Intervista al vescovo mons. Macram Gassis

Sudan: la chiesa tra i nuba
40 ANNI DI CROCIFISSIONE

Nel gennaio scorso è stato firmato un accordo di pace per il sud Sudan, che suscita molte perplessità, anche perché il Darfur non è compreso nell’accordo.
Si spera, comunque, che l’accordo possa portare buoni frutti.


Il 31 ottobre 2004 mons. Macram Gassis, vescovo di El Obeid (Sudan) ha benedetto il restauro della chiesa di San Rocco «simbolo di pace» a Rivoli (TO). Gli abbiamo rivolto alcune domande sulla situazione della sua gente e un messaggio per i cristiani della vecchia Europa.

Eccellenza, come gruppo Bakhita-Follereau, la conosciamo dal 1994; attraverso le sue testimonianze e lettere partecipiamo alle sofferenze della sua gente, cercando di offrire concreti gesti di solidarietà. Può dirci com’è diventato missionario comboniano e poi vescovo di El Obeid?

Fu il vescovo di Khartoum, mons. Agostino Guaroni, italiano di Bologna, a incoraggiarmi perché diventassi comboniano. Nel 1955, partii per l’Inghilterra, feci il noviziato e gli studi di filosofia presso i comboniani. Nel 1960 mi fu concessa una breve vacanza e, dopo cinque anni, potei riabbracciare la mia famiglia a Khartoum, mio luogo di nascita.
Frequentai, poi, i corsi di teologia in Italia, a Venegono e Verona, e fui ordinato prete nel 1964, proprio a Verona alla vigilia della festa dei Santi Pietro e Paolo dal card. Gregorio Pietro Aghagianian, prefetto di Propaganda fide. Il giorno della festa dell’Assunta feci l’ingresso nella cattedrale di Khartoum: ero il primo e unico sacerdote religioso della diocesi di Khartoum. Attualmente in Sudan ci sono 12 vescovi, di cui 10 sudanesi, ma io sono l’unico vescovo del nord Sudan, di madre lingua araba e cresciuto in ambiente islamico. Riesco, perciò, a leggere tra le righe i discorsi del governo.
Provengo da una famiglia cristiana o meglio ecumenica: mio padre era cattolico, mia madre protestante ed i nonni matei ortodossi copti. Dal 1964 al 1979 prestai il mio ministero nella diocesi di Khartoum, prima come vice parroco e poi come parroco per aprire nuove parrocchie. Inoltre, poiché potevo dialogare con il governo, ebbi molti incarichi a livello diocesano (cancelliere, incaricato delle scuole cattoliche, cappellano dell’Associazione san Vincenzo de Paoli).
Nel 1984 fui nominato amministratore apostolico della diocesi di El Obeid, allora vacante, e nel 1988 vescovo della stessa. È così iniziata la mia via crucis. Portai, infatti, sacerdoti e suore di varie congregazioni (Maryknoll, Comboniani, Aposteles of Jesus, suore di Madre Teresa di Calcutta), ma a tutti non fu permesso di restare nel paese.
Nel 1990 lasciai la diocesi per motivi di salute; poi mi fu consigliato di non rientrare perché molto pericoloso. Avevo, infatti, denunciato apertamente le ingiustizie contro la mia gente. Come già dissi nella mia visita a Torino del giugno 1994, il 4 gennaio di quell’anno ero tornato in Sudan e potei visitare 4 diocesi del sud Sudan ma non la mia. Incontrai, però, una delegazione di circa 100 cristiani della mia diocesi che dai Monti Nuba aveva camminato per 70 giorni a piedi per potersi incontrare con me. Fu un incontro davvero ricco di emozioni.

Quali sono le cause della guerra che dal 1984 ha dilaniato i Monti Nuba? Quante sono state le vittime? È possibile descrivere la sofferenza dei cristiani?

La guerra è stata causata dalle ingiustizie inflitte dal governo. A dir la verità non l’ho mai chiamato governo ma «regime di Khartoum». I Monti Nuba sono sempre stati considerati popolati da negri e per questo si è cercato di arabizzarli, confiscando le 750 scuole private costruite dai missionari cattolici e protestanti.
L’espulsione dei missionari ha esacerbato l’anima della gente che ha visto, nel 1963, i loro pastori caricati sui camion come pecore da macello. Ha visto bruciare 161 chiese cattoliche e protestanti sui Monti Nuba. Quando c’è troppa oppressione e ingiustizia la situazione scoppia. Tutti i posti di potere sono sempre stati occupati dalla gente del nord, sia nel governo che nell’esercito. Alla gente del sud erano riservati ruoli subaltei. Le scuole ormai si erano trasformate in agenzie di arabizzazione e islamizzazione forzata. La gente si è ribellata.
È scoppiata la guerra civile, sfociata nel genocidio dei Nuba. Infatti, la parola genocidio è appropriata quando si vuole privare un popolo delle sue tradizioni, lingua e cultura. La questione del petrolio è venuta dopo. Abbiamo contato circa 2 milioni e mezzo di morti e 5 milioni di rifugiati.

Che cosa ha fatto la chiesa del Sudan e lei in particolare in questo periodo di guerra?

La chiesa ha portato la causa dei Monti Nuba davanti alla comunità internazionale, e io ne sono divenuto il portavoce. Per cinque anni ho presentato la causa dei Monti Nuba nei miei discorsi alla Commissione dei diritti umani di Ginevra. Sono diventato la voce della mia gente davanti al governo italiano, britannico, tedesco, svizzero, canadese e statunitense. Ho parlato apertamente dell’olocausto al presidente Oscar Luigi Scalfaro, Mary Robinson, Madelein Albright, Colin Powell, Butrous Ghali, al Congresso e al Senato americano.
Adesso il nome dei Monti Nuba è conosciuto. Il senatore americano John Danforth, nominato Presidential Envoy, ci ha visitati con la sua delegazione; abbiamo discusso sulle possibilità per arrivare al cessate il fuoco, che tuttora continua anche se ci sono ancora gravi incidenti commessi dalle forze armate di Khartoum. La chiesa per tutto il periodo dell’isolamento è stata ancora la speranza del popolo nubano.
Nel 1995 sono riuscito a portare due sacerdoti e un fratello religioso sui Monti Nuba; in seguito, altri sacerdoti hanno condiviso con la gente bombardamenti e devastazioni. Anch’io con grave rischio ho ripreso a visitare la mia gente per natale e pasqua. Malgrado tutto la chiesa è stata accanto alla gente come segno di speranza.

Può, con poche parole, definire la tragedia del Darfur?

Nel Darfur, che è parte della mia diocesi, si sta ripetendo quanto è successo sui Monti Nuba, cioè il genocidio di un popolo per la forzata arabizzazione e islamizzazione. L’unica differenza è l’interesse mostrato dai mass media. Molti nuba rifugiatisi nel Darfur, adesso, rientrano a casa e la chiesa cerca di aiutarli in questo reinsediamento, con appropriati micro-progetti.

Dopo il cessate il fuoco, stipulato nel 2002, e i colloqui di pace tra governo e Spla (Sudan People’s Liberation Army) terminati nel maggio 2004, quali sviluppi ha avuto e avrà la diocesi di El Obeid?

I catechisti sono sempre stati la «spina dorsale» della chiesa sui Monti Nuba: hanno mantenuto vivo il messaggio cristiano anche in assenza dei sacerdoti. Adesso stiamo, però, facendo aggioamenti e formazione, perché qualche catechista si riteneva diacono o addirittura sacerdote.
Dal 1995 ci sono sempre stati sacerdoti africani sui Monti Nuba nelle zone rurali, con grande rischio e pericolo, perché i grandi centri erano controllati dalle forze governative. Avevamo riaperto la parrocchia di Kauda, ripetutamente bombardata, e di Gidel. Ora è stata riaperta anche la parrocchia di Lumon, che ci ha dato parecchie vocazioni.
Abbiamo tre seminaristi che dovrebbero iniziare i corsi di filosofia a Khartoum. Ci sono sei sacerdoti e presto dovrebbero arrivae altri quattro. Abbiamo anche una quindicina di suore (Comboniane, Preziosissimo Sangue, Madre Teresa di Calcutta), che si occupano dell’istruzione e della promozione della donna, seguono i corsi di formazione e le cornoperative.
I catechisti sono circa 100 e le comunità cristiane con chiesa cappella una cinquantina. Abbiamo scuole elementari, ma procederemo con la costruzione di scuole superiori e tecniche. Abbiamo scavato 150 pozzi, portando acqua a molti villaggi. Stiamo costruendo un ospedale.
Abbiamo chiesto al card. Sepe di sollecitare le congregazioni missionarie a venire sui Monti Nuba, ora è possibile. I nostri sacerdoti sono giovani, ancora traumatizzati dalla guerra, e hanno bisogno di un sostegno morale, psicologico e di buoni esempi per ricostruire la chiesa su basi solide. I cattolici sui Monti Nuba sono ormai 100 mila. La nostra chiesa è una chiesa martire, che dona alle chiese d’Occidente i frutti del suo martirio.

Quale messaggio desidera inviare ai cristiani della vecchia Europa?

Viviamo in un mondo pieno di inganni, menzogne e falsità, permeato da secolarismo e indifferenza. Uomini e donne che vivono la verità sono crocifissi. Non abbiate paura di dichiarare che siete cristiani. Non dimenticate le vostre radici e tradizioni. Cristo era, è e sarà. Chi vive senza Dio non può portare la pace.
In Sudan essere cristiano vuol dire accettare la sofferenza. In Italia si dice che l’Europa è una chiesa che dona e l’Africa è una chiesa che riceve. Ed è vero. Ma anche la chiesa del Sudan è una chiesa che dona e la chiesa d’Europa è una chiesa che riceve. Noi doniamo la nostra sofferenza, il martirio dei nostri giovani, le lacrime delle nostre vedove, la schiavitù dei nostri bambini. Un dono grande di conciliazione alla chiesa universale perché siamo sulla croce di Cristo.
Pregate per il Darfur dove stanno sterminando cristiani e musulmani neri, perché ritenuti di seconda categoria. Dicono che è una guerra santa, ma non esiste una guerra santa! Dio non vuole la guerra.
Solo con un’adeguata conoscenza è possibile il dialogo. L’Europa si dimostra superficiale nel dare, dare senza adeguata conoscenza e preparazione. Non svendete i vostri valori e le vostre tradizioni. State giocando con il fuoco. Anch’io ho fatto pozzi, scuole e l’ospedale per cristiani e musulmani ed ho iniziato un autentico dialogo di pace.
Ricordate cosa disse il santo padre all’apertura della moschea di Roma: chiedete sempre la reciprocità.


Silvana Bottignole




Ho visto meraviglie

Dopo aver predicato gli esercizi spirituali
a un gruppo di missionari di Reggio Emilia,
padre Alex, missionario della Consolata,
ne approfitta per visitare e raccontare
le loro attività.

«Sei fortunato ragazzo!» dico a un giovanotto, portatore di handicap e privo dell’uso di braccia e gambe, mentre viene imboccato da una volontaria di Reggio Terzo Mondo (Rtm). «La fortunata sono io» risponde Alessia Antonelli, 33 anni, arrivata in Madagascar per dirigere un progetto di sicurezza alimentare ad Ampasimanjeva. Per il momento sta studiando il malgascio nella «Casa della carità» di Fianarantsoa, 400 km a sud di Antananarivo, capitale del Madagascar.
Sono le sette di mattina. I disabili, puliti e rivestiti da suor Maddalena Razafiarisoa, coadiuvata da tre giovani consorelle malgasce e un paio di novizi, sono quasi tutti a tavola per la colazione: un abbondante piatto di riso e una tazza di latte. Altri ospiti, impossibilitati a nutrirsi da soli, sono imboccati dalle suore e personale locale.
«È il primo miracolo del vangelo dell’amore – spiega don Giovanni Caselli, da 8 anni in Madagascar, responsabile del ramo maschile delle Case della carità -. I malgasci accudiscono i portatori di handicap come fratelli o sorelle; prima venivano relegati in un angolo della casa ed erano gli ultimi a essere serviti».
Le Case della carità furono fondate, insieme a due famiglie religiose, da don Mario Prandi (1919-1989), per accogliere i disabili della diocesi di Reggio Emilia. Ben presto tale istituzione si estese in altre parti d’Italia e del mondo. Nel 1967, 3 suore, 3 preti e 5 religiosi laici delle Case della carità, inviati in nome e con il sostegno della diocesi di Reggio, aprirono la prima missione nel Madagascar. Per affiancare le loro attività, don Prandi dava vita a Reggio Terzo Mondo, organismo non governativo di volontari laici.
«Dopo 38 anni – spiega don Giovanni – in Madagascar ci sono 11 Case della carità, con 30-35 disabili ognuna, un ospedale con oltre 100 letti, un centro di preghiera, due case di formazione per vocazioni maschili e femminili, scuole e dispensari in varie parrocchie. Inoltre, le Case della carità contano 60 suore, 4 preti e 3 fratelli laici di origine malgascia. Una fioritura prodigiosa».

Nei 400 km tra Antananarivo a Fianarantsoa, di meraviglie ne vedo molte altre. La strada si snoda su un altopiano oscillante tra 1.000-1.300 metri di altitudine, correndo lentamente lungo una serie infinita di crinali, vallette e terrazze disseminate di risaie, colline di laterite rosso sangue, da cui il Madagascar deriva il soprannome di «isola rossa».
Ad Antsirabe, una cittadina di 100 mila abitanti a 160 km dalla capitale, gli ospiti della Casa della carità ci accolgono con grida di gioia, anche perché riportiamo a casa suor Lucia, di ritorno dagli esercizi spirituali.
Suor Lucia Ghini fa parte del primo drappello inviato nel Madagascar: a 80 anni suonati, insieme a tre suore malgasce, dirige la Casa della carità con l’entusiasmo che aveva nel 1967.
Incontro July, una ragazza focomelica, che parla benissimo italiano: è stata per alcuni anni ospite di una famiglia di Sassuolo, che le aveva procurato le protesi. Toata a casa, però, non le ha più usate: dice che si sente meglio senza. I suoi moncherini non misurano più di 15 centimetri; eppure, mentre parla, continua a tagliare il radicchio con tutta naturalezza. Le chiedo di darmi il suo nome: prende carta e penna e scrive il proprio nome, insieme all’indirizzo dei benefattori in Italia.
Un’altra missionaria della vecchia guardia la incontro ad Ambositra: è suor Margherita Brandizzo. A 76 anni è ancora superiora della comunità e continua il ritmo di vita come 38 anni fa: sveglia alle 4,55 ogni mattino; levata e pulizia degli ospiti, insieme alle suore malgasce, alle aspiranti e agli aspiranti, per essere pronti alla messa delle 6,30.
Da questo incontro mattutino e da altri appuntamenti giornalieri, dice, le viene la capacità di riconoscere Gesù in persona nei disabili fisici e mentali e servirli con amore.
È soprattutto dal suo esempio che altre 58 ragazze malgasce hanno fatto la sua stessa scelta di consacrarsi al servizio dei fratelli e sorelle, dentro e fuori del paese. Tra italiani e malgasci, sono oltre un centinaio i membri delle congregazioni delle Case della carità e da vari anni hanno aperto altre missioni in Brasile, Rwanda e India.
Non lontano dalla Casa della carità sorge il Foyer, un complesso ambulatoriale diretto dal laico reggiano Luciano Lanzoni, dove vengono curati circa 5 mila pazienti: lebbrosi, tubercolosi, handicappati fisici e mentali.
Come ai tempi di Gesù «gli zoppi camminano, i lebbrosi sono guariti». «Ai disabili fisici sono applicate protesi di vario tipo e tornano a camminare – racconta Luciano -; ai lebbrosi, grazie alle cure tempestive e costanti, viene restituita una nuova vita nella società; i tubercolosi sono trattenuti per tre mesi e rimandati a casa completamente guariti. Per gli handicappati mentali la cosa è più complessa; tuttavia, sono molti quelli che vengono recuperati, perché la loro malattia deriva spesso dall’estrema miseria in cui sono costretti a vivere».
D opo un buon caffè di arabica, coltivata sul posto, riprende il viaggio verso sud-est. La Land Rover è strapiena di scatoloni di medicine. Alcuni devono essere lasciati per far posto a Massimo, laico del Rtm, suor Maria Goretti, suora malgascia, e sottoscritto.
È alla guida don Gino Bolognesi, prete fidei donum della diocesi di Reggio Emilia, da 10 anni responsabile della comunità e delle opere di Ampasimanjeva, aiutante del parroco malgascio nel lavoro pastorale, professore di sacra scrittura nel seminario teologico della capitale.
Dall’altopiano scendiamo gradualmente verso la costa, attraverso una foresta dalla vegetazione spettacolare e primitiva, intramezzata da qualche coltivazione di riso. Dopo un centinaio di chilometri, caracolliamo su colline verdi, punteggiate di palme e bananeti, disseminate di piccoli villaggi con le case in legno e tetti di foglie di palma.
La vegetazione riesplode in prossimità dell’Oceano Indiano. Costeggiamo un fiume popolato da coccodrilli, unici animali selvatici della fauna africana presente nell’isola, insieme ai lemuri, una specie di scimmie tipiche del Madagascar.
Dopo oltre 7 ore di viaggio, entriamo nel complesso ospedaliero di Ampasimanjeva. A cena la comunità, internazionale ed eterogenea, è al completo: don Gino e quattro suore locali, il dottor Martin, primario malgascio, Matteo e Massimo, volontari del Rtm. Ma la mia attenzione è tutta per Giorgio Predieri, 56 anni, dal 1972 missionario ad Ampasimanjeva. È lui il fondatore dell’ospedale, vero fiore all’occhiello della missione reggiana: con oltre 100 posti letto e il servizio giornaliero a circa 200 malati estei, è l’unica struttura sanitaria di una regione grande come l’Emilia.
Oltre all’ospedale, lo stesso missionario ha provveduto a tutte le costruzioni della parrocchia, come scuole, chiese e dispensari; e continua ad amministrare il complesso sanitario, avendo alle sue dipendenze 50 persone locali, tra le quali 4 dottori. Per il suo indefesso lavoro, ha ricevuto il premio dell’organizzazione Cuore Amico di Brescia come «laico dell’anno 2002», una specie di mini Nobel per la missione.
Dopo cena, mentre il dottor Martin lava i piatti e Massimo, Matteo e il sottoscritto li asciughiamo, vedo un biberon messo in acqua bollente per la sterilizzazione. Domando a suor Mariane Rahuntanirina se c’è qualche altro ospite.
«Certo – risponde -. È Patrice Rafanomezantzoa (dono profumato), un gemello abbandonato da sua madre che ha partorito all’ospedale. Purtroppo l’abbandono dei gemelli più deboli è un costume ancora in voga. Grazie a Dio, però, riusciamo a salvarli: li alleviamo e poi cerchiamo chi li adotta».
La suora lo prende in braccio e me lo mostra: sembra più piccolo della mano della religiosa; pesa un chilo e mezzo, ma sta bene e sopravvivrà.
«Dono Profumato», un nome simpatico per esprimere un’altra meraviglia del vangelo, che sconfigge superstizioni e tradizioni culturali che puzzano di morte.

La mattina faccio un giro in ospedale e scopro altre novità. In una zona del complesso vedo varie costruzioni modeste e domando chi vi abita. «Vi sono i malati di tubercolosi – spiega la dottoressa Isabelle Hortense Ranaivo -. Li alloggiamo qui per almeno tre mesi, cioè, per tutto il tempo necessario alla cura completa della malattia. Restando a casa, ogni cura sarebbe inutile, per l’incostanza nel prendere le medicine, oltre al rischio di propagare la malattia».
Mi informo a lungo sulle malattie più frequenti della zona. «La tubercolosi è in aumento, insieme ad altre infezioni respiratorie – spiega la dottoressa -. L’Aids non sembra ancora diffusa; ma non abbiamo mezzi sufficienti per fare tutti gli esami necessari per diagnosticarla. Tuttavia, la malattia più diffusa è la malaria. Per ora colpisce in forme curabili, ma per i bambini è spesso mortale e produce molta gente anemica. Molto frequente è pure la drepanocitosi, una malattia genetica per cui si nasce con i globuli rossi a forma di banana anziché rotondi. Il morbo lascia poche speranze di vita; chi sopravvive la trasmette ai propri figli.
Verminosi e infezioni tifoidee, soprattutto, sono all’ordine del giorno per mancanza di igiene e per l’acqua altamente inquinata. Mancando i servizi igienici, le piogge convogliano tutto nei fiumi e risaie, da cui viene attinta l’acqua per usi domestici. I bambini sono le vittime più colpite da tale situazione di miseria sociale e ambientale».
«L’aborto è praticato?» domando timidamente. «Ci sono alcuni casi; ma le gravidanze indesiderate sono rare: il bambino è sempre ritenuto un dono di Dio».
A ccanto alla Casa della carità sorge la sede dei volontari di Reggio Terzo Mondo. Massimo Ambrosini, trentenne, da un paio d’anni segue un progetto di sicurezza alimentare, che prevede la costruzione di 8 dighe in terra battuta per la raccolta e distribuzione dell’acqua per la coltivazione del riso.
La prima diga (50 metri di lunghezza, 15 metri di base e 3,5 di altezza) è già stata completata nel giro di tre mesi, impiegando una ventina di operai, muniti di pale e carriole, senza alcun mezzo meccanico. L’opera è completata da due pozzi scavati a mano.
Un altro laico del Rtm è il trentunenne Matteo Caprotti, che da tre anni segue un progetto per il contenimento della filariosi (elefantiasi). «Questa malattia – spiega – è causata dall’elevato numero di punture di zanzare, fino a depositare nel sangue una tale quantità di microfilaria da invadere e ingorgare il sistema linfatico, facendo ingrossare alcune membra, le gambe soprattutto. Si calcola che il 50% della popolazione della zona ne sia affetto, anche se non tutti ne mostrano le conseguenze più appariscenti. Il nostro progetto segue circa 170 mila persone».
Generalmente l’impegno di questi volontari dura tre anni; eppure si rivela preziosissimo per sostenere ed estendere l’attività dei missionari e missionarie delle Case della carità, che alla missione dedicano tutta la vita. Anch’essi compiono meraviglie di vario genere.
Simona Puttini, per esempio, cornordina un progetto di aiuti alimentari (World Food Programme). Buona parte di tali aiuti provvedono il pranzo a migliaia di alunni delle scuole nella periferia della capitale malgascia. Oltre al settore scolastico, il programma raggiunge bambini denutriti, portatori di handicap, carcerati, malati di tubercolosi in 45 centri nella capitale e nelle zone rurali.
Da due anni Andrea Guerrini ed Elisa Alberti gestiscono un programma di sviluppo dell’artigianato. Oltre a promuovere corsi di formazione per gli artisti e procurare loro strumenti e materiali per sviluppare i loro talenti, li aiutano nella gestione e commercializzazione dei prodotti. È nata così la Fiavotana, associazione di 181 artisti, divisi in 14 gruppi, che affrontano con disinvoltura le sfide del mercato.
Goffredo Sacchetti cornordina un progetto di promozione agricola e artigianato a 220 chilometri a ovest di Antananarivo. Controparte locale del progetto sono i gesuiti, che hanno un Centro di formazione agricola e scuola professionale.
«Il futuro del Madagascar è all’ovest – afferma il volontario -. Qui il terreno non è ancora sfruttato ed è ricco di acqua. Noi formiamo giovani all’agricoltura e al rispetto dell’ambiente; insegniamo nuove tecniche di allevamento, a gestire i loro prodotti e diamo gli strumenti agricoli per cominciare a sviluppare il terreno messo a disposizione dallo stato. Dopo 25 anni di lavoro sulla stessa terra, i coltivatori ne diventano proprietari».
Il progetto dura tre anni, ma Goffredo, 46 anni, dal 1989 con Rtm, non vuole sentire parlare di ritorno in Italia. «Anzi – conclude -, vorrei fare appello ai giovani italiani, perché vengano a dare una mano allo sviluppo di questo paese; è una vera fortuna: si riceve molto più di quanto si possa dare».

Alex Moreschi




Futuro… in costruzione

Fratel Domenico ha sfidato i rischi della lunga guerra che ha insanguinato lo Zaire, oggi Repubblica democratica del Congo.
La pace non sembra ancora in vista, ma egli continua, mattone su mattone,
a costruire un futuro di speranza per i congolesi.

Da oltre 20 anni mi trovo nella Repubblica Democratica del Congo, precisamente nella regione nord-orientale dell’Alto Uele. La mia attività si è svolta in tre centri missionari: Neisu, Doruma, Isiro.

PRIMO AMORE
Per 8 anni a Neisu, ebbi la fortuna di lavorare insieme al compianto padre Oscar Goapper, medico missionario della Consolata, portando avanti la costruzione dell’ospedale da lui ideato e gestito. Erano anni felici.
Oltre all’ospedale, con una capacità di 150 posti letto e relativi servizi, ero impegnato nell’edificazione della scuola elementare, della residenza dei missionari e di altre strutture necessarie al funzionamento delle attività religiose e di sviluppo promosse dalla missione.

A PIEDI SCALZI
Nel 1994 ero a Doruma, un grosso villaggio a una decina di chilometri dal confine con il Sudan. Vi rimasi per 5 anni. Oltre all’amministrazione, mi occupavo dell’officina meccanica e della falegnameria. Al tempo stesso mi fu affidata la responsabilità di portare a termine alcune cappelle rimaste da molto tempo incompiute.
Isolata dal resto del paese, Doruma era dimenticata dal governo centrale e le poche strutture pubbliche erano in pessime condizioni. Il superiore della missione decise di affidarmi il compito di provvedere anche alle riparazioni dell’ospedale locale e delle scuole pubbliche.
Intanto era scoppiata la guerra dei Grandi Laghi, che ben presto si estese allo Zaire, provocando la caduta del regime di Mobutu e lo sfascio del suo esercito. Tra la fine del 1996 e l’inizio del ’97, vivemmo momenti drammatici. Inseguiti dagli invasori ugandesi e rwandesi, i soldati di Mobutu si diedero alla fuga, abbandonandosi a razzie e saccheggi dovunque passassero, non esitando a uccidere chiunque opponesse resistenza. Le missioni dell’Alto Uele furono depredate.
Anche a Doruma, fummo costretti ad abbandonare la missione e rifugiarci nella foresta, insieme con le suore congolesi. Per 15 giorni vivemmo sotto un tendone, finché riuscimmo a imbarcarci insieme agli altri missionari della regione su un piccolo aereo, provveduto da varie ambasciate europee, e raggiungemmo Kisangani e poi Kinshasa.
Quando nella regione, ormai sotto il controllo dei soldati ugandesi, sembrò ritornata la calma, affrontammo varie peripezie per raggiungere Isiro; quindi ci preparammo a rientrare nelle rispettive missioni.
Il superiore padre Ariel Hoyos mi accompagnò a Doruma, insieme a padre Honoré Tsiditeta, giovane confratello congolese. Il viaggio fu lungo, ma senza intoppi. Anzi, lungo la strada la gente ci salutava calorosamente, felice per il nostro ritorno. Arrivati nella parrocchia, le suore congolesi e la popolazione si strinsero attorno a noi, mostrandoci tutta la loro gioia e il loro affetto.
Riprendemmo le nostre attività. La gente pensava che la guerra fosse finita. Noi lo speravamo. Ma all’inizio di ottobre del 1998, arrivò a Doruma una colonna di ribelli sudanesi, che circondarono la missione, dicendoci che erano venuti con intenzioni pacifiche. Invece, ci fecero sedere tutti nella veranda, guardati da quattro «angeli custodi», armati di fucile e granate, mentre gli altri svuotarono le camere, uffici e magazzini. Requisirono pure le nostre auto, per portare il bottino oltre il confine.
Il giorno seguente, sfruttando una loro disattenzione, riuscimmo a eludere la loro sorveglianza e, con l’aiuto della popolazione, ci rifugiammo in un lontano villaggio nella foresta. Vi restammo per un mese, alloggiati in una capanna, affrontando i numerosi disagi della situazione, sostenuti dalla generosità dei nostri cristiani.
All’inizio di novembre, dopo aver derubato e saccheggiato tutta la popolazione di Doruma, i ribelli sudanesi si decisero a rientrare nel proprio paese e potemmo tornare alla missione: la trovammo spoglia di tutto. Ma riprendemmo lentamente le nostre attività per quanto fu possibile.
Seguirono tre mesi di grande incertezza. A più riprese, gli allarmi di eventuali scorribande di ribelli ci costrinsero a mettere in un sacco le poche cose personali che ci erano rimaste e fuggire nella foresta.
Uniti ai nostri cristiani celebrammo il natale nella più squisita semplicità e povertà. Approfittando di un momento di calma relativa, un giovane riuscì a portarci i saluti del nostro superiore, percorrendo in bicicletta i 350 km di strada tra Isiro e Doruma.
Nel suo messaggio padre Ariel diceva che sarebbe giunto da noi al più presto e ci avrebbe portato le cose di prima necessità, comprese le lampade a petrolio. Infatti, arrivò ai primi di febbraio del ’99. La sera facemmo un po’ di festa e ci scambiammo le notizie: erano otto mesi che non ci vedevamo.
La notte trascorse nella calma, ma alle prime ore del mattino fummo svegliati da rumori strani, come sbattere di porte. Ci alzammo in fretta per vedere che cosa stesse succedendo; ma nell’aprire la porta ci trovammo le armi puntate dei militari sudanesi. Ci intimarono di lasciare tutto; ci spinsero fuori; ci fecero sedere sui gradini, e cominciarono a rastrellare tutto quello che trovavano, compresi materassi, coperte e biciclette. Al padre Ariel tolsero pure le scarpe e le calze, lasciandolo a piedi nudi.
Tutto ciò durò circa un’ora, quando si udirono degli spari provenienti dal villaggio. Sentendosi circondati dai giovani armati di Doruma, i ribelli sudanesi, una quarantina, cominciarono a sparare e lanciare granate, per coprirsi la ritirata. Ognuno di noi cercò un rifugio per scampare dai tiri incrociati.
La sparatoria durò un’ora buona. Ne aspettammo un’altra, prima di uscire dai nostri nascondigli e radunarci sotto il porticato della nostra casa. Ci ritrovammo con ciò che avevamo addosso. Seduta stante, il superiore, padre Ariel, decise di ritirarci momentaneamente dalla missione, in attesa di tempi migliori.

RICOSTRUIRE LA SPERANZA
Alle 9.30 del 4 febbraio 1999, salimmo sulla Land Rover, che i ribelli non ebbero tempo di rubare, e lasciammo Doruma con tanta tristezza, promettendo ai nostri cristiani in lacrime di tornare presto. Era invece un addio definitivo, poiché il vescovo decise di sostituirci con due preti diocesani locali, affidando ai missionari della Consolata il compito di organizzare una nuova missione a Mbengu, a 30 km dalla sede vescovile di Dungu.
La sera raggiungemmo la missione comboniana di Rungu, dove celebrammo la messa di ringraziamento per lo scampato pericolo. All’indomani riprendemmo il viaggio e giungemmo a Isiro accolti con gioia dai nostri confratelli.
A Isiro, fin dai primi mesi, sono stato coinvolto nell’iniziativa, lanciata dal superiore regionale, per aiutare i giovani e bambini in difficoltà. Per tale scopo, ci fu dato un terreno con una costruzione non terminata, che abbiamo completato e adattato come Centro di alimentazione per bambini debilitati e ammalati, vittime degli effetti della guerra. Il Centro funziona a pieno ritmo. Siamo riusciti a salvare molti bambini, dando anche una formazione igienica e sanitaria alle loro mamme.
Oltre a fornire alimenti, il Centro ha un laboratorio di analisi, in base alle quali possiamo fornire gratuitamente le medicine necessarie per guarire. Abbiamo ottenuto ottimi risultati con centinaia di bambini. Il 90% dei casi hanno riacquistato la completa guarigione. Alcuni di essi, purtroppo, sono così debilitati, che i risultati sono incerti, soprattutto con i sieropositivi. Tuttavia anche per questi facciamo tutto il possibile per salvarli.
Ci occupiamo pure di bambini che non frequentano la scuola, perché sono orfani o di genitori in estrema povertà. Ad essi paghiamo mensilmente la retta scolastica. Una volta la settimana, il Centro accoglie oltre 200 poveri, ai quali viene dato un po’ di riso, sapone, sale e qualche soldo per poter sopravvivere.
Ogni mercoledì visitiamo i carcerati. Sono una sessantina, alloggiati in un capannone in disuso, diviso in due: una parte riservata alle donne, l’altra agli uomini. Dopo una breve preghiera, i miei collaboratori mi aiutano a distribuire cibo e medicine a chi ne ha bisogno.

IL FUTURO E’ GIOVANE
In questi ultimi mesi buona parte del mio tempo è occupato nella costruzione e ristrutturazione della Maison père Oscar, una casa per studenti provenienti dalle nostre missioni, che frequentano le scuole superiori e universitarie di Isiro. È intitolata al nostro indimenticabile missionario medico padre Oscar Goapper.
La Maison sorge accanto alla clinica universitaria, su un terreno donato dal capo tradizionale della missione di Neisu, di recente convertito e battezzato da padre Antonello Rossi. Le sue strutture murarie sono state completate e ospitano già alcuni giovani studenti, anche se la casa non è completamente arredata. Si è provveduto anche a fornire l’ostello di un’ampia biblioteca, che sarà aperta a tutti gli studenti della città, e di un auditorium, intitolato al nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano.
Inoltre, la Maison ospita il dipartimento di Scienze religiose, per la formazione di insegnanti di religione, agenti di pastorale e diaconi permanenti. L’iniziativa vuole essere un contributo per elevare la situazione culturale della gente tra cui siamo chiamati a testimoniare il vangelo.
Speriamo, inoltre, che quest’opera sia un piccolo tassello per costruire la pace, il dono più desiderato dai nostri congolesi.

Domenico Bugatti




La storia sui… binari

Si tratta della «Transcanadese», pezzo del nostro immaginario collettivo
dove il viaggio è visto ancora come esplorazione e conquista.
Attraverso luoghi incantati, carichi di storia, i segni del non sempre facile rapporto tra nativi e «invasori», tra autonomia e cedimenti alla moda dei… vicini.

Le tratte ferroviarie entrate a far parte della mitologia del viaggio, inteso come esplorazione e conquista, sono diverse, ma soltanto queste due – Transiberiana e Transcanadese – continuano a destare nell’immaginario collettivo quella miscela di fascino, mistero, avventura di cui oggi molti sentono la mancanza.
Se la Transiberiana è riuscita in gran parte a mantenere intatta la sua seduzione e a riproporre luoghi e popolazioni cambiati poco o niente nel corso della vita centenaria, la Transcanadese si è evoluta di pari passo con le conquiste tecnologiche, il progresso, i nuovi usi e costumi, perdendo molto del significato originario che era stato alla base della sua costruzione.
La Transiberiana è il frutto di una cultura e di uno spirito – quello russo – già formatosi e radicato nella popolazione, mentre le ferrovie canadesi hanno anticipato il decorso storico del Canada stesso, tanto da non apparire esagerato affermare che, se oggi il paese americano è una nazione, lo si deve essenzialmente alle sue ferrovie.
La Nova Scotia, il New Brunswick nel 1864 e la British Columbia nel 1871 siglarono il trattato di unione con la Confederazione solo dopo aver ottenuto dall’allora primo ministro J.A. Macdonald la promessa che le loro province sarebbero state unite al resto del paese con collegamenti ferroviari: rispettivamente, l’Imperial Canada Railway e la Canadian Pacific Railway (Cpr).
Lungo i binari di queste strade ferrate si sono consumati drammi umani, come la sconfitta del leggendario meticcio franco-indiano Louis Riel, nel 1885; o scandali politici, come quello che costrinse lo stesso Macdonald alle dimissioni nel 1873. Per la costruzione della Cpr sono stati ingaggiati migliaia di lavoratori dall’Asia e dall’Europa, tra cui 8 mila italiani; nuovi ceppi etnici che hanno reso città canadesi come Toronto, Montreal, Vancouver vivaci insalatiere etniche.
Ma la Cpr è stata anche lo strumento che ha portato il Canada ad adottare un atteggiamento così differente dagli Stati Uniti nei confronti degli aborigeni: la colonizzazione dell’ovest canadese da parte degli europei è proceduta di pari passo con la legge dello stato, evitando l’anarchia e gli stermini avvenuti più a sud.
E leggere la storia di un paese sui binari di un treno, osservandone i cambiamenti in atto, è l’intento che io, mia moglie Yasuko e mio figlio Daigo, ci siamo dati per questo viaggio che, a differenza di quanto accaduto per la Transiberiana, ha visto ridurre al minimo l’improvvisazione, grazie alla disponibilità, la cordialità e l’efficienza delle persone e degli enti contattati per ottenere interviste e visite.
Così, se da un lato percorrere la Transcanadese non presenta inconvenienti e problemi, dall’altro questa perfezione organizzativa ha in parte dissolto il clima pionieristico che è ancora tangibile, mentre si percorre il tratto russo. Anche lo schoc culturale, che un visitatore del vecchio mondo subisce nel giungere nel paese, non è così traumatico come può sembrare, osservando sull’atlante geografico la distanza che separa i due continenti.

Nostalgia di indipendenza

Il Québec, la porta d’accesso al Canada per la maggioranza degli europei, ha mantenuto intatta quell’atmosfera da Nouvelle France che tanto la differenzia da ogni altro stato nordamericano: le vie delle cittadine ripropongono nomi di personaggi reali e della chiesa preconciliare, come Boulevard Roi Louis xvii o Pie ix; nei negozi si vendono formaggi speziati e i villaggi si preannunciano con i campanili delle chiese cattoliche, attorno a cui si stringe la vita comunitaria.
La religione, assieme alla lingua, è uno dei due caratteri che hanno permesso al Québec di mantenere quel carattere mediterraneo che lo rende così unico e diverso dalle altre province canadesi. Del resto, fu il cardinale di Richelieu che, dopo aver fondato la Compagnie de la Nouvelle France nel 1627, diede il via alla sistematica colonizzazione e alla cristianizzazione di tutti i possedimenti francesi del Nord America; e fu ancora la chiesa cattolica a divenire l’elemento di riferimento per la comunità francofona dopo il 1760, anno in cui gli inglesi conquistarono Montreal e s’impadronirono del Québec.
L’occupazione britannica risparmiò ai cittadini della Nouvelle France il crollo politico e morale della madrepatria di Luigi xiv e permise al clero di mantenere intatta quella considerazione popolare che gli venne tolta in Europa dalla rivoluzione francese.
Al di fuori dall’Asse Laurenziano, la regione compresa tra Montreal e Québec City, l’inglese diventa una lingua sconosciuta, parlata tutt’al più con un forte accento francese da ben poche persone. Mentre ci addentriamo nella regione della Gaspesie, tra villaggi che ricordano quelli della costa normanda o bretone, ci accorgiamo di quanto lontana sembra essere Ottawa, la capitale politica del Canada, e quanto vicina, invece, sia Parigi!
Qui, tutti ricordano la memorabile visita di De Gaulle a Montreal nel 1967, quando dal balcone del municipio gridò entusiasta: «Vive Montreal! Vive le Québec! Vive le Québec libre!».
Oltre a infervorare i secessionisti, il grido scosse le fondamenta del parlamento canadese, il quale iniziò a varare una serie di leggi che permisero al Québec di mantenere la sua autonomia culturale e politica, senza distaccarsi dalla madrepatria. «È stato il nostro Sessantotto» – ci dice Robert Yvon, responsabile del Dipartimento dell’educazione del distretto di Lac Saint Jean, oggi in pensione. «Non abbiamo vinto, ma abbiamo ottenuto l’indipendenza economica e amministrativa».
A Chicoutimi, all’estremità del Fiordo di Saguenay, l’idea separatista è ancora viva nel 90% della popolazione. Il Front de Libération du Québec, organizzazione armata particolarmente attiva negli anni Settanta, qui conta ancora diversi nostalgici e la storia della regione, scritta dai «Martyres patriotes» del 1826 o quelli delle Ribellioni del 1837-38, viene ancora insegnata con orgoglio ai bambini. «Je me souviens»: io mi ricordo, si legge sulle targhe automobilistiche della provincia del Québec; un ricordo che nessuno vuole cancellare, così come nessuno, nel vicino Ontario, desidera dimenticare l’eredità britannica ricevuta dagli antichi colonizzatori.

Influsso anglo-americano

In questa provincia, grande più di tre volte l’Italia, ma con una popolazione sei volte inferiore, le bandiere nazionali canadesi sventolano accanto all’Union Jack. La fedeltà alla Corona è ancora oggi testimoniata dall’orgogliosa ostentazione nei cognomi dell’appellativo UE (United Empire), concesso nel 1789 dalla regina per ringraziare i 40 mila lealisti inglesi che, pur di non sottostare alle leggi dei Rebels, si trasferirono in Canada durante la guerra d’indipendenza americana. Attraversiamo città, i cui nomi ricopiano quelli dell’Inghilterra: Kingston, London, Thames, sino ad arrivare a Toronto, che fino al 1834 si chiamava York.
Oggi, con i suoi 4 milioni di abitanti, le vie che si intersecano ad angolo retto, i grattacieli che si specchiano nel lago, le fabbriche che circondano la periferia, Toronto è la città più grande del Canada, ma anche la più statunitense, sebbene nessun «toronter» ami questo accostamento. Loro sono canadesi e la sola idea di essere considerati una copia culturale e politica dei vicini è insopportabile.
Costeggiando il lago Ontario, arriviamo alle cascate del Niagara, la cui naturale maestosità è stata rovinata dalla mano dell’uomo che, per attirare il turismo dagli Stati Uniti, ha costruito un guazzabuglio indecente di locali nottui, sale da gioco, fast-food, negozietti stracolmi di gadgets. Preferiamo la quiete di Niagara-on-the-Lake, cittadina piuttosto artificiale, ma immersa nelle colline coperte di vigneti, da cui si produce il famoso e costoso Ice Wine.
Vicino a Fort Gorge, dove il fiume Niagara si tuffa nell’Ontario, un cartello indica che nel xviii secolo i gloriosi anglo-canadesi sconfissero gli «invasori» americani (è scritto proprio così: invasori). Il contrasto fra le due Niagara è stridente: tanto insulsa, americana, pacchiana è la Falls, quanto colta, rilassante e aristocratica è la On-the-Lake.
Qui, ogni anno, si apre lo Shaw Festival, che attira appassionati di teatro da tutto il mondo. E, sempre qui, vive una delle più numerose comunità di italo-canadesi del paese, discendenti di quei 410 mila emigranti italiani che, dal 1945 al 1967, hanno solcato l’oceano in cerca di una vita più dignitosa per sé e i propri figli.
Maria Rocca, che assieme al marito Léon Martin gestisce la B&B dove alloggiamo, è la figlia di uno di questi: professoressa di lettere e italiano, rappresenta un esempio di integrazione sociale e culturale, conclusasi con successo.
Ma la storia canadese ha conosciuto anche posizioni di rigetto, sino a rasentare la xenofobia. All’inizio del secolo, il teorico dell’imperialismo, George Parkin, affermava che il rigido clima invernale canadese aveva risparmiato al Canada la creazione di città come New York, Chicago, Saint Louis che, oltre a quello che lui definiva il «problema negro», attiravano «masse di vagabondi dall’Italia o da altri paesi dell’Europa del Sud».
Pochi anni prima a Regina, nel Saskatchewan, Louis Riel era stato impiccato al termine di una rivolta iniziata a Winnipeg, nel 1869. Riel guidò una ribellione di meticci, appoggiata anche dalla chiesa cattolica, per evitare che gli inglesi protestanti si appropriassero delle loro terre. Ancora oggi, nel quartiere francese di Saint-Boniface a Winnipeg, la piccola comunità francofona considera Riel un eroe.
Nel cimitero di fronte alla cattedrale cattolica, la sua tomba è meta di pellegrinaggi, mentre a Regina, durante l’estate, nella sala comunale viene riproposto il processo che lo condannò a morte.

Giubbe rosse (di sangue)

Daigo, invece, è molto più attratto dai Royal Mounted Canadian Police (Rmcp, le famose Giubbe Rosse che a Regina hanno la loro accademia) e dalla loro mascott, Safety Bear, una sorta di orso Yoghi sempre circondato da bambini (e non solo da loro).
Al confine tra il Saskatchewan e l’Alberta, visitiamo il Cypress Hill, il luogo dove nel 1876 Ta-tanka I-yotank, da noi conosciuto come «Toro seduto», si rifugiò dopo la battaglia di Little Big Ho, per evitare la vendetta delle truppe statunitensi. Le Giubbe Rosse (colore scelto anche per distinguersi dalle famigerate Giubbe Blu), protessero i rifugiati e amministrarono tutti i territori della Corona, evitando che l’anarchia della «legge del Far West» si propagasse anche in Canada.
Ma anche le divise della Rmcp sono macchiate del sangue di canadesi. Nella memoria delle lotte sindacali è rimasto indelebile il Bloody Saturday, il sabato di sangue, consumatosi il 21 giugno 1919 a Winnipeg, al termine di una serie di scioperi per richiedere la settimana lavorativa a 40 ore. Quel giorno il sindaco della città, stanco delle rimostranze dei lavoratori, richiese l’aiuto delle Giubbe Rosse per ristabilire l’ordine. Il loro intervento lasciò per le strade cittadine due morti.
Il 1° luglio 1935, nel pieno della crisi economica, a Regina 500 agenti Rmcp si scontrarono con 2 mila lavoratori disoccupati, organizzati dal Relief Camps Worker Union, che tentavano di raggiungere Ottawa per perorare la loro causa al parlamento. I feriti, in quel caso, furono decine, mentre 130 manifestanti furono arrestati.
Le Montagne Rocciose dell’Alberta fanno da sfondo alle numerose tribù indiane che celebrano il pow-wow, la festa più importante dell’anno, con balli, danze, musiche. I variopinti colori dei costumi si mischiano con le mandrie di bufali, i rodei, i laghi cristallini in cui si specchiano le cime innevate. E dalle Montagne Rocciose discendiamo lentamente verso l’Oceano Pacifico, dove si concluderà il nostro viaggio.
Tutta questa terra, oggi facente parte della provincia della British Columbia, è stata a lungo contesa al Canada dagli Stati Uniti. Nel 1846, James Knox Polk scelse come parola d’ordine per la sua campagna presidenziale il terribile motto «Fifty-Four-Fifty or Fight!» (letteralmente: 54 gradi e 50 minuti di latitudine nord o guerra!) che fissava le cornordinate dei confini settentrionali statunitensi voluti da Polk, comprendendo il vasto territorio oggi occupato dalla British Columbia fino al confine con l’Alaska (allora territorio russo).
Lo slogan restò fortunatamente solo sulla carta, ma gli screzi con gli Stati Uniti e il pericolo di colonizzazione continuano ancora oggi, tanto da costituire, secondo la scrittrice Margaret Atwood, il tema centrale della specificità culturale e politica canadese.
Nel 1987, i rapporti con i due paesi si erano fatti così tesi, che il ministro della difesa canadese annunciò di voler acquistare dei sottomarini nucleari per difendere le proprie coste, continuamente violate dalla marina statunitense che oltrepassava i limiti territoriali, senza chiedere alcun permesso.
Il Canada ha comunque bisogno degli scomodi vicini, specie ora che Vancouver è stata designata sede dei giochi olimpici invernali del 2010. La città, immersa in una baia spettacolare che la rende una delle più belle di tutto il Nordamerica, è già in fermento; ma le associazioni di aiuto sociale e quelle ambientaliste si stanno giustamente preoccupando per l’inevitabile degrado che puntualmente colpisce le città olimpiche una volta passata l’ubriacatura dei giochi. Sono ancora troppo evidenti i tristi esempi di Montreal e Calgary, le cui comunità debbono ancora oggi, a distanza di decenni, pagare i costosi e inutili impianti, costruiti in occasione delle manifestazioni olimpiche, togliendo fondi preziosi agli investimenti sociali.

Il nostro viaggio si conclude a Vancouver Island, accolti dalla sua aristocratica capitale, che prende il nome dalla regina Vittoria. Ma è alla baia di Tofino, duecento chilometri più a nord, che prendiamo realmente congedo dalla Transcanadese. La costa si affaccia sull’Oceano Pacifico nel punto in cui questo si apre all’infinito ai nostri occhi. Daigo, a cui abbiamo detto che dall’altra parte della distesa d’acqua si trova il Giappone, si diverte tra le onde, fissando lo sguardo all’orizzonte. Davanti a sé ha un mondo intero da scoprire.

BOX 1

La danza propiziatoria, perché la caccia si concluda con esito positivo, sta terminando. Le mogli invocano la protezione del cielo sui loro mariti, i bambini corrono ad abbracciare i loro padri e i fratelli maggiori prima di vederli allontanare dai loro teepee.
I bisonti pascolano pacificamente a poche ore di marcia. Sono migliaia, tanto da trasformare la prateria in un’immensa coperta verde, punteggiata da macchioline marroni. I guerrieri si avvicinano lentamente, senza far rumore, mimetizzandosi con le stesse pelli dei bisonti uccisi l’anno prima. Poi, a un segnale convenuto, si alzano in piedi all’unisono, gettando le pelli sull’erba e mostrando i loro volti dipinti. Lanciano urli e gli animali, spaventati, iniziano a galoppare. Una corsa sfrenata di diverse miglia verso il baratro di una scarpata, che sprofonda per diverse decine di metri. Intuiscono il pericolo, poi lo vedono, ma non possono arrestare la loro marcia perché dietro migliaia di altri bisonti impauriti li sospingono inesorabilmente.
Le carcasse si accumulano, una sopra l’altra, schiacciando e soffocando gli animali che sono riusciti a sopravvivere al grande salto. Anche quest’anno la caccia è stata fruttuosa. La tribù avrà carne per sfamare i propri componenti e sufficienti pelli per difendersi dal rigido inverno delle pianure del Nordamerica.
Questa scena si è ripetuta per migliaia di anni a Head Smashed-In Buffalo Jump, nell’Alberta, il luogo più sacro di tutta la comunità aborigena del Canada, oggi trasformato in museo e dichiarato dall’Unesco patrimonio culturale dell’umanità.

Tutti gli aborigeni del Nord America (quelli che noi, persistendo nell’errore commesso da Cristoforo Colombo chiamiamo indiani d’America), cercano di recarsi, almeno una volta nella vita, in questo ombelico della loro cultura millenaria. Molti arrivano per assistere al pow-pow, la sacra cerimonia che saluta il culmine dell’estate con danze e balli, tenuti in ogni parte del continente. Ogni tribù, ogni clan, indossa propri abiti, intona propri canti, esegue le proprie danze che li contraddistingue da ogni altra nazione aborigena americana. In questo modo, perpetuano tradizioni e riti ancestrali tramandati di bocca in bocca, di generazione in generazione.
Nazioni, dicevamo. Gli aborigeni considerano la loro appartenenza tribale al rango di un qualsiasi altro stato del globo. Duroni, Iroquesi, Piedi Neri, Sioux, Apache… ogni gruppo è dotato di lingua, leggi, religioni, strutture sociali e di comando completamente differenti l’uno dall’altro. E, come qualsiasi altra nazione, anche queste si combattevano, creavano alleanze, commerciavano, massacravano, tradivano, complottavano.
L’arrivo degli europei e la creazione di quelle invisibili, ma invalicabili, barriere geografiche chiamate confini, hanno impresso una biforcazione storica al mondo aborigeno nordamericano. Al sud, la disordinata e individualistica corsa al lontano West dei coloni americani, non regolamentata da alcuna legge, ha causato lo sterminio degli abitanti originari. La disperata difesa del proprio territorio da parte di questi ultimi ha permesso, poi, di creare nel «viso pallido» la fobia del pellerossa, legalizzando i genocidi perpetrati dalle Giubbe Blu.
A nord, invece, il Royal Proclamation Act del 1763, che impediva ai coloni di appropriarsi dei terreni, se questi non erano prima acquistati dalla Corona, garantiva una sorta di ordine e legalità nell’espansione verso il Pacifico.
Del resto, l’incontro culturale tra le diverse etnie era già in atto sin dalla seconda metà del xvii secolo, quando i coureurs-de-bois (i commercianti franco-canadesi che trattavano con gli aborigeni l’acquisto di pelli) cominciarono a prendere per mogli (o amanti) le ragazze delle tribù visitate. I figli meticci nati da queste unioni diedero origine ai métis, il cui rappresentante più celebre rimane Louis Riel. Oggi, a fronte di 624 mila nativi canadesi, i métis sono 153 mila.

I rapporti tra Ottawa e gli aborigeni non sono sempre stati pacifici. Nel 1759, ad esempio, il generale Jeffrey Amherst, comandante in capo delle truppe britanniche in Nord America, cercò di sterminare gli autoctoni, regalando loro coperte contaminate di vaiolo, inaugurando l’epopea della guerra biologica.
Furono però i vicini statunitensi a creare i maggiori problemi: nel maggio 1873, un gruppo di contrabbandieri, che commerciava whisky in cambio di pellicce, si scontrò a Cypress Hill con guerrieri cree, piedi neri e assinibone, uccidendone 36 e creando pericolose tensioni con l’innocente governo di Ottawa, intervenuto in favore degli aborigeni.
Fu per evitare il ripetersi di simili scontri che, il 23 giugno 1874, il colonnello Patrick Robertson Ros creò le famose Giubbe Rosse. Solo due anni dopo, l’ispettore James Walsh venne chiamato a proteggere i sioux di Ta-tanka I-yotank, (da noi conosciuto come Toro Seduto), rifugiatisi in Canada per evitare rappresaglie dopo la battaglia di Little Big Ho e la sconfitta del Generale Custer (25 giugno 1876).
Queste prese di posizione, hanno creato nei nativi canadesi un clima di relativa fiducia nei confronti del governo di Ottawa, che mai si è riscontrato nei loro fratelli statunitensi.
Ma la creazione di riserve, iniziate nel 1876 con la stipula dell’Indian Act e le sovvenzioni ancora oggi elargite alle comunità locali, se da una parte hanno permesso il mantenimento di tradizioni, istituendo scuole e centri culturali, dall’altra hanno alimentato una sorta di passività nell’animo aborigeno. La disoccupazione tra le comunità indigene, molto più elevata rispetto alle altre etnie, è dovuta non solo a un reclutamento settario nel mondo del lavoro, ma anche a un senso di impotenza ed emarginazione che le generazioni si sono tramandate nel corso dei secoli.
I generosi sussidi di disoccupazione garantiti dallo stato disincentivano i giovani a trovare un lavoro stabile, mentre la crescente mancanza di valori morali, sommata all’asperità del clima e degli elementi naturali, viene spesso colmata dall’alcornol e dalla droga. L’antica e profonda saggezza degli avi rischia in questo modo di scomparire.
Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Isola ad alta tensione

Un anno fa la fuga di Aristide e l’inizio del governo provvisorio,
guidato da Gérard Latortue, incaricato di guidare Haiti verso la normalità.
Gli aiuti promessi per la ricostruzione sono ancora un miraggio, mentre violenze
e insicurezze continuano a insanguinare l’isola caraibica.

All’indomani dei sollevamenti popolari che hanno causato la fuga del presidente Jean-Bertrand Aristide (29 febbraio 2004), ad Haiti è stato messo in piedi un governo di transizione. Il suo mandato è ristabilire la pace sociale e portare il paese a elezioni libere nell’autunno di quest’anno.
Nonostante il dispiegamento dei caschi blu della Minustha (Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti) le violenze nel paese non sono cessate. Il primo dicembre scorso le milizie dell’ex presidente hanno attaccato il palazzo presidenziale dove si trovava il segretario di stato americano Colin Powell in visita ufficiale. Altri disordini sono scoppiati contemporaneamente in vari quartieri della città.
Abbiamo incontrato il primo ministro al margine del 10° vertice della francofonia, che si è tenuto a Ouagadougou, in Burkina Faso.

Qual è il bilancio della partecipazione di Haiti al 10° vertice della francofonia?
Molto positivo, perché abbiamo ripreso contatto con tutti i paesi francofoni, in particolare quelli africani. Ma abbiamo incontrato un grosso problema: c’è stata una manovra per far sì che l’Unione Africana prendesse una posizione contraria al cambiamento della costituzione. Tuttavia, in questo incontro abbiamo potuto discorrere su quello che succede ad Haiti e abbiamo spiegato loro che non siamo un governo nato per prendere e conservare il potere, ma vogliamo semplicemente gestirlo per un periodo ben determinato, con mandato ben preciso: restituire l’ordine al paese e prepararlo alle elezioni.
I capi di stato hanno capito che questo è un governo che non vuole prendere una posizione e non parteciperà alla competizione elettorale. Ora c’è anche un certo interesse per il cammino intrapreso da Haiti, come modello di transizione, che può essere utilizzato per risolvere i problemi di altri paesi.
La cosa più importante è che tutta l’Organizzazione internazionale della francofonia (Oif) ha deciso di appoggiare il processo in corso e, allo stesso tempo, aiutarci nello svolgimento delle elezioni, inviando osservatori francofoni e poliziotti nell’ambito della cooperazione tra le polizie. Inoltre ci sono vari presidenti che vogliono venire ad Haiti, come il senegalese Wade e il segretario dell’Oif Adbou Diouf.

E dal punto di vista economico, avete insistito affinché alcuni paesi sblocchino una serie di fondi promessi?
Non abbiamo messo questo problema sul tavolo, perché i paesi che possono darci qualcosa, come Canada e Francia, hanno riaffermato la volontà di aiutarci e a breve. Sono soprattutto i grossi paesi come questi che giocano un ruolo effettivo sulla direzione dei finanziamenti inteazionali. I paesi francofoni nell’insieme hanno posto il problema della cooperazione internazionale, per cui il processo di sblocco dei fondi è troppo lento e non risponde sempre ai bisogni di finanziamento dei paesi in via di sviluppo.

E i fondi (un miliardo e ottocento milioni di euro) promessi dall’Unione Europea?
Non sono ancora stati sbloccati dall’UE: essi sono stati approvati nel luglio scorso; in agosto c’erano le vacanze e dopo è cambiata la Commissione europea. Nessuna decisione poteva essere presa. Ma il principio c’è: il pagamento si farà nei primi mesi di quest’anno.
Ma noi, come governo, abbiamo preso delle misure, senza aspettare questi soldi, per cominciare una serie di lavori. Il 15 novembre scorso abbiamo lanciato vari cantieri con i fondi del Tesoro haitiano e della Banca Interamericana di Sviluppo che ha già iniziato a pagare. Sono progetti per creare lavoro nel paese, perché la nostra opinione è nota: la causa essenziale dell’insicurezza è la disoccupazione, la miseria.

Ad esempio?
Intanto c’erano certe condizioni che dovevamo rispettare, come fare un decreto che crea la commissione per l’assegnazione dei mercati. Poi siamo in piena contrattazione per cominciare il più rapidamente possibile la ricostruzione di alcune importanti strade del paese, sia al nord che al sud.

A livello politico interno, i diversi attori sono oggi disposti a mettersi d’accordo per gestire la crisi?
Sanno bene che non c’è altra possibilità di uscire dalla crisi se non quella di assicurare il successo della transizione. In questi mesi tutte le attività pre-elettorali devono cominciare; quindi, se vogliamo veramente uscire da questa situazione per arrivare a un governo legittimo, non si può che appoggiare la transizione, per portare il paese alle elezioni a fine 2005.

Lo stato è in grado di garantire la sicurezza dei cittadini e di arrivare alle elezioni?
Abbiamo chiesto aiuto alle Nazioni Unite che hanno inviato i caschi blu della Minustha, perché fin dall’inizio abbiamo riconosciuto di non potercela fare da soli, con una polizia di 3 mila effettivi, mal formata, mal equipaggiata, che non aveva neanche le armi, per 8 milioni e mezzo di abitanti. Non sarà lo stato haitiano da solo che garantirà la sicurezza, ma in cooperazione con le Nazioni Unite e le truppe della Minustha.

Ma le violenze nella capitale e in altre città continuano…
Adesso va meglio e la Minustha sarà ben presto al completo, avrà il suo effettivo totale in questi giorni. Sono pronti a impedire ogni genere di disordine, come quelli che ci furono alla fine del mese di settembre. Entriamo in un periodo in cui la Minustha prende ancora più coscienza della necessità di garantire una sicurezza totale, affinché cessino le violenze e il processo elettorale possa realizzarsi nelle migliori condizioni possibili.

Alcuni vorrebbero ricreare le forze armate d’Haiti: lei cosa ne pensa?
Io non ho nessun problema affinché ci siano delle forze armate, ma noi non abbiamo il tempo di farlo. Occorre studiare la questione a fondo. Sarà il prossimo governo che entrerà in funzione il 7 febbraio 2006, a preparare uno studio sulla fattibilità di un esercito. Ristabilire un’istituzione così, dopo 10 anni, richiede un lungo periodo di preparazione. Non siamo contro, ma non abbiamo né il tempo, né i mezzi, né il mandato.

Ma ci sono le milizie, che si dicono ex militari, che dettano legge in alcune zone: ci sono due stati in Haiti?
No, è totalmente falso. Sono stato a Cap Haitien, il 19 novembre scorso, e c’era un solo stato che mi ha ricevuto. Per la questione dei militari è stato creato l’ufficio per la gestione dei militari smobilitati, che ha il compito di reinserirli. Sono pronti a rispettare gli accordi fatti tra il governo e questi ex militari. Abbiamo già 600 impieghi e aspettiamo che l’ufficio ci dia i nomi per assegnarli.

E come farete a eliminare il fenomeno delle bande armate?
Non tocca a me, ma alla Minustha insieme alla polizia nazionale. Vedremo, dobbiamo cominciare, per assicurare una certa stabilità, che non ci sia più la libertà di andare a sparare in qualsiasi momento in questo o in quel quartiere.

BOX 1

Haiti: paese suicida

I fondi promessi nello scorso luglio dalla comunità internazionale per la ricostruzione di Haiti (quasi un miliardo di dollari) non sono ancora arrivati. Ma il ministro degli esteri, Yvon Siméon, in seguito alla riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu dedicato ad Haiti, lo scorso gennaio, si è detto «ottimista» sullo sblocco imminente.
Intanto il primo ministro Gérard Latortue è riuscito a ottenere il finanziamento per le elezioni, previste a fine anno. Il 10 gennaio Canada, Stati Uniti e Unione europea si sono impegnati per un totale di 44 milioni di dollari necessari.
Ma ad Haiti, a un anno dai sanguinosi eventi terminati con la fuga del presidente Jean-Bertrand Aristide, oggi «ospite» in Sud Africa, e l’installazione dell’attuale governo di transizione, cos’è cambiato?
L’attualità è sempre dominata da violenza e da violazioni dei diritti umani. Le bande fedeli all’ex presidente continuano a imperversare nelle bidonvilles della capitale; gli ex ribelli, costituiti da ex militari, esponenti della destra storica ed ex putschisti si fanno ora chiamare Fronte di Resistenza Nazionale e controllano parte del paese, a dispetto della polizia nazionale, dei caschi blu dell’Onu e del governo che chiede a tutte le forze non ufficiali di deporre le armi.
Le Nazioni Unite, presenti con la missione di peacekeeping Minustha, forte di 7.400 effettivi sotto comando brasiliano (partecipano anche argentini, cileni, ecuadoriani, giordani, ecc.), che ha visto il suo mandato rinnovato fino a giugno 2006, ha seri problemi a mantenere l’ordine.

L’ agenzia stampa AlterPresse riporta che dal 30 settembre scorso un movimento violento è in corso in diversi quartieri della capitale. Le «chimere» rivendicano il «ritorno fisico» di Aristide. Ad oggi si registrano circa 200 morti, ufficialmente per scontri con la polizia. Da gennaio è in corso un’operazione di «pulizia» nelle enormi bidonvilles della capitale Port-au-Prince, che vede l’attuale amministrazione al centro di una polemica. Accuse di violenze, maltrattamenti ed esecuzioni sommarie, perpetrate dalla polizia, sono arrivate a decine alle organizzazioni per i diritti umani. La Coalizione nazionale per i diritti degli haitiani (Nchr) è stata informata di persone uccise dalla polizia: «Chiederemo alla polizia d’aprire le inchieste su questi casi e sugli atti di brutalità esercitati da poliziotti durante le operazioni» ha dichiarato il direttore Pierre Espérance all’agenzia Haiti Presse Network.
È nel corso di un rastrellamento della polizia a Cité de Dieu (nota bidonville) che è stato ucciso, il 14 gennaio, il giovane giornalista Abdias Jean. Sarebbe stato testimone scomodo di alcuni omicidi.
Nello stesso periodo altri due giornalisti del quotidiano Nouvelliste, sono stati malmenati, questa volta da sostenitori dell’ex presidente, mentre altri due colleghi hanno denunciato pressanti minacce di morte nei loro confronti.
Ma non basta. Il primo dicembre nel penitenziario nazionale di Port-au-Prince una rivolta è degenerata in massacro. Le cifre ufficiali di 10 morti e 40 feriti sono smentite da alcuni testimoni, che avrebbero visto molti più cadaveri. Le visite di parenti e giornalisti sono state, da allora, soppresse. Amnesty Inteational ha lanciato un appello affinché sia fatta chiarezza e rispettati i diritti dei prigionieri.

I ntanto sul piano diplomatico l’Unione Africana, per voce del presidente della Commissione Alpha Oumar Konaré ha espresso attaccamento al problema haitiano perché: «Haiti è un paese africano fuori dall’Africa». A Pretoria (Sud Africa) Konaré ha incontrato Aristide e Thabo Mbeki a gennaio, dopo aver fatto una visita il mese prima nel paese caraibico. Il risultato: un avvicinamento di Latortue, che ha sempre accusato Aristide di dirigere i suoi sostenitori dall’esilio, all’ex presidente per un’azione in favore del dialogo nazionale e la pace.
Nel paese, intanto, il progetto di dialogo inter haitiano, sostenuto dalla comunità internazionale, cerca di decollare. Una consultazione dei diversi partiti politici e settori della nazione è in corso sulle grandi questioni del paese. Micha Gaillard, politico e oppositore del regime di Aristide, incaricato della cosa, si è detto soddisfatto delle reazioni che ha incontrato nei confronti del dialogo nazionale. Il gruppo 184, gli oppositori democratici della società civile, tenta di formalizzare un progetto di contratto sociale e cerca fondi per realizzarlo. Il gruppo è deciso a contribuire alla realizzazione di elezioni trasparenti e corrette (9 ottobre, 13 novembre e 18 dicembre 2005). M.B.

Marco Bello




Il sogno di Mukiri


I bambini poliomielitici di Tuuru necessitano di acqua. E lui si accorge che, nella foresta-montagna del Nyambene, ogni mattina avviene quasi un miracolo: la nebbia nottua si condensa sulla chioma degli alberi e, con il sole, si disperde in mille rivoli sul terreno. Allora ha un’intuizione geniale: scava nel ventre della montagna e, attraverso gallerie, recupera l’acqua in bacini di raccolta. Nasce un acquedotto. Un’opera che, grazie a 270 chilometri di tubazioni, offre acqua a 250 mila persone. Ma il sogno non si esaurisce qui.

28 dicembre 2004.

Le chiese cattoliche risuonano, ancora una volta, del lamento altissimo delle mamme dei bimbi massacrati dal re Erode poco dopo la nascita di Gesù a Betlemme. Lacrime desolate. «Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più» (Mt 2, 18). Ma, il 28 dicembre 2004, la disperazione riempie anche tanti templi del mondo. L’urlo è straziante specialmente in Sri Lanka, Indonesia, India, Thailandia, Myanmar; raggiunge le coste della Somalia e del Tanzania. Persino i luoghi di culto islamici, indù, buddisti e cristiani sono stati squassati e violentati, due giorni prima, dallo tsunami, l’onda titanica e furiosa del maremoto. Le vittime appaiono subito molte: 10, 20, 30 mila. Addirittura 100, 200, 250 mila. Poi non si contano più. Sono troppe! Un anziano annaspa fra onde putride e vorticose: tiene anche stretto a sé un bimbo di pochi anni. Accortosi della telecamera che lo inquadra, ha ancora la forza di mormorare: «Water, please!» (acqua, per favore). Vecchio e bambino stanno soccombendo di terrore, di fatica. E di sete.

A prescindere dalle calamità

naturali, oggi si muore veramente per mancanza d’acqua. O la si soffre acutamente, con conseguenze letali. Nel celebratissimo anno 2000 la comunità internazionale siglò la Millennium Declaration di New York, impegnandosi a dimezzare entro il 2025 il numero di persone senza una fonte sicura d’acqua. Però, tre anni dopo, al Forum Mondiale dell’acqua di Tokyo (marzo 2003), si prese atto che il traguardo restava irraggiungibile. Fino al 2020, dai 34 ai 76 milioni di individui rischieranno di morire per malattie legate all’acqua malsana. La piaga è endemica in Africa: qui, secondo l’Oxfam (Federazione di Organizzazioni non governative inglesi impegnate contro il sottosviluppo), nel 2015 le persone prive di acqua potabile saranno aumentate di quasi 100 milioni.

«Acqua, per favore!».

Lo dicono pure i turisti al termine di un assolato safari nella savana africana. Tre loro Land Rover, di ritorno al lodge, impolverano pesantemente alcune bambine ai margini della strada sterrata: bambine scalze, un po’ lacere, che recano sul capo o sulla schiena un pesante recipiente d’acqua attinta sul fondovalle, dopo due chilometri di discesa ed altrettanti di lenta e faticosa salita. Domani e dopo domani rifaranno il tragitto: due, tre volte, come oggi. È la loro vita. Giuseppe Argese lo sa (*). Giuseppe è un missionario della Consolata «fratello», in Kenya da quasi 50 anni. Esattamente dal 1957 osserva le polverose e ossessive camminate quotidiane di tante bambine, come quelle delle loro mamme e nonne: fratel Giuseppe guarda con attenzione, ma non proferisce parola. Ecco perché i bameru (la popolazione locale) l’hanno ribattezzato Mukiri, il silenzioso. Intanto, con altri missionari, erige l’artistica cattedrale della diocesi di Meru. Nei pomeriggi domenicali Mukiri passeggia. Lungo i sentirneri rivede le bambine con il loro fardello d’acqua sulla testa crespa. E medita. Non distante da Meru, sorge Tuuru, la missione di padre Franco Soldati, che ospita anche bambini poliomielitici. Un giorno Franco avvicina Giuseppe e lo scuote: «Mukiri, i bambini, colpiti da polio, hanno bisogno d’acqua, e non possono andare a cercarsela come gli altri. Inventa qualcosa. In fretta!». Mukiri, il silenzioso, tace; ma, fissando il torrente Mwamba, pensa di utilizzae le acque. La domenica continua le sue passeggiate. È attratto dalle sorgenti del Mwamba, che lo porta nel cuore di una foresta-montagna-vulcano: è il Nyambene, che dà il nome anche alla regione. Inoltrandosi nella selva di felci, nota come la vegetazione sia intrisa d’acqua nella sua interezza, tanto da essere pavimentata da uno strato di muschio gocciolante.

La fredda umidità dell’ambiente fa rabbrividire Mukiri. Ma rabbrividisce, soprattutto, allorché intuisce che, sulla foresta-montagna-vulcano del Nyambene, quotidianamente accade qualcosa di straordinario. Ossia: la grande escursione termica tra giorno e notte (dovuta ai pochi gradi di latitudine dall’equatore, e agli oltre 2 mila metri di altitudine del luogo) fa sì che, con il calare delle tenebre, il cielo sul Nyambene si ammanti di spesse nubi, che il torrido sole equatoriale dissolve al mattino. La nebbia, ristagnando per ore, si condensa sulla chioma della foresta e cola al suolo lungo le pareti della montagna, dove proliferano tappeti di muschio imbevuti di rugiada; essa, gocciolando, alimenta piccoli ruscelli (cfr. Valeria Bianchi, Il nostro Kenya, SGI, Torino 2004, p. 9-11). Quell’acqua dove va a parare? Mukiri ha quasi una folgorazione: l’acqua può essere risucchiata dal terreno poroso del vulcano spento, come una spugna; se si scavasse nelle sue viscere, forse si recupererebbe l’acqua infiltrata. Così avviene.

Con scarsi fondi

ed attrezzature rudimentali, Mukiri scava nel cuore del vulcano gallerie lunghe centinaia di metri, al cui interno le pareti trasudano una quantità d’acqua potabile purissima. Incomincia a sognare in grande. D’ora in poi le donne non saranno più schiave della diutua fatica del trasporto d’acqua sulla schiena o sulla testa. Il sogno di Mukiri diventa realtà con l’acquedotto di Tuuru. Un’opera imponente e geniale: una rete di 270 chilometri di tubazioni reca acqua potabile alle oltre 250 mila persone della circostante area, siccitosa a memoria d’uomo. L’acqua ha radicalmente mutato la vita sociopolitica nel Nyambene. Attoo al primo rubinetto d’acqua nella savana si sono stretti adulti e bambini, prima dando vita ad un mercato e poi ad un villaggio. Oggi ogni fontana è presidiata da un custode, che richiede un piccolo contributo in denaro ai beneficiari dell’acquedotto: non solo per scongiurare la passività della popolazione, ma anche per alimentare la modesta economia locale. A Mukululu, sede storica del laboratorio-officina di fratel Giuseppe, grazie all’acqua, sono fiorite anche piantagioni di tè. Il missionario continua ad occuparsi della direzione tecnica dell’acquedotto, mentre la gestione ordinaria è in mano delle comunità locali. Però il sogno di Mukiri perdura: oltre ad ampliare la chiesa di Mukululu, incastonata nei campi di tè, sta gettando alcune dighe imponenti, onde accumulare la maggior quantità d’acqua possibile. Questi invasi rispondono alle incessanti richieste d’acqua e servono, soprattutto, a fronteggiare le ricorrenti siccità.

Giuseppe Argese, missionario della Consolata, abita tutto solo in una casetta di legno, sulla cui entrata spicca la scritta «lo chalet dell’orso». Ve n’è pure un’altra in latino: «ursus in silvis». Forse Giuseppe, assai poco loquace, sa di essere un po’ orso nella foresta del Nyambene. Ma per i bameru è solo Mukiri… Il sole è tramontato. Mukiri, ursus in silvis, si rintana nel suo angusto chalet. Prima di cena, sosta in preghiera e meditazione. Si sofferma sul vangelo di Matteo: «Venite, benedetti dal Padre mio, entrate nel regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo… perché ho avuto sete e voi mi avete dato da bere» (Mt 25,18). È notte. Sulla foresta-montagna-vulcano del Nyambene ristagnano le nubi. La «missione acqua» continua.

Giuseppe Argese

(*) Giuseppe Argese nasce a Martina Franca (TA) il 10 novembre 1932. A 15 anni è apprendista muratore. Presso la parrocchia «San Francesco di Assisi» conosce i missionari della Consolata. Nel 1953 diventa uno di loro come «fratello». È in Kenya dal 1957. L’acquedotto di Tuuru, realizzato da fratel Argese, acquista notevole risonanza: – Il Corriere della Sera, 11 gennaio 1998, titola: «Il missionario dell’acqua. Un’impresa colossale»; – nel 1999 Daniele Giolitti si laurea in ingegneria idraulica, al Politecnico di Torino, presentando l’acquedotto ed evidenziandone il rispetto dell’ambiente; – Geo & Geo, di Rai 3, trasmette quest’anno il documentario «Missione acqua», realizzato dalla Società Generale dell’Immagine (SGI) di Torino; – Valeria Bianchi cura Il nostro Kenya, SGI, Torino 2004 (volume cartonato, formato 28 x 28, che raccoglie 97 splendide foto); esiste pure un CD. Altri riconoscimenti al missionario: la nomina di «Cavaliere al merito della Repubblica Italiana» e il conferimento della onorificenza «Servitor Pacis» delle Nazioni Unite.

Francesco Bernardi
foto: Valeria Bianchi, 2004




L’APOCALISSE ASIATICA Riflessioni sulla tragedia

PERCHÉ IL DOLORE E LA MORTE?

Perché il male e la sofferenza? Perché? Perché?
Quando dubbi ed interrogativi opprimono le nostre menti.

Una montagna di fuoco fu scagliata nel mare. Un terzo del mare divenne sangue e morì un terzo delle creature che erano nel mare (Ap 8,8).
Le scene che, per settimane, sono giunte dal Sud-Est asiatico hanno lo sfondo e i confini di un’apocalisse cosmica, che ha coinvolto l’intero pianeta, se il cataclisma ha avuto la potenza di spostare anche l’asse di rotazione terrestre e un’intera isola di parecchi metri. Le parole sono totalmente afone non solo di fronte alla gravità inimmaginabile del maremoto, ma anche di fronte ad una tragedia nella tragedia: la catastrofe si abbatte su una porzione del Terzo Mondo che già paga il salatissimo prezzo della miseria e della povertà. Ancora una volta, come ricorda il detto popolare, «piove sul bagnato».
«Se Dio esiste, perché permette che succeda tutto questo macello cosmico e sempre a danno dei poveri che non possono neanche cadere dal letto visto che sono sdraiati per terra?». È l’eterno problema del «perché il male e la sofferenza?» e del «perché il dolore e la morte tragica degli innocenti?». Sono alcune domande che si sentono immediate e spontanee in bocca alla gente che non sa darsi una spiegazione logica. Quando gli uomini non sanno dove appigliarsi, quando sono incapaci di una qualsiasi risposta logica, di fronte alla maestosità sovrana della natura e terrorizzati dalla loro piccolezza, scaricano sempre (senza malizia beninteso!) una sfilza di «perché?» su quel Dio che il teologo evangelico, Dietrich Bonhoeffer, chiamava il «Dio tappabuchi». Di questo «dio» non sappiamo cosa farcene e crediamo che nemmeno Lui sappia cosa farsene.
Noi non abbiamo risposte preconfezionate, non abbiamo ricette con una risposta per ogni domanda. Anche noi siamo atterriti e sgomenti, pieni di «perché?» senza risposte e la nostra fede, seppure solida, è densa di dubbi e interrogativi che il nostro cuore, come Giacobbe, «medita in silenzio» (Gen 37,11) o come Maria che conserva gli eventi incidibili nel suo intimo, meditandoli davanti al mistero (Lc 2,19). Noi siamo poveri testimoni di un Dio «incarnato» nella storia di carne degli uomini e delle donne, specialmente degli ultimi e degli esclusi. Noi sappiamo che Dio non vuole né permette alcuna disgrazia perché egli è Padre-Madre di ciascuno dei suoi figli e un padre non si diverte a torturare i suoi figli, scaraventando su di loro un maremoto paragonabile per potenza a mille bombe atomiche. Se un «dio» così fosse solo ipotizzabile bisognerebbe ucciderlo in tempo, prima che distrugga ogni cosa. No, non è questo il Dio di Gesù Cristo! Egli non è un orologiaio che aggiusta i meccanismi secondo il capriccio degli uomini, come voleva Cartesio o come vorrebbero i fans di un Dio juke-box, pronto a rispondere a comando di monetina. Questo «dio» è un dio a immagine e somiglianza della malvagità degli uomini che non possono ipotizzare un dio diverso dal loro modo di agire e di pensare. Questo «dio» carnefice, vendicativo, insensibile è stato sconfitto da Gesù Cristo sulla croce che resta la lucerna accesa sul moggio (Mt 5,15) per rischiarare tutte le croci e tutti i crocifissi che la Storia e la Natura portano con sé. Dio non gioca a bowling con le persone. Dio è persona seria!
Noi sappiamo, al contrario, che nel momento in cui il male accade e il dolore avvince l’uomo e la sofferenza stritola il giusto, l’innocente e il malvagio, Dio è già là che aspetta perché nessuno in quei tragici momenti si senta solo. Dio, come ci insegnano i vangeli nel racconto del battesimo, è sempre l’ultimo della fila, perché chiunque, colpito in qualsiasi modo, possa guardarsi indietro e non sentirsi ultimo, ma solo penultimo. Dio è sempre l’ultimo: è il povero, è l’emarginato, è il terremotato, maremotato, è il disperso, è il morto, è l’orfano, l’innocente crocifisso senza colpa e senza distinzione di razza, tribù e lingua, è veramente tutto in tutti (1Cor 15,28). A mi chiede: Dov’è Dio? Mi è facile rispondere: «Guardati attorno e volgi lo sguardo: viene dall’Oriente e dall’Occidente, dal Settentrione e da Mezzogiorno… una marea di volontari sale dal cuore dell’umanità e la maggior parte in silenzio, senza fragore, condividendo ciò che hanno e ciò che sono senza che la destra sappia quello che fa la sinistra» (Mt 6,3): uomini e donne, bambini e anziani, un mare di umanità, un maremoto di solidarietà sta riportando l’asse terrestre al suo posto e dai quattro angoli del mondo, il meglio degli uomini e delle donne è carne e osso del Sud-Est asiatico. Ecco dov’è il Dio di Gesù Cristo e il suo Spirito soffia dove vuole e irrompe in azione (Gv 3,8).

Se le cose stanno così, come spiegare questa apocalisse e tutte le altre tragedie che assediano e asfissiano l’umanità intera, come guerre, epidemie, transumanze, stragi di popoli interi, fame endemica, schiavitù di intere masse di poveri, sacrificati sull’altare del moloch del superfluo dei paesi industrializzati, ricchi, sazi e in cura dimagrante per combattere il colesterolo o per mantenere il «peso-forma»?
Leggiamo in Gen 2,15 che «Il Signore-Dio prese l’Adam e lo collocò nel giardino di Eden perché gli ubbidisse e lo custodisse» come si deve ubbidire e custodire la Torah o l’Alleanza. L’uomo che ha scacciato Dio dal suo orizzonte si è rivolto verso la terra e l’ha considerata sua schiava, l’ha asservita ai suoi soprusi, l’ha stuprata e continua a stuprarla nonostante i medici dicano che sta morendo. L’uomo nei confronti della terra ha un rapporto necrofilo: vuole possederla anche da morta. La terra però non riconosce nell’uomo il suo «signore» e da violata diventa violenta e quando si scatena non fa sconti. Tutti gli scienziati dicono che bisogna mutare stile di vita, il protocollo di Kyoto ne ha imposto l’urgenza nell’agenda del mondo, eppure l’America non vuole firmarlo, ma forse comprerà dai paesi poveri porzioni d’inquinamento per mantenere il suo «tenore di vita». Gli altri paesi occidentali firmano, ma non ottemperano e dilazionano, dilazionano o, come l’Italia, aumentano i parametri minimali per stare sempre dentro. Non c’impressiona la natura che fa il suo corso e la storia ne è fedele testimone. Interi popoli e civiltà, forse superiori alla nostra, sono scomparsi come i popoli e le culture precolombiane. Noi già sappiamo che, tra qualche manciata di milioni di anni, anche la terrà scomparirà e il sole si fredderà e scoppierà e sorgerà un nuovo sole e una nuova terra. È così da milioni di anni e così sarà ancora per milioni di anni. Sappiamo anche che dobbiamo convivere con queste tragedie e cataclismi che diventeranno sempre più frequenti e sempre più devastanti perché la terra è diventata più fragile e poggia su un sistema dall’equilibrio precario, la cui responsabilità ricade solo ed esclusivamente sull’uomo dei «paesi industrializzati» che vanta una civiltà radicata niente di meno che sulle radici cristiane. Ciò che ci scandalizza e ci indigna sono altri maremoti che riguardano l’atteggiamento degli uomini e delle donne, una sparuta minoranza, ma che monopolizzano l’opinione pubblica perché i mass media se ne fanno esclusivi portavoce.
Thailandia, Sri Lanka, Indonesia, Birmania, Maldive, Malaysia, Andamane, India… Nomi conosciuti anche da chi non li ha mai visitati. Nomi che la tv ammannisce, almeno tre volte all’anno: a Pasqua, in estate e a Natale, quando diventano mete per le vacanze esotiche.
In certe occasioni dire «Maldive» significa affermare uno status symbol, perché, in certi ambienti, chi non è stato in quella porzione di «paradiso» (naturale e fiscale) non dovrebbe meritare di stare al mondo. I vacanzieri dell’occidente civilizzato che affondano la loro identità nelle «radici cristiane», non si sono mai accorti, nemmeno per sbaglio, della povertà, della miseria e della fragilità di quelle popolazioni, schiave del lusso degli altri, asservite alle vacanze esotiche a basso costo, specialmente in periodi di super-dollaro o, come oggi, di super-euro che permettono di comprare due pagando uno.
Certo, chi va in quei paesi porta un po’ di ricchezza in valuta pregiata, ma ci ricorda la parabola di Luca 16,21 dove il povero Lazzaro è «bramoso di sfamarsi delle briciole che cadevano dalla mensa del ricco» tanto da impietosire i cani di guardia.
Ad inizio gennaio, pochi giorni dopo l’ecatombe naturale, si parlava già di una contabilità da brividi: i morti superavano la cifra di 140.000 persone, cifra destinata a crescere ancora e forse di molto. Si parla di 5 milioni di profughi.
Si poteva evitare o quanto meno contenere se non la furia irragionevole e violenta della natura, almeno il numero dei morti? Giappone e America sembra che sapessero per tempo quanto stava succedendo e pare anche che non abbiano informato i governi dei paesi coinvolti perché non facevano parte del protocollo preventivo, sottoscritto solo da alcuni paesi. Alcuni governi che sapevano, non hanno potuto informare i propri cittadini perché la maggior parte della popolazione non può essere raggiunta da tv, radio o altro. In un tempo in cui attraverso i satelliti si riesce ad individuare una formica nera su una pietra nera in una notte senza luna, nell’esotico Sud-Est asiatico, frequentato da turisti armati di cellulari, esistono ancora villaggi isolati, senza tv, senza radio, senza telefoni. In una parola: senza comunicazione. Questo è il vero inferno perché un popolo senza comunicazione è un popolo seppellito vivo, specialmente in regioni dove la prevenzione dovrebbe essere la regola e mai l’eccezione.
Abbiamo visto alberghi e bungalow, riservati agli stranieri (gli unici che si possono permettere certi prezzi) costruiti quasi a ridosso della battigia perché è esotico-esotico buttarsi in mare dalla finestra della propria camera. Govei, costruttori e tour operator hanno fatto scempio di quei paesi che hanno sottratto alla legittima proprietà degli abitanti e ne hanno fatto un sistema di soldi (per pochi occidentali) a servizio dei tanti occidentali che vengono in questi «paradisi» a svernare, quando in occidente fa freddo e a rinfrescarsi quando in occidente fa caldo. La tv italiana, ormai omogeneizzata al potere, ha quasi circoscritto la tragedia alla sorte dei nostri connazionali, mettendo in rilievo il durissimo colpo inferto al settore turistico, cioè ad una parte dell’economia occidentale che su quel settore prospera e specula.
Le prime notizie che gli italiani hanno appreso riguardava la sorte dei «vip». Non abbiamo sentito una parola sulle condizioni di quei popoli, sul loro sistema economico, sulle loro strutture sociali. Non un commento sul loro asservimento ad un sistema capitalistico che sfrutta il clima di una natura ordinariamente benigna, squassando l’equilibrio dell’ecosistema locale, lasciando quasi inalterate le condizioni miserevoli dei popoli nativi.
La Thailandia è famosa per il mercato delle minorenni, pagate pochi dollari per prestazioni sessuali «esotiche». Un tour operator italiano si è sentito dire da un turista italiano che nonostante l’apocalisse voleva partire lo stesso, avendo acquistato i biglietti: «Io voglio partire, ma mi dovete garantire che non vedrò nulla di sgradevole né sconveniente».
In questi «paradisi» depredati si passa accanto alla miseria e alla povertà e non si vede nulla di sgradevole e di sconveniente. Si viene, si lascia l’immondizia e si ritorna a casa, narrando ad amici e conoscenti mirabilia sulle proprie conquiste, sullo splendore della natura o sulle strabilianti avventure erotiche. No! Non apparteniamo né vogliamo appartenere a questo mondo che non sa svegliarsi nemmeno di fronte ad un maremoto di proporzioni abissali. Questo mondo è condannato all’autodistruzione ed è causa della distruzione della terra e dell’umanità. Dopo il primo sgomento, il criterio di misura, ormai quasi unico, è la sorte dei nostri connazionali che in un batter d’occhio passano da tredici a settecento (provvisori), senza rendersi conto che i nostri connazionali, morti o dispersi o salvati sono parte integrante di quei popoli morti, dispersi e parzialmente salvati.
Avremmo voluto sentire lo spirito della globalizzazione, tanto strombazzato in questi ultimi anni e identificarci senza distinzione di Sud-Est o Nord-Ovest con una umanità ferita e ancora una volta depredata non solo della sua dignità e libertà, ma anche della sua terra. Solo un giullare (lo diciamo con tutto il rispetto possibile per i poeti della satira), ElleKappa, ha saputo cogliere in una battuta la dimensione nascosta della catastrofe. Dice l’omino che legge il giornale: «Lo Tsunami si poteva prevedere». Gli risponde la spalla: «È stata la miseria che ha colpito il mondo di sorpresa».
In anni di vacanze nel Sud-Est asiatico, quasi nessuno si è accorto della «signora Miseria» che pagava il conto dei fruitori dei «paradisi» esotici. C’è sempre qualcuno che paga per tutti, ma di solito i «tutti» fanno finta di non vedere il «qualcuno» e se lo vedono lo rimproverano anche di non farsi vedere a disturbare le tanto agognate vacanze.

In questo contesto si colloca anche l’atteggiamento di chi ci governa e che avrebbe dovuto essere all’altezza della situazione, esempio per l’intera nazione. Nella conferenza stampa di fine anno (30 dicembre 2004), il presidente italiano del consiglio dei ministri, dopo dovute parole di prammatica sulla tragedia asiatica, comunica che ha già parlato con i suoi colleghi europei e, come sempre, tutti sono d’accordo con lui, salvo smentite del giorno dopo.
Egli auspica che sia l’Europa (per anni denigrata e contestata) a mettersi alla testa dei paesi europei per cornordinare gli interventi. Una manciata di secondi e… si passa all’ordine del giorno: il possibile acquisto di un piccolo partito dell’opposizione e le mirabolanti realizzazioni del governo, definite «svolta epocale», senza rendersi conto che di «epocale» vi erano solo le immagini di un’apocalisse planetaria.
Il mondo sprofonda nell’inferno dell’apocalisse cosmica e il capo del governo che dovrebbe prendere decisioni immediate d’intervento, coinvolgendo il paese in un afflato umanitario, parla di campagna acquisti e promesse di posti di potere. Se questa è la misura… Se questo è un uomo… direbbe Primo Levi.
Avremmo voluto sentire le seguenti parole semplici e lineari: «Signori della Stampa nazionale ed estera, vi do uno scornop che vi prego di porre in evidenza nell’edizione di domani: considerata la gravità e la portata del disastro asiatico, fedeli alla nostra cultura internazionale e solidali con quelle popolazioni, devastate anche nella loro anima, il governo all’unanimità e con l’appoggio incondizionato dell’opposizione, ha deciso di ritirare immediatamente i soldati dall’Iraq e di inviarli nel Sud-Est asiatico per portare assistenza e sollievo alle popolazioni superstiti. Siamo consapevoli della nostra scelta e ne siamo orgogliosi». Avremmo voluto ascoltare, ma non abbiamo potuto, perché tutto il tempo della conferenza stampa è stato impiegato a dipingere un «paradiso artificiale», che esiste solo nell’immaginazione di Narciso che si specchia nell’acqua di uno stagno.
Peccato, ancora un’occasione perduta.

Noi e, ne siamo certi, i nostri lettori che non siamo mai stati vacanzieri spensierati nel Sud-Est asiatico, ma dove siamo presenti lo siamo come amici, servitori o missionari, ci sentiamo nell’intimo parte vitale della loro tragedia. Noi faremo secondo le nostre possibilità, oltre le nostre possibilità, per alleviare dolore e sofferenza. Non possiamo ridare la vita ai morti, possiamo accompagnare la vita dei superstiti caricandola sulle nostre spalle, come farebbe il «Pastore bello» con le sue pecorelle.
Sull’esempio del Dio-pastore, anche noi gettiamo le reti della solidarietà umana e della carità cristiana, perché la credibilità di Dio passa attraverso la nostra gratuita e libera credibilità di uomini e donne veri, coerenti fino in fondo nel condividere «le giornie e le speranze, le tristezze e le angosce… dei poveri soprattutto e di coloro che soffrono» (Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et Spes, 1) nel Sud-Est asiatico e in ogni parte del mondo.

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Aprire le porte

Tutte le volte che qualcuno mi chiede: «Ma cosa vuol dire, concretamente,
dialogo interreligioso?», mi sento un po’ a disagio. Non è facile rispondere. Perché dialogare non significa tanto «fare qualcosa», ma incontrare, capirsi, creare relazioni di amicizia… Proprio come nel «pellegrinaggio» che vorrei raccontarvi.

Il mio compito missionario in Corea, da qualche anno, è il dialogo interreligioso. È questa una dimensione dell’evangelizzazione con la quale molte persone ancora non sono familiari. Infatti, mi trovo un po’ imbarazzato tutte le volte che qualcuno mi chiede: «Ma cosa vuol dire, concretamente, fare il dialogo interreligioso?».
Non è facile rispondere. Perché dialogare non significa tanto «fare qualcosa», ma… molte cose: incontrare persone, parlarsi, capirsi, creare relazioni di amicizia e fiducia… Proprio come in questo «pellegrinaggio» un po’ speciale di cui vorrei parlarvi…

La partenza

Quando sono salito sul pullman dei «pellegrini» quella mattina del 23 novembre scorso, l’atmosfera al suo interno era fredda quasi come l’aria pungente dell’esterno. C’erano già varie persone e altre continuavano ad arrivare. Ma ognuno sembrava stare un po’ sulle sue, cercando un posto appartato dove sedersi, o concentrandosi sul giornale, alzando solo la testa di tanto in tanto, per «controllare» i nuovi che arrivavano. Evidentemente, tutti avevano ricevuto un invito simile a quello che avevo ricevuto io, ma il fatto di non conoscerci e di essere tutti di religioni diverse ci teneva ancora bloccati.
Questo tipo di «pellegrinaggio interreligioso» viene organizzato quasi ogni anno dal Kcrp (Conferenza coreana delle religioni per la pace), ramo nazionale dell’omonima organizzazione mondiale di Dialogo interreligioso (Wcrp), con il contributo finanziario del Ministero della cultura coreano. Avevo già partecipato una volta, nell’ormai lontano 1998, ma poi avevo perso i collegamenti, da quando ero stato destinato a Roma per qualche tempo.
Appena il pullman si muove, gli organizzatori prendono il microfono e cominciano le presentazioni. Non c’è che dire: siamo proprio un gruppo molto eterogeneo. C’è il vescovo anglicano della diocesi di Seoul e due dei suoi sacerdoti, più la pastora di un’altra chiesa, a rappresentanza dei protestanti; due laici buddisti (uno dei quali è l’attuale direttore generale del Kcrp); due monaci e una monaca del buddismo Won (una religione autoctona della Corea, che si rifà al buddismo, ma allo stesso tempo se ne differenzia nei simboli religiosi, nel fondatore e nell’insegnamento); ben quattro rappresentanti del Ch’on-do-kyo (altra religione autoctona coreana, fondata nel 1860… come avrò modo di sapere durante il viaggio); due rappresentanti del confucianesimo (uno dei quali già conosciuto in una mia precedente visita all’Università confuciana di Seoul); due membri di una religione che mai e poi mai avevo sentito nominare prima (un culto sorto dalla «religiosità popolare» coreana, in un’isola al sud del paese e che si rifà alla filosofia taoista orientale). E i cattolici? Beh, ci sono io (sono anche l’unico non coreano!) e tre laici, membri del Consiglio del Kcrp e che quindi sono anche gli organizzatori del viaggio. Che strano: neppure una suora!
Il bello è che, man mano che si fanno le presentazioni, l’ambiente si riscalda. Le persone sembrano uscire dal guscio dove si erano rifugiate e si aprono all’incontro. Saluti, sorrisi, scambio di informazioni… qualcuno cambia di posto e si avvicina. I giornali vengono messi da parte e il brusio delle conversazioni riempie il pullman…
Il dialogo comincia.

L’itinerario
Trattandosi di un «pellegrinaggio» interreligioso, è chiaro che le mete da visitare sono «luoghi sacri» appartenenti alle varie religioni. Secondo lo stile coreano, gli organizzatori hanno preparato e distribuiscono tutto: libretto informativo, lista dei partecipanti, acqua, frutta e delizie varie in quantità… perfino alcune pagine con inni, o canti sacri delle varie religioni. Così, tra una conversazione e l’altra, in cinque ore di viaggio, arriviamo a Kyong-ju, città storica e d’arte di primaria importanza in Corea.
Luoghi sacri dei buddisti – I primi a essere visitati sono luoghi del buddismo. Al tempio di Ki-rim ci aspetta un personaggio che ho il piacere di conoscere già da diversi anni. Si chiama Pop-myong ed è un monaco buddista, che qualcuno certamente definirebbe «atipico». Sempre pronto alla battuta e allo scherzo, perfettamente «aggiornato» su cantanti e personaggi dello spettacolo, costantemente mescolato ai giovani, che ogni anno porta addirittura in pellegrinaggio in India, zaino in spalla…
È lui che ci guida nella visita al tempio («Nel tempio ci sono cinque diverse fonti d’acqua… chi ne beve diventa saggio e raggiunge presto l’illuminazione!». «Quella statua di Budda è fatta di cartapesta e data dal tempo del regno di Shilla…»). Poi, subito dopo, le rovine di un altro tempio e una tomba «marina», collegata direttamente a quelle rovine («unica al mondo» la descrive il pannello turistico piantato sulla riva). Si tratta della tomba del gran re Mun-mu (morto nel 681), che ha riunificato sotto il suo comando la penisola coreana, allora suddivisa in tre regni.
Fu quello un periodo di grande espansione del buddismo in Corea, tanto da diventae la religione ufficiale. Il re morì, chiedendo la costruzione di un tempio-memoriale e di avere le sue ceneri deposte nel mare, per potersi trasformare in drago e continuare a difendere la nazione dai pericoli estei… La sua tomba, infatti, consiste in un isolotto che emerge a 200 metri dalla riva, con un laghetto al suo interno (curiosamente, a forma di croce), al centro del quale emerge una grossa pietra, sotto cui – si afferma – sono state poste le ceneri del grande re.
Ma non tutto è visita e spiegazioni; bisogna anche fare cena e raggiungere l’hotel, dove passeremo la notte. È in questi momenti informali che la spontaneità e le relazioni raggiungono il loro punto più alto e vero. Si chiacchiera allegramente, si ride, si pongono mutuamente domande, anche impegnative. L’ambiente è molto disteso… Perfino il vescovo anglicano sembra mettere da parte la sua «dignità episcopale», inserendosi bene nella compagnia.

Luoghi sacri del Ch’on-do-kyo – Il giorno dopo è la volta dei luoghi sacri del Ch’on-do-kyo. Veniamo portati, dopo colazione, ad un piccolo villaggio nei dintorni di Kyong-ju, dove c’è il «Ritiro di Yong-dam». In questa piccola casa rurale, immersa tra i boschi (peraltro rivestiti di bellissimi colori autunnali, nel momento in cui la visitiamo), il fondatore del Ch’on-do-kyo, Ch’oi-je-woo, nel 1860 ebbe la grande «rivelazione» che lo portò a fondare, appunto, la nuova religione. Il principio è: Dio non abita lassù nei cieli, lontano dagli uomini, ma abita il profondo, il cuore di ogni uomo.
Questa religione è vista come la «nuova creazione» del mondo. Infatti, sulla parete del Centro di formazione, costruito oggi accanto alla Casa del ritiro, c’è scritto a grossi caratteri: «Sii ri-creato e diventa una persona nuova!». I riti sono semplici e molto basati sull’uso degli elementi naturali, come l’acqua, che sgorga cristallina accanto alla Casa del ritiro (vedi box). Confesso che non conoscevo quasi nulla del Ch’on-do-kyo e, con questo pellegrinaggio, ho cominciato a vederla come una religione «simpatica»!

Luoghi sacri del confucianesimo – Nel pomeriggio, già di ritorno a Kyong-ju, è la volta del confucianesimo. Nel Hyang-kyo, una delle antiche e caratteristiche «scuole» confuciane, troviamo già preparate un gruppetto di persone, rivestite di abiti da cerimonia, pronte a svolgere per noi e assieme a noi un rito in onore di Confucio. Uno dei due rappresentanti del confucianesimo che è parte della nostra comitiva si offre di spiegare, per filo e per segno, le varie fasi del rito.
Entrata solenne, portando la tavoletta con il nome del Maestro; abluzione; processione all’interno del tempio (salendo ogni scalino prima con il piede destro); proclamazione solenne del motivo del rito (la nostra visita, in questo caso); offerta di incenso, inchini, uscita (dalla parte opposta a quella di entrata, scendendo ogni scalino prima con il piede sinistro). Tutto solenne, compassato, codificato, preciso… Noto che le persone che svolgono il rito sono tutte anziane. Non mi meraviglia: il confucianesimo, pur essendo molto vivo nella mentalità sociale coreana, non è certo al top degli interessi dei giovani modei (beh, questo è vero anche per altre religioni!).
Nella condivisione serale, particolarmente lunga, viene chiesto se il confucianesimo sia veramente una religione. Uno dei rappresentanti dice di no; ma l’altro, immediatamente, lo corregge e dice di sì. Certo, tutto dipende da cosa si intende per «religione». La condivisione, comunque, è bella e ricca. Ognuno dice come si è sentito nella visita ai luoghi di una religione diversa dalla propria. Prevale nettamente la volontà di non «farsi la guerra», di capirsi, il desiderio di unità e di collaborazione (per quanto possibile).

Luoghi sacri del buddismo-Won – La notte l’avevamo già passata in una «casa di ritiri» di questa religione. Al mattino, dopo colazione, abbiamo visitato il santuario di Song-ju. In questo paesino è nato, cresciuto, ed ha ricevuto l’illuminazione (nel 1916) il venerabile Chong-san (1900-1962), che divenne il secondo patriarca di questa religione, subito dopo la morte del fondatore vero e proprio del buddismo-Won, So-Tae-san. «Educa il popolo per costruire un mondo di pace» è il contenuto essenziale della rivelazione ricevuta in quel luogo. Possiamo addirittura stringere la mano ad una figlia del patriarca, ormai anziana monaca, ma con un sorriso smagliante e una vitalità impressionante. Ci invita tutti a costruire la pace.
Non posso evitare di pensare, dentro di me, a quanto «ottimiste» siano tutte queste religioni orientali, circa l’uomo e la sua capacità di trovare, seguire e realizzare il bene con le sole sue forze. Non sembrano prendere in seria considerazione la forza del male, che domina il cuore umano, e del peccato…

Luoghi sacri dei cattolici – Subito dopo il santuario di Song-ju, proprio nello stesso paesino, facciamo una brevissima visita al Centro di recupero per alcornolizzati, retto dalle suore di una famiglia religiosa francescana. Il posto è molto bello, costruito poco a poco dagli stessi pazienti, con una varietà di forme impressionanti e con abbondanza di statue della Madonna e della Via Crucis, un po’ dappertutto sulla collina. Tutti restano… meravigliati!
Meraviglia che cresce ancor di più durante la visita alla grande abbazia benedettina di Wae-gwan. Ci accoglie con un sorriso il superiore della comunità (l’abate è assente) e ci porta in chiesa. A me sembra proprio di «tornare a casa»! Il superiore si sforza di spiegare a quell’uditorio così inusuale la realtà della vita religiosa nella chiesa cattolica, la differenza tra sacerdoti diocesani e religiosi; le differenze, nell’unità, tra le varie famiglie religiose… Tutti ascoltano con attenzione, ma non credo che riescano a capire. Infatti, molti toeranno con me sull’argomento, dopo la visita.
Assistiamo alla celebrazione dell’ora sesta dei monaci e tutti, poi, mi diranno essere convinti di aver assistito alla messa… E quale meraviglia, da parte loro, rivedere le stesse persone, che prima erano avvolte nell’abito benedettino, indossare ora la tuta da lavoro, nel laboratorio per la fabbricazione di arredi sacri e in quello delle vetrate colorate… Non c’è che dire: la chiesa cattolica suscita rispetto, ammirazione a non finire e… (devo dirlo?) un po’ di «timore» su tutti («Ma perché la chiesa cattolica vuole far diventare cristiano il mondo intero?» – mi chiedeva sul pullman una signora del Ch’on-do-kyo).
Ma è già pomeriggio e ci aspetta un lungo viaggio per tornare a Seoul. Nel pullman si chiacchiera, si dorme, ci si scambiano indirizzi e numeri di telefono, si canta… e, all’arrivo, ci si separa con quella punta di dispiacere che sempre si prova a separarsi dagli amici; però, con la promessa di ritrovarci e continuare il dialogo.

Dopo questo tipo di esperienze di dialogo interreligioso, mi restano sempre nel cuore alcune sensazioni. Innanzitutto, la consapevolezza della mia grande ignoranza circa le altre religioni. Sì, so qualcosa, ma il vero «centro» delle religioni ancora mi sfugge. Quanto devo ancora studiare e sforzarmi per sapere e capire… È solo una «magra consolazione» l’aver constatato, una volta ancora, che l’ignoranza sul cristianesimo da parte degli altri è almeno pari alla mia sulle loro religioni.
Resta poi la sensazione di incompletezza. Ma non è certo realistico aspettarsi che un «pellegrinaggio interreligioso» di tre giorni possa coprire tutti gli ambiti e gli aspetti complessi del dialogo tra le differenti religioni. Diciamo che queste iniziative cominciano ad «aprire la porta». Toccherà poi a noi, interessati e dediti al dialogo, approfondire gli argomenti, entrare nel vivo delle esperienze religiose e spirituali delle varie fedi, anche se non è certo facile.
Infine, resta il proposito di mantenere e consolidare le relazioni create durante il pellegrinaggio. Da parte mia, ho promesso ai rappresentanti del Ch’on-do-kyo che andrò ad assistere, un giorno, al culto domenicale nella loro sede centrale di Seoul. Tutti mi hanno chiesto di avvisarli, perché vogliono accompagnarmi e spiegarmi bene le cose… Inoltre, la monaca del buddismo-Won lavora in una delle loro «parrocchie», non troppo lontana dal nostro Centro di dialogo interreligioso. Certamente andrò a trovarla, magari assieme al nostro gruppo. E speriamo che qualcosa di nuovo possa nascere…

Diego Cazzolato




Africa occidentale – Sabbie che scottano

I confini del Sahel sono «porosi» e lasciano passare
di tutto: dal contrabbando ai terroristi.
In quest’angolo di deserto, ricco di petrolio, gli Usa hanno lanciato la Trans Sahara Counter Terrorism Initiative e hanno iniziato ad addestrare i militari
di Mali, Mauritania, Niger e Ciad. Ma tale iniziativa
si sovrappone a una serie di conflitti, più o meno latenti, che fanno dell’Africa occidentale,
a maggioranza musulmana, una zona complessa
e delicata. E rischia di causare un incendio.

La strada sembra allungarsi a ogni passo, come se scivolasse verso l’orizzonte tremolante, disciolta dalla canicola. Basta fermarsi e distrarsi un attimo per non avere più chiaro da dove si viene e in che direzione si sta andando.
«È come essere nel bel mezzo del nulla» spiega Amaka Megwalu, ragazza statunitense di origine nigeriana, che si trova in Senegal per un tirocinio estivo presso un’organizzazione non governativa con sede a Dakar. Accompagna le parole con ampi gesti del braccio, indicando un punto lontano nel deserto, che lei ha potuto solo immaginare. Perché quello che ha avuto nel nord del Senegal non è che un assaggio, innocuo e circoscritto, della landa polverosa che si estende dall’Atlantico al sud dell’Egitto, passando per la Mauritania, Mali, Niger, Ciad e Sudan.

CONFINI DA… «RIPULIRE»
Il Sahel, che significa «al limite del deserto», è l’anticamera del Sahara: la cintura che separa l’Africa tropicale dal mare di sabbia. Una terra dai «confini porosi», come l’ha definita il cornordinatore dell’antiterrorismo del dipartimento di Stato Usa, Karl Wycoff. Su tali confini vegliano soldati infiacchiti e mal equipaggiati, che si contendono gli spiccioli estorti ai viaggiatori.
Attraverso queste frontiere passano ogni giorno, e da secoli, carovane e contrabbandieri, che ai cammelli hanno ormai affiancato camion traboccanti di merci, che portano da un capo all’altro del Sahel storie e notizie raccolte lungo la strada.
Ma ciò che ha attirato l’attenzione di Washington non sono i tradizionali viaggiatori del deserto, bensì i nuovi carovanieri che da qualche anno attraversano queste stesse frontiere: mercanti di droga, schiavi, armi e diamanti, immigrati clandestini all’inseguimento del sogno europeo, ma soprattutto terroristi, impegnati in scorribande o alla ricerca di luoghi remoti e sicuri per costruire campi di addestramento dove dedicarsi al reclutamento di nuovi combattenti.
I membri dell’intelligence statunitense sono convinti che i terroristi responsabili dell’attentato a Madrid dell’11 marzo 2004 abbiano «un legame con il Nord Africa» e che il limitrofo Sahel si stia trasformando in un nuovo Afghanistan. «Vogliamo prevenire il rischio – dichiara il capo dell’antiterrorismo del Comando militare statunitense in Europa, il colonnello Powl Smith – per evitare di dover intervenire direttamente in Nord Africa come abbiamo fatto in Afghanistan». Per questo il dipartimento di Stato Usa ha deciso di irrompere nella millenaria immobilità del deserto, lanciando, nel novembre del 2002, la Pan Sahel Initiative, ora ribattezzata Trans Sahara Counter Terrorism Initiative. La sua messa in atto è cominciata nei primi mesi del 2004 e prevede l’addestramento di truppe scelte degli eserciti di Mali, Mauritania, Niger e Ciad, per aumentare l’efficienza nel controllo dei confini e «ripulire» la regione dagli islamisti radicali.
«Mettendo gli eserciti locali in grado di combattere da soli – prosegue il colonnello Smith – gli Usa non potranno essere usati come un parafulmine per la rabbia popolare della quale gli estremisti potrebbero approfittare».

OCCHIO AL PETROLIO!
Washington ha ottimi motivi per preoccuparsi dell’Africa occidentale: secondo le stime dello stesso dipartimento dell’energia Usa, entro dieci anni un quarto del fabbisogno statunitense di greggio sarà soddisfatto proprio dai barili provenienti da questa regione del mondo.
Ma questa milionaria operazione di Washington (il budget iniziale di 6,25 milioni di dollari ha raggiunto i 125 milioni in 5 anni) si svolge su un terreno reso instabile proprio dai fiumi di petrolio che scorrono nel sottosuolo. La presenza dell’oro nero, infatti, provoca precarie alleanze e una costante imminenza di conflitti, legata a una logica immutabile che tuttora informa l’agire dei governi della regione, combinando la legge del più forte con la tendenza a vendersi al miglior offerente.
«Noi senegalesi non abbiamo niente: né oro, né petrolio, né diamanti. Solo arachidi e spiagge – constata con amara ironia madame Diakhoumpa, ricca dakaroise che affitta case ai funzionari inteazionali -. È per questo che ci hanno lasciato in pace. Ma tutto intorno a noi c’è guerra, fame, miseria».
La scoperta di nuovi giacimenti petroliferi in Africa occidentale rischia di replicare in tutta la regione le tensioni che da anni fanno della Nigeria, sesto produttore mondiale di petrolio, uno stato altamente instabile e percorso da conflitti che appaiono sempre più insanabili.
Accanto ai massacri nello stato federale centro-orientale del Plateau (effetto di reciproche rappresaglie tra le etnie di agricoltori stanziali tarok, di fede cristiana, e i pastori nomadi musulmani hausa fulani), la Nigeria paga un elevato tributo in termini di vite umane anche a causa della lotta senza quartiere che oppone l’esercito nigeriano ai pirati del petrolio: secondo le stime del colosso energetico Shell, viene sottratta una quantità di greggio pari a 60 mila barili al giorno.
«I gruppi criminali stanno aumentando di dimensioni e sono sempre meglio organizzati» rivela un abitante della città costiera Port Hancourt a Katharine Houreld del Guardian. «Ora non hanno più bisogno dell’appoggio dei politici, rubano oro nero e comprano armi autonomamente, e si stanno trasformando in vere e proprie milizie. Se le cose continuano così, il delta del Niger sarà una zona di guerra durante le prossime elezioni».
Visto il tragico precedente rappresentato dalla Nigeria, è ovvio che l’entrata in funzione dell’oleodotto, che collega il Ciad ai porti atlantici del Camerun, sollevi più di qualche perplessità quanto agli effetti che la sua presenza produrrà sulla stabilità della regione.
Il progetto, costato 3,2 miliardi di euro, rappresenta il più grande investimento della Banca mondiale nell’Africa sub sahariana: voluto nel 1996 dall’amministrazione statunitense del presidente Bill Clinton, l’oleodotto è stato sviluppato da un consorzio internazionale guidato dal gigante petrolifero Exxon Mobile, con la partecipazione di Petronas e Chevron Texaco.
Nel corso dei prossimi 25 anni, i proventi della produzione di greggio dovrebbero fruttare 2 miliardi di dollari al Ciad e 500 milioni al Camerun, risorse che i due stati si sono impegnati a investire nel miglioramento del sistema sanitario ed educativo, oltreché nello sviluppo di progetti agricoli.
IL CIAD INSEGNA…
Ma dare per scontato che queste promesse saranno mantenute significa sottovalutare le complessità delle dinamiche politiche africane e non tenere in considerazione l’intreccio contraddittorio e la volatilità degli equilibri politici della regione.
Il presidente ciadiano Idriss Déby, per esempio, si trova attualmente nel bel mezzo di una impasse le cui conseguenze possono travalicare i confini del suo paese e rischiano di mettere in discussione la sua stessa autorità.
La confinante zona del Darfur, regione occidentale del Sudan, è infatti da tempo insanguinata dai massacri compiuti dalle milizie arabe e musulmane janjaweed ai danni della popolazione nera, anch’essa di fede islamica. Più di un’autorevole fonte sostiene che sia proprio il governo sudanese a sostenere i «fucilieri a cavallo» (questa la traduzione del nome janjaweed) contro i gruppi ribelli presenti nel Darfur. Senonché la furia dei miliziani arabi si è scagliata sempre più spesso contro la popolazione civile, in particolare contro l’etnia zaghawa.
Ed è a questo punto che il Ciad entra in scena nel conflitto sudanese: il presidente ciadiano Déby, infatti, appartiene proprio all’etnia zaghawa, che vive in una zona a cavallo del confine tra i due paesi.
Secondo un recente rapporto della Banca mondiale, Déby sta subendo forti pressioni da parte della sua élite militare (anche questa di etnia zaghawa), affinché invii l’esercito ciadiano a difendere i «fratelli» sudanesi dalla ferocia dei janjaweed.
Si tratterebbe, dunque, per il presidente Déby, di lanciarsi in un clamoroso voltafaccia a Khartoum, nonostante il debito di riconoscenza nei confronti del presidente sudanese Omar Hassan Al Bashir, grazie all’appoggio del quale Déby era arrivato al potere in Ciad nel 1990.
La Pan Sahel Initiative, dunque, al di là delle parole e delle intenzioni del colonnello Smith, si innesta in una realtà tutt’altro che trasparente, dove l’addestramento militare viene fornito a eserciti di paesi percorsi da profonde contraddizioni politiche, inclini ai reciproci regolamenti di conti e propensi a interferire l’uno negli affari interni dell’altro, in maniera spesso sotterranea e incontrollabile. Tanto più che, paradossalmente, il più grande successo, per quanto riguarda la lotta ai gruppi terroristici che operano nel Sahel, lo ha ottenuto finora non l’esercito regolare ciadiano, bensì i ribelli di un brancaleonesco «Movimento per la democrazia e la giustizia in Ciad», che ha catturato, nel marzo del 2004, un gruppo di appartenenti all’algerino «Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento» (Gspc), sedicente affiliato di Al Qaeda e bersaglio dichiarato della Pan Sahel Initiative.

L’OMBRA DI BIN LADEN
Che i membri di Al Qaeda siano presenti in Africa occidentale non è una novità; così come sono da tempo noti i legami del Gruppo salafita con gli uomini di Osama bin Laden. «Fu l’allora capo del Gspc, Nabil Sahraoui – scrive il giornalista algerino Cherif Ouazani – che negli anni ’90 favorì l’infiltrazione in Algeria del messo di Bin Laden, Abdelaziz el Moukrine, e che lo aiutò a lasciare indisturbato il paese, quando Moukrine fu incaricato di organizzare il jihad in Arabia Saudita».
Il Gruppo salafita aveva goduto momenti di effimera notorietà, nel 2003, dopo essersi reso responsabile del sequestro di una trentina di turisti europei nel Sahara. I turisti furono rilasciati dietro il pagamento di un riscatto di 8 milioni di dollari, corrisposto dal governo tedesco, grazie al quale il Gspc aveva potuto rimpinguare il proprio arsenale.
Il protagonista dell’operazione fu Amari Saifi, ex paracadutista delle forze speciali algerine, convertitosi al terrorismo con il nome di Abderrezak el Parà, figura di spicco del Gspc, divenutone l’emiro dopo la morte di Sahraoui.
Proprio El Parà era alla guida del manipolo catturato nel marzo 2004 dai ribelli ciadiani. La sua cattura ha dato origine a una serie di trattative incrociate tra i governi di Ciad e Algeria, in cui è intervenuto anche il presidente della Libia Muhammar Gheddafi, da mesi impegnato a compiacere i governi occidentali, che gli hanno di recente concesso una sorta di riabilitazione internazionale, dopo averlo per anni considerato un nemico irriducibile.
La faccenda della consegna di El Parà aveva assunto i tratti di una telenovela: il governo algerino rifiutava di trattare con i ribelli ciadiani e faceva invece pressioni sul presidente Déby, dal canto suo incapace di imporre la propria volontà ai ribelli; fino alla pirotecnica entrata in scena del colonnello Gheddafi, che minacciò di intervenire militarmente, se El Parà non fosse stato consegnato alle autorità algerine.

TERRORISMO: FINCHE’ DURA…
Il risultato di un tale bailamme, nel corso del quale nessuno ha dato prova convincente di essere davvero interessato a catturare il terrorista, è stato quello di far sorgere dubbi sulle effettive intenzioni dei governi coinvolti, fino a suggerire un loro uso strumentale della campagna antiterrorismo americana.
«Abbiamo finito per pensare che nessuno degli stati africani vuole El Parà e che è nell’interesse di tutti lasciarlo libero di muoversi nel Sahel – ha dichiarato caustico l’incaricato degli Affari esteri del movimento ribelle ciadiano, Brahim Tchouma, alla ricerca di un riscatto per l’ostaggio -. Se venisse arrestato o ucciso, infatti, si interromperebbero anche i crediti americani che sono stati stanziati per combatterlo».
Il paradosso è evidente: se l’interpretazione data da Tchouma è corretta, i governi della regione, che ricevono denaro e mezzi finché esiste una minaccia terroristica da contenere, avrebbero interesse ad alimentare proprio quell’insicurezza che il governo Usa vuole ridurre con la Pan Sahel Initiative.
El Parà è stato rimesso alla custodia algerina nel novembre del 2004. Ciononostante, i vertici militari del Comando statunitense in Europa hanno ammesso che la loro iniziativa stenta a dare i frutti sperati. «Il problema – scrive il giornalista del New York Times Douglas Farah – è che gli Usa non stanno compiendo nessuno sforzo per competere sul piano delle idee». Viene lasciato il campo libero proprio a quei gruppi islamisti che trovano, specie nella rabbia dei giovani africani, terreno fertile per la propria predicazione.

FANATISMO E CORRUZIONE
Da mesi, ormai, c’è un regolare afflusso verso l’Arabia Saudita di studenti coranici, nigeriani e non solo, che vanno a perfezionare la propria preparazione in Medio Oriente e poi rientrano in Africa per fare proseliti. E il livello di fanatismo ha raggiunto vette preoccupanti proprio in Nigeria, dove gli estremisti musulmani avevano diffuso la voce che i vaccini antipolio, messi a disposizione dagli operatori umanitari occidentali, fossero in realtà un veleno, che avrebbe reso sterili i maschi musulmani, esortando così i genitori a non far vaccinare i propri figli.
Il fanatismo religioso e la corruzione dilagante in Africa occidentale finiscono poi per intrecciarsi con reciproca soddisfazione: celebre è l’episodio, riportato da Douglas Farah, del sodalizio tra l’ex presidente della Liberia Charles Taylor e gli emissari di Al Qaeda: questi avrebbero potuto contare sull’appoggio del liberiano per avviare un florido commercio di diamanti provenienti dalla Sierra Leone.
La compravendita di gemme aveva lo scopo di permettere ad Al Qaeda di diversificare le proprie risorse finanziarie e di svuotare i conti correnti non ancora scoperti e fatti congelare da Washington, come rappresaglia agli attacchi alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998.
Si trattava di una colossale manovra di pulizia di denaro sporco, attraverso gli stessi canali usati dal movimento sciita libanese hezbollah, la cui presenza in Africa occidentale è di ben più vecchia data. A fare da intermediario a tutta l’operazione c’era il senegalese Ibrahim Bah, mercenario addestrato in Libia, che aveva combattuto negli anni ’80 in Afghanistan contro i sovietici e poi in Libano al fianco degli hezbollah. Lo stesso Taylor ottenne per il disturbo una notevole somma di denaro.

Non stupisce che, inserita in una rete di relazioni così fitta e insidiosa, la Pan Sahel Initiative non decolli: presidiare un mare di sabbia è una contraddizione in termini. Specialmente quando quel mare è solcato da flotte di combattenti della religione e del petrolio, che si alleano e si tradiscono in modo del tutto imprevedibile e sotterraneo. Viene da chiedersi se gli Usa hanno davvero imparato la lezione dell’Afghanistan: quella di non armare i loro futuri nemici.


Mercella Federici




SINKIANGGrattacieli nel deserto

La Cina «modea» avanza nel Sinkiang, l’estrema provincia del nord-ovest, a spese della cultura millenaria degli uiguri, emarginati e repressi nelle proprie aspirazioni di libertà. Anche i turisti sono mal sopportati dai cinesi.

La strada asfaltata era ormai alle spalle. Il taxi ci stava portando verso il deserto. Il grigio ocra della terra e del cielo s’imponeva più che in città, dove la sabbia sospesa nell’aria, che ricopriva ogni cosa di un velo uniforme, lasciava almeno intravedere i colori, sebbene sbiaditi, delle insegne e delle macchine. Tutto era uniformemente grigio, le case di argilla come il cielo, il fiume, gli animali e la ghiaia del deserto. Solo i fazzoletti delle donne suggerivano il ricordo di un mondo colorato, rimasto al di là del velo di sabbia.

CONVERSAZIONE… RISCHIOSA
Il deserto intorno a Hotan è pieno dei resti di antiche città. Avevo scelto il sito archeologico più vicino: a soli 10 chilometri si trovano le rovine di Yotkan, la capitale di un regno esistito tra i secoli iii e viii. Incerta su come raggiungere il posto, soprattutto su come comunicare col taxista, avevo incontrato fuori dell’albergo un signore che parlava inglese. Una fortuna insperata: era la prima volta che mi capitava, da quando avevo attraversato la frontiera cinese, una settimana prima.
Di lì a poco avevo saputo che il mio nuovo conoscente era venuto dal nord del Sinkiang per partecipare a un convegno del partito comunista regionale. Era un uiguro. Più che gli occhi, anch’essi a mandorla, lo tradiva il colore olivastro della pelle, che si distingueva da quello latteo dei cinesi. Era stato allettato dall’idea di ravvivare, con una gita fuori porta, la monotonia di quel convegno, il cui unico motivo d’interesse era il buffet offerto a mezzogiorno e sera. Io gli avrei offerto un passaggio sul taxi e lui ci avrebbe messo la favella.
Il sito era appena ai bordi del deserto e consisteva in alcuni cumuli di macerie grigie. Salendovi, si capiva che quei detriti erano stati edifici, perché sotto i piedi si aprivano di tanto in tanto spazi vuoti, un lontano ricordo delle stanze di un tempo.
Non c’era molto che potesse attirare l’interesse del profano, ma, nella sua irrealtà e assoluta desolazione, il luogo soggiogava. Veniva voglia di andare verso l’orizzonte di quel mondo di sabbia, dove il sole non bruciava, né si vedeva, seminascosto dal pulviscolo sospeso nell’aria.
C’incamminammo. Quando intorno era scomparso anche l’ultimo segno di vita, eccetto le lucertole albine che ci sfrecciavano davanti a coda levata, il mio conoscente intavolò una conversazione rischiosa.
Ce l’aveva coi cinesi, razzisti, che trattano gli uiguri come gente di seconda categoria, li discriminano, si riservano i lavori migliori, fanno una politica demografica spietata. Gli uiguri che vivono in campagna possono, sì, avere fino a tre figli, ma a distanza di tre anni uno dall’altro. Le donne che rimangono incinte portano avanti la loro gravidanza di nascosto; ma se vengono scoperte, sono costrette ad abortire.
Mi confidò che le stazioni radio più seguite sono la Bbc e la Voice of America. Sperava che l’America sarebbe arrivata anche lì a sistemare un po’ di cose.
Ascoltavo senza fare troppi commenti. Non volevo togliergli quell’illusione. Sul conto dell’America, intendo. Anche una speranza vana, finché rimane viva, scalda il cuore. E poi, potevo fidarmi di lui? Non lavorava, forse, per il partito?
ALLA LARGA DAI TURISTI
Eppure, quelle parole non dovevano sorprendere sulla bocca di un uiguro. Solo pochi giorni prima, a Kashgar, avevo misurato l’ampiezza dell’opera di ricostruzione che il governo di Pechino sta compiendo a spese della cultura locale.
Non era la mia prima visita in città; vi ero stata 10 anni prima; tuttavia, appena arrivata mi sembrò che la memoria mi tradisse fortemente. Mi ero fatta portare all’albergo dove avevo alloggiato la prima volta; ma il percorso mi era parso molto diverso da come me lo ricordavo; giunta a destinazione, non avevo riconosciuto né il quartiere, né la via.
Ricordavo case basse, filari di pioppi, carretti trainati da muli e risciò a motore. Adesso c’erano ampi marciapiedi, larghi edifici squadrati, automobili e taxi rossi. Non mi ricordavo i due aceri finti nell’aiuola accanto alla porta dell’albergo, uno dalle foglie di plastica verde smeraldo e l’altro rosso cardinale, né l’ascensore panoramico nell’atrio.
Non volevo stare lì. Avevo letto che c’era una pensione uigura nel cuore della città, nel groviglio di vicoli intorno alla grande moschea Id Kah. Ne avevo un ricordo vivido, perché 10 anni prima quello era il quartiere più interessante per il visitatore: vi pulsava la vita, piazza e strade erano un susseguirsi di botteghe e locali dove gli uiguri si ritrovavano a mangiare kebab, a fumare e bere innumerevoli bicchieri di tè. Ora camminavo nella via affollata, tra la polvere e il rombo di macchine al lavoro. A un certo punto mi apparve il vuoto: case sventrate, macerie, voragini, ruspe.
In un moncone di strada trovai finalmente la pensione uigura, ma il proprietario non volle accettarmi. Al vedere la mia sorpresa per un rifiuto che contraddiceva le millenarie leggi d’ospitalità, cercò la parola inglese, evidentemente detta ad altri prima di me, che spiegava tutto: polizia. Le autorità non vedono di buon occhio la presenza di stranieri in quel luogo.

DUE MONDI A PARTE
Difficile descrivere il senso di perdita che si percepisce nell’osservare un mondo che scompare. Kashgar, uno dei più grandi mercati dell’Asia Centrale, millenario centro sulla via della seta e cuore della cultura uigura, si sta trasformando a ritmo serrato in una modea città cinese.
Nella piazza-cantiere, davanti alla moschea, un cartellone illustra il progetto di ricostruzione dell’intera area. Accanto alla moschea, che non verrà abbattuta, sorgeranno modei edifici, un centro commerciale. Il pavimento verrà ben lastricato e in questo ambiente, finalmente nuovo, pulito e asettico, la popolazione potrà ritrovarsi per fare compere o godersi il fresco della sera.
Si può obiettare che Kashgar non è l’unica città soggetta a tali rivoluzioni urbanistiche. Ciò accade in molti altri centri della Repubblica Popolare, per ragioni che non sono sempre quelle di dare agli abitanti condizioni di vita migliori.
Spesso interi quartieri centrali sono spazzati via per far posto a uffici, grandi magazzini o edilizia di lusso; ma a Kashgar c’è un motivo in più per stravolgere lo spazio urbano: cancellae il volto centroasiatico, privare delle sue radici la popolazione di etnia turca, che non ha mai accettato di buon grado il dominio del governo cinese.
La nuova Kashgar è pacchiana e posticcia. Me ne sono resa conto meglio il giorno dopo il mio arrivo, alla luce del mattino. L’architettura è a effetto, con trovate di dubbio gusto e pretese di originalità, ma realizzata in economia; invecchierà in fretta.
La città uigura continua a vivere nelle stradine a sud della moschea, dove per il momento non sono arrivati i piani di ricostruzione. Lì ci sono gli artigiani con le loro botteghe, ci sono le rudimentali chaikhane, con pochi tavolini intorno a specie di enormi samovar alimentati a legna; lì si possono ancora vedere le insegne dei dentisti: uno spaccato di bocca che mette a nudo muscoli, cavità, orifizi, il tutto in colori diversi. Sotto, in vetrina, ci sono protesi e sacchetti di denti. Anche i sarti hanno le loro insegne: vestiti da donna, uomo o bambino, disegnati con poche ingenue pennellate.
Nelle giornate calde è un sollievo fermarsi a mangiare un dogh, sorta di granita fatta con ghiaccio, sciroppo e yogurt, in una gelateria improvvisata con due panche e un carrettino. Ricevuta l’ordinazione, il gelataio si affretta a preparare il miscuglio, rimestandolo a larghi gesti con un cucchiaione di legno; poi lancia il tutto a mezz’aria, proprio come si fa con le frittate, e lo riacchiappa con grande destrezza, senza versare neanche una goccia.
Kashgar è famosa per il mercato domenicale, la cui sezione più pittoresca è quella degli animali. Pastori e allevatori fanno chilometri per venire a portare qui le loro bestie. Adesso questa attività è stata relegata in un campo a qualche chilometro dalla città. Lì ritrovo l’animazione che ricordavo.
Quando arrivo nel grande recinto dove sono raccolti gli animali, le trattative sono in pieno corso, nelle varie sezioni in cui sono suddivisi gli animali: quella delle pecore e montoni, la più rappresentata, quella degli asini e delle mucche. C’è anche qualche cavallo, ma nessun maiale, naturalmente.
Terminate le trattative, non guasta un po’ di svago: ci si può far dare una ripulita dai barbieri, che hanno messo le loro sedie proprio davanti all’entrata del recinto, per poi concedersi un piatto di langhman, spaghetti serviti con un sugo alle verdure, e un bicchiere di tè nella trattoria accanto; da ultimo, giocare una partita a biliardo attorno ai tavoli piazzati in strada.

INCOMUNICABILITÀ
A Yarkant, un’oasi ai margini del Taklamakan, a quattro ore di autobus da Kashgar, l’aria del rinnovamento non soffia ancora. Qui la città cinese è cresciuta accanto a quella uigura, inizia esattamente dove l’altra finisce; le due comunità vivono gomito a gomito, ma è come se fossero a mille miglia di distanza, tanta è l’estraneità tra i due mondi.
La città cinese è attraversata da un ampio viale, che è anche l’arteria di collegamento con la parte uigura. Non appena vi si arriva, però, il viale si scioglie in un reticolo di stradine non asfaltate e polverose, gli autobus fanno dietro front e se ne tornano in fretta nella civiltà.
All’imbrunire la strada principale a ridosso della moschea si riempie di gente e, finalmente, appaiono i venditori ambulanti di specialità uigure, con un campionario di mercanzie, la cui varietà offusca quella di Kashgar: teste di montone bollite, polpettoni di riso, frattaglie cotte, pesce affumicato, specie di patate ovali bollite, di un rosso intenso.
I pastai tirano gli spaghetti per il langhman, mentre alcuni clienti hanno già affondato le loro bacchette nelle ciotole con le porzioni già pronte. I bambini fanno girare le trottole a suon di frustate, mentre i grandi si raccolgono attorno a un televisore, che un venditore intraprendente ha portato in strada per attirare i clienti e che alimenta con un rumoroso generatore.
Mi dispiace di non potere comunicare con la gente. In Cina le barriere linguistiche sono insormontabili; ma qui, nella città uigura, sento che c’è curiosità nei miei confronti: non abbiamo una lingua in comune, però me lo dicono i gesti e gli sguardi. Una donna mi fa cenno di sedermi accanto a lei; le sorrido, le faccio capire che apprezzo il suo invito, ma che non riuscirei a parlarle. Lei è contenta così, le basta aver attirato la mia attenzione.
È già scuro, too nella città cinese, al mio albergo cinese.
La vera incomunicabilità la sperimento qui. La mattina ho faticato a trovare un hotel. Uscita dalla stazione degli autobus ho girato a lungo col mio bagaglio avanti e indietro per il viale prima di infilarmi nel portone giusto. Non è solamente un problema di lingua e di alfabeto: non un gesto, non un cenno, non il minimo tentativo di cercare un contatto. Per fortuna non è sempre così, ogni tanto trovi chi tenta di aiutarti; ma spesso agli occhi dei cinesi mi sono sentita alla stregua dei muri delle case, materia inerte, priva d’interesse.

TRA GRATTACIELI E MUMMIE
A qualche ora di strada a sudest di Hotan parte una camionabile di recente costruzione, che consente di attraversare l’immensa distesa del deserto del Taklamakan, invece di girarci intorno. Così si può arrivare a Urumchi, la capitale del Sinkiang, in meno di 30 ore di autobus.
Urumchi è una modea città cinese; la presenza uigura è molto ridotta. Anche qui faccio fatica a orientarmi; i ricordi di 10 anni prima non mi sono di molto aiuto. Ho cercato di nuovo l’albergo dove ero stata in precedenza; ma al suo posto vi ho trovato un palazzo di 30 piani, bassettino, tutto sommato, rispetto a quelli che gli stavano crescendo intorno.
Urumchi ha una skyline da fare invidia a Manatthan e continua ad arricchirsi di nuovi grattacieli, sempre più alti e avveniristici. Anche case di media altezza non sono al sicuro dalla smania costruttrice degli amministratori locali.
«Se in questa remota provincia la corsa alla modeità ha raggiunto simili livelli di frenesia, cosa sta accadendo a Pechino?» mi chiedo; ma la mia fantasia non riesce a immaginare niente di plausibile. Molto meglio usare l’energia rimasta per andare a rivedere le mummie custodite nel museo locale: uomini, donne, bambini di tremila anni fa, perfettamente conservati dal clima asciutto del Taklamakan.
Il deserto li ha preservati con tale cura, che nulla è andato perduto: capelli, ciglia, sopracciglia, denti, occhi, abiti, monili. Nell’osservare le fattezze di quei volti provo un senso di vertigine: mi sento diventata d’un tratto testimone diretta di quella vita lontana, come se il tempo fosse stato d’improvviso risucchiato.
Così, viaggiando tra il xxi secolo e il 1000 a.C., sono arrivata all’aeroporto di Urumchi. L’edificio per i voli inteazionali è assai male in aese: niente a che vedere con il modeissimo terminal dei voli nazionali, che ho potuto ammirare da lontano.
Noi passeggeri del volo per Mosca ci accalchiamo davanti al check in senza quasi lo spazio di rigirarci con i nostri bagagli. Le operazioni d’imbarco, già lente, s’interrompono, perché tutti i computer sono andati in tilt. Nell’attesa che riprendano, do una sbirciata alla copia del China Daily, il giornale in inglese, che ho preso in albergo. Devo sfogliarlo tutto per trovare finalmente quello che sto cercando: le notizie dal mondo sono alle ultime due pagine.

Bianca Maria Balestra