Resistenza civile contro Alcala e Ppp

Nonostante i mutamenti politici raggiunti per via violenta, nei paesi dell’America Centrale la situazione rimane intollerante. Unica via d’uscita per generare un cambiamento sociale e politico è senza dubbio la resistenza popolare, legata alla disobbedienza civile non violenta.
In El Salvador, dopo 30 anni di violenza e centinaia di migliaia di morti sono stati firmati gli accordi di pace nel 1992. A 13 anni da quella data, il paese si trova di fronte all’imposizione di una serie di megaprogetti, dannosi per la maggioranza delle popolazioni. A opporsi o limitare i danni di questi megaprogetti ci sono varie organizzazioni come il Cripdes (Comunità rurali per lo sviluppo di El Salvador) e Compa (Convergenza di movimenti dei popoli delle Americhe).
Marta Lorena Araujo Martines è una delle responsabili della Compa, cornordinamento di 75 organizzazioni della società civile di tutta l’America Centrale. Inoltre essa è cornordinatrice del Cripdes, che raggruppa 42 organizzazioni sociali e contadine di El Salvador.
«Il cornordinamento della Compa – spiega Marta Araujo – ci permette di essere in contatto con tutte le organizzazioni affiliate in America Latina e molte altre associazioni che condividono i nostri stessi obiettivi: organizzazione, mobilitazione, lotta e ricerca di alternative ai grandi problemi che vivono i nostri paesi. Inoltre rappresento il Cripdes, che è un’organizzazione salvadoregna, nata nel 1984 per far fronte all’emergenza dei profughi causata dal conflitto armato. In quel frangente ci impegnammo soprattutto per far sì che la popolazione civile fosse considerata come popolazione non combattente e non come obiettivo militare da parte dell’esercito e della polizia militare. Abbiamo lavorato con le comunità contadine perché venissero rispettati i diritti umani, economici, sociali e culturali. Fu un periodo molto duro e difficile per il paese.
Attualmente continuiamo a cercare alternative alla situazione attuale; per questo facciamo parte della Compa, cioè dei vari movimenti sociali dell’America Latina, che vogliono crescere dal basso e diventare forti per affrontare le politiche nefaste dei trattati liberisti che irrompono nella vita dei nostri popoli».

Le politiche che investono i paesi centroamericani si chiamano: Piano Puebla Panama (Ppp) e Area di libero commercio delle americhe (Alcala). I due organismi sono strettamente legati. Affinché l’Alcala, il trattato di libero commercio, possa funzionare con efficienza, il Ppp deve provvedere le infrastrutture necessarie: fare strade, ristrutturare porti, costruire zone franche o maquilas lungo tutta l’America Centrale.
Nella realizzazione di tali strutture, però, occorre il «capitale umano». Per questo il Ppp è impegnato a «spostare» migliaia di persone dalle zone rurali verso i grandi centri urbani, senza nessun rispetto per le popolazioni indigene e contadine, costrette ad abbandonare la propria terra e le tradizioni millenarie, per diventare operai di maquilas, mano d’opera «addomesticata dalla povertà».
E tutto avviene con il consenso dei governi neoliberali che, più che rispondere alle aspettative della propria gente, obbediscono alle politiche degli Stati Uniti, il cui governo sta forzando in tutti i modi il trattato del libero commercio.
«Le infrastrutture e megaprogetti del Ppp rendono sempre più vulnerabile la situazione della popolazione delle aree rurali – continua ancora Marta Araujo -. Non è assolutamente vero che tali infrastrutture porteranno sviluppo, come viene detto dalle pubblicità che ci fanno vedere e ascoltare.
Nel caso di El Salvador, oltre alla ristrutturazione di porto Cutucu e a nuove strade, il Ppp costruirà due dighe. Entrambe sono progettate con una precisa strategia che prevede l’espulsione dalle aree rurali di oltre 55 mila famiglie indigene e contadine, spingendole a emigrare verso le aree urbane perché diventino operai nelle zone franche o maquilas.
In questo modo verrà distrutta ogni organizzazione e unità comunitaria; saranno consegnati titoli di proprietà individuali, smembrando così l’economia collettiva; saranno introdotti i semi geneticamente modificati (Ogm), con effetti devastanti sull’agricoltura locale e sicurezza alimentare: essi fanno sparire il seme “autoctono”, pazientemente “addomesticato” dai nostri antenati per millenni.
I progetti del Ppp non riguardano solo El Salvador, ma anche Guatemala e Messico. Nella regione nicaraguense di El Petén e nel sud del Messico, si vogliono costruire 30 dighe, che spingeranno 10 milioni di indigeni a diventare operai nelle maquilas, oltre a porre fine in questo modo alla resistenza indigena del Chiapas.
Il processo di attuazione non tiene in nessuna considerazione la cultura ancestrale dei popoli indigeni che vivono in quelle zone del Messico da più di 5 mila anni. Il Ppp è una minaccia per tutti e non può che generare più povertà, più instabilità sociale e più disperazione nei popoli centroamericani».

Di fronte alla pressione Usa per implementare l’Alca, cresce la resistenza non solo da parte dei movimenti della società civile latinoamericana, ma anche da parte di vari governi, come Costa Rica, Brasile, Argentina e Venezuela.
«L’Alca avrebbe potuto funzionare se ci fosse stato un processo democratico di consultazione tra tutti i settori sociali dell’America Latina – afferma Marta Araujo -, ma così non è stato. Al contrario, si è trattato di un processo favorito dai politicanti di una ristretta élite al potere in alcuni paesi. È chiaro che quanti hanno intenzione di imporre l’Alca vogliono garantire soltanto il proprio benessere, a scapito della stragrande maggioranza della popolazione, condannata all’estrema povertà.
Ma a fae le spese sono soprattutto i popoli dell’America Centrale, che sono i più vulnerabili. Per questo ci opponiamo energicamente ai trattati liberisti come quello dell’Alca e del Ppp, perché siamo convinti che questi progetti ostacoleranno lo sviluppo umano di tutte le popolazioni dell’America Centrale».

Josè Carlos Bonino




ETIOPIA – Tra i missionari cappuccini marchigiani

In Etiopia il tempo sembra fissato per sempre. Eppure, dalla capitale, Addis Abeba, al vicariato di Soddo, la gente, umile e serena, continua la ricerca di costruire un futuro migliore… con l’aiuto dei missionari.

C’è una signora molto nervosa tra i passeggeri dell’aereo che sta scendendo su Addis Abeba. Ha gli occhi chiusi e tiene le mani conserte sulle ginocchia. Avvolta in un silenzio che sembra quello di una preghiera, un filo di pianto le riga la guancia, segnata da una sola ruga lunga e superficiale. Sono sette anni che non torna nel suo paese e, da sette giorni, non dorme per l’emozione. Solleva le palpebre e ruota impercettibilmente il collo irrigidito per la stanchezza. Dal finestrino si scorgono spruzzi di luci, misti a zone di buio fondo; due viali illuminati si stagliano su quel nero imperlato e, come due serpenti, si irradiano intorno a una corona di regina intarsiata di giornie e dolori.
Laggiù, ad aspettare la signora, si è radunata tutta la sua famiglia. Quando finalmente escono dall’aeroporto, abbracciati e sereni, le loro facce sono investite da un forte odore di erba fresca, di valle distesa tra le montagne che si apre nella mattina dai colori tersi, in mezzo ai quali si stempera l’ansia di una lunga attesa. Trascorreranno insieme il natale ortodosso; dopodiché, lei toerà a Roma a lucidare pavimenti in qualche appartamento del centro.
Ma non c’è tempo per rattristarsi. Il sole sta sorgendo. In lontananza si dirada la foschia intorno ai rilievi, qualche indistinto rumore proveniente da un orto, il fabbro che riprende a martellare e, in fondo alla via impolverata, il primo tintinnio di una borraccia di latta che gli studenti del «Centro Romagna» usano per mettervi la colazione.

Odore di polvere

Nel Centro Romagna, un grande edificio di cinque piani, i cappuccini hanno costruito le aule per l’asilo e la scuola, fino all’ottava classe. Al suono della campanella che annuncia la ricreazione, tutti si riversano nel piazzale antistante il portone per giocare al ritmo di musiche tradizionali. I maglioni celesti della divisa si mescolano ai sorrisi, al battere delle mani e al trambusto dei piedi che segnano il selciato in un ampio girotondo.
Ma le donne che scendono la collina, alla periferia di Addis, non sanno nulla della tenerezza di quel gioco, portano da una vita e sulle spalle tutta la sofferenza di un fascio di erba e legna. Ritornano in città con il materiale necessario per riparare le loro casupole, per preparare un giaciglio o, semplicemente, per accendere il fuoco. Quando si arriva nelle vie del centro, l’odore di polvere che rotola dalle colline e impregna le vesti si mescola a quello della benzina delle auto che sfrecciano davanti all’ambasciata americana, fortificata come se stesse per essere attaccata. Lungo le vie, accanto alle case in costruzione, la vita brulica tra i banchetti dei piccoli commercianti, mentre una sottile e incessante fila di mendicanti marcia verso la cattedrale ortodossa.
Nel giardino che circonda la chiesa alcuni pregano il Cristo esposto, altri bivaccano e parlottano sotto i piccoli oleandri, da dove sbucano le mani rinsecchite di chi chiede un po’ di spiccioli. Anche nella parrocchia di San Salvatore, i cappuccini cercano di venire incontro alle esigenze delle famiglie. Hanno così organizzato un incontro pubblico per decidere una linea di intervento e cornordinare gli aiuti dall’Italia, proprio per rendere più dolci le festività natalizie: solo che le richieste d’intervento sono più numerose delle mosche che si appiccicano intorno agli occhi dei bambini.
Un lavoro quotidiano, in risposta ai problemi della povertà, viene svolto da padre Tommaso Bellesi che ha creato e ora gestisce il «Centro San Giuseppe», una sorta di Caritas etiope che segue più di 5.000 casi di persone indigenti. L’assistenza garantita dai cappuccini va dalla distribuzione di vestiti e pasti al finanziamento di piccole attività economiche, fino alla copertura delle spese mediche, comprese quelle relative a interventi chirurgici e alle tasse scolastiche. Tra loro ci sono anche malati di Aids, orfani, lebbrosi, disabili fisici e mentali che, ogni giorno, formano una processione cenciosa e dannata davanti agli operatori del Centro per chiedere una scodella, un farmaco o un paio di scarpe ortopediche.
È un’umanità che lascia sgomenti, che sconvolge la mente del visitatore, la cui anima è turbata da mille interrogativi che sorgono dai cunicoli della storia, dominata dalla precarietà dell’esistenza, che qui si fa sentire con forza: al mattino, respiri e ti sfami, ma non sai se al tramonto sarai ancora vivo o se dovrai lasciare per strada un occhio, un figlio o tutt’e due.
Al pomeriggio, il Centro chiude e la città si riprende i suoi diseredati. Intoo alla grande piazza dove il passato regime comunista massacrava gli oppositori, la polizia dell’odierno governo multipartitico non li fa girare. E allora se ne vanno in periferia, a mucchietti intorno agli incroci, fermi davanti alla fermata dell’autobus che non prenderanno mai. Un viso intagliato nella pietra scura guarda fiero la sera che scende sui negozietti di semi e di tessuti, ritagliando bizzarri giochi di ombre e di luce. E, tra quella massa grigia di storpi e affamati, ogni tanto si infila a zig-zag un monaco ortodosso con il suo candido mantello.

Il «palo» della cultura

Quando si esce da Addis Abeba, si entra in un altro mondo. L’unica strada per raggiungere il sud è asfaltata solo nei primi cento chilometri, poi si trasforma in una pista piena di buchi, che incrocia ogni tanto il letto di un fiume in secca. Lo sterrato attraversa valli e gole che si aprono sull’altopiano, in un dislivello (rispetto alla capitale) di circa 700 metri di altitudine. Lungo il tragitto, si incontrano i segni vivi dell’economia e della cultura di questo paese: venditori di collane, qualche contadino che zappa la terra, piccole chiese copte, sepolcri recintati, capanne di paglia, greggi di pecore e mandrie di buoi.
Colpiscono i pastori di dromedari, sparsi sotto i sicomori e avvolti in un logoro mantello che lascia scoperto solo il viso: maschere di un tempo antico, bocche spolpate con i denti storti e marci sotto due occhi infuocati. Sono immobili, con il bastone in mano nel bassopiano sferzato dal vento e limitato tutt’intorno da una caligine turchese, che avanza sulla sabbia a piccoli banchi.
Nonostante il tempo sembri fissato per sempre, il popolo si muove. Ai lati del cammino, scorrono due fiumi di persone: donne, uomini e bambini si dirigono al mercato o rientrano da scuola, vivono la loro storia nella polvere, socializzano sulla strada, con le suole rotte o scalzi e affaticati, con i morsi della fame, con poche monete racimolate che ballonzolano nella tasca, mentre un asino carreggia due sacchi di pietre per una casa nuova.
Dopo sette ore di viaggio e 400 chilometri, si giunge a Soddo, fulcro della regione del Wolayta, dove i tetti di lamiera brillano tra la vegetazione, sommandosi ai tradizionali tukul di paglia e legno.
A Soddo, sede del vescovo Domenico Marinozzi, uno tra i missionari della prima ora, i cappuccini hanno fondato e amministrano l’altra metà della missione in Etiopia: asili, scuole di formazione, piccole attività economiche, presidi sanitari, parrocchie, seminari, centri culturali, pozzi per l’approvvigionamento idrico.
Nella comunità di Konto, attiva sin dal 1969 (anno in cui la missione arrivò in questa zona), il giorno inizia presto. Dalla piccola chiesa si sentono il suono del tamburo e i canti delle novizie che accompagnano la messa, celebrata in lingua amarica. L’aria è fresca e trasparente e si lascia invadere dolcemente dai primi caldi raggi del sole.
Intanto, dai villaggi arrivano i piccoli scolari che, per tradizione, iniziano le lezioni con l’alzabandiera, mettendosi in fila davanti ai vessilli dell’Etiopia e del Wolayta, intonando un canto e una preghiera.
In un altro padiglione della comunità, gli studenti più grandi occupano le aule della scuola dei mestieri, finanziata dalla Confartigianato della provincia di Ancona. Sono circa 50, cornordinati da un insegnante italiano in pensione, venuto quaggiù come volontario. Studiano la teoria, ma fanno anche molta pratica nei laboratori per diventare falegnami, fabbri e meccanici con l’auspicio che, un giorno, possano avviare una attività in proprio.
A poca distanza da Konto, padre Gino Binanti ha aperto da qualche anno il «Wolayta Tuussaa», un centro culturale per i giovani. Nella lingua locale tuussaa indica il palo che regge la capanna, sul quale non solo convergono i tronchi che costituiscono il tukul, ma la famiglia lo usa per appendervi i ritratti degli antenati. Significa, dunque, fondamento. E la cultura è, in un certo senso, la base di tutto; senza di essa non c’è sviluppo.
Da qui nasce l’intuizione di padre Gino: aggregare i giovani attraverso lo sport e altre attività culturali ed educative (come la musica) al fine di non disperdere il patrimonio delle tradizioni popolari. Può sembrare bizzarro adoperarsi per cose immateriali, come la cultura, in un luogo dove si muore di fame; invece, il compito missionario del Tuussaa è preziosissimo.
In primo luogo perché, privati delle proprie radici, i giovani che scelgono di trasferirsi nella grande città sono spesso carne da macello per sfruttatori senza scrupoli; poi, creare le condizioni affinché i giovani possano esprimere il loro talento significa basare lo sviluppo sulla coscienza delle proprie risorse ed energie creative. Al momento, al Tuussaa si danno appuntamento un’apprezzata squadra di calcio e un gruppo musicale, che porta in giro per la regione il suo repertorio di canti e balli.
con occhi di silenzio
Ma padre Gino vorrebbe fare di più. Il suo progetto, ancora in fase embrionale, è di costituire un museo etnografico e una biblioteca in modo da proporsi come associazione specializzata nel turismo e formare, quindi, guide competenti in un settore che potrebbe fungere da volano per la depressa economia locale. In un altro ambito cruciale nonché di emergenza umanitaria, quello sanitario, opera la clinica di Dubbo, distante alcuni chilometri da Konto.
Inaugurata nel 2000, frutto della collaborazione tra un gruppo di benefattori marchigiani, consorziati in una fondazione per dare continuità al servizio, e il Cuamm (Centro universitario aspiranti missionari medici) mette a disposizione un reparto di chirurgia e una pediatria, quest’ultima con venti posti letto.
Per coprire le spese di degenza, si chiede una piccola somma; mentre per quanto riguarda i pazienti visitati mensilmente le stime parlano di 5.000; alcuni provengono addirittura dalla frontiera con la Somalia. Il personale della clinica, formato da medici italiani volontari e infermieri etiopi, deve misurarsi con la malaria, la tubercolosi, l’epatite virale, il glaucoma e soprattutto l’Aids che, per vergogna e disinformazione, viene nascosto come se fosse una colpa divina, finché il virus non si manifesta in tutta la sua virulenza.
Anche il parto rappresenta un pericolo per la vita. Per raggiungere la clinica, molte mamme affrontano a piedi uno spostamento di 5-6 ore, compromettendo seriamente l’esito dell’operazione. In assenza di mezzi di trasporto, il malato viene trasportato dai suoi parenti su una barella fatta in casa, percorrendo diversi chilometri. È davvero un popolo in cammino.
A Boditti (una piccola comunità, sempre nel comprensorio di Soddo) è sorto un calzaturificio, con macchinari giunti dalle Marche, che attualmente non naviga in buone acque, ma che presto si riprenderà alla grande. Le suore della comunità in cui il laboratorio è stato costruito lo sperano con tutto il cuore, perché il popolo che si raduna intorno alle parrocchie chiede quotidianamente un aiuto. E, quando si sparge la voce di un nuovo censimento per individuare i bambini e le famiglie da inserire nel progetto di adozione a distanza, vengono a frotte dai villaggi più sperduti.
L’adozione a distanza è un programma di assistenza che i cappuccini hanno avviato da molti anni e che riguarda circa 6.000 bambini. Per loro significa ricevere una benedizione, in quanto in Etiopia la guerra e le carestie hanno prodotto molti orfani e lasciato piaghe insopportabili. Drammatica è la realtà dei ragazzi di strada, ai quali i frati stanno cercando di dare una degna sistemazione con un’iniziativa che sta partendo a Borkoshé, piccola comunità non lontana da Soddo. Bambini con le croste ai piedi, i lineamenti delicati mortificati in un’espressione imbronciata del viso, rassegnata, quasi da vecchi, con capelli e pelle imbiancati dalla polvere.
Per entrare a far parte del sistema di solidarietà, grazie al quale riceveranno una famiglia italiana disposta ad «adottarli» nelle spese scolastiche e in quelle concrete di tutti i giorni, si mettono in fila silenti, accompagnati da un adulto, guardando fissi nel vuoto, con occhi che contengono solo la fame e il loro nome.

Il natale dei poveri

Tutta l’Etiopia si prepara per festeggiare il natale. Le entrate dei bar e dei negozi sono adoate con piccole luci a intermittenza. In tutte le comunità cristiane intorno a Soddo, il popolo si incontra per il rito della santa notte. Un gruppo di catecumeni, stanziato sui monti che delimitano la valle del fiume Omo, sta scendendo sulla spianata per raggiungere la chiesa di Bale, percorrendo a piedi un sentirnero di sei ore.
Nelle parrocchie dei cappuccini, i giovani hanno preparato varie scenette: un teatro povero e popolare che si ispira al vangelo, in attesa della celebrazione della Parola. Come a Embeccio, la grande chiesa costruita da poco dove, tra l’altro, si raccoglie una laboriosa comunità agricola. Dopo lo spettacolo, una folla con i gomiti sbucciati, qualche toppa sugli indumenti, sommessa ma anche istintivamente viva e sincera, entra in chiesa e inizia a pregare. Da ogni altare si diffonde il canto di una corale; lungo le strade i pubblici ufficiali escono dai loro piccoli e spartani presidi, appoggiano il kalashnikov sul muro e si siedono sotto un fascio evanescente di una lampadina, mentre un presepe essenziale luccica dentro la sua grotta, buia come la notte.
Al mattino, gli altoparlanti della chiesa ortodossa mandano la musica e le parole del predicatore che invita a partecipare alla processione. Anche i movimenti protestanti iniziano alle prime luci dell’alba a sfilare per le vie di Soddo, invasa dai veli bianchi, con i quali le donne si adoano nei giorni di festa. Sulle strade dissestate sembrano aghi mobili sulla terra rossa, disseminati alla rinfusa, muovendosi in ogni direzione, sotto una luce che appiattisce ogni spessore, leviga ogni spigolo, rende tutto comunione e armonia.
Dopo aver partecipato alla processione, Manina, una studentessa, è ritornata a casa per il pranzo con la famiglia. Il pavimento è ricoperto di foglie di granoturco, la sorella più piccola è impegnata nell’antica cerimonia del caffè, che sarà servito molte volte, visto che la casa è aperta ai parenti e a tutto il vicinato. Non esiste la regola dei regali; ci si incontra e si sta insieme, come del resto è d’uso fare anche gli altri giorni. Nella sua stanza, Manina ha i libri in inglese con i quali sta preparando il prossimo esame di economia all’università.
Nella sala da pranzo accende la televisione e, da Addis Abeba, giunge un servizio sui mercati che pullulano di manufatti e scorte alimentari; alcune industrie pubblicizzano i loro prodotti di cosmesi da cartelloni arrugginiti e sbiaditi, piantati lungo il viale che conduce all’aeroporto, da dove la signora delle pulizie aspetta il suo volo per ritornare a Roma.

Paolo Brunacci




SUDAN – Viaggio in un paese ex cristiano

LA CIVILTA’ NEL DESERTO

Alla scoperta di un pezzo di una grande nazione africana,
ricca di storia e risorse, ma ambita da molti.
E dove il cristianesimo è – ahimè – soltanto un lontano ricordo…

Sudan. Un paese che molti considerano pericoloso. Uno stato canaglia, è stato definito. Il più grande dell’Africa, otto volte più vasto dell’Italia e tra i meno densamente popolati: solo 7 abitanti per chilometro quadrato.
Ho potuto vedere solo una piccola regione, la Nubia, legata alla storia dell’antico Egitto. Rimpiango il cielo, i sorrisi, la dignità della gente e i colori. In Sudan ho visto povertà, una vita semplice ed essenziale, quella del deserto. Forse, quella che amo.

Verso la Nubia

Il primo giorno, a Khartoum, lo dedichiamo al pellegrinaggio sulla tomba del Mahdi, il carismatico condottiero che riuscì a liberare il paese dal dominio anglo-egiziano (per un breve periodo) tra il 1885 e il 1899. Attraversiamo il Nilo sul nuovo ponte costruito dai cinesi, sostiamo nel ricco mercato di Omdurman per fare provviste e cerchiamo, poi, il luogo dove sorge il mausoleo: una cupola argentea in un giardino ombroso. Resto in disparte, osservando i fedeli che sostano in preghiera.
Incontro così una famiglia di profughi dal Darfur, venuta a pregare per la guarigione del figlio, un bimbo febbricitante e smagrito. Solo il padre sa spiegarsi in inglese, mentre la mamma, avvolta in un sari rosso, il viso assorto e la pelle molto scura, tace. Mohammed mi racconta di essere arrivato sette anni fa e di essere tuttora ospite di parenti, perché non ha ancora trovato lavoro.
Rientrando nella capitale, sosto presso l’imponente cattedrale cattolica che non si può fotografare, al pari del palazzo del presidente. Qui incontro un anziano missionario comboniano che, dopo 50 anni di servizio ai poveri, ha deciso di rimanere nel paese. Il governo tollera la presenza di salesiani e comboniani per la loro preziosa opera sociale, per le scuole professionali e i licei, frequentati dai figli delle famiglie più influenti del paese.
In Sudan vi sono centinaia di etnie e moltissimi idiomi. Noi siamo diretti a nord, nella Nubia, dove la popolazione è stata influenzata dall’Egitto, ma anche dalla cultura greca, cristiana e romana e dai primi esploratori europei. Seguiamo il corso del Nilo, sostando nella cittadina di Shendi, un tempo famosa per l’artigianato.
Il tempio di Musawwarat è il più vasto del Sudan. Il clima doveva essere molto diverso, a quel tempo. Nel grande recinto si trovano, infatti, molte rappresentazioni di elefanti, oggetto di culto, e del dio leone Apedemak, rappresentativo della regalità dei sovrani di Nubia. Non lontano, visitiamo un tempio che già dal nome, Naga, ricorda i contatti con la cultura indiana. I rilievi sulle pareti di arenaria sono nitidi, molto belli. Si nota la coppia di sovrani che incontra Apedemak, rappresentato con più braccia con altre divinità: Iside, Amon e alcuni prigionieri dai lineamenti mediterranei e africani.
Davanti al tempio, una curiosa costruzione, sempre in arenaria lavorata in capitelli e archi, denuncia le influenze greco romane, mentre un tempio dedicato ad Amon si trova su una collina, preceduto da una serie di arieti: sepolti da secoli nella sabbia, sono stati recuperati dagli archeologhi tedeschi.
La sera, il vento cala e ci sistemiamo nelle tende, sotto il cielo stellato. La mattina è radiosa, il cielo finalmente limpido. Sono davanti a noi le colline dove svettano le piramidi di Meroe, la capitale del regno di Kush, famosa nel mondo commerciale greco e romano dal 500 a. C. al 350 d. C.
I sovrani, allora, venivano sepolti con ricchi tesori. Ci avviciniamo a piedi e notiamo i danni fatti nel 1834 dall’italiano Ferlini, un avventuriero che utilizzò manovalanza locale per cercare i giornielli delle regine, ora conservati a Monaco e Berlino.
La sera, il cuoco prepara le melanzane fritte, buonissime. Gli autisti riposano; solo Atif, l’egiziano, è intento a fumare il narghilé; originario di Luxor, è arrivato bambino con la famiglia e non ha alcuna intenzione di ritornare in Egitto. «Questo è un paese molto ricco, nel futuro ci sarà grande sviluppo e io voglio approfittae». Poco pratico del deserto, Atif ci creerà problemi con la sua vettura, una Toyota malandata che dovremo lasciare nel deserto, a 50 chilometri dalla nostra meta.

Tracce cristiane

Lasciamo il Nilo e ci inoltriamo nel deserto del Bayuda, seguendo una pista che ci riporterà sulle sue rive, presso la cittadina di Merowe. Rarissime sono le abitazioni e i segni di vita, limitati nei dintorni dei pozzi. Qui, assistiamo a scene bibliche. I greggi devono venire dissetati e l’asino è l’aiuto principale per tirare su l’acqua negli otri di pelle; per il trasporto ci sono anche i dromedari, che, in Sudan, sono snelli ed eleganti, color miele.
Tra insabbiamenti e rotture di balestre, quando raggiungiamo le sponde del Nilo è scesa la sera. La pista diventa difficile da percorrere, per via del limo accumulato durante le inondazioni. A Merowe ci aspettano le feluche e, durante la traversata, si tace, emozionati. Nel cielo stellato sta sorgendo la luna.
Karima è al centro di una zona archeologica importante e ci fermeremo per visitare i dintorni, le piramidi della necropoli di Nuri, della 25a dinastia, e le tombe di Kurru, con i sorprendenti affreschi in stile egizio.
Saliremo all’alba sul gebel Barkal, la montagna sacra, che domina l’abitato e da cui si ammira il Nilo con la fascia verde di coltivazioni. Verso ovest, il gruppo di piramidi più belle e misteriose della Nubia.
Old Dongola fu capitale di un regno cristiano per quasi mille anni. La si raggiunge facilmente da Karima attraverso il deserto, dove piantiamo le tende ai piedi di un’altura pietrosa. In lontananza, si vedono le cupole di fango di una necropoli islamica, dette qubbe. Una missione polacca ha iniziato a scavare nella zona sin dal ’64, riuscendo a portare alla luce splendidi resti di basiliche e monasteri, colonne di granito, capitelli decorati con croci.
Su di una collina, da cui si domina la valle del Nilo, sorge una costruzione massiccia: era un monastero e un’iscrizione attesta che, nel 1317, un re islamico la trasformò in moschea.
I nubiani, discendenti delle popolazioni della valle del Nilo a sud di Assuan, furono influenzati dalla cultura egizia e si convertirono al cristianesimo monofisita nel vi secolo. Solo 8 secoli dopo, i mamelucchi egiziani riuscirono a sottometterli, costringendoli a convertirsi all’islam. «La prima chiesa di Old Dongola fu costruita dal vescovo di Assuan nel vii secolo – mi racconta Stefan, accompagnandomi nel complesso di edifici che formavano il monastero.

Il Nilo

Sono arrivati i cinesi. Anche qui, come in tutti i paesi del mondo, si confermano come i più aggressivi e pronti a sfruttare ogni occasione buona. Siamo sulla via del ritorno, ma la quarta cataratta non la potremo vedere, perché stanno brillando le mine. Un altro mostro ecologico sta sorgendo lungo le rive del grande fiume, una diga che darà energia e sviluppo alle città, distruggendo l’ecosistema e creando un bacino artificiale che coprirà anche i resti delle antiche civiltà.
Il Sudan è molto ricco in risorse naturali: petrolio, oro e altri preziosi minerali; ma la più importante è forse proprio l’acqua del fiume. A Khartoum, il Nilo Bianco, arricchito delle acque di grandi affluenti, si unisce al Nilo Azzurro, che scende dall’altopiano etiopico. Poi il corso è interrotto da una serie di cataratte, difficili da superare con le imbarcazioni e le rive sono abitate da gente che conserva abitudini antiche e coltivano la stretta striscia di terra fertile. Solo a Khartoum è possibile attraversare il Nilo su uno dei due ponti, uno di epoca coloniale e l’ultimo, recente, costruito dai cinesi per smaltire il traffico aumentato negli ultimi anni.
Si parte da Karima che fa ancora buio, per raggiungere il luogo dell’imbarco. Qui incontro Ibrahim, un signore alto e magro che porta con eleganza il tipico turbante bianco e l’abito immacolato. «Ho studiato a Khartoum – mi dice in perfetto inglese – ho due mogli e sette figli. Alcuni vivono e studiano nella capitale. Nel mio villaggio, El Kurru, svolgo la funzione di imam (colui che guida la preghiera)».
Ibrahim è un rispettato commerciante di cammelli, che oggi si mette in viaggio per la regione occidentale del Kordofan, confinante con il Darfur, dove ha intenzione di acquistare un centinaio di capi che rivenderà in Egitto, ad Assuan. «Se riesco, spedirò gli animali su un camion, altrimenti ci vorranno 15 giorni di pista carovaniera per arrivare in Egitto». Mi sorprende quando vuole darmi il numero del suo cellulare: «Chiamami, se ti fermi a Khartoum».
L’ultimo giorno lo passerò a Khartoum. Come in tutte le capitali africane, qui si possono conoscere i vari aspetti del paese. Arrivando dal nord, abbiamo attraversato le periferie dove abitano migliaia di rifugiati in case di fango, basse, prive di acqua e servizi. I mercati sono estesissimi e ricchi di colore. Era l’ora di uscita delle scuole e le studentesse portano divise belle e colorate, sempre con il fazzoletto sul capo, pantaloni attillati e tuniche corte. Sono numerosi i colleges e le università a Khartoum e non ho avuto l’impressione che le donne siano discriminate.

L ascio Khartoum nella notte, con un volo della Lufthansa che trasporta pochissimi passeggeri, come al nostro arrivo. L’equipaggio non si ferma mai in Sudan, è salito al Cairo e ora vi ritorna, direttamente. Ho avuto l’impressione di lasciare un paese blindato, assediato da stranieri che vedono nelle ricchezze potenziali del paese un motivo per cercare di inserirsi e fare affari.
Arrivare in Sudan non è facile, per ottenere il visto ci vuole tempo e pazienza. Proibita la telecamera, non si può fotografare il palazzo presidenziale e altre strutture (come i ponti). Lo stesso accadeva anni fa in Iraq, durante una mia visita in cui, come qui, avevo apprezzato le doti di gentilezza, ospitalità e civiltà della popolazione. Spero che un domani questo paese non debba diventare bersaglio di una guerra «preventiva»: troppi sono gli interessi puntati su un territorio poco popolato e ricchissimo di materie prime.

Claudia Caramanti




KIRGHIZISTAN Alla scoperta della via della seta perduta

In equilibrio instabile tra passato e futuro, schiacciato tra il colosso cinese e quello russo, il Kirghizistan conserva intatto, come ai tempi di Marco Polo, il fascino dell’antica Via della seta, dove miti, leggende e storia si mescolano con l’armonia degli astri.

«Noi kirghizi siamo un popolo che vive di miti e leggende; ogni villaggio, montagna, fiume, lago può raccontarti la sua epopea». Sheeren, la ragazza conosciuta durante una visita all’Università del Kirghizistan, si bea al sole, sotto una delle poche statue di Lenin sopravvissute all’ubriacatura liberista degli anni del post-comunismo in Urss.
Lo sguardo bronzeo del padre della Rivoluzione d’ottobre, continua a sfidare fiducioso il futuro, volgendosi verso i monti Ala-Too (montagne colorate), che sovrastano Bishkek, capitale dello stato. Di fronte a lui, gli autobus carichi di passeggeri, procedono lentamente, mostrando sulle fiancate pubblicità di prodotti occidentali: Seven Up, pellicole Fuji, elettrodomestici Philips, automobili tedesche.
È qui, tra queste evidenti contraddizioni di una società ancora nostalgicamente aggrappata al passato e al tempo stesso proiettata verso un domani alquanto incerto e precario, che inizio il mio viaggio lungo il tratto meno conosciuto e battuto della Via della seta: quello che da Bishkek giunge fino alla leggendaria Tash Rabat, l’ultimo caravanserraglio a disposizione dei mercanti, prima di varcare le soglie del Celeste Impero e raggiungere la città di Kashgar.

La Via della Seta

La Via della seta, che nell’immaginario collettivo viene vista come un’unica grande «autostrada», in realtà è un groviglio di sentirneri, che si intersecano, si allontanano, si uniscono, lungo 7.000 km.
Stalin ricordava che «la rivoluzione non si fa con i guanti di seta». Sbagliava. Per 17 secoli, lungo l’arco di 14 dinastie, la Via ha rappresentato la più importante fonte di comunicazione tra il mondo orientale e quello occidentale. Grazie a questa forma di primitiva globalizzazione, il buddismo ha varcato i formidabili contrafforti himalayani, per dilagare in Cina, Corea e Giappone, l’Islam è giunto in Asia Centrale, nuove culture sono sorte, altre sono deperite, calpestate da eserciti inarrestabili.
Solo l’arrivo in America degli europei, nel xvi secolo, ha decretato il definitivo declino della Via della seta: la necessità di solcare le infide acque dell’oceano ha dato impulso alla navigazione e i mercanti europei si sono accorti che, con le nuove navi, si risparmiava tempo e fatica, il viaggio era più sicuro e la quantità di merce trasportabile, maggiore.
Ma il fascino emanato dalla Via è resistito. Viaggiatori, scrittori, turisti più o meno preparati, hanno continuato a percorree i suoi segmenti o l’intero tragitto.
La Rivoluzione del 1917, prima, e quella iraniana del 1979, poi, hanno interrotto questo via vai di stranieri, concedendo solo l’apertura di qualche limitata porzione, piccoli assaggi di un tragitto che riserva emozioni a non finire.
Il tratto kirghizo, quello che mi accingo a coprire, è stato completamente chiuso durante il periodo sovietico, a causa della delicata posizione geografica, a ridosso del confine cinese, in cui si veniva a trovare. Solo verso la metà degli anni ’90, dopo l’indipendenza del Kirghizistan, il nuovo governo (formato dalle vecchie autorità sovietiche abilmente riciclatesi), ha riaperto, piano piano, la via al turismo di massa e individuale.
Questa nuova politica ha, inoltre, permesso la fioritura di piccole e discrete bed & breakfast a Bishkek che, con 15-20 euro a notte, permettono di limitare la spesa dell’alloggio nella città, altrimenti piuttosto dispendioso (40-100 euro per un albergo di media categoria).
Bishkek
Inizio la visita di Bishkek nel Museo di storia, indispensabile, se non altro, per capire quale sia l’attuale percorso politico del paese. Dei tre piani di cui si compone l’edificio, il secondo, dedicato a Lenin, è chiuso ufficialmente per restauro; ma Sheeren insinua che verrà presto smantellato. Il primo piano è occupato, per metà da una mostra permanente dello scrittore locale At Chinghiz Aitmatov, leggenda vivente nazionale, l’altra metà dal presidente Askar Akaev (vedi riquadro). Solo il terzo piano ripercorre velocemente la storia del paese, dalle origini alla Rivoluzione comunista.
Attraverso Panfilov Park, frequentato da bambini e da coppie di sposi che vengono a farsi fotografare sulla ruota panoramica, per entrare nel Museo di Mikhail Vasilievich Frunze, il personaggio politico kirghizo più conosciuto all’estero e il cui nome ha identificato la città sulle cartine geografiche fino al 1991.
Nato nel 1885, Frunze nel 1917 guidò le Guardie rosse alla presa del Cremlino. Otto anni dopo, divenuto troppo scomodo per Stalin, morirà durante un’operazione chirurgica. Il Museo ingloba la sua casa natia; almeno così affermano le guide; ma Shereen, che sul rivoluzionario sta scrivendo una tesi, ritiene improbabile che la vera dimora sia potuta sopravvivere a 110 anni di sconvolgimenti storici. La cosa che più mi colpisce è che nessuna delle foto in esposizione ritrae Frunze con Stalin. Anzi, nessuna foto ritrae Stalin.
Prima di abbandonare le comodità della capitale, mi immergo nell’Osh bazaar, un brulicare di venditori dispersi in un bailamme di colori, suoni, risa, dove con pochi som (1 som vale 25 centesimi) è possibile comperare spezie, frutta, verdura, carne. I som¸ invece, non servono per scattare fotografie, a differenza di quanto accade nei mercati di Bukhara o Samarcanda, più avvezzi al turismo.

La leggenda della Torre di Burana

Dopo due giorni a Bishkek, imbocco finalmente la Via della seta, dirigendomi a est, verso il lago Issyk Kul. A farmi da guida è Evgenij «Jenia», laurea in ingegneria elettronica e in lingue, ma disoccupato, come il 20% dei suoi connazionali.
La prima meta è la Torre di Burana, la vecchia Balasugun conquistata nel 1224 dai mongoli di Gengis Khan. Nel mezzo di una pianura sconfinata, la torre a tronco di cono si erge quasi a sfidare i primi contrafforti della catena Tien Shan che si elevano all’orizzonte.
A conferma di quanto diceva Shereen, anche questo monumento ha la sua leggenda: quella di una principessa rinchiusa nella rocca dal padre, il quale intendeva salvarla da una predizione che la voleva in pericolo di morte sino al compimento del 18° anno di età. A nulla, però, valsero i propositi regali. La morte giunse puntuale il giorno del 18° compleanno, sotto le sembianze di un ragno, intrufolatosi in un cesto di frutta, il quale morse la fanciulla, uccidendola.
Né io né Jenia siamo riusciti a capire come una persona normale abbia potuto sopravvivere all’interno di un luogo tanto angusto e tetro, ma si sa, le principesse non sono mai state persone normali. Il mito esprime piuttosto la metafora dei pericoli provenienti dall’esterno per il piccolo e indifeso popolo kirghizo. Solo restando entro le pianure e valli delimitate dalle alte montagne della catena Tien Shan, i kirghizi potevano sperare di far fronte alle scorrerie nemiche. E così hanno fatto dal xiii secolo, quando, scacciati dalle steppe siberiane, si sono stabiliti in queste lande.
Issyk Kul
Da Burana costeggiamo il fiume Chuy, rinomato per i canyons di rara bellezza, a cui poeti e mercanti che ne costeggiavano le sponde si sono ispirati per scrivere versi letterari di struggente bellezza. Oggi le sue rapide sono affrontate da esperti raftisti che giungono da tutto il mondo.
Raggiungiamo la città di Balykchy, che si affaccia sull’Issyk Kul (issyk = caldo, kul = lago), il secondo lago alpino più esteso al mondo, dopo il Tititaca. Qui i sentirneri e le rotte marittime intee, provenienti dall’Asia nordorientale, confluivano nel tronco principale della Via della seta. Nel bazaar cittadino, ancora oggi tra i più colorati del Kirghizistan, venivano barattate merci di ogni tipo, per essere poi portate in Mongolia, Siberia e nord della Cina.
La regione di Issyk Kul è stata interdetta agli stranieri per tutto il periodo sovietico. Nei suoi 6.236 kmq di superficie, la marina russa sperimentava i nuovi siluri, e attorno ai 688 km di costa sono sorte città dormitorio per i militari.
Tutto ciò, però, non ha impedito che le acque limpide e calde del lago siano, oggi come ieri, meta del turismo interno. Le stupende spiagge di sabbia che si aprono sulla costa, l’acqua leggermente salata, dovuta ai depositi minerali dei fiumi immissari (l’Issyk Kul non ha emissari), permettono di non far rimpiangere troppo ai kirghizi, la mancanza di uno sbocco marino.
Costeggiamo tutto il lago fino a raggiungere Karakol, dove rendiamo omaggio al più grande esploratore russo dell’800: Nikolai Mikhailovich Przhevalsky. Nonostante fosse cristiano e le sue spedizioni abbiano dato lustro al regime zarista, le autorità comuniste non hanno mai cercato di oscurare i suoi meriti, dedicandogli anche un interessante museo.

Son Kul dove ancora cavalca Manas

Toiamo sulla Via della seta per dirigerci verso un altro lago, più piccolo, ma decisamente ricco di fascino: il Son Kul. La strada che vi conduce lascia senza fiato, per la straordinaria bellezza dei panorami: in pochi chilometri il Mammut (camion delle truppe militari) arranca tra paesaggi alpini che ricordano le valli svizzere, tra desolazioni desertiche afghane, per poi sfrecciare in pianure altaiche.
È durante questa tappa che iniziamo a scorgere le prime yurte e i primi cavallerizzi. Sono le «avanguardie» del fiero popolo kirghizo, quello che non ha mai scordato le sue origini nomadi e battagliere, che ha per patria le steppe, per dèi gli astri del cielo, per compagni i cavalli. Tutto questo si materializza a Son Kul, una perla azzurra incastonata tra chilometri e chilometri di verdi praterie e dolci colline.
Non è difficile immaginare gli eserciti agli ordini di Manas, l’eroe della mitologia kirghiza, scorrazzare tra queste pianure, per poi scontrarsi con i nemici, lancinando l’aria con urla e sibili di frecce, mentre gli zoccoli dei destrieri lanciati all’attacco, fan tremare l’acqua del lago.
A Son Kul non c’è elettricità né acqua corrente; si dorme nelle yurte assieme ai nomadi, sistemazioni spartane, ma sicuramente le più compatibili con l’ambiente.
Da secoli i popoli delle steppe vivono in queste capanne mobili. Marco Polo, ne Il Milione, descrive in modo mirabilmente minuzioso queste dimore: «Le case sono di legname e sono coperte di feltro, e sono tonde, e portanseli dietro in ogni luogo ov’egli vanno, però che egli hanno ordinato sì bene le loro pertiche, ond’egli le fanno, che troppo bene le possono portare leggiermente in tutte le parti ov’egli vogliono. Queste loro case sempre hanno l’uscio verso il mezzodie…». Nulla è cambiato da allora ad oggi.
Al crepuscolo, sorseggiando kumus e sbocconcellando del nan e kurut, ascoltiamo Chinara e Jazgul, due manaschi che intonano canzoni kirghize. Parlano di amori impossibili, di epiche battaglie, di Manas, delle «Quaranta Madri Tribali», da cui si dice discendano le 40 tribù che formano il popolo kirghizo. Racconti tramandati da secoli, sentiti da migliaia di mercanti che transitavano sulla Via della seta, così come oggi noi li risentiamo. Stesse parole, stesse melodie, che si perdono nelle stesse praterie, rimbalzando sulle acque cristalline del Son Kul.
Emozioni. Le stesse provate nel sentire, il giorno dopo, la nonna raccontare al nipotino come il grande Gengis Khan aveva sconfitto i turchi, passando proprio dove ora è innalzata la loro yurta. E se poi questo racconto non è avvalorato dal corso degli eventi, beh, tanto peggio per la storia. Le leggende non chiedono certo il suo permesso per penetrare nella mente di un popolo.
La sera, mi siedo con Jazgul sotto un cielo stellato che non riesco a definire altro se non «simply great». Stiamo in silenzio per decine di minuti, incuranti dell’aria che a 3.000 metri si è fatta fredda e pungente. Alla fine, Jazgul, accorgendosi del mio disagio di fronte a tanta immensità, inizia: «Quando saprai ascoltare la musica del cielo, le parole che ti provengono dalle stelle e dalla luna, allora saprai di essere in pace con te stesso».
Il ricorso alla sinfonia celeste mi ricorda tanto la teoria della «musica delle sfere» di Pitagora: dopotutto la mente del genere umano non è così diversa…
Naryn
Lasciamo con dispiacere Son Kul alle spalle e puntiamo ancora verso sud, dirigendoci a Naryn. Oramai le yurte sono visibili ovunque, anche dove non dovrebbero esserci: lungo le strade, appena si apre uno spiazzo, ecco un gruppo di yurte-ristorante.
A Naryn, città che prende il nome dal fiume più lungo del Kirghizistan che la attraversa, dormiamo in un yourt-inn alla periferia della città.
Il bazaar di Naryn è stato per secoli uno dei più attivi della Via della Seta, dato che è il primo grosso mercato che si incontra provenendo dalla Cina. Oggi i suoi fasti sono solo un ricordo, ma dopo che Pechino e Bishkek hanno riaperto le frontiere, Naryn sta conoscendo una seconda rinascita

Tash-Rabat: ultima frontiera

L’ultima tappa del nostro viaggio verso sud ci porta a Tash-Rabat. La strada si intrufola tra strette gole, costringendo il Mammut a guadare fiumi, sprofondare in buche, inclinarsi pericolosamente su un costone roccioso. Alla fine, ecco aprirsi di fronte a noi il caravanserraglio di Tash-Rabat.
Qui, a 3.500 metri di quota, le carovane han sostato per secoli, rifocillandosi prima di intraprendere la scalata al passo che porta in Cina. Accanto alla costruzione in pietra, risalente al xv secolo, ma restaurata nel 1984, ci sono delle yurte abitate da nomadi e la piccola fattoria dove vive il direttore del caravanserraglio, Jergobiek Karpiekof, assieme alla moglie Tursun e le figlie. Assieme a loro visitiamo l’edificio: la luce del giorno penetra dai pertugi della cupola, illuminando la sala principale. Da qui si aprono a ventaglio le stanze dei mercanti, le prigioni, le stalle, le mangiatornie. Il tutto in uno spazio alquanto ristretto.
È l’ultima notte che trascorriamo a Tash-Rabat, domani cominceremo il viaggio di ritorno. Mentre me ne sto seduto a gambe incrociate di fronte alla yurta dove sono alloggiato, osservo il cielo rischiarato dalla luna. Aikanish, la figlia più piccola di Jergobiek ed il cui nome significa «Regina della luna», ha appena terminato di cantare una filastrocca.
Ora, solo l’acqua del vicino ruscello fa da sottofondo alle stelle. Fisso la fioritura della Via Lattea lassù, proprio sopra la valle e non riesco a distinguere se il dolce sciabordio è dovuto all’acqua del ruscello o allo scorrere degli astri nell’infinito. Che sia questo il Nirvana?

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Alla ricerca degli ultimi "manaschi"

Da Bishkek, un viaggio di 13 ore ci ha portato sulle rive delle acque color smeraldo di Son Kul, al centro di un vasto altopiano a 3.500 metri. Attoo al lago, dopo il dissolvimento dell’Urss, che li aveva costretti alla vita sedentaria, sono tornati ad abitare i nomadi, che ne hanno punteggiato di yurte bianche il tappeto verde e, con molta fatica e abnegazione, cercano di far rivivere le loro tradizioni ataviche.
La spedizione a cui mi sono aggregato, è composta da etnologi, antropologi e musicologi, che si prefiggono di studiare e registrare i canti degli akyn, i cantastorie itineranti del Kirghizistan, che raccontano la vita quotidiana, gli amori, le gesta delle tribù locali, per poi metterli a confronto con quelli degli anni ’30, periodo in cui Stalin obbligò i nomadi a stanziarsi nei kolchoz, e annotare le differenze che il tempo e gli eventi politici hanno apportato.
Son Kul è stata scelta per due motivi: per il paesaggio, che ricorda le terre d’origine dei kirghizi nella Mongolia e Yenisei, e per il tipo di tribù insediatesi nelle regioni, considerate le più fedeli alle tradizioni del passato.
«Se è vero che il territorio è uno dei principali elementi che influiscono nella formazione di una società, allora Son Kul è il terreno ideale per studiare il nuovo corso del pathos kirghizo» dice l’etnologa Susan Mat Som, della Malaya University di Kuala Lumpur. In effetti, qui tutto ricorda lo spirito che pervade l’animo di questo piccolo popolo: fierezza e spartanità della vita, libertà di spazi incontaminati in una terra stupenda ma inospitale, assoluto silenzio delle notti stellate.

Nelle società nomadi kirghize, gli akyn occupano tradizionalmente un posto di riguardo, accanto agli sciamani. Ma, mentre questi ultimi sono parte integrante di uno specifico clan e prendono parte a tutte le attività sociali a esso collegate, i cantastorie ne sono al di fuori. Nomadi tra i nomadi, sono sempre stati elementi super partes, quindi le persone più adatte per suggellare rapporti tra le diverse tribù, divulgare notizie, mediare matrimoni, sedare liti e, nei tempi passati, chiamare alla guerra.
Prima dell’introduzione della lingua scritta, a opera del governo sovietico, gli akyn erano anche delle biblioteche viventi. A loro erano affidate le memorie storiche e mitologiche dell’intero popolo kirghizo, mentre ai più capaci veniva dato il compito di tramandare il testo dei testi per eccellenza: l’epopea di Manas, il leggendario eroe guerriero che portò questo piccolo popolo a ritagliarsi un territorio in cui vivere libero e pacifico. L’intero racconto di 550 mila strofe, supera in lunghezza qualsiasi altra mitologia e per la completa declamazione occorrevano ben 13 giorni di estenuanti performances. I pochi akyn che raggiungevano un tale livello di sapienza (e onore), venivano fregiati del titolo di manaschi, cantori di Manas.
Oggi, la trasposizione scritta dell’epopea ha dissuaso gli akyn a intraprendere il faticoso ed estenuante processo di memorizzazione, tanto che i manaschi attuali possono declamare al massimo qualche decina di migliaia di strofe.

Dopo una settimana di registrazioni, veniamo a sapere che nella regione stanno girando due tra i migliori akyn del paese. Ci dirigiamo verso il luogo indicato e, appena superata l’ennesima collina, giungono alle nostre orecchie le melodie, un poco malinconiche, di una canzone tradizionale accompagnata dalle note di un liuto.
Appena giunti ci aspetta una sorpresa: uno dei due akyn è una ragazza, Orozkavieva Chinara, che gira assieme a Macsaz Moldagauizv. Jacques Charreaux, musicologo del gruppo, che sta preparando un programma per la radio francese sullo sviluppo della cultura musicale dei popoli delle steppe, è entusiasta: «L’era post-sovietica, oltre a rinnovare la metrica di alcuni canti, ha introdotto una vera rivoluzione nella tradizione dei cantastorie: la voce femminile».
A mano a mano che Chinara e Macsaz continuano la loro esibizione e Mambetova Jazgul, la nostra guida, ci traduce il significato delle parole, ecco delinearsi nella nostra mente, tra le steppe, migliaia di soldati a cavallo che urlano per incutere timore all’avversario, ma anche per esorcizzare la propria paura. Poi gli scontri, cozzi cruenti e crudeli, come solo i duelli all’arma bianca e all’ultimo sangue possono essere. Uomini calpestati dagli zoccoli dei cavalli, zolle di terra sollevate che ricadono sui corpi dei caduti, clangori di lame che si incrociano, sibili di frecce…
Poi, improvvisamente, lo stornello cambia e con esso lo scenario. Il canto d’amore di Ailanash per il suo uomo che mai più toerà, si perde nell’immensità delle pianure, senza che nessuno riesca a raccoglierlo. I cavalli che pascolano tranquillamente sulle alture sembrano non accorgersi del dolore della fanciulla. Solo uno si avvicina e chiede alla ragazza di salirgli in groppa: è il destriero cavalcato dall’amato e solo lui potrà ricongiungere i due. Ailanash si ritrova a librare nel cielo, con i capelli al vento. Andrà a raggiungere l’amore e, come lui, si tramuterà in stella.

Per ore e ore, Chinara e Macsaz continuano a declamare versi accompagnandosi con il liuto. «Molte canzoni le abbiamo composte noi, ascoltando la sera i racconti degli anziani: storie di quotidianità che a molti passano inosservate, ma che in realtà rappresentano testimonianze di una tradizione che, prima o poi, sappiamo che scomparirà, soppiantata dai miti dell’agiatezza della città» afferma con voce pacata Chinara qualche sera dopo, mentre mangiamo nella yurta.
È fiera di cantare assieme a Macsaz Moldagauizv, attualmente il più giovane akyn, che sta imparando a memoria l’epopea di Manas. Dall’età di 7 anni, suo nonno, manaschi anche lui, gli ha insegnato passo per passo come cantilenare le strofe. Gli chiedo cosa significa essere manaschi e come si diventa. «Solo chi ha un albero genealogico puro kirghizo può sperare di diventare manaschi. Ma non basta: un manaschi deve saper amare il suo popolo e le tradizioni più di sé stesso e della propria famiglia. E ancora non basta: oltre a tutto questo, un manaschi deve essere cosciente che sta per diventare colui che tramanda il ricordo del più grande eroe dei kirghizi, quindi deve sentire su di sé tutto il peso di tale responsabilità. Quando un manaschi canta le gesta di Manas, diviene lui stesso Manas».
Poi indica il tunduk, l’intelaiatura tonda di legno rosso, peo centrale in cui si innestano le pertiche di sostegno laterali e attraverso cui defluisce il fumo del focolare domestico: «Senza tunduk non ci sarebbero yurte; senza Manas non ci sarebbero i kirghizi. Manas è il supporto del tunduk, della nostra casa, della nostra famiglia, delle nostre tradizioni».

L’ aria gelida della notte rende limpida la volta celeste. Le stelle sembrano cristalli luminosi lanciati dalla mano di un gigante, chissà, forse proprio da Manas…
Nel sacco a pelo, sento Macsaz intonare un’ultima melodia.
«Le truppe dei Kara Kyrgyz si unirono nella battaglia.
Nessuno dei guerrieri si ritirò.
Tutti si unirono alla battaglia.
I resti delle yurte formarono una montagna.
I corpi delle persone vennero accatastati
per formare montagne.
Uomo, tu dormi su quelle montagne».

Piergiorgio Pescali




OBIETTIVI SVILUPPO DEL MILLENNIO Tutti a scuola (2)

Il diritto allo studio è l’Obiettivo di Sviluppo del Millennio numero due: l’istruzione primaria è il ponte che permette alla persona di fare le proprie scelte e diventare parte integrante e attiva della società e del mondo.

Banchi di scuola per tutti, a Nord e a Sud, al freddo e al caldo, in campagna e in città, nel deserto e nelle baraccopoli. Perché l’istruzione è il punto di passaggio necessario per offrire a tutti le stesse possibilità, per dare gli strumenti ai bambini di oggi di costruire il proprio futuro o, quanto meno, di avere qualche carta in più per diventare protagonisti attivi della loro vita.
Il traguardo numero due degli «Obiettivi di sviluppo del millennio» (vedi riquadro), dichiarati come priorità dell’agenda internazionale da 189 stati membri delle Nazioni Unite durante il Millennium Summit del 2000, sottolinea l’importanza dell’alfabetizzazione universale, perché tutti i bambini del mondo possano imparare a «leggere, scrivere e fare di conto», come si diceva una volta.
Sono molti i paesi dove il diritto all’istruzione è ancora negato e i bambini non hanno la possibilità di frequentare gli «studi dell’obbligo», come vengono chiamati.
Secondo i dati del 2000, 104 milioni di bambini in età scolare non andavano a scuola: di questi, il 57% apparteneva al mondo femminile e il 94 per cento viveva nei paesi in via di sviluppo (soprattutto nell’Africa sub-sahariana e nel sud dell’Asia). Questo per la piaga del lavoro minorile, o dei bambini soldato, o della povertà che impedisce alle famiglie di pagare l’iscrizione, o i libri e i quadei necessari allo studio, o la divisa da indossare.
Spesso infatti, non sono le strutture che mancano: la maggior parte dei paesi in via di sviluppo ha le scuole necessarie per garantire questo diritto dell’infanzia: nonostante ciò, solo in un quarto di queste nazioni i bambini raggiungono un livello base di istruzione.

Esperienze vissute

Le ragioni per non frequentare la scuola o abbandonarla prima del tempo possono essere diverse, a volte intrecciate con altre difficoltà della vita che rendono difficile guardare al futuro; ci si accontenta di tirare a sera e sopravvivere fino a un nuovo giorno.
Il Tanzania può essere un buon esempio per capire come, a volte, la presenza di scuole e anche di aiuti da parte del governo, ancora non basti per portare i bambini in classe. Il governo tanzaniano, per permettere l’accesso all’istruzione anche ai nuclei familiari più disagiati, ha eliminato le rette, lasciando da pagare alle famiglie solo 10 euro l’anno.
Ma nel paese una persona su tre vive al di sotto della soglia della povertà e, nonostante l’iniziativa del governo, tre bambini su dieci non hanno la possibilità di andare alla scuola primaria: anche quei 10 euro fanno la differenza.
Altre volte la difficoltà è legata alle esperienze vissute dai bambini, che rendono difficile un ritorno alla normalità e quindi anche ai banchi di scuola: nel caso degli ex bambini soldato, per esempio, è spesso difficile ritornare a studiare, rientrare in una classe, in mezzo ai compagni di scuola, dopo tutto quello che hanno visto e vissuto e che continua a tornare nella loro mente.
Altre volte ancora un male ne porta con sé un altro e bambini con la vita già segnata dal virus dell’Aids si vedono negare l’accesso a scuola. È successo per esempio in Kenya, a Nairobi, dove il nuovo anno scolastico iniziato a gennaio ha lasciato fuori da alcune scuole elementari i bambini sieropositivi, ai quali non è stata permessa l’iscrizione: le classi «erano piene».

Diritto per sopravvivere

La negazione di questo diritto ai bambini è grave e porta con sé conseguenze per tutta la vita. L’istruzione primaria di base è la chiave della sopravvivenza in diversi contesti e situazioni, ogni giorno: senza di essa, viene negata la possibilità di esercitare diversi lavori, non si possono contare i soldi, non si possono leggere istruzioni, percorsi da fare, strade dove andare, pericoli da evitare. Non si possono leggere le spiegazioni di un medico, contare le pastiglie, capire le medicine da prendere e a che ora, capire cosa viene proposto di fare e fatto firmare.
Sapere leggere, scrivere, contare può determinare il corso della vita di un individuo. Se ne sono rese perfettamente conto alcune mamme in Ecuador, che a Logarto, nella provincia di Rioverde (zona dell’entroterra) hanno protestato a viva voce per la chiusura della scuola, avvenuta all’inizio di quest’anno. La maestra se ne era andata; ed essendo una struttura con un unico insegnante, come accade spesso, le lezioni erano state sospese.
In questo paese, ma non solo, spesso l’istruzione dei bambini è legata alla buona volontà dei loro maestri, che devono fare chilometri di strada per raggiungere la scuola, che raccontano di banchi vuoti, perché le famiglie a un certo punto dell’anno scolastico non possono più fare a meno dei loro figli per il lavoro nei campi.
Altre volte invece, gli insegnanti ci sono, vorrebbero esserci anche i bambini e lo vorrebbero anche i genitori, ma i banchi sono vuoti e le lezioni interrotte, perché la povertà, complice la natura, ha avuto la meglio. Come è successo a ottobre dello scorso anno fra le comunità indios in Paraguay: 8 mesi di siccità hanno portato alla chiusura di 50 scuole. La maggioranza dei bambini era partita con la famiglia verso le montagne, per procurarsi cibo; i pochi rimasti avevano troppa fame ed erano debolissimi, certo non in grado di concentrarsi e seguire le lezioni.

A che punto siamo

Gli esempi che si possono fare sono numerosi e spaziano da un continente all’altro, a sottolineare l’importanza dell’Obiettivo di sviluppo del millennio stabilito. Secondo le analisi della Banca mondiale, che ha valutato il panorama scolastico in 155 paesi in via di sviluppo, solo in 37 venivano completate le scuole primarie e, sulla base dell’andamento fino agli anni Novanta, si poteva prevedere il raggiungimento di tale risultato in altri 32. Ma gli altri?
Se le cose non cambiano e le iniziative non accelerano i cambiamenti e miglioramenti della situazione, non raggiungeranno l’obiettivo, anche perché in alcuni casi non solo la situazione è definita ferma, «stagnante», ma addirittura peggiorata negli ultimi anni.
Le regioni dell’Asia dell’Est e Pacifico, Europa e Asia Centrale, America Latina e Caraibi sono sulla buona strada e potrebbero arrivare alla meta entro il fatidico 2015.
Facendo esempi più precisi, se continuano con lo stesso ritmo e caratteristiche, hanno buone possibilità di successo Cina, Russia, Bulgaria, Laos, Brasile e Messico. Ma le altre tre zone geografiche identificate, che contano 150 milioni di bambini in età da scuola primaria, rischiano di fallire.
L’Africa sub-sahariana è quella con maggiore ritardo (meno del 50% dei bambini raggiunge l’obiettivo) e dal 1990 sono pochi i progressi registrati. Il cammino dell’Asia del Sud è troppo lento: poche iscrizioni e pochi cicli di studio terminati. Nel Medio Oriente e Africa del Nord la situazione è sostanzialmente ferma agli anni ’90, nonostante il numero di iscrizioni a scuola sia relativamente più alto rispetto alle altre due regioni.
Da ricordare infatti, come l’obiettivo da raggiungere sia il completamento degli studi, perché la sola iscrizione alla scuola non rappresenta una garanzia sufficiente: in Madagascar per esempio, nonostante una percentuale molto alta di iscrizioni, otto studenti su dieci non completano il ciclo primario di istruzione.
Di fatto dunque, se le cose continuano così, i bambini di oltre la metà dei Paesi in via di sviluppo non potranno completare la scuola elementare entro il 2015.

* Siti Inteet:
http://www.millenniumcampaign.it
http://www.developmentgoals.org
http://www.developmentgoals.org/Education.htm
http://www.unmillenniumproject.org
http://web.worldbank.org
http://www.peacereporter.net

Box 1

Mete da raggiungere

1. Povertà e fame: dimezzare rispetto al 1990 la povertà estrema e la fame.
2. Istruzione: garantire a tutti un livello di istruzione primaria.
3. Parità dei sessi: promuovere l’uguaglianza tra maschi e femmine; dare maggiore autonomia e poteri alle donne.
4. Bambini: ridurre di due terzi rispetto al 1990 la mortalità infantile.
5. Mamme: migliorare la salute matea, inclusa la riduzione di tre quarti rispetto al 1990 della mortalità in gravidanza e da parto.
6. Malattie: prevenire la diffusione di HIV/AIDS, malaria e altre malattie.
7. Ambiente: assicurare uno sviluppo sostenibile.
8. Scienza, tecnologia, progresso: sviluppare una collaborazione globale per lo sviluppo.

Box 2

OBIETTIVO N°2

Garantire in tutto il mondo un livello di istruzione primaria

Raggiungere in tutto il mondo un livello di istruzione primaria. Gli obiettivi del millennio in questo campo sottolineano come l’istruzione sia sviluppo: apre le porte alla possibilità di scegliere e fornisce nuove opportunità alle persone; fornisce i mezzi per contrastare la povertà e il diffondersi delle malattie, offre a tutti la possibilità di far sentire la propria voce e le proprie aspirazioni nella società, partecipando in modo attivo alla vita pubblica.
Entro il 2015 la meta da raggiungere è il diritto allo studio: garantire a tutti i bambini, maschi e femmine, ovunque siano nati, la possibilità di frequentare e completare i corsi di scuola primaria

Valeria Confalonieri




COLOMBIA – Lungo è il cammino (2)

Il progetto di vita della comunità nasa della Colombia nasce dalle radici di una storia secolare. Oggi è un segno di alternativa in mezzo al conflitto.

Ezequiel Vitonas ha gli occhi neri e lo sguardo profondo. Dietro ai baffi, si apre un viso largo, un po’ sognatore, marcato dalle fatiche di una vita non facile, spesa in buona parte a guidare verso il futuro la sua gente. Come il profeta visionario dell’antico testamento di cui porta il nome, Ezequiel si affanna da anni a coniugare il vecchio e il nuovo, ricercando i valori tradizionali che hanno alimentato spiritualmente la vita della comunità e adattandoli ad un mondo che cambia a velocità supersonica. Come rispondere all’avanzare inarrestabile della globalizzazione e della modeità?
Quest’uomo poco più che cinquantenne, ex sindaco di Toribío, oggi consigliere maggiore dell’associazione dei cabildos indigeni del nord del Cauca (Acin), è stato, di fatto, il «ministro degli esteri» del progetto nasa. Ma, pur avendo viaggiato in Europa, Nord America e Asia al fine di promuovere la causa indigena, Ezequiel ha sempre dedicato molto tempo alla formazione della comunità, partecipando a un’infinità di piccoli seminari e grandi assemblee per informare e orientare la gente in merito al processo organizzativo indigeno.
È stato proprio in occasione di uno di questi piccoli incontri in cui, per la prima volta, sono entrato in contatto con l’organizzazione della comunità che mi apprestavo a servire come membro dell’équipe missionaria del Cauca. Il tema trattava del «progetto di vita», la miglior finestra per poter entrare e sbirciare all’interno di un mondo differente, che affonda le sue radici nella storia ancestrale e nel mito.

Un progetto di vita

Il progetto di vita comunitario è lo strumento orientativo che, raccogliendo l’esperienza del passato, analizza la situazione congiunturale, ne raccoglie l’impatto che essa ha sulla comunità e ne orienta la proiezione futura. Il progetto di vita non è un piano di sviluppo, ma ne rappresenta lo spirito: uno spirito in grado di influenzare le decisioni di ordine politico e socio-economico, secondo criteri che mirano al benessere di tutta la comunità.
Sebbene la leadership di alcuni membri più preparati della comunità sia un fatto indiscusso e accettato, il progetto di vita vuole anche essere uno strumento politico alternativo. Il progetto comune stimola infatti a un coinvolgimento popolare reale in opposizione alla «politiqueria» clientelare dei partiti tradizionali o alla demagogia di altri movimenti, in cui si spacciano per comunitarie decisioni prese da un pugno di leader animati il più delle volte da interessi personali o di clan. In questo senso il processo indigeno del nord del Cauca presenta elementi sorprendenti che vale la pena analizzare visto e considerato che fatti recenti lo hanno portato prepotentemente alla ribalta davanti all’opinione pubblica colombiana e internazionale.
Vi sono due modi di raccontare chi sono i nasa, da dove vengono e come vivono: il metodo storiografico, che si basa sull’analisi scientifica dei documenti, e la visione del mondo tradizionale, piena di immagini mitiche, che interpretano in modo narrativo gli aspetti e i fatti più salienti della realtà. Questi due modi di «fare storia» sono complementari e raccontano entrambi, seppur in forma diversa, l’epopea di un popolo che sin dalle sue origini ha saputo sopravvivere resistendo, inizialmente al potere coloniale spagnolo e successivamente alle mire espansionistiche del governo colombiano che, dopo la rivoluzione bolivariana, conquistò il potere ai danni della corona di Spagna.
Nel progetto di vita la storia nasa viene rilette perché non sia solo parte del patrimonio culturale, ma anche fonte di ispirazione per le scelte presenti. Personaggi reali, come la cacicca Gaitana, Juan Tama, Manuel Quintín Lame, rivivono attraverso le narrazioni storica e mitica delle loro gesta, ispirando e rafforzando la comunità nasa nelle lotte di oggi.
Questa presa di coscienza della propria identità sta aiutando la gente a vincere l’attitudine un po’ passiva, di sottomissione all’autorità costituita, che caratterizza l’indio andino, facendo sì che il singolo possa sentire come suo il benessere della collettività, assumendo in prima persona i costi della resistenza e del conflitto. Grazie a tale presa di coscienza, il movimento indigeno ha potuto passare da una strategia di difesa e sopravvivenza a una strategia di proposta e alternativa.
Non è stato un cammino semplice quello che ha condotto gli indigeni del Cauca a lottare per il recupero della terra, della cultura, dell’identità e dell’autonomia e a creare un’organizzazione che, a livello locale, nazionale e internazionale potesse dare forza, continuità e visibilità alla loro azione.
Molto è stato il sangue versato in questo processo, frutto di fortissime pressione estee a livello ideologico, politico ed economico, nonché, talvolta, di contraddizioni intee alla comunità stessa, imputabili alla fragilità di singoli o gruppi.
La gente, a ogni buon conto, è andata avanti; morto un leader immediatamente se ne incontrava il sostituto capace di continuare a seguire il programma del suo predecessore. Il processo organizzativo, animato da un progetto di vita ispiratore, ha saputo far fronte alle tante difficoltà, così come si spera saprà reggere l’urto delle minacce che affliggono oggi la comunità.

Un altro mondo è possibile

Negli ultimi anni e a prezzo di grandi sforzi e sacrifici, i nasa hanno saputo recuperare le proprie terre occupate ingiustamente da potenti terratenientes (latifondisti) e farsi riconoscere una certa autonomia da parte dello stato colombiano (con diritti garantiti dalla nuova costituzione del 1991).
Questi indiscutibili successi non hanno però significato la fine della lotta che continua aspra sia sul fronte interno che su quello esterno alla comunità. L’impatto della modeità con il relativo stravolgimento dei valori tradizionali crea confusione e contraddizioni nella gente, colpendo strutture come quella familiare, che rappresentano l’ossatura comunitaria. Nuovi modelli di vita turbano il tessuto della società tradizionale, creando conflitti generazionali, stratificazione sociale e, nel singolo, una situazione di smarrimento, che genera dubbi e scoramento, soprattutto nei più giovani.
Purtroppo questa situazione di cambio epocale avviene nel contesto di un conflitto armato che da più di 40 anni provoca una situazione di insicurezza e non permette alla comunità di compiere liberamente le sue scelte. Forze governative (esercito e polizia) si scontrano con i guerriglieri delle Farc, in una guerra che è soprattutto una lotta per il possesso del territorio indigeno e che miete molte vittime fra la popolazione civile.
Il controllo delle ricchezze naturali (iniziando dai bacini idrici per finire ai minerali preziosi), nonché del flusso enorme di denaro che proviene dalle coltivazioni illecite (coca e papavero da oppio) sembrano essere tra le vere cause di una guerra che si maschera dietro nomi di facciata come «politica di sicurezza democratica», «lotta al terrorismo», o «insurrezione popolare».
Inoltre, il Trattato di libero commercio (Tlc) che gli Stati Uniti vogliono imporre a vari paesi latinoamericani, fra cui la Colombia, non ammette l’esistenza di sacche di territorio nazionale autonome, che vogliano rimanere al di fuori della logica di mercato capitalista. Di qui la necessità da parte dei belligeranti di assumere un controllo globale della zona, a prezzo dei diritti inalienabili di chi la abita.
Di fronte alla violenza e all’aggressione operate da entrambi gli attori armati, il movimento indigeno ha scelto di rappresentare una terza via che non vuole essere una pilatesca fuga dal conflitto, ma una vera e propria alternativa.
Alteativa è la parola che marca e definisce il processo indigeno contemporaneo: essa nasce dalla consapevolezza che un altro mondo è possibile, non più prigioniero delle logiche di mercato, che il neoliberismo sfrenato del presidente Uribe Velez cerca di imporre a tutto il paese e a tutto vantaggio delle classi più abbienti; ma un mondo più rispettoso delle diversità culturali, del diritto di un popolo al territorio e a crescere e svilupparsi secondo criteri e modelli culturali propri e non imposti dall’esterno.
Di fronte alla guerra gli indigeni hanno scelto di affermare la sovranità sul proprio territorio, mantenendo una posizione di equidistanza pacifica dalle parti in conflitto. La loro sicurezza è affidata alla guardia indigena, migliaia di giovani e adulti che, armati di un solo bastone, si pongono come scudo umano fra i belligeranti, a difesa del territorio e della sua popolazione.
Questa scelta ha avuto vasti echi a livello nazionale e internazionale e d è valso alla guardia indigena del nord del Cauca il conferimento del premio nazionale per la pace 2004, premio che quattro anni prima era stato conferito al progetto nasa.
Alteativa, infine, è stata la parola d’ordine della grande mobilitazione indigena nel mese di settembre 2004, con una marcia di tre giorni dalla cittadina di Santander de Quilichao a Cali, capitale del dipartimento del Valle del Cauca (circa 70 chilometri).
Organizzata in collaborazione con altre forze democratiche, questa mobilitazione ha dato voce a 65 mila persone che hanno voluto gridare, in modo totalmente pacifico, il loro disappunto. I temi della protesta erano: la denuncia della continua violazione dei diritti umani da parte di tutte le forze belligeranti e la condanna delle manovre politiche per cambiare le norme costituzionali che garantiscono alle minoranze i loro diritti.
È stato anche espresso il dissenso in merito agli accordi inteazionali, come il trattato di libero commercio e l’Area di libero commercio delle Americhe (Alca), che tendono a privatizzare il paese, convertendone le risorse in elementi della macchina produttiva gestita dalle multinazionali.
Nonostante i premi nazionali e inteazionali, che hanno dato al movimento indigeno visibilità e una certa garanzia di sicurezza, gli attacchi, anche violenti, non sono mancati. Proprio in contemporanea con la grande marcia di mobilitazione, il responsabile del settore saitario del Consiglio regionale degli indigeni del Cauca (Cric), Alcibiades Escue, è stato arrestato per ordine della magistratura con la falsa accusa di avere stornato fondi del suo dipartimento per pagare tangenti ai paramilitari. Nel mese di settembre del 2004, quattro leader della comunità, tra cui il sindaco di Toribío e l’ex sindaco e attuale cornordinatore del collegio Cecidic di Toribío (vedi riquadro), sono stati arrestati e sequestrati da guerriglieri delle Farc nel territorio del Caguán, nel dipartimento del Caquetá, dove si erano recati per formare al processo indigeno le comunità nasa emigrate in quella zona.
In entrambi gli eventi si sono attivati canali diplomatici che hanno coinvolto organizzazioni nazionali e inteazionali quali Onu, Unesco, movimenti di difesa dei diritti umani e, nel secondo caso, la stessa chiesa cattolica. Questo sforzo comune ha portato alla liberazione dei prigionieri.
Straordinaria è stata la partecipazione della comunità. Pullman zeppi di autorità e guardie indigene si sono recati a Bogotá per reclamare la scarcerazione del loro leader. Con un gesto che ha commosso la nazione, più di 300 guardie indigene hanno fatto 20 ore di bus e svariate ore di marcia in un territorio sconosciuto per andare a reclamare alla guerriglia l’immediata liberazione dei loro compagni.
Sono segni che fanno ben sperare in vista di un futuro, che si presenta molto incerto, e dimostrano la vitalità di un progetto di vita in grado di coinvolgere la gente al di là degli interessi personali. Ciò che sottostà a tale progetto è il sogno di poter essere una nazione libera, autonoma e identificata con la propria storia e cultura, in uno stato colombiano che sia veramente «una grande casa di popoli», data la sua grande varietà etnica. (cfr Costituzione politica della Repubblica colombiana, art. 7).
La sfida che attende ora il movimento indigeno è molto grande. Si tratta di fare una proposta alternativa concreta insieme a tutte le forze democratiche, sociali e non armate del paese, per poter dare al messaggio un’eco ben più forte di quanto è stato finora possibile. È un compito che non può aspettare.
Le lotte per la vita, la biodiversità, il rispetto dell’identità e della libertà sono necessità da cui dipendono in parte la stessa sopravvivenza della realtà indigena e delle altre minoranze. Il movimento deve mantenersi forte e chiaro di fronte alle ingerenze del governo colombiano e della guerriglia nei suoi affari.
Il presidente Uribe, che in questi giorni cerca affannosamente di confermare il suo mandato per ulteriori quattro anni, avrebbe buon gioco a rendersi amico questo movimento così attivo, addomesticandolo ai suoi progetti. La guerriglia stessa ambirebbe ad avere gli indigeni come alleati, invece che ritrovarseli come oppositori dei loro piani.
Ma ci sono strategie che gli indigeni rigettano completamente, individuando nel trattato di libero commercio e nella politica di «sicurezza democratica» i peggiori rischi a danno della comunità, visto che ne minacciano il territorio e la coinvolgono in una guerra che non le appartiene.
La proposta indigena va, invece, nella direzione di un contributo al miglioramento sociale del paese, a beneficio di tutti. È infatti una grande contraddizione che in una nazione ricca di risorse, com’è la Colombia, 20 milioni di persone, su 44 milioni di abitanti, vivano in situazione di povertà, e altri 9 milioni sopravvivano in stato di miseria estrema.
La scelta dei partners con cui relazionarsi e di chi dovrà poi, di fatto, assumersi la guida di questa grande coalizione democratica è uno dei nodi che si dovranno sciogliere al più presto. L’aprirsi ad altre realtà presenta sempre incognite e rischi e può anche provocare contraddizioni intee, che vanno superate prontamente.
A questo riguardo il lavoro capillare all’interno della comunità rimane fondamentale affinché le scelte e le motivazioni del movimento si arricchiscano della partecipazione e dei contributi di quante più persone possibile.
Lo sforzo di Ezequiel e dei tanti che come lui sognano un mondo veramente differente lascia ben sperare che ciò sia realizzabile.

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Il progetto Nasa

Il progetto Nasa nasce nel 1980, su ispirazione del padre Alvaro Ulcué Chocué, come un’iniziativa delle comunità indigene di Toribio, Tacueyo e San Francisco. I cinque programmi iniziali – produzione, famiglia, educazione, salute ed evangelizzazione – erano diretti al rafforzamento delle dimensioni spirituale, sociale, politica, economica e culturale della gente. Dopo la morte del padre Alvaro alcuni membri delle tre comunità, sostenuti dall’ equipo misionero guidato dai missionari della Consolata, recuperano idee e progetti del suo fondatore, facendone rivivere il sogno e conseguendone gli obbiettivi che si era prefisso. Oggi, dopo venticinque anni esatti di storia, il progetto nasa è ormai una realtà visibile e consolidata del movimento indigeno colombiano. I suoi programmi nel campo della produzione, etno-educazione, salute, nonché il suo impegno per la difesa, la conservazione e la pace nel territorio gli sono valsi pubblico riconoscimento a livello nazionale ed internazionale. Nel mese di febbraio del 2004, a Kuala Lampur (Malesia), il progetto Nasa ha vinto il «premio equatoriale», conferito dal programma delle nazioni unite per lo sviluppo (Pnud). I giurati hanno riconosciuto nel piano di sviluppo indigeno lo sforzo di combinare la lotta contro la povertà con il rispetto delle risorse naturali.


Ugo Pozzoli




COLOMBIA – Intervista: “Servire la comunità è servire se stessi”

Non è un indios nasa; eppure da oltre 20 anni serve la comunità indigena del nord del Cauca di cui, pur essendo un «bianco», ne è leader indiscusso: è Gilberto Muñoz Coronado, il primo alcalde (sindaco) di Toribío. Appartiene al Movimento civico, il partito indipendente che raccoglie i voti ed esprime la coscienza politica indigena.
Oggi, Gilberto è cornordinatore del Cecidic, il Centro educativo che raccoglie più di mille studenti, dal primo anno della scuola elementare fino all’università. Nel mese di settembre dell’anno passato è stato sequestrato nel Caguán da gueriglieri delle Farc, insieme all’attuale alcalde di Toribio e ad altre autorità indigene. Gli chiediamo una testimonianza su questa sua esperienza di prigionia.

Che cosa l’ha spinta ad andare tanto lontano, in una zona «ad alto rischio» come il Caguán, e che sentimenti ha provato durante la sua detenzione?
Ero stato invitato dalle nostre autorità indigene a partecipare a un processo di formazione della comunità di Altamira, una piccola riserva indigena, i cui abitanti sono tutti originari delle nostre zone, di Toribío e di San Francisco. Hanno mantenuto la cultura, parlano la lingua della gente di qui. Sono pochi, circa 260 persone, ma vivono in un territorio molto grande, per cui è facile smarrirsi e perdere unità. Il nostro compito era far loro sentire l’appoggio della comunità di origine e aiutarli a crescere in un processo comunitario.
Questo dà certamente fastidio alla guerriglia, che nella zona vuole essere l’unica signora e padrona. Il primo e intenso sentimento che ho provato è stato quello di essere tenuto prigioniero in un territorio in cui, istintivamente e da sempre, mi sento più libero: la natura, la campagna.

Era preoccupato prima di partire?
Mi preoccupava sapere che anche l’attuale alcalde fosse parte del nostro gruppo. La guerriglia vede i sindaci come parte della struttura statale e li tratta come nemici. Da parte mia c’era la consapevolezza di offrire un servizio. Ascoltando il padre Antonio Bonanomi e l’equipo misionero ho imparato che bisogna spendere bene la vita che abbiamo ricevuto. Se si può fare qualcosa per qualcuno che ne ha bisogno, non dobbiamo tirarci indietro; la nostra esistenza è troppo breve per viverla egoisticamente.
Nella selva sono stato riportato all’essenzialità della vita. Avevo da mangiare, sopravvivevo. Molte volte ci affanniamo per cose futili, quando a troppa gente manca l’essenziale per vivere.

Come sono stati i rapporti con i suoi sequestratori?
Quelli che si occupavano direttamente di noi erano ragazzi, alcuni avevano meno di 20 anni, l’età dei miei figli. A loro ho chiesto che cosa li aveva spinti a imbracciare un fucile; in questo senso c’è stato un po’ di dialogo fra noi.
Ho avuto modo di parlare anche con alcuni comandanti, cercando sempre di non esprimermi come singolo, ma come portavoce del processo di una comunità, facendo anche rilevare alcune delle loro contraddizioni più evidenti. Ho detto loro che, in fin dei conti, abbiamo un programma simile: lottare per la giustizia sociale; ma ci divide il metodo. Mentre essi si definiscono «esercito del popolo» (bella ironia), vogliono conseguire la giustizia maltrattando contadini e indigeni. Noi non accettiamo questo modo: il nostro programma ci impone di difendere la gente.
Quando mi liberarono dissi al comandante del reparto che ci aveva in custodia che non coltivavo nessun risentimento per quanto mi era successo.
Ho scoperto a mie spese una faccia della Colombia occulta, che non avevo mai conosciuto in maniera così diretta. La vita del guerrigliero è dura, vi sono persone che per anni vivono sotto una tenda, in balia di pericoli e intemperie. Posso anche rispettare chi si sceglie una vita di questo tipo e lotta con coerenza per quello che desidera. Però, bisogna lavorare non per distruggere, ma per creare coscienze, e queste si creano con il lavoro e l’impegno di tutti, non con la coercizione e la violenza. Questa è una verità che vale per tutti gli attori del conflitto armato.

Cosa ha imparato da ciò che le è accaduto?
Il lato positivo è stato far emergere un sentimento straordinario da parte della gente; ci siamo sentiti appoggiati a livello nazionale e internazionale, da persone che ci hanno teso la mano non solo perché, «poverini», eravamo in una situazione difficile, ma anche perché hanno toccato con mano la bontà del progetto che rappresentavamo. Per non parlare della gente di qui, della nostra comunità. C’è un senso di unità, di appartenenza nella comunità indigena che non si riscontra in altre realtà. Penso alle guardie indigene che sono venute a reclamare la nostra liberazione, armate solo della loro chonta, il bastone del comando; non hanno guardato le ore di lavoro che perdevano o i rischi che correvano per arrivare fino a dove eravamo e tirarci fuori di lì.
L’insegnamento è che bisogna continuare, rendendosi conto, però, che quanto si è ottenuto è frutto del lavoro di tutti e che chi impara a servire l’altro finisce con il servire se stesso.

Ugo Pozzoli




TANZANIA – Il piccolo gregge

Veloce visita ai luoghi del primo amore missionario e all’isola minacciata dall’insidia del fondamentalismo, dove la piccola comunità cristiana scopre un nuovo modo di essere presente e testimoniare umilmente il Signore Gesù.

L’aereo ha fatto il suo solito giro attorno al Kilimanjaro. Il cielo limpido, il nevaio a portata di mano, le foreste sottostanti… Una visione che, nei numerosi viaggi di andata e ritorno tra Italia e Tanzania, mai mi era sembrata così limpida, chiara e commovente.
Eccomi ancora, dopo 7 anni di lontananza dal Tanzania, a rivedere vecchi amici e confratelli, luoghi dove ho lavorato, le missioni e la gente: povera, ma serena, soprattutto i bambini. Tanti bimbi, sempre sorridenti, anche quando hanno fame, con quegli occhioni grandi e aperti che esprimono fiducia, amore, accoglienza e voglia di carezze.
Scopo del mio ritorno in Tanzania era quello di fare da interprete a due tecnici del Gruppo «Luciano Brenna» di Mariano Comense, Enrico e Marino, inviati per piazzare alcuni macchinari di falegnameria nel Centro pastorale della diocesi di Zanzibar. Grazie al ritardo dell’arrivo del container destinato a Zanzibar, ho potuto realizzare un sogno che da tempo coltivavo in fondo al cuore: un pellegrinaggio, un tuffo nel passato, ma proiettato nel futuro, cioè vedere le necessità, riprendere contatti, rinnovare l’entusiasmo per la missione e cercare di creare ponti tra comunità e chiese.
La visita al cimitero di Tosamaganga, una preghiera sulla tomba di tanti amici che hanno «combattuto la buona battaglia»: padre Aldo, padre Antonio, suor Adelina… Quanti ricordi, quanti esempi di vita totalmente spesa con grande amore per Dio e il prossimo!
Poi a Mgongo, il centro per i ragazzi di strada tenuto da padre Franco Sordella e padre Giulio Belotti: ai miei tempi aveva 12 ragazzi, ora sono più di 300, tra allievi nella scuola di arte e mestieri, falegnameria, carpenteria, calzoleria, sartoria, scuola pratica di agraria… Tra i primi ragazzi raccolti dalla strada, alcuni sono diventati istruttori e hanno formato famiglie stupende.
Iringa, Mafinga, poi Sadani, la «mia» cara missione dove, assieme a padre Luigi Negro, ho trascorso il periodo più bello, laborioso e fruttuoso della mia vita di missionario.
Padre Silvestro Bettinsoli, il parroco, aveva annunciato la nostra visita, ma non mi sarei mai aspettato un così folto gruppo di persone, vecchi e giovani, dopo la messa domenicale, in attesa del nostro arrivo. E, come al solito, le donne anziane, con un piccolo dono per il loro vecchio parroco: Mariamu, due uova fresche di giornata, sicuramente il suo cibo quotidiano; ma dovevo accettarle, altrimenti si sarebbe offesa.
Il vecchio Petri, il lebbroso, guarito ai tempi in cui suor Gemma Ida lavorava al dispensario, anche lui con qualcosa da offrire: due banane e tre pannocchie di granturco, appoggiate sui moncherini senza dita, sorridente e felice, i suoi occhietti sempre furbi e pieni di ironia: «Vedi – pareva dicessero – anch’io mi ricordo di te; di quando, all’inizio delle piogge anche la malattia si riacutizzava con le sue piaghe, mi preparavi i sacchetti di nylon per i piedi, in modo che il siero rimanesse tra le bende e non sporcasse il banco della chiesa. Ora non servono più, sono guarito; eppure continuo a ricordarti e il mio dono, anche se piccolo, è segno della mia riconoscenza».
La maestra Ngatunga, grassa e sempre sorridente, ora preside della scuola, con un bel pollastrello vivo e ruspante, mi fa vedere la foto di suo figlio Lucio (!), ora nel seminario della Consolata di Mafinga. L’avevo portata d’urgenza all’ospedale per il parto; erano in pericolo di vita, lei e il bambino; ora chissà, forse quel bimbo diventerà missionario come me: i piani di Dio…

Finalmente il container è stato sdoganato e così possiamo partire per Zanzibar. Arriviamo nell’isola felice, conosciuta da tanti italiani come fantastica meta tropicale, con i suoi villaggi turistici, spiagge e mari incontaminati, piccole oasi… italiane! E sarebbe davvero un paradiso terrestre, ma c’è anche il rovescio della medaglia.
Zanzibar e Pemba, due isole dell’oceano Indiano, poste al largo del vecchio Tanganika, sultanato arabo fino al 1964, anno della rivoluzione contro gli arabi e dell’indipendenza, hanno alle loro spalle una lunga storia di dominio arabo e musulmano, come tutta la costa dell’oceano Indiano. Erano il centro del commercio degli schiavi dell’Africa Orientale, del legno pregiato, spezie (famosi i chiodi di garofano), avorio.
Da Zanzibar e dal villaggio di Bagamoyo, posto sulla costa a 90 chilometri a nord di Dar es Salaam, era partito il primo missionario medico anglicano, il dott. Livingston, famoso anche per la celebre frase del giornalista Stanley che, dopo cinque anni di ricerca, incontratolo nel villaggio di Majiji, sulle sponde del lago Tanganika, lo salutò: «Doctor Livingston, I presume».
Zanzibar e Pemba, dopo la cacciata del sultano, si erano unite al Tanganika nel 1964, formando così il nuovo stato del Tanzania.
Musulmani per il 99%, avevano sì qualche rigurgito di indipendenza, ma, fino alla distruzione delle Twin Towers, la convivenza tra musulmani e i pochi cristiani era pacifica. Ora alcune frange fondamentaliste stanno provocando disastri, tentando di dividere la popolazione con attentati e altro.
Il vescovo di Zanzibar e Pemba, mons. Shao Augustine, cerca di mantenere la calma, anche se gli hanno bruciato due chiesette e il pulmino, usato ogni mattina per raccogliere gli studenti, in maggioranza musulmani, e portarli a scuola.

Il nostro arrivo a Zanzibar coincide con la fine dell’anno scolastico. Gli alunni della settima classe hanno terminato gli esami di maturità e aspettavano il giorno della graduation, cioè della consegna dei diplomi. Fra i primi della classe, due gemelli: Marie e Peter, figli di padre bianco e madre africana.
Un gruppo di fondamentalisti aveva preso di mira la ragazza perché lasciasse il collegio e la scuola cristiana e si facesse musulmana. Essendo meticcia, dicevano che il padre era arabo e quindi avrebbe dovuto seguire la religione islamica.
Con doni e minacce erano riusciti ad accalappiarla. Era scomparsa dal collegio, senza salutare neppure il suo gemello, e per un mese, nessuno seppe dove fosse. A nulla era valsa la denuncia della madre, tutto era avvolto nel mistero, svelato poi dalla stessa Marie: la tenevano prigioniera perché abiurasse il cristianesimo; avevano perfino progettato di mandarla in Arabia. Ma un giorno, approfittando di un momento di disattenzione dei suoi guardiani, riuscì a scappare. Si presentò alla polizia; gettò via il velo che le avevano imposto di portare e fece ritorno nel collegio cattolico.
Finalmente libera e felice, era in prima fila, accanto al fratello, per la festa della graduation.
Il gruppo fondamentalista, non potendo rifarsi su di lei, ha promesso al vescovo che si sarebbero vendicati: ecco spiegato il fuoco alle due chiesette e al pulmino.
Marie e Peter, subito dopo la festa, sono stati inviati in terraferma, lei in un collegio cattolico nell’entroterra, lui scelse di entrare nel seminario diocesano di Morogoro. Una storia finita bene, ma quante altre non si concludono così.

Parroco di Pemba è un giovane prete tanzaniano, padre Apollinaris Msaki, un mchaga della zona del Kilimanjaro. Aveva studiato islamologia al Collegio san Pietro a Roma. L’avevo conosciuto a Genova, nella mia parrocchia, dove era venuto a sostituire il parroco durante le vacanze estive.
Volevo salutarlo. In battello raggiunsi Pemba, altro paradiso terrestre, con una natura stupenda e gente accogliente. Almeno così la ricordavo, da quando, nel 1984, ero stato per qualche giorno ospite di alcuni medici italiani del Cuam, che operavano nel piccolo ospedale locale. Notai subito un clima di rigetto: «Un bianco che arrivava, cosa era venuto a fare?» mi sembrava di leggere sugli occhi sospettosi della gente.
E padre Apollinaris me ne diede conferma: anche a lui hanno bruciato due delle quattro chiesette costruite nei villaggi dell’isola; poi gli hanno tagliato i tubi dell’acqua e i fili della luce. La polizia locale, alle sue denunce, rispose: «Cerchiamo, vedremo, non sappiamo ancora niente…» e così di seguito.
La parrocchia di Pemba è una delle prime fondate dai missionari delo Spirito Santo, a metà del xix secolo: con una bella comunità di immigrati da Goa, cristiani di vecchia data e attaccati alla loro fede, hanno cercato di testimoniare Cristo e mantenere la loro fede in un mondo prettamente musulmano e ora fondamentalista.
Oggi, tra discendenti goanesi, impiegati governativi e militari venuti dalla terraferma, l’intera cristianità di Pemba conta circa 200 anime: formano un «piccolo gregge – dice padre Apollinaris -, con la missione di presenza e dialogo, senza possibilità di conversioni, ma molto importante per stabilire, in futuro, buoni rapporti tra musulmani e cristiani».
Ho visitato tutte le piccole comunità di base e ho pregato con loro. Ne ho ricavato un’enorme testimonianza di fede, pazienza, amore: quello evangelico, che arriva a perdonare 70 volte 7, ad amare anche i nemici, a cercare ciò che unisce, a testimoniare Cristo, morto e risorto, a rischio continuo della propria vita.
Testimoni e martiri nel vivere quotidiano, figli di una chiesa lontana, giovane, missionaria, povera di cose materiali, ma ricca di fede e vera carità; una piccola comunità cristiana, come quelle dei tempi apostolici.

Grazie, mons. Shao; grazie, padre Apollinaris; grazie, piccolo gregge di Pemba e Zanzibar. Gesù è con noi, sempre, fino alla fine dei tempi. Ma con voi lo è in un modo più tangibile e vero, perché è il Cristo della croce, dei martiri, della frateità che vince ogni divisione.

Lucio Abrami




GHANA – Voglia di crescere

Col permesso dei 3 nipoti, figli di mio figlio, sono tornato dagli altri 83, lasciati nella missione di Abor (Ghana). Ho seguito spesso padre Peppino Rabbiosi, comboniano, nelle visite ai villaggi. Nei momenti in cui riuscivo a essere solo con me stesso ho fatto qualche riflessione.

Ero già stato l’anno scorso ad Abor (Ghana) «Nella casa del Padre mio» (In my Father’s House), dove sono 83 bambini, dai 4 ai 17 anni, con alle spalle storie molto tristi (cfr M.C. giugno 2004, p.17). La nostalgia e il loro desiderio che tornassi hanno avuto la meglio.
Anche questa volta avrei tanti episodi da raccontare. Voglio citae uno per tutti. Daniel, 4 anni, è leader nato, intelligenza decisamente superiore alla media. Sono ormai sulla macchina che mi porterà all’aeroporto di Accra. La commozione è tanta, sia per chi resta che per chi… sta partendo. Il bimbo si stacca dal gruppo dei compagni e viene ad appoggiare le mani sulla portiera. Contrariamente alle sue abitudini di vulcano perennemente in eruzione, non dice una parola. Nei fari illuminati, che sanno sempre essere i suoi occhi, leggo la tristezza di ciò che sta accadendo. «Ti affido il coro» riesco a mormorare.
Avevo aiutato a preparare un paio di canti gregoriani per una funzione. Daniel aveva bevuto ogni mio movimento e, con l’innata predisposizione musicale, non perdeva occasione per improvvisarsi direttore del coro. Era uno spettacolo vedere la serietà con cui affrontava l’impegno.
Ora lì, appoggiato all’auto, mi guarda e mi fa capire di non preoccuparmi. Il coro è in buone mani.

Morire a 10 anni…
Domenica mattina, in uno sperdutissimo villaggio africano, del Ghana in particolare, ma potrebbe essere in mille e mille altri posti.
Qui internet non è ancora arrivata. L’elettricità si ferma molto prima. Non ci sono strade. Solo un piccolo sentirnero, arduo anche per i fuoristrada più attrezzati, che nella stagione delle piogge diventa impraticabile. Un acquitrino fangoso che isola ancor più la gente che vi abita.
Poche, poverissime capanne formano questo villaggio che sembra dimenticato dal mondo. Solo un missionario si avventura periodicamente fino a qui. Viene a celebrare la messa, a portare un poco di conforto, a parlare di un Dio buono e misericordioso. Viene a infondere speranza e a combattere la rassegnazione passiva.
È una messa molto speciale. Non perché è celebrata all’aperto, frasche come tetto a proteggere dal solleone, ma per la straordinaria partecipazione. Bambini e adulti che arrivano da altri villaggi lontani chilometri e chilometri. Il rito è un susseguirsi di preghiere e canti ritmati dalle percussioni. Tutti pregano convinti. Tutti cantano. Tutti accompagnano i canti, che sembra non debbano finire mai, con battiti cadenzati delle mani. Molti danzano.
È come se la partecipazione si fosse materializzata in qualcosa che svolazza sulle nostre teste. Ancora più palpabile, poi, è il pathos che si respira quando padre Peppino, durante l’omelia, pronuncia piangendo queste parole: «Dopo la messa daremo l’ultimo saluto a Kofi».
Kofi era un bambino di 10 anni. È morto per un ipotizzato banale mal di pancia. Nessuno ha pensato che potesse trattarsi di qualcosa di più serio. Nessuno ha tempo di curarsi di un bambino che si lamenta per un mal di pancia. E quando i dolori si fanno più lancinanti e nessun rimedio conosciuto, sia esso somministrato o imposto come esorcismo agli spiriti del male, è in grado di alleviarli, la tragica conclusione.
Kofi è stato subito inumato. Nessuno chiederà l’autopsia. Al missionario non resta che piantare una croce sulla piccola tomba appena fuori il villaggio e pregare con tutti coloro che, nella lunga processione, avevano portato la croce fino qui.
Kofi aveva solo 10 anni. Il mondo corre, si affanna alla ricerca di sempre nuove tecnologie, si spinge alla scoperta di nuovi mondi. Ma in qualche parte di questo mondo, in qualche paese meno fortunato, ci sono ancora bambini che muoiono a 10 anni per un ipotizzato, banale mal di pancia. Tanti! Troppi! Per quanto tempo ancora?
all’improvviso una scuola
Accompagno padre Peppino in visita a uno dei tanti villaggi della sua sterminata parrocchia, ai confini con il Togo. È sempre difficile arrivarci. Dopo un’ora di… non strada, padre Peppino parcheggia il pick-up sotto un maestoso mango, nei pressi di un ruscello putrido, che si perde nella palude. Una canoa ci viene incontro. Con quella attraversiamo questo guado, scortati da ogni sorta di piccoli volatili (mosche, moscerini, zanzare…). Una canoa dalla precaria stabilità e che, con una ciotola, deve essere svuotata in continuazione dall’acqua che imbarca.
Camminiamo nella savana per tre quarti d’ora, fino a raggiungere un altro acquitrino. Una seconda canoa, simile alla precedente, ci traghetta verso un sentirnero seminascosto da sterpaglie inaridite dall’arsura inclemente.
Sono circa le 7 del mattino; ma il sole comincia già a picchiare duro; tra poco la colonnina di mercurio supererà i 40 gradi. Camminiamo di buona lena nel nulla per altri 45 minuti, mentre cominciamo a sentire in lontananza i tam-tam che ci danno il benvenuto.
All’improvviso, una piacevole, inaspettata, quasi surreale immagine si materializza: su un enorme spiazzo appare un complesso scolastico animato da centinaia di bambini nella tradizionale uniforme. Una scuola, che va dalla matea alla media inferiore, dove sembrava solo savana. La folla di bambini che la popola testimonia la presenza di tanti piccoli villaggi nascosti. Povere capanne, ma arricchite da una importante presenza per la crescita delle nuove generazioni.
Padre Peppino ha costruito la prima parte della scuola, dedicata ai piccoli. Il governo, fortunatamente, ha accettato di completare la struttura e pagare (forse meglio dire malpagare) alcuni degli insegnanti.
L’Africa ha voglia di crescere: quale mezzo migliore di una scuola?

«Dacci anche oggi…»
Sanno sempre essere suggestive le messe in Africa. La devozione che senti attorno ti contagia. Ti entra dentro. Ti arriva al cervello. Ti serra la gola. Quanti momenti particolarmente significativi! I canti, che sembra non debbano mai finire, ritmati dalle percussioni, accompagnati dai battiti cadenzati dalle mani e da passi di danza. L’offertorio in cui tutti, a passo di danza, portano la loro offerta in denaro o in natura (banane, manghi, noci di cocco). Il Padre nostro, recitato spesso tenendosi per mano. Braccia protese verso l’alto.
Nei villaggi, all’aperto, questo enorme anello multicolore è ancora più suggestivo. Le parole sono le stesse, ma sembra assumano significati diversi a seconda di chi le pronuncia. A seconda delle situazioni e delle esigenze. Quella richiesta di pane quotidiano, sembra significhi realmente: «Fai che anche oggi possiamo trovare qualcosa da mangiare. Fai che la terra ci sia amica e ricambi le nostre fatiche con raccolti che non facciano più soffrire la fame ai nostri figli».
E quando vedi rivolgersi al Padre celeste bimbi che non hanno mai conosciuto quello terreno, traspare realmente il desiderio di un futuro meno avverso: desiderio di famiglia, di casa, di un riparo sicuro. Sono suppliche che senti trasmettere dalle mani di chi ti sta a fianco. Ti pervadono. Ti entrano nelle vene e, come microonde, si propagano a tutto il corpo molecola dopo molecola.
Ugualmente toccante è sempre per me il momento dello scambio di un segno di pace. Sarà anche per il colore della pelle, decisamente più sbiadito del loro e che non ci fa passare inosservati, ma sono sempre tante le mani che vengono a cercare la mia. Spesso tutte. E sono strette di mano convinte, non di curiosità, di facciata o sola cortesia.
Tale convinzione la leggi negli occhi che cercano e guardano diritto nei tuoi. E mentre pronunci l’augurio di pace, non riesci a non pensare alle loro terre martoriate da continue guerre, scontri tribali, lotte per il potere, dove a fae le spese sono sempre i più deboli e indifesi.
Mentre stringi le mani di donne e ragazze, non riesci a non pensare a quante altre, non molto lontano da lì, sono vittime di soprusi e violenza. Mentre stringi quelle dei bimbi, non riesci a non pensare alle centinaia di migliaia, la cui infanzia è negata da lavori massacranti o, peggio ancora, dall’imposizione di machete o kalashnikov da usare contro fratelli di etnia diversa.
E allora, questa volta, la supplica al Padre celeste parte da te: «Fai che finalmente in queste terre africane sia pace! Fai che la pace possa finalmente regnare, for ever and ever!», come loro stanno augurando a me.

Missionario: chi è costui?
Da ragazzo ero affascinato da testimonianze raccolte in terre di missione. Se a raccontarle erano i protagonisti, il fascino si moltiplicava. La straordinarietà di quei personaggi dalla lunga barba, ai miei occhi di fanciullo andava oltre qualsiasi libro o film d’avventura. Le foto di villaggi, povere capanne di fango e gente che vi abitava, suonavano fantascienza per chi, come me, viveva in una grande città e sembrava straordinaria la vita di campagna.
Ora che ragazzo (almeno anagraficamente) non lo sono più da tempo, ho spesso la fortuna di vivere questo fascino, seppure per un tempo limitato, direttamente con loro: nelle loro missioni, nelle loro terre.
Sì, fortunatamente ho spesso l’opportunità di seguirli nelle visite a sperduti villaggi delle loro… parrocchie: aree spesso grandi come il Piemonte o la Lombardia. Ma mi accorgo che purtroppo, in quei villaggi, poco è cambiato: quelle foto di 50 anni fa, potrebbero benissimo essere state scattate ieri l’altro.
Mi accorgo che la gente continua a vivere in povere capanne di fango; in villaggi senza luce e senza acqua; file di donne, con un secchio sulla testa percorrono chilometri per raccogliere un poco d’acqua; non ci sono strade per arrivare a quei villaggi, molti dei quali non hanno scuole o, dove ci sono, in buona parte non è stato il governo a costruirle.
Mi accorgo della mancanza di un minimo indizio di struttura sanitaria per fronteggiare le conseguenze del vivere in situazioni così difficili e in aree così malsane.
Sì, ben poco è cambiato. C’è forse qualche scolorita e bucherellata maglietta in più a coprire corpi poco abituati a fae uso.
Quanto è stridente il contrasto per noi, abituati a macchine sempre più potenti e costrette a code sempre più lunghe; abituati ai telefonini dalle suonerie più strane e fastidiose, che strillano all’impazzata anche dove gradiresti ci fosse solo silenzio. Raccontare cosa significhi andare in questi villaggi per celebrare una messa dà l’idea di straordinarietà. Qualcosa da farsi una o due volte l’anno, mentre ancor oggi è spesso la quotidianità da affrontare per molti che operano in certe aree.
La straordinarietà continua a essere in quei personaggi, con o senza barba, che con umiltà e semplicità riescono a raggiungere il cuore di migliaia e migliaia di meno fortunati, e realizzano cose grandiose, in aree difficili, in condizioni assurde, con mezzi inadeguati. Personaggi che amo spesso, bonariamente, definire «fuori di testa», per la loro cocciutaggine nel cercare e ottenere l’impossibile: personaggi che rispondono al nome di missionario.

Ewe e invasori sbiaditi
In ogni parte del mondo sono sempre state le guerre a definire i confini provvisori di un paese: l’Africa non fa certo eccezione. La storia ricorda molti imperi africani che si spinsero lontano per conquistare nuove terre. Solo che negli ultimi 3-4 secoli, fece la sua comparsa un’altra sorta di conquistatore, colorito smunto, quasi fosse una focaccia tolta dal foo troppo presto. Un invasore sbiadito, insomma, che, proprio in virtù del colore della pelle, era convinto di essere il più bello e bravo, prediletto dal Creatore (e quando mai Dio disse una cosa del genere, forse in un orecchio a Mosè quando gli consegnò le tavole?).
L’invasore sbiadito, attratto da ricchezze non indifferenti a portata di mano, pretese di imporre le proprie leggi. Impose addirittura la propria lingua. Se ne infischiò degli idiomi e tradizioni millenarie di chi quelle terre abitava. Fece anche di peggio. Si accorse che anche quegli individui potevano rappresentare preziosa merce da esportare.
Di invasori sbiaditi gli ewe ne conobbero diversi: portoghesi, tedeschi, francesi, inglesi. Furono proprio gli ultimi due a spartirsi le loro terre. Inutile soffermarsi sul come e quando, il risultato finale è che, ancora oggi, ben difficilmente tale risultato potrà essere modificato. Non importa se la linea di confine tagliava villaggi e comunità. Tanto l’invasore sbiadito l’aveva già fatto più volte anche a casa propria. E coloro che restarono in Togo, se volevano comunicare con l’invasore, dovettero arrabattarsi a decifrare una lingua definita francese. Gli altri che finirono in Ghana, pur continuando ad abitare un’area definita Togoland e villaggi il cui nome evocava origini togolesi, dovettero arrabattarsi con una lingua totalmente diversa, definita inglese.
Nel corso degli anni, qualche personaggio ambizioso cercò con la forza, senza riuscirci, di riportare tutti gli ewe sotto lo stesso tetto. Ma una volta ottenuta l’indipendenza, è impossibile mettere in discussione decisioni prese dall’invasore e sancite da un organo che, a dire il vero, da tempo annoverava anche persone di colore e tradizione simile agli ewe.
Nonostante l’ingombrante presenza, la fierezza ewe è sempre riuscita a mantenere viva la propria lingua (ora studiata nelle scuole), le proprie tradizioni, i propri canti, le proprie danze. E anche se chi vive in Ghana è convinto quando ne canta l’inno o recita la promessa di rispettae la costituzione, anche se negli incontri di calcio Ghana-Togo il tifo per il paese di appartenenza si fa sentire, ogni ewe si sente prima di tutto un ewe, nonostante che l’invasore sbiadito ce l’abbia messa tutta per cancellae le origini.

Mario Beltrami




Intervista al vescovo mons. Macram Gassis

Sudan: la chiesa tra i nuba
40 ANNI DI CROCIFISSIONE

Nel gennaio scorso è stato firmato un accordo di pace per il sud Sudan, che suscita molte perplessità, anche perché il Darfur non è compreso nell’accordo.
Si spera, comunque, che l’accordo possa portare buoni frutti.


Il 31 ottobre 2004 mons. Macram Gassis, vescovo di El Obeid (Sudan) ha benedetto il restauro della chiesa di San Rocco «simbolo di pace» a Rivoli (TO). Gli abbiamo rivolto alcune domande sulla situazione della sua gente e un messaggio per i cristiani della vecchia Europa.

Eccellenza, come gruppo Bakhita-Follereau, la conosciamo dal 1994; attraverso le sue testimonianze e lettere partecipiamo alle sofferenze della sua gente, cercando di offrire concreti gesti di solidarietà. Può dirci com’è diventato missionario comboniano e poi vescovo di El Obeid?

Fu il vescovo di Khartoum, mons. Agostino Guaroni, italiano di Bologna, a incoraggiarmi perché diventassi comboniano. Nel 1955, partii per l’Inghilterra, feci il noviziato e gli studi di filosofia presso i comboniani. Nel 1960 mi fu concessa una breve vacanza e, dopo cinque anni, potei riabbracciare la mia famiglia a Khartoum, mio luogo di nascita.
Frequentai, poi, i corsi di teologia in Italia, a Venegono e Verona, e fui ordinato prete nel 1964, proprio a Verona alla vigilia della festa dei Santi Pietro e Paolo dal card. Gregorio Pietro Aghagianian, prefetto di Propaganda fide. Il giorno della festa dell’Assunta feci l’ingresso nella cattedrale di Khartoum: ero il primo e unico sacerdote religioso della diocesi di Khartoum. Attualmente in Sudan ci sono 12 vescovi, di cui 10 sudanesi, ma io sono l’unico vescovo del nord Sudan, di madre lingua araba e cresciuto in ambiente islamico. Riesco, perciò, a leggere tra le righe i discorsi del governo.
Provengo da una famiglia cristiana o meglio ecumenica: mio padre era cattolico, mia madre protestante ed i nonni matei ortodossi copti. Dal 1964 al 1979 prestai il mio ministero nella diocesi di Khartoum, prima come vice parroco e poi come parroco per aprire nuove parrocchie. Inoltre, poiché potevo dialogare con il governo, ebbi molti incarichi a livello diocesano (cancelliere, incaricato delle scuole cattoliche, cappellano dell’Associazione san Vincenzo de Paoli).
Nel 1984 fui nominato amministratore apostolico della diocesi di El Obeid, allora vacante, e nel 1988 vescovo della stessa. È così iniziata la mia via crucis. Portai, infatti, sacerdoti e suore di varie congregazioni (Maryknoll, Comboniani, Aposteles of Jesus, suore di Madre Teresa di Calcutta), ma a tutti non fu permesso di restare nel paese.
Nel 1990 lasciai la diocesi per motivi di salute; poi mi fu consigliato di non rientrare perché molto pericoloso. Avevo, infatti, denunciato apertamente le ingiustizie contro la mia gente. Come già dissi nella mia visita a Torino del giugno 1994, il 4 gennaio di quell’anno ero tornato in Sudan e potei visitare 4 diocesi del sud Sudan ma non la mia. Incontrai, però, una delegazione di circa 100 cristiani della mia diocesi che dai Monti Nuba aveva camminato per 70 giorni a piedi per potersi incontrare con me. Fu un incontro davvero ricco di emozioni.

Quali sono le cause della guerra che dal 1984 ha dilaniato i Monti Nuba? Quante sono state le vittime? È possibile descrivere la sofferenza dei cristiani?

La guerra è stata causata dalle ingiustizie inflitte dal governo. A dir la verità non l’ho mai chiamato governo ma «regime di Khartoum». I Monti Nuba sono sempre stati considerati popolati da negri e per questo si è cercato di arabizzarli, confiscando le 750 scuole private costruite dai missionari cattolici e protestanti.
L’espulsione dei missionari ha esacerbato l’anima della gente che ha visto, nel 1963, i loro pastori caricati sui camion come pecore da macello. Ha visto bruciare 161 chiese cattoliche e protestanti sui Monti Nuba. Quando c’è troppa oppressione e ingiustizia la situazione scoppia. Tutti i posti di potere sono sempre stati occupati dalla gente del nord, sia nel governo che nell’esercito. Alla gente del sud erano riservati ruoli subaltei. Le scuole ormai si erano trasformate in agenzie di arabizzazione e islamizzazione forzata. La gente si è ribellata.
È scoppiata la guerra civile, sfociata nel genocidio dei Nuba. Infatti, la parola genocidio è appropriata quando si vuole privare un popolo delle sue tradizioni, lingua e cultura. La questione del petrolio è venuta dopo. Abbiamo contato circa 2 milioni e mezzo di morti e 5 milioni di rifugiati.

Che cosa ha fatto la chiesa del Sudan e lei in particolare in questo periodo di guerra?

La chiesa ha portato la causa dei Monti Nuba davanti alla comunità internazionale, e io ne sono divenuto il portavoce. Per cinque anni ho presentato la causa dei Monti Nuba nei miei discorsi alla Commissione dei diritti umani di Ginevra. Sono diventato la voce della mia gente davanti al governo italiano, britannico, tedesco, svizzero, canadese e statunitense. Ho parlato apertamente dell’olocausto al presidente Oscar Luigi Scalfaro, Mary Robinson, Madelein Albright, Colin Powell, Butrous Ghali, al Congresso e al Senato americano.
Adesso il nome dei Monti Nuba è conosciuto. Il senatore americano John Danforth, nominato Presidential Envoy, ci ha visitati con la sua delegazione; abbiamo discusso sulle possibilità per arrivare al cessate il fuoco, che tuttora continua anche se ci sono ancora gravi incidenti commessi dalle forze armate di Khartoum. La chiesa per tutto il periodo dell’isolamento è stata ancora la speranza del popolo nubano.
Nel 1995 sono riuscito a portare due sacerdoti e un fratello religioso sui Monti Nuba; in seguito, altri sacerdoti hanno condiviso con la gente bombardamenti e devastazioni. Anch’io con grave rischio ho ripreso a visitare la mia gente per natale e pasqua. Malgrado tutto la chiesa è stata accanto alla gente come segno di speranza.

Può, con poche parole, definire la tragedia del Darfur?

Nel Darfur, che è parte della mia diocesi, si sta ripetendo quanto è successo sui Monti Nuba, cioè il genocidio di un popolo per la forzata arabizzazione e islamizzazione. L’unica differenza è l’interesse mostrato dai mass media. Molti nuba rifugiatisi nel Darfur, adesso, rientrano a casa e la chiesa cerca di aiutarli in questo reinsediamento, con appropriati micro-progetti.

Dopo il cessate il fuoco, stipulato nel 2002, e i colloqui di pace tra governo e Spla (Sudan People’s Liberation Army) terminati nel maggio 2004, quali sviluppi ha avuto e avrà la diocesi di El Obeid?

I catechisti sono sempre stati la «spina dorsale» della chiesa sui Monti Nuba: hanno mantenuto vivo il messaggio cristiano anche in assenza dei sacerdoti. Adesso stiamo, però, facendo aggioamenti e formazione, perché qualche catechista si riteneva diacono o addirittura sacerdote.
Dal 1995 ci sono sempre stati sacerdoti africani sui Monti Nuba nelle zone rurali, con grande rischio e pericolo, perché i grandi centri erano controllati dalle forze governative. Avevamo riaperto la parrocchia di Kauda, ripetutamente bombardata, e di Gidel. Ora è stata riaperta anche la parrocchia di Lumon, che ci ha dato parecchie vocazioni.
Abbiamo tre seminaristi che dovrebbero iniziare i corsi di filosofia a Khartoum. Ci sono sei sacerdoti e presto dovrebbero arrivae altri quattro. Abbiamo anche una quindicina di suore (Comboniane, Preziosissimo Sangue, Madre Teresa di Calcutta), che si occupano dell’istruzione e della promozione della donna, seguono i corsi di formazione e le cornoperative.
I catechisti sono circa 100 e le comunità cristiane con chiesa cappella una cinquantina. Abbiamo scuole elementari, ma procederemo con la costruzione di scuole superiori e tecniche. Abbiamo scavato 150 pozzi, portando acqua a molti villaggi. Stiamo costruendo un ospedale.
Abbiamo chiesto al card. Sepe di sollecitare le congregazioni missionarie a venire sui Monti Nuba, ora è possibile. I nostri sacerdoti sono giovani, ancora traumatizzati dalla guerra, e hanno bisogno di un sostegno morale, psicologico e di buoni esempi per ricostruire la chiesa su basi solide. I cattolici sui Monti Nuba sono ormai 100 mila. La nostra chiesa è una chiesa martire, che dona alle chiese d’Occidente i frutti del suo martirio.

Quale messaggio desidera inviare ai cristiani della vecchia Europa?

Viviamo in un mondo pieno di inganni, menzogne e falsità, permeato da secolarismo e indifferenza. Uomini e donne che vivono la verità sono crocifissi. Non abbiate paura di dichiarare che siete cristiani. Non dimenticate le vostre radici e tradizioni. Cristo era, è e sarà. Chi vive senza Dio non può portare la pace.
In Sudan essere cristiano vuol dire accettare la sofferenza. In Italia si dice che l’Europa è una chiesa che dona e l’Africa è una chiesa che riceve. Ed è vero. Ma anche la chiesa del Sudan è una chiesa che dona e la chiesa d’Europa è una chiesa che riceve. Noi doniamo la nostra sofferenza, il martirio dei nostri giovani, le lacrime delle nostre vedove, la schiavitù dei nostri bambini. Un dono grande di conciliazione alla chiesa universale perché siamo sulla croce di Cristo.
Pregate per il Darfur dove stanno sterminando cristiani e musulmani neri, perché ritenuti di seconda categoria. Dicono che è una guerra santa, ma non esiste una guerra santa! Dio non vuole la guerra.
Solo con un’adeguata conoscenza è possibile il dialogo. L’Europa si dimostra superficiale nel dare, dare senza adeguata conoscenza e preparazione. Non svendete i vostri valori e le vostre tradizioni. State giocando con il fuoco. Anch’io ho fatto pozzi, scuole e l’ospedale per cristiani e musulmani ed ho iniziato un autentico dialogo di pace.
Ricordate cosa disse il santo padre all’apertura della moschea di Roma: chiedete sempre la reciprocità.


Silvana Bottignole