, senza il processo che si deve seguire
in questi casi.
Abbiamo un generale detenuto nella sua residenza
per motivi politici, il generale Alfonso Martinez. Inoltre, a parte
noi, ci sono molti generali che sono a casa o senza incarichi o che si
sono ritirati dal servizio, che lavorano per ottenere l’abbandono della
presidenza da parte di Hugo Chávez».
Lei ovviamente sta parlando di un’uscita pacifica, giusto?
«Qualsiasi uscita! Perché quando si vende la patria, quando si tradisce un popolo
per imporre un regime alieno, che non si identifica con il benessere,
la tranquillità e la pace della gente, si deve arrivare alla libertà a
qualsiasi costo.
Abbiamo iniziato pacificamente, ma se dovremo
ricorrere ad altri metodi lo faremo. Dobbiamo recuperare la libertà di
una nazione e di un popolo che sta soffrendo. Purtroppo, la comunità
internazionale non ha inteso totalmente la nostra situazione».
Perché non avrebbe inteso la situazione? I media hanno parlato molto del Venezuela…
«Semplicemente perché il governo ha manipolato l’informazione. Con molto denaro ha
costruito una lobby internazionale a cui mostra continuamente una
costituzione che non rispetta. Hugo Chávez vuole dimostrare che è un
democratico, mentre in realtà è un dittatore che tenta di imporre un
regime comunista e fondamentalista».
Parliamo di numeri. Secondo lei, quanta gente sta con Chávez?
«Calcoliamo
che ha una popolarità “dura” tra il 12% e il 15%. Poi c’è un altro 15%
che, per così dire, è chavista light, molti anche all’interno delle
forze armate, perché sono pagati, corrotti. Chávez ha comprato la
dignità e la coscienza della maggior parte delle persone che lavorano
con lui, ma quando il denaro finirà queste lo lasceranno perché non si
identificano con lui».
Se solo il 30% della popolazione sta con
Chávez, questo significa che il presidente è stato abbandonato anche da
gran parte della gente povera…
«Molti pensano che gli abitanti
dei barrios poveri stiano dalla sua parte, ma non è così. Ad esempio,
durante il firmazo (raccolta di firme contro il presidente indetta
dall’opposizione, ndr), molta gente è scesa a Caracas per manifestare
la propria volontà di smettere di soffrire».
E le forze armate da che parte stanno?
«Chi
crede che le forze armate stiano con il presidente si sbaglia! Proprio
perché non è così, Chávez ha portato tanti stranieri sul territorio
venezuelano: gruppi della guerriglia colombiana pronti ad intervenire
con le armi; cubani mascherati da istruttori sportivi, ma ugualmente
armati. Poi, con la scusa di difendere la rivoluzione, ha armato anche
parte della popolazione».
Lei si riferisce ai cosiddetti circoli bolivariani?
«Certo!
Lui ha organizzato questi circoli perché sa che le forze armate non
stanno dalla sua parte, che hanno una posizione istituzionalista e che
un giorno si uniranno assieme al popolo per cacciarlo».
E cosa pensa della cornordinadora democratica?
«Un
elemento della politica di Hugo Chávez è cercare di dividere
l’opposizione. La cornordinadora democratica non è sfuggita a questo
tentativo. Così si sono create divisioni tra i politici che si
oppongono a Chávez per interessi personali, economici o di partito.
Queste persone vengono automaticamente messe da parte quando ci si
accorge che esse non si identificano con l’interesse generale del
popolo venezuelano».
E quali vie d’uscita propone la cornordinadora democratica?
«Chávez
disprezza qualsiasi opzione democratica e si burla costantemente di
ogni soluzione proposta dal popolo, perché se è vero che il presidente
gode ancora di un 25-30% di supporto popolare, è anche vero che ha un
70% di rifiuto che viene espresso regolarmente nelle strade di Caracas
e non solo in piazza Altamira.
Questo non era mai successo con
nessun presidente venezuelano, nemmeno con Caldera che arrivò ad avere
un 15% di popolarità, ma il restante 85% della popolazione rimaneva
indifferente e viveva la vita così come veniva. Tutto restava confinato
all’interno di un contesto democratico, senza creare in nessun momento
divisioni tra ricchi e poveri o tra bianchi e neri, come cerca di fare
in questo momento Chávez».
Generale Gonzáles, che cosa pensa per il futuro immediato?
«Il
futuro immediato impone al popolo venezuelano di continuare a scendere
in piazza per far capire alla comunità internazionale che la nostra
lotta è giusta. La pace, la libertà, la tranquillità e il futuro del
Venezuela significano molto non soltanto all’interno del continente
sudamericano, ma anche nel contesto occidentale e mondiale. Non può
essere che un gruppo minoritario sequestri la libertà e la tranquillità
di un paese. Pertanto dobbiamo continuare ad andare avanti. A qualsiasi
costo».

(Fine 1a. puntata)

BOX
SCHEDA VENEZUELA

Superficie: 915.000 Kmq (circa 3 volte l’Italia)
Popolazione: 23.706.000 (1999)
Gruppi etnici: meticci (67%), bianchi (21%), neri (10%), amerindi (2%)
Capitale: Caracas
Religione: cattolici (92,7%)
Tasso alfabetizzazione: 91%
Ordinamento politico: repubblica presidenziale guidata da Hugo Chávez Frias, il cui mandato scade nel 2006
Economia:
si fonda sull’industria estrattiva di petrolio e gas naturale (laguna
di Maracaibo, Golfo di Paria, ecc.); l’agricoltura (caffè, cacao, canna
da zucchero, tabacco) non copre le necessità intee
Lavoro: secondo alcune inchieste, il 53% della popolazione economicamente attiva ha un lavoro di tipo «informale»
Sotto
la soglia di povertà: le cifre non sono concordi; tuttavia, non si
sbaglia di molto dicendo che l’80% della popolazione vive in povertà,
il 50% in estrema povertà

Cronologia essenziale
DALL’ASCESA DI HUGO CHÁVEZ AL FEBBRAIO 2003

1989-2001, DAL CARCERE ALLA PRESIDENZA
27 FEBBRAIO 1989: SOLLEVAZIONE POPOLARE
A
Caracas esplode la protesta di vasti settori della popolazione. La
manifestazione si tramuta in insurrezione violenta con saccheggi e
devastazioni. La rivolta si estende anche in altre città del Venezuela.
Il presidente Carlos Andrés Pérez manda contro la folla l’esercito che
apre il fuoco. I morti sono migliaia.
4 FEBBRAIO 1992: SOLLEVAZIONE MILITARE
Il
tenente colonnello Hugo Chávez e altri quattro comandanti tentano un
golpe contro Carlos Andrés Pérez. La sollevazione fallisce.
MARZO 1994: FUORI DAL CARCERE
Il nuovo presidente Rafael Caldera libera Chávez.
1997: NASCE IL PARTITO DI CHÁVEZ
Chávez fonda il «Movimento V (Quinta) Repubblica», partito con il quale si candida alla presidenza del paese.
6 DICEMBRE 1998: VITTORIA
Chávez viene eletto presidente del Venezuela con il 56,49% dei voti.
2 FEBBRAIO 1999: GIURAMENTO
Al momento del giuramento, il neo-presidente afferma di prestare giuramento sopra una «costituzione moribonda».
APRILE – DICEMBRE 1999: NUOVA COSTITUZIONE
La
maggioranza dei venezuelani approva la proposta di convocare
un’assemblea costituente per redigere una nuova costituzione (25
aprile). Il raggruppamento di Chávez conquista 122 seggi su 131
all’interno della costituente (25 luglio). Il 15 dicembre un referendum
approva la nuova costituzione «bolivariana».
30 LUGLIO 2000: NUOVA VITTORIA DI CHÁVEZ
Chávez ottiene il 59% dei voti nelle elezioni indette in conformità alla nuova costituzione.
13 NOVEMBRE 2001: LE 49 LEGGI
Sulla
base di una deroga di legge (la cosiddetta «ley habilitante »), il
governo di Chávez approva per decreto 49 leggi di grande impatto
economico e sociale (sono comprese materie come la proprietà della
terra, l’imprenditorialità, la pesca). Le associazioni degli
imprenditori contestano le nuove norme.

2002, L’ANNO DEL GOLPE
5 MARZO 2002: ALLEANZA TRA OPPOSITORI
La
principale organizzazione imprenditoriale, «Fedecámaras», e la
corrottissima «Confederación de trabajadores de Venezuela» (Ctv) si
alleano per trovare un’uscita alla crisi del paese. Il governo non
viene neppure interpellato.
11 APRILE: LA RIVOLTA DEGLI «ANTI-CHAVISTI»
L’opposizione
convoca una marcia fino al palazzo presidenziale di Miraflores per
chiedere la rinuncia di Chávez. Ci sono scontri con i simpatizzanti del
presidente. Sul terreno rimangono almeno 12 morti e centinaia di
feriti.
12 APRILE: RINUNCIA DI CHÁVEZ?
Ore convulse. Viene
annunciato che il presidente è stato portato via da Caracas e che ha
rinunciato all’incarico. L’opposizione nomina l’imprenditore Pedro
Carmona, presidente di «Fedecámaras», capo di un governo di
transizione. Gli Stati Uniti dichiarano il proprio appoggio al golpe.
13 APRILE: LA RIVOLTA DEI «CHAVISTI»
Un
decreto del governo transitorio azzera l’Assemblea nazionale. Le strade
di Caracas iniziano a riempirsi di gente che reclama il ritorno del
presidente Chávez.
14 APRILE: IL RITORNO DI CHÁVEZ
La mattina
di domenica Hugo Chávez torna nel palazzo presidenziale di Miraflores.
Il golpe dell’opposizione è durato soltanto 48 ore.
22 OTTOBRE: I COMANDANTI DI PIAZZA ALTAMIRA
Quattordici
alti ufficiali dell’esercito venezuelano si ammutinano. Approntano il
loro «quartier generale» in piazza Altamira, (nella parte est di
Caracas), dichiarandola «territorio liberato».
28 OTTOBRE: MEDIAZIONE
Cesare
Gaviria, segretario generale dell’«Organizzazione degli stati
americani» (Oea), comincia una difficile mediazione tra governo ed
opposizione.
2 DICEMBRE: SCIOPERO GENERALE
L’opposizione,
guidata da «Fedecámaras» e dalla «Confederación de trabajadores de
Venezuela» (Ctv), e sostenuta dai principali mezzi di comunicazione,
proclama uno sciopero generale (paro civico nacional). Obiettivo
primario è la paralisi dell’industria petrolifera (Pdvsa), la
principale fonte di ricchezza del paese.

2003, CROLLANO LE ENTRATE DELLO STATO
15 GENNAIO 2003: GRUPPO DEI «PAESI AMICI»
A
Quito, in Ecuador, si costituisce il «gruppo dei paesi amici del
Venezuela». È formato da 6 stati: Brasile, Cile, Messico, Spagna,
Portogallo e Stati Uniti. L’idea, nata da una proposta del presidente
brasiliano Lula, inizialmente non prevedeva la presenza di Washington.
2 FEBBRAIO: TERMINA LO SCIOPERO
L’opposizione
decide di revocare lo sciopero che dura da 63 giorni. Ma la fermata del
settore petrolifero ha determinato un crollo verticale delle entrate
fiscali. Il governo riuscirà a sopravvivere anche con le casse vuote?

Paolo Moiola




EGITTO – Glorie antiche e nuove miserie

Scorci di vita, arte e fede nella modea,
caotica e problematica città del Cairo.
È risorta l’antica biblioteca di Alessandria.

Incomincia alle quattro il canto del muezzin. È ancora buio e la voce è fonda, inquietante. Poi, canta il gallo. Dopo un’ora, il richiamo si ripete, più vicino, forte e insistente. Il suono vibra nell’aria: è tutto un richiamo, da moschea a moschea. Forse sono centinaia le moschee del Cairo e le più belle e antiche non sono lontane dal quartiere dove mi trovo.
Ieri ho percorso le strade tortuose, brulicanti di vita e traffico, che scendono dalla cittadella e si ricongiungono sotto le mura, a Bab Zuweila.
dall’alto di un minareto
Case e minareti dall’architettura preziosa, ma bisognose di restauri e pulizia, compongono un insieme di grande fascino, unico al mondo. Passano ancora i carretti con l’asino e i taxi sgangherati, ma audaci nell’evitare gli intoppi. Gli uomini per lo più fumano il narghilè o giocano a domino. Chi ha un commercio è grasso, seduto comodo, conta i soldi e fa lavorare qualche disgraziato, come servo. La vita pare quella del tempo dei mamelucchi, ha qualcosa di crudele. Le ingiustizie continuano e la sopravvivenza è dura.
Sono salita in cima al minareto di una delle tante moschee: una scala buia e stretta, piena di polvere e calcinacci, mi ha portato su un balconcino diroccato e polveroso. La vista al tramonto era commovente.
Il guardiano ha chiesto la mancia e mi ha lavato le mani con la sua bottiglia. La sporcizia è indescrivibile, copre ogni cosa. I tetti delle case sono terrazze colme di pattume e rifiuti. Le folate di vento sollevano la polvere e la spostano sulla città. Dicono che vivere e respirare, al Cairo, è come fumare un pacchetto di sigarette al giorno.
Ma la città mi affascina. Stamattina il cielo è limpido, dopo il vento della notte. Sono scesa in strada a cercare un luogo dove bere un tè. Nel quartiere non ci sono locali, tolto qualche fumeria per soli uomini. Ho chiesto informazioni e subito un signore mi ha portato una sedia e ha chiesto a un vecchietto magro, col turbante, di andare a farmi il tè. Il bottegaio vicino ha voluto pagare e mi ha pure dato da sgranocchiare una cialda di gelato.
Un drappello di curiosi si è fermato a darmi il benvenuto. Nel quartiere, la gente è accogliente. Molti sono cristiani e parlano francese. Chiese e scuole sono una accanto alle altre, con le moschee. Ci sono maroniti e greci ortodossi, cattolici di rito copto e armeni, melchiti, caldei e tanti altri, ma la grande maggioranza dei cristiani d’Egitto è copta. Le chiese sono numerose e i riti antichi durano ore e ore.
I francescani sono presenti in Egitto da 500 anni e hanno un santuario in città, Sant’Antonio, dove incontro il superiore provinciale, padre Samuele. Ai tempi delle crociate, san Francesco arrivò fin quaggiù, in Egitto, che è terra santa. A Damietta fu ricevuto dal sultano, che lo prese a benvolere. Ma prima, era stato imprigionato e picchiato.
«secolari», ovvero Laici

Ci sono anche egiziani che in moschea non ci vanno proprio. «Siamo secolari» mi dicono tre amici che incontro in un caffè di Zamalek, il bel quartiere residenziale nella grande isola sul Nilo, cuore della città. «Volete dire che siete laici?» domando. Non avevo mai sentito un’affermazione simile dai musulmani.
Gamal, Nabil e Ahmad sono giornalisti e ammettono di non andare mai a pregare. Lavorano per il più importante settimanale arabo, diffuso in tutto il mondo, Al Ahram. Ciascuno di loro è specializzato in un settore: economia, studi politici e strategici, politica internazionale.
Stiamo bevendo un cappuccino all’italiana: ho la sensazione di essere in una città europea. La loro mente è aperta, hanno viaggiato e conoscono il mondo. Non hanno evidentemente problemi economici e si confrontano spesso con persone di altre culture.
Cerco di sapere qualcosa di più sui problemi del paese, specialmente per quanto riguarda l’integralismo islamico. Ma non ottengo molto, solo notizie generiche. Più tardi, sfogliando il loro giornale, noto che anche le notizie pubblicate mancano di critica, sono elusive. Un articolo parla della carità pubblica durante l’epoca mamelucca, ma potrebbe andare bene anche nella situazione odiea: pochi eletti, che hanno grandi ricchezze, qualche volta si compiacciono di aprire un’istituzione di beneficenza per i molti diseredati.
La madonna «Sospesa»
Le carrozze del nuovissimo metrò sono stipate di studentesse che ritornano a casa dopo le lezioni. Quasi tutte hanno il velo sul capo. In pochi minuti, da piazza Ramses raggiungo il nucleo più antico del Cairo, la Babilonia di fondazione romana, del secondo secolo, di cui rimangono parte delle mura.
Un tempo ricca di chiese, è sempre stata la roccaforte del cristianesimo copto. Sono in corso lavori di restauro (era ora!) nelle cinque chiese cristiane rimaste, collegate tra loro da strette vie acciottolate. Ne trovo aperta solo una, quella dedicata alla Madonna, detta «la sospesa», perché costruita sopra i bastioni della porta romana.
Bishoy è uno studente universitario, che desidera fare conversazione in francese e in inglese. Originario di Wadi Natrun, è figlio di un avvocato e studia per diventare guida turistica. Insiste per accompagnarmi nella visita, parla anche un po’ di italiano e mi fa notare tutti i simbolismi nelle decorazioni della chiesa. L’iconostasi è in legno intarsiato, di cedro, ebano e avorio; il pulpito in marmo, con le tredici colonnine che simboleggiano gli apostoli e Gesù.
«I miei antenati hanno sempre pagato le tasse» afferma Bishoy, quando gli chiedo come è stato possibile mantenere la fede cristiana in tanti secoli di egemonia islamica. Per molti secoli, dopo l’invasione araba, pagare era l’unico modo per poter conservare la propria fede. Chi non poteva farlo, doveva convertirsi.
I copti, cristiani d’Egitto, sono molto forti e mantengono ottimi rapporti con i musulmani. Pare non si sentano assolutamente una minoranza, anche se sono solo 3 milioni. Due ministri dell’attuale governo sono copti, il nipote di Boutros B. Ghali (ex segretario generale dell’Onu) e una donna, anche lei di famiglia molto facoltosa.
Non ci resta che pregare!
Noha è orgogliosa di essere egiziana, ma ha passaporto canadese e lavora tra Dubai e Usa. Le vacanze le ha passate al Cairo, in famiglia, e ora ci troviamo in partenza insieme, all’aeroporto. Le ho appena confidato le mie perplessità su quello che ho visto e sentito in due settimane. Un islam forte, seguito e praticato come non avevo mai visto in altri paesi, moschee piene di uomini in preghiera, cinque volte al giorno, anche i bambini, che imparano dal papà a fare abluzioni e genuflessioni.
«Dove va il denaro del petrolio, del turismo, del canale di Suez? Questo presidente lo fa sparire, all’estero – spiega Noha -. Il suo entourage e la famiglia si sono arricchiti scandalosamente e continuano a sfruttare la situazione. La gente comune è disperata, paga le tasse e riceve paghe da fame».
Pare che l’Egitto stia passando una grave crisi economica. Persino le banche si rifiutano di soddisfare richieste di prelevamenti consistenti. «Quando si vive nella miseria più disperata – insiste Noha – non resta altro che pregare».
Coloro che vengono in gruppo per ammirare le ricche testimonianze di un’antica civiltà non si rendono conto della situazione reale del paese. Il nuovo aeroporto è ora collegato alla capitale da un viale fiorito, circondato da ville e alberghi di lusso; ma le guardie che vi fanno servizio, afferma l’amica egiziana, non ricevono più di 150 lire egiziane al mese (equivalente di 45 euro), gli spazzini circa 30.
Nel quartiere di Heliopolis vive anche Mubarak, in un palazzo fiabesco. «La verità non la trovi certamente sui giornali – aggiunge Noha, che collabora con alcune reti televisive americane -; il paese è tenuto sotto controllo col pugno di ferro. Ma la corruzione è a tutti i livelli. Esercito, polizia turistica e polizia segreta sono ovunque, specialmente nei luoghi frequentati dagli occidentali. Ma qui si può comprare chiunque, tutti sono corruttibili».
Altri dati me li fornisce Aldo, un tecnico di origine friulana che lavora in Egitto da sette anni. La sua vita l’ha trascorsa in cantieri di tutto il mondo. L’impresa francese per cui lavora ha costruito il metrò, ponti e sottopassi in città, e tra poco aprirà un cantiere di una diga sul Nilo, in alto Egitto. Dopo aver dato lavoro a migliaia di egiziani, ora ha incominciato a licenziare.
Aldo mi spiega: «Le imprese con più di 100 operai devono avere una moschea e lasciare il tempo ai dipendenti per partecipare alle cinque preghiere giornaliere. Nei primi tempi, i miei tecnici non andavano a pregare, ora ci vanno tutti!».
Un ingegnere riceve 300 euro al mese, ma se vuole far studiare i figli deve pagare una scuola privata: quelle buone costano molto care, fino a 1.500 euro al semestre. Gli operai ne prendono 75-100.
Gli italiani come Aldo sono numerosi in Egitto. «Avevo chiesto un appartamento piccolo, perché la mia famiglia non ha voluto seguirmi questa volta. Ma qui le case per gli stranieri, nei quartieri eleganti e pieni di verde, sono tutte molto ampie. Non ci sono mezze misure, come non esiste la classe media. Pochissimi hanno i soldi, gli altri sono poveri, ma pagano le tasse».
La situazione per il futuro si presenta tutt’altro che rosea.

DAI PAPIRI A INTERNET

F ondata da Alessandro Magno nel 332 a.C., Alessandria fu scelta da Tolomeo i (325-285), luogotenente del conquistatore macedone, come capitale dell’Egitto. Grande cultore del sapere, il monarca volle fae anche la capitale della cultura, con la raccolta sistematica di testi su tutto lo scibile del tempo, per preservarli e metterli a disposizione del pubblico. Con la collaborazione del letterato greco Demetrio Falerio, nel 292 a.C., diede vita a due istituzioni: la biblioteca e il museo. Nella prima venivano raccolti i testi; nel museo (casa delle muse) erano fatte le edizioni critiche dei testi e ricerche di carattere scientifico.
Museo e biblioteca furono una vera fucina di cultura. Di lì passarono i più grandi cervelli dell’epoca, tra i quali il matematico Euclide, il pittore Apelle, Erofilo di Calcedonia, fondatore dell’anatomia scientifica, il poeta Callimaco, Eratostene (244 a.C.), che calcolò la circonferenza terrestre, con uno scarto di appena 70 km.
Qui fu tradotta in greco la bibbia ebraica (la famosa traduzione dei Settanta), vennero scritte opere come il libro biblico della Sapienza e Filone cercò di armonizzare la teologia dell’Antico Testamento con la filosofia greca.
L’ambiente alessandrino ebbe un notevole influsso anche sul cristianesimo primitivo, soprattutto nel campo teologico e missionario.

S i dice che, ai tempi di Cleopatra, la biblioteca contenesse 700 mila opere, tra papiri e pergamene. Ma proprio durante il suo regno, 40 mila rotoli andarono in fumo, quando Giulio Cesare, nel 48 a.C., appiccò il fuoco alla flotta egiziana e le fiamme si propagarono anche alla biblioteca.
Più gravi furono gli incendi dei secoli seguenti, tra cui quello provocato da Zenobia, regina di Palmira, nel 269 d.C., dell’imperatore romano Diocleziano, nel 295, e di Teofilo o Cirillo, vescovi di Alessandria, nel 391.
Gli storici si sbizzarriscono per sviscerare le leggende e spiegare i motivi di tante distruzioni. La classe sacerdotale egiziana avversava gli scritti esoterici di altre religioni, con relativi segreti e formule di alta magia; i romani, cominciando da Cesare (si dubita che il rogo sia stato accidentale), temevano i testi di alchimia, con i quali l’Egitto avrebbe potuto cambiare il ferro in oro (così si credeva), mettendo a rischio la supremazia dell’impero romano; c’erano invidie campanilistiche tra Alessandria e Pergamo, altro centro culturale di quel tempo, dalla cui biblioteca Pompeo sottrasse 100 volumi per regalarli a Cleopatra. Infine, con lo sviluppo del cristianesimo, la biblioteca era l’ultima roccaforte del paganesimo.
Ma il colpo di grazia venne dalla conquista araba. Nel 642 Alessandria fu presa e saccheggiata dalle truppe del generale Amr Ibn-el-as. Un cristiano studioso di Aristotele, Giovanni Filopono, cercò di persuaderlo a risparmiare la grande biblioteca. Il generale chiese consiglio al suo sovrano, Omar i, califfo di Baghdad, che gli rispose: «Se i libri contengono cose difformi dal Corano, vanno distrutti perché non dicono il vero; se il loro contenuto si accorda col Corano, vanno distrutti ugualmente perché inutili».
Si dice che i rotoli furono usati come combustibile dei bagni termali della città, che erano circa 4 mila; ci vollero sei mesi per bruciarli tutti, incenerendo così il patrimonio culturale pazientemente raccolto per quasi un millennio.

A 14 secoli di distanza, un nuovo tentativo di raccogliere in un unico luogo il sapere umano. Sotto la direzione dell’Unesco e con i contributi inteazionali (1 milione di euro dall’Italia) è stata ricostruita, più o meno sui resti dell’antica, la nuova Bibliotheca Alexandrina, inaugurata ufficialmente il 16 ottobre 2002, destinata a diventare la più grande biblioteca del mondo: può contenere 8 milioni di volumi.
Per la struttura, il nuovo edificio non ha molto a che fare con l’antico. Si sviluppa in altezza per 11 piani: 4 nel sottosuolo e 7 in superficie; ha la forma di un disco solare (simbolo di Ra, il dio del sole) di 160 metri di diametro: un lato è rivolto verso il Mediterraneo, l’altro verso il cielo; il tetto assomiglia a un microchip, emblema di modeità.
I testi delle tradizioni religiose sono nei piani inferiori; in quelli superiori le scienze modee; nei piani più alti l’high tech. Anche la disposizione simboleggia l’incontro tra passato e presente, storia antica e modea.
La biblioteca è infatti dotata di modei supporti informatici, strumenti multimediali, audiovisivi, sofisticati strumenti ottici per analizzare nel dettaglio gli antichi papiri.
Sulla facciata del corpo principale sono incisi 4 mila caratteri, espressione di tutte le lingue del pianeta.
È dotata pure di un ottimo sistema antincendio. Eppure, all’inizio di marzo 2003, il fuoco sviluppatosi al quarto piano, ha distrutto molti uffici e intossicando lievemente una quarantina di persone, ma senza danni per le opere.
C’è ancora qualcuno che non vuole questa biblioteca?

B.B.

Claudia Caramanti




Il mago del fil di ferro

N el cuore del Burkina Faso, Ouagadougou si estende in tutte le direzioni, come una macchia d’olio su un piano senza barriere naturali. Da alcune centinaia di migliaia di abitanti degli inizi anni ’80 si stima oggi superi il milione e duecentomila, il 10% dell’intero paese. Continua l’esodo dei contadini dalle campagne in cerca di fortuna verso l’antica capitale dell’impero Mossì. Così i quartieri periferici si allargano, si gonfiano in una distesa di case basse, quasi tutte a un piano, massimo due.
La polvere è l’elemento onnipresente e, quando si solleva l’harmattan (il vento che soffia dal Sahara), avvolge ogni cosa. L’aria è resa irrespirabile da quel centinaio di migliaia di moto e motorini che sono diventati una caratteristica imprescindibile di questa città.
Solo in centro, alcuni palazzi a più piani, uffici amministrativi, banche, si elevano sul panorama urbano. Molti di questi edifici si concentrano lungo l’avenue Kwamé Nkrumah, la via dei grandi hotel e negozi con le vetrine della capitale. Ma intorno al corso a due carreggiate, girato l’angolo di una qualsiasi traversa, ci troviamo su strade sterrate, in un quartiere in cui molte case sono ancora in banko intonacato (mattoni di fango essiccato).
Siamo a Zangoetin, quartiere storico di Ouaga (come gli abitanti chiamano famigliarmente la città), che il governo ha deciso di demolire per edificarvi una zona commerciale, di strade asfaltate e palazzi con l’aria condizionata. È l’operazione Zaca, che porterà allo sfratto degli abitanti di cinque quartieri storici che, è previsto, saranno indennizzati.
Nei meandri
Entriamo in una di queste vie, a due passi dalla Nkrumah: è così stretta che due macchine non ci passano. Un’entrata sulla strada apre in una corte intea, piccola e piena di vita. Diverse porte di altrettante stanze danno sullo spazio aperto, ognuna è la dimora di una o più persone.
Ci accoglie un uomo di media corporatura, con le orecchie a sventola e un largo sorriso, a cui mancano un paio di denti. È Tasseré Derrà e questa è la casa di suo padre, dove la famiglia ha sempre vissuto per decenni. Il vecchio ha oggi più di cento anni.
Tasseré parla un buon francese, oltre che la sua lingua madre, il moore. Ha un problema a un piede, che lo costringe a camminare zoppicando. «Da piccolo – ricorda – ebbi una malattia e al dispensario mi fecero un’iniezione che mi paralizzò la gamba. Mia madre, allora, mi portò al suo villaggio di origine e qui i medici tradizionali, quelli che usano le erbe, riuscirono dopo vari giorni a farmi camminare».
Tasseré è un artista. Non solo. Con l’arte si guadagna la vita, sostiene la famiglia e dà lavoro ad alcuni ragazzi. È conosciuto nel paese e all’estero e tutto quello che fa, in pratica, lo costruisce con un solo semplice elemento: il fil di ferro.
«Sono nato a Ouaga nel 1962 e, all’età di 5 anni, mio padre mi mandò in Mali a frequentare la scuola coranica. Sono tornato nel ’74, a causa della guerra tra il Mali e l’Alto Volta, come si chiamava fino al 1984 il Burkina Faso. Qualche anno più tardi ho frequentato la scuola franco-araba di Ouaga, dove ho imparato il francese. Mi sono reso conto che stavo crescendo; mio padre invecchiava ed eravamo molto poveri. Decisi di lavorare e incominciai ad aiutare mio fratello commerciante a vendere al mercato».
La bicicletta
È qui, a Rood Woko, il grande mercato centrale di Ouagadougou, fatto costruire da Thomas Sankarà, il presidente rivoluzionario, negli anni ’80 e distrutto da un incendio lo scorso maggio, che il giovane vede macchinine fabbricate con il fil di ferro. Quasi ovunque, in Africa, i giochi per bambini sono semplici oggetti che sovente loro stessi ricavano con materiali di recupero: filo, scatolette di latta, strisce di camere d’aria. Un cerchione di bicicletta, un aquilone, le macchinine sono classici esempi.
Tasseré, per scherzo, inizia a copiare quanto vede, poi crea la moto e inventa una bicicletta giocattolo, con le parti meccaniche in movimento. «Alcuni amici francesi mi dissero che non avevano mai visto nulla di simile in Africa dell’ovest. Mi incoraggiarono e iniziai a produrre biciclette in fil di ferro».
Un giorno Pierre Ouedraogo, giornalista della televisione nazionale burkinabè, si mette sulle tracce dell’artigiano che fa biciclette. Un suo amico straniero gli aveva chiesto di trovarlo. «Philippe Chatela, dell’ong Enfants du Monde aveva visto una delle mie bici: dal 1991 al ’97 ne ordinò 650 pezzi».
Sotto tale stimolo, Tasseré inventa altri oggetti: portacandela, animali, portabiglietti da visita, oamenti, lampade, tutto rigorosamente in fil di ferro e si organizza per venderli.
Nel frattempo aveva insegnato ad alcuni bambini a fare le bici, e l’oggetto aveva invaso i mercati e chioschi di artigianato della capitale. «Ma non è la stessa qualità: oggi, come dieci anni fa, io faccio al massimo quattro bici in un giorno di lavoro. Gli altri ne fanno otto o dieci: e la differenza si vede».
Un ragazzo, Adama Zongo, resta a lavorare con lui. «Aveva 12 anni e, durante le vacanze scolastiche, suo padre lo affidava a me. Io gli ho insegnato tutto quello che so». Oggi Adama ha aperto il suo atelier e i due amici continuano a collaborare.
Incontro fatale
Nel ’98, l’artigiano incontra una coppia di padovani: Andrea e Federica Pozza, all’epoca residenti a Ouagadougou. «Andrea cercava un elefante in fil di ferro un po’ speciale. Piacque loro la mia realizzazione e ne ordinarono 100 per il loro matrimonio».
Inizia un’amicizia che avrà un certo peso nella vita di Tasseré. «Videro quello che producevo e portarono vari amici a comprare i miei oggetti. Ma, ancor più importante, mi insegnarono come meglio organizzare il lavoro. Per esempio, ad avere prodotti finiti in magazzino da proporre ai clienti, invece di lavorare solo su ordinazione, investire subito i ricavi in materiale. Federica mi ha insegnato l’uso del computer e della posta elettronica, strumento importante per avere ordini dall’estero. Nasce Artifer-creation».
Ma sono soprattutto i contatti umani e quella sua vivacità nel saperli sempre cogliere, che fanno la fortuna del mago del fil di ferro. Federica gli presenta Christophe.
Personaggio emblematico, direttore di grandi hotel a Parigi, questo francese ha lasciato tutto per creare, con un gruppo di artisti africani, la Fondazione Olorum a Ouagadougou. La fondazione crea arte modea africana che esporta in Europa.
Christophe aiuta Tasseré a esporre al Salone internazionale dell’artigianato di Ouagadougou (Siao), spazio dove ogni due anni artigiani e artisti di tutta l’Africa si ritrovano per mostrare i loro prodotti, vendere, scambiare contatti. «Era il Siao dell’anno 2000 e portai le mie opere al “padiglione della creatività”. Mi ero organizzato e lasciai una presentazione con numero di telefono e indirizzo di posta elettronica». Il talento fa il resto. Le opere piacciono e molti sono quelli che iniziano a contattare l’artigiano. Ma non basta. Christophe porta gli oggetti di fil di ferro fino alla Galerie Lafayette a Parigi.
Commercio… equo
Oggi Tasseré vende prevalentemente a stranieri, o a burkinabè che poi rivendono all’estero. Espone in modo permanente al Villaggio Artigianale di Ouagadougou, in alcuni mercati e in una boutique a Zogona, quartiere bene della capitale.
Grazie ancora a Federica e Andrea è entrato nel circuito del commercio equo in Italia: distribuisce attraverso la bottega La Tortuga di Padova; i suoi candelabri e animali in fil di ferro si possono trovare anche all’ong Cisv di Torino.
C’è poi una squadra ciclistica di Padova, la «Castellana», che continua ad acquistargli partite di biciclettine con i pedali che fanno girare la ruota posteriore.
Con lui lavorano in modo permanente quattro ragazzi di 16 e 17 anni, di cui uno è suo figlio. Gli altri sono della famiglia allargata e lui li alloggia e li nutre. Si è trasferito in una zona periferica di Ouaga, dove ha costruito una casa per sé e la famiglia con una piccola sala esposizione-vendita e un atelier per la fabbricazione.
I materiali sono sempre gli stessi: fil di ferro galvanizzato da 2 millimetri è il più usato.
Altre sezioni di fil di ferro (o di rame, come quello recuperato dai motori elettrici), bombolette di insetticidi, da cui ricava parti per i portacandele, perline di terracotta che produce suo fratello, vernice di vario colore.
«Cerco di migliorare sempre, aggiungendo piccoli particolari, come la terracotta». Studia nuove forme e sta sperimentando lavori con ferri più grossi, per i quali deve utilizzare la saldatura.
Continua a seguire la sua vocazione di insegnante: tiene corsi di «atelier di fil di ferro» ai bambini delle elementari di una nota scuola francese da ormai cinque anni e corsi privati a chi vuole cimentarsi con il filo.
Nella sua attività oggi pensa e realizza le nuove creazioni, tiene i contatti con i clienti (varie ambasciate, privati e vendita all’estero), partecipa a mercati natalizi e promuove il suo prodotto. Non è mai fermo: o muove le mani o è in sella del suo motorino per le vie della capitale. •

Marco Bello