Quale economia? (1) La spesa pubblica non è una iattura

Una serie di organizzazioni italiane (ben 36, sia cattoliche che laiche) hanno scritto
una «finanziaria alternativa», che guarda ai diritti, alla pace, all’ambiente.
Cifre e obiettivi messi nero su bianco
ovvero quando i sognatori diventano concreti.

Tutti sanno cosa sia la finanziaria, ma pochi vanno al di là di un vago «stabilisce più o meno tasse». In realtà, con la finanziaria si decide una parte del futuro immediato di ognuno di noi (sanità, scuola, ambiente, famiglia, ecc.) e del paese nei confronti del mondo (spese militari, cooperazione internazionale, ecc.). Esattamente un anno fa scrivemmo un elogio della campagna «Sbilanciamoci», che studia numeri e proposte per una finanziaria «a favore dei diritti, della pace e dell’ambiente»; quest’anno dobbiamo ripeterci ed anzi ampliare i complimenti. Il lavoro fatto dalle 36 organizzazioni promotrici (sia cattoliche che laiche) è la dimostrazione che i sogni – diritti per tutti, pace, preservazione dell’ambiente – potrebbero tradursi in realtà concrete, se soltanto politici ed amministratori lo volessero.
Rimandando i lettori alla fonte originale per il dettaglio delle varie voci di spesa, per noi è importante ricordare alcuni dei principi su cui si fonda la finanziaria approntata da Sbilanciamoci.

Privilegi ed egoismo. «Nel dibattito politico di questi anni il tema della leva fiscale è stato strumentalizzato in modo ideologico e populista al fine di perseguire l’obiettivo della riduzione indiscriminata dell’imposizione fiscale identificata come un “male in sé”, una gabella “estorta” dallo Stato “inefficiente e sprecone”. Tanto più grave è ciò in quanto a farsene portatore è proprio chi questo Stato sta gestendo in maniera fallimentare, il ceto dirigente responsabile primo del dissesto della finanza pubblica, dello scadimento dei servizi, dell’appropriazione personale delle risorse pubbliche, della legittimazione dei peggiori comportamenti opportunistici.
Le imposte non sono mai buone o cattive in sé, ma lo sono solo e in quanto sono lo strumento che permette di far funzionare le nostre istituzioni e garantire ai cittadini quei servizi e quelle prestazioni che rafforzano la coesione sociale, lo sviluppo, il godimento dei diritti fondamentali anche da parte delle classi più disagiate. Senza risorse – e dunque senza un adeguato prelievo fiscale – non può esserci un Welfare che funziona ed adeguato alle esigenze dei cittadini, non possono darsi politiche di sostegno allo sviluppo e di aiuto alle regioni più povere, non possono essere messi nelle condizioni di operare i comuni – e più in generale gli enti locali e le regioni – nell’offerta dei servizi essenziali alla comunità e al territorio. Al contrario di chi attacca le tasse – e che ha in mente solamente i privilegi dei più ricchi e l’egoismo sociale – noi difendiamo il principio della contribuzione fiscale, come un principio di civiltà, di coesione comunitaria e di solidarietà».

La società non è un’impresa. «Ritorna oggi con forza una richiesta di equità e sicurezza sociale, di giustizia e regole cui non si può non dare risposta; il primato di un’economia deregolamentata e senza anima sociale è al capolinea; ci sono questioni di fondo che vengono poste: è la società che si deve comportare come un’impresa, o è invece quest’ultima che deve essere responsabile incorporando nelle sue valutazioni anche l’impatto sociale ed ambientale delle proprie azioni? O più in generale: è il mercato una produzione sociale – e quindi dalla società dipendente – o è la società ad essere subordinata al primo?
È in crisi questo modello di sviluppo, energivoro, consumistico, individualista, che può sopravvivere solo su una appropriazione sregolata di risorse, di produzione di diseguaglianze; ci sono dei limiti a questo sviluppo che sono dati da un ambiente che non si può massacrare, da una coesione sociale che non si può distruggere, da beni comuni dai quali dipendono la nostra sopravvivenza, che non potranno mai essere ridotti a merce. Gran parte del peso di questo nostro modello di sviluppo ricade sul Sud del mondo, al quale viene impedito di trovare la strada al proprio futuro, e sulle future generazioni, che rischiano di pagare con conflitti, povertà e degrado i nostri comportamenti.
In questo contesto si colloca la crisi del modello industriale che abbiamo sin qui conosciuto; per quanto ci riguarda possiamo propriamente parlare della scomparsa dell’Italia industriale. E non si tratta tanto dei cinesi che fabbricano più a buon mercato. Ci sono responsabilità specificatamente italiane di imprese che non puntano più sulla qualità, il lavoro, l’innovazione; di imprese che preferiscono puntare sui mercati finanziari e non sugli investimenti produttivi, che preferiscono risparmiare precarizzando il lavoro e non investire puntando sulla qualità e formazione dei lavoratori. È la logica del “mordi e fuggi” dei casinò finanziari, che il governo Berlusconi ha alimentato al massimo con le sue misure che – riguardandolo in prima persona – hanno indotto ogni imprenditore a credere che fosse ormai arrivato il momento di “prendere i soldi e scappare”. A partire dal sempre minore tasso di legalità e deontologia. Oppure le responsabilità di un settore pubblico che non fa più ricerca, che non ha più una politica industriale, che non fa programmazione, che non dà vere regole, che non pensa al welfare come strumento anche di sviluppo e coesione sociale.
Invece è proprio il ruolo del settore e dell’intervento pubblico che bisogna rilanciare. Dopo più di un ventennio di sbornia ideologica di mercato, liberismo e privatizzazioni, l’intervento e la spesa pubblica possono essere strumento di una vera economia diversa: la ricerca, il welfare, l’uso della leva fiscale, la programmazione, il controllo dei mercati e la reale regolamentazione della concorrenza, possono essere gli strumenti di un’economia sostenibile; non si tratta ovviamente di statalismo, ma di una sfera pubblica che attinge dalla dinamica del protagonismo degli attori sociali».

Non c’è tempo da perdere. La finanziaria 2005 del governo Berlusconi non contiene nulla di quanto propone la controfinanziaria di Sbilanciamoci. Ma un obiettivo importante questa l’ha ottenuto: dimostrare, conti alla mano, che una gestione alternativa dei soldi pubblici è possibile. E sempre più impellente.
Pa.Mo.

Paolo Moiola




Quale economia? (1) Crescita o decrescita?

CON QUESTI CONSUMI NON AVREMO FUTURO

«Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito
in un mondo finito è un folle, oppure un economista».

Ha scritto Alex Langer, il compianto ambientalista altornatesino: «Io mi chiedo se è vero che vogliamo stare meglio, quando quotidianamente facciamo di tutto per stare peggio. Cioè, facciamo una cosa sola: obbediamo ciecamente al mercato, al furore tecnico-economico che domina il mondo. Lavoriamo di più, più in fretta, più ansiosamente. Per che cosa? Già chiederselo è un miracolo, perché non c’è più tempo per chiederselo».
Il problema è posto: il bene collettivo e la felicità individuale sono in relazione diretta con la crescita economica? La risposta, almeno in Occidente, è quasi sempre stata «sì». Poi, davanti ai fallimenti del mercato, alle diseguaglianze sempre più forti, al degrado ambientale, alcuni studiosi hanno iniziato a ribaltare i termini del problema e a parlare di «decrescita» come proposta per uscire dal tunnel cieco dell’economicismo.
In tempi di esaltazione della «crescita», è normale che il termine opposto porti con sé una sensazione di negatività.
Scrive Serge Latouche in Obiettivo decrescita: «Pianificare la decrescita significa rinunciare all’immaginario economico, cioè alla credenza che “di più” significhi “meglio”. Il bene e la felicità possono realizzarsi a un minor prezzo. La saggezza afferma generalmente che la felicità si realizza nella soddisfazione di un numero sapientemente limitato di bisogni. La riscoperta della vera ricchezza nella pienezza delle relazioni sociali conviviali in un mondo sano può realizzarsi con serenità nella frugalità, nella sobrietà e addirittura in una certa austerità nei consumi materiali».

Paolo Moiola




MONGOLIA (3)Tra “Ethos” e “Daimon”

Come dialogare con i buddisti in Mongolia?
Da dove cominciare? Con quale linguaggio? Senza dubbio: con il linguaggio dell’amore e della carità.

La chiesa cattolica si prepara per estendere la sua azione fuori della capitale. «C’è molto da lavorare qui in Mongolia – dice il padre congolese Pierre Kasemuana, missionario di Scheut – e la tolleranza tra cattolici e buddisti è fondamentale per ottenere risultati concreti».
La presenza dei cattolici in Mongolia è numericamente esigua, ma molto apprezzata, anche dai buddisti lamaisti, che costituiscono il 90% della popolazione. Un obiettivo comune unisce le due fedi: dare un futuro alla nazione mongola, cominciando dai suoi abitanti più giovani.
Potremmo cominciare il dialogo leggendo insieme un testo, come il Canone buddista, che contiene molti brani condivisibili dai cristiani. Oppure potremmo scegliere la lettera di san Giacomo, che lo stesso Dalai Lama, per esempio, ha letto ed elogiato.
Questa lettera, in realtà, presenta varie somiglianze con alcuni testi della tradizione buddista, in particolare con quelli di scuola lojong (lett.: dimostrare la mente), i quali parlano, per esempio, di «tre livelli della fede» da conquistare successivamente e del dovere di tradurla in azione, dell’importanza dell’ascolto, «in contrapposizione al parlare», del controllo delle «emozioni negative», come l’ira.
È necessario dialogare per vincere fondamentalismi e intolleranze, che negano all’altro il diritto di essere differente e che, oggi, servono di pretesto per guerre e conflitti. Il teologo Hans Küng afferma: «L’umanità non sopravviverà senza una etica mondiale. Nel mondo, non ci sarà la pace senza dialogo fra le religioni».

DA DOVE COMINCIARE?
Il dialogo potrebbe cominciare da due parole dell’antica Grecia, quindi né cristiane né buddiste, ma che contengono concetti universali: ethos e daimon.
Il primo termine, ethos, richiama subito alla mente il concetto di «etica» (legge morale universale); ma il suo significato originario è piuttosto quello di dimora, abitazione umana. Non si tratta dei muri e tetto della casa; l’ethos indica quel complesso di relazioni che l’essere umano stabilisce con l’ambiente, da cui ritaglia lo spazio per la sua dimora, con i familiari per essere cornoperativi e pacifici, con un piccolo luogo sacro, dove si conservano le memorie più care, e con i vicini, perché ci sia mutua collaborazione e cortesia. In altre parole, l’ethos è il luogo dove l’uomo dà dignità alla sua esistenza.
Alla partenza da Roma, nel luglio del 2003, ci domandavamo come e dove sarebbe stata la nostra abitazione in Ulaanbaatar. Sapevamo che il vescovo aveva già affittato due appartamenti, uno per le suore e l’altro per noi padri. Ci aspettavamo di essere alloggiati almeno a un chilometro di distanza; invece ci siamo ritrovati nello stesso stabile, in due appartamenti sovrapposti. Ci troviamo bene: abbiamo scelto il luogo sacro comune (la cappella) e avviato il nostro ethos, cioè il nostro modo di essere missionari.
Per ogni missionario l’ethos è il mondo intero; nella pratica, però, diventa un luogo specifico, che per noi è la Mongolia. Essendo all’inizio, il complesso di relazioni con i mongoli è ancora complicato, ma non sarà difficile, poiché abbiamo già sperimentato che essi sono molto simpatici e aperti agli stranieri.
Ciò che fa della casa un ethos, cioè una dimora umana, un insieme di relazioni, è il daimon, che nel greco classico non è il demonio, ma il contrario: l’angelo buono, genio protettore. Socrate, per esempio, si lasciava orientare dal suo «demone»: lo chiamava «voce profetica dentro di me, proveniente da un potere superiore», o «segnale di Dio».
In ultima analisi, il daimon si identifica con la nostra coscienza, con quella voce interiore che suggerisce i nostri comportamenti, guida, dissuade o incoraggia altri elementi fondamentali del nostro essere: desideri, intelligenza, amore o potere.
Ancora prima di Socrate, il geniale filosofo Eraclito (500 a.C.) aveva unito i due concetti nell’aforisma 119: ethos anthrópo daimon, letteralmente: ethos all’uomo (è) daimon. Le interpretazioni di questo frammento sibillino sono molte. Nei tempi più recenti, il filosofo Martin Heidegger lo ha tradotto così: «L’uomo, in quanto uomo, ha la sua dimora in Dio»; invertendo i termini si può anche dire che «Dio è la dimora dell’uomo».
La fedeltà a questo angelo buono fa sì che abitiamo bene nella casa, quella individuale, nella città, nel paese e sul pianeta terra, la casa comune. Tutto ciò che facciamo perché si possa vivere bene insieme (felicità) è etico e buono; ciò che è contrario alla convivenza è anti-etico, cioè cattivo.

IL DIALOGO
Nel corso della storia, il daimon fu dimenticato, sostituito dai filosofi con sistemi etici, proposti come legge universale, e, negli ultimi secoli da ideologie, come marxismo e liberismo, che hanno ridotto l’etica a un affare utilitario, con conseguenze disastrose per la convivenza umana.
La Mongolia ne è un esempio. Per 70 anni satellite dell’Unione sovietica, in omaggio all’ideologia marxista-leninista fu proibita ogni pratica religiosa pubblica, i monasteri buddisti furono chiusi o distrutti, migliaia di monaci assassinati, molti altri perseguitati.
Da poco più di un decennio è ritornata la democrazia: nelle elezioni del 1996, la Coalizione della madrepatria democratica (Cdm) sconfisse il Partito rivoluzionario del popolo della Mongolia (Prpm), al potere nei precedenti 70 anni. Ma il popolo mongolo non sembra avere staccato totalmente il legame col partito comunista: nelle elezioni legislative del 2000 restituì il potere al Prpm e in quelle del giugno scorso ha diviso in parità i deputati mandati in Parlamento.
I governi che si sono succeduti in questi anni hanno abbandonato ogni atteggiamento antireligioso; anzi, hanno aperto le porte alle diverse religioni, pur imponendo certe limitazioni. Le chiese, per esempio, non possono esporre la croce fuori dell’edificio; nelle nostre scuole non possiamo avere segni religiosi; non è consentito fare manifestazioni religiose fuori degli edifici di culto.
Tuttavia, il dialogo con le autorità pubbliche è bene incamminato; le relazioni sono stabili. Senza dubbio, le autorità cominciano a capire chi siamo grazie all’impegno della chiesa verso i più bisognosi. Anche tale testimonianza è una forma di dialogo, fatto di gesti concreti, più eloquenti delle parole.
Quando parliamo dei poveri, ci troviamo in sintonia con i fratelli buddisti; pure i monaci, infatti, hanno opere a favore dei bambini di strada, degli anziani bisognosi, dei carcerati, dei giovani.
Inoltre, in Ulaanbaatar il buddismo asiatico ha la sede della Conferenza continentale per la pace. Anche sotto questo aspetto non è difficile darci la mano per leggere insieme i segni dei tempi e il grande libro della vita, nella ricerca della pace e dell’armonia.

PRESENZA DI FEDE E AZIONE
Dio ha piantato la sua gher (la tipica tenda rotonda) in mezzo alla Mongolia dei buddisti, degli sciamanisti, dei musulmani… e di noi cattolici, chiamati a lavorare in questa vigna del Signore nell’ultima ora.
Dice Simone Weil: «Ogni qualvolta una persona ha invocato con cuore puro Osiride, Dioniso, Budda, il Taho, ecc…, il Figlio di Dio ha risposto inviandogli lo Spirito Santo. E lo Spirito Santo ha agito sulla sua anima, non impegnandolo ad abbandonare la sua tradizione religiosa, ma donandogli la luce e, nel migliore dei casi, la pienezza della luce, all’interno di tale tradizione».
Come missionarie e missionari della Consolata in Mongolia, abbiamo bisogno di ascoltare la voce dello Spirito, per liberarci da preconcetti, paura del nuovo, occidentalismo, conservatorismo e da tutto ciò che ci impedisce di aprire le nostre tende e accogliere gli altri.
È lo Spirito che insegna il cammino del dialogo e la ricerca della pace. Tale cammino non può rimanere ristretto alle grandi conferenze, ma deve essere praticato ogni giorno, in casa, nelle relazioni familiari e nella convivenza con i vicini. Dio è amore e ci fa fratelli e sorelle nella ricerca dell’ethos perfetto, della «Terra senza mali», del «paradiso dell’armonia».
Per ora la nostra missione consiste nell’essere comunità di presenza, che si dedica ai lavori domestici (cucinare, lavare, stirare…), partecipa alla vita e alle attività delle comunità locali e, soprattutto, apre il cuore a futuri orizzonti.

BOX 1

IL MONDO RELIGIOSO DEI MONGOLI

Sciamanismo
È la componente più antica della cultura e della vita del popolo mongolo. È sopravvissuto al buddismo, che ne ha assimilato o inculturato vari elementi. Si è rafforzato durante il governo comunista, dal momento che non aveva né libri sacri da bruciare, né templi da distruggere. Oggi è praticato nelle zone rurali più remote.
Lo sciamano, circondato da un’aureola di rispetto e timore, è l’anello di unione tra vita terrena e mondo degli spiriti, grazie alla sua esperienza estatica (trance). Il suo ruolo è per natura benefico e la sua funzione molteplice. Lo sciamano è medico (diagnostica il male mediante il contatto con gli spiriti e lo cura con interventi diretti); è psicologo (con rituali e dialogo agisce sulla psiche del paziente); è sacerdote (offre sacrifici e compie riti sacrali); è divinatore (nell’esperienza estatica, rivela fatti sconosciuti del passato e previene il futuro; fa ritrovare cose o persone smarrite); è psicopompo (accompagna l’anima del defunto nella nuova dimora).
Dialogare con lo sciamanismo è dialogare con la realtà più profonda della persona mongola. Per noi missionari è pure una sfida: ci stimola a scoprire nuovi modi per diventare medici del corpo e dello spirito, per attuare la nostra dimensione sacerdotale e profetica, per essere guide delle anime verso la vita senza fine.

L’antico pantheon
Fino alla seconda metà del xvi secolo, i mongoli praticavano una propria religione, poi soppiantata dal buddismo nella forma lamaista; ma alcuni antichi elementi sono sopravvissuti.
Nelle sconfinate distese della steppa, dove il cielo rappresenta l’unica possibilità di orientamento, la stella polare determinava l’asse terrestre; sotto di essa c’era l’«ombelico» del mondo, dove aveva sede il «Signore dei mongoli».
Al cielo si volge lo sguardo dell’antico cavaliere mongolo: dal cielo scende la pioggia per i pascoli delle mandrie; il cielo è la sede della divinità suprema, Tengri (cielo), raffigurato come un cavaliere con vessillo e invocato come erketu Tengri (potente cielo) o koke mongke Tengri (eterno cielo azzurro).
Questo Essere supremo è alla testa di 99 figure divine, 34 delle quali individuate nella zona orientale della volta celeste e 55 in quella occidentale. A queste 99 figure celesti corrispondono 77 madri della terra, a volte raffigurate complessivamente nella sola Etugen, la madre terra.
Chagan Ebugen (bianco vegliardo), lo spirito delle mandrie e della fertilità, viene ritratto come un vecchio con vesti e capelli bianchi. Accanto alle divinità a cavallo, protettrici dei cavalieri, esistono divinità tutelari della casa, gli «dei di feltro», dal materiale con cui sono riprodotte le loro immagini. All’ingresso delle tende, erano posti gli ongon, spiriti protettori dell’abitazione, ai quali veniva offerto del latte.
Gli sciamani, sia uomini (boge) che donne (idughan), avevano la funzione di stabilire, tramite riti sacrificali ed estatici, un contatto con il mondo di tali spiriti e divinità.
Presso l’ovoo, un cumulo di pietre dove si riteneva si riunissero gli spiriti della natura, pastori nomadi e viaggiatori invocavano la protezione di queste potenze.

Aspettando Gengis Khan
Depositario di antiche e ricche tradizioni religiose, il popolo mongolo si è sentito investito della missione di creare un impero universale che riunisse tutti i popoli dei «quattro angoli», cioè dei quattro punti cardinali.
Tale credenza è rafforzata da antichi miti, riportati dalla Storia segreta dei mongoli, compilata nel 1240. Tali miti raccontano che i capostipiti del popolo mongolo furono «il lupo blu e la cerva selvatica»; il clan di Gengis Khan ebbe origini celesti; al momento della nascita, Temujin stringeva in pugno un grumo di sangue nero, simbolo di regalità. La leggenda lo presenta come «inviato dal destino», rivestito di poteri derivanti da Tengri, dio del cielo; dopo la morte è diventato una potenza celeste e il più nobile degli antenati.
Temujin (1155-1227), che nel 1206 prese il nome di Gengis Khan (khan oceanico, universale), è il fondatore del più grande impero che la storia ricordi: si estendeva dal Mare della Cina fino ai Balcani e al Golfo Persico.
Col passare dei secoli, nonostante che la Mongolia fosse diventata uno stato teocratico, basato sul buddismo lamaista, la memoria di Gengis Khan rimase radicata a livello popolare, grazie all’influsso degli sciamani. Il ricordo delle sue imprese ha assunto una dimensione mitica, fino a diffondersi la credenza nel suo ritorno e nella rinascita del suo impero. Ancora oggi, visitando le famiglie mongole, vediamo spesso un ritratto o disegno di Gengis Khan posto in bella mostra.

Ritoo a Karakorin
L’antica capitale del regno mongolo, era un grande centro culturale e commerciale in cui varie religioni convivevano in armonia. Secondo la leggenda, la città era il luogo sacro per l’iniziazione e la sede del «Re del mondo».
L’antica Karakorin non esiste più: sulle sue rovine, nel 1500 fu costruito il monastero di Erdene Zuu, il cui tempio è ritenuto la residenza del messia, quando questi farà ritorno sulla terra alla fine del kali yuga, cioè nell’ultima delle quattro ere del ciclo cosmico buddista. Ed è quella attuale, la più tenebrosa e oscura.
Nel secolo scorso, in concomitanza con la condizione di oppressione del popolo mongolo, si diffuse un’aspettativa messianica che prevedeva la riconquista dell’identità nazionale a lungo repressa. Tali speranze furono alimentate dal profeta altaico Chot Chelpan, che nel 1904 fondò un movimento di riscossa nazionale, basato sulle sue visioni: gli sarebbe apparso un cavaliere bianco vestito, che cavalcava un cavallo bianco, annunciandogli il ritorno di Oirot Khan, discendente di Gengis Khan, per porre fine all’oppressione zarista e ripristinare l’antico impero dei mongoli.
Per alcuni mongoli la profezia di Chelpan si è ridotta a una tenue speranza: vedere Karakorin, tra una decina di anni, capitale della Mongolia. Ma mancano i soldi per adattare, modeizzare e trasformare la città.
Speriamo anche noi: un giorno Karakorin potrebbe essere la terra che accoglie i missionari della Consolata.

Juan Carlos Greco




ITALIAIl brivido della missione

Con il terzo Convegno missionario nazionale la chiesa italiana si è messa in ascolto delle esperienze
di evangelizzazione delle chiese sorelle nei vari continenti e ha preso nuovo slancio per continuare il cammino del suo impegno missionario, nella comunione e corresponsabilità di tutti i battezzati.
Riportiamo la testimonianza di un prete cinese.

Oltre 1.800 delegati di diocesi, istituti religiosi, laici impegnati nell’evangelizzazione hanno partecipato al terzo Convegno missionario nazionale, tenuto a Montesilvano (PE) dal 27 al 30 settembre scorso.
Incentrato sul tema «Comunione e corresponsabilità per la missione», il convegno si è tradotto in uno «sforzo per disceere, verificare e dare nuovo dinamismo alle strutture di comunione per l’unica missione nella quale tutti i membri della chiesa e gli organismi sono impegnati», come afferma il messaggio finale alle chiese italiane, con lo scopo di «consolidare e dare nuovo slancio all’attività di evangelizzazione».
Nelle assemblee e lavori di gruppo, nelle conferenze e incontri di preghiera, sono riecheggiati come ritoelli alcuni principi fondamentali: la vocazione missionaria di ogni credente, in forza del battesimo; il ruolo imprescindibile del laicato nell’opera di evangelizzazione; la necessità di allargare lo sguardo oltre il proprio ambiente e i propri problemi, per salvare tutta l’umanità che attende ancora di incontrare Cristo e la sua buona notizia.
Per tutti i quattro giorni, è stato ribadito, come un chiodo fisso, che «solo in Gesù Cristo l’umanità può trovare e divenire quella famiglia quale Dio l’ha intesa nel crearla»; che «si parte in nome di Cristo e per proclamare e testimoniare Cristo», altrimenti si ritorna indietro alle prime difficoltà.
Grande spazio e risonanza hanno avuto le esperienze delle chiese in Africa, Asia e America Latina, in cui la fedeltà a Cristo e al suo vangelo ha spesso il martirio come sbocco naturale. Riportiamo, come esempio, la testimonianza di un giovane sacerdote cinese, per nove anni in prigione, ora studente in una università romana. Per motivi di prudenza, tralasciamo ogni dettaglio che possa ricondurre alla sua persona.

«Sono un sacerdote della Cina continentale. La chiesa cinese è strettamente legata a quella italiana, poiché a trasmetterci per primi il messaggio del vangelo sono stati i missionari italiani, come il francescano Giovanni da Montecorvino e il gesuita Matteo Ricci, due nomi che nessun cristiano cinese potrà mai dimenticare».
In Cina la chiesa ha vissuto la stessa esperienza di quella dei primi tre secoli in Italia: dalla prima trasmissione del vangelo a oggi, la persecuzione religiosa è stata una realtà sempre presente.
«Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani». Nell’anno del grande giubileo del 2000, il papa ha canonizzato 120 martiri cinesi, rappresentanti di una grande folla di testimoni uccisi durante la ribellione dei Boxer (1900).
Nel periodo della «rivoluzione culturale» (1966-1976), nella mia diocesi decine di fedeli, vescovi, sacerdoti, suore e laici, hanno testimoniato la fede con la propria vita. Il più eminente tra questi testimoni è un anziano laico: poiché si rifiutava di abbandonare la fede cristiana, fu ucciso davanti alla folla, immerso in acqua bollente.
Per diversi sacerdoti il governo comunista scelse una pena «meno dura»: furono rinchiusi in piccole gabbie come cani, dove non potevano alzarsi, né allungare le gambe, né soddisfare liberamente ai bisogni naturali. Molti hanno resistito per vari anni in tali condizioni, finché sono morti sotto una tortura così crudele.
Questo capitava oltre 30 anni fa. Attualmente, 2 vescovi, 15 sacerdoti e 2 diaconi della mia diocesi sono ancora in prigione a causa della loro fedeltà a Dio e al papa. Ancora oggi, il governo cerca con ogni mezzo di costringerli a rompere le relazioni con il papa e il Vaticano ed entrare nella cosiddetta «Associazione patriottica», una chiesa indipendente dal papa, creata dal governo.

Io stesso, accusato di aver organizzato dei pellegrinaggi, sono stato in prigione ripetutamente a causa della fede e della fedeltà al papa; l’ultima volta rimasi in carcere dal 1996 al 13 luglio 2002, quando, grazie alle pressioni della società internazionale, fui liberato, espulso dalla patria e pervenuto in Italia.
Si sa, la prigione è un luogo orribile dappertutto; ma le condizioni di vita in un carcere cinese sono inimmaginabili e indescrivibili: a parte la perdita di ogni libertà personale, le più fondamentali necessità per una vita umana diventano un problema. I pasti consistono di uno o due panini cotti al vapore (mantou) e senza le minime condizioni igieniche; la carne non la si vede quasi mai. Non si può fare un bagno.
In una cella sono rinchiusi fino a 30 persone. Si vive insieme a criminali di ogni genere: assassini, ladri, truffatori, sequestratori, venditori di bambini…, che si tormentano a vicenda, fino a picchiarsi senza pietà. Non esistono tra loro sentimenti di amore o compassione. Le violenze peggiori vengono dai condannati alla pena capitale. Altri sono diventati violenti e sfogano sui nuovi arrivati la loro rabbia per i tormenti subiti all’inizio della loro prigionia. Vendette che ho subito anch’io.
Non avevo mai fatto nulla di male in vita mia; eppure dovevo vivere insieme ai più crudeli assassini, condividere la stessa stanza, dormire sullo stesso letto, essere trattato come loro… Tutto ciò mi procurava dolore e rabbia: era una situazione che non riuscivo ad accettare.
Poi, riflettendo sulla mia vocazione e la mia vita, nella preghiera e nel ricordo della parola di Dio, mi sono calmato e ho maturato reazioni più serene: sentivo che stavo camminando sulla stessa strada percorsa da Gesù.

Avevo un gran desiderio di ricevere la santa comunione, perché Gesù rafforzasse la mia debolezza. Ma nelle carceri cinesi ciò è impossibile. Anzi, come prigioniero a causa della fede, i poliziotti mi guardavano con speciale attenzione.
I criminali comuni possono ricevere varie cose dai parenti; ai prigionieri politici, invece, non è consentito avere contatti con la gente estea, neppure con i familiari, tanto meno ricevere da loro alcunché.
Desideravo tanto celebrare la messa, ma era impossibile procurarsi del vino, dal momento che, secondo le usanze cinesi, uniche bevande che accompagnano i pasti sono la birra e una specie di grappa.
Finalmente qualcuno riuscì a farmi avere di nascosto un po’ di vino. Ero pieno di gioia. Lo stesso giorno, per la prima volta dopo anni di prigione, celebrai la santa messa. Certamente fu la più semplice delle liturgie mai celebrate in tutto il mondo, senza altare, né tovaglie, né calice, né patena, ma soltanto alcune gocce di vino in una mano e un pezzo di pane nell’altra.
Le lacrime mi scendevano dagli occhi: il Creatore dell’universo veniva nel mondo, ma per lui non c’era posto; per il suo sacrificio non c’era alcun altare, come sul Golgota; il Figlio di Dio si degnava di entrare nella nostra prigione, piena di peccati e di odio.
Consumai in fretta il corpo e sangue di Cristo, che gli altri guardavano come cibo e bevanda normale. Poi, in silenziosa meditazione, ripensai alcuni momenti della vita di Gesù che più assomigliavano all’esperienza che stavo vivendo in quel momento della mia esistenza.
Dopo quella celebrazione eucaristica, il mio atteggiamento mutò completamente: una grande pace invase il mio cuore; accettai pienamente e con gioia tutte le sofferenze causate dalla prigionia. In quel momento capii veramente le parole di Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e stanchi, e io vi darò sollievo» (Mt 11,28).

Con la pace del cuore, la mia vita quotidiana diventava relativamente più facile: potevo ridere, scherzare, dimenticare le preoccupazioni. Gli altri prigionieri trovarono strano che, da un momento all’altro, non fossi più depresso e quasi non sentissi più alcuna sofferenza. Ne approfittai per condividere con loro la mia esperienza, benché la legge cinese proibisca assolutamente di parlare del vangelo ai prigionieri.
Mi resi conto come queste persone, che avevano perduto ogni speranza nella vita, avessero bisogno della buona notizia di Cristo Gesù. Non era facile parlare a persone che mi avevano accolto con odio, mi avevano picchiato, che non sapevano che cosa fosse un sacerdote, che non avevano mai sentito parlare di Gesù.
Ma col passare del tempo, ci siamo conosciuti meglio, fino a entrare in confidenza e familiarità. I loro cuori pieni di odio sono cambiati. Dalle mie parole e atteggiamenti hanno capito che il sacerdote è una persona buona. Nelle conversazioni ho cercato gradualmente di fare conoscere la nostra fede, di illuminare il significato della vita e della morte, di trasmettere la speranza che avevo in cuore.
Quando parlavo di queste verità tutti i compagni di prigionia erano attenti e accettavano le mie parole. Da quel momento sono diventato il loro centro di attenzione. Ogni giorno presentavo segretamente qualche aspetto del vangelo.
Dopo alcuni mesi, il clima era completamente mutato: la pulizia era regolare, i prigionieri non gridavano, non bestemmiavano, non si picchiavano come erano soliti fare prima; anzi, essi cominciarono ad aiutarsi e incoraggiarsi a vicenda. Quando mi raccoglievo in preghiera, nessuno mi disturbava.
I poliziotti della prigione si meravigliavano e non riuscivano a spiegarsi che cosa fosse successo. Ogni volta che passava l’ispezione per controllare ordine e igiene, la nostra cella otteneva encomi e premi.
Il vangelo di Cristo aveva cambiato il modo di vivere di molti prigionieri, dava loro nuovo coraggio per diventare umani. Alla fine, alcuni di essi chiesero di essere battezzati e di fare parte della chiesa.
È superfluo dire che, nonostante la vita in prigione fosse dura, mi sentivo pienamente realizzato come sacerdote, nel constatare come, attraverso la mia presenza, molti funzionari e criminali avessero cominciato a comprendere la chiesa e il vangelo di Cristo.

Dopo 300 anni di persecuzione, la chiesa di Roma riacquistò la completa libertà. Anche la storia della chiesa in Cina è segnata da secoli di persecuzione, ma sono convinto che Dio stia preparando la sua liberazione. Come cristiani e cattolici, dobbiamo affrontare tanti problemi, eppure la chiesa cresce velocemente, più che in tanti paesi liberi.
Ciò che più sorprende è che, proprio durante la persecuzione, il Signore della messe ha inviato un gran numero di operai e che durante i 20 anni di apertura politica (dalla metà degli anni ’80) si è registrata una crescente fioritura di vocazioni. Il fervore dei giovani missionari cinesi è indescrivibile.
Con la grazia speciale di Dio, il numero di nuovi cristiani è aumentato in fretta. In un piccolo villaggio, per esempio, dove tre anni fa non c’era alcun cristiano, oggi quasi tutti i 3.000 abitanti sono entrati nella chiesa mediante il battesimo. La ragione di tale crescita non è dovuta soltanto al lavoro dei sacerdoti, ma ogni cristiano è diventato missionario attivo.
Persiste ancora la pressione del governo sui cattolici, ma essa ottiene l’effetto contrario: i fedeli si uniscono più strettamente alla chiesa, ne sostengono le iniziative e si assumono le responsabilità nel lavoro pastorale. I cattolici uniti al papa sono oltre 6 milioni, numero superiore ai seguaci della «chiesa patriottica». Siamo ancora come una goccia nell’oceano, rispetto alla popolazione totale del paese, che conta 1,3 miliardi di abitanti. Eppure sono convinto che, con la grazia di Dio e l’impegno dei suoi sacerdoti e fedeli, in un futuro non troppo lontano, la chiesa in Cina potrà godere di una libertà come non ne ha mai avuta. Allora, il gigante cinese spalancherà le porte a Cristo e diventerà una forza di pace per tutta l’umanità.

Benedetto Bellesi




BRASILEMa il sole non brilla ancora

Missionario della Consolata kenyano, studente
nel seminario di San Paolo, Daniel si prepara
alla missione collaborando alle attività parrocchiali nella favela di Heliopolis, il cui nome significa
«città del sole». Ma la realtà è ben differente.

È una delle 1.999 favelas con cui si espande la megalopoli di San Paolo. È nata nel 1970, quando alcune famiglie, rimosse dalla prefettura da un quartiere della metropoli brasiliana, per fare spazio a una grande avenida, si rifugiarono a sud della città.
Negli anni seguenti la favela si è ingrandita gradualmente, con l’arrivo di migrati provenienti dal nord-est del Brasile, in cerca di lavoro e nella speranza di una vita più dignitosa. Oggi, conta oltre 85 mila abitanti: è una delle più grandi favelas del Brasile. Di questa popolazione oltre 30 mila sono bambini in età scolare, tra i 7 e i 14 anni.
Afflitta da enormi carenze strutturali e sociali, oggi, Heliopolis (città del sole) è ben lontana dallo splendere suggerito dal nome: il 40% delle abitazioni non ha adeguate condizioni igieniche, con il conseguente dilagare di malattie d’ogni genere; oltre il 60% delle strade non è asfaltato; più di 250 famiglie vivono in baracche che rischiano di franare alla prima pioggia torrenziale; costruzioni di ogni tipo formano un labirinto in cui è difficile districarsi.
Povertà e disoccupazione sono all’origine di enormi problemi sociali: violenza, droga, fame, emarginazione, analfabetismo (14 milioni di brasiliani non sanno leggere né scrivere). Ai problemi locali, infatti si aggiungono gli squilibri che affliggono il resto del Brasile.
Pur essendo l’ottava potenza economica mondiale, il Brasile è il paese con la maggiore disuguaglianza al mondo nella ridistribuzione di ricchezza, concentrata in mano a pochi nababbi. Per cui, come dimostrano le statistiche ufficiali, oltre 32 milioni di brasiliani sono al di sotto della soglia della povertà e il 29% vive con meno di un euro al giorno.
I sociologi definiscono tale miseria «apartheid sociale»; e questa è ben visibile a Heliopolis. Per i più fortunati, cioè per chi ha un lavoro, il salario oscilla tra i 90 e i 400 euro al mese. La paga minima copre appena l’1% del cosiddetto «paniere» dei beni di prima necessità: ciò significa che migliaia di persone non guadagnano a sufficienza neppure per comprare gli alimenti.

Dal 1997 nella favela di Heliopolis lavorano i missionari della Consolata, da quando, cioè, si sono ritirati i missionari di un’altra congregazione religiosa.
Oltre alla necessità di assistenza religiosa alla popolazione, l’accettazione di questo nuovo campo di apostolato è motivata dalla vicinanza al seminario teologico: la favela offre un’opportunità ai giovani studenti di prepararsi concretamente alla missione.
Quando i missionari della Consolata incominciarono la loro presenza, Heliopolis non era ancora parrocchia, ma un’«area pastorale», organizzata in comunità cristiane di base, che cercavano di conciliare la loro fede con l’impegno sociale, la solidarietà e l’aiuto reciproco, lottando per la casa e altri diritti basilari.
Incontri di preghiera, celebrazioni eucaristiche, catechesi, novene, corsi biblici e altre attività religiose avvenivano in abitazioni private. Finché ci si è organizzati per trovare terreni e costruirvi spazi adeguati alle varie attività comunitarie.
Il 14 dicembre del 2003 l’«area pastorale» di Heliopolis è stata elevata a parrocchia e padre Ricardo Gonçalves Castro, dopo tanti anni di lavoro nella zona, è stato nominato parroco.
La parrocchia è dedicata a santa Paulina, la quale, nata in Italia, a 9 anni andò in Brasile, dove visse e morì, diventando la prima santa brasiliana che dedicò tutta la vita al servizio dei poveri.
La nuova parrocchia è composta da sei comunità: San Giuseppe Operaio, Santa Elisabetta, San Benedetto, Immacolata Concezione, Sant’Angela e Sant’Antonio. Quella di San Giuseppe è sede parrocchiale; la sua chiesa è stata una delle prime ad essere costruita, con l’aiuto di benefattori stranieri e la collaborazione della comunità.
La cappella della comunità di Santa Elisabetta, con l’adiacente centro sociale, è nata per l’iniziativa di gruppi del quartiere, che hanno comperato il terreno e offerto praticamente tutta la mano d’opera. Lo stesso coinvolgimento locale si è avuto anche con le comunità di San Benedetto e Sant’Antonio.
Sant’Angela, invece, ceduta alla parrocchia di Santa Paulina dai padri Oblati di San Giuseppe, era già una comunità matura, con cappella e centro sociale. Solo la comunità dell’Immacolata non ha ancora alcuna struttura e continua a radunarsi nelle abitazioni private.

Scopo della nostra presenza è, naturalmente, l’evangelizzazione e la promozione umana. Oltre al parroco e ai seminaristi, nella parrocchia di Santa Paulina lavorano due comunità religiose: le suore dell’Immacolata Concezione e le Francescane Angeline. In concreto, tale lavoro abbraccia tutte le normali attività di una parrocchia.
«I l lavoro missionario a Heliopolis richiede pazienza e tempi lunghi – afferma padre Ricardo, che da tempo vive nella favela -. L’organizzazione della parrocchia non è facile, anche perché la gente, abituata a vivere autonomamente, come comunità di base, stentano a inserirsi nella complessa organizzazione di una parrocchia. Ma a forza di insistere che la chiesa non è mia ma della gente, qualcosa si sta muovendo».
Molte responsabilità, infatti, sono affidate ai laici. Una volta al mese, i cornordinatori e animatori di tutte le comunità, si radunano insieme al parroco, ai seminaristi e alle suore per valutare il lavoro svolto, programmare e cornordinare le attività essenziali della parrocchia: catechesi, liturgia, cura degli anziani, infanzia missionaria, pastorale dei bambini, dei giovani e delle famiglie.
Esistono, poi, diversi gruppi e movimenti impegnati in varie attività religiose e sociali: gruppo delle donne, gruppi di preghiera, di studio della bibbia, di alfabetizzazione, di visite alle famiglie.
Ciò non significa che a Santa Paulina sia tutto rose e fiori. La partecipazione a incontri e attività è molto varia, anche perché si svolgono di sera, dopo una giornata di duro lavoro. Così pure la domenica: alcuni uomini lavorano anche nei giorni festivi; altri approfittano per riposarsi o per migliorare la propria casa.
Sorte migliore hanno le iniziative rivolte a donne, adolescenti e bambini. La pastorale dei bambini, che si occupa della loro salute, per esempio, è inserita nel programma a livello nazionale. Secondo le statistiche, il 41% dei bambini tra i 6 e i 14 mesi sono denutriti; uno ogni 16 muore prima di raggiungere i 5 anni, per malattie che possono essere prevenute.
A Heliopolis ci occupiamo dei bambini da zero a sei anni: una volta al mese essi vengono al centro sociale per essere pesati e nutriti; negli altri giorni, gli agenti di pastorale li visitano a domicilio. Il programma comprende pure la formazione delle mamme, per insegnare loro a proteggere la salute dei loro figli.
Il coinvolgimento delle comunità riguarda pure i mezzi per sostenere le loro attività. E bisogna dire che sono ingegnose: organizzano lotterie e bazar, cercano liberi contributi e donazioni di vario genere.

Il problema più grave di Heliopolis è certamente la violenza: la maggior parte degli assassinii sono provocati dai trafficanti di droga. Molta gente è coinvolta nello spaccio, non per scelta, ma come mezzo di sopravvivenza.
La chiesa cerca di rispondere alla sfida della violenza soprattutto con la catechesi familiare, che, dall’inizio dell’anno, ha subito una svolta significativa: stiamo coinvolgendo i genitori nella formazione religiosa dei loro figli. Sono essi che, in casa, danno lezioni di catechismo, con l’aiuto di un catechista, che visita regolarmente le famiglie. In tali visite si discute dei mezzi per difendere i più piccoli dai pericoli della droga.
Per ora ci sembra il metodo migliore. È impossibile prendere di petto i trafficanti: si rischierebbe la vita. La loro presenza è di per se stessa causa d’insicurezza, anche per noi seminaristi stranieri, almeno all’inizio: non essendo conosciuti da tutta la popolazione, si rischia di essere scambiati per trafficanti. Una volta raggiunte le comunità, ci sentiamo al sicuro.
Ad aiutarci nella lotta contro la violenza si è unito un organismo non governativo: l’Unione dei nuclei e associazioni di abitanti di Heliopolis (Unas). Da 5 anni, all’inizio del mese di giugno, Unas e comunità cristiane organizzano la «Marcia della pace» per chiedere la fine della violenza nella favela. Il motto dell’ultima manifestazione era: «La pace comincia qui».
La collaborazione tra chiesa e Unas comprende altre iniziative per migliorare la formazione di 1.100 ragazzi e adolescenti: per toglierli dalla strada sono stati creati spazi di incontro per il tempo libero; vengono organizzate attività culturali e sportive, come scuola di teatro e di pallone, dopo-scuola per supplire alle carenze dell’insegnamento statale.
Molte di queste attività per i più piccoli sono gestite dai giovani, preparati appositamente per tale responsabilità. Per i giovani, inoltre, organizziamo corsi di abilitazione per entrare nel mercato del lavoro, evitando così di cadere nelle maglie della droga.

Daniel Mkado Onyango




CIADLa cortesia di Dio

In Ciad si confrontano diverse religioni, le tensioni non mancano; piccoli, importanti passi vengono fatti.
Per scoprire che, alla fine, si può vivere insieme con rispetto e… simpatia.

Nei mesi trascorsi a Fianga, nel sud del Ciad, mi fu richiesto da parte del locale centro culturale giovanile di fare il punto sulle relazioni tra cristiani e musulmani in generale e, in particolare, nel Ciad. Una richiesta singolare, ma l’ho accolta volentieri, come una sfida. Non mi sono sottratto, soprattutto, perché si trattava di una richiesta fatta da giovani, che vivono in un ambiente assolutamente privo di mezzi per conoscere e consultare le fonti di informazione.
Il circolo culturale, composto da 170 studenti, dispone di una piccola biblioteca, messa insieme con l’aiuto dei padri della missione e organizza attività culturali con i modestissimi mezzi a disposizione.
La mia presenza in Ciad ha rafforzato in me la convinzione che la promozione della lettura, l’accesso all’informazione, il confronto di idee attraverso dibattiti e conferenze costituiscono una sfida sempre più urgente: la missione dovrebbe inserire queste attività tra le sue priorità.
Sia pure condotta con mezzi modestissimi e disorganizzazione impressionante, la scolarizzazione avanza anche nelle zone più recondite della savana. Ciò costituisce una grande sfida all’evangelizzazione.

PUNTINO NERO E CONTAGIOSO
Mentre preparavo la conferenza, si sono verificate alcune circostanze interessanti. Nel corso di una cena, offerta dai missionari all’imam e altri notabili musulmani del luogo, si ebbe modo di parlare di questa iniziativa e li si invitò a parteciparvi. Il direttore di una delle due scuole superiori di Fianga, un musulmano laureato in storia presso una delle università del Camerun, si è proposto di offrire il punto di vista musulmano su tale tema. Questo ha permesso un confronto simpatico e rispettoso, sia durante la preparazione immediata, sia nello svolgimento dell’incontro.
Con il termometro che oscillava tra i 41 e i 43 gradi, seduto sui banchi dell’area sacra, un folto gruppo di cristiani e musulmani (120 persone) hanno seguito la conferenza e partecipato appassionatamente al dibattito. Al termine mi è sembrato di cogliere gioia ed emozione, forse dovute al fatto di aver visto seduti fianco a fianco, laddove la domenica si mette la tavola dell’altare, un prete cristiano e un intellettuale musulmano. Essi parlavano tra di loro, con estremo rispetto, di divergenze, ma anche di possibili convergenze, non tanto sul piano dottrinale, ma almeno sul piano delle relazioni umane e di possibili prospettive comuni di azione.
Sono uscito da questa esperienza con la convinzione che una storia ormai lunga di rapporti cortesi e familiari tra missionari e imam stesse dando dei frutti che vanno nella giusta direzione, per offrire «uscite di sicurezza» a tutta la società planetaria, che si trova sempre più bloccata in vicoli ciechi.
Anche una sperduta missione nella brousse africana può e deve prendere posizione nei confronti delle fratture che portano il mondo verso conflitti sempre più aspri. Il microscopico puntino nero di Fianga non coltiva certo la pretesa di risolvere gli immensi problemi che ci agitano, ma può offrire il suo contributo esemplare e contagioso.
la tenda di abramo
Sulle relazioni tra cristiani e musulmani in Ciad, i vescovi hanno scritto interessanti documenti; ma le azioni concrete della chiesa ciadiana sono ancora più eloquenti. Tutte le attività di promozione umana nell’insegnamento, salute, cultura, sviluppo, movimenti giovanili, comunicazione sono messe a disposizione di tutti: cristiani, musulmani, animisti. Di più, all’interno di questi servizi e organismi della chiesa, spesso sono assunti dei musulmani, per lavorare a fianco dei colleghi cristiani.
La chiesa del Ciad ha creato strutture specifiche per favorire il dialogo interreligioso, specie quello cristiano-islamico, e può contare sulla competenza di alcuni esperti, come il gesuita Coudray, grande islamologo, profondo conoscitore della lingua araba, recentemente eletto prefetto apostolico di Mongo (Sudan).
A N’Djamena, inoltre, esiste un importante centro per l’incontro e il dialogo interreligioso, El Mouna, che pubblica una rivista di cultura (Carrefour), organizza conferenze e dibattiti, propone corsi di arabo e cura pubblicazioni sul tema.
Significativa è pure l’iniziativa della diocesi di N’Djamena di creare una parrocchia all’interno dei quartieri arabi della città, affidata al comboniano padre Renzo. Egli ha accettato con entusiasmo la sfida, anche se il lavoro è ancora tutto da inventare. Per il momento egli dispone di uno spazio recintato, coperto di stuoie, a cui significativamente ha dato il nome di «Tenda di Abramo».

IDENTIK MUSULMANO… O CRISTANO?
La gente cosa ne pensa, come vive concretamente le relazioni interreligiose? Nelle brevi visite ad alcune famiglie cattoliche di N’Djamena, ho ascoltato frequenti lamentele nei confronti dell’ex-arcivescovo e degli organismi ecclesiali di promozione umana: a loro giudizio, si occupano un po’ troppo dei musulmani. Sembrerebbe che i dirigenti della chiesa si trovino in una posizione più avanzata, rispetto all’insieme del mondo cattolico ciadiano.
Tuttavia, è nei quartieri popolari e nei villaggi che più frequentemente cristiani e musulmani vivono tutti i giorni gomito a gomito. È a questo livello che può nascere sia il maggior numero di conflitti, come il determinarsi di numerosissimi episodi di condivisione e aiuto reciproco.
Ne ho avuto la prova nel corso di un incontro tra i catechisti di Mokolo (Camerun), sul tema: «I punti di scontro, ma anche le cose belle che si possono mettere in evidenza nei rapporti tra cristiani e musulmani». Circa le motivazioni di contrasto, la maggior parte dei rilievi negativi non era di ordine dottrinale, ma nascevano su un terreno molto concreto: «Perché i musulmani non mangiano carne di animali, se non sono uccisi secondo un rito preciso? Perché vogliono imporre le loro osservanze a chi non condivide la loro religione?».
Tuttavia, le stesse persone, interrogate sugli aspetti positivi che potevano osservare tra i musulmani, hanno steso una lunga lista: tutti hanno riconosciuto il carattere di «oranti» che li contraddistingue; hanno sottolineato la loro obbedienza alla legge (religiosa) e la solidarietà in occasione di malattia o morte di qualcuno della loro comunità. Uno è arrivato a dire di aver visto un musulmano spogliarsi della sua gandura (sopravveste) per donarla a un portatore di handicap incontrato per strada.
Inoltre, lo stesso gruppo di cristiani ha riconosciuto come particolari virtù dei musulmani la fortezza, la pazienza, la ricerca della fedeltà a Dio, il compimento dei doveri religiosi, la preghiera… Tratti dell’identikit del vero cristiano!
In conclusione, la gente mantiene una posizione molto realista e pratica. Non è questione di sorvolare sui tanti motivi di scontro o sulle differenze, che rimangono sostanziali; se però si dà il tempo per andare a fondo, la gente è in grado di mettere in evidenza le ragioni di stima reciproca e di convivenza pacifica, talvolta carica di ammirazione.
Non sarà possibile praticare questo stesso metodo anche in Italia, sottraendo il discorso agli accesi dibattiti contrapposti (che non conducono a niente), per riportarlo nella zona più discreta degli incontri che escludono per principio polemica e contrapposizione?
TRE SFIDE
Il nord e il sud. Alcuni pensano che il sanguinoso conflitto che ha insanguinato il Ciad nel decennio 1980-90 sia scaturito dalla differenza religiosa tra la regione del nord e le province del sud. Tale semplificazione è negata dalle conclusioni di intellettuali di ambedue le sponde, raggiunte in un dibattito tenuto a N’Djamena e riportate in una recente pubblicazione.
È vero che la stragrande maggioranza della popolazione del nord è musulmana e quella del sud cristiana o di religione tradizionale, ma non esistono frontiere: da un capo all’altro del paese tutti si sentono fieramente ciadiani, anche se non tutti sanno con precisione cosa significhi.
Pur ammettendo l’esistenza di un certo antagonismo tra nord e sud, ci si domanda se esso sia dovuto alle diverse religioni praticate, o non piuttosto ad altri fattori molto più decisivi. Molti ciadiani pensano che il sanguinoso conflitto che ha scompaginato per troppo tempo il tessuto sociale del paese sia stato causato dalla spartizione e gestione del potere e che la religione sia stata utilizzata dai diversi partiti e personalità in lotta come elemento catalizzatore per affermare i propri interessi.
Per capire la vera posta in gioco di tale conflitto, una chiave di lettura possono essere le controversie tra i nomadi allevatori di bestiame del nord, in prevalenza musulmani, e gli agricoltori sedentari del sud, prevalentemente cristiani o di religione tradizionale: i loro frequenti scontri non sono di natura religiosa, ma piuttosto conflitti di interessi.

Cittadini in una casa comune. La ripartizione della popolazione ciadiana tra islam, cristianesimo e religione tradizionale è un dato di fatto. È certo che i sanguinosi avvenimenti della guerra civile (1980-90) hanno portato le diverse etnie a raggrupparsi, spartendosi il territorio. Tuttavia, esse sono condotte a interagire in maniera sempre più frequente.
Se tutti questi sono cittadini a pieno diritto, quale forma dovrà darsi questo stato perché ognuno si senta in casa propria? Trovo la risposta in un’affermazione dell’ex-presidente del Senegal, Abdou Djouf: «Occorre riconoscersi come un paese di tolleranza e laicità attiva, capace di darsi una Carta costituzionale che assicuri a tutti la libertà di coscienza e il libero esercizio della religione».
Solamente attraverso il dialogo, il rispetto dell’altro, la neutralità dello stato sarà possibile costruire la casa comune, che deve essere il Ciad per tutti i suoi cittadini.

Il bilinguismo. Gli anziani del Ciad si sono interrogati a lungo su questo problema: «Come nostra lingua ufficiale, dobbiamo riconoscere l’arabo, la lingua del Corano, oppure continuare a utilizzare il francese, la lingua del colonizzatore?».
È probabile che le nuove generazioni ciadiane si trovino avvantaggiate, rispetto agli anziani, per sbarazzarsi con maggiore facilità di pesanti eredità, che rallentano il passo verso profondi cambiamenti. Occorrerà, per questo, desacralizzare la lingua araba e considerarla (come essa è in realtà) un importante mezzo di comunicazione, sia all’ interno che all’esterno del paese, con una frazione importante della popolazione mondiale.
Il bilinguismo non è un problema, ma una risorsa. D’altra parte, si pone il problema di come utilizzare l’immenso patrimonio linguistico del Ciad ai fini di una vera comunicazione tra le etnie che lo compongono. Le giovani generazioni, coinvolte negli attuali processi di globalizzazione, grazie alle loro particolati propensioni poliglotte (in Ciad si sono catalogate 300 lingue), non si fermano certo alla conoscenza di due lingue. Discutere di bilinguismo, forse, è tempo perso.

GIOVANI: SEGNO DI SPERANZA
Nel breve soggiorno a Fianga, ho avuto la fortuna di visitare la località di Gamba, un grande villaggio della brousse profonda. Mi sono reso conto che il villaggio era formato da diverse etnie concentrate, in maniera equilibrata, nei diversi quartieri: toupouris, moundangs e foulbes. Da un punto di vista religioso, la popolazione si distribuisce tra seguaci della religione tradizionale, cristiani (cattolici e protestanti), musulmani. Si tratta di un microcosmo, pluralista sotto tutti gli aspetti. Ciò non impedisce a chi vi abita di condurre una vita tranquilla.
Vivendo insieme sul filo delle generazioni, la gente, pur connotata da grandi differenze, ha trovato un linguaggio comune e regole di comportamento sociale non scritte, ma osservate da tutti.
Guardavo con soddisfazione la sfilata dei giovani del villaggio che si dirigevano tutti insieme verso la stessa scuola: una di quelle «case comuni» dove si sta forgiando il cittadino del futuro. Impossibile distinguere tra di loro chi era toupouri e chi moundang, chi cristiano e chi musulmano. Erano semplicemente dei giovani.
A questo proposito, alcuni musulmani ciadiani, organizzati in un’associazione per il dialogo tra giovani appartenenti a diverse religioni mi dissero: «Noi invitiamo tutti i politici a una presa di coscienza, per evitare tutto ciò che può contribuire a creare una divisione tra i giovani, i quali hanno imparato a familiarizzare tra di loro, a conoscersi e amarsi. Ci dà fastidio sentire parlare ancora di nord e sud, di musulmani e cristiani».

In occasione della festa del montone, chiamata localmente tabaski, avevo accompagnato il parroco di Fianga in una visita al grande imam, che ci invitò a unirsi a lui per fare gli auguri al sottoprefetto e a varie autorità locali. Verso la fine del ricevimento, in casa del sottoprefetto, l’imam recitò la preghiera della fatiha (prima sura del Corano) per la città e le autorità locali. Con nostro grande stupore, terminata la sua preghiera, ci invitò a fae una cristiana per gli stessi scopi. Il Padre nostro che recitammo fu seguito in rispettoso silenzio da tutti i presenti.
Alla fine del giro, arrivati di fronte all’abitazione dell’imam, questi ci invitò a entrare, perché anche a casa sua non mancasse la nostra preghiera cristiana, per invocare su di lui e la sua famiglia la benedizione di Dio.
Restai profondamente colpito da questi gesti, che manifestavano una grande apertura di spirito: gli uomini religiosi, se sono tali, non possono non essere rispettosi. La cortesia è il segno di Dio, perché è lui stesso cortese e misericordioso verso tutti.

BOX 1

ANIME DELL’ISLAM
L a presenza dell’islam in Ciad cominciò nel 1090, quando un musulmano salì al trono di Karen. Per alcuni secoli, fu professato dalle persone prossime alla corte reale e uomini di lettere. L’inizio di una vera islamizzazione delle campagne iniziò nel secolo xvii. L’islamizzazione del Ciad si svolse in forma piuttosto pacifica, anche se si legò alla tratta degli schiavi, a spese delle popolazioni non islamizzate. Ma, dal momento che un musulmano non poteva essere fatto schiavo da un altro musulmano, molti si convertirono all’islam per evitare la riduzione in schiavitù.
Con la colonizzazione (inizio 1900) il rapporto di forze tra il nord (a maggioranza musulmana) e il sud venne rovesciato in favore di quest’ultimo. Le popolazioni meridionali, di religione tradizionale, si trovarono in posizione difensiva, a volte di aperto conflitto con quelle del nord, e, dopo pochi decenni di dominio coloniale, incominciarono ad aprirsi verso il cristianesimo: dapprima verso le chiese protestanti, poi verso la cattolica.
Dal punto di vista religioso, attualmente la popolazione del Ciad potrebbe essere così divisa: su 5,5 milioni di abitanti, 2,9 milioni (il 53%) si considerano musulmani;1,4 milioni (25%) sono cristiani; 1,2 milioni (22%) di religione tradizionale.

I n campo musulmano, esistono tre tendenze:
– islam delle confrateite: più tradizionale e con forte radicamento popolare;
– islam riformista: di tendenza wahabbita (Arabia Saudita), più radicale e, talvolta, molto critico verso l’islam delle confrateite;
– islam delle élites modee: presente soprattutto tra gli studenti delle scuole superiori e la classe insegnante aperta al nuovo; ma senza rinunciare al radicamento nella religione musulmana.

Giuliano Vallotto




HANDICAPDiversamente abili

Durante il 2003, dichiarato «Anno europeo delle persone disabili», furono messi in luce i diritti alla partecipazione, all’uguaglianza
e alla dignità delle persone portatrici di handicap. I loro problemi rimangono; l’impegno civile nei loro riguardi deve continuare.

Non è per cavillosità, né per porre questioni oziose che mi soffermo sul termine handicap. Il nome è un suono-simbolo, attribuito alle cose nel momento stesso in cui le collochiamo dentro un definito sistema di riferimento, che siamo soliti chiamare cultura, tradizione, civiltà.
Non sono poche le difficoltà per la creazione di una reale cultura dell’handicap; tuttavia, per capire il senso di questo termine che con troppa faciloneria affibbiamo ad alcune (o forse troppe) persone, è importante cogliere il sistema di riferimento di cui fa parte.
Con questo vocabolo, pronunciato per lo più tra la compassione e il disprezzo, si intende una persona «diversa» dalle altre, nel senso che la si ritiene inferiore, dal momento che la persona che ne è affetta, è impedita nello svolgimento delle sue normali funzioni di vita sociale o professionale.
Il vocabolo di origine anglosassone, entrato nel gergo sportivo, indica una regola di gioco che, per compensare disparità e disuguaglianze, attribuisce a ciascuno dei contendenti vantaggi e svantaggi a seconda delle loro qualità.
Riferita all’uomo, la parola handicap vuol significare la parte, per definizione e per principio, non vincente dell’umanità nella competizione della vita, in stato di infermità, di limite. Ma è bene richiamare l’attenzione sulla distinzione che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) fa tra «menomazione», «disabilità» e «handicap», specificando che ognuno di questi termini è onnicomprensivo di tutti gli altri, quali invalido civile, di guerra, per servizio, ecc.
Secondo la Classificazione internazionale degli handicap, emanata dall’Oms nel 1981, nell’ambito delle evenienze inerenti alla salute è menomazione qualsiasi perdita o anormalità di una struttura o di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica; per disabilità si intende qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a menomazione) della capacità di compiere un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano; con il termine handicap viene indicata una condizione vissuta da una determinata persona in conseguenza di una menomazione o disabilità, che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio di quella persona, e ciò in base a età, sesso, fattori culturali e sociali.
In sostanza, l’handicap rappresenta la socializzazione di una menomazione o di una disabilità e, come tale, riflette le conseguenze culturali, sociali, economiche e ambientali che per l’individuo derivano dalla presenza della disabilità.

STORIA E CULTURA OGGI
Nel secolo xviii era ancora radicata la tendenza alla segregazione, soprattutto in grandi ospedali. Ma sotto l’influsso dell’illuminismo e della rivoluzione francese, il problema ha avuto modo di svilupparsi gradualmente, grazie a un maggior interesse medico scientifico. Oggi c’è più interesse per l’aspetto legislativo, ma rimangono inalterati criteri e atteggiamenti discriminanti. Nel contempo, è altresì diffusa l’opinione che considera le menomazioni come conseguenza di gravi colpe da parte dei familiari.
Questa situazione, particolarmente pesante e difficile è aggravata dalla cosiddetta «cultura d’oggi», ovvero il mito del bello e della produttività, che crea sempre nuovi soggetti handicappati: la persona che non rientra nei canoni estetici di bellezza ed efficienza viene emarginata. Ma la persona con handicap, comunque, proprio perché è anch’essa umana e non di «un’altra specie», costituisce sempre un caso a sé, unico e non standardizzabile.
Con il passare degli anni il problema ha assunto, soprattutto dal dopoguerra in poi, importanza mondiale con la Dichiarazione dei diritti degli handicappati, adottata nel 1975 dall’Assemblea generale dell’Onu, e con la Risoluzione del 1980 che proclamava il 1981 Anno internazionale dell’handicappato.
Sono testi che sottolineano il diritto del fanciullo minorato a ricevere un’educazione, al pari dei suoi coetanei cosiddetti «normodotati». Per diversi anni, queste iniziative costituirono solo lo spunto per petizioni di principio, senza possibilità di concretizzarsi.

LE STATISTICHE
Attualmente vi sono nel mondo 500 milioni di disabili fisici, mentali e sensoriali, di cui circa 300 milioni in paesi in via di sviluppo. Nella Comunità europea i disabili sono quasi 40 milioni, mentre in Italia mancano cifre attendibili sulla «vera» consistenza numerica delle persone colpite da minorazione fisica o psichica. Lo scandalo dei «falsi invalidi» di alcuni anni fa, ne ha alterato il numero e l’attendibilità. Tuttavia, anche se un vero e proprio censimento non è mai stato fatto, si può ipotizzare che le persone con disabilità ammontino a circa il 4-5% dell’intera popolazione.
Essendo queste cifre di carattere approssimativo, è evidente l’impossibilità di stabilire con esattezza il numero delle persone disabili presenti nella Ue; e ciò è dovuto anche alla diversa definizione che gli stati membri danno dell’handicappato. Si è formata così una sorta di «lista di attesa» di circa 20-25 milioni di vittime di guerra, infortunio, malnutrizione, oltre che di patologie varie.
Secondo l’Oms, almeno una persona su dieci risulterebbe colpita da turbe della sfera psichica a un certo periodo della propria esistenza. Gli incidenti che si verificano nell’ambito domestico sono oltre 20 milioni; oltre 100 mila persone rimangono invalide permanentemente; mentre in Italia nascono ogni anno 15-20 mila bambini con malformazioni congenite, in alcuni casi per tardiva o errata diagnosi.
Il «pianeta handicap» è un fenomeno che non accenna a diminuire; anzi, secondo gli esperti sembrerebbe in espansione. Eppure, alla luce delle conoscenze odiee, oltre il 65% delle malformazioni potrebbe essere abbassato con accorgimenti tali da contribuire a evitare, o almeno ridurre sensibilmente, la nascita di bambini handicappati.

SOSTEGNO ALLA FAMIGLIA E
«DOPO DI NOI»

Circa il 15% delle famiglie italiane è direttamente interessato al problema della disabilità. Per il disabile grave, come per ogni altra persona con problemi di salute, la vita con i genitori può risultare efficace e più completa la soluzione dei bisogni assistenziali. Ma molte di queste famiglie hanno spesso bisogno di concreti sostegni, soprattutto quando i genitori dei disabili invecchiano o a loro volta si ammalano.
Il problema che più li «preoccupa» è l’incertezza del «dopo»: dopo la nascita di un bambino disabile; dopo un trattamento riabilitativo, dopo la scuola, dopo la formazione, dopo la morte dei genitori… In queste famiglie, per non poter avere una «certa» sicurezza relativa alle varie tappe esistenziali che il proprio figlio dovrà affrontare, si fa strada un senso di sfiducia nei confronti dei servizi, ma anche di viva preoccupazione. Si rende quindi utile attivare appropriati programmi di integrazione, per garantire la presa in carico e per giungere ad individuare e mettere in atto politiche a sostegno della famiglia e del «dopo di noi».
Secondo il Programma di azione del governo riguardante le politiche dell’handicap per il quadriennio 2000-2003, sono state previste alcune azioni: sperimentare programmi d’intervento precoce verso il bambino disabile e a sostegno della famiglia; creare opportunità dirette e indirette per potenziare le risorse e il loro utilizzo per favorire l’adattamento positivo della persona handicappata; semplificare le procedure di accertamento dell’invalidità civile; avviare il riordino delle provvidenze economiche necessarie secondo determinati principi.
Per quanto riguarda la residenzialità si rende opportuna la programmazione di un apposito progetto che preveda ulteriori opportunità per una vita extra familiare, anche come bisogno esistenziale del disabile, mantenendo un sistema di autonomia con i suoi stessi genitori.
A tale scopo possono essere utili interventi come la destinazione del 2% di alloggi residenziali ai disabili e dell’1% ai servizi sociali degli enti locali, alle strutture di riabilitazione, alle Rsa (Residenze sanitarie assistite); la definizione delle strutture di rilevanza sanitaria e sociale; l’istituzione di almeno una Rsa (20 posti) o piccola comunità (residenza protetta) ogni 50 mila abitanti; realizzazione di progetti di residenzialità programmata a carattere socio-assistenziale ed educativo…
Ulteriori interventi previsti dal Programma di azione del governo riguardano il problema della mobilità, ovvero luoghi e mezzi senza barriere, affinché la persona disabile possa muoversi agevolmente e con maggiore autonomia possibile. Particolari suggerimenti prendono in considerazione azioni volte al miglioramento del trasporto pubblico e privato; ampi interventi riguardano la realizzazione di maggiori opportunità nell’accesso allo sport, alle attività culturali e turismo.
Una legge del 1998 ha assegnato al ministro per la Solidarietà sociale di promuovere e cornordinare il sistema d’informazione sull’handicap, sui servizi e soluzioni tecnico-organizzative, nonché la promozione di indagini statistiche e conoscitive sull’handicap.

Eesto Bodini




BOLIVIA – incontro con il presidente Carlos Mesa: «Se i popoli tornano proprietari»

INCONTRO CON IL PRESIDENTE CARLOS MESA

A chi appartengono le risorse naturali? In Argentina, hanno venduto tutto
ai tempi di Menem. In Venezuela, se lo stato non fosse il padrone delle risorse petrolifere, non si sa cosa sarebbe successo. In Bolivia, le rivolte popolari hanno mandato a casa un presidente che voleva svendere le ricchezze del paese, calpestando i diritti dei legittimi proprietari. Il sostituto, Carlos Mesa Gisbert, sta cercando di arginare l’arroganza e la voracità delle multinazionali petrolifere. Ma non è facile. Lo abbiamo incontrato a La Paz, capitale del paese latinoamericano.

LA PAZ – Nell’accogliente Plaza Pedro Domingo Murillo si trova tutto: la cattedrale metropolitana, il Congresso, il palazzo presidenziale. L’appuntamento è in quest’ultimo, per mezzogiorno. Alto ed elegante, il presidente boliviano Carlos Mesa ci accoglie nel suo studio con puntualità svizzera.
Pare una persona gentile e disponibile, forse memore di essere stato un giornalista televisivo e quindi abituato ai rituali delle interviste (1).

Presidente Mesa, dal 18 ottobre 2003 lei è alla guida della Bolivia. Perché ha accettato? Non ha timore di rimanere travolto dai tanti problemi di questo paese?
«Ho accettato perché mi ritengo una persona che ha preso un reale impegno verso il paese. Sono consapevole che essere presidente della Bolivia è un compito gravoso, perché si è continuamente sottoposti a pressioni enormi, ricatti, minacce. E poi ci sono una serie di domande che si sono storicamente accumulate e rispondere a queste è realmente molto difficile. Allora – lei mi chiede – perché ho accettato la candidatura alla presidenza? Perché ho pensato che, dopo il governo di Sánchez De Lozada, potevo contribuire a ridare prestigio a questa carica, aiutato dal fatto che io non ho mai fatto politica».

Lei non ha mai fatto politica… Infatti, non ha un partito politico alle spalle, né una chiara maggioranza parlamentare che lo sostenga…
«Questo è un dato di fatto. D’altra parte, il paese ha assistito alla crisi dei partiti politici, soprattutto per quanto riguarda la loro credibilità. Quindi, era impossibile affidarsi ad essi, in particolare nella prima fase. Certamente, sul lungo periodo un governo senza partiti non riesce ad avere un orizzonte davanti a sé. L’importante è analizzare con chiarezza le cose».

In Italia si è parlato molto della Bolivia nei mesi passati a causa del problema del gas. Potrebbe spiegarci, in poche parole, i termini della questione?
«La Bolivia è un produttore molto importante di gas. La capitalizzazione (2), iniziata nel 1994, ha permesso di aumentare enormemente la quantità prodotta. C’è quindi un grande orizzonte economico di esportazione e trasformazione del gas. Quali sono i problemi? Primo una difficoltà storica iniziale, dovuta alla rivendicazione della Bolivia di avere un proprio accesso al mare. Al momento l’esportazione avviene attraverso un porto cileno senza sovranità e questa è una questione che metterò in agenda. In secondo luogo, la maggioranza del popolo boliviano non vorrebbe vendere il gas al Cile, finché questo paese non darà una risposta favorevole alla questione di un nostro sbocco al mare. Questo fatto crea problemi per l’esportazione di gas verso il Messico e verso gli Stati Uniti. Più facile è esportare gas in Argentina e in Brasile, al quale già lo vendiamo.
Oltre a parlare di esportazioni, dobbiamo iniziare a beneficiare direttamente del nostro gas, utilizzandolo come fonte energetica domestica e sostituendo le macchine a benzina con macchine a gas. Tutto ciò significa incentivare una trasformazione e industrializzazione del gas in loco».

Concretamente, cosa sta facendo il suo governo?
«Stiamo studiando una nuova legge degli idrocarburi che aumenti le imposte delle imprese transnazionali in modo che la Bolivia possa beneficiare di maggiori entrate. Ripeto: è necessaria una nuova politica energetica globale per il nostro paese. Questo significa che vogliamo esportare il gas, ma anche industrializzarlo e darlo ai boliviani come fonte energetica».

Si può frenare l’invadenza e l’arroganza delle imprese petrolifere? Non è facile credo, no?
«Non è facile, perché le industrie petrolifere hanno firmato dei contratti quando vigeva la legge che noi ci stiamo apprestando a cambiare e ora pretendono che noi rispettiamo quegli impegni».

Quali sono i fondamenti sui quali volete costruire la nuova legge per gli idrocarburi?
«Quello che noi vorremmo è un sistema di imposte più giusto. Questo passa anche attraverso la sicurezza e la stabilità politica della Bolivia. Se non riusciamo a raggiungere un equilibrio, non sarà facile dimostrare alle imprese transnazionali che i contratti precedenti non erano giusti né per i boliviani, né per loro.
Stiamo presentando le nostre proposte di modifica sia alle compagnie petrolifere che al parlamento. Lavoriamo su una proposta di legge, che vuole combinare una garanzia di sicurezza per chi investe (le imprese) e un ritorno economico per il nostro paese. È una contrattazione aperta».

Le province dove si estrae il gas vogliono contare di più. Esiste un pericolo separatista in Bolivia o sono invenzioni?
«Non credo che siano tutte fantasie, ma non credo neppure che esista un vero progetto separatista. Credo invece che ci sia una forte domanda di autonomia di quei dipartimenti in modo che possano amministrare le proprie risorse, gestire le proprie politiche senza con questo rompere con lo stato boliviano. Insomma, la logica non è separatista, ma c’è un’esigenza molto forte di autonomia».

Lei non nega il problema dell’accesso al mare e la storica controversia con il Cile. È possibile risolvere questo problema? Esiste una soluzione concretamente fattibile?
«Certo che esiste una soluzione! Ed è anche molto più semplice di quello che si vuole far credere. Prima però si deve far capire al mondo che il problema esiste ed è reale. La Bolivia ha posto questo problema a livello internazionale, poiché il Cile sostiene che la questione non esiste e non ci sono rivendicazioni pendenti. Invece è un dato di fatto storico che ci siano rivendicazioni pendenti e che esista un problema di sovranità. Esiste d’altra parte la nostra volontà di arrivare a un negoziato con il Cile ed anche con il Perù, perché la Bolivia crede che debba aver un accesso libero, diretto e sovrano all’Oceano Pacifico.
D’altra parte, noi non stiamo chiedendo di avere indietro tutti i 400 Km di costa che abbiamo perso nel 1879. Semplicemente vogliamo avere un porto dal quale poter esportare i nostri idrocarburi, qualora ce ne fosse bisogno. Il tema, pertanto, si riduce ad una piccola porzione del territorio cileno. Tra l’altro, in base agli accordi del 1955, su questo tema anche il Perù ha qualcosa da dire. In conclusione, la Bolivia è disposta a dialogare e ritiene anzi che la sua pretesa attuale sia molto più modesta di quella che invece fu la reale perdita storica».

Lei gode di un buon appoggio popolare. Ora però deve affrontare una situazione economica grave, con un deficit pubblico che è quasi al 9%. Come si può risolvere questo problema senza colpire nuovamente i più poveri?
«Noi abbiamo proposto una redistribuzione della tassazione il cui obiettivo è proprio quello di non toccare i più poveri e colpire invece il settore delle transazioni finanziarie, delle banche e degli istituti di credito. In Bolivia, l’accesso alla finanza è ristretto alla classe media e a quella alta. La gente povera non ha accesso al sistema finanziario e quindi non può venire colpita in nessun modo da queste misure.
Insomma, tutte le nostre misure economiche evidenziano una forte attenzione nei confronti della popolazione più povera. Quanto al nostro deficit, contiamo anche sull’appoggio internazionale per riuscire a colmarlo».

Continuiamo a parlare di povertà, presidente Mesa. La Bolivia è un paese potenzialmente ricco, ma nelle classifiche inteazionali è immediatamente dopo Haiti nell’elenco dei paesi più poveri. Esiste una soluzione a breve?
«Una precisazione: quando si usano le statistiche, è meglio avere dati aggioati. I suoi sono un po’ vecchi, dottor Moiola. Adesso siamo davanti al Nicaragua, all’Honduras e alla pari con il Guatemala: non che questo sia un motivo di vanto, ma è giusto essere precisi.
Dunque, come implementare una politica di lotta alla povertà? Innanzitutto con il dialogo nazionale a partire dalla base, dal livello dei municipi, sviluppando il dialogo sociale. Perché la soluzione non venga solamente dal governo, ma sia il frutto della proposta di un’intera società. Il tema che è strettamente legato a questo è quello di riuscire a ridurre il peso del deficit dovuto al debito estero».

Può darci un esempio di lotta concreta alla povertà?
«Per esempio, stiamo lavorando all’implementazione del “Servizio unico materno-infantile” (Sumi), con il quale si vuole garantire alla madre e ai bambini un’assistenza minima per i primi 5 anni di vita. Stiamo lavorando a strategie di lotta alla povertà nelle aree rurali, che è il punto veramente critico. Oltre ai nostri investimenti abbiamo l’aiuto della cooperazione internazionale, che è molto importante ed apprezzabile, ma che, d’altra parte, genera una certa dipendenza. Per questo cerchiamo di orientare i loro investimenti sull’obiettivo di fomentare la produzione, perché crediamo che l’aumento della produttività possa essere una soluzione al problema».

Da anni, in tutto il mondo, si assiste ad un processo di privatizzazione portato avanti secondo i rigidi dettami del neoliberismo. Anche la Bolivia ha seguito questa strada per molti settori produttivi. Com’è andata, presidente Mesa?
«Innanzitutto bisogna precisare che la Bolivia non ha lavorato nelle privatizzazioni sulla stessa linea del Perù o dell’Argentina. Il nostro è stato piuttosto un processo di “capitalizzazione”.
In secondo luogo, il lavoro è stato fatto su 5 grandi imprese nazionali (petrolio, energia elettrica, telecomunicazioni, ferrovie, trasporto aereo) con esiti molto diversi. Nel settore aereo, è stato un disastro e siamo arrivati sull’orlo del fallimento. Nel settore delle ferrovie, il risultato è stato buono dal punto di vista economico, soprattutto per la ferrovia dell’oriente, mentre è stato negativo sotto l’aspetto dell’offerta, in quanto alcune linee sono state chiuse e quindi la gente è stata privata del servizio di trasporto, come accaduto per la ferrovia di Potosì. Bisogna quindi ricalibrare un po’ le priorità, perché in questo settore non c’è solo un aspetto economico da considerare, ma anche un aspetto sociale. Infine, nel settore delle telecomunicazioni, la capitalizzazione è stata addirittura spettacolare: la Bolivia è cresciuta in modo impressionante in questo settore. Basti un dato: avevamo circa 300.000 linee telefoniche, adesso ne abbiamo 1,7 milioni».

Il partner di Entel, la compagnia boliviana, è Telecom Italia, giusto?
«Sì, proprio Telecom Italia. È stato realmente un risultato straordinario, considerando che si è arrivati alla copertura telefonica anche di piccoli paesi dell’area rurale. All’inizio c’è stata una salita dei prezzi, ma adesso stanno scendendo e si sta aprendo anche alla concorrenza. Per quello che riguarda l’elettricità ci sono state luci ed ombre: ci sono imprese che hanno funzionato bene, altre meno. Nel caso degli idrocarburi, l’aspetto positivo è stato di moltiplicare per 10 la quantità di petrolio estratto, ma in quanto alle entrate per lo stato la capitalizzazione non ha reso per niente. Stiamo investigando per capire cosa non abbia funzionato».

Se ho ben capito, la strada della «capitalizzazione», scelta dalla Bolivia, è uno strumento neoliberista che, al contrario delle privatizzazioni, ha funzionato. È così?
«In generale, direi che ha funzionato. Anche se, a voler essere precisi, non possiamo definirlo uno strumento neoliberalista in senso stretto. Un altro aspetto positivo è il capitale che lo stato ha incassato. Con esso abbiamo potuto costituire un fondo di assistenza per tutte le persone maggiori di 65 anni, che in base ad esso hanno diritto ad una rendita annuale» (3).

A parte la capitalizzazione, lei che cosa ne pensa della filosofia neoliberista?
«Il neoliberismo nel suo concetto ortodosso ha fallito. Questo lo si può vedere in tutta l’America Latina e la Bolivia ne è un esempio ulteriore. Siamo nel 2004 e sono 18 anni che stiamo chiedendo sacrifici ai boliviani: la gente non crede più a questo modello economico. Si tratta allora di reinserire lo stato nel ruolo di gestore dell’economia. Non solo nel senso di favorire una maggiore produttività, ma anche per lottare contro la povertà e sviluppare l’educazione».

Presidente, ci dica qualcosa sulle relazioni inteazionali della Bolivia, in particolare con gli Stati Uniti e con l’Europa.
«La relazione con gli Stati Uniti è molto importante per la Bolivia, come del resto per tutti i paesi latinoamericani dal momento che siamo nella loro area di influenza. Per gli Stati Uniti è fondamentale il tema dello sradicamento delle piantagioni di coca. Questo è un tema certamente importante, ma per noi è una problematica che ha costi economici e sociali molto elevati, perché sono molte le famiglie boliviane la cui sopravvivenza quotidiana è legata alla produzione della coca (4). Gli Stati Uniti ci appoggiano nell’aspetto economico, creando un forte legame di dipendenza, ma la problematica della coca è molto più complessa.
Per quanto riguarda l’Unione europea e l’Europa in generale dobbiamo invece approfondire i nostri legami e riuscire ad instaurare relazioni più stabili, anche per riequilibrare le nostre relazioni inteazionali».

Toiamo alla politica intea, presidente. Come sono i suoi rapporti con il gruppo di Evo Morales (Mas) e Felipe Quispe (Mip)?
«Sono due relazioni assolutamente distinte dal punto di vista politico. Felipe Quispe è una persona che rappresenta un gruppo di persone molto preciso ed identificabile che proviene dall’area dell’altopiano, ha posizioni molto radicali e poco flessibili. Credo che il massimalismo sia la sua logica e, pertanto, non vedo come si possa negoziare con lui in un contesto democratico.
Evo Morales è una persona diversa. Ha una prospettiva elettorale molto ampia, vuole arrivare al governo e per questo si è inserito all’interno di un dibattito democratico. Negli ultimi mesi, ha contribuito alla gestione del governo, con un atteggiamento razionale e ragionevole. Ultimamente, in verità, mi sembra stia prendendo posizioni molto critiche rispetto alla nuova legge sugli idrocarburi. È cioè molto vicino a posizioni simili alla nazionalizzazione, creando una serie di problemi nelle relazioni inteazionali, con la cooperazione, con la stessa industria petrolifera con cui ci sono contratti firmati. In tutto questo Morales ha però mantenuto una posizione legittima, all’interno di un dibattito democratico».

Lei sembra una persona ottimista. Significa che pensa di arrivare alla fine del suo mandato presidenziale, prevista per il 6 agosto del 2007?
«Questo è quello che mi propongo. Si deve vedere, se il popolo boliviano continuerà ad appoggiare un governo che ha cercato di gestire le cose in maniera trasparente. Sicuramente affronteremo momenti difficili e la tensione sociale potrebbe aumentare un po’. Credo che il popolo però capisca che non si può chiedere tutto a un governo nato da una crisi così grave».

BOX 1

MA ALLA FINE CHI HA VINTO?

Le multinazionali petrolifere? Il governo Mesa? I boliviani?
Il risultato è incerto e la partita non è finita.

Nel referendum del 18 luglio, le 5 domande erano ambigue ed alcune di esse troppo lunghe. Comunque, circa il 60 per cento degli aventi diritto (2,7 milioni di boliviani su 4,5) è andato ad esprimere la propria preferenza e la maggioranza di essi ha optato per i «sì».
Dopo la consultazione popolare, si è iniziato a discutere il progetto di nuova legge per gli idrocarburi, progetto presentato dal governo del presidente Mesa. Ma trovare un accordo sarà un’impresa, perché sono troppe le volontà contrapposte.
Ci sono, in primo luogo, le 20 imprese petrolifere presenti nel paese. Attualmente, in Bolivia il costo di produzione è uno dei più bassi tra quelli sostenuti dalle 200 maggiori imprese petrolifere che operano in diverse regioni del mondo. Questo vantaggio si traduce in profitti enormi per le compagnie. Le quali, di conseguenza, non sembrano intenzionate a ridiscutere i contratti (un’ottantina) che hanno sottoscritto prima del referendum, ovvero in base alla legge n. 1689 del 1996. In altri termini, qualsiasi cambiamento dello status quo sarà osteggiato dalle petroleras, come le chiamano i boliviani.
Ci sono poi le diverse posizioni degli 8 partiti rappresentati nel Congresso boliviano. Intanto, il referendum ha diviso il paese, soprattutto a sinistra, considerando che la principale organizzazione sindacale (la Central obrera boliviana, Cob) e il Movimiento indigena pachakuti di Felipe Quispe hanno sostenuto il boicottaggio del referendum. Infine, ci sono le pressioni degli organismi inteazionali, con in prima fila il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale.

Allora la domanda è questa: è cambiato (o potrà cambiare) qualcosa con il referendum del 18 luglio? Lo abbiamo chiesto a due esperti, entrambi molto stimati, ma con posizioni opposte sull’argomento. Secondo Francesco Zaratti, italiano da 31 anni in Bolivia, professore universitario ed ascoltato delegato presidenziale, «il referendum è stato positivo dal punto di vista della democrazia e della stabilità del governo, ma un po’ sterile per quanto riguarda i risultati tecnici e politici».
Molto critico è, invece, Osvaldo Calle Quiñonez, giornalista, specialista in tematiche economiche: «Il referendum del 18 luglio è stato uno dei peggiori processi di consultazione popolare mai organizzati. Tutti i 5 quesiti erano formulati in modo tale che era impossibile rispondere “no”. Ciò è stato possibile perché l’elaborazione delle domande è stata fatta da una équipe che si è basata sulle inchieste commissionate e pagate dalle petroleras, con la Total in testa. Per questo io sostengo che le imprese petrolifere sono il vero vincitore del referendum. Il presidente Mesa è stato il loro strumento ed Evo Morales, pur con qualche reticenza, si è adeguato». Osvaldo Calle ha anche denunciato la pratica delle imprese petrolifere di «comprare la benevolenza» degli esperti governativi (attraverso contratti di consulenza) e dei mezzi di informazione boliviani (attraverso la pubblicità).
Quale sarà l’immediato futuro per la Bolivia? Il professor Zaratti ha in testa un cammino preciso: «Dopo aver varato la nuova legge sugli idrocarburi, eleggeremo un’assemblea costituente che avrà il compito di riformare lo stato. Nel frattempo, con l’aiuto del gas, speriamo di stabilizzare l’economia e di modeizzare lo stato». Intanto, lo scorso 29 settembre il ministro degli esteri del Cile ha destituito il console generale a La Paz, Emilio Ruiz-Tagle, colpevole di essersi espresso a favore della richiesta boliviana di uno sbocco al mare in territorio cileno. Meglio vanno i rapporti con Buenos Aires: il 14 ottobre i presidenti dei due paesi si sono incontrati a Sucre per sottoscrivere un forte incremento delle esportazioni del gas boliviano verso l’Argentina.

Per ora la Bolivia presenta queste cifre: secondo posto, in America Latina (dietro il Venezuela), in fatto di riserve di gas, ma il 70 per cento dei suoi 8,2 milioni di abitanti continua a vivere in povertà o nell’indigenza. Come conferma anche l’ultima classifica Onu sull’indice di sviluppo umano, che colloca il paese latinoamericano al 114.mo posto (su 177 paesi considerati). Il 23 settembre, durante l’assemblea dell’Onu, il presidente Mesa non ha esitato a criticare l’ortodossia neoliberista e a parlare della necessità di combinare le forze del libero mercato con quelle dello stato regolatore. Speriamo sia di parola.


Pa.Mo.

Paolo Moiola




STATI UNITI D’AMERICAAltri quattro anni di guerre e terrorismo?

George W. Bush è stato rieletto. In attesa di capire come si comporterà, proviamo a fare un bilancio
dei suoi primi quattro anni alla guida della superpotenza americana.

Il «comandante in capo» rimane alla Casa Bianca. George W. Bush, texano (d’adozione) di 58 anni, figlio maggiore di George Bush, ha vinto le elezioni presidenziali del 2 novembre 2004 e per altri 4 anni guiderà la più forte nazione della terra. In tanti, soprattutto fuori dagli Usa, speravano che ciò non avvenisse (1). E li capiamo. I primi 4 anni della presidenza di George W. Bush sono stati i più travagliati e negativi della storia recente dell’umanità.
Qualcuno obietterà che Bush ha liberato due paesi dalla tirannide e difeso il mondo dal terrorismo. Proviamo a ragionare, mettendo in ordine i tasselli…

A proposito di terrorismo. Il terrorismo ha ricevuto linfa vitale dalle scelte politiche del presidente statunitense. Sir Ivor Roberts, ambasciatore britannico in Italia, durante un convegno pubblico, ha definito Bush «il più grande reclutatore per conto di al-Qaeda» (2).
Un’esagerazione di un diplomatico inglese un po’ eccentrico? Il 9 ottobre il New York Times ha raccontato un’intervista immaginaria a Bin Laden, che dice al giornalista: «Guardi, la più grande sfida che abbiamo di fronte non è essere capaci di ottenere l’arma chimica. Ma è quella di persuadere nuovi adepti, e Bush è diventato il nostro miglior reclutatore. Al-Qaeda vincerà se Bush sarà rieletto, inshallah» (3). A parte le trovate giornalistiche, secondo l’Inteational Institute for Strategic Studies (Iiss) di Londra la guerra in Iraq ha reso al-Qaeda più forte (4).
Il diritto internazionale è stato fatto a pezzi, travolgendo le Nazioni Unite, istituzione con molti difetti ma l’unica che ricomprenda la totalità delle nazioni del mondo. Lo ha ripetuto davanti ai rappresentanti di 191 nazioni (5) lo stesso Kofi Annan, di solito piuttosto timoroso: «Nessuno nel mondo deve essere al di sopra della legge (…) ogni paese che proclama la legalità in patria deve rispettarla all’estero e ogni paese che insiste che sia rispettata all’estero deve rispettarla in patria (…) a volte perfino la lotta contro il terrorismo viene strumentalizzata per violare, senza che sia strettamente necessario, le libertà civili».
Meno diplomatico di Annan è stato il suo predecessore, l’egiziano Boutros-Ghali: «Anche a Baghdad gli americani si sono dimostrati dei perfetti incompetenti» (6).
Nel corso dell’assise Onu, la guerra al terrorismo è stata letta anche in chiave diversa da quella dominante. Il presidente brasiliano Lula, ad esempio, ha dichiarato: «Se vogliamo eliminare la violenza, è necessario rimuovere le sue cause profonde con la stessa tenacia con cui affrontiamo gli agenti dell’odio. Dalla fame e dalla povertà non nascerà mai la pace».
Il gruppo di lavoro Alleanza contro la fame, creato per iniziativa dello stesso Lula, ha proposto l’istituzione di alcune tasse inteazionali (su vendita armi, transazioni finanziarie, trasporto aereo e marittimo, profitti multinazionali) per finanziare lo sviluppo e ridurre drasticamente la fame. Un’idea molto interessante, che però ha subito trovato l’ostilità di alcuni paesi, tra cui i soliti Stati Uniti (7).

A proposito di Iraq. La seconda guerra del Golfo è iniziata il 20 marzo del 2003. Dell’Iraq ormai non si sa più che dire, se non che il paese è nella più totale anarchia, senza legge né parte, né prospettive per una popolazione che – dopo aver contato 100.000 morti civili (dei quali a Porta a porta poco si parla…) (8) – non sa più da che parte girarsi.
Iyad Allawi, l’uomo che gli Usa hanno posto a capo del cosiddetto «governo provvisorio iracheno», prepara le elezioni di gennaio 2005. Intanto Falluja, la città sunnita ribelle, da mesi è assediata e ripetutamente bombardata dalle forze statunitensi, senza che il primo ministro iracheno spenda una parola in favore della sua popolazione.

A proposito di Afghanistan. La prima guerra preventiva di George W. Bush risale al 7 ottobre del 2001. Dopo le emozioni, tanto telegeniche quanto effimere, del burqa e degli aquiloni, dell’Afghanistan non si è più parlato fino alle elezioni del 9 ottobre. Ha vinto senza fatica (e tra svariate contestazioni degli avversari) Hamid Karzai, l’uomo degli Stati Uniti. Sarà presidente dell’Afghanistan o, come malignamente sostengono in molti, semplice sindaco della capitale Kabul?
«Dire che le elezioni – spiega don Paolo Farinella – sono il segno della giustezza della guerra è come dire che dopo il temporale viene il bel tempo e dopo la notte sorge il sole. Chi ha voluto la guerra, chi vuole la guerra, deve sempre trovare una giustificazione e legge tutti i fatti in quest’ottica: avevo ragione. Se non si fossero svolte elezioni, avrebbero detto che le difficoltà erano più gravi del previsto e quindi bisognava incrementare la guerra per arrivare alla democrazia».
Che l’Afghanistan sia fuori controllo è testimoniato da due fatti. La produzione di oppio è tornata ai livelli ante-guerra (si parla di 3.600 tonnellate annue, in gran parte destinate al mercato europeo). Nel frattempo, l’organizzazione umanitaria Medici senza frontiere ha abbandonato il paese dopo l’uccisione di 5 suoi membri (nel giugno 2004).

A proposito di 11 settembre. Ancora una volta qualcuno obietterà: «ma voi dimenticate la tragedia dell’11 settembre 2001!». Rispondiamo prendendo a prestito le parole di don Raffaele Garofalo (9): «Non si può pensare che, dopo l’attentato dell’11 settembre, gli Stati Uniti si siano guadagnata, di fronte al mondo, l’aureola di paese vittima innocente. Come commuove la sorte atroce subita dalle vittime delle Torri gemelle (esse sì innocenti), ugualmente dobbiamo essere sensibili al “terrorismo di stato”, agli spregiudicati interventi nordamericani nella politica di altre nazioni in tutto il mondo».
Racconta Ettore Masina, scrittore cattolico: «Ci sono momenti in cui uno si odia per avere avuto ragione: (…) più di vent’anni fa scrissi che le guerre che i poveri avrebbero, prima o poi, cercato di combattere per uscire dalla loro oppressione sarebbero state “naturalmente” feroci. Non possedendo mass-media per illustrare le sofferenze del proprio popolo né trovando chi se ne faccia portavoce, la disperazione dei miseri non può che portarli a creare eventi tanto terribili da costringere giornali e televisioni a registrarli con clamore; (…) convinti, sino al suicidio, che per i loro figli i paesi dominanti non abbiano pietà, essi stessi non sentono pietà per gli innocenti travolti nelle loro imprese. (…) Chi ha occhi per vedere, con la lucidità che tutti dovremmo conservare, sa che la guerra dei poveri è disumana perché essi sono stati disumanizzati. (…) Considero anch’io il terrorismo una spaventosa minaccia (…) ma so che accanto a me, dalla mia parte (che io lo voglia o no, e quindi con mia inevitabile complicità), c’è chi, da posizioni dominanti, nelle sedi e istituzioni in cui dovrebbe articolarsi una civiltà fratea o almeno attenta a un po’ di giustizia, provoca, alimenta e spesso sfrutta la collera dei poveri: quella collera che quasi cinquant’anni fa già il grande papa Paolo VI sentiva crescere nelle viscere della storia e inutilmente ci additava nella sua enciclica Populorum progressio» (10).
Sulla stessa linea interpretativa un altro prete, don Gianfranco Formenton (11): «Non c’è nessuna differenza, se non nelle parole e nelle proporzioni, tra un terrorismo degli eserciti regolari e un terrorismo fatto di bande armate al servizio di qualche mente malata. Uccidono, inesorabilmente, implacabilmente, gli uni e gli altri. (…) I criminali-terroristi sono tra le grotte delle montagne dell’Afghanistan e tra i palazzi del potere occidentale. Gli uni e gli altri si alimentano a vicenda».

A proposito di anti-americanismo.Qualcuno obietterà: «Criticare la politica di Bush è anti-americanismo ed essere anti-americani significa schierarsi con i nemici dell’Occidente!».
«No – ha detto Boutros-Ghali -, non esiste alcuno scontro di civiltà. Ci sono, piuttosto, conflitti tra ricchi e poveri, tra stati sempre più ricchi e continenti sempre più drammaticamente poveri».
Dopo l’11 settembre, Bush ha potuto introdurre norme che riducono drasticamente le libertà civili dei suoi connazionali, dichiarare guerra all’Afghanistan, rinchiudere i prigionieri nella grande Bastiglia di Guantanamo, voltare le spalle all’Onu ed invadere l’Iraq, concedere appalti e commesse alle industrie di famiglia della sua amministrazione, dissipare l’attivo del bilancio e accumulare un considerevole passivo, predicare la democrazia in una parte del mondo e sostenere i regimi repressivi dei paesi di cui ha bisogno. Affermazioni, tutte queste, non di un presunto «anti-americano», ma di un illustre estimatore degli Stati Uniti (12).
Moises Naim, direttore dello statunitense Foreign Policy, ha scritto: «Come dimostrano i sondaggi, l’anti-americanismo è il più diffuso dei sentimenti condivisi dalle opinioni pubbliche. Perciò all’estero è sempre più difficile per i politici difendere la causa degli Stati Uniti o collaborare con Washington» (13).
Dopo la rielezione di Bush, le reazioni delle cancellerie mondiali sono state caratterizzate da un freddo linguaggio di circostanza; soltanto pochi paesi – tra cui la Russia di Putin e l’Italia di Berlusconi – hanno pubblicamente giornito.
Si dice preoccupato don Aldo Antonelli: «Ritengo Bush estremamente pericoloso, non tanto per quel che è ma per il mondo che gli sta dietro e che lui rappresenta. Bush esce dall’ambiente del protestantesimo evangelico. I suoi biografi ufficiali ci dicono che legge la Bibbia ogni giorno. In effetti il presidente mostra una forte vocazione religiosa. Pensa di essere stato chiamato da Dio alla presidenza; dichiara l’unicità storica degli Stati Uniti, un paese scelto da Dio per redimere il mondo. Egli ha anche definito questa sua fede con un nome: “teologia della libertà”. È qualcosa di molto vago, che lui spiega con la volontà divina di liberare l’intero genere umano da oppressione e schiavitù. In questa visione, le truppe americane sarebbero uno strumento per promuovere la libertà voluta da Dio».

A proposito di media ed informazione. Sono in molti a criticare aspramente le due televisioni satellitari arabe: al-Jazeera (Qatar) e al-Arabya (Dubai). Si obietta: «Propagandano l’odio e lo scontro di civiltà», «Sono contigue ai terroristi». Sicuramente sono vicine al mondo arabo ed islamico di cui sono emanazione, ma i media occidentali sono super partes? Certamente no.
Troppo spesso chi non è d’accordo con l’interpretazione dei media dominanti o è un incapace o, peggio, è un connivente con il terrorismo.
Negli Stati Uniti, le televisioni come Fow News (appartenente a Rupert Mardoch, il magnate dei media mondiali) non sono di certo un esempio di correttezza. D’altra parte, la stragrande maggioranza degli statunitensi vede la tv e sicuramente non legge il New York Times, il quotidiano che la scorsa estate ha fatto pubblicamente una severa autocritica per non aver indagato sulle informazioni (poi rivelatisi false) foite dalla Casa Bianca rispetto all’Iraq e alle armi di distruzione di massa.
In Italia, la situazione dell’informazione è addirittura peggiore, perché, invece di spiegare ed aiutare a capire, sobilla, esagera, incita allo scontro. A settembre, il settimanale Panorama titolava in copertina: «Guerra all’Occidente». Nell’editoriale, il direttore Carlo Rossella scriveva: «La guerra contro l’Occidente, contro di noi, è stata dichiarata. I terroristi la combattono senza porre limiti alla barbarie. Meritano una risposta dura, spietata, unanime. Così li sconfiggeremo» (14).
In questo quadro, va inserito il linciaggio mediatico a cui sono state sottoposte le «due Simone»: Il Gioale, Libero, Il Foglio, La Padania si sono particolarmente distinti in questo gioco al massacro alquanto sospetto. Qualcuno ha addirittura utilizzato la morte di Jessica e Sabrina nell’attentato di Taba per coniare il termine di «anti-Simone» (15).
Quelle stesse Simone che si sono guadagnate la copertina di Time, il noto settimanale statunitense…(16).

A proposito di ambiente ed economia. George W. Bush considera l’ambiente una merce qualsiasi, invece che un unicum, con il risultato di aver contribuito a stravolgere, forse irreversibilmente, gli ecosistemi mondiali. L’affossamento del Protocollo di Kyoto (a novembre firmato anche dalla Russia), già di per sé totalmente insufficiente come strumento di preservazione ambientale, si accompagna al fatto che gli Stati Uniti sono, di gran lunga, il paese più inquinante del mondo (17). La mercificazione dell’ambiente rientra nella ideologia neoliberista, che considera il libero mercato alla stregua di un dogma.
Con sempre meno risorse e meno potere, gli stati sono schiacciati dalle politiche economiche neoliberiste, che privilegiano l’individuo e l’iniziativa privata rispetto alla collettività e al bene pubblico.
«La sfera pubblica – scrive Joel Bakan – è oggi sotto attacco. (…) Negli ultimi due decenni, le corporation hanno sferrato un’offensiva energica per far arretrare i suoi confini. Con le privatizzazioni, gli stati hanno ceduto alle corporation il controllo di istituzioni un tempo considerate “pubbliche” per natura. Nessun ambito è rimasto immune dall’infiltrazione. Le società di distribuzione dell’acqua e dell’energia elettrica, la polizia, i servizi di emergenza e i vigili del fuoco, gli asili nido, l’assistenza e la previdenza sociale, le scuole e le università, la ricerca scientifica, le prigioni, gli aeroporti, il sistema sanitario, il genoma umano, i mezzi di comunicazione, lo spettro elettromagnetico, i parchi pubblici e le strade sono stati tutti sottoposti, o stanno per esserlo, a una privatizzazione totale o parziale. (…) Basare un sistema sociale ed economico su queste caratteristiche è un approccio pericolosamente fondamentalista» (18).
Gli stessi statunitensi hanno visto allargarsi, nel 2003, la forbice sociale: 35,9 milioni di americani vivono sotto la soglia di povertà, mentre 45 milioni non hanno alcuna assicurazione sanitaria (19).
«Il sogno americano – ha scritto l’economista Jeremy Rifkin (20) – è troppo centrato sul progresso materiale personale e troppo poco preoccupato del benessere generale dell’umanità».
Secondo don Paolo Farinella, «l’America come popolo bianco (cioè quello che comanda) è immaturo, banale e superficiale… Chiede una cosa sola: non cambiare un tenore di vita che genera livelli di spreco strepitosi. Tutto il resto (il mondo, l’Iraq, ma anche Bush o Kerry) poco importa. Ciò che conta è il loro supposto benessere che, sebbene malato, deve essere mantenuto a spese del mondo (vedi protocollo di Kyoto, che anche Kerry si era impegnato a non firmare). Il welfare in America non c’è e non ci sarà, perché la società ha un fondamento religioso d’interpretazione, basato sul principio teologico vetero-protestante: la ricchezza è segno della benedizione di Dio, la povertà segno dell’abbandono: il ricco può essere compassionevole e fare l’elemosina, ma tu, mondo, grida sottovoce e non pretendere troppo».

A proposito di chiesa. Si chiamano Jackie Hudson, Carol Gilbert e Ardeth Platte e sono suore domenicane che stanno vivendo una condizione particolare (21). Sì, perché le tre religiose sono detenute in 3 carceri statunitensi: Jackie ad Adelanto (per 30 mesi), Carol a Alderson (per 33 mesi), Ardeth a Danbury (per 41 mesi). Sarebbe bello sapere quanti hanno letto o sentito parlare di queste 3 donne. Pochi, crediamo. Ma non necessariamente per colpa loro: è difficile che trasmissioni come Porta a porta, settimanali come Panorama o quotidiani come Il Gioale o Libero parlino di un fatto simile. Troppo dirompente, troppo poco «moderato» e soprattutto troppo foriero di messaggi inadeguati in tempi di guerra permanente. Suor Jackie (di 69 anni), suor Carol (56) e suor Ardeth (67) sono in carcere perché il 6 ottobre 2002 sono entrate nella base missilistica di Greeley (vicino a Denver, nel Colorado) per protestare contro i missili a testata nucleare lì custoditi.
Se non fossero sufficienti Jackie, Carol e Ardeth, ci piacerebbe sentire l’opinione di padre Roy Bourgeois, missionario di Maryknoll, che nelle prigioni Usa ha trascorso più di 4 anni per aver protestato contro la School of the Americas, la scuola degli assassini (22). «L’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti – scrive padre Bourgeois – ha reso molto più difficile protestare in questo paese, soprattutto davanti alle basi militari. Il cosiddetto Patriot Act e il Dipartimento per la sicurezza nazionale (Department of Homeland Security), creati dopo la tragedia dell’11 settembre, rendono difficoltoso agli attivisti dei diritti umani l’organizzazione di qualsiasi manifestazione per la pace e la giustizia».

A proposito di futuro. In questo quadro, cosa ci riserveranno i prossimi anni? Se Bush proseguirà sulla strada intrapresa durante il suo primo mandato, probabilmente ci saranno altre guerre preventive (Iran?, Siria?, Sudan?, Corea del Nord?, ma rischiano pesanti interferenze anche Cuba e Venezuela) e una recrudescenza del terrorismo su scala mondiale. Verranno sprecate risorse immense per la corsa ad armamenti sempre più sofisticati, sottraendole ad impieghi utili a rendere il mondo un luogo più vivibile: per ridurre le diseguaglianze, per preservare un ambiente sempre più disastrato.
Insomma, con George W. Bush ancora alla Casa Bianca, è difficile intravvedere un futuro di tranquillità per l’umanità, a meno che, sul palcoscenico della politica mondiale, non si affaccino nuovi attori-protagonisti (l’Europa, purché non divisa, per esempio) in grado di contrastare il monologo statunitense. Nella speranza di essere smentiti dai fatti, al momento abbiamo una sola certezza: passati i prossimi 4 anni, George W. Bush non potrà più essere rieletto.

BOX 1

VITTIME</b< • in Israele-Palestina: palestinesi 3.519
israeliani 960

(dal 28 settembre 2000 al 3 nov. 2004)

• in Iraq:

civili iracheni 14.304-16.439
soldati coalizione 1.301
di cui soldati statunitensi 1.155
soldati iracheni 4.895-6.370
resistenti iracheni (*) 24.000

(dal 19 marzo 2003 al 10 nov. 2004)

Altre ricerche:
100.000 morti civili, secondo uno studio pubblicato il 29 ottobre dalla rivista medica internazionale The Lancet (www.thelancet.com); lo studio è stata effettuato dalla scuola di medicina pubblica della Johns Hopkins University, dalla scuola di infermieristica della Columbia University e dalla Mustansiriya University di Baghdad.

(*) «Iraqi resistance fighters» o «insurgents», secondo la definizione di Foreign Policy e dei maggiori media Usa.

Fonti:
• Foreign Policy in Focus,
Washington (Usa)
• www.iraqbodycount.net
• http//icasualties.org/oif
• Afp / Internazionale

NOTE

(1) Secondo un’inchiesta internazionale della GlobeScan e dell’Università del Maryland, in un’ipotetica votazione in 35 paesi di tutti i continenti George W. Bush vincerebbe soltanto in 3 stati (Polonia, Nigeria e Filippine). Risultati similari sono stati raggiunti dai sondaggi del Pew Research Centre e del quotidiano inglese The Guardian (15 ottobre).
(2) Testuale: «The best recruiting sergeant ever for al-Qaida». Si veda Corriere della sera del 20 settembre e The Guardian del 21 settembre.
(3) Si veda l’articolo di Nicholas Kristof sul New York Times del 9 ottobre 2004: «Dreaming in Kabul».
(4) A questa conclusione giunge «Military balance 2004-2005», l’annuale rapporto dell’Iiss. Su al-Qaeda: Jason Burke, Al-Qaeda la vera storia, Feltrinelli 2004.
(5) Discorso d’apertura della 59.a sessione, 21 settembre 2004. Kofi Annan aveva già parlato di «guerra illegale» in un’intervista concessa all’inglese BBC il 16 settembre.
(6) Intervista realizzata da Marc Innaro (Rai), 3 ottobre 2004.
(7) Sul quindicinale Adista del 2 ottobre 2004.
(8) La cifra è quella pubblicata da The Lancet (vedere il box con tutte le statistiche). Essa è nettamente più alta di quella foita e continuamente aggiornata sul sito: www.iraqbodycount.net.
(9) Da «Terrorismo e politica del terrore» su Adista del 18 settembre 2004.
(10) Ettore Masina, «Lettera 100», settembre 2004.
(11) Su Adista del 25 settembre 2004.
(12) L’ex ambasciatore Sergio Romano sul Corriere del 3 novembre 2004.
(13) Moises Naim sul settimanale L’Espresso del 30 settembre 2004.
(14) Panorama del 16 settembre 2004.
(15) Pierluigi Battista su La Stampa del 12 ottobre 2004. Altra stranezza: il Corriere del 22 ottobre si è scandalizzato – con un corsivo in prima pagina – del linguaggio utilizzato da un magistrato di Bari, che ha definito gli ex ostaggi Cupertino, Stefio, Agliana e Quattrocchi dei «mercenari», ma non ha usato parole altrettanto severe per chi ha insultato le 2 Simone.
(16) Time, 11 ottobre 2004.
(17) Sulle disastrose politiche ambientali di Bush, si veda Robert F. Kennedy jr., «Crimes against nature» (Crimini contro la natura), Harper Collins, 2004.
(18) Joel Bakan, «The corporation: la patologica ricerca del profitto e del potere», Fandango 2004. Bakan è professore di diritto costituzionale all’Università British Columbia di Vancouver.
(19) Dati del Census Bureau, l’Istat statunitense: nel 2003, 35,9 milioni di persone vivevano sotto la soglia di povertà, 1,3 milioni in più rispetto al 2002. In rapporto alla popolazione totale, significa che 1 cittadino su 8 della nazione più ricca del mondo è povero. Sempre nel 2003, il numero delle persone senza copertura sanitaria è salito a 45 milioni, 1,4 in più rispetto al 2002: il 15,6% della popolazione Usa.
(20) Jeremy Rifkin, Il sogno europeo, Mondadori 2004. Sugli stessi temi anche il libro dell’inglese Will Hutton, Europa vs Usa, Fazi 2004. Mentre sono opposte le tesi espresse da Robert Kagan, Il diritto di fare la guerra, Mondadori 2004. Dello stesso autore, Paradiso e potere, considerato una sorta di manifesto del neoconservatorismo statunitense.
(21) Informazioni sulle tre suore incarcerate su www.domlife.org (il sito delle suore domenicane degli Usa) e su www.jonahhouse.org (sito Usa di solidarietà). Vi si trovano anche gli indirizzi a cui spedire eventuali lettere.
(22) La School of the Americas oggi si chiama «Weste Hemisphere Institute for Security Cooperation» (Whinsec) ed ha sede a Fort Benning, in Georgia. Per conoscere la storia di Roy Bourgeois, si legga il libro di Mike Wilson, Padre Roy contro il Pentagono. Il prete anti-terrorismo (americano), Edizioni San Paolo, 2004.

Paolo Moiola




VENEZUELA 2005 Dopo il referendum del 15 agosto


VENEZUELA 2005

UN PIENO DI VOTI E DI PETROLIO

Il presidente Hugo Chávez Frias ha vinto anche il referendum del 15 agosto.Oggi gli alti prezzi del petrolio lo aiutano a governare e a resistere ad un’opposizione disposta a tutto pur di cacciarlo.

Dopo il referendum del 15 agosto, lo scrittore Eduardo Galeano ha detto: «Strano dittatore, questo Hugo Chávez. Masochista e suicida: ha messo in piedi una costituzione che consente al popolo di cacciarlo, e ha corso il rischio che questo succedesse in un referendum revocatorio che il Venezuela ha realizzato per la prima volta nella storia universale. Il castigo non c’è stato. E questa è stata l’ottava elezione che Chávez ha vinto in 5 anni». Anzi, la nona, considerando le elezioni amministrative dello scorso 31 ottobre.
Anche il «Centro Carter» (la fondazione dell’ex presidente statunitense Jimmy Carter) ha certificato la regolarità del referendum del 15 agosto, ma l’opposizione venezuelana non accetta la sconfitta. Attraverso i media che controlla cerca di far passare (spesso riuscendovi) presso i governi esteri e presso molti media occidentali che il presidente Chávez è un dittatore. Purtroppo per loro questo non è un buon momento, per almeno due motivi.
Il primo è di ordine politico. Viviamo in un periodo storico in cui un personaggio quantomeno ambiguo, il colonnello libico Gheddafi, è stato più che riabilitato, nonostante sia al potere dal 1969 e non abbia un curriculum vitae invidiabile… Abbracciare Gheddafi e nel contempo affossare Chávez è, allo stato delle cose, un’impresa difficile anche per poteri tanto forti come quelli in gioco. Sarà questa la «ragion di stato» di cui parlò il nostro Machiavelli?
Il secondo motivo è prettamente economico. Caracas è il quinto esportatore mondiale di petrolio e il secondo fornitore degli Stati Uniti (coprendo il 15 per cento delle importazioni Usa). L’importanza strategica del paese latinoamericano sta tutta in questi numeri.
Sullo sfondo rimangono comunque le contumelie della comunità internazionale, in particolare degli economisti neoliberisti e della folta schiera dei media allineati alla filosofia dominante. Per costoro le entrate derivanti dal petrolio venezuelano costituiscono un grave cruccio. Il perché è presto spiegato.
Il governo Chávez utilizza gran parte delle cospicue entrate petrolifere per finanziare programmi sociali (come le misiones), indispensabili in un Venezuela abituato ad avere una classe dominante (non più del 20% della popolazione) a cui era concesso ogni privilegio. Economisti e politici neoliberisti dicono che così non va bene, perché questo è populismo, termine che, a dispetto del suo significato etimologico, in politica è un insulto grave, utilizzato alla bisogna, soprattutto quando non si sa che altro dire.
Dare medici e ambulatori a chi non può permettersi una sanità privata (missione Barrio Adentro), scuole ed insegnanti a chi non ha potuto avere un’istruzione (missione Robinson), la possibilità di completare gli studi secondari a chi li ha interrotti (missione Ribas), alimenti a prezzi inferiori a chi non ha risorse (missione Mercal), è populismo?
Se lo è, allora ben venga il populismo, se serve per avere finalmente un po’ di giustizia.

Paolo Moiola

Paolo Moiola