VENEZUELA 2004 Tra Bolivar e Chávez (quarta puntata)

VENEZUELA 2004 (quarta puntata)

Abbiamo visitato tre quartieri popolari (molto popolari) di Caracas:  La Dolorita, 23 de Enero, El Manicomio. Le persone incontrate ci hanno parlato di miserie umane (disoccupazione, violenza, droga, omicidi), ma anche di speranza in un futuro diverso.

«POVERI DI DENARO,
MA RICCHI DI CUORE E DI MENTE»

Nessuno nega i problemi, ma è bello vedere negli occhi il luccichio della speranza.

Caracas, «23 de Enero». All’uscita della metropolitana ti compare dinanzi uno di quei «bloques». È talmente grande, anzi incombente, che sembra ti debba cadere addosso da un momento all’altro. Non sono belli questi condomini di cemento armato, geometrici come alveari, ma non differiscono molto da quelli che popolano le nostre città. Caracas, «23 de Enero». All’uscita della metropolitana ti compare dinanzi uno di quei «bloques». È talmente grande, anzi incombente, che sembra ti debba cadere addosso da un momento all’altro. Non sono belli questi condomini di cemento armato, geometrici come alveari, ma non differiscono molto da quelli che popolano le nostre città.
«Ci abitano migliaia di persone», ci spiega Ramón Castillo, mentre su una vecchia auto raggiungiamo il cuore del «23 de Enero», un quartiere (qui si dice parroquia, a sua volta divisa in barrios e sectores) che conta circa 300 mila abitanti.

Il «23 di Gennaio» gode di una gran brutta reputazione. Anche per questo la gente che vi abita si è organizzata. Sono nati vari organismi di autogestione: le cornoperative di consumo e di trasporto, i periodici comunitari, i comitati di autodifesa, i gruppi sportivi e culturali, le comunità dei condomini (juntas de condominio), le associazioni dei vicini (asociaciones o asambleas de vecinos).

UN PRESENTE
DI DISOCCUPAZIONE

Con Ricardo, Cesar e Ramón saliamo ai piani alti di un condominio. La gente ci accoglie con una cortesia che non ha nulla di formale. Ci mettiamo a parlare su un balcone, dal quale si vede bene quanto il «23 di Gennaio» si estenda su questo cerro (collina) della capitale.

Chiediamo come funzionino le associazioni di vicini. «Sono organizzazioni – risponde Ramón – nate per risolvere i problemi di una comunità: l’acqua che non arriva, la strada da sistemare, il lavoro che non c’è. Il problema della disoccupazione è gravissimo. Il governo ha fatto qualche sforzo, ma il capitale privato non vuole contribuire a creare un nuovo Venezuela. Questa mancanza di lavoro colpisce soprattutto i giovani che, per questo, diventano facile preda di chi promette loro rapidi guadagni».

Ramón si riferisce alla piaga del narcotraffico che, pur se meno rispetto ad un recente passato, continua a fare vittime.

«Le organizzazioni di vicini cercano di fare in modo che la vita e la sicurezza delle persone estranee alle attività illegali siano garantite. Anche per questo favoriscono le attività di svago, culturali e sportive. Oggi, per esempio, c’è una festa…».
Con la mano ci indica il luogo, dove si sta svolgendo una festa con musica e partite di pallavolo e baseball. Lasciamo il condominio e ci incamminiamo verso la festa.

UN PASSATO
DI VIOLENZA E DROGA

Al centro sportivo incontriamo Alexis Pinto Valera, uno dei responsabili del Frente de resistencia popular Tupamaro.

«Ma – ci interrompe – sono anche membro dell’Asociación Civil Amigos de los Niños de Monte Piedad, un’organizzazione che come recita il nome si occupa di bambini. Noi pensiamo che ci siano delle attività che portano a migliorare lo spazio dove si abita. Ad esempio, il lavoro culturale, sportivo ed educativo con i membri più piccoli della nostra comunità».
Chiediamo perché il «23 di Gennaio» sia noto soprattutto per i problemi di droga.

«È vero – ammette Alexis -: negli anni ’90 abbiamo avuto una forte presenza del narcotraffico all’interno della nostra zona. Ma è qualcosa che ci hanno portato da fuori, per distrarre un po’ i gruppi sociali che si stavano consolidando. Guarda caso, il consumo e la vendita di droga iniziarono sotto il governo di Carlos André Perez.

Prima arrivò la marijuana, poi cocaina ed eroina; in questo momento c’è il crack, basuko o la piedra, droghe che uccidono soprattutto tra i giovani».
Molte persone del «23 di Gennaio» sono cadute in questo giro perverso. Tra queste anche Martin, fratello del nostro interlocutore, ucciso dai narcotrafficanti.
«Nel periodo peggiore – racconta – nel bloque dove abito su 150 appartamenti almeno 40 avevano un consumatore di droga. Questa situazione creava un ambiente di grande insicurezza ed aggressività con furti, sequestri, rapine all’interno della nostra comunità.
In molti luoghi c’era anche il cobro de peaje, cioè un gruppo di giovani bloccavano l’accesso e tu dovevi pagare per passare di lì.

Spesso la violenza non era soltanto per la strada, ma anche in casa. C’erano famiglie con gravi problemi, perché avevano 2 o 3 consumatori di droga; altre che avevano avuto i figli uccisi da armi da fuoco in scontri tra bande».

Com’è oggi la situazione?, chiediamo. «Ora siamo riusciti a minimizzare il fenomeno. Siamo riusciti a sanare molte zone, a volte scontrandoci noi stessi con i venditori di droga».

Che tipo di scontri? «A volte scontri armati… Questi trafficanti, avendo molto denaro, hanno la possibilità di pagarsi guardaspalle, sistemi di comunicazione sofisticati. Ma con il coinvolgimento della comunità siamo riusciti a respingerli e adesso possiamo dire che li controlliamo».

MAYLIN,
UNA STORIA ESEMPLARE

Lasciamo la festa, per dirigerci a piedi verso una zona residenziale diversa. I condomini lasciano il posto ad abitazioni con due o tre piani. Le strade si restringono fino a farsi vicoli. Seduti attorno ad un tavolino, alcuni uomini giocano a domino.

I nostri accompagnatori salutano tutti quelli che incrociamo. Ed ogni volta fanno le presentazioni. «Salite, salite a bere una birra» ci dicono alcuni giovani da un balcone. Una scala estea ci porta al primo piano. L’interno è essenziale: al posto delle porte ci sono tende, i mobili sono ridotti al minimo, ma i locali sono puliti e dignitosi.

Maylin è una bella ragazza di 25 anni, caagione caffelatte, capelli neri raccolti a coda di cavallo. E una grinta invidiabile.
«La nuova situazione politica – ci spiega sorridente – ha permesso alle donne di prendere coscienza e partecipare di più alle decisioni della comunità. Oggi abbiamo realmente maggiori opportunità. Io ho una figlia e questo mi spinge ancora di più a partecipare.
Le donne oggi svolgono un ruolo molto importante: sono uscite dal guscio nel quale erano relegate, costrette a pulire la casa e avere cura dell’uomo. Ora ci siamo rese conto che possiamo partecipare, a fianco degli uomini, a qualsiasi lotta. Credo che ci siano molte donne che la pensano come me».

Maylin parla con un entusiasmo contagioso. Sembra scortese farle domande critiche. Per esempio, su questi organismi di autogestione che affronterebbero di petto qualsiasi problema.

«Sì, è vero. Ci organizziamo di fronte a qualsiasi problema. Se c’è qualcuno che vende droga, che causa comunque un turbamento nella comunità, noi ci riuniamo e convochiamo la persona che sta commettendo lo sbaglio e cerchiamo di farla recedere dall’errore. Se non collabora, allora ricorriamo all’azione legale. Siamo molto forti come cittadini, come famiglie che si impegnano nella comunità; se non ci piace qualcosa che sta succedendo, interveniamo, anche per il bene dei nostri figli. Non abbiamo ancora dovuto ricorrere alle vie legali: la soluzione l’abbiamo sempre trovata come comunità».
Comunità, una parola ripetuta continuamente in questo quartiere e dai chavisti in generale.

«Che cosa vogliamo? Qualcosa di pulito: una repubblica che permetta la partecipazione di tutti i venezuelani, senza discriminazioni. E, comunque, vogliamo garantire un futuro ai nostri figli, pulendo tutto quello che per anni i politici avevano sporcato».

«FINALMENTE,
ORA TOCCA A NOI»

I cambiamenti non sono mai facili, soprattutto quando sono bruschi e non graduali. Com’è successo in Venezuela, con la «rivoluzione bolivariana» di Hugo Chávez. Che ha portato il paese sull’orlo della guerra civile.

«Perché stupirsi? – si chiede Maylin -. Non per tutti è facile accettare che ci troviamo in un processo di transizione, nel quale ci sono molti cambiamenti che talvolta non piacciono ad una classe sociale e sono, invece, bene accolti da un’altra. Però il paese aveva bisogno di cambiare».

L’opposizione dice che il presidente Hugo Chávez è un dittatore e che i suoi seguaci vogliono eliminare i nemici…
«La mia percezione è che quelli dell’opposizione hanno paura di confrontarsi con una massa tanto grande di persone. Noi siamo poveri economicamente, ma di cuore e di mente siamo molto ricchi e questo fa paura, anche alla Coordinatrice Democratica che sta sobillando odio per giustificare le proprie azioni.

La verità è che noi abbiamo dovuto sopportare sacrifici per molti anni; durante i governi passati abbiamo dovuto rinunciare finanche al nostro pane quotidiano. Oggi rivendichiamo partecipazione ed uguaglianza. Io dico all’opposizione: voi avete sempre avuto tutto, permetteteci di avere anche noi qualcosa.
Noi non cerchiamo di dividere il paese. Al contrario, vogliamo più unione. Tutti debbono essere partecipi dei sacrifici e tutti dovranno essere beneficiari dei risultati».

Come molte altre persone con cui abbiamo discusso, anche Maylin parla con una competenza giuridica inusuale.

Spiega: «È merito di questo governo che ci ha permesso di conoscere quali sono i nostri diritti e i nostri doveri. Molte volte dicevamo: ho diritto a… ma quali erano i nostri doveri come cittadino per poi avere dei diritti? Non lo sapevamo. L’abbiamo imparato ora, grazie alla costituzione bolivariana».

IL SOGNO DI UNA VITA

Ne ha parlato l’economista peruviano Heando de Soto, ci sta lavorando il Brasile di Lula; nel Venezuela di Hugo Chávez è già una realtà.

Si chiama «Ley especial de regularización de la tenencia de la tierra en los asentamientos urbanos populares»: è l’attribuzione legale della terra occupata abusivamente nelle sterminate periferie urbane. Anche molte case del «23 di Gennaio» rientrano nella casistica. Gli inquilini dell’abitazione in cui siamo ospiti (Maylin e la sua famiglia più altre due) hanno ottenuto i certificati di proprietà da pochi giorni.

Curiosi, chiediamo di poter vedere le carte dell’assegnazione. Maylin va a prenderle. Quando torna, ha la figlioletta in braccio e alcuni fogli in mano.
«Ecco, questo è il documento dell’assegnazione». La sua felicità non ha segreti: si manifesta in un sorriso totale e coinvolgente.

«Questo è un passo veramente importante per il nostro futuro. Mia nonna ci raccontava che, quando tirò su la casa, qui non c’era nulla. All’inizio la sua abitazione fu una baracca con 4 pareti e un tetto di lastre di zinco. Queste case non vengono mai edificate secondo un progetto prestabilito, ma si ingrandiscono a poco a poco.

Era una situazione molto precaria, dato che chiunque poteva reclamare quella terra, magari per farci passare una strada. Oggi, invece, abbiamo il nostro certificato di proprietà. Abbiamo fatto molti sacrifici per comperare mattone su mattone, adesso però possiamo dire: questo è mio, questo mi appartiene. Lo stato non sta regalando la terra; la vende, anche se la cifra che paghiamo è irrisoria, quasi simbolica».

Le procedure di assegnazione della terra richiedono una organizzazione comunitaria. Al «23 de Enero» (come in altri quartieri popolari) sono stati organizzati i «Comitati per la terra urbana». Ogni richiedente deve attestare da quanti anni vive sulla terra di cui chiede la proprietà.

Interviene anche Pedro Armando: «Mia madre e mia zia sono morte entrambe quando non avevano neppure 50 anni. Erano due grandi lavoratrici, ma non ebbero mai la possibilità di risparmiare qualcosa per noi. Oggi sarebbero molto felici di vedere che noi siamo diventati padroni della terra su cui avevano edificato la loro casa.
Non importa il valore in denaro di questa casa; per me ha un enorme valore sentimentale, perché io sono cresciuto come individuo dentro di essa. Sfortunatamente ci sono persone che non sono d’accordo con questo; chiaro che ognuno ha il proprio punto di vista, ma questo governo ci ha permesso di soddisfare il sogno di una vita».

«LA NOSTRA ARMA
È LA COSTITUZIONE»

Il Venezuela ha perso gran parte della propria classe media,
mentre grossi gruppi industriali agiscono come partiti politici.
La rinascita del paese passa
attraverso la nuova Costituzione bolivariana.

Caracas, «El Manicomio». Nonostante la scarsa illuminazione, sul muro di cinta la targa si legge ancora: «Scuola bolivariana Giovanni Battista Alberti».
La Giovanni Battista Alberti è una di quelle scuole che vennero chiuse lo scorso dicembre dal sindaco metropolitano Alfredo Peña, noto avversario del presidente Chávez. Ma la comunità del quartiere riuscì a riaprirla. «Ci siamo appellati all’articolo 102 della Costituzione, che dichiara l’educazione un diritto umano fondamentale e quindi intangibile come il diritto alla vita».

A parlare è Carlos Parra, già professore di matematica all’Università Simón Bolívar, oggi responsabile dell’Editorial Galac, una piccola ma quotatissima casa editrice. «Però – precisa subito -, tutto il tempo che mi resta lo dedico a promuovere il processo rivoluzionario, a farlo conoscere alla gente. Per esempio, nell’assemblea di questa sera dobbiamo informare la comunità di una serie di iniziative a livello urbano».

«POLAR» E «CISNEROS»:
DALLA BIRRA ALLA POLITICA

La riunione avviene nell’aula magna della scuola. Ci sono molte donne e qualche bambino che scorrazza attorno al palco. La serata è riempita con tanti discorsi dai toni pacati.

All’uscita assumiamo l’antipatico ruolo dei guastatori e facciamo notare ai nostri accompagnatori che forse non bastano delle riunioni con la gente per risolvere una situazione economica fattasi molto preoccupante.
«Il fatto è – ci spiega Carlos con una pazienza da insegnante – che, negli ultimi 25 anni, questo paese è stato distrutto. Ma, se noi riuscissimo a coinvolgere i milioni di venezuelani che hanno a cuore lo sviluppo, l’educazione, la qualità della vita, tutto il paese ne guadagnerebbe».

Le statistiche dicono che in Venezuela la classe alta si mantiene attorno al 5% della popolazione, mentre la percentuale della classe media è in continua regressione: tra il 1983 e il 1998 è passata dal 27% al 17%. Questo ha significato il contemporaneo aumento della massa dei poveri.

«Uno dei nostri obiettivi di politica economica – spiega Parra – è proprio l’accrescimento della classe media. Come ha detto il presidente Chávez: un paese con una importante classe media agevolerebbe la trasformazione di un modello economico che oggi è basato su una monoproduzione (di petrolio) ed è dominato da alcuni grandi gruppi monopolistici».
In Venezuela i gruppi industriali più potenti sono due: Polar e Cisneros. Il primo produce l’omonima birra (la più venduta del paese), nonché tutta una serie di prodotti alimentari, dal burro alla pasta. Il secondo produce un’altra birra, ma soprattutto è a capo di un impero televisivo (Venevision).

Questi gruppi hanno capeggiato gli scioperi degli scorsi mesi e poi il lungo (e costosissimo) stop a Pedevesa, l’industria petrolifera di stato. E non è tutto. Secondo il settimanale statunitense Newsweek, il magnate Gustavo Cisneros, amico dell’ex presidente George Bush, fu a capo del fallito golpe dell’11 aprile 2002.

LE «ARMI»
DEI CIRCOLI BOLIVARIANI

La scuola Giovanni Battista Alberti è stata riaperta grazie al locale Circolo bolivariano.
I circoli sono diffusi in tutti i quartieri popolari. La spiegazione che ne viene data è soprattutto di ordine pratico.

«I circoli bolivariani – ci spiega Rafael – sono associazioni di persone che volontariamente si incaricano di lavorare per la comunità, cercando di risolvee i problemi: dalla rete fognaria agli altri servizi urbani». Ma c’è anche una loro definizione più politica.
«Sono cellule molto importanti del processo rivoluzionario, che hanno la loro base ideologica nella costituzione, dato che questa promuove la democrazia partecipativa».

A proposito dei circoli, giornali e televisioni hanno scritto e detto di tutto: che sono organizzazioni sovversive, che nascondono armi, che i loro membri vanno alle manifestazioni dell’opposizione per creare disordini.

«Noi – ci spiega Rafael – siamo proprio il contrario di quello che dicono. Non solo non abbiamo armi, ma la maggioranza di noi non le sa neppure utilizzare. Per capire l’assurdità delle accuse è sufficiente visitare qualche circolo: chiunque si rende immediatamente conto che gli iscritti sono gente normalissima».
«La verità è molto semplice: la nostra sola arma è la Costituzione, l’arma più efficace che sia mai esistita in questo paese».

«È di questa che l’opposizione ha paura», chiosa Carlos, mentre saliamo sul suo vecchissimo fuoristrada.

«LA RIVOLUZIONE
NON PUO’ DIMENTICARE L’EDUCAZIONE»

Troppi giovani, riuniti in bande contrapposte, si perdono
in un’esistenza segnata dalla violenza.
Un gruppo di docenti reclama una scuola (pubblica) di qualità
come uscita da una vita senza futuro.

Caracas, «La Dolorita». Partiamo da Petare con un vecchio autobus stipato all’inverosimile. Il mezzo procede lentamente lungo la ripida strada. Quando raggiungiamo la destinazione, alla fermata delle corriere, nei pressi della piazza, sono ad attenderci alcune persone: Héctor, Omar, Julio, Cristian, Luis e Carmen, tutti membri del locale circolo bolivariano «Patria Buena».

A prima vista, La Dolorita si merita il proprio nome. Il quartiere appare dimesso, molto diverso da quelli visitati in precedenza. La maggioranza delle case sono incomplete; le strette vie che si inerpicano per la collina sono costellate da troppe immondizie.

La casa dove siamo ospiti sta in posizione panoramica. Dalla terrazza si vede La Dolorita con al centro due grandi edifici. «Sono – ci viene spiegato – la scuola elementare Jermán Ubaldo Lira e il liceo Mariscal». Ovvero l’oggetto della discussione di oggi.
Julio, Héctor, Carmen sono docenti, tutti preoccupati ed arrabbiati per la situazione in cui versa l’educazione scolastica in questo quartiere dimenticato. «Ma – precisano – La Dolorita non è altro che un esempio di quello che sta succedendo a livello nazionale».

BASTA CON
LA SCUOLA«MERCENARIA»

Seduti attorno al tavolino del soggiorno, Julio ci mostra la dettagliata denuncia presentata al ministero. «Una rivoluzione dovrebbe sempre avere nell’educazione uno dei pilastri portanti».

Precisa Carmen: «La nostra preoccupazione deriva dal fatto che la qualità dell’insegnamento è pessima e i nostri bambini partono già svantaggiati. La mancanza di qualità produce un altro grave problema, quello della bassa autostima: “Non riesco, non sono capace”. Occorrerebbe lavorare molto per infondere nei bimbi la consapevolezza che anch’essi possono raggiungere degli obiettivi».

Come quasi sempre accade, una cattiva scuola pubblica significa più spazio per la scuola privata.
«Alla Dolorita – precisa Carmen – esistono 12 scuole private dove la maggior parte dei docenti non sono neppure insegnanti. I bambini sono stipati in 50 in un’aula di 4 metri per 4 metri. Eppure si pagano 60 mila bolivares al mese».

Chiediamo ai nostri interlocutori che ci spieghino cos’è una scuola «bolivariana» e come mai non sia ancora decollata.
«La scuola bolivariana è un tipo di scuola che educa in modo integrale, che promuove la formazione del pensiero nell’ambito della nuova repubblica. È un cambiamento che investe tutto il processo educativo e riguarda anche vari aspetti pratici, come l’ampliamento dell’orario scolastico e la mensa (indispensabile in un paese dove la malnutrizione è molto diffusa).
Lo stato ha investito molto per creare le scuole bolivariane, ma non ha formato gli insegnanti che sono gli stessi di sempre».

Sull’esposto che ci è stato dato si parla delle due grandi scuole statali de La Dolorita, quelle che si vedono dalla casa.

«Il liceo Mariscal – spiega Julio – ha più di 1.500 iscritti, ma non funziona. C’è traffico di droga, di armi; c’è prostituzione. Ogni anno la percentuale di gravidanze tra le ragazzine è altissima, altissima la percentuale di abbandono scolastico per la cattiva conduzione. Quando poi questi giovani escono dalla scuola e provano ad entrare all’università, falliscono perché non sono preparati. Quelli che ce la fanno è perché sono entrati in qualche istituto specifico per colmare le lacune. Ma pochi si possono permettere di prepararsi privatamente, è ovvio.

Risultato? Nelle Università entra un ragazzo nostro ogni 20, tutti provenienti dalla classe media e alta».
Julio, Héctor e Carmen non sono, come si direbbe in Italia, insegnanti di ruolo. «È vero, non lavoriamo per lo stato. Nessuno di noi tre è laureato, ma abbiamo almeno 10 anni di esperienza nel campo dell’educazione elementare e media. E continuiamo a studiare per laurearci.

In ogni caso, siamo convinti che l’educazione debba rispondere agli interessi della comunità, mentre finora è avvenuto esattamente il contrario: l’educazione ha risposto a non si sa quale interesse o forse all’interesse di chi vuole che restiamo somari o al massimo buoni operai manovrabili. Per ora la scuola ha funzionato come ente mercenario della classe dominante. Dopo la vittoria della rivoluzione bolivariana, noi ci battiamo per una scuola che sia pubblica e di qualità».

IL VALORE DELLA VITA

Ci spiegano che ogni zona de La Dolorita ha la sua banda: ci sono 33 zone e quindi 33 bande. Una banda può essere costituita di 5, 10, 15 ragazzi che controllano la «loro» zona e la gente che vi abita.
Le lotte tra queste bande giovanili sono molto frequenti. Per il potere sul territorio o per il controllo del traffico di droga. A La Dolorita ogni settimana ci sono 5-6 morti a causa della delinquenza comune. Le armi di cui essa dispone sono superiori a quelle della (corrottissima) polizia.

«Ogni gruppo per potersi riunire nella propria strada deve essere armato, perché in qualsiasi momento può passare un gruppo antagonista. Nelle sparatorie che ne seguono vengono spesso colpite persone innocenti, come un bambino affacciato alla finestra della propria casa o una persona che si trova a passare».

Sapete di qualche morto questo fine settimana?, chiediamo. «Sì, uno di fronte alla chiesa, questa notte. Stava lì, quando è arrivato un tale che gli ha sparato. La settimana scorsa uno si è preso un colpo al petto e tre in faccia, ma non è morto. È stato un ragazzo di 13 anni che ha sparato ad uno di 19».

Obiettiamo: dunque, la rivoluzione bolivariana ha fallito nel campo della sicurezza…
«Ma la delinquenza comune è una conseguenza delle male politiche del passato. Quando poi, lo scorso aprile, ci fu il tentativo di golpe, molti delinquenti furono assoldati dall’opposizione per creare caos».
Purtroppo, di anno in anno l’insicurezza sembra peggiorare e questo è un dato di fatto che ci viene confermato.

«Io ricordo che vent’anni fa, quando ammazzavano una persona, poi per 3-4 mesi non succedeva più nulla. C’era un diverso impatto della morte sulla coscienza individuale. Oggi questi gruppi, se gli si uccide un compagno il venerdì, al sabato sono già riuniti all’angolo della via come se non fosse successo nulla. Non c’è più la paura della morte: il valore dell’esistenza si è perso».

Tutti sembrano condividere l’analisi. «Sta passando una cultura che non valorizza la vita, la quale vita vale pochissimo per una quantità di gente. C’è un problema di stima sociale molto serio. Te ne rendi conto anche quando cammini per strada, in mezzo all’immondizia».
«Noi pensiamo che questo modo di vivere si possa cambiare solo con l’educazione. Ovvero si esce da questa situazione nella misura in cui la gente viene educata, si appropria e si fa carico dei problemi. Per questo stiamo cercando di creare una presa di coscienza da parte delle persone, un coinvolgimento che stimoli il desiderio di migliorare quello che ci sta intorno».
Crisi sociale, crisi economica, crisi educativa: come pensate di uscie? Su questo punto i nostri ospiti rispondono compatti: «Noi investiamo molto sulla rivoluzione per dare soluzione a tutti questi problemi. Abbiamo grandi aspettative al riguardo».

«LA RIVOLUZIONE?
UNA TORCIA NEL BUIO»

Violenti, comunisti, castro-comunisti, addirittura terroristi: gli epiteti affibbiati ai seguaci di Chávez si sprecano.

«La nostra rivoluzione è senza armi; andiamo avanti utilizzando il pensiero di Bolivar e la costituzione bolivariana. Vinceremo anche se non possiamo contare sui mezzi di comunicazione di cui dispone l’opposizione. È come se Chávez avesse acceso una torcia sul buio del Venezuela. Io mi sento realmente rivoluzionario e voglio fare in modo che la rivoluzione prosperi. Siamo persone del popolo che vogliono vivere meglio e progredire assieme alla propria famiglia e al paese».

«Mi danno del comunista? Non sono mai stato un militante comunista, come credo non lo siano i miei compagni di lotta. Le nostre idee sono quelle di Simon Bolivar e di Gesù Cristo. Ma se Gesù Cristo è stato comunista, allora io accetto anche questo termine».
Interviene Carmen. «Come donna – dice – io penso che, nei limiti del possibile, dobbiamo cercare di fare una rivoluzione pacifica. Ho molta fiducia nel mio presidente ed approvo come ha agito fino a questo momento. Mio padre partecipò alla guerra civile in Spagna e quello che mi ha raccontato è orribile: non vorrei che succedesse lo stesso nel mio paese».
«Noi abbiamo molti valori e sono con questi valori che vogliamo affermare la nostra rivoluzione. Non vogliamo una guerra, ma se ci obbligano ad usare altri mezzi lo faremo. In questo processo ci stiamo giocando la vita e il futuro dei nostri figli.

(quarta ed ultima puntata; le precedenti sono state pubblicate in maggio, giugno e luglio-agosto)

Paolo Moiola




RWANDAQual machete che nessuno fermò’

Un milione di morti sotto gli occhi
del mondo. Cosa causò quella tragedia? Conflitti etnici, retaggi della dominazione coloniale o altro? A 10 anni di distanza ancora ci si interroga. Mentre
la situazione nella regione dei «Grandi laghi» rimane altamente instabile.

Dieci anni fa il cuore dell’Africa sanguinava per la tragedia del Rwanda. Circa un milione di tutsi (ma anche molti hutu moderati) furono trucidati a colpi di machete in tre mesi, tra aprile e luglio del 1994. L’odio etnico, che da sempre ha strutturato i rapporti sociali tra i due maggiori gruppi etnici, ha raggiunto un atroce parossismo con la «soluzione finale» teorizzata e meticolosamente messa in pratica dagli estremisti dell’hutu power. In Africa e nella regione dei Grandi laghi tornavano a materializzarsi le peggiori previsioni degli «afropessimisti» che scommettevano sull’inevitabile deriva del continente. Il genocidio era un evento traumatico, un dramma storico che segnava uno spartiacque tra l’Africa di prima e quella del dopo genocidio.
La tragedia rwandese del 1994 è stata un’opera di sterminio tra le peggiori avvenute nel secondo dopoguerra. È quindi doveroso interrogarsi su come si sia arrivati ad una simile esplosione di violenza.
Il ruolo del colonialismo nella definizione delle identità etniche è ormai ampiamente accertato. Le autorità coloniali della Germania prima e del Belgio poi non hanno favorito sempre gli stessi gruppi sociali od «etnici».
In un primo tempo, le autorità coloniali avevano individuato nei tutsi i propri referenti di fiducia. Successivamente, negli anni Cinquanta, vennero invece preferiti gli hutu. Il momento di svolta nella scelta degli europei del proprio personale politico ed amministrativo di fiducia coincide con un mutamento nell’atteggiamento della chiesa cattolica. E con la scomparsa di una forte personalità e di un capace organizzatore come monsignor Classe (esponente di rilievo del movimento missionario francese del primo Novecento): «La morte di monsignor Classe, avvenuta nel gennaio del 1945, aveva concluso l’esperienza di una generazione di missionari “monarchici” cresciuti nel quadro del cattolicesimo francese del XIX secolo, rigido e conservatore». La nuova generazione di missionari, vicini al cristianesimo sociale belga, vedeva gli hutu come gli oppressi da aiutare. Così, «una contro-élite hutu si formò nelle scuole cattoliche e nei seminari» ed assunse ben presto ruoli politici, emarginando definitivamente i tutsi con la «rivoluzione sociale» del 1959. Il regime rwandese divenne sempre più autoritario ed oppressivo, mentre i tutsi emigrati all’estero per sfuggire alle persecuzioni costituivano le proprie organizzazioni politiche e militari per rientrare in Rwanda. Si arriva così all’epilogo del massacro nel 1994, ultimo capitolo dell’agire genocidario, esito di una sequela di avvenimenti storici e non più inspiegabile esplosione di violenza.
La «questione etnica» in Rwanda parte dalla comprensione del formarsi dei contrasti tra hutu e tutsi. I nodi della questione sono fondamentalmente tre: se sia più corretto affermare che si tratti di contrasti etnici o di contrasti socio-politici, e come ha agito il colonialismo sulla società rwandese nel definire le identità etniche.
Per quanto riguarda la prima questione, alcuni studiosi sostengono la tesi che la divisione hutu-tutsi sia essenzialmente sociale, riprendendo le analisi di Claudine Vidal secondo cui l’ubuhake (il contratto di vassallaggio feudale secondo il quale un proprietario di bestiame prestava alcuni capi ad una persona che così assumeva nei suoi confronti obblighi servili), «contrariamente a quanto affermato dalla visione “classica”, non si concludeva esclusivamente fra tutsi ricchi e hutu poveri ma, verosimilmente, fra due lignaggi tutsi di differente livello socio-economico». Inteso in questo senso, come afferma l’abbé Alexis Kagame, si può definire «tutsi chiunque possiede più capi di grosso bestiame anche se non di razza hamita».
Una lettura del conflitto come sociale anziché razziale è fondamentale, ma difficile da accertare con sicurezza, basandosi su fonti orali raccolte all’inizio dell’epoca coloniale. Molto più convincente invece l’analisi del secondo importante nodo della questione, ovvero l’impatto del colonialismo nella definizione delle etnie. Per analizzare tale problematica si può infatti ricorrere ai classici metodi dell’indagine storica, disponendo di numerose prove documentarie: gli archivi coloniali, i diari degli amministratori e dei missionari, ogni sorta di documenti riguardanti l’azione delle autorità coloniali. «Lo scopo principale delle milizie armate nel passato era proteggere Kigali dall’assedio del Fronte patriottico rwandese. Da quando è arrivata l’Unamir, gli è stato ordinato di censire tutti i tutsi che vivono a Kigali. Il nostro informatore sospetta che ciò venga fatto in previsione del loro sterminio».
L’11 gennaio 1994, con una nota riservata, il capo canadese dei Caschi blu inviati in Rwanda, generale Roméo Dallaire, avvertì l’Onu di quanto stava per accadere nel paese africano. Nessuno si mosse. Tre mesi dopo, il 6 aprile 1994, l’omicidio di Juvenal Habyarimana, capo di stato rwandese di etnia hutu, diede il via allo sterminio dell’etnia tutsi: stando a prove documentali, i morti furono 937 mila.
È necessario ripartire dalla storia del colonialismo e l’indipendenza del Rwanda, raccontando la salita al potere di Habyarimana e i primi scontri tra le due diverse etnie in cui si divide il paese: la maggioranza hutu e la minoranza tutsi.
Nel suo saggio Daniele Scaglione narra l’intervento delle forze di interposizione dell’Unamir e l’esplodere delle violenze. Infine, descrive i tentativi di ricostruire il paese e di consegnare gli autori dell’eccidio alla giustizia. Particolarmente drammatica risulta l’analisi del modo inadeguato con cui l’Onu preparò la missione dei 2.500 soldati dell’Unamir. Il generale Dallaire si trovò a gestire una truppa i cui uomini provenivano da 20 paesi differenti, tra cui Bangladesh, Ghana e Belgio. Per motivi di bilancio e per la sottovalutazione della situazione, i soldati furono male equipaggiati: la dotazione si limitò a veicoli leggeri di fabbricazione russa e a segnalatori luminosi privi di batterie, mentre mancò del tutto l’artiglieria. Inoltre, il generale dovette affrontare il difficile rapporto con Jacques Roger Booh, rappresentante dell’Onu in Rwanda, la cui tendenza era a minimizzare quanto stava avvenendo. Scaglione, nel suo lavoro, afferma: «Sul Rwanda l’Onu ha completamente fallito per responsabilità personale di funzionari, dirigenti e responsabili di governo. Se il Consiglio di sicurezza non è stato adeguatamente informato di ciò che accadeva è perché Boutros Ghali, Kofi Annan e i loro collaboratori hanno liberamente scelto di non farlo». L’insuccesso della missione fu vissuto da Dallaire anche come una sconfitta personale. Dalla narrazione emerge l’umanità del generale che, dopo l’ordine da New York di abbandonare il paese, scelse di restare con pochi soldati fidati. «Roméo Dallaire si è ammalato e a distanza di ormai quasi nove anni ancora non è del tutto guarito. Il suo corpo, la sua mente, non hanno saputo accettare quello che ha vissuto».

BOX 1

BUTARE CHIAMA, GENOVA RISPONDE

A seguito degli avvenimenti del 1994, un notevole numero di artigiani dell’area di Butare (a circa 3 ore d’auto dalla capitale Kigali), che facevano riferimento al «Centro dei mestieri», creato nel 1990 dalla cooperazione tedesca, non risultavano più essere attivi. I motivi principali di ciò dipendevano dal loro essersi rifugiati nei paesi limitrofi, oppure di essere scomparsi (morti o imprigionati). Senza contare che il Centro, luogo fisico di attività e identità degli artigiani, era andato distrutto.
Per rilanciare l’attività degli artigiani dell’area nel settembre 1996 è sorto un progetto sostenuto dalla Gtz (Cooperazione Tecnica Tedesca) che ha permesso la costituzione, nell’agosto del 1997, della Copabu (Cooperativa dei produttori artigianali di Butare), con i seguenti obiettivi:
• promuovere la vendita dei prodotti artigianali dei suoi membri
• fare conoscere i diversi mestieri presenti sull’area
• sostenere gli artigiani affinché venga fissato il miglior prezzo possibile alle loro merci
• organizzare fiere periodiche.
La Copabu è attualmente il riferimento locale per 954 artigiani della prefettura di Butare, 324 uomini e 630 donne. Di questi 99 sono soci individuali, mentre gli altri sono associati alla Copabu attraverso 35 associazioni di villaggio. A loro volta queste associazioni sono distinguibili perché esclusivamente femminili (sono 19 quelle associate alla Copabu), o maschili (7) o ancora miste (9).

Il gemellaggio
Dopo il genocidio, la Caritas Italiana era intervenuta in Rwanda con un programma d’urgenza che ha permesso di riabilitare quasi il 50% del settore sanitario. Un’équipe di operatori fino a tutto il 1999 è stata presente nel paese per sostenere attività in favore dei bambini di strada, dei carcerati (oltre 130.000) e piccoli progetti agricoli, d’allevamento e di costruzione di case. Nel 1998, grazie alla presenza a Kigali di Maurizio Marmo, referente del «Programma Grandi Laghi» della Caritas Italiana ed esponente del mondo del commercio equo e solidale, è stato possibile avviare il contatto che si sarebbe poi concretizzato nel progetto di gemellaggio.
Una prima missione nel febbraio del 1999, grazie anche al contributo del Comune di Genova, ha reso possibile la conoscenza reciproca tra La Bottega Solidale di Genova e la Copabu di Butare e la stesura di un primo documento d’accordo finalizzato a facilitare l’accesso ad un nuovo mercato estero per i prodotti degli artigiani e delle artigiane della Prefettura. Nell’ottobre 1999: arriva il primo container di prodotti rwandesi, reso possibile dalle prenotazioni di circa 70 botteghe del mondo di tutta Italia. Per la Copabu un aumento di fatturato del 60% rispetto all’anno precedente, per i consumatori delle botteghe una nuova opportunità di acquisto di prodotti africani e di informazione attraverso il materiale informativo che accompagna gli oggetti.
Ci sembra importante richiamare, nelle motivazioni del progetto, quanto scritto dalla giornalista Colette Braeckman: «Ogni volta che hutu e tutsi lavorano fianco a fianco, facendo sorgere dalla terra un’altra casa, è anche il nuovo Rwanda che si costruisce». E ancora, tratto da uno scritto di André Sibomana, sacerdote direttore della rivista Kinyamateka, scomparso nel marzo 2004: «Dobbiamo riapprendere a vivere insieme. Alcuni diplomatici – pensando senza dubbio che non saremo mai più capaci di coabitare – hanno suggerito la creazione di un Hutuland e di un Tutsiland. Questa idea non è soltanto stupida; è assai nefasta. Al di là del fatto che questa divisione dei rwandesi sarebbe una magnifica vittoria degli apostoli del razzismo, credo che non sia dividendo o spostando i problemi che li si risolve. Al contrario».
Il progetto ha anche questa ambizione: sostenere la sfida voluta dagli artigiani di Copabu e da coloro che si impegnano a livello locale per promuovere incontri tra le vedove del genocidio e le donne i cui mariti sono incarcerati. Una sfida difficile, ma possibile.
L.Rolandi

Luca Rolandi




AL SUPERMERCATO DELLE RELIGIONIBusiness ecologia magia

DAMANHUR: una sètta
abbastanza recente e che ha,
come caratteristica, quella di stupire a tutti i costi.

Chi l’avrebbe mai detto che la Valchiusella, verdissima e selvaggia, a circa 50 km da Torino, fosse il centro dell’universo? È certamente un bel posto, con un torrente ricco di pregiate trote, siti archeologici di un certo interesse e boschi che in autunno regalano profumatissimi funghi porcini.
Un tempo, la valle fu uno dei tanti serbatorni operai del canavese, la silicon valley italiana ai tempi ruggenti dell’Olivetti; ma dopo il tracollo della fabbrica è divenuta famosa per la presenza della comunità Damanhur, fondata nel 1976 da Oberto Airaudi, carismatico personaggio che, attraverso un lunghissimo percorso, ha creato un vera «nazione» o, come preferiscono definirla i damanhuriani, una «città stato» o «città della luce», con una propria costituzione, un governo, una moneta (intea), una scuola privata (fino alla terza media).
«Damanhur è un esperimento sociale volto a dimostrare che, solo attraverso una vita giorniosamente mistica e comunitaria, è possibile oggi salvare l’umanità dal disastro morale ed ecologico cui l’attuale società post-industriale sta portando ineluttabilmente il nostro mondo. Damanhur sarà la città santa del futuro, la prima porta, il primo gradino, tramite il quale si potrà accedere ai grandi spazi della mente e dello spirito»1.
E ancora nella costituzione Damanhur si legge: «… tutti si adoperano a evitare qualsiasi forma di inquinamento o spreco nella vita quotidiana o nell’agricoltura».
Il riferimento alla crisi ecologica post-industriale, che negli anni ’70 veniva irrisa un po’ da tutti, ma ancora adesso, purtroppo, come è ben evidenziato dalla rubrica «Una sola madre terra» pubblicata su questa rivista, si può considerare l’elemento innovativo e di grande successo che ha portato i Damanhur a essere un punto di riferimento anche politico per la vita sociale di tutta la Valchiusella.
Non è un caso infatti che l’esplosione di adesioni sia avvenuta all’insorgenza della crisi Olivetti e dell’acutizzarsi dei problemi ambientali presenti sul territorio.
Molti erano rimasti delusi dalle promesse capitalistiche, senza lavoro e preoccupati per l’avvenire delle generazioni future: su questo zoccolo duro, molto pragmatico, si è innestata la visione esoterica, magica e sincretica voluta dall’Airaudi, che ha reso le sirene damanhuriane ancora più originali e affascinanti.

N egli anni ’80 i Damanhur sfruttarono perfettamente la scoperta di una nuova nicchia, solo lontanamente imparentata con la New Age, con dimostrazioni estreme, come il vivere nei boschi in totale isolamento, oppure con la nascita dell’agricoltura biologica (i primi in Italia) e ancora con le horusiadi, giochi nei quali si sviluppa l’ampliamento della percezione umana, volte a catturare l’attenzione della popolazione locale.
La piccola comunità divenne importante non solo nel numero di cittadini, ma anche negli affari, dato che le attività economiche, artigianato di altissima qualità e costo ebbero un vero boom.
Il continuo ingegnarsi portò alla quasi totale autonomia della comunità, anche in aspetti molto pratici, come la produzione di energia elettrica, fabbisogno alimentare, vestiti. Infine, nacque il filone della medicina naturale, anche in questo caso tra i primi in Italia, e fu l’ennesimo successo.
Nel 1992 i Damanhur vennero alla ribalta a livello nazionale con la scoperta del «Tempio dell’Uomo»: un gigantesco mausoleo di eccezionale valore ingegneristico e artistico, costruito in circa 15 anni all’interno di una montagna e nella totale segretezza.
Ma nel 1996 un fuoriuscito parlò alle autorità civili dell’esistenza di tale edificio, che rischiò di venire soppresso; ma dopo numerose petizioni, fu condonato il flagrante abuso edilizio e il tempio damanhuriano fu addirittura dichiarato «opera d’arte collettiva» dal Ministero dei beni culturali.
In quell’anno, la popolazione di Damanhur arrivò a 500 persone, distribuite a macchia di leopardo sul territorio della valle. Attualmente si possono contare circa 2 mila adepti in tutta Italia.
La scolarità dei cittadini è di livello superiore al livello nazionale e il fenomeno della fuoriuscita dalla comunità risulta molto marginale.
Come sopravvive, anzi, prospera e si espande la comunità Damanhur? Ristoranti cari, prodotti biologici extra lusso, migliaia di visitatori che ogni anno visitano il «Tempio dell’Uomo», corsi di medicina alternativa sono le maggiori voci.

I l credo damanhuriano è contenuto nel libro La via Horusiana. La strada verso la conoscenza secondo la scuola di Damanhur, tramite Oberto Airaudi.
Ottimismo e consapevolezza della limitatezza della percezione umana sono le parole d’ordine, insieme ovviamente alla sostenibilità.
Tutto è in divenire secondo la filosofia damanhur: per raggiungere e sperimentare i tanti mondi in cui è immerso, l’uomo deve sperimentare e ricercare in continuazione.
A differenza del buddismo, che prevede la distruzione del karma come liberazione del dolore, i damanhuriani teorizzano come meta finale la «coscienza», cioè la partecipazione viva a tutte le forme di vita.
«Tale risultato, ovviamente, non si raggiunge con una vita sola, bensì attraverso una serie di nascite ripetute non solo nella forma uomo, ma anche in quella animale vegetale»2.
Il pensiero diventa complesso e alquanto ermetico, quando si teorizza la presenza degli «spiriti della natura», ovvero i veri signori della terra, con i quali si dovrebbe incessantemente trovare un contatto su piani sottili, ovvero luoghi che l’uomo per sua limitatezza inizialmente non riesce a percepire, a differenza delle piante e degli animali. Per riuscire in questo, l’uomo può utilizzare la magia, elemento doppio che raccoglie in sé fattori spirituali e tecnologici.
Si tratta di un pensiero piuttosto stravagante, con teorie ermetiche e fortemente sincretiche, in cui sono mescolate tutte le credenze religiose e filosofiche dell’umanità, dell’antica religione egizia alla mitologia classica, dalla religione celtica a quelle orientali, dalla modea ricerca scientifica all’ecologia e libero mercato…
Come dimostrato dai maggiori studi antropo-sociologici, il fattore rituale rappresenta un cardine delle nuove sètte: i Damanhur non fanno eccezione; anzi, la vita comunitaria, per molti aspetti fortemente spersonalizzata, trova legittimazione intea nella partecipazione ai più importanti riti. Solstizi ed equinozi, la commemorazione dei defunti, il rituale dell’uomo sono momenti in cui vengono date spiegazioni cosmogoniche che definire originali è assolutamente riduttivo.
Cerimonie rituali, preghiere, esperienze medianiche, giochi, assemblee, evocazione delle forze cosmiche si svolgono generalmente nel tempio all’aperto. Tale tempio non è dedicato a una divinità in particolare; tutti gli déi sono ben accolti, come segno di tolleranza e pluralismo religioso e filosofico. Tuttavia a Pan, un dio dell’antica Grecia, è riservato un culto particolare, poiché indica le forze vitali della natura che ora sono compromesse dall’inquinamento ambientale.

D alle ceneri della New Age sono nati centinaia di movimenti esoterici, la maggior parte dei quali sono scomparsi. Ma la comunità di Damanhur, a oltre 25 anni dalla nascita, gode di ottima salute e si può considerare in piena espansione, forse grazie alla ricetta che prevede occidente e oriente, tecnologia e spiritualità, creatività artistica e crescita economica, classici elementi New Age, ma rivisitati in salsa non fondamentalista.
I Damanhur non sono rivoluzionari; preferiscono definirsi «diversi». Anche per questa ragione le attività nella vita pubblica sono accresciute notevolmente, evitando così il rischio dell’elitarismo.
Ultimamente Damanhur ha dato grande prova di vitalità con l’acquisto di alcuni capannoni ex Olivetti, riutilizzati con scopi artistico-culturali e aperti alla popolazione tutta. Investimenti di notevole portata finanziaria, segno della solidità economica del gruppo, ma anche della voglia di interagire con l’esterno.
Pur considerandosi «nazione autonoma» o, secondo un rapporto di polizia, «un’organizzazione che ambisce ad assumere le caratteristiche di stato nello stato», alle ultime votazioni amministrative in Valchiusella i damanhuriani hanno avuto un grande successo, riuscendo ad eleggere un sindaco e 21 consiglieri comunali.
Note
1- Da: La via Horusiana. La strada verso la conoscenza secondo la scuola di Damanhur attraverso Oberto Airaudi, edizioni Horus, p. 29
2- Da: Costituzione damanhuriana, art. 5.

Maurizio Pagliassotti




COSTA D’AVORIOLa fine di un sogno

Il paese più ricco dell’Africa dell’Ovest
è all’impasse. La crisi scoppiata a fine 2002 non sembra risolversi.
Per la gente comune dopo i massacri ora
la difficoltà è mangiare. Testimonianze dal basso…

Abidjan. La capitale economica del paese, un tempo modello di sviluppo per tutta l’Africa occidentale, è oggi irriconoscibile. La gente ha fretta: è sospettosa. La sera tutti spariscono e i posti di blocco militari taglieggiano i pochi tassisti. I quartieri popolari sono blindati; i gruppi etnici si sono raggruppati tra loro e tentano, con improvvisate ronde, di garantire la propria sicurezza.
Al Plateau, la Manhattan africana, nel centro di Abidjan, la vita tra i grattacieli pulsa di giorno, ma al contrario di un tempo, si spegne presto la sera, così come sono ormai chiusi ristoranti e locali nottui.

I DUE PAESI

La guerra civile scoppiata il 19 settembre 2002 ha spaccato territorio e società della Costa d’Avorio, creando divisioni tra la gente in base all’etnia e provenienza.
Il paese è diviso in tre: a nord il 40% è controllato da Forze nuove: militari e milizie che presero le armi contro il presidente Laurent Gbagbo, gli ex ribelli; il sud è in mano alle forze legaliste: le Fanci (Forze armate nazionali della Costa d’Avorio). Queste sono fiancheggiate e appoggiate dalle milizie del presidente, pericolosissime perché sfuggono a ogni controllo. In mezzo, la terra di nessuno: una striscia di terra larga decine di chilometri, che taglia il paese in due da est a ovest. È definita zona di «fiducia», controllata da 4 mila soldati francesi, equipaggiati con le più modee tecnologie (la missione Licoe) e dai caschi blu della Onuci, la missione delle Nazioni Unite per la Costa d’Avorio. Questi ultimi, alla fine dello spiegamento, saranno in 4.600.
Il popolo è sempre di più diviso: ci sono le etnie fedeli al presidente (beté, geré, athié, dida), quelle del nord (dioula, senoufo), gli immigrati stranieri (burkinabè, maliani, guineani, che sono circa il 26% della popolazione e hanno fatto la fortuna del paese, lavorando nelle piantagioni), le etnie che il potere sta cercando di «conquistare», come i baulé, legati al partito di Henri Konan Bédié (Pdci).
Ad alimentare la divisione c’è un disegno preciso del clan del presidente. Ma le radici della divisione sono da cercare più nel passato, quando alla morte di Houpouet Boigny (1993), il presidente Bédié inventò il concetto di ivorité, un nazionalismo pronto all’uso per fini politici (cfr MC ottobre 2003).
«Il paese è caduto in disgrazia – dice un tassista ad Abidjan, dal forte accento del nord -: come si può dire che è tranquillo se vengono in casa tua e ti ammazzano?». «Il paese è calmo – secondo la segretaria di uno studio di professionisti della capitale -; all’estero continuano a dire che qui è rischioso, si sta male: non è vero niente; vengano a vedere! È pieno di nordisti che vengono a fare i loro affari». Due punti di vista di persone di origine molto diversa.
La Francia, a vari livelli implicata nella crisi in Costa d’Avorio (circa 200 società francesi di medie e grandi dimensioni sono nel paese, senza contare quelle piccole), ha patrocinato la soluzione negoziale, portando tutte le parti alla firma dell’accordo di Marcoussis (presso Parigi), nel gennaio 2003. Accordo che ha visto la creazione di un governo di unità nazionale a cui sedevano tutti i partiti e i tre gruppi ribelli (Mpci, Mjp, Mpigo) riuniti sotto la sigla di Forze nuove. Goveo, che avrebbe dovuto risanare le ferite aperte della crisi: la legge fondiaria, la nazionalità, smilitarizzare gli eserciti ribelli e portare il popolo avoriano alle elezioni nel 2005.

SITUAZIONE BLOCCATA

Ma il processo di pace si è arenato: dall’inizio del marzo scorso, partiti di opposizione e movimenti ex ribelli si sono rifiutati di partecipare alle riunioni del consiglio dei ministri. «Gbagbo ha da subito reso impossibile ai ministri di opposizione di governare – confida una fonte – impedendo loro di nominare i direttori generali e dando lui direttamente gli ordini a questi ultimi».
Le Forze nuove (Fn) non si fidano di un presidente che puntualmente contraddice, con le azioni, le dichiarazioni e le firme degli accordi; quindi decidono di non deporre le armi. Guillaume Soro, segretario generale delle Fn, e ministro nel governo di unità nazionale, ha dichiarato nuovamente, il primo maggio scorso, che solo se il presidente lascerà il potere, si riuscirà a organizzare elezioni libere; il disarmo, fino ad allora, non ci sarà.
Il gioco si è fatto ancora più duro e la paura è cresciuta nella capitale dopo i massacri del 25 e 26 marzo. L’opposizione aveva in quei giorni indetto una manifestazione e il governo aveva proibito ogni raggruppamento di popolazione. Il presidente temeva che le forze ribelli si sarebbero potute infiltrare e prendere la capitale.
All’alba del 25, reparti militari, di polizia e «milizie parallele» bloccarono i manifestanti prima ancora che potessero organizzarsi, continuando la repressione per tutto il giorno seguente: il governo dichiarò 37 morti; il rapporto dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani parlò di almeno 120 morti, 274 feriti e 20 dispersi; il Movimento avoriano dei diritti umani di 300-400 vittime.
«Ci sono stati molti assassini ad Abobo. I dioula hanno sgozzato due gendarmi. È entrata in azione l’aviazione; altri militari sono entrati nelle case, uccidendo la gente e portato via i corpi. Non si sa dove li portassero, ma li facevano sparire» racconta una fonte (non dioula), del quartiere popolare Abobo, abitato da molti «nordisti» e immigrati.
«Sono sparite centinaia di persone in meno di 48 ore. Voci insistenti parlano di due fosse comuni, che prima o poi, salteranno fuori» afferma un funzionario della Commissione europea, da anni presente nel paese e con molti amici nei quartieri popolari.
Il dettagliato rapporto Onu chiama in causa, come responsabili, «alte cariche dello stato» e ciò ha fatto infuriare il presidente: è iniziata una campagna di discredito nei confronti delle Nazioni Unite, condotta con ogni mezzo (mass media fedeli al potere, studenti, milizie del presidente). La situazione politica e militare è di stallo; i due blocchi si stanno a guardare.

UN VICINO PERICOLOSO

Ma al di là dei giochi e dichiarazioni politiche, continuano le sofferenze della gente comune. David Bêhi Touamin, che ha vissuto la guerra là dove è stata più cruenta, ad ovest del paese, ai confini con la Liberia, acconsente a raccontarci la sua esperienza.
Tecnico agricolo, lavorava per un organismo non governativo prima della crisi; ma alla fine del 2002, in seguito agli scontri di settembre e la divisione tra nord e sud del paese, nell’ovest nasceva il Mpigo (Movimento popolare ivoriano del grande ovest).
«Quando i ribelli presero Danané, pensammo che si trattasse di qualcosa di politico. Ma subito ci accorgemmo che questa gente attaccava tutti quelli che avevano dei beni: ong e funzionari. L’accusa di aver nascosto armi o persone bastava per dar inizio al saccheggio. Chi si opponeva era morto.
Erano liberiani, ma anche sierraleonesi, già attivi nelle lunghe guerre civili dei loro paesi e nell’est della Guinea. Giovani sfaccendati yacuba (etnia della zona) erano con loro e indicavano dove c’era da saccheggiare: sparavano in aria ed entravano nelle case della gente».
«Presi i grandi magazzini e le attività commerciali, restava la popolazione. Quella che ancora non era scappata. Hanno cominciato ad attaccare i villaggi: Kavalé, Toulepleu, Giglò, nella zona dei geré. Questi, che non volevano i liberiani, hanno cercato di respingerli, ma sono stati massacrati. E poiché tra i liberiani c’erano i yacuba, è iniziato un conflitto tra le due etnie». Problema che persiste.
Ma gli avvenimenti più sanguinosi si ebbero quando le forze nazionali (Fanci) cercarono di riprendere la zona. «Le Fanci erano composte da quattro gruppi: militari, gendarmi, milizie geré e liberiani. I geré venivano a vendicarsi per gli attacchi subiti dai yacuba e recuperare il bottino. Attaccarono Zouan-Hounien, sparando a vista, senza domandare nulla. Fortunati chi incontrava prima i militari o i gendarmi: i yacuba venivano arrestati, con l’accusa di aver aiutato i ribelli».
I liberiani di cui parla David sono di etnia affine a quella geré e in opposizione a quelli che costituivano il Mpigo, milizie mercenarie assoldate dal presidente Gbagbo per «liberare» l’ovest. «L’arrivo di questi liberiani fu il momento peggiore – conferma un padre cappuccino che dovette evacuare la zona -. Mostrarono una ferocia senza precedenti».
«Ci sono stati molti morti – continua David -. Li ho visti prima di fuggire: in certi punti c’erano cataste di cadaveri. Hanno riempito i pozzi di corpi (inquinando così le falde e creando focolai di epidemia, ndr.), altri sono stati gettati sul bordo della strada. Nella casa dove vivo adesso, c’erano vari corpi nascosti. Non sappiamo chi e quanti sono morti: è impossibile conoscee il numero».
Una volontaria italiana che lavorava nella zona racconta storie truculente, riportate dai sopravvissuti: «Un uomo fu ucciso e fatto a pezzi davanti alla moglie e ai figli. Poi, i liberiani, obbligarono la donna a cucinarlo e in seguito a mangiarlo e a bere il suo sangue…».

COSTRETTI A SPOSTARSI

David, minuto, non più giovane, è yacuba e, come molti altri nella zona, è dovuto sfollare con la famiglia ad Abidjan. Dati delle Nazioni Unite contano un milione gli sfollati interni a causa della crisi, metà dei quali non sono ancora rientrati. La maggior parte è stata ospitata presso famiglie e conoscenti, gonfiando i quartieri di alcune città come Giglo, Abidjan, Yamoussoukro. L’ovest è stato il più colpito.
«Ho fatto quattro mesi ad Abidjan, cercando lavoro, ma senza successo. Quando sono arrivati i militari francesi, la situazione si è stabilizzata e siamo ritornati – continua David -. Oggi le cose sono cambiate anche nell’ovest: non ammazzano non saccheggiano più. Ma c’è molta fame. Le case sono state bruciate, la gente si è dispersa, ha perso tutto e non ha potuto coltivare. I campi sono abbandonati, tornati a savana incolta. Ma rimane la paura. Molta gente non vuole restare nei campi».
Anche l’ovest è tagliato in due: a nord Danané e Man; a sud Zouan-Hounien, Blolequin, Guiglo. Le prime sono in mano agli ex ribelli dell’Mpci; le seconde ai governativi; in mezzo i militari francesi.
Le milizie liberiane di entrambi i fronti sono state ributtate nel loro paese e la Licoe pattuglia la frontiera per evitare infiltrazioni. David dice che adesso è possibile passare i vari posti di blocco e spiega qual è il business oggi: «Io riesco ad andare a Danané e ritorno in giornata, pagando qualcosa ai posti di blocco. Ma non posso portare bagagli. Oggi tutti cercano di fare affari con il commercio; ma solo i dioula possono farli. Per questo la situazione deve essere mantenuta calma e i soldi devono poter girare, anche fisicamente».
I grossi commercianti e capi ribelli si stanno arricchendo: importano beni di consumo dai paesi del nord (Mali, Guinea, Burkina Faso) e vi esportano caffè e cacao comprato a basso prezzo. Portare mercanzie dalla zona ribelle verso Abidjan è ancora molto complicato.
«Adesso la gente sta rientrando. C’è anche una parte della popolazione della zona occupata dai ribelli che viene da noi perché ha paura. Non c’è legge nel nord, se non quella di chi ha le armi. Qui la guerra ha toccato anche i villaggi. Molte case sono state bruciate. Non si sa ancora chi è morto, chi è vivo ed è scappato. Per questo molti occupano le case ancora in piedi di chi è sparito; mentre può capitare di vedere le proprie cose, saccheggiate nei mesi precedenti, a casa di qualcun altro».
La sanità è in emergenza in entrambi i lati. Le scuole stanno riprendendo anche nel nord, ma i pochi insegnanti non hanno nessun controllo. «Ma il problema più grave è la mancanza di cibo – conclude David -. I commercianti dioula vendono il riso a 200 franchi (30 centesimi) al chilo, anziché a 260, ma la gente non ha i soldi per comprarlo».

Marco Bello




RWANDAChiamati all’ora 11a

Da tempo in pensione, 52 anni
di matrimonio, Laura e Giovanni hanno trascorso alcuni mesi
in Rwanda e sono tornati con una convinzione: la presenza di «coniugi missionari» è utile e necessaria
per aiutare la famiglia africana
a fondare la loro vita su una solida esperienza spirituale. Si augurano che altre coppie sentano questa chiamata «tardiva» e la attuino.

È naturale domandarsi, a una certa età, se si può ancora essere utili. Grazie a Dio, siamo sani; la famiglia o meglio il clan, che da noi è sorto, è ben strutturato; qualche energia può ancora essere spesa, malgrado artrosi e limiti che inevitabilmente l’età comporta.
Volevamo conoscere l’Africa, ma fuori dai soliti viaggi turistici, che riportano in clima e posti diversi, ma senza un vero contatto con la realtà del paese e della gente.
Come sempre, quando si desidera veramente qualcosa, la si va a cercare e, in un modo o nell’altro, la si trova. Così è stato per noi.
Un giorno inaspettatamente riceviamo una telefonata da un’amica: «Volete andare in Africa per un po’ di tempo? Perché non in Rwanda?». L’invito arrivava da padre Canisius Niyosaba, parroco di una immensa e sperduta parrocchia (114 mila anime) della diocesi di Kigali (Rwanda), che avevamo conosciuto in Italia. Abbiamo colto la palla al balzo con entusiasmo.
Alcuni figlioli erano entusiasti della nostra idea, altri molto meno: «Se vi capita qualche malanno? Non avete più l’energia di un tempo e le vostre reazioni sono più lente. Sopporterete il clima caldo dell’Africa, voi che amate solo le montagne d’alta quota? E se poi scoppiasse una rivoluzione? In Rwanda sono avvenute cose incredibili, ecc.».
L’elenco degli aspetti negativi che l’affetto dei figli presentava non finiva mai. Ci hanno dimostrato che ci volevano bene e questo ci ha fatto molto piacere, ma non ci ha smosso dalla nostra decisione, anche perché la maggioranza dei nipoti era entusiasta d’avere nonni pronti a partire per un’avventura africana.
Anche se le nostre esperienze specifiche non avrebbero avuto riscontro nella realtà africana, abbiamo risposto con entusiasmo all’invito inaspettato di andare in Rwanda per parlare della nostra lunga esperienza di vita matrimoniale e familiare. Eravamo una coppia con figli e nipoti e questo era il punto centrale. Da oltre 40 anni ci siamo interessati all’aspetto spirituale del nostro stato di vita, cioè del matrimonio e della famiglia, con lo studio e la discussione con altre coppie e persone competenti.
È così che siamo partiti.

S iamo arrivati in Rwanda senza porci un limite di tempo e senza idee da colonizzatori: volevamo vedere e capire, per poi coinvolgere amici e conoscenti.
L’abitudine ai rifugi di montagna e ai disagi delle alte quote ci avevano addestrato a non guardare troppo per il sottile. Non abbiamo cercato alberghi, ma solo l’accoglienza che ci era offerta, per vivere con la gente e avere contatti e incontri.
Inizialmente siamo stati a Kicukiro, vicino alla capitale Kigali, per un primo approccio con la realtà e la storia del paese. Quindi abbiamo raggiunto Ruhuha, a 80 km dalla capitale, nelle regione di Ngenda, confinante con il Burundi, a 1.500 metri di altitudine; così, invece del caldo paventato, abbiamo avuto un’estate fresca.
Le difficoltà dei primi contatti sono state facilmente superate dalla gentilezza e accoglienza ricevute, soprattutto dal rispetto e curiosità: una coppia di anziani sempre insieme, bianchi coi capelli bianchi, in posti dove forse non si erano mai viste cose simili e dove l’età media degli uomini è di 60 anni, 50 per le donne… suscitava meraviglia, interesse e stupore.
Bambini e ragazzini erano strabiliati: ci accompagnavano volentieri nelle nostre passeggiate, mentre i più piccoli avevano paura: appena si mostrava di andare loro incontro, scappavano o si nascondevano.
Tutti volevano salutare stringendoci la mano, spesso con entrambe le loro mani, o sostenendo il braccio destro con la sinistra: quasi volessero trasmettere il loro spirito e chiedere il nostro.

I l Rwanda è un piccolo paese molto giovane, dove la gente vuole conoscere, sapere, imparare. Ben presto abbiamo scoperto che, prima di ogni attività concreta, dovevamo instaurare un rapporto fra persone, ponendoci allo stesso livello, nell’amicizia umana semplice, spontanea e priva di interessi.
Il genocidio del 1994 ha lasciato segni visibili (cimiteri, ossari, tombe comuni, carceri stracolme) e molti rancori nascosti nell’animo di tutti, determinando atteggiamenti di silenzio, paura e sfiducia. I danni della colonizzazione e ideologie importate dall’Occidente sono ancora presenti e pesanti: le prevenzioni sui bianchi sono giustificate.
Tuttavia, anche se ci sono ancora problemi enormi (povertà, mancanza di lavoro, malattie, deficienze sociali) la gente che abbiamo incontrato è sempre stata gentile, dignitosa, paziente, anche allegra e serena. C’è una grande voglia di danzare e cantare, cosa che esplode negli incontri religiosi. Caratteristiche che fanno parte del loro essere.
Occorreva, innanzitutto, costruire la pace e la riconciliazione, la fiducia in se stessi e ristabilire i rapporti di fiducia reciproca. Far capire che, per essere persone libere, occorre assumere diritti e doveri, prima di poter pensare a qualche obiettivo concreto e realizzare una collaborazione.
La domanda sulla nostra età dava avvio a una conversazione. Pensavamo che la nostra anzianità avrebbe potuto essere un fattore negativo. Invece l’interesse, l’attenzione e la viva partecipazione in ogni nostro rapporto con gli altri hanno messo in luce come l’anziano sia di per sé, per la sua esperienza di vita, portatore di saggezza e merita rispetto e ascolto.
Per questo ci chiedevano consigli pratici, a cui cercavamo di rispondere, adattando la nostra esperienza alle condizioni locali. Negli incontri abbiamo raccontato la nostra vita e ascoltato i loro problemi, spesso originati da ignoranza o consuetudini, assunte in modo acritico: cosa riconosciuta anche da loro.

U n’altra domanda che ci rivolgevano spesso era: «Come avete fatto a vivere assieme per tanto tempo?».
La nostra presenza di coppia, con 52 anni di matrimonio, era più eloquente delle parole: testimoniava che marito e moglie possono vivere serenamente nell’amore, che non bisogna mai perdere fiducia in se stessi, ma cercarla insieme per fare ogni giorno un passo avanti.
Invitati a vari incontri con singole persone, famiglie e gruppi, abbiamo constatato grande attesa, apertura e desiderio di comprendere il matrimonio nella sua vera realtà umana e religiosa. I loro molteplici interventi ci hanno aperto una porta sul loro modo di vivere nello stato di vita che è anche il nostro; infatti, sia loro che noi camminiamo su una stessa strada che, per tutti, non è facile e assicurata.
Ci siamo resi conto di come la famiglia viva in una situazione di crisi latente, forse dovuta a una fede ancora superficiale. Mancanza di fedeltà, poligamia, liti e dissapori provocati dall’alcornolismo, problemi legati alla dote, predominio dell’uomo e condizione pesante della donna, eccessiva natalità e povertà sono i maggiori problemi ascoltati dalla loro bocca.
Le molte domande rivelavano il loro modo di vivere lo stato matrimoniale, le difficoltà legate a situazioni ancestrali e radicate profondamente nella cultura. Uno dei punti centrali e difficili da capire era l’uguaglianza tra uomo e donna nella famiglia. Soprattutto erano curiosi di sapere come l’amore vero possa implicare la fedeltà reciproca: altro punto che capivano poco.
Eppure abbiamo incontrato tante coppie africane che ci hanno impressionato per la loro aspirazione a una vera esperienza spirituale familiare.

T oati a casa abbiamo valutato la nostra avventura e abbiamo voluto raccontarla.
In una zona dove si vedono pochissimi bianchi, appartenenti a organizzazioni umanitarie, ma generalmente non sposati, la nostra presenza è stata una novità positiva per noi e per la gente incontrata. Ha corroborato la convinzione che una lunga vita matrimoniale è un valore in sé di testimonianza ed esperienza.
Non avremmo mai pensato che i nostri 52 anni di vita come sposi e genitori fossero una credenziale di altissimo valore per il contesto culturale africano. L’apertura dell’africano verso l’anziano e la situazione della coppia africana sono segni dello Spirito per un nuovo tipo di chiamata.
Siamo convinti che, oggi, l’Africa ha bisogno anche di «coppie missionarie anziane», come testimoni di fedeltà. Naturalmente devono avere certi requisiti: lunga esperienza di vita familiare cristianamente vissuta e capacità di manifestarla agli altri, continuando ad amare insieme.
Molte coppie di pensionati, chiamate nell’undicesima ora a lavorare nella vita del Signore, potrebbero fare un’esperienza come la nostra. Già si organizzano viaggi per visitare le missioni; ma è giunta l’ora d’incarnarsi per qualche tempo nella realtà missionaria. Noi siamo pronti a ritornare, perché il cristiano non può andare in pensione.

Laura e Giovanni Paracchi




MONGOLIA (1)Bambini da… stanare

I primi 5 missionari e missionarie della Consolata sono in Mongolia da appena un anno.
Oltre alla lingua, studiano come progettare
la missione. E il lavoro non manca.

Steppe immense e cielo azzurro: è la prima impressione mozzafiato provata nel mettere piede in Mongolia, all’inizio di luglio del 2003. Il paese è cinque volte più esteso dell’Italia, ma con una popolazione di circa 3 milioni di abitanti; un terzo di essi vive nella capitale Ulaanbaatar.
Ben presto l’emozione cede alla visione della realtà: il paese attraversa una profonda crisi economica e di identità, da quando, con la fine del comunismo e lo sfascio dell’impero sovietico, i russi hanno abbandonato a se stessa la Mongolia, lasciando interi villaggi disabitati, provocando la chiusura di molte fabbriche e costringendo la gente a dipendere dagli aiuti umanitari.
Il costo della vita si è impennato, mentre i salari non aumentano: un impiegato statale, per esempio, guadagna da 50 a 80 euro al mese. Dalle nostre spese, possiamo fare i conti in tasca alla gente: un chilo di carne (la più economica è quella di cavallo), un litro di latte e un pezzo di pane costano 2.200 tugruk (1,60 euro); moltiplicato per 30 giorni fa quasi il mensile di un operaio.
La povertà provoca enormi problemi sociali, come la fuga verso la città; l’alcornolismo è diventato una piaga sociale spaventosa. Le statistiche della Fao fanno rabbrividire: un terzo delle famiglie mongole rientra nella fascia della povertà grave; quasi la metà dei bambini vive di stenti; i ragazzi di strada sono tra i problemi più raccapriccianti del paese.

I BAMBINI DEL TOMBINO

Prima di arrivare ad Ulaanbaatar, sapevo del fenomeno per sentito dire; ma non ne avrei mai immaginato la cruda realtà, finché non la vidi con i miei occhi: quasi per caso abbiamo scoperto alcuni bambini in un tombino, poco lontano dalla nostra abitazione. Appena sollevammo il coperchio fummo soffocati da un fortissimo tanfo di muffa ed escrementi; i bambini erano attorniati da un esercito di scarafaggi, rannicchiati in un angusto rifugio di pochi decimetri cubici, sotto il grosso tubo umido e semi arrugginito del riscaldamento, eredità della tecnologia russa, che si snoda e s’incrocia con cento altri tubi nelle viscere della città.
L’alta temperatura dell’acqua che vi scorre procura a quel rifugio un tepore sopra i 20°, che permette, bene o male, di sopravvivere e ripararsi dal gelo che, fuori, attanaglia le strade della città.
Oggi hanno trovato tra gli avanzi delle ossa semispolpate; domani non non lo sanno; forse non troveranno nulla tra l’immondizia di una città povera, non abituata a sprecare.
Ciò che abbiamo visto non è la scena di un pessimo film di fantascienza, ma la reale condizione di migliaia di bambini, molti dei quali in età prescolare, nella capitale più fredda del mondo, dove il termometro scende spesso a meno 35°.
Fuggono situazioni familiari insostenibili: padri ubriachi e violenti, famiglie disastrate, promiscuità, madri single o vedove, situazioni di miseria e degrado inimmaginabili.
Si radunano in branchi, come animali selvatici, ma non lo sono. Vorremmo fare sentire loro che sono esseri umani come noi; spiegare che sono nostri fratelli, figli dello stesso Padre. Ma ci assale un senso di impotenza: siamo ancora all’abc della loro lingua. Anche questo ci stimola a studiare con maggiore impegno per impararla più in fretta. Mentre questi bambini lottano per un osso spolpato, noi lottiamo contro un osso duro: il mongolo (vedi riquadro).
In tali rifugi, oltre al calore, questi bambini cercano un riparo per sfuggire alla polizia di cui hanno paura. Non sappiamo bene perché: ma quando riusciremo a comunicare meglio, lo sapremo.
Da quando è crollato il comunismo (il regime garantiva un minimo di sussistenza), anche i minori ingrossano le file di quei disperati che cercano nell’accattonaggio una possibilità per sopravvivere. Questi bambini vivono nella peggiore promiscuità con adulti alcolizzati, malati, emarginati. Alle sofferenze causate dal freddo, fame, mancanza d’acqua, sporcizia, si aggiunge la paura della violenza: questa può scoppiare spesso irrefrenabile tra ubriachi, adulti o ragazzi più grandi, che affogano la loro miseria in alcornol di pessima qualità e vodka mischiata a metanolo.
Durante il giorno, questi spettri emergono dai loro avelli alla ricerca di un po’ di cibo nella spazzatura; oppure raccolgono qualche bottiglia in vetro e oggetti di plastica da destinare al riciclaggio. In una giornata di lavoro si può raccogliere al massimo 3 chili di plastica, che fruttano 600 tugruk (45 centesimi di euro), quanto basta per comprare un litro di latte.

AFFETTI NEGATI

Questi bambini di strada sono spesso creature tenere, malate nel cuore per mancanza d’amore, che si contentano di un’esistenza che richiede un grande sforzo per chiamarla vita. Sopravvivono con ciò che riescono a guadagnare e la scarsa elemosina che riescono a succhiare da una città che non li ama.
Benché miserevoli e affamati, odiati e scacciati, difficilmente essi si danno alla delinquenza, né formano bande di piccoli rapinatori, come capita in altre latitudini. Ladri o gruppi di rapinatori sono piuttosto formati da adulti.
Eppure spesso la polizia li arresta e li rinchiude in orfanotrofi, oppure, seguendo le ultime direttive del governo, li riporta a quei «simulacri» di famiglie dalle quali erano fuggiti e da cui fuggiranno di nuovo, passando da miseria a miseria.
Anche la gente li accusa di essere dei criminali, lazzaroni, sfaticati, di preferire la strada al lavoro, un bene raro anche per gli adulti.
Un giorno, mentre portavamo una minestra calda a un gruppo di questi bambini, un vicino ci domandò dove andavamo. Più con i gesti che con le parole spiegammo che andavamo al tombino. L’uomo scosse la testa e con un gesto eloquente, come se imbracciasse un fucile, ci fece capire cosa avrebbe fatto lui a quei poveri infelici.

UN’ALTRA MINESTRA

«Vi piacerebbe studiare?» domandiamo loro. «Magari!» rispondono quelle guance rosee e sporche. Ma come sarà il loro futuro? Troveranno un lavoro? Se saranno fortunati di trovarlo, come potranno avere una vita dignitosa, se il mensile di un insegnante, un operaio, un medico è inferiore a 100 euro e il costo della vita continua ad aumentare?
Sono domande che sfidano anche il nostro futuro. Cominciamo a capire che non basta dare un piatto di minestra oggi e domani; ma bisogna elevare l’ambiente nella sua totalità. Dovremo aiutare i mongoli a cucinare un’altra minestra, con una grande quantità di giustizia, forti dosi di amore e comprensione, un bel pizzico di frateità…
Sarà necessario sforzarci di capire non solo la lingua, ma anche il loro modo di vivere, di esprimersi, di concepire la vita. Ed è quello che cerchiamo di fare giorno per giorno: orecchie dritte a scuola, per percepire gli strani suoni della loro lingua, e cuore aperto per conoscere e amare questo popolo e la sua cultura.
Dovremo impegnarci a cambiare l’atteggiamento della popolazione verso i loro figli più sfortunati e vulnerabili. Qualcuno ha già cominciato a vedere di buon occhio le organizzazioni caritatevoli, in maggioranza cristiane, che si occupano con fatica di questi bambini e di altre vittime dell’emarginazione.
La chiesa cattolica, presente in Mongolia da appena 12 anni, ha cominciato subito a mettersi al fianco dei poveri, specialmente dei bambini di strada. All’inizio un gruppo di missionari e missionarie portavano del cibo ai tombini; poi hanno aperto centri di accoglienza.
Nel 1997, padre Gilbert Sales, dei missionari di Scheut, iniziò nella capitale il Verbiest Care Center, sostenuto dal Centro internazionale cattolici missionari e dalle Pontificie opere missionarie: oggi accoglie 120 bambini fino ai 15 anni. «Andiamo a stanare questi piccoli disperati nei loro squallidi rifugi – racconta padre Sales – e li portiamo in un ambiente pulito, sano, pieno di allegria. Restituiamo loro una prospettiva di vita».
Filippino, 39 anni, padre Gilbert Sales è il primo missionario arrivato in Mongolia, assieme all’attuale vescovo, mons. Padilla.
Un’altra iniziativa del genere è portata avanti dai salesiani, che in due piccoli centri accolgono una quarantina di bambini. Il primo serve per la conoscenza dei bambini e dura un paio di settimane; dopo di che saranno loro stessi a chiedere di passare all’altro centro e iniziare a studiare.
Le suore di Madre Teresa hanno un centro di accoglienza per bambine e ragazze madri. «Le ragazze sono più difficili da trattenere che i bambini; vogliono la libertà a tutti i costi» confessano le suore.
Oltre al recupero dei bambini di strada, la chiesa ha avviato altre opere sociali: asili, scuole, centri di insegnamento d’inglese, musica, danza, ecc., progetti a favore di handicappati e carcerati.
«La vita nella capitale mongola – dice mons. Padilla – è caratterizzata da alcornolismo, violenza e condizione familiare debole e incerta. Ogni settimana provvediamo a fornire cibo e vestiti ad almeno 200 adulti allo sbando. La proposta cristiana entusiasma soprattutto i più giovani, che vedono un’alternativa più decorosa alla realtà attuale».

QUALE MISSIONE?

La sorte di migliaia di piccoli mongoli senza il minimo futuro, con l’incubo della fame, malattie, un’aspettativa di vita bassissima, ci interpella. L’impegno in attività di promozione umana potrebbe essere una priorità della nostra presenza in Mongolia. La chiesa locale e i missionari arrivati prima di noi ci aiutano a cercare il modo più efficace di inserirci nella realtà del paese.
In Mongolia siamo 51 missionari, tra padri, suore e laici di differenti congregazioni, paesi e continenti. Anche lavorare e vivere in comunione con loro fanno parte della nostra missione.
Non sappiamo ancora in quale città lavoreremo, né quale sfida accoglieremo. Di una cosa siamo certi: sull’esempio di Cristo, vogliamo lavorare perché tutti «abbiano vita e l’abbiano in abbondanza».
Ma per il momento continuiamo a rosicchiare l’osso duro della lingua mongola. Al tempo stesso, con la saggezza dell’umiltà e la forza della carità, ci lasciamo illuminare da tutte le persone di buona volontà che incontriamo sul nostro cammino, senza giudicare ciò che ancora non riusciamo a capire fino in fondo.
Ci sono di guida anche le parole di Giovanni Paolo ii: «La chiesa considera con sincero rispetto quei modi di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini».
(Fine prima puntata – continua)

Juan Carlos Greco




CIADMedici laici in missione

Il racconto semplice, ma convinto
di una giovane coppia di medici, che ha voluto
«affondare la sua radice» in terra africana.
In nome della fede, alimentata dalla «linfa vitale»
di una frateità a tutto campo.

«Siamo stranieri, ma ci sentiamo a casa; abbiamo imparato a vivere una vita più semplice, ma piena di senso. Per la sua precarietà, le storie di cui veniamo a conoscenza, gli stessi impegni che abbiamo, la vita in Ciad ci richiama continuamente al senso ultimo della vita. Abbiamo affondato nell’humus della terra una nuova radice, che speriamo ci renda più solidi e nutra la nostra famiglia con la linfa vitale della frateità e comunione». Con queste parole Emanuela e Paolo hanno voluto terminare il racconto che mi hanno fatto della loro esperienza missionaria: sei anni vissuti con amore e fede sul territorio africano.

VOGLIA DI CONDIVIDERE

Entrambi medici, si sono incontrati per la prima volta a un corso di medicina tropicale, organizzato dal Cuamm di Padova. Spiega Emanuela: «Indipendentemente l’uno dall’altra, inseguivamo il forte desiderio di dedicare almeno una parte della nostra vita professionale a un paese in via di sviluppo e tutti e due eravamo orientati all’Africa».
Già qualche anno prima di approdare a Padova, avevano avuto modo di toccare da vicino la realtà sanitaria africana: Emanuela era stata in viaggio in Uganda, presso un ospedale missionario; Paolo aveva visitato un ospedale del Burkina Faso, entrambi gestiti da medici del Cuamm. Sono state proprio queste brevi esperienze che hanno fatto crescere il desiderio di passare più tempo sul suolo africano e li hanno spinti a seguire il corso padovano.
Due anni dopo il primo incontro, nel 1993, si sono sposati; pur continuando a pensare, prima o poi, di fare le valigie, hanno cominciato a lavorare in Italia, frequentando scuole di specializzazione in linea con il corso che la loro vita stava prendendo: Emanuela medicina intea e Paolo pediatria.
«In quegli anni, in Italia si era verificata una grande crisi della cooperazione internazionale – ricorda Paolo -. In seguito al crollo del muro di Berlino, gran parte degli investimenti era stata “dirottata” all’Europa dell’Est. Altro duro colpo fu lo scandalo del Fondo Aiuti Italiano (Fai), sull’onda di mani pulite».
Aggiunge Emanuela: «Cercavamo contratti per partire come cooperanti per un periodo minimo di due anni e non ne trovavamo. Da quegli anni in poi si è sviluppata la moda dell’emergenza e contratti a breve termine: sei mesi, massimo un anno. Come prima esperienza, ciò non ci interessava; eravamo convinti che ci volesse un certo tempo per entrare in contatto con la realtà».
Un periodo così breve non avrebbe, infatti, permesso di calarsi fino in fondo nelle situazioni locali, di capire il modo di vivere della gente; avrebbe permesso di portare un aiuto isolato, sicuramente valido ma, per certi versi, fine a se stesso; mentre quello che cercava la giovane coppia era la costruzione di rapporti umani, l’integrazione, per quanto possibile, con la popolazione del posto, per costruire con loro qualcosa che rimanesse nel tempo, oltre il giorno del loro rientro in Italia.

PRIMA… MISSIONARI

Mentre ragionavano sul loro futuro, una coppia di amici, Marta e Marco, si stava preparando a partire per l’Africa, come missionari laici. «Avevamo conosciuto il centro in cui seguivano la formazione, a Piombino in Toscana (Centro frateità missionarie, vedi riquadro) e spesso li accompagnavamo, perché ci sembrava una formazione molto bella, che avrebbe potuto servire anche a noi» ricordano con piacere.
«In effetti, per noi la dimensione della fede restava fondamentale e ci chiedevamo in che modo poterla vivere, anche in un’esperienza prettamente professionale come quella della cooperazione. Nei nostri viaggi in Uganda e Burkina Faso avevamo entrambi notato come la fede fosse sì la motivazione fondamentale di molti, ma spesso restava in secondo piano nella vita concreta, a causa del sovraccarico di lavoro e richieste infinite. Inoltre, ci sembrava che la vita dei cooperanti fosse tutta tesa all’apporto professionale, senza un contatto normale, quotidiano, con la gente, se non quello di medico-paziente. A poco a poco, continuando a seguire la formazione a Piombino anche dopo la partenza dei nostri amici per il Ciad, ci siamo resi conto che la proposta del Centro frateità missionarie poteva fare al caso nostro».
Una presa di coscienza abbastanza faticosa per tutti e due: «Ci veniva chiesto di spogliarci, almeno momentaneamente, del ruolo di medici che a noi stava tanto bene… Prima di tutto dovevamo sentirci inviati, cioè missionari, portatori dell’annuncio evangelico».
All’inizio sembrava tutto troppo difficile. Ma i numerosi aspetti della proposta del Centro frateità missionarie hanno avuto la meglio. «Alla fine del 1996 è arrivata la proposta della frateità di N’Djamena, che era allora composta proprio da Marta e Marco e da don Aldo, della diocesi di Milano. Vivevano insieme da due anni nella periferia della città» racconta Paolo.
Dopo un viaggio conoscitivo e il sì definitivo, lasciato anche il lavoro, la coppia ha dedicato tutto il 1997 a una preparazione più approfondita: un mese al Centro di Piombino; il corso al Centro unitario missionario (Cum) a Verona; due mesi e mezzo in Ciad per imparare il francese; sei mesi al corso di medicina tropicale ad Anversa, in Belgio. «Sono state tutte occasioni preziose, sia per approfondire la riflessione sul cammino che ci accingevamo a percorrere, sia per conoscere tante persone con cui abbiamo iniziato bellissime amicizie. Già nel periodo di preparazione cominciavamo a ricevere il centuplo promesso!» tiene a sottolineare Emanuela.

«TORNIAMO A CASA?»

«Il 4 aprile 1998 siamo arrivati a N’Djamena – continua Emanuela -. Una data impossibile da dimenticare: in piena stagione calda e la peggiore degli ultimi 30 anni! Il termometro arrivava a 48-50 gradi all’ombra. La casa, disabitata da qualche mese, perché Marta e Marco erano in Italia per ragioni di salute, era sepolta sotto uno strato di polvere. C’era di che scoraggiare i più intrepidi. Giovanni, il nostro primogenito, che allora aveva due anni, dopo un’ora ha esclamato: “Papà, adesso torniamo a casa!”. Era quello che tutti pensavamo». Invece Emanuela e Paolo non si sono mossi e sono ancora lì, dopo sei anni!
Nonostante il quadro scoraggiante, almeno per chi vive in Europa, la loro prima impressione, fortissima e che ancora conservano, è stata la gente: nonostante tutto vive ed è contenta. Di fronte a tutto quello che hanno iniziato a vedere e toccare con mano, durante i primi mesi di permanenza sono stati assaliti da un senso di inutilità: «È un sentimento che ci sembra bene risvegliare ogni tanto, per ricordarci che qui non siamo eterni, che è la gente che deve essere protagonista delle scelte e che, se siamo qui, è per uno scambio, il più possibile alla pari».
Il primo anno è passato ad ambientarsi, conoscere le persone, i luoghi, fra cui le strutture sanitarie, imparare l’arabo ciadiano. Nello stesso tempo la coppia ha cercato di capire, anche con l’aiuto della chiesa locale, come mettere al servizio degli altri le loro conoscenze professionali. Così, dal 1999, Paolo ha cominciato a lavorare nell’ospedale governativo del quartiere dove vivevano ed Emanuela nel servizio diocesano per i malati di Aids, campo per il quale c’era stata una richiesta pressante da parte del vescovo.
Nel frattempo, nel marzo 1999, è nata la seconda bambina, Sofia. La famiglia che veniva dall’Italia ha così cominciato a prendere una forma accettabile per lo standard africano, due coniugi con un solo figlio non sono quasi considerati famiglia.
La presenza dei bambini che crescevano ha facilitato una conoscenza sempre maggiore del vicinato e un’integrazione a tutti gli effetti, come avevano sempre voluto: «I bambini non hanno barriere, spontaneamente si infilano nelle case altrui, cosa che qui è assolutamente normale; e noi, per recuperarli, abbiamo potuto conoscere gli adulti degli altri cortili che si affacciano sulla nostra strada» spiega Emanuela.

RITORNO… COME PARTENZA

Spesso, si pensa che chi vive in paesi «lontani» (geograficamente, economicamente o culturalmente) abbia un’organizzazione della giornata e della vita profondamente diversa dagli standard cosiddetti occidentali. In realtà, guardando lo scandire delle ore della numerosa famiglia di Emanuela e Paolo (nel frattempo è arrivato anche Carlo, che ora ha due anni), non si trovano grandi differenze.
Al mattino si accompagnano i bambini a scuola, che inizia alle 7,30. Si tratta di una scuola ciadiana, fondata da una chiesa protestante; nelle classi del ciclo elementare ci sono dai 50 ai 70 bambini, mentre l’asilo è meno frequentato. I loro figli sono gli unici europei, il che ha loro creato qualche difficoltà, vista la curiosità ai limiti dell’invadenza dei bambini africani.
Il ritorno da scuola è intorno a mezzogiorno, ora in cui cominciano le scorribande con i ragazzini del vicinato; una banda di una decina di scatenati, che giocano usando tutta la fantasia e l’energia possibili. Anche il più piccolino, Carlo, saltella dietro il gruppo contento di potersi associare ai giochi, più o meno sorvegliato dagli amici più grandi.
Come in un qualsiasi paese industrializzato, in cui mamma e papà lavorano, anche nella loro organizzazione familiare ci sono due donne che danno una mano nel curare i bambini e gestire la casa.
«Paolo ed io lavoriamo 3-4 giorni la settimana, in ambito sanitario. Abbiamo scelto di avere un impegno a metà tempo per conservare lo spazio per gli incontri di frateità: una volta la settimana sul vangelo della domenica successiva, un’altra per una riunione di riflessione su un aspetto della nostra vita, o più operativa se c’è qualche scadenza imminente. Spesso, comunque, le tre giornate di lavoro medico sono completate da riunioni e incontri che si svolgono soprattutto al pomeriggio. Qui non esiste una vita nottua, il tempo è gestito seguendo la luce solare. La sera, dopo cena, si è spesso così stanchi che non si può far altro che buttarsi sul letto».

Agiugno di quest’anno Emanuela e Paolo sono rientrati in Italia definitivamente: rientro previsto e non più procrastinabile, soprattutto a causa della scolarità dei figli. «Come le altre famiglie del Centro di Piombino già rientrate, consideriamo questo ritorno come una nuova partenza – spiega Paolo -. Ci metteremo in ascolto della realtà italiana, nella città in cui andremo a vivere e ci reinseriremo, come abbiamo fatto in Ciad; con la differenza che, questa volta, abbiamo già un minimo di conoscenza della cultura… Certamente non consideriamo questo tratto di vita come una parentesi da chiudere, ma come un tesoro da spendere nella nostra società italiana. La vita in Africa ci ha sicuramente cambiati: nelle piccole come nelle grandi cose».
Per Emanuela, che ha vissuto 30 anni in una città come Milano, è stata dura abituarsi all’interessamento continuo dei vicini africani sulla loro vita, ai saluti degli sconosciuti: «Qui si dice che, quando qualcuno ti saluta, vuol dire che sei vivo. Un africano si sentirebbe come morto in una delle nostre città, dove si è un po’ tutti indifferenti gli uni agli altri. Ho imparato il grande valore delle relazioni, anche fatte di cose apparentemente insignificanti. Inoltre, lo sforzo di inserirsi in una cultura diversa, la coscienza di essere stranieri (dunque, ospiti) ci ha insegnato una grande umiltà nell’approccio con gli altri. Molti pregiudizi che come occidentali abbiamo incamerato senza accorgercene, si sono dissolti come neve al sole».

Valeria Confalonieri




KENYAUna bibbia in ogni famiglia

All’inizio del 2004, in varie diocesi del Kenya si è svolta con successo la campagna
per la diffusione della bibbia nelle famiglie,
con l’invito alla lettura quotidiana della parola
di Dio. A Nairobi l’evento ha avuto luogo
nella parrocchia-santuario della Consolata.

Mentre cresceva nel villaggio rurale di Mwala, diocesi di Machakos, il futuro vescovo di Nairobi, Raphael Ndingi Mwana ‘a Nzeki, non ebbe mai l’opportunità di sedersi e leggere la bibbia, finché non entrò nel seminario maggiore. Non è che il ragazzo ignorasse le scritture. «Prima di tutto la bibbia era disponibile solo in latino; in secondo luogo la chiesa non sempre incoraggiava i laici a leggere le scritture» ha detto l’arcivescovo ai cristiani di Nairobi.
In quei giorni, la bibbia era apparentemente destinata solo al clero. Ma il Concilio Vaticano ii ha capovolto la situazione. Nel 1965 Paolo vi impresse un forte impulso alla costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, Dei Verbum, in cui si raccomanda di provvedere perché «tutti i fedeli abbiano facile accesso alle sacre scritture».
Negli ultimi 40 anni, la bibbia è stata tradotta in tutte le lingue del Kenya, ma l’abitudine di leggere non è diventata abbastanza popolare o, secondo l’umorismo protestante, molti cattolici hanno tale rispetto per la bibbia che non osano aprirla.
«Resta ancora tanto lavoro pastorale da fare, non solo per mettere la bibbia nelle mani dei cristiani, ma anche per aiutarli a capire quanto essa sia importante nelle loro esperienze quotidiane» ha detto Alexander Schweitzer, segretario generale della Federazione biblica cattolica (Cbf), mentre visitava il paese lo scorso febbraio. Egli si è rivolto agli agenti di pastorali perché suscitino la consapevolezza tra i cristiani sull’importanza delle sacre scritture come compagna quotidiana nel loro cammino spirituale.
È precisamente questo che le suore Paoline hanno messo in moto a Nairobi e Nanyuki, all’inizio dell’anno, organizzando la «giornata biblica», all’insegna del motto «la bibbia in ogni famiglia».
A Nairobi, l’evento ebbe luogo il 24 gennaio 2004 nella parrocchia-santuario della Consolata: con una solenne cerimonia fu intronizzata la bibbia, quindi l’arcivescovo Ndingi e il nunzio apostolico Giovanni Tonucci, insieme a vari studiosi, parlarono ai fedeli e risposero alle loro domande. A Nanyuki lo stesso evento fu preparato durante il mese di gennaio e concluso il 14 febbraio 2004.

LA BIBBIA: NON È UN LIBRO, MA UNA BIBLIOTECA

Nella sua presentazione, mons. Tonucci tracciò una breve storia della composizione della bibbia, spiegando che i 73 libri della bibbia cattolica (46 nel Primo e 27 nel Nuovo Testamento; i protestanti ne hanno solo 66) furono scritti da autori differenti, in circostanze storiche e culturali differenti, con linguaggi e stili differenti, in un periodo di mille anni. E questo, ha spiegato il nunzio, fa sì che la bibbia sia una biblioteca di libri da leggere con attenzione.
«I libri della bibbia furono scritti in ebraico e greco – ha continuato -. Ciò che noi oggi usiamo sono traduzioni; e benché i traduttori facciano del loro meglio, esse non sempre riflettono perfettamente gli originali». Portò l’esempio della parola Geova, presente in alcune traduzioni della bibbia e usato da alcuni cristiani come nome di Dio: tale termine, ha detto, non è mai esistito nelle versioni originali in ebraico e greco.
Anche i differenti stili usati nello scrivere la bibbia devono essere tenuti in mente quando si leggono le scritture. Alcuni libri devono essere letti come storia, altri come romanzi, altri ancora come canti; alcuni contengono testi per meditazione e preghiera, mentre altri riportano statistiche, come il 1° libro delle Cronache, che contiene 9 capitoli di numeri, ha continuato mons. Tonucci: «Puoi pregare e meditare sulla misericordia di Dio, rivelata nella parabola del figliol prodigo in Luca 15; non altrettanto si riesce a fare con i 9 capitoli delle Cronache».
Inoltre, la bibbia riflette le differenti culture del Medio Oriente antico: una comprensione di tali culture è essenziale per una lettura significativa delle scritture, ha spiegato il nunzio, aggiungendo che i cambiamenti che avvengono in una lingua attraverso il tempo incide sul significato originale delle scritture.

LA BIBBIA: È CIBO, NON MEDICINA

Nonostante queste difficoltà, i cristiani devono leggere regolarmente la bibbia, ha sottolineato il nunzio: «Essa è la parola vivente solo quando la leggi. Ai nostri fratelli e sorelle protestanti piace andare in giro con la bibbia sotto il braccio: buon per loro; per noi, la bibbia rimane in casa, dove la leggiamo con calma e tranquillità».
Egli ha pure messo in guardia sulla lettura selettiva e ha spronato i cristiani a leggee il libro o capitolo intero, perché la bibbia deve essere considerata come un pasto da consumare, non una medicina da ingoiare a piccole dosi quando sorge un bisogno. «La bibbia non è una miniera di buone citazioni per sostenere le proprie idee, ma una sorgente d’ispirazione nel suo insieme, e sempre sotto la guida della chiesa».
Il nunzio ha confutato la visione protestante, secondo cui la bibbia ha fatto la chiesa. «Non è la bibbia che ha creato la chiesa, ma il contrario: essa è esistita prima del vangelo scritto; è nata nella sala dell’ultima cena, sul calvario, a Pentecoste… La buona notizia della salvezza era già stata predicata molti anni prima che fosse scritto il primo libro del Nuovo Testamento. Più tardi, quando numerosi libri pretendevano di essere racconti della vita e lavoro di Gesù, fu la chiesa a selezionare quelli che erano genuini per essere inclusi tra le sacre scritture.

LA BIBBIA: GUIDA PER LA FAMIGLIA CRISTIANA

Arcivescovo Ndingi, dopo una breve riflessione sulla famiglia come «chiesa domestica», ha detto che la bibbia ha guidato il popolo di Dio nella sua vita quotidiana. «La paragono alla costituzione di una nazione – ha affermato, esortando le famiglie cristiane a fare della parola di Dio il centro della loro vita -. Nella famiglia ha inizio la chiesa universale… I membri della famiglia dovrebbero leggere ogni giorno un passo della bibbia per trae ispirazione».
Padre Henry Akaabian, direttore del Centro biblico per l’Africa e Madagascar (Bicam), ha parlato su come fare della bibbia la guida della propria vita. «Il mio richiamo ai cristiani africani è che abbiamo mancato di testimoniare i valori del vangelo con la nostra vita… Perché leggiamo ciò che Dio richiede da noi e poi non lo traduciamo nella vita delle nostre comunità?». Egli ha messo in risalto come la bibbia deve portare il cristiano a una vera conversione: non si tratta semplicemente di una conoscenza accurata di ciò che dice la scrittura, ma piuttosto di un personale incontro con Cristo.
Padre Vincent Kamiri, dell’Università cattolica dell’Africa orientale (Cuea), ha discusso sul ruolo di Maria nella bibbia e nella chiesa.

IN GUARDIA CONTRO GLI ABUSI

A Nanyuki, la «giornata biblica» ha avuto luogo nella parrocchia di Cristo Re. Mons. Tonucci è stato l’oratore principale. Rivolgendosi ai 10 mila fedeli del decanato di Nanyuki, ha ripetuto la presentazione fatta a Nairobi, quindi ha risposto alle domande presentategli in antecedenza.
Molte di esse tradivano l’influenza della predicazione protestante ed evangelica e riguardavano la Madonna, il sabato, le bevande alcoliche, l’uso delle immagini nel culto cattolico, uso dei pantaloni da parte delle donne, il fondamento biblico della data del natale… Oltre a mettere in guardia i cattolici contro l’uso errato delle sacre scritture, mons. Tonucci ha spiegato che la bibbia non dice nulla su argomenti scientifici. «Gli autori della bibbia hanno scritto libri di teologia e non di scienze. Per cui non si può sostenere che la teoria dell’evoluzione sia errata perché la bibbia parla di creazione. Essa non si occupa di verità scientifica».
Il nunzio si è rammaricato che molti cattolici siano stati fuorviati dalla lettura selettiva e interpretazione spuria della bibbia da parte di alcune chiese cristiane, prevalentemente fissate sul primo testamento.
Incoraggiando i fedeli a leggere la bibbia ogni giorno, egli ha pure avvertito che la verità nella bibbia non è questione di interpretazione personale: «Abbiamo bisogno della guida della chiesa per comprendere la scrittura» ha detto, aggiungendo che i cattolici non vedono la bibbia come unica sorgente di rivelazione divina, come avviene nelle altre denominazioni cristiane. Nella costituzione dogmatica Dei Verbum, la chiesa, mentre esorta i fedeli a sviluppare l’abitudine di leggere la bibbia, afferma che le tre sorgenti della divina rivelazione sono la sacra scrittura, la tradizione e l’insegnamento o magistero della chiesa.
La «giornata biblica» a Nanyuki si concluse con la celebrazione eucaristica, presieduta da mons. Nicodemus Kirima, arcivescovo di Nyeri.

Henry Makori




APPELLO KENYAViva Nairobi viva

Il 55% della popolazione di Nairobi (Kenya) vive in 168 baraccopoli, dove i servizi sono inesistenti. Il governo del Kenya ha deciso
la demolizione di 42 mila strutture (baracche, scuole, chiese, centri comunitari, cliniche, mercatini, ecc.), lasciando senza casa né speranza oltre 354 persone. Le demolizioni
sono già cominciate, senza preavviso né offerta
di alcuna alternativa o compensazione.
Il «Coordinamento delle parrocchie negli insediamenti informali» (slums) di Nairobi ha lanciato un appello per fermare le demolizioni
e avviare un tavolo di trattative serio, finalizzato a trovare soluzioni accettabili: limitazione dei trasferimenti, rilocazione concordata, indennizzi per gli sgomberati.
Varie associazioni e personalità inteazionali hanno aderito all’appello e lanciato la campagna «Viva Nairobi Viva», tra cui i volontari di AfrikaSì, impegnati negli slums della parrocchia della Consolata di Westlands, Nairobi
(vedi dossier in M.C. marzo 2004).

La notizia della demolizione sistematica degli slum a Nairobi ha colto noi operatori volontari in quel territorio di sorpresa, lasciandoci basiti.
Chi conosce gli slum sa perfettamente quali siano le condizioni di degrado estremo di quella realtà che si svolge al di fuori di ogni canone di vita compatibile con gli esseri umani. Ma cacciarli di lì senza alcuna azione concreta di ristrutturazione migliorativa o no, significa togliere loro l’unica risorsa di cui dispongono: la speranza.
È per dar loro la speranza di una vita accettabile e civile che noi di AfrikaSì andiamo laggiù a operare, immergendoci nella loro miseria materiale e spirituale e nella loro vita. Noi, un pugno di volontari, andiamo a portare il poco che possiamo materialmente, il tanto che abbiamo nel nostro cuore, commossi e profondamente turbati dal loro dolore, nascosto spesso dietro un sorriso e la rassegnazione.
Cacciarli di lì, da quei tuguri che rappresentano l’unico «bene» e certezza, non è propriamente un atto di civiltà, come si vorrebbe far credere, ma un ulteriore crudeltà della civiltà delle ruspe e della tecnologia.
Possiamo comprendere, noi occidentali, come spianare il loro fango misto a sterco, allontanando il loro fetore, possa essere liberatorio per noi, per le nostre case e la nostra «pulizia»; diversa forse la loro ottica. Buttar via quelle quattro assi e quegli stracci, unici loro beni, significa compiere l’ultimo gesto di negazione e di rifiuto, dopo aver loro rubato le terre, le case rurali, la realtà contadina decorosa e civile in chiave con le loro radici e tradizioni a favore del latifondo, con l’inganno supremo di un lavoro in città, con il miraggio di un benessere migliorativo.
Questo il primo passo della nuova Repubblica kenyana, il primo intervento nei confronti dei diseredati della terra.
«Son sempre i cenci che vanno all’aria» diceva Manzoni. Le ruspe contro le forchette come sempre, come adesso «esportare la democrazia» è il nuovo look politico di questa epoca che, nella sua grande violenza e ipocrisia, aggredisce i deboli, togliendo loro il molto o il nulla che posseggono, peraltro ammantando la prevaricazione, il sopruso, l’offesa sotto la veste etica della democrazia, foriera per definizione di libertà, benessere, bene assoluto.
Bene per chi? Non certo per coloro che non hanno voce, mezzi, armi per difendersi. Perché non fare altrettanto e quindi esportare le nostre ideologie sacre in quei paesi e territori ove la democrazia è carente, ma dove si incontrerebbe una reazione, una risposta altrettanto forte a difesa delle proprie radici, della propria terra, magari una risposta con armi tecnologiche altrettanto distruttive e offensive delle nostre? Semplice, questa è la legge dei prepotenti e dei vigliacchi di questo sporco mondo che, adducendo lo spettro del terrorismo, nascondono agli stolti e ai ciechi che esso nasce proprio dalla violenza, aggressività e ingiustizia e come il perpetuarsi di queste dinamiche sia la causa prima che alimenta la reazione dei poveri con le loro armi: pietre, sangue, pianti e disperata estrema reazione: il suicidio.
Con queste nostre semplici ma oggettive valutazioni, intrise di amarezza e di dolore, unite allo sconforto e all’impotenza intendiamo denunciare con grido lacerante la nostra più vibrata protesta insieme a quella di tutti coloro che vivono e soffrono con noi l’ingiustizia, la prevaricazione, la stupidità. Grido associato in modo irrevocabile alla nostra volontà di andare avanti e di combattere per questi sacri, eterni ideali.

Ennio Di Giulio




RUSSIACittadini russi e profughi ex sovietici

«Dov’è la propiska, la cittadinanza?».
È la domanda che milioni di ex cittadini sovietici
si sentono rivolgere, per poter vivere in pace
e con un minimo di garanzie.
Ma a cui non possono rispondere.
Nascono così le nuove ondate di «migranti forzati»dentro la propria patria. Senza un futuro.

Stavo raccogliendo materiale sui senzatetto in Russia e contattavo diverse organizzazioni umanitarie. «No, non ci occupiamo di senzatetto – mi sentii rispondere dall’altro capo del filo – ma di profughi». «Profughi a Mosca? Ceceni, probabilmente» azzardai io. «Non solo». Non indagai oltre in quell’occasione, ma lo feci in seguito. Si parla di 5, addirittura di 8 milioni di persone che hanno varcato i confini della Russia dai primi anni Novanta.
L’Urss ha smesso di esistere il 31 dicembre 1991. La mattina del 1° gennaio 1992, gli ormai ex-cittadini sovietici si risvegliarono abitanti di diversi paesi. Fuori dei confini della neonata Federazione Russa rimasero circa 25 milioni di persone, che vivevano nelle altre repubbliche dell’Unione Sovietica e che, fino al giorno prima, avevano avuto una posizione di preminenza, non solo dal punto di vista politico. Di punto in bianco essi si ritrovarono cittadini di seconda categoria rispetto agli indigeni, la cosiddetta «etnia titolare».
Diventarono gradualmente oggetto di discriminazione: impossibilità di fare carriera, licenziamenti, requisizione di alloggi, obbligo di utilizzare solo la lingua locale. Si cominciò a chiudere le scuole russe, giornali, radio: un desiderio di rivalsa nei confronti di quella che per secoli era stata la nazione dominante.
Tale reazione, presente non solo in tutta l’area ex-sovietica (eccetto in Armenia e Bielorussia), ma anche nell’Est-Europa, può essere, fino a un certo punto, comprensibile, sebbene mai giustificabile. Meno comprensibile è, invece, il fatto che la Russia faccia ben poco per difendere gli interessi dei russi delle repubbliche, nonostante abbia tutte le possibilità di esercitare pressioni in tal senso su quegli stati, assai inferiori a lei per peso politico ed economico. Non solo non li difende, ma crea ostacoli al loro rientro in patria, rendendo arduo l’iter per ottenere la cittadinanza.

<b<IMMIGRATI UNA RISORSA NECESSARIA

Caterina Belugina si era trasferita dalla Russia in Uzbekistan con la famiglia nel 1975; qui aveva terminato gli studi e iniziato la carriera di giornalista. Poi, nel 1992, aveva preso la cittadinanza uzbeka, per non essere costretta ad abbandonare immediatamente il paese.
Qualche tempo fa ha dovuto difendersi dall’accusa di diffamazione a seguito di un articolo, in cui denunciava il comportamento di un alto funzionario statale. Tutto il processo si è tenuto in uzbeko, che Caterina non conosce, e si è concluso con la sua condanna. Ha capito, allora, che quello non era più posto per lei e, come molti altri, si è rivolta al consolato russo per fare domanda di cittadinanza, primo passo per rientrare in patria con tutti i diritti.
«Era chiaro che non ne avrei cavato niente. Al consolato russo c’erano file di tre giorni, la gente dormiva fuori. Anche se fossi riuscita ad avviare la pratica, ci sarebbero voluti due anni e mezzo per ricevere la cittadinanza». Caterina non ha voluto aspettare tanto. È venuta a Mosca dalla sorella, abbandonando quasi tutti i propri averi.
«Avevamo un grande appartamento, l’abbiamo venduto per due soldi. Accade sempre così. Si sa che i russi sono costretti ad andarsene e devono accettare il prezzo che è loro offerto. Non ho portato con me quasi niente. Le tasse doganali erano troppo alte». L’amarezza maggiore Caterina la esprime nei confronti del proprio paese: «La Russia non aiuta i propri figli. C’era da noi un’invalida d’origine tedesca: la Germania non solo le ha dato la cittadinanza, ma le ha mandato una sedia a rotelle e l’ha aiutata a trasferirsi. Anche gli ebrei ricevono assistenza. Di noi, nessuno si occupa. Al contrario. Il nostro consolato a Tashkent chiede il pagamento delle spese consolari in dollari, quando tutti sanno che il possesso di valuta straniera è illegale in Uzbekistan e attira l’attenzione delle autorità».
Tutti gli stati occidentali sono messi in serie difficoltà dalla pressione degli immigrati stranieri sui propri confini; ma nel caso della Russia l’immigrazione è costituita principalmente dagli stessi russi (circa il 77%); e poi, il paese ha un gran bisogno di nuova energia, di braccia e cervelli; d’altri abitanti, insomma.
La catastrofica situazione demografica sta minacciando l’economia e la sicurezza dello stato. Il numero di coscritti al servizio di leva è già considerato insufficiente, tanto che nel dicembre 2003 il distretto militare di Mosca ha organizzato vere e proprie retate per le strade della capitale, fermando e arruolando a forza i giovani, senza dare loro nemmeno la possibilità di avvertire la famiglia.
Se l’emorragia non s’arresta, ci sarà presto penuria di forza lavoro e la necessità d’importare lavoratori e specialisti da altri paesi. Ed ecco che milioni di persone tornano a casa, hanno voglia di lavorare, sono disposte a fare di tutto, pur di ritrovare una vita dignitosa e sfamare la propria famiglia. Sono persone che hanno spesso alle spalle una solida esperienza professionale e anni di convivenza con altre culture, da cui sono stati arricchiti. Inoltre provengono da regioni di cultura musulmana, quindi non hanno abitudine al bere: una qualità assai preziosa per una nazione che paga un alto costo per l’eccessivo consumo di alcolici.

SENZA PERSONE, NESSUN PROBLEMA!

Stando ai dati del Ministero per le nazionalità e politiche migratorie, in Russia ci sono circa 900 mila persone con regolare status di Forced migrants (Fm) o di rifugiati. Sono cifre molto al di sotto della realtà. Basti pensare che dei 100 mila afghani arrivati durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan e rimasti anche dopo il 1989, solo 513 hanno ottenuto tale status; gli altri sono considerati illegali.
È indubbio che l’arrivo di tanta gente pone allo stato notevoli problemi. Affrontarli adeguatamente comporterebbe un grosso impegno, intelligenza, lungimiranza e lo stanziamento di appositi fondi. Nessuno ha ancora smentito il noto aforisma attribuito a Stalin: «Se c’è la persona, c’è il problema; se la persona non c’è, non c’è il problema». Si spiega così la riluttanza delle autorità a concedere lo status di Fm o profugo. Il rifiuto può essere motivato da ragioni formali, come il non rispetto dei termini di presentazione della domanda che molti, tra l’altro, ignorano; oppure può non essere motivato affatto.
Senza lo status i profughi sono considerati come stranieri arrivati di propria volontà e giuridicamente trattati di conseguenza, senza obblighi particolari. Ma anche verso i profughi ufficialmente riconosciuti come tali, le risorse messe a disposizione sono di gran lunga insufficienti a far fronte ai due bisogni fondamentali: casa e lavoro. Negli ultimi anni, tra l’altro, queste risorse si sono andate continuamente riducendo. Il 2002 ha visto drastici tagli delle spese sociali, e non solo in questo campo.
I migranti registrati presso i Servizi immigrazione vengono raccolti in centri dove possono vivere per anni in baracche precarie, senza servizi. Si cerca di mandarli in aree rurali, indipendentemente dal loro ambiente di provenienza e professione. Il principio è di ripopolare le zone che si stanno svuotando.
Di loro si occupano anche organizzazioni umanitarie inteazionali, in primis l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur), che in Russia è molto presente, e lo Iom (Inteational Organization for Migration). «Anche i migranti registrati hanno difficoltà a ricevere assistenza medica a causa del cattivo funzionamento del servizio sanitario statale – spiega Edwin McClain, responsabile Iom per la Russia -. Per questo abbiamo allestito ambulatori nelle zone di raccolta dei migranti. Purtroppo, abbiamo risorse limitate; quindi, ci rivolgiamo soprattutto alle categorie più vulnerabili: madri sole, handicappati, anziani. Abbiamo anche avviato un programma di microcredito».
Il vantaggio di essere un «migrante ufficiale» non sta solo nel ricevere gli aiuti statali (comunque miseri), ma nel vedersi più facilmente riconosciuti alcuni diritti fondamentali della persona che si tende, invece, a negare agli altri migranti, contrariamente ai dettami della costituzione.
Un espediente utilizzato per escludere intere categorie di persone da servizi destinati a tutti è quello della propiska, o registrazione del luogo di residenza (vedi Missioni Consolata, giugno 2001), che in Russia non è, nella pratica, la semplice constatazione di un dato di fatto, come vorrebbe la costituzione, dove viene sancita la libertà di movimento.

I NUOVI SCHIAVI

Per la registrazione, le autorità regionali introducono pre-requisiti di cui non si parla nelle leggi federali: c’è chi condiziona la registrazione alla presenza di familiari che già vivono sul posto da 5-10 anni; chi chiede garanzie di lavoro e alloggio da parte di aziende locali, o il pagamento di tasse non previste dalla legge; chi adduce criteri di ampiezza dell’alloggio, chi richiede particolari certificati medici, chi introduce quote d’ingresso nella regione e chi, addirittura, nega la registrazione a interi gruppi di persone, ad esempio, ai ceceni.
Il primo e più grande beffeggiatore della costituzione è il comune di Mosca, che respinge migranti e profughi da scuole, luoghi di lavoro, ospedali. Si è così creata una situazione alquanto paradossale. Al Cremlino è insediato il presidente Putin, massima autorità della Federazione, garante supremo delle sue leggi, al municipio di Mosca, c’è il sindaco, il sig. Luzhkov, che di queste leggi se ne fa un baffo.
«Per essere registrata presso mia sorella a Mosca ho dovuto procurarmi documenti che dimostrano il nostro legame di parentela». È ancora Caterina Belugina che racconta. A lei è andata bene. Quando ci siamo incontrate la prima volta, era appena rimpatriata e disoccupata, ma, grazie alla sua esperienza di giornalista, ha trovato lavoro presso il «Forum delle unioni dei migranti». Ha iniziato solo qualche mese fa, ma ha già tante storie da raccontare.
«Sergej viveva con la madre in Kazakistan. All’età di 14 anni decise di venire ad abitare dal padre a Mosca. Da allora, sono passati diversi anni, ma non è riuscito ad ottenere né la registrazione, né la cittadinanza, perché… non è cittadino russo. Vedono dal documento che è nato in Kazakistan e lo spediscono all’ambasciata kazaka. Lì gli spiegano che, non essendo più residente in Kazakistan e non avendovi svolto il servizio di leva, non gli possono dare la cittadinanza. Il militare, Sergej l’ha fatto in Russia, con la promessa che ciò gli avrebbe dato diritto alla cittadinanza, ma non ha ottenuto nulla».
Senza registrazione Sergej è un fuorilegge. Come lui a Mosca sono migliaia. Vivono senza garanzie sociali, né assistenza medica gratuita, né un lavoro regolare, poiché è vietato assumere persone prive di registrazione. Chiuse le possibilità di un impiego legale, le autorità moscovite aprono le porte al lavoro nero e al commercio illegale, innescando un meccanismo perverso: gli «illegali» sono costretti a corrompere la polizia; tale pratica porta alla criminalizzazione della polizia e via di seguito.
«Profughi e migranti sono fonte di guadagno per le autorità locali e la polizia – continua Caterina – che li trattano, tra l’altro, come persone di seconda categoria. E la popolazione, ne assimila il disprezzo». La condizione di senza-diritti in cui i migranti si vengono a trovare li rende oggetto di ogni possibile arbitrio e genera nuove forme di schiavitù.
È il caso di Tat’jana: in Kazakistan lavorava in un centro di ricerca come geologa. Ora fa la mungitrice in una fattoria; vivono in quattro nel gabbiotto del custode. Il figlio è andato ad arruolarsi al distretto militare; la propiska non gliela danno lo stesso; ma almeno riceve cibo e vestiti.
O il caso di un gruppo di migranti, tiranneggiati dal presidente di un kolchoz della regione di Mosca. Tra di loro c’è una famiglia venuta dal Kirghizistan: si ammala il figlioletto di pochi mesi; per tre giorni lo tengono in ospedale senza pagare, ma poi chiedono loro una retta di 300 rubli al giorno, perché non hanno la cittadinanza. Ma soldi non ne hanno: il kolchoz non li paga da mesi e non si possono rivalere perché sono irregolari.
Per lo stesso motivo ai Bogonenko, arrivati dal Kirghizistan, ci è voluto un anno per iscrivere all’anagrafe il loro nuovo nato. Dov’è la propiska? chiedevano i funzionari. Così molti non ci provano neanche a denunciare la nascita di un figlio. Neppure i matrimoni vengono riconosciuti, se uno dei fidanzati non ha la cittadinanza.

LO STATO ASSENTE

Lo stato non solo fa poco o nulla per sostenere i migranti, ma crea condizioni tali che rendono ancora più difficile e disperata la loro posizione e ostacola i tentativi di una soluzione autonoma dei problemi.
Alcune organizzazioni non governative russe assistono i migranti e li aiutano a difendersi dall’arroganza dei pubblici funzionari. Al «Comitato di assistenza civica» di Mosca ho incontrato Khava Sultanovna, una profuga cecena addetta ai problemi sociali. Anche per lei, come per Caterina, trovare lavoro presso una Ong è stata una benedizione. «Abbiamo gente dalle 10 del mattino alle 10 di sera. Anche quando siamo chiusi, c’è sempre qualcuno di tuo per i casi urgenti.
Distribuiamo una piccola somma di denaro mensile e vestiario a chi ne fa richiesta, ma soprattutto offriamo assistenza legale. I nostri avvocati spiegano cosa bisogna fare nel caso di angherie da parte della polizia o venga rifiutato lo status di profugo. Io aiuto i genitori a stendere richieste, perché i figli vengano ammessi a scuola. Scriviamo agli ospedali, alle questure, spiegando la loro situazione. Le risposte sono quasi sempre positive. D’altra parte, un rifiuto per iscritto è sempre più impegnativo».
Le Ong che prendono le parti dei cittadini ce la mettono tutta. «Come fate a sostenervi? Chi vi dà i soldi?» domando a Khava. «Locali, stipendi ed equipaggiamento ci sono offerti dall’Acnur. È molto, ma non basta, così chiediamo soldi a tutti. Lo stato non dà niente; sponsors russi non ne troviamo. Due anni fa, un miliardario ceceno ci ha dato 3 mila dollari, ma si era giusto prima delle elezioni. Per il momento rimangono solo gli sponsors stranieri».

Ascolto, ma non riesco a rallegrarmi per tali successi, perché altre considerazioni s’impongono. Amare considerazioni. Dunque, quando non possono fare altrimenti, i funzionari agiscono secondo la legge. Quando i cittadini si riuniscono per far valere i propri diritti, quando c’è qualcuno dietro di te a darti man forte o tu stesso, cosciente di quello che ti spetta, non ti lasci intimorire… qualcosa si riesce ad ottenere.
Ho un amico che vive da sempre a Mosca senza propiska. Le autorità lo sanno, ma non osano toccarlo, perché è un tipo che si sa ben difendere. Però sono ancora troppo pochi coloro che sanno o vogliono difendersi; così chi ha in mano il potere, grande o piccolo che sia, ha buon gioco. La sottomissione, l’inerzia e, purtroppo, anche la mancanza di solidarietà tra la gente, finiscono per corrompere il potere che diventa sempre più sfacciato, se non trova argini nella società civile.

BOX 1

POLLI DA SPENNARE

Stavo raccogliendo materiale sui senzatetto in Russia e contattavo diverse organizzazioni umanitarie. «No, non ci occupiamo di senzatetto – mi sentii rispondere dall’altro capo del filo – ma di profughi». «Profughi a Mosca? Ceceni, probabilmente» azzardai io. «Non solo». Non indagai oltre in quell’occasione, ma lo feci in seguito. Si parla di 5, addirittura di 8 milioni di persone che hanno varcato i confini della Russia dai primi anni Novanta.
L’Urss ha smesso di esistere il 31 dicembre 1991. La mattina del 1° gennaio 1992, gli ormai ex-cittadini sovietici si risvegliarono abitanti di diversi paesi. Fuori dei confini della neonata Federazione Russa rimasero circa 25 milioni di persone, che vivevano nelle altre repubbliche dell’Unione Sovietica e che, fino al giorno prima, avevano avuto una posizione di preminenza, non solo dal punto di vista politico. Di punto in bianco essi si ritrovarono cittadini di seconda categoria rispetto agli indigeni, la cosiddetta «etnia titolare».
Diventarono gradualmente oggetto di discriminazione: impossibilità di fare carriera, licenziamenti, requisizione di alloggi, obbligo di utilizzare solo la lingua locale. Si cominciò a chiudere le scuole russe, giornali, radio: un desiderio di rivalsa nei confronti di quella che per secoli era stata la nazione dominante.
Tale reazione, presente non solo in tutta l’area ex-sovietica (eccetto in Armenia e Bielorussia), ma anche nell’Est-Europa, può essere, fino a un certo punto, comprensibile, sebbene mai giustificabile. Meno comprensibile è, invece, il fatto che la Russia faccia ben poco per difendere gli interessi dei russi delle repubbliche, nonostante abbia tutte le possibilità di esercitare pressioni in tal senso su quegli stati, assai inferiori a lei per peso politico ed economico. Non solo non li difende, ma crea ostacoli al loro rientro in patria, rendendo arduo l’iter per ottenere la cittadinanza.
immigrati:
una risorsa necessaria
Caterina Belugina si era trasferita dalla Russia in Uzbekistan con la famiglia nel 1975; qui aveva terminato gli studi e iniziato la carriera di giornalista. Poi, nel 1992, aveva preso la cittadinanza uzbeka, per non essere costretta ad abbandonare immediatamente il paese.
Qualche tempo fa ha dovuto difendersi dall’accusa di diffamazione a seguito di un articolo, in cui denunciava il comportamento di un alto funzionario statale. Tutto il processo si è tenuto in uzbeko, che Caterina non conosce, e si è concluso con la sua condanna. Ha capito, allora, che quello non era più posto per lei e, come molti altri, si è rivolta al consolato russo per fare domanda di cittadinanza, primo passo per rientrare in patria con tutti i diritti.
«Era chiaro che non ne avrei cavato niente. Al consolato russo c’erano file di tre giorni, la gente dormiva fuori. Anche se fossi riuscita ad avviare la pratica, ci sarebbero voluti due anni e mezzo per ricevere la cittadinanza». Caterina non ha voluto aspettare tanto. È venuta a Mosca dalla sorella, abbandonando quasi tutti i propri averi.
«Avevamo un grande appartamento, l’abbiamo venduto per due soldi. Accade sempre così. Si sa che i russi sono costretti ad andarsene e devono accettare il prezzo che è loro offerto. Non ho portato con me quasi niente. Le tasse doganali erano troppo alte». L’amarezza maggiore Caterina la esprime nei confronti del proprio paese: «La Russia non aiuta i propri figli. C’era da noi un’invalida d’origine tedesca: la Germania non solo le ha dato la cittadinanza, ma le ha mandato una sedia a rotelle e l’ha aiutata a trasferirsi. Anche gli ebrei ricevono assistenza. Di noi, nessuno si occupa. Al contrario. Il nostro consolato a Tashkent chiede il pagamento delle spese consolari in dollari, quando tutti sanno che il possesso di valuta straniera è illegale in Uzbekistan e attira l’attenzione delle autorità».
Tutti gli stati occidentali sono messi in serie difficoltà dalla pressione degli immigrati stranieri sui propri confini; ma nel caso della Russia l’immigrazione è costituita principalmente dagli stessi russi (circa il 77%); e poi, il paese ha un gran bisogno di nuova energia, di braccia e cervelli; d’altri abitanti, insomma.
La catastrofica situazione demografica sta minacciando l’economia e la sicurezza dello stato. Il numero di coscritti al servizio di leva è già considerato insufficiente, tanto che nel dicembre 2003 il distretto militare di Mosca ha organizzato vere e proprie retate per le strade della capitale, fermando e arruolando a forza i giovani, senza dare loro nemmeno la possibilità di avvertire la famiglia.
Se l’emorragia non s’arresta, ci sarà presto penuria di forza lavoro e la necessità d’importare lavoratori e specialisti da altri paesi. Ed ecco che milioni di persone tornano a casa, hanno voglia di lavorare, sono disposte a fare di tutto, pur di ritrovare una vita dignitosa e sfamare la propria famiglia. Sono persone che hanno spesso alle spalle una solida esperienza professionale e anni di convivenza con altre culture, da cui sono stati arricchiti. Inoltre provengono da regioni di cultura musulmana, quindi non hanno abitudine al bere: una qualità assai preziosa per una nazione che paga un alto costo per l’eccessivo consumo di alcolici.
senza persone,
nessun problema!
Stando ai dati del Ministero per le nazionalità e politiche migratorie, in Russia ci sono circa 900 mila persone con regolare status di Forced migrants (Fm) o di rifugiati. Sono cifre molto al di sotto della realtà. Basti pensare che dei 100 mila afghani arrivati durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan e rimasti anche dopo il 1989, solo 513 hanno ottenuto tale status; gli altri sono considerati illegali.
È indubbio che l’arrivo di tanta gente pone allo stato notevoli problemi. Affrontarli adeguatamente comporterebbe un grosso impegno, intelligenza, lungimiranza e lo stanziamento di appositi fondi. Nessuno ha ancora smentito il noto aforisma attribuito a Stalin: «Se c’è la persona, c’è il problema; se la persona non c’è, non c’è il problema». Si spiega così la riluttanza delle autorità a concedere lo status di Fm o profugo. Il rifiuto può essere motivato da ragioni formali, come il non rispetto dei termini di presentazione della domanda che molti, tra l’altro, ignorano; oppure può non essere motivato affatto.
Senza lo status i profughi sono considerati come stranieri arrivati di propria volontà e giuridicamente trattati di conseguenza, senza obblighi particolari. Ma anche verso i profughi ufficialmente riconosciuti come tali, le risorse messe a disposizione sono di gran lunga insufficienti a far fronte ai due bisogni fondamentali: casa e lavoro. Negli ultimi anni, tra l’altro, queste risorse si sono andate continuamente riducendo. Il 2002 ha visto drastici tagli delle spese sociali, e non solo in questo campo.
I migranti registrati presso i Servizi immigrazione vengono raccolti in centri dove possono vivere per anni in baracche precarie, senza servizi. Si cerca di mandarli in aree rurali, indipendentemente dal loro ambiente di provenienza e professione. Il principio è di ripopolare le zone che si stanno svuotando.
Di loro si occupano anche organizzazioni umanitarie inteazionali, in primis l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur), che in Russia è molto presente, e lo Iom (Inteational Organization for Migration). «Anche i migranti registrati hanno difficoltà a ricevere assistenza medica a causa del cattivo funzionamento del servizio sanitario statale – spiega Edwin McClain, responsabile Iom per la Russia -. Per questo abbiamo allestito ambulatori nelle zone di raccolta dei migranti. Purtroppo, abbiamo risorse limitate; quindi, ci rivolgiamo soprattutto alle categorie più vulnerabili: madri sole, handicappati, anziani. Abbiamo anche avviato un programma di microcredito».
Il vantaggio di essere un «migrante ufficiale» non sta solo nel ricevere gli aiuti statali (comunque miseri), ma nel vedersi più facilmente riconosciuti alcuni diritti fondamentali della persona che si tende, invece, a negare agli altri migranti, contrariamente ai dettami della costituzione.
Un espediente utilizzato per escludere intere categorie di persone da servizi destinati a tutti è quello della propiska, o registrazione del luogo di residenza (vedi Missioni Consolata, giugno 2001), che in Russia non è, nella pratica, la semplice constatazione di un dato di fatto, come vorrebbe la costituzione, dove viene sancita la libertà di movimento.
i nuovi schiavi
Per la registrazione, le autorità regionali introducono pre-requisiti di cui non si parla nelle leggi federali: c’è chi condiziona la registrazione alla presenza di familiari che già vivono sul posto da 5-10 anni; chi chiede garanzie di lavoro e alloggio da parte di aziende locali, o il pagamento di tasse non previste dalla legge; chi adduce criteri di ampiezza dell’alloggio, chi richiede particolari certificati medici, chi introduce quote d’ingresso nella regione e chi, addirittura, nega la registrazione a interi gruppi di persone, ad esempio, ai ceceni.
Il primo e più grande beffeggiatore della costituzione è il comune di Mosca, che respinge migranti e profughi da scuole, luoghi di lavoro, ospedali. Si è così creata una situazione alquanto paradossale. Al Cremlino è insediato il presidente Putin, massima autorità della Federazione, garante supremo delle sue leggi, al municipio di Mosca, c’è il sindaco, il sig. Luzhkov, che di queste leggi se ne fa un baffo.
«Per essere registrata presso mia sorella a Mosca ho dovuto procurarmi documenti che dimostrano il nostro legame di parentela». È ancora Caterina Belugina che racconta. A lei è andata bene. Quando ci siamo incontrate la prima volta, era appena rimpatriata e disoccupata, ma, grazie alla sua esperienza di giornalista, ha trovato lavoro presso il «Forum delle unioni dei migranti». Ha iniziato solo qualche mese fa, ma ha già tante storie da raccontare.
«Sergej viveva con la madre in Kazakistan. All’età di 14 anni decise di venire ad abitare dal padre a Mosca. Da allora, sono passati diversi anni, ma non è riuscito ad ottenere né la registrazione, né la cittadinanza, perché… non è cittadino russo. Vedono dal documento che è nato in Kazakistan e lo spediscono all’ambasciata kazaka. Lì gli spiegano che, non essendo più residente in Kazakistan e non avendovi svolto il servizio di leva, non gli possono dare la cittadinanza. Il militare, Sergej l’ha fatto in Russia, con la promessa che ciò gli avrebbe dato diritto alla cittadinanza, ma non ha ottenuto nulla».
Senza registrazione Sergej è un fuorilegge. Come lui a Mosca sono migliaia. Vivono senza garanzie sociali, né assistenza medica gratuita, né un lavoro regolare, poiché è vietato assumere persone prive di registrazione. Chiuse le possibilità di un impiego legale, le autorità moscovite aprono le porte al lavoro nero e al commercio illegale, innescando un meccanismo perverso: gli «illegali» sono costretti a corrompere la polizia; tale pratica porta alla criminalizzazione della polizia e via di seguito.
«Profughi e migranti sono fonte di guadagno per le autorità locali e la polizia – continua Caterina – che li trattano, tra l’altro, come persone di seconda categoria. E la popolazione, ne assimila il disprezzo». La condizione di senza-diritti in cui i migranti si vengono a trovare li rende oggetto di ogni possibile arbitrio e genera nuove forme di schiavitù.
È il caso di Tat’jana: in Kazakistan lavorava in un centro di ricerca come geologa. Ora fa la mungitrice in una fattoria; vivono in quattro nel gabbiotto del custode. Il figlio è andato ad arruolarsi al distretto militare; la propiska non gliela danno lo stesso; ma almeno riceve cibo e vestiti.
O il caso di un gruppo di migranti, tiranneggiati dal presidente di un kolchoz della regione di Mosca. Tra di loro c’è una famiglia venuta dal Kirghizistan: si ammala il figlioletto di pochi mesi; per tre giorni lo tengono in ospedale senza pagare, ma poi chiedono loro una retta di 300 rubli al giorno, perché non hanno la cittadinanza. Ma soldi non ne hanno: il kolchoz non li paga da mesi e non si possono rivalere perché sono irregolari.
Per lo stesso motivo ai Bogonenko, arrivati dal Kirghizistan, ci è voluto un anno per iscrivere all’anagrafe il loro nuovo nato. Dov’è la propiska? chiedevano i funzionari. Così molti non ci provano neanche a denunciare la nascita di un figlio. Neppure i matrimoni vengono riconosciuti, se uno dei fidanzati non ha la cittadinanza.
Lo stato assente
Lo stato non solo fa poco o nulla per sostenere i migranti, ma crea condizioni tali che rendono ancora più difficile e disperata la loro posizione e ostacola i tentativi di una soluzione autonoma dei problemi.
Alcune organizzazioni non governative russe assistono i migranti e li aiutano a difendersi dall’arroganza dei pubblici funzionari. Al «Comitato di assistenza civica» di Mosca ho incontrato Khava Sultanovna, una profuga cecena addetta ai problemi sociali. Anche per lei, come per Caterina, trovare lavoro presso una Ong è stata una benedizione. «Abbiamo gente dalle 10 del mattino alle 10 di sera. Anche quando siamo chiusi, c’è sempre qualcuno di tuo per i casi urgenti.
Distribuiamo una piccola somma di denaro mensile e vestiario a chi ne fa richiesta, ma soprattutto offriamo assistenza legale. I nostri avvocati spiegano cosa bisogna fare nel caso di angherie da parte della polizia o venga rifiutato lo status di profugo. Io aiuto i genitori a stendere richieste, perché i figli vengano ammessi a scuola. Scriviamo agli ospedali, alle questure, spiegando la loro situazione. Le risposte sono quasi sempre positive. D’altra parte, un rifiuto per iscritto è sempre più impegnativo».
Le Ong che prendono le parti dei cittadini ce la mettono tutta. «Come fate a sostenervi? Chi vi dà i soldi?» domando a Khava. «Locali, stipendi ed equipaggiamento ci sono offerti dall’Acnur. È molto, ma non basta, così chiediamo soldi a tutti. Lo stato non dà niente; sponsors russi non ne troviamo. Due anni fa, un miliardario ceceno ci ha dato 3 mila dollari, ma si era giusto prima delle elezioni. Per il momento rimangono solo gli sponsors stranieri».

A scolto, ma non riesco a rallegrarmi per tali successi, perché altre considerazioni s’impongono. Amare considerazioni. Dunque, quando non possono fare altrimenti, i funzionari agiscono secondo la legge. Quando i cittadini si riuniscono per far valere i propri diritti, quando c’è qualcuno dietro di te a darti man forte o tu stesso, cosciente di quello che ti spetta, non ti lasci intimorire… qualcosa si riesce ad ottenere.
Ho un amico che vive da sempre a Mosca senza propiska. Le autorità lo sanno, ma non osano toccarlo, perché è un tipo che si sa ben difendere. Però sono ancora troppo pochi coloro che sanno o vogliono difendersi; così chi ha in mano il potere, grande o piccolo che sia, ha buon gioco. La sottomissione, l’inerzia e, purtroppo, anche la mancanza di solidarietà tra la gente, finiscono per corrompere il potere che diventa sempre più sfacciato, se non trova argini nella società civile.

Bianca Maria Balestra