AfroItalyfashion in passerella

NON SOLO MODA

Da una frivola sfilata di moda a una solidarietà
attenta ai bisogni… lontani, ma resi più vicini dall’interesse e dallo scambio.

Successo inaspettato quello che gli organizzatori di AfroItalyFashion hanno ricevuto nella piazzetta Audifreddi, proprio sotto il palazzo comunale, nella parte antica di Cuneo: una manifestazione giunta alla sua quarta edizione, che ha avuto come partners l’Accademia di Belle Arti di Cuneo e l’Organizzazione «Mission Sinan Onlus» di Abidjan (Costa d’Avorio).
La manifestazione ha permesso al pubblico cuneese di conoscere la bellezza e l’originalità degli abiti realizzati dai giovani stilisti che, tra poco, usciranno dall’Accademia per affrontare il grande e variegato mondo della moda.
I preparativi per la sfilata sono stati cornordinati dalla vulcanica signora Lucchini, direttrice dell’Accademia che, avendo compreso appieno lo spirito della manifestazione, ha accettato senza remore di guidare il lavoro dei suoi allievi, preparandoli a quello che per molti è stato un vero e proprio… battesimo del pubblico.
Così, le creazioni italiane si sono miscelate alle migliori firme della moda africana e agli abiti fatti arrivare apposta da Kone Lacina, presidente di Mission Sinan; una trentina di abiti, creati per AfroItalyFashion da stilisti guidati da un ideale comune: dimostrare che quella africana è una cultura con radici antichissime, che l’Africa è un paese che segue i fasti di un tempo e che, proprio nella sua gente, ha la carta vincente per uscire da una situazione economica infelice e, a volte, drammatica.
«Abbiamo scelto la città di Cuneo – dice il direttore artistico della manifestazione, dott. Diego Cudia – per far conoscere un mondo lontano, eppure a noi molto vicino; per dare un segnale forte dell’impegno che persone di nazionalità diversa hanno preso, nella ricerca di un sogno possibile, per spirito umanitario».
Nato come semplice concorso di bellezza chiamato «miss Africa in Italy», la manifestazione si è arricchita di contenuti sociali e culturali, anche attraverso l’opera di professionisti e collaboratori che, con il tempo, hanno capito come AfroItalyFashion non è solo la presentazione di opere della moda, bensì la manifestazione di un pensiero che nasce dal cuore e trova ragione di essere attraverso l’arte e lo spettacolo.
Mission Sinan crede nella formula di questa manifestazione e ne supporta la realizzazione: «Il giorno in cui l’amico Diego Cudia mi ha telefonato – dice Kone Lacina -, sono stato felice di aderire, anche se ciò ha significato passare diverse settimane a cercare gli abiti migliori dei maggiori stilisti africani. Quando anche lo stilista personale di Nelson Mandela mi aveva concesso la sua fiducia, ho capito che stavo lavorando per qualcosa di molto importante e utile per tutti noi; così, attraverso gli abiti, la musica, le persone, gli oggetti che ho potuto inserire nella manifestazione AfroItalyFashion, posso comunicare al grande pubblico l’opera che Mission Sinan compie in Italia ogni giorno».

Mission Sinan» in Italia si preoccupa di raccogliere attrezzature e materiali sanitari dismessi e, grazie al lavoro di alcuni volontari, li recupera e ripristina il loro funzionamento originario, inviandoli nei paesi in cui queste tecnologie possono diventare un aiuto per la vita. L’organizzazione si preoccupa del benessere sociale, lotta contro la povertà, prevenzione delle malattie; infine, si fa carico e concorre in tutti i settori per finalità di pubblica utilità.
«Questo lavoro – continua Kone Lacina – richiede locali, automezzi, materiali dai costi molto pesanti; è solo attraverso varie attività di autofinanziamento che il gruppo riesce a sopravvivere e lavorare. Ecco perché Mission Sinan, in collaborazione con la Didacus Communication, organizza manifestazioni quali l’AfroItalyFashion in cui gli introiti sono destinati a finanziare l’organizzazione stessa».
I prodotti abbandonati (da ospedali, case di cura, ditte foitrici, singoli medici…), che non hanno più alcun valore nel mondo occidentale, trovano un’enorme rivalutazione nel terzo mondo e, in special modo, in Costa d’Avorio, paese a tutt’oggi diviso da una guerra civile assurda.
L’iniziativa di recupero dei materiali sanitari è nata nel 1998, anno in cui la clinica «Città di Bra» (nel cuneese) dismetteva le più svariate attrezzature ospedaliere. È stato così possibile raccogliere e inviare questo materiale nel centro di cura situato sull’autostrada Abobo Ayama, al fine di assistere i bisognosi e riabilitare i suoi centri chirurgici e diagnostici, i quali sono sprovvisti di materiali sanitari ed assistenziali.
Con la manifestazione AfroItalyFashion, Mission Sinan rivolge un appello a tutti coloro che possono collaborare per dare uno sviluppo all’Associazione, dai singoli individui, ai professionisti, alle grosse società. Essa ha bisogno di materiale sanitario, mobili e un eventuale deposito per sistemare il tutto, affinché venga ripristinato e spedito in Costa d’Avorio. Naturalmente, sono graditi anche contributi in denaro per l’acquisto di materiali, utili allo scopo.

I professionisti che lavorano per AfroItalyFashion hanno accettato di devolvere il proprio compenso economico a favore di Mission Sinan: la grande ballerina e coreografa Leo Navas, poi, ha saputo dare un’impronta musicale ben definita e professionalmente valida alla manifestazione.
«Collaboro ad AfroItalyFashion da diversi anni, con l’incarico di studiare e realizzare le coreografie migliori e sempre all’altezza del tono della manifestazione – dice Leo durante -. Il direttore artistico Diego Cudia è sempre molto esigente e ha ragione, perché questa manifestazione è tutta permeata di musica, per cui canzoni, balletti e coreografie devono trasmettere al pubblico non solo emozioni forti, ma anche sentimenti di umanità e riflessione verso la natura stessa dell’uomo e dell’ambiente che si trova ad occupare».
Con queste parole, Leo dimostra la grande professionalità e bravura che solo una ballerina di talento può avere, sia come retaggio culturale (Cuba è il suo paese d’origine), sia come esperienza nel mondo dello spettacolo.
Un’altra donna è stata chiamata per curare la fotografia e riprese video della manifestazione: è Gabriella Melfa, titolare dello Studio «Area Fotografica» di Torino. Sono riuscito ad avvicinarla mentre organizzava con i suoi tecnici il parco luci intorno alla passerella allestita per la sfilata, cercando i punti adatti per ottenere i migliori risultati.
«Sono stata selezionata fra decine di professionisti; molti si presentavano con i lavori più differenti; io avevo il mio portfolio, composto in larga misura di ritratti di persone e, soprattutto, di bambini. Il direttore artistico mi aveva chiamato dicendomi che, se ero stata così brava a riprendere le espressioni più belle dei bambini, potevo essere in grado di valorizzare al massimo gli abiti e gli stessi indossatori/indossatrici di AfroItalyFashion».
Queste immagini fanno il giro del mondo attraverso giornali, tv, internet; così è possibile raggiungere i paesi più lontani, dando dimostrazioni di grande solidarietà verso chi è meno fortunato di noi e si trova in condizioni molto povere.
Arrivederci, allora, alla prossima edizione di AfroItalyFashion!

Per informazioni, si può contattare la sede italiana di Mission Sinan in via Emanuela Loi, 8 – 12100 Cuneo;
tel. 0171.403.574; oppure comporre i nn. 320-3734039 – 339-3701387 (Didacus Communication).Successo inaspettato quello che gli organizzatori di AfroItalyFashion hanno ricevuto nella piazzetta Audifreddi, proprio sotto il palazzo comunale, nella parte antica di Cuneo: una manifestazione giunta alla sua quarta edizione, che ha avuto come partners l’Accademia di Belle Arti di Cuneo e l’Organizzazione «Mission Sinan Onlus» di Abidjan (Costa d’Avorio).
La manifestazione ha permesso al pubblico cuneese di conoscere la bellezza e l’originalità degli abiti realizzati dai giovani stilisti che, tra poco, usciranno dall’Accademia per affrontare il grande e variegato mondo della moda.
I preparativi per la sfilata sono stati cornordinati dalla vulcanica signora Lucchini, direttrice dell’Accademia che, avendo compreso appieno lo spirito della manifestazione, ha accettato senza remore di guidare il lavoro dei suoi allievi, preparandoli a quello che per molti è stato un vero e proprio… battesimo del pubblico.
Così, le creazioni italiane si sono miscelate alle migliori firme della moda africana e agli abiti fatti arrivare apposta da Kone Lacina, presidente di Mission Sinan; una trentina di abiti, creati per AfroItalyFashion da stilisti guidati da un ideale comune: dimostrare che quella africana è una cultura con radici antichissime, che l’Africa è un paese che segue i fasti di un tempo e che, proprio nella sua gente, ha la carta vincente per uscire da una situazione economica infelice e, a volte, drammatica.
«Abbiamo scelto la città di Cuneo – dice il direttore artistico della manifestazione, dott. Diego Cudia – per far conoscere un mondo lontano, eppure a noi molto vicino; per dare un segnale forte dell’impegno che persone di nazionalità diversa hanno preso, nella ricerca di un sogno possibile, per spirito umanitario».
Nato come semplice concorso di bellezza chiamato «miss Africa in Italy», la manifestazione si è arricchita di contenuti sociali e culturali, anche attraverso l’opera di professionisti e collaboratori che, con il tempo, hanno capito come AfroItalyFashion non è solo la presentazione di opere della moda, bensì la manifestazione di un pensiero che nasce dal cuore e trova ragione di essere attraverso l’arte e lo spettacolo.
Mission Sinan crede nella formula di questa manifestazione e ne supporta la realizzazione: «Il giorno in cui l’amico Diego Cudia mi ha telefonato – dice Kone Lacina -, sono stato felice di aderire, anche se ciò ha significato passare diverse settimane a cercare gli abiti migliori dei maggiori stilisti africani. Quando anche lo stilista personale di Nelson Mandela mi aveva concesso la sua fiducia, ho capito che stavo lavorando per qualcosa di molto importante e utile per tutti noi; così, attraverso gli abiti, la musica, le persone, gli oggetti che ho potuto inserire nella manifestazione AfroItalyFashion, posso comunicare al grande pubblico l’opera che Mission Sinan compie in Italia ogni giorno».

M ission Sinan» in Italia si preoccupa di raccogliere attrezzature e materiali sanitari dismessi e, grazie al lavoro di alcuni volontari, li recupera e ripristina il loro funzionamento originario, inviandoli nei paesi in cui queste tecnologie possono diventare un aiuto per la vita. L’organizzazione si preoccupa del benessere sociale, lotta contro la povertà, prevenzione delle malattie; infine, si fa carico e concorre in tutti i settori per finalità di pubblica utilità.
«Questo lavoro – continua Kone Lacina – richiede locali, automezzi, materiali dai costi molto pesanti; è solo attraverso varie attività di autofinanziamento che il gruppo riesce a sopravvivere e lavorare. Ecco perché Mission Sinan, in collaborazione con la Didacus Communication, organizza manifestazioni quali l’AfroItalyFashion in cui gli introiti sono destinati a finanziare l’organizzazione stessa».
I prodotti abbandonati (da ospedali, case di cura, ditte foitrici, singoli medici…), che non hanno più alcun valore nel mondo occidentale, trovano un’enorme rivalutazione nel terzo mondo e, in special modo, in Costa d’Avorio, paese a tutt’oggi diviso da una guerra civile assurda.
L’iniziativa di recupero dei materiali sanitari è nata nel 1998, anno in cui la clinica «Città di Bra» (nel cuneese) dismetteva le più svariate attrezzature ospedaliere. È stato così possibile raccogliere e inviare questo materiale nel centro di cura situato sull’autostrada Abobo Ayama, al fine di assistere i bisognosi e riabilitare i suoi centri chirurgici e diagnostici, i quali sono sprovvisti di materiali sanitari ed assistenziali.
Con la manifestazione AfroItalyFashion, Mission Sinan rivolge un appello a tutti coloro che possono collaborare per dare uno sviluppo all’Associazione, dai singoli individui, ai professionisti, alle grosse società. Essa ha bisogno di materiale sanitario, mobili e un eventuale deposito per sistemare il tutto, affinché venga ripristinato e spedito in Costa d’Avorio. Naturalmente, sono graditi anche contributi in denaro per l’acquisto di materiali, utili allo scopo.

I professionisti che lavorano per AfroItalyFashion hanno accettato di devolvere il proprio compenso economico a favore di Mission Sinan: la grande ballerina e coreografa Leo Navas, poi, ha saputo dare un’impronta musicale ben definita e professionalmente valida alla manifestazione.
«Collaboro ad AfroItalyFashion da diversi anni, con l’incarico di studiare e realizzare le coreografie migliori e sempre all’altezza del tono della manifestazione – dice Leo durante -. Il direttore artistico Diego Cudia è sempre molto esigente e ha ragione, perché questa manifestazione è tutta permeata di musica, per cui canzoni, balletti e coreografie devono trasmettere al pubblico non solo emozioni forti, ma anche sentimenti di umanità e riflessione verso la natura stessa dell’uomo e dell’ambiente che si trova ad occupare».
Con queste parole, Leo dimostra la grande professionalità e bravura che solo una ballerina di talento può avere, sia come retaggio culturale (Cuba è il suo paese d’origine), sia come esperienza nel mondo dello spettacolo.
Un’altra donna è stata chiamata per curare la fotografia e riprese video della manifestazione: è Gabriella Melfa, titolare dello Studio «Area Fotografica» di Torino. Sono riuscito ad avvicinarla mentre organizzava con i suoi tecnici il parco luci intorno alla passerella allestita per la sfilata, cercando i punti adatti per ottenere i migliori risultati.
«Sono stata selezionata fra decine di professionisti; molti si presentavano con i lavori più differenti; io avevo il mio portfolio, composto in larga misura di ritratti di persone e, soprattutto, di bambini. Il direttore artistico mi aveva chiamato dicendomi che, se ero stata così brava a riprendere le espressioni più belle dei bambini, potevo essere in grado di valorizzare al massimo gli abiti e gli stessi indossatori/indossatrici di AfroItalyFashion».
Queste immagini fanno il giro del mondo attraverso giornali, tv, internet; così è possibile raggiungere i paesi più lontani, dando dimostrazioni di grande solidarietà verso chi è meno fortunato di noi e si trova in condizioni molto povere.
Arrivederci, allora, alla prossima edizione di AfroItalyFashion!

Per informazioni, si può contattare la sede italiana di Mission Sinan in via Emanuela Loi, 8 – 12100 Cuneo;
tel. 0171.403.574; oppure comporre i nn. 320-3734039 – 339-3701387 (Didacus Communication).

Dino Sassi




Appunti (nostalgici) di un giovane missionario

DOVE L’UTOPIA MUOVE LE MONTAGNE

Tre anni trascorsi tra gli indios Nasa del Cauca.
Viaggio di ricordo tra tanti ricordi all’orizzonte un futuro diverso

Il fuoristrada bianco con il quale ho condiviso tanti chilometri durante questi ultimi due anni e mezzo di vita missionaria scende, quasi controvoglia, per la strada sterrata che da Toribío conduce alla pianura della valle del Cauca, destinazione l’aeroporto di Cali. Sembra quasi che la macchina rifletta i sentimenti di chi, in questi mesi, a lei si è affidato per potersi spostare fra le varie comunità, come se avesse un’anima anche lei, povero ammasso di ferro e plastica, e volesse manifestare il dispiacere dell’addio.
Non guido – il piccolo incidente al ginocchio che ha fatto anticipare il mio rientro in patria non me lo permette – e questo fa sì che possa guardare con calma dal finestrino, ripercorrere tratti di cammino conosciuti, vedere per l’ultima volta luoghi familiari e visi che riconosco e che saluto con un cenno del capo. La tristezza sta nel fatto che da oggi in avanti di questi posti e di questa gente potrò solo parlare ad altri, senza aver più un giornaliero contatto diretto con loro. Non mi sono trattenuto molto in questi luoghi, poco meno di tre anni.
Non c’è momento più denso e adatto dell’addio, credo, per iniziare una piccola relazione di un’esperienza di missione, come se in un’ultima fotografia si potesse rappresentare la totalità delle immagini che hanno riempito la mia mente in tutti questi giorni. È come rigirarsi fra le mani un’istantanea che rappresenta una comunità, con la sua organizzazione, i suoi giovani, i suoi anziani e tutte le persone che le strade polverose del Cauca mi hanno fatto incontrare.
Con questa comunità, con queste persone, cammina da più di vent’anni l’equipo misionero, un gruppo formato da missionari della Consolata, religiose e laici, che condividono vita e lavoro al servizio di questa gente (box).

CONTRATTO A TERMINE
È in questo contesto dove sono atterrato, nel settembre del 2002, con in tasca una specie di contratto a termine con la missione vissuta, per così dire, sul campo. In tasca qualche sogno, molte paure e tanta, tanta voglia di conoscere.
Il primo passo che ho dovuto fare è stato quello di rendermi conto che, sebbene fossi stato destinato alla Colombia per un tempo relativamente breve, non avrei potuto svolgere il mio lavoro in maniera efficiente senza impegnarmi totalmente in questa nuova realtà. È stato quindi necessario cercare di dimenticare, per quanto possibile, il futuro ed attenermi alle circostanze presenti, lasciandomi coinvolgere dalla situazione come se avessi dovuto lavorare per sempre in quel contesto. Come si può facilmente immaginare non è stata un’operazione facile, ma in questo sono stato aiutato enormemente dall’equipo misionero e dallo stile di missione che, in questi anni, esso ha cercato di portare avanti.
Il grande lavoro di riflessione e di progettazione che il gruppo aveva condotto durante la sua storia era lì a mia disposizione, un immenso materiale che ben presto ha riempito la mia stanza, pronto per essere letto, assimilato e discusso nelle periodiche riunioni che l’equipo organizza con lo scopo di valutare ed orientare il lavoro nel modo più omogeneo possibile.
La chiesa latinoamericana, nei suoi documenti di Medellín, Puebla e Santo Domingo ha sempre spinto il lavoro missionario verso un’opera di evangelizzazione che fosse in sintonia con le culture alle quali era diretta, liberatrice e condivisa dalle varie forze ecclesiali che la animano. Queste tre dimensioni sono state accolte dalla nostra presenza nel Cauca come una sfida da portare avanti con coerenza nel suo progetto di lavoro.
La dimensione del lavoro in équipe aiuta a comprendere meglio una realtà culturalmente differente permettendo, a coloro che si uniscono in un secondo tempo, di approfittare di un cammino già fatto, di evitare errori già commessi e di dar valore ai contributi che vengono dai membri stessi della comunità in modo che il messaggio del vangelo trovi nel contatto con un’altra cultura tutta la sua forza liberatrice. Chiaramente tutto ciò mette in crisi, almeno all’inizio, il desiderio di “fare”, di buttarsi immediatamente nella mischia e richiede una buona dose d’ascolto e di condivisione. Ciò che uno ha appreso negli anni di formazione o di precedente esperienza pastorale e che forma la sintesi personale, il sogno della missione di ciascuno, deve entrare in contatto con una realtà specifica, che richiede preparazione, adattamento e talvolta sacrificio da parte del singolo operatore pastorale.

L’INCONTRO CON LA CULTURA NASA
La prima grande sfida che ho dovuto affrontare è stata quella relativa al dialogo fra culture e all’inculturazione del messaggio cristiano. L’aver sempre vissuto, come nel mio caso, in un contesto occidentale (Italia, Inghilterra e Stati Uniti) ha significato un cambio di rotta e un’apertura ad una cultura differente, il passaggio da un mondo tecnicizzato ad un universo tutto sommato ancora mitico, seppur messo in crisi dal rapido avanzare della modeità. Il modo di ragionare “circolare”, dove non sempre le conclusioni sono il frutto di un sillogismo, la visione collettivista della vita e la poca importanza data alla persona, il continuo appellarsi a forze spirituali e naturali come veri responsabili dei vari avvenimenti che segnano il corso dell’esistenza e che cancella quasi completamente la responsabilità personale, sono solo alcuni esempi della difficoltà di entrare in un mondo diverso, senza lasciarsi condizionare dai pregiudizi frutto della nostra formazione.
Uno dei grandi aiuti che ho ricevuto è stato il poter seguire la formazione dei delegados de la palabra, i catechisti locali. È a loro che devo il merito di essermi potuto inserire gradualmente in un mondo che non conoscevo. Ciò che avevo appreso negli anni precedenti e che potevo offrire nel campo della catechesi e della pastorale veniva restituito generosamente sotto forma di indicazioni su come muovermi meglio all’interno della cultura nasa. Me lo ricordava prima della mia partenza José Gentil, il delegato della comunità del Berlín, poche case e una scuola aggrappate sul dorso della montagna, “passare del tempo con noi è la miglior maniera per poter penetrare nel nostro modo di vivere senza rimanere per sempre uno straniero”. In verità ci si rende conto che stranieri si rimarrà per sempre, che non si possono cancellare di colpo forme mentali che ci appartengono dal giorno della nostra nascita, ma si possono ridurre le distanze e porre le basi per un dialogo che sia confronto e non scontro di culture.
La stessa cosa si può dire parlando del dialogo interreligioso. Anche dopo 500 e più anni di evangelizzazione l’indio nasa vive la sua spiritualità in maniera propria, dove elementi di cristianesimo si fondono con l’eredità religiosa e culturale degli antenati. A un gruppo relativamente ristretto di persone che oggi cercano di opporre i valori della Ley de origen, e della visione del cosmo nasa a quelli trapiantati del cristianesimo, corrisponde un numero ben più alto di persone che vivono in modo spontaneo e naturale queste due realtà. E questo è ciò che colpisce maggiormente e pone più difficoltà all’operatore pastorale che si trova a lavorare in questo contesto. È qui dove ci si rende conto che tre anni di esperienza nel mondo indigeno sono troppo pochi per poter fare una sintesi sufficientemente accurata dell’esperienza stessa. La pastorale sacramentale, quella della salute, nonché l’istruzione religiosa nelle scuole devono fare i conti con questa realtà quotidianamente. Che risposte può dare il povero missionario alle prime armi quando una famiglia ti chiede un battesimo per i loro figli perché invitata a far ciò dal medico tradizionale (sciamano), cattolico egli stesso, e che ha visto nella vita della famiglia un influsso negativo di qualche spirito e nel battesimo la forza della benedizione di Dio che può ristabilire l’armonia che si era perduta? O che dire alla famiglia di una piccola comunità della montagna che ti chiama, come mi è successo, un venerdì santo, perché visiti e benedica una ragazza inferma, 24 anni e madre di tre figli, e che rifiuta il trasferimento della stessa all’ospedale in quanto il medico tradizionale aveva diagnosticato la caduta della ragazza sotto l’influsso negativo dell’arcobaleno?
Il delegado de la palabra, catechista preparato e costantemente formato sulla parola di Dio e sull’essenza del messaggio cristiano, ma nello stesso tempo persona che vive inserito nella realtà culturale del suo popolo, è l’unica persona che può dare una risposta, che può aiutarti a far luce su cose e atteggiamenti che a prima vista appaiono incomprensibili o che può orientare le persone della sua comunità a vedere un bene anche in elementi culturali estranei alla propria esperienza.

“LOS SEMILLEROS DE LA PAZ”
L’utopia della pace è il disincanto rappresentato da una situazione di conflitto armato che dura ormai da più di cinquant’anni. Ecco un altro grande spazio della mia missione nel Cauca colombiano. Ricordo quando, prima di partire mi imbattei in una delle nostre riviste in una foto di giovani italiani che partecipavano ad una delle varie attività estive di formazione missionaria. Tutti indossavano la maglietta con la scritta “Credo alla pace perché ho visto la guerra”. Non so in verità quanti di loro avessero toccato concretamente con mano la realtà della guerra, un po’ come il sottoscritto, cresciuto ascoltando i racconti di genitori e familiari che erano passati attraverso le crudezze della seconda guerra mondiale, ma mai prima d’ora tanto vicino ad un’esplosione o a un colpo di mitragliatore.
Cosa fare in questa situazione? Come trasformare l’utopia di una pace fondata su criteri di giustizia, nel mezzo di un conflitto duro e assurdo che coinvolge direttamente la gente della tua parrocchia? Una guerra come molte delle guerre che si stanno combattendo in questi giorni, per molti lati incomprensibile, dove, come ha scritto il filosofo e scrittore francese Beard-Henry Levy in un suo saggio sulla guerra, il male e il fine della storia, “all’orrore di morire si aggiunge l’orrore di morire senza una ragione”.
Anche in questo frangente è importante ascoltare, saper leggere i segni del tempo, cercare di capire le ragioni degli uni e degli altri, con in mano, come diceva Karl Barth il vangelo e il giornale, affinché la parola di Dio non si esaurisca in un irenico ma sterile messaggio, ma possa invece trasformarsi in parola di liberazione per i tanti che soffrono a causa del conflitto. Anche in questo contesto mi ha aiutato molto poter condividere con altri il mio lavoro, sostenersi vicendevolmente per difendersi dallo stress provocato dalle sparatorie, stabilire norme di azione pastorale che potessero essere il più possibile coerenti e uniformi. Ma aldilà dell’equipo misionero anche l’organizzazione della comunità, autorità tradizionali come il cabildo o entità come il “Progetto nasa” (l’associazione dei cabildos delle tre riserve indigene che formano il municipio di Toribío) sono elementi importanti ai quali far riferimento per poter affrontare i momenti di conflitto con più serenità.
La gente di queste zone ha assunto ufficialmente una posizione ben chiara rispetto al conflitto armato che ne insanguina la terra, una posizione che reclama a viva voce l’autonomia politica e territoriale in conformità con i diritti garantiti agli indios colombiani dalla Costituzione politica della repubblica colombiana del 1991. Detta opposizione alle ingerenze dello stato e della guerriglia (nel territorio di Toribío è presente un grosso contingente delle Farc, il più importante e numeroso gruppo guerrigliero del paese) è attuata in forma pacifica, come segno alternativo alla logica di violenza che attanaglia da decenni la Colombia. È la stessa linea nella quale si muove l’equipo misionero e in cui ho provato ad inserirmi, cercando nel mio piccolo di essere un segno di pace e di speranza. Girando per il paese o visitando le molte veredas sparse sui fianchi della montagna con l’occasione di celebrare un sacramento o di visitare una scuola si ha modo di avvicinare la gente, parlare con loro, soprattutto ascoltare e rendersi conto di come vive o subisce la realtà del conflitto. Facendo sentire la vicinanza non solo spirituale, ma anche fisica del missionario, si può con più autorità parlare ai giovani del rischio rappresentato dal cedere al richiamo dei gruppi armati o alle sirene del narcotraffico, che della guerra è il principale finanziatore. Si può predicare la giustizia sociale, a tutti i livelli, incominciando da quello familiare, sapendo che la pace in Colombia sarà possibile nel momento in cui crolleranno certe barriere sociali che marginalizzano troppe categorie di persone a beneficio di pochi gruppi economicamente più avvantaggiati.
Anche qui, il sogno di costruire un mondo di pace si scontra con la dura realtà di una situazione contingente che lascia poco spazio alla speranza. Fortunatamente è la gente stessa che ti insegna a non disperare, a non lasciarsi cogliere dal puro disincanto e a vivere anche di utopia. In questo senso a Toribìo è nato uno dei programmi più semplici e più belli di quelli ai quali ho potuto partecipare, Los Semilleros de la Paz (I seminatori della pace). Nato nel 1998 per iniziativa di un padre tanzaniano, padre Thomas Ishengoma, missionario della Consolata, oggi formatore nel suo paese, e di Marìa Esperanza, una volontaria laica originaria di Medellin, los Semilleros sono un gruppo di bambini del centro abitato e delle varie frazioni circostanti che, una volta al mese, si riuniscono in parrocchia per fare attività formativa di educazione alla pace. Sono loro, in fondo, il futuro e la speranza vera di questa terra che saprà crescere ulteriormente nei sentirneri della tolleranza e della convivenza pacifica nella misura in cui avrà un ricambio di leaders capaci di testimoniare e credere in questi valori.

SOLIDARIETÀ
Il fuoristrada bianco continua la sua discesa, siamo ormai giunti al termine della strada sterrata. L’asfalto che tra poco incontreremo porterà via più velocemente i ricordi, i profumi di questa terra magica, i suoi colori più vivi, i sapori di frutta, le emozioni forti che genera. Non sarà la terra promessa dove “scorrono latte e miele”, ma è comunque un mondo per me ricchissimo per quanto ha saputo offrirmi in tutti questi mesi, nelle cose forse banali che formano il quotidiano.
Sono passato davanti alla casa di Dany Gustavo, un bambino di 8 anni affetto da istiocitosi di Langerhans, una forma tumorale molto rara. Lo curano a Cali con sessioni massicce di chemioterapia per cercare di sanare il fegato e di dargli qualche speranza di vita.
La solidarietà è da sempre il centro dell’attività dell’equipo misionero, ma in questi ultimi anni si è voluto dare un enfasi del tutto speciale a questo aspetto, non solo come testimonianza personale del messaggio dell’amore evangelico, ma anche come formazione della comunità ad un valore che trascende uno degli elementi etici fondamentali della cultura nasa: la reciprocità, il fare qualcosa per gli altri aspettando qualcosa in cambio o come risposta a un qualcosa che si è ricevuto.
Il sogno è quello di veder cambiare per sempre situazioni che ci fanno soffrire soltanto al contemplarle, sogno che si blocca davanti ad una realtà che ci supera e che frustra i nostri desideri; davvero il regno dei cieli è qui presente, ma non ancora pienamente realizzato. Il disincanto, frutto della coscienza dei nostri limiti davanti alla complessità della realtà, solo ci spinge a sognare di più, a continuare ad offrire il nostro piccolo bicchiere per svuotare un oceano di dolore che sembra essere a prima vista inestinguibile.
A questo sogno tentano di rispondere varie iniziative che vogliono essere azioni concrete di solidarietà: il progetto di adozioni a distanza organizzato in collaborazione con l’associazione romana “Italia Solidale” che coinvolge ormai più di 1300 bambini e le loro famiglie di tutte le riserve indigene del Nord del Cauca, il progetto di assistenza ai carcerati indigeni e alle loro famiglie, orientato a dare un po’ di luce a quelle persone che sono finite in una prigione con accuse varie che possono andare dalla lotta armata, al narcotraffico, a episodi di delinquenza comune e che spesso vengono abbandonate dalle loro comunità e dai loro parenti. Anche il progetto di assistenza dei bambini disabili vuole essere una piccola risposta ad un problema grande della comunità. A questo riguardo si è formato un piccolo ambulatorio in Toribío, dove operano una fisioterapista e una logopedista. Aldilà di un aiuto specifico ai soggetti interessati e alle loro famiglie, l’ambulatorio offre anche la possibilità di coscientizzare la comunità sul fenomeno dell’handicap psico-fisico.

MAI SMETTERE DI ESPLORARE
Facendo una valutazione finale del mio operato, penso che quanto, in questi anni, ho saputo offrire in termini di disponibilità, aldilà delle mie limitazioni umane, è stato enormemente superato da quanto ho ricevuto, imparato, assimilato. La comunità nasa chiede all’equipe missionaria di essere un punto di riferimento etico-spirituale in questa nuova fase della sua storia e questo fatto obbliga la persona che vuole impegnarsi con il processo comunitario a crescere in queste dimensioni, se vuole essere un segno significativo al suo interno. Si tratta, in fin dei conti, di formarsi per poter essere un domani formatori.
Il flusso dei miei pensieri si interrompe a causa della voce del soldato che, come in un nastro registrato, chiede i documenti e di poter perquisire la vettura. Un suo commilitone riconosce tra i passeggeri “il padre di Toribio” e ci lascia proseguire.
Passato il posto di blocco dell’esercito situato nella vereda de “El Palo”, ci separano 50 chilometri dall’aeroporto di Cali. Più speditamente la macchina inizia ad attraversare la grande pianura solcata dal fiume Cauca, coltivazioni di canna da zucchero interrotte da qualche piccolo centro abitato generalmente da famiglie afro-colombiane. Lasciamo alla nostra sinistra Cali, la capitale del dipartimento del Valle, la “succursale del cielo” come orgogliosamente la definiscono i suoi stessi abitanti. Chissà cosa deve essere il cielo, penso, se Cali ne è la succursale. Solo per un attimo penso ai due padri che vivono là, in una parrocchia del barrio Antonio Nariño, occupandosi della pastorale afro e immersi fino al collo nei molti problemi di ordine socio- economico che stanno trasformando il quartiere in una zona difficile. Ma è un pensiero di breve durata, il fuoristrada bianco ha ormai imboccato il viale dell’aeroporto, già si affacciano sullo scenario altri panorami, altri sogni, che si riuniscono tutti nell’unica grande utopia della missione.
Da domani la vita sarà differente, altre situazioni e altre sfide si apriranno ai miei orizzonti. Ricordo per darmi coraggio la frase di un celebre poeta inglese che recita, se la memoria non mi tradisce: “Non dobbiamo mai smettere di esplorare e alla fine di tutte le nostre ricerche arriveremo un’altra volta lì dove abbiamo iniziato e conosceremo quel posto per la prima volta”.

BOX 1
DALLE ANDE ALLE ALPI

Capita a volte di fare dei ritrovamenti impensati. Mezzo nascosto tra scaffali polverosi ho trovato nella biblioteca della parrocchia di Toribío un libro di Claudio Magris intitolato “Utopia e Disincanto”. Nel primo capitolo, quello che dà il titolo all’intero volume, l’autore analizza l’inizio del nuovo millennio alla luce di queste due cornordinate. Ho pensato che sarebbe stato interessante applicarle alla missione e alle diverse sfaccettature con le quali essa si è presentata alla mia esperienza.
L’utopia è la tensione verso il futuro, il fine che anima e orienta il nostro presente verso spazi immaginati ma non ancora conosciuti, verso ideali grandi che sono stati, nel mio caso, il frutto di una lunga formazione. Il disincanto è invece l’attenersi alla realtà, la resa dei conti con le circostanze che limitano l’utopia, ma che al tempo stesso non le lasciano prender piede, non permettono che sfoci nell’irrealtà, nella fantasia, che ti fa, in altre parole, rimanere con i piedi ben piantati per terra. Dal dialogo costante fra utopia e disincanto dovrebbe nascere la giusta misura, il corretto relazionarsi con la propria missione, il viverla con buon senso, senza lasciarsi travolgere dal sogno e senza neppure venir troppo frenati dalla cogente realtà di tutti i giorni.
Vorrei quindi narrare qualcosa di questi anni, iniziando dalla mia esperienza personale, da ciò che ho sentito e compreso, dalla risposta che il mio viaggiare ha dato alle tante aspettative che avevo e di come la realtà ha giocoforza sagomato il mio essere missionario nel nord del Cauca colombiano. In un secondo momento vorrei raccontare, in modo più diretto e specifico, qualcosa della comunità che mi ha ospitato, degli indigeni nasa (o páeces), delle utopie che continuano ad ispirae il progetto di vita, nel mezzo di una situazione contingente di grande difficoltà, dell’alternativa che essa vuole rappresentare, in aperto contrasto alle logiche di potere portate avanti sia dal governo colombiano che dai movimenti eversivi. In un terzo articolo narrerò qualcosa dei giovani, che di questa comunità rappresentano la linfa vitale, il futuro, del loro “pensamiento joven” (il pensiero giovane), che cerca di opporsi alla mentalità disincantata degli anziani, ad un mondo nel quale non si riconoscono più e al quale vogliono offrire qualcosa di nuovo e più vicino alle loro esigenze e alla loro sensibilità.
U.Po.

BOX 2
STORIA E SCOPI DELL’EQUIPO MISIONERO

L’equipo misionero di Toribío venne fondato il 4 marzo del 1979 su iniziativa del padre Alvaro Ulcué Chocué (sacerdote indigeno e parroco delle comunità di Toribio e Tacueyó), insieme ad alcune suore missionarie della Madre Laura. L’iniziativa voleva essere una risposta al processo di rinnovamento ecclesiale e pastorale, in corso in America Latina negli anni che seguirono il Concilio Vaticano II e le grandi conferenze episcopali di Medellín e Puebla.
La scelta di vivere in un équipe apostolica di vita e attività pastorale doveva, nel disegno del padre Alvaro, condurre ad una evangelizzazione inculturata e liberatrice, con una chiara opzione per i poveri ed un’enfasi verso il mondo indigeno e il suo processo storico di recupero della terra, organizzazione e sviluppo che, tra molti conflitti e a prezzo di molto sangue versato, la comunità stava vivendo da alcuni anni a quella parte.
Dopo la morte del padre Alvaro, assassinato a Santander de Quilichao il 10 novembre del 1984 per il suo impegno in favore della causa indigena, l’esperienza dell’equipo misionero venne raccolta dai missionari della Consolata. Coordinato a partire dal 1988 da padre Antonio Bonanomi, il gruppo è oggi formato da circa 20 persone: sacerdoti, religiose, e laici sia estei come facenti parte della comunità nasa.
U.Po.

BOX 3
SCHEDA

Superficie: 1.141.748 Kmq
Popolazione: 45.300.000 abitanti (proiezione per il 2005)
Lingua: spagnolo (ufficiale); in Colombia sono però presenti 84 popoli indigeni con 64 lingue differenti
Religione: cattolica (ufficiale, 93%).
Capitale: Santa Fe de Bogotá (7.029.928 abitanti)
Ordinamento politico: repubblica presidenziale
Presidente: Alvaro Uribe Velez, dal 7 agosto 2002
Economia: Il caffè è il principale prodotto legale da esportazione. Il sottosuolo contiene giacimenti di petrolio, carbone, oro, platino, argento e smeraldi. Le coltivazioni di marijuana, coca e papavero da oppio alimentano il floridissimo traffico illegale degli stupefacenti. Si stima che dalla Colombia provenga 80% della produzione mondiale di cocaina.
Moneta: peso colombiano (3.000 pesos = 1 Euro nel 2004)

BOX 4
CARISSIMO GUSTAVO

Carissimo Gustavo,
sono passati ormai alcuni mesi dall’ultima volta che ci siamo visti, da quell’8 di novembre dell’anno scorso quando, in silenzio come sempre, la tua anima si è riunita al “ks’a’w wala”, il grande spirito di Dio. Quel giorno, ironia della sorte, avevi deciso di prendere la chiva, la corriera locale che ti avrebbe portato con gli altri delegados della palabra fino al Cecidic, il collegio dove tutto era pronto per celebrare l’annuale assemblea su padre Alvaro dedicata al tema della solidarietà nella comunità che aveva sognato e per la quale era morto e che tu, inseguendo lo stesso sogno, avevi servito come catechista e come ricercatore storico. Dico “ironia della sorte”, perché tu non avevi certo bisogno della corriera per fare i tre chilometri che separano la parrocchia di Toribío dal collegio, abituato come eri a camminare per le tue montagne. Tre chilometri che avevi già percorso in senso contrario quella stessa mattina, per venire a vedere in paese chi era arrivato, per riunirti con i tuoi compagni, fare colazione e scambiare due chiacchiere prima dell’inizio dell’assemblea. La chiva si è capottata proprio davanti alla collina dove da qualche tempo vivevi, davanti a casa tua, intrappolando il tuo corpo sotto il peso della sua grande carrozzeria e spegnendo di un botto i tanti sogni che avevi iniziato a coltivare.
Ho ancora ben chiara in mente la volta che mi hai accompagnato a celebrare le prime comunioni nella cappella de La Primicia. Era la mia prima uscita “in vereda”, ed ero nervosissimo: ero arrivato da soli due giorni, la gente non mi conosceva ancora e nello spazio antistante la cappella c’erano vari guerriglieri, figure alle quali dovevo ancora fare l’abitudine. Mi hai spiegato in poche parole (non sei mai stato un uomo di grandi discorsi) quello che succedeva e ciò che la comunità si aspettava da me. Tutto è filato liscio come l’olio. Da quel giorno in avanti abbiamo condiviso molti chilometri, molte celebrazioni ed incontri. Era fondamentale, per esempio, quella tua introduzione alla liturgia, espressa in un linguaggio che la gente coglieva immediatamente, molte volte in nasa yuwe, la lingua del popolo nasa che tu dominavi alla perfezione.
Sapevi quello che dicevi. Negli ultimi anni, oltre alla catechesi, ti eri dedicato anima e corpo al progetto della “Cattedra nasa-Unesco”, un programma di ricerca storica all’interno della comunità basato sulle testimonianze dei protagonisti. Avevi intervistato moltissimi anziani che ti avevano parlato delle loro credenze, dei valori tradizionali, delle lotte per l’autonomia e il recupero della terra. Credevi, come padre Alvaro, che “l’utopia muove le montagne” e non ti rassegnavi a vivere come se niente avesse potuto cambiare solo perché alcuni volevano così. Sapevi che il passato orienta il nostro presente affinché, a partire da ciò che siamo, si possa camminare verso un futuro disegnato in modo differente.
Il giorno prima di lasciarci avevi comprato qualche regalino per Yuni Alexandra, la tua bambina di otto mesi: un vestitino azzurro, un atlante geografico e un dizionario. E a chi ti prendeva in giro facendoti notare che forse era un po’ azzardato regalare un dizionario di spagnolo a una bimba di neanche un anno, avevi risposto candidamente che questi strumenti sempre servono e sempre serviranno, che ora avevi i soldi e che chissà che prezzo avrebbero avuto quando Alexandra fosse andata a scuola. Grande Gustavo, grazie per questa iniezione di fiducia, per questa speranza che hai portato dentro e che fino all’ultimo, con poche parole, ma molte scelte pratiche, mi hai testimoniato.
padre Ugo

BOX: AUTORI
(*) Ugo Pozzoli, missionario torinese (1962), è rientrato in Italia per lavorare a Missioni Consolata. Da marzo 2005 è redattore in pianta stabile nella redazione della rivista.
A padre Ugo, un benvenuto e un augurio di buon lavoro.

(**) Enzo Baldoni, lo sfortunato giornalista free-lance rapito ed ucciso in Iraq, fu ospite nel Cauca dei missionari della Consolata. Le foto di questo servizio sono un suo regalo.

Ugo Pozzoli




NICARAGUA Mondi locali ed ecosistemi a rischio

Un sacco di riso transgenico proveniente dagli Usa costa
meno di un sacco di riso naturale prodotto in Nicaragua.
È sempre più incerto il futuro di indigeni e contadini di fronte all’avanzata dell’Alca, del Piano Puebla-Panamà, del Corridoio biologico mesoamericano.
A tutto ciò si aggiungono le zone franche e le fabbriche
di assemblaggio (maquilas), che certamente non aiutano lo sviluppo locale.

Managua. L’America Centrale – come scriveva Pablo Neruda – è la cintura del continente americano e al centro troviamo il Nicaragua. A Managua, la capitale, abbiamo incontrato esponenti della società civile impegnati nella difesa della sovranità alimentare e di un modello di sviluppo economico congruente con i bisogni della maggioranza dei nicaraguensi.
Il settore agricolo e l’allevamento hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo da protagonisti nello sviluppo economico e sociale del piccolo paese. L’agricoltura è da sempre la componente più importante dell’economia nicaraguense ma, negli anni, è stata segnata profondamente dalla travagliata storia del Nicaragua. Dopo i 50 anni di dittatura somozista (finiti nel 1979 con la rivoluzione sandinista), nel 1990 l’agricoltura ha cominciato a subire le conseguenze dell’applicazione del modello neoliberale. Da una parte, infatti, i governi subentrati negli anni Novanta non hanno fatto altro che promuovere questa tendenza economica e dall’altra le riforme strutturali imposte al paese hanno aggravato la già difficile situazione della classe contadina.
Ne parliamo con José Adan Rivera Castillo, vicepresidente della Atc-Unapa (Associazione dei lavoratori della campagna), l’associazione più rappresentativa degli agricoltori nicaraguensi.
«La nostra organizzazione – ci spiega – lavora con due blocchi di persone: lavoratori salariati raggruppati in 131 sindacati e piccoli produttori raccolti in 345 cornoperative. L’Atc ha iniziato a lavorare nel 1977 prima del trionfo della Rivoluzione del Fronte sandinista di liberazione nazionale, avvenuto nel 1979, quando cadde la dittatura di Anastacio Somoza. Dopo questa data ebbe inizio un processo in cui per la famiglia rurale contadina si aprì uno spazio nuovo: la riforma agraria, dove si distribuì la terra a coloro che la lavoravano, cioè ai contadini. Questo grande cambiamento in effetti colpì molto i proprietari terrieri e nel 1984 gli Stati Uniti iniziarono la guerra contro il Nicaragua.
È stata questa guerra che fece rimanere incompiuta la riforma agraria, perché essa non consisteva soltanto nel consegnare la terra ai contadini ma anche nell’avere accesso alla formazione, alla tecnologia, all’educazione, alle reti commerciali: insomma integrazione verticale e orizzontale nel sistema produttivo contadino. Non ci fu il tempo di portare a compimento la riforma agraria perché la guerra, l’invasione, i porti minati e le migliaia di morti non lo permisero. Seguì una pressione estea che finì nel 1990 con il disarmo totale di tutte le parti in conflitto: la controrivoluzione da una parte e il popolo e i contadini dall’altra. Poi iniziarono i governi neoliberali. Questi stabilirono uno schema giuridico agrario a favore della controriforma agraria, che mirava a spogliare i contadini delle loro terre per beneficiare i grandi proprietari terrieri, che erano fuggiti 25 anni prima e che volevano la restaurazione delle loro proprietà. Tutto ciò fece sì che gli ultimi tre governi – come quello di Doña Violeta Barrios de Chamorro del 1990, quello di Aoldo Aleman del 1996 e l’attuale governo di Enrique Bolaños del 2000 – decostruirono quelli che erano gli strumenti di appoggio alla piccola produzione, cominciando dalla Banca nazionale di sviluppo (che si occupava del finanziamento ai piccoli produttori), che privatizzarono. In seguito crearono una serie di leggi che riguardavano la proprietà per obbligare i contadini ad abbandonare la loro terra e non dettero nessun tipo di appoggio alle associazioni di contadini organizzati: fu un piano strutturato per spogliarci delle nostre terre. Perché noi, come contadini, ci troviamo in totale svantaggio e per uscire da questa situazione stiamo stimolando l’associazionismo; in tal senso abbiamo approvato una nuova legge generale delle cornoperative che è il modello dell’organizzazione a cui vogliamo dare impulso. L’obiettivo è poter sviluppare l’attitudine imprenditoriale presso i piccoli produttori e contadini del Nicaragua, che rappresentano più dell’80% della produzione alimentare nazionale e hanno un grande potenziale di sviluppo. Non si tratta di dire: “il Cafta e l’Alca sono cattivi”; “quella è una politica colonialista”».
«Noi dobbiamo cercare una risposta alternativa. Io credo che ci siano due modelli in conflitto: un modello esclusivo, concentratore, punitivo e un altro partecipativo, autogestionario, umanista e di solidarietà. Sono due sistemi contrapposti, è una lotta ideologica permanente in tutti i campi. Stiamo creando strategie comuni con il movimento sociale e con le università perché difendano le posizioni contadine. In altre parole; stiamo ricostruendo le alleanze sociali per affrontare questo fenomeno, quest’offensiva neoliberale costituita dall’Alca, dal Plan Puebla-Panamà, dal Corridoio biologico mesoamericano».

GOVERNI SUCCUBI, LAVORATORI IN GINOCCHIO
La classe dirigente centroamericana al potere (fatta eccezione per la Costa Rica, unico paese dell’America Centrale ad aver resistito all’Alca) non ha una strategia alternativa, un progetto autoctono di sviluppo, solamente ripete gli argomenti della controparte statunitense che chiaramente ha un progetto ben preciso e sta tentando in tutti i modi di ottenere il via libera. La classe contadina ha un suo progetto di sviluppo ma è molto difficile da attuare visto che le negoziazioni sono state fatte in segreto come ci spiega Hermogenes Rodriguez della giunta direttiva della Fenacornop (Federazione nazionale di cornoperative agricole, di allevamento e agroindustriali), la federazione di cornoperative più importante del Nicaragua formata da 620 cornoperative (di cui 371 si occuppano di produzione agricola e di allevamento e 249 cornoperative prestano servizi vari).
«Noi che abbiamo seguito queste negoziazioni, all’inizio molto segrete, le abbiamo trovate molto compartimentate, per questo abbiamo dovuto impegnarci molto per conoscere i testi originali. Prima è stato necessario conoscerli a livello di dirigenza della Federazione e poi trasmetterli alle nostre basi sociali. Noi crediamo che il Nicaragua e, perché non dirlo, l’America Centrale si siano avventurati in una negoziazione di un trattato complesso e pericoloso, come l’Alca, sotto la pressione dell’ondata di globalizzazione mondiale. Quindi, si tratta di una imposizione che il paese sta soffrendo e che non ha avuto una seria analisi da parte del governo. Queste trattative per la loro natura sono state condotte da governo a governo, in modo molto isolato, tagliando fuori il settore sociale e produttivo. Solo molto tempo dopo, i politici hanno inscenato un più ampio coinvolgimento per giustificarsi e poter dire che la società civile e i settori coinvolti in questo trattato hanno dato il loro parere».

PRODUTTORI LOCALI SCHIACCIATI DAL MERCATO
Il trattato dell’Alca e più precisamente il Cafta è indispensabile per gli Stati Uniti, innanzitutto perché consente loro di piazzare su un mercato esterno (quello centroamericano) le loro eccedenze agricole e la produzione industriale che non è competitiva all’interno della loro economia. In secondo luogo, l’Alca è indispensabile per incrementare il processo di remissione dall’estero di utilità, pagamenti per royalties e capitali, processo che sostiene l’economia statunitense. Infine, gli Usa hanno bisogno di questo megamercato latinoamericano per facilitare le sue transnazionali nell’appropriazione di risorse strategiche indispensabili per aumentare la loro competitività. Di fronte a questa chiara strategia politico-economica, il governo nicaraguense ha ceduto incondizionatamente e ora pretende di far diventare il Nicaragua un paese ancora più povero e analfabeta. A tal proposito abbiamo incontrato Alvaro Fiallos Oyanguren, presidente della Unag (Unione nazionale agricoltori e allevatori), organizzazione contadina che con i suoi 72.634 membri è il consorzio più importante dei produttori e allevatori medi del Nicaragua.
«Il governo del Nicaragua ha elaborato la teoria che questo paese debba svilupparsi in base al settore dei servizi, come il turismo e le zone franche, convertendo il piccolo produttore – considerato non efficiente – in operaio di maquila e addetto del turismo.
L’attuale situazione di crisi ha fatto aumentare l’analfabetismo, che nella campagna raggiunge ormai il 60%, e, in generale, ha peggiorato le condizioni di vita della gente. Infatti la popolazione in stato di povertà si aggira intorno al 70%, di cui un 20-25% si trova in una situazione di estrema povertà. Questo è, a mio parere, il prodotto dell’applicazione delle riforme strutturali, della politica del Fondo monetario internazionale e della preferenza espressa da questo governo per le politiche di investimento estero, a totale scapito dei produttori nazionali.
Con la ratifica del Trattato di libero commercio (Alca) l’effetto sarà completamente negativo: non c’è nessuna capacità reale di competere – soprattutto nel settore rurale – con i produttori degli Stati Uniti che hanno tutte le condizioni materiali ed economiche a loro favore, come la modeizzazione tecnologica e i grandi sussidi da parte dello Stato. Ovviamente tutto ciò altera le relazioni commerciali. Arrivano in Nicaragua prodotti statunitensi sussidiati a competere con i nostri prodotti che non hanno neanche il finanziamento di base, con la paradossale conseguenza che un sacco di riso transgenico Usa costa meno di un sacco di riso naturale coltivato in Nicaragua. Ne deduciamo che la competitività che dovrebbe stabilirsi in un trattato tra eguali non esiste».

BIODIVERSITÀ A RISCHIO
Accanto al Cafta c’è il Ppp (Piano Puebla-Panama) orientato ad offrire l’infrastruttura al megamercato americano. Il suo disegno è stato realizzato dai tecnocrati della Banca mondiale e del Bid (Banca interamericana di sviluppo) e nella sua formulazione comprende uno spazio che si estenda dallo Stato di Puebla nel sudest del Messico, attraverso altri 8 stati messicani, per arrivare a comprendere tutti i paesi Centroamericani fino a Panamà. Il finanziamento complessivo si aggira intorno ai 4.4 mila milioni di dollari, di cui il 96.3% è assegnato alla costruzione di strade, il restante 3.7% è per lo sviluppo sostenibile e la protezione del Cbm (Corridoio biologico mesoamericano) che si estende dal Chiapas messicano fino al Panamà.
Il Ppp prevede la costruzione di reti di autostrade, oleodotti e gasdotti, porti, aeroporti, dighe e un sistema di interconnessione energetica, oltre all’impiantazione di zone franche in tutta quest’area geografica. Tutto questo in una delle aree più incontaminate del pianeta, coperta ancora per gran parte dalla foresta pluviale e che, a livello mondiale, è seconda, per biodiversità, solo all’Amazzonia. Infatti quest’area, pur coprendo appena lo 0,5% della superficie totale del pianeta, alberga il 7% di tutta la biodiversità conosciuta nel mondo. Appare dunque evidente come uno degli obiettivi principali degli Usa sia proprio estrarre la riserva biogenetica da questa area con l’aiuto del Cbm, con lo strumento giuridico del brevetto delle specie biogenetiche e con l’ausilio dell’infrastruttura prevista dal Ppp. A questo quadro allarmante va aggiunta la risorsa-acqua che in questo momento, con la rivoluzione biotecnologica, è diventata un patrimonio strategico.

CONTRO GLI INDIGENI, CONTRO I CONTADINI
Un altro aspetto importante della strategia occulta del Ppp consiste nel costruire un sistema di 30 dighe lungo l’asse Puebla-Panamà e in questo modo interrompere le reti di sviluppo autoctone e smembrare le popolazioni delle comunità indigene e delle popolazioni contadine, che per il loro stretto rapporto di interdipendenza con la natura sono i più indifesi di fronte a questo tipo di cambiamenti. In un secondo momento il Plan Puebla-Panamá intende consegnare titoli di proprietà a queste stesse popolazioni, in cui l’uso della terra è invece ora comunitario, per poter smembrae definitivamente l’economia collettiva.
Queste popolazioni stanno resistendo al Ppp, perché coscienti che esso verrà a sconvolgere il fragile equilibrio del loro sistema ecologico ed eco-compatibile. Di questo ci parla José Adan Rivera dell’Atc.
«Noi siamo stati tutto questo tempo in resistenza di fronte a questa situazione che viene a coronarsi con macro-programmi come il Ppp perché si sono rivelati illusori e dannosi. Quest’ultimo infatti si è tradotto solamente nell’articolazione della strada Panamericana , ma, al di fuori di questa, tutte le strade intee verso le comunità sono distrutte, non c’è nessun tipo di comunicazione intea, a conferma che la infrastruttura viaria del Ppp è stata concepita per favorire il passaggio di merce del Nord verso il Sud e per saccheggiare risorse dal Sud verso gli Stati Uniti.
Anche nel settore energetico il quadro appare contraddittorio. Nel campo dell’energia, infatti, ci sono grandi interconnessioni elettriche ma ancora il 40% delle comunità locali non hanno l’elettricità. In base a tutte queste considerazioni, possiamo davvero affermare che il Nicaragua sia stato convertito in una discarica a cielo aperto per quanto riguarda l’ambiente, e in una riserva di mano d’opera a basso costo per quanto riguarda l’aspetto sociale. Non è infatti un caso se tutta la strada Panamericana è stata disseminata di zone franche che, oltre all’elevato profitto delle multinazionali, producono lo smembramento culturale della gioventù contadina con false illusioni di guadagno.
Con la diminuzione numerica degli occupati nel settore agricolo, i Paesi centroamericani, vincolati dai nuovi trattati neoliberali, diventeranno ancor più dipendenti dalle importazioni alimentari estere, con gravi ripercussioni sulle condizioni di vita della popolazione».

A VOI L’INQUINAMENTO, A NOI IL PROFITTO
In questa direzione si sta muovendo l’attuale governo nicaraguense che ha deciso di dare forte impulso al cosiddetto «Piano nazionale di sviluppo» (Plan nacional de desarrollo o Pnd). Scopo principale di tale iniziativa è quello di creare dei clusters, ovvero una serie di concentramenti di attività economiche composte da infrastrutture come fabbriche, reti di comunicazione, forza lavoro ecc.
Sono sei i clusters previsti: energia, turismo, prodotti tessili, prodotti caseari, prodotti forestali e agrumi. Dietro alla creazione di questi clusters c’è un lungo elenco di trasnazionali, come Enron, Chiquita Brands, Del Monte Foods, Nestlé, Philip Morris, Danone, Parmalat ecc. Queste transnazionali si doteranno di concimi, macchinari, consulenza tecnica di alto livello ecc. provenienti dall’estero e all’estero toeranno anche i guadagni (come nel caso della maquilas o zona franca) e pertanto non lasceranno al Nicaragua altro che un salario da fame.
Infatti, questo tipo di economia in America Latina venne chiamata «economia rondine», con allusione al carattere volatile di tali investimenti. Tutto questo senza parlare dell’inquinamento che lasceranno dietro di sé queste industrie, a causa dell’inesistenza di norme a difesa dell’ambiente.
Il Nicaragua è un paese povero e non sarà certo grazie a questo vecchio modello di agricoltura d’esportazione che uscirà dalla povertà. Invece, a nostro parere, una possibile via d’uscita sostenibile si trova nel modello alternativo proposto dalle organizzazioni contadine di piccoli e medi produttori e allevatori (che in Nicaragua rappresentano il 99%), dalle cornoperative e dalla gente che lavora nel settore terziario. Questo nella convinzione che l’economia popolare abbia la capacità di risolvere i problemi laddove ha fallito il modello agricolo d’esportazione, come ci racconta Orlando Nuñez Soto, direttore del Cipres (Centro di ricerca e promozione dello sviluppo rurale e sociale), un centro di ricerca che appoggia, attraverso 30 progetti specifici, lo sviluppo rurale di 150 comunità contadine, 5mila famiglie in tutto il Nicaragua.
«La nostra proposta è di sussidiare le famiglie contadine perché producano latte, uova, carne, frutta, verdure e cereali, e in questo modo compensino con la produzione alimentare i problemi che l’economia commerciale crea loro.
La nostra proposta di produzione alimentare è integrale e si irradia all’interno delle famiglie, all’interno delle cornoperative, all’interno delle comunità. Questo permette alla comunità di amministrare meglio le relazioni con la città, tanto a livello commerciale quanto a livello politico: è questa la nostra strategia. Il problema è che al Nicaragua è stato chiesto dai Paesi ricchi di produrre beni commerciali per l’esportazione come legno, caucciù, oro, cotone e caffè a seconda delle necessità delle metropoli europee e nordamericane. Parallelamente i contadini hanno prodotto per mangiare perché la produzione commerciale non ha mai lasciato eccedenze al Nicaragua a causa della vendita sottoprezzo di tali beni d’esportazione. In questo modo il Nicaragua si trova al centro di un circolo vizioso: più produce più si decapitalizza, più esporta più le sue terre diventano sterili, più sfrutta le risorse ambientali e più perde la sua biodiversità e la sua gente emigra. Oggi, con il “Piano nazionale di sviluppo”, assistiamo a un’offensiva ancora maggiore: non solo ci richiedono i beni commerciali per l’esportazione, come nel passato, ma addirittura ci viene proposto che il Nicaragua si trasformi in mercato per i paesi industrializzati. È noto infatti che l’Europa e il Nord America producano e vendano alimenti e abbiano problemi per “piazzare” le loro eccedenze: pertanto hanno bisogno dell’America Latina, e in questo caso del Nicaragua, come mercato di consumo dei loro prodotti. Si tratta di una lotta in corso tra noi che vogliamo continuare a produrre alimenti per conservare la nostra sovranità alimentare e i paesi ricchi e le imprese transnazionali che vogliono il contrario. Praticamente è in atto il tentativo di smantellamento dell’agricoltura centroamericana che, se riuscisse, costringerebbe il Nicaragua a vendere, per poter sopravvivere, le spiagge, le sorgenti d’acqua e gli ultimi boschi che restano».

BOX 1
Questo viaggio…

In questo viaggio attraverso l’America Centrale abbiamo raccolto molte testimonianze. Abbiamo voluto seguire una linea immaginaria che transita per i quattro paesi, partendo dal Nicaragua, passando per l’Honduras e El Salvador ed infine arrivando in Guatemala. Questa linea tocca i punti deboli di ognuna di queste piccole realtà, diverse tra loro, ma con problematiche che si estendono all’intera area centroamericana. Per il Nicaragua, ad esempio, abbiamo intervistato esponenti e leader contadini alla luce della crisi della sovranità alimentare, che espone i contadini al rischio di sparizione e fa sì che il problema della povertà acquisisca dimensioni endemiche e probabilmente irreversibili. Dal Nicaragua abbiamo viaggiato verso nord, verso Tegucigalpa, capitale dell’Honduras, dove abbiamo incontrato dirigenti sindacali, donne leader contadine e diversi esponenti dei Centri di difesa dei diritti umani. Abbiamo voluto investigare sulla situazione delle zone franche o «maquillas» (che in castigliano antico significava: «quegli avanzi» che si lasciano al proprietario del mulino per l’utilizzo dei suoi macchinari) e più specificamente la situazione dei diritti delle donne che vengono pagate intorno ai 25 centesimi di euro all’ora e costituiscono la quasi totalità della mano d’opera all’interno delle zone franche.
Andando ancora al nord, a 5 ore di strada dalle montagne di Tegucigalpa, troviamo El Salvador, probabilmente il paese più piccolo dell’America Latina, chiamato non per altro «il pollice d’America». A San Salvador – la capitale – abbiamo avuto degli incontri con economisti rappresentanti di organizzazioni sociali e contadine e con i membri di un Centro di difesa dei diritti umani. Abbiamo cercato di capire di più sul perché oltre un quarto della popolazione salvadoreña è residente negli Stati Uniti: sarà forse perché più del 90 per cento dei suoi fiumi sono inquinati, la campagna senza acqua si sta svuotando, le città crescono a ritmi impressionanti e con queste le enormi bidonvilles che la circondano.
Infine, siamo arrivati in Guatemala, paese per più della metà indigeno. A Città del Guatemala abbiamo intervistato il procuratore dei diritti umani e alcune donne indigene che sono impegnate nella «ricostruzione della memoria storica» dopo il conflitto armato che finì solo nel 1996 e che per tre decenni pesò sulle popolazioni indigene del Guatemala con più di 250.000 vittime. Queste donne lottano per la difesa dei diritti umani, per il compimento degli accordi di pace, per la partecipazione femminile alla vita politica e civile e per il risarcimento delle vittime della guerra.
L’America Centrale per tanti aspetti è la parte più debole dell’America Latina e non reggerà di certo alle conseguenze che deriveranno dai trattati come il Cafta, il Ppp e il Cbm nella attuale situazione in cui si trovano. Proveremo a spiegare il perché lasciando parlare i protagonisti delle società civili centroamericane.

BOX 2
Glossario


Alca: «Area di Libero Commercio delle Americhe». Trattato commerciale firmato al summit di Miami nel 1994 dai 34 capi di stato del continente americano. Prevedeva una tappa iniziale di «preparazione», fino al 1998 con l’intenzione di concludere l’accordo nel 2005. In termini di mercato coinvolge una popolazione di 780 milioni di abitanti, un terzo del prodotto lordo globale e il 20% del commercio mondiale. L’Alca è promosso dagli Stati Uniti, che pretendono di utilizzarlo come strategia per riacquistare la sua egemonia perduta in materia di competitività nei confronti dell’Europa e dei paesi asiatici. Attualmente molti paesi dell’America Latina hanno opposto resistenza, tra essi principalmente il Brasile, il Venezuela e l’Argentina.

Ppp: «Piano Puebla-Panamà». Vi partecipano i 9 stati più poveri del sud del Messico, insieme ai paesi centroamericani e a Panamà. È un macro programma centrato nella costruzione di infrastrutture (porti, autostrade, reti ferroviarie, corridoi energetici, ecc.) lungo l’America Centrale, che permetterà in futuro di estrae le risorse e trasportare merce verso l’America del Sud.

Cafta: «Area di Libero Commercio per l’America Centrale». Sessione dell’Alca circoscritta ai paesi dell’America Centrale.

Cbm: «Corridoio Biologico Mesoamericano». Ne fanno parte Messico, Belize, Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua, Costa Rica e Panamà. È un sistema di cornordinamento territoriale di aree protette. Proposta parallela al Ppp e al Cafta, viene cornordinata dai ministri dell’ambiente dei paesi dalla Mesoamerica all’interno della Commissione centroamericana dell’ambiente e lo sviluppo (Ccad).


Josè Carlos Bonino




NICARAGUA Ventiquattrore nella discarica

El Pantanal e Acahualinca sono quartieri che circondano «la Chureca» nelle vicinanze del lago di Managua. «La Chureca» è una parola che non compare nel dizionario, ma è un’auto-definizione creata dalla gente che abita qui. Si tratta di una discarica di oltre 47 metri di profondità che esiste dagli anni Cinquanta, ovviamente senza alcun tipo di controllo.

Un bambino che non avrà neppure 14 anni affonda le mani in una montagna di spazzatura: è vestito con dei pantaloni marroni, che forse una volta erano bianchi, una maglietta grigia e un cappellino rosso molto sporco che probabilmente ha trovato tra la spazzatura. È uno dei tanti bambini-lavoratori che incontriamo durante la nostra visita alla discarica. Porta a tracolla un sacco grande quasi quanto lui, dove mette tutte le cose che trova (bottiglie di vetro o plastica; pezzi di ferro, legno e materiali riciclabili in genere) e che proverà poi a vendere per poter – almeno quel giorno – mangiare qualcosa. Continuiamo ad addentrarci nella Chureca e l’odore è sempre più nauseabondo: un misto di esalazioni di animali morti, spazzatura e prodotti chimici che arrivano dal contaminatissimo lago di Managua, che si trova a pochi metri dalla Chureca.
Qui arrivano ogni giorno più di 1.400 tonnellate di spazzatura e con esse la speranza di mangiare per più di 100 famiglie. Per tutte loro la discarica rappresenta l’unico mezzo di sopravvivenza. Queste persone lavorano con ritmi estenuanti: per tutta la notte e altri fin dal mattino presto, frugano tra i rifiuti cercando qualcosa con un minimo di valore, circondati da animali morti, cani randagi, avvoltorni, mucche e cavalli che pascolano sul posto.
Nelle vicinanze del lago di Managua, al Nord della capitale, abbiamo incontrato Eddy Perez, che in passato lavorava raccogliendo spazzatura, e oggi è un educatore di strada che lavora da anni con le popolazioni dei quartieri, che circondano e sopravvivono con la Chureca.
«La Chureca – ci spiega Eddy – è la principale discarica della capitale, che produce, secondo le stime ufficiali, un totale giornaliero di 1.400 tonnellate di spazzatura, ma noi crediamo che siano molte di più. La sua estensione è di 64 ettari e al suo interno lavorano 1.300 persone, di cui più della metà sono minori di 18 anni. Questa è una parte della popolazione urbana che si è vista obbligata a vivere qui spinta dalla difficile situazione economica. La Chureca permette loro di mangiare: è l’unica strada che la gente può percorrere per sopravvivere. Nella Chureca vivono 133 famiglie in baracche del tutto inadeguate, senza servizi igienici, né acqua potabile né elettricità, costruite con materiali di recupero, a loro volta scartati da altre persone, che li ritenevano inservibili. La gente qui alla Chureca vende magari un chilogrammo di alluminio, rame, vetro, carta o plastica e risolve in questo modo le necessità basiche di un giorno per loro e i loro figli. Sono persone che non sanno misurare il domani, perché non hanno la certezza di arrivarvi. Questa realtà non glielo permette, non consente loro di avere nessun progetto per il futuro».
Aldilà dei materiali che si possono vendere per il riciclaggio i churequeros raccolgono anche scarti di cibo come ossa di maiali, scarti di pesce e verdura marcia che arrivano dal mercato orientale, il mercato più grande di Managua. Con questi scarti cucinano e mangiano famiglie intere, molte volte anche sul posto, con conseguenze per la salute facilmente immaginabili. Purtroppo, la metà di questi lavoratori sono bambini a cui non viene riconosciuto nessun diritto, la cui vita non conosce scuola, né giochi, e il cui futuro è gravemente compromesso.
Sono stati fatti molti progetti per far uscire dalla povertà questa parte di popolazione, ma la spazzatura rimane la loro unica certezza. Nel frattempo, la Chureca continua a rappresentare una contraddizione umana per chiunque si guardi attorno: da un lato trova la bellezza del tropico e l’esuberanza della natura, dall’altro indifferenza, miseria e fame.
Josè Carlos Bonino

Josè Carlos Bonino




Ho visto meraviglie

Dopo aver predicato gli esercizi spirituali
a un gruppo di missionari di Reggio Emilia,
padre Alex, missionario della Consolata,
ne approfitta per visitare e raccontare
le loro attività.

«Sei fortunato ragazzo!» dico a un giovanotto, portatore di handicap e privo dell’uso di braccia e gambe, mentre viene imboccato da una volontaria di Reggio Terzo Mondo (Rtm). «La fortunata sono io» risponde Alessia Antonelli, 33 anni, arrivata in Madagascar per dirigere un progetto di sicurezza alimentare ad Ampasimanjeva. Per il momento sta studiando il malgascio nella «Casa della carità» di Fianarantsoa, 400 km a sud di Antananarivo, capitale del Madagascar.
Sono le sette di mattina. I disabili, puliti e rivestiti da suor Maddalena Razafiarisoa, coadiuvata da tre giovani consorelle malgasce e un paio di novizi, sono quasi tutti a tavola per la colazione: un abbondante piatto di riso e una tazza di latte. Altri ospiti, impossibilitati a nutrirsi da soli, sono imboccati dalle suore e personale locale.
«È il primo miracolo del vangelo dell’amore – spiega don Giovanni Caselli, da 8 anni in Madagascar, responsabile del ramo maschile delle Case della carità -. I malgasci accudiscono i portatori di handicap come fratelli o sorelle; prima venivano relegati in un angolo della casa ed erano gli ultimi a essere serviti».
Le Case della carità furono fondate, insieme a due famiglie religiose, da don Mario Prandi (1919-1989), per accogliere i disabili della diocesi di Reggio Emilia. Ben presto tale istituzione si estese in altre parti d’Italia e del mondo. Nel 1967, 3 suore, 3 preti e 5 religiosi laici delle Case della carità, inviati in nome e con il sostegno della diocesi di Reggio, aprirono la prima missione nel Madagascar. Per affiancare le loro attività, don Prandi dava vita a Reggio Terzo Mondo, organismo non governativo di volontari laici.
«Dopo 38 anni – spiega don Giovanni – in Madagascar ci sono 11 Case della carità, con 30-35 disabili ognuna, un ospedale con oltre 100 letti, un centro di preghiera, due case di formazione per vocazioni maschili e femminili, scuole e dispensari in varie parrocchie. Inoltre, le Case della carità contano 60 suore, 4 preti e 3 fratelli laici di origine malgascia. Una fioritura prodigiosa».

Nei 400 km tra Antananarivo a Fianarantsoa, di meraviglie ne vedo molte altre. La strada si snoda su un altopiano oscillante tra 1.000-1.300 metri di altitudine, correndo lentamente lungo una serie infinita di crinali, vallette e terrazze disseminate di risaie, colline di laterite rosso sangue, da cui il Madagascar deriva il soprannome di «isola rossa».
Ad Antsirabe, una cittadina di 100 mila abitanti a 160 km dalla capitale, gli ospiti della Casa della carità ci accolgono con grida di gioia, anche perché riportiamo a casa suor Lucia, di ritorno dagli esercizi spirituali.
Suor Lucia Ghini fa parte del primo drappello inviato nel Madagascar: a 80 anni suonati, insieme a tre suore malgasce, dirige la Casa della carità con l’entusiasmo che aveva nel 1967.
Incontro July, una ragazza focomelica, che parla benissimo italiano: è stata per alcuni anni ospite di una famiglia di Sassuolo, che le aveva procurato le protesi. Toata a casa, però, non le ha più usate: dice che si sente meglio senza. I suoi moncherini non misurano più di 15 centimetri; eppure, mentre parla, continua a tagliare il radicchio con tutta naturalezza. Le chiedo di darmi il suo nome: prende carta e penna e scrive il proprio nome, insieme all’indirizzo dei benefattori in Italia.
Un’altra missionaria della vecchia guardia la incontro ad Ambositra: è suor Margherita Brandizzo. A 76 anni è ancora superiora della comunità e continua il ritmo di vita come 38 anni fa: sveglia alle 4,55 ogni mattino; levata e pulizia degli ospiti, insieme alle suore malgasce, alle aspiranti e agli aspiranti, per essere pronti alla messa delle 6,30.
Da questo incontro mattutino e da altri appuntamenti giornalieri, dice, le viene la capacità di riconoscere Gesù in persona nei disabili fisici e mentali e servirli con amore.
È soprattutto dal suo esempio che altre 58 ragazze malgasce hanno fatto la sua stessa scelta di consacrarsi al servizio dei fratelli e sorelle, dentro e fuori del paese. Tra italiani e malgasci, sono oltre un centinaio i membri delle congregazioni delle Case della carità e da vari anni hanno aperto altre missioni in Brasile, Rwanda e India.
Non lontano dalla Casa della carità sorge il Foyer, un complesso ambulatoriale diretto dal laico reggiano Luciano Lanzoni, dove vengono curati circa 5 mila pazienti: lebbrosi, tubercolosi, handicappati fisici e mentali.
Come ai tempi di Gesù «gli zoppi camminano, i lebbrosi sono guariti». «Ai disabili fisici sono applicate protesi di vario tipo e tornano a camminare – racconta Luciano -; ai lebbrosi, grazie alle cure tempestive e costanti, viene restituita una nuova vita nella società; i tubercolosi sono trattenuti per tre mesi e rimandati a casa completamente guariti. Per gli handicappati mentali la cosa è più complessa; tuttavia, sono molti quelli che vengono recuperati, perché la loro malattia deriva spesso dall’estrema miseria in cui sono costretti a vivere».
D opo un buon caffè di arabica, coltivata sul posto, riprende il viaggio verso sud-est. La Land Rover è strapiena di scatoloni di medicine. Alcuni devono essere lasciati per far posto a Massimo, laico del Rtm, suor Maria Goretti, suora malgascia, e sottoscritto.
È alla guida don Gino Bolognesi, prete fidei donum della diocesi di Reggio Emilia, da 10 anni responsabile della comunità e delle opere di Ampasimanjeva, aiutante del parroco malgascio nel lavoro pastorale, professore di sacra scrittura nel seminario teologico della capitale.
Dall’altopiano scendiamo gradualmente verso la costa, attraverso una foresta dalla vegetazione spettacolare e primitiva, intramezzata da qualche coltivazione di riso. Dopo un centinaio di chilometri, caracolliamo su colline verdi, punteggiate di palme e bananeti, disseminate di piccoli villaggi con le case in legno e tetti di foglie di palma.
La vegetazione riesplode in prossimità dell’Oceano Indiano. Costeggiamo un fiume popolato da coccodrilli, unici animali selvatici della fauna africana presente nell’isola, insieme ai lemuri, una specie di scimmie tipiche del Madagascar.
Dopo oltre 7 ore di viaggio, entriamo nel complesso ospedaliero di Ampasimanjeva. A cena la comunità, internazionale ed eterogenea, è al completo: don Gino e quattro suore locali, il dottor Martin, primario malgascio, Matteo e Massimo, volontari del Rtm. Ma la mia attenzione è tutta per Giorgio Predieri, 56 anni, dal 1972 missionario ad Ampasimanjeva. È lui il fondatore dell’ospedale, vero fiore all’occhiello della missione reggiana: con oltre 100 posti letto e il servizio giornaliero a circa 200 malati estei, è l’unica struttura sanitaria di una regione grande come l’Emilia.
Oltre all’ospedale, lo stesso missionario ha provveduto a tutte le costruzioni della parrocchia, come scuole, chiese e dispensari; e continua ad amministrare il complesso sanitario, avendo alle sue dipendenze 50 persone locali, tra le quali 4 dottori. Per il suo indefesso lavoro, ha ricevuto il premio dell’organizzazione Cuore Amico di Brescia come «laico dell’anno 2002», una specie di mini Nobel per la missione.
Dopo cena, mentre il dottor Martin lava i piatti e Massimo, Matteo e il sottoscritto li asciughiamo, vedo un biberon messo in acqua bollente per la sterilizzazione. Domando a suor Mariane Rahuntanirina se c’è qualche altro ospite.
«Certo – risponde -. È Patrice Rafanomezantzoa (dono profumato), un gemello abbandonato da sua madre che ha partorito all’ospedale. Purtroppo l’abbandono dei gemelli più deboli è un costume ancora in voga. Grazie a Dio, però, riusciamo a salvarli: li alleviamo e poi cerchiamo chi li adotta».
La suora lo prende in braccio e me lo mostra: sembra più piccolo della mano della religiosa; pesa un chilo e mezzo, ma sta bene e sopravvivrà.
«Dono Profumato», un nome simpatico per esprimere un’altra meraviglia del vangelo, che sconfigge superstizioni e tradizioni culturali che puzzano di morte.

La mattina faccio un giro in ospedale e scopro altre novità. In una zona del complesso vedo varie costruzioni modeste e domando chi vi abita. «Vi sono i malati di tubercolosi – spiega la dottoressa Isabelle Hortense Ranaivo -. Li alloggiamo qui per almeno tre mesi, cioè, per tutto il tempo necessario alla cura completa della malattia. Restando a casa, ogni cura sarebbe inutile, per l’incostanza nel prendere le medicine, oltre al rischio di propagare la malattia».
Mi informo a lungo sulle malattie più frequenti della zona. «La tubercolosi è in aumento, insieme ad altre infezioni respiratorie – spiega la dottoressa -. L’Aids non sembra ancora diffusa; ma non abbiamo mezzi sufficienti per fare tutti gli esami necessari per diagnosticarla. Tuttavia, la malattia più diffusa è la malaria. Per ora colpisce in forme curabili, ma per i bambini è spesso mortale e produce molta gente anemica. Molto frequente è pure la drepanocitosi, una malattia genetica per cui si nasce con i globuli rossi a forma di banana anziché rotondi. Il morbo lascia poche speranze di vita; chi sopravvive la trasmette ai propri figli.
Verminosi e infezioni tifoidee, soprattutto, sono all’ordine del giorno per mancanza di igiene e per l’acqua altamente inquinata. Mancando i servizi igienici, le piogge convogliano tutto nei fiumi e risaie, da cui viene attinta l’acqua per usi domestici. I bambini sono le vittime più colpite da tale situazione di miseria sociale e ambientale».
«L’aborto è praticato?» domando timidamente. «Ci sono alcuni casi; ma le gravidanze indesiderate sono rare: il bambino è sempre ritenuto un dono di Dio».
A ccanto alla Casa della carità sorge la sede dei volontari di Reggio Terzo Mondo. Massimo Ambrosini, trentenne, da un paio d’anni segue un progetto di sicurezza alimentare, che prevede la costruzione di 8 dighe in terra battuta per la raccolta e distribuzione dell’acqua per la coltivazione del riso.
La prima diga (50 metri di lunghezza, 15 metri di base e 3,5 di altezza) è già stata completata nel giro di tre mesi, impiegando una ventina di operai, muniti di pale e carriole, senza alcun mezzo meccanico. L’opera è completata da due pozzi scavati a mano.
Un altro laico del Rtm è il trentunenne Matteo Caprotti, che da tre anni segue un progetto per il contenimento della filariosi (elefantiasi). «Questa malattia – spiega – è causata dall’elevato numero di punture di zanzare, fino a depositare nel sangue una tale quantità di microfilaria da invadere e ingorgare il sistema linfatico, facendo ingrossare alcune membra, le gambe soprattutto. Si calcola che il 50% della popolazione della zona ne sia affetto, anche se non tutti ne mostrano le conseguenze più appariscenti. Il nostro progetto segue circa 170 mila persone».
Generalmente l’impegno di questi volontari dura tre anni; eppure si rivela preziosissimo per sostenere ed estendere l’attività dei missionari e missionarie delle Case della carità, che alla missione dedicano tutta la vita. Anch’essi compiono meraviglie di vario genere.
Simona Puttini, per esempio, cornordina un progetto di aiuti alimentari (World Food Programme). Buona parte di tali aiuti provvedono il pranzo a migliaia di alunni delle scuole nella periferia della capitale malgascia. Oltre al settore scolastico, il programma raggiunge bambini denutriti, portatori di handicap, carcerati, malati di tubercolosi in 45 centri nella capitale e nelle zone rurali.
Da due anni Andrea Guerrini ed Elisa Alberti gestiscono un programma di sviluppo dell’artigianato. Oltre a promuovere corsi di formazione per gli artisti e procurare loro strumenti e materiali per sviluppare i loro talenti, li aiutano nella gestione e commercializzazione dei prodotti. È nata così la Fiavotana, associazione di 181 artisti, divisi in 14 gruppi, che affrontano con disinvoltura le sfide del mercato.
Goffredo Sacchetti cornordina un progetto di promozione agricola e artigianato a 220 chilometri a ovest di Antananarivo. Controparte locale del progetto sono i gesuiti, che hanno un Centro di formazione agricola e scuola professionale.
«Il futuro del Madagascar è all’ovest – afferma il volontario -. Qui il terreno non è ancora sfruttato ed è ricco di acqua. Noi formiamo giovani all’agricoltura e al rispetto dell’ambiente; insegniamo nuove tecniche di allevamento, a gestire i loro prodotti e diamo gli strumenti agricoli per cominciare a sviluppare il terreno messo a disposizione dallo stato. Dopo 25 anni di lavoro sulla stessa terra, i coltivatori ne diventano proprietari».
Il progetto dura tre anni, ma Goffredo, 46 anni, dal 1989 con Rtm, non vuole sentire parlare di ritorno in Italia. «Anzi – conclude -, vorrei fare appello ai giovani italiani, perché vengano a dare una mano allo sviluppo di questo paese; è una vera fortuna: si riceve molto più di quanto si possa dare».

Alex Moreschi




Futuro… in costruzione

Fratel Domenico ha sfidato i rischi della lunga guerra che ha insanguinato lo Zaire, oggi Repubblica democratica del Congo.
La pace non sembra ancora in vista, ma egli continua, mattone su mattone,
a costruire un futuro di speranza per i congolesi.

Da oltre 20 anni mi trovo nella Repubblica Democratica del Congo, precisamente nella regione nord-orientale dell’Alto Uele. La mia attività si è svolta in tre centri missionari: Neisu, Doruma, Isiro.

PRIMO AMORE
Per 8 anni a Neisu, ebbi la fortuna di lavorare insieme al compianto padre Oscar Goapper, medico missionario della Consolata, portando avanti la costruzione dell’ospedale da lui ideato e gestito. Erano anni felici.
Oltre all’ospedale, con una capacità di 150 posti letto e relativi servizi, ero impegnato nell’edificazione della scuola elementare, della residenza dei missionari e di altre strutture necessarie al funzionamento delle attività religiose e di sviluppo promosse dalla missione.

A PIEDI SCALZI
Nel 1994 ero a Doruma, un grosso villaggio a una decina di chilometri dal confine con il Sudan. Vi rimasi per 5 anni. Oltre all’amministrazione, mi occupavo dell’officina meccanica e della falegnameria. Al tempo stesso mi fu affidata la responsabilità di portare a termine alcune cappelle rimaste da molto tempo incompiute.
Isolata dal resto del paese, Doruma era dimenticata dal governo centrale e le poche strutture pubbliche erano in pessime condizioni. Il superiore della missione decise di affidarmi il compito di provvedere anche alle riparazioni dell’ospedale locale e delle scuole pubbliche.
Intanto era scoppiata la guerra dei Grandi Laghi, che ben presto si estese allo Zaire, provocando la caduta del regime di Mobutu e lo sfascio del suo esercito. Tra la fine del 1996 e l’inizio del ’97, vivemmo momenti drammatici. Inseguiti dagli invasori ugandesi e rwandesi, i soldati di Mobutu si diedero alla fuga, abbandonandosi a razzie e saccheggi dovunque passassero, non esitando a uccidere chiunque opponesse resistenza. Le missioni dell’Alto Uele furono depredate.
Anche a Doruma, fummo costretti ad abbandonare la missione e rifugiarci nella foresta, insieme con le suore congolesi. Per 15 giorni vivemmo sotto un tendone, finché riuscimmo a imbarcarci insieme agli altri missionari della regione su un piccolo aereo, provveduto da varie ambasciate europee, e raggiungemmo Kisangani e poi Kinshasa.
Quando nella regione, ormai sotto il controllo dei soldati ugandesi, sembrò ritornata la calma, affrontammo varie peripezie per raggiungere Isiro; quindi ci preparammo a rientrare nelle rispettive missioni.
Il superiore padre Ariel Hoyos mi accompagnò a Doruma, insieme a padre Honoré Tsiditeta, giovane confratello congolese. Il viaggio fu lungo, ma senza intoppi. Anzi, lungo la strada la gente ci salutava calorosamente, felice per il nostro ritorno. Arrivati nella parrocchia, le suore congolesi e la popolazione si strinsero attorno a noi, mostrandoci tutta la loro gioia e il loro affetto.
Riprendemmo le nostre attività. La gente pensava che la guerra fosse finita. Noi lo speravamo. Ma all’inizio di ottobre del 1998, arrivò a Doruma una colonna di ribelli sudanesi, che circondarono la missione, dicendoci che erano venuti con intenzioni pacifiche. Invece, ci fecero sedere tutti nella veranda, guardati da quattro «angeli custodi», armati di fucile e granate, mentre gli altri svuotarono le camere, uffici e magazzini. Requisirono pure le nostre auto, per portare il bottino oltre il confine.
Il giorno seguente, sfruttando una loro disattenzione, riuscimmo a eludere la loro sorveglianza e, con l’aiuto della popolazione, ci rifugiammo in un lontano villaggio nella foresta. Vi restammo per un mese, alloggiati in una capanna, affrontando i numerosi disagi della situazione, sostenuti dalla generosità dei nostri cristiani.
All’inizio di novembre, dopo aver derubato e saccheggiato tutta la popolazione di Doruma, i ribelli sudanesi si decisero a rientrare nel proprio paese e potemmo tornare alla missione: la trovammo spoglia di tutto. Ma riprendemmo lentamente le nostre attività per quanto fu possibile.
Seguirono tre mesi di grande incertezza. A più riprese, gli allarmi di eventuali scorribande di ribelli ci costrinsero a mettere in un sacco le poche cose personali che ci erano rimaste e fuggire nella foresta.
Uniti ai nostri cristiani celebrammo il natale nella più squisita semplicità e povertà. Approfittando di un momento di calma relativa, un giovane riuscì a portarci i saluti del nostro superiore, percorrendo in bicicletta i 350 km di strada tra Isiro e Doruma.
Nel suo messaggio padre Ariel diceva che sarebbe giunto da noi al più presto e ci avrebbe portato le cose di prima necessità, comprese le lampade a petrolio. Infatti, arrivò ai primi di febbraio del ’99. La sera facemmo un po’ di festa e ci scambiammo le notizie: erano otto mesi che non ci vedevamo.
La notte trascorse nella calma, ma alle prime ore del mattino fummo svegliati da rumori strani, come sbattere di porte. Ci alzammo in fretta per vedere che cosa stesse succedendo; ma nell’aprire la porta ci trovammo le armi puntate dei militari sudanesi. Ci intimarono di lasciare tutto; ci spinsero fuori; ci fecero sedere sui gradini, e cominciarono a rastrellare tutto quello che trovavano, compresi materassi, coperte e biciclette. Al padre Ariel tolsero pure le scarpe e le calze, lasciandolo a piedi nudi.
Tutto ciò durò circa un’ora, quando si udirono degli spari provenienti dal villaggio. Sentendosi circondati dai giovani armati di Doruma, i ribelli sudanesi, una quarantina, cominciarono a sparare e lanciare granate, per coprirsi la ritirata. Ognuno di noi cercò un rifugio per scampare dai tiri incrociati.
La sparatoria durò un’ora buona. Ne aspettammo un’altra, prima di uscire dai nostri nascondigli e radunarci sotto il porticato della nostra casa. Ci ritrovammo con ciò che avevamo addosso. Seduta stante, il superiore, padre Ariel, decise di ritirarci momentaneamente dalla missione, in attesa di tempi migliori.

RICOSTRUIRE LA SPERANZA
Alle 9.30 del 4 febbraio 1999, salimmo sulla Land Rover, che i ribelli non ebbero tempo di rubare, e lasciammo Doruma con tanta tristezza, promettendo ai nostri cristiani in lacrime di tornare presto. Era invece un addio definitivo, poiché il vescovo decise di sostituirci con due preti diocesani locali, affidando ai missionari della Consolata il compito di organizzare una nuova missione a Mbengu, a 30 km dalla sede vescovile di Dungu.
La sera raggiungemmo la missione comboniana di Rungu, dove celebrammo la messa di ringraziamento per lo scampato pericolo. All’indomani riprendemmo il viaggio e giungemmo a Isiro accolti con gioia dai nostri confratelli.
A Isiro, fin dai primi mesi, sono stato coinvolto nell’iniziativa, lanciata dal superiore regionale, per aiutare i giovani e bambini in difficoltà. Per tale scopo, ci fu dato un terreno con una costruzione non terminata, che abbiamo completato e adattato come Centro di alimentazione per bambini debilitati e ammalati, vittime degli effetti della guerra. Il Centro funziona a pieno ritmo. Siamo riusciti a salvare molti bambini, dando anche una formazione igienica e sanitaria alle loro mamme.
Oltre a fornire alimenti, il Centro ha un laboratorio di analisi, in base alle quali possiamo fornire gratuitamente le medicine necessarie per guarire. Abbiamo ottenuto ottimi risultati con centinaia di bambini. Il 90% dei casi hanno riacquistato la completa guarigione. Alcuni di essi, purtroppo, sono così debilitati, che i risultati sono incerti, soprattutto con i sieropositivi. Tuttavia anche per questi facciamo tutto il possibile per salvarli.
Ci occupiamo pure di bambini che non frequentano la scuola, perché sono orfani o di genitori in estrema povertà. Ad essi paghiamo mensilmente la retta scolastica. Una volta la settimana, il Centro accoglie oltre 200 poveri, ai quali viene dato un po’ di riso, sapone, sale e qualche soldo per poter sopravvivere.
Ogni mercoledì visitiamo i carcerati. Sono una sessantina, alloggiati in un capannone in disuso, diviso in due: una parte riservata alle donne, l’altra agli uomini. Dopo una breve preghiera, i miei collaboratori mi aiutano a distribuire cibo e medicine a chi ne ha bisogno.

IL FUTURO E’ GIOVANE
In questi ultimi mesi buona parte del mio tempo è occupato nella costruzione e ristrutturazione della Maison père Oscar, una casa per studenti provenienti dalle nostre missioni, che frequentano le scuole superiori e universitarie di Isiro. È intitolata al nostro indimenticabile missionario medico padre Oscar Goapper.
La Maison sorge accanto alla clinica universitaria, su un terreno donato dal capo tradizionale della missione di Neisu, di recente convertito e battezzato da padre Antonello Rossi. Le sue strutture murarie sono state completate e ospitano già alcuni giovani studenti, anche se la casa non è completamente arredata. Si è provveduto anche a fornire l’ostello di un’ampia biblioteca, che sarà aperta a tutti gli studenti della città, e di un auditorium, intitolato al nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano.
Inoltre, la Maison ospita il dipartimento di Scienze religiose, per la formazione di insegnanti di religione, agenti di pastorale e diaconi permanenti. L’iniziativa vuole essere un contributo per elevare la situazione culturale della gente tra cui siamo chiamati a testimoniare il vangelo.
Speriamo, inoltre, che quest’opera sia un piccolo tassello per costruire la pace, il dono più desiderato dai nostri congolesi.

Domenico Bugatti




La storia sui… binari

Si tratta della «Transcanadese», pezzo del nostro immaginario collettivo
dove il viaggio è visto ancora come esplorazione e conquista.
Attraverso luoghi incantati, carichi di storia, i segni del non sempre facile rapporto tra nativi e «invasori», tra autonomia e cedimenti alla moda dei… vicini.

Le tratte ferroviarie entrate a far parte della mitologia del viaggio, inteso come esplorazione e conquista, sono diverse, ma soltanto queste due – Transiberiana e Transcanadese – continuano a destare nell’immaginario collettivo quella miscela di fascino, mistero, avventura di cui oggi molti sentono la mancanza.
Se la Transiberiana è riuscita in gran parte a mantenere intatta la sua seduzione e a riproporre luoghi e popolazioni cambiati poco o niente nel corso della vita centenaria, la Transcanadese si è evoluta di pari passo con le conquiste tecnologiche, il progresso, i nuovi usi e costumi, perdendo molto del significato originario che era stato alla base della sua costruzione.
La Transiberiana è il frutto di una cultura e di uno spirito – quello russo – già formatosi e radicato nella popolazione, mentre le ferrovie canadesi hanno anticipato il decorso storico del Canada stesso, tanto da non apparire esagerato affermare che, se oggi il paese americano è una nazione, lo si deve essenzialmente alle sue ferrovie.
La Nova Scotia, il New Brunswick nel 1864 e la British Columbia nel 1871 siglarono il trattato di unione con la Confederazione solo dopo aver ottenuto dall’allora primo ministro J.A. Macdonald la promessa che le loro province sarebbero state unite al resto del paese con collegamenti ferroviari: rispettivamente, l’Imperial Canada Railway e la Canadian Pacific Railway (Cpr).
Lungo i binari di queste strade ferrate si sono consumati drammi umani, come la sconfitta del leggendario meticcio franco-indiano Louis Riel, nel 1885; o scandali politici, come quello che costrinse lo stesso Macdonald alle dimissioni nel 1873. Per la costruzione della Cpr sono stati ingaggiati migliaia di lavoratori dall’Asia e dall’Europa, tra cui 8 mila italiani; nuovi ceppi etnici che hanno reso città canadesi come Toronto, Montreal, Vancouver vivaci insalatiere etniche.
Ma la Cpr è stata anche lo strumento che ha portato il Canada ad adottare un atteggiamento così differente dagli Stati Uniti nei confronti degli aborigeni: la colonizzazione dell’ovest canadese da parte degli europei è proceduta di pari passo con la legge dello stato, evitando l’anarchia e gli stermini avvenuti più a sud.
E leggere la storia di un paese sui binari di un treno, osservandone i cambiamenti in atto, è l’intento che io, mia moglie Yasuko e mio figlio Daigo, ci siamo dati per questo viaggio che, a differenza di quanto accaduto per la Transiberiana, ha visto ridurre al minimo l’improvvisazione, grazie alla disponibilità, la cordialità e l’efficienza delle persone e degli enti contattati per ottenere interviste e visite.
Così, se da un lato percorrere la Transcanadese non presenta inconvenienti e problemi, dall’altro questa perfezione organizzativa ha in parte dissolto il clima pionieristico che è ancora tangibile, mentre si percorre il tratto russo. Anche lo schoc culturale, che un visitatore del vecchio mondo subisce nel giungere nel paese, non è così traumatico come può sembrare, osservando sull’atlante geografico la distanza che separa i due continenti.

Nostalgia di indipendenza

Il Québec, la porta d’accesso al Canada per la maggioranza degli europei, ha mantenuto intatta quell’atmosfera da Nouvelle France che tanto la differenzia da ogni altro stato nordamericano: le vie delle cittadine ripropongono nomi di personaggi reali e della chiesa preconciliare, come Boulevard Roi Louis xvii o Pie ix; nei negozi si vendono formaggi speziati e i villaggi si preannunciano con i campanili delle chiese cattoliche, attorno a cui si stringe la vita comunitaria.
La religione, assieme alla lingua, è uno dei due caratteri che hanno permesso al Québec di mantenere quel carattere mediterraneo che lo rende così unico e diverso dalle altre province canadesi. Del resto, fu il cardinale di Richelieu che, dopo aver fondato la Compagnie de la Nouvelle France nel 1627, diede il via alla sistematica colonizzazione e alla cristianizzazione di tutti i possedimenti francesi del Nord America; e fu ancora la chiesa cattolica a divenire l’elemento di riferimento per la comunità francofona dopo il 1760, anno in cui gli inglesi conquistarono Montreal e s’impadronirono del Québec.
L’occupazione britannica risparmiò ai cittadini della Nouvelle France il crollo politico e morale della madrepatria di Luigi xiv e permise al clero di mantenere intatta quella considerazione popolare che gli venne tolta in Europa dalla rivoluzione francese.
Al di fuori dall’Asse Laurenziano, la regione compresa tra Montreal e Québec City, l’inglese diventa una lingua sconosciuta, parlata tutt’al più con un forte accento francese da ben poche persone. Mentre ci addentriamo nella regione della Gaspesie, tra villaggi che ricordano quelli della costa normanda o bretone, ci accorgiamo di quanto lontana sembra essere Ottawa, la capitale politica del Canada, e quanto vicina, invece, sia Parigi!
Qui, tutti ricordano la memorabile visita di De Gaulle a Montreal nel 1967, quando dal balcone del municipio gridò entusiasta: «Vive Montreal! Vive le Québec! Vive le Québec libre!».
Oltre a infervorare i secessionisti, il grido scosse le fondamenta del parlamento canadese, il quale iniziò a varare una serie di leggi che permisero al Québec di mantenere la sua autonomia culturale e politica, senza distaccarsi dalla madrepatria. «È stato il nostro Sessantotto» – ci dice Robert Yvon, responsabile del Dipartimento dell’educazione del distretto di Lac Saint Jean, oggi in pensione. «Non abbiamo vinto, ma abbiamo ottenuto l’indipendenza economica e amministrativa».
A Chicoutimi, all’estremità del Fiordo di Saguenay, l’idea separatista è ancora viva nel 90% della popolazione. Il Front de Libération du Québec, organizzazione armata particolarmente attiva negli anni Settanta, qui conta ancora diversi nostalgici e la storia della regione, scritta dai «Martyres patriotes» del 1826 o quelli delle Ribellioni del 1837-38, viene ancora insegnata con orgoglio ai bambini. «Je me souviens»: io mi ricordo, si legge sulle targhe automobilistiche della provincia del Québec; un ricordo che nessuno vuole cancellare, così come nessuno, nel vicino Ontario, desidera dimenticare l’eredità britannica ricevuta dagli antichi colonizzatori.

Influsso anglo-americano

In questa provincia, grande più di tre volte l’Italia, ma con una popolazione sei volte inferiore, le bandiere nazionali canadesi sventolano accanto all’Union Jack. La fedeltà alla Corona è ancora oggi testimoniata dall’orgogliosa ostentazione nei cognomi dell’appellativo UE (United Empire), concesso nel 1789 dalla regina per ringraziare i 40 mila lealisti inglesi che, pur di non sottostare alle leggi dei Rebels, si trasferirono in Canada durante la guerra d’indipendenza americana. Attraversiamo città, i cui nomi ricopiano quelli dell’Inghilterra: Kingston, London, Thames, sino ad arrivare a Toronto, che fino al 1834 si chiamava York.
Oggi, con i suoi 4 milioni di abitanti, le vie che si intersecano ad angolo retto, i grattacieli che si specchiano nel lago, le fabbriche che circondano la periferia, Toronto è la città più grande del Canada, ma anche la più statunitense, sebbene nessun «toronter» ami questo accostamento. Loro sono canadesi e la sola idea di essere considerati una copia culturale e politica dei vicini è insopportabile.
Costeggiando il lago Ontario, arriviamo alle cascate del Niagara, la cui naturale maestosità è stata rovinata dalla mano dell’uomo che, per attirare il turismo dagli Stati Uniti, ha costruito un guazzabuglio indecente di locali nottui, sale da gioco, fast-food, negozietti stracolmi di gadgets. Preferiamo la quiete di Niagara-on-the-Lake, cittadina piuttosto artificiale, ma immersa nelle colline coperte di vigneti, da cui si produce il famoso e costoso Ice Wine.
Vicino a Fort Gorge, dove il fiume Niagara si tuffa nell’Ontario, un cartello indica che nel xviii secolo i gloriosi anglo-canadesi sconfissero gli «invasori» americani (è scritto proprio così: invasori). Il contrasto fra le due Niagara è stridente: tanto insulsa, americana, pacchiana è la Falls, quanto colta, rilassante e aristocratica è la On-the-Lake.
Qui, ogni anno, si apre lo Shaw Festival, che attira appassionati di teatro da tutto il mondo. E, sempre qui, vive una delle più numerose comunità di italo-canadesi del paese, discendenti di quei 410 mila emigranti italiani che, dal 1945 al 1967, hanno solcato l’oceano in cerca di una vita più dignitosa per sé e i propri figli.
Maria Rocca, che assieme al marito Léon Martin gestisce la B&B dove alloggiamo, è la figlia di uno di questi: professoressa di lettere e italiano, rappresenta un esempio di integrazione sociale e culturale, conclusasi con successo.
Ma la storia canadese ha conosciuto anche posizioni di rigetto, sino a rasentare la xenofobia. All’inizio del secolo, il teorico dell’imperialismo, George Parkin, affermava che il rigido clima invernale canadese aveva risparmiato al Canada la creazione di città come New York, Chicago, Saint Louis che, oltre a quello che lui definiva il «problema negro», attiravano «masse di vagabondi dall’Italia o da altri paesi dell’Europa del Sud».
Pochi anni prima a Regina, nel Saskatchewan, Louis Riel era stato impiccato al termine di una rivolta iniziata a Winnipeg, nel 1869. Riel guidò una ribellione di meticci, appoggiata anche dalla chiesa cattolica, per evitare che gli inglesi protestanti si appropriassero delle loro terre. Ancora oggi, nel quartiere francese di Saint-Boniface a Winnipeg, la piccola comunità francofona considera Riel un eroe.
Nel cimitero di fronte alla cattedrale cattolica, la sua tomba è meta di pellegrinaggi, mentre a Regina, durante l’estate, nella sala comunale viene riproposto il processo che lo condannò a morte.

Giubbe rosse (di sangue)

Daigo, invece, è molto più attratto dai Royal Mounted Canadian Police (Rmcp, le famose Giubbe Rosse che a Regina hanno la loro accademia) e dalla loro mascott, Safety Bear, una sorta di orso Yoghi sempre circondato da bambini (e non solo da loro).
Al confine tra il Saskatchewan e l’Alberta, visitiamo il Cypress Hill, il luogo dove nel 1876 Ta-tanka I-yotank, da noi conosciuto come «Toro seduto», si rifugiò dopo la battaglia di Little Big Ho, per evitare la vendetta delle truppe statunitensi. Le Giubbe Rosse (colore scelto anche per distinguersi dalle famigerate Giubbe Blu), protessero i rifugiati e amministrarono tutti i territori della Corona, evitando che l’anarchia della «legge del Far West» si propagasse anche in Canada.
Ma anche le divise della Rmcp sono macchiate del sangue di canadesi. Nella memoria delle lotte sindacali è rimasto indelebile il Bloody Saturday, il sabato di sangue, consumatosi il 21 giugno 1919 a Winnipeg, al termine di una serie di scioperi per richiedere la settimana lavorativa a 40 ore. Quel giorno il sindaco della città, stanco delle rimostranze dei lavoratori, richiese l’aiuto delle Giubbe Rosse per ristabilire l’ordine. Il loro intervento lasciò per le strade cittadine due morti.
Il 1° luglio 1935, nel pieno della crisi economica, a Regina 500 agenti Rmcp si scontrarono con 2 mila lavoratori disoccupati, organizzati dal Relief Camps Worker Union, che tentavano di raggiungere Ottawa per perorare la loro causa al parlamento. I feriti, in quel caso, furono decine, mentre 130 manifestanti furono arrestati.
Le Montagne Rocciose dell’Alberta fanno da sfondo alle numerose tribù indiane che celebrano il pow-wow, la festa più importante dell’anno, con balli, danze, musiche. I variopinti colori dei costumi si mischiano con le mandrie di bufali, i rodei, i laghi cristallini in cui si specchiano le cime innevate. E dalle Montagne Rocciose discendiamo lentamente verso l’Oceano Pacifico, dove si concluderà il nostro viaggio.
Tutta questa terra, oggi facente parte della provincia della British Columbia, è stata a lungo contesa al Canada dagli Stati Uniti. Nel 1846, James Knox Polk scelse come parola d’ordine per la sua campagna presidenziale il terribile motto «Fifty-Four-Fifty or Fight!» (letteralmente: 54 gradi e 50 minuti di latitudine nord o guerra!) che fissava le cornordinate dei confini settentrionali statunitensi voluti da Polk, comprendendo il vasto territorio oggi occupato dalla British Columbia fino al confine con l’Alaska (allora territorio russo).
Lo slogan restò fortunatamente solo sulla carta, ma gli screzi con gli Stati Uniti e il pericolo di colonizzazione continuano ancora oggi, tanto da costituire, secondo la scrittrice Margaret Atwood, il tema centrale della specificità culturale e politica canadese.
Nel 1987, i rapporti con i due paesi si erano fatti così tesi, che il ministro della difesa canadese annunciò di voler acquistare dei sottomarini nucleari per difendere le proprie coste, continuamente violate dalla marina statunitense che oltrepassava i limiti territoriali, senza chiedere alcun permesso.
Il Canada ha comunque bisogno degli scomodi vicini, specie ora che Vancouver è stata designata sede dei giochi olimpici invernali del 2010. La città, immersa in una baia spettacolare che la rende una delle più belle di tutto il Nordamerica, è già in fermento; ma le associazioni di aiuto sociale e quelle ambientaliste si stanno giustamente preoccupando per l’inevitabile degrado che puntualmente colpisce le città olimpiche una volta passata l’ubriacatura dei giochi. Sono ancora troppo evidenti i tristi esempi di Montreal e Calgary, le cui comunità debbono ancora oggi, a distanza di decenni, pagare i costosi e inutili impianti, costruiti in occasione delle manifestazioni olimpiche, togliendo fondi preziosi agli investimenti sociali.

Il nostro viaggio si conclude a Vancouver Island, accolti dalla sua aristocratica capitale, che prende il nome dalla regina Vittoria. Ma è alla baia di Tofino, duecento chilometri più a nord, che prendiamo realmente congedo dalla Transcanadese. La costa si affaccia sull’Oceano Pacifico nel punto in cui questo si apre all’infinito ai nostri occhi. Daigo, a cui abbiamo detto che dall’altra parte della distesa d’acqua si trova il Giappone, si diverte tra le onde, fissando lo sguardo all’orizzonte. Davanti a sé ha un mondo intero da scoprire.

BOX 1

La danza propiziatoria, perché la caccia si concluda con esito positivo, sta terminando. Le mogli invocano la protezione del cielo sui loro mariti, i bambini corrono ad abbracciare i loro padri e i fratelli maggiori prima di vederli allontanare dai loro teepee.
I bisonti pascolano pacificamente a poche ore di marcia. Sono migliaia, tanto da trasformare la prateria in un’immensa coperta verde, punteggiata da macchioline marroni. I guerrieri si avvicinano lentamente, senza far rumore, mimetizzandosi con le stesse pelli dei bisonti uccisi l’anno prima. Poi, a un segnale convenuto, si alzano in piedi all’unisono, gettando le pelli sull’erba e mostrando i loro volti dipinti. Lanciano urli e gli animali, spaventati, iniziano a galoppare. Una corsa sfrenata di diverse miglia verso il baratro di una scarpata, che sprofonda per diverse decine di metri. Intuiscono il pericolo, poi lo vedono, ma non possono arrestare la loro marcia perché dietro migliaia di altri bisonti impauriti li sospingono inesorabilmente.
Le carcasse si accumulano, una sopra l’altra, schiacciando e soffocando gli animali che sono riusciti a sopravvivere al grande salto. Anche quest’anno la caccia è stata fruttuosa. La tribù avrà carne per sfamare i propri componenti e sufficienti pelli per difendersi dal rigido inverno delle pianure del Nordamerica.
Questa scena si è ripetuta per migliaia di anni a Head Smashed-In Buffalo Jump, nell’Alberta, il luogo più sacro di tutta la comunità aborigena del Canada, oggi trasformato in museo e dichiarato dall’Unesco patrimonio culturale dell’umanità.

Tutti gli aborigeni del Nord America (quelli che noi, persistendo nell’errore commesso da Cristoforo Colombo chiamiamo indiani d’America), cercano di recarsi, almeno una volta nella vita, in questo ombelico della loro cultura millenaria. Molti arrivano per assistere al pow-pow, la sacra cerimonia che saluta il culmine dell’estate con danze e balli, tenuti in ogni parte del continente. Ogni tribù, ogni clan, indossa propri abiti, intona propri canti, esegue le proprie danze che li contraddistingue da ogni altra nazione aborigena americana. In questo modo, perpetuano tradizioni e riti ancestrali tramandati di bocca in bocca, di generazione in generazione.
Nazioni, dicevamo. Gli aborigeni considerano la loro appartenenza tribale al rango di un qualsiasi altro stato del globo. Duroni, Iroquesi, Piedi Neri, Sioux, Apache… ogni gruppo è dotato di lingua, leggi, religioni, strutture sociali e di comando completamente differenti l’uno dall’altro. E, come qualsiasi altra nazione, anche queste si combattevano, creavano alleanze, commerciavano, massacravano, tradivano, complottavano.
L’arrivo degli europei e la creazione di quelle invisibili, ma invalicabili, barriere geografiche chiamate confini, hanno impresso una biforcazione storica al mondo aborigeno nordamericano. Al sud, la disordinata e individualistica corsa al lontano West dei coloni americani, non regolamentata da alcuna legge, ha causato lo sterminio degli abitanti originari. La disperata difesa del proprio territorio da parte di questi ultimi ha permesso, poi, di creare nel «viso pallido» la fobia del pellerossa, legalizzando i genocidi perpetrati dalle Giubbe Blu.
A nord, invece, il Royal Proclamation Act del 1763, che impediva ai coloni di appropriarsi dei terreni, se questi non erano prima acquistati dalla Corona, garantiva una sorta di ordine e legalità nell’espansione verso il Pacifico.
Del resto, l’incontro culturale tra le diverse etnie era già in atto sin dalla seconda metà del xvii secolo, quando i coureurs-de-bois (i commercianti franco-canadesi che trattavano con gli aborigeni l’acquisto di pelli) cominciarono a prendere per mogli (o amanti) le ragazze delle tribù visitate. I figli meticci nati da queste unioni diedero origine ai métis, il cui rappresentante più celebre rimane Louis Riel. Oggi, a fronte di 624 mila nativi canadesi, i métis sono 153 mila.

I rapporti tra Ottawa e gli aborigeni non sono sempre stati pacifici. Nel 1759, ad esempio, il generale Jeffrey Amherst, comandante in capo delle truppe britanniche in Nord America, cercò di sterminare gli autoctoni, regalando loro coperte contaminate di vaiolo, inaugurando l’epopea della guerra biologica.
Furono però i vicini statunitensi a creare i maggiori problemi: nel maggio 1873, un gruppo di contrabbandieri, che commerciava whisky in cambio di pellicce, si scontrò a Cypress Hill con guerrieri cree, piedi neri e assinibone, uccidendone 36 e creando pericolose tensioni con l’innocente governo di Ottawa, intervenuto in favore degli aborigeni.
Fu per evitare il ripetersi di simili scontri che, il 23 giugno 1874, il colonnello Patrick Robertson Ros creò le famose Giubbe Rosse. Solo due anni dopo, l’ispettore James Walsh venne chiamato a proteggere i sioux di Ta-tanka I-yotank, (da noi conosciuto come Toro Seduto), rifugiatisi in Canada per evitare rappresaglie dopo la battaglia di Little Big Ho e la sconfitta del Generale Custer (25 giugno 1876).
Queste prese di posizione, hanno creato nei nativi canadesi un clima di relativa fiducia nei confronti del governo di Ottawa, che mai si è riscontrato nei loro fratelli statunitensi.
Ma la creazione di riserve, iniziate nel 1876 con la stipula dell’Indian Act e le sovvenzioni ancora oggi elargite alle comunità locali, se da una parte hanno permesso il mantenimento di tradizioni, istituendo scuole e centri culturali, dall’altra hanno alimentato una sorta di passività nell’animo aborigeno. La disoccupazione tra le comunità indigene, molto più elevata rispetto alle altre etnie, è dovuta non solo a un reclutamento settario nel mondo del lavoro, ma anche a un senso di impotenza ed emarginazione che le generazioni si sono tramandate nel corso dei secoli.
I generosi sussidi di disoccupazione garantiti dallo stato disincentivano i giovani a trovare un lavoro stabile, mentre la crescente mancanza di valori morali, sommata all’asperità del clima e degli elementi naturali, viene spesso colmata dall’alcornol e dalla droga. L’antica e profonda saggezza degli avi rischia in questo modo di scomparire.
Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Isola ad alta tensione

Un anno fa la fuga di Aristide e l’inizio del governo provvisorio,
guidato da Gérard Latortue, incaricato di guidare Haiti verso la normalità.
Gli aiuti promessi per la ricostruzione sono ancora un miraggio, mentre violenze
e insicurezze continuano a insanguinare l’isola caraibica.

All’indomani dei sollevamenti popolari che hanno causato la fuga del presidente Jean-Bertrand Aristide (29 febbraio 2004), ad Haiti è stato messo in piedi un governo di transizione. Il suo mandato è ristabilire la pace sociale e portare il paese a elezioni libere nell’autunno di quest’anno.
Nonostante il dispiegamento dei caschi blu della Minustha (Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti) le violenze nel paese non sono cessate. Il primo dicembre scorso le milizie dell’ex presidente hanno attaccato il palazzo presidenziale dove si trovava il segretario di stato americano Colin Powell in visita ufficiale. Altri disordini sono scoppiati contemporaneamente in vari quartieri della città.
Abbiamo incontrato il primo ministro al margine del 10° vertice della francofonia, che si è tenuto a Ouagadougou, in Burkina Faso.

Qual è il bilancio della partecipazione di Haiti al 10° vertice della francofonia?
Molto positivo, perché abbiamo ripreso contatto con tutti i paesi francofoni, in particolare quelli africani. Ma abbiamo incontrato un grosso problema: c’è stata una manovra per far sì che l’Unione Africana prendesse una posizione contraria al cambiamento della costituzione. Tuttavia, in questo incontro abbiamo potuto discorrere su quello che succede ad Haiti e abbiamo spiegato loro che non siamo un governo nato per prendere e conservare il potere, ma vogliamo semplicemente gestirlo per un periodo ben determinato, con mandato ben preciso: restituire l’ordine al paese e prepararlo alle elezioni.
I capi di stato hanno capito che questo è un governo che non vuole prendere una posizione e non parteciperà alla competizione elettorale. Ora c’è anche un certo interesse per il cammino intrapreso da Haiti, come modello di transizione, che può essere utilizzato per risolvere i problemi di altri paesi.
La cosa più importante è che tutta l’Organizzazione internazionale della francofonia (Oif) ha deciso di appoggiare il processo in corso e, allo stesso tempo, aiutarci nello svolgimento delle elezioni, inviando osservatori francofoni e poliziotti nell’ambito della cooperazione tra le polizie. Inoltre ci sono vari presidenti che vogliono venire ad Haiti, come il senegalese Wade e il segretario dell’Oif Adbou Diouf.

E dal punto di vista economico, avete insistito affinché alcuni paesi sblocchino una serie di fondi promessi?
Non abbiamo messo questo problema sul tavolo, perché i paesi che possono darci qualcosa, come Canada e Francia, hanno riaffermato la volontà di aiutarci e a breve. Sono soprattutto i grossi paesi come questi che giocano un ruolo effettivo sulla direzione dei finanziamenti inteazionali. I paesi francofoni nell’insieme hanno posto il problema della cooperazione internazionale, per cui il processo di sblocco dei fondi è troppo lento e non risponde sempre ai bisogni di finanziamento dei paesi in via di sviluppo.

E i fondi (un miliardo e ottocento milioni di euro) promessi dall’Unione Europea?
Non sono ancora stati sbloccati dall’UE: essi sono stati approvati nel luglio scorso; in agosto c’erano le vacanze e dopo è cambiata la Commissione europea. Nessuna decisione poteva essere presa. Ma il principio c’è: il pagamento si farà nei primi mesi di quest’anno.
Ma noi, come governo, abbiamo preso delle misure, senza aspettare questi soldi, per cominciare una serie di lavori. Il 15 novembre scorso abbiamo lanciato vari cantieri con i fondi del Tesoro haitiano e della Banca Interamericana di Sviluppo che ha già iniziato a pagare. Sono progetti per creare lavoro nel paese, perché la nostra opinione è nota: la causa essenziale dell’insicurezza è la disoccupazione, la miseria.

Ad esempio?
Intanto c’erano certe condizioni che dovevamo rispettare, come fare un decreto che crea la commissione per l’assegnazione dei mercati. Poi siamo in piena contrattazione per cominciare il più rapidamente possibile la ricostruzione di alcune importanti strade del paese, sia al nord che al sud.

A livello politico interno, i diversi attori sono oggi disposti a mettersi d’accordo per gestire la crisi?
Sanno bene che non c’è altra possibilità di uscire dalla crisi se non quella di assicurare il successo della transizione. In questi mesi tutte le attività pre-elettorali devono cominciare; quindi, se vogliamo veramente uscire da questa situazione per arrivare a un governo legittimo, non si può che appoggiare la transizione, per portare il paese alle elezioni a fine 2005.

Lo stato è in grado di garantire la sicurezza dei cittadini e di arrivare alle elezioni?
Abbiamo chiesto aiuto alle Nazioni Unite che hanno inviato i caschi blu della Minustha, perché fin dall’inizio abbiamo riconosciuto di non potercela fare da soli, con una polizia di 3 mila effettivi, mal formata, mal equipaggiata, che non aveva neanche le armi, per 8 milioni e mezzo di abitanti. Non sarà lo stato haitiano da solo che garantirà la sicurezza, ma in cooperazione con le Nazioni Unite e le truppe della Minustha.

Ma le violenze nella capitale e in altre città continuano…
Adesso va meglio e la Minustha sarà ben presto al completo, avrà il suo effettivo totale in questi giorni. Sono pronti a impedire ogni genere di disordine, come quelli che ci furono alla fine del mese di settembre. Entriamo in un periodo in cui la Minustha prende ancora più coscienza della necessità di garantire una sicurezza totale, affinché cessino le violenze e il processo elettorale possa realizzarsi nelle migliori condizioni possibili.

Alcuni vorrebbero ricreare le forze armate d’Haiti: lei cosa ne pensa?
Io non ho nessun problema affinché ci siano delle forze armate, ma noi non abbiamo il tempo di farlo. Occorre studiare la questione a fondo. Sarà il prossimo governo che entrerà in funzione il 7 febbraio 2006, a preparare uno studio sulla fattibilità di un esercito. Ristabilire un’istituzione così, dopo 10 anni, richiede un lungo periodo di preparazione. Non siamo contro, ma non abbiamo né il tempo, né i mezzi, né il mandato.

Ma ci sono le milizie, che si dicono ex militari, che dettano legge in alcune zone: ci sono due stati in Haiti?
No, è totalmente falso. Sono stato a Cap Haitien, il 19 novembre scorso, e c’era un solo stato che mi ha ricevuto. Per la questione dei militari è stato creato l’ufficio per la gestione dei militari smobilitati, che ha il compito di reinserirli. Sono pronti a rispettare gli accordi fatti tra il governo e questi ex militari. Abbiamo già 600 impieghi e aspettiamo che l’ufficio ci dia i nomi per assegnarli.

E come farete a eliminare il fenomeno delle bande armate?
Non tocca a me, ma alla Minustha insieme alla polizia nazionale. Vedremo, dobbiamo cominciare, per assicurare una certa stabilità, che non ci sia più la libertà di andare a sparare in qualsiasi momento in questo o in quel quartiere.

BOX 1

Haiti: paese suicida

I fondi promessi nello scorso luglio dalla comunità internazionale per la ricostruzione di Haiti (quasi un miliardo di dollari) non sono ancora arrivati. Ma il ministro degli esteri, Yvon Siméon, in seguito alla riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu dedicato ad Haiti, lo scorso gennaio, si è detto «ottimista» sullo sblocco imminente.
Intanto il primo ministro Gérard Latortue è riuscito a ottenere il finanziamento per le elezioni, previste a fine anno. Il 10 gennaio Canada, Stati Uniti e Unione europea si sono impegnati per un totale di 44 milioni di dollari necessari.
Ma ad Haiti, a un anno dai sanguinosi eventi terminati con la fuga del presidente Jean-Bertrand Aristide, oggi «ospite» in Sud Africa, e l’installazione dell’attuale governo di transizione, cos’è cambiato?
L’attualità è sempre dominata da violenza e da violazioni dei diritti umani. Le bande fedeli all’ex presidente continuano a imperversare nelle bidonvilles della capitale; gli ex ribelli, costituiti da ex militari, esponenti della destra storica ed ex putschisti si fanno ora chiamare Fronte di Resistenza Nazionale e controllano parte del paese, a dispetto della polizia nazionale, dei caschi blu dell’Onu e del governo che chiede a tutte le forze non ufficiali di deporre le armi.
Le Nazioni Unite, presenti con la missione di peacekeeping Minustha, forte di 7.400 effettivi sotto comando brasiliano (partecipano anche argentini, cileni, ecuadoriani, giordani, ecc.), che ha visto il suo mandato rinnovato fino a giugno 2006, ha seri problemi a mantenere l’ordine.

L’ agenzia stampa AlterPresse riporta che dal 30 settembre scorso un movimento violento è in corso in diversi quartieri della capitale. Le «chimere» rivendicano il «ritorno fisico» di Aristide. Ad oggi si registrano circa 200 morti, ufficialmente per scontri con la polizia. Da gennaio è in corso un’operazione di «pulizia» nelle enormi bidonvilles della capitale Port-au-Prince, che vede l’attuale amministrazione al centro di una polemica. Accuse di violenze, maltrattamenti ed esecuzioni sommarie, perpetrate dalla polizia, sono arrivate a decine alle organizzazioni per i diritti umani. La Coalizione nazionale per i diritti degli haitiani (Nchr) è stata informata di persone uccise dalla polizia: «Chiederemo alla polizia d’aprire le inchieste su questi casi e sugli atti di brutalità esercitati da poliziotti durante le operazioni» ha dichiarato il direttore Pierre Espérance all’agenzia Haiti Presse Network.
È nel corso di un rastrellamento della polizia a Cité de Dieu (nota bidonville) che è stato ucciso, il 14 gennaio, il giovane giornalista Abdias Jean. Sarebbe stato testimone scomodo di alcuni omicidi.
Nello stesso periodo altri due giornalisti del quotidiano Nouvelliste, sono stati malmenati, questa volta da sostenitori dell’ex presidente, mentre altri due colleghi hanno denunciato pressanti minacce di morte nei loro confronti.
Ma non basta. Il primo dicembre nel penitenziario nazionale di Port-au-Prince una rivolta è degenerata in massacro. Le cifre ufficiali di 10 morti e 40 feriti sono smentite da alcuni testimoni, che avrebbero visto molti più cadaveri. Le visite di parenti e giornalisti sono state, da allora, soppresse. Amnesty Inteational ha lanciato un appello affinché sia fatta chiarezza e rispettati i diritti dei prigionieri.

I ntanto sul piano diplomatico l’Unione Africana, per voce del presidente della Commissione Alpha Oumar Konaré ha espresso attaccamento al problema haitiano perché: «Haiti è un paese africano fuori dall’Africa». A Pretoria (Sud Africa) Konaré ha incontrato Aristide e Thabo Mbeki a gennaio, dopo aver fatto una visita il mese prima nel paese caraibico. Il risultato: un avvicinamento di Latortue, che ha sempre accusato Aristide di dirigere i suoi sostenitori dall’esilio, all’ex presidente per un’azione in favore del dialogo nazionale e la pace.
Nel paese, intanto, il progetto di dialogo inter haitiano, sostenuto dalla comunità internazionale, cerca di decollare. Una consultazione dei diversi partiti politici e settori della nazione è in corso sulle grandi questioni del paese. Micha Gaillard, politico e oppositore del regime di Aristide, incaricato della cosa, si è detto soddisfatto delle reazioni che ha incontrato nei confronti del dialogo nazionale. Il gruppo 184, gli oppositori democratici della società civile, tenta di formalizzare un progetto di contratto sociale e cerca fondi per realizzarlo. Il gruppo è deciso a contribuire alla realizzazione di elezioni trasparenti e corrette (9 ottobre, 13 novembre e 18 dicembre 2005). M.B.

Marco Bello




Il sogno di Mukiri


I bambini poliomielitici di Tuuru necessitano di acqua. E lui si accorge che, nella foresta-montagna del Nyambene, ogni mattina avviene quasi un miracolo: la nebbia nottua si condensa sulla chioma degli alberi e, con il sole, si disperde in mille rivoli sul terreno. Allora ha un’intuizione geniale: scava nel ventre della montagna e, attraverso gallerie, recupera l’acqua in bacini di raccolta. Nasce un acquedotto. Un’opera che, grazie a 270 chilometri di tubazioni, offre acqua a 250 mila persone. Ma il sogno non si esaurisce qui.

28 dicembre 2004.

Le chiese cattoliche risuonano, ancora una volta, del lamento altissimo delle mamme dei bimbi massacrati dal re Erode poco dopo la nascita di Gesù a Betlemme. Lacrime desolate. «Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più» (Mt 2, 18). Ma, il 28 dicembre 2004, la disperazione riempie anche tanti templi del mondo. L’urlo è straziante specialmente in Sri Lanka, Indonesia, India, Thailandia, Myanmar; raggiunge le coste della Somalia e del Tanzania. Persino i luoghi di culto islamici, indù, buddisti e cristiani sono stati squassati e violentati, due giorni prima, dallo tsunami, l’onda titanica e furiosa del maremoto. Le vittime appaiono subito molte: 10, 20, 30 mila. Addirittura 100, 200, 250 mila. Poi non si contano più. Sono troppe! Un anziano annaspa fra onde putride e vorticose: tiene anche stretto a sé un bimbo di pochi anni. Accortosi della telecamera che lo inquadra, ha ancora la forza di mormorare: «Water, please!» (acqua, per favore). Vecchio e bambino stanno soccombendo di terrore, di fatica. E di sete.

A prescindere dalle calamità

naturali, oggi si muore veramente per mancanza d’acqua. O la si soffre acutamente, con conseguenze letali. Nel celebratissimo anno 2000 la comunità internazionale siglò la Millennium Declaration di New York, impegnandosi a dimezzare entro il 2025 il numero di persone senza una fonte sicura d’acqua. Però, tre anni dopo, al Forum Mondiale dell’acqua di Tokyo (marzo 2003), si prese atto che il traguardo restava irraggiungibile. Fino al 2020, dai 34 ai 76 milioni di individui rischieranno di morire per malattie legate all’acqua malsana. La piaga è endemica in Africa: qui, secondo l’Oxfam (Federazione di Organizzazioni non governative inglesi impegnate contro il sottosviluppo), nel 2015 le persone prive di acqua potabile saranno aumentate di quasi 100 milioni.

«Acqua, per favore!».

Lo dicono pure i turisti al termine di un assolato safari nella savana africana. Tre loro Land Rover, di ritorno al lodge, impolverano pesantemente alcune bambine ai margini della strada sterrata: bambine scalze, un po’ lacere, che recano sul capo o sulla schiena un pesante recipiente d’acqua attinta sul fondovalle, dopo due chilometri di discesa ed altrettanti di lenta e faticosa salita. Domani e dopo domani rifaranno il tragitto: due, tre volte, come oggi. È la loro vita. Giuseppe Argese lo sa (*). Giuseppe è un missionario della Consolata «fratello», in Kenya da quasi 50 anni. Esattamente dal 1957 osserva le polverose e ossessive camminate quotidiane di tante bambine, come quelle delle loro mamme e nonne: fratel Giuseppe guarda con attenzione, ma non proferisce parola. Ecco perché i bameru (la popolazione locale) l’hanno ribattezzato Mukiri, il silenzioso. Intanto, con altri missionari, erige l’artistica cattedrale della diocesi di Meru. Nei pomeriggi domenicali Mukiri passeggia. Lungo i sentirneri rivede le bambine con il loro fardello d’acqua sulla testa crespa. E medita. Non distante da Meru, sorge Tuuru, la missione di padre Franco Soldati, che ospita anche bambini poliomielitici. Un giorno Franco avvicina Giuseppe e lo scuote: «Mukiri, i bambini, colpiti da polio, hanno bisogno d’acqua, e non possono andare a cercarsela come gli altri. Inventa qualcosa. In fretta!». Mukiri, il silenzioso, tace; ma, fissando il torrente Mwamba, pensa di utilizzae le acque. La domenica continua le sue passeggiate. È attratto dalle sorgenti del Mwamba, che lo porta nel cuore di una foresta-montagna-vulcano: è il Nyambene, che dà il nome anche alla regione. Inoltrandosi nella selva di felci, nota come la vegetazione sia intrisa d’acqua nella sua interezza, tanto da essere pavimentata da uno strato di muschio gocciolante.

La fredda umidità dell’ambiente fa rabbrividire Mukiri. Ma rabbrividisce, soprattutto, allorché intuisce che, sulla foresta-montagna-vulcano del Nyambene, quotidianamente accade qualcosa di straordinario. Ossia: la grande escursione termica tra giorno e notte (dovuta ai pochi gradi di latitudine dall’equatore, e agli oltre 2 mila metri di altitudine del luogo) fa sì che, con il calare delle tenebre, il cielo sul Nyambene si ammanti di spesse nubi, che il torrido sole equatoriale dissolve al mattino. La nebbia, ristagnando per ore, si condensa sulla chioma della foresta e cola al suolo lungo le pareti della montagna, dove proliferano tappeti di muschio imbevuti di rugiada; essa, gocciolando, alimenta piccoli ruscelli (cfr. Valeria Bianchi, Il nostro Kenya, SGI, Torino 2004, p. 9-11). Quell’acqua dove va a parare? Mukiri ha quasi una folgorazione: l’acqua può essere risucchiata dal terreno poroso del vulcano spento, come una spugna; se si scavasse nelle sue viscere, forse si recupererebbe l’acqua infiltrata. Così avviene.

Con scarsi fondi

ed attrezzature rudimentali, Mukiri scava nel cuore del vulcano gallerie lunghe centinaia di metri, al cui interno le pareti trasudano una quantità d’acqua potabile purissima. Incomincia a sognare in grande. D’ora in poi le donne non saranno più schiave della diutua fatica del trasporto d’acqua sulla schiena o sulla testa. Il sogno di Mukiri diventa realtà con l’acquedotto di Tuuru. Un’opera imponente e geniale: una rete di 270 chilometri di tubazioni reca acqua potabile alle oltre 250 mila persone della circostante area, siccitosa a memoria d’uomo. L’acqua ha radicalmente mutato la vita sociopolitica nel Nyambene. Attoo al primo rubinetto d’acqua nella savana si sono stretti adulti e bambini, prima dando vita ad un mercato e poi ad un villaggio. Oggi ogni fontana è presidiata da un custode, che richiede un piccolo contributo in denaro ai beneficiari dell’acquedotto: non solo per scongiurare la passività della popolazione, ma anche per alimentare la modesta economia locale. A Mukululu, sede storica del laboratorio-officina di fratel Giuseppe, grazie all’acqua, sono fiorite anche piantagioni di tè. Il missionario continua ad occuparsi della direzione tecnica dell’acquedotto, mentre la gestione ordinaria è in mano delle comunità locali. Però il sogno di Mukiri perdura: oltre ad ampliare la chiesa di Mukululu, incastonata nei campi di tè, sta gettando alcune dighe imponenti, onde accumulare la maggior quantità d’acqua possibile. Questi invasi rispondono alle incessanti richieste d’acqua e servono, soprattutto, a fronteggiare le ricorrenti siccità.

Giuseppe Argese, missionario della Consolata, abita tutto solo in una casetta di legno, sulla cui entrata spicca la scritta «lo chalet dell’orso». Ve n’è pure un’altra in latino: «ursus in silvis». Forse Giuseppe, assai poco loquace, sa di essere un po’ orso nella foresta del Nyambene. Ma per i bameru è solo Mukiri… Il sole è tramontato. Mukiri, ursus in silvis, si rintana nel suo angusto chalet. Prima di cena, sosta in preghiera e meditazione. Si sofferma sul vangelo di Matteo: «Venite, benedetti dal Padre mio, entrate nel regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo… perché ho avuto sete e voi mi avete dato da bere» (Mt 25,18). È notte. Sulla foresta-montagna-vulcano del Nyambene ristagnano le nubi. La «missione acqua» continua.

Giuseppe Argese

(*) Giuseppe Argese nasce a Martina Franca (TA) il 10 novembre 1932. A 15 anni è apprendista muratore. Presso la parrocchia «San Francesco di Assisi» conosce i missionari della Consolata. Nel 1953 diventa uno di loro come «fratello». È in Kenya dal 1957. L’acquedotto di Tuuru, realizzato da fratel Argese, acquista notevole risonanza: – Il Corriere della Sera, 11 gennaio 1998, titola: «Il missionario dell’acqua. Un’impresa colossale»; – nel 1999 Daniele Giolitti si laurea in ingegneria idraulica, al Politecnico di Torino, presentando l’acquedotto ed evidenziandone il rispetto dell’ambiente; – Geo & Geo, di Rai 3, trasmette quest’anno il documentario «Missione acqua», realizzato dalla Società Generale dell’Immagine (SGI) di Torino; – Valeria Bianchi cura Il nostro Kenya, SGI, Torino 2004 (volume cartonato, formato 28 x 28, che raccoglie 97 splendide foto); esiste pure un CD. Altri riconoscimenti al missionario: la nomina di «Cavaliere al merito della Repubblica Italiana» e il conferimento della onorificenza «Servitor Pacis» delle Nazioni Unite.

Francesco Bernardi
foto: Valeria Bianchi, 2004




Aprire le porte

Tutte le volte che qualcuno mi chiede: «Ma cosa vuol dire, concretamente,
dialogo interreligioso?», mi sento un po’ a disagio. Non è facile rispondere. Perché dialogare non significa tanto «fare qualcosa», ma incontrare, capirsi, creare relazioni di amicizia… Proprio come nel «pellegrinaggio» che vorrei raccontarvi.

Il mio compito missionario in Corea, da qualche anno, è il dialogo interreligioso. È questa una dimensione dell’evangelizzazione con la quale molte persone ancora non sono familiari. Infatti, mi trovo un po’ imbarazzato tutte le volte che qualcuno mi chiede: «Ma cosa vuol dire, concretamente, fare il dialogo interreligioso?».
Non è facile rispondere. Perché dialogare non significa tanto «fare qualcosa», ma… molte cose: incontrare persone, parlarsi, capirsi, creare relazioni di amicizia e fiducia… Proprio come in questo «pellegrinaggio» un po’ speciale di cui vorrei parlarvi…

La partenza

Quando sono salito sul pullman dei «pellegrini» quella mattina del 23 novembre scorso, l’atmosfera al suo interno era fredda quasi come l’aria pungente dell’esterno. C’erano già varie persone e altre continuavano ad arrivare. Ma ognuno sembrava stare un po’ sulle sue, cercando un posto appartato dove sedersi, o concentrandosi sul giornale, alzando solo la testa di tanto in tanto, per «controllare» i nuovi che arrivavano. Evidentemente, tutti avevano ricevuto un invito simile a quello che avevo ricevuto io, ma il fatto di non conoscerci e di essere tutti di religioni diverse ci teneva ancora bloccati.
Questo tipo di «pellegrinaggio interreligioso» viene organizzato quasi ogni anno dal Kcrp (Conferenza coreana delle religioni per la pace), ramo nazionale dell’omonima organizzazione mondiale di Dialogo interreligioso (Wcrp), con il contributo finanziario del Ministero della cultura coreano. Avevo già partecipato una volta, nell’ormai lontano 1998, ma poi avevo perso i collegamenti, da quando ero stato destinato a Roma per qualche tempo.
Appena il pullman si muove, gli organizzatori prendono il microfono e cominciano le presentazioni. Non c’è che dire: siamo proprio un gruppo molto eterogeneo. C’è il vescovo anglicano della diocesi di Seoul e due dei suoi sacerdoti, più la pastora di un’altra chiesa, a rappresentanza dei protestanti; due laici buddisti (uno dei quali è l’attuale direttore generale del Kcrp); due monaci e una monaca del buddismo Won (una religione autoctona della Corea, che si rifà al buddismo, ma allo stesso tempo se ne differenzia nei simboli religiosi, nel fondatore e nell’insegnamento); ben quattro rappresentanti del Ch’on-do-kyo (altra religione autoctona coreana, fondata nel 1860… come avrò modo di sapere durante il viaggio); due rappresentanti del confucianesimo (uno dei quali già conosciuto in una mia precedente visita all’Università confuciana di Seoul); due membri di una religione che mai e poi mai avevo sentito nominare prima (un culto sorto dalla «religiosità popolare» coreana, in un’isola al sud del paese e che si rifà alla filosofia taoista orientale). E i cattolici? Beh, ci sono io (sono anche l’unico non coreano!) e tre laici, membri del Consiglio del Kcrp e che quindi sono anche gli organizzatori del viaggio. Che strano: neppure una suora!
Il bello è che, man mano che si fanno le presentazioni, l’ambiente si riscalda. Le persone sembrano uscire dal guscio dove si erano rifugiate e si aprono all’incontro. Saluti, sorrisi, scambio di informazioni… qualcuno cambia di posto e si avvicina. I giornali vengono messi da parte e il brusio delle conversazioni riempie il pullman…
Il dialogo comincia.

L’itinerario
Trattandosi di un «pellegrinaggio» interreligioso, è chiaro che le mete da visitare sono «luoghi sacri» appartenenti alle varie religioni. Secondo lo stile coreano, gli organizzatori hanno preparato e distribuiscono tutto: libretto informativo, lista dei partecipanti, acqua, frutta e delizie varie in quantità… perfino alcune pagine con inni, o canti sacri delle varie religioni. Così, tra una conversazione e l’altra, in cinque ore di viaggio, arriviamo a Kyong-ju, città storica e d’arte di primaria importanza in Corea.
Luoghi sacri dei buddisti – I primi a essere visitati sono luoghi del buddismo. Al tempio di Ki-rim ci aspetta un personaggio che ho il piacere di conoscere già da diversi anni. Si chiama Pop-myong ed è un monaco buddista, che qualcuno certamente definirebbe «atipico». Sempre pronto alla battuta e allo scherzo, perfettamente «aggiornato» su cantanti e personaggi dello spettacolo, costantemente mescolato ai giovani, che ogni anno porta addirittura in pellegrinaggio in India, zaino in spalla…
È lui che ci guida nella visita al tempio («Nel tempio ci sono cinque diverse fonti d’acqua… chi ne beve diventa saggio e raggiunge presto l’illuminazione!». «Quella statua di Budda è fatta di cartapesta e data dal tempo del regno di Shilla…»). Poi, subito dopo, le rovine di un altro tempio e una tomba «marina», collegata direttamente a quelle rovine («unica al mondo» la descrive il pannello turistico piantato sulla riva). Si tratta della tomba del gran re Mun-mu (morto nel 681), che ha riunificato sotto il suo comando la penisola coreana, allora suddivisa in tre regni.
Fu quello un periodo di grande espansione del buddismo in Corea, tanto da diventae la religione ufficiale. Il re morì, chiedendo la costruzione di un tempio-memoriale e di avere le sue ceneri deposte nel mare, per potersi trasformare in drago e continuare a difendere la nazione dai pericoli estei… La sua tomba, infatti, consiste in un isolotto che emerge a 200 metri dalla riva, con un laghetto al suo interno (curiosamente, a forma di croce), al centro del quale emerge una grossa pietra, sotto cui – si afferma – sono state poste le ceneri del grande re.
Ma non tutto è visita e spiegazioni; bisogna anche fare cena e raggiungere l’hotel, dove passeremo la notte. È in questi momenti informali che la spontaneità e le relazioni raggiungono il loro punto più alto e vero. Si chiacchiera allegramente, si ride, si pongono mutuamente domande, anche impegnative. L’ambiente è molto disteso… Perfino il vescovo anglicano sembra mettere da parte la sua «dignità episcopale», inserendosi bene nella compagnia.

Luoghi sacri del Ch’on-do-kyo – Il giorno dopo è la volta dei luoghi sacri del Ch’on-do-kyo. Veniamo portati, dopo colazione, ad un piccolo villaggio nei dintorni di Kyong-ju, dove c’è il «Ritiro di Yong-dam». In questa piccola casa rurale, immersa tra i boschi (peraltro rivestiti di bellissimi colori autunnali, nel momento in cui la visitiamo), il fondatore del Ch’on-do-kyo, Ch’oi-je-woo, nel 1860 ebbe la grande «rivelazione» che lo portò a fondare, appunto, la nuova religione. Il principio è: Dio non abita lassù nei cieli, lontano dagli uomini, ma abita il profondo, il cuore di ogni uomo.
Questa religione è vista come la «nuova creazione» del mondo. Infatti, sulla parete del Centro di formazione, costruito oggi accanto alla Casa del ritiro, c’è scritto a grossi caratteri: «Sii ri-creato e diventa una persona nuova!». I riti sono semplici e molto basati sull’uso degli elementi naturali, come l’acqua, che sgorga cristallina accanto alla Casa del ritiro (vedi box). Confesso che non conoscevo quasi nulla del Ch’on-do-kyo e, con questo pellegrinaggio, ho cominciato a vederla come una religione «simpatica»!

Luoghi sacri del confucianesimo – Nel pomeriggio, già di ritorno a Kyong-ju, è la volta del confucianesimo. Nel Hyang-kyo, una delle antiche e caratteristiche «scuole» confuciane, troviamo già preparate un gruppetto di persone, rivestite di abiti da cerimonia, pronte a svolgere per noi e assieme a noi un rito in onore di Confucio. Uno dei due rappresentanti del confucianesimo che è parte della nostra comitiva si offre di spiegare, per filo e per segno, le varie fasi del rito.
Entrata solenne, portando la tavoletta con il nome del Maestro; abluzione; processione all’interno del tempio (salendo ogni scalino prima con il piede destro); proclamazione solenne del motivo del rito (la nostra visita, in questo caso); offerta di incenso, inchini, uscita (dalla parte opposta a quella di entrata, scendendo ogni scalino prima con il piede sinistro). Tutto solenne, compassato, codificato, preciso… Noto che le persone che svolgono il rito sono tutte anziane. Non mi meraviglia: il confucianesimo, pur essendo molto vivo nella mentalità sociale coreana, non è certo al top degli interessi dei giovani modei (beh, questo è vero anche per altre religioni!).
Nella condivisione serale, particolarmente lunga, viene chiesto se il confucianesimo sia veramente una religione. Uno dei rappresentanti dice di no; ma l’altro, immediatamente, lo corregge e dice di sì. Certo, tutto dipende da cosa si intende per «religione». La condivisione, comunque, è bella e ricca. Ognuno dice come si è sentito nella visita ai luoghi di una religione diversa dalla propria. Prevale nettamente la volontà di non «farsi la guerra», di capirsi, il desiderio di unità e di collaborazione (per quanto possibile).

Luoghi sacri del buddismo-Won – La notte l’avevamo già passata in una «casa di ritiri» di questa religione. Al mattino, dopo colazione, abbiamo visitato il santuario di Song-ju. In questo paesino è nato, cresciuto, ed ha ricevuto l’illuminazione (nel 1916) il venerabile Chong-san (1900-1962), che divenne il secondo patriarca di questa religione, subito dopo la morte del fondatore vero e proprio del buddismo-Won, So-Tae-san. «Educa il popolo per costruire un mondo di pace» è il contenuto essenziale della rivelazione ricevuta in quel luogo. Possiamo addirittura stringere la mano ad una figlia del patriarca, ormai anziana monaca, ma con un sorriso smagliante e una vitalità impressionante. Ci invita tutti a costruire la pace.
Non posso evitare di pensare, dentro di me, a quanto «ottimiste» siano tutte queste religioni orientali, circa l’uomo e la sua capacità di trovare, seguire e realizzare il bene con le sole sue forze. Non sembrano prendere in seria considerazione la forza del male, che domina il cuore umano, e del peccato…

Luoghi sacri dei cattolici – Subito dopo il santuario di Song-ju, proprio nello stesso paesino, facciamo una brevissima visita al Centro di recupero per alcornolizzati, retto dalle suore di una famiglia religiosa francescana. Il posto è molto bello, costruito poco a poco dagli stessi pazienti, con una varietà di forme impressionanti e con abbondanza di statue della Madonna e della Via Crucis, un po’ dappertutto sulla collina. Tutti restano… meravigliati!
Meraviglia che cresce ancor di più durante la visita alla grande abbazia benedettina di Wae-gwan. Ci accoglie con un sorriso il superiore della comunità (l’abate è assente) e ci porta in chiesa. A me sembra proprio di «tornare a casa»! Il superiore si sforza di spiegare a quell’uditorio così inusuale la realtà della vita religiosa nella chiesa cattolica, la differenza tra sacerdoti diocesani e religiosi; le differenze, nell’unità, tra le varie famiglie religiose… Tutti ascoltano con attenzione, ma non credo che riescano a capire. Infatti, molti toeranno con me sull’argomento, dopo la visita.
Assistiamo alla celebrazione dell’ora sesta dei monaci e tutti, poi, mi diranno essere convinti di aver assistito alla messa… E quale meraviglia, da parte loro, rivedere le stesse persone, che prima erano avvolte nell’abito benedettino, indossare ora la tuta da lavoro, nel laboratorio per la fabbricazione di arredi sacri e in quello delle vetrate colorate… Non c’è che dire: la chiesa cattolica suscita rispetto, ammirazione a non finire e… (devo dirlo?) un po’ di «timore» su tutti («Ma perché la chiesa cattolica vuole far diventare cristiano il mondo intero?» – mi chiedeva sul pullman una signora del Ch’on-do-kyo).
Ma è già pomeriggio e ci aspetta un lungo viaggio per tornare a Seoul. Nel pullman si chiacchiera, si dorme, ci si scambiano indirizzi e numeri di telefono, si canta… e, all’arrivo, ci si separa con quella punta di dispiacere che sempre si prova a separarsi dagli amici; però, con la promessa di ritrovarci e continuare il dialogo.

Dopo questo tipo di esperienze di dialogo interreligioso, mi restano sempre nel cuore alcune sensazioni. Innanzitutto, la consapevolezza della mia grande ignoranza circa le altre religioni. Sì, so qualcosa, ma il vero «centro» delle religioni ancora mi sfugge. Quanto devo ancora studiare e sforzarmi per sapere e capire… È solo una «magra consolazione» l’aver constatato, una volta ancora, che l’ignoranza sul cristianesimo da parte degli altri è almeno pari alla mia sulle loro religioni.
Resta poi la sensazione di incompletezza. Ma non è certo realistico aspettarsi che un «pellegrinaggio interreligioso» di tre giorni possa coprire tutti gli ambiti e gli aspetti complessi del dialogo tra le differenti religioni. Diciamo che queste iniziative cominciano ad «aprire la porta». Toccherà poi a noi, interessati e dediti al dialogo, approfondire gli argomenti, entrare nel vivo delle esperienze religiose e spirituali delle varie fedi, anche se non è certo facile.
Infine, resta il proposito di mantenere e consolidare le relazioni create durante il pellegrinaggio. Da parte mia, ho promesso ai rappresentanti del Ch’on-do-kyo che andrò ad assistere, un giorno, al culto domenicale nella loro sede centrale di Seoul. Tutti mi hanno chiesto di avvisarli, perché vogliono accompagnarmi e spiegarmi bene le cose… Inoltre, la monaca del buddismo-Won lavora in una delle loro «parrocchie», non troppo lontana dal nostro Centro di dialogo interreligioso. Certamente andrò a trovarla, magari assieme al nostro gruppo. E speriamo che qualcosa di nuovo possa nascere…

Diego Cazzolato