ITALIAIl brivido della missione

Con il terzo Convegno missionario nazionale la chiesa italiana si è messa in ascolto delle esperienze
di evangelizzazione delle chiese sorelle nei vari continenti e ha preso nuovo slancio per continuare il cammino del suo impegno missionario, nella comunione e corresponsabilità di tutti i battezzati.
Riportiamo la testimonianza di un prete cinese.

Oltre 1.800 delegati di diocesi, istituti religiosi, laici impegnati nell’evangelizzazione hanno partecipato al terzo Convegno missionario nazionale, tenuto a Montesilvano (PE) dal 27 al 30 settembre scorso.
Incentrato sul tema «Comunione e corresponsabilità per la missione», il convegno si è tradotto in uno «sforzo per disceere, verificare e dare nuovo dinamismo alle strutture di comunione per l’unica missione nella quale tutti i membri della chiesa e gli organismi sono impegnati», come afferma il messaggio finale alle chiese italiane, con lo scopo di «consolidare e dare nuovo slancio all’attività di evangelizzazione».
Nelle assemblee e lavori di gruppo, nelle conferenze e incontri di preghiera, sono riecheggiati come ritoelli alcuni principi fondamentali: la vocazione missionaria di ogni credente, in forza del battesimo; il ruolo imprescindibile del laicato nell’opera di evangelizzazione; la necessità di allargare lo sguardo oltre il proprio ambiente e i propri problemi, per salvare tutta l’umanità che attende ancora di incontrare Cristo e la sua buona notizia.
Per tutti i quattro giorni, è stato ribadito, come un chiodo fisso, che «solo in Gesù Cristo l’umanità può trovare e divenire quella famiglia quale Dio l’ha intesa nel crearla»; che «si parte in nome di Cristo e per proclamare e testimoniare Cristo», altrimenti si ritorna indietro alle prime difficoltà.
Grande spazio e risonanza hanno avuto le esperienze delle chiese in Africa, Asia e America Latina, in cui la fedeltà a Cristo e al suo vangelo ha spesso il martirio come sbocco naturale. Riportiamo, come esempio, la testimonianza di un giovane sacerdote cinese, per nove anni in prigione, ora studente in una università romana. Per motivi di prudenza, tralasciamo ogni dettaglio che possa ricondurre alla sua persona.

«Sono un sacerdote della Cina continentale. La chiesa cinese è strettamente legata a quella italiana, poiché a trasmetterci per primi il messaggio del vangelo sono stati i missionari italiani, come il francescano Giovanni da Montecorvino e il gesuita Matteo Ricci, due nomi che nessun cristiano cinese potrà mai dimenticare».
In Cina la chiesa ha vissuto la stessa esperienza di quella dei primi tre secoli in Italia: dalla prima trasmissione del vangelo a oggi, la persecuzione religiosa è stata una realtà sempre presente.
«Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani». Nell’anno del grande giubileo del 2000, il papa ha canonizzato 120 martiri cinesi, rappresentanti di una grande folla di testimoni uccisi durante la ribellione dei Boxer (1900).
Nel periodo della «rivoluzione culturale» (1966-1976), nella mia diocesi decine di fedeli, vescovi, sacerdoti, suore e laici, hanno testimoniato la fede con la propria vita. Il più eminente tra questi testimoni è un anziano laico: poiché si rifiutava di abbandonare la fede cristiana, fu ucciso davanti alla folla, immerso in acqua bollente.
Per diversi sacerdoti il governo comunista scelse una pena «meno dura»: furono rinchiusi in piccole gabbie come cani, dove non potevano alzarsi, né allungare le gambe, né soddisfare liberamente ai bisogni naturali. Molti hanno resistito per vari anni in tali condizioni, finché sono morti sotto una tortura così crudele.
Questo capitava oltre 30 anni fa. Attualmente, 2 vescovi, 15 sacerdoti e 2 diaconi della mia diocesi sono ancora in prigione a causa della loro fedeltà a Dio e al papa. Ancora oggi, il governo cerca con ogni mezzo di costringerli a rompere le relazioni con il papa e il Vaticano ed entrare nella cosiddetta «Associazione patriottica», una chiesa indipendente dal papa, creata dal governo.

Io stesso, accusato di aver organizzato dei pellegrinaggi, sono stato in prigione ripetutamente a causa della fede e della fedeltà al papa; l’ultima volta rimasi in carcere dal 1996 al 13 luglio 2002, quando, grazie alle pressioni della società internazionale, fui liberato, espulso dalla patria e pervenuto in Italia.
Si sa, la prigione è un luogo orribile dappertutto; ma le condizioni di vita in un carcere cinese sono inimmaginabili e indescrivibili: a parte la perdita di ogni libertà personale, le più fondamentali necessità per una vita umana diventano un problema. I pasti consistono di uno o due panini cotti al vapore (mantou) e senza le minime condizioni igieniche; la carne non la si vede quasi mai. Non si può fare un bagno.
In una cella sono rinchiusi fino a 30 persone. Si vive insieme a criminali di ogni genere: assassini, ladri, truffatori, sequestratori, venditori di bambini…, che si tormentano a vicenda, fino a picchiarsi senza pietà. Non esistono tra loro sentimenti di amore o compassione. Le violenze peggiori vengono dai condannati alla pena capitale. Altri sono diventati violenti e sfogano sui nuovi arrivati la loro rabbia per i tormenti subiti all’inizio della loro prigionia. Vendette che ho subito anch’io.
Non avevo mai fatto nulla di male in vita mia; eppure dovevo vivere insieme ai più crudeli assassini, condividere la stessa stanza, dormire sullo stesso letto, essere trattato come loro… Tutto ciò mi procurava dolore e rabbia: era una situazione che non riuscivo ad accettare.
Poi, riflettendo sulla mia vocazione e la mia vita, nella preghiera e nel ricordo della parola di Dio, mi sono calmato e ho maturato reazioni più serene: sentivo che stavo camminando sulla stessa strada percorsa da Gesù.

Avevo un gran desiderio di ricevere la santa comunione, perché Gesù rafforzasse la mia debolezza. Ma nelle carceri cinesi ciò è impossibile. Anzi, come prigioniero a causa della fede, i poliziotti mi guardavano con speciale attenzione.
I criminali comuni possono ricevere varie cose dai parenti; ai prigionieri politici, invece, non è consentito avere contatti con la gente estea, neppure con i familiari, tanto meno ricevere da loro alcunché.
Desideravo tanto celebrare la messa, ma era impossibile procurarsi del vino, dal momento che, secondo le usanze cinesi, uniche bevande che accompagnano i pasti sono la birra e una specie di grappa.
Finalmente qualcuno riuscì a farmi avere di nascosto un po’ di vino. Ero pieno di gioia. Lo stesso giorno, per la prima volta dopo anni di prigione, celebrai la santa messa. Certamente fu la più semplice delle liturgie mai celebrate in tutto il mondo, senza altare, né tovaglie, né calice, né patena, ma soltanto alcune gocce di vino in una mano e un pezzo di pane nell’altra.
Le lacrime mi scendevano dagli occhi: il Creatore dell’universo veniva nel mondo, ma per lui non c’era posto; per il suo sacrificio non c’era alcun altare, come sul Golgota; il Figlio di Dio si degnava di entrare nella nostra prigione, piena di peccati e di odio.
Consumai in fretta il corpo e sangue di Cristo, che gli altri guardavano come cibo e bevanda normale. Poi, in silenziosa meditazione, ripensai alcuni momenti della vita di Gesù che più assomigliavano all’esperienza che stavo vivendo in quel momento della mia esistenza.
Dopo quella celebrazione eucaristica, il mio atteggiamento mutò completamente: una grande pace invase il mio cuore; accettai pienamente e con gioia tutte le sofferenze causate dalla prigionia. In quel momento capii veramente le parole di Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e stanchi, e io vi darò sollievo» (Mt 11,28).

Con la pace del cuore, la mia vita quotidiana diventava relativamente più facile: potevo ridere, scherzare, dimenticare le preoccupazioni. Gli altri prigionieri trovarono strano che, da un momento all’altro, non fossi più depresso e quasi non sentissi più alcuna sofferenza. Ne approfittai per condividere con loro la mia esperienza, benché la legge cinese proibisca assolutamente di parlare del vangelo ai prigionieri.
Mi resi conto come queste persone, che avevano perduto ogni speranza nella vita, avessero bisogno della buona notizia di Cristo Gesù. Non era facile parlare a persone che mi avevano accolto con odio, mi avevano picchiato, che non sapevano che cosa fosse un sacerdote, che non avevano mai sentito parlare di Gesù.
Ma col passare del tempo, ci siamo conosciuti meglio, fino a entrare in confidenza e familiarità. I loro cuori pieni di odio sono cambiati. Dalle mie parole e atteggiamenti hanno capito che il sacerdote è una persona buona. Nelle conversazioni ho cercato gradualmente di fare conoscere la nostra fede, di illuminare il significato della vita e della morte, di trasmettere la speranza che avevo in cuore.
Quando parlavo di queste verità tutti i compagni di prigionia erano attenti e accettavano le mie parole. Da quel momento sono diventato il loro centro di attenzione. Ogni giorno presentavo segretamente qualche aspetto del vangelo.
Dopo alcuni mesi, il clima era completamente mutato: la pulizia era regolare, i prigionieri non gridavano, non bestemmiavano, non si picchiavano come erano soliti fare prima; anzi, essi cominciarono ad aiutarsi e incoraggiarsi a vicenda. Quando mi raccoglievo in preghiera, nessuno mi disturbava.
I poliziotti della prigione si meravigliavano e non riuscivano a spiegarsi che cosa fosse successo. Ogni volta che passava l’ispezione per controllare ordine e igiene, la nostra cella otteneva encomi e premi.
Il vangelo di Cristo aveva cambiato il modo di vivere di molti prigionieri, dava loro nuovo coraggio per diventare umani. Alla fine, alcuni di essi chiesero di essere battezzati e di fare parte della chiesa.
È superfluo dire che, nonostante la vita in prigione fosse dura, mi sentivo pienamente realizzato come sacerdote, nel constatare come, attraverso la mia presenza, molti funzionari e criminali avessero cominciato a comprendere la chiesa e il vangelo di Cristo.

Dopo 300 anni di persecuzione, la chiesa di Roma riacquistò la completa libertà. Anche la storia della chiesa in Cina è segnata da secoli di persecuzione, ma sono convinto che Dio stia preparando la sua liberazione. Come cristiani e cattolici, dobbiamo affrontare tanti problemi, eppure la chiesa cresce velocemente, più che in tanti paesi liberi.
Ciò che più sorprende è che, proprio durante la persecuzione, il Signore della messe ha inviato un gran numero di operai e che durante i 20 anni di apertura politica (dalla metà degli anni ’80) si è registrata una crescente fioritura di vocazioni. Il fervore dei giovani missionari cinesi è indescrivibile.
Con la grazia speciale di Dio, il numero di nuovi cristiani è aumentato in fretta. In un piccolo villaggio, per esempio, dove tre anni fa non c’era alcun cristiano, oggi quasi tutti i 3.000 abitanti sono entrati nella chiesa mediante il battesimo. La ragione di tale crescita non è dovuta soltanto al lavoro dei sacerdoti, ma ogni cristiano è diventato missionario attivo.
Persiste ancora la pressione del governo sui cattolici, ma essa ottiene l’effetto contrario: i fedeli si uniscono più strettamente alla chiesa, ne sostengono le iniziative e si assumono le responsabilità nel lavoro pastorale. I cattolici uniti al papa sono oltre 6 milioni, numero superiore ai seguaci della «chiesa patriottica». Siamo ancora come una goccia nell’oceano, rispetto alla popolazione totale del paese, che conta 1,3 miliardi di abitanti. Eppure sono convinto che, con la grazia di Dio e l’impegno dei suoi sacerdoti e fedeli, in un futuro non troppo lontano, la chiesa in Cina potrà godere di una libertà come non ne ha mai avuta. Allora, il gigante cinese spalancherà le porte a Cristo e diventerà una forza di pace per tutta l’umanità.

Benedetto Bellesi




BRASILEMa il sole non brilla ancora

Missionario della Consolata kenyano, studente
nel seminario di San Paolo, Daniel si prepara
alla missione collaborando alle attività parrocchiali nella favela di Heliopolis, il cui nome significa
«città del sole». Ma la realtà è ben differente.

È una delle 1.999 favelas con cui si espande la megalopoli di San Paolo. È nata nel 1970, quando alcune famiglie, rimosse dalla prefettura da un quartiere della metropoli brasiliana, per fare spazio a una grande avenida, si rifugiarono a sud della città.
Negli anni seguenti la favela si è ingrandita gradualmente, con l’arrivo di migrati provenienti dal nord-est del Brasile, in cerca di lavoro e nella speranza di una vita più dignitosa. Oggi, conta oltre 85 mila abitanti: è una delle più grandi favelas del Brasile. Di questa popolazione oltre 30 mila sono bambini in età scolare, tra i 7 e i 14 anni.
Afflitta da enormi carenze strutturali e sociali, oggi, Heliopolis (città del sole) è ben lontana dallo splendere suggerito dal nome: il 40% delle abitazioni non ha adeguate condizioni igieniche, con il conseguente dilagare di malattie d’ogni genere; oltre il 60% delle strade non è asfaltato; più di 250 famiglie vivono in baracche che rischiano di franare alla prima pioggia torrenziale; costruzioni di ogni tipo formano un labirinto in cui è difficile districarsi.
Povertà e disoccupazione sono all’origine di enormi problemi sociali: violenza, droga, fame, emarginazione, analfabetismo (14 milioni di brasiliani non sanno leggere né scrivere). Ai problemi locali, infatti si aggiungono gli squilibri che affliggono il resto del Brasile.
Pur essendo l’ottava potenza economica mondiale, il Brasile è il paese con la maggiore disuguaglianza al mondo nella ridistribuzione di ricchezza, concentrata in mano a pochi nababbi. Per cui, come dimostrano le statistiche ufficiali, oltre 32 milioni di brasiliani sono al di sotto della soglia della povertà e il 29% vive con meno di un euro al giorno.
I sociologi definiscono tale miseria «apartheid sociale»; e questa è ben visibile a Heliopolis. Per i più fortunati, cioè per chi ha un lavoro, il salario oscilla tra i 90 e i 400 euro al mese. La paga minima copre appena l’1% del cosiddetto «paniere» dei beni di prima necessità: ciò significa che migliaia di persone non guadagnano a sufficienza neppure per comprare gli alimenti.

Dal 1997 nella favela di Heliopolis lavorano i missionari della Consolata, da quando, cioè, si sono ritirati i missionari di un’altra congregazione religiosa.
Oltre alla necessità di assistenza religiosa alla popolazione, l’accettazione di questo nuovo campo di apostolato è motivata dalla vicinanza al seminario teologico: la favela offre un’opportunità ai giovani studenti di prepararsi concretamente alla missione.
Quando i missionari della Consolata incominciarono la loro presenza, Heliopolis non era ancora parrocchia, ma un’«area pastorale», organizzata in comunità cristiane di base, che cercavano di conciliare la loro fede con l’impegno sociale, la solidarietà e l’aiuto reciproco, lottando per la casa e altri diritti basilari.
Incontri di preghiera, celebrazioni eucaristiche, catechesi, novene, corsi biblici e altre attività religiose avvenivano in abitazioni private. Finché ci si è organizzati per trovare terreni e costruirvi spazi adeguati alle varie attività comunitarie.
Il 14 dicembre del 2003 l’«area pastorale» di Heliopolis è stata elevata a parrocchia e padre Ricardo Gonçalves Castro, dopo tanti anni di lavoro nella zona, è stato nominato parroco.
La parrocchia è dedicata a santa Paulina, la quale, nata in Italia, a 9 anni andò in Brasile, dove visse e morì, diventando la prima santa brasiliana che dedicò tutta la vita al servizio dei poveri.
La nuova parrocchia è composta da sei comunità: San Giuseppe Operaio, Santa Elisabetta, San Benedetto, Immacolata Concezione, Sant’Angela e Sant’Antonio. Quella di San Giuseppe è sede parrocchiale; la sua chiesa è stata una delle prime ad essere costruita, con l’aiuto di benefattori stranieri e la collaborazione della comunità.
La cappella della comunità di Santa Elisabetta, con l’adiacente centro sociale, è nata per l’iniziativa di gruppi del quartiere, che hanno comperato il terreno e offerto praticamente tutta la mano d’opera. Lo stesso coinvolgimento locale si è avuto anche con le comunità di San Benedetto e Sant’Antonio.
Sant’Angela, invece, ceduta alla parrocchia di Santa Paulina dai padri Oblati di San Giuseppe, era già una comunità matura, con cappella e centro sociale. Solo la comunità dell’Immacolata non ha ancora alcuna struttura e continua a radunarsi nelle abitazioni private.

Scopo della nostra presenza è, naturalmente, l’evangelizzazione e la promozione umana. Oltre al parroco e ai seminaristi, nella parrocchia di Santa Paulina lavorano due comunità religiose: le suore dell’Immacolata Concezione e le Francescane Angeline. In concreto, tale lavoro abbraccia tutte le normali attività di una parrocchia.
«I l lavoro missionario a Heliopolis richiede pazienza e tempi lunghi – afferma padre Ricardo, che da tempo vive nella favela -. L’organizzazione della parrocchia non è facile, anche perché la gente, abituata a vivere autonomamente, come comunità di base, stentano a inserirsi nella complessa organizzazione di una parrocchia. Ma a forza di insistere che la chiesa non è mia ma della gente, qualcosa si sta muovendo».
Molte responsabilità, infatti, sono affidate ai laici. Una volta al mese, i cornordinatori e animatori di tutte le comunità, si radunano insieme al parroco, ai seminaristi e alle suore per valutare il lavoro svolto, programmare e cornordinare le attività essenziali della parrocchia: catechesi, liturgia, cura degli anziani, infanzia missionaria, pastorale dei bambini, dei giovani e delle famiglie.
Esistono, poi, diversi gruppi e movimenti impegnati in varie attività religiose e sociali: gruppo delle donne, gruppi di preghiera, di studio della bibbia, di alfabetizzazione, di visite alle famiglie.
Ciò non significa che a Santa Paulina sia tutto rose e fiori. La partecipazione a incontri e attività è molto varia, anche perché si svolgono di sera, dopo una giornata di duro lavoro. Così pure la domenica: alcuni uomini lavorano anche nei giorni festivi; altri approfittano per riposarsi o per migliorare la propria casa.
Sorte migliore hanno le iniziative rivolte a donne, adolescenti e bambini. La pastorale dei bambini, che si occupa della loro salute, per esempio, è inserita nel programma a livello nazionale. Secondo le statistiche, il 41% dei bambini tra i 6 e i 14 mesi sono denutriti; uno ogni 16 muore prima di raggiungere i 5 anni, per malattie che possono essere prevenute.
A Heliopolis ci occupiamo dei bambini da zero a sei anni: una volta al mese essi vengono al centro sociale per essere pesati e nutriti; negli altri giorni, gli agenti di pastorale li visitano a domicilio. Il programma comprende pure la formazione delle mamme, per insegnare loro a proteggere la salute dei loro figli.
Il coinvolgimento delle comunità riguarda pure i mezzi per sostenere le loro attività. E bisogna dire che sono ingegnose: organizzano lotterie e bazar, cercano liberi contributi e donazioni di vario genere.

Il problema più grave di Heliopolis è certamente la violenza: la maggior parte degli assassinii sono provocati dai trafficanti di droga. Molta gente è coinvolta nello spaccio, non per scelta, ma come mezzo di sopravvivenza.
La chiesa cerca di rispondere alla sfida della violenza soprattutto con la catechesi familiare, che, dall’inizio dell’anno, ha subito una svolta significativa: stiamo coinvolgendo i genitori nella formazione religiosa dei loro figli. Sono essi che, in casa, danno lezioni di catechismo, con l’aiuto di un catechista, che visita regolarmente le famiglie. In tali visite si discute dei mezzi per difendere i più piccoli dai pericoli della droga.
Per ora ci sembra il metodo migliore. È impossibile prendere di petto i trafficanti: si rischierebbe la vita. La loro presenza è di per se stessa causa d’insicurezza, anche per noi seminaristi stranieri, almeno all’inizio: non essendo conosciuti da tutta la popolazione, si rischia di essere scambiati per trafficanti. Una volta raggiunte le comunità, ci sentiamo al sicuro.
Ad aiutarci nella lotta contro la violenza si è unito un organismo non governativo: l’Unione dei nuclei e associazioni di abitanti di Heliopolis (Unas). Da 5 anni, all’inizio del mese di giugno, Unas e comunità cristiane organizzano la «Marcia della pace» per chiedere la fine della violenza nella favela. Il motto dell’ultima manifestazione era: «La pace comincia qui».
La collaborazione tra chiesa e Unas comprende altre iniziative per migliorare la formazione di 1.100 ragazzi e adolescenti: per toglierli dalla strada sono stati creati spazi di incontro per il tempo libero; vengono organizzate attività culturali e sportive, come scuola di teatro e di pallone, dopo-scuola per supplire alle carenze dell’insegnamento statale.
Molte di queste attività per i più piccoli sono gestite dai giovani, preparati appositamente per tale responsabilità. Per i giovani, inoltre, organizziamo corsi di abilitazione per entrare nel mercato del lavoro, evitando così di cadere nelle maglie della droga.

Daniel Mkado Onyango




CIADLa cortesia di Dio

In Ciad si confrontano diverse religioni, le tensioni non mancano; piccoli, importanti passi vengono fatti.
Per scoprire che, alla fine, si può vivere insieme con rispetto e… simpatia.

Nei mesi trascorsi a Fianga, nel sud del Ciad, mi fu richiesto da parte del locale centro culturale giovanile di fare il punto sulle relazioni tra cristiani e musulmani in generale e, in particolare, nel Ciad. Una richiesta singolare, ma l’ho accolta volentieri, come una sfida. Non mi sono sottratto, soprattutto, perché si trattava di una richiesta fatta da giovani, che vivono in un ambiente assolutamente privo di mezzi per conoscere e consultare le fonti di informazione.
Il circolo culturale, composto da 170 studenti, dispone di una piccola biblioteca, messa insieme con l’aiuto dei padri della missione e organizza attività culturali con i modestissimi mezzi a disposizione.
La mia presenza in Ciad ha rafforzato in me la convinzione che la promozione della lettura, l’accesso all’informazione, il confronto di idee attraverso dibattiti e conferenze costituiscono una sfida sempre più urgente: la missione dovrebbe inserire queste attività tra le sue priorità.
Sia pure condotta con mezzi modestissimi e disorganizzazione impressionante, la scolarizzazione avanza anche nelle zone più recondite della savana. Ciò costituisce una grande sfida all’evangelizzazione.

PUNTINO NERO E CONTAGIOSO
Mentre preparavo la conferenza, si sono verificate alcune circostanze interessanti. Nel corso di una cena, offerta dai missionari all’imam e altri notabili musulmani del luogo, si ebbe modo di parlare di questa iniziativa e li si invitò a parteciparvi. Il direttore di una delle due scuole superiori di Fianga, un musulmano laureato in storia presso una delle università del Camerun, si è proposto di offrire il punto di vista musulmano su tale tema. Questo ha permesso un confronto simpatico e rispettoso, sia durante la preparazione immediata, sia nello svolgimento dell’incontro.
Con il termometro che oscillava tra i 41 e i 43 gradi, seduto sui banchi dell’area sacra, un folto gruppo di cristiani e musulmani (120 persone) hanno seguito la conferenza e partecipato appassionatamente al dibattito. Al termine mi è sembrato di cogliere gioia ed emozione, forse dovute al fatto di aver visto seduti fianco a fianco, laddove la domenica si mette la tavola dell’altare, un prete cristiano e un intellettuale musulmano. Essi parlavano tra di loro, con estremo rispetto, di divergenze, ma anche di possibili convergenze, non tanto sul piano dottrinale, ma almeno sul piano delle relazioni umane e di possibili prospettive comuni di azione.
Sono uscito da questa esperienza con la convinzione che una storia ormai lunga di rapporti cortesi e familiari tra missionari e imam stesse dando dei frutti che vanno nella giusta direzione, per offrire «uscite di sicurezza» a tutta la società planetaria, che si trova sempre più bloccata in vicoli ciechi.
Anche una sperduta missione nella brousse africana può e deve prendere posizione nei confronti delle fratture che portano il mondo verso conflitti sempre più aspri. Il microscopico puntino nero di Fianga non coltiva certo la pretesa di risolvere gli immensi problemi che ci agitano, ma può offrire il suo contributo esemplare e contagioso.
la tenda di abramo
Sulle relazioni tra cristiani e musulmani in Ciad, i vescovi hanno scritto interessanti documenti; ma le azioni concrete della chiesa ciadiana sono ancora più eloquenti. Tutte le attività di promozione umana nell’insegnamento, salute, cultura, sviluppo, movimenti giovanili, comunicazione sono messe a disposizione di tutti: cristiani, musulmani, animisti. Di più, all’interno di questi servizi e organismi della chiesa, spesso sono assunti dei musulmani, per lavorare a fianco dei colleghi cristiani.
La chiesa del Ciad ha creato strutture specifiche per favorire il dialogo interreligioso, specie quello cristiano-islamico, e può contare sulla competenza di alcuni esperti, come il gesuita Coudray, grande islamologo, profondo conoscitore della lingua araba, recentemente eletto prefetto apostolico di Mongo (Sudan).
A N’Djamena, inoltre, esiste un importante centro per l’incontro e il dialogo interreligioso, El Mouna, che pubblica una rivista di cultura (Carrefour), organizza conferenze e dibattiti, propone corsi di arabo e cura pubblicazioni sul tema.
Significativa è pure l’iniziativa della diocesi di N’Djamena di creare una parrocchia all’interno dei quartieri arabi della città, affidata al comboniano padre Renzo. Egli ha accettato con entusiasmo la sfida, anche se il lavoro è ancora tutto da inventare. Per il momento egli dispone di uno spazio recintato, coperto di stuoie, a cui significativamente ha dato il nome di «Tenda di Abramo».

IDENTIK MUSULMANO… O CRISTANO?
La gente cosa ne pensa, come vive concretamente le relazioni interreligiose? Nelle brevi visite ad alcune famiglie cattoliche di N’Djamena, ho ascoltato frequenti lamentele nei confronti dell’ex-arcivescovo e degli organismi ecclesiali di promozione umana: a loro giudizio, si occupano un po’ troppo dei musulmani. Sembrerebbe che i dirigenti della chiesa si trovino in una posizione più avanzata, rispetto all’insieme del mondo cattolico ciadiano.
Tuttavia, è nei quartieri popolari e nei villaggi che più frequentemente cristiani e musulmani vivono tutti i giorni gomito a gomito. È a questo livello che può nascere sia il maggior numero di conflitti, come il determinarsi di numerosissimi episodi di condivisione e aiuto reciproco.
Ne ho avuto la prova nel corso di un incontro tra i catechisti di Mokolo (Camerun), sul tema: «I punti di scontro, ma anche le cose belle che si possono mettere in evidenza nei rapporti tra cristiani e musulmani». Circa le motivazioni di contrasto, la maggior parte dei rilievi negativi non era di ordine dottrinale, ma nascevano su un terreno molto concreto: «Perché i musulmani non mangiano carne di animali, se non sono uccisi secondo un rito preciso? Perché vogliono imporre le loro osservanze a chi non condivide la loro religione?».
Tuttavia, le stesse persone, interrogate sugli aspetti positivi che potevano osservare tra i musulmani, hanno steso una lunga lista: tutti hanno riconosciuto il carattere di «oranti» che li contraddistingue; hanno sottolineato la loro obbedienza alla legge (religiosa) e la solidarietà in occasione di malattia o morte di qualcuno della loro comunità. Uno è arrivato a dire di aver visto un musulmano spogliarsi della sua gandura (sopravveste) per donarla a un portatore di handicap incontrato per strada.
Inoltre, lo stesso gruppo di cristiani ha riconosciuto come particolari virtù dei musulmani la fortezza, la pazienza, la ricerca della fedeltà a Dio, il compimento dei doveri religiosi, la preghiera… Tratti dell’identikit del vero cristiano!
In conclusione, la gente mantiene una posizione molto realista e pratica. Non è questione di sorvolare sui tanti motivi di scontro o sulle differenze, che rimangono sostanziali; se però si dà il tempo per andare a fondo, la gente è in grado di mettere in evidenza le ragioni di stima reciproca e di convivenza pacifica, talvolta carica di ammirazione.
Non sarà possibile praticare questo stesso metodo anche in Italia, sottraendo il discorso agli accesi dibattiti contrapposti (che non conducono a niente), per riportarlo nella zona più discreta degli incontri che escludono per principio polemica e contrapposizione?
TRE SFIDE
Il nord e il sud. Alcuni pensano che il sanguinoso conflitto che ha insanguinato il Ciad nel decennio 1980-90 sia scaturito dalla differenza religiosa tra la regione del nord e le province del sud. Tale semplificazione è negata dalle conclusioni di intellettuali di ambedue le sponde, raggiunte in un dibattito tenuto a N’Djamena e riportate in una recente pubblicazione.
È vero che la stragrande maggioranza della popolazione del nord è musulmana e quella del sud cristiana o di religione tradizionale, ma non esistono frontiere: da un capo all’altro del paese tutti si sentono fieramente ciadiani, anche se non tutti sanno con precisione cosa significhi.
Pur ammettendo l’esistenza di un certo antagonismo tra nord e sud, ci si domanda se esso sia dovuto alle diverse religioni praticate, o non piuttosto ad altri fattori molto più decisivi. Molti ciadiani pensano che il sanguinoso conflitto che ha scompaginato per troppo tempo il tessuto sociale del paese sia stato causato dalla spartizione e gestione del potere e che la religione sia stata utilizzata dai diversi partiti e personalità in lotta come elemento catalizzatore per affermare i propri interessi.
Per capire la vera posta in gioco di tale conflitto, una chiave di lettura possono essere le controversie tra i nomadi allevatori di bestiame del nord, in prevalenza musulmani, e gli agricoltori sedentari del sud, prevalentemente cristiani o di religione tradizionale: i loro frequenti scontri non sono di natura religiosa, ma piuttosto conflitti di interessi.

Cittadini in una casa comune. La ripartizione della popolazione ciadiana tra islam, cristianesimo e religione tradizionale è un dato di fatto. È certo che i sanguinosi avvenimenti della guerra civile (1980-90) hanno portato le diverse etnie a raggrupparsi, spartendosi il territorio. Tuttavia, esse sono condotte a interagire in maniera sempre più frequente.
Se tutti questi sono cittadini a pieno diritto, quale forma dovrà darsi questo stato perché ognuno si senta in casa propria? Trovo la risposta in un’affermazione dell’ex-presidente del Senegal, Abdou Djouf: «Occorre riconoscersi come un paese di tolleranza e laicità attiva, capace di darsi una Carta costituzionale che assicuri a tutti la libertà di coscienza e il libero esercizio della religione».
Solamente attraverso il dialogo, il rispetto dell’altro, la neutralità dello stato sarà possibile costruire la casa comune, che deve essere il Ciad per tutti i suoi cittadini.

Il bilinguismo. Gli anziani del Ciad si sono interrogati a lungo su questo problema: «Come nostra lingua ufficiale, dobbiamo riconoscere l’arabo, la lingua del Corano, oppure continuare a utilizzare il francese, la lingua del colonizzatore?».
È probabile che le nuove generazioni ciadiane si trovino avvantaggiate, rispetto agli anziani, per sbarazzarsi con maggiore facilità di pesanti eredità, che rallentano il passo verso profondi cambiamenti. Occorrerà, per questo, desacralizzare la lingua araba e considerarla (come essa è in realtà) un importante mezzo di comunicazione, sia all’ interno che all’esterno del paese, con una frazione importante della popolazione mondiale.
Il bilinguismo non è un problema, ma una risorsa. D’altra parte, si pone il problema di come utilizzare l’immenso patrimonio linguistico del Ciad ai fini di una vera comunicazione tra le etnie che lo compongono. Le giovani generazioni, coinvolte negli attuali processi di globalizzazione, grazie alle loro particolati propensioni poliglotte (in Ciad si sono catalogate 300 lingue), non si fermano certo alla conoscenza di due lingue. Discutere di bilinguismo, forse, è tempo perso.

GIOVANI: SEGNO DI SPERANZA
Nel breve soggiorno a Fianga, ho avuto la fortuna di visitare la località di Gamba, un grande villaggio della brousse profonda. Mi sono reso conto che il villaggio era formato da diverse etnie concentrate, in maniera equilibrata, nei diversi quartieri: toupouris, moundangs e foulbes. Da un punto di vista religioso, la popolazione si distribuisce tra seguaci della religione tradizionale, cristiani (cattolici e protestanti), musulmani. Si tratta di un microcosmo, pluralista sotto tutti gli aspetti. Ciò non impedisce a chi vi abita di condurre una vita tranquilla.
Vivendo insieme sul filo delle generazioni, la gente, pur connotata da grandi differenze, ha trovato un linguaggio comune e regole di comportamento sociale non scritte, ma osservate da tutti.
Guardavo con soddisfazione la sfilata dei giovani del villaggio che si dirigevano tutti insieme verso la stessa scuola: una di quelle «case comuni» dove si sta forgiando il cittadino del futuro. Impossibile distinguere tra di loro chi era toupouri e chi moundang, chi cristiano e chi musulmano. Erano semplicemente dei giovani.
A questo proposito, alcuni musulmani ciadiani, organizzati in un’associazione per il dialogo tra giovani appartenenti a diverse religioni mi dissero: «Noi invitiamo tutti i politici a una presa di coscienza, per evitare tutto ciò che può contribuire a creare una divisione tra i giovani, i quali hanno imparato a familiarizzare tra di loro, a conoscersi e amarsi. Ci dà fastidio sentire parlare ancora di nord e sud, di musulmani e cristiani».

In occasione della festa del montone, chiamata localmente tabaski, avevo accompagnato il parroco di Fianga in una visita al grande imam, che ci invitò a unirsi a lui per fare gli auguri al sottoprefetto e a varie autorità locali. Verso la fine del ricevimento, in casa del sottoprefetto, l’imam recitò la preghiera della fatiha (prima sura del Corano) per la città e le autorità locali. Con nostro grande stupore, terminata la sua preghiera, ci invitò a fae una cristiana per gli stessi scopi. Il Padre nostro che recitammo fu seguito in rispettoso silenzio da tutti i presenti.
Alla fine del giro, arrivati di fronte all’abitazione dell’imam, questi ci invitò a entrare, perché anche a casa sua non mancasse la nostra preghiera cristiana, per invocare su di lui e la sua famiglia la benedizione di Dio.
Restai profondamente colpito da questi gesti, che manifestavano una grande apertura di spirito: gli uomini religiosi, se sono tali, non possono non essere rispettosi. La cortesia è il segno di Dio, perché è lui stesso cortese e misericordioso verso tutti.

BOX 1

ANIME DELL’ISLAM
L a presenza dell’islam in Ciad cominciò nel 1090, quando un musulmano salì al trono di Karen. Per alcuni secoli, fu professato dalle persone prossime alla corte reale e uomini di lettere. L’inizio di una vera islamizzazione delle campagne iniziò nel secolo xvii. L’islamizzazione del Ciad si svolse in forma piuttosto pacifica, anche se si legò alla tratta degli schiavi, a spese delle popolazioni non islamizzate. Ma, dal momento che un musulmano non poteva essere fatto schiavo da un altro musulmano, molti si convertirono all’islam per evitare la riduzione in schiavitù.
Con la colonizzazione (inizio 1900) il rapporto di forze tra il nord (a maggioranza musulmana) e il sud venne rovesciato in favore di quest’ultimo. Le popolazioni meridionali, di religione tradizionale, si trovarono in posizione difensiva, a volte di aperto conflitto con quelle del nord, e, dopo pochi decenni di dominio coloniale, incominciarono ad aprirsi verso il cristianesimo: dapprima verso le chiese protestanti, poi verso la cattolica.
Dal punto di vista religioso, attualmente la popolazione del Ciad potrebbe essere così divisa: su 5,5 milioni di abitanti, 2,9 milioni (il 53%) si considerano musulmani;1,4 milioni (25%) sono cristiani; 1,2 milioni (22%) di religione tradizionale.

I n campo musulmano, esistono tre tendenze:
– islam delle confrateite: più tradizionale e con forte radicamento popolare;
– islam riformista: di tendenza wahabbita (Arabia Saudita), più radicale e, talvolta, molto critico verso l’islam delle confrateite;
– islam delle élites modee: presente soprattutto tra gli studenti delle scuole superiori e la classe insegnante aperta al nuovo; ma senza rinunciare al radicamento nella religione musulmana.

Giuliano Vallotto




HANDICAPDiversamente abili

Durante il 2003, dichiarato «Anno europeo delle persone disabili», furono messi in luce i diritti alla partecipazione, all’uguaglianza
e alla dignità delle persone portatrici di handicap. I loro problemi rimangono; l’impegno civile nei loro riguardi deve continuare.

Non è per cavillosità, né per porre questioni oziose che mi soffermo sul termine handicap. Il nome è un suono-simbolo, attribuito alle cose nel momento stesso in cui le collochiamo dentro un definito sistema di riferimento, che siamo soliti chiamare cultura, tradizione, civiltà.
Non sono poche le difficoltà per la creazione di una reale cultura dell’handicap; tuttavia, per capire il senso di questo termine che con troppa faciloneria affibbiamo ad alcune (o forse troppe) persone, è importante cogliere il sistema di riferimento di cui fa parte.
Con questo vocabolo, pronunciato per lo più tra la compassione e il disprezzo, si intende una persona «diversa» dalle altre, nel senso che la si ritiene inferiore, dal momento che la persona che ne è affetta, è impedita nello svolgimento delle sue normali funzioni di vita sociale o professionale.
Il vocabolo di origine anglosassone, entrato nel gergo sportivo, indica una regola di gioco che, per compensare disparità e disuguaglianze, attribuisce a ciascuno dei contendenti vantaggi e svantaggi a seconda delle loro qualità.
Riferita all’uomo, la parola handicap vuol significare la parte, per definizione e per principio, non vincente dell’umanità nella competizione della vita, in stato di infermità, di limite. Ma è bene richiamare l’attenzione sulla distinzione che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) fa tra «menomazione», «disabilità» e «handicap», specificando che ognuno di questi termini è onnicomprensivo di tutti gli altri, quali invalido civile, di guerra, per servizio, ecc.
Secondo la Classificazione internazionale degli handicap, emanata dall’Oms nel 1981, nell’ambito delle evenienze inerenti alla salute è menomazione qualsiasi perdita o anormalità di una struttura o di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica; per disabilità si intende qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a menomazione) della capacità di compiere un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano; con il termine handicap viene indicata una condizione vissuta da una determinata persona in conseguenza di una menomazione o disabilità, che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio di quella persona, e ciò in base a età, sesso, fattori culturali e sociali.
In sostanza, l’handicap rappresenta la socializzazione di una menomazione o di una disabilità e, come tale, riflette le conseguenze culturali, sociali, economiche e ambientali che per l’individuo derivano dalla presenza della disabilità.

STORIA E CULTURA OGGI
Nel secolo xviii era ancora radicata la tendenza alla segregazione, soprattutto in grandi ospedali. Ma sotto l’influsso dell’illuminismo e della rivoluzione francese, il problema ha avuto modo di svilupparsi gradualmente, grazie a un maggior interesse medico scientifico. Oggi c’è più interesse per l’aspetto legislativo, ma rimangono inalterati criteri e atteggiamenti discriminanti. Nel contempo, è altresì diffusa l’opinione che considera le menomazioni come conseguenza di gravi colpe da parte dei familiari.
Questa situazione, particolarmente pesante e difficile è aggravata dalla cosiddetta «cultura d’oggi», ovvero il mito del bello e della produttività, che crea sempre nuovi soggetti handicappati: la persona che non rientra nei canoni estetici di bellezza ed efficienza viene emarginata. Ma la persona con handicap, comunque, proprio perché è anch’essa umana e non di «un’altra specie», costituisce sempre un caso a sé, unico e non standardizzabile.
Con il passare degli anni il problema ha assunto, soprattutto dal dopoguerra in poi, importanza mondiale con la Dichiarazione dei diritti degli handicappati, adottata nel 1975 dall’Assemblea generale dell’Onu, e con la Risoluzione del 1980 che proclamava il 1981 Anno internazionale dell’handicappato.
Sono testi che sottolineano il diritto del fanciullo minorato a ricevere un’educazione, al pari dei suoi coetanei cosiddetti «normodotati». Per diversi anni, queste iniziative costituirono solo lo spunto per petizioni di principio, senza possibilità di concretizzarsi.

LE STATISTICHE
Attualmente vi sono nel mondo 500 milioni di disabili fisici, mentali e sensoriali, di cui circa 300 milioni in paesi in via di sviluppo. Nella Comunità europea i disabili sono quasi 40 milioni, mentre in Italia mancano cifre attendibili sulla «vera» consistenza numerica delle persone colpite da minorazione fisica o psichica. Lo scandalo dei «falsi invalidi» di alcuni anni fa, ne ha alterato il numero e l’attendibilità. Tuttavia, anche se un vero e proprio censimento non è mai stato fatto, si può ipotizzare che le persone con disabilità ammontino a circa il 4-5% dell’intera popolazione.
Essendo queste cifre di carattere approssimativo, è evidente l’impossibilità di stabilire con esattezza il numero delle persone disabili presenti nella Ue; e ciò è dovuto anche alla diversa definizione che gli stati membri danno dell’handicappato. Si è formata così una sorta di «lista di attesa» di circa 20-25 milioni di vittime di guerra, infortunio, malnutrizione, oltre che di patologie varie.
Secondo l’Oms, almeno una persona su dieci risulterebbe colpita da turbe della sfera psichica a un certo periodo della propria esistenza. Gli incidenti che si verificano nell’ambito domestico sono oltre 20 milioni; oltre 100 mila persone rimangono invalide permanentemente; mentre in Italia nascono ogni anno 15-20 mila bambini con malformazioni congenite, in alcuni casi per tardiva o errata diagnosi.
Il «pianeta handicap» è un fenomeno che non accenna a diminuire; anzi, secondo gli esperti sembrerebbe in espansione. Eppure, alla luce delle conoscenze odiee, oltre il 65% delle malformazioni potrebbe essere abbassato con accorgimenti tali da contribuire a evitare, o almeno ridurre sensibilmente, la nascita di bambini handicappati.

SOSTEGNO ALLA FAMIGLIA E
«DOPO DI NOI»

Circa il 15% delle famiglie italiane è direttamente interessato al problema della disabilità. Per il disabile grave, come per ogni altra persona con problemi di salute, la vita con i genitori può risultare efficace e più completa la soluzione dei bisogni assistenziali. Ma molte di queste famiglie hanno spesso bisogno di concreti sostegni, soprattutto quando i genitori dei disabili invecchiano o a loro volta si ammalano.
Il problema che più li «preoccupa» è l’incertezza del «dopo»: dopo la nascita di un bambino disabile; dopo un trattamento riabilitativo, dopo la scuola, dopo la formazione, dopo la morte dei genitori… In queste famiglie, per non poter avere una «certa» sicurezza relativa alle varie tappe esistenziali che il proprio figlio dovrà affrontare, si fa strada un senso di sfiducia nei confronti dei servizi, ma anche di viva preoccupazione. Si rende quindi utile attivare appropriati programmi di integrazione, per garantire la presa in carico e per giungere ad individuare e mettere in atto politiche a sostegno della famiglia e del «dopo di noi».
Secondo il Programma di azione del governo riguardante le politiche dell’handicap per il quadriennio 2000-2003, sono state previste alcune azioni: sperimentare programmi d’intervento precoce verso il bambino disabile e a sostegno della famiglia; creare opportunità dirette e indirette per potenziare le risorse e il loro utilizzo per favorire l’adattamento positivo della persona handicappata; semplificare le procedure di accertamento dell’invalidità civile; avviare il riordino delle provvidenze economiche necessarie secondo determinati principi.
Per quanto riguarda la residenzialità si rende opportuna la programmazione di un apposito progetto che preveda ulteriori opportunità per una vita extra familiare, anche come bisogno esistenziale del disabile, mantenendo un sistema di autonomia con i suoi stessi genitori.
A tale scopo possono essere utili interventi come la destinazione del 2% di alloggi residenziali ai disabili e dell’1% ai servizi sociali degli enti locali, alle strutture di riabilitazione, alle Rsa (Residenze sanitarie assistite); la definizione delle strutture di rilevanza sanitaria e sociale; l’istituzione di almeno una Rsa (20 posti) o piccola comunità (residenza protetta) ogni 50 mila abitanti; realizzazione di progetti di residenzialità programmata a carattere socio-assistenziale ed educativo…
Ulteriori interventi previsti dal Programma di azione del governo riguardano il problema della mobilità, ovvero luoghi e mezzi senza barriere, affinché la persona disabile possa muoversi agevolmente e con maggiore autonomia possibile. Particolari suggerimenti prendono in considerazione azioni volte al miglioramento del trasporto pubblico e privato; ampi interventi riguardano la realizzazione di maggiori opportunità nell’accesso allo sport, alle attività culturali e turismo.
Una legge del 1998 ha assegnato al ministro per la Solidarietà sociale di promuovere e cornordinare il sistema d’informazione sull’handicap, sui servizi e soluzioni tecnico-organizzative, nonché la promozione di indagini statistiche e conoscitive sull’handicap.

Eesto Bodini




BOLIVIA – incontro con il presidente Carlos Mesa: «Se i popoli tornano proprietari»

INCONTRO CON IL PRESIDENTE CARLOS MESA

A chi appartengono le risorse naturali? In Argentina, hanno venduto tutto
ai tempi di Menem. In Venezuela, se lo stato non fosse il padrone delle risorse petrolifere, non si sa cosa sarebbe successo. In Bolivia, le rivolte popolari hanno mandato a casa un presidente che voleva svendere le ricchezze del paese, calpestando i diritti dei legittimi proprietari. Il sostituto, Carlos Mesa Gisbert, sta cercando di arginare l’arroganza e la voracità delle multinazionali petrolifere. Ma non è facile. Lo abbiamo incontrato a La Paz, capitale del paese latinoamericano.

LA PAZ – Nell’accogliente Plaza Pedro Domingo Murillo si trova tutto: la cattedrale metropolitana, il Congresso, il palazzo presidenziale. L’appuntamento è in quest’ultimo, per mezzogiorno. Alto ed elegante, il presidente boliviano Carlos Mesa ci accoglie nel suo studio con puntualità svizzera.
Pare una persona gentile e disponibile, forse memore di essere stato un giornalista televisivo e quindi abituato ai rituali delle interviste (1).

Presidente Mesa, dal 18 ottobre 2003 lei è alla guida della Bolivia. Perché ha accettato? Non ha timore di rimanere travolto dai tanti problemi di questo paese?
«Ho accettato perché mi ritengo una persona che ha preso un reale impegno verso il paese. Sono consapevole che essere presidente della Bolivia è un compito gravoso, perché si è continuamente sottoposti a pressioni enormi, ricatti, minacce. E poi ci sono una serie di domande che si sono storicamente accumulate e rispondere a queste è realmente molto difficile. Allora – lei mi chiede – perché ho accettato la candidatura alla presidenza? Perché ho pensato che, dopo il governo di Sánchez De Lozada, potevo contribuire a ridare prestigio a questa carica, aiutato dal fatto che io non ho mai fatto politica».

Lei non ha mai fatto politica… Infatti, non ha un partito politico alle spalle, né una chiara maggioranza parlamentare che lo sostenga…
«Questo è un dato di fatto. D’altra parte, il paese ha assistito alla crisi dei partiti politici, soprattutto per quanto riguarda la loro credibilità. Quindi, era impossibile affidarsi ad essi, in particolare nella prima fase. Certamente, sul lungo periodo un governo senza partiti non riesce ad avere un orizzonte davanti a sé. L’importante è analizzare con chiarezza le cose».

In Italia si è parlato molto della Bolivia nei mesi passati a causa del problema del gas. Potrebbe spiegarci, in poche parole, i termini della questione?
«La Bolivia è un produttore molto importante di gas. La capitalizzazione (2), iniziata nel 1994, ha permesso di aumentare enormemente la quantità prodotta. C’è quindi un grande orizzonte economico di esportazione e trasformazione del gas. Quali sono i problemi? Primo una difficoltà storica iniziale, dovuta alla rivendicazione della Bolivia di avere un proprio accesso al mare. Al momento l’esportazione avviene attraverso un porto cileno senza sovranità e questa è una questione che metterò in agenda. In secondo luogo, la maggioranza del popolo boliviano non vorrebbe vendere il gas al Cile, finché questo paese non darà una risposta favorevole alla questione di un nostro sbocco al mare. Questo fatto crea problemi per l’esportazione di gas verso il Messico e verso gli Stati Uniti. Più facile è esportare gas in Argentina e in Brasile, al quale già lo vendiamo.
Oltre a parlare di esportazioni, dobbiamo iniziare a beneficiare direttamente del nostro gas, utilizzandolo come fonte energetica domestica e sostituendo le macchine a benzina con macchine a gas. Tutto ciò significa incentivare una trasformazione e industrializzazione del gas in loco».

Concretamente, cosa sta facendo il suo governo?
«Stiamo studiando una nuova legge degli idrocarburi che aumenti le imposte delle imprese transnazionali in modo che la Bolivia possa beneficiare di maggiori entrate. Ripeto: è necessaria una nuova politica energetica globale per il nostro paese. Questo significa che vogliamo esportare il gas, ma anche industrializzarlo e darlo ai boliviani come fonte energetica».

Si può frenare l’invadenza e l’arroganza delle imprese petrolifere? Non è facile credo, no?
«Non è facile, perché le industrie petrolifere hanno firmato dei contratti quando vigeva la legge che noi ci stiamo apprestando a cambiare e ora pretendono che noi rispettiamo quegli impegni».

Quali sono i fondamenti sui quali volete costruire la nuova legge per gli idrocarburi?
«Quello che noi vorremmo è un sistema di imposte più giusto. Questo passa anche attraverso la sicurezza e la stabilità politica della Bolivia. Se non riusciamo a raggiungere un equilibrio, non sarà facile dimostrare alle imprese transnazionali che i contratti precedenti non erano giusti né per i boliviani, né per loro.
Stiamo presentando le nostre proposte di modifica sia alle compagnie petrolifere che al parlamento. Lavoriamo su una proposta di legge, che vuole combinare una garanzia di sicurezza per chi investe (le imprese) e un ritorno economico per il nostro paese. È una contrattazione aperta».

Le province dove si estrae il gas vogliono contare di più. Esiste un pericolo separatista in Bolivia o sono invenzioni?
«Non credo che siano tutte fantasie, ma non credo neppure che esista un vero progetto separatista. Credo invece che ci sia una forte domanda di autonomia di quei dipartimenti in modo che possano amministrare le proprie risorse, gestire le proprie politiche senza con questo rompere con lo stato boliviano. Insomma, la logica non è separatista, ma c’è un’esigenza molto forte di autonomia».

Lei non nega il problema dell’accesso al mare e la storica controversia con il Cile. È possibile risolvere questo problema? Esiste una soluzione concretamente fattibile?
«Certo che esiste una soluzione! Ed è anche molto più semplice di quello che si vuole far credere. Prima però si deve far capire al mondo che il problema esiste ed è reale. La Bolivia ha posto questo problema a livello internazionale, poiché il Cile sostiene che la questione non esiste e non ci sono rivendicazioni pendenti. Invece è un dato di fatto storico che ci siano rivendicazioni pendenti e che esista un problema di sovranità. Esiste d’altra parte la nostra volontà di arrivare a un negoziato con il Cile ed anche con il Perù, perché la Bolivia crede che debba aver un accesso libero, diretto e sovrano all’Oceano Pacifico.
D’altra parte, noi non stiamo chiedendo di avere indietro tutti i 400 Km di costa che abbiamo perso nel 1879. Semplicemente vogliamo avere un porto dal quale poter esportare i nostri idrocarburi, qualora ce ne fosse bisogno. Il tema, pertanto, si riduce ad una piccola porzione del territorio cileno. Tra l’altro, in base agli accordi del 1955, su questo tema anche il Perù ha qualcosa da dire. In conclusione, la Bolivia è disposta a dialogare e ritiene anzi che la sua pretesa attuale sia molto più modesta di quella che invece fu la reale perdita storica».

Lei gode di un buon appoggio popolare. Ora però deve affrontare una situazione economica grave, con un deficit pubblico che è quasi al 9%. Come si può risolvere questo problema senza colpire nuovamente i più poveri?
«Noi abbiamo proposto una redistribuzione della tassazione il cui obiettivo è proprio quello di non toccare i più poveri e colpire invece il settore delle transazioni finanziarie, delle banche e degli istituti di credito. In Bolivia, l’accesso alla finanza è ristretto alla classe media e a quella alta. La gente povera non ha accesso al sistema finanziario e quindi non può venire colpita in nessun modo da queste misure.
Insomma, tutte le nostre misure economiche evidenziano una forte attenzione nei confronti della popolazione più povera. Quanto al nostro deficit, contiamo anche sull’appoggio internazionale per riuscire a colmarlo».

Continuiamo a parlare di povertà, presidente Mesa. La Bolivia è un paese potenzialmente ricco, ma nelle classifiche inteazionali è immediatamente dopo Haiti nell’elenco dei paesi più poveri. Esiste una soluzione a breve?
«Una precisazione: quando si usano le statistiche, è meglio avere dati aggioati. I suoi sono un po’ vecchi, dottor Moiola. Adesso siamo davanti al Nicaragua, all’Honduras e alla pari con il Guatemala: non che questo sia un motivo di vanto, ma è giusto essere precisi.
Dunque, come implementare una politica di lotta alla povertà? Innanzitutto con il dialogo nazionale a partire dalla base, dal livello dei municipi, sviluppando il dialogo sociale. Perché la soluzione non venga solamente dal governo, ma sia il frutto della proposta di un’intera società. Il tema che è strettamente legato a questo è quello di riuscire a ridurre il peso del deficit dovuto al debito estero».

Può darci un esempio di lotta concreta alla povertà?
«Per esempio, stiamo lavorando all’implementazione del “Servizio unico materno-infantile” (Sumi), con il quale si vuole garantire alla madre e ai bambini un’assistenza minima per i primi 5 anni di vita. Stiamo lavorando a strategie di lotta alla povertà nelle aree rurali, che è il punto veramente critico. Oltre ai nostri investimenti abbiamo l’aiuto della cooperazione internazionale, che è molto importante ed apprezzabile, ma che, d’altra parte, genera una certa dipendenza. Per questo cerchiamo di orientare i loro investimenti sull’obiettivo di fomentare la produzione, perché crediamo che l’aumento della produttività possa essere una soluzione al problema».

Da anni, in tutto il mondo, si assiste ad un processo di privatizzazione portato avanti secondo i rigidi dettami del neoliberismo. Anche la Bolivia ha seguito questa strada per molti settori produttivi. Com’è andata, presidente Mesa?
«Innanzitutto bisogna precisare che la Bolivia non ha lavorato nelle privatizzazioni sulla stessa linea del Perù o dell’Argentina. Il nostro è stato piuttosto un processo di “capitalizzazione”.
In secondo luogo, il lavoro è stato fatto su 5 grandi imprese nazionali (petrolio, energia elettrica, telecomunicazioni, ferrovie, trasporto aereo) con esiti molto diversi. Nel settore aereo, è stato un disastro e siamo arrivati sull’orlo del fallimento. Nel settore delle ferrovie, il risultato è stato buono dal punto di vista economico, soprattutto per la ferrovia dell’oriente, mentre è stato negativo sotto l’aspetto dell’offerta, in quanto alcune linee sono state chiuse e quindi la gente è stata privata del servizio di trasporto, come accaduto per la ferrovia di Potosì. Bisogna quindi ricalibrare un po’ le priorità, perché in questo settore non c’è solo un aspetto economico da considerare, ma anche un aspetto sociale. Infine, nel settore delle telecomunicazioni, la capitalizzazione è stata addirittura spettacolare: la Bolivia è cresciuta in modo impressionante in questo settore. Basti un dato: avevamo circa 300.000 linee telefoniche, adesso ne abbiamo 1,7 milioni».

Il partner di Entel, la compagnia boliviana, è Telecom Italia, giusto?
«Sì, proprio Telecom Italia. È stato realmente un risultato straordinario, considerando che si è arrivati alla copertura telefonica anche di piccoli paesi dell’area rurale. All’inizio c’è stata una salita dei prezzi, ma adesso stanno scendendo e si sta aprendo anche alla concorrenza. Per quello che riguarda l’elettricità ci sono state luci ed ombre: ci sono imprese che hanno funzionato bene, altre meno. Nel caso degli idrocarburi, l’aspetto positivo è stato di moltiplicare per 10 la quantità di petrolio estratto, ma in quanto alle entrate per lo stato la capitalizzazione non ha reso per niente. Stiamo investigando per capire cosa non abbia funzionato».

Se ho ben capito, la strada della «capitalizzazione», scelta dalla Bolivia, è uno strumento neoliberista che, al contrario delle privatizzazioni, ha funzionato. È così?
«In generale, direi che ha funzionato. Anche se, a voler essere precisi, non possiamo definirlo uno strumento neoliberalista in senso stretto. Un altro aspetto positivo è il capitale che lo stato ha incassato. Con esso abbiamo potuto costituire un fondo di assistenza per tutte le persone maggiori di 65 anni, che in base ad esso hanno diritto ad una rendita annuale» (3).

A parte la capitalizzazione, lei che cosa ne pensa della filosofia neoliberista?
«Il neoliberismo nel suo concetto ortodosso ha fallito. Questo lo si può vedere in tutta l’America Latina e la Bolivia ne è un esempio ulteriore. Siamo nel 2004 e sono 18 anni che stiamo chiedendo sacrifici ai boliviani: la gente non crede più a questo modello economico. Si tratta allora di reinserire lo stato nel ruolo di gestore dell’economia. Non solo nel senso di favorire una maggiore produttività, ma anche per lottare contro la povertà e sviluppare l’educazione».

Presidente, ci dica qualcosa sulle relazioni inteazionali della Bolivia, in particolare con gli Stati Uniti e con l’Europa.
«La relazione con gli Stati Uniti è molto importante per la Bolivia, come del resto per tutti i paesi latinoamericani dal momento che siamo nella loro area di influenza. Per gli Stati Uniti è fondamentale il tema dello sradicamento delle piantagioni di coca. Questo è un tema certamente importante, ma per noi è una problematica che ha costi economici e sociali molto elevati, perché sono molte le famiglie boliviane la cui sopravvivenza quotidiana è legata alla produzione della coca (4). Gli Stati Uniti ci appoggiano nell’aspetto economico, creando un forte legame di dipendenza, ma la problematica della coca è molto più complessa.
Per quanto riguarda l’Unione europea e l’Europa in generale dobbiamo invece approfondire i nostri legami e riuscire ad instaurare relazioni più stabili, anche per riequilibrare le nostre relazioni inteazionali».

Toiamo alla politica intea, presidente. Come sono i suoi rapporti con il gruppo di Evo Morales (Mas) e Felipe Quispe (Mip)?
«Sono due relazioni assolutamente distinte dal punto di vista politico. Felipe Quispe è una persona che rappresenta un gruppo di persone molto preciso ed identificabile che proviene dall’area dell’altopiano, ha posizioni molto radicali e poco flessibili. Credo che il massimalismo sia la sua logica e, pertanto, non vedo come si possa negoziare con lui in un contesto democratico.
Evo Morales è una persona diversa. Ha una prospettiva elettorale molto ampia, vuole arrivare al governo e per questo si è inserito all’interno di un dibattito democratico. Negli ultimi mesi, ha contribuito alla gestione del governo, con un atteggiamento razionale e ragionevole. Ultimamente, in verità, mi sembra stia prendendo posizioni molto critiche rispetto alla nuova legge sugli idrocarburi. È cioè molto vicino a posizioni simili alla nazionalizzazione, creando una serie di problemi nelle relazioni inteazionali, con la cooperazione, con la stessa industria petrolifera con cui ci sono contratti firmati. In tutto questo Morales ha però mantenuto una posizione legittima, all’interno di un dibattito democratico».

Lei sembra una persona ottimista. Significa che pensa di arrivare alla fine del suo mandato presidenziale, prevista per il 6 agosto del 2007?
«Questo è quello che mi propongo. Si deve vedere, se il popolo boliviano continuerà ad appoggiare un governo che ha cercato di gestire le cose in maniera trasparente. Sicuramente affronteremo momenti difficili e la tensione sociale potrebbe aumentare un po’. Credo che il popolo però capisca che non si può chiedere tutto a un governo nato da una crisi così grave».

BOX 1

MA ALLA FINE CHI HA VINTO?

Le multinazionali petrolifere? Il governo Mesa? I boliviani?
Il risultato è incerto e la partita non è finita.

Nel referendum del 18 luglio, le 5 domande erano ambigue ed alcune di esse troppo lunghe. Comunque, circa il 60 per cento degli aventi diritto (2,7 milioni di boliviani su 4,5) è andato ad esprimere la propria preferenza e la maggioranza di essi ha optato per i «sì».
Dopo la consultazione popolare, si è iniziato a discutere il progetto di nuova legge per gli idrocarburi, progetto presentato dal governo del presidente Mesa. Ma trovare un accordo sarà un’impresa, perché sono troppe le volontà contrapposte.
Ci sono, in primo luogo, le 20 imprese petrolifere presenti nel paese. Attualmente, in Bolivia il costo di produzione è uno dei più bassi tra quelli sostenuti dalle 200 maggiori imprese petrolifere che operano in diverse regioni del mondo. Questo vantaggio si traduce in profitti enormi per le compagnie. Le quali, di conseguenza, non sembrano intenzionate a ridiscutere i contratti (un’ottantina) che hanno sottoscritto prima del referendum, ovvero in base alla legge n. 1689 del 1996. In altri termini, qualsiasi cambiamento dello status quo sarà osteggiato dalle petroleras, come le chiamano i boliviani.
Ci sono poi le diverse posizioni degli 8 partiti rappresentati nel Congresso boliviano. Intanto, il referendum ha diviso il paese, soprattutto a sinistra, considerando che la principale organizzazione sindacale (la Central obrera boliviana, Cob) e il Movimiento indigena pachakuti di Felipe Quispe hanno sostenuto il boicottaggio del referendum. Infine, ci sono le pressioni degli organismi inteazionali, con in prima fila il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale.

Allora la domanda è questa: è cambiato (o potrà cambiare) qualcosa con il referendum del 18 luglio? Lo abbiamo chiesto a due esperti, entrambi molto stimati, ma con posizioni opposte sull’argomento. Secondo Francesco Zaratti, italiano da 31 anni in Bolivia, professore universitario ed ascoltato delegato presidenziale, «il referendum è stato positivo dal punto di vista della democrazia e della stabilità del governo, ma un po’ sterile per quanto riguarda i risultati tecnici e politici».
Molto critico è, invece, Osvaldo Calle Quiñonez, giornalista, specialista in tematiche economiche: «Il referendum del 18 luglio è stato uno dei peggiori processi di consultazione popolare mai organizzati. Tutti i 5 quesiti erano formulati in modo tale che era impossibile rispondere “no”. Ciò è stato possibile perché l’elaborazione delle domande è stata fatta da una équipe che si è basata sulle inchieste commissionate e pagate dalle petroleras, con la Total in testa. Per questo io sostengo che le imprese petrolifere sono il vero vincitore del referendum. Il presidente Mesa è stato il loro strumento ed Evo Morales, pur con qualche reticenza, si è adeguato». Osvaldo Calle ha anche denunciato la pratica delle imprese petrolifere di «comprare la benevolenza» degli esperti governativi (attraverso contratti di consulenza) e dei mezzi di informazione boliviani (attraverso la pubblicità).
Quale sarà l’immediato futuro per la Bolivia? Il professor Zaratti ha in testa un cammino preciso: «Dopo aver varato la nuova legge sugli idrocarburi, eleggeremo un’assemblea costituente che avrà il compito di riformare lo stato. Nel frattempo, con l’aiuto del gas, speriamo di stabilizzare l’economia e di modeizzare lo stato». Intanto, lo scorso 29 settembre il ministro degli esteri del Cile ha destituito il console generale a La Paz, Emilio Ruiz-Tagle, colpevole di essersi espresso a favore della richiesta boliviana di uno sbocco al mare in territorio cileno. Meglio vanno i rapporti con Buenos Aires: il 14 ottobre i presidenti dei due paesi si sono incontrati a Sucre per sottoscrivere un forte incremento delle esportazioni del gas boliviano verso l’Argentina.

Per ora la Bolivia presenta queste cifre: secondo posto, in America Latina (dietro il Venezuela), in fatto di riserve di gas, ma il 70 per cento dei suoi 8,2 milioni di abitanti continua a vivere in povertà o nell’indigenza. Come conferma anche l’ultima classifica Onu sull’indice di sviluppo umano, che colloca il paese latinoamericano al 114.mo posto (su 177 paesi considerati). Il 23 settembre, durante l’assemblea dell’Onu, il presidente Mesa non ha esitato a criticare l’ortodossia neoliberista e a parlare della necessità di combinare le forze del libero mercato con quelle dello stato regolatore. Speriamo sia di parola.


Pa.Mo.

Paolo Moiola




STATI UNITI D’AMERICAAltri quattro anni di guerre e terrorismo?

George W. Bush è stato rieletto. In attesa di capire come si comporterà, proviamo a fare un bilancio
dei suoi primi quattro anni alla guida della superpotenza americana.

Il «comandante in capo» rimane alla Casa Bianca. George W. Bush, texano (d’adozione) di 58 anni, figlio maggiore di George Bush, ha vinto le elezioni presidenziali del 2 novembre 2004 e per altri 4 anni guiderà la più forte nazione della terra. In tanti, soprattutto fuori dagli Usa, speravano che ciò non avvenisse (1). E li capiamo. I primi 4 anni della presidenza di George W. Bush sono stati i più travagliati e negativi della storia recente dell’umanità.
Qualcuno obietterà che Bush ha liberato due paesi dalla tirannide e difeso il mondo dal terrorismo. Proviamo a ragionare, mettendo in ordine i tasselli…

A proposito di terrorismo. Il terrorismo ha ricevuto linfa vitale dalle scelte politiche del presidente statunitense. Sir Ivor Roberts, ambasciatore britannico in Italia, durante un convegno pubblico, ha definito Bush «il più grande reclutatore per conto di al-Qaeda» (2).
Un’esagerazione di un diplomatico inglese un po’ eccentrico? Il 9 ottobre il New York Times ha raccontato un’intervista immaginaria a Bin Laden, che dice al giornalista: «Guardi, la più grande sfida che abbiamo di fronte non è essere capaci di ottenere l’arma chimica. Ma è quella di persuadere nuovi adepti, e Bush è diventato il nostro miglior reclutatore. Al-Qaeda vincerà se Bush sarà rieletto, inshallah» (3). A parte le trovate giornalistiche, secondo l’Inteational Institute for Strategic Studies (Iiss) di Londra la guerra in Iraq ha reso al-Qaeda più forte (4).
Il diritto internazionale è stato fatto a pezzi, travolgendo le Nazioni Unite, istituzione con molti difetti ma l’unica che ricomprenda la totalità delle nazioni del mondo. Lo ha ripetuto davanti ai rappresentanti di 191 nazioni (5) lo stesso Kofi Annan, di solito piuttosto timoroso: «Nessuno nel mondo deve essere al di sopra della legge (…) ogni paese che proclama la legalità in patria deve rispettarla all’estero e ogni paese che insiste che sia rispettata all’estero deve rispettarla in patria (…) a volte perfino la lotta contro il terrorismo viene strumentalizzata per violare, senza che sia strettamente necessario, le libertà civili».
Meno diplomatico di Annan è stato il suo predecessore, l’egiziano Boutros-Ghali: «Anche a Baghdad gli americani si sono dimostrati dei perfetti incompetenti» (6).
Nel corso dell’assise Onu, la guerra al terrorismo è stata letta anche in chiave diversa da quella dominante. Il presidente brasiliano Lula, ad esempio, ha dichiarato: «Se vogliamo eliminare la violenza, è necessario rimuovere le sue cause profonde con la stessa tenacia con cui affrontiamo gli agenti dell’odio. Dalla fame e dalla povertà non nascerà mai la pace».
Il gruppo di lavoro Alleanza contro la fame, creato per iniziativa dello stesso Lula, ha proposto l’istituzione di alcune tasse inteazionali (su vendita armi, transazioni finanziarie, trasporto aereo e marittimo, profitti multinazionali) per finanziare lo sviluppo e ridurre drasticamente la fame. Un’idea molto interessante, che però ha subito trovato l’ostilità di alcuni paesi, tra cui i soliti Stati Uniti (7).

A proposito di Iraq. La seconda guerra del Golfo è iniziata il 20 marzo del 2003. Dell’Iraq ormai non si sa più che dire, se non che il paese è nella più totale anarchia, senza legge né parte, né prospettive per una popolazione che – dopo aver contato 100.000 morti civili (dei quali a Porta a porta poco si parla…) (8) – non sa più da che parte girarsi.
Iyad Allawi, l’uomo che gli Usa hanno posto a capo del cosiddetto «governo provvisorio iracheno», prepara le elezioni di gennaio 2005. Intanto Falluja, la città sunnita ribelle, da mesi è assediata e ripetutamente bombardata dalle forze statunitensi, senza che il primo ministro iracheno spenda una parola in favore della sua popolazione.

A proposito di Afghanistan. La prima guerra preventiva di George W. Bush risale al 7 ottobre del 2001. Dopo le emozioni, tanto telegeniche quanto effimere, del burqa e degli aquiloni, dell’Afghanistan non si è più parlato fino alle elezioni del 9 ottobre. Ha vinto senza fatica (e tra svariate contestazioni degli avversari) Hamid Karzai, l’uomo degli Stati Uniti. Sarà presidente dell’Afghanistan o, come malignamente sostengono in molti, semplice sindaco della capitale Kabul?
«Dire che le elezioni – spiega don Paolo Farinella – sono il segno della giustezza della guerra è come dire che dopo il temporale viene il bel tempo e dopo la notte sorge il sole. Chi ha voluto la guerra, chi vuole la guerra, deve sempre trovare una giustificazione e legge tutti i fatti in quest’ottica: avevo ragione. Se non si fossero svolte elezioni, avrebbero detto che le difficoltà erano più gravi del previsto e quindi bisognava incrementare la guerra per arrivare alla democrazia».
Che l’Afghanistan sia fuori controllo è testimoniato da due fatti. La produzione di oppio è tornata ai livelli ante-guerra (si parla di 3.600 tonnellate annue, in gran parte destinate al mercato europeo). Nel frattempo, l’organizzazione umanitaria Medici senza frontiere ha abbandonato il paese dopo l’uccisione di 5 suoi membri (nel giugno 2004).

A proposito di 11 settembre. Ancora una volta qualcuno obietterà: «ma voi dimenticate la tragedia dell’11 settembre 2001!». Rispondiamo prendendo a prestito le parole di don Raffaele Garofalo (9): «Non si può pensare che, dopo l’attentato dell’11 settembre, gli Stati Uniti si siano guadagnata, di fronte al mondo, l’aureola di paese vittima innocente. Come commuove la sorte atroce subita dalle vittime delle Torri gemelle (esse sì innocenti), ugualmente dobbiamo essere sensibili al “terrorismo di stato”, agli spregiudicati interventi nordamericani nella politica di altre nazioni in tutto il mondo».
Racconta Ettore Masina, scrittore cattolico: «Ci sono momenti in cui uno si odia per avere avuto ragione: (…) più di vent’anni fa scrissi che le guerre che i poveri avrebbero, prima o poi, cercato di combattere per uscire dalla loro oppressione sarebbero state “naturalmente” feroci. Non possedendo mass-media per illustrare le sofferenze del proprio popolo né trovando chi se ne faccia portavoce, la disperazione dei miseri non può che portarli a creare eventi tanto terribili da costringere giornali e televisioni a registrarli con clamore; (…) convinti, sino al suicidio, che per i loro figli i paesi dominanti non abbiano pietà, essi stessi non sentono pietà per gli innocenti travolti nelle loro imprese. (…) Chi ha occhi per vedere, con la lucidità che tutti dovremmo conservare, sa che la guerra dei poveri è disumana perché essi sono stati disumanizzati. (…) Considero anch’io il terrorismo una spaventosa minaccia (…) ma so che accanto a me, dalla mia parte (che io lo voglia o no, e quindi con mia inevitabile complicità), c’è chi, da posizioni dominanti, nelle sedi e istituzioni in cui dovrebbe articolarsi una civiltà fratea o almeno attenta a un po’ di giustizia, provoca, alimenta e spesso sfrutta la collera dei poveri: quella collera che quasi cinquant’anni fa già il grande papa Paolo VI sentiva crescere nelle viscere della storia e inutilmente ci additava nella sua enciclica Populorum progressio» (10).
Sulla stessa linea interpretativa un altro prete, don Gianfranco Formenton (11): «Non c’è nessuna differenza, se non nelle parole e nelle proporzioni, tra un terrorismo degli eserciti regolari e un terrorismo fatto di bande armate al servizio di qualche mente malata. Uccidono, inesorabilmente, implacabilmente, gli uni e gli altri. (…) I criminali-terroristi sono tra le grotte delle montagne dell’Afghanistan e tra i palazzi del potere occidentale. Gli uni e gli altri si alimentano a vicenda».

A proposito di anti-americanismo.Qualcuno obietterà: «Criticare la politica di Bush è anti-americanismo ed essere anti-americani significa schierarsi con i nemici dell’Occidente!».
«No – ha detto Boutros-Ghali -, non esiste alcuno scontro di civiltà. Ci sono, piuttosto, conflitti tra ricchi e poveri, tra stati sempre più ricchi e continenti sempre più drammaticamente poveri».
Dopo l’11 settembre, Bush ha potuto introdurre norme che riducono drasticamente le libertà civili dei suoi connazionali, dichiarare guerra all’Afghanistan, rinchiudere i prigionieri nella grande Bastiglia di Guantanamo, voltare le spalle all’Onu ed invadere l’Iraq, concedere appalti e commesse alle industrie di famiglia della sua amministrazione, dissipare l’attivo del bilancio e accumulare un considerevole passivo, predicare la democrazia in una parte del mondo e sostenere i regimi repressivi dei paesi di cui ha bisogno. Affermazioni, tutte queste, non di un presunto «anti-americano», ma di un illustre estimatore degli Stati Uniti (12).
Moises Naim, direttore dello statunitense Foreign Policy, ha scritto: «Come dimostrano i sondaggi, l’anti-americanismo è il più diffuso dei sentimenti condivisi dalle opinioni pubbliche. Perciò all’estero è sempre più difficile per i politici difendere la causa degli Stati Uniti o collaborare con Washington» (13).
Dopo la rielezione di Bush, le reazioni delle cancellerie mondiali sono state caratterizzate da un freddo linguaggio di circostanza; soltanto pochi paesi – tra cui la Russia di Putin e l’Italia di Berlusconi – hanno pubblicamente giornito.
Si dice preoccupato don Aldo Antonelli: «Ritengo Bush estremamente pericoloso, non tanto per quel che è ma per il mondo che gli sta dietro e che lui rappresenta. Bush esce dall’ambiente del protestantesimo evangelico. I suoi biografi ufficiali ci dicono che legge la Bibbia ogni giorno. In effetti il presidente mostra una forte vocazione religiosa. Pensa di essere stato chiamato da Dio alla presidenza; dichiara l’unicità storica degli Stati Uniti, un paese scelto da Dio per redimere il mondo. Egli ha anche definito questa sua fede con un nome: “teologia della libertà”. È qualcosa di molto vago, che lui spiega con la volontà divina di liberare l’intero genere umano da oppressione e schiavitù. In questa visione, le truppe americane sarebbero uno strumento per promuovere la libertà voluta da Dio».

A proposito di media ed informazione. Sono in molti a criticare aspramente le due televisioni satellitari arabe: al-Jazeera (Qatar) e al-Arabya (Dubai). Si obietta: «Propagandano l’odio e lo scontro di civiltà», «Sono contigue ai terroristi». Sicuramente sono vicine al mondo arabo ed islamico di cui sono emanazione, ma i media occidentali sono super partes? Certamente no.
Troppo spesso chi non è d’accordo con l’interpretazione dei media dominanti o è un incapace o, peggio, è un connivente con il terrorismo.
Negli Stati Uniti, le televisioni come Fow News (appartenente a Rupert Mardoch, il magnate dei media mondiali) non sono di certo un esempio di correttezza. D’altra parte, la stragrande maggioranza degli statunitensi vede la tv e sicuramente non legge il New York Times, il quotidiano che la scorsa estate ha fatto pubblicamente una severa autocritica per non aver indagato sulle informazioni (poi rivelatisi false) foite dalla Casa Bianca rispetto all’Iraq e alle armi di distruzione di massa.
In Italia, la situazione dell’informazione è addirittura peggiore, perché, invece di spiegare ed aiutare a capire, sobilla, esagera, incita allo scontro. A settembre, il settimanale Panorama titolava in copertina: «Guerra all’Occidente». Nell’editoriale, il direttore Carlo Rossella scriveva: «La guerra contro l’Occidente, contro di noi, è stata dichiarata. I terroristi la combattono senza porre limiti alla barbarie. Meritano una risposta dura, spietata, unanime. Così li sconfiggeremo» (14).
In questo quadro, va inserito il linciaggio mediatico a cui sono state sottoposte le «due Simone»: Il Gioale, Libero, Il Foglio, La Padania si sono particolarmente distinti in questo gioco al massacro alquanto sospetto. Qualcuno ha addirittura utilizzato la morte di Jessica e Sabrina nell’attentato di Taba per coniare il termine di «anti-Simone» (15).
Quelle stesse Simone che si sono guadagnate la copertina di Time, il noto settimanale statunitense…(16).

A proposito di ambiente ed economia. George W. Bush considera l’ambiente una merce qualsiasi, invece che un unicum, con il risultato di aver contribuito a stravolgere, forse irreversibilmente, gli ecosistemi mondiali. L’affossamento del Protocollo di Kyoto (a novembre firmato anche dalla Russia), già di per sé totalmente insufficiente come strumento di preservazione ambientale, si accompagna al fatto che gli Stati Uniti sono, di gran lunga, il paese più inquinante del mondo (17). La mercificazione dell’ambiente rientra nella ideologia neoliberista, che considera il libero mercato alla stregua di un dogma.
Con sempre meno risorse e meno potere, gli stati sono schiacciati dalle politiche economiche neoliberiste, che privilegiano l’individuo e l’iniziativa privata rispetto alla collettività e al bene pubblico.
«La sfera pubblica – scrive Joel Bakan – è oggi sotto attacco. (…) Negli ultimi due decenni, le corporation hanno sferrato un’offensiva energica per far arretrare i suoi confini. Con le privatizzazioni, gli stati hanno ceduto alle corporation il controllo di istituzioni un tempo considerate “pubbliche” per natura. Nessun ambito è rimasto immune dall’infiltrazione. Le società di distribuzione dell’acqua e dell’energia elettrica, la polizia, i servizi di emergenza e i vigili del fuoco, gli asili nido, l’assistenza e la previdenza sociale, le scuole e le università, la ricerca scientifica, le prigioni, gli aeroporti, il sistema sanitario, il genoma umano, i mezzi di comunicazione, lo spettro elettromagnetico, i parchi pubblici e le strade sono stati tutti sottoposti, o stanno per esserlo, a una privatizzazione totale o parziale. (…) Basare un sistema sociale ed economico su queste caratteristiche è un approccio pericolosamente fondamentalista» (18).
Gli stessi statunitensi hanno visto allargarsi, nel 2003, la forbice sociale: 35,9 milioni di americani vivono sotto la soglia di povertà, mentre 45 milioni non hanno alcuna assicurazione sanitaria (19).
«Il sogno americano – ha scritto l’economista Jeremy Rifkin (20) – è troppo centrato sul progresso materiale personale e troppo poco preoccupato del benessere generale dell’umanità».
Secondo don Paolo Farinella, «l’America come popolo bianco (cioè quello che comanda) è immaturo, banale e superficiale… Chiede una cosa sola: non cambiare un tenore di vita che genera livelli di spreco strepitosi. Tutto il resto (il mondo, l’Iraq, ma anche Bush o Kerry) poco importa. Ciò che conta è il loro supposto benessere che, sebbene malato, deve essere mantenuto a spese del mondo (vedi protocollo di Kyoto, che anche Kerry si era impegnato a non firmare). Il welfare in America non c’è e non ci sarà, perché la società ha un fondamento religioso d’interpretazione, basato sul principio teologico vetero-protestante: la ricchezza è segno della benedizione di Dio, la povertà segno dell’abbandono: il ricco può essere compassionevole e fare l’elemosina, ma tu, mondo, grida sottovoce e non pretendere troppo».

A proposito di chiesa. Si chiamano Jackie Hudson, Carol Gilbert e Ardeth Platte e sono suore domenicane che stanno vivendo una condizione particolare (21). Sì, perché le tre religiose sono detenute in 3 carceri statunitensi: Jackie ad Adelanto (per 30 mesi), Carol a Alderson (per 33 mesi), Ardeth a Danbury (per 41 mesi). Sarebbe bello sapere quanti hanno letto o sentito parlare di queste 3 donne. Pochi, crediamo. Ma non necessariamente per colpa loro: è difficile che trasmissioni come Porta a porta, settimanali come Panorama o quotidiani come Il Gioale o Libero parlino di un fatto simile. Troppo dirompente, troppo poco «moderato» e soprattutto troppo foriero di messaggi inadeguati in tempi di guerra permanente. Suor Jackie (di 69 anni), suor Carol (56) e suor Ardeth (67) sono in carcere perché il 6 ottobre 2002 sono entrate nella base missilistica di Greeley (vicino a Denver, nel Colorado) per protestare contro i missili a testata nucleare lì custoditi.
Se non fossero sufficienti Jackie, Carol e Ardeth, ci piacerebbe sentire l’opinione di padre Roy Bourgeois, missionario di Maryknoll, che nelle prigioni Usa ha trascorso più di 4 anni per aver protestato contro la School of the Americas, la scuola degli assassini (22). «L’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti – scrive padre Bourgeois – ha reso molto più difficile protestare in questo paese, soprattutto davanti alle basi militari. Il cosiddetto Patriot Act e il Dipartimento per la sicurezza nazionale (Department of Homeland Security), creati dopo la tragedia dell’11 settembre, rendono difficoltoso agli attivisti dei diritti umani l’organizzazione di qualsiasi manifestazione per la pace e la giustizia».

A proposito di futuro. In questo quadro, cosa ci riserveranno i prossimi anni? Se Bush proseguirà sulla strada intrapresa durante il suo primo mandato, probabilmente ci saranno altre guerre preventive (Iran?, Siria?, Sudan?, Corea del Nord?, ma rischiano pesanti interferenze anche Cuba e Venezuela) e una recrudescenza del terrorismo su scala mondiale. Verranno sprecate risorse immense per la corsa ad armamenti sempre più sofisticati, sottraendole ad impieghi utili a rendere il mondo un luogo più vivibile: per ridurre le diseguaglianze, per preservare un ambiente sempre più disastrato.
Insomma, con George W. Bush ancora alla Casa Bianca, è difficile intravvedere un futuro di tranquillità per l’umanità, a meno che, sul palcoscenico della politica mondiale, non si affaccino nuovi attori-protagonisti (l’Europa, purché non divisa, per esempio) in grado di contrastare il monologo statunitense. Nella speranza di essere smentiti dai fatti, al momento abbiamo una sola certezza: passati i prossimi 4 anni, George W. Bush non potrà più essere rieletto.

BOX 1

VITTIME</b< • in Israele-Palestina: palestinesi 3.519
israeliani 960

(dal 28 settembre 2000 al 3 nov. 2004)

• in Iraq:

civili iracheni 14.304-16.439
soldati coalizione 1.301
di cui soldati statunitensi 1.155
soldati iracheni 4.895-6.370
resistenti iracheni (*) 24.000

(dal 19 marzo 2003 al 10 nov. 2004)

Altre ricerche:
100.000 morti civili, secondo uno studio pubblicato il 29 ottobre dalla rivista medica internazionale The Lancet (www.thelancet.com); lo studio è stata effettuato dalla scuola di medicina pubblica della Johns Hopkins University, dalla scuola di infermieristica della Columbia University e dalla Mustansiriya University di Baghdad.

(*) «Iraqi resistance fighters» o «insurgents», secondo la definizione di Foreign Policy e dei maggiori media Usa.

Fonti:
• Foreign Policy in Focus,
Washington (Usa)
• www.iraqbodycount.net
• http//icasualties.org/oif
• Afp / Internazionale

NOTE

(1) Secondo un’inchiesta internazionale della GlobeScan e dell’Università del Maryland, in un’ipotetica votazione in 35 paesi di tutti i continenti George W. Bush vincerebbe soltanto in 3 stati (Polonia, Nigeria e Filippine). Risultati similari sono stati raggiunti dai sondaggi del Pew Research Centre e del quotidiano inglese The Guardian (15 ottobre).
(2) Testuale: «The best recruiting sergeant ever for al-Qaida». Si veda Corriere della sera del 20 settembre e The Guardian del 21 settembre.
(3) Si veda l’articolo di Nicholas Kristof sul New York Times del 9 ottobre 2004: «Dreaming in Kabul».
(4) A questa conclusione giunge «Military balance 2004-2005», l’annuale rapporto dell’Iiss. Su al-Qaeda: Jason Burke, Al-Qaeda la vera storia, Feltrinelli 2004.
(5) Discorso d’apertura della 59.a sessione, 21 settembre 2004. Kofi Annan aveva già parlato di «guerra illegale» in un’intervista concessa all’inglese BBC il 16 settembre.
(6) Intervista realizzata da Marc Innaro (Rai), 3 ottobre 2004.
(7) Sul quindicinale Adista del 2 ottobre 2004.
(8) La cifra è quella pubblicata da The Lancet (vedere il box con tutte le statistiche). Essa è nettamente più alta di quella foita e continuamente aggiornata sul sito: www.iraqbodycount.net.
(9) Da «Terrorismo e politica del terrore» su Adista del 18 settembre 2004.
(10) Ettore Masina, «Lettera 100», settembre 2004.
(11) Su Adista del 25 settembre 2004.
(12) L’ex ambasciatore Sergio Romano sul Corriere del 3 novembre 2004.
(13) Moises Naim sul settimanale L’Espresso del 30 settembre 2004.
(14) Panorama del 16 settembre 2004.
(15) Pierluigi Battista su La Stampa del 12 ottobre 2004. Altra stranezza: il Corriere del 22 ottobre si è scandalizzato – con un corsivo in prima pagina – del linguaggio utilizzato da un magistrato di Bari, che ha definito gli ex ostaggi Cupertino, Stefio, Agliana e Quattrocchi dei «mercenari», ma non ha usato parole altrettanto severe per chi ha insultato le 2 Simone.
(16) Time, 11 ottobre 2004.
(17) Sulle disastrose politiche ambientali di Bush, si veda Robert F. Kennedy jr., «Crimes against nature» (Crimini contro la natura), Harper Collins, 2004.
(18) Joel Bakan, «The corporation: la patologica ricerca del profitto e del potere», Fandango 2004. Bakan è professore di diritto costituzionale all’Università British Columbia di Vancouver.
(19) Dati del Census Bureau, l’Istat statunitense: nel 2003, 35,9 milioni di persone vivevano sotto la soglia di povertà, 1,3 milioni in più rispetto al 2002. In rapporto alla popolazione totale, significa che 1 cittadino su 8 della nazione più ricca del mondo è povero. Sempre nel 2003, il numero delle persone senza copertura sanitaria è salito a 45 milioni, 1,4 in più rispetto al 2002: il 15,6% della popolazione Usa.
(20) Jeremy Rifkin, Il sogno europeo, Mondadori 2004. Sugli stessi temi anche il libro dell’inglese Will Hutton, Europa vs Usa, Fazi 2004. Mentre sono opposte le tesi espresse da Robert Kagan, Il diritto di fare la guerra, Mondadori 2004. Dello stesso autore, Paradiso e potere, considerato una sorta di manifesto del neoconservatorismo statunitense.
(21) Informazioni sulle tre suore incarcerate su www.domlife.org (il sito delle suore domenicane degli Usa) e su www.jonahhouse.org (sito Usa di solidarietà). Vi si trovano anche gli indirizzi a cui spedire eventuali lettere.
(22) La School of the Americas oggi si chiama «Weste Hemisphere Institute for Security Cooperation» (Whinsec) ed ha sede a Fort Benning, in Georgia. Per conoscere la storia di Roy Bourgeois, si legga il libro di Mike Wilson, Padre Roy contro il Pentagono. Il prete anti-terrorismo (americano), Edizioni San Paolo, 2004.

Paolo Moiola




VENEZUELA 2005 Dopo il referendum del 15 agosto


VENEZUELA 2005

UN PIENO DI VOTI E DI PETROLIO

Il presidente Hugo Chávez Frias ha vinto anche il referendum del 15 agosto.Oggi gli alti prezzi del petrolio lo aiutano a governare e a resistere ad un’opposizione disposta a tutto pur di cacciarlo.

Dopo il referendum del 15 agosto, lo scrittore Eduardo Galeano ha detto: «Strano dittatore, questo Hugo Chávez. Masochista e suicida: ha messo in piedi una costituzione che consente al popolo di cacciarlo, e ha corso il rischio che questo succedesse in un referendum revocatorio che il Venezuela ha realizzato per la prima volta nella storia universale. Il castigo non c’è stato. E questa è stata l’ottava elezione che Chávez ha vinto in 5 anni». Anzi, la nona, considerando le elezioni amministrative dello scorso 31 ottobre.
Anche il «Centro Carter» (la fondazione dell’ex presidente statunitense Jimmy Carter) ha certificato la regolarità del referendum del 15 agosto, ma l’opposizione venezuelana non accetta la sconfitta. Attraverso i media che controlla cerca di far passare (spesso riuscendovi) presso i governi esteri e presso molti media occidentali che il presidente Chávez è un dittatore. Purtroppo per loro questo non è un buon momento, per almeno due motivi.
Il primo è di ordine politico. Viviamo in un periodo storico in cui un personaggio quantomeno ambiguo, il colonnello libico Gheddafi, è stato più che riabilitato, nonostante sia al potere dal 1969 e non abbia un curriculum vitae invidiabile… Abbracciare Gheddafi e nel contempo affossare Chávez è, allo stato delle cose, un’impresa difficile anche per poteri tanto forti come quelli in gioco. Sarà questa la «ragion di stato» di cui parlò il nostro Machiavelli?
Il secondo motivo è prettamente economico. Caracas è il quinto esportatore mondiale di petrolio e il secondo fornitore degli Stati Uniti (coprendo il 15 per cento delle importazioni Usa). L’importanza strategica del paese latinoamericano sta tutta in questi numeri.
Sullo sfondo rimangono comunque le contumelie della comunità internazionale, in particolare degli economisti neoliberisti e della folta schiera dei media allineati alla filosofia dominante. Per costoro le entrate derivanti dal petrolio venezuelano costituiscono un grave cruccio. Il perché è presto spiegato.
Il governo Chávez utilizza gran parte delle cospicue entrate petrolifere per finanziare programmi sociali (come le misiones), indispensabili in un Venezuela abituato ad avere una classe dominante (non più del 20% della popolazione) a cui era concesso ogni privilegio. Economisti e politici neoliberisti dicono che così non va bene, perché questo è populismo, termine che, a dispetto del suo significato etimologico, in politica è un insulto grave, utilizzato alla bisogna, soprattutto quando non si sa che altro dire.
Dare medici e ambulatori a chi non può permettersi una sanità privata (missione Barrio Adentro), scuole ed insegnanti a chi non ha potuto avere un’istruzione (missione Robinson), la possibilità di completare gli studi secondari a chi li ha interrotti (missione Ribas), alimenti a prezzi inferiori a chi non ha risorse (missione Mercal), è populismo?
Se lo è, allora ben venga il populismo, se serve per avere finalmente un po’ di giustizia.

Paolo Moiola

Paolo Moiola




COLOMBIA: il dramma dei “desplazados” VENTISEI UOMINI DI PACE

Lo scorso 28
aprile, in una fattoria nascosta nel verde delle montagne che circondano Carmen de
Apicalá (Cundinamarca), si è inaugurato un centro destinato a realizzare un grande sogno
per la Colombia: costruire uomini di pace. Pochi edifici nei quali vengono ospitati 26
bambini, tutti provenienti da famiglie di sfollati (“desplazados”), che a decine
ogni giorno arrivano a Bogotà, private di tutto. Alcune di queste porte si sono aperte e
di lì è nato il progetto “bambini di guerra, uomini di pace”: un piccolo
esempio di cosa la solidarietà può fare quando, pur avendo pochi mezzi, trova la
collaborazione di molti.

Quando arriviamo a Carmen de Apicalá, sullo schienale posteriore della
nostra auto si sono accumulati maglioni e vestiti pesanti. Questa mattina, a Bogotà,
l’alba era un po’ fredda, ma dopo esserci allontanati dalla città, a poco a
poco, il calore del tropico ci aveva aiutato a liberarci del superfluo.

A partire da Fusagasugá, ai lati dell’autostrada cartelloni
pubblicitari molto colorati ci ricordano che ci stiamo avvicinando a una delle zone più
turistiche del paese: hotels, piscine, negozi, divertimenti. Sulle rive del Magdalena
tutto è organizzato in modo tale che, chi se lo può permettere, ha la possibilità di
riposare e dimenticare le fatiche e gli inconvenienti della grande città. Il paesaggio
cambia immediatamente quando abbandoniamo la via principale, per salire lungo le pendici
di una delle montagne che dominano la valle del Magdalena. Nello spazio di pochi
chilometri ci ritroviamo nella Colombia agricola, così diversa da quella turistica:
piccole case di contadini con molti animali da cortile, un verde esuberante in ogni angolo
e, attorno a noi, soltanto sole, colore, silenzio e un piacevole odore di campagna. Dopo
qualche chilometro giriamo e ci inoltriamo, seguendo una strada sterrata e sconnessa, in
quello che a prima vista sembra un bosco e che poi si rivela un campo fittamente coltivato
con alberi da frutto: manghi, cacao, mandarini, guayabas. Arrivati ad una finca
(proprietà) e scesi dall’auto, siamo subito circondati da strilli di entusiasmo,
saluti, fervore di attività. Siamo finalmente arrivati alla casa-fattoria dei
“bambini della guerra”.

“Come primo passo – sono parole di Napoleone Malaver, responsabile
del gruppo “Volontari del mondo” che amministra questa proprietà di 20 ettari –
ci preoccupiamo di creare un rifugio per i figli di coloro che arrivano a Bogotà per
fuggire la violenza che colpisce le altre regioni del paese”. La guerra, si sa, non
risparmia sofferenze e nel suo procedere distruttivo nessuno si salva, neppure i bambini.
Nell’età in cui casa, educazione, famiglia sono indispensabili per modellare gli
adulti di domani, tutto può sparire ed essere sostituito, dalla notte alla mattina, da
una fuga interminabile, dallo sradicamento dal proprio ambiente e da una insanabile
mancanza di risorse. Questa è storia quotidiana per migliaia di famiglie colombiane e i
loro figli. Cosa vuole significare la fattoria dei “bambini della guerra”? In un
ambiente familiare, genuino e contadino (perché la maggioranza dei figli provengono dalla
campagna) si cerca di fornire ai bambini quelle condizioni minimali che possano fare di
loro, in futuro, degli “uomini di pace”. Se la guerra è sinonimo di
distruzione, nella fattoria si vuole “costruire conoscenza e vita”. Ma come si
è arrivati a realizzare questo progetto?

La storia ce la ricorda padre Claudio Brualdi, superiore provinciale
dei missionari della Consolata in Colombia. “Con il padre Juan Testa ci trovammo
d’accordo nel dare vita ad un’opera che potesse offrire rifugio e protezione
alla parte più indifesa della popolazione colombiana. Questa, tra l’altro, era
conforme al nostro carisma di missionari della consolazione. Rimaneva un problema: a chi
chiedere aiuto per realizzare un siffatto progetto? I missionari che lavoravano in
Colombia non erano sufficienti e, comunque, avevano già molto lavoro da fare”. La
soluzione arriva con la collaborazione del gruppo “Volontari del mondo”, la
solidarietà di molta gente del quartiere El Vergel e l’appoggio di alcune scuole e
collegi. Non ultimo l’attenzione e l’affetto della gente della comunità, la
quale a poco a poco si accorge che le nascenti costruzioni non hanno una finalità
agricola. Finché un giorno la popolazione scolastica risulta più che raddoppiata.
“Da don Alfonso, la persona che abita più vicina, a quelli più lontani – ci spiega
Napoleone Malaver – tutti si interessano di quello che sta accadendo ai “bambini di
guerra e uomini di pace”. Cosicché quest’opera non appartiene né ai missionari
della Consolata né ai “Volontari del mondo”: essa è un’opera di tutta la
comunità e di tutti i numerosi benefattori”. A sua volta, padre Jaime Bonilla,
responsabile della pastorale dei migranti per l’arcidiocesi di Bogotà, fa questa
riflessione: “Questa è un’opera di tutti, ma allo stesso tempo è un’opera
di Dio. Perché è stata fatta in favore dei più piccoli, ai quali Gesù tiene in modo
particolare. Incontreremo certamente molte difficoltà, ma questo progetto andrà avanti e
crescerà. Questo non significa che ci attendiamo che tutto cada dal cielo. Il vangelo ci
insegna che le opere di Dio esigono sempre il nostro apporto. Pensate al miracolo della
moltiplicazione dei pani: esso fu possibile perché un ragazzo mise a disposizione del
Signore il suo pasto, con la speranza che da esso si ottenesse cibo per altri. Allo stesso
modo questo progetto è frutto del nostro lavoro, del nostro impegno e di tutto ciò che
possiamo apportare con la benevolenza di Dio”.

Domando: “Quanti “bambini della guerra” sono ospitati
nelle strutture che oggi inaugurate?”.
– Ventisei.
– Solamente?, ribatto.
– Per il momento, sì.

“Quando cominciammo questo progetto – mi spiega Napoleone Malaver
-, avevamo molte speranze e un pensiero: ciò che abbiamo potuto fare oggi, che cosa
diventerà domani? Abbiamo iniziato con 26 bambini, tutti ospitati in quella semplice
costruzione che puoi vedere lì. Già domani si cominceranno nuove costruzioni e noi tutti
speriamo che, in uno o due anni, si potranno ospitare tra i 100 e 120 bambini e bambine
che vivono in situazioni di alto rischio a causa della guerra. Per ora abbiamo questo e
non possiamo perdere tempo. È qualcosa di piccolo, però lo consideriamo un gran
successo”. La violenza in Colombia produce molti più bambini di guerra di quanti se
ne potranno assistere nei prossimi anni nella casa. Tuttavia, sappiamo che le cose grandi
nascono sempre piccole.

Voglia Dio che questo progetto cresca e che nel futuro si possano avere
molti uomini di pace cresciuti all’interno di esperienze come queste! Voglia Dio che
i missionari della Consolata un giorno possano vendere la proprietà! Se ciò accadesse,
significherebbe che la guerra sarà finita e non ci saranno più le sue vittime,
soprattutto le più innocenti, i bambini.

La casa dei bambini della guerra può essere una goccia nel mare, ma la
sua assenza si notava.

 

(*) Juan Antonio Sozzi, missionario della Consolata, ha lavorato
in Spagna, Ecuador e Colombia. Già direttore di “Antena misionera” (Madrid),
attualmente è redattore di “Dimension misionera” (Bogotà).

Juan Antonio Sozzi




TURCHIASotto i baffi di Cevat

In Turchia, fondata come stato laico da Ataturk,
avanza l’integralismo islamico, specie nella regione sud-orientale,
dove resistono sparute comunità cristiane,
eredi di un glorioso passato missionario.
Il nazionalismo turco ha ridotto l’Armenia,
primo stato cristiano della storia, a un cumulo di macerie.

Per accompagnarci nel sud-est della Turchia, Cevat, la nostra guida, si è fatto crescere i baffi. Dice che un uomo senza baffi non è preso in considerazione da quelle parti, fino a cinque anni fa teatro di feroci scontri tra l’esercito turco e il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan). Da quando il loro leader Ocalan è stato imprigionato, ci si può muovere con una certa libertà nel territorio, abitato prevalentemente da curdi; ma un pizzico di prudenza non guasta.
Nella prima escursione si unisce a noi Jussuf, guida curda con una coppia di giapponesi: profilo affilato, eleganza innata, anche lui mostra due grossi baffi neri come il carbone.

TRA IL TIGRI E L’EUFRATE

Partiamo da Gaziantep, città in pieno boom economico, prossima al confine siriano. Il faraonico e contestato progetto Gap (Guneydogu Anadolu Projesi), che prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche per lo sfruttamento delle acque del Tigri e dell’Eufrate, sta cambiando l’aspetto e l’economia della regione, un tempo arida e povera terra di emigrazione.
Una gigantesca diga frena il corso dell’Eufrate, creando un enorme bacino che presto sarà collegato alle acque del Tigri da un condotto, il più grande al mondo. Intanto i territori della Mesopotamia siriana e irachena hanno già perso il 30% della loro preziosissima acqua.
Questa terra «tra i due fiumi» è terra biblica: ad Harran sarebbe nato Abramo; qui il patriarca avrebbe ricevuto le promesse divine e l’invito a partire per una terra sconosciuta; presso la parentela rimasta ad Harran, Abramo avrebbe mandato a cercare la sposa per il figlio Isacco; scelta caduta su Rebecca.
Nel suo viaggio verso la terra di Canaan, Abramo si sarebbe fermato a Edessa (oggi Urfa o Sanliurfa), dove è venerato anche dai musulmani. La fama della città, però, è legata alla storia del cristianesimo. Eusebio di Cesarea attesta che già al tempo degli apostoli l’intera città e la regione circostante erano state convertite al cristianesimo.
Ben presto Edessa diventò un importante centro culturale, letterario e di diffusione della fede cristiana: da qui i missionari si spinsero al di là dei confini dell’impero romano, verso la Persia e il resto della Mesopotamia.
Nei secoli seguenti, la vivacità della chiesa di Edessa fu funestata prima da persecuzioni, poi da dispute religiose: il rifiuto della dottrina sancita dal Concilio di Calcedonia (451) sulla doppia natura, umana e divina, di Cristo, costò la scomunica al vescovo di Edessa, Giacobbe Baradeus, che fondò la chiesa giacobita o siro-ortodossa.
Altra città storica è Diyarbakir, l’antica Amida, sulle rive del Tigri, cantata nella Genesi come l’Eden per la sua gloriosa vegetazione. Città di frontiera, fu dominata di volta in volta dagli imperi che si affermarono in Mesopotamia: urriti, ittiti, assiri, medi, persiani, seleucidi, romani, sassanidi, bizantini, arabi, mongoli, turcomanni, ottomani.
Di queste antiche civiltà rimane quasi nulla, se si eccettuano la colossale cinta muraria in pietre nere di basalto, di origine romana, e le moschee costruite sotto le varie dinastie islamiche. Ben poco rimane delle numerose chiese della comunità cristiana, che la tradizione fa risalire alla predicazione dell’apostolo Giuda Taddeo.
La chiesa della Vergine Maria è sede dei giacobiti, di cui rimangono solo 15 famiglie. Attraverso un dedalo di viuzze del centro, raggiungiamo la chiesa dei caldei. Ci accoglie il signor Zaki Kasar: parla francese, avendo studiato a Istanbul e lavorato per 30 anni per la Nato. Una volta al mese un prete del monastero di Zafaran viene a celebrare la messa per le 30 famiglie che ancora resistono alle discriminazioni di cui sono vittime.
Sono cristiani in comunione con Roma: proprio a Diyarbakir, in seguito a uno scisma tra i nestoriani, nel 1552, fu eletto patriarca di Babilonia Giovanni Sulaqa, il quale, confermato nella sua carica dal papa Paolo iii diede origine alla chiesa caldea, rimasta in comunione con la chiesa cattolica romana.
Altre memorie cristiane, come la chiesa di Santa Maria e la basilica di San Tommaso sono sepolte sotto le mura e i minareti delle moschee; eppure rimane qualche segno, come colonne, capitelli e pavimentazione che ricordano gli antichi splendori cristiani.
Oggi la città nella «terra tra i due fiumi» è interamente e severamente musulmana: donne velate, uomini vestiti all’antica, folte barbe che fanno rizzare i baffi a Cevat: «Urfa e Diyarbakir non mi piacciono – confessa -. Vi vedo il regresso del mio paese sotto l’avanzata dell’islam più integralista».

FONDAMENTALISMO

Mentre mi emoziono nel percorrere le strade in terra biblica, Cevat appare nervoso e addita le numerose moschee in costruzione, le donne avvolte da ingombranti mantelli e il viso coperto dal velo nero, segni evidenti del prevalere della cultura araba e l’avanzare del fondamentalismo islamico.
Nato e cresciuto a Istanbul, educato nel prestigioso liceo Galatasaray, Cevat si sente legato all’occidente e, come la maggior parte dei turchi dell’ovest, spera di poter presto entrare nella Comunità europea; per le sue due figlie piccole, sogna una Turchia libera e democratica; ma si rende conto che il paese sta attraversando una situazione delicata.
«Stiamo tornando indietro» spiega Cevat, mentre mi racconta che anche a Istanbul avanza il fondamentalismo: la suocera, che vive con la sua famiglia, è stata contattata da un gruppo integralista e ora segue le direttive imposte alle donne, nell’abbigliamento e nelle preghiere.
«Ataturk aveva severamente proibito il velo: come è potuto succedere? – si domanda preoccupato -. Da tre anni sono state introdotte lezioni di religione nelle scuole di stato; per la prima volta dalla fondazione dello stato laico, si studia il Corano tradotto in turco: prima, chi lo voleva, mandava i figli alla scuola coranica, dove imparavano i versetti a memoria in arabo».
Il fondamentalismo attecchisce e avanza nelle città, gonfiate dall’immigrazione intea, soprattutto nei quartieri dove c’è povertà, disoccupazione, necessità di case. «Il contadino conduce una vita dura, prega, ma non sarà mai integralista – spiega Cevat e avverte -: in questa regione arrivano miliardi di dollari dai paesi arabi, che vengono spesi per diffondere un islam intollerante e severo. Trovare casa o lavoro diventa semplice: basta rivolgersi all’imam. Se una studentessa vuole una borsa di studio, basta che acconsenta di mettersi il velo».

LA LINGUA DI GESU’

Ricca di monumenti musulmani, originali per colori e architettura, Mardin è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio culturale dell’umanità. Fino a pochi anni fa era interdetta agli stranieri, a causa delle tensioni e i sanguinosi scontri tra il governo di Ankara e il Pkk.
Punto di passaggio tra l’alta valle del Tigri e la fertile pianura dell’Eufrate, Marida, così si chiamava anticamente, fu un altro faro d’irradiazione cristiana: nei dintorni sono sparse le vestigia di antiche parrocchie e monasteri, ancora oggi abitati da monaci e varie comunità cristiane.
Scendiamo verso la zona cristiana e bussiamo inutilmente alle porte di due chiese. Finalmente una che si apre: è quella dedicata a San Behram. Padre Gabriele, occhiali e zucchetto nero, ci accoglie cortesemente nella sua chiesa del iv secolo. Ci parla dei suoi fedeli, una comunità di aramei, eredi dell’antica chiesa di Antiochia, che parlano ancora l’aramaico, la lingua che parlava Gesù.
L’interno della piccola chiesa è molto suggestivo. Un quadro, appeso all’ingresso, ricorda il martirio di 40 cristiani in Cappadocia, affogati in un lago gelato, nel iii secolo, per ordine di un comandante romano.
«Vi sentite discriminati, in un mondo tutto islamico?» chiedo a padre Gabriele. «Noi cristiani dobbiamo emanare la luce della nostra fede. Come dice il vangelo, dobbiamo porgere l’altra guancia».
La risposta è diplomatica, ma il senso è chiaro: la vita non è facile per questo drappello di cristiani orientali, ultimi eredi di antiche tradizioni. La piccola comunità di San Behram si compone di 350 persone, il prete è eletto dai parrocchiani e vive con loro, ne è responsabile. Il patriarca abita nel monastero di Zafaran, a pochi chilometri dalla città.
Nella regione tra Mardin e Midyat sono rimasti circa in 5 mila, a causa della forte emigrazione, provocata da discriminazioni, ai limiti della persecuzione. Il resto degli aramei, circa 22 mila, in maggioranza vivono a Istanbul, altri sono emigrati in Europa, specie in Germania, dove mantengono le loro tradizioni: lunghe cerimonie religiose, sempre in aramaico.
Il monastero di Zafaran è una specie di fortezza, isolata sotto la cima rocciosa di un monte punteggiato da eremi in rovina. Anche qui si parla e prega nella lingua di Gesù.

GENOCIDIO SCONOSCIUTO

A Van, nella regione montagnosa della Turchia nord-orientale, entriamo nel cuore di quella che una volta costituiva la Grande Armenia: regno antichissimo, indipendente fin dal 93 a.C., abbracciò il cristianesimo e ne fece la religione nazionale, diventando il primo stato cristiano (301).
Sotto la dominazione di selgiuchidi, turcomanni, ottomani, che cercarono di imporre la legge coranica, gli armeni subirono pesanti discriminazioni, ma riuscirono a conservare l’identità culturale e religiosa.
Nella 1a guerra russo-turca (1774), essi accolsero lo zar come liberatore: la parte orientale dell’Armenia fu annessa alla Russia; in quella rimasta sotto il dominio turco vennero eliminati 200 mila armeni.
Alla fine del secolo xix e l’inizio del xx, i nazionalismi turco e armeno raggiunsero il parossismo. Nella speranza di risuscitare la Grande Armenia, durante la 1a guerra mondiale, gli armeni si allearono con i russi contro turchi e curdi. L’illusione affogò in un autentico genocidio: negli anni 1915-18 furono eliminati oltre 1,5 milioni di cristiani armeni; 100 mila bambini furono affidati a famiglie curde, perché cancellassero la loro identità.
I segni di quella tragica illusione sono ancora impressi nelle macerie della vecchia Van: occupata dai russi (1915-17), fu completamente distrutta nel corso della loro ritirata. Ma nei dintorni rimangono anche alcune vestigia dell’antico regno cristiano, come la chiesa di Akdamar, nell’omonima isola nel lago Van. La purezza dell’architettura e il caldo colore della pietra di questa chiesa, sono un incanto. Sulle pareti estee un antico artista ha scolpito storie bibliche e splendidi rilievi, muti testimoni della civiltà e fede di un popolo perseguitato e ignorato.
Il nazionalismo turco è palpabile. «Once vatan» (prima patria), «Che bello essere turchi» e altre scritte del genere capeggiano sulle brulle pendici dei monti delle lande desolate al confine con l’Iran. A scriverle sono i soldati di leva che, oltre a imparare a conoscere tutte le realtà della regione, devono occupare il tempo libero creando enormi scritte patriottiche con pietre e altro materiale, che siano ben visibili dalla strada.
In due giorni di viaggio non ho mai visto tanti militari. Mentre ci avviciniamo a Dogubayazit si moltiplicano i posti di blocco, con relativi controlli e perquisizioni. Siamo a 30 km dal confine iraniano e dobbiamo arrivare in albergo prima delle 19, ora di chiusura delle strade. Anche questa era terra armena, fino al genocidio del 1917.
Appena arrivati a Kars, Cevat si taglia i baffi. Ora lo vedo più disteso, in questo paese aspro di pascoli e foreste. La città mostra i segni lasciati dalla presenza russa nel xix secolo nell’urbanistica e nello stile dei palazzi: anni di incuria e intonaci scrostati non cancellano l’eleganza degli edifici ottocenteschi.
Dominata dalla mole della fortezza di pietra nera c’è una chiesa armena dalla tipica cupola su tamburo ottagonale, chiusa al culto da quando tutti gli armeni se ne sono andati, sotto l’incalzare del genocidio dimenticato.
Più sconvolgente è la visita ad Ani, la splendida capitale medioevale della Grande Armenia, al confine con l’Armenia ex sovietica. Le mura sono in via di restauro; è un buon segno; ma all’interno gli eleganti e raffinati edifici sono ruderi, sparsi in una vasta area diventata prateria. Numerose e straordinarie sono le chiese; una in particolare conserva affreschi che stanno svanendo sotto la furia delle intemperie.
Ani è una «città morta». È proibito fotografare, per non testimoniare il disfacimento di un sito sacro agli armeni di tutto il mondo.

THALATTA! THALATTA!

In viaggio verso ovest, sostiamo a Erzurum: anche qui un tempo vivevano una fiorente chiesa armena e una consistente comunità cattolica. Se ne sono andati quasi tutti; delle loro belle chiese neppure una traccia.
Ancora due alti passi montani e scendiamo verso Trabzon, sulla costa del mar Nero. Ma prima risaliamo fino a 1.200 metri di altitudine, per visitare il monastero di Sumela.
Inserito nella parete rocciosa a picco su una valle verdissima e fiorita di rododendri, il monastero appare come un sogno tra le nuvole. Per 15 secoli è stato un centro importante del monachesimo orientale (vedi riquadro).
Rifugio ideale per la preghiera e la contemplazione, è raggiungibile solo con una lunga arrampicata, su un sentirnero pietroso e una stretta scala di pietra. Gli affreschi della cappella principale sono stati sfregiati da molto tempo da ignoti e ignobili visitatori, ma la bellezza del luogo è ancora intatta.
Finalmente raggiungiamo Trabzon e possiamo gridare anche noi: «Mare! Mare!», come fecero, nel 400 a.C., Senofonte e i suoi «Diecimila» soldati di ritorno da Babilonia, dopo 3.200 km a piedi, attraverso le montagne e le popolazioni dell’Anatolia orientale.
Antica città greca, fondata da emigranti di Trapezos, in Arcadia, Trebisonda ci è familiare, essendo entrato in un nostro proverbio: perdere la trebisonda. Il suo nome, però, è presente anche nei racconti di missionari e viaggiatori del tardo medioevo: di qui passarono molti francescani e domenicani per evangelizzare le terre del Medio ed Estremo Oriente, fino alla Cina.
La città rimase per alcuni secoli l’ultimo baluardo della civiltà bizantina, finché fu conquistata dai turchi e annessa all’impero ottomano (1461). Fino a questo tempo la chiesa godette di una vitalità che le costruzioni architettoniche di quel tempo ancora attestano.
Il monumento più bello è la chiesa di Santa Sofia, eretta nel xiii secolo da Alessio iii Commeno, a ricordo della più famosa e grande basilica di Costantinopoli. Trasformata in moschea, gli affreschi e i mosaici furono coperti da intonaco, finché i restauri degli anni sessanta li hanno riportati agli antichi splendori e la basilica è stata ridotta a museo. Altre belle chiese invece, come Sant’Anna, Sant’Andrea, Sant’Eugenio, la Vergine dalla testa d’oro, continuano a funzionare come moschee.
A differenza delle città della Turchia orientale, Trabzon appare modea, vivace e cosmopolita. Alla tanta vivacità non sono estranei gli oleodotti che portano il greggio dal Caucaso e dall’Asia Centrale.
Ma il fatto più positivo è che, anche dentro le vecchie mura ottomane, le strade sono affollate di ragazze in jeans e maglietta; pochissime portano il velo islamico: segno che da queste parti l’integralismo islamico non ha ancora affondato le sue radici, con buona pace dell’anima di Ataturk e dei baffi di Cevat.

MONASTERO TRA CIELO E TERRA

Secondo la tradizione, il famoso monastero di Sumela (oggi Maryemana manastiri, monastero della Madre Maria) fu fondato dai monaci ateniesi Baaba e Sofronio, seguito a una visione della Vergine, che chiese loro di costruire un monastero nel Ponto, sul mar Nero. Lasciato il loro eremo nella penisola calcidica in Grecia, portando con sé un’icona della Madonna attribuita a san Luca, raggiunsero questo luogo e si stabilirono nelle grotte di alto roccione, a picco su un torrente ricco d’acqua delle Alpi pontiche. Nella grotta più ampia stabilirono la cappella della Madonna. Era l’anno 385.
La fama del santuario della «Vergine della montagna nera» (in greco Panaghia tou mélas, da cui Sumela) e della loro santità si sparse rapidamente ed aumentò dopo la loro morte, avvenuta nel 412 (nello stesso giorno attesta la tradizione) e attirò pellegrini, offerte e, soprattutto, altri monaci. In poco tempo Sumela divenne uno dei centri più importanti del monachesimo orientale.
La posizione, resa inaccessibile con opportuni accorgimenti, e le fortificazioni costruite resero il monastero inviolabile per secoli, un’oasi di pace in mezzo a un turbinio di guerre e di lotte. Il momento massimo di splendore fu raggiunto tra il 1200 e il 1400, grazie ai favori degli imperatori di Bisanzio, che ne promossero i lavori di ricostruzione, fortificazione e abbellimento mediante gli affreschi.
Con la conquista della regione da parte degli ottomani (1461), il sultano prese il monastero sotto la sua protezione e ne garantì la sopravvivenza pacifica, garantendo ai monaci la proprietà del monastero e dei terreni adiacenti.
I monaci continuarono la loro attività pacifica e spirituale fino agli ultimi anni della prima guerra mondiale, quando abbandonarono il monastero al momento dell’avanzata dell’esercito russo; vi ritornarono poco dopo, ma dovettero andarsene definitivamente nel 1923, alla conclusione della guerra greco-turca.
Ancora oggi, gli edifici conventuali, abbarbicati sul fianco di un ripido dirupo, appaiono dalla valle come sospesi tra cielo e terra. Ma all’interno si vedono subito i segni lasciati da decenni di abbandono, depredazioni e atti vandalici di ogni genere, che hanno ridotto il complesso a poco più di un rudere. Eppure il poco che rimane di affreschi e opere murarie danno ancora un’idea dello splendore di questo monastero.

Claudia Caramanti




MONGOLIA (2)A passi… lesti

Dopo il grande gelo del regime comunista,
la Mongolia è alla riscoperta della religione
e della coscienza nazionale: un cammino
in cui si inserisce la chiesa cattolica. Ha solo 12 anni, ma con tutti i segni di una crescita sorprendente.

I paesi afflitti da gravi problemi economici e sociali rischiano spesso di perdere i valori tradizionali: non sembra sia questo il caso della Mongolia. Dopo la persecuzione religiosa, durante il regime sovietico-comunista, molti mongoli attendono la venuta di un grande personaggio, capace di scuotere il mondo con verità e saggezza: un uomo che possa aprire un’era nuova. Ne è una prova l’entusiasmo dimostrato da tutta la popolazione, nel 1991, in occasione della visita in Mongolia dell’ultimo discendente di Gengis Khan, il principe Dschero Khan, accolto come un re.
Nel paese, inoltre, si assiste a un risveglio della coscienza nazionale e, grazie alla riapertura di molti templi, alla riscoperta di antichi riti. Opere cinematografiche, letterarie e artistiche in generale traggono ispirazione dal patrimonio culturale tradizionale, interpretato in chiave profetica.
Sono soprattutto i giovani a farsi protagonisti della riscoperta del passato e a cercare con entusiasmo una verità più profonda, mantenendo viva la speranza di un futuro migliore. Ma al tempo stesso, corrono dietro a ciò che viene «importato» dall’estero, specialmente da Europa e Usa, alle novità introdotte nel paese attraverso la televisione e internet.

GIOVANE CHIESA
CHIESA DI GIOVANI

Uno dei segni più confortanti è vedere la grande sete di Dio che hanno i giovani e i mongoli in generale; il loro cuore aperto e disposto ad accogliere la «novità» del vangelo.
Per 65 anni la dittatura comunista si era adoperata con ogni mezzo, compresa la distruzione di 750 monasteri e l’assassinio di oltre 3.000 monaci, per cancellare ogni traccia di religiosità dall’animo della popolazione mongola.
Tale regime, però, è riuscito solo a provocare un enorme vuoto, che oggi alcuni sentono di poter colmare avvicinandosi a Gesù Cristo e al suo vangelo: le piccole chiese sono affollate e le comunità cristiane sono in continuo aumento. Numerosi sono i catecumeni, in maggioranza giovani e adulti, che si preparano al battesimo.
Sebbene la prima evangelizzazione in Mongolia risalga al vii secolo, in pratica la chiesa in questa regione è nata appena 12 anni fa: è una chiesa giovane, anche per l’età dei suoi membri. Giovani sono pure i missionari, provenienti da diversi paesi, che stanno spargendo i semi del vangelo e garantiscono una speranza di continuità. Fra i missionari cattolici, se si eccettua il vescovo, il più «vecchio» è il padre Eesto Viscardi, missionario della Consolata, che, a 53 anni, si sta inserendo nella chiesa locale con l’entusiasmo delle sue prime esperienze missionarie.
«La Mongolia è una terra di opportunità, un luogo in cui il messaggio di Gesù è praticamente sconosciuto – mi disse un giorno il pastore avventista Christian Grame, cornordinatore del progetto Mission Mongolia -. Sotto il comunismo tutte le religioni furono dichiarate fuori legge e la gente, in pratica, non ha mai sentito parlare di Dio, ma oggi è aperta e interessata ad apprendere».
Nei primi anni della missione cattolica (1992-93), gli unici fedeli che partecipavano all’eucaristia, celebrata in alcuni appartamenti, erano esclusivamente cittadini stranieri. Successivamente si unirono a loro le prime persone della popolazione locale, gettando così le basi della chiesa locale.
Oggi, la chiesa in Mongolia ha il suo vescovo e tre parrocchie con quasi 200 battezzati mongoli, un consistente numero di catecumeni, numerosi gruppi e opere di apostolato, strutture pastorali assai frequentate e molto attive, come asili, un collegio politecnico, centri di attenzioni ai bambini di strada, un istituto per disabili, una casa per ragazze madri. Tutto è portato avanti da 48 missionari e istituti religiosi.
Se si pensa che fino a 10 anni fa non esisteva nulla (comunità, operatori pastorali, strutture), non possiamo non vedere in tutto questo l’opera dello Spirito, che guida con mano sicura la chiesa nascente, nonostante le difficoltà che a prima vista appaiono insormontabili.

CRISTO: MESSIA O NOVITA’

Una professoressa di lingua e cultura mongola mi diceva: «I vecchi sono buddisti; quelli di mezza età, come me, siamo atei; i giovani vogliono essere cristiani». Non so fino a che punto sia vera tale affermazione; è certo, però, che il cristianesimo è una novità per una popolazione che ha conosciuto questa religione solo dopo l’anno 1992, quando il nuovo regime ha aperto le porte alle differenti chiese cristiane, che oggi sono circa una quarantina.
Sono gli adolescenti e i giovani che si mostrano molto più aperti e interessati al cristianesimo. Incuriositi, partecipano alle celebrazioni, incontri e altri momenti della vita della giovane chiesa.
Dal momento che il 35,5% della popolazione mongola è sotto i 15 anni e il 50% ne ha meno di 25, i giovani sono non solo il futuro, ma anche il presente. Essi costituiscono, al tempo stesso, una sfida e una speranza, che ci impegna a cercare la strada migliore per la nostra attività di evangelizzazione. In Mongolia, infatti, non possiamo entrare nelle scuole. Anche in quelle cattoliche non si può esporre alcun segno religioso. Nemmeno la cattedrale ha la croce all’esterno dell’edificio. Fuori del tempio non sono ammesse manifestazioni religiose pubbliche.
Come possiamo farci conoscere? L’unica strada percorribile è quella di diventare persone dal cuore giovane e testimoni dell’amore. La testimonianza attrae molte persone, che si mettono in cammino con noi.
L’ultima parrocchia, eretta meno di due anni fa, ha iniziato con diverse attività per giovani: corsi di inglese, principalmente, di musica, danza, cucito. E poiché tali iniziative si tenevano in luoghi senza insegna, erano i giovani stessi a fare pubblicità: «Vieni a vedere» dicevano i pionieri ai coetanei che domandavano dove si svolgessero tali corsi.
In questo modo i giovani conoscevano padre Felix, un sacerdote africano, alto e simpatico, che riceve tutti con uno smagliante sorriso.
Simpatia, amabilità, amore, insieme ai corsi, è quanto la piccola comunità cattolica offre ai giovani. Nessuno è obbligato a partecipare alla messa o altre attività religiose. Ma subito essi si domandano: «Perché questi stranieri si interessano di noi? Da che cosa sono mossi? Andiamo a vedere!».
E le celebrazioni, inizialmente frequentate da un pugno di persone, due suore e pochi mongoli, cominciano ad essere affollate da adolescenti e giovani; i canti passano gradualmente dall’inglese al mongolo: oggi, canti, letture, preghiere, tutto avviene in lingua locale.
Ogni sabato e domenica si formano gruppi di discussione, tanto che lo spazio è ormai insufficiente per accogliere tutti e la comunità si sta muovendo per comperare un terreno dove costruire una struttura più ampia per dare vita a nuove attività.
Padre Felix continua a dire ai giovani: «Ricordate, domenica prossima dovete invitare un altro amico». E così avviene: chi diventa amico di Gesù, vuole comunicare ad altri la sua scoperta. E ognuno diventa apostolo nel proprio ambiente.

PARTICOLARI ATTENZIONI

Negli ultimi 10 anni sono molte le chiese cristiane arrivate in Mongolia: tutte confermano che i mongoli sono aperti al cristianesimo, anche se le cifre non sono esaltanti: su una popolazione di 2,5 milioni, i battezzati nelle varie confessioni sono poche centinaia. Il gruppo più numeroso, con circa 400 membri, è quello della chiesa avventista, presente nel paese dal 1993. Essa è sostenuta dagli avventisti australiani, che hanno fatto un gemellaggio di solidarietà e cooperazione con la rispettiva comunità in Mongolia. Con lo stesso approccio si muovono altre chiese evangeliche, come quella dei pentecostali, sostenuti da coreani e americani.
Anche le piccole comunità cattoliche crescono grazie agli aiuti delle chiese sorelle sparse nel mondo. Si tratta infatti di una chiesa ancora bimba, che sta muovendo i primi passi, fragile e povera di mezzi materiali e di personale.
Lo ha ricordato anche il cardinale Crescenzio Sepe, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (ex Propaganda fide), nel discorso pronunciato a Città del Guatemala il 26 novembre 2003, in occasione dell’apertura del secondo Congresso americano missionario: «In numerosi paesi dell’Asia, la chiesa sta facendo i primi passi. Pochi mesi fa sono stato in Mongolia per la consacrazione episcopale del primo prefetto apostolico di Ulaanbaatar, mons. Wenceslao Padilla, missionario di Scheut, filippino. La sua comunità cattolica non arriva ancora a 200 persone».
Eppure è una comunità che desta gli entusiasmi e le attenzioni di una chiesa nascente, come ai primi tempi apostolici. Così si esprime lo stesso cardinale, in occasione della sua seconda visita in Mongolia a distanza di un anno: «Come un padre o una madre di famiglia, pur avendo molti figli, rivolgono naturalmente le loro attenzioni soprattutto a quelli più piccoli, perché maggiormente bisognosi di essere aiutati nella loro crescita, così la giovane chiesa della Mongolia può rappresentare il figlio appena nato: dopo i primi vagiti ha bisogno di cure e attenzioni per irrobustirsi, per crescere e poi camminare sulle proprie gambe.
Guardando alla storia di questa nazione, si può parlare di una crescita prodigiosa della chiesa in un periodo di tempo abbastanza breve. Vedere i missionari e i fedeli dedicarsi senza riserve all’assistenza dei più deboli, considerandoli come fratelli, senza fare differenze di alcun tipo, è spesso una scintilla che accende il fuoco della fede e genera nuove conversioni. Soprattutto i giovani si lasciano coinvolgere con grande disponibilità e generosità. Il santo padre ha più volte ripetuto in 25 anni di pontificato, che i giovani sono la speranza della chiesa: sono sicuro che essi sono anche la speranza della giovane chiesa della Mongolia».
(Fine seconda puntata – continua)

Box 1

IL PAPA E’ ATTESO

P rofondamente ancorati allo sciamanismo, per tre secoli i mongoli furono padroni dell’Asia e parte dell’Europa; sottomisero civiltà millenarie, ma anziché distruggee tradizioni, arte, cultura e religioni, le assorbirono, costituendo un impero immenso e straordinariamente variegato.
Il francescano Guglielmo di Rubruck, che nel 1255 raggiunse l’antica capitale Karakorum, nel suo vivacissimo resoconto riferì di una cultura sorprendentemente dinamica e tollerante. Sul suo cammino incontrò templi buddisti, moschee, chiese cristiane nestoriane, e dappertutto gli obbo, cumuli di pietre votive di ispirazione sciamanica.
Qualche anno prima (1246), Giovanni da Pian del Carpine era stato inviato da Innocenzo iv per sondare la possibilità di un’alleanza contro l’islam. La risposta del Khan fu molto decisa: «Se il papa vuole parlarmi, venga di persona».
Dai tempi dei missionari francescani in oriente gli orizzonti sono cambiati. Dopo mezzo millennio di umiliante sottomissione alla Cina e alla Russia, che la schiacciano anche geograficamente, la Mongolia sta timidamente cercando di rialzare la testa. E anche l’esigua comunità cattolica dà il suo contributo prezioso.
I mongoli aspettano il papa, che l’anno scorso ha cancellato la sua visita programmata per il mese di agosto. «Sembra incredibile – rivela padre Pier Kasemuana, congolese, provinciale dei missionari di Scheut e professore all’Università di Ulaanbaatar -, ma Giovanni Paolo ii è amato profondamente dai mongoli, una popolazione così lontana e quasi totalmente buddista».

Uan Carlos Greco