ISRAELE-PALESTINA: Fotogrammi di sofferenza

Due israeliani e un palestinese, tutti registi
con un unico pensiero:
documentare le sofferenze di due popoli divisi
da una guerra, un muro, un odio che pare infinito.

Yoav Shamir, Eyal Sivan e Michel Khleifi sono tre film-maker, tre uomini che hanno in comune una grande e bella terra: l’antica Palestina, ora divisa tra i Territori palestinesi e Israele. I primi due sono israeliani, il terzo palestinese.
Condividono anche un’altra passione: quella per il cinema di denuncia sociale e politica.
Le loro opere – «Checkpoint» di Shamir e «Route 181» di Khleifi e Sivan – sono due capolavori del cinema-documentario, vincitori di numerosi premi inteazionali.

Yoav Shamir, regista isrealiano
Inquieto, un po’ timido, sempre attratto da nuovi stimoli suggeriti dall’ambiente e dall’epoca in cui viviamo, inglese fluente, Yoav Shamir, 33 anni, racconta la sua vita e il suo grande amore per il cinema, che, con Checkpoint, è diventato di «impegno politico e sociale».
Laurea in storia e filosofia all’Università di Tel Aviv, e master in cinematografia, il giovane cineasta entra con profondità emotiva nelle questioni esistenziali, sociali e politiche che costituiscono i temi dei suoi documentari.

Yoav, su cosa concentra maggiormente la sua attenzione?
«Mi interessano i sentimenti, le emozioni della gente di cui parlo, israeliani, palestinesi o cubani (Cuba è stato il soggetto del mio primo documentario). Cerco di capire come certe situazioni condizionino i rapporti umani e l’esistenza di intere popolazioni, come nel caso del conflitto israelo-palestinese».
In un’intervista pubblicata l’anno scorso su Dox lei aveva dichiarato di non essere una persona politicamente impegnata, di non andare alle manifestazioni. È ancora vero?
«Ora che Checkpoint è uscito mi sono ritrovato, senza volerlo, politicamente coinvolto. Non ne posso fare a meno: è un film politico».
Il suo è un documentario completamente girato tra i 200 posti di blocco israeliani nei territori palestinesi. Denuncia la dura condizione di oppressione in cui vive la popolazione araba, ma anche il degrado umano e sociale dei giovani militari israeliani, costretti a obbedire a ordini di cui non comprendono la portata. È un’opera di notevole durezza, che non concede sconti. Perché, come israeliano, ha deciso di realizzarla?
«Volevo rendere visibile agli israeliani ciò che sta quotidianamente accadendo nei Territori palestinesi occupati, cosa ciò significhi per loro e per noi. Mi interessava far emergere le implicazioni psicologiche dell’occupazione.
Tra le difficoltà incontrate nella realizzazione di questo film c’è stata anche l’iniziale incomprensione dei miei genitori: provenendo da famiglie di militari, non riuscivano a comprenderlo, ad accettarlo. Ora è diverso: hanno finalmente imparato ad apprezzarlo».
Che cosa significa per gli israeliani far vivere un popolo sotto occupazione?
«È ciò che sta accadendo dal 1967: la nostra società è diventata più aggressiva, più brutale, al suo interno prima di tutto. In questi ultimi anni è stata pubblicata una ricerca che denuncia un aumento della violenza tra la popolazione israeliana. Violenza “civile”, dunque. C’è infatti una interconnessione tra la politica di occupazione e il peggioramento dei rapporti interpersonali nella nostra società: il primo aspetto inevitabilmente sta influenzando il secondo. Una società sana non può far finta che la violenza estea non condizioni, in negativo, i comportamenti all’interno della società stessa. Questo vale anche per la popolazione palestinese, che è diventata molto militarizzata; anche i giochi tra bambini imitano situazioni di aggressività. Siamo di fronte a due popoli che si stanno auto-distruggendo».
In Checkpoint lo spettatore non assiste a scene di violenza fisica, ma è molto presente la violenza psicologica. Perché ha scelto di cogliere questo aspetto piuttosto che l’altro?
«È vero, c’è molta violenza mentale, psicologica. Ho focalizzato le mie riprese solo nei microcosmi dei checkpoint, e non su ciò che accade per le strade. Ho sostato per ore, per mesi, tra il 2001 e il 2003 ai posti di blocco, e ho registrato ciò che vedevo: al 99 per cento si è trattato di violenza psicologica. La violenza fisica è minima, nella maggior parte dei casi assistiamo a scene come quella del soldato che proibisce alla mamma di portare il figlio dal medico, dall’altra parte del checkpoint».
Lo spettatore non può non provare empatia nei confronti dei palestinesi: avverte il loro dolore, la rabbia per le ingiustizie subite. Il suo, dunque, è un film di parte?
«Ho cercato di cogliere differenti punti di vista: talvolta quello dei palestinesi, talvolta quello dei soldati israeliani. Ho cercato di fare un film in cui venisse ritratto come vittima non solo il palestinese, ma anche il giovane militare. E la complessità di una situazione in cui tutti soffrono».
Ma la sofferenza dei palestinesi emerge in modo più evidente…
«Certo, perché loro sono le vittime. Anche se la verità non è solo bianca o nera: anche i soldati ai posti di blocco possono essere considerati delle vittime a causa della difficile situazione in cui si trovano. Talvolta possono sembrare delle “marionette” che eseguono ordini provenienti dall’alto. Sono molto giovani e spesso con poca consapevolezza del proprio ruolo. Forse per questo il film viene proiettato anche nelle caserme israeliane…».
Qual è il suo obiettivo: farli riflettere e cambiare atteggiamento nei confronti della popolazione palestinese?
«Non so in realtà perché l’esercito abbia deciso di proiettare il mio documentario. Forse perché, quando fai il soldato ad un posto di blocco non hai la possibilità di vedere la situazione con obiettività, dall’esterno. Ecco, allora, che questo film può aiutare a fare un passo indietro e a guardare in modo più oggettivo.
Molti fra gli alti livelli dell’esercito non sanno ciò che avviene ai checkpoint: qualcuno l’ha scoperto recandovisi in incognita ed è rimasto attonito».
Come vede il futuro?
«Qualche volta sono ottimista, qualche altra pessimista. Dipende. Penso che la soluzione è così semplice. Il grande problema è la de-umanizzazione dell’altro, del nemico, che non viene più percepito come essere umano. La società palestinese è molto scolarizzata, evoluta. Credo ci possano essere tanti punti di contatto, di dialogo. Le ferite possono rimarginarsi anche se profonde.
Un’altra questione è: due stati per due popoli, o uno stato per due popoli? Personalmente preferirei la seconda ipotesi. Altrimenti sarebbe come creare un ghetto ebraico in territorio arabo. Israele potrebbe invece assimilarsi nell’area: il 60 per cento degli israeliani ha radici arabe, viene, cioè, dal Marocco, dall’Iraq, dallo Yemen, ecc. La maggior parte è cresciuta in questi ambienti misti, parla l’arabo. Gli altri, quelli che arrivano dall’Europa o dall’America, in maggioranza sono di sinistra. Dunque, la soluzione potrebbe essere molto più semplice di quanto si pensi».
Se è così semplice, perché non è stata ancora trovata?
«Molti ci provano. È che tanti israeliani vedono i paesi arabi come un’unica entità: l’idea del panarabismo è ancora molto presente in Israele e anche quella di essere una piccola nazione circondata da nemici. La gente non sa che tra uno stato arabo e l’altro ci possono essere differenze e addirittura conflittualità. L’altro problema è la mancanza di democrazia nelle società arabe. Gli israeliani dicono: “Noi siamo democratici, secolarizzati, non vogliamo trovarci a convivere con situazioni dove manca la libertà”. Un altro ostacolo è la crescente islamizzazione della società palestinese».
Se i palestinesi potessero lavorare e i ragazzi andare a scuola, forse la situazione cambierebbe.
«Certo. Ma siamo dentro un circolo vizioso. Basterebbe, tuttavia, risalire alla storia degli anni ’50 e ’60 per capire quante e quali responsabilità, e interessi, l’Occidente ha nei confronti del Medio Oriente, della cui situazione ora sembra essersi lavato le mani. Ha manipolato, colonizzato, creato strategie e alleanze. E ora parla di pace: ma chi ha acceso per primo il fiammifero in questa polveriera?».
Yoav ha un sogno: far in modo che non esistano più i checkpoint, che l’esercito israeliano lasci i territori palestinesi, che occupazione e guerra abbiano termine e che palestinesi e israeliani possano vivere in pace in un unico Stato.
«Ciò che mi dà più gioia è quando i sostenitori della destra israeliana raccontano che il mio film ha cambiato il loro modo di vedere il conflitto con i palestinesi. Questo è già un grande risultato».

MICHEL KHLEIFI, REGISTA PALESTINESE
Michel Khleifi è nato nel 1950 a Nazareth e nel 1971 si è trasferito a Bruxelles, dove ha studiato teatro all’Institut national supérieur des arts du spectacle (Insas). Attualmente insegna cinema all’Insas. I suoi film più famosi sono «Memorie fertili» (1980); «Nozze in Galilea» (1987), che ha ottenuto il premio della Critica internazionale al Festival di Cannes nel 1987; «L’Ordre du jour» (1993); «Conte de troi diamants» (1995); «Mariages mixtes en Terre sainte» (1996).
Capelli bianchi, faccia simpatica, è seduto al tavolino di un bar nei pressi di un cinema torinese ad osservare il via vai di giovani e adulti che entrano ed escono dalle sale dove è in corso una no-stop di film israeliani e palestinesi.

Signor Khleifi, come vede il futuro dei popoli israeliano e palestinese?
«Non posso dire come lo vedo, ma come lo sogno. La scelta migliore, ora, è tentare di umanizzare le due società in conflitto e creare le condizioni per la convivenza di due diverse “cittadinanze”. L’ideologia sionista purtroppo non riconosce questa possibilità. Solo se si cambia questa mentalità, si potrà trovare una soluzione avvicinando l’uno all’altro i due popoli.
È mai possibile essere trattati come delle bestie quando si viene fermati da un militare israeliano? Capita anche a me: sono invitato in tutte le università del mondo e quando arrivo in Israele, solo perché sono palestinese, vengo umiliato anche dal giovane soldatino israeliano appena arrivato dalla Russia. È una follia: fanno fatica a considerarci come delle persone. Siamo nullità.
Israele è una società automatizzata: hanno bisogno di parlare, di tirar fuori ciò che hanno dentro, di rielaborare».
Nei media occidentali quando si parla della Palestina la si associa spesso a Hamas.
«Hamas è lo specchio in cui si riflette il sionismo: il comportamento di quest’ultimo è causa di quello del primo. Se infatti io le rubo ciò che lei possiede, come reagirà? Mi ringrazierà o cercherà di riprendersi indietro ciò che le è stato tolto?
Il problema è che i sionisti sono arrivati in Palestina non con il desiderio di vivere in pace, ma con quello di imitare il colonialismo. Non hanno tenuto conto della popolazione palestinese. Hamas esiste, dunque, in quanto reazione a questa mentalità e a questa prassi distruttiva, lesiva dei diritti del popolo palestinese. Il problema, però, è come viene prodotta la violenza».
Route 181 è il frutto della collaborazione tra lei e l’israeliano Sivan. Come descrive questa relazione professionale e umana?
«Siamo amici e colleghi. Il nostro obiettivo era andare fino in fondo, nonostante gli ostacoli o le divergenze, e realizzare una grande opera. Non è stato facile lavorare in due e con esperienze diverse alle spalle. Abbiamo dovuto affrontare problemi durante le riprese, il montaggio, l’editing. Ma ce l’abbiamo fatta.
Il nostro film vuole essere uno strumento per parlare con le persone e per farle parlare. In genere, si sente solo la voce dei politici, mentre quella dei due popoli non viene mai ascoltata. Ma è proprio da loro che possono giungere soluzioni per una pacifica convivenza: è quello che abbiamo raccolto e registrato nel nostro viaggio-film».
Quali sono i suoi progetti cinematografici futuri?
«Tradurre ancora una volta in film la vita dei palestinesi».
Khleifi risponde velocemente a quest’ultima domanda e poi entra nel cinema, dove è atteso da un folto pubblico che ha appena assistito alla proiezione del suo film.

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La via della pace tra Palestina e Israele può passare anche dal cinema (documentari, film, cortometraggi politically committed). Dal lavoro corale, dall’amicizia e collaborazione di registi palestinesi e israeliani, da produzioni coraggiose che denunciano a un mondo occidentale sempre più sordo e cieco, imbonito dalle manipolazioni dei media, dei politici e dei grandi gruppi industriali, la tragedia di un popolo oppresso e quella del suo oppressore.
Raccontare le umiliazioni quotidiane subite dai palestinesi, la violenza che colpisce i bambini dei villaggi e dei campi profughi fin dentro le loro case – minando per sempre quel flebile accenno di fiducia e di protezione a cui ancora potevano auspicare – non è argomento che interessi i grandi giornali o le tv. Illustrare fin nei minimi dettagli l’effetto catastrofico di chi, fra i giovani palestinesi, si fa esplodere annientato da folle disperazione, quello sì, è tema che stuzzica e coinvolge.
Anche la critica nei confronti del governo israeliano per la sua politica nei confronti del popolo di Palestina, per noi occidentali è diventata un tabù: si è subito accusati di antisemitismo (come se semiti fossero solo gli ebrei e non anche tutti gli arabi!). Seppur una gran parte dei cittadini europei ritenga che il governo israeliano rappresenti la maggior minaccia per la sicurezza dell’umanità, governanti e leader di partito fanno fatica a raccogliere gli stimoli della gente comune e a prendere chiare posizioni di condanna nei confronti della disumana politica anti-palestinese di Tel Aviv. Perché, contrariamente a quanto sostiene certa propaganda e il recente libro della giornalista Fiamma Nirenstein (Gli antisemiti progressisti, Rizzoli 2004), denunciare Sharon e i suoi accoliti non significa essere antisemiti, bensì avere a cuore l’antica e ricca cultura ebraica.
Infatti, paradossalmente, i giudizi più duri contro la strategia di Sharon arrivano proprio dall’interno di Israele. Quasi a spiegare che malattia e cura sono compresenti in ogni realtà e che si può guarire dal dolore, ma attraverso il riconoscimento della dignità umana del proprio nemico, israeliano o palestinese che sia.

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ROUTE 181
Una strada di uomini e donne

Eyal Sivan, israeliano, e Michel Khleifi, palestinese, hanno dedicato oltre un anno alla realizzazione di un progetto cinematografico arduo e complesso che li ha portati a rivolgere uno «sguardo comune» sugli abitanti di Palestina-Israele. Nell’estate del 2002, di fronte a un quadro di violenza dilagante, i due vecchi amici si sono chiesti quale poteva essere il loro contributo di artisti impegnati per un cambiamento radicale della prospettiva del conflitto israelo-palestinese: «fare un cinema che faccia riflettere», si sono risposti, «e farlo insieme». Ecco, dunque, «Route 181 – Frammenti di un viaggio in Palestina-Israele».
Scrive Nadia Nadotti nella presentazione del cofanetto di 4 Dvd: «L’espediente narrativo è semplice: sovrapponendo all’attuale carta geografica di Palestina-Israele, la mappa tracciata dalle Nazioni Unite nel novembre del 1947, con la linea di partizione che avrebbe dovuto dar vita a due Stati sovrani e indipendenti, Israele e Palestina, e che invece fece da detonatore a un conflitto che dura ancora oggi, i due autori individuano un itinerario obbligato. Percorreranno il paese da sud a nord, seguendo chilometro per chilometro quella virtuale linea di spartizione, affidando alla natura dei luoghi e al caso gli incontri di cui daranno conto nel film.
Mettendosi in strada con una troupe composta solo di un cameraman, un tecnico del suono e un autista, i due cineasti, per oltre due mesi, nella tarda primavera del 2002, si immergono in quello straordinario laboratorio umano, sociale, culturale, etnico, linguistico che è oggi Palestina-Israele. (…) Non vanno alla ricerca di amici e nemici, ma di uomini e donni comuni, con le loro storie e le loro piccole, parziali verità, i loro ricordi, le loro rimozioni, la loro – a volte miserabile, a volte luminosa – umanità. (…) Ciò che Khleifi e Sivan vogliono è liberare la parola, permettere a chi il caso mette loro davanti di ripercorrere senza sentirsi minacciato una storia che è insieme privata e pubblica, personale e collettiva. Convinti che all’origine di ogni guasto storico e politico ci sia l’incapacità di riconoscere all’Altro la sua complessa umanità e dunque i suoi traumi, le sue paure, persino i suoi fragili e talora aggressivi discorsi di copertura – per l’appunto, il diritto al racconto -, i due cineasti formano una sorta di collettivo e informale setting analitico in grado di contenere, attraverso un fiducioso atto di nominazione, l’odio, la paura, le proiezioni reciproche, i sensi di colpa, la coazione a ripetere, la speranza, il desiderio».
A.La.
Fonti:
• I 4 Dvd sono pubblicati dalle Edizioni Bollati Boringhieri, corso Vittorio Emanuele II, 86, Torino; tel. 011-5591711; info@bollatiboringhieri.it
Inoltre:
• Associazione Documè, via San Pio V 14/c – 10125 Torino; tel. 011.66.94.833;
docume@tin.it

Angela Lano




ARTICOLO Lebbra & lebbre

Da mezzo secolo, l’ultima domenica di gennaio è dedicata alla lotta contro la lebbra: un’occasione per sensibilizzare la coscienza umana e cristiana su altre lebbre modee: ingiustizia e indifferenza.

Fu celebrata per la prima volta nel 1954, l’ultima domenica di gennaio. Dieci anni dopo, 116 nazioni avevano aderito all’iniziativa; oggi la Giornata mondiale per malati di lebbra (Gml) è celebrata in tutti i paesi del globo.
Ispiratore di tale iniziativa fu il giornalista e scrittore francese Raoul Follereau (1903-1977), il quale ha dedicato tutta la vita a combattere la lebbra, una malattia antichissima e molto temuta, che costringeva chi ne era affetto a una emarginazione tale che causava una morte sociale prima ancora di quella fisica.
Aveva capito che la lebbra era una delle tante conseguenze del sottosviluppo e che le sue radici sono nell’ingiusta distribuzione delle risorse del pianeta e nell’indifferenza di chi è stato privilegiato dalla sorte. Follereau si è, quindi, impegnato contro la lebbra e contro quelle che ha definito «tutte le lebbre: indifferenza, egoismo e altre forme di ingiustizia».
Ancora oggi, la Gml vuole dare voce a coloro che più di ogni altro al mondo soffrono non solo le conseguenze di una terribile malattia, ma quelle più atroci dell’emarginazione, abbandono, riduzione a una condizione subumana.

Lebbra: stigma sociale

È una malattia contagiosa, causata dal mycobacterium leprae, bacillo isolato nel 1873 da Gerhard Armauer Hansen. Da allora la malattia è definita hanseniasi o morbo di Hansen e i malati hanseniani.
Anche se la malattia è perfettamente curabile, ancora oggi le si accompagna spesso un pesante stigma sociale: le persone che ne sono affette, anche se completamente guarite, sono considerate «diverse» e socialmente emarginate.
Tale stigma è dovuto al retaggio della paura secolare per una malattia che a lungo ha evocato terrore a causa dell’incurabilità e delle tremende mutilazioni che provoca, devastanti e inconfondibili.
CIFRE E CURE
Il bacillo distrugge i nervi periferici, provocando insensibilità, che espone la persona a ferite e conseguente distruzione dei tessuti. Se non trattata con una cura precoce e tempestiva, provoca danni progressivi e permanenti a pelle, nervi, arti ed occhi.
Sono circa 514 mila i nuovi casi registrati nel 2003 (vedi riquadro). Tra i nuovi casi molti sono bambini e 250 mila hanno già danni permanenti che li renderanno disabili per tutta la vita.
In realtà nessuno può dire esattamente quanti siano i malati nel mondo. Quelli diffusi sono i dati provenienti da zone in cui sono presenti servizi sanitari funzionanti. Ma chi può dire oggi quanti malati ci siano in paesi lacerati da guerre o con infrastrutture allo sfascio?
Di fatto, quando si avviano i piani di ricerca dei casi di lebbra in aree poco raggiungibili, si continuano a scoprire numerose persone affette dalla malattia. Tra loro la percentuale dei bambini rimane relativamente alta e prevale la forma tubercolare, cioè il tipo di lebbra che provoca rapidamente le disabilità. Tutto ciò indica una morbilità ancora elevata.
Solo nel 1940, con il dapsone, si cominciò ad avere una cura, ma il farmaco andava assunto per tutta la vita e aveva il solo effetto di rallentare l’avanzata della malattia. A partire dai primi anni ’80, con l’introduzione della polichemioterapia (rifampicina, clofazimina e dapsone), finalmente dalla lebbra si può guarire.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) raccomanda la polichemioterapia dal 1981. Da 5 a 20 anni è il periodo d’incubazione del bacillo che causa la malattia. Da 6 mesi a 2 anni dura il periodo di trattamento farmacologico. Si stima che più di 6 milioni di persone subiscano oggi le conseguenze fisiche e sociali della malattia.

Miele della solidarietà

In Italia, la Giornata mondiale dei malati di lebbra è uno dei principali eventi legati all’impegno dell’Associazione italiana amici di Raoul Follereau (Aifo).
Nata nel 1961, l’Aifo ha esteso la sua presenza in tutta Italia: centinaia di volontari, ispirandosi al messaggio di giustizia e pace di Follereau, continuano a dare voce agli ultimi, lottando contro la lebbra e contro tutte le lebbre, cioè contro le forme più estreme di ingiustizia ed emarginazione.
Riconosciuta come Organismo non governativo (Ong) di cooperazione sanitaria internazionale, l’Associazione è attualmente presente in 24 paesi dell’Africa, Asia e America Latina e collabora attivamente con alcune agenzie delle Nazioni Unite, in particolar modo con l’Oms, di cui è partner ufficiale.
Per sensibilizzare la gente nei confronti del problema della lebbra e dei temi legati allo sviluppo sociale e sanitario nei paesi più poveri del mondo, i volontari dell’Aifo animano la Giornata mondiale dei malati di lebbra con diverse iniziative, tra le quali la vendita del «miele della solidarietà» e altri prodotti del commercio equo e solidale. In centinaia di piazze italiane allestiscono banchetti, coinvolgendo le comunità locali, per raccogliere fondi a favore dei progetti dell’Associazione.
Lo scorso anno la distribuzione del «miele della solidarietà» ha coinvolto ben 447 piazze italiane, nelle quali sono stati offerti oltre 30 mila vasetti di miele.
Tra le varie iniziative di sensibilizzazione, grande importanza è data agli incontri con scuole, parrocchie e altre istituzioni, svolti in tutta Italia dai «testimoni della solidarietà». Si tratta di persone direttamente impegnate nella cura dei lebbrosi in vari paesi del mondo.
Per l’edizione 2005 giungeranno in Italia cinque testimoni che operano nei progetti contro la lebbra in Africa (vedi riquadro). Inoltre, per celebrare la 52a Giornata mondiale, è stata organizzata una touée della compagnia teatrale African Footprint Inteational del Ghana, un gruppo di fama mondiale, composto prevalentemente da artisti con disabilità, che si esibiranno in numerose città italiane per testimoniare la ricchezza di valori e di cultura di cui il continente africano è portatore e anche la ricchezza di doti umane e artistiche che le persone diversamente abili sanno esprimere.

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Stato globale della lebbra nel 2004*

Regione Nuovi casi trattamento rilevati 2003

Africa 50.691 46.205
America 86.652 52.435
Mediterraneo orientale 5.798 3.940
Asia sud-est 304.292 405.150
Pacifico occidentale 10.359 6.068
Mondo 457.792 513.798

* Come riportato da 110 stati – fonte Oms

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TESTIMONI 2005

Chiara Castellani. Nata a Parma nel 1956, laureata in medicina all’Università cattolica del Sacro Cuore in Roma, ha lavorato per 7 anni in Nicaragua, come medico volontario e chirurgo in zona di guerra.
Dal 1991 è responsabile di un progetto sanitario nella Repubblica democratica del Congo. L’anno seguente perde il braccio destro in un incidente stradale: impara a scrivere e operare con la sinistra e, ancora oggi, continua la sua attività presso l’ospedale di Kimbau. (Della sua incredibile storia abbiamo parlato in Missioni Consolata ottobre-novembre 2004, pp. 87-89).

Padre Emidio Demeneghi. Nato a Mussolene (VI) nel 1939, sacerdote nel 1964 è missionario in Angola dal 1968.
Dal 1994 opera a Kangola, nord del paese, e si occupa dei lebbrosi. Grazie a un progetto Aifo, sono stati diagnosticati 1.064 casi di lebbra su una popolazione di circa 80 mila abitanti; 850 le guarigioni; 96 abbandoni causati dalla guerra; 20 i decessi registrati. Attualmente la lebbra è in regresso.

Saverio Grillone. Nato a Reggio Calabria nel 1940, laureato in giurisprudenza, specializzato in psicologia, diplomato in leprologia e chirurgia ausiliaria in Spagna, dal 1969 al 1976 si è occupato di cura e riabilitazione dei lebbrosi in un programma di cooperazione del nostro Ministero affari esteri in vari centri dell’Eritrea.
Dal 1978 al 1980 è stato esperto del Ministero in qualità di responsabile della campagna di lotta contro la lebbra nella Repubblica delle Comore. Dal 1980 è rappresentante dell’Aifo alle Comore per la realizzazione di vari programmi: lotta contro la lebbra e la tubercolosi, sanità di base di 15 villaggi nella regione di Pomoni; attività a favore dell’infanzia con la creazione di 7 scuole elementari e di una scuola media, con 1.200 bambini scolarizzati.

Suor María Marcela López. Di origine argentina, appartiene alla congregazione religiosa Figlie della Carità, Canossiane. Infermiera professionale, da alcuni anni lavora presso il progetto di lotta alla lebbra nell’Ituri (R.D. del Congo).

Suor Esther Athieno. Di nazionalità kenyana, è infermiera, ostetrica e fa parte della congregazione delle suore dell’Immacolata Concezione di Ivrea. Ha svolto la sua attività in differenti campi medici. Da due anni lavora con i pazienti affetti da lebbra e tubercolosi nell’unità sanitaria di Kadem. Oltre ai malati di lebbra-tubercolosi ricoverati in ospedale, segue quelli che vivono nelle loro comunità, attraverso le cliniche mobili, foendo loro medicine, beni di prima necessità.

Benedetto Bellesi




Testimoni scomodi

Dal 12 al 17 ottobre 2004, a Bangkok (Thailandia) si è svolto
il 21° Congresso mondiale dei giornalisti cattolici, organizzato dall’Ucip (Union catholique inteational de presse).
Vi ha partecipato anche il rappresentante della Fesmi (Federazione della stampa
missionaria italiana), che ne sintetizza gli interventi e le impressioni.

Nata nel 1927, in un periodo in cui il fascismo era al potere in Italia, il nazismo stava acquistando forza in Germania e il comunismo dominava in Unione Sovietica, l’Ucip (Unione cattolica internazionale della stampa), raccoglie, oggi, migliaia di operatori dell’informazione di ogni angolo del pianeta.
Tra le numerose attività, intese a promuovere la collaborazione tra giornalisti del Nord e Sud del mondo, in un’ottica cristiana e d’indipendenza da condizionamenti politici, vi è l’organizzazione del Congresso mondiale dei giornalisti cattolici, che a cadenza triennale, si tiene di volta in volta in una diversa capitale mondiale. Il 21° si è svolto a Bangkok (Thailandia), dal 12 al 17 ottobre 2004. Vi hanno partecipato circa 500 professionisti dell’informazione, provenienti da Asia, Europa, Africa, Americhe, Oceania.
L’evento è stato preceduto dal Convegno mondiale dei giovani giornalisti cattolici (9-12 ottobre), occasione importante di confronto per quanti la condizione anagrafica pone come responsabili di un’informazione sempre più proiettata verso le nuove tecnologie e verso una globalizzazione delle esperienze, dei metodi e del linguaggio della comunicazione.
Il Congresso ha voluto essere insieme un punto di arrivo e un punto di partenza. Punto di arrivo, certamente, per il comitato organizzatore, una quarantina di professionisti dell’informazione thailandesi, che hanno lavorato duramente a partire dal dicembre 2001, quando il precedente Congresso di Friburgo votò per Bangkok come sede successiva.
Una scelta non casuale, visto che l’Asia aveva ospitato in precedenza un solo congresso dell’Ucip (a Delhi nel 1985) dal 1930; ma anche una scelta significativa, per dimostrare che l’Asia, e la Thailandia in particolare, hanno l’assoluta capacità in termini tecnologici, culturali, umani per confrontarsi alla pari con il resto del mondo.
In Asia, oggi e ancor più in prospettiva, si sono spostate le frontiere del dialogo, dell’inculturazione e della nuova evangelizzazione. Proprio la Thailandia, per la situazione geografica, etnica e religiosa, rappresenta una sintesi dell’intero continente, senza contare che la chiesa, assolutamente minoritaria nel paese, esprime una vivacità e vitalità sorprendenti, a confronto con un mondo buddista tradizionalista e in difficoltà di fronte alla necessità di accompagnare senza apparenti traumi lo straordinario sviluppo del paese.
L’organizzazione impeccabile in una coice di grande cordialità, la partecipazione attiva dei massimi vertici della chiesa thailandese e il saluto personale all’assemblea del primo ministro Thaksin Shinawatra, hanno introdotto i partecipanti (asiatici in maggioranza, ma con una presenza davvero internazionale) ai vari interventi e momenti di discussione attorno al tema «La sfida dei media di fronte al pluralismo culturale e religioso: per un nuovo ordine sociale, giustizia e pace».

Molti i temi affrontati nelle diverse comunicazioni e dibattiti, e tra questi: I media e la sfida del pluralismo culturale e religioso in Medio Oriente e in Iraq, proposto da mons. Casmoussa, arcivescovo siro-cattolico di Mosul; Tensione globale, pluralismo narrativo e pace, un’analisi sul potere dei media, proposta dalla professoressa thailandese Suwanna Satha-Anand; di più stretta attualità la riflessione di mons. Owen Campion su Impatto della religione nelle elezioni presidenziali del 2004 negli Stati Uniti.
Fuori dal programma degli interventi, la folta delegazione libanese ha distribuito ai partecipanti un documento in cui hanno chiesto l’impegno dei mass media cattolici nel mondo per favorire il pieno ripristino della sovranità nazionale in Libano.
Comunicazioni a parte, un ruolo di primo piano hanno avuto le tavole rotonde e i dibattiti, che hanno messo a confronto esperienze, posizioni e sensibilità di partecipanti provenienti da aree geografiche ed esperienze assai diverse.

In un continente dove l’influenza dei mass media è allo stesso tempo improntata al conformismo verso i poteri forti e alla critica di sistemi spesso iniqui, in un paese come la Thailandia, dove il primo ministro Thaksin Shinawatra controlla un’impressionante concentrazione di mezzi d’informazione e comunicazione, in un contesto dove il cattolicesimo è spesso fenomeno «esotico» o stigmatizzato come «straniero», è emerso anzitutto il ruolo del giornalista come «testimone».
Testimone scomodo, che deve unire qualità professionali e capacità di entrare in simpatia con le realtà locali. «Nel riferire la verità, i giornalisti si devono attenere ai massimi livelli di professionalità e di integrità morale», ha dichiarato l’arcivescovo John Foley nel suo discorso di saluto al Congresso.
Il presidente del Pontificio consiglio per le Comunicazioni sociali ha proseguito, sottolineando come la stessa vita dei giornalisti «dovrebbe riflettere la sovranità di Dio su tutti gli aspetti della vita umana» e che i giornalisti devono riflettere i «più alti livelli professionali e etici, sia come persone, sia come professionisti dell’informazione».
Ricordando il ruolo positivo dell’informazione cattolica in un contesto – quello asiatico – dove la chiesa è spesso assai minoritaria o in difficoltà, l’arcivescovo ha sottolineato il positivo impatto sulla società: «Voi non siete giornalisti cattolici per caso; e neppure cattolici prestati al giornalismo: siete invece giornalisti cattolici, con una sincera vocazione a comunicare la verità con amore e ad aiutare altri a fare lo stesso».
Dialogo e libertà sono state le linee-guida del Congresso, come sintetizzato dal presidente dell’Ucip, Ismar De Oliveira Soares: «Siamo venuti qui per ascoltare, per imparare, per dialogare e cercare nuove strade per essere presenti nel mondo contemporaneo come professionisti e come giornalisti cattolici, professionisti dei media e comunicatori. Noi non siamo soltanto invitati a proteggere i nostri stessi diritti, ma anche a dialogare con popoli, nazioni, organizzazioni da una prospettiva multiculturale… Per noi, la libertà personale e la libertà di espressione sono valori inscindibili. La libertà è più che il diritto professionale di parlare e scrivere. La libertà è il diritto della gente a scegliere come far progredire le proprie culture e a decidere delle modalità con cui informare sulla propria vita».

Thailandia paese buddista. È stato quindi con interesse che i congressisti hanno ascoltato e commentato gli interventi del portavoce del governo thailandese, Jakrapob Penkair, e del venerabile Somchai Kusalacitto, monaco buddista e docente all’Università Maha Chulalongko.
Il primo ha incentrato il suo intervento sul concetto di «sforzo etico individuale», finalizzato alla pace, alla condivisione e, a partire da un ambito tradizionalmente rurale come quello thailandese, all’«autosufficienza», via mediana fatta di moderazione, convivenza e uso di tecnologie sostenibili. Il secondo ha focalizzato gli aspetti morali dell’attività giornalistica e dell’uso dei modei mezzi di comunicazione di massa.
Interessante l’analisi di Somchai Kusalacitto riguardo la sfida che la comunicazione pone oggi al buddismo, religione che, come parte di una più vasta presa di distanza dai «vincoli» mondani allo sforzo di liberazione individuale, ha sempre ignorato proselitismo, missionarietà, propaganda, conoscenza che non fosse trasmessa per via diretta dai maestri o dalle scritture.
La mutata realtà dei paesi dove il buddismo è forte e strutturato, la necessità di partecipare in modo attivo alla crescita della società, l’apertura a nuove istanze religiose, sociali e culturali in un contesto globale, il crescente disinteresse religioso incentivato dal benessere sempre più diffuso, spingono, oggi, anche i seguaci della dottrina del Budda a cercare un nuovo e diverso rapporto con i mass media.

Occasione di contatto e scambio di informazioni e idee tra i singoli operatori dell’informazione, fra testate e associazioni professionali iscritti all’Ucip, il Congresso non ha sintetizzato i propri lavori in un comunicato finale. Tuttavia la sensazione è che l’evento sia davvero servito, come ha suggerito il presidente De Oliveira Soares, a «rafforzare il nostro impegno come giornalisti a essere più vicini alla gente e alla sua cultura, difendendo la libertà di espressione. Siamo venuti qui per osservare, ricevere e riportare nei nostri paesi d’origine le esperienze vitali che rendono questo luogo un orizzonte illuminato».

Stefano Vecchia




Una zappa come arma

Regole inteazionali, aiuti allo sviluppo, povertà, immigrazione… È l’Africa, allieva di un «maestro» che la sfrutta, nel racconto di un leader legato
alla terra, che lotta per un nuovo umanesimo in politica e contro gli aiuti «avvelenati».

François Traoré è alto e corpulento. Quando indossa il grande boubou celeste, incute autorità e rispetto. Di umili origini, contadino e allevatore, è alla testa dell’Unione nazionale dei produttori di cotone del Burkina; nel 2002 è stato eletto presidente della Confederazione contadina del paese (Cpf).
La Cpf raggruppa la maggior parte dei coltivatori del paese saheliano, terz’ultimo nella graduatoria dello sviluppo delle Nazioni Unite, la cui popolazione, all’85%, vive di agricoltura. Tra Washington, Ginevra, Cancun e Ouagadougou, Traoré non è mai fermo: porta sulle spalle la causa dei contadini africani.

Qual è l’importanza del movimento contadino in Africa dell’Ovest?
Oggi, alcuni di noi agricoltori, che sono andati a scuola, hanno fondato un po’ ovunque movimenti contadini. Siamo coscienti che i mestieri di agricoltore, allevatore, pescatore possono nutrire onestamente noi e le nostre famiglie. Anzi, fanno vivere la società, perché, fino a prova contraria, non si è ancora fabbricato un seme in grado di nutrire l’uomo: si coltiva sempre. Siamo quindi coscienti del nostro ruolo e dell’importanza che ricopre.

Vi siete organizzati. Ma a livello mondiale che potere negoziale avete con le istituzioni inteazionali?

In passato il governo decideva sulle questioni che riguardano il nostro settore, a livello nazionale come internazionale, senza interpellarci. Oggi non è più possibile: se ci sono aspetti che non ci soddisfano o decisioni a cui siamo contrari, ci sentiamo in obbligo di far sentire la nostra voce ai diversi livelli.
Se gli organismi inteazionali sono umani e le leggi sono fatte per l’uomo, esiste uno spazio per farci ascoltare. Noi siamo una traccia in questo mondo, uomini che vivono nelle regole inteazionali e alle quali facciamo riferimento. Prendiamo, ad esempio, la lotta contro la povertà: c’è una grande strumentalizzazione su questo tema, a cui sono contrario; si devono ascoltare gli attori e accettare i cambiamenti, piuttosto che dire tante parole.
Da noi, un giovane che dall’età di 15 anni lotta contro la povertà, la può sconfiggere. L’umanità ha la possibilità di far vivere gli uomini sul pianeta, se le regole inteazionali sono applicate sinceramente e non sono violate dai grandi. Per esempio, la mondializzazione: per me, vuol dire che quelli che hanno il potere dovrebbero fare in modo che tutti possano mangiare, bere e dormire. Ma, nella mondializzazione di oggi, le grandi potenze vogliono appropriarsi di tutto il mondo. Se tante persone, i poveri, non riescono a vivere, cosa vuol dire allora mondializzazione?
A Doa hanno detto che faranno dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) uno strumento di sviluppo. Vuol dire cambiare la situazione di chi è in miseria. Ma la realtà rimane uguale. Solo guerre.
Non sono d’accordo su come si parla dei bambini soldato in Africa: il bambino africano e suo padre volevano strumenti e materiali per lavorare che non costassero cari. Ma le grandi potenze fanno di tutto perché le risorse naturali africane vadano a loro beneficio e l’africano continui a soffrire. Così danno loro un fucile o un kalashnikov e qualcuno, da qualche parte, li utilizza.
Sono contro le regole della mondializzazione, se queste non vanno nel senso in cui tutti gli uomini possano sentirsi parte di questo mondo.

A proposito di regole, ci parli di quelle sul commercio mondiale.

L’Omc è un consesso di oltre 140 paesi: ci sono stati che firmano senza avere alcun interesse. Questa volta, a Cancun, l’Africa ha detto no. E le grandi potenze non hanno mandato giù questa posizione. Si sono dette che può essere un precedente pericoloso. Meglio cercare di addormentarci e farci proposte che portano a nulla di fatto. Come possiamo continuare a parlare di sviluppo e non accettare che l’uomo povero possa vendere bene il suo prodotto? Lui non chiede un regalo, ma di stabilire regole giuste.
Invece continuano i sottintesi, che non portano a nulla. È quanto è successo a Ginevra. Non hanno messo il dito sul problema, né dato delle scadenze. Ciò vuol dire che il povero non avrà il suo tornaconto e morirà; forse un’altra generazione di poveri vedrà una soluzione. Ma non ne sono sicuro: manca la volontà.

Gli aiuti sono utili allo sviluppo o sono un modo per mascherare un sistema dei paesi ricchi?
Vedo l’aiuto allo sviluppo come l’esca per acchiappare il pesce. Dal punto di vista umano, l’aiuto deve far sì che l’uomo giunga a risolvere i propri problemi da solo; ma se per 40 anni si continua ad aiutare e l’Africa non risolve i suoi problemi, vuol dire che l’aiuto è «avvelenato». La solidarietà è buona, ma quando nasconde degli interessi e produce più ricchezze a chi aiuta, allora è una distruzione. Bisogna cambiare questo meccanismo.

Cosa bisogna cambiare?

Gli uomini dei mass media possono essere una cinghia di trasmissione tra le società del Nord e quelle del Sud. Sono cosciente che in tutti i paesi sviluppati c’è la volontà reale per tessere vere relazioni. Molto spesso gli aiuti arrivano da uomini di buona volontà; ma poi sono utilizzati politicamente, all’insaputa dei donatori. Bisogna informare queste persone, che certamente non vogliono il nostro male.
La politica è per l’uomo e va fatta nel senso di un nuovo umanesimo. Spesso, invece, è utilizzata per gli interessi di qualcuno, all’insaputa della società civile. Esiste un altro modo di creare relazioni tra le società, basato su quello che possiamo cambiare nella vita degli altri. Un uomo del Nord riflette su cosa può cambiare nella vita di uno del Sud? Gli uomini si devono parlare per dirsi, in tutta sincerità, dove vogliono andare. Tutti gli esseri umani vogliono la prosperità e la pace per l’uomo.

Eccetto qualcuno.

È quello che dico: siamo utilizzati troppo spesso da un pugno di uomini. È un’ingenuità umana.

Per lo sviluppo dell’Africa, cosa devono fare la sua società civile e i suoi dirigenti?

L’Africa non deve farsi delle illusioni: ha subìto per lungo tempo. L’Europa è la maestra dell’Africa da 40 anni, senza darle un diploma. E non si può dire che non abbia avuto un buon allievo.
Ma cosa impedisce agli africani di dire: vogliamo forgiare il nostro sviluppo? Tradizionalmente, nelle nostre società, ne avevamo tutti gli strumenti, ma molti sono stati distrutti: in ogni villaggio c’era un sistema di difesa dei diritti umani. Dobbiamo ascoltarci e poter contare su noi stessi. È il momento di riflettere: governi e società civile.
Ma se le politiche dei nostri leaders sono teleguidate, non bisogna sorprendersi che l’Occidente continui a succhiare le nostre ricchezze. Ma in una società altamente analfabeta è facile venire usati. Guardiamo il destino dei nostri primi capi di stato: alcuni sono stati talmente sfruttati che, alla fine, i paesi occidentali non li volevano neanche più sul loro territorio. È un monito per i nostri dirigenti.

E l’Africa che cosa ha insegnato all’Europa?

L’Europa ha preso molto dalle società africane: ci sono prodotti che vengono da qui, trasformati in Europa e rivenduti in Africa. Noi non conosciamo bene il nostro valore umano e scientifico, le risorse naturali e il pensiero dell’uomo africano. È l’Europa che li conosce e li sa sfruttare. Su questo si dovrebbe fare il partenariato. È normale che i popoli abbiano scambi tra di loro, ma questi scambi devono dare frutti da entrambe le parti; invece, il ritorno è sempre stato minimo per il nostro continente. Il livello di povertà e sottosviluppo africano è una vergogna per l’Africa e per il mondo intero.
L’europeo deve capire che c’è qualcosa che non va se, ogni volta che viene a vedere l’africano, lo trova nella stessa situazione. È questa una collaborazione sincera?

Cosa pensa degli africani che continuano a rischiare la vita per emigrare in Europa?

Salif Keita, cantautore maliano, dice: «Se un europeo viene in Africa è un cornoperante; se un africano va in Europa, è un immigrato». Che l’uomo possa andare dove vuole fa parte delle leggi universali. Oggi, gli italiani che vogliono venire in Burkina non hanno alcun problema, sono i benvenuti. Ma per gli africani si sono create delle situazioni che li obbligano a emigrare. L’80% degli africani che vanno in Europa lavora duro e i loro paesi beneficiano di questo lavoro. Allora, perché si dice sempre che sono dei delinquenti? Se nel mondo intero si aprono le frontiere, allora che sia uguale per le merci e per gli uomini! E se vogliono che restiamo a casa nostra, che non saccheggino le nostre risorse; lascino che i nostri politici e le nostre società civili scelgano il nostro futuro!

Per esempio, l’Unione Europea non ha una politica comune in materia d’immigrazione…

Se l’Ue si è messa insieme, è anche per regolare un certo numero di affari in modo comune, come la moneta. L’immigrazione è un problema. L’Europa può essere abbastanza saggia da risolvere, per prima cosa, la questione dello sviluppo dell’Africa.
L’Europa ha molto sfruttato le risorse africane; l’America ha preso gli uomini, le braccia valide. Entrambi i continenti devono qualcosa all’Africa. Dovrebbero quindi pagare, ma non lo fanno; continuano, invece, a parlare d’aiuto. Che l’aiuto non sia più un inganno! Per andare da un villaggio all’altro abbiamo problemi, mentre in Italia ognuno ha l’asfalto fin davanti alla sua porta, ha il telefono in casa. Qui, gente e animali bevono la stessa acqua! Bisogna che le persone siano informate che tutto ciò è sorpassato: non è una cosa di cui vantarsi. Se un italiano dice che continua ad aiutare l’Africa, non fa la nostra fierezza. Dobbiamo cambiare la forma: questa non è adatta, non cambia nulla.

In Burkina si stanno sperimentando gli Ogm nel campo del cotone: pensa che invaderanno l’Africa?

Gli Ogm, per me, sono tecnologia. È come la radio: cento anni fa non esisteva. In Europa e in Africa si consumano già prodotti geneticamente modificati. Noi abbiamo posto delle domande a ricercatori ambientali ed economici, a scienziati di qui, che non hanno interesse a vedere la propria gente scomparire. Quando avranno risposto, potremo accettare o respingere gli Ogm.
Noi, leaders contadini, non vogliamo che s’introduca qualcosa che possa essere un pericolo. Per esempio, la tecnologia degli armamenti: chiedo ai paesi che la utilizzano di fermarsi, non è utile all’uomo. Se l’umanità smettesse di produrre armi, sarebbe un bene anche per noi. Invece, si continua. Le potenze non vogliono che si fabbrichi la bomba atomica, ma la posseggono e continuano a perfezionarla.
L’umanità deve riflettere sulle tecnologie e poi scegliere. È quello che stiamo cercando di fare per gli Ogm. Ci sono tecnologie nocive, che fanno gli interessi delle grandi potenze e, quindi, si continua a sviluppare. Che siano Ogm, armi o altro. L’ho detto a Washington: i paesi ricchi non sono contenti se non vedono la miseria dell’Africa nelle loro televisioni, i morti di Aids, gli immigrati che partono e lasciano a morire i loro figli. Immagini forti. Dobbiamo superare questo.

È ottimista sul futuro del movimento contadino in Africa?

Sì. Noi, leaders attuali, dobbiamo capire che non potremo cambiare tutto. Dobbiamo lavorare per formare i nostri successori, in modo tale che questa lotta continui. È una lotta sincera, dell’uomo, dell’agricoltore: la sua arma è la zappa.

Barco Bello




Fuori dalle gabbie!

«Giovani musulmani in Europa. Tipologie di appartenenza religiosa e dinamiche socio-culturali»: è stato il tema del Convegno internazionale, tenuto presso il «Centro di studi religiosi comparati Edoardo Agnelli»
di Torino. È emerso che molti giovani musulmani cercano di conciliare identità islamica e valori occidentali. Ma non tutti.

«In un’epoca in cui qualsiasi religione rischia di essere strumentalizzata e vista come causa di contrapposizioni e guerre, vogliamo ribadire che la vita insieme, la frequentazione degli stessi spazi, l’accoglienza reciproca, il dialogo alla pari sono possibili. Che le religioni sono una risorsa per qualsiasi società. Ne sono la linfa vitale e la possibilità di speranza».
Questo comunicato stampa è la sintesi di un importante incontro svoltosi ad Albano Laziale dal 19 al 21 marzo 2004 (una settimana dopo la strage di Madrid) tra Giovani musulmani d’Italia (Gmi), Unione dei giovani ebrei italiani, Federazione universitari cattolici italiani (Fuci) e giovani delle Acli.
Questo storico incontro è stato seguito dalla sociologa Annalisa Frisina dell’Università di Padova, che da tre anni studia l’associazione Gmi. La stessa studiosa, durante il Convegno internazionale, tenutosi l’11 giugno presso il Centro di studi religiosi comparati Edoardo Agnelli, ha ribadito: «Avendo assistito ai gruppi di discussione su Le radici culturali dell’Europa, Laicismo e laicità dello stato, Religioni e cittadinanza, ho potuto constatare come non si sia trattato di una facile “dichiarazione di intenti”, ma stia significando per i Gmi, come per gli altri partecipanti a questo tipo di iniziative, una profonda messa in discussione e un lavoro critico e impegnativo».

IN ITALIA: IDENTITÀ E INTEGRAZIONE
Quanti sono i musulmani in Italia? Com’è nata l’associazione dei Giovani musulmani d’Italia? Chi la anima? Quali obiettivi si propone? L’entusiasmo e la professionalità della Frisina nel presentare i risultati della sua ricerca hanno offerto dati e informazioni importanti e significative.
«Secondo il Dossier statistico immigrazione 2003 di Caritas/Migrantes, alla fine del 2002 in Italia c’erano 553.007 musulmani (36,6% dei 1.512.324 stranieri regolarmente presenti), facendo dell’islam la seconda religione in Italia.*
Diversamente da quanto è avvenuto in altri paesi europei, la provenienza dei musulmani è molto diversificata: troviamo persone originarie dal Maghreb (in prevalenza marocchini), Mashreq (Egitto, Libano, Palestina, Siria, Iraq), Africa subsahariana (Senegal, Nigeria, Sudan, Mali, Somalia), e poi dal Pakistan, Iran, Bangladesh, Balcani… Si può ipotizzare che i giovani musulmani siano tra 100-250 mila».
L’associazione Gmi è nata nel 2001, due mesi dopo il fatidico 11 settembre. Intervistando i membri dell’associazione, la sociologa ha rilevato come i giovani «possano sentirsi continuamente chiamati in causa, quasi presunti colpevoli in quanto musulmani».
Attualmente l’associazione è formata da circa 300 giovani (69% tra i 15-17 anni e 31% tra 18-23 anni), tutti cresciuti e formati nelle nostre scuole, in molti casi sin dall’infanzia (il 44% è nato in Italia), per la maggior parte residenti nel nord Italia e con famiglie, provenienti da Marocco (45%), Siria, Egitto, ben inserite come operai, commercianti, medici nel nostro paese.
Già partecipanti ai campi estivi organizzati dall’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia (Ucoii), i giovani musulmani hanno sentito l’esigenza di autonomia e autogestione, perché ritenevano le loro esperienze di vita troppo diverse da quelle dei loro genitori, e anche perché, dopo l’11 settembre, in Europa e in Italia è cresciuta l’islamofobia, fomentata tra l’altro dall’informazione superficiale e stereotipata dei nostri mass media.
Infatti, in tre anni di attività, i Gmi hanno tentato significativi rapporti con i mass media e intrapreso diverse iniziative interregionali e interculturali, culminate con l’importante e significativo incontro del marzo 2004.
Gli obiettivi principali dell’associazione Gmi, formalizzati da statuto, sono di due tipi: sul versante interno essi intendono promuovere la costruzione identitaria dei giovani musulmani, italiani ed europei, attraverso attività formative che valorizzino e approfondiscano la loro fede; sul versante esterno, intendono impegnarsi a livello locale, nazionale ed europeo «per la giustizia, la pace e salvaguardia dei diritti umani» (art. 3 dello statuto).

VOGLIA DI AUTONOMIA
La Frisina ha seguito alcuni convegni del Gmi e ne ha descritto l’evolversi. Nel primo, tenutosi a Bellaria il 23-25 dicembre 2001, negli stessi giorni del xxiii Convegno nazionale dell’Ucoii, la presenza degli oratori adulti era predominante.
Durante il iii Convegno nazionale, svoltosi a Bagni di Romagna il 22-24 dicembre 2002, la Frisina, osservatrice partecipante, ha rilevato come ci «siano stati chiari segni di insofferenza verso la gestione direttiva da parte degli adulti e sia emersa l’esigenza di approfondire in modo diverso la propria fede per viverla da giovani italiani ed europei».
Infatti, gli oratori «con i loro discorsi costruivano continuamente una contrapposizione tra “noi musulmani” e “loro”, cioè i non musulmani». Anche quando i giovani espressero il loro apprezzamento per l’Europa che favorisce «libertà di espressione, la democrazia, l’uguaglianza davanti alla legge, i diritti umani», il vice-presidente dell’Ucoii chiese: «Siete sicuri che questi valori non ci siano nell’islam?».
Fu il giovane incaricato delle pubbliche relazioni, K. C., a rispondere per tutti: «Storicamente la forza dell’islam è stata quella di saper riconoscere e assorbire il positivo delle culture che ha incontrato. Credo che noi dobbiamo continuare così, riconoscendo i valori altrui, imparando ancora e dando il nostro contributo».
L’associazione elegge democraticamente i suoi rappresentanti, come ha ribadito con chiarezza la vice presidente – una ragazza ventenne con il classico velo, presente al convegno di Torino con altre amiche – e agisce in completa autonomia dalle associazioni degli adulti. Gli adulti sono presenti ai loro convegni, preoccupati della fede, morale e formazione dei ragazzi, ma sono i giovani a prendere le loro decisioni in modo autonomo.

VOGLIA DI PARTECIPARE
Infatti è diminuita la presenza degli «esperti» e sono aumentati i momenti ludici, gite, laboratori, dove i giovani si confrontano e imparano a presentare con chiarezza le loro idee in pubblico. Ad esempio, i Gmi hanno preso una chiara posizione contro chi invocava la rimozione del crocifisso dalle aule, «sostenendo che non rappresentava i musulmani italiani e che i “veri problemi” da discutere erano “come costruire la pace e una convivenza giusta”».
Il 23/11/2003 hanno anche scritto una lettera a Bruno Vespa, che con le sue trasmissioni televisive, popolate di ospiti da spettacolo, «alimenta il clima di paura e disagio nei confronti della componente islamica italiana». Come risultato l’attuale presidente dei giovani islamici J.K., già incaricato delle pubbliche relazioni, è sovente ospite del Maurizio Costanzo show.
La Frisina, dopo tre anni di attenta osservazione dei Gmi, commenta: «Le domande di inclusione dei giovani musulmani sono avvenute a più livelli: locale perché questi giovani partecipano attivamente alla vita del territorio dove vivono; nazionale, perché si sentono italiani e vogliono la “cittadinanza formale” per essere ufficialmente titolari di diritti e doveri; europeo, sia perché nei loro discorsi è molto spesso presente l’Europa, come una delle loro “appartenenze”, sia perché fanno parte di un’associazione giovanile islamica europea, il Femyso, e dello Youth Forum».
Si rivela infine importante ascoltare con attenzione le esortazioni di K.C., responsabile e portavoce dei Giovani musulmani italiani: «Noi qui rischiamo di non essere aiutati a vivere la laicità. La società, o meglio quelli che stanno guidando la società, non vogliono la laicità dei musulmani, stranamente… E quindi li vogliono sempre chiudere nell’angolo della religione. Invece la sfida è dire: “Guarda, noi siamo cittadini e usciamo da queste gabbie”. Vogliamo parlare di tutto… del condominio, del quartiere, della puzza delle fogne… Bisogna partecipare, partecipare!».

GRAN BRETAGNA:PIÙ BRITISH, PIÙ MUSULMANI
La prima moschea fu costruita a Cardiff nel 1870 da marinai dello Yemen. Nel 1963 le moschee erano 13; oggi sono circa mille e offrono istruzione religiosa per i bambini.
La vera immigrazione islamica iniziò negli anni ’60, con l’arrivo di lavoratori dal Pakistan, India, Bangladesh. Altri musulmani arrivarono dall’Europa dell’est, dopo il collasso della Jugoslavia.
Dal censimento del 2001 risulta che il 2,7% della popolazione britannica è formata da musulmani: circa 1,6 milioni; essi sono in prevalenza asiatici; 11,6% «bianchi» (60 mila dell’Est-Europa e 10 mila convertiti); 6,7% africani. Il 50% ha meno di 25 anni.
Le numerose organizzazioni musulmane asiatiche, costituite su base etnica, nel 1997 hanno dato vita al Muslim Council of Britain (Mcb) e attualmente raggruppa 350 organismi: moschee, istituzioni caritative ed educative, donne, giovani, professionisti. Lo stesso anno lo sparuto ma potente gruppo di arabi musulmani ha istituito la Muslim Association of Britain (Mab), che conta circa mille membri; ma nel febbraio 2003 è riuscita a mobilitare, a Londra, 2 milioni di persone contro la guerra in Iraq.
«La divisione più grande tra i diversi gruppi di musulmani – afferma nella sua relazione Yunas Samad, dell’Università di Bradford – è di carattere sociale: gli appartenenti al ceto medio frequentano le scuole superiori, con accesso a professioni di alto livello (medici, amministratori), mentre la maggioranza (bengalesi e pakistani), di origine proletaria e con basso grado di scolarità, è soggetta a un futuro incerto e al rischio di esclusione sociale».
I giovani musulmani della Gran Bretagna, di qualsiasi ceto e gruppo etnico, si sono trovati uniti e si sono fatti conoscere per le imponenti manifestazioni contro I versetti satanici di Rushdie e le due guerre del golfo.
Mentre per gli europei questi giovani sono definiti quasi «fondamentalisti»; i leaders musulmani, invece, sono preoccupati perché diventano troppo «occidentali». Infatti, mentre i loro genitori pregano o leggono il Corano in urdu o bengali, i giovani conoscono poco queste lingue e perciò si distaccano dalla tradizione. Paradossalmente, però, più diventano british, comunicando bene in inglese, più si radicano nell’identità musulmana.
I giovani musulmani delle classi più colte e agiate possono permettersi frequenti viaggi nei propri paesi d’origine e si rivelano anche i meglio integrati in Gran Bretagna. Tra i giovani lavoratori asiatici, invece, possono sfociare veri e propri conflitti violenti contro i «bianchi» (come è capitato a Oldham, Buely e Bradford), non tanto per una conclamata difesa della comunità, ma per un controllo del territorio.
Le giovani musulmane cercano, a poco a poco, di conquistare la loro indipendenza, sia nel proseguire la scuola che nel cercare un lavoro e un marito di loro scelta, non più imposto dalla famiglia. Invocano per questo la legge islamica, che richiede alla donna «la ricerca della conoscenza anche in ambienti misti, sempre a patto che le donne si vestano e si comportino con modestia».

GERMANIA:LITTLE ISTANBUL
La Germania conta circa 2,7 milioni di musulmani (3,5% della popolazione), in maggioranza turchi, che rappresentano il 26% degli immigrati. Circa il 50% dei turchi residenti ha meno di 25 anni.
Il 15-20% dei giovani musulmani ha successo sia in campo scolastico che lavorativo. Ma il 25% non ha terminato le scuole e fatica a inserirsi nel mondo del lavoro (40% di disoccupati), soprattutto nelle periferie delle grandi città, chiamate talora little Istanbul, per la forte concentrazione di immigrati turchi. Berlino, per esempio, conta 73 moschee, 58 delle quali sono frequentate da turchi.
Da decenni si parla dei turchi come di musulmani con una cultura diversa, difficile da integrarsi. Ma qualcosa sta cambiando tra le nuove generazioni. Il 35% dei giovani musulmani frequenta regolarmente la moschea. Una recente ricerca condotta in Westfalia, conferma che il 25% dei giovani musulmani si dichiara «credente e seguace degli insegnamenti islamici», mentre il 50% dichiara di «credere in Dio, ma non essere praticante». Solo il 30% afferma di aver seguito la scuola coranica per più di 3 anni.
«In Turchia lo stato proibisce alle donne di indossare il velo nelle scuole e università – afferma Czarina Wilpert, dell’Università di Berlino -. La prima generazione di immigrate turche indossava semplici foulard nella vita privata, di rado in pubblico. La seconda e terza generazione sembra che indossi il foulard anche a scuola, come rifiuto all’integrazione e dei valori della società occidentale».
Attualmente sono i singoli «stati» (länder) a decidere se le donne possono indossare il foulard nelle istituzioni pubbliche.
Pare, comunque, che molti giovani siano alla ricerca del «vero» islam, in modo «indipendente» dal rigido sistema di «valori» imposto dalla tradizione. Al tempo stesso, credono nei «valori democratici» e perciò vivono la loro religione come «un rispetto per i diritti dell’uomo», mentre sono critici nei confronti delle grandi organizzazioni islamiche che vorrebbero intrupparli.
Alcuni studi, focalizzati sui rapporti transnazionali, raggruppano i giovani musulmani in tre categorie: coloro che desiderano essere riconosciuti e accettati in Germania come «diversi»; gli ultraortodossi, che sognano una rivoluzione in Turchia; quelli che cercano la possibilità di ridefinire le normative in modo democratico in una società pluralista.
Alcuni, infatti, sono coinvolti in partiti politici. Ma secondo i servizi segreti tedeschi, in Germania ci sono 30 mila estremisti islamici, di cui 4 mila a Berlino. Interessante notare come i giovani turchi non amino definirsi «tedeschi», ma preferiscano l’identificazione locale come «turco berlinese».
Infine, un’importante ricerca afferma che «i giovani turchi in Germania sono socialmente coscienti e critici della crescente discriminazione, segregazione e razzismo della società in cui vivono».

FRANCIA:IL VELO… TRICOLORE
Non ci sono dati sul numero di musulmani in Francia; potrebbero essere 3 milioni o il doppio: si pensa che, quanti provengono da paesi di tradizione islamica, soprattutto nordafricani, siano automaticamente musulmani. La maggior parte di essi è concentrata nelle periferie delle città, dove si rileva il più alto tasso di disoccupazione (20%) tra gli immigrati nordafricani.
Malgrado l’emergere di un ceto medio tra questi immigrati, afferma il relatore Alexandre Caeiro, del Cnrs-Gsrl di Parigi, «in Francia l’islam continua a essere recepito come la religione dello straniero, del povero e dell’escluso», una combinazione che produce effetti molto negativi per l’integrazione dei giovani musulmani nel paese.
Nel 1987 si formò a Lione l’Union des jeunes musulmans (Ujm). Questi giovani sono nati in Francia e conoscono poco il loro «paese d’origine»; perciò, l’essere musulmani non fa parte del loro bagaglio culturale, ma serve a definire la loro identità. Ma «mentre l’islam dei genitori era conciliante, discreto e desideroso di integrarsi, l’islam dei figli non accetta compromessi ed è in rottura con i genitori e con i valori francesi».
L’istituzionalizzazione dell’islam in Francia è culminata nel 2003 con la costituzione del Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm). Al suo interno le voci più critiche sono proprio quelle dei giovani, che vorrebbero un «islam francese», piuttosto che mantenere un «islam in Francia» con il contributo offerto dai paesi d’origine.
Per rappresentare i musulmani non legati a moschee e organizzazioni, sono sorti anche il «Consiglio dei musulmani laici» e il «Consiglio dei musulmani democratici». Attualmente in Francia esistono solo due scuole musulmane; ma, con l’attuale legge sulla laicità, forse queste scuole aumenteranno. I nord africani incontrano discriminazione nel mondo del lavoro, mentre le donne che indossano il velo non hanno accesso al pubblico impiego.
Tra le iniziative intraprese dai musulmani per un dialogo tra credenti di religioni diverse, c’è da segnalare il ciclo di conferenze organizzato alla moschea Adda’wa di Parigi: il carisma del direttore, l’algerino Larhi Kechat, indipendente dai paesi musulmani e dallo stato francese, attira moltissime persone. Però, vari atti di antisemitismo, perpetuati da giovani di origine nordafricana, lanciano segnali inquietanti.
«Nonostante gli elogi alla comunità islamica globale, i musulmani di Francia non si sono impegnati nella politica internazionale, eccetto che in manifestazioni occasionali a favore dei palestinesi e contro la guerra in Afghanistan e in Iraq».
Nel 2003, invece, i giovani musulmani sono stati molto presenti nei movimenti contro la globalizzazione e hanno partecipato attivamente, nel novembre 2003, all’European Social Forum di Parigi.
Interessante è, infine, rilevare che il dibattuto affaire du foulard è nuovamente esploso nel 2003; ma, mentre i leaders istituzionali musulmani discutevano sul da farsi, due ragazzine di 17 anni, con l’aiuto di una giovane esperta in internet, riuscirono a organizzare in tempi brevissimi una manifestazione a Parigi: più di 6 mila persone parteciparono a tale manifestazione, costellata di bandiere francesi ed europee: tantissime ragazze avevano indosso il foulard con i colori della bandiera francese.

Silvana Bottignole




Quale economia? (1) La spesa pubblica non è una iattura

Una serie di organizzazioni italiane (ben 36, sia cattoliche che laiche) hanno scritto
una «finanziaria alternativa», che guarda ai diritti, alla pace, all’ambiente.
Cifre e obiettivi messi nero su bianco
ovvero quando i sognatori diventano concreti.

Tutti sanno cosa sia la finanziaria, ma pochi vanno al di là di un vago «stabilisce più o meno tasse». In realtà, con la finanziaria si decide una parte del futuro immediato di ognuno di noi (sanità, scuola, ambiente, famiglia, ecc.) e del paese nei confronti del mondo (spese militari, cooperazione internazionale, ecc.). Esattamente un anno fa scrivemmo un elogio della campagna «Sbilanciamoci», che studia numeri e proposte per una finanziaria «a favore dei diritti, della pace e dell’ambiente»; quest’anno dobbiamo ripeterci ed anzi ampliare i complimenti. Il lavoro fatto dalle 36 organizzazioni promotrici (sia cattoliche che laiche) è la dimostrazione che i sogni – diritti per tutti, pace, preservazione dell’ambiente – potrebbero tradursi in realtà concrete, se soltanto politici ed amministratori lo volessero.
Rimandando i lettori alla fonte originale per il dettaglio delle varie voci di spesa, per noi è importante ricordare alcuni dei principi su cui si fonda la finanziaria approntata da Sbilanciamoci.

Privilegi ed egoismo. «Nel dibattito politico di questi anni il tema della leva fiscale è stato strumentalizzato in modo ideologico e populista al fine di perseguire l’obiettivo della riduzione indiscriminata dell’imposizione fiscale identificata come un “male in sé”, una gabella “estorta” dallo Stato “inefficiente e sprecone”. Tanto più grave è ciò in quanto a farsene portatore è proprio chi questo Stato sta gestendo in maniera fallimentare, il ceto dirigente responsabile primo del dissesto della finanza pubblica, dello scadimento dei servizi, dell’appropriazione personale delle risorse pubbliche, della legittimazione dei peggiori comportamenti opportunistici.
Le imposte non sono mai buone o cattive in sé, ma lo sono solo e in quanto sono lo strumento che permette di far funzionare le nostre istituzioni e garantire ai cittadini quei servizi e quelle prestazioni che rafforzano la coesione sociale, lo sviluppo, il godimento dei diritti fondamentali anche da parte delle classi più disagiate. Senza risorse – e dunque senza un adeguato prelievo fiscale – non può esserci un Welfare che funziona ed adeguato alle esigenze dei cittadini, non possono darsi politiche di sostegno allo sviluppo e di aiuto alle regioni più povere, non possono essere messi nelle condizioni di operare i comuni – e più in generale gli enti locali e le regioni – nell’offerta dei servizi essenziali alla comunità e al territorio. Al contrario di chi attacca le tasse – e che ha in mente solamente i privilegi dei più ricchi e l’egoismo sociale – noi difendiamo il principio della contribuzione fiscale, come un principio di civiltà, di coesione comunitaria e di solidarietà».

La società non è un’impresa. «Ritorna oggi con forza una richiesta di equità e sicurezza sociale, di giustizia e regole cui non si può non dare risposta; il primato di un’economia deregolamentata e senza anima sociale è al capolinea; ci sono questioni di fondo che vengono poste: è la società che si deve comportare come un’impresa, o è invece quest’ultima che deve essere responsabile incorporando nelle sue valutazioni anche l’impatto sociale ed ambientale delle proprie azioni? O più in generale: è il mercato una produzione sociale – e quindi dalla società dipendente – o è la società ad essere subordinata al primo?
È in crisi questo modello di sviluppo, energivoro, consumistico, individualista, che può sopravvivere solo su una appropriazione sregolata di risorse, di produzione di diseguaglianze; ci sono dei limiti a questo sviluppo che sono dati da un ambiente che non si può massacrare, da una coesione sociale che non si può distruggere, da beni comuni dai quali dipendono la nostra sopravvivenza, che non potranno mai essere ridotti a merce. Gran parte del peso di questo nostro modello di sviluppo ricade sul Sud del mondo, al quale viene impedito di trovare la strada al proprio futuro, e sulle future generazioni, che rischiano di pagare con conflitti, povertà e degrado i nostri comportamenti.
In questo contesto si colloca la crisi del modello industriale che abbiamo sin qui conosciuto; per quanto ci riguarda possiamo propriamente parlare della scomparsa dell’Italia industriale. E non si tratta tanto dei cinesi che fabbricano più a buon mercato. Ci sono responsabilità specificatamente italiane di imprese che non puntano più sulla qualità, il lavoro, l’innovazione; di imprese che preferiscono puntare sui mercati finanziari e non sugli investimenti produttivi, che preferiscono risparmiare precarizzando il lavoro e non investire puntando sulla qualità e formazione dei lavoratori. È la logica del “mordi e fuggi” dei casinò finanziari, che il governo Berlusconi ha alimentato al massimo con le sue misure che – riguardandolo in prima persona – hanno indotto ogni imprenditore a credere che fosse ormai arrivato il momento di “prendere i soldi e scappare”. A partire dal sempre minore tasso di legalità e deontologia. Oppure le responsabilità di un settore pubblico che non fa più ricerca, che non ha più una politica industriale, che non fa programmazione, che non dà vere regole, che non pensa al welfare come strumento anche di sviluppo e coesione sociale.
Invece è proprio il ruolo del settore e dell’intervento pubblico che bisogna rilanciare. Dopo più di un ventennio di sbornia ideologica di mercato, liberismo e privatizzazioni, l’intervento e la spesa pubblica possono essere strumento di una vera economia diversa: la ricerca, il welfare, l’uso della leva fiscale, la programmazione, il controllo dei mercati e la reale regolamentazione della concorrenza, possono essere gli strumenti di un’economia sostenibile; non si tratta ovviamente di statalismo, ma di una sfera pubblica che attinge dalla dinamica del protagonismo degli attori sociali».

Non c’è tempo da perdere. La finanziaria 2005 del governo Berlusconi non contiene nulla di quanto propone la controfinanziaria di Sbilanciamoci. Ma un obiettivo importante questa l’ha ottenuto: dimostrare, conti alla mano, che una gestione alternativa dei soldi pubblici è possibile. E sempre più impellente.
Pa.Mo.

Paolo Moiola




Quale economia? (1) Crescita o decrescita?

CON QUESTI CONSUMI NON AVREMO FUTURO

«Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito
in un mondo finito è un folle, oppure un economista».

Ha scritto Alex Langer, il compianto ambientalista altornatesino: «Io mi chiedo se è vero che vogliamo stare meglio, quando quotidianamente facciamo di tutto per stare peggio. Cioè, facciamo una cosa sola: obbediamo ciecamente al mercato, al furore tecnico-economico che domina il mondo. Lavoriamo di più, più in fretta, più ansiosamente. Per che cosa? Già chiederselo è un miracolo, perché non c’è più tempo per chiederselo».
Il problema è posto: il bene collettivo e la felicità individuale sono in relazione diretta con la crescita economica? La risposta, almeno in Occidente, è quasi sempre stata «sì». Poi, davanti ai fallimenti del mercato, alle diseguaglianze sempre più forti, al degrado ambientale, alcuni studiosi hanno iniziato a ribaltare i termini del problema e a parlare di «decrescita» come proposta per uscire dal tunnel cieco dell’economicismo.
In tempi di esaltazione della «crescita», è normale che il termine opposto porti con sé una sensazione di negatività.
Scrive Serge Latouche in Obiettivo decrescita: «Pianificare la decrescita significa rinunciare all’immaginario economico, cioè alla credenza che “di più” significhi “meglio”. Il bene e la felicità possono realizzarsi a un minor prezzo. La saggezza afferma generalmente che la felicità si realizza nella soddisfazione di un numero sapientemente limitato di bisogni. La riscoperta della vera ricchezza nella pienezza delle relazioni sociali conviviali in un mondo sano può realizzarsi con serenità nella frugalità, nella sobrietà e addirittura in una certa austerità nei consumi materiali».

Paolo Moiola




Salvador de Bahia… e la fame continua

Nella capitale dello stato di Bahia si scontrano il lusso più sfacciato e la miseria
dei bassifondi; in periferia i complessi petrolchimici sfruttano i poveri indifesi; nell’interno della regione, i latifondisti sono in lotta con i senza terra… In mezzo la solidarietà di laici
e missionari, impegnati accanto agli emarginati, per aiutarli a difendere la propria dignità.

In un viaggio nello stato brasiliano di Bahia, alla ricerca di progetti sociali e di persone impegnate nella solidarietà, mi sono fermato a Salvador, la capitale di Bahia, poi a Monte Gordo, un piccolo centro situato sul litorale, a 50 km dalla capitale, e infine a Esplanada, una cittadina che dista circa 100 km dalla costa, praticamente alle porte del grande Sertão.
Mentre nei quartieri degradati di Salvador operano insieme laici e religiosi, negli altri due luoghi lavorano due missionari marchigiani, padre Luis (don Luigi Carrescia) e frei Chico (frate Francesco Carloni). Il primo, dopo 10 anni di servizio in un’altra città, Camaçari, si è definitivamente stanziato a Monte Gordo; l’altro, ormai da 30 anni in Brasile, porta avanti la presenza dei cappuccini, giunti in questo pezzo di Bahia all’inizio del secolo scorso.

SALVADOR BRILLA

Rita lavora come assistente sociale nella casa di donna Conceição, zia Conça per gli amici, una simpatica bahiana che 12 anni fa si è messa in testa di fondare un’associazione controcorrente. All’ingresso c’è un’insegna sulla quale si legge: «Preconcetti no. Solidarietà sì». La casa accoglie bambini orfani, a rischio di emarginazione, perché almeno uno dei loro genitori è morto di Aids e per tale motivo gli altri asili non li accettano.
Zia Conça invece se li prende tranquillamente con sé. Qui i bambini possono giocare, iniziare a esercitarsi con l’alfabeto portoghese e con la matematica, mangiano tre volte al giorno, fanno il bagno e sono seguiti quotidianamente da un’infermiera.
Alla porta di zia Conça bussano anche altri abitanti del quartiere, per chiedere un pasto, un consiglio, un aiuto scolastico per il figlio o per un controllo medico. I sieropositivi sono molti, condannati dall’indifferenza a un triste destino.
Ciononostante, oggi è un giorno speciale: c’è da festeggiare il compleanno di un gruppo di persone. Potrebbe essere l’ultimo e per questo diventa importante stare insieme.
Rita e le altre ragazze della casa di zia Conça hanno preparato un dolce enorme al cioccolato con le fragole e tante caraffe di succhi di frutta. Poi verso le quattro del pomeriggio gli adulti arrivano all’asilo a riprendersi i bambini. Nessuno di loro ha un lavoro fisso, sono tutti specializzati nell’arte dell’arrangiarsi. Vivono di piccoli traffici, di prostituzione, di lavoretti per rimanere a galla nel mare dell’esclusione sociale che taglia in due la città: da un lato i centri commerciali e finanziari e dall’altro le catapecchie.
Se si percorre l’Avenida Antonio Carlos Magalhães, il boss di Bahia, ci si specchia davanti alle porte scorrevoli delle banche, degli alberghi inteazionali o degli specchietti delle auto di lusso, parcheggiate davanti ai palazzi, con il custode che annaffia le piantine della reception; poi all’improvviso, superato un terrapieno, giù nello sprofondo che non si vede mai, pulsa una favela, un altro mondo.
Qui la sanità non arriva; la polizia ci entra solo per dare la caccia a qualche ladro di polli; la scuola non funziona, l’amministrazione pubblica si dimentica volentieri di registrare i nuovi nati: può capitare che un bimbo cresca senza che nessuno lo sappia, vivendo per strada, al di fuori di qualsiasi regola civile.
I meninos de rua, con la velocità di un proiettile, diventano grandi, bruciano tutto e sono consapevoli di andare incontro a una parabola drammatica, fatta di malattie e di violenza: te lo raccontano con il sorriso.
Una volta alla settimana zia Conça li carica su due pulmini e li porta a fare una gita al mare o in qualche parco dove mangiano una grossa salsiccia in umido, fanno la doccia e si divertono in pace, senza masticare il grigio del marciapiede.
I fondi per aiutarli ad abbandonare la strada sono scarsissimi, così si fa quel che si può. In questa lotta contro le ingiustizie, in mancanza di un appoggio governativo, a tappare i buchi sono impegnate sia le suore terziarie francescane, un gruppetto di religiose indiane che, con i finanziamenti del progetto di adozione a distanza Agata-Smeralda, offrono istruzione ai tanti semianalfabeti e un po’ di medicine, sia le parrocchie di periferia che attraverso la pastorale denunciano e poi tentano di risolvere i casi di denutrizione, di droga e alcolismo, di sfruttamento sessuale e di emarginazione.
A ridosso delle elezioni si fa vivo qualche politico, che regala caramelle e distribuisce scarpe e protesi dentarie in cambio del voto.
E non solo: ovviamente fa anche molte promesse. Per esempio, di concedere i regolari documenti catastali a tutte le famiglie che hanno una specie di abitazione ma non sono ancora registrati. Poi succede che, una volta eletto, ci mette un minuto a dimenticare tutto.
Intanto però la favela aumenta con nuovi arrivi dalle campagne di sbandati in cerca di miglior sorte e un’altra ragazzina partorisce il primo di una lunga serie di bocche da sfamare. E come la fame anche la notte continua.
Quando scende il buio da lontano la favela arroccata su una collinetta sembra un presepe di cartapesta, avvolto in un vestito rigato di polvere dorata. Ma la distanza inganna. Fuori da quel tremolio di lampadine, intorno ai semafori, sotto i grattacieli, i fari delle macchine illuminano il numero da giocoliere di un ragazzino che, con il viso dipinto di bianco, fa ruotare tre bastoni infuocati, dando vita a un malabaris e al tintinnio di due spiccioli di elemosina sotto gli uffici delle multinazionali.
Davanti al porto, si accendono le luci sulla Bahia de todos los santos e la mano di un turista dirige i riflettori sul lungomare, dove i viados aspettano chi li porti via. Una signora frigge una manciata di fagioli nell’olio di dendê e l’odore dolciastro che ne viene fuori si spalma sulla città, come una crema su un corpo addormentato e infilzato da aghi, le cui capocchie emettono flebili luccichii.
Rita va a letto sorridente; domani lo sciopero degli autobus è stato cancellato.

I PESCI DI MONTE GORDO

Qui a Monte Gordo, periferia estrema di Camaçari, centro industriale famoso per il petrolchimico, padre Luis si è trasferito un anno e mezzo fa, assumendo la guida della giovane parrocchia di São Bento (San Benedetto) che conta circa 18 piccole chiese, molto distanti tra loro e per questo c’è sempre da correre, con la valigetta delle ostie e del vino sempre a portata di mano.
In una chiesa ricavata in un garage, con l’acqua piovana che inonda la grondaia malconcia, attorno a un povero altare circondato dai bambini seduti sull’erba o su fragili panche, dentro una casa consacrata, con le pareti celesti, in mezzo alla foresta… si trova sempre il calore di un abbraccio e di un sorriso.
Manca però per tutti un lavoro stabile, ben retribuito e protetto dai sindacati, e soprattutto un’istruzione adeguata. La scuola sta chiudendo: il tuo di notte è terminato e una scia di scolari si riversa nelle stradine verso casa.
Anche la ragazza della lotteria popolare chiude i battenti. Ogni giorno i brasiliani tentano la fortuna giocandosi i numeri che potrebbero cambiare la vita. Lei per oggi ha finito, riporta nello sgabuzzino di un negoziante amico il banchetto e la sedia. Prima però condivide con un viaggiatore di passaggio un po’ di pastel, spuntini di pasta ripieni di carne, aspettando i numeri che usciranno domani.
E nel domani di questa giovane missione c’è anche il progetto di padre Luis di finanziare una scuola matea attraverso una fondazione, denominata Emaus, che si occupi di produrre e commercializzare pesci e farina di funghi, ottima per rafforzare le magre merende degli studenti.
Le vasche per la pescicultura sono già in funzione; il borbottio dei motori si confonde con l’aria ovattata di Monte Gordo, interrotta, ogni tanto, dal verso di un uccello o da qualche canzone per una festa che sta per iniziare.

FAGIOLI MAGICI A ESPLANADA

Il soggetto più attivo nella lotta per la giustizia sociale nelle campagne e per una più equa redistribuzione delle risorse è il Movimento Sem Terra, sorto negli anni ’70.
Nel 1989, quando alcune grandi aziende s’impossessarono senza permesso dei terreni del convento dei cappuccini, frei Chico si rivolse al Movimento per pianificare la riconquista del maltolto. Innanzitutto raccolse in gruppi organizzati tutte quelle famiglie avvezze a vivere ai margini della città o in condizioni di semischiavitù come manodopera dei signori della terra; dopodiché li convinse che era giusto esercitare un’azione di forza, guidando così l’invasione dei terreni illegalmente sottratti alla parrocchia.
I latifondisti reagirono con violenza. Fu chiamata la polizia, che disperse le famiglie: donne, uomini e bambini trovarono rifugio nelle case dei cappuccini e delle suore francescane. Nonostante quell’intimidazione frei Chico non si scoraggiò nella missione di unire e coscientizzare gli sfruttati, e, attraverso il metodo dell’invasione e della trattativa con le grandi aziende, è riuscito negli anni a creare 12 insediamenti e 2 accampamenti.
Gli insediamenti sono comunità agricole ben strutturate: le case sono di mattoni, le scuole primarie funzionano, i giovani hanno a disposizione piccoli spazi per danzare la capoeira; mentre negli accampamenti, di più recente costituzione, le case sono ancora a livello di baracche e le persone aspettano di vedere la loro situazione regolarizzata.
Come a Nova Esplanada dove ancora mancano luce e acqua, tuttavia asilo e scuola elementare sono aperti, una piccola struttura celeste in mezzo all’assolata spianata e alle buste nere che svolazzano incastrate tra i pezzi di legno che formano le casupole.
Qui una volta comandava un’azienda spagnola, che approfittò degli incentivi di un governo assai sprecone per prendere possesso del terreno e poi tenerlo inutilizzato, preda del bestiame di allevatori furbastri. Invece ora chi ci abita coltiva verdura, legumi, miglio, frutta e soprattutto vive una vita degna e non più brutale come prima, in mezzo alla strada o alle dipendenze di latifondisti senza scrupoli.
Certo la tanto sospirata riforma agraria che metterebbe fine a secolari ingiustizie non è stata ancora approvata; nel frattempo molte famiglie possono comunque dirsi felici.
L’attuale governo Lula afferma di volerla realizzare; ma l’ufficio preposto alla sua attuazione è sempre in sciopero, perché privato di molti mezzi; in più, i ben noti poteri forti stanno nell’ombra a sabotare e fare pressioni: insomma la consueta palude della politica.
A frei Chico poco importa, lui va avanti lo stesso. Ormai conosce a memoria tutte le buche che deve schivare sulle strade che collegano il convento alle varie chiesette sparse per tutto il territorio della parrocchia e che possono stare anche a 120 chilometri di distanza.
È quasi l’ora del tramonto. Nel cielo si liquefà un colore misto di arancione, viola e blu scuro. Ai lati del cammino accidentato scorre un oleodotto che sembra un serpente e, immobili, come se spuntassero da sotto terra, le perforatrici, figure fredde intagliate nell’oscurità.
La zona di Esplanada è ricca di petrolio e, a causa della presenza dell’oro nero, arrivano nei forzieri del comune fiumi di banconote. Per questo davanti alla casa del sindaco staziona una guardia armata e diventa così importante vincere le elezioni, nelle quali votano persino i morti. Frei Chico, durante la messa in un piccolo insediamento, scende dall’altare e si avvicina all’assemblea, ricordando che vendere il proprio voto è sbagliato.
Qui è facile venire a fare proselitismi in cerca di consensi elettorali. La gente è sempre vissuta nell’ignoranza dei propri diritti e ha sofferto molto, quindi è abituata a chinare la testa. Sono persone il cui mondo termina alla fine della vanga e poi ritorna su per l’impugnatura di legno, perché c’è da pensare al lavoro nei campi del giorno dopo: uomini e donne che hanno lottato per quel poco che possiedono e che devono mantenere quotidianamente con il sudore della fronte.
Finita la messa, i fedeli offrono a frei Chico delle pannocchie di mais abbrustolite e delle cosce di pollo. Poi egli saluta tutti e, lentamente, dentro il suo corpo esile, toglie il disturbo.
Sulla via del ritorno fa un colpo di clackson a una contadina con il bambino in braccio, vestita di bianco e gli orecchini della bisnonna, viso che sa di Africa e di magia, la regina nera dei fagiolini del sertão.

Paolo Brunacci




Hanno fame e… si nascondono

Salvador de Bahia: dalle palafitte a Nuova Primavera

Si respira la vera miseria tra le palafitte di Novos Alagados, alla periferia di Salvador de Bahia, nella parrocchia di São Blás, dove dal 1991 lavorano i missionari della Consolata.
Da generazioni, i ricchi latifondisti si sono preoccupati di occupare tutta la terra disponibile, senza lasciae neppure un centimetro alla povera gente. Così, l’impossibilità di occupare uno spazio sulla terraferma ha indotto i più poveri a piantare qualche palo sulla riva del mare e a sistemarsi in misere capanne, formando il popolo delle palafitte. «Il mare non è di nessuno – dicono da queste parti -. Anzi, è di Dio».
Qui la fame è di casa. Questa, assieme a tante altre calamità, è la malattia più brutta. Di fronte a realtà simili, Teresa di Calcutta aveva detto che «non è stato Dio a creare la miseria: l’abbiamo creata noi!».
La globalizzazione, nel suo aspetto più deteriore e devastante, continua a rendere i ricchi sempre più ricchi, mentre la «massa sobrante», come dicono in Brasile, quella parte di umanità senza diritti e né difese è destinata a scomparire dall’avanzata del cosiddetto «progresso», che premia i forti e schiaccia come un rullo compressore i deboli. Fra questi, i bambini sono quelli che pagano il prezzo più alto.
La povertà-miseria non attrae, non piace a nessuno, non ha alcuna popolarità. I poveri sono un incubo per tanta gente. Anche per alcuni che leggono spesso: «Beati i poveri…».
E ppure, un gruppo di giovani, accompagnati da padre Francesco Giuliani, che li aveva preparati per un anno intero, sono venuti fin qua, tra i più poveri, dove senti puzza di fogna, perché è tutta a cielo aperto, per vivere un’esperienza di frateità.
Era l’agosto del 2001: quando mari e monti invitavano alle vacanze, 17 giovani, provenienti da varie regioni d’Italia, hanno vissuto un mese tra i Novos Alagados. La gente delle palafitte ha sentito il calore umano di questi giovani, la loro presenza ristoratrice, come una bibita in piena calura estiva.
Erano partiti da Cesena portando con loro una parola d’ordine: inserirsi con occhi d’amore e di fede in mezzo ai poveri. Ho visto nascere tante amicizie. Ho visto giovani dottoresse curare ferite e diagnosticare malattie, fra i calcinacci di un salone in rovina e nelle palafitte, a cui arrivavano per mezzo di traballanti passerelle di legno.
Alcuni di loro, in seguito, sono tornati per incontrarsi di nuovo con le famiglie amiche. Altri sognano di tornare. Quasi tutti si stanno dando da fare in Italia, per raccogliere aiuti e dare una mano alle mamme che soffrono la fame.

È davvero brutta la fame! A Napoli dicono: «Chi è sazio non crede a chi è digiuno».
Ho sempre presente un episodio sintomatico: un’animatrice del «Progetto Famiglie di Novos Alagados» mi dice:
– Padre, Luciana picchia sempre le sue bambine: va a vedere cosa succede.
Vado e chiedo a Luciana:
– Perché picchi le tue bambine?
– Piangono sempre e mi scoccia sentirle.
– Ma perché piangono?
– Hanno fame e io non ho nulla da dare loro.
– Ma perché non me l’hai detto? Tu sei animatrice, perché non parli?
– Ho vergogna…
Ancora una volta ho capito che i poveri si nascondono e preferiscono soffrire in silenzio.
N el 2003 è venuto un altro gruppo di giovani. Erano partiti da Torino, accompagnati da padre Antonio Rovelli. Hanno svolto un lavoro di presenza amica, visitando le famiglie più povere e costruendo una biblioteca per i giovani che vogliono entrare all’università, ma non hanno i mezzi per comprare i libri su cui studiare.
Poi, con l’aiuto di tanti benefattori, abbiamo creato un centro di accoglienza: Kilombo do Kioió. I kilombo erano piccole repubbliche di schiavi che fuggivano e si mettevano insieme per creare spazi di libertà. Kioió è una pianta medicinale che abbiamo trovato nel giardino della casa che abbiamo comprato per tale iniziativa.
In questa sede si svolgono le attività del «Progetto famiglie Novos Alagados». Il nostro Kilombo aiuta 450 famiglie a fare un cammino di liberazione, attraverso il lavoro e la preghiera. È un’esperienza di crescita sociale e religiosa per uscire dalla morsa della fame e dell’abbandono.

L a caratteristica dei poveri è di nascondersi. Sanno di non aver diritto a nulla e non poter esigere. Sanno che nessuno li vuole, di non essere ben visti neppure in chiesa, per cui non ci vanno. Parlano adagio e a voce bassa per non farsi sentire. Quando li avvicini, ti guardano con sospetto, perché hanno paura che tolga loro anche quel poco che hanno e fuggono.
Il nostro lavoro è di «andare a caccia» di queste famiglie che fuggono e scompaiono tra i meandri della favela.
Purtroppo, ci sono tanti altri che, senza avee bisogno, vengono a chiedere, o meglio, a esigere aiuto.
È difficile stare in mezzo a loro. Bisogna avere una forte carica interiore, che viene solo dall’alto. Tante le scuse per fuggire: non ho tempo, non ce la faccio, mi stancano, c’è pericolo di assalti, bisogna essere prudenti…

S ono tanti i volti della povertà: dalla mancanza di cibo e di socializzazione, alla paura di vaccinare i figli, per timore che vengano avvelenati, dalla difficoltà di trovare un lavoro, alla fila chilometrica per una visita medica…
Qualcosa tuttavia sta cambiando: da due anni a questa parte si costruiscono delle casette sulla terra ferma, che vengono consegnate a chi vive sulle palafitte.
Il progetto è finanziato anche dal Ministero degli esteri italiano. Il settore dove sorgono queste casette si chiama «Nuova Primavera» e fa ben sperare per il futuro. Brutto, però, è anche vedere gente che riceve la casa e la vende per tornare alle palafitte. Questa è ancora una forma di povertà che si chiama «ignoranza».
Le famiglie che ora abitano nella Nuova Primavera hanno cambiato aspetto. Anche se continua la disoccupazione, la paura degli assalti e manca ancora il necessario per vivere.
Una signora, mamma di tre bambini, diceva: «Adesso non ho più paura di vedere i miei figli cadere nell’acqua inquinata e morire avvelenati. Ora mi sento più sicura quando metto i piedi a terra».
Pietro Parcelli

Pietro Parcelli




MONGOLIA (3)Tra “Ethos” e “Daimon”

Come dialogare con i buddisti in Mongolia?
Da dove cominciare? Con quale linguaggio? Senza dubbio: con il linguaggio dell’amore e della carità.

La chiesa cattolica si prepara per estendere la sua azione fuori della capitale. «C’è molto da lavorare qui in Mongolia – dice il padre congolese Pierre Kasemuana, missionario di Scheut – e la tolleranza tra cattolici e buddisti è fondamentale per ottenere risultati concreti».
La presenza dei cattolici in Mongolia è numericamente esigua, ma molto apprezzata, anche dai buddisti lamaisti, che costituiscono il 90% della popolazione. Un obiettivo comune unisce le due fedi: dare un futuro alla nazione mongola, cominciando dai suoi abitanti più giovani.
Potremmo cominciare il dialogo leggendo insieme un testo, come il Canone buddista, che contiene molti brani condivisibili dai cristiani. Oppure potremmo scegliere la lettera di san Giacomo, che lo stesso Dalai Lama, per esempio, ha letto ed elogiato.
Questa lettera, in realtà, presenta varie somiglianze con alcuni testi della tradizione buddista, in particolare con quelli di scuola lojong (lett.: dimostrare la mente), i quali parlano, per esempio, di «tre livelli della fede» da conquistare successivamente e del dovere di tradurla in azione, dell’importanza dell’ascolto, «in contrapposizione al parlare», del controllo delle «emozioni negative», come l’ira.
È necessario dialogare per vincere fondamentalismi e intolleranze, che negano all’altro il diritto di essere differente e che, oggi, servono di pretesto per guerre e conflitti. Il teologo Hans Küng afferma: «L’umanità non sopravviverà senza una etica mondiale. Nel mondo, non ci sarà la pace senza dialogo fra le religioni».

DA DOVE COMINCIARE?
Il dialogo potrebbe cominciare da due parole dell’antica Grecia, quindi né cristiane né buddiste, ma che contengono concetti universali: ethos e daimon.
Il primo termine, ethos, richiama subito alla mente il concetto di «etica» (legge morale universale); ma il suo significato originario è piuttosto quello di dimora, abitazione umana. Non si tratta dei muri e tetto della casa; l’ethos indica quel complesso di relazioni che l’essere umano stabilisce con l’ambiente, da cui ritaglia lo spazio per la sua dimora, con i familiari per essere cornoperativi e pacifici, con un piccolo luogo sacro, dove si conservano le memorie più care, e con i vicini, perché ci sia mutua collaborazione e cortesia. In altre parole, l’ethos è il luogo dove l’uomo dà dignità alla sua esistenza.
Alla partenza da Roma, nel luglio del 2003, ci domandavamo come e dove sarebbe stata la nostra abitazione in Ulaanbaatar. Sapevamo che il vescovo aveva già affittato due appartamenti, uno per le suore e l’altro per noi padri. Ci aspettavamo di essere alloggiati almeno a un chilometro di distanza; invece ci siamo ritrovati nello stesso stabile, in due appartamenti sovrapposti. Ci troviamo bene: abbiamo scelto il luogo sacro comune (la cappella) e avviato il nostro ethos, cioè il nostro modo di essere missionari.
Per ogni missionario l’ethos è il mondo intero; nella pratica, però, diventa un luogo specifico, che per noi è la Mongolia. Essendo all’inizio, il complesso di relazioni con i mongoli è ancora complicato, ma non sarà difficile, poiché abbiamo già sperimentato che essi sono molto simpatici e aperti agli stranieri.
Ciò che fa della casa un ethos, cioè una dimora umana, un insieme di relazioni, è il daimon, che nel greco classico non è il demonio, ma il contrario: l’angelo buono, genio protettore. Socrate, per esempio, si lasciava orientare dal suo «demone»: lo chiamava «voce profetica dentro di me, proveniente da un potere superiore», o «segnale di Dio».
In ultima analisi, il daimon si identifica con la nostra coscienza, con quella voce interiore che suggerisce i nostri comportamenti, guida, dissuade o incoraggia altri elementi fondamentali del nostro essere: desideri, intelligenza, amore o potere.
Ancora prima di Socrate, il geniale filosofo Eraclito (500 a.C.) aveva unito i due concetti nell’aforisma 119: ethos anthrópo daimon, letteralmente: ethos all’uomo (è) daimon. Le interpretazioni di questo frammento sibillino sono molte. Nei tempi più recenti, il filosofo Martin Heidegger lo ha tradotto così: «L’uomo, in quanto uomo, ha la sua dimora in Dio»; invertendo i termini si può anche dire che «Dio è la dimora dell’uomo».
La fedeltà a questo angelo buono fa sì che abitiamo bene nella casa, quella individuale, nella città, nel paese e sul pianeta terra, la casa comune. Tutto ciò che facciamo perché si possa vivere bene insieme (felicità) è etico e buono; ciò che è contrario alla convivenza è anti-etico, cioè cattivo.

IL DIALOGO
Nel corso della storia, il daimon fu dimenticato, sostituito dai filosofi con sistemi etici, proposti come legge universale, e, negli ultimi secoli da ideologie, come marxismo e liberismo, che hanno ridotto l’etica a un affare utilitario, con conseguenze disastrose per la convivenza umana.
La Mongolia ne è un esempio. Per 70 anni satellite dell’Unione sovietica, in omaggio all’ideologia marxista-leninista fu proibita ogni pratica religiosa pubblica, i monasteri buddisti furono chiusi o distrutti, migliaia di monaci assassinati, molti altri perseguitati.
Da poco più di un decennio è ritornata la democrazia: nelle elezioni del 1996, la Coalizione della madrepatria democratica (Cdm) sconfisse il Partito rivoluzionario del popolo della Mongolia (Prpm), al potere nei precedenti 70 anni. Ma il popolo mongolo non sembra avere staccato totalmente il legame col partito comunista: nelle elezioni legislative del 2000 restituì il potere al Prpm e in quelle del giugno scorso ha diviso in parità i deputati mandati in Parlamento.
I governi che si sono succeduti in questi anni hanno abbandonato ogni atteggiamento antireligioso; anzi, hanno aperto le porte alle diverse religioni, pur imponendo certe limitazioni. Le chiese, per esempio, non possono esporre la croce fuori dell’edificio; nelle nostre scuole non possiamo avere segni religiosi; non è consentito fare manifestazioni religiose fuori degli edifici di culto.
Tuttavia, il dialogo con le autorità pubbliche è bene incamminato; le relazioni sono stabili. Senza dubbio, le autorità cominciano a capire chi siamo grazie all’impegno della chiesa verso i più bisognosi. Anche tale testimonianza è una forma di dialogo, fatto di gesti concreti, più eloquenti delle parole.
Quando parliamo dei poveri, ci troviamo in sintonia con i fratelli buddisti; pure i monaci, infatti, hanno opere a favore dei bambini di strada, degli anziani bisognosi, dei carcerati, dei giovani.
Inoltre, in Ulaanbaatar il buddismo asiatico ha la sede della Conferenza continentale per la pace. Anche sotto questo aspetto non è difficile darci la mano per leggere insieme i segni dei tempi e il grande libro della vita, nella ricerca della pace e dell’armonia.

PRESENZA DI FEDE E AZIONE
Dio ha piantato la sua gher (la tipica tenda rotonda) in mezzo alla Mongolia dei buddisti, degli sciamanisti, dei musulmani… e di noi cattolici, chiamati a lavorare in questa vigna del Signore nell’ultima ora.
Dice Simone Weil: «Ogni qualvolta una persona ha invocato con cuore puro Osiride, Dioniso, Budda, il Taho, ecc…, il Figlio di Dio ha risposto inviandogli lo Spirito Santo. E lo Spirito Santo ha agito sulla sua anima, non impegnandolo ad abbandonare la sua tradizione religiosa, ma donandogli la luce e, nel migliore dei casi, la pienezza della luce, all’interno di tale tradizione».
Come missionarie e missionari della Consolata in Mongolia, abbiamo bisogno di ascoltare la voce dello Spirito, per liberarci da preconcetti, paura del nuovo, occidentalismo, conservatorismo e da tutto ciò che ci impedisce di aprire le nostre tende e accogliere gli altri.
È lo Spirito che insegna il cammino del dialogo e la ricerca della pace. Tale cammino non può rimanere ristretto alle grandi conferenze, ma deve essere praticato ogni giorno, in casa, nelle relazioni familiari e nella convivenza con i vicini. Dio è amore e ci fa fratelli e sorelle nella ricerca dell’ethos perfetto, della «Terra senza mali», del «paradiso dell’armonia».
Per ora la nostra missione consiste nell’essere comunità di presenza, che si dedica ai lavori domestici (cucinare, lavare, stirare…), partecipa alla vita e alle attività delle comunità locali e, soprattutto, apre il cuore a futuri orizzonti.

BOX 1

IL MONDO RELIGIOSO DEI MONGOLI

Sciamanismo
È la componente più antica della cultura e della vita del popolo mongolo. È sopravvissuto al buddismo, che ne ha assimilato o inculturato vari elementi. Si è rafforzato durante il governo comunista, dal momento che non aveva né libri sacri da bruciare, né templi da distruggere. Oggi è praticato nelle zone rurali più remote.
Lo sciamano, circondato da un’aureola di rispetto e timore, è l’anello di unione tra vita terrena e mondo degli spiriti, grazie alla sua esperienza estatica (trance). Il suo ruolo è per natura benefico e la sua funzione molteplice. Lo sciamano è medico (diagnostica il male mediante il contatto con gli spiriti e lo cura con interventi diretti); è psicologo (con rituali e dialogo agisce sulla psiche del paziente); è sacerdote (offre sacrifici e compie riti sacrali); è divinatore (nell’esperienza estatica, rivela fatti sconosciuti del passato e previene il futuro; fa ritrovare cose o persone smarrite); è psicopompo (accompagna l’anima del defunto nella nuova dimora).
Dialogare con lo sciamanismo è dialogare con la realtà più profonda della persona mongola. Per noi missionari è pure una sfida: ci stimola a scoprire nuovi modi per diventare medici del corpo e dello spirito, per attuare la nostra dimensione sacerdotale e profetica, per essere guide delle anime verso la vita senza fine.

L’antico pantheon
Fino alla seconda metà del xvi secolo, i mongoli praticavano una propria religione, poi soppiantata dal buddismo nella forma lamaista; ma alcuni antichi elementi sono sopravvissuti.
Nelle sconfinate distese della steppa, dove il cielo rappresenta l’unica possibilità di orientamento, la stella polare determinava l’asse terrestre; sotto di essa c’era l’«ombelico» del mondo, dove aveva sede il «Signore dei mongoli».
Al cielo si volge lo sguardo dell’antico cavaliere mongolo: dal cielo scende la pioggia per i pascoli delle mandrie; il cielo è la sede della divinità suprema, Tengri (cielo), raffigurato come un cavaliere con vessillo e invocato come erketu Tengri (potente cielo) o koke mongke Tengri (eterno cielo azzurro).
Questo Essere supremo è alla testa di 99 figure divine, 34 delle quali individuate nella zona orientale della volta celeste e 55 in quella occidentale. A queste 99 figure celesti corrispondono 77 madri della terra, a volte raffigurate complessivamente nella sola Etugen, la madre terra.
Chagan Ebugen (bianco vegliardo), lo spirito delle mandrie e della fertilità, viene ritratto come un vecchio con vesti e capelli bianchi. Accanto alle divinità a cavallo, protettrici dei cavalieri, esistono divinità tutelari della casa, gli «dei di feltro», dal materiale con cui sono riprodotte le loro immagini. All’ingresso delle tende, erano posti gli ongon, spiriti protettori dell’abitazione, ai quali veniva offerto del latte.
Gli sciamani, sia uomini (boge) che donne (idughan), avevano la funzione di stabilire, tramite riti sacrificali ed estatici, un contatto con il mondo di tali spiriti e divinità.
Presso l’ovoo, un cumulo di pietre dove si riteneva si riunissero gli spiriti della natura, pastori nomadi e viaggiatori invocavano la protezione di queste potenze.

Aspettando Gengis Khan
Depositario di antiche e ricche tradizioni religiose, il popolo mongolo si è sentito investito della missione di creare un impero universale che riunisse tutti i popoli dei «quattro angoli», cioè dei quattro punti cardinali.
Tale credenza è rafforzata da antichi miti, riportati dalla Storia segreta dei mongoli, compilata nel 1240. Tali miti raccontano che i capostipiti del popolo mongolo furono «il lupo blu e la cerva selvatica»; il clan di Gengis Khan ebbe origini celesti; al momento della nascita, Temujin stringeva in pugno un grumo di sangue nero, simbolo di regalità. La leggenda lo presenta come «inviato dal destino», rivestito di poteri derivanti da Tengri, dio del cielo; dopo la morte è diventato una potenza celeste e il più nobile degli antenati.
Temujin (1155-1227), che nel 1206 prese il nome di Gengis Khan (khan oceanico, universale), è il fondatore del più grande impero che la storia ricordi: si estendeva dal Mare della Cina fino ai Balcani e al Golfo Persico.
Col passare dei secoli, nonostante che la Mongolia fosse diventata uno stato teocratico, basato sul buddismo lamaista, la memoria di Gengis Khan rimase radicata a livello popolare, grazie all’influsso degli sciamani. Il ricordo delle sue imprese ha assunto una dimensione mitica, fino a diffondersi la credenza nel suo ritorno e nella rinascita del suo impero. Ancora oggi, visitando le famiglie mongole, vediamo spesso un ritratto o disegno di Gengis Khan posto in bella mostra.

Ritoo a Karakorin
L’antica capitale del regno mongolo, era un grande centro culturale e commerciale in cui varie religioni convivevano in armonia. Secondo la leggenda, la città era il luogo sacro per l’iniziazione e la sede del «Re del mondo».
L’antica Karakorin non esiste più: sulle sue rovine, nel 1500 fu costruito il monastero di Erdene Zuu, il cui tempio è ritenuto la residenza del messia, quando questi farà ritorno sulla terra alla fine del kali yuga, cioè nell’ultima delle quattro ere del ciclo cosmico buddista. Ed è quella attuale, la più tenebrosa e oscura.
Nel secolo scorso, in concomitanza con la condizione di oppressione del popolo mongolo, si diffuse un’aspettativa messianica che prevedeva la riconquista dell’identità nazionale a lungo repressa. Tali speranze furono alimentate dal profeta altaico Chot Chelpan, che nel 1904 fondò un movimento di riscossa nazionale, basato sulle sue visioni: gli sarebbe apparso un cavaliere bianco vestito, che cavalcava un cavallo bianco, annunciandogli il ritorno di Oirot Khan, discendente di Gengis Khan, per porre fine all’oppressione zarista e ripristinare l’antico impero dei mongoli.
Per alcuni mongoli la profezia di Chelpan si è ridotta a una tenue speranza: vedere Karakorin, tra una decina di anni, capitale della Mongolia. Ma mancano i soldi per adattare, modeizzare e trasformare la città.
Speriamo anche noi: un giorno Karakorin potrebbe essere la terra che accoglie i missionari della Consolata.

Juan Carlos Greco