Africa occidentale – Sabbie che scottano

I confini del Sahel sono «porosi» e lasciano passare
di tutto: dal contrabbando ai terroristi.
In quest’angolo di deserto, ricco di petrolio, gli Usa hanno lanciato la Trans Sahara Counter Terrorism Initiative e hanno iniziato ad addestrare i militari
di Mali, Mauritania, Niger e Ciad. Ma tale iniziativa
si sovrappone a una serie di conflitti, più o meno latenti, che fanno dell’Africa occidentale,
a maggioranza musulmana, una zona complessa
e delicata. E rischia di causare un incendio.

La strada sembra allungarsi a ogni passo, come se scivolasse verso l’orizzonte tremolante, disciolta dalla canicola. Basta fermarsi e distrarsi un attimo per non avere più chiaro da dove si viene e in che direzione si sta andando.
«È come essere nel bel mezzo del nulla» spiega Amaka Megwalu, ragazza statunitense di origine nigeriana, che si trova in Senegal per un tirocinio estivo presso un’organizzazione non governativa con sede a Dakar. Accompagna le parole con ampi gesti del braccio, indicando un punto lontano nel deserto, che lei ha potuto solo immaginare. Perché quello che ha avuto nel nord del Senegal non è che un assaggio, innocuo e circoscritto, della landa polverosa che si estende dall’Atlantico al sud dell’Egitto, passando per la Mauritania, Mali, Niger, Ciad e Sudan.

CONFINI DA… «RIPULIRE»
Il Sahel, che significa «al limite del deserto», è l’anticamera del Sahara: la cintura che separa l’Africa tropicale dal mare di sabbia. Una terra dai «confini porosi», come l’ha definita il cornordinatore dell’antiterrorismo del dipartimento di Stato Usa, Karl Wycoff. Su tali confini vegliano soldati infiacchiti e mal equipaggiati, che si contendono gli spiccioli estorti ai viaggiatori.
Attraverso queste frontiere passano ogni giorno, e da secoli, carovane e contrabbandieri, che ai cammelli hanno ormai affiancato camion traboccanti di merci, che portano da un capo all’altro del Sahel storie e notizie raccolte lungo la strada.
Ma ciò che ha attirato l’attenzione di Washington non sono i tradizionali viaggiatori del deserto, bensì i nuovi carovanieri che da qualche anno attraversano queste stesse frontiere: mercanti di droga, schiavi, armi e diamanti, immigrati clandestini all’inseguimento del sogno europeo, ma soprattutto terroristi, impegnati in scorribande o alla ricerca di luoghi remoti e sicuri per costruire campi di addestramento dove dedicarsi al reclutamento di nuovi combattenti.
I membri dell’intelligence statunitense sono convinti che i terroristi responsabili dell’attentato a Madrid dell’11 marzo 2004 abbiano «un legame con il Nord Africa» e che il limitrofo Sahel si stia trasformando in un nuovo Afghanistan. «Vogliamo prevenire il rischio – dichiara il capo dell’antiterrorismo del Comando militare statunitense in Europa, il colonnello Powl Smith – per evitare di dover intervenire direttamente in Nord Africa come abbiamo fatto in Afghanistan». Per questo il dipartimento di Stato Usa ha deciso di irrompere nella millenaria immobilità del deserto, lanciando, nel novembre del 2002, la Pan Sahel Initiative, ora ribattezzata Trans Sahara Counter Terrorism Initiative. La sua messa in atto è cominciata nei primi mesi del 2004 e prevede l’addestramento di truppe scelte degli eserciti di Mali, Mauritania, Niger e Ciad, per aumentare l’efficienza nel controllo dei confini e «ripulire» la regione dagli islamisti radicali.
«Mettendo gli eserciti locali in grado di combattere da soli – prosegue il colonnello Smith – gli Usa non potranno essere usati come un parafulmine per la rabbia popolare della quale gli estremisti potrebbero approfittare».

OCCHIO AL PETROLIO!
Washington ha ottimi motivi per preoccuparsi dell’Africa occidentale: secondo le stime dello stesso dipartimento dell’energia Usa, entro dieci anni un quarto del fabbisogno statunitense di greggio sarà soddisfatto proprio dai barili provenienti da questa regione del mondo.
Ma questa milionaria operazione di Washington (il budget iniziale di 6,25 milioni di dollari ha raggiunto i 125 milioni in 5 anni) si svolge su un terreno reso instabile proprio dai fiumi di petrolio che scorrono nel sottosuolo. La presenza dell’oro nero, infatti, provoca precarie alleanze e una costante imminenza di conflitti, legata a una logica immutabile che tuttora informa l’agire dei governi della regione, combinando la legge del più forte con la tendenza a vendersi al miglior offerente.
«Noi senegalesi non abbiamo niente: né oro, né petrolio, né diamanti. Solo arachidi e spiagge – constata con amara ironia madame Diakhoumpa, ricca dakaroise che affitta case ai funzionari inteazionali -. È per questo che ci hanno lasciato in pace. Ma tutto intorno a noi c’è guerra, fame, miseria».
La scoperta di nuovi giacimenti petroliferi in Africa occidentale rischia di replicare in tutta la regione le tensioni che da anni fanno della Nigeria, sesto produttore mondiale di petrolio, uno stato altamente instabile e percorso da conflitti che appaiono sempre più insanabili.
Accanto ai massacri nello stato federale centro-orientale del Plateau (effetto di reciproche rappresaglie tra le etnie di agricoltori stanziali tarok, di fede cristiana, e i pastori nomadi musulmani hausa fulani), la Nigeria paga un elevato tributo in termini di vite umane anche a causa della lotta senza quartiere che oppone l’esercito nigeriano ai pirati del petrolio: secondo le stime del colosso energetico Shell, viene sottratta una quantità di greggio pari a 60 mila barili al giorno.
«I gruppi criminali stanno aumentando di dimensioni e sono sempre meglio organizzati» rivela un abitante della città costiera Port Hancourt a Katharine Houreld del Guardian. «Ora non hanno più bisogno dell’appoggio dei politici, rubano oro nero e comprano armi autonomamente, e si stanno trasformando in vere e proprie milizie. Se le cose continuano così, il delta del Niger sarà una zona di guerra durante le prossime elezioni».
Visto il tragico precedente rappresentato dalla Nigeria, è ovvio che l’entrata in funzione dell’oleodotto, che collega il Ciad ai porti atlantici del Camerun, sollevi più di qualche perplessità quanto agli effetti che la sua presenza produrrà sulla stabilità della regione.
Il progetto, costato 3,2 miliardi di euro, rappresenta il più grande investimento della Banca mondiale nell’Africa sub sahariana: voluto nel 1996 dall’amministrazione statunitense del presidente Bill Clinton, l’oleodotto è stato sviluppato da un consorzio internazionale guidato dal gigante petrolifero Exxon Mobile, con la partecipazione di Petronas e Chevron Texaco.
Nel corso dei prossimi 25 anni, i proventi della produzione di greggio dovrebbero fruttare 2 miliardi di dollari al Ciad e 500 milioni al Camerun, risorse che i due stati si sono impegnati a investire nel miglioramento del sistema sanitario ed educativo, oltreché nello sviluppo di progetti agricoli.
IL CIAD INSEGNA…
Ma dare per scontato che queste promesse saranno mantenute significa sottovalutare le complessità delle dinamiche politiche africane e non tenere in considerazione l’intreccio contraddittorio e la volatilità degli equilibri politici della regione.
Il presidente ciadiano Idriss Déby, per esempio, si trova attualmente nel bel mezzo di una impasse le cui conseguenze possono travalicare i confini del suo paese e rischiano di mettere in discussione la sua stessa autorità.
La confinante zona del Darfur, regione occidentale del Sudan, è infatti da tempo insanguinata dai massacri compiuti dalle milizie arabe e musulmane janjaweed ai danni della popolazione nera, anch’essa di fede islamica. Più di un’autorevole fonte sostiene che sia proprio il governo sudanese a sostenere i «fucilieri a cavallo» (questa la traduzione del nome janjaweed) contro i gruppi ribelli presenti nel Darfur. Senonché la furia dei miliziani arabi si è scagliata sempre più spesso contro la popolazione civile, in particolare contro l’etnia zaghawa.
Ed è a questo punto che il Ciad entra in scena nel conflitto sudanese: il presidente ciadiano Déby, infatti, appartiene proprio all’etnia zaghawa, che vive in una zona a cavallo del confine tra i due paesi.
Secondo un recente rapporto della Banca mondiale, Déby sta subendo forti pressioni da parte della sua élite militare (anche questa di etnia zaghawa), affinché invii l’esercito ciadiano a difendere i «fratelli» sudanesi dalla ferocia dei janjaweed.
Si tratterebbe, dunque, per il presidente Déby, di lanciarsi in un clamoroso voltafaccia a Khartoum, nonostante il debito di riconoscenza nei confronti del presidente sudanese Omar Hassan Al Bashir, grazie all’appoggio del quale Déby era arrivato al potere in Ciad nel 1990.
La Pan Sahel Initiative, dunque, al di là delle parole e delle intenzioni del colonnello Smith, si innesta in una realtà tutt’altro che trasparente, dove l’addestramento militare viene fornito a eserciti di paesi percorsi da profonde contraddizioni politiche, inclini ai reciproci regolamenti di conti e propensi a interferire l’uno negli affari interni dell’altro, in maniera spesso sotterranea e incontrollabile. Tanto più che, paradossalmente, il più grande successo, per quanto riguarda la lotta ai gruppi terroristici che operano nel Sahel, lo ha ottenuto finora non l’esercito regolare ciadiano, bensì i ribelli di un brancaleonesco «Movimento per la democrazia e la giustizia in Ciad», che ha catturato, nel marzo del 2004, un gruppo di appartenenti all’algerino «Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento» (Gspc), sedicente affiliato di Al Qaeda e bersaglio dichiarato della Pan Sahel Initiative.

L’OMBRA DI BIN LADEN
Che i membri di Al Qaeda siano presenti in Africa occidentale non è una novità; così come sono da tempo noti i legami del Gruppo salafita con gli uomini di Osama bin Laden. «Fu l’allora capo del Gspc, Nabil Sahraoui – scrive il giornalista algerino Cherif Ouazani – che negli anni ’90 favorì l’infiltrazione in Algeria del messo di Bin Laden, Abdelaziz el Moukrine, e che lo aiutò a lasciare indisturbato il paese, quando Moukrine fu incaricato di organizzare il jihad in Arabia Saudita».
Il Gruppo salafita aveva goduto momenti di effimera notorietà, nel 2003, dopo essersi reso responsabile del sequestro di una trentina di turisti europei nel Sahara. I turisti furono rilasciati dietro il pagamento di un riscatto di 8 milioni di dollari, corrisposto dal governo tedesco, grazie al quale il Gspc aveva potuto rimpinguare il proprio arsenale.
Il protagonista dell’operazione fu Amari Saifi, ex paracadutista delle forze speciali algerine, convertitosi al terrorismo con il nome di Abderrezak el Parà, figura di spicco del Gspc, divenutone l’emiro dopo la morte di Sahraoui.
Proprio El Parà era alla guida del manipolo catturato nel marzo 2004 dai ribelli ciadiani. La sua cattura ha dato origine a una serie di trattative incrociate tra i governi di Ciad e Algeria, in cui è intervenuto anche il presidente della Libia Muhammar Gheddafi, da mesi impegnato a compiacere i governi occidentali, che gli hanno di recente concesso una sorta di riabilitazione internazionale, dopo averlo per anni considerato un nemico irriducibile.
La faccenda della consegna di El Parà aveva assunto i tratti di una telenovela: il governo algerino rifiutava di trattare con i ribelli ciadiani e faceva invece pressioni sul presidente Déby, dal canto suo incapace di imporre la propria volontà ai ribelli; fino alla pirotecnica entrata in scena del colonnello Gheddafi, che minacciò di intervenire militarmente, se El Parà non fosse stato consegnato alle autorità algerine.

TERRORISMO: FINCHE’ DURA…
Il risultato di un tale bailamme, nel corso del quale nessuno ha dato prova convincente di essere davvero interessato a catturare il terrorista, è stato quello di far sorgere dubbi sulle effettive intenzioni dei governi coinvolti, fino a suggerire un loro uso strumentale della campagna antiterrorismo americana.
«Abbiamo finito per pensare che nessuno degli stati africani vuole El Parà e che è nell’interesse di tutti lasciarlo libero di muoversi nel Sahel – ha dichiarato caustico l’incaricato degli Affari esteri del movimento ribelle ciadiano, Brahim Tchouma, alla ricerca di un riscatto per l’ostaggio -. Se venisse arrestato o ucciso, infatti, si interromperebbero anche i crediti americani che sono stati stanziati per combatterlo».
Il paradosso è evidente: se l’interpretazione data da Tchouma è corretta, i governi della regione, che ricevono denaro e mezzi finché esiste una minaccia terroristica da contenere, avrebbero interesse ad alimentare proprio quell’insicurezza che il governo Usa vuole ridurre con la Pan Sahel Initiative.
El Parà è stato rimesso alla custodia algerina nel novembre del 2004. Ciononostante, i vertici militari del Comando statunitense in Europa hanno ammesso che la loro iniziativa stenta a dare i frutti sperati. «Il problema – scrive il giornalista del New York Times Douglas Farah – è che gli Usa non stanno compiendo nessuno sforzo per competere sul piano delle idee». Viene lasciato il campo libero proprio a quei gruppi islamisti che trovano, specie nella rabbia dei giovani africani, terreno fertile per la propria predicazione.

FANATISMO E CORRUZIONE
Da mesi, ormai, c’è un regolare afflusso verso l’Arabia Saudita di studenti coranici, nigeriani e non solo, che vanno a perfezionare la propria preparazione in Medio Oriente e poi rientrano in Africa per fare proseliti. E il livello di fanatismo ha raggiunto vette preoccupanti proprio in Nigeria, dove gli estremisti musulmani avevano diffuso la voce che i vaccini antipolio, messi a disposizione dagli operatori umanitari occidentali, fossero in realtà un veleno, che avrebbe reso sterili i maschi musulmani, esortando così i genitori a non far vaccinare i propri figli.
Il fanatismo religioso e la corruzione dilagante in Africa occidentale finiscono poi per intrecciarsi con reciproca soddisfazione: celebre è l’episodio, riportato da Douglas Farah, del sodalizio tra l’ex presidente della Liberia Charles Taylor e gli emissari di Al Qaeda: questi avrebbero potuto contare sull’appoggio del liberiano per avviare un florido commercio di diamanti provenienti dalla Sierra Leone.
La compravendita di gemme aveva lo scopo di permettere ad Al Qaeda di diversificare le proprie risorse finanziarie e di svuotare i conti correnti non ancora scoperti e fatti congelare da Washington, come rappresaglia agli attacchi alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998.
Si trattava di una colossale manovra di pulizia di denaro sporco, attraverso gli stessi canali usati dal movimento sciita libanese hezbollah, la cui presenza in Africa occidentale è di ben più vecchia data. A fare da intermediario a tutta l’operazione c’era il senegalese Ibrahim Bah, mercenario addestrato in Libia, che aveva combattuto negli anni ’80 in Afghanistan contro i sovietici e poi in Libano al fianco degli hezbollah. Lo stesso Taylor ottenne per il disturbo una notevole somma di denaro.

Non stupisce che, inserita in una rete di relazioni così fitta e insidiosa, la Pan Sahel Initiative non decolli: presidiare un mare di sabbia è una contraddizione in termini. Specialmente quando quel mare è solcato da flotte di combattenti della religione e del petrolio, che si alleano e si tradiscono in modo del tutto imprevedibile e sotterraneo. Viene da chiedersi se gli Usa hanno davvero imparato la lezione dell’Afghanistan: quella di non armare i loro futuri nemici.


Mercella Federici




SINKIANGGrattacieli nel deserto

La Cina «modea» avanza nel Sinkiang, l’estrema provincia del nord-ovest, a spese della cultura millenaria degli uiguri, emarginati e repressi nelle proprie aspirazioni di libertà. Anche i turisti sono mal sopportati dai cinesi.

La strada asfaltata era ormai alle spalle. Il taxi ci stava portando verso il deserto. Il grigio ocra della terra e del cielo s’imponeva più che in città, dove la sabbia sospesa nell’aria, che ricopriva ogni cosa di un velo uniforme, lasciava almeno intravedere i colori, sebbene sbiaditi, delle insegne e delle macchine. Tutto era uniformemente grigio, le case di argilla come il cielo, il fiume, gli animali e la ghiaia del deserto. Solo i fazzoletti delle donne suggerivano il ricordo di un mondo colorato, rimasto al di là del velo di sabbia.

CONVERSAZIONE… RISCHIOSA
Il deserto intorno a Hotan è pieno dei resti di antiche città. Avevo scelto il sito archeologico più vicino: a soli 10 chilometri si trovano le rovine di Yotkan, la capitale di un regno esistito tra i secoli iii e viii. Incerta su come raggiungere il posto, soprattutto su come comunicare col taxista, avevo incontrato fuori dell’albergo un signore che parlava inglese. Una fortuna insperata: era la prima volta che mi capitava, da quando avevo attraversato la frontiera cinese, una settimana prima.
Di lì a poco avevo saputo che il mio nuovo conoscente era venuto dal nord del Sinkiang per partecipare a un convegno del partito comunista regionale. Era un uiguro. Più che gli occhi, anch’essi a mandorla, lo tradiva il colore olivastro della pelle, che si distingueva da quello latteo dei cinesi. Era stato allettato dall’idea di ravvivare, con una gita fuori porta, la monotonia di quel convegno, il cui unico motivo d’interesse era il buffet offerto a mezzogiorno e sera. Io gli avrei offerto un passaggio sul taxi e lui ci avrebbe messo la favella.
Il sito era appena ai bordi del deserto e consisteva in alcuni cumuli di macerie grigie. Salendovi, si capiva che quei detriti erano stati edifici, perché sotto i piedi si aprivano di tanto in tanto spazi vuoti, un lontano ricordo delle stanze di un tempo.
Non c’era molto che potesse attirare l’interesse del profano, ma, nella sua irrealtà e assoluta desolazione, il luogo soggiogava. Veniva voglia di andare verso l’orizzonte di quel mondo di sabbia, dove il sole non bruciava, né si vedeva, seminascosto dal pulviscolo sospeso nell’aria.
C’incamminammo. Quando intorno era scomparso anche l’ultimo segno di vita, eccetto le lucertole albine che ci sfrecciavano davanti a coda levata, il mio conoscente intavolò una conversazione rischiosa.
Ce l’aveva coi cinesi, razzisti, che trattano gli uiguri come gente di seconda categoria, li discriminano, si riservano i lavori migliori, fanno una politica demografica spietata. Gli uiguri che vivono in campagna possono, sì, avere fino a tre figli, ma a distanza di tre anni uno dall’altro. Le donne che rimangono incinte portano avanti la loro gravidanza di nascosto; ma se vengono scoperte, sono costrette ad abortire.
Mi confidò che le stazioni radio più seguite sono la Bbc e la Voice of America. Sperava che l’America sarebbe arrivata anche lì a sistemare un po’ di cose.
Ascoltavo senza fare troppi commenti. Non volevo togliergli quell’illusione. Sul conto dell’America, intendo. Anche una speranza vana, finché rimane viva, scalda il cuore. E poi, potevo fidarmi di lui? Non lavorava, forse, per il partito?
ALLA LARGA DAI TURISTI
Eppure, quelle parole non dovevano sorprendere sulla bocca di un uiguro. Solo pochi giorni prima, a Kashgar, avevo misurato l’ampiezza dell’opera di ricostruzione che il governo di Pechino sta compiendo a spese della cultura locale.
Non era la mia prima visita in città; vi ero stata 10 anni prima; tuttavia, appena arrivata mi sembrò che la memoria mi tradisse fortemente. Mi ero fatta portare all’albergo dove avevo alloggiato la prima volta; ma il percorso mi era parso molto diverso da come me lo ricordavo; giunta a destinazione, non avevo riconosciuto né il quartiere, né la via.
Ricordavo case basse, filari di pioppi, carretti trainati da muli e risciò a motore. Adesso c’erano ampi marciapiedi, larghi edifici squadrati, automobili e taxi rossi. Non mi ricordavo i due aceri finti nell’aiuola accanto alla porta dell’albergo, uno dalle foglie di plastica verde smeraldo e l’altro rosso cardinale, né l’ascensore panoramico nell’atrio.
Non volevo stare lì. Avevo letto che c’era una pensione uigura nel cuore della città, nel groviglio di vicoli intorno alla grande moschea Id Kah. Ne avevo un ricordo vivido, perché 10 anni prima quello era il quartiere più interessante per il visitatore: vi pulsava la vita, piazza e strade erano un susseguirsi di botteghe e locali dove gli uiguri si ritrovavano a mangiare kebab, a fumare e bere innumerevoli bicchieri di tè. Ora camminavo nella via affollata, tra la polvere e il rombo di macchine al lavoro. A un certo punto mi apparve il vuoto: case sventrate, macerie, voragini, ruspe.
In un moncone di strada trovai finalmente la pensione uigura, ma il proprietario non volle accettarmi. Al vedere la mia sorpresa per un rifiuto che contraddiceva le millenarie leggi d’ospitalità, cercò la parola inglese, evidentemente detta ad altri prima di me, che spiegava tutto: polizia. Le autorità non vedono di buon occhio la presenza di stranieri in quel luogo.

DUE MONDI A PARTE
Difficile descrivere il senso di perdita che si percepisce nell’osservare un mondo che scompare. Kashgar, uno dei più grandi mercati dell’Asia Centrale, millenario centro sulla via della seta e cuore della cultura uigura, si sta trasformando a ritmo serrato in una modea città cinese.
Nella piazza-cantiere, davanti alla moschea, un cartellone illustra il progetto di ricostruzione dell’intera area. Accanto alla moschea, che non verrà abbattuta, sorgeranno modei edifici, un centro commerciale. Il pavimento verrà ben lastricato e in questo ambiente, finalmente nuovo, pulito e asettico, la popolazione potrà ritrovarsi per fare compere o godersi il fresco della sera.
Si può obiettare che Kashgar non è l’unica città soggetta a tali rivoluzioni urbanistiche. Ciò accade in molti altri centri della Repubblica Popolare, per ragioni che non sono sempre quelle di dare agli abitanti condizioni di vita migliori.
Spesso interi quartieri centrali sono spazzati via per far posto a uffici, grandi magazzini o edilizia di lusso; ma a Kashgar c’è un motivo in più per stravolgere lo spazio urbano: cancellae il volto centroasiatico, privare delle sue radici la popolazione di etnia turca, che non ha mai accettato di buon grado il dominio del governo cinese.
La nuova Kashgar è pacchiana e posticcia. Me ne sono resa conto meglio il giorno dopo il mio arrivo, alla luce del mattino. L’architettura è a effetto, con trovate di dubbio gusto e pretese di originalità, ma realizzata in economia; invecchierà in fretta.
La città uigura continua a vivere nelle stradine a sud della moschea, dove per il momento non sono arrivati i piani di ricostruzione. Lì ci sono gli artigiani con le loro botteghe, ci sono le rudimentali chaikhane, con pochi tavolini intorno a specie di enormi samovar alimentati a legna; lì si possono ancora vedere le insegne dei dentisti: uno spaccato di bocca che mette a nudo muscoli, cavità, orifizi, il tutto in colori diversi. Sotto, in vetrina, ci sono protesi e sacchetti di denti. Anche i sarti hanno le loro insegne: vestiti da donna, uomo o bambino, disegnati con poche ingenue pennellate.
Nelle giornate calde è un sollievo fermarsi a mangiare un dogh, sorta di granita fatta con ghiaccio, sciroppo e yogurt, in una gelateria improvvisata con due panche e un carrettino. Ricevuta l’ordinazione, il gelataio si affretta a preparare il miscuglio, rimestandolo a larghi gesti con un cucchiaione di legno; poi lancia il tutto a mezz’aria, proprio come si fa con le frittate, e lo riacchiappa con grande destrezza, senza versare neanche una goccia.
Kashgar è famosa per il mercato domenicale, la cui sezione più pittoresca è quella degli animali. Pastori e allevatori fanno chilometri per venire a portare qui le loro bestie. Adesso questa attività è stata relegata in un campo a qualche chilometro dalla città. Lì ritrovo l’animazione che ricordavo.
Quando arrivo nel grande recinto dove sono raccolti gli animali, le trattative sono in pieno corso, nelle varie sezioni in cui sono suddivisi gli animali: quella delle pecore e montoni, la più rappresentata, quella degli asini e delle mucche. C’è anche qualche cavallo, ma nessun maiale, naturalmente.
Terminate le trattative, non guasta un po’ di svago: ci si può far dare una ripulita dai barbieri, che hanno messo le loro sedie proprio davanti all’entrata del recinto, per poi concedersi un piatto di langhman, spaghetti serviti con un sugo alle verdure, e un bicchiere di tè nella trattoria accanto; da ultimo, giocare una partita a biliardo attorno ai tavoli piazzati in strada.

INCOMUNICABILITÀ
A Yarkant, un’oasi ai margini del Taklamakan, a quattro ore di autobus da Kashgar, l’aria del rinnovamento non soffia ancora. Qui la città cinese è cresciuta accanto a quella uigura, inizia esattamente dove l’altra finisce; le due comunità vivono gomito a gomito, ma è come se fossero a mille miglia di distanza, tanta è l’estraneità tra i due mondi.
La città cinese è attraversata da un ampio viale, che è anche l’arteria di collegamento con la parte uigura. Non appena vi si arriva, però, il viale si scioglie in un reticolo di stradine non asfaltate e polverose, gli autobus fanno dietro front e se ne tornano in fretta nella civiltà.
All’imbrunire la strada principale a ridosso della moschea si riempie di gente e, finalmente, appaiono i venditori ambulanti di specialità uigure, con un campionario di mercanzie, la cui varietà offusca quella di Kashgar: teste di montone bollite, polpettoni di riso, frattaglie cotte, pesce affumicato, specie di patate ovali bollite, di un rosso intenso.
I pastai tirano gli spaghetti per il langhman, mentre alcuni clienti hanno già affondato le loro bacchette nelle ciotole con le porzioni già pronte. I bambini fanno girare le trottole a suon di frustate, mentre i grandi si raccolgono attorno a un televisore, che un venditore intraprendente ha portato in strada per attirare i clienti e che alimenta con un rumoroso generatore.
Mi dispiace di non potere comunicare con la gente. In Cina le barriere linguistiche sono insormontabili; ma qui, nella città uigura, sento che c’è curiosità nei miei confronti: non abbiamo una lingua in comune, però me lo dicono i gesti e gli sguardi. Una donna mi fa cenno di sedermi accanto a lei; le sorrido, le faccio capire che apprezzo il suo invito, ma che non riuscirei a parlarle. Lei è contenta così, le basta aver attirato la mia attenzione.
È già scuro, too nella città cinese, al mio albergo cinese.
La vera incomunicabilità la sperimento qui. La mattina ho faticato a trovare un hotel. Uscita dalla stazione degli autobus ho girato a lungo col mio bagaglio avanti e indietro per il viale prima di infilarmi nel portone giusto. Non è solamente un problema di lingua e di alfabeto: non un gesto, non un cenno, non il minimo tentativo di cercare un contatto. Per fortuna non è sempre così, ogni tanto trovi chi tenta di aiutarti; ma spesso agli occhi dei cinesi mi sono sentita alla stregua dei muri delle case, materia inerte, priva d’interesse.

TRA GRATTACIELI E MUMMIE
A qualche ora di strada a sudest di Hotan parte una camionabile di recente costruzione, che consente di attraversare l’immensa distesa del deserto del Taklamakan, invece di girarci intorno. Così si può arrivare a Urumchi, la capitale del Sinkiang, in meno di 30 ore di autobus.
Urumchi è una modea città cinese; la presenza uigura è molto ridotta. Anche qui faccio fatica a orientarmi; i ricordi di 10 anni prima non mi sono di molto aiuto. Ho cercato di nuovo l’albergo dove ero stata in precedenza; ma al suo posto vi ho trovato un palazzo di 30 piani, bassettino, tutto sommato, rispetto a quelli che gli stavano crescendo intorno.
Urumchi ha una skyline da fare invidia a Manatthan e continua ad arricchirsi di nuovi grattacieli, sempre più alti e avveniristici. Anche case di media altezza non sono al sicuro dalla smania costruttrice degli amministratori locali.
«Se in questa remota provincia la corsa alla modeità ha raggiunto simili livelli di frenesia, cosa sta accadendo a Pechino?» mi chiedo; ma la mia fantasia non riesce a immaginare niente di plausibile. Molto meglio usare l’energia rimasta per andare a rivedere le mummie custodite nel museo locale: uomini, donne, bambini di tremila anni fa, perfettamente conservati dal clima asciutto del Taklamakan.
Il deserto li ha preservati con tale cura, che nulla è andato perduto: capelli, ciglia, sopracciglia, denti, occhi, abiti, monili. Nell’osservare le fattezze di quei volti provo un senso di vertigine: mi sento diventata d’un tratto testimone diretta di quella vita lontana, come se il tempo fosse stato d’improvviso risucchiato.
Così, viaggiando tra il xxi secolo e il 1000 a.C., sono arrivata all’aeroporto di Urumchi. L’edificio per i voli inteazionali è assai male in aese: niente a che vedere con il modeissimo terminal dei voli nazionali, che ho potuto ammirare da lontano.
Noi passeggeri del volo per Mosca ci accalchiamo davanti al check in senza quasi lo spazio di rigirarci con i nostri bagagli. Le operazioni d’imbarco, già lente, s’interrompono, perché tutti i computer sono andati in tilt. Nell’attesa che riprendano, do una sbirciata alla copia del China Daily, il giornale in inglese, che ho preso in albergo. Devo sfogliarlo tutto per trovare finalmente quello che sto cercando: le notizie dal mondo sono alle ultime due pagine.

Bianca Maria Balestra




ISRAELE-PALESTINA: Fotogrammi di sofferenza

Due israeliani e un palestinese, tutti registi
con un unico pensiero:
documentare le sofferenze di due popoli divisi
da una guerra, un muro, un odio che pare infinito.

Yoav Shamir, Eyal Sivan e Michel Khleifi sono tre film-maker, tre uomini che hanno in comune una grande e bella terra: l’antica Palestina, ora divisa tra i Territori palestinesi e Israele. I primi due sono israeliani, il terzo palestinese.
Condividono anche un’altra passione: quella per il cinema di denuncia sociale e politica.
Le loro opere – «Checkpoint» di Shamir e «Route 181» di Khleifi e Sivan – sono due capolavori del cinema-documentario, vincitori di numerosi premi inteazionali.

Yoav Shamir, regista isrealiano
Inquieto, un po’ timido, sempre attratto da nuovi stimoli suggeriti dall’ambiente e dall’epoca in cui viviamo, inglese fluente, Yoav Shamir, 33 anni, racconta la sua vita e il suo grande amore per il cinema, che, con Checkpoint, è diventato di «impegno politico e sociale».
Laurea in storia e filosofia all’Università di Tel Aviv, e master in cinematografia, il giovane cineasta entra con profondità emotiva nelle questioni esistenziali, sociali e politiche che costituiscono i temi dei suoi documentari.

Yoav, su cosa concentra maggiormente la sua attenzione?
«Mi interessano i sentimenti, le emozioni della gente di cui parlo, israeliani, palestinesi o cubani (Cuba è stato il soggetto del mio primo documentario). Cerco di capire come certe situazioni condizionino i rapporti umani e l’esistenza di intere popolazioni, come nel caso del conflitto israelo-palestinese».
In un’intervista pubblicata l’anno scorso su Dox lei aveva dichiarato di non essere una persona politicamente impegnata, di non andare alle manifestazioni. È ancora vero?
«Ora che Checkpoint è uscito mi sono ritrovato, senza volerlo, politicamente coinvolto. Non ne posso fare a meno: è un film politico».
Il suo è un documentario completamente girato tra i 200 posti di blocco israeliani nei territori palestinesi. Denuncia la dura condizione di oppressione in cui vive la popolazione araba, ma anche il degrado umano e sociale dei giovani militari israeliani, costretti a obbedire a ordini di cui non comprendono la portata. È un’opera di notevole durezza, che non concede sconti. Perché, come israeliano, ha deciso di realizzarla?
«Volevo rendere visibile agli israeliani ciò che sta quotidianamente accadendo nei Territori palestinesi occupati, cosa ciò significhi per loro e per noi. Mi interessava far emergere le implicazioni psicologiche dell’occupazione.
Tra le difficoltà incontrate nella realizzazione di questo film c’è stata anche l’iniziale incomprensione dei miei genitori: provenendo da famiglie di militari, non riuscivano a comprenderlo, ad accettarlo. Ora è diverso: hanno finalmente imparato ad apprezzarlo».
Che cosa significa per gli israeliani far vivere un popolo sotto occupazione?
«È ciò che sta accadendo dal 1967: la nostra società è diventata più aggressiva, più brutale, al suo interno prima di tutto. In questi ultimi anni è stata pubblicata una ricerca che denuncia un aumento della violenza tra la popolazione israeliana. Violenza “civile”, dunque. C’è infatti una interconnessione tra la politica di occupazione e il peggioramento dei rapporti interpersonali nella nostra società: il primo aspetto inevitabilmente sta influenzando il secondo. Una società sana non può far finta che la violenza estea non condizioni, in negativo, i comportamenti all’interno della società stessa. Questo vale anche per la popolazione palestinese, che è diventata molto militarizzata; anche i giochi tra bambini imitano situazioni di aggressività. Siamo di fronte a due popoli che si stanno auto-distruggendo».
In Checkpoint lo spettatore non assiste a scene di violenza fisica, ma è molto presente la violenza psicologica. Perché ha scelto di cogliere questo aspetto piuttosto che l’altro?
«È vero, c’è molta violenza mentale, psicologica. Ho focalizzato le mie riprese solo nei microcosmi dei checkpoint, e non su ciò che accade per le strade. Ho sostato per ore, per mesi, tra il 2001 e il 2003 ai posti di blocco, e ho registrato ciò che vedevo: al 99 per cento si è trattato di violenza psicologica. La violenza fisica è minima, nella maggior parte dei casi assistiamo a scene come quella del soldato che proibisce alla mamma di portare il figlio dal medico, dall’altra parte del checkpoint».
Lo spettatore non può non provare empatia nei confronti dei palestinesi: avverte il loro dolore, la rabbia per le ingiustizie subite. Il suo, dunque, è un film di parte?
«Ho cercato di cogliere differenti punti di vista: talvolta quello dei palestinesi, talvolta quello dei soldati israeliani. Ho cercato di fare un film in cui venisse ritratto come vittima non solo il palestinese, ma anche il giovane militare. E la complessità di una situazione in cui tutti soffrono».
Ma la sofferenza dei palestinesi emerge in modo più evidente…
«Certo, perché loro sono le vittime. Anche se la verità non è solo bianca o nera: anche i soldati ai posti di blocco possono essere considerati delle vittime a causa della difficile situazione in cui si trovano. Talvolta possono sembrare delle “marionette” che eseguono ordini provenienti dall’alto. Sono molto giovani e spesso con poca consapevolezza del proprio ruolo. Forse per questo il film viene proiettato anche nelle caserme israeliane…».
Qual è il suo obiettivo: farli riflettere e cambiare atteggiamento nei confronti della popolazione palestinese?
«Non so in realtà perché l’esercito abbia deciso di proiettare il mio documentario. Forse perché, quando fai il soldato ad un posto di blocco non hai la possibilità di vedere la situazione con obiettività, dall’esterno. Ecco, allora, che questo film può aiutare a fare un passo indietro e a guardare in modo più oggettivo.
Molti fra gli alti livelli dell’esercito non sanno ciò che avviene ai checkpoint: qualcuno l’ha scoperto recandovisi in incognita ed è rimasto attonito».
Come vede il futuro?
«Qualche volta sono ottimista, qualche altra pessimista. Dipende. Penso che la soluzione è così semplice. Il grande problema è la de-umanizzazione dell’altro, del nemico, che non viene più percepito come essere umano. La società palestinese è molto scolarizzata, evoluta. Credo ci possano essere tanti punti di contatto, di dialogo. Le ferite possono rimarginarsi anche se profonde.
Un’altra questione è: due stati per due popoli, o uno stato per due popoli? Personalmente preferirei la seconda ipotesi. Altrimenti sarebbe come creare un ghetto ebraico in territorio arabo. Israele potrebbe invece assimilarsi nell’area: il 60 per cento degli israeliani ha radici arabe, viene, cioè, dal Marocco, dall’Iraq, dallo Yemen, ecc. La maggior parte è cresciuta in questi ambienti misti, parla l’arabo. Gli altri, quelli che arrivano dall’Europa o dall’America, in maggioranza sono di sinistra. Dunque, la soluzione potrebbe essere molto più semplice di quanto si pensi».
Se è così semplice, perché non è stata ancora trovata?
«Molti ci provano. È che tanti israeliani vedono i paesi arabi come un’unica entità: l’idea del panarabismo è ancora molto presente in Israele e anche quella di essere una piccola nazione circondata da nemici. La gente non sa che tra uno stato arabo e l’altro ci possono essere differenze e addirittura conflittualità. L’altro problema è la mancanza di democrazia nelle società arabe. Gli israeliani dicono: “Noi siamo democratici, secolarizzati, non vogliamo trovarci a convivere con situazioni dove manca la libertà”. Un altro ostacolo è la crescente islamizzazione della società palestinese».
Se i palestinesi potessero lavorare e i ragazzi andare a scuola, forse la situazione cambierebbe.
«Certo. Ma siamo dentro un circolo vizioso. Basterebbe, tuttavia, risalire alla storia degli anni ’50 e ’60 per capire quante e quali responsabilità, e interessi, l’Occidente ha nei confronti del Medio Oriente, della cui situazione ora sembra essersi lavato le mani. Ha manipolato, colonizzato, creato strategie e alleanze. E ora parla di pace: ma chi ha acceso per primo il fiammifero in questa polveriera?».
Yoav ha un sogno: far in modo che non esistano più i checkpoint, che l’esercito israeliano lasci i territori palestinesi, che occupazione e guerra abbiano termine e che palestinesi e israeliani possano vivere in pace in un unico Stato.
«Ciò che mi dà più gioia è quando i sostenitori della destra israeliana raccontano che il mio film ha cambiato il loro modo di vedere il conflitto con i palestinesi. Questo è già un grande risultato».

MICHEL KHLEIFI, REGISTA PALESTINESE
Michel Khleifi è nato nel 1950 a Nazareth e nel 1971 si è trasferito a Bruxelles, dove ha studiato teatro all’Institut national supérieur des arts du spectacle (Insas). Attualmente insegna cinema all’Insas. I suoi film più famosi sono «Memorie fertili» (1980); «Nozze in Galilea» (1987), che ha ottenuto il premio della Critica internazionale al Festival di Cannes nel 1987; «L’Ordre du jour» (1993); «Conte de troi diamants» (1995); «Mariages mixtes en Terre sainte» (1996).
Capelli bianchi, faccia simpatica, è seduto al tavolino di un bar nei pressi di un cinema torinese ad osservare il via vai di giovani e adulti che entrano ed escono dalle sale dove è in corso una no-stop di film israeliani e palestinesi.

Signor Khleifi, come vede il futuro dei popoli israeliano e palestinese?
«Non posso dire come lo vedo, ma come lo sogno. La scelta migliore, ora, è tentare di umanizzare le due società in conflitto e creare le condizioni per la convivenza di due diverse “cittadinanze”. L’ideologia sionista purtroppo non riconosce questa possibilità. Solo se si cambia questa mentalità, si potrà trovare una soluzione avvicinando l’uno all’altro i due popoli.
È mai possibile essere trattati come delle bestie quando si viene fermati da un militare israeliano? Capita anche a me: sono invitato in tutte le università del mondo e quando arrivo in Israele, solo perché sono palestinese, vengo umiliato anche dal giovane soldatino israeliano appena arrivato dalla Russia. È una follia: fanno fatica a considerarci come delle persone. Siamo nullità.
Israele è una società automatizzata: hanno bisogno di parlare, di tirar fuori ciò che hanno dentro, di rielaborare».
Nei media occidentali quando si parla della Palestina la si associa spesso a Hamas.
«Hamas è lo specchio in cui si riflette il sionismo: il comportamento di quest’ultimo è causa di quello del primo. Se infatti io le rubo ciò che lei possiede, come reagirà? Mi ringrazierà o cercherà di riprendersi indietro ciò che le è stato tolto?
Il problema è che i sionisti sono arrivati in Palestina non con il desiderio di vivere in pace, ma con quello di imitare il colonialismo. Non hanno tenuto conto della popolazione palestinese. Hamas esiste, dunque, in quanto reazione a questa mentalità e a questa prassi distruttiva, lesiva dei diritti del popolo palestinese. Il problema, però, è come viene prodotta la violenza».
Route 181 è il frutto della collaborazione tra lei e l’israeliano Sivan. Come descrive questa relazione professionale e umana?
«Siamo amici e colleghi. Il nostro obiettivo era andare fino in fondo, nonostante gli ostacoli o le divergenze, e realizzare una grande opera. Non è stato facile lavorare in due e con esperienze diverse alle spalle. Abbiamo dovuto affrontare problemi durante le riprese, il montaggio, l’editing. Ma ce l’abbiamo fatta.
Il nostro film vuole essere uno strumento per parlare con le persone e per farle parlare. In genere, si sente solo la voce dei politici, mentre quella dei due popoli non viene mai ascoltata. Ma è proprio da loro che possono giungere soluzioni per una pacifica convivenza: è quello che abbiamo raccolto e registrato nel nostro viaggio-film».
Quali sono i suoi progetti cinematografici futuri?
«Tradurre ancora una volta in film la vita dei palestinesi».
Khleifi risponde velocemente a quest’ultima domanda e poi entra nel cinema, dove è atteso da un folto pubblico che ha appena assistito alla proiezione del suo film.

Box 1

La via della pace tra Palestina e Israele può passare anche dal cinema (documentari, film, cortometraggi politically committed). Dal lavoro corale, dall’amicizia e collaborazione di registi palestinesi e israeliani, da produzioni coraggiose che denunciano a un mondo occidentale sempre più sordo e cieco, imbonito dalle manipolazioni dei media, dei politici e dei grandi gruppi industriali, la tragedia di un popolo oppresso e quella del suo oppressore.
Raccontare le umiliazioni quotidiane subite dai palestinesi, la violenza che colpisce i bambini dei villaggi e dei campi profughi fin dentro le loro case – minando per sempre quel flebile accenno di fiducia e di protezione a cui ancora potevano auspicare – non è argomento che interessi i grandi giornali o le tv. Illustrare fin nei minimi dettagli l’effetto catastrofico di chi, fra i giovani palestinesi, si fa esplodere annientato da folle disperazione, quello sì, è tema che stuzzica e coinvolge.
Anche la critica nei confronti del governo israeliano per la sua politica nei confronti del popolo di Palestina, per noi occidentali è diventata un tabù: si è subito accusati di antisemitismo (come se semiti fossero solo gli ebrei e non anche tutti gli arabi!). Seppur una gran parte dei cittadini europei ritenga che il governo israeliano rappresenti la maggior minaccia per la sicurezza dell’umanità, governanti e leader di partito fanno fatica a raccogliere gli stimoli della gente comune e a prendere chiare posizioni di condanna nei confronti della disumana politica anti-palestinese di Tel Aviv. Perché, contrariamente a quanto sostiene certa propaganda e il recente libro della giornalista Fiamma Nirenstein (Gli antisemiti progressisti, Rizzoli 2004), denunciare Sharon e i suoi accoliti non significa essere antisemiti, bensì avere a cuore l’antica e ricca cultura ebraica.
Infatti, paradossalmente, i giudizi più duri contro la strategia di Sharon arrivano proprio dall’interno di Israele. Quasi a spiegare che malattia e cura sono compresenti in ogni realtà e che si può guarire dal dolore, ma attraverso il riconoscimento della dignità umana del proprio nemico, israeliano o palestinese che sia.

Box 2

ROUTE 181
Una strada di uomini e donne

Eyal Sivan, israeliano, e Michel Khleifi, palestinese, hanno dedicato oltre un anno alla realizzazione di un progetto cinematografico arduo e complesso che li ha portati a rivolgere uno «sguardo comune» sugli abitanti di Palestina-Israele. Nell’estate del 2002, di fronte a un quadro di violenza dilagante, i due vecchi amici si sono chiesti quale poteva essere il loro contributo di artisti impegnati per un cambiamento radicale della prospettiva del conflitto israelo-palestinese: «fare un cinema che faccia riflettere», si sono risposti, «e farlo insieme». Ecco, dunque, «Route 181 – Frammenti di un viaggio in Palestina-Israele».
Scrive Nadia Nadotti nella presentazione del cofanetto di 4 Dvd: «L’espediente narrativo è semplice: sovrapponendo all’attuale carta geografica di Palestina-Israele, la mappa tracciata dalle Nazioni Unite nel novembre del 1947, con la linea di partizione che avrebbe dovuto dar vita a due Stati sovrani e indipendenti, Israele e Palestina, e che invece fece da detonatore a un conflitto che dura ancora oggi, i due autori individuano un itinerario obbligato. Percorreranno il paese da sud a nord, seguendo chilometro per chilometro quella virtuale linea di spartizione, affidando alla natura dei luoghi e al caso gli incontri di cui daranno conto nel film.
Mettendosi in strada con una troupe composta solo di un cameraman, un tecnico del suono e un autista, i due cineasti, per oltre due mesi, nella tarda primavera del 2002, si immergono in quello straordinario laboratorio umano, sociale, culturale, etnico, linguistico che è oggi Palestina-Israele. (…) Non vanno alla ricerca di amici e nemici, ma di uomini e donni comuni, con le loro storie e le loro piccole, parziali verità, i loro ricordi, le loro rimozioni, la loro – a volte miserabile, a volte luminosa – umanità. (…) Ciò che Khleifi e Sivan vogliono è liberare la parola, permettere a chi il caso mette loro davanti di ripercorrere senza sentirsi minacciato una storia che è insieme privata e pubblica, personale e collettiva. Convinti che all’origine di ogni guasto storico e politico ci sia l’incapacità di riconoscere all’Altro la sua complessa umanità e dunque i suoi traumi, le sue paure, persino i suoi fragili e talora aggressivi discorsi di copertura – per l’appunto, il diritto al racconto -, i due cineasti formano una sorta di collettivo e informale setting analitico in grado di contenere, attraverso un fiducioso atto di nominazione, l’odio, la paura, le proiezioni reciproche, i sensi di colpa, la coazione a ripetere, la speranza, il desiderio».
A.La.
Fonti:
• I 4 Dvd sono pubblicati dalle Edizioni Bollati Boringhieri, corso Vittorio Emanuele II, 86, Torino; tel. 011-5591711; info@bollatiboringhieri.it
Inoltre:
• Associazione Documè, via San Pio V 14/c – 10125 Torino; tel. 011.66.94.833;
docume@tin.it

Angela Lano




L’APOCALISSE ASIATICA Riflessioni sulla tragedia

PERCHÉ IL DOLORE E LA MORTE?

Perché il male e la sofferenza? Perché? Perché?
Quando dubbi ed interrogativi opprimono le nostre menti.

Una montagna di fuoco fu scagliata nel mare. Un terzo del mare divenne sangue e morì un terzo delle creature che erano nel mare (Ap 8,8).
Le scene che, per settimane, sono giunte dal Sud-Est asiatico hanno lo sfondo e i confini di un’apocalisse cosmica, che ha coinvolto l’intero pianeta, se il cataclisma ha avuto la potenza di spostare anche l’asse di rotazione terrestre e un’intera isola di parecchi metri. Le parole sono totalmente afone non solo di fronte alla gravità inimmaginabile del maremoto, ma anche di fronte ad una tragedia nella tragedia: la catastrofe si abbatte su una porzione del Terzo Mondo che già paga il salatissimo prezzo della miseria e della povertà. Ancora una volta, come ricorda il detto popolare, «piove sul bagnato».
«Se Dio esiste, perché permette che succeda tutto questo macello cosmico e sempre a danno dei poveri che non possono neanche cadere dal letto visto che sono sdraiati per terra?». È l’eterno problema del «perché il male e la sofferenza?» e del «perché il dolore e la morte tragica degli innocenti?». Sono alcune domande che si sentono immediate e spontanee in bocca alla gente che non sa darsi una spiegazione logica. Quando gli uomini non sanno dove appigliarsi, quando sono incapaci di una qualsiasi risposta logica, di fronte alla maestosità sovrana della natura e terrorizzati dalla loro piccolezza, scaricano sempre (senza malizia beninteso!) una sfilza di «perché?» su quel Dio che il teologo evangelico, Dietrich Bonhoeffer, chiamava il «Dio tappabuchi». Di questo «dio» non sappiamo cosa farcene e crediamo che nemmeno Lui sappia cosa farsene.
Noi non abbiamo risposte preconfezionate, non abbiamo ricette con una risposta per ogni domanda. Anche noi siamo atterriti e sgomenti, pieni di «perché?» senza risposte e la nostra fede, seppure solida, è densa di dubbi e interrogativi che il nostro cuore, come Giacobbe, «medita in silenzio» (Gen 37,11) o come Maria che conserva gli eventi incidibili nel suo intimo, meditandoli davanti al mistero (Lc 2,19). Noi siamo poveri testimoni di un Dio «incarnato» nella storia di carne degli uomini e delle donne, specialmente degli ultimi e degli esclusi. Noi sappiamo che Dio non vuole né permette alcuna disgrazia perché egli è Padre-Madre di ciascuno dei suoi figli e un padre non si diverte a torturare i suoi figli, scaraventando su di loro un maremoto paragonabile per potenza a mille bombe atomiche. Se un «dio» così fosse solo ipotizzabile bisognerebbe ucciderlo in tempo, prima che distrugga ogni cosa. No, non è questo il Dio di Gesù Cristo! Egli non è un orologiaio che aggiusta i meccanismi secondo il capriccio degli uomini, come voleva Cartesio o come vorrebbero i fans di un Dio juke-box, pronto a rispondere a comando di monetina. Questo «dio» è un dio a immagine e somiglianza della malvagità degli uomini che non possono ipotizzare un dio diverso dal loro modo di agire e di pensare. Questo «dio» carnefice, vendicativo, insensibile è stato sconfitto da Gesù Cristo sulla croce che resta la lucerna accesa sul moggio (Mt 5,15) per rischiarare tutte le croci e tutti i crocifissi che la Storia e la Natura portano con sé. Dio non gioca a bowling con le persone. Dio è persona seria!
Noi sappiamo, al contrario, che nel momento in cui il male accade e il dolore avvince l’uomo e la sofferenza stritola il giusto, l’innocente e il malvagio, Dio è già là che aspetta perché nessuno in quei tragici momenti si senta solo. Dio, come ci insegnano i vangeli nel racconto del battesimo, è sempre l’ultimo della fila, perché chiunque, colpito in qualsiasi modo, possa guardarsi indietro e non sentirsi ultimo, ma solo penultimo. Dio è sempre l’ultimo: è il povero, è l’emarginato, è il terremotato, maremotato, è il disperso, è il morto, è l’orfano, l’innocente crocifisso senza colpa e senza distinzione di razza, tribù e lingua, è veramente tutto in tutti (1Cor 15,28). A mi chiede: Dov’è Dio? Mi è facile rispondere: «Guardati attorno e volgi lo sguardo: viene dall’Oriente e dall’Occidente, dal Settentrione e da Mezzogiorno… una marea di volontari sale dal cuore dell’umanità e la maggior parte in silenzio, senza fragore, condividendo ciò che hanno e ciò che sono senza che la destra sappia quello che fa la sinistra» (Mt 6,3): uomini e donne, bambini e anziani, un mare di umanità, un maremoto di solidarietà sta riportando l’asse terrestre al suo posto e dai quattro angoli del mondo, il meglio degli uomini e delle donne è carne e osso del Sud-Est asiatico. Ecco dov’è il Dio di Gesù Cristo e il suo Spirito soffia dove vuole e irrompe in azione (Gv 3,8).

Se le cose stanno così, come spiegare questa apocalisse e tutte le altre tragedie che assediano e asfissiano l’umanità intera, come guerre, epidemie, transumanze, stragi di popoli interi, fame endemica, schiavitù di intere masse di poveri, sacrificati sull’altare del moloch del superfluo dei paesi industrializzati, ricchi, sazi e in cura dimagrante per combattere il colesterolo o per mantenere il «peso-forma»?
Leggiamo in Gen 2,15 che «Il Signore-Dio prese l’Adam e lo collocò nel giardino di Eden perché gli ubbidisse e lo custodisse» come si deve ubbidire e custodire la Torah o l’Alleanza. L’uomo che ha scacciato Dio dal suo orizzonte si è rivolto verso la terra e l’ha considerata sua schiava, l’ha asservita ai suoi soprusi, l’ha stuprata e continua a stuprarla nonostante i medici dicano che sta morendo. L’uomo nei confronti della terra ha un rapporto necrofilo: vuole possederla anche da morta. La terra però non riconosce nell’uomo il suo «signore» e da violata diventa violenta e quando si scatena non fa sconti. Tutti gli scienziati dicono che bisogna mutare stile di vita, il protocollo di Kyoto ne ha imposto l’urgenza nell’agenda del mondo, eppure l’America non vuole firmarlo, ma forse comprerà dai paesi poveri porzioni d’inquinamento per mantenere il suo «tenore di vita». Gli altri paesi occidentali firmano, ma non ottemperano e dilazionano, dilazionano o, come l’Italia, aumentano i parametri minimali per stare sempre dentro. Non c’impressiona la natura che fa il suo corso e la storia ne è fedele testimone. Interi popoli e civiltà, forse superiori alla nostra, sono scomparsi come i popoli e le culture precolombiane. Noi già sappiamo che, tra qualche manciata di milioni di anni, anche la terrà scomparirà e il sole si fredderà e scoppierà e sorgerà un nuovo sole e una nuova terra. È così da milioni di anni e così sarà ancora per milioni di anni. Sappiamo anche che dobbiamo convivere con queste tragedie e cataclismi che diventeranno sempre più frequenti e sempre più devastanti perché la terra è diventata più fragile e poggia su un sistema dall’equilibrio precario, la cui responsabilità ricade solo ed esclusivamente sull’uomo dei «paesi industrializzati» che vanta una civiltà radicata niente di meno che sulle radici cristiane. Ciò che ci scandalizza e ci indigna sono altri maremoti che riguardano l’atteggiamento degli uomini e delle donne, una sparuta minoranza, ma che monopolizzano l’opinione pubblica perché i mass media se ne fanno esclusivi portavoce.
Thailandia, Sri Lanka, Indonesia, Birmania, Maldive, Malaysia, Andamane, India… Nomi conosciuti anche da chi non li ha mai visitati. Nomi che la tv ammannisce, almeno tre volte all’anno: a Pasqua, in estate e a Natale, quando diventano mete per le vacanze esotiche.
In certe occasioni dire «Maldive» significa affermare uno status symbol, perché, in certi ambienti, chi non è stato in quella porzione di «paradiso» (naturale e fiscale) non dovrebbe meritare di stare al mondo. I vacanzieri dell’occidente civilizzato che affondano la loro identità nelle «radici cristiane», non si sono mai accorti, nemmeno per sbaglio, della povertà, della miseria e della fragilità di quelle popolazioni, schiave del lusso degli altri, asservite alle vacanze esotiche a basso costo, specialmente in periodi di super-dollaro o, come oggi, di super-euro che permettono di comprare due pagando uno.
Certo, chi va in quei paesi porta un po’ di ricchezza in valuta pregiata, ma ci ricorda la parabola di Luca 16,21 dove il povero Lazzaro è «bramoso di sfamarsi delle briciole che cadevano dalla mensa del ricco» tanto da impietosire i cani di guardia.
Ad inizio gennaio, pochi giorni dopo l’ecatombe naturale, si parlava già di una contabilità da brividi: i morti superavano la cifra di 140.000 persone, cifra destinata a crescere ancora e forse di molto. Si parla di 5 milioni di profughi.
Si poteva evitare o quanto meno contenere se non la furia irragionevole e violenta della natura, almeno il numero dei morti? Giappone e America sembra che sapessero per tempo quanto stava succedendo e pare anche che non abbiano informato i governi dei paesi coinvolti perché non facevano parte del protocollo preventivo, sottoscritto solo da alcuni paesi. Alcuni governi che sapevano, non hanno potuto informare i propri cittadini perché la maggior parte della popolazione non può essere raggiunta da tv, radio o altro. In un tempo in cui attraverso i satelliti si riesce ad individuare una formica nera su una pietra nera in una notte senza luna, nell’esotico Sud-Est asiatico, frequentato da turisti armati di cellulari, esistono ancora villaggi isolati, senza tv, senza radio, senza telefoni. In una parola: senza comunicazione. Questo è il vero inferno perché un popolo senza comunicazione è un popolo seppellito vivo, specialmente in regioni dove la prevenzione dovrebbe essere la regola e mai l’eccezione.
Abbiamo visto alberghi e bungalow, riservati agli stranieri (gli unici che si possono permettere certi prezzi) costruiti quasi a ridosso della battigia perché è esotico-esotico buttarsi in mare dalla finestra della propria camera. Govei, costruttori e tour operator hanno fatto scempio di quei paesi che hanno sottratto alla legittima proprietà degli abitanti e ne hanno fatto un sistema di soldi (per pochi occidentali) a servizio dei tanti occidentali che vengono in questi «paradisi» a svernare, quando in occidente fa freddo e a rinfrescarsi quando in occidente fa caldo. La tv italiana, ormai omogeneizzata al potere, ha quasi circoscritto la tragedia alla sorte dei nostri connazionali, mettendo in rilievo il durissimo colpo inferto al settore turistico, cioè ad una parte dell’economia occidentale che su quel settore prospera e specula.
Le prime notizie che gli italiani hanno appreso riguardava la sorte dei «vip». Non abbiamo sentito una parola sulle condizioni di quei popoli, sul loro sistema economico, sulle loro strutture sociali. Non un commento sul loro asservimento ad un sistema capitalistico che sfrutta il clima di una natura ordinariamente benigna, squassando l’equilibrio dell’ecosistema locale, lasciando quasi inalterate le condizioni miserevoli dei popoli nativi.
La Thailandia è famosa per il mercato delle minorenni, pagate pochi dollari per prestazioni sessuali «esotiche». Un tour operator italiano si è sentito dire da un turista italiano che nonostante l’apocalisse voleva partire lo stesso, avendo acquistato i biglietti: «Io voglio partire, ma mi dovete garantire che non vedrò nulla di sgradevole né sconveniente».
In questi «paradisi» depredati si passa accanto alla miseria e alla povertà e non si vede nulla di sgradevole e di sconveniente. Si viene, si lascia l’immondizia e si ritorna a casa, narrando ad amici e conoscenti mirabilia sulle proprie conquiste, sullo splendore della natura o sulle strabilianti avventure erotiche. No! Non apparteniamo né vogliamo appartenere a questo mondo che non sa svegliarsi nemmeno di fronte ad un maremoto di proporzioni abissali. Questo mondo è condannato all’autodistruzione ed è causa della distruzione della terra e dell’umanità. Dopo il primo sgomento, il criterio di misura, ormai quasi unico, è la sorte dei nostri connazionali che in un batter d’occhio passano da tredici a settecento (provvisori), senza rendersi conto che i nostri connazionali, morti o dispersi o salvati sono parte integrante di quei popoli morti, dispersi e parzialmente salvati.
Avremmo voluto sentire lo spirito della globalizzazione, tanto strombazzato in questi ultimi anni e identificarci senza distinzione di Sud-Est o Nord-Ovest con una umanità ferita e ancora una volta depredata non solo della sua dignità e libertà, ma anche della sua terra. Solo un giullare (lo diciamo con tutto il rispetto possibile per i poeti della satira), ElleKappa, ha saputo cogliere in una battuta la dimensione nascosta della catastrofe. Dice l’omino che legge il giornale: «Lo Tsunami si poteva prevedere». Gli risponde la spalla: «È stata la miseria che ha colpito il mondo di sorpresa».
In anni di vacanze nel Sud-Est asiatico, quasi nessuno si è accorto della «signora Miseria» che pagava il conto dei fruitori dei «paradisi» esotici. C’è sempre qualcuno che paga per tutti, ma di solito i «tutti» fanno finta di non vedere il «qualcuno» e se lo vedono lo rimproverano anche di non farsi vedere a disturbare le tanto agognate vacanze.

In questo contesto si colloca anche l’atteggiamento di chi ci governa e che avrebbe dovuto essere all’altezza della situazione, esempio per l’intera nazione. Nella conferenza stampa di fine anno (30 dicembre 2004), il presidente italiano del consiglio dei ministri, dopo dovute parole di prammatica sulla tragedia asiatica, comunica che ha già parlato con i suoi colleghi europei e, come sempre, tutti sono d’accordo con lui, salvo smentite del giorno dopo.
Egli auspica che sia l’Europa (per anni denigrata e contestata) a mettersi alla testa dei paesi europei per cornordinare gli interventi. Una manciata di secondi e… si passa all’ordine del giorno: il possibile acquisto di un piccolo partito dell’opposizione e le mirabolanti realizzazioni del governo, definite «svolta epocale», senza rendersi conto che di «epocale» vi erano solo le immagini di un’apocalisse planetaria.
Il mondo sprofonda nell’inferno dell’apocalisse cosmica e il capo del governo che dovrebbe prendere decisioni immediate d’intervento, coinvolgendo il paese in un afflato umanitario, parla di campagna acquisti e promesse di posti di potere. Se questa è la misura… Se questo è un uomo… direbbe Primo Levi.
Avremmo voluto sentire le seguenti parole semplici e lineari: «Signori della Stampa nazionale ed estera, vi do uno scornop che vi prego di porre in evidenza nell’edizione di domani: considerata la gravità e la portata del disastro asiatico, fedeli alla nostra cultura internazionale e solidali con quelle popolazioni, devastate anche nella loro anima, il governo all’unanimità e con l’appoggio incondizionato dell’opposizione, ha deciso di ritirare immediatamente i soldati dall’Iraq e di inviarli nel Sud-Est asiatico per portare assistenza e sollievo alle popolazioni superstiti. Siamo consapevoli della nostra scelta e ne siamo orgogliosi». Avremmo voluto ascoltare, ma non abbiamo potuto, perché tutto il tempo della conferenza stampa è stato impiegato a dipingere un «paradiso artificiale», che esiste solo nell’immaginazione di Narciso che si specchia nell’acqua di uno stagno.
Peccato, ancora un’occasione perduta.

Noi e, ne siamo certi, i nostri lettori che non siamo mai stati vacanzieri spensierati nel Sud-Est asiatico, ma dove siamo presenti lo siamo come amici, servitori o missionari, ci sentiamo nell’intimo parte vitale della loro tragedia. Noi faremo secondo le nostre possibilità, oltre le nostre possibilità, per alleviare dolore e sofferenza. Non possiamo ridare la vita ai morti, possiamo accompagnare la vita dei superstiti caricandola sulle nostre spalle, come farebbe il «Pastore bello» con le sue pecorelle.
Sull’esempio del Dio-pastore, anche noi gettiamo le reti della solidarietà umana e della carità cristiana, perché la credibilità di Dio passa attraverso la nostra gratuita e libera credibilità di uomini e donne veri, coerenti fino in fondo nel condividere «le giornie e le speranze, le tristezze e le angosce… dei poveri soprattutto e di coloro che soffrono» (Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et Spes, 1) nel Sud-Est asiatico e in ogni parte del mondo.

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Salvador de Bahia… e la fame continua

Nella capitale dello stato di Bahia si scontrano il lusso più sfacciato e la miseria
dei bassifondi; in periferia i complessi petrolchimici sfruttano i poveri indifesi; nell’interno della regione, i latifondisti sono in lotta con i senza terra… In mezzo la solidarietà di laici
e missionari, impegnati accanto agli emarginati, per aiutarli a difendere la propria dignità.

In un viaggio nello stato brasiliano di Bahia, alla ricerca di progetti sociali e di persone impegnate nella solidarietà, mi sono fermato a Salvador, la capitale di Bahia, poi a Monte Gordo, un piccolo centro situato sul litorale, a 50 km dalla capitale, e infine a Esplanada, una cittadina che dista circa 100 km dalla costa, praticamente alle porte del grande Sertão.
Mentre nei quartieri degradati di Salvador operano insieme laici e religiosi, negli altri due luoghi lavorano due missionari marchigiani, padre Luis (don Luigi Carrescia) e frei Chico (frate Francesco Carloni). Il primo, dopo 10 anni di servizio in un’altra città, Camaçari, si è definitivamente stanziato a Monte Gordo; l’altro, ormai da 30 anni in Brasile, porta avanti la presenza dei cappuccini, giunti in questo pezzo di Bahia all’inizio del secolo scorso.

SALVADOR BRILLA

Rita lavora come assistente sociale nella casa di donna Conceição, zia Conça per gli amici, una simpatica bahiana che 12 anni fa si è messa in testa di fondare un’associazione controcorrente. All’ingresso c’è un’insegna sulla quale si legge: «Preconcetti no. Solidarietà sì». La casa accoglie bambini orfani, a rischio di emarginazione, perché almeno uno dei loro genitori è morto di Aids e per tale motivo gli altri asili non li accettano.
Zia Conça invece se li prende tranquillamente con sé. Qui i bambini possono giocare, iniziare a esercitarsi con l’alfabeto portoghese e con la matematica, mangiano tre volte al giorno, fanno il bagno e sono seguiti quotidianamente da un’infermiera.
Alla porta di zia Conça bussano anche altri abitanti del quartiere, per chiedere un pasto, un consiglio, un aiuto scolastico per il figlio o per un controllo medico. I sieropositivi sono molti, condannati dall’indifferenza a un triste destino.
Ciononostante, oggi è un giorno speciale: c’è da festeggiare il compleanno di un gruppo di persone. Potrebbe essere l’ultimo e per questo diventa importante stare insieme.
Rita e le altre ragazze della casa di zia Conça hanno preparato un dolce enorme al cioccolato con le fragole e tante caraffe di succhi di frutta. Poi verso le quattro del pomeriggio gli adulti arrivano all’asilo a riprendersi i bambini. Nessuno di loro ha un lavoro fisso, sono tutti specializzati nell’arte dell’arrangiarsi. Vivono di piccoli traffici, di prostituzione, di lavoretti per rimanere a galla nel mare dell’esclusione sociale che taglia in due la città: da un lato i centri commerciali e finanziari e dall’altro le catapecchie.
Se si percorre l’Avenida Antonio Carlos Magalhães, il boss di Bahia, ci si specchia davanti alle porte scorrevoli delle banche, degli alberghi inteazionali o degli specchietti delle auto di lusso, parcheggiate davanti ai palazzi, con il custode che annaffia le piantine della reception; poi all’improvviso, superato un terrapieno, giù nello sprofondo che non si vede mai, pulsa una favela, un altro mondo.
Qui la sanità non arriva; la polizia ci entra solo per dare la caccia a qualche ladro di polli; la scuola non funziona, l’amministrazione pubblica si dimentica volentieri di registrare i nuovi nati: può capitare che un bimbo cresca senza che nessuno lo sappia, vivendo per strada, al di fuori di qualsiasi regola civile.
I meninos de rua, con la velocità di un proiettile, diventano grandi, bruciano tutto e sono consapevoli di andare incontro a una parabola drammatica, fatta di malattie e di violenza: te lo raccontano con il sorriso.
Una volta alla settimana zia Conça li carica su due pulmini e li porta a fare una gita al mare o in qualche parco dove mangiano una grossa salsiccia in umido, fanno la doccia e si divertono in pace, senza masticare il grigio del marciapiede.
I fondi per aiutarli ad abbandonare la strada sono scarsissimi, così si fa quel che si può. In questa lotta contro le ingiustizie, in mancanza di un appoggio governativo, a tappare i buchi sono impegnate sia le suore terziarie francescane, un gruppetto di religiose indiane che, con i finanziamenti del progetto di adozione a distanza Agata-Smeralda, offrono istruzione ai tanti semianalfabeti e un po’ di medicine, sia le parrocchie di periferia che attraverso la pastorale denunciano e poi tentano di risolvere i casi di denutrizione, di droga e alcolismo, di sfruttamento sessuale e di emarginazione.
A ridosso delle elezioni si fa vivo qualche politico, che regala caramelle e distribuisce scarpe e protesi dentarie in cambio del voto.
E non solo: ovviamente fa anche molte promesse. Per esempio, di concedere i regolari documenti catastali a tutte le famiglie che hanno una specie di abitazione ma non sono ancora registrati. Poi succede che, una volta eletto, ci mette un minuto a dimenticare tutto.
Intanto però la favela aumenta con nuovi arrivi dalle campagne di sbandati in cerca di miglior sorte e un’altra ragazzina partorisce il primo di una lunga serie di bocche da sfamare. E come la fame anche la notte continua.
Quando scende il buio da lontano la favela arroccata su una collinetta sembra un presepe di cartapesta, avvolto in un vestito rigato di polvere dorata. Ma la distanza inganna. Fuori da quel tremolio di lampadine, intorno ai semafori, sotto i grattacieli, i fari delle macchine illuminano il numero da giocoliere di un ragazzino che, con il viso dipinto di bianco, fa ruotare tre bastoni infuocati, dando vita a un malabaris e al tintinnio di due spiccioli di elemosina sotto gli uffici delle multinazionali.
Davanti al porto, si accendono le luci sulla Bahia de todos los santos e la mano di un turista dirige i riflettori sul lungomare, dove i viados aspettano chi li porti via. Una signora frigge una manciata di fagioli nell’olio di dendê e l’odore dolciastro che ne viene fuori si spalma sulla città, come una crema su un corpo addormentato e infilzato da aghi, le cui capocchie emettono flebili luccichii.
Rita va a letto sorridente; domani lo sciopero degli autobus è stato cancellato.

I PESCI DI MONTE GORDO

Qui a Monte Gordo, periferia estrema di Camaçari, centro industriale famoso per il petrolchimico, padre Luis si è trasferito un anno e mezzo fa, assumendo la guida della giovane parrocchia di São Bento (San Benedetto) che conta circa 18 piccole chiese, molto distanti tra loro e per questo c’è sempre da correre, con la valigetta delle ostie e del vino sempre a portata di mano.
In una chiesa ricavata in un garage, con l’acqua piovana che inonda la grondaia malconcia, attorno a un povero altare circondato dai bambini seduti sull’erba o su fragili panche, dentro una casa consacrata, con le pareti celesti, in mezzo alla foresta… si trova sempre il calore di un abbraccio e di un sorriso.
Manca però per tutti un lavoro stabile, ben retribuito e protetto dai sindacati, e soprattutto un’istruzione adeguata. La scuola sta chiudendo: il tuo di notte è terminato e una scia di scolari si riversa nelle stradine verso casa.
Anche la ragazza della lotteria popolare chiude i battenti. Ogni giorno i brasiliani tentano la fortuna giocandosi i numeri che potrebbero cambiare la vita. Lei per oggi ha finito, riporta nello sgabuzzino di un negoziante amico il banchetto e la sedia. Prima però condivide con un viaggiatore di passaggio un po’ di pastel, spuntini di pasta ripieni di carne, aspettando i numeri che usciranno domani.
E nel domani di questa giovane missione c’è anche il progetto di padre Luis di finanziare una scuola matea attraverso una fondazione, denominata Emaus, che si occupi di produrre e commercializzare pesci e farina di funghi, ottima per rafforzare le magre merende degli studenti.
Le vasche per la pescicultura sono già in funzione; il borbottio dei motori si confonde con l’aria ovattata di Monte Gordo, interrotta, ogni tanto, dal verso di un uccello o da qualche canzone per una festa che sta per iniziare.

FAGIOLI MAGICI A ESPLANADA

Il soggetto più attivo nella lotta per la giustizia sociale nelle campagne e per una più equa redistribuzione delle risorse è il Movimento Sem Terra, sorto negli anni ’70.
Nel 1989, quando alcune grandi aziende s’impossessarono senza permesso dei terreni del convento dei cappuccini, frei Chico si rivolse al Movimento per pianificare la riconquista del maltolto. Innanzitutto raccolse in gruppi organizzati tutte quelle famiglie avvezze a vivere ai margini della città o in condizioni di semischiavitù come manodopera dei signori della terra; dopodiché li convinse che era giusto esercitare un’azione di forza, guidando così l’invasione dei terreni illegalmente sottratti alla parrocchia.
I latifondisti reagirono con violenza. Fu chiamata la polizia, che disperse le famiglie: donne, uomini e bambini trovarono rifugio nelle case dei cappuccini e delle suore francescane. Nonostante quell’intimidazione frei Chico non si scoraggiò nella missione di unire e coscientizzare gli sfruttati, e, attraverso il metodo dell’invasione e della trattativa con le grandi aziende, è riuscito negli anni a creare 12 insediamenti e 2 accampamenti.
Gli insediamenti sono comunità agricole ben strutturate: le case sono di mattoni, le scuole primarie funzionano, i giovani hanno a disposizione piccoli spazi per danzare la capoeira; mentre negli accampamenti, di più recente costituzione, le case sono ancora a livello di baracche e le persone aspettano di vedere la loro situazione regolarizzata.
Come a Nova Esplanada dove ancora mancano luce e acqua, tuttavia asilo e scuola elementare sono aperti, una piccola struttura celeste in mezzo all’assolata spianata e alle buste nere che svolazzano incastrate tra i pezzi di legno che formano le casupole.
Qui una volta comandava un’azienda spagnola, che approfittò degli incentivi di un governo assai sprecone per prendere possesso del terreno e poi tenerlo inutilizzato, preda del bestiame di allevatori furbastri. Invece ora chi ci abita coltiva verdura, legumi, miglio, frutta e soprattutto vive una vita degna e non più brutale come prima, in mezzo alla strada o alle dipendenze di latifondisti senza scrupoli.
Certo la tanto sospirata riforma agraria che metterebbe fine a secolari ingiustizie non è stata ancora approvata; nel frattempo molte famiglie possono comunque dirsi felici.
L’attuale governo Lula afferma di volerla realizzare; ma l’ufficio preposto alla sua attuazione è sempre in sciopero, perché privato di molti mezzi; in più, i ben noti poteri forti stanno nell’ombra a sabotare e fare pressioni: insomma la consueta palude della politica.
A frei Chico poco importa, lui va avanti lo stesso. Ormai conosce a memoria tutte le buche che deve schivare sulle strade che collegano il convento alle varie chiesette sparse per tutto il territorio della parrocchia e che possono stare anche a 120 chilometri di distanza.
È quasi l’ora del tramonto. Nel cielo si liquefà un colore misto di arancione, viola e blu scuro. Ai lati del cammino accidentato scorre un oleodotto che sembra un serpente e, immobili, come se spuntassero da sotto terra, le perforatrici, figure fredde intagliate nell’oscurità.
La zona di Esplanada è ricca di petrolio e, a causa della presenza dell’oro nero, arrivano nei forzieri del comune fiumi di banconote. Per questo davanti alla casa del sindaco staziona una guardia armata e diventa così importante vincere le elezioni, nelle quali votano persino i morti. Frei Chico, durante la messa in un piccolo insediamento, scende dall’altare e si avvicina all’assemblea, ricordando che vendere il proprio voto è sbagliato.
Qui è facile venire a fare proselitismi in cerca di consensi elettorali. La gente è sempre vissuta nell’ignoranza dei propri diritti e ha sofferto molto, quindi è abituata a chinare la testa. Sono persone il cui mondo termina alla fine della vanga e poi ritorna su per l’impugnatura di legno, perché c’è da pensare al lavoro nei campi del giorno dopo: uomini e donne che hanno lottato per quel poco che possiedono e che devono mantenere quotidianamente con il sudore della fronte.
Finita la messa, i fedeli offrono a frei Chico delle pannocchie di mais abbrustolite e delle cosce di pollo. Poi egli saluta tutti e, lentamente, dentro il suo corpo esile, toglie il disturbo.
Sulla via del ritorno fa un colpo di clackson a una contadina con il bambino in braccio, vestita di bianco e gli orecchini della bisnonna, viso che sa di Africa e di magia, la regina nera dei fagiolini del sertão.

Paolo Brunacci




Hanno fame e… si nascondono

Salvador de Bahia: dalle palafitte a Nuova Primavera

Si respira la vera miseria tra le palafitte di Novos Alagados, alla periferia di Salvador de Bahia, nella parrocchia di São Blás, dove dal 1991 lavorano i missionari della Consolata.
Da generazioni, i ricchi latifondisti si sono preoccupati di occupare tutta la terra disponibile, senza lasciae neppure un centimetro alla povera gente. Così, l’impossibilità di occupare uno spazio sulla terraferma ha indotto i più poveri a piantare qualche palo sulla riva del mare e a sistemarsi in misere capanne, formando il popolo delle palafitte. «Il mare non è di nessuno – dicono da queste parti -. Anzi, è di Dio».
Qui la fame è di casa. Questa, assieme a tante altre calamità, è la malattia più brutta. Di fronte a realtà simili, Teresa di Calcutta aveva detto che «non è stato Dio a creare la miseria: l’abbiamo creata noi!».
La globalizzazione, nel suo aspetto più deteriore e devastante, continua a rendere i ricchi sempre più ricchi, mentre la «massa sobrante», come dicono in Brasile, quella parte di umanità senza diritti e né difese è destinata a scomparire dall’avanzata del cosiddetto «progresso», che premia i forti e schiaccia come un rullo compressore i deboli. Fra questi, i bambini sono quelli che pagano il prezzo più alto.
La povertà-miseria non attrae, non piace a nessuno, non ha alcuna popolarità. I poveri sono un incubo per tanta gente. Anche per alcuni che leggono spesso: «Beati i poveri…».
E ppure, un gruppo di giovani, accompagnati da padre Francesco Giuliani, che li aveva preparati per un anno intero, sono venuti fin qua, tra i più poveri, dove senti puzza di fogna, perché è tutta a cielo aperto, per vivere un’esperienza di frateità.
Era l’agosto del 2001: quando mari e monti invitavano alle vacanze, 17 giovani, provenienti da varie regioni d’Italia, hanno vissuto un mese tra i Novos Alagados. La gente delle palafitte ha sentito il calore umano di questi giovani, la loro presenza ristoratrice, come una bibita in piena calura estiva.
Erano partiti da Cesena portando con loro una parola d’ordine: inserirsi con occhi d’amore e di fede in mezzo ai poveri. Ho visto nascere tante amicizie. Ho visto giovani dottoresse curare ferite e diagnosticare malattie, fra i calcinacci di un salone in rovina e nelle palafitte, a cui arrivavano per mezzo di traballanti passerelle di legno.
Alcuni di loro, in seguito, sono tornati per incontrarsi di nuovo con le famiglie amiche. Altri sognano di tornare. Quasi tutti si stanno dando da fare in Italia, per raccogliere aiuti e dare una mano alle mamme che soffrono la fame.

È davvero brutta la fame! A Napoli dicono: «Chi è sazio non crede a chi è digiuno».
Ho sempre presente un episodio sintomatico: un’animatrice del «Progetto Famiglie di Novos Alagados» mi dice:
– Padre, Luciana picchia sempre le sue bambine: va a vedere cosa succede.
Vado e chiedo a Luciana:
– Perché picchi le tue bambine?
– Piangono sempre e mi scoccia sentirle.
– Ma perché piangono?
– Hanno fame e io non ho nulla da dare loro.
– Ma perché non me l’hai detto? Tu sei animatrice, perché non parli?
– Ho vergogna…
Ancora una volta ho capito che i poveri si nascondono e preferiscono soffrire in silenzio.
N el 2003 è venuto un altro gruppo di giovani. Erano partiti da Torino, accompagnati da padre Antonio Rovelli. Hanno svolto un lavoro di presenza amica, visitando le famiglie più povere e costruendo una biblioteca per i giovani che vogliono entrare all’università, ma non hanno i mezzi per comprare i libri su cui studiare.
Poi, con l’aiuto di tanti benefattori, abbiamo creato un centro di accoglienza: Kilombo do Kioió. I kilombo erano piccole repubbliche di schiavi che fuggivano e si mettevano insieme per creare spazi di libertà. Kioió è una pianta medicinale che abbiamo trovato nel giardino della casa che abbiamo comprato per tale iniziativa.
In questa sede si svolgono le attività del «Progetto famiglie Novos Alagados». Il nostro Kilombo aiuta 450 famiglie a fare un cammino di liberazione, attraverso il lavoro e la preghiera. È un’esperienza di crescita sociale e religiosa per uscire dalla morsa della fame e dell’abbandono.

L a caratteristica dei poveri è di nascondersi. Sanno di non aver diritto a nulla e non poter esigere. Sanno che nessuno li vuole, di non essere ben visti neppure in chiesa, per cui non ci vanno. Parlano adagio e a voce bassa per non farsi sentire. Quando li avvicini, ti guardano con sospetto, perché hanno paura che tolga loro anche quel poco che hanno e fuggono.
Il nostro lavoro è di «andare a caccia» di queste famiglie che fuggono e scompaiono tra i meandri della favela.
Purtroppo, ci sono tanti altri che, senza avee bisogno, vengono a chiedere, o meglio, a esigere aiuto.
È difficile stare in mezzo a loro. Bisogna avere una forte carica interiore, che viene solo dall’alto. Tante le scuse per fuggire: non ho tempo, non ce la faccio, mi stancano, c’è pericolo di assalti, bisogna essere prudenti…

S ono tanti i volti della povertà: dalla mancanza di cibo e di socializzazione, alla paura di vaccinare i figli, per timore che vengano avvelenati, dalla difficoltà di trovare un lavoro, alla fila chilometrica per una visita medica…
Qualcosa tuttavia sta cambiando: da due anni a questa parte si costruiscono delle casette sulla terra ferma, che vengono consegnate a chi vive sulle palafitte.
Il progetto è finanziato anche dal Ministero degli esteri italiano. Il settore dove sorgono queste casette si chiama «Nuova Primavera» e fa ben sperare per il futuro. Brutto, però, è anche vedere gente che riceve la casa e la vende per tornare alle palafitte. Questa è ancora una forma di povertà che si chiama «ignoranza».
Le famiglie che ora abitano nella Nuova Primavera hanno cambiato aspetto. Anche se continua la disoccupazione, la paura degli assalti e manca ancora il necessario per vivere.
Una signora, mamma di tre bambini, diceva: «Adesso non ho più paura di vedere i miei figli cadere nell’acqua inquinata e morire avvelenati. Ora mi sento più sicura quando metto i piedi a terra».
Pietro Parcelli

Pietro Parcelli




ARTICOLO Lebbra & lebbre

Da mezzo secolo, l’ultima domenica di gennaio è dedicata alla lotta contro la lebbra: un’occasione per sensibilizzare la coscienza umana e cristiana su altre lebbre modee: ingiustizia e indifferenza.

Fu celebrata per la prima volta nel 1954, l’ultima domenica di gennaio. Dieci anni dopo, 116 nazioni avevano aderito all’iniziativa; oggi la Giornata mondiale per malati di lebbra (Gml) è celebrata in tutti i paesi del globo.
Ispiratore di tale iniziativa fu il giornalista e scrittore francese Raoul Follereau (1903-1977), il quale ha dedicato tutta la vita a combattere la lebbra, una malattia antichissima e molto temuta, che costringeva chi ne era affetto a una emarginazione tale che causava una morte sociale prima ancora di quella fisica.
Aveva capito che la lebbra era una delle tante conseguenze del sottosviluppo e che le sue radici sono nell’ingiusta distribuzione delle risorse del pianeta e nell’indifferenza di chi è stato privilegiato dalla sorte. Follereau si è, quindi, impegnato contro la lebbra e contro quelle che ha definito «tutte le lebbre: indifferenza, egoismo e altre forme di ingiustizia».
Ancora oggi, la Gml vuole dare voce a coloro che più di ogni altro al mondo soffrono non solo le conseguenze di una terribile malattia, ma quelle più atroci dell’emarginazione, abbandono, riduzione a una condizione subumana.

Lebbra: stigma sociale

È una malattia contagiosa, causata dal mycobacterium leprae, bacillo isolato nel 1873 da Gerhard Armauer Hansen. Da allora la malattia è definita hanseniasi o morbo di Hansen e i malati hanseniani.
Anche se la malattia è perfettamente curabile, ancora oggi le si accompagna spesso un pesante stigma sociale: le persone che ne sono affette, anche se completamente guarite, sono considerate «diverse» e socialmente emarginate.
Tale stigma è dovuto al retaggio della paura secolare per una malattia che a lungo ha evocato terrore a causa dell’incurabilità e delle tremende mutilazioni che provoca, devastanti e inconfondibili.
CIFRE E CURE
Il bacillo distrugge i nervi periferici, provocando insensibilità, che espone la persona a ferite e conseguente distruzione dei tessuti. Se non trattata con una cura precoce e tempestiva, provoca danni progressivi e permanenti a pelle, nervi, arti ed occhi.
Sono circa 514 mila i nuovi casi registrati nel 2003 (vedi riquadro). Tra i nuovi casi molti sono bambini e 250 mila hanno già danni permanenti che li renderanno disabili per tutta la vita.
In realtà nessuno può dire esattamente quanti siano i malati nel mondo. Quelli diffusi sono i dati provenienti da zone in cui sono presenti servizi sanitari funzionanti. Ma chi può dire oggi quanti malati ci siano in paesi lacerati da guerre o con infrastrutture allo sfascio?
Di fatto, quando si avviano i piani di ricerca dei casi di lebbra in aree poco raggiungibili, si continuano a scoprire numerose persone affette dalla malattia. Tra loro la percentuale dei bambini rimane relativamente alta e prevale la forma tubercolare, cioè il tipo di lebbra che provoca rapidamente le disabilità. Tutto ciò indica una morbilità ancora elevata.
Solo nel 1940, con il dapsone, si cominciò ad avere una cura, ma il farmaco andava assunto per tutta la vita e aveva il solo effetto di rallentare l’avanzata della malattia. A partire dai primi anni ’80, con l’introduzione della polichemioterapia (rifampicina, clofazimina e dapsone), finalmente dalla lebbra si può guarire.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) raccomanda la polichemioterapia dal 1981. Da 5 a 20 anni è il periodo d’incubazione del bacillo che causa la malattia. Da 6 mesi a 2 anni dura il periodo di trattamento farmacologico. Si stima che più di 6 milioni di persone subiscano oggi le conseguenze fisiche e sociali della malattia.

Miele della solidarietà

In Italia, la Giornata mondiale dei malati di lebbra è uno dei principali eventi legati all’impegno dell’Associazione italiana amici di Raoul Follereau (Aifo).
Nata nel 1961, l’Aifo ha esteso la sua presenza in tutta Italia: centinaia di volontari, ispirandosi al messaggio di giustizia e pace di Follereau, continuano a dare voce agli ultimi, lottando contro la lebbra e contro tutte le lebbre, cioè contro le forme più estreme di ingiustizia ed emarginazione.
Riconosciuta come Organismo non governativo (Ong) di cooperazione sanitaria internazionale, l’Associazione è attualmente presente in 24 paesi dell’Africa, Asia e America Latina e collabora attivamente con alcune agenzie delle Nazioni Unite, in particolar modo con l’Oms, di cui è partner ufficiale.
Per sensibilizzare la gente nei confronti del problema della lebbra e dei temi legati allo sviluppo sociale e sanitario nei paesi più poveri del mondo, i volontari dell’Aifo animano la Giornata mondiale dei malati di lebbra con diverse iniziative, tra le quali la vendita del «miele della solidarietà» e altri prodotti del commercio equo e solidale. In centinaia di piazze italiane allestiscono banchetti, coinvolgendo le comunità locali, per raccogliere fondi a favore dei progetti dell’Associazione.
Lo scorso anno la distribuzione del «miele della solidarietà» ha coinvolto ben 447 piazze italiane, nelle quali sono stati offerti oltre 30 mila vasetti di miele.
Tra le varie iniziative di sensibilizzazione, grande importanza è data agli incontri con scuole, parrocchie e altre istituzioni, svolti in tutta Italia dai «testimoni della solidarietà». Si tratta di persone direttamente impegnate nella cura dei lebbrosi in vari paesi del mondo.
Per l’edizione 2005 giungeranno in Italia cinque testimoni che operano nei progetti contro la lebbra in Africa (vedi riquadro). Inoltre, per celebrare la 52a Giornata mondiale, è stata organizzata una touée della compagnia teatrale African Footprint Inteational del Ghana, un gruppo di fama mondiale, composto prevalentemente da artisti con disabilità, che si esibiranno in numerose città italiane per testimoniare la ricchezza di valori e di cultura di cui il continente africano è portatore e anche la ricchezza di doti umane e artistiche che le persone diversamente abili sanno esprimere.

Box 1

Stato globale della lebbra nel 2004*

Regione Nuovi casi trattamento rilevati 2003

Africa 50.691 46.205
America 86.652 52.435
Mediterraneo orientale 5.798 3.940
Asia sud-est 304.292 405.150
Pacifico occidentale 10.359 6.068
Mondo 457.792 513.798

* Come riportato da 110 stati – fonte Oms

Box 2

TESTIMONI 2005

Chiara Castellani. Nata a Parma nel 1956, laureata in medicina all’Università cattolica del Sacro Cuore in Roma, ha lavorato per 7 anni in Nicaragua, come medico volontario e chirurgo in zona di guerra.
Dal 1991 è responsabile di un progetto sanitario nella Repubblica democratica del Congo. L’anno seguente perde il braccio destro in un incidente stradale: impara a scrivere e operare con la sinistra e, ancora oggi, continua la sua attività presso l’ospedale di Kimbau. (Della sua incredibile storia abbiamo parlato in Missioni Consolata ottobre-novembre 2004, pp. 87-89).

Padre Emidio Demeneghi. Nato a Mussolene (VI) nel 1939, sacerdote nel 1964 è missionario in Angola dal 1968.
Dal 1994 opera a Kangola, nord del paese, e si occupa dei lebbrosi. Grazie a un progetto Aifo, sono stati diagnosticati 1.064 casi di lebbra su una popolazione di circa 80 mila abitanti; 850 le guarigioni; 96 abbandoni causati dalla guerra; 20 i decessi registrati. Attualmente la lebbra è in regresso.

Saverio Grillone. Nato a Reggio Calabria nel 1940, laureato in giurisprudenza, specializzato in psicologia, diplomato in leprologia e chirurgia ausiliaria in Spagna, dal 1969 al 1976 si è occupato di cura e riabilitazione dei lebbrosi in un programma di cooperazione del nostro Ministero affari esteri in vari centri dell’Eritrea.
Dal 1978 al 1980 è stato esperto del Ministero in qualità di responsabile della campagna di lotta contro la lebbra nella Repubblica delle Comore. Dal 1980 è rappresentante dell’Aifo alle Comore per la realizzazione di vari programmi: lotta contro la lebbra e la tubercolosi, sanità di base di 15 villaggi nella regione di Pomoni; attività a favore dell’infanzia con la creazione di 7 scuole elementari e di una scuola media, con 1.200 bambini scolarizzati.

Suor María Marcela López. Di origine argentina, appartiene alla congregazione religiosa Figlie della Carità, Canossiane. Infermiera professionale, da alcuni anni lavora presso il progetto di lotta alla lebbra nell’Ituri (R.D. del Congo).

Suor Esther Athieno. Di nazionalità kenyana, è infermiera, ostetrica e fa parte della congregazione delle suore dell’Immacolata Concezione di Ivrea. Ha svolto la sua attività in differenti campi medici. Da due anni lavora con i pazienti affetti da lebbra e tubercolosi nell’unità sanitaria di Kadem. Oltre ai malati di lebbra-tubercolosi ricoverati in ospedale, segue quelli che vivono nelle loro comunità, attraverso le cliniche mobili, foendo loro medicine, beni di prima necessità.

Benedetto Bellesi




Testimoni scomodi

Dal 12 al 17 ottobre 2004, a Bangkok (Thailandia) si è svolto
il 21° Congresso mondiale dei giornalisti cattolici, organizzato dall’Ucip (Union catholique inteational de presse).
Vi ha partecipato anche il rappresentante della Fesmi (Federazione della stampa
missionaria italiana), che ne sintetizza gli interventi e le impressioni.

Nata nel 1927, in un periodo in cui il fascismo era al potere in Italia, il nazismo stava acquistando forza in Germania e il comunismo dominava in Unione Sovietica, l’Ucip (Unione cattolica internazionale della stampa), raccoglie, oggi, migliaia di operatori dell’informazione di ogni angolo del pianeta.
Tra le numerose attività, intese a promuovere la collaborazione tra giornalisti del Nord e Sud del mondo, in un’ottica cristiana e d’indipendenza da condizionamenti politici, vi è l’organizzazione del Congresso mondiale dei giornalisti cattolici, che a cadenza triennale, si tiene di volta in volta in una diversa capitale mondiale. Il 21° si è svolto a Bangkok (Thailandia), dal 12 al 17 ottobre 2004. Vi hanno partecipato circa 500 professionisti dell’informazione, provenienti da Asia, Europa, Africa, Americhe, Oceania.
L’evento è stato preceduto dal Convegno mondiale dei giovani giornalisti cattolici (9-12 ottobre), occasione importante di confronto per quanti la condizione anagrafica pone come responsabili di un’informazione sempre più proiettata verso le nuove tecnologie e verso una globalizzazione delle esperienze, dei metodi e del linguaggio della comunicazione.
Il Congresso ha voluto essere insieme un punto di arrivo e un punto di partenza. Punto di arrivo, certamente, per il comitato organizzatore, una quarantina di professionisti dell’informazione thailandesi, che hanno lavorato duramente a partire dal dicembre 2001, quando il precedente Congresso di Friburgo votò per Bangkok come sede successiva.
Una scelta non casuale, visto che l’Asia aveva ospitato in precedenza un solo congresso dell’Ucip (a Delhi nel 1985) dal 1930; ma anche una scelta significativa, per dimostrare che l’Asia, e la Thailandia in particolare, hanno l’assoluta capacità in termini tecnologici, culturali, umani per confrontarsi alla pari con il resto del mondo.
In Asia, oggi e ancor più in prospettiva, si sono spostate le frontiere del dialogo, dell’inculturazione e della nuova evangelizzazione. Proprio la Thailandia, per la situazione geografica, etnica e religiosa, rappresenta una sintesi dell’intero continente, senza contare che la chiesa, assolutamente minoritaria nel paese, esprime una vivacità e vitalità sorprendenti, a confronto con un mondo buddista tradizionalista e in difficoltà di fronte alla necessità di accompagnare senza apparenti traumi lo straordinario sviluppo del paese.
L’organizzazione impeccabile in una coice di grande cordialità, la partecipazione attiva dei massimi vertici della chiesa thailandese e il saluto personale all’assemblea del primo ministro Thaksin Shinawatra, hanno introdotto i partecipanti (asiatici in maggioranza, ma con una presenza davvero internazionale) ai vari interventi e momenti di discussione attorno al tema «La sfida dei media di fronte al pluralismo culturale e religioso: per un nuovo ordine sociale, giustizia e pace».

Molti i temi affrontati nelle diverse comunicazioni e dibattiti, e tra questi: I media e la sfida del pluralismo culturale e religioso in Medio Oriente e in Iraq, proposto da mons. Casmoussa, arcivescovo siro-cattolico di Mosul; Tensione globale, pluralismo narrativo e pace, un’analisi sul potere dei media, proposta dalla professoressa thailandese Suwanna Satha-Anand; di più stretta attualità la riflessione di mons. Owen Campion su Impatto della religione nelle elezioni presidenziali del 2004 negli Stati Uniti.
Fuori dal programma degli interventi, la folta delegazione libanese ha distribuito ai partecipanti un documento in cui hanno chiesto l’impegno dei mass media cattolici nel mondo per favorire il pieno ripristino della sovranità nazionale in Libano.
Comunicazioni a parte, un ruolo di primo piano hanno avuto le tavole rotonde e i dibattiti, che hanno messo a confronto esperienze, posizioni e sensibilità di partecipanti provenienti da aree geografiche ed esperienze assai diverse.

In un continente dove l’influenza dei mass media è allo stesso tempo improntata al conformismo verso i poteri forti e alla critica di sistemi spesso iniqui, in un paese come la Thailandia, dove il primo ministro Thaksin Shinawatra controlla un’impressionante concentrazione di mezzi d’informazione e comunicazione, in un contesto dove il cattolicesimo è spesso fenomeno «esotico» o stigmatizzato come «straniero», è emerso anzitutto il ruolo del giornalista come «testimone».
Testimone scomodo, che deve unire qualità professionali e capacità di entrare in simpatia con le realtà locali. «Nel riferire la verità, i giornalisti si devono attenere ai massimi livelli di professionalità e di integrità morale», ha dichiarato l’arcivescovo John Foley nel suo discorso di saluto al Congresso.
Il presidente del Pontificio consiglio per le Comunicazioni sociali ha proseguito, sottolineando come la stessa vita dei giornalisti «dovrebbe riflettere la sovranità di Dio su tutti gli aspetti della vita umana» e che i giornalisti devono riflettere i «più alti livelli professionali e etici, sia come persone, sia come professionisti dell’informazione».
Ricordando il ruolo positivo dell’informazione cattolica in un contesto – quello asiatico – dove la chiesa è spesso assai minoritaria o in difficoltà, l’arcivescovo ha sottolineato il positivo impatto sulla società: «Voi non siete giornalisti cattolici per caso; e neppure cattolici prestati al giornalismo: siete invece giornalisti cattolici, con una sincera vocazione a comunicare la verità con amore e ad aiutare altri a fare lo stesso».
Dialogo e libertà sono state le linee-guida del Congresso, come sintetizzato dal presidente dell’Ucip, Ismar De Oliveira Soares: «Siamo venuti qui per ascoltare, per imparare, per dialogare e cercare nuove strade per essere presenti nel mondo contemporaneo come professionisti e come giornalisti cattolici, professionisti dei media e comunicatori. Noi non siamo soltanto invitati a proteggere i nostri stessi diritti, ma anche a dialogare con popoli, nazioni, organizzazioni da una prospettiva multiculturale… Per noi, la libertà personale e la libertà di espressione sono valori inscindibili. La libertà è più che il diritto professionale di parlare e scrivere. La libertà è il diritto della gente a scegliere come far progredire le proprie culture e a decidere delle modalità con cui informare sulla propria vita».

Thailandia paese buddista. È stato quindi con interesse che i congressisti hanno ascoltato e commentato gli interventi del portavoce del governo thailandese, Jakrapob Penkair, e del venerabile Somchai Kusalacitto, monaco buddista e docente all’Università Maha Chulalongko.
Il primo ha incentrato il suo intervento sul concetto di «sforzo etico individuale», finalizzato alla pace, alla condivisione e, a partire da un ambito tradizionalmente rurale come quello thailandese, all’«autosufficienza», via mediana fatta di moderazione, convivenza e uso di tecnologie sostenibili. Il secondo ha focalizzato gli aspetti morali dell’attività giornalistica e dell’uso dei modei mezzi di comunicazione di massa.
Interessante l’analisi di Somchai Kusalacitto riguardo la sfida che la comunicazione pone oggi al buddismo, religione che, come parte di una più vasta presa di distanza dai «vincoli» mondani allo sforzo di liberazione individuale, ha sempre ignorato proselitismo, missionarietà, propaganda, conoscenza che non fosse trasmessa per via diretta dai maestri o dalle scritture.
La mutata realtà dei paesi dove il buddismo è forte e strutturato, la necessità di partecipare in modo attivo alla crescita della società, l’apertura a nuove istanze religiose, sociali e culturali in un contesto globale, il crescente disinteresse religioso incentivato dal benessere sempre più diffuso, spingono, oggi, anche i seguaci della dottrina del Budda a cercare un nuovo e diverso rapporto con i mass media.

Occasione di contatto e scambio di informazioni e idee tra i singoli operatori dell’informazione, fra testate e associazioni professionali iscritti all’Ucip, il Congresso non ha sintetizzato i propri lavori in un comunicato finale. Tuttavia la sensazione è che l’evento sia davvero servito, come ha suggerito il presidente De Oliveira Soares, a «rafforzare il nostro impegno come giornalisti a essere più vicini alla gente e alla sua cultura, difendendo la libertà di espressione. Siamo venuti qui per osservare, ricevere e riportare nei nostri paesi d’origine le esperienze vitali che rendono questo luogo un orizzonte illuminato».

Stefano Vecchia




Una zappa come arma

Regole inteazionali, aiuti allo sviluppo, povertà, immigrazione… È l’Africa, allieva di un «maestro» che la sfrutta, nel racconto di un leader legato
alla terra, che lotta per un nuovo umanesimo in politica e contro gli aiuti «avvelenati».

François Traoré è alto e corpulento. Quando indossa il grande boubou celeste, incute autorità e rispetto. Di umili origini, contadino e allevatore, è alla testa dell’Unione nazionale dei produttori di cotone del Burkina; nel 2002 è stato eletto presidente della Confederazione contadina del paese (Cpf).
La Cpf raggruppa la maggior parte dei coltivatori del paese saheliano, terz’ultimo nella graduatoria dello sviluppo delle Nazioni Unite, la cui popolazione, all’85%, vive di agricoltura. Tra Washington, Ginevra, Cancun e Ouagadougou, Traoré non è mai fermo: porta sulle spalle la causa dei contadini africani.

Qual è l’importanza del movimento contadino in Africa dell’Ovest?
Oggi, alcuni di noi agricoltori, che sono andati a scuola, hanno fondato un po’ ovunque movimenti contadini. Siamo coscienti che i mestieri di agricoltore, allevatore, pescatore possono nutrire onestamente noi e le nostre famiglie. Anzi, fanno vivere la società, perché, fino a prova contraria, non si è ancora fabbricato un seme in grado di nutrire l’uomo: si coltiva sempre. Siamo quindi coscienti del nostro ruolo e dell’importanza che ricopre.

Vi siete organizzati. Ma a livello mondiale che potere negoziale avete con le istituzioni inteazionali?

In passato il governo decideva sulle questioni che riguardano il nostro settore, a livello nazionale come internazionale, senza interpellarci. Oggi non è più possibile: se ci sono aspetti che non ci soddisfano o decisioni a cui siamo contrari, ci sentiamo in obbligo di far sentire la nostra voce ai diversi livelli.
Se gli organismi inteazionali sono umani e le leggi sono fatte per l’uomo, esiste uno spazio per farci ascoltare. Noi siamo una traccia in questo mondo, uomini che vivono nelle regole inteazionali e alle quali facciamo riferimento. Prendiamo, ad esempio, la lotta contro la povertà: c’è una grande strumentalizzazione su questo tema, a cui sono contrario; si devono ascoltare gli attori e accettare i cambiamenti, piuttosto che dire tante parole.
Da noi, un giovane che dall’età di 15 anni lotta contro la povertà, la può sconfiggere. L’umanità ha la possibilità di far vivere gli uomini sul pianeta, se le regole inteazionali sono applicate sinceramente e non sono violate dai grandi. Per esempio, la mondializzazione: per me, vuol dire che quelli che hanno il potere dovrebbero fare in modo che tutti possano mangiare, bere e dormire. Ma, nella mondializzazione di oggi, le grandi potenze vogliono appropriarsi di tutto il mondo. Se tante persone, i poveri, non riescono a vivere, cosa vuol dire allora mondializzazione?
A Doa hanno detto che faranno dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) uno strumento di sviluppo. Vuol dire cambiare la situazione di chi è in miseria. Ma la realtà rimane uguale. Solo guerre.
Non sono d’accordo su come si parla dei bambini soldato in Africa: il bambino africano e suo padre volevano strumenti e materiali per lavorare che non costassero cari. Ma le grandi potenze fanno di tutto perché le risorse naturali africane vadano a loro beneficio e l’africano continui a soffrire. Così danno loro un fucile o un kalashnikov e qualcuno, da qualche parte, li utilizza.
Sono contro le regole della mondializzazione, se queste non vanno nel senso in cui tutti gli uomini possano sentirsi parte di questo mondo.

A proposito di regole, ci parli di quelle sul commercio mondiale.

L’Omc è un consesso di oltre 140 paesi: ci sono stati che firmano senza avere alcun interesse. Questa volta, a Cancun, l’Africa ha detto no. E le grandi potenze non hanno mandato giù questa posizione. Si sono dette che può essere un precedente pericoloso. Meglio cercare di addormentarci e farci proposte che portano a nulla di fatto. Come possiamo continuare a parlare di sviluppo e non accettare che l’uomo povero possa vendere bene il suo prodotto? Lui non chiede un regalo, ma di stabilire regole giuste.
Invece continuano i sottintesi, che non portano a nulla. È quanto è successo a Ginevra. Non hanno messo il dito sul problema, né dato delle scadenze. Ciò vuol dire che il povero non avrà il suo tornaconto e morirà; forse un’altra generazione di poveri vedrà una soluzione. Ma non ne sono sicuro: manca la volontà.

Gli aiuti sono utili allo sviluppo o sono un modo per mascherare un sistema dei paesi ricchi?
Vedo l’aiuto allo sviluppo come l’esca per acchiappare il pesce. Dal punto di vista umano, l’aiuto deve far sì che l’uomo giunga a risolvere i propri problemi da solo; ma se per 40 anni si continua ad aiutare e l’Africa non risolve i suoi problemi, vuol dire che l’aiuto è «avvelenato». La solidarietà è buona, ma quando nasconde degli interessi e produce più ricchezze a chi aiuta, allora è una distruzione. Bisogna cambiare questo meccanismo.

Cosa bisogna cambiare?

Gli uomini dei mass media possono essere una cinghia di trasmissione tra le società del Nord e quelle del Sud. Sono cosciente che in tutti i paesi sviluppati c’è la volontà reale per tessere vere relazioni. Molto spesso gli aiuti arrivano da uomini di buona volontà; ma poi sono utilizzati politicamente, all’insaputa dei donatori. Bisogna informare queste persone, che certamente non vogliono il nostro male.
La politica è per l’uomo e va fatta nel senso di un nuovo umanesimo. Spesso, invece, è utilizzata per gli interessi di qualcuno, all’insaputa della società civile. Esiste un altro modo di creare relazioni tra le società, basato su quello che possiamo cambiare nella vita degli altri. Un uomo del Nord riflette su cosa può cambiare nella vita di uno del Sud? Gli uomini si devono parlare per dirsi, in tutta sincerità, dove vogliono andare. Tutti gli esseri umani vogliono la prosperità e la pace per l’uomo.

Eccetto qualcuno.

È quello che dico: siamo utilizzati troppo spesso da un pugno di uomini. È un’ingenuità umana.

Per lo sviluppo dell’Africa, cosa devono fare la sua società civile e i suoi dirigenti?

L’Africa non deve farsi delle illusioni: ha subìto per lungo tempo. L’Europa è la maestra dell’Africa da 40 anni, senza darle un diploma. E non si può dire che non abbia avuto un buon allievo.
Ma cosa impedisce agli africani di dire: vogliamo forgiare il nostro sviluppo? Tradizionalmente, nelle nostre società, ne avevamo tutti gli strumenti, ma molti sono stati distrutti: in ogni villaggio c’era un sistema di difesa dei diritti umani. Dobbiamo ascoltarci e poter contare su noi stessi. È il momento di riflettere: governi e società civile.
Ma se le politiche dei nostri leaders sono teleguidate, non bisogna sorprendersi che l’Occidente continui a succhiare le nostre ricchezze. Ma in una società altamente analfabeta è facile venire usati. Guardiamo il destino dei nostri primi capi di stato: alcuni sono stati talmente sfruttati che, alla fine, i paesi occidentali non li volevano neanche più sul loro territorio. È un monito per i nostri dirigenti.

E l’Africa che cosa ha insegnato all’Europa?

L’Europa ha preso molto dalle società africane: ci sono prodotti che vengono da qui, trasformati in Europa e rivenduti in Africa. Noi non conosciamo bene il nostro valore umano e scientifico, le risorse naturali e il pensiero dell’uomo africano. È l’Europa che li conosce e li sa sfruttare. Su questo si dovrebbe fare il partenariato. È normale che i popoli abbiano scambi tra di loro, ma questi scambi devono dare frutti da entrambe le parti; invece, il ritorno è sempre stato minimo per il nostro continente. Il livello di povertà e sottosviluppo africano è una vergogna per l’Africa e per il mondo intero.
L’europeo deve capire che c’è qualcosa che non va se, ogni volta che viene a vedere l’africano, lo trova nella stessa situazione. È questa una collaborazione sincera?

Cosa pensa degli africani che continuano a rischiare la vita per emigrare in Europa?

Salif Keita, cantautore maliano, dice: «Se un europeo viene in Africa è un cornoperante; se un africano va in Europa, è un immigrato». Che l’uomo possa andare dove vuole fa parte delle leggi universali. Oggi, gli italiani che vogliono venire in Burkina non hanno alcun problema, sono i benvenuti. Ma per gli africani si sono create delle situazioni che li obbligano a emigrare. L’80% degli africani che vanno in Europa lavora duro e i loro paesi beneficiano di questo lavoro. Allora, perché si dice sempre che sono dei delinquenti? Se nel mondo intero si aprono le frontiere, allora che sia uguale per le merci e per gli uomini! E se vogliono che restiamo a casa nostra, che non saccheggino le nostre risorse; lascino che i nostri politici e le nostre società civili scelgano il nostro futuro!

Per esempio, l’Unione Europea non ha una politica comune in materia d’immigrazione…

Se l’Ue si è messa insieme, è anche per regolare un certo numero di affari in modo comune, come la moneta. L’immigrazione è un problema. L’Europa può essere abbastanza saggia da risolvere, per prima cosa, la questione dello sviluppo dell’Africa.
L’Europa ha molto sfruttato le risorse africane; l’America ha preso gli uomini, le braccia valide. Entrambi i continenti devono qualcosa all’Africa. Dovrebbero quindi pagare, ma non lo fanno; continuano, invece, a parlare d’aiuto. Che l’aiuto non sia più un inganno! Per andare da un villaggio all’altro abbiamo problemi, mentre in Italia ognuno ha l’asfalto fin davanti alla sua porta, ha il telefono in casa. Qui, gente e animali bevono la stessa acqua! Bisogna che le persone siano informate che tutto ciò è sorpassato: non è una cosa di cui vantarsi. Se un italiano dice che continua ad aiutare l’Africa, non fa la nostra fierezza. Dobbiamo cambiare la forma: questa non è adatta, non cambia nulla.

In Burkina si stanno sperimentando gli Ogm nel campo del cotone: pensa che invaderanno l’Africa?

Gli Ogm, per me, sono tecnologia. È come la radio: cento anni fa non esisteva. In Europa e in Africa si consumano già prodotti geneticamente modificati. Noi abbiamo posto delle domande a ricercatori ambientali ed economici, a scienziati di qui, che non hanno interesse a vedere la propria gente scomparire. Quando avranno risposto, potremo accettare o respingere gli Ogm.
Noi, leaders contadini, non vogliamo che s’introduca qualcosa che possa essere un pericolo. Per esempio, la tecnologia degli armamenti: chiedo ai paesi che la utilizzano di fermarsi, non è utile all’uomo. Se l’umanità smettesse di produrre armi, sarebbe un bene anche per noi. Invece, si continua. Le potenze non vogliono che si fabbrichi la bomba atomica, ma la posseggono e continuano a perfezionarla.
L’umanità deve riflettere sulle tecnologie e poi scegliere. È quello che stiamo cercando di fare per gli Ogm. Ci sono tecnologie nocive, che fanno gli interessi delle grandi potenze e, quindi, si continua a sviluppare. Che siano Ogm, armi o altro. L’ho detto a Washington: i paesi ricchi non sono contenti se non vedono la miseria dell’Africa nelle loro televisioni, i morti di Aids, gli immigrati che partono e lasciano a morire i loro figli. Immagini forti. Dobbiamo superare questo.

È ottimista sul futuro del movimento contadino in Africa?

Sì. Noi, leaders attuali, dobbiamo capire che non potremo cambiare tutto. Dobbiamo lavorare per formare i nostri successori, in modo tale che questa lotta continui. È una lotta sincera, dell’uomo, dell’agricoltore: la sua arma è la zappa.

Barco Bello




Fuori dalle gabbie!

«Giovani musulmani in Europa. Tipologie di appartenenza religiosa e dinamiche socio-culturali»: è stato il tema del Convegno internazionale, tenuto presso il «Centro di studi religiosi comparati Edoardo Agnelli»
di Torino. È emerso che molti giovani musulmani cercano di conciliare identità islamica e valori occidentali. Ma non tutti.

«In un’epoca in cui qualsiasi religione rischia di essere strumentalizzata e vista come causa di contrapposizioni e guerre, vogliamo ribadire che la vita insieme, la frequentazione degli stessi spazi, l’accoglienza reciproca, il dialogo alla pari sono possibili. Che le religioni sono una risorsa per qualsiasi società. Ne sono la linfa vitale e la possibilità di speranza».
Questo comunicato stampa è la sintesi di un importante incontro svoltosi ad Albano Laziale dal 19 al 21 marzo 2004 (una settimana dopo la strage di Madrid) tra Giovani musulmani d’Italia (Gmi), Unione dei giovani ebrei italiani, Federazione universitari cattolici italiani (Fuci) e giovani delle Acli.
Questo storico incontro è stato seguito dalla sociologa Annalisa Frisina dell’Università di Padova, che da tre anni studia l’associazione Gmi. La stessa studiosa, durante il Convegno internazionale, tenutosi l’11 giugno presso il Centro di studi religiosi comparati Edoardo Agnelli, ha ribadito: «Avendo assistito ai gruppi di discussione su Le radici culturali dell’Europa, Laicismo e laicità dello stato, Religioni e cittadinanza, ho potuto constatare come non si sia trattato di una facile “dichiarazione di intenti”, ma stia significando per i Gmi, come per gli altri partecipanti a questo tipo di iniziative, una profonda messa in discussione e un lavoro critico e impegnativo».

IN ITALIA: IDENTITÀ E INTEGRAZIONE
Quanti sono i musulmani in Italia? Com’è nata l’associazione dei Giovani musulmani d’Italia? Chi la anima? Quali obiettivi si propone? L’entusiasmo e la professionalità della Frisina nel presentare i risultati della sua ricerca hanno offerto dati e informazioni importanti e significative.
«Secondo il Dossier statistico immigrazione 2003 di Caritas/Migrantes, alla fine del 2002 in Italia c’erano 553.007 musulmani (36,6% dei 1.512.324 stranieri regolarmente presenti), facendo dell’islam la seconda religione in Italia.*
Diversamente da quanto è avvenuto in altri paesi europei, la provenienza dei musulmani è molto diversificata: troviamo persone originarie dal Maghreb (in prevalenza marocchini), Mashreq (Egitto, Libano, Palestina, Siria, Iraq), Africa subsahariana (Senegal, Nigeria, Sudan, Mali, Somalia), e poi dal Pakistan, Iran, Bangladesh, Balcani… Si può ipotizzare che i giovani musulmani siano tra 100-250 mila».
L’associazione Gmi è nata nel 2001, due mesi dopo il fatidico 11 settembre. Intervistando i membri dell’associazione, la sociologa ha rilevato come i giovani «possano sentirsi continuamente chiamati in causa, quasi presunti colpevoli in quanto musulmani».
Attualmente l’associazione è formata da circa 300 giovani (69% tra i 15-17 anni e 31% tra 18-23 anni), tutti cresciuti e formati nelle nostre scuole, in molti casi sin dall’infanzia (il 44% è nato in Italia), per la maggior parte residenti nel nord Italia e con famiglie, provenienti da Marocco (45%), Siria, Egitto, ben inserite come operai, commercianti, medici nel nostro paese.
Già partecipanti ai campi estivi organizzati dall’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia (Ucoii), i giovani musulmani hanno sentito l’esigenza di autonomia e autogestione, perché ritenevano le loro esperienze di vita troppo diverse da quelle dei loro genitori, e anche perché, dopo l’11 settembre, in Europa e in Italia è cresciuta l’islamofobia, fomentata tra l’altro dall’informazione superficiale e stereotipata dei nostri mass media.
Infatti, in tre anni di attività, i Gmi hanno tentato significativi rapporti con i mass media e intrapreso diverse iniziative interregionali e interculturali, culminate con l’importante e significativo incontro del marzo 2004.
Gli obiettivi principali dell’associazione Gmi, formalizzati da statuto, sono di due tipi: sul versante interno essi intendono promuovere la costruzione identitaria dei giovani musulmani, italiani ed europei, attraverso attività formative che valorizzino e approfondiscano la loro fede; sul versante esterno, intendono impegnarsi a livello locale, nazionale ed europeo «per la giustizia, la pace e salvaguardia dei diritti umani» (art. 3 dello statuto).

VOGLIA DI AUTONOMIA
La Frisina ha seguito alcuni convegni del Gmi e ne ha descritto l’evolversi. Nel primo, tenutosi a Bellaria il 23-25 dicembre 2001, negli stessi giorni del xxiii Convegno nazionale dell’Ucoii, la presenza degli oratori adulti era predominante.
Durante il iii Convegno nazionale, svoltosi a Bagni di Romagna il 22-24 dicembre 2002, la Frisina, osservatrice partecipante, ha rilevato come ci «siano stati chiari segni di insofferenza verso la gestione direttiva da parte degli adulti e sia emersa l’esigenza di approfondire in modo diverso la propria fede per viverla da giovani italiani ed europei».
Infatti, gli oratori «con i loro discorsi costruivano continuamente una contrapposizione tra “noi musulmani” e “loro”, cioè i non musulmani». Anche quando i giovani espressero il loro apprezzamento per l’Europa che favorisce «libertà di espressione, la democrazia, l’uguaglianza davanti alla legge, i diritti umani», il vice-presidente dell’Ucoii chiese: «Siete sicuri che questi valori non ci siano nell’islam?».
Fu il giovane incaricato delle pubbliche relazioni, K. C., a rispondere per tutti: «Storicamente la forza dell’islam è stata quella di saper riconoscere e assorbire il positivo delle culture che ha incontrato. Credo che noi dobbiamo continuare così, riconoscendo i valori altrui, imparando ancora e dando il nostro contributo».
L’associazione elegge democraticamente i suoi rappresentanti, come ha ribadito con chiarezza la vice presidente – una ragazza ventenne con il classico velo, presente al convegno di Torino con altre amiche – e agisce in completa autonomia dalle associazioni degli adulti. Gli adulti sono presenti ai loro convegni, preoccupati della fede, morale e formazione dei ragazzi, ma sono i giovani a prendere le loro decisioni in modo autonomo.

VOGLIA DI PARTECIPARE
Infatti è diminuita la presenza degli «esperti» e sono aumentati i momenti ludici, gite, laboratori, dove i giovani si confrontano e imparano a presentare con chiarezza le loro idee in pubblico. Ad esempio, i Gmi hanno preso una chiara posizione contro chi invocava la rimozione del crocifisso dalle aule, «sostenendo che non rappresentava i musulmani italiani e che i “veri problemi” da discutere erano “come costruire la pace e una convivenza giusta”».
Il 23/11/2003 hanno anche scritto una lettera a Bruno Vespa, che con le sue trasmissioni televisive, popolate di ospiti da spettacolo, «alimenta il clima di paura e disagio nei confronti della componente islamica italiana». Come risultato l’attuale presidente dei giovani islamici J.K., già incaricato delle pubbliche relazioni, è sovente ospite del Maurizio Costanzo show.
La Frisina, dopo tre anni di attenta osservazione dei Gmi, commenta: «Le domande di inclusione dei giovani musulmani sono avvenute a più livelli: locale perché questi giovani partecipano attivamente alla vita del territorio dove vivono; nazionale, perché si sentono italiani e vogliono la “cittadinanza formale” per essere ufficialmente titolari di diritti e doveri; europeo, sia perché nei loro discorsi è molto spesso presente l’Europa, come una delle loro “appartenenze”, sia perché fanno parte di un’associazione giovanile islamica europea, il Femyso, e dello Youth Forum».
Si rivela infine importante ascoltare con attenzione le esortazioni di K.C., responsabile e portavoce dei Giovani musulmani italiani: «Noi qui rischiamo di non essere aiutati a vivere la laicità. La società, o meglio quelli che stanno guidando la società, non vogliono la laicità dei musulmani, stranamente… E quindi li vogliono sempre chiudere nell’angolo della religione. Invece la sfida è dire: “Guarda, noi siamo cittadini e usciamo da queste gabbie”. Vogliamo parlare di tutto… del condominio, del quartiere, della puzza delle fogne… Bisogna partecipare, partecipare!».

GRAN BRETAGNA:PIÙ BRITISH, PIÙ MUSULMANI
La prima moschea fu costruita a Cardiff nel 1870 da marinai dello Yemen. Nel 1963 le moschee erano 13; oggi sono circa mille e offrono istruzione religiosa per i bambini.
La vera immigrazione islamica iniziò negli anni ’60, con l’arrivo di lavoratori dal Pakistan, India, Bangladesh. Altri musulmani arrivarono dall’Europa dell’est, dopo il collasso della Jugoslavia.
Dal censimento del 2001 risulta che il 2,7% della popolazione britannica è formata da musulmani: circa 1,6 milioni; essi sono in prevalenza asiatici; 11,6% «bianchi» (60 mila dell’Est-Europa e 10 mila convertiti); 6,7% africani. Il 50% ha meno di 25 anni.
Le numerose organizzazioni musulmane asiatiche, costituite su base etnica, nel 1997 hanno dato vita al Muslim Council of Britain (Mcb) e attualmente raggruppa 350 organismi: moschee, istituzioni caritative ed educative, donne, giovani, professionisti. Lo stesso anno lo sparuto ma potente gruppo di arabi musulmani ha istituito la Muslim Association of Britain (Mab), che conta circa mille membri; ma nel febbraio 2003 è riuscita a mobilitare, a Londra, 2 milioni di persone contro la guerra in Iraq.
«La divisione più grande tra i diversi gruppi di musulmani – afferma nella sua relazione Yunas Samad, dell’Università di Bradford – è di carattere sociale: gli appartenenti al ceto medio frequentano le scuole superiori, con accesso a professioni di alto livello (medici, amministratori), mentre la maggioranza (bengalesi e pakistani), di origine proletaria e con basso grado di scolarità, è soggetta a un futuro incerto e al rischio di esclusione sociale».
I giovani musulmani della Gran Bretagna, di qualsiasi ceto e gruppo etnico, si sono trovati uniti e si sono fatti conoscere per le imponenti manifestazioni contro I versetti satanici di Rushdie e le due guerre del golfo.
Mentre per gli europei questi giovani sono definiti quasi «fondamentalisti»; i leaders musulmani, invece, sono preoccupati perché diventano troppo «occidentali». Infatti, mentre i loro genitori pregano o leggono il Corano in urdu o bengali, i giovani conoscono poco queste lingue e perciò si distaccano dalla tradizione. Paradossalmente, però, più diventano british, comunicando bene in inglese, più si radicano nell’identità musulmana.
I giovani musulmani delle classi più colte e agiate possono permettersi frequenti viaggi nei propri paesi d’origine e si rivelano anche i meglio integrati in Gran Bretagna. Tra i giovani lavoratori asiatici, invece, possono sfociare veri e propri conflitti violenti contro i «bianchi» (come è capitato a Oldham, Buely e Bradford), non tanto per una conclamata difesa della comunità, ma per un controllo del territorio.
Le giovani musulmane cercano, a poco a poco, di conquistare la loro indipendenza, sia nel proseguire la scuola che nel cercare un lavoro e un marito di loro scelta, non più imposto dalla famiglia. Invocano per questo la legge islamica, che richiede alla donna «la ricerca della conoscenza anche in ambienti misti, sempre a patto che le donne si vestano e si comportino con modestia».

GERMANIA:LITTLE ISTANBUL
La Germania conta circa 2,7 milioni di musulmani (3,5% della popolazione), in maggioranza turchi, che rappresentano il 26% degli immigrati. Circa il 50% dei turchi residenti ha meno di 25 anni.
Il 15-20% dei giovani musulmani ha successo sia in campo scolastico che lavorativo. Ma il 25% non ha terminato le scuole e fatica a inserirsi nel mondo del lavoro (40% di disoccupati), soprattutto nelle periferie delle grandi città, chiamate talora little Istanbul, per la forte concentrazione di immigrati turchi. Berlino, per esempio, conta 73 moschee, 58 delle quali sono frequentate da turchi.
Da decenni si parla dei turchi come di musulmani con una cultura diversa, difficile da integrarsi. Ma qualcosa sta cambiando tra le nuove generazioni. Il 35% dei giovani musulmani frequenta regolarmente la moschea. Una recente ricerca condotta in Westfalia, conferma che il 25% dei giovani musulmani si dichiara «credente e seguace degli insegnamenti islamici», mentre il 50% dichiara di «credere in Dio, ma non essere praticante». Solo il 30% afferma di aver seguito la scuola coranica per più di 3 anni.
«In Turchia lo stato proibisce alle donne di indossare il velo nelle scuole e università – afferma Czarina Wilpert, dell’Università di Berlino -. La prima generazione di immigrate turche indossava semplici foulard nella vita privata, di rado in pubblico. La seconda e terza generazione sembra che indossi il foulard anche a scuola, come rifiuto all’integrazione e dei valori della società occidentale».
Attualmente sono i singoli «stati» (länder) a decidere se le donne possono indossare il foulard nelle istituzioni pubbliche.
Pare, comunque, che molti giovani siano alla ricerca del «vero» islam, in modo «indipendente» dal rigido sistema di «valori» imposto dalla tradizione. Al tempo stesso, credono nei «valori democratici» e perciò vivono la loro religione come «un rispetto per i diritti dell’uomo», mentre sono critici nei confronti delle grandi organizzazioni islamiche che vorrebbero intrupparli.
Alcuni studi, focalizzati sui rapporti transnazionali, raggruppano i giovani musulmani in tre categorie: coloro che desiderano essere riconosciuti e accettati in Germania come «diversi»; gli ultraortodossi, che sognano una rivoluzione in Turchia; quelli che cercano la possibilità di ridefinire le normative in modo democratico in una società pluralista.
Alcuni, infatti, sono coinvolti in partiti politici. Ma secondo i servizi segreti tedeschi, in Germania ci sono 30 mila estremisti islamici, di cui 4 mila a Berlino. Interessante notare come i giovani turchi non amino definirsi «tedeschi», ma preferiscano l’identificazione locale come «turco berlinese».
Infine, un’importante ricerca afferma che «i giovani turchi in Germania sono socialmente coscienti e critici della crescente discriminazione, segregazione e razzismo della società in cui vivono».

FRANCIA:IL VELO… TRICOLORE
Non ci sono dati sul numero di musulmani in Francia; potrebbero essere 3 milioni o il doppio: si pensa che, quanti provengono da paesi di tradizione islamica, soprattutto nordafricani, siano automaticamente musulmani. La maggior parte di essi è concentrata nelle periferie delle città, dove si rileva il più alto tasso di disoccupazione (20%) tra gli immigrati nordafricani.
Malgrado l’emergere di un ceto medio tra questi immigrati, afferma il relatore Alexandre Caeiro, del Cnrs-Gsrl di Parigi, «in Francia l’islam continua a essere recepito come la religione dello straniero, del povero e dell’escluso», una combinazione che produce effetti molto negativi per l’integrazione dei giovani musulmani nel paese.
Nel 1987 si formò a Lione l’Union des jeunes musulmans (Ujm). Questi giovani sono nati in Francia e conoscono poco il loro «paese d’origine»; perciò, l’essere musulmani non fa parte del loro bagaglio culturale, ma serve a definire la loro identità. Ma «mentre l’islam dei genitori era conciliante, discreto e desideroso di integrarsi, l’islam dei figli non accetta compromessi ed è in rottura con i genitori e con i valori francesi».
L’istituzionalizzazione dell’islam in Francia è culminata nel 2003 con la costituzione del Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm). Al suo interno le voci più critiche sono proprio quelle dei giovani, che vorrebbero un «islam francese», piuttosto che mantenere un «islam in Francia» con il contributo offerto dai paesi d’origine.
Per rappresentare i musulmani non legati a moschee e organizzazioni, sono sorti anche il «Consiglio dei musulmani laici» e il «Consiglio dei musulmani democratici». Attualmente in Francia esistono solo due scuole musulmane; ma, con l’attuale legge sulla laicità, forse queste scuole aumenteranno. I nord africani incontrano discriminazione nel mondo del lavoro, mentre le donne che indossano il velo non hanno accesso al pubblico impiego.
Tra le iniziative intraprese dai musulmani per un dialogo tra credenti di religioni diverse, c’è da segnalare il ciclo di conferenze organizzato alla moschea Adda’wa di Parigi: il carisma del direttore, l’algerino Larhi Kechat, indipendente dai paesi musulmani e dallo stato francese, attira moltissime persone. Però, vari atti di antisemitismo, perpetuati da giovani di origine nordafricana, lanciano segnali inquietanti.
«Nonostante gli elogi alla comunità islamica globale, i musulmani di Francia non si sono impegnati nella politica internazionale, eccetto che in manifestazioni occasionali a favore dei palestinesi e contro la guerra in Afghanistan e in Iraq».
Nel 2003, invece, i giovani musulmani sono stati molto presenti nei movimenti contro la globalizzazione e hanno partecipato attivamente, nel novembre 2003, all’European Social Forum di Parigi.
Interessante è, infine, rilevare che il dibattuto affaire du foulard è nuovamente esploso nel 2003; ma, mentre i leaders istituzionali musulmani discutevano sul da farsi, due ragazzine di 17 anni, con l’aiuto di una giovane esperta in internet, riuscirono a organizzare in tempi brevissimi una manifestazione a Parigi: più di 6 mila persone parteciparono a tale manifestazione, costellata di bandiere francesi ed europee: tantissime ragazze avevano indosso il foulard con i colori della bandiera francese.

Silvana Bottignole