COLOMBIA: il dramma dei “desplazados” VENTISEI UOMINI DI PACE

Lo scorso 28
aprile, in una fattoria nascosta nel verde delle montagne che circondano Carmen de
Apicalá (Cundinamarca), si è inaugurato un centro destinato a realizzare un grande sogno
per la Colombia: costruire uomini di pace. Pochi edifici nei quali vengono ospitati 26
bambini, tutti provenienti da famiglie di sfollati (“desplazados”), che a decine
ogni giorno arrivano a Bogotà, private di tutto. Alcune di queste porte si sono aperte e
di lì è nato il progetto “bambini di guerra, uomini di pace”: un piccolo
esempio di cosa la solidarietà può fare quando, pur avendo pochi mezzi, trova la
collaborazione di molti.

Quando arriviamo a Carmen de Apicalá, sullo schienale posteriore della
nostra auto si sono accumulati maglioni e vestiti pesanti. Questa mattina, a Bogotà,
l’alba era un po’ fredda, ma dopo esserci allontanati dalla città, a poco a
poco, il calore del tropico ci aveva aiutato a liberarci del superfluo.

A partire da Fusagasugá, ai lati dell’autostrada cartelloni
pubblicitari molto colorati ci ricordano che ci stiamo avvicinando a una delle zone più
turistiche del paese: hotels, piscine, negozi, divertimenti. Sulle rive del Magdalena
tutto è organizzato in modo tale che, chi se lo può permettere, ha la possibilità di
riposare e dimenticare le fatiche e gli inconvenienti della grande città. Il paesaggio
cambia immediatamente quando abbandoniamo la via principale, per salire lungo le pendici
di una delle montagne che dominano la valle del Magdalena. Nello spazio di pochi
chilometri ci ritroviamo nella Colombia agricola, così diversa da quella turistica:
piccole case di contadini con molti animali da cortile, un verde esuberante in ogni angolo
e, attorno a noi, soltanto sole, colore, silenzio e un piacevole odore di campagna. Dopo
qualche chilometro giriamo e ci inoltriamo, seguendo una strada sterrata e sconnessa, in
quello che a prima vista sembra un bosco e che poi si rivela un campo fittamente coltivato
con alberi da frutto: manghi, cacao, mandarini, guayabas. Arrivati ad una finca
(proprietà) e scesi dall’auto, siamo subito circondati da strilli di entusiasmo,
saluti, fervore di attività. Siamo finalmente arrivati alla casa-fattoria dei
“bambini della guerra”.

“Come primo passo – sono parole di Napoleone Malaver, responsabile
del gruppo “Volontari del mondo” che amministra questa proprietà di 20 ettari –
ci preoccupiamo di creare un rifugio per i figli di coloro che arrivano a Bogotà per
fuggire la violenza che colpisce le altre regioni del paese”. La guerra, si sa, non
risparmia sofferenze e nel suo procedere distruttivo nessuno si salva, neppure i bambini.
Nell’età in cui casa, educazione, famiglia sono indispensabili per modellare gli
adulti di domani, tutto può sparire ed essere sostituito, dalla notte alla mattina, da
una fuga interminabile, dallo sradicamento dal proprio ambiente e da una insanabile
mancanza di risorse. Questa è storia quotidiana per migliaia di famiglie colombiane e i
loro figli. Cosa vuole significare la fattoria dei “bambini della guerra”? In un
ambiente familiare, genuino e contadino (perché la maggioranza dei figli provengono dalla
campagna) si cerca di fornire ai bambini quelle condizioni minimali che possano fare di
loro, in futuro, degli “uomini di pace”. Se la guerra è sinonimo di
distruzione, nella fattoria si vuole “costruire conoscenza e vita”. Ma come si
è arrivati a realizzare questo progetto?

La storia ce la ricorda padre Claudio Brualdi, superiore provinciale
dei missionari della Consolata in Colombia. “Con il padre Juan Testa ci trovammo
d’accordo nel dare vita ad un’opera che potesse offrire rifugio e protezione
alla parte più indifesa della popolazione colombiana. Questa, tra l’altro, era
conforme al nostro carisma di missionari della consolazione. Rimaneva un problema: a chi
chiedere aiuto per realizzare un siffatto progetto? I missionari che lavoravano in
Colombia non erano sufficienti e, comunque, avevano già molto lavoro da fare”. La
soluzione arriva con la collaborazione del gruppo “Volontari del mondo”, la
solidarietà di molta gente del quartiere El Vergel e l’appoggio di alcune scuole e
collegi. Non ultimo l’attenzione e l’affetto della gente della comunità, la
quale a poco a poco si accorge che le nascenti costruzioni non hanno una finalità
agricola. Finché un giorno la popolazione scolastica risulta più che raddoppiata.
“Da don Alfonso, la persona che abita più vicina, a quelli più lontani – ci spiega
Napoleone Malaver – tutti si interessano di quello che sta accadendo ai “bambini di
guerra e uomini di pace”. Cosicché quest’opera non appartiene né ai missionari
della Consolata né ai “Volontari del mondo”: essa è un’opera di tutta la
comunità e di tutti i numerosi benefattori”. A sua volta, padre Jaime Bonilla,
responsabile della pastorale dei migranti per l’arcidiocesi di Bogotà, fa questa
riflessione: “Questa è un’opera di tutti, ma allo stesso tempo è un’opera
di Dio. Perché è stata fatta in favore dei più piccoli, ai quali Gesù tiene in modo
particolare. Incontreremo certamente molte difficoltà, ma questo progetto andrà avanti e
crescerà. Questo non significa che ci attendiamo che tutto cada dal cielo. Il vangelo ci
insegna che le opere di Dio esigono sempre il nostro apporto. Pensate al miracolo della
moltiplicazione dei pani: esso fu possibile perché un ragazzo mise a disposizione del
Signore il suo pasto, con la speranza che da esso si ottenesse cibo per altri. Allo stesso
modo questo progetto è frutto del nostro lavoro, del nostro impegno e di tutto ciò che
possiamo apportare con la benevolenza di Dio”.

Domando: “Quanti “bambini della guerra” sono ospitati
nelle strutture che oggi inaugurate?”.
– Ventisei.
– Solamente?, ribatto.
– Per il momento, sì.

“Quando cominciammo questo progetto – mi spiega Napoleone Malaver
-, avevamo molte speranze e un pensiero: ciò che abbiamo potuto fare oggi, che cosa
diventerà domani? Abbiamo iniziato con 26 bambini, tutti ospitati in quella semplice
costruzione che puoi vedere lì. Già domani si cominceranno nuove costruzioni e noi tutti
speriamo che, in uno o due anni, si potranno ospitare tra i 100 e 120 bambini e bambine
che vivono in situazioni di alto rischio a causa della guerra. Per ora abbiamo questo e
non possiamo perdere tempo. È qualcosa di piccolo, però lo consideriamo un gran
successo”. La violenza in Colombia produce molti più bambini di guerra di quanti se
ne potranno assistere nei prossimi anni nella casa. Tuttavia, sappiamo che le cose grandi
nascono sempre piccole.

Voglia Dio che questo progetto cresca e che nel futuro si possano avere
molti uomini di pace cresciuti all’interno di esperienze come queste! Voglia Dio che
i missionari della Consolata un giorno possano vendere la proprietà! Se ciò accadesse,
significherebbe che la guerra sarà finita e non ci saranno più le sue vittime,
soprattutto le più innocenti, i bambini.

La casa dei bambini della guerra può essere una goccia nel mare, ma la
sua assenza si notava.

 

(*) Juan Antonio Sozzi, missionario della Consolata, ha lavorato
in Spagna, Ecuador e Colombia. Già direttore di “Antena misionera” (Madrid),
attualmente è redattore di “Dimension misionera” (Bogotà).

Juan Antonio Sozzi




VENEZUELA 2004 Tra Bolivar e Chávez (quarta puntata)

VENEZUELA 2004 (quarta puntata)

Abbiamo visitato tre quartieri popolari (molto popolari) di Caracas:  La Dolorita, 23 de Enero, El Manicomio. Le persone incontrate ci hanno parlato di miserie umane (disoccupazione, violenza, droga, omicidi), ma anche di speranza in un futuro diverso.

«POVERI DI DENARO,
MA RICCHI DI CUORE E DI MENTE»

Nessuno nega i problemi, ma è bello vedere negli occhi il luccichio della speranza.

Caracas, «23 de Enero». All’uscita della metropolitana ti compare dinanzi uno di quei «bloques». È talmente grande, anzi incombente, che sembra ti debba cadere addosso da un momento all’altro. Non sono belli questi condomini di cemento armato, geometrici come alveari, ma non differiscono molto da quelli che popolano le nostre città. Caracas, «23 de Enero». All’uscita della metropolitana ti compare dinanzi uno di quei «bloques». È talmente grande, anzi incombente, che sembra ti debba cadere addosso da un momento all’altro. Non sono belli questi condomini di cemento armato, geometrici come alveari, ma non differiscono molto da quelli che popolano le nostre città.
«Ci abitano migliaia di persone», ci spiega Ramón Castillo, mentre su una vecchia auto raggiungiamo il cuore del «23 de Enero», un quartiere (qui si dice parroquia, a sua volta divisa in barrios e sectores) che conta circa 300 mila abitanti.

Il «23 di Gennaio» gode di una gran brutta reputazione. Anche per questo la gente che vi abita si è organizzata. Sono nati vari organismi di autogestione: le cornoperative di consumo e di trasporto, i periodici comunitari, i comitati di autodifesa, i gruppi sportivi e culturali, le comunità dei condomini (juntas de condominio), le associazioni dei vicini (asociaciones o asambleas de vecinos).

UN PRESENTE
DI DISOCCUPAZIONE

Con Ricardo, Cesar e Ramón saliamo ai piani alti di un condominio. La gente ci accoglie con una cortesia che non ha nulla di formale. Ci mettiamo a parlare su un balcone, dal quale si vede bene quanto il «23 di Gennaio» si estenda su questo cerro (collina) della capitale.

Chiediamo come funzionino le associazioni di vicini. «Sono organizzazioni – risponde Ramón – nate per risolvere i problemi di una comunità: l’acqua che non arriva, la strada da sistemare, il lavoro che non c’è. Il problema della disoccupazione è gravissimo. Il governo ha fatto qualche sforzo, ma il capitale privato non vuole contribuire a creare un nuovo Venezuela. Questa mancanza di lavoro colpisce soprattutto i giovani che, per questo, diventano facile preda di chi promette loro rapidi guadagni».

Ramón si riferisce alla piaga del narcotraffico che, pur se meno rispetto ad un recente passato, continua a fare vittime.

«Le organizzazioni di vicini cercano di fare in modo che la vita e la sicurezza delle persone estranee alle attività illegali siano garantite. Anche per questo favoriscono le attività di svago, culturali e sportive. Oggi, per esempio, c’è una festa…».
Con la mano ci indica il luogo, dove si sta svolgendo una festa con musica e partite di pallavolo e baseball. Lasciamo il condominio e ci incamminiamo verso la festa.

UN PASSATO
DI VIOLENZA E DROGA

Al centro sportivo incontriamo Alexis Pinto Valera, uno dei responsabili del Frente de resistencia popular Tupamaro.

«Ma – ci interrompe – sono anche membro dell’Asociación Civil Amigos de los Niños de Monte Piedad, un’organizzazione che come recita il nome si occupa di bambini. Noi pensiamo che ci siano delle attività che portano a migliorare lo spazio dove si abita. Ad esempio, il lavoro culturale, sportivo ed educativo con i membri più piccoli della nostra comunità».
Chiediamo perché il «23 di Gennaio» sia noto soprattutto per i problemi di droga.

«È vero – ammette Alexis -: negli anni ’90 abbiamo avuto una forte presenza del narcotraffico all’interno della nostra zona. Ma è qualcosa che ci hanno portato da fuori, per distrarre un po’ i gruppi sociali che si stavano consolidando. Guarda caso, il consumo e la vendita di droga iniziarono sotto il governo di Carlos André Perez.

Prima arrivò la marijuana, poi cocaina ed eroina; in questo momento c’è il crack, basuko o la piedra, droghe che uccidono soprattutto tra i giovani».
Molte persone del «23 di Gennaio» sono cadute in questo giro perverso. Tra queste anche Martin, fratello del nostro interlocutore, ucciso dai narcotrafficanti.
«Nel periodo peggiore – racconta – nel bloque dove abito su 150 appartamenti almeno 40 avevano un consumatore di droga. Questa situazione creava un ambiente di grande insicurezza ed aggressività con furti, sequestri, rapine all’interno della nostra comunità.
In molti luoghi c’era anche il cobro de peaje, cioè un gruppo di giovani bloccavano l’accesso e tu dovevi pagare per passare di lì.

Spesso la violenza non era soltanto per la strada, ma anche in casa. C’erano famiglie con gravi problemi, perché avevano 2 o 3 consumatori di droga; altre che avevano avuto i figli uccisi da armi da fuoco in scontri tra bande».

Com’è oggi la situazione?, chiediamo. «Ora siamo riusciti a minimizzare il fenomeno. Siamo riusciti a sanare molte zone, a volte scontrandoci noi stessi con i venditori di droga».

Che tipo di scontri? «A volte scontri armati… Questi trafficanti, avendo molto denaro, hanno la possibilità di pagarsi guardaspalle, sistemi di comunicazione sofisticati. Ma con il coinvolgimento della comunità siamo riusciti a respingerli e adesso possiamo dire che li controlliamo».

MAYLIN,
UNA STORIA ESEMPLARE

Lasciamo la festa, per dirigerci a piedi verso una zona residenziale diversa. I condomini lasciano il posto ad abitazioni con due o tre piani. Le strade si restringono fino a farsi vicoli. Seduti attorno ad un tavolino, alcuni uomini giocano a domino.

I nostri accompagnatori salutano tutti quelli che incrociamo. Ed ogni volta fanno le presentazioni. «Salite, salite a bere una birra» ci dicono alcuni giovani da un balcone. Una scala estea ci porta al primo piano. L’interno è essenziale: al posto delle porte ci sono tende, i mobili sono ridotti al minimo, ma i locali sono puliti e dignitosi.

Maylin è una bella ragazza di 25 anni, caagione caffelatte, capelli neri raccolti a coda di cavallo. E una grinta invidiabile.
«La nuova situazione politica – ci spiega sorridente – ha permesso alle donne di prendere coscienza e partecipare di più alle decisioni della comunità. Oggi abbiamo realmente maggiori opportunità. Io ho una figlia e questo mi spinge ancora di più a partecipare.
Le donne oggi svolgono un ruolo molto importante: sono uscite dal guscio nel quale erano relegate, costrette a pulire la casa e avere cura dell’uomo. Ora ci siamo rese conto che possiamo partecipare, a fianco degli uomini, a qualsiasi lotta. Credo che ci siano molte donne che la pensano come me».

Maylin parla con un entusiasmo contagioso. Sembra scortese farle domande critiche. Per esempio, su questi organismi di autogestione che affronterebbero di petto qualsiasi problema.

«Sì, è vero. Ci organizziamo di fronte a qualsiasi problema. Se c’è qualcuno che vende droga, che causa comunque un turbamento nella comunità, noi ci riuniamo e convochiamo la persona che sta commettendo lo sbaglio e cerchiamo di farla recedere dall’errore. Se non collabora, allora ricorriamo all’azione legale. Siamo molto forti come cittadini, come famiglie che si impegnano nella comunità; se non ci piace qualcosa che sta succedendo, interveniamo, anche per il bene dei nostri figli. Non abbiamo ancora dovuto ricorrere alle vie legali: la soluzione l’abbiamo sempre trovata come comunità».
Comunità, una parola ripetuta continuamente in questo quartiere e dai chavisti in generale.

«Che cosa vogliamo? Qualcosa di pulito: una repubblica che permetta la partecipazione di tutti i venezuelani, senza discriminazioni. E, comunque, vogliamo garantire un futuro ai nostri figli, pulendo tutto quello che per anni i politici avevano sporcato».

«FINALMENTE,
ORA TOCCA A NOI»

I cambiamenti non sono mai facili, soprattutto quando sono bruschi e non graduali. Com’è successo in Venezuela, con la «rivoluzione bolivariana» di Hugo Chávez. Che ha portato il paese sull’orlo della guerra civile.

«Perché stupirsi? – si chiede Maylin -. Non per tutti è facile accettare che ci troviamo in un processo di transizione, nel quale ci sono molti cambiamenti che talvolta non piacciono ad una classe sociale e sono, invece, bene accolti da un’altra. Però il paese aveva bisogno di cambiare».

L’opposizione dice che il presidente Hugo Chávez è un dittatore e che i suoi seguaci vogliono eliminare i nemici…
«La mia percezione è che quelli dell’opposizione hanno paura di confrontarsi con una massa tanto grande di persone. Noi siamo poveri economicamente, ma di cuore e di mente siamo molto ricchi e questo fa paura, anche alla Coordinatrice Democratica che sta sobillando odio per giustificare le proprie azioni.

La verità è che noi abbiamo dovuto sopportare sacrifici per molti anni; durante i governi passati abbiamo dovuto rinunciare finanche al nostro pane quotidiano. Oggi rivendichiamo partecipazione ed uguaglianza. Io dico all’opposizione: voi avete sempre avuto tutto, permetteteci di avere anche noi qualcosa.
Noi non cerchiamo di dividere il paese. Al contrario, vogliamo più unione. Tutti debbono essere partecipi dei sacrifici e tutti dovranno essere beneficiari dei risultati».

Come molte altre persone con cui abbiamo discusso, anche Maylin parla con una competenza giuridica inusuale.

Spiega: «È merito di questo governo che ci ha permesso di conoscere quali sono i nostri diritti e i nostri doveri. Molte volte dicevamo: ho diritto a… ma quali erano i nostri doveri come cittadino per poi avere dei diritti? Non lo sapevamo. L’abbiamo imparato ora, grazie alla costituzione bolivariana».

IL SOGNO DI UNA VITA

Ne ha parlato l’economista peruviano Heando de Soto, ci sta lavorando il Brasile di Lula; nel Venezuela di Hugo Chávez è già una realtà.

Si chiama «Ley especial de regularización de la tenencia de la tierra en los asentamientos urbanos populares»: è l’attribuzione legale della terra occupata abusivamente nelle sterminate periferie urbane. Anche molte case del «23 di Gennaio» rientrano nella casistica. Gli inquilini dell’abitazione in cui siamo ospiti (Maylin e la sua famiglia più altre due) hanno ottenuto i certificati di proprietà da pochi giorni.

Curiosi, chiediamo di poter vedere le carte dell’assegnazione. Maylin va a prenderle. Quando torna, ha la figlioletta in braccio e alcuni fogli in mano.
«Ecco, questo è il documento dell’assegnazione». La sua felicità non ha segreti: si manifesta in un sorriso totale e coinvolgente.

«Questo è un passo veramente importante per il nostro futuro. Mia nonna ci raccontava che, quando tirò su la casa, qui non c’era nulla. All’inizio la sua abitazione fu una baracca con 4 pareti e un tetto di lastre di zinco. Queste case non vengono mai edificate secondo un progetto prestabilito, ma si ingrandiscono a poco a poco.

Era una situazione molto precaria, dato che chiunque poteva reclamare quella terra, magari per farci passare una strada. Oggi, invece, abbiamo il nostro certificato di proprietà. Abbiamo fatto molti sacrifici per comperare mattone su mattone, adesso però possiamo dire: questo è mio, questo mi appartiene. Lo stato non sta regalando la terra; la vende, anche se la cifra che paghiamo è irrisoria, quasi simbolica».

Le procedure di assegnazione della terra richiedono una organizzazione comunitaria. Al «23 de Enero» (come in altri quartieri popolari) sono stati organizzati i «Comitati per la terra urbana». Ogni richiedente deve attestare da quanti anni vive sulla terra di cui chiede la proprietà.

Interviene anche Pedro Armando: «Mia madre e mia zia sono morte entrambe quando non avevano neppure 50 anni. Erano due grandi lavoratrici, ma non ebbero mai la possibilità di risparmiare qualcosa per noi. Oggi sarebbero molto felici di vedere che noi siamo diventati padroni della terra su cui avevano edificato la loro casa.
Non importa il valore in denaro di questa casa; per me ha un enorme valore sentimentale, perché io sono cresciuto come individuo dentro di essa. Sfortunatamente ci sono persone che non sono d’accordo con questo; chiaro che ognuno ha il proprio punto di vista, ma questo governo ci ha permesso di soddisfare il sogno di una vita».

«LA NOSTRA ARMA
È LA COSTITUZIONE»

Il Venezuela ha perso gran parte della propria classe media,
mentre grossi gruppi industriali agiscono come partiti politici.
La rinascita del paese passa
attraverso la nuova Costituzione bolivariana.

Caracas, «El Manicomio». Nonostante la scarsa illuminazione, sul muro di cinta la targa si legge ancora: «Scuola bolivariana Giovanni Battista Alberti».
La Giovanni Battista Alberti è una di quelle scuole che vennero chiuse lo scorso dicembre dal sindaco metropolitano Alfredo Peña, noto avversario del presidente Chávez. Ma la comunità del quartiere riuscì a riaprirla. «Ci siamo appellati all’articolo 102 della Costituzione, che dichiara l’educazione un diritto umano fondamentale e quindi intangibile come il diritto alla vita».

A parlare è Carlos Parra, già professore di matematica all’Università Simón Bolívar, oggi responsabile dell’Editorial Galac, una piccola ma quotatissima casa editrice. «Però – precisa subito -, tutto il tempo che mi resta lo dedico a promuovere il processo rivoluzionario, a farlo conoscere alla gente. Per esempio, nell’assemblea di questa sera dobbiamo informare la comunità di una serie di iniziative a livello urbano».

«POLAR» E «CISNEROS»:
DALLA BIRRA ALLA POLITICA

La riunione avviene nell’aula magna della scuola. Ci sono molte donne e qualche bambino che scorrazza attorno al palco. La serata è riempita con tanti discorsi dai toni pacati.

All’uscita assumiamo l’antipatico ruolo dei guastatori e facciamo notare ai nostri accompagnatori che forse non bastano delle riunioni con la gente per risolvere una situazione economica fattasi molto preoccupante.
«Il fatto è – ci spiega Carlos con una pazienza da insegnante – che, negli ultimi 25 anni, questo paese è stato distrutto. Ma, se noi riuscissimo a coinvolgere i milioni di venezuelani che hanno a cuore lo sviluppo, l’educazione, la qualità della vita, tutto il paese ne guadagnerebbe».

Le statistiche dicono che in Venezuela la classe alta si mantiene attorno al 5% della popolazione, mentre la percentuale della classe media è in continua regressione: tra il 1983 e il 1998 è passata dal 27% al 17%. Questo ha significato il contemporaneo aumento della massa dei poveri.

«Uno dei nostri obiettivi di politica economica – spiega Parra – è proprio l’accrescimento della classe media. Come ha detto il presidente Chávez: un paese con una importante classe media agevolerebbe la trasformazione di un modello economico che oggi è basato su una monoproduzione (di petrolio) ed è dominato da alcuni grandi gruppi monopolistici».
In Venezuela i gruppi industriali più potenti sono due: Polar e Cisneros. Il primo produce l’omonima birra (la più venduta del paese), nonché tutta una serie di prodotti alimentari, dal burro alla pasta. Il secondo produce un’altra birra, ma soprattutto è a capo di un impero televisivo (Venevision).

Questi gruppi hanno capeggiato gli scioperi degli scorsi mesi e poi il lungo (e costosissimo) stop a Pedevesa, l’industria petrolifera di stato. E non è tutto. Secondo il settimanale statunitense Newsweek, il magnate Gustavo Cisneros, amico dell’ex presidente George Bush, fu a capo del fallito golpe dell’11 aprile 2002.

LE «ARMI»
DEI CIRCOLI BOLIVARIANI

La scuola Giovanni Battista Alberti è stata riaperta grazie al locale Circolo bolivariano.
I circoli sono diffusi in tutti i quartieri popolari. La spiegazione che ne viene data è soprattutto di ordine pratico.

«I circoli bolivariani – ci spiega Rafael – sono associazioni di persone che volontariamente si incaricano di lavorare per la comunità, cercando di risolvee i problemi: dalla rete fognaria agli altri servizi urbani». Ma c’è anche una loro definizione più politica.
«Sono cellule molto importanti del processo rivoluzionario, che hanno la loro base ideologica nella costituzione, dato che questa promuove la democrazia partecipativa».

A proposito dei circoli, giornali e televisioni hanno scritto e detto di tutto: che sono organizzazioni sovversive, che nascondono armi, che i loro membri vanno alle manifestazioni dell’opposizione per creare disordini.

«Noi – ci spiega Rafael – siamo proprio il contrario di quello che dicono. Non solo non abbiamo armi, ma la maggioranza di noi non le sa neppure utilizzare. Per capire l’assurdità delle accuse è sufficiente visitare qualche circolo: chiunque si rende immediatamente conto che gli iscritti sono gente normalissima».
«La verità è molto semplice: la nostra sola arma è la Costituzione, l’arma più efficace che sia mai esistita in questo paese».

«È di questa che l’opposizione ha paura», chiosa Carlos, mentre saliamo sul suo vecchissimo fuoristrada.

«LA RIVOLUZIONE
NON PUO’ DIMENTICARE L’EDUCAZIONE»

Troppi giovani, riuniti in bande contrapposte, si perdono
in un’esistenza segnata dalla violenza.
Un gruppo di docenti reclama una scuola (pubblica) di qualità
come uscita da una vita senza futuro.

Caracas, «La Dolorita». Partiamo da Petare con un vecchio autobus stipato all’inverosimile. Il mezzo procede lentamente lungo la ripida strada. Quando raggiungiamo la destinazione, alla fermata delle corriere, nei pressi della piazza, sono ad attenderci alcune persone: Héctor, Omar, Julio, Cristian, Luis e Carmen, tutti membri del locale circolo bolivariano «Patria Buena».

A prima vista, La Dolorita si merita il proprio nome. Il quartiere appare dimesso, molto diverso da quelli visitati in precedenza. La maggioranza delle case sono incomplete; le strette vie che si inerpicano per la collina sono costellate da troppe immondizie.

La casa dove siamo ospiti sta in posizione panoramica. Dalla terrazza si vede La Dolorita con al centro due grandi edifici. «Sono – ci viene spiegato – la scuola elementare Jermán Ubaldo Lira e il liceo Mariscal». Ovvero l’oggetto della discussione di oggi.
Julio, Héctor, Carmen sono docenti, tutti preoccupati ed arrabbiati per la situazione in cui versa l’educazione scolastica in questo quartiere dimenticato. «Ma – precisano – La Dolorita non è altro che un esempio di quello che sta succedendo a livello nazionale».

BASTA CON
LA SCUOLA«MERCENARIA»

Seduti attorno al tavolino del soggiorno, Julio ci mostra la dettagliata denuncia presentata al ministero. «Una rivoluzione dovrebbe sempre avere nell’educazione uno dei pilastri portanti».

Precisa Carmen: «La nostra preoccupazione deriva dal fatto che la qualità dell’insegnamento è pessima e i nostri bambini partono già svantaggiati. La mancanza di qualità produce un altro grave problema, quello della bassa autostima: “Non riesco, non sono capace”. Occorrerebbe lavorare molto per infondere nei bimbi la consapevolezza che anch’essi possono raggiungere degli obiettivi».

Come quasi sempre accade, una cattiva scuola pubblica significa più spazio per la scuola privata.
«Alla Dolorita – precisa Carmen – esistono 12 scuole private dove la maggior parte dei docenti non sono neppure insegnanti. I bambini sono stipati in 50 in un’aula di 4 metri per 4 metri. Eppure si pagano 60 mila bolivares al mese».

Chiediamo ai nostri interlocutori che ci spieghino cos’è una scuola «bolivariana» e come mai non sia ancora decollata.
«La scuola bolivariana è un tipo di scuola che educa in modo integrale, che promuove la formazione del pensiero nell’ambito della nuova repubblica. È un cambiamento che investe tutto il processo educativo e riguarda anche vari aspetti pratici, come l’ampliamento dell’orario scolastico e la mensa (indispensabile in un paese dove la malnutrizione è molto diffusa).
Lo stato ha investito molto per creare le scuole bolivariane, ma non ha formato gli insegnanti che sono gli stessi di sempre».

Sull’esposto che ci è stato dato si parla delle due grandi scuole statali de La Dolorita, quelle che si vedono dalla casa.

«Il liceo Mariscal – spiega Julio – ha più di 1.500 iscritti, ma non funziona. C’è traffico di droga, di armi; c’è prostituzione. Ogni anno la percentuale di gravidanze tra le ragazzine è altissima, altissima la percentuale di abbandono scolastico per la cattiva conduzione. Quando poi questi giovani escono dalla scuola e provano ad entrare all’università, falliscono perché non sono preparati. Quelli che ce la fanno è perché sono entrati in qualche istituto specifico per colmare le lacune. Ma pochi si possono permettere di prepararsi privatamente, è ovvio.

Risultato? Nelle Università entra un ragazzo nostro ogni 20, tutti provenienti dalla classe media e alta».
Julio, Héctor e Carmen non sono, come si direbbe in Italia, insegnanti di ruolo. «È vero, non lavoriamo per lo stato. Nessuno di noi tre è laureato, ma abbiamo almeno 10 anni di esperienza nel campo dell’educazione elementare e media. E continuiamo a studiare per laurearci.

In ogni caso, siamo convinti che l’educazione debba rispondere agli interessi della comunità, mentre finora è avvenuto esattamente il contrario: l’educazione ha risposto a non si sa quale interesse o forse all’interesse di chi vuole che restiamo somari o al massimo buoni operai manovrabili. Per ora la scuola ha funzionato come ente mercenario della classe dominante. Dopo la vittoria della rivoluzione bolivariana, noi ci battiamo per una scuola che sia pubblica e di qualità».

IL VALORE DELLA VITA

Ci spiegano che ogni zona de La Dolorita ha la sua banda: ci sono 33 zone e quindi 33 bande. Una banda può essere costituita di 5, 10, 15 ragazzi che controllano la «loro» zona e la gente che vi abita.
Le lotte tra queste bande giovanili sono molto frequenti. Per il potere sul territorio o per il controllo del traffico di droga. A La Dolorita ogni settimana ci sono 5-6 morti a causa della delinquenza comune. Le armi di cui essa dispone sono superiori a quelle della (corrottissima) polizia.

«Ogni gruppo per potersi riunire nella propria strada deve essere armato, perché in qualsiasi momento può passare un gruppo antagonista. Nelle sparatorie che ne seguono vengono spesso colpite persone innocenti, come un bambino affacciato alla finestra della propria casa o una persona che si trova a passare».

Sapete di qualche morto questo fine settimana?, chiediamo. «Sì, uno di fronte alla chiesa, questa notte. Stava lì, quando è arrivato un tale che gli ha sparato. La settimana scorsa uno si è preso un colpo al petto e tre in faccia, ma non è morto. È stato un ragazzo di 13 anni che ha sparato ad uno di 19».

Obiettiamo: dunque, la rivoluzione bolivariana ha fallito nel campo della sicurezza…
«Ma la delinquenza comune è una conseguenza delle male politiche del passato. Quando poi, lo scorso aprile, ci fu il tentativo di golpe, molti delinquenti furono assoldati dall’opposizione per creare caos».
Purtroppo, di anno in anno l’insicurezza sembra peggiorare e questo è un dato di fatto che ci viene confermato.

«Io ricordo che vent’anni fa, quando ammazzavano una persona, poi per 3-4 mesi non succedeva più nulla. C’era un diverso impatto della morte sulla coscienza individuale. Oggi questi gruppi, se gli si uccide un compagno il venerdì, al sabato sono già riuniti all’angolo della via come se non fosse successo nulla. Non c’è più la paura della morte: il valore dell’esistenza si è perso».

Tutti sembrano condividere l’analisi. «Sta passando una cultura che non valorizza la vita, la quale vita vale pochissimo per una quantità di gente. C’è un problema di stima sociale molto serio. Te ne rendi conto anche quando cammini per strada, in mezzo all’immondizia».
«Noi pensiamo che questo modo di vivere si possa cambiare solo con l’educazione. Ovvero si esce da questa situazione nella misura in cui la gente viene educata, si appropria e si fa carico dei problemi. Per questo stiamo cercando di creare una presa di coscienza da parte delle persone, un coinvolgimento che stimoli il desiderio di migliorare quello che ci sta intorno».
Crisi sociale, crisi economica, crisi educativa: come pensate di uscie? Su questo punto i nostri ospiti rispondono compatti: «Noi investiamo molto sulla rivoluzione per dare soluzione a tutti questi problemi. Abbiamo grandi aspettative al riguardo».

«LA RIVOLUZIONE?
UNA TORCIA NEL BUIO»

Violenti, comunisti, castro-comunisti, addirittura terroristi: gli epiteti affibbiati ai seguaci di Chávez si sprecano.

«La nostra rivoluzione è senza armi; andiamo avanti utilizzando il pensiero di Bolivar e la costituzione bolivariana. Vinceremo anche se non possiamo contare sui mezzi di comunicazione di cui dispone l’opposizione. È come se Chávez avesse acceso una torcia sul buio del Venezuela. Io mi sento realmente rivoluzionario e voglio fare in modo che la rivoluzione prosperi. Siamo persone del popolo che vogliono vivere meglio e progredire assieme alla propria famiglia e al paese».

«Mi danno del comunista? Non sono mai stato un militante comunista, come credo non lo siano i miei compagni di lotta. Le nostre idee sono quelle di Simon Bolivar e di Gesù Cristo. Ma se Gesù Cristo è stato comunista, allora io accetto anche questo termine».
Interviene Carmen. «Come donna – dice – io penso che, nei limiti del possibile, dobbiamo cercare di fare una rivoluzione pacifica. Ho molta fiducia nel mio presidente ed approvo come ha agito fino a questo momento. Mio padre partecipò alla guerra civile in Spagna e quello che mi ha raccontato è orribile: non vorrei che succedesse lo stesso nel mio paese».
«Noi abbiamo molti valori e sono con questi valori che vogliamo affermare la nostra rivoluzione. Non vogliamo una guerra, ma se ci obbligano ad usare altri mezzi lo faremo. In questo processo ci stiamo giocando la vita e il futuro dei nostri figli.

(quarta ed ultima puntata; le precedenti sono state pubblicate in maggio, giugno e luglio-agosto)

Paolo Moiola




RWANDAQual machete che nessuno fermò’

Un milione di morti sotto gli occhi
del mondo. Cosa causò quella tragedia? Conflitti etnici, retaggi della dominazione coloniale o altro? A 10 anni di distanza ancora ci si interroga. Mentre
la situazione nella regione dei «Grandi laghi» rimane altamente instabile.

Dieci anni fa il cuore dell’Africa sanguinava per la tragedia del Rwanda. Circa un milione di tutsi (ma anche molti hutu moderati) furono trucidati a colpi di machete in tre mesi, tra aprile e luglio del 1994. L’odio etnico, che da sempre ha strutturato i rapporti sociali tra i due maggiori gruppi etnici, ha raggiunto un atroce parossismo con la «soluzione finale» teorizzata e meticolosamente messa in pratica dagli estremisti dell’hutu power. In Africa e nella regione dei Grandi laghi tornavano a materializzarsi le peggiori previsioni degli «afropessimisti» che scommettevano sull’inevitabile deriva del continente. Il genocidio era un evento traumatico, un dramma storico che segnava uno spartiacque tra l’Africa di prima e quella del dopo genocidio.
La tragedia rwandese del 1994 è stata un’opera di sterminio tra le peggiori avvenute nel secondo dopoguerra. È quindi doveroso interrogarsi su come si sia arrivati ad una simile esplosione di violenza.
Il ruolo del colonialismo nella definizione delle identità etniche è ormai ampiamente accertato. Le autorità coloniali della Germania prima e del Belgio poi non hanno favorito sempre gli stessi gruppi sociali od «etnici».
In un primo tempo, le autorità coloniali avevano individuato nei tutsi i propri referenti di fiducia. Successivamente, negli anni Cinquanta, vennero invece preferiti gli hutu. Il momento di svolta nella scelta degli europei del proprio personale politico ed amministrativo di fiducia coincide con un mutamento nell’atteggiamento della chiesa cattolica. E con la scomparsa di una forte personalità e di un capace organizzatore come monsignor Classe (esponente di rilievo del movimento missionario francese del primo Novecento): «La morte di monsignor Classe, avvenuta nel gennaio del 1945, aveva concluso l’esperienza di una generazione di missionari “monarchici” cresciuti nel quadro del cattolicesimo francese del XIX secolo, rigido e conservatore». La nuova generazione di missionari, vicini al cristianesimo sociale belga, vedeva gli hutu come gli oppressi da aiutare. Così, «una contro-élite hutu si formò nelle scuole cattoliche e nei seminari» ed assunse ben presto ruoli politici, emarginando definitivamente i tutsi con la «rivoluzione sociale» del 1959. Il regime rwandese divenne sempre più autoritario ed oppressivo, mentre i tutsi emigrati all’estero per sfuggire alle persecuzioni costituivano le proprie organizzazioni politiche e militari per rientrare in Rwanda. Si arriva così all’epilogo del massacro nel 1994, ultimo capitolo dell’agire genocidario, esito di una sequela di avvenimenti storici e non più inspiegabile esplosione di violenza.
La «questione etnica» in Rwanda parte dalla comprensione del formarsi dei contrasti tra hutu e tutsi. I nodi della questione sono fondamentalmente tre: se sia più corretto affermare che si tratti di contrasti etnici o di contrasti socio-politici, e come ha agito il colonialismo sulla società rwandese nel definire le identità etniche.
Per quanto riguarda la prima questione, alcuni studiosi sostengono la tesi che la divisione hutu-tutsi sia essenzialmente sociale, riprendendo le analisi di Claudine Vidal secondo cui l’ubuhake (il contratto di vassallaggio feudale secondo il quale un proprietario di bestiame prestava alcuni capi ad una persona che così assumeva nei suoi confronti obblighi servili), «contrariamente a quanto affermato dalla visione “classica”, non si concludeva esclusivamente fra tutsi ricchi e hutu poveri ma, verosimilmente, fra due lignaggi tutsi di differente livello socio-economico». Inteso in questo senso, come afferma l’abbé Alexis Kagame, si può definire «tutsi chiunque possiede più capi di grosso bestiame anche se non di razza hamita».
Una lettura del conflitto come sociale anziché razziale è fondamentale, ma difficile da accertare con sicurezza, basandosi su fonti orali raccolte all’inizio dell’epoca coloniale. Molto più convincente invece l’analisi del secondo importante nodo della questione, ovvero l’impatto del colonialismo nella definizione delle etnie. Per analizzare tale problematica si può infatti ricorrere ai classici metodi dell’indagine storica, disponendo di numerose prove documentarie: gli archivi coloniali, i diari degli amministratori e dei missionari, ogni sorta di documenti riguardanti l’azione delle autorità coloniali. «Lo scopo principale delle milizie armate nel passato era proteggere Kigali dall’assedio del Fronte patriottico rwandese. Da quando è arrivata l’Unamir, gli è stato ordinato di censire tutti i tutsi che vivono a Kigali. Il nostro informatore sospetta che ciò venga fatto in previsione del loro sterminio».
L’11 gennaio 1994, con una nota riservata, il capo canadese dei Caschi blu inviati in Rwanda, generale Roméo Dallaire, avvertì l’Onu di quanto stava per accadere nel paese africano. Nessuno si mosse. Tre mesi dopo, il 6 aprile 1994, l’omicidio di Juvenal Habyarimana, capo di stato rwandese di etnia hutu, diede il via allo sterminio dell’etnia tutsi: stando a prove documentali, i morti furono 937 mila.
È necessario ripartire dalla storia del colonialismo e l’indipendenza del Rwanda, raccontando la salita al potere di Habyarimana e i primi scontri tra le due diverse etnie in cui si divide il paese: la maggioranza hutu e la minoranza tutsi.
Nel suo saggio Daniele Scaglione narra l’intervento delle forze di interposizione dell’Unamir e l’esplodere delle violenze. Infine, descrive i tentativi di ricostruire il paese e di consegnare gli autori dell’eccidio alla giustizia. Particolarmente drammatica risulta l’analisi del modo inadeguato con cui l’Onu preparò la missione dei 2.500 soldati dell’Unamir. Il generale Dallaire si trovò a gestire una truppa i cui uomini provenivano da 20 paesi differenti, tra cui Bangladesh, Ghana e Belgio. Per motivi di bilancio e per la sottovalutazione della situazione, i soldati furono male equipaggiati: la dotazione si limitò a veicoli leggeri di fabbricazione russa e a segnalatori luminosi privi di batterie, mentre mancò del tutto l’artiglieria. Inoltre, il generale dovette affrontare il difficile rapporto con Jacques Roger Booh, rappresentante dell’Onu in Rwanda, la cui tendenza era a minimizzare quanto stava avvenendo. Scaglione, nel suo lavoro, afferma: «Sul Rwanda l’Onu ha completamente fallito per responsabilità personale di funzionari, dirigenti e responsabili di governo. Se il Consiglio di sicurezza non è stato adeguatamente informato di ciò che accadeva è perché Boutros Ghali, Kofi Annan e i loro collaboratori hanno liberamente scelto di non farlo». L’insuccesso della missione fu vissuto da Dallaire anche come una sconfitta personale. Dalla narrazione emerge l’umanità del generale che, dopo l’ordine da New York di abbandonare il paese, scelse di restare con pochi soldati fidati. «Roméo Dallaire si è ammalato e a distanza di ormai quasi nove anni ancora non è del tutto guarito. Il suo corpo, la sua mente, non hanno saputo accettare quello che ha vissuto».

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BUTARE CHIAMA, GENOVA RISPONDE

A seguito degli avvenimenti del 1994, un notevole numero di artigiani dell’area di Butare (a circa 3 ore d’auto dalla capitale Kigali), che facevano riferimento al «Centro dei mestieri», creato nel 1990 dalla cooperazione tedesca, non risultavano più essere attivi. I motivi principali di ciò dipendevano dal loro essersi rifugiati nei paesi limitrofi, oppure di essere scomparsi (morti o imprigionati). Senza contare che il Centro, luogo fisico di attività e identità degli artigiani, era andato distrutto.
Per rilanciare l’attività degli artigiani dell’area nel settembre 1996 è sorto un progetto sostenuto dalla Gtz (Cooperazione Tecnica Tedesca) che ha permesso la costituzione, nell’agosto del 1997, della Copabu (Cooperativa dei produttori artigianali di Butare), con i seguenti obiettivi:
• promuovere la vendita dei prodotti artigianali dei suoi membri
• fare conoscere i diversi mestieri presenti sull’area
• sostenere gli artigiani affinché venga fissato il miglior prezzo possibile alle loro merci
• organizzare fiere periodiche.
La Copabu è attualmente il riferimento locale per 954 artigiani della prefettura di Butare, 324 uomini e 630 donne. Di questi 99 sono soci individuali, mentre gli altri sono associati alla Copabu attraverso 35 associazioni di villaggio. A loro volta queste associazioni sono distinguibili perché esclusivamente femminili (sono 19 quelle associate alla Copabu), o maschili (7) o ancora miste (9).

Il gemellaggio
Dopo il genocidio, la Caritas Italiana era intervenuta in Rwanda con un programma d’urgenza che ha permesso di riabilitare quasi il 50% del settore sanitario. Un’équipe di operatori fino a tutto il 1999 è stata presente nel paese per sostenere attività in favore dei bambini di strada, dei carcerati (oltre 130.000) e piccoli progetti agricoli, d’allevamento e di costruzione di case. Nel 1998, grazie alla presenza a Kigali di Maurizio Marmo, referente del «Programma Grandi Laghi» della Caritas Italiana ed esponente del mondo del commercio equo e solidale, è stato possibile avviare il contatto che si sarebbe poi concretizzato nel progetto di gemellaggio.
Una prima missione nel febbraio del 1999, grazie anche al contributo del Comune di Genova, ha reso possibile la conoscenza reciproca tra La Bottega Solidale di Genova e la Copabu di Butare e la stesura di un primo documento d’accordo finalizzato a facilitare l’accesso ad un nuovo mercato estero per i prodotti degli artigiani e delle artigiane della Prefettura. Nell’ottobre 1999: arriva il primo container di prodotti rwandesi, reso possibile dalle prenotazioni di circa 70 botteghe del mondo di tutta Italia. Per la Copabu un aumento di fatturato del 60% rispetto all’anno precedente, per i consumatori delle botteghe una nuova opportunità di acquisto di prodotti africani e di informazione attraverso il materiale informativo che accompagna gli oggetti.
Ci sembra importante richiamare, nelle motivazioni del progetto, quanto scritto dalla giornalista Colette Braeckman: «Ogni volta che hutu e tutsi lavorano fianco a fianco, facendo sorgere dalla terra un’altra casa, è anche il nuovo Rwanda che si costruisce». E ancora, tratto da uno scritto di André Sibomana, sacerdote direttore della rivista Kinyamateka, scomparso nel marzo 2004: «Dobbiamo riapprendere a vivere insieme. Alcuni diplomatici – pensando senza dubbio che non saremo mai più capaci di coabitare – hanno suggerito la creazione di un Hutuland e di un Tutsiland. Questa idea non è soltanto stupida; è assai nefasta. Al di là del fatto che questa divisione dei rwandesi sarebbe una magnifica vittoria degli apostoli del razzismo, credo che non sia dividendo o spostando i problemi che li si risolve. Al contrario».
Il progetto ha anche questa ambizione: sostenere la sfida voluta dagli artigiani di Copabu e da coloro che si impegnano a livello locale per promuovere incontri tra le vedove del genocidio e le donne i cui mariti sono incarcerati. Una sfida difficile, ma possibile.
L.Rolandi

Luca Rolandi




AL SUPERMERCATO DELLE RELIGIONIBusiness ecologia magia

DAMANHUR: una sètta
abbastanza recente e che ha,
come caratteristica, quella di stupire a tutti i costi.

Chi l’avrebbe mai detto che la Valchiusella, verdissima e selvaggia, a circa 50 km da Torino, fosse il centro dell’universo? È certamente un bel posto, con un torrente ricco di pregiate trote, siti archeologici di un certo interesse e boschi che in autunno regalano profumatissimi funghi porcini.
Un tempo, la valle fu uno dei tanti serbatorni operai del canavese, la silicon valley italiana ai tempi ruggenti dell’Olivetti; ma dopo il tracollo della fabbrica è divenuta famosa per la presenza della comunità Damanhur, fondata nel 1976 da Oberto Airaudi, carismatico personaggio che, attraverso un lunghissimo percorso, ha creato un vera «nazione» o, come preferiscono definirla i damanhuriani, una «città stato» o «città della luce», con una propria costituzione, un governo, una moneta (intea), una scuola privata (fino alla terza media).
«Damanhur è un esperimento sociale volto a dimostrare che, solo attraverso una vita giorniosamente mistica e comunitaria, è possibile oggi salvare l’umanità dal disastro morale ed ecologico cui l’attuale società post-industriale sta portando ineluttabilmente il nostro mondo. Damanhur sarà la città santa del futuro, la prima porta, il primo gradino, tramite il quale si potrà accedere ai grandi spazi della mente e dello spirito»1.
E ancora nella costituzione Damanhur si legge: «… tutti si adoperano a evitare qualsiasi forma di inquinamento o spreco nella vita quotidiana o nell’agricoltura».
Il riferimento alla crisi ecologica post-industriale, che negli anni ’70 veniva irrisa un po’ da tutti, ma ancora adesso, purtroppo, come è ben evidenziato dalla rubrica «Una sola madre terra» pubblicata su questa rivista, si può considerare l’elemento innovativo e di grande successo che ha portato i Damanhur a essere un punto di riferimento anche politico per la vita sociale di tutta la Valchiusella.
Non è un caso infatti che l’esplosione di adesioni sia avvenuta all’insorgenza della crisi Olivetti e dell’acutizzarsi dei problemi ambientali presenti sul territorio.
Molti erano rimasti delusi dalle promesse capitalistiche, senza lavoro e preoccupati per l’avvenire delle generazioni future: su questo zoccolo duro, molto pragmatico, si è innestata la visione esoterica, magica e sincretica voluta dall’Airaudi, che ha reso le sirene damanhuriane ancora più originali e affascinanti.

N egli anni ’80 i Damanhur sfruttarono perfettamente la scoperta di una nuova nicchia, solo lontanamente imparentata con la New Age, con dimostrazioni estreme, come il vivere nei boschi in totale isolamento, oppure con la nascita dell’agricoltura biologica (i primi in Italia) e ancora con le horusiadi, giochi nei quali si sviluppa l’ampliamento della percezione umana, volte a catturare l’attenzione della popolazione locale.
La piccola comunità divenne importante non solo nel numero di cittadini, ma anche negli affari, dato che le attività economiche, artigianato di altissima qualità e costo ebbero un vero boom.
Il continuo ingegnarsi portò alla quasi totale autonomia della comunità, anche in aspetti molto pratici, come la produzione di energia elettrica, fabbisogno alimentare, vestiti. Infine, nacque il filone della medicina naturale, anche in questo caso tra i primi in Italia, e fu l’ennesimo successo.
Nel 1992 i Damanhur vennero alla ribalta a livello nazionale con la scoperta del «Tempio dell’Uomo»: un gigantesco mausoleo di eccezionale valore ingegneristico e artistico, costruito in circa 15 anni all’interno di una montagna e nella totale segretezza.
Ma nel 1996 un fuoriuscito parlò alle autorità civili dell’esistenza di tale edificio, che rischiò di venire soppresso; ma dopo numerose petizioni, fu condonato il flagrante abuso edilizio e il tempio damanhuriano fu addirittura dichiarato «opera d’arte collettiva» dal Ministero dei beni culturali.
In quell’anno, la popolazione di Damanhur arrivò a 500 persone, distribuite a macchia di leopardo sul territorio della valle. Attualmente si possono contare circa 2 mila adepti in tutta Italia.
La scolarità dei cittadini è di livello superiore al livello nazionale e il fenomeno della fuoriuscita dalla comunità risulta molto marginale.
Come sopravvive, anzi, prospera e si espande la comunità Damanhur? Ristoranti cari, prodotti biologici extra lusso, migliaia di visitatori che ogni anno visitano il «Tempio dell’Uomo», corsi di medicina alternativa sono le maggiori voci.

I l credo damanhuriano è contenuto nel libro La via Horusiana. La strada verso la conoscenza secondo la scuola di Damanhur, tramite Oberto Airaudi.
Ottimismo e consapevolezza della limitatezza della percezione umana sono le parole d’ordine, insieme ovviamente alla sostenibilità.
Tutto è in divenire secondo la filosofia damanhur: per raggiungere e sperimentare i tanti mondi in cui è immerso, l’uomo deve sperimentare e ricercare in continuazione.
A differenza del buddismo, che prevede la distruzione del karma come liberazione del dolore, i damanhuriani teorizzano come meta finale la «coscienza», cioè la partecipazione viva a tutte le forme di vita.
«Tale risultato, ovviamente, non si raggiunge con una vita sola, bensì attraverso una serie di nascite ripetute non solo nella forma uomo, ma anche in quella animale vegetale»2.
Il pensiero diventa complesso e alquanto ermetico, quando si teorizza la presenza degli «spiriti della natura», ovvero i veri signori della terra, con i quali si dovrebbe incessantemente trovare un contatto su piani sottili, ovvero luoghi che l’uomo per sua limitatezza inizialmente non riesce a percepire, a differenza delle piante e degli animali. Per riuscire in questo, l’uomo può utilizzare la magia, elemento doppio che raccoglie in sé fattori spirituali e tecnologici.
Si tratta di un pensiero piuttosto stravagante, con teorie ermetiche e fortemente sincretiche, in cui sono mescolate tutte le credenze religiose e filosofiche dell’umanità, dell’antica religione egizia alla mitologia classica, dalla religione celtica a quelle orientali, dalla modea ricerca scientifica all’ecologia e libero mercato…
Come dimostrato dai maggiori studi antropo-sociologici, il fattore rituale rappresenta un cardine delle nuove sètte: i Damanhur non fanno eccezione; anzi, la vita comunitaria, per molti aspetti fortemente spersonalizzata, trova legittimazione intea nella partecipazione ai più importanti riti. Solstizi ed equinozi, la commemorazione dei defunti, il rituale dell’uomo sono momenti in cui vengono date spiegazioni cosmogoniche che definire originali è assolutamente riduttivo.
Cerimonie rituali, preghiere, esperienze medianiche, giochi, assemblee, evocazione delle forze cosmiche si svolgono generalmente nel tempio all’aperto. Tale tempio non è dedicato a una divinità in particolare; tutti gli déi sono ben accolti, come segno di tolleranza e pluralismo religioso e filosofico. Tuttavia a Pan, un dio dell’antica Grecia, è riservato un culto particolare, poiché indica le forze vitali della natura che ora sono compromesse dall’inquinamento ambientale.

D alle ceneri della New Age sono nati centinaia di movimenti esoterici, la maggior parte dei quali sono scomparsi. Ma la comunità di Damanhur, a oltre 25 anni dalla nascita, gode di ottima salute e si può considerare in piena espansione, forse grazie alla ricetta che prevede occidente e oriente, tecnologia e spiritualità, creatività artistica e crescita economica, classici elementi New Age, ma rivisitati in salsa non fondamentalista.
I Damanhur non sono rivoluzionari; preferiscono definirsi «diversi». Anche per questa ragione le attività nella vita pubblica sono accresciute notevolmente, evitando così il rischio dell’elitarismo.
Ultimamente Damanhur ha dato grande prova di vitalità con l’acquisto di alcuni capannoni ex Olivetti, riutilizzati con scopi artistico-culturali e aperti alla popolazione tutta. Investimenti di notevole portata finanziaria, segno della solidità economica del gruppo, ma anche della voglia di interagire con l’esterno.
Pur considerandosi «nazione autonoma» o, secondo un rapporto di polizia, «un’organizzazione che ambisce ad assumere le caratteristiche di stato nello stato», alle ultime votazioni amministrative in Valchiusella i damanhuriani hanno avuto un grande successo, riuscendo ad eleggere un sindaco e 21 consiglieri comunali.
Note
1- Da: La via Horusiana. La strada verso la conoscenza secondo la scuola di Damanhur attraverso Oberto Airaudi, edizioni Horus, p. 29
2- Da: Costituzione damanhuriana, art. 5.

Maurizio Pagliassotti




COSTA D’AVORIOLa fine di un sogno

Il paese più ricco dell’Africa dell’Ovest
è all’impasse. La crisi scoppiata a fine 2002 non sembra risolversi.
Per la gente comune dopo i massacri ora
la difficoltà è mangiare. Testimonianze dal basso…

Abidjan. La capitale economica del paese, un tempo modello di sviluppo per tutta l’Africa occidentale, è oggi irriconoscibile. La gente ha fretta: è sospettosa. La sera tutti spariscono e i posti di blocco militari taglieggiano i pochi tassisti. I quartieri popolari sono blindati; i gruppi etnici si sono raggruppati tra loro e tentano, con improvvisate ronde, di garantire la propria sicurezza.
Al Plateau, la Manhattan africana, nel centro di Abidjan, la vita tra i grattacieli pulsa di giorno, ma al contrario di un tempo, si spegne presto la sera, così come sono ormai chiusi ristoranti e locali nottui.

I DUE PAESI

La guerra civile scoppiata il 19 settembre 2002 ha spaccato territorio e società della Costa d’Avorio, creando divisioni tra la gente in base all’etnia e provenienza.
Il paese è diviso in tre: a nord il 40% è controllato da Forze nuove: militari e milizie che presero le armi contro il presidente Laurent Gbagbo, gli ex ribelli; il sud è in mano alle forze legaliste: le Fanci (Forze armate nazionali della Costa d’Avorio). Queste sono fiancheggiate e appoggiate dalle milizie del presidente, pericolosissime perché sfuggono a ogni controllo. In mezzo, la terra di nessuno: una striscia di terra larga decine di chilometri, che taglia il paese in due da est a ovest. È definita zona di «fiducia», controllata da 4 mila soldati francesi, equipaggiati con le più modee tecnologie (la missione Licoe) e dai caschi blu della Onuci, la missione delle Nazioni Unite per la Costa d’Avorio. Questi ultimi, alla fine dello spiegamento, saranno in 4.600.
Il popolo è sempre di più diviso: ci sono le etnie fedeli al presidente (beté, geré, athié, dida), quelle del nord (dioula, senoufo), gli immigrati stranieri (burkinabè, maliani, guineani, che sono circa il 26% della popolazione e hanno fatto la fortuna del paese, lavorando nelle piantagioni), le etnie che il potere sta cercando di «conquistare», come i baulé, legati al partito di Henri Konan Bédié (Pdci).
Ad alimentare la divisione c’è un disegno preciso del clan del presidente. Ma le radici della divisione sono da cercare più nel passato, quando alla morte di Houpouet Boigny (1993), il presidente Bédié inventò il concetto di ivorité, un nazionalismo pronto all’uso per fini politici (cfr MC ottobre 2003).
«Il paese è caduto in disgrazia – dice un tassista ad Abidjan, dal forte accento del nord -: come si può dire che è tranquillo se vengono in casa tua e ti ammazzano?». «Il paese è calmo – secondo la segretaria di uno studio di professionisti della capitale -; all’estero continuano a dire che qui è rischioso, si sta male: non è vero niente; vengano a vedere! È pieno di nordisti che vengono a fare i loro affari». Due punti di vista di persone di origine molto diversa.
La Francia, a vari livelli implicata nella crisi in Costa d’Avorio (circa 200 società francesi di medie e grandi dimensioni sono nel paese, senza contare quelle piccole), ha patrocinato la soluzione negoziale, portando tutte le parti alla firma dell’accordo di Marcoussis (presso Parigi), nel gennaio 2003. Accordo che ha visto la creazione di un governo di unità nazionale a cui sedevano tutti i partiti e i tre gruppi ribelli (Mpci, Mjp, Mpigo) riuniti sotto la sigla di Forze nuove. Goveo, che avrebbe dovuto risanare le ferite aperte della crisi: la legge fondiaria, la nazionalità, smilitarizzare gli eserciti ribelli e portare il popolo avoriano alle elezioni nel 2005.

SITUAZIONE BLOCCATA

Ma il processo di pace si è arenato: dall’inizio del marzo scorso, partiti di opposizione e movimenti ex ribelli si sono rifiutati di partecipare alle riunioni del consiglio dei ministri. «Gbagbo ha da subito reso impossibile ai ministri di opposizione di governare – confida una fonte – impedendo loro di nominare i direttori generali e dando lui direttamente gli ordini a questi ultimi».
Le Forze nuove (Fn) non si fidano di un presidente che puntualmente contraddice, con le azioni, le dichiarazioni e le firme degli accordi; quindi decidono di non deporre le armi. Guillaume Soro, segretario generale delle Fn, e ministro nel governo di unità nazionale, ha dichiarato nuovamente, il primo maggio scorso, che solo se il presidente lascerà il potere, si riuscirà a organizzare elezioni libere; il disarmo, fino ad allora, non ci sarà.
Il gioco si è fatto ancora più duro e la paura è cresciuta nella capitale dopo i massacri del 25 e 26 marzo. L’opposizione aveva in quei giorni indetto una manifestazione e il governo aveva proibito ogni raggruppamento di popolazione. Il presidente temeva che le forze ribelli si sarebbero potute infiltrare e prendere la capitale.
All’alba del 25, reparti militari, di polizia e «milizie parallele» bloccarono i manifestanti prima ancora che potessero organizzarsi, continuando la repressione per tutto il giorno seguente: il governo dichiarò 37 morti; il rapporto dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani parlò di almeno 120 morti, 274 feriti e 20 dispersi; il Movimento avoriano dei diritti umani di 300-400 vittime.
«Ci sono stati molti assassini ad Abobo. I dioula hanno sgozzato due gendarmi. È entrata in azione l’aviazione; altri militari sono entrati nelle case, uccidendo la gente e portato via i corpi. Non si sa dove li portassero, ma li facevano sparire» racconta una fonte (non dioula), del quartiere popolare Abobo, abitato da molti «nordisti» e immigrati.
«Sono sparite centinaia di persone in meno di 48 ore. Voci insistenti parlano di due fosse comuni, che prima o poi, salteranno fuori» afferma un funzionario della Commissione europea, da anni presente nel paese e con molti amici nei quartieri popolari.
Il dettagliato rapporto Onu chiama in causa, come responsabili, «alte cariche dello stato» e ciò ha fatto infuriare il presidente: è iniziata una campagna di discredito nei confronti delle Nazioni Unite, condotta con ogni mezzo (mass media fedeli al potere, studenti, milizie del presidente). La situazione politica e militare è di stallo; i due blocchi si stanno a guardare.

UN VICINO PERICOLOSO

Ma al di là dei giochi e dichiarazioni politiche, continuano le sofferenze della gente comune. David Bêhi Touamin, che ha vissuto la guerra là dove è stata più cruenta, ad ovest del paese, ai confini con la Liberia, acconsente a raccontarci la sua esperienza.
Tecnico agricolo, lavorava per un organismo non governativo prima della crisi; ma alla fine del 2002, in seguito agli scontri di settembre e la divisione tra nord e sud del paese, nell’ovest nasceva il Mpigo (Movimento popolare ivoriano del grande ovest).
«Quando i ribelli presero Danané, pensammo che si trattasse di qualcosa di politico. Ma subito ci accorgemmo che questa gente attaccava tutti quelli che avevano dei beni: ong e funzionari. L’accusa di aver nascosto armi o persone bastava per dar inizio al saccheggio. Chi si opponeva era morto.
Erano liberiani, ma anche sierraleonesi, già attivi nelle lunghe guerre civili dei loro paesi e nell’est della Guinea. Giovani sfaccendati yacuba (etnia della zona) erano con loro e indicavano dove c’era da saccheggiare: sparavano in aria ed entravano nelle case della gente».
«Presi i grandi magazzini e le attività commerciali, restava la popolazione. Quella che ancora non era scappata. Hanno cominciato ad attaccare i villaggi: Kavalé, Toulepleu, Giglò, nella zona dei geré. Questi, che non volevano i liberiani, hanno cercato di respingerli, ma sono stati massacrati. E poiché tra i liberiani c’erano i yacuba, è iniziato un conflitto tra le due etnie». Problema che persiste.
Ma gli avvenimenti più sanguinosi si ebbero quando le forze nazionali (Fanci) cercarono di riprendere la zona. «Le Fanci erano composte da quattro gruppi: militari, gendarmi, milizie geré e liberiani. I geré venivano a vendicarsi per gli attacchi subiti dai yacuba e recuperare il bottino. Attaccarono Zouan-Hounien, sparando a vista, senza domandare nulla. Fortunati chi incontrava prima i militari o i gendarmi: i yacuba venivano arrestati, con l’accusa di aver aiutato i ribelli».
I liberiani di cui parla David sono di etnia affine a quella geré e in opposizione a quelli che costituivano il Mpigo, milizie mercenarie assoldate dal presidente Gbagbo per «liberare» l’ovest. «L’arrivo di questi liberiani fu il momento peggiore – conferma un padre cappuccino che dovette evacuare la zona -. Mostrarono una ferocia senza precedenti».
«Ci sono stati molti morti – continua David -. Li ho visti prima di fuggire: in certi punti c’erano cataste di cadaveri. Hanno riempito i pozzi di corpi (inquinando così le falde e creando focolai di epidemia, ndr.), altri sono stati gettati sul bordo della strada. Nella casa dove vivo adesso, c’erano vari corpi nascosti. Non sappiamo chi e quanti sono morti: è impossibile conoscee il numero».
Una volontaria italiana che lavorava nella zona racconta storie truculente, riportate dai sopravvissuti: «Un uomo fu ucciso e fatto a pezzi davanti alla moglie e ai figli. Poi, i liberiani, obbligarono la donna a cucinarlo e in seguito a mangiarlo e a bere il suo sangue…».

COSTRETTI A SPOSTARSI

David, minuto, non più giovane, è yacuba e, come molti altri nella zona, è dovuto sfollare con la famiglia ad Abidjan. Dati delle Nazioni Unite contano un milione gli sfollati interni a causa della crisi, metà dei quali non sono ancora rientrati. La maggior parte è stata ospitata presso famiglie e conoscenti, gonfiando i quartieri di alcune città come Giglo, Abidjan, Yamoussoukro. L’ovest è stato il più colpito.
«Ho fatto quattro mesi ad Abidjan, cercando lavoro, ma senza successo. Quando sono arrivati i militari francesi, la situazione si è stabilizzata e siamo ritornati – continua David -. Oggi le cose sono cambiate anche nell’ovest: non ammazzano non saccheggiano più. Ma c’è molta fame. Le case sono state bruciate, la gente si è dispersa, ha perso tutto e non ha potuto coltivare. I campi sono abbandonati, tornati a savana incolta. Ma rimane la paura. Molta gente non vuole restare nei campi».
Anche l’ovest è tagliato in due: a nord Danané e Man; a sud Zouan-Hounien, Blolequin, Guiglo. Le prime sono in mano agli ex ribelli dell’Mpci; le seconde ai governativi; in mezzo i militari francesi.
Le milizie liberiane di entrambi i fronti sono state ributtate nel loro paese e la Licoe pattuglia la frontiera per evitare infiltrazioni. David dice che adesso è possibile passare i vari posti di blocco e spiega qual è il business oggi: «Io riesco ad andare a Danané e ritorno in giornata, pagando qualcosa ai posti di blocco. Ma non posso portare bagagli. Oggi tutti cercano di fare affari con il commercio; ma solo i dioula possono farli. Per questo la situazione deve essere mantenuta calma e i soldi devono poter girare, anche fisicamente».
I grossi commercianti e capi ribelli si stanno arricchendo: importano beni di consumo dai paesi del nord (Mali, Guinea, Burkina Faso) e vi esportano caffè e cacao comprato a basso prezzo. Portare mercanzie dalla zona ribelle verso Abidjan è ancora molto complicato.
«Adesso la gente sta rientrando. C’è anche una parte della popolazione della zona occupata dai ribelli che viene da noi perché ha paura. Non c’è legge nel nord, se non quella di chi ha le armi. Qui la guerra ha toccato anche i villaggi. Molte case sono state bruciate. Non si sa ancora chi è morto, chi è vivo ed è scappato. Per questo molti occupano le case ancora in piedi di chi è sparito; mentre può capitare di vedere le proprie cose, saccheggiate nei mesi precedenti, a casa di qualcun altro».
La sanità è in emergenza in entrambi i lati. Le scuole stanno riprendendo anche nel nord, ma i pochi insegnanti non hanno nessun controllo. «Ma il problema più grave è la mancanza di cibo – conclude David -. I commercianti dioula vendono il riso a 200 franchi (30 centesimi) al chilo, anziché a 260, ma la gente non ha i soldi per comprarlo».

Marco Bello




RWANDAChiamati all’ora 11a

Da tempo in pensione, 52 anni
di matrimonio, Laura e Giovanni hanno trascorso alcuni mesi
in Rwanda e sono tornati con una convinzione: la presenza di «coniugi missionari» è utile e necessaria
per aiutare la famiglia africana
a fondare la loro vita su una solida esperienza spirituale. Si augurano che altre coppie sentano questa chiamata «tardiva» e la attuino.

È naturale domandarsi, a una certa età, se si può ancora essere utili. Grazie a Dio, siamo sani; la famiglia o meglio il clan, che da noi è sorto, è ben strutturato; qualche energia può ancora essere spesa, malgrado artrosi e limiti che inevitabilmente l’età comporta.
Volevamo conoscere l’Africa, ma fuori dai soliti viaggi turistici, che riportano in clima e posti diversi, ma senza un vero contatto con la realtà del paese e della gente.
Come sempre, quando si desidera veramente qualcosa, la si va a cercare e, in un modo o nell’altro, la si trova. Così è stato per noi.
Un giorno inaspettatamente riceviamo una telefonata da un’amica: «Volete andare in Africa per un po’ di tempo? Perché non in Rwanda?». L’invito arrivava da padre Canisius Niyosaba, parroco di una immensa e sperduta parrocchia (114 mila anime) della diocesi di Kigali (Rwanda), che avevamo conosciuto in Italia. Abbiamo colto la palla al balzo con entusiasmo.
Alcuni figlioli erano entusiasti della nostra idea, altri molto meno: «Se vi capita qualche malanno? Non avete più l’energia di un tempo e le vostre reazioni sono più lente. Sopporterete il clima caldo dell’Africa, voi che amate solo le montagne d’alta quota? E se poi scoppiasse una rivoluzione? In Rwanda sono avvenute cose incredibili, ecc.».
L’elenco degli aspetti negativi che l’affetto dei figli presentava non finiva mai. Ci hanno dimostrato che ci volevano bene e questo ci ha fatto molto piacere, ma non ci ha smosso dalla nostra decisione, anche perché la maggioranza dei nipoti era entusiasta d’avere nonni pronti a partire per un’avventura africana.
Anche se le nostre esperienze specifiche non avrebbero avuto riscontro nella realtà africana, abbiamo risposto con entusiasmo all’invito inaspettato di andare in Rwanda per parlare della nostra lunga esperienza di vita matrimoniale e familiare. Eravamo una coppia con figli e nipoti e questo era il punto centrale. Da oltre 40 anni ci siamo interessati all’aspetto spirituale del nostro stato di vita, cioè del matrimonio e della famiglia, con lo studio e la discussione con altre coppie e persone competenti.
È così che siamo partiti.

S iamo arrivati in Rwanda senza porci un limite di tempo e senza idee da colonizzatori: volevamo vedere e capire, per poi coinvolgere amici e conoscenti.
L’abitudine ai rifugi di montagna e ai disagi delle alte quote ci avevano addestrato a non guardare troppo per il sottile. Non abbiamo cercato alberghi, ma solo l’accoglienza che ci era offerta, per vivere con la gente e avere contatti e incontri.
Inizialmente siamo stati a Kicukiro, vicino alla capitale Kigali, per un primo approccio con la realtà e la storia del paese. Quindi abbiamo raggiunto Ruhuha, a 80 km dalla capitale, nelle regione di Ngenda, confinante con il Burundi, a 1.500 metri di altitudine; così, invece del caldo paventato, abbiamo avuto un’estate fresca.
Le difficoltà dei primi contatti sono state facilmente superate dalla gentilezza e accoglienza ricevute, soprattutto dal rispetto e curiosità: una coppia di anziani sempre insieme, bianchi coi capelli bianchi, in posti dove forse non si erano mai viste cose simili e dove l’età media degli uomini è di 60 anni, 50 per le donne… suscitava meraviglia, interesse e stupore.
Bambini e ragazzini erano strabiliati: ci accompagnavano volentieri nelle nostre passeggiate, mentre i più piccoli avevano paura: appena si mostrava di andare loro incontro, scappavano o si nascondevano.
Tutti volevano salutare stringendoci la mano, spesso con entrambe le loro mani, o sostenendo il braccio destro con la sinistra: quasi volessero trasmettere il loro spirito e chiedere il nostro.

I l Rwanda è un piccolo paese molto giovane, dove la gente vuole conoscere, sapere, imparare. Ben presto abbiamo scoperto che, prima di ogni attività concreta, dovevamo instaurare un rapporto fra persone, ponendoci allo stesso livello, nell’amicizia umana semplice, spontanea e priva di interessi.
Il genocidio del 1994 ha lasciato segni visibili (cimiteri, ossari, tombe comuni, carceri stracolme) e molti rancori nascosti nell’animo di tutti, determinando atteggiamenti di silenzio, paura e sfiducia. I danni della colonizzazione e ideologie importate dall’Occidente sono ancora presenti e pesanti: le prevenzioni sui bianchi sono giustificate.
Tuttavia, anche se ci sono ancora problemi enormi (povertà, mancanza di lavoro, malattie, deficienze sociali) la gente che abbiamo incontrato è sempre stata gentile, dignitosa, paziente, anche allegra e serena. C’è una grande voglia di danzare e cantare, cosa che esplode negli incontri religiosi. Caratteristiche che fanno parte del loro essere.
Occorreva, innanzitutto, costruire la pace e la riconciliazione, la fiducia in se stessi e ristabilire i rapporti di fiducia reciproca. Far capire che, per essere persone libere, occorre assumere diritti e doveri, prima di poter pensare a qualche obiettivo concreto e realizzare una collaborazione.
La domanda sulla nostra età dava avvio a una conversazione. Pensavamo che la nostra anzianità avrebbe potuto essere un fattore negativo. Invece l’interesse, l’attenzione e la viva partecipazione in ogni nostro rapporto con gli altri hanno messo in luce come l’anziano sia di per sé, per la sua esperienza di vita, portatore di saggezza e merita rispetto e ascolto.
Per questo ci chiedevano consigli pratici, a cui cercavamo di rispondere, adattando la nostra esperienza alle condizioni locali. Negli incontri abbiamo raccontato la nostra vita e ascoltato i loro problemi, spesso originati da ignoranza o consuetudini, assunte in modo acritico: cosa riconosciuta anche da loro.

U n’altra domanda che ci rivolgevano spesso era: «Come avete fatto a vivere assieme per tanto tempo?».
La nostra presenza di coppia, con 52 anni di matrimonio, era più eloquente delle parole: testimoniava che marito e moglie possono vivere serenamente nell’amore, che non bisogna mai perdere fiducia in se stessi, ma cercarla insieme per fare ogni giorno un passo avanti.
Invitati a vari incontri con singole persone, famiglie e gruppi, abbiamo constatato grande attesa, apertura e desiderio di comprendere il matrimonio nella sua vera realtà umana e religiosa. I loro molteplici interventi ci hanno aperto una porta sul loro modo di vivere nello stato di vita che è anche il nostro; infatti, sia loro che noi camminiamo su una stessa strada che, per tutti, non è facile e assicurata.
Ci siamo resi conto di come la famiglia viva in una situazione di crisi latente, forse dovuta a una fede ancora superficiale. Mancanza di fedeltà, poligamia, liti e dissapori provocati dall’alcornolismo, problemi legati alla dote, predominio dell’uomo e condizione pesante della donna, eccessiva natalità e povertà sono i maggiori problemi ascoltati dalla loro bocca.
Le molte domande rivelavano il loro modo di vivere lo stato matrimoniale, le difficoltà legate a situazioni ancestrali e radicate profondamente nella cultura. Uno dei punti centrali e difficili da capire era l’uguaglianza tra uomo e donna nella famiglia. Soprattutto erano curiosi di sapere come l’amore vero possa implicare la fedeltà reciproca: altro punto che capivano poco.
Eppure abbiamo incontrato tante coppie africane che ci hanno impressionato per la loro aspirazione a una vera esperienza spirituale familiare.

T oati a casa abbiamo valutato la nostra avventura e abbiamo voluto raccontarla.
In una zona dove si vedono pochissimi bianchi, appartenenti a organizzazioni umanitarie, ma generalmente non sposati, la nostra presenza è stata una novità positiva per noi e per la gente incontrata. Ha corroborato la convinzione che una lunga vita matrimoniale è un valore in sé di testimonianza ed esperienza.
Non avremmo mai pensato che i nostri 52 anni di vita come sposi e genitori fossero una credenziale di altissimo valore per il contesto culturale africano. L’apertura dell’africano verso l’anziano e la situazione della coppia africana sono segni dello Spirito per un nuovo tipo di chiamata.
Siamo convinti che, oggi, l’Africa ha bisogno anche di «coppie missionarie anziane», come testimoni di fedeltà. Naturalmente devono avere certi requisiti: lunga esperienza di vita familiare cristianamente vissuta e capacità di manifestarla agli altri, continuando ad amare insieme.
Molte coppie di pensionati, chiamate nell’undicesima ora a lavorare nella vita del Signore, potrebbero fare un’esperienza come la nostra. Già si organizzano viaggi per visitare le missioni; ma è giunta l’ora d’incarnarsi per qualche tempo nella realtà missionaria. Noi siamo pronti a ritornare, perché il cristiano non può andare in pensione.

Laura e Giovanni Paracchi




TURCHIASotto i baffi di Cevat

In Turchia, fondata come stato laico da Ataturk,
avanza l’integralismo islamico, specie nella regione sud-orientale,
dove resistono sparute comunità cristiane,
eredi di un glorioso passato missionario.
Il nazionalismo turco ha ridotto l’Armenia,
primo stato cristiano della storia, a un cumulo di macerie.

Per accompagnarci nel sud-est della Turchia, Cevat, la nostra guida, si è fatto crescere i baffi. Dice che un uomo senza baffi non è preso in considerazione da quelle parti, fino a cinque anni fa teatro di feroci scontri tra l’esercito turco e il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan). Da quando il loro leader Ocalan è stato imprigionato, ci si può muovere con una certa libertà nel territorio, abitato prevalentemente da curdi; ma un pizzico di prudenza non guasta.
Nella prima escursione si unisce a noi Jussuf, guida curda con una coppia di giapponesi: profilo affilato, eleganza innata, anche lui mostra due grossi baffi neri come il carbone.

TRA IL TIGRI E L’EUFRATE

Partiamo da Gaziantep, città in pieno boom economico, prossima al confine siriano. Il faraonico e contestato progetto Gap (Guneydogu Anadolu Projesi), che prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche per lo sfruttamento delle acque del Tigri e dell’Eufrate, sta cambiando l’aspetto e l’economia della regione, un tempo arida e povera terra di emigrazione.
Una gigantesca diga frena il corso dell’Eufrate, creando un enorme bacino che presto sarà collegato alle acque del Tigri da un condotto, il più grande al mondo. Intanto i territori della Mesopotamia siriana e irachena hanno già perso il 30% della loro preziosissima acqua.
Questa terra «tra i due fiumi» è terra biblica: ad Harran sarebbe nato Abramo; qui il patriarca avrebbe ricevuto le promesse divine e l’invito a partire per una terra sconosciuta; presso la parentela rimasta ad Harran, Abramo avrebbe mandato a cercare la sposa per il figlio Isacco; scelta caduta su Rebecca.
Nel suo viaggio verso la terra di Canaan, Abramo si sarebbe fermato a Edessa (oggi Urfa o Sanliurfa), dove è venerato anche dai musulmani. La fama della città, però, è legata alla storia del cristianesimo. Eusebio di Cesarea attesta che già al tempo degli apostoli l’intera città e la regione circostante erano state convertite al cristianesimo.
Ben presto Edessa diventò un importante centro culturale, letterario e di diffusione della fede cristiana: da qui i missionari si spinsero al di là dei confini dell’impero romano, verso la Persia e il resto della Mesopotamia.
Nei secoli seguenti, la vivacità della chiesa di Edessa fu funestata prima da persecuzioni, poi da dispute religiose: il rifiuto della dottrina sancita dal Concilio di Calcedonia (451) sulla doppia natura, umana e divina, di Cristo, costò la scomunica al vescovo di Edessa, Giacobbe Baradeus, che fondò la chiesa giacobita o siro-ortodossa.
Altra città storica è Diyarbakir, l’antica Amida, sulle rive del Tigri, cantata nella Genesi come l’Eden per la sua gloriosa vegetazione. Città di frontiera, fu dominata di volta in volta dagli imperi che si affermarono in Mesopotamia: urriti, ittiti, assiri, medi, persiani, seleucidi, romani, sassanidi, bizantini, arabi, mongoli, turcomanni, ottomani.
Di queste antiche civiltà rimane quasi nulla, se si eccettuano la colossale cinta muraria in pietre nere di basalto, di origine romana, e le moschee costruite sotto le varie dinastie islamiche. Ben poco rimane delle numerose chiese della comunità cristiana, che la tradizione fa risalire alla predicazione dell’apostolo Giuda Taddeo.
La chiesa della Vergine Maria è sede dei giacobiti, di cui rimangono solo 15 famiglie. Attraverso un dedalo di viuzze del centro, raggiungiamo la chiesa dei caldei. Ci accoglie il signor Zaki Kasar: parla francese, avendo studiato a Istanbul e lavorato per 30 anni per la Nato. Una volta al mese un prete del monastero di Zafaran viene a celebrare la messa per le 30 famiglie che ancora resistono alle discriminazioni di cui sono vittime.
Sono cristiani in comunione con Roma: proprio a Diyarbakir, in seguito a uno scisma tra i nestoriani, nel 1552, fu eletto patriarca di Babilonia Giovanni Sulaqa, il quale, confermato nella sua carica dal papa Paolo iii diede origine alla chiesa caldea, rimasta in comunione con la chiesa cattolica romana.
Altre memorie cristiane, come la chiesa di Santa Maria e la basilica di San Tommaso sono sepolte sotto le mura e i minareti delle moschee; eppure rimane qualche segno, come colonne, capitelli e pavimentazione che ricordano gli antichi splendori cristiani.
Oggi la città nella «terra tra i due fiumi» è interamente e severamente musulmana: donne velate, uomini vestiti all’antica, folte barbe che fanno rizzare i baffi a Cevat: «Urfa e Diyarbakir non mi piacciono – confessa -. Vi vedo il regresso del mio paese sotto l’avanzata dell’islam più integralista».

FONDAMENTALISMO

Mentre mi emoziono nel percorrere le strade in terra biblica, Cevat appare nervoso e addita le numerose moschee in costruzione, le donne avvolte da ingombranti mantelli e il viso coperto dal velo nero, segni evidenti del prevalere della cultura araba e l’avanzare del fondamentalismo islamico.
Nato e cresciuto a Istanbul, educato nel prestigioso liceo Galatasaray, Cevat si sente legato all’occidente e, come la maggior parte dei turchi dell’ovest, spera di poter presto entrare nella Comunità europea; per le sue due figlie piccole, sogna una Turchia libera e democratica; ma si rende conto che il paese sta attraversando una situazione delicata.
«Stiamo tornando indietro» spiega Cevat, mentre mi racconta che anche a Istanbul avanza il fondamentalismo: la suocera, che vive con la sua famiglia, è stata contattata da un gruppo integralista e ora segue le direttive imposte alle donne, nell’abbigliamento e nelle preghiere.
«Ataturk aveva severamente proibito il velo: come è potuto succedere? – si domanda preoccupato -. Da tre anni sono state introdotte lezioni di religione nelle scuole di stato; per la prima volta dalla fondazione dello stato laico, si studia il Corano tradotto in turco: prima, chi lo voleva, mandava i figli alla scuola coranica, dove imparavano i versetti a memoria in arabo».
Il fondamentalismo attecchisce e avanza nelle città, gonfiate dall’immigrazione intea, soprattutto nei quartieri dove c’è povertà, disoccupazione, necessità di case. «Il contadino conduce una vita dura, prega, ma non sarà mai integralista – spiega Cevat e avverte -: in questa regione arrivano miliardi di dollari dai paesi arabi, che vengono spesi per diffondere un islam intollerante e severo. Trovare casa o lavoro diventa semplice: basta rivolgersi all’imam. Se una studentessa vuole una borsa di studio, basta che acconsenta di mettersi il velo».

LA LINGUA DI GESU’

Ricca di monumenti musulmani, originali per colori e architettura, Mardin è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio culturale dell’umanità. Fino a pochi anni fa era interdetta agli stranieri, a causa delle tensioni e i sanguinosi scontri tra il governo di Ankara e il Pkk.
Punto di passaggio tra l’alta valle del Tigri e la fertile pianura dell’Eufrate, Marida, così si chiamava anticamente, fu un altro faro d’irradiazione cristiana: nei dintorni sono sparse le vestigia di antiche parrocchie e monasteri, ancora oggi abitati da monaci e varie comunità cristiane.
Scendiamo verso la zona cristiana e bussiamo inutilmente alle porte di due chiese. Finalmente una che si apre: è quella dedicata a San Behram. Padre Gabriele, occhiali e zucchetto nero, ci accoglie cortesemente nella sua chiesa del iv secolo. Ci parla dei suoi fedeli, una comunità di aramei, eredi dell’antica chiesa di Antiochia, che parlano ancora l’aramaico, la lingua che parlava Gesù.
L’interno della piccola chiesa è molto suggestivo. Un quadro, appeso all’ingresso, ricorda il martirio di 40 cristiani in Cappadocia, affogati in un lago gelato, nel iii secolo, per ordine di un comandante romano.
«Vi sentite discriminati, in un mondo tutto islamico?» chiedo a padre Gabriele. «Noi cristiani dobbiamo emanare la luce della nostra fede. Come dice il vangelo, dobbiamo porgere l’altra guancia».
La risposta è diplomatica, ma il senso è chiaro: la vita non è facile per questo drappello di cristiani orientali, ultimi eredi di antiche tradizioni. La piccola comunità di San Behram si compone di 350 persone, il prete è eletto dai parrocchiani e vive con loro, ne è responsabile. Il patriarca abita nel monastero di Zafaran, a pochi chilometri dalla città.
Nella regione tra Mardin e Midyat sono rimasti circa in 5 mila, a causa della forte emigrazione, provocata da discriminazioni, ai limiti della persecuzione. Il resto degli aramei, circa 22 mila, in maggioranza vivono a Istanbul, altri sono emigrati in Europa, specie in Germania, dove mantengono le loro tradizioni: lunghe cerimonie religiose, sempre in aramaico.
Il monastero di Zafaran è una specie di fortezza, isolata sotto la cima rocciosa di un monte punteggiato da eremi in rovina. Anche qui si parla e prega nella lingua di Gesù.

GENOCIDIO SCONOSCIUTO

A Van, nella regione montagnosa della Turchia nord-orientale, entriamo nel cuore di quella che una volta costituiva la Grande Armenia: regno antichissimo, indipendente fin dal 93 a.C., abbracciò il cristianesimo e ne fece la religione nazionale, diventando il primo stato cristiano (301).
Sotto la dominazione di selgiuchidi, turcomanni, ottomani, che cercarono di imporre la legge coranica, gli armeni subirono pesanti discriminazioni, ma riuscirono a conservare l’identità culturale e religiosa.
Nella 1a guerra russo-turca (1774), essi accolsero lo zar come liberatore: la parte orientale dell’Armenia fu annessa alla Russia; in quella rimasta sotto il dominio turco vennero eliminati 200 mila armeni.
Alla fine del secolo xix e l’inizio del xx, i nazionalismi turco e armeno raggiunsero il parossismo. Nella speranza di risuscitare la Grande Armenia, durante la 1a guerra mondiale, gli armeni si allearono con i russi contro turchi e curdi. L’illusione affogò in un autentico genocidio: negli anni 1915-18 furono eliminati oltre 1,5 milioni di cristiani armeni; 100 mila bambini furono affidati a famiglie curde, perché cancellassero la loro identità.
I segni di quella tragica illusione sono ancora impressi nelle macerie della vecchia Van: occupata dai russi (1915-17), fu completamente distrutta nel corso della loro ritirata. Ma nei dintorni rimangono anche alcune vestigia dell’antico regno cristiano, come la chiesa di Akdamar, nell’omonima isola nel lago Van. La purezza dell’architettura e il caldo colore della pietra di questa chiesa, sono un incanto. Sulle pareti estee un antico artista ha scolpito storie bibliche e splendidi rilievi, muti testimoni della civiltà e fede di un popolo perseguitato e ignorato.
Il nazionalismo turco è palpabile. «Once vatan» (prima patria), «Che bello essere turchi» e altre scritte del genere capeggiano sulle brulle pendici dei monti delle lande desolate al confine con l’Iran. A scriverle sono i soldati di leva che, oltre a imparare a conoscere tutte le realtà della regione, devono occupare il tempo libero creando enormi scritte patriottiche con pietre e altro materiale, che siano ben visibili dalla strada.
In due giorni di viaggio non ho mai visto tanti militari. Mentre ci avviciniamo a Dogubayazit si moltiplicano i posti di blocco, con relativi controlli e perquisizioni. Siamo a 30 km dal confine iraniano e dobbiamo arrivare in albergo prima delle 19, ora di chiusura delle strade. Anche questa era terra armena, fino al genocidio del 1917.
Appena arrivati a Kars, Cevat si taglia i baffi. Ora lo vedo più disteso, in questo paese aspro di pascoli e foreste. La città mostra i segni lasciati dalla presenza russa nel xix secolo nell’urbanistica e nello stile dei palazzi: anni di incuria e intonaci scrostati non cancellano l’eleganza degli edifici ottocenteschi.
Dominata dalla mole della fortezza di pietra nera c’è una chiesa armena dalla tipica cupola su tamburo ottagonale, chiusa al culto da quando tutti gli armeni se ne sono andati, sotto l’incalzare del genocidio dimenticato.
Più sconvolgente è la visita ad Ani, la splendida capitale medioevale della Grande Armenia, al confine con l’Armenia ex sovietica. Le mura sono in via di restauro; è un buon segno; ma all’interno gli eleganti e raffinati edifici sono ruderi, sparsi in una vasta area diventata prateria. Numerose e straordinarie sono le chiese; una in particolare conserva affreschi che stanno svanendo sotto la furia delle intemperie.
Ani è una «città morta». È proibito fotografare, per non testimoniare il disfacimento di un sito sacro agli armeni di tutto il mondo.

THALATTA! THALATTA!

In viaggio verso ovest, sostiamo a Erzurum: anche qui un tempo vivevano una fiorente chiesa armena e una consistente comunità cattolica. Se ne sono andati quasi tutti; delle loro belle chiese neppure una traccia.
Ancora due alti passi montani e scendiamo verso Trabzon, sulla costa del mar Nero. Ma prima risaliamo fino a 1.200 metri di altitudine, per visitare il monastero di Sumela.
Inserito nella parete rocciosa a picco su una valle verdissima e fiorita di rododendri, il monastero appare come un sogno tra le nuvole. Per 15 secoli è stato un centro importante del monachesimo orientale (vedi riquadro).
Rifugio ideale per la preghiera e la contemplazione, è raggiungibile solo con una lunga arrampicata, su un sentirnero pietroso e una stretta scala di pietra. Gli affreschi della cappella principale sono stati sfregiati da molto tempo da ignoti e ignobili visitatori, ma la bellezza del luogo è ancora intatta.
Finalmente raggiungiamo Trabzon e possiamo gridare anche noi: «Mare! Mare!», come fecero, nel 400 a.C., Senofonte e i suoi «Diecimila» soldati di ritorno da Babilonia, dopo 3.200 km a piedi, attraverso le montagne e le popolazioni dell’Anatolia orientale.
Antica città greca, fondata da emigranti di Trapezos, in Arcadia, Trebisonda ci è familiare, essendo entrato in un nostro proverbio: perdere la trebisonda. Il suo nome, però, è presente anche nei racconti di missionari e viaggiatori del tardo medioevo: di qui passarono molti francescani e domenicani per evangelizzare le terre del Medio ed Estremo Oriente, fino alla Cina.
La città rimase per alcuni secoli l’ultimo baluardo della civiltà bizantina, finché fu conquistata dai turchi e annessa all’impero ottomano (1461). Fino a questo tempo la chiesa godette di una vitalità che le costruzioni architettoniche di quel tempo ancora attestano.
Il monumento più bello è la chiesa di Santa Sofia, eretta nel xiii secolo da Alessio iii Commeno, a ricordo della più famosa e grande basilica di Costantinopoli. Trasformata in moschea, gli affreschi e i mosaici furono coperti da intonaco, finché i restauri degli anni sessanta li hanno riportati agli antichi splendori e la basilica è stata ridotta a museo. Altre belle chiese invece, come Sant’Anna, Sant’Andrea, Sant’Eugenio, la Vergine dalla testa d’oro, continuano a funzionare come moschee.
A differenza delle città della Turchia orientale, Trabzon appare modea, vivace e cosmopolita. Alla tanta vivacità non sono estranei gli oleodotti che portano il greggio dal Caucaso e dall’Asia Centrale.
Ma il fatto più positivo è che, anche dentro le vecchie mura ottomane, le strade sono affollate di ragazze in jeans e maglietta; pochissime portano il velo islamico: segno che da queste parti l’integralismo islamico non ha ancora affondato le sue radici, con buona pace dell’anima di Ataturk e dei baffi di Cevat.

MONASTERO TRA CIELO E TERRA

Secondo la tradizione, il famoso monastero di Sumela (oggi Maryemana manastiri, monastero della Madre Maria) fu fondato dai monaci ateniesi Baaba e Sofronio, seguito a una visione della Vergine, che chiese loro di costruire un monastero nel Ponto, sul mar Nero. Lasciato il loro eremo nella penisola calcidica in Grecia, portando con sé un’icona della Madonna attribuita a san Luca, raggiunsero questo luogo e si stabilirono nelle grotte di alto roccione, a picco su un torrente ricco d’acqua delle Alpi pontiche. Nella grotta più ampia stabilirono la cappella della Madonna. Era l’anno 385.
La fama del santuario della «Vergine della montagna nera» (in greco Panaghia tou mélas, da cui Sumela) e della loro santità si sparse rapidamente ed aumentò dopo la loro morte, avvenuta nel 412 (nello stesso giorno attesta la tradizione) e attirò pellegrini, offerte e, soprattutto, altri monaci. In poco tempo Sumela divenne uno dei centri più importanti del monachesimo orientale.
La posizione, resa inaccessibile con opportuni accorgimenti, e le fortificazioni costruite resero il monastero inviolabile per secoli, un’oasi di pace in mezzo a un turbinio di guerre e di lotte. Il momento massimo di splendore fu raggiunto tra il 1200 e il 1400, grazie ai favori degli imperatori di Bisanzio, che ne promossero i lavori di ricostruzione, fortificazione e abbellimento mediante gli affreschi.
Con la conquista della regione da parte degli ottomani (1461), il sultano prese il monastero sotto la sua protezione e ne garantì la sopravvivenza pacifica, garantendo ai monaci la proprietà del monastero e dei terreni adiacenti.
I monaci continuarono la loro attività pacifica e spirituale fino agli ultimi anni della prima guerra mondiale, quando abbandonarono il monastero al momento dell’avanzata dell’esercito russo; vi ritornarono poco dopo, ma dovettero andarsene definitivamente nel 1923, alla conclusione della guerra greco-turca.
Ancora oggi, gli edifici conventuali, abbarbicati sul fianco di un ripido dirupo, appaiono dalla valle come sospesi tra cielo e terra. Ma all’interno si vedono subito i segni lasciati da decenni di abbandono, depredazioni e atti vandalici di ogni genere, che hanno ridotto il complesso a poco più di un rudere. Eppure il poco che rimane di affreschi e opere murarie danno ancora un’idea dello splendore di questo monastero.

Claudia Caramanti




MONGOLIA (2)A passi… lesti

Dopo il grande gelo del regime comunista,
la Mongolia è alla riscoperta della religione
e della coscienza nazionale: un cammino
in cui si inserisce la chiesa cattolica. Ha solo 12 anni, ma con tutti i segni di una crescita sorprendente.

I paesi afflitti da gravi problemi economici e sociali rischiano spesso di perdere i valori tradizionali: non sembra sia questo il caso della Mongolia. Dopo la persecuzione religiosa, durante il regime sovietico-comunista, molti mongoli attendono la venuta di un grande personaggio, capace di scuotere il mondo con verità e saggezza: un uomo che possa aprire un’era nuova. Ne è una prova l’entusiasmo dimostrato da tutta la popolazione, nel 1991, in occasione della visita in Mongolia dell’ultimo discendente di Gengis Khan, il principe Dschero Khan, accolto come un re.
Nel paese, inoltre, si assiste a un risveglio della coscienza nazionale e, grazie alla riapertura di molti templi, alla riscoperta di antichi riti. Opere cinematografiche, letterarie e artistiche in generale traggono ispirazione dal patrimonio culturale tradizionale, interpretato in chiave profetica.
Sono soprattutto i giovani a farsi protagonisti della riscoperta del passato e a cercare con entusiasmo una verità più profonda, mantenendo viva la speranza di un futuro migliore. Ma al tempo stesso, corrono dietro a ciò che viene «importato» dall’estero, specialmente da Europa e Usa, alle novità introdotte nel paese attraverso la televisione e internet.

GIOVANE CHIESA
CHIESA DI GIOVANI

Uno dei segni più confortanti è vedere la grande sete di Dio che hanno i giovani e i mongoli in generale; il loro cuore aperto e disposto ad accogliere la «novità» del vangelo.
Per 65 anni la dittatura comunista si era adoperata con ogni mezzo, compresa la distruzione di 750 monasteri e l’assassinio di oltre 3.000 monaci, per cancellare ogni traccia di religiosità dall’animo della popolazione mongola.
Tale regime, però, è riuscito solo a provocare un enorme vuoto, che oggi alcuni sentono di poter colmare avvicinandosi a Gesù Cristo e al suo vangelo: le piccole chiese sono affollate e le comunità cristiane sono in continuo aumento. Numerosi sono i catecumeni, in maggioranza giovani e adulti, che si preparano al battesimo.
Sebbene la prima evangelizzazione in Mongolia risalga al vii secolo, in pratica la chiesa in questa regione è nata appena 12 anni fa: è una chiesa giovane, anche per l’età dei suoi membri. Giovani sono pure i missionari, provenienti da diversi paesi, che stanno spargendo i semi del vangelo e garantiscono una speranza di continuità. Fra i missionari cattolici, se si eccettua il vescovo, il più «vecchio» è il padre Eesto Viscardi, missionario della Consolata, che, a 53 anni, si sta inserendo nella chiesa locale con l’entusiasmo delle sue prime esperienze missionarie.
«La Mongolia è una terra di opportunità, un luogo in cui il messaggio di Gesù è praticamente sconosciuto – mi disse un giorno il pastore avventista Christian Grame, cornordinatore del progetto Mission Mongolia -. Sotto il comunismo tutte le religioni furono dichiarate fuori legge e la gente, in pratica, non ha mai sentito parlare di Dio, ma oggi è aperta e interessata ad apprendere».
Nei primi anni della missione cattolica (1992-93), gli unici fedeli che partecipavano all’eucaristia, celebrata in alcuni appartamenti, erano esclusivamente cittadini stranieri. Successivamente si unirono a loro le prime persone della popolazione locale, gettando così le basi della chiesa locale.
Oggi, la chiesa in Mongolia ha il suo vescovo e tre parrocchie con quasi 200 battezzati mongoli, un consistente numero di catecumeni, numerosi gruppi e opere di apostolato, strutture pastorali assai frequentate e molto attive, come asili, un collegio politecnico, centri di attenzioni ai bambini di strada, un istituto per disabili, una casa per ragazze madri. Tutto è portato avanti da 48 missionari e istituti religiosi.
Se si pensa che fino a 10 anni fa non esisteva nulla (comunità, operatori pastorali, strutture), non possiamo non vedere in tutto questo l’opera dello Spirito, che guida con mano sicura la chiesa nascente, nonostante le difficoltà che a prima vista appaiono insormontabili.

CRISTO: MESSIA O NOVITA’

Una professoressa di lingua e cultura mongola mi diceva: «I vecchi sono buddisti; quelli di mezza età, come me, siamo atei; i giovani vogliono essere cristiani». Non so fino a che punto sia vera tale affermazione; è certo, però, che il cristianesimo è una novità per una popolazione che ha conosciuto questa religione solo dopo l’anno 1992, quando il nuovo regime ha aperto le porte alle differenti chiese cristiane, che oggi sono circa una quarantina.
Sono gli adolescenti e i giovani che si mostrano molto più aperti e interessati al cristianesimo. Incuriositi, partecipano alle celebrazioni, incontri e altri momenti della vita della giovane chiesa.
Dal momento che il 35,5% della popolazione mongola è sotto i 15 anni e il 50% ne ha meno di 25, i giovani sono non solo il futuro, ma anche il presente. Essi costituiscono, al tempo stesso, una sfida e una speranza, che ci impegna a cercare la strada migliore per la nostra attività di evangelizzazione. In Mongolia, infatti, non possiamo entrare nelle scuole. Anche in quelle cattoliche non si può esporre alcun segno religioso. Nemmeno la cattedrale ha la croce all’esterno dell’edificio. Fuori del tempio non sono ammesse manifestazioni religiose pubbliche.
Come possiamo farci conoscere? L’unica strada percorribile è quella di diventare persone dal cuore giovane e testimoni dell’amore. La testimonianza attrae molte persone, che si mettono in cammino con noi.
L’ultima parrocchia, eretta meno di due anni fa, ha iniziato con diverse attività per giovani: corsi di inglese, principalmente, di musica, danza, cucito. E poiché tali iniziative si tenevano in luoghi senza insegna, erano i giovani stessi a fare pubblicità: «Vieni a vedere» dicevano i pionieri ai coetanei che domandavano dove si svolgessero tali corsi.
In questo modo i giovani conoscevano padre Felix, un sacerdote africano, alto e simpatico, che riceve tutti con uno smagliante sorriso.
Simpatia, amabilità, amore, insieme ai corsi, è quanto la piccola comunità cattolica offre ai giovani. Nessuno è obbligato a partecipare alla messa o altre attività religiose. Ma subito essi si domandano: «Perché questi stranieri si interessano di noi? Da che cosa sono mossi? Andiamo a vedere!».
E le celebrazioni, inizialmente frequentate da un pugno di persone, due suore e pochi mongoli, cominciano ad essere affollate da adolescenti e giovani; i canti passano gradualmente dall’inglese al mongolo: oggi, canti, letture, preghiere, tutto avviene in lingua locale.
Ogni sabato e domenica si formano gruppi di discussione, tanto che lo spazio è ormai insufficiente per accogliere tutti e la comunità si sta muovendo per comperare un terreno dove costruire una struttura più ampia per dare vita a nuove attività.
Padre Felix continua a dire ai giovani: «Ricordate, domenica prossima dovete invitare un altro amico». E così avviene: chi diventa amico di Gesù, vuole comunicare ad altri la sua scoperta. E ognuno diventa apostolo nel proprio ambiente.

PARTICOLARI ATTENZIONI

Negli ultimi 10 anni sono molte le chiese cristiane arrivate in Mongolia: tutte confermano che i mongoli sono aperti al cristianesimo, anche se le cifre non sono esaltanti: su una popolazione di 2,5 milioni, i battezzati nelle varie confessioni sono poche centinaia. Il gruppo più numeroso, con circa 400 membri, è quello della chiesa avventista, presente nel paese dal 1993. Essa è sostenuta dagli avventisti australiani, che hanno fatto un gemellaggio di solidarietà e cooperazione con la rispettiva comunità in Mongolia. Con lo stesso approccio si muovono altre chiese evangeliche, come quella dei pentecostali, sostenuti da coreani e americani.
Anche le piccole comunità cattoliche crescono grazie agli aiuti delle chiese sorelle sparse nel mondo. Si tratta infatti di una chiesa ancora bimba, che sta muovendo i primi passi, fragile e povera di mezzi materiali e di personale.
Lo ha ricordato anche il cardinale Crescenzio Sepe, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (ex Propaganda fide), nel discorso pronunciato a Città del Guatemala il 26 novembre 2003, in occasione dell’apertura del secondo Congresso americano missionario: «In numerosi paesi dell’Asia, la chiesa sta facendo i primi passi. Pochi mesi fa sono stato in Mongolia per la consacrazione episcopale del primo prefetto apostolico di Ulaanbaatar, mons. Wenceslao Padilla, missionario di Scheut, filippino. La sua comunità cattolica non arriva ancora a 200 persone».
Eppure è una comunità che desta gli entusiasmi e le attenzioni di una chiesa nascente, come ai primi tempi apostolici. Così si esprime lo stesso cardinale, in occasione della sua seconda visita in Mongolia a distanza di un anno: «Come un padre o una madre di famiglia, pur avendo molti figli, rivolgono naturalmente le loro attenzioni soprattutto a quelli più piccoli, perché maggiormente bisognosi di essere aiutati nella loro crescita, così la giovane chiesa della Mongolia può rappresentare il figlio appena nato: dopo i primi vagiti ha bisogno di cure e attenzioni per irrobustirsi, per crescere e poi camminare sulle proprie gambe.
Guardando alla storia di questa nazione, si può parlare di una crescita prodigiosa della chiesa in un periodo di tempo abbastanza breve. Vedere i missionari e i fedeli dedicarsi senza riserve all’assistenza dei più deboli, considerandoli come fratelli, senza fare differenze di alcun tipo, è spesso una scintilla che accende il fuoco della fede e genera nuove conversioni. Soprattutto i giovani si lasciano coinvolgere con grande disponibilità e generosità. Il santo padre ha più volte ripetuto in 25 anni di pontificato, che i giovani sono la speranza della chiesa: sono sicuro che essi sono anche la speranza della giovane chiesa della Mongolia».
(Fine seconda puntata – continua)

Box 1

IL PAPA E’ ATTESO

P rofondamente ancorati allo sciamanismo, per tre secoli i mongoli furono padroni dell’Asia e parte dell’Europa; sottomisero civiltà millenarie, ma anziché distruggee tradizioni, arte, cultura e religioni, le assorbirono, costituendo un impero immenso e straordinariamente variegato.
Il francescano Guglielmo di Rubruck, che nel 1255 raggiunse l’antica capitale Karakorum, nel suo vivacissimo resoconto riferì di una cultura sorprendentemente dinamica e tollerante. Sul suo cammino incontrò templi buddisti, moschee, chiese cristiane nestoriane, e dappertutto gli obbo, cumuli di pietre votive di ispirazione sciamanica.
Qualche anno prima (1246), Giovanni da Pian del Carpine era stato inviato da Innocenzo iv per sondare la possibilità di un’alleanza contro l’islam. La risposta del Khan fu molto decisa: «Se il papa vuole parlarmi, venga di persona».
Dai tempi dei missionari francescani in oriente gli orizzonti sono cambiati. Dopo mezzo millennio di umiliante sottomissione alla Cina e alla Russia, che la schiacciano anche geograficamente, la Mongolia sta timidamente cercando di rialzare la testa. E anche l’esigua comunità cattolica dà il suo contributo prezioso.
I mongoli aspettano il papa, che l’anno scorso ha cancellato la sua visita programmata per il mese di agosto. «Sembra incredibile – rivela padre Pier Kasemuana, congolese, provinciale dei missionari di Scheut e professore all’Università di Ulaanbaatar -, ma Giovanni Paolo ii è amato profondamente dai mongoli, una popolazione così lontana e quasi totalmente buddista».

Uan Carlos Greco




VENEZUELA 2004 Tra Bolivar e Chávez (terza puntata)

Venezuela 2004 (seconda puntata)

«NOI, MINISTRI DI HUGO CHÁVEZ»

A Caracas abbiamo incontrato due ministri del governo: Ana Elisa Osorio, responsabile dell’ambiente, e Jorge Giordani, ministro della pianificazione.
Abbiamo parlato dei problemi dei loro dicasteri. Ma anche di quanto sia difficile essere ministri in un paese scosso da divisioni e lotte intestine.

1 / ANA ELISA OSORIO, MINISTRA DELL’AMBIENTE
“PETROLIO… MA ANCHE FORESTE E BIODIVERSITÀ”


Il petrolio ha portato nelle mani di pochi un’immensa ricchezza, lasciando a tutti gli altri soltanto enormi problemi ambientali. Oggi il Venezuela vuole salvaguardare le proprie ricchezze naturali (e con esse anche i popoli indigeni). Così, anche nella sua Costituzione si è stabilito che…


Caracas. Ana Elisa Osorio
Granado, ministro dell’ambiente
e delle risorse naturali,
ha i capelli corti e biondi. Laureata
in medicina, due figli, è nata a
Caracas, ma ha vissuto molti anni
nel sud del Venezuela. «Mi sento
più guyanese che caraqueña» dice di sé.
Ci accoglie nel suo spazioso ufficio
ministeriale, indossando un vestito
scargiante quanto il suo sorriso.

LE CINQUE DONNE
DEL GOVERNO CHÁVEZ

La dottoressa Osorio fa parte del
governo dal febbraio 1999, due
giorni dopo che Hugo Chávez divenne
presidente. Il primo incarico
fu come vice-ministro della salute
per un anno e mezzo. «Adesso – racconta
– sono due anni e mezzo che
sono ministra dell’ambiente».
Già, «ministra». «È una svolta
importante per il Venezuela – spiega
-, perché vi è una parificazione
dei generi. La stessa Costituzione
prevede per ogni termine sia la dicitura
maschile che quella femminile:
venezuelano/venezuelana, cittadino/
cittadina, magistrato/magistrata,
funzionario/funzionaria e
così via. All’inizio non è stato facile,
ma abbiamo insistito e adesso
non si sbagliano: dicono il ministro
e la ministra. Insomma, hanno imparato
ad usare la doppia terminologia».
Ma non è soltanto una questione
lessicale. Nel governo venezuelano
ci sono 16 dicasteri e ben 5 di essi
sono guidati da donne: ambiente e
risorse naturali, salute, scienza e tecnologia,
lavoro, comunicazione e
informazione. Un bel primato per
un paese che si dice essere maschilista…
«Detto questo – precisa però la
ministra -, non nego che il machismo
ancora esista in questo paese».

IL GENOMA
NELLA COSTITUZIONE

In Venezuela esiste il ministero
dell’ambiente più antico dell’America
Latina. Tuttavia, è con la nuova
Costituzione del 1999 che si fa
un grosso salto in avanti.
«Innanzitutto – ci spiega la dottoressa
Osorio – per la prima volta nella
sua storia il Venezuela ha una Costituzione
con un capitolo dedicato
all’ambiente. I temi dell’equilibrio
ecologico e dei beni ambientali sono
già nel preambolo della carta costituzionale.
Oltre a ciò, le tematiche
ambientali sono affrontate in
modo trasversale in tutta la Costituzione.
Si parla di acqua come bene
pubblico, di educazione ecologica,
di valutazione dell’impatto
ambientale, ma anche di genoma
degli esseri viventi…».
In Venezuela la natura è una grande
risorsa: le spiagge dei Caraibi, le
isole (sono 72), grandi fiumi come
l’Orinoco (il terzo dell’America Latina),
laghi, cascate, pianure, montagne e foreste tropicali. Insomma,
il paese possiede un potenziale turistico
di prim’ordine.
«L’abbiamo sfruttato poco. D’altra
parte, stiamo prendendo coscienza
che non si deve puntare ad
un turismo di massa spesso distruttore,
ma ad uno più compatibile
con l’ambiente. Così, oltre al turismo
a 5 stelle dell’Isla Margarita,
possiamo avere il turismo controllato
delle isole Los Roques, che sono
in un parco nazionale. Lì pratichiamo
l’ecoturismo, cercando lo
sviluppo locale, ma in un modo
compatibile con la natura».

IL PETROLIO:
RICCHEZZA O PROBLEMA?

«È vero – spiega la ministra – che
l’industria petrolifera è inquinante.
Ma da noi lo è stata soprattutto all’inizio
dello sfruttamento dei giacimenti,
mentre adesso la situazione
è sotto controllo. In ogni caso questo
ha significato che il paese ha accumulato
una serie di passivi ambientali,
i più eclatanti dei quali riguardano
il lago di Maracaibo».
Ad esempio, il suo fondo è coperto
di tubature. «Si parla – precisa
– di 14 mila chilometri di tubature
delle quali non sappiamo quante
siano attive e quante inattive. Ci sono
ovviamente continue filtrazioni
ed è una situazione che dura da 50
anni».

Altri problemi di perdite nell’ambiente
ci sono stati durante lo sciopero-
sabotaggio del settore petrolifero.
«Durante lo sciopero – racconta –
ci sono stati anche danneggiamenti
volontari agli impianti e alle strutture.
E poi l’irresponsabile abbandono
delle raffinerie da parte dei dirigenti,
senza prendere in considerazione
i protocolli di chiusura».

IN DIFESA DELL’ACQUA

Secondo la ministra, uno dei problemi
ambientali più seri riguarda
l’acqua, sia quella potabile che quella
di scarico. «Oggi – dice – abbiamo
una buona copertura di acqua potabile
nelle città, attorno al 90%,
mentre è più bassa nell’ambito rurale».
«Quanto alle acque di scarico, fino
al 1999 solo il 10% erano trattate
prima di essere riversate nel mare,
o in laghi e fiumi. Una percentuale
molto bassa, tale da compromettere
le future fonti di approvvigionamento.
Adesso stiamo trattando
il 15% delle acque di scarico,
ma stiamo facendo opere che ci
porteranno a trattare il 30% delle
acque entro il 2007. Avremo così triplicato
quello che la quarta repubblica
ha fatto in 40 anni».
Il Venezuela ha molte risorse idriche,
soprattutto nelle regioni
centrali e al Sud, ma presenta problemi
di approvvigionamento nelle
zone costiere e nella capitale.
«A Caracas – spiega – dobbiamo
far venire l’acqua da luoghi che distano
130 chilometri. Oltre a ciò, si
deve superare un dislivello importante
per raggiungere i 1.000 metri
d’altezza della capitale».
Un altro problema di Caracas sono
i rifiuti, che si accumulano soprattutto
attorno ai barrios più poveri.
«Per la prima volta – dice – abbiamo
fatto un piano nazionale per la
gestione dei rifiuti solidi e adesso
stiamo facendo piani regionali in accordo
con i municipi, perché questi
abbiano gli strumenti per operare
nelle condizioni adeguate».
«A breve e medio termine abbiamo
sviluppato un progetto con il
ministero della salute e quello dell’educazione,
per avviare un’educazione
al riciclaggio che purtroppo
da noi non esiste. Vogliamo iniziare
dai bambini, affinché apprendano
quella cultura del riciclaggio senza
la quale qualsiasi campagna è destinata
al fallimento».

DALL’AMAZZONIA
AL DELTA DELL’ORINOCO

Chiediamo se in Venezuela esista
un problema agricolo legato all’impoverimento
o alla perdita della terra
produttiva.

«Fortunatamente non abbiamo
ancora un problema di desertificazione,
ma la minaccia esiste. Per
questo, assieme al ministero dell’agricoltura
e della terra, cerchiamo
di diffondere una coscienza nell’uso
dei concimi chimici. Vogliamo
sviluppare un’agricoltura più sostenibile,
rompendo con i paradigmi
degli agronomi, o almeno di una
parte di essi. Adesso infatti stiamo
cambiando alcuni tecnici del ministero
perché, in conseguenza del lavoro
fatto in passato, ora ci sono fiumi
contaminati con pesticidi e problemi
di malattie croniche correlate
all’inquinamento».
In Venezuela ci sono ancora molte
foreste, soprattutto al Sud, nella
zona amazzonica. Dove purtroppo
si presenta la questione della deforestazione,
che la ministra non nega:
«Il problema esiste ed è dovuto
a quelle stesse attività illegali che
causano la deforestazione nella regione
amazzonica del Brasile. Ma –
sottolinea con orgoglio la ministra –
circa il 60% del nostro territorio è
tutelato: molto probabilmente siamo
il paese al mondo con più aree
protette, almeno in percentuale. Ci
sono parchi forestali, riserve di flora
e fauna, aree idriche. Di conseguenza,
abbiamo una buona fetta
del paese che è direttamente sotto
la tutela di questo ministero o degli
istituti ad esso sottoposti».
Chiediamo se sia l’Amazzonia la
zona con maggiore biodiversità.
«Siamo – spiega – nel gruppo dei 15
paesi con più diversità biologica:
questo ci dà una grossa potenzialità
per il futuro ed anche una grossa responsabilità».
Oltre all’Amazzonia, c’è il delta
dell’Orinoco: «È una zona bellissima.
Quando l’ho sorvolata sono rimasta
impressionata perché è ancora
incontaminato, anche lì c’è un livello
di bioversità importante, come
nelle zone dei Kariñas, dei Pemón e
di altre etnie».

POPOLI INDIGENI:
LA TERRA E NON SOLO

Nella «Costituzione della Repubblica
bolivariana del Venezuela» i
popoli indigeni hanno uno spazio
tutto per loro: 8 articoli nell’ambito
del titolo III, capitolo VIII, esattamente
prima degli articoli riguardanti
i «diritti ambientali».
«C’è – osserva la dottoressa Osorio
– una stretta relazione tra ambiente
e popoli indigeni. Perché
quando si proteggono i diritti degli
indigeni si protegge anche il loro
modo di vivere, strettamente legato
alla terra, che è madre, anzi pachamama».
La ministra si alza per indicarci su
una cartina del Venezuela dove sono
localizzate le etnie. «Ci sono circa
30 diversi gruppi indigeni, ma la
popolazione complessiva rimasta è
esigua: più o meno 500 mila persone. Oltre alla Costituzione, c’è la
legge di demarcazione del territorio
e delle comunità indigene, che riconosce
la protezione degli indigeni
e gli assegna la titolarità collettiva
della terra».

Facciamo notare che anche nel
confinante Brasile gli indigeni sono
nella Costituzione e anche lì si parla
da tempo della demarcazione delle
loro terre. Ma tra il dire e il fare
c’è, come sempre, molta distanza…
«Noi stiamo iniziando il processo
di demarcazione delle terre in 8 stati
e in ogni stato c’è una commissione
composta per metà da inviati statali
e per metà da indigeni. In Venezuela
esistono già delle
esperienze di autodemarcazione; adesso
le vogliamo legittimare».
Domandiamo alla ministra come
hanno reagito i latifondisti. «Per ora
il problema è stato minimo. In una
regione una comunità indigena
ha invaso alcuni terreni e i latifondisti
della zona hanno cercato la
mediazione statale: o il risarcimento
o la restituzione delle terre».
«Ho insistito con i miei collaboratori
affinché intensifichino gli
scambi con gli indigeni. Secondo
me, sono molto arricchenti, perché
essi hanno un rapporto particolare
con la natura, nonostante si siano
un po’ occidentalizzati».
L’articolo 186 della
Costituzione bolivariana
prevede che
nell’assemblea nazionale
(potere legislativo)
ci siano
3 deputati dei popoli
indigeni, tra
l’altro eletti non
secondo i sistemi
nazionali ma rispettando
le loro
tradizioni e costumi.
«Adesso – precisa
la ministra – ci sono
due uomini e una
donna. La donna,
che è la seconda vicepresidente
dell’assemblea
nazionale, è
molto rispettata. Ha
60 anni e si chiama
Noelí Pocaterra».

PIÙ FORTE DELL’OSTRACISMO
E DELL’INTOLLERANZA

Chiediamo se ci sono problemi
con i media. «Fortunatamente – risponde
la ministra -, noi non siamo
un ministero da prima pagina, salvo
casi eccezionali come quando ci
furono perdite di petrolio. È un
vantaggio perché si lavora meglio.
Io posso camminare in centro da
sola, anche se poi tutti ti fermano,
chiedono, domandano, ti raccontano
i loro problemi».
Dunque, insistiamo, non avete
mai avuto problemi seri, come altri
ministeri… «Quando c’è stato il colpo
di stato l’11 aprile, ci vennero tagliate
l’acqua e la luce e poi chiesero
al direttore della sicurezza se qui
c’erano armi. Egli disse che c’erano
delle vecchie pistole chiuse in una
cassaforte. La polizia le prese, le mise
in bella mostra su un tavolo e davanti
alla stampa disse che noi stavamo
armando i circoli bolivariani…».
Chiediamo alla ministra se si senta
ottimista per il futuro del paese.
«Sì – risponde con un sorriso -, sono
ottimista. Pur nella consapevolezza
che è difficile, perché non è facile
cambiare un sistema di potere
detenuto da gruppi che hanno a
lungo governato il paese per i loro
interessi e attraverso la corruzione».
Si dice – obiettiamo – che voi abbiate
il governo ma non il potere.
«Io so solo – risponde tranquilla -,
che siamo sul cammino giusto».
Ma non è facile essere ministri in
un governo tanto contrastato come
quello di Hugo Chávez. Neppure
Ana Elisa Osorio è stata risparmiata
dalla campagna di intolleranza.
Ricorda l’ostracismo ricevuto da
una parte dei suoi amici medici e da
alcuni componenti della sua stessa
famiglia. «Ma nulla – racconta – a
confronto di quanto ha patito Maria
Cristina Iglesias, ministra dell’ambiente.
In un noto club privato
un gruppo di persone cominciò a
battere le pentole (cacerolas) impedendole
di celebrare la festa di laurea
della figlia».

Gli occhi della signora Osorio si
fanno lucidi. L’emozione suscitata
dal racconto vince le difese erette
dal ruolo istituzionale.
«Questo lavoro – dice la ministra
ricomponendosi – mi piace perché
l’oggetto di nostra competenza è
molto bello e interessante. Qui ho
imparato molte cose. Insomma, per
me questo ministero è gratificante».
Ministra, lei ha due figli. Che dicono
di lei e del suo lavoro? «Sono
orgogliosi. Dicono che hanno una
mamma molto valida. Indipendentemente
da quanto tempo
io rimarrò ministra».

2 / JORGE GIORDANI, MINISTRO DELLA PIANIFICAZIONE
PER APPROSSIMARE LA REALTÀ ALL’UTOPIA

In un paese con l’80 per cento di popolazione povera,
la sfida è trovare un modello economico che permetta
di costruire una società in cui giustizia ed inclusione siano una priorità.

Caracas. Dalla grande vetrata
del soggiorno la panoramica
è di quelle che non si scordano.
Sul fondovalle si stagliano nel
cielo i grattacieli della capitale,
mentre tutt’attorno si apre una costellazione
di barrios.
«Non occorre essere sociologi per
capire che in questo paese ci sono
ancora le classi sociali, eh?», ci dice
con tono scherzoso Jorge Giordani,
ministro del governo Chávez e padrone
di casa.
Giordani è un distinto signore di
63 anni, alto e magro, con una barbetta
bianca e grandi occhiali da
professore. È il massimo responsabile
del ministero della pianificazione
e sviluppo dal 2 febbraio
1999, con una interruzione (dolorosa,
tanto che egli non vuole parlarne)
di circa un anno dopo il fallito
golpe dell’aprile 2002.

IL PROFESSORE
E IL COMANDANTE

Sciorinando un perfetto italiano,
il ministro racconta la storia della
sua famiglia. Il padre era nato a Sesto,
un paese vicino ad Imola. Poi
negli anni ’20, si era spostato a Bologna.
Infine, a causa del fascismo,
era uscito dall’Italia e si era rifugiato
in Francia. La sua avventura umana
era continuata in Spagna, come
combattente volontario nella
brigata Garibaldi. Qui aveva conosciuto
sua moglie e con lei, con la salita
al potere del generale Franco, si
erano spostati in Francia e poi a
Santo Domingo.

«Io – racconta il ministro – sono
nato nell’isola, ma non ho ricordi di
quel periodo perché prestissimo ci
trasferimmo a Caracas. In pratica,
non ho conosciuto altro paese se
non il Venezuela, finché non sono
andato in Italia a studiare all’Università
di Bologna, dove nel 1964 mi
sono laureato in ingegneria elettronica.
Quando sono tornato, ho cominciato
a lavorare. Prima alla compagnia
dei telefoni, poi come professore
all’Università centrale».
All’inizio degli anni ’90, con un
gruppo di colleghi, il professor
Giordani inizia a lavorare attorno
ad una proposta politico-economica
alternativa. Nel febbraio del
1992, il comandante Hugo Chávez
Frias prende parte ad una ribellione
contro il presidente Carlos Andrés
Pérez e viene incarcerato. Dalla
prigione chiede di incontrare il
gruppo di professori universitari
per fargli conoscere il contenuto
della loro proposta.
Racconta Giordani: «Io ho conosciuto
il presidente il 26 marzo
1993, quando con altre persone andai
nel luogo dove era detenuto.
Prima di uscire, Chávez si rivolse a
me per chiedermi se potevo diventare
il suo tutore nella tesi di laurea
che stava scrivendo. Da quel momento
iniziò il mio decennale rapporto
con lui».

PER USCIRE
DAL LABIRINTO

Dalla collaborazione tra Giordani
e il comandante Chávez esce
l’«Agenda alternativa bolivariana»,
una proposta politico-economica
per il paese.
Nel frattempo, il «Movimento
bolivariano rivoluzionario» fondato
da Chávez viene sostituito dal
«Movimento quinta repubblica»,
che si presenta alle elezioni del dicembre
1998 vincendole. Il 2 febbraio
1999 si insedia il governo di
Hugo Chávez.

«Chávez mi domandò – racconta
il ministro – se potevo continuare ad
aiutarlo e così mi affidò il ministero
della pianificazione e sviluppo».
Al dicastero Giordani può iniziare
ad applicare il piano a lungo studiato,
«per – come dice – far uscire
il paese dal labirinto».
Il ministro distende davanti a noi,
sul tavolo del soggiorno, una grande
mappa a colori che porta il titolo
di Líneas generales del Plan de desarrollo
económico y social de la Nación
2001-2007. È quel «Piano
pluriennale di sviluppo economico
e sociale», di cui va tanto fiero: «Il
lavoro di una vita», dice con voce
pacata.

PETROLIO AVVELENATO
(E SOVVERSIVO)

In Venezuela pianificazione e sviluppo
non possono coniugarsi senza
il petrolio, di cui il paese è uno
dei massimi produttori ed esportatori
al mondo.

L’«oro nero» viene scoperto alla
fine dell’Ottocento, ma lo sfruttamento
commerciale vero e proprio
ha inizio nel 1914. Da allora la sua
importanza è un crescendo continuo
fino a surclassare tutte le altre
produzioni, ad iniziare da quelle agricole.
Nel 1976 il comparto petrolifero
viene nazionalizzato e affidato ad una
compagnia pubblica denominata
Petróleos de Venezuela s.a. (Pdvsa,
Pedevesa nel linguaggio comune),
che ben presto si tramuta in
una riserva di caccia per un ristretto
gruppo di politici e privilegiati.
Diventa «uno stato nello stato», con
una capacità finanziaria straordinaria
e senza controlli pubblici.
«La politica di Pedevesa – spiega
il ministro – era quella di produrre
il più possibile, indipendentemente
dalle quote fissate dall’Opec. Noi
abbiamo cambiato registro. Quando
siamo arrivati, nel 1999, il prezzo
del petrolio era un po’ sotto ai 10
dollari al barile. Oggi, il petrolio venezuelano
viaggia attorno ai 24-27
dollari al barile».

Ma, si chiede Giordani, quanti
anni durerà ancora la rendita petrolifera?
Forse 20, forse 30, forse
anche 40 anni.

«Il modello basato sul petrolio –
spiega il ministro – è in crisi già da
tempo. In Venezuela abbiamo avuto
questa specie di latte materno
che è il petrolio. Ma i suoi benefici
non sono mai stati per tutti, essendo
sempre stati distribuiti in modo
clientelare: ai commercianti, ai banchieri,
agli imprenditori, escludendo
l’80 per cento della popolazione
venezuelana».

L’interesse del governo Chávez
per la compagnia petrolifera pubblica
non piace. Per difendere la posizione
acquisita il folto gruppo dirigente
di Pedevesa si schiera allora
a fianco dell’opposizione. Nel novembre
2002 si producevano in Venezuela
3 milioni e 383 mila barili
di petrolio al giorno. A causa dello
sciopero del settore nel gennaio
2003 la produzione crolla a 272 mila
barili, fino quasi ad azzerarsi nelle
settimane successive.
Considerando che il petrolio genera
circa la metà delle entrate statali
e l’80-90% delle divise estere, le
conseguenze della protesta sono facilmente
immaginabili.

Giordani non usa mezzi termini:
«L’azione attuata da Pedevesa non
ha precedenti nella storia. Un sabotaggio
pianificato che mirava ad una
destabilizzazione politica. I dirigenti
si sono trasformati in agenti
politici al soldo dell’opposizione.
Ma non è andata come previsto. In
4 anni di governo noi non siamo
mai potuti entrare in Pedevesa. Era
un buco nero al cui interno non si
sapeva cosa succedesse».
«Con le contromisure prese in seguito
al loro sabotaggio, ora finalmente
si intravvede uno spiraglio di
luce, come Diogene con la lanterna».
Obiettiamo che quello di Pedevesa
sarà anche stato un autogol, ma
la perdita per il paese è stata enorme.
«Loro cercavano di fare un
goal, senza considerare l’altra squadra.
Pensavano: qui non c’è nessuno,
vinciamo facile. In tre giorni siamo
al potere. È stato il secondo fiasco:
prima il fallimento del colpo di
stato, poi quello del sabotaggio».
«Hanno perso due round, ma
verrà il terzo. È una catena. Questo
match durerà 15-20 round, come
quelli combattuti da Primo Caera.
Siamo solo all’inizio».
Allora ci toccherà venire qui
un’altra volta? «Più di una – risponde
con un sorriso -. Questo è un
processo a lunga scadenza, come avevamo
previsto. Per fortuna, loro
non sono ancora organizzati a livello
nazionale, non hanno una squadra,
ma possono recuperare».
«Loro» per il ministro Giordani
sono le famiglie che costituiscono la
ristretta oligarchia venezuelana. Si
calcola che in 40 anni essa abbia accumulato
circa 120 miliardi di dollari
all’estero, cioè 5-6 volte il debito
estero del Venezuela.
«E non è stata – precisa Giordani
– un’accumulazione legale. È stato
un trasferimento illegale di risorse
pubbliche in mani private. Denaro
sottratto alla collettività venezuelana».
«Bisogna sempre ricordare che ci
troviamo davanti ad un grande potere
economico. Queste persone
hanno investito enormi quantità di
denaro negli Stati Uniti e in Europa.
Hanno quindi una grande capacità
di azione e di influenza».
Il golpe e il boicotaggio interno
sono stati colpi pesantissimi per le
casse dello stato… «Sono stati – conferma
Giordani – due missili contro
il Venezuela. Ma abbiamo potuto
resistere perché avevamo accumulato
delle riserve finanziarie che
hanno tamponato le falle. Certo,
però, non avremmo la possibilità di
sopportare un altro colpo che costi
più di 4-5 miliardi di dollari».
Ministro, sta dicendo che non è finita?
«Credo che stiano preparando
qualcos’altro. Hanno grandi disponibilità
e una grande perseveranza.
Per questo dico che abbiamo
combattuto (e vinto) solo due
round».

SE L’ECONOMIA
PRECEDE LA SOCIETÀ

Cos’è il Venezuela oggi? «Questa
– risponde – è una bella domanda.
Ora siamo in un processo di transizione,
una vera transizione gramsciana,
nel senso che il vecchio non
è ancora morto e il nuovo non è ancora
nato».

Se abbiamo ben compreso, il vecchio
è dato da un sistema dove l’economia
precede la società. «Il vecchio – continua Giordani – è una politica
economica di esclusione, che
tiene ai margini e in condizioni di
povertà l’80% della popolazione
venezuelana».

Quello che «la rivoluzione bolivariana» propone è un modello
produttivo intermedio che non si
basi solo sul petrolio, ma si articoli
su diversi settori; un modello che
promuova una crescita endogena,
ma valida anche a livello latino-americano.
«L’obiettivo – spiega il ministro –
è un modello di sviluppo economico
per i prossimi decenni che porti
alla creazione di una società di giustizia
ed inclusione. Il contrario di
quella società escludente avuta fino
ad oggi».

Facciamo notare che un progetto
tanto ambizioso non si instaurerà in
poco tempo. «È vero – ammette
Giordani -: ci vorrà almeno una generazione.
Ma almeno noi abbiamo
già stabilito le regole formali, scritte
nella nostra Costituzione».
Recita l’articolo 299 della carta
costituzionale: «Lo stato, congiuntamente
con l’iniziativa privata,
promuoverà lo sviluppo armonico
dell’economia nazionale».

L’OTTIMISMO
DELLA VOLONTÀ E…

Chiediamo al ministro se, dopo
tutti i drammatici eventi degli ultimi
due anni, riesca a vedere sviluppi
positivi per il paese.
«La prima cosa positiva è che la
gente sta imparando ad organizzarsi:
questa è un’assicurazione sulla
vita per le prossime generazioni.
Occorre una solida organizzazione
popolare che difenda gli interessi
della gente. Occorre creare una
consapevolezza diffusa. Di questa
presa di coscienza si vede per ora
appena un germe, una timida nascita.
Ci vorranno almeno 20 anni,
prima che sia una conquista generalizzata…».
Nel frattempo, obiettiamo, in Venezuela
la vita continua con problemi
quotidiani di non poco conto…
«Ma – risponde il ministro – in
questo paese ci sono ancora molte
possibilità. Prima del petrolio, c’è la
gente: 24 milioni di abitanti. C’è lo
spazio fisico: il Venezuela è uno dei
pochi paesi al mondo dove la natura
ci ha dato il primario, il secondario,
il terziario, qui sono rappresentate
tutte le ere geologiche. Forse la
mano di Dio ha creato questa combinazione
di natura, ma allo stesso
tempo di miseria. In altre parole, le
risorse ci sono, la capacità anche.
Come ho spiegato prima, il problema
è trovare un modello economico
fattibile e adeguato per costruire
una società più giusta».
Forse il ministro Giordani è troppo
ottimista. C’è molta, forse troppa
utopia nel suo discorso.
Risponde con la tranquillità serafica
di uno studioso di lungo corso:
«Cito ancora il vostro grande Antonio
Gramsci, che diceva: bisogna agire
con l’ottimismo della volontà e
il pessimismo della ragione. Quella
che tocchiamo quotidianamente è
la realtà, ma i nostri sogni devono
esserci sempre perché la meta ultima
è l’utopia».

«Come – continua Giordani – cercare
di approssimare la realtà all’utopia:
questo è il sogno, l’obiettivo
della pianificazione che deve sì avere
i piedi nella realtà, ma con una
veduta strategica 100 anni più avanti».
«Se ti concentri sulle difficoltà del
momento perdi la visione generale
dei problemi, la prospettiva ampia.
In una parola, l’orizzonte».
Già, l’orizzonte. Ricordiamo al
ministro le lacrime silenziose della
dottoressa Osorio quando raccontava
dei problemi personali avuti in
quanto ministra nel governo Chávez.
«Non mi stupisco – dice Giordani
-. È successo anche a me. Durante
lo sciopero, ogni sera arrivavano
i vicini di tutta una vita (sono 32 anni
che abito in questa casa) a gridare
“Fuori assassino!”. Battevano le
pentole contro il cancello ed esponevano
cartelli di insulti. Ora io mi
chiedo: quale sarà il prossimo passo?
L’eliminazione fisica dell’avversario?
Se non c’è rispetto, come può
esserci convivenza?».

(FINE 3a. PUNTATA – CONTINUA)

Suore combattive…

ESISTIAMO!

Sì, esistiamo! Noi suore nella chiesa del popolo di Dio. Sempre si parla di vescovi
e sacerdoti per riferirsi alla chiesa, ma noi suore siamo la presenza di Gesù,
chiamate a costruire il suo progetto di fratellanza tra il popolo.
Viviamo nello stato di Sucre (1). Formiamo una comunità di comunità, diverse tra
loro, con differenti lavori e distinti luoghi. Siamo unite dall’amore per il popolo sucrense,
assieme al quale viviamo da molti anni, alcune da 30, altre da 25, altre ancora
da 15. Possiamo dire che siamo già terra della sua terra.

Siamo figlie dell’Oriente, da dove spunta ogni mattina il sole; anche per questo viviamo
ponendo attenzione alle luci che nascono nelle nostre realtà quotidiane.
Riconosciamo, appoggiamo e ammiriamo il progetto bolivariano capeggiato dal
fratello presidente Hugo Chávez Frias, che offre al popolo partecipazione e protagonismo
assieme alla coscienza di creare la storia che sogniamo.

Come chiesa e come sorelle noi ci sentiamo identificate con il progetto e ci dispiace
quando alcuni vescovi e sacerdoti bloccano e sminuiscono il momento storico
che stiamo vivendo (2). Non ci sentiamo rappresentate da essi.
Noi esistiamo! Per questo desideriamo eleggere i delegati della chiesa per i tavoli
di dialogo, come hanno deciso di fare il governo e l’opposizione. Desideriamo altresì
che i dialoghi di pace si tengano in uno scenario diverso da Caracas, troppo
segnata dalle rivalità. Suggeriamo la Guayana, come terra del futuro e come luogo
vitale che può aiutare a sboccare le nostre visioni e prospettive indirizzandoci ad
un dialogo tra eguali.

Dai nostri piccoli villaggi, dai nostri quartieri di periferia, stiamo creando tra la
gente piccoli spazi dove è possibile vivere in modo diverso, come vicini ed eguali.
Lavoriamo in comunità cristiane, gruppi di donne, cornoperative, piccoli centri comunitari
di educazione popolare, e sentiamo che oggi tutti stanno sperimentando
una nuova vitalità.

Sì, esistiamo! Con speranza. Appoggiamo il progetto bolivariano e desideriamo
dargli energia e tempo perché fiorisca. È troppo chiedere che l’opposizione ci dia
tempo per costruire e crescere? Il popolo non ha forse aspettato molti anni per diventare
protagonista della storia?

Esistiamo assieme al popolo degli esclusi e ci organizziamo per manifestare la nostra
visione della vita, per godere, amare e sentirci compagne e compagni. Ascoltando
ogni settimana «Aló Presidente» (3), si rinnovano le nostre energie solidali
per continuare con amore e temperamento, le avventure della vita quotidiana.
Capiamo che questo momento storico è pieno di chiaroscuri, ma noi vogliamo rischiare,
sostenute da una speranza invisibile che ci dice: «Chi ci separerà dall’amore?
» (Rom 8,35).

Per tutto questo crediamo, affermiamo e gridiamo che esistiamo! E che vale la pena
di vivere in Venezuela: oggi, qui ed ora (4).

LE COMUNITÀ DI SUORE DI MERITO (ARAYA), SAN LORENZO (MONTES),
QUEBADRA DE LA NIÑA (PARIA), TUNAPUY (PARIA), EL PEÑON (CUMANÁ)

(1) Lo stato di Sucre si trova nella regione est del Venezuela, di fronte al Mar dei Caraibi.

(2) Durante il golpe dell’aprile 2002.

(3) È la trasmissione domenicale che ha come protagonista il presidente Chávez.

(4) Questa è la traduzione integrale del documento originale datato 16 novembre 2002.

Paolo Moiola




MONGOLIA (1)Bambini da… stanare

I primi 5 missionari e missionarie della Consolata sono in Mongolia da appena un anno.
Oltre alla lingua, studiano come progettare
la missione. E il lavoro non manca.

Steppe immense e cielo azzurro: è la prima impressione mozzafiato provata nel mettere piede in Mongolia, all’inizio di luglio del 2003. Il paese è cinque volte più esteso dell’Italia, ma con una popolazione di circa 3 milioni di abitanti; un terzo di essi vive nella capitale Ulaanbaatar.
Ben presto l’emozione cede alla visione della realtà: il paese attraversa una profonda crisi economica e di identità, da quando, con la fine del comunismo e lo sfascio dell’impero sovietico, i russi hanno abbandonato a se stessa la Mongolia, lasciando interi villaggi disabitati, provocando la chiusura di molte fabbriche e costringendo la gente a dipendere dagli aiuti umanitari.
Il costo della vita si è impennato, mentre i salari non aumentano: un impiegato statale, per esempio, guadagna da 50 a 80 euro al mese. Dalle nostre spese, possiamo fare i conti in tasca alla gente: un chilo di carne (la più economica è quella di cavallo), un litro di latte e un pezzo di pane costano 2.200 tugruk (1,60 euro); moltiplicato per 30 giorni fa quasi il mensile di un operaio.
La povertà provoca enormi problemi sociali, come la fuga verso la città; l’alcornolismo è diventato una piaga sociale spaventosa. Le statistiche della Fao fanno rabbrividire: un terzo delle famiglie mongole rientra nella fascia della povertà grave; quasi la metà dei bambini vive di stenti; i ragazzi di strada sono tra i problemi più raccapriccianti del paese.

I BAMBINI DEL TOMBINO

Prima di arrivare ad Ulaanbaatar, sapevo del fenomeno per sentito dire; ma non ne avrei mai immaginato la cruda realtà, finché non la vidi con i miei occhi: quasi per caso abbiamo scoperto alcuni bambini in un tombino, poco lontano dalla nostra abitazione. Appena sollevammo il coperchio fummo soffocati da un fortissimo tanfo di muffa ed escrementi; i bambini erano attorniati da un esercito di scarafaggi, rannicchiati in un angusto rifugio di pochi decimetri cubici, sotto il grosso tubo umido e semi arrugginito del riscaldamento, eredità della tecnologia russa, che si snoda e s’incrocia con cento altri tubi nelle viscere della città.
L’alta temperatura dell’acqua che vi scorre procura a quel rifugio un tepore sopra i 20°, che permette, bene o male, di sopravvivere e ripararsi dal gelo che, fuori, attanaglia le strade della città.
Oggi hanno trovato tra gli avanzi delle ossa semispolpate; domani non non lo sanno; forse non troveranno nulla tra l’immondizia di una città povera, non abituata a sprecare.
Ciò che abbiamo visto non è la scena di un pessimo film di fantascienza, ma la reale condizione di migliaia di bambini, molti dei quali in età prescolare, nella capitale più fredda del mondo, dove il termometro scende spesso a meno 35°.
Fuggono situazioni familiari insostenibili: padri ubriachi e violenti, famiglie disastrate, promiscuità, madri single o vedove, situazioni di miseria e degrado inimmaginabili.
Si radunano in branchi, come animali selvatici, ma non lo sono. Vorremmo fare sentire loro che sono esseri umani come noi; spiegare che sono nostri fratelli, figli dello stesso Padre. Ma ci assale un senso di impotenza: siamo ancora all’abc della loro lingua. Anche questo ci stimola a studiare con maggiore impegno per impararla più in fretta. Mentre questi bambini lottano per un osso spolpato, noi lottiamo contro un osso duro: il mongolo (vedi riquadro).
In tali rifugi, oltre al calore, questi bambini cercano un riparo per sfuggire alla polizia di cui hanno paura. Non sappiamo bene perché: ma quando riusciremo a comunicare meglio, lo sapremo.
Da quando è crollato il comunismo (il regime garantiva un minimo di sussistenza), anche i minori ingrossano le file di quei disperati che cercano nell’accattonaggio una possibilità per sopravvivere. Questi bambini vivono nella peggiore promiscuità con adulti alcolizzati, malati, emarginati. Alle sofferenze causate dal freddo, fame, mancanza d’acqua, sporcizia, si aggiunge la paura della violenza: questa può scoppiare spesso irrefrenabile tra ubriachi, adulti o ragazzi più grandi, che affogano la loro miseria in alcornol di pessima qualità e vodka mischiata a metanolo.
Durante il giorno, questi spettri emergono dai loro avelli alla ricerca di un po’ di cibo nella spazzatura; oppure raccolgono qualche bottiglia in vetro e oggetti di plastica da destinare al riciclaggio. In una giornata di lavoro si può raccogliere al massimo 3 chili di plastica, che fruttano 600 tugruk (45 centesimi di euro), quanto basta per comprare un litro di latte.

AFFETTI NEGATI

Questi bambini di strada sono spesso creature tenere, malate nel cuore per mancanza d’amore, che si contentano di un’esistenza che richiede un grande sforzo per chiamarla vita. Sopravvivono con ciò che riescono a guadagnare e la scarsa elemosina che riescono a succhiare da una città che non li ama.
Benché miserevoli e affamati, odiati e scacciati, difficilmente essi si danno alla delinquenza, né formano bande di piccoli rapinatori, come capita in altre latitudini. Ladri o gruppi di rapinatori sono piuttosto formati da adulti.
Eppure spesso la polizia li arresta e li rinchiude in orfanotrofi, oppure, seguendo le ultime direttive del governo, li riporta a quei «simulacri» di famiglie dalle quali erano fuggiti e da cui fuggiranno di nuovo, passando da miseria a miseria.
Anche la gente li accusa di essere dei criminali, lazzaroni, sfaticati, di preferire la strada al lavoro, un bene raro anche per gli adulti.
Un giorno, mentre portavamo una minestra calda a un gruppo di questi bambini, un vicino ci domandò dove andavamo. Più con i gesti che con le parole spiegammo che andavamo al tombino. L’uomo scosse la testa e con un gesto eloquente, come se imbracciasse un fucile, ci fece capire cosa avrebbe fatto lui a quei poveri infelici.

UN’ALTRA MINESTRA

«Vi piacerebbe studiare?» domandiamo loro. «Magari!» rispondono quelle guance rosee e sporche. Ma come sarà il loro futuro? Troveranno un lavoro? Se saranno fortunati di trovarlo, come potranno avere una vita dignitosa, se il mensile di un insegnante, un operaio, un medico è inferiore a 100 euro e il costo della vita continua ad aumentare?
Sono domande che sfidano anche il nostro futuro. Cominciamo a capire che non basta dare un piatto di minestra oggi e domani; ma bisogna elevare l’ambiente nella sua totalità. Dovremo aiutare i mongoli a cucinare un’altra minestra, con una grande quantità di giustizia, forti dosi di amore e comprensione, un bel pizzico di frateità…
Sarà necessario sforzarci di capire non solo la lingua, ma anche il loro modo di vivere, di esprimersi, di concepire la vita. Ed è quello che cerchiamo di fare giorno per giorno: orecchie dritte a scuola, per percepire gli strani suoni della loro lingua, e cuore aperto per conoscere e amare questo popolo e la sua cultura.
Dovremo impegnarci a cambiare l’atteggiamento della popolazione verso i loro figli più sfortunati e vulnerabili. Qualcuno ha già cominciato a vedere di buon occhio le organizzazioni caritatevoli, in maggioranza cristiane, che si occupano con fatica di questi bambini e di altre vittime dell’emarginazione.
La chiesa cattolica, presente in Mongolia da appena 12 anni, ha cominciato subito a mettersi al fianco dei poveri, specialmente dei bambini di strada. All’inizio un gruppo di missionari e missionarie portavano del cibo ai tombini; poi hanno aperto centri di accoglienza.
Nel 1997, padre Gilbert Sales, dei missionari di Scheut, iniziò nella capitale il Verbiest Care Center, sostenuto dal Centro internazionale cattolici missionari e dalle Pontificie opere missionarie: oggi accoglie 120 bambini fino ai 15 anni. «Andiamo a stanare questi piccoli disperati nei loro squallidi rifugi – racconta padre Sales – e li portiamo in un ambiente pulito, sano, pieno di allegria. Restituiamo loro una prospettiva di vita».
Filippino, 39 anni, padre Gilbert Sales è il primo missionario arrivato in Mongolia, assieme all’attuale vescovo, mons. Padilla.
Un’altra iniziativa del genere è portata avanti dai salesiani, che in due piccoli centri accolgono una quarantina di bambini. Il primo serve per la conoscenza dei bambini e dura un paio di settimane; dopo di che saranno loro stessi a chiedere di passare all’altro centro e iniziare a studiare.
Le suore di Madre Teresa hanno un centro di accoglienza per bambine e ragazze madri. «Le ragazze sono più difficili da trattenere che i bambini; vogliono la libertà a tutti i costi» confessano le suore.
Oltre al recupero dei bambini di strada, la chiesa ha avviato altre opere sociali: asili, scuole, centri di insegnamento d’inglese, musica, danza, ecc., progetti a favore di handicappati e carcerati.
«La vita nella capitale mongola – dice mons. Padilla – è caratterizzata da alcornolismo, violenza e condizione familiare debole e incerta. Ogni settimana provvediamo a fornire cibo e vestiti ad almeno 200 adulti allo sbando. La proposta cristiana entusiasma soprattutto i più giovani, che vedono un’alternativa più decorosa alla realtà attuale».

QUALE MISSIONE?

La sorte di migliaia di piccoli mongoli senza il minimo futuro, con l’incubo della fame, malattie, un’aspettativa di vita bassissima, ci interpella. L’impegno in attività di promozione umana potrebbe essere una priorità della nostra presenza in Mongolia. La chiesa locale e i missionari arrivati prima di noi ci aiutano a cercare il modo più efficace di inserirci nella realtà del paese.
In Mongolia siamo 51 missionari, tra padri, suore e laici di differenti congregazioni, paesi e continenti. Anche lavorare e vivere in comunione con loro fanno parte della nostra missione.
Non sappiamo ancora in quale città lavoreremo, né quale sfida accoglieremo. Di una cosa siamo certi: sull’esempio di Cristo, vogliamo lavorare perché tutti «abbiano vita e l’abbiano in abbondanza».
Ma per il momento continuiamo a rosicchiare l’osso duro della lingua mongola. Al tempo stesso, con la saggezza dell’umiltà e la forza della carità, ci lasciamo illuminare da tutte le persone di buona volontà che incontriamo sul nostro cammino, senza giudicare ciò che ancora non riusciamo a capire fino in fondo.
Ci sono di guida anche le parole di Giovanni Paolo ii: «La chiesa considera con sincero rispetto quei modi di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini».
(Fine prima puntata – continua)

Juan Carlos Greco