KIRGHIZISTAN Alla scoperta della via della seta perduta

In equilibrio instabile tra passato e futuro, schiacciato tra il colosso cinese e quello russo, il Kirghizistan conserva intatto, come ai tempi di Marco Polo, il fascino dell’antica Via della seta, dove miti, leggende e storia si mescolano con l’armonia degli astri.

«Noi kirghizi siamo un popolo che vive di miti e leggende; ogni villaggio, montagna, fiume, lago può raccontarti la sua epopea». Sheeren, la ragazza conosciuta durante una visita all’Università del Kirghizistan, si bea al sole, sotto una delle poche statue di Lenin sopravvissute all’ubriacatura liberista degli anni del post-comunismo in Urss.
Lo sguardo bronzeo del padre della Rivoluzione d’ottobre, continua a sfidare fiducioso il futuro, volgendosi verso i monti Ala-Too (montagne colorate), che sovrastano Bishkek, capitale dello stato. Di fronte a lui, gli autobus carichi di passeggeri, procedono lentamente, mostrando sulle fiancate pubblicità di prodotti occidentali: Seven Up, pellicole Fuji, elettrodomestici Philips, automobili tedesche.
È qui, tra queste evidenti contraddizioni di una società ancora nostalgicamente aggrappata al passato e al tempo stesso proiettata verso un domani alquanto incerto e precario, che inizio il mio viaggio lungo il tratto meno conosciuto e battuto della Via della seta: quello che da Bishkek giunge fino alla leggendaria Tash Rabat, l’ultimo caravanserraglio a disposizione dei mercanti, prima di varcare le soglie del Celeste Impero e raggiungere la città di Kashgar.

La Via della Seta

La Via della seta, che nell’immaginario collettivo viene vista come un’unica grande «autostrada», in realtà è un groviglio di sentirneri, che si intersecano, si allontanano, si uniscono, lungo 7.000 km.
Stalin ricordava che «la rivoluzione non si fa con i guanti di seta». Sbagliava. Per 17 secoli, lungo l’arco di 14 dinastie, la Via ha rappresentato la più importante fonte di comunicazione tra il mondo orientale e quello occidentale. Grazie a questa forma di primitiva globalizzazione, il buddismo ha varcato i formidabili contrafforti himalayani, per dilagare in Cina, Corea e Giappone, l’Islam è giunto in Asia Centrale, nuove culture sono sorte, altre sono deperite, calpestate da eserciti inarrestabili.
Solo l’arrivo in America degli europei, nel xvi secolo, ha decretato il definitivo declino della Via della seta: la necessità di solcare le infide acque dell’oceano ha dato impulso alla navigazione e i mercanti europei si sono accorti che, con le nuove navi, si risparmiava tempo e fatica, il viaggio era più sicuro e la quantità di merce trasportabile, maggiore.
Ma il fascino emanato dalla Via è resistito. Viaggiatori, scrittori, turisti più o meno preparati, hanno continuato a percorree i suoi segmenti o l’intero tragitto.
La Rivoluzione del 1917, prima, e quella iraniana del 1979, poi, hanno interrotto questo via vai di stranieri, concedendo solo l’apertura di qualche limitata porzione, piccoli assaggi di un tragitto che riserva emozioni a non finire.
Il tratto kirghizo, quello che mi accingo a coprire, è stato completamente chiuso durante il periodo sovietico, a causa della delicata posizione geografica, a ridosso del confine cinese, in cui si veniva a trovare. Solo verso la metà degli anni ’90, dopo l’indipendenza del Kirghizistan, il nuovo governo (formato dalle vecchie autorità sovietiche abilmente riciclatesi), ha riaperto, piano piano, la via al turismo di massa e individuale.
Questa nuova politica ha, inoltre, permesso la fioritura di piccole e discrete bed & breakfast a Bishkek che, con 15-20 euro a notte, permettono di limitare la spesa dell’alloggio nella città, altrimenti piuttosto dispendioso (40-100 euro per un albergo di media categoria).
Bishkek
Inizio la visita di Bishkek nel Museo di storia, indispensabile, se non altro, per capire quale sia l’attuale percorso politico del paese. Dei tre piani di cui si compone l’edificio, il secondo, dedicato a Lenin, è chiuso ufficialmente per restauro; ma Sheeren insinua che verrà presto smantellato. Il primo piano è occupato, per metà da una mostra permanente dello scrittore locale At Chinghiz Aitmatov, leggenda vivente nazionale, l’altra metà dal presidente Askar Akaev (vedi riquadro). Solo il terzo piano ripercorre velocemente la storia del paese, dalle origini alla Rivoluzione comunista.
Attraverso Panfilov Park, frequentato da bambini e da coppie di sposi che vengono a farsi fotografare sulla ruota panoramica, per entrare nel Museo di Mikhail Vasilievich Frunze, il personaggio politico kirghizo più conosciuto all’estero e il cui nome ha identificato la città sulle cartine geografiche fino al 1991.
Nato nel 1885, Frunze nel 1917 guidò le Guardie rosse alla presa del Cremlino. Otto anni dopo, divenuto troppo scomodo per Stalin, morirà durante un’operazione chirurgica. Il Museo ingloba la sua casa natia; almeno così affermano le guide; ma Shereen, che sul rivoluzionario sta scrivendo una tesi, ritiene improbabile che la vera dimora sia potuta sopravvivere a 110 anni di sconvolgimenti storici. La cosa che più mi colpisce è che nessuna delle foto in esposizione ritrae Frunze con Stalin. Anzi, nessuna foto ritrae Stalin.
Prima di abbandonare le comodità della capitale, mi immergo nell’Osh bazaar, un brulicare di venditori dispersi in un bailamme di colori, suoni, risa, dove con pochi som (1 som vale 25 centesimi) è possibile comperare spezie, frutta, verdura, carne. I som¸ invece, non servono per scattare fotografie, a differenza di quanto accade nei mercati di Bukhara o Samarcanda, più avvezzi al turismo.

La leggenda della Torre di Burana

Dopo due giorni a Bishkek, imbocco finalmente la Via della seta, dirigendomi a est, verso il lago Issyk Kul. A farmi da guida è Evgenij «Jenia», laurea in ingegneria elettronica e in lingue, ma disoccupato, come il 20% dei suoi connazionali.
La prima meta è la Torre di Burana, la vecchia Balasugun conquistata nel 1224 dai mongoli di Gengis Khan. Nel mezzo di una pianura sconfinata, la torre a tronco di cono si erge quasi a sfidare i primi contrafforti della catena Tien Shan che si elevano all’orizzonte.
A conferma di quanto diceva Shereen, anche questo monumento ha la sua leggenda: quella di una principessa rinchiusa nella rocca dal padre, il quale intendeva salvarla da una predizione che la voleva in pericolo di morte sino al compimento del 18° anno di età. A nulla, però, valsero i propositi regali. La morte giunse puntuale il giorno del 18° compleanno, sotto le sembianze di un ragno, intrufolatosi in un cesto di frutta, il quale morse la fanciulla, uccidendola.
Né io né Jenia siamo riusciti a capire come una persona normale abbia potuto sopravvivere all’interno di un luogo tanto angusto e tetro, ma si sa, le principesse non sono mai state persone normali. Il mito esprime piuttosto la metafora dei pericoli provenienti dall’esterno per il piccolo e indifeso popolo kirghizo. Solo restando entro le pianure e valli delimitate dalle alte montagne della catena Tien Shan, i kirghizi potevano sperare di far fronte alle scorrerie nemiche. E così hanno fatto dal xiii secolo, quando, scacciati dalle steppe siberiane, si sono stabiliti in queste lande.
Issyk Kul
Da Burana costeggiamo il fiume Chuy, rinomato per i canyons di rara bellezza, a cui poeti e mercanti che ne costeggiavano le sponde si sono ispirati per scrivere versi letterari di struggente bellezza. Oggi le sue rapide sono affrontate da esperti raftisti che giungono da tutto il mondo.
Raggiungiamo la città di Balykchy, che si affaccia sull’Issyk Kul (issyk = caldo, kul = lago), il secondo lago alpino più esteso al mondo, dopo il Tititaca. Qui i sentirneri e le rotte marittime intee, provenienti dall’Asia nordorientale, confluivano nel tronco principale della Via della seta. Nel bazaar cittadino, ancora oggi tra i più colorati del Kirghizistan, venivano barattate merci di ogni tipo, per essere poi portate in Mongolia, Siberia e nord della Cina.
La regione di Issyk Kul è stata interdetta agli stranieri per tutto il periodo sovietico. Nei suoi 6.236 kmq di superficie, la marina russa sperimentava i nuovi siluri, e attorno ai 688 km di costa sono sorte città dormitorio per i militari.
Tutto ciò, però, non ha impedito che le acque limpide e calde del lago siano, oggi come ieri, meta del turismo interno. Le stupende spiagge di sabbia che si aprono sulla costa, l’acqua leggermente salata, dovuta ai depositi minerali dei fiumi immissari (l’Issyk Kul non ha emissari), permettono di non far rimpiangere troppo ai kirghizi, la mancanza di uno sbocco marino.
Costeggiamo tutto il lago fino a raggiungere Karakol, dove rendiamo omaggio al più grande esploratore russo dell’800: Nikolai Mikhailovich Przhevalsky. Nonostante fosse cristiano e le sue spedizioni abbiano dato lustro al regime zarista, le autorità comuniste non hanno mai cercato di oscurare i suoi meriti, dedicandogli anche un interessante museo.

Son Kul dove ancora cavalca Manas

Toiamo sulla Via della seta per dirigerci verso un altro lago, più piccolo, ma decisamente ricco di fascino: il Son Kul. La strada che vi conduce lascia senza fiato, per la straordinaria bellezza dei panorami: in pochi chilometri il Mammut (camion delle truppe militari) arranca tra paesaggi alpini che ricordano le valli svizzere, tra desolazioni desertiche afghane, per poi sfrecciare in pianure altaiche.
È durante questa tappa che iniziamo a scorgere le prime yurte e i primi cavallerizzi. Sono le «avanguardie» del fiero popolo kirghizo, quello che non ha mai scordato le sue origini nomadi e battagliere, che ha per patria le steppe, per dèi gli astri del cielo, per compagni i cavalli. Tutto questo si materializza a Son Kul, una perla azzurra incastonata tra chilometri e chilometri di verdi praterie e dolci colline.
Non è difficile immaginare gli eserciti agli ordini di Manas, l’eroe della mitologia kirghiza, scorrazzare tra queste pianure, per poi scontrarsi con i nemici, lancinando l’aria con urla e sibili di frecce, mentre gli zoccoli dei destrieri lanciati all’attacco, fan tremare l’acqua del lago.
A Son Kul non c’è elettricità né acqua corrente; si dorme nelle yurte assieme ai nomadi, sistemazioni spartane, ma sicuramente le più compatibili con l’ambiente.
Da secoli i popoli delle steppe vivono in queste capanne mobili. Marco Polo, ne Il Milione, descrive in modo mirabilmente minuzioso queste dimore: «Le case sono di legname e sono coperte di feltro, e sono tonde, e portanseli dietro in ogni luogo ov’egli vanno, però che egli hanno ordinato sì bene le loro pertiche, ond’egli le fanno, che troppo bene le possono portare leggiermente in tutte le parti ov’egli vogliono. Queste loro case sempre hanno l’uscio verso il mezzodie…». Nulla è cambiato da allora ad oggi.
Al crepuscolo, sorseggiando kumus e sbocconcellando del nan e kurut, ascoltiamo Chinara e Jazgul, due manaschi che intonano canzoni kirghize. Parlano di amori impossibili, di epiche battaglie, di Manas, delle «Quaranta Madri Tribali», da cui si dice discendano le 40 tribù che formano il popolo kirghizo. Racconti tramandati da secoli, sentiti da migliaia di mercanti che transitavano sulla Via della seta, così come oggi noi li risentiamo. Stesse parole, stesse melodie, che si perdono nelle stesse praterie, rimbalzando sulle acque cristalline del Son Kul.
Emozioni. Le stesse provate nel sentire, il giorno dopo, la nonna raccontare al nipotino come il grande Gengis Khan aveva sconfitto i turchi, passando proprio dove ora è innalzata la loro yurta. E se poi questo racconto non è avvalorato dal corso degli eventi, beh, tanto peggio per la storia. Le leggende non chiedono certo il suo permesso per penetrare nella mente di un popolo.
La sera, mi siedo con Jazgul sotto un cielo stellato che non riesco a definire altro se non «simply great». Stiamo in silenzio per decine di minuti, incuranti dell’aria che a 3.000 metri si è fatta fredda e pungente. Alla fine, Jazgul, accorgendosi del mio disagio di fronte a tanta immensità, inizia: «Quando saprai ascoltare la musica del cielo, le parole che ti provengono dalle stelle e dalla luna, allora saprai di essere in pace con te stesso».
Il ricorso alla sinfonia celeste mi ricorda tanto la teoria della «musica delle sfere» di Pitagora: dopotutto la mente del genere umano non è così diversa…
Naryn
Lasciamo con dispiacere Son Kul alle spalle e puntiamo ancora verso sud, dirigendoci a Naryn. Oramai le yurte sono visibili ovunque, anche dove non dovrebbero esserci: lungo le strade, appena si apre uno spiazzo, ecco un gruppo di yurte-ristorante.
A Naryn, città che prende il nome dal fiume più lungo del Kirghizistan che la attraversa, dormiamo in un yourt-inn alla periferia della città.
Il bazaar di Naryn è stato per secoli uno dei più attivi della Via della Seta, dato che è il primo grosso mercato che si incontra provenendo dalla Cina. Oggi i suoi fasti sono solo un ricordo, ma dopo che Pechino e Bishkek hanno riaperto le frontiere, Naryn sta conoscendo una seconda rinascita

Tash-Rabat: ultima frontiera

L’ultima tappa del nostro viaggio verso sud ci porta a Tash-Rabat. La strada si intrufola tra strette gole, costringendo il Mammut a guadare fiumi, sprofondare in buche, inclinarsi pericolosamente su un costone roccioso. Alla fine, ecco aprirsi di fronte a noi il caravanserraglio di Tash-Rabat.
Qui, a 3.500 metri di quota, le carovane han sostato per secoli, rifocillandosi prima di intraprendere la scalata al passo che porta in Cina. Accanto alla costruzione in pietra, risalente al xv secolo, ma restaurata nel 1984, ci sono delle yurte abitate da nomadi e la piccola fattoria dove vive il direttore del caravanserraglio, Jergobiek Karpiekof, assieme alla moglie Tursun e le figlie. Assieme a loro visitiamo l’edificio: la luce del giorno penetra dai pertugi della cupola, illuminando la sala principale. Da qui si aprono a ventaglio le stanze dei mercanti, le prigioni, le stalle, le mangiatornie. Il tutto in uno spazio alquanto ristretto.
È l’ultima notte che trascorriamo a Tash-Rabat, domani cominceremo il viaggio di ritorno. Mentre me ne sto seduto a gambe incrociate di fronte alla yurta dove sono alloggiato, osservo il cielo rischiarato dalla luna. Aikanish, la figlia più piccola di Jergobiek ed il cui nome significa «Regina della luna», ha appena terminato di cantare una filastrocca.
Ora, solo l’acqua del vicino ruscello fa da sottofondo alle stelle. Fisso la fioritura della Via Lattea lassù, proprio sopra la valle e non riesco a distinguere se il dolce sciabordio è dovuto all’acqua del ruscello o allo scorrere degli astri nell’infinito. Che sia questo il Nirvana?

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Alla ricerca degli ultimi "manaschi"

Da Bishkek, un viaggio di 13 ore ci ha portato sulle rive delle acque color smeraldo di Son Kul, al centro di un vasto altopiano a 3.500 metri. Attoo al lago, dopo il dissolvimento dell’Urss, che li aveva costretti alla vita sedentaria, sono tornati ad abitare i nomadi, che ne hanno punteggiato di yurte bianche il tappeto verde e, con molta fatica e abnegazione, cercano di far rivivere le loro tradizioni ataviche.
La spedizione a cui mi sono aggregato, è composta da etnologi, antropologi e musicologi, che si prefiggono di studiare e registrare i canti degli akyn, i cantastorie itineranti del Kirghizistan, che raccontano la vita quotidiana, gli amori, le gesta delle tribù locali, per poi metterli a confronto con quelli degli anni ’30, periodo in cui Stalin obbligò i nomadi a stanziarsi nei kolchoz, e annotare le differenze che il tempo e gli eventi politici hanno apportato.
Son Kul è stata scelta per due motivi: per il paesaggio, che ricorda le terre d’origine dei kirghizi nella Mongolia e Yenisei, e per il tipo di tribù insediatesi nelle regioni, considerate le più fedeli alle tradizioni del passato.
«Se è vero che il territorio è uno dei principali elementi che influiscono nella formazione di una società, allora Son Kul è il terreno ideale per studiare il nuovo corso del pathos kirghizo» dice l’etnologa Susan Mat Som, della Malaya University di Kuala Lumpur. In effetti, qui tutto ricorda lo spirito che pervade l’animo di questo piccolo popolo: fierezza e spartanità della vita, libertà di spazi incontaminati in una terra stupenda ma inospitale, assoluto silenzio delle notti stellate.

Nelle società nomadi kirghize, gli akyn occupano tradizionalmente un posto di riguardo, accanto agli sciamani. Ma, mentre questi ultimi sono parte integrante di uno specifico clan e prendono parte a tutte le attività sociali a esso collegate, i cantastorie ne sono al di fuori. Nomadi tra i nomadi, sono sempre stati elementi super partes, quindi le persone più adatte per suggellare rapporti tra le diverse tribù, divulgare notizie, mediare matrimoni, sedare liti e, nei tempi passati, chiamare alla guerra.
Prima dell’introduzione della lingua scritta, a opera del governo sovietico, gli akyn erano anche delle biblioteche viventi. A loro erano affidate le memorie storiche e mitologiche dell’intero popolo kirghizo, mentre ai più capaci veniva dato il compito di tramandare il testo dei testi per eccellenza: l’epopea di Manas, il leggendario eroe guerriero che portò questo piccolo popolo a ritagliarsi un territorio in cui vivere libero e pacifico. L’intero racconto di 550 mila strofe, supera in lunghezza qualsiasi altra mitologia e per la completa declamazione occorrevano ben 13 giorni di estenuanti performances. I pochi akyn che raggiungevano un tale livello di sapienza (e onore), venivano fregiati del titolo di manaschi, cantori di Manas.
Oggi, la trasposizione scritta dell’epopea ha dissuaso gli akyn a intraprendere il faticoso ed estenuante processo di memorizzazione, tanto che i manaschi attuali possono declamare al massimo qualche decina di migliaia di strofe.

Dopo una settimana di registrazioni, veniamo a sapere che nella regione stanno girando due tra i migliori akyn del paese. Ci dirigiamo verso il luogo indicato e, appena superata l’ennesima collina, giungono alle nostre orecchie le melodie, un poco malinconiche, di una canzone tradizionale accompagnata dalle note di un liuto.
Appena giunti ci aspetta una sorpresa: uno dei due akyn è una ragazza, Orozkavieva Chinara, che gira assieme a Macsaz Moldagauizv. Jacques Charreaux, musicologo del gruppo, che sta preparando un programma per la radio francese sullo sviluppo della cultura musicale dei popoli delle steppe, è entusiasta: «L’era post-sovietica, oltre a rinnovare la metrica di alcuni canti, ha introdotto una vera rivoluzione nella tradizione dei cantastorie: la voce femminile».
A mano a mano che Chinara e Macsaz continuano la loro esibizione e Mambetova Jazgul, la nostra guida, ci traduce il significato delle parole, ecco delinearsi nella nostra mente, tra le steppe, migliaia di soldati a cavallo che urlano per incutere timore all’avversario, ma anche per esorcizzare la propria paura. Poi gli scontri, cozzi cruenti e crudeli, come solo i duelli all’arma bianca e all’ultimo sangue possono essere. Uomini calpestati dagli zoccoli dei cavalli, zolle di terra sollevate che ricadono sui corpi dei caduti, clangori di lame che si incrociano, sibili di frecce…
Poi, improvvisamente, lo stornello cambia e con esso lo scenario. Il canto d’amore di Ailanash per il suo uomo che mai più toerà, si perde nell’immensità delle pianure, senza che nessuno riesca a raccoglierlo. I cavalli che pascolano tranquillamente sulle alture sembrano non accorgersi del dolore della fanciulla. Solo uno si avvicina e chiede alla ragazza di salirgli in groppa: è il destriero cavalcato dall’amato e solo lui potrà ricongiungere i due. Ailanash si ritrova a librare nel cielo, con i capelli al vento. Andrà a raggiungere l’amore e, come lui, si tramuterà in stella.

Per ore e ore, Chinara e Macsaz continuano a declamare versi accompagnandosi con il liuto. «Molte canzoni le abbiamo composte noi, ascoltando la sera i racconti degli anziani: storie di quotidianità che a molti passano inosservate, ma che in realtà rappresentano testimonianze di una tradizione che, prima o poi, sappiamo che scomparirà, soppiantata dai miti dell’agiatezza della città» afferma con voce pacata Chinara qualche sera dopo, mentre mangiamo nella yurta.
È fiera di cantare assieme a Macsaz Moldagauizv, attualmente il più giovane akyn, che sta imparando a memoria l’epopea di Manas. Dall’età di 7 anni, suo nonno, manaschi anche lui, gli ha insegnato passo per passo come cantilenare le strofe. Gli chiedo cosa significa essere manaschi e come si diventa. «Solo chi ha un albero genealogico puro kirghizo può sperare di diventare manaschi. Ma non basta: un manaschi deve saper amare il suo popolo e le tradizioni più di sé stesso e della propria famiglia. E ancora non basta: oltre a tutto questo, un manaschi deve essere cosciente che sta per diventare colui che tramanda il ricordo del più grande eroe dei kirghizi, quindi deve sentire su di sé tutto il peso di tale responsabilità. Quando un manaschi canta le gesta di Manas, diviene lui stesso Manas».
Poi indica il tunduk, l’intelaiatura tonda di legno rosso, peo centrale in cui si innestano le pertiche di sostegno laterali e attraverso cui defluisce il fumo del focolare domestico: «Senza tunduk non ci sarebbero yurte; senza Manas non ci sarebbero i kirghizi. Manas è il supporto del tunduk, della nostra casa, della nostra famiglia, delle nostre tradizioni».

L’ aria gelida della notte rende limpida la volta celeste. Le stelle sembrano cristalli luminosi lanciati dalla mano di un gigante, chissà, forse proprio da Manas…
Nel sacco a pelo, sento Macsaz intonare un’ultima melodia.
«Le truppe dei Kara Kyrgyz si unirono nella battaglia.
Nessuno dei guerrieri si ritirò.
Tutti si unirono alla battaglia.
I resti delle yurte formarono una montagna.
I corpi delle persone vennero accatastati
per formare montagne.
Uomo, tu dormi su quelle montagne».

Piergiorgio Pescali




OBIETTIVI SVILUPPO DEL MILLENNIO Tutti a scuola (2)

Il diritto allo studio è l’Obiettivo di Sviluppo del Millennio numero due: l’istruzione primaria è il ponte che permette alla persona di fare le proprie scelte e diventare parte integrante e attiva della società e del mondo.

Banchi di scuola per tutti, a Nord e a Sud, al freddo e al caldo, in campagna e in città, nel deserto e nelle baraccopoli. Perché l’istruzione è il punto di passaggio necessario per offrire a tutti le stesse possibilità, per dare gli strumenti ai bambini di oggi di costruire il proprio futuro o, quanto meno, di avere qualche carta in più per diventare protagonisti attivi della loro vita.
Il traguardo numero due degli «Obiettivi di sviluppo del millennio» (vedi riquadro), dichiarati come priorità dell’agenda internazionale da 189 stati membri delle Nazioni Unite durante il Millennium Summit del 2000, sottolinea l’importanza dell’alfabetizzazione universale, perché tutti i bambini del mondo possano imparare a «leggere, scrivere e fare di conto», come si diceva una volta.
Sono molti i paesi dove il diritto all’istruzione è ancora negato e i bambini non hanno la possibilità di frequentare gli «studi dell’obbligo», come vengono chiamati.
Secondo i dati del 2000, 104 milioni di bambini in età scolare non andavano a scuola: di questi, il 57% apparteneva al mondo femminile e il 94 per cento viveva nei paesi in via di sviluppo (soprattutto nell’Africa sub-sahariana e nel sud dell’Asia). Questo per la piaga del lavoro minorile, o dei bambini soldato, o della povertà che impedisce alle famiglie di pagare l’iscrizione, o i libri e i quadei necessari allo studio, o la divisa da indossare.
Spesso infatti, non sono le strutture che mancano: la maggior parte dei paesi in via di sviluppo ha le scuole necessarie per garantire questo diritto dell’infanzia: nonostante ciò, solo in un quarto di queste nazioni i bambini raggiungono un livello base di istruzione.

Esperienze vissute

Le ragioni per non frequentare la scuola o abbandonarla prima del tempo possono essere diverse, a volte intrecciate con altre difficoltà della vita che rendono difficile guardare al futuro; ci si accontenta di tirare a sera e sopravvivere fino a un nuovo giorno.
Il Tanzania può essere un buon esempio per capire come, a volte, la presenza di scuole e anche di aiuti da parte del governo, ancora non basti per portare i bambini in classe. Il governo tanzaniano, per permettere l’accesso all’istruzione anche ai nuclei familiari più disagiati, ha eliminato le rette, lasciando da pagare alle famiglie solo 10 euro l’anno.
Ma nel paese una persona su tre vive al di sotto della soglia della povertà e, nonostante l’iniziativa del governo, tre bambini su dieci non hanno la possibilità di andare alla scuola primaria: anche quei 10 euro fanno la differenza.
Altre volte la difficoltà è legata alle esperienze vissute dai bambini, che rendono difficile un ritorno alla normalità e quindi anche ai banchi di scuola: nel caso degli ex bambini soldato, per esempio, è spesso difficile ritornare a studiare, rientrare in una classe, in mezzo ai compagni di scuola, dopo tutto quello che hanno visto e vissuto e che continua a tornare nella loro mente.
Altre volte ancora un male ne porta con sé un altro e bambini con la vita già segnata dal virus dell’Aids si vedono negare l’accesso a scuola. È successo per esempio in Kenya, a Nairobi, dove il nuovo anno scolastico iniziato a gennaio ha lasciato fuori da alcune scuole elementari i bambini sieropositivi, ai quali non è stata permessa l’iscrizione: le classi «erano piene».

Diritto per sopravvivere

La negazione di questo diritto ai bambini è grave e porta con sé conseguenze per tutta la vita. L’istruzione primaria di base è la chiave della sopravvivenza in diversi contesti e situazioni, ogni giorno: senza di essa, viene negata la possibilità di esercitare diversi lavori, non si possono contare i soldi, non si possono leggere istruzioni, percorsi da fare, strade dove andare, pericoli da evitare. Non si possono leggere le spiegazioni di un medico, contare le pastiglie, capire le medicine da prendere e a che ora, capire cosa viene proposto di fare e fatto firmare.
Sapere leggere, scrivere, contare può determinare il corso della vita di un individuo. Se ne sono rese perfettamente conto alcune mamme in Ecuador, che a Logarto, nella provincia di Rioverde (zona dell’entroterra) hanno protestato a viva voce per la chiusura della scuola, avvenuta all’inizio di quest’anno. La maestra se ne era andata; ed essendo una struttura con un unico insegnante, come accade spesso, le lezioni erano state sospese.
In questo paese, ma non solo, spesso l’istruzione dei bambini è legata alla buona volontà dei loro maestri, che devono fare chilometri di strada per raggiungere la scuola, che raccontano di banchi vuoti, perché le famiglie a un certo punto dell’anno scolastico non possono più fare a meno dei loro figli per il lavoro nei campi.
Altre volte invece, gli insegnanti ci sono, vorrebbero esserci anche i bambini e lo vorrebbero anche i genitori, ma i banchi sono vuoti e le lezioni interrotte, perché la povertà, complice la natura, ha avuto la meglio. Come è successo a ottobre dello scorso anno fra le comunità indios in Paraguay: 8 mesi di siccità hanno portato alla chiusura di 50 scuole. La maggioranza dei bambini era partita con la famiglia verso le montagne, per procurarsi cibo; i pochi rimasti avevano troppa fame ed erano debolissimi, certo non in grado di concentrarsi e seguire le lezioni.

A che punto siamo

Gli esempi che si possono fare sono numerosi e spaziano da un continente all’altro, a sottolineare l’importanza dell’Obiettivo di sviluppo del millennio stabilito. Secondo le analisi della Banca mondiale, che ha valutato il panorama scolastico in 155 paesi in via di sviluppo, solo in 37 venivano completate le scuole primarie e, sulla base dell’andamento fino agli anni Novanta, si poteva prevedere il raggiungimento di tale risultato in altri 32. Ma gli altri?
Se le cose non cambiano e le iniziative non accelerano i cambiamenti e miglioramenti della situazione, non raggiungeranno l’obiettivo, anche perché in alcuni casi non solo la situazione è definita ferma, «stagnante», ma addirittura peggiorata negli ultimi anni.
Le regioni dell’Asia dell’Est e Pacifico, Europa e Asia Centrale, America Latina e Caraibi sono sulla buona strada e potrebbero arrivare alla meta entro il fatidico 2015.
Facendo esempi più precisi, se continuano con lo stesso ritmo e caratteristiche, hanno buone possibilità di successo Cina, Russia, Bulgaria, Laos, Brasile e Messico. Ma le altre tre zone geografiche identificate, che contano 150 milioni di bambini in età da scuola primaria, rischiano di fallire.
L’Africa sub-sahariana è quella con maggiore ritardo (meno del 50% dei bambini raggiunge l’obiettivo) e dal 1990 sono pochi i progressi registrati. Il cammino dell’Asia del Sud è troppo lento: poche iscrizioni e pochi cicli di studio terminati. Nel Medio Oriente e Africa del Nord la situazione è sostanzialmente ferma agli anni ’90, nonostante il numero di iscrizioni a scuola sia relativamente più alto rispetto alle altre due regioni.
Da ricordare infatti, come l’obiettivo da raggiungere sia il completamento degli studi, perché la sola iscrizione alla scuola non rappresenta una garanzia sufficiente: in Madagascar per esempio, nonostante una percentuale molto alta di iscrizioni, otto studenti su dieci non completano il ciclo primario di istruzione.
Di fatto dunque, se le cose continuano così, i bambini di oltre la metà dei Paesi in via di sviluppo non potranno completare la scuola elementare entro il 2015.

* Siti Inteet:
http://www.millenniumcampaign.it
http://www.developmentgoals.org
http://www.developmentgoals.org/Education.htm
http://www.unmillenniumproject.org
http://web.worldbank.org
http://www.peacereporter.net

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Mete da raggiungere

1. Povertà e fame: dimezzare rispetto al 1990 la povertà estrema e la fame.
2. Istruzione: garantire a tutti un livello di istruzione primaria.
3. Parità dei sessi: promuovere l’uguaglianza tra maschi e femmine; dare maggiore autonomia e poteri alle donne.
4. Bambini: ridurre di due terzi rispetto al 1990 la mortalità infantile.
5. Mamme: migliorare la salute matea, inclusa la riduzione di tre quarti rispetto al 1990 della mortalità in gravidanza e da parto.
6. Malattie: prevenire la diffusione di HIV/AIDS, malaria e altre malattie.
7. Ambiente: assicurare uno sviluppo sostenibile.
8. Scienza, tecnologia, progresso: sviluppare una collaborazione globale per lo sviluppo.

Box 2

OBIETTIVO N°2

Garantire in tutto il mondo un livello di istruzione primaria

Raggiungere in tutto il mondo un livello di istruzione primaria. Gli obiettivi del millennio in questo campo sottolineano come l’istruzione sia sviluppo: apre le porte alla possibilità di scegliere e fornisce nuove opportunità alle persone; fornisce i mezzi per contrastare la povertà e il diffondersi delle malattie, offre a tutti la possibilità di far sentire la propria voce e le proprie aspirazioni nella società, partecipando in modo attivo alla vita pubblica.
Entro il 2015 la meta da raggiungere è il diritto allo studio: garantire a tutti i bambini, maschi e femmine, ovunque siano nati, la possibilità di frequentare e completare i corsi di scuola primaria

Valeria Confalonieri




COLOMBIA – Lungo è il cammino (2)

Il progetto di vita della comunità nasa della Colombia nasce dalle radici di una storia secolare. Oggi è un segno di alternativa in mezzo al conflitto.

Ezequiel Vitonas ha gli occhi neri e lo sguardo profondo. Dietro ai baffi, si apre un viso largo, un po’ sognatore, marcato dalle fatiche di una vita non facile, spesa in buona parte a guidare verso il futuro la sua gente. Come il profeta visionario dell’antico testamento di cui porta il nome, Ezequiel si affanna da anni a coniugare il vecchio e il nuovo, ricercando i valori tradizionali che hanno alimentato spiritualmente la vita della comunità e adattandoli ad un mondo che cambia a velocità supersonica. Come rispondere all’avanzare inarrestabile della globalizzazione e della modeità?
Quest’uomo poco più che cinquantenne, ex sindaco di Toribío, oggi consigliere maggiore dell’associazione dei cabildos indigeni del nord del Cauca (Acin), è stato, di fatto, il «ministro degli esteri» del progetto nasa. Ma, pur avendo viaggiato in Europa, Nord America e Asia al fine di promuovere la causa indigena, Ezequiel ha sempre dedicato molto tempo alla formazione della comunità, partecipando a un’infinità di piccoli seminari e grandi assemblee per informare e orientare la gente in merito al processo organizzativo indigeno.
È stato proprio in occasione di uno di questi piccoli incontri in cui, per la prima volta, sono entrato in contatto con l’organizzazione della comunità che mi apprestavo a servire come membro dell’équipe missionaria del Cauca. Il tema trattava del «progetto di vita», la miglior finestra per poter entrare e sbirciare all’interno di un mondo differente, che affonda le sue radici nella storia ancestrale e nel mito.

Un progetto di vita

Il progetto di vita comunitario è lo strumento orientativo che, raccogliendo l’esperienza del passato, analizza la situazione congiunturale, ne raccoglie l’impatto che essa ha sulla comunità e ne orienta la proiezione futura. Il progetto di vita non è un piano di sviluppo, ma ne rappresenta lo spirito: uno spirito in grado di influenzare le decisioni di ordine politico e socio-economico, secondo criteri che mirano al benessere di tutta la comunità.
Sebbene la leadership di alcuni membri più preparati della comunità sia un fatto indiscusso e accettato, il progetto di vita vuole anche essere uno strumento politico alternativo. Il progetto comune stimola infatti a un coinvolgimento popolare reale in opposizione alla «politiqueria» clientelare dei partiti tradizionali o alla demagogia di altri movimenti, in cui si spacciano per comunitarie decisioni prese da un pugno di leader animati il più delle volte da interessi personali o di clan. In questo senso il processo indigeno del nord del Cauca presenta elementi sorprendenti che vale la pena analizzare visto e considerato che fatti recenti lo hanno portato prepotentemente alla ribalta davanti all’opinione pubblica colombiana e internazionale.
Vi sono due modi di raccontare chi sono i nasa, da dove vengono e come vivono: il metodo storiografico, che si basa sull’analisi scientifica dei documenti, e la visione del mondo tradizionale, piena di immagini mitiche, che interpretano in modo narrativo gli aspetti e i fatti più salienti della realtà. Questi due modi di «fare storia» sono complementari e raccontano entrambi, seppur in forma diversa, l’epopea di un popolo che sin dalle sue origini ha saputo sopravvivere resistendo, inizialmente al potere coloniale spagnolo e successivamente alle mire espansionistiche del governo colombiano che, dopo la rivoluzione bolivariana, conquistò il potere ai danni della corona di Spagna.
Nel progetto di vita la storia nasa viene rilette perché non sia solo parte del patrimonio culturale, ma anche fonte di ispirazione per le scelte presenti. Personaggi reali, come la cacicca Gaitana, Juan Tama, Manuel Quintín Lame, rivivono attraverso le narrazioni storica e mitica delle loro gesta, ispirando e rafforzando la comunità nasa nelle lotte di oggi.
Questa presa di coscienza della propria identità sta aiutando la gente a vincere l’attitudine un po’ passiva, di sottomissione all’autorità costituita, che caratterizza l’indio andino, facendo sì che il singolo possa sentire come suo il benessere della collettività, assumendo in prima persona i costi della resistenza e del conflitto. Grazie a tale presa di coscienza, il movimento indigeno ha potuto passare da una strategia di difesa e sopravvivenza a una strategia di proposta e alternativa.
Non è stato un cammino semplice quello che ha condotto gli indigeni del Cauca a lottare per il recupero della terra, della cultura, dell’identità e dell’autonomia e a creare un’organizzazione che, a livello locale, nazionale e internazionale potesse dare forza, continuità e visibilità alla loro azione.
Molto è stato il sangue versato in questo processo, frutto di fortissime pressione estee a livello ideologico, politico ed economico, nonché, talvolta, di contraddizioni intee alla comunità stessa, imputabili alla fragilità di singoli o gruppi.
La gente, a ogni buon conto, è andata avanti; morto un leader immediatamente se ne incontrava il sostituto capace di continuare a seguire il programma del suo predecessore. Il processo organizzativo, animato da un progetto di vita ispiratore, ha saputo far fronte alle tante difficoltà, così come si spera saprà reggere l’urto delle minacce che affliggono oggi la comunità.

Un altro mondo è possibile

Negli ultimi anni e a prezzo di grandi sforzi e sacrifici, i nasa hanno saputo recuperare le proprie terre occupate ingiustamente da potenti terratenientes (latifondisti) e farsi riconoscere una certa autonomia da parte dello stato colombiano (con diritti garantiti dalla nuova costituzione del 1991).
Questi indiscutibili successi non hanno però significato la fine della lotta che continua aspra sia sul fronte interno che su quello esterno alla comunità. L’impatto della modeità con il relativo stravolgimento dei valori tradizionali crea confusione e contraddizioni nella gente, colpendo strutture come quella familiare, che rappresentano l’ossatura comunitaria. Nuovi modelli di vita turbano il tessuto della società tradizionale, creando conflitti generazionali, stratificazione sociale e, nel singolo, una situazione di smarrimento, che genera dubbi e scoramento, soprattutto nei più giovani.
Purtroppo questa situazione di cambio epocale avviene nel contesto di un conflitto armato che da più di 40 anni provoca una situazione di insicurezza e non permette alla comunità di compiere liberamente le sue scelte. Forze governative (esercito e polizia) si scontrano con i guerriglieri delle Farc, in una guerra che è soprattutto una lotta per il possesso del territorio indigeno e che miete molte vittime fra la popolazione civile.
Il controllo delle ricchezze naturali (iniziando dai bacini idrici per finire ai minerali preziosi), nonché del flusso enorme di denaro che proviene dalle coltivazioni illecite (coca e papavero da oppio) sembrano essere tra le vere cause di una guerra che si maschera dietro nomi di facciata come «politica di sicurezza democratica», «lotta al terrorismo», o «insurrezione popolare».
Inoltre, il Trattato di libero commercio (Tlc) che gli Stati Uniti vogliono imporre a vari paesi latinoamericani, fra cui la Colombia, non ammette l’esistenza di sacche di territorio nazionale autonome, che vogliano rimanere al di fuori della logica di mercato capitalista. Di qui la necessità da parte dei belligeranti di assumere un controllo globale della zona, a prezzo dei diritti inalienabili di chi la abita.
Di fronte alla violenza e all’aggressione operate da entrambi gli attori armati, il movimento indigeno ha scelto di rappresentare una terza via che non vuole essere una pilatesca fuga dal conflitto, ma una vera e propria alternativa.
Alteativa è la parola che marca e definisce il processo indigeno contemporaneo: essa nasce dalla consapevolezza che un altro mondo è possibile, non più prigioniero delle logiche di mercato, che il neoliberismo sfrenato del presidente Uribe Velez cerca di imporre a tutto il paese e a tutto vantaggio delle classi più abbienti; ma un mondo più rispettoso delle diversità culturali, del diritto di un popolo al territorio e a crescere e svilupparsi secondo criteri e modelli culturali propri e non imposti dall’esterno.
Di fronte alla guerra gli indigeni hanno scelto di affermare la sovranità sul proprio territorio, mantenendo una posizione di equidistanza pacifica dalle parti in conflitto. La loro sicurezza è affidata alla guardia indigena, migliaia di giovani e adulti che, armati di un solo bastone, si pongono come scudo umano fra i belligeranti, a difesa del territorio e della sua popolazione.
Questa scelta ha avuto vasti echi a livello nazionale e internazionale e d è valso alla guardia indigena del nord del Cauca il conferimento del premio nazionale per la pace 2004, premio che quattro anni prima era stato conferito al progetto nasa.
Alteativa, infine, è stata la parola d’ordine della grande mobilitazione indigena nel mese di settembre 2004, con una marcia di tre giorni dalla cittadina di Santander de Quilichao a Cali, capitale del dipartimento del Valle del Cauca (circa 70 chilometri).
Organizzata in collaborazione con altre forze democratiche, questa mobilitazione ha dato voce a 65 mila persone che hanno voluto gridare, in modo totalmente pacifico, il loro disappunto. I temi della protesta erano: la denuncia della continua violazione dei diritti umani da parte di tutte le forze belligeranti e la condanna delle manovre politiche per cambiare le norme costituzionali che garantiscono alle minoranze i loro diritti.
È stato anche espresso il dissenso in merito agli accordi inteazionali, come il trattato di libero commercio e l’Area di libero commercio delle Americhe (Alca), che tendono a privatizzare il paese, convertendone le risorse in elementi della macchina produttiva gestita dalle multinazionali.
Nonostante i premi nazionali e inteazionali, che hanno dato al movimento indigeno visibilità e una certa garanzia di sicurezza, gli attacchi, anche violenti, non sono mancati. Proprio in contemporanea con la grande marcia di mobilitazione, il responsabile del settore saitario del Consiglio regionale degli indigeni del Cauca (Cric), Alcibiades Escue, è stato arrestato per ordine della magistratura con la falsa accusa di avere stornato fondi del suo dipartimento per pagare tangenti ai paramilitari. Nel mese di settembre del 2004, quattro leader della comunità, tra cui il sindaco di Toribío e l’ex sindaco e attuale cornordinatore del collegio Cecidic di Toribío (vedi riquadro), sono stati arrestati e sequestrati da guerriglieri delle Farc nel territorio del Caguán, nel dipartimento del Caquetá, dove si erano recati per formare al processo indigeno le comunità nasa emigrate in quella zona.
In entrambi gli eventi si sono attivati canali diplomatici che hanno coinvolto organizzazioni nazionali e inteazionali quali Onu, Unesco, movimenti di difesa dei diritti umani e, nel secondo caso, la stessa chiesa cattolica. Questo sforzo comune ha portato alla liberazione dei prigionieri.
Straordinaria è stata la partecipazione della comunità. Pullman zeppi di autorità e guardie indigene si sono recati a Bogotá per reclamare la scarcerazione del loro leader. Con un gesto che ha commosso la nazione, più di 300 guardie indigene hanno fatto 20 ore di bus e svariate ore di marcia in un territorio sconosciuto per andare a reclamare alla guerriglia l’immediata liberazione dei loro compagni.
Sono segni che fanno ben sperare in vista di un futuro, che si presenta molto incerto, e dimostrano la vitalità di un progetto di vita in grado di coinvolgere la gente al di là degli interessi personali. Ciò che sottostà a tale progetto è il sogno di poter essere una nazione libera, autonoma e identificata con la propria storia e cultura, in uno stato colombiano che sia veramente «una grande casa di popoli», data la sua grande varietà etnica. (cfr Costituzione politica della Repubblica colombiana, art. 7).
La sfida che attende ora il movimento indigeno è molto grande. Si tratta di fare una proposta alternativa concreta insieme a tutte le forze democratiche, sociali e non armate del paese, per poter dare al messaggio un’eco ben più forte di quanto è stato finora possibile. È un compito che non può aspettare.
Le lotte per la vita, la biodiversità, il rispetto dell’identità e della libertà sono necessità da cui dipendono in parte la stessa sopravvivenza della realtà indigena e delle altre minoranze. Il movimento deve mantenersi forte e chiaro di fronte alle ingerenze del governo colombiano e della guerriglia nei suoi affari.
Il presidente Uribe, che in questi giorni cerca affannosamente di confermare il suo mandato per ulteriori quattro anni, avrebbe buon gioco a rendersi amico questo movimento così attivo, addomesticandolo ai suoi progetti. La guerriglia stessa ambirebbe ad avere gli indigeni come alleati, invece che ritrovarseli come oppositori dei loro piani.
Ma ci sono strategie che gli indigeni rigettano completamente, individuando nel trattato di libero commercio e nella politica di «sicurezza democratica» i peggiori rischi a danno della comunità, visto che ne minacciano il territorio e la coinvolgono in una guerra che non le appartiene.
La proposta indigena va, invece, nella direzione di un contributo al miglioramento sociale del paese, a beneficio di tutti. È infatti una grande contraddizione che in una nazione ricca di risorse, com’è la Colombia, 20 milioni di persone, su 44 milioni di abitanti, vivano in situazione di povertà, e altri 9 milioni sopravvivano in stato di miseria estrema.
La scelta dei partners con cui relazionarsi e di chi dovrà poi, di fatto, assumersi la guida di questa grande coalizione democratica è uno dei nodi che si dovranno sciogliere al più presto. L’aprirsi ad altre realtà presenta sempre incognite e rischi e può anche provocare contraddizioni intee, che vanno superate prontamente.
A questo riguardo il lavoro capillare all’interno della comunità rimane fondamentale affinché le scelte e le motivazioni del movimento si arricchiscano della partecipazione e dei contributi di quante più persone possibile.
Lo sforzo di Ezequiel e dei tanti che come lui sognano un mondo veramente differente lascia ben sperare che ciò sia realizzabile.

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Il progetto Nasa

Il progetto Nasa nasce nel 1980, su ispirazione del padre Alvaro Ulcué Chocué, come un’iniziativa delle comunità indigene di Toribio, Tacueyo e San Francisco. I cinque programmi iniziali – produzione, famiglia, educazione, salute ed evangelizzazione – erano diretti al rafforzamento delle dimensioni spirituale, sociale, politica, economica e culturale della gente. Dopo la morte del padre Alvaro alcuni membri delle tre comunità, sostenuti dall’ equipo misionero guidato dai missionari della Consolata, recuperano idee e progetti del suo fondatore, facendone rivivere il sogno e conseguendone gli obbiettivi che si era prefisso. Oggi, dopo venticinque anni esatti di storia, il progetto nasa è ormai una realtà visibile e consolidata del movimento indigeno colombiano. I suoi programmi nel campo della produzione, etno-educazione, salute, nonché il suo impegno per la difesa, la conservazione e la pace nel territorio gli sono valsi pubblico riconoscimento a livello nazionale ed internazionale. Nel mese di febbraio del 2004, a Kuala Lampur (Malesia), il progetto Nasa ha vinto il «premio equatoriale», conferito dal programma delle nazioni unite per lo sviluppo (Pnud). I giurati hanno riconosciuto nel piano di sviluppo indigeno lo sforzo di combinare la lotta contro la povertà con il rispetto delle risorse naturali.


Ugo Pozzoli




COLOMBIA – Intervista: “Servire la comunità è servire se stessi”

Non è un indios nasa; eppure da oltre 20 anni serve la comunità indigena del nord del Cauca di cui, pur essendo un «bianco», ne è leader indiscusso: è Gilberto Muñoz Coronado, il primo alcalde (sindaco) di Toribío. Appartiene al Movimento civico, il partito indipendente che raccoglie i voti ed esprime la coscienza politica indigena.
Oggi, Gilberto è cornordinatore del Cecidic, il Centro educativo che raccoglie più di mille studenti, dal primo anno della scuola elementare fino all’università. Nel mese di settembre dell’anno passato è stato sequestrato nel Caguán da gueriglieri delle Farc, insieme all’attuale alcalde di Toribio e ad altre autorità indigene. Gli chiediamo una testimonianza su questa sua esperienza di prigionia.

Che cosa l’ha spinta ad andare tanto lontano, in una zona «ad alto rischio» come il Caguán, e che sentimenti ha provato durante la sua detenzione?
Ero stato invitato dalle nostre autorità indigene a partecipare a un processo di formazione della comunità di Altamira, una piccola riserva indigena, i cui abitanti sono tutti originari delle nostre zone, di Toribío e di San Francisco. Hanno mantenuto la cultura, parlano la lingua della gente di qui. Sono pochi, circa 260 persone, ma vivono in un territorio molto grande, per cui è facile smarrirsi e perdere unità. Il nostro compito era far loro sentire l’appoggio della comunità di origine e aiutarli a crescere in un processo comunitario.
Questo dà certamente fastidio alla guerriglia, che nella zona vuole essere l’unica signora e padrona. Il primo e intenso sentimento che ho provato è stato quello di essere tenuto prigioniero in un territorio in cui, istintivamente e da sempre, mi sento più libero: la natura, la campagna.

Era preoccupato prima di partire?
Mi preoccupava sapere che anche l’attuale alcalde fosse parte del nostro gruppo. La guerriglia vede i sindaci come parte della struttura statale e li tratta come nemici. Da parte mia c’era la consapevolezza di offrire un servizio. Ascoltando il padre Antonio Bonanomi e l’equipo misionero ho imparato che bisogna spendere bene la vita che abbiamo ricevuto. Se si può fare qualcosa per qualcuno che ne ha bisogno, non dobbiamo tirarci indietro; la nostra esistenza è troppo breve per viverla egoisticamente.
Nella selva sono stato riportato all’essenzialità della vita. Avevo da mangiare, sopravvivevo. Molte volte ci affanniamo per cose futili, quando a troppa gente manca l’essenziale per vivere.

Come sono stati i rapporti con i suoi sequestratori?
Quelli che si occupavano direttamente di noi erano ragazzi, alcuni avevano meno di 20 anni, l’età dei miei figli. A loro ho chiesto che cosa li aveva spinti a imbracciare un fucile; in questo senso c’è stato un po’ di dialogo fra noi.
Ho avuto modo di parlare anche con alcuni comandanti, cercando sempre di non esprimermi come singolo, ma come portavoce del processo di una comunità, facendo anche rilevare alcune delle loro contraddizioni più evidenti. Ho detto loro che, in fin dei conti, abbiamo un programma simile: lottare per la giustizia sociale; ma ci divide il metodo. Mentre essi si definiscono «esercito del popolo» (bella ironia), vogliono conseguire la giustizia maltrattando contadini e indigeni. Noi non accettiamo questo modo: il nostro programma ci impone di difendere la gente.
Quando mi liberarono dissi al comandante del reparto che ci aveva in custodia che non coltivavo nessun risentimento per quanto mi era successo.
Ho scoperto a mie spese una faccia della Colombia occulta, che non avevo mai conosciuto in maniera così diretta. La vita del guerrigliero è dura, vi sono persone che per anni vivono sotto una tenda, in balia di pericoli e intemperie. Posso anche rispettare chi si sceglie una vita di questo tipo e lotta con coerenza per quello che desidera. Però, bisogna lavorare non per distruggere, ma per creare coscienze, e queste si creano con il lavoro e l’impegno di tutti, non con la coercizione e la violenza. Questa è una verità che vale per tutti gli attori del conflitto armato.

Cosa ha imparato da ciò che le è accaduto?
Il lato positivo è stato far emergere un sentimento straordinario da parte della gente; ci siamo sentiti appoggiati a livello nazionale e internazionale, da persone che ci hanno teso la mano non solo perché, «poverini», eravamo in una situazione difficile, ma anche perché hanno toccato con mano la bontà del progetto che rappresentavamo. Per non parlare della gente di qui, della nostra comunità. C’è un senso di unità, di appartenenza nella comunità indigena che non si riscontra in altre realtà. Penso alle guardie indigene che sono venute a reclamare la nostra liberazione, armate solo della loro chonta, il bastone del comando; non hanno guardato le ore di lavoro che perdevano o i rischi che correvano per arrivare fino a dove eravamo e tirarci fuori di lì.
L’insegnamento è che bisogna continuare, rendendosi conto, però, che quanto si è ottenuto è frutto del lavoro di tutti e che chi impara a servire l’altro finisce con il servire se stesso.

Ugo Pozzoli




TANZANIA – Il piccolo gregge

Veloce visita ai luoghi del primo amore missionario e all’isola minacciata dall’insidia del fondamentalismo, dove la piccola comunità cristiana scopre un nuovo modo di essere presente e testimoniare umilmente il Signore Gesù.

L’aereo ha fatto il suo solito giro attorno al Kilimanjaro. Il cielo limpido, il nevaio a portata di mano, le foreste sottostanti… Una visione che, nei numerosi viaggi di andata e ritorno tra Italia e Tanzania, mai mi era sembrata così limpida, chiara e commovente.
Eccomi ancora, dopo 7 anni di lontananza dal Tanzania, a rivedere vecchi amici e confratelli, luoghi dove ho lavorato, le missioni e la gente: povera, ma serena, soprattutto i bambini. Tanti bimbi, sempre sorridenti, anche quando hanno fame, con quegli occhioni grandi e aperti che esprimono fiducia, amore, accoglienza e voglia di carezze.
Scopo del mio ritorno in Tanzania era quello di fare da interprete a due tecnici del Gruppo «Luciano Brenna» di Mariano Comense, Enrico e Marino, inviati per piazzare alcuni macchinari di falegnameria nel Centro pastorale della diocesi di Zanzibar. Grazie al ritardo dell’arrivo del container destinato a Zanzibar, ho potuto realizzare un sogno che da tempo coltivavo in fondo al cuore: un pellegrinaggio, un tuffo nel passato, ma proiettato nel futuro, cioè vedere le necessità, riprendere contatti, rinnovare l’entusiasmo per la missione e cercare di creare ponti tra comunità e chiese.
La visita al cimitero di Tosamaganga, una preghiera sulla tomba di tanti amici che hanno «combattuto la buona battaglia»: padre Aldo, padre Antonio, suor Adelina… Quanti ricordi, quanti esempi di vita totalmente spesa con grande amore per Dio e il prossimo!
Poi a Mgongo, il centro per i ragazzi di strada tenuto da padre Franco Sordella e padre Giulio Belotti: ai miei tempi aveva 12 ragazzi, ora sono più di 300, tra allievi nella scuola di arte e mestieri, falegnameria, carpenteria, calzoleria, sartoria, scuola pratica di agraria… Tra i primi ragazzi raccolti dalla strada, alcuni sono diventati istruttori e hanno formato famiglie stupende.
Iringa, Mafinga, poi Sadani, la «mia» cara missione dove, assieme a padre Luigi Negro, ho trascorso il periodo più bello, laborioso e fruttuoso della mia vita di missionario.
Padre Silvestro Bettinsoli, il parroco, aveva annunciato la nostra visita, ma non mi sarei mai aspettato un così folto gruppo di persone, vecchi e giovani, dopo la messa domenicale, in attesa del nostro arrivo. E, come al solito, le donne anziane, con un piccolo dono per il loro vecchio parroco: Mariamu, due uova fresche di giornata, sicuramente il suo cibo quotidiano; ma dovevo accettarle, altrimenti si sarebbe offesa.
Il vecchio Petri, il lebbroso, guarito ai tempi in cui suor Gemma Ida lavorava al dispensario, anche lui con qualcosa da offrire: due banane e tre pannocchie di granturco, appoggiate sui moncherini senza dita, sorridente e felice, i suoi occhietti sempre furbi e pieni di ironia: «Vedi – pareva dicessero – anch’io mi ricordo di te; di quando, all’inizio delle piogge anche la malattia si riacutizzava con le sue piaghe, mi preparavi i sacchetti di nylon per i piedi, in modo che il siero rimanesse tra le bende e non sporcasse il banco della chiesa. Ora non servono più, sono guarito; eppure continuo a ricordarti e il mio dono, anche se piccolo, è segno della mia riconoscenza».
La maestra Ngatunga, grassa e sempre sorridente, ora preside della scuola, con un bel pollastrello vivo e ruspante, mi fa vedere la foto di suo figlio Lucio (!), ora nel seminario della Consolata di Mafinga. L’avevo portata d’urgenza all’ospedale per il parto; erano in pericolo di vita, lei e il bambino; ora chissà, forse quel bimbo diventerà missionario come me: i piani di Dio…

Finalmente il container è stato sdoganato e così possiamo partire per Zanzibar. Arriviamo nell’isola felice, conosciuta da tanti italiani come fantastica meta tropicale, con i suoi villaggi turistici, spiagge e mari incontaminati, piccole oasi… italiane! E sarebbe davvero un paradiso terrestre, ma c’è anche il rovescio della medaglia.
Zanzibar e Pemba, due isole dell’oceano Indiano, poste al largo del vecchio Tanganika, sultanato arabo fino al 1964, anno della rivoluzione contro gli arabi e dell’indipendenza, hanno alle loro spalle una lunga storia di dominio arabo e musulmano, come tutta la costa dell’oceano Indiano. Erano il centro del commercio degli schiavi dell’Africa Orientale, del legno pregiato, spezie (famosi i chiodi di garofano), avorio.
Da Zanzibar e dal villaggio di Bagamoyo, posto sulla costa a 90 chilometri a nord di Dar es Salaam, era partito il primo missionario medico anglicano, il dott. Livingston, famoso anche per la celebre frase del giornalista Stanley che, dopo cinque anni di ricerca, incontratolo nel villaggio di Majiji, sulle sponde del lago Tanganika, lo salutò: «Doctor Livingston, I presume».
Zanzibar e Pemba, dopo la cacciata del sultano, si erano unite al Tanganika nel 1964, formando così il nuovo stato del Tanzania.
Musulmani per il 99%, avevano sì qualche rigurgito di indipendenza, ma, fino alla distruzione delle Twin Towers, la convivenza tra musulmani e i pochi cristiani era pacifica. Ora alcune frange fondamentaliste stanno provocando disastri, tentando di dividere la popolazione con attentati e altro.
Il vescovo di Zanzibar e Pemba, mons. Shao Augustine, cerca di mantenere la calma, anche se gli hanno bruciato due chiesette e il pulmino, usato ogni mattina per raccogliere gli studenti, in maggioranza musulmani, e portarli a scuola.

Il nostro arrivo a Zanzibar coincide con la fine dell’anno scolastico. Gli alunni della settima classe hanno terminato gli esami di maturità e aspettavano il giorno della graduation, cioè della consegna dei diplomi. Fra i primi della classe, due gemelli: Marie e Peter, figli di padre bianco e madre africana.
Un gruppo di fondamentalisti aveva preso di mira la ragazza perché lasciasse il collegio e la scuola cristiana e si facesse musulmana. Essendo meticcia, dicevano che il padre era arabo e quindi avrebbe dovuto seguire la religione islamica.
Con doni e minacce erano riusciti ad accalappiarla. Era scomparsa dal collegio, senza salutare neppure il suo gemello, e per un mese, nessuno seppe dove fosse. A nulla era valsa la denuncia della madre, tutto era avvolto nel mistero, svelato poi dalla stessa Marie: la tenevano prigioniera perché abiurasse il cristianesimo; avevano perfino progettato di mandarla in Arabia. Ma un giorno, approfittando di un momento di disattenzione dei suoi guardiani, riuscì a scappare. Si presentò alla polizia; gettò via il velo che le avevano imposto di portare e fece ritorno nel collegio cattolico.
Finalmente libera e felice, era in prima fila, accanto al fratello, per la festa della graduation.
Il gruppo fondamentalista, non potendo rifarsi su di lei, ha promesso al vescovo che si sarebbero vendicati: ecco spiegato il fuoco alle due chiesette e al pulmino.
Marie e Peter, subito dopo la festa, sono stati inviati in terraferma, lei in un collegio cattolico nell’entroterra, lui scelse di entrare nel seminario diocesano di Morogoro. Una storia finita bene, ma quante altre non si concludono così.

Parroco di Pemba è un giovane prete tanzaniano, padre Apollinaris Msaki, un mchaga della zona del Kilimanjaro. Aveva studiato islamologia al Collegio san Pietro a Roma. L’avevo conosciuto a Genova, nella mia parrocchia, dove era venuto a sostituire il parroco durante le vacanze estive.
Volevo salutarlo. In battello raggiunsi Pemba, altro paradiso terrestre, con una natura stupenda e gente accogliente. Almeno così la ricordavo, da quando, nel 1984, ero stato per qualche giorno ospite di alcuni medici italiani del Cuam, che operavano nel piccolo ospedale locale. Notai subito un clima di rigetto: «Un bianco che arrivava, cosa era venuto a fare?» mi sembrava di leggere sugli occhi sospettosi della gente.
E padre Apollinaris me ne diede conferma: anche a lui hanno bruciato due delle quattro chiesette costruite nei villaggi dell’isola; poi gli hanno tagliato i tubi dell’acqua e i fili della luce. La polizia locale, alle sue denunce, rispose: «Cerchiamo, vedremo, non sappiamo ancora niente…» e così di seguito.
La parrocchia di Pemba è una delle prime fondate dai missionari delo Spirito Santo, a metà del xix secolo: con una bella comunità di immigrati da Goa, cristiani di vecchia data e attaccati alla loro fede, hanno cercato di testimoniare Cristo e mantenere la loro fede in un mondo prettamente musulmano e ora fondamentalista.
Oggi, tra discendenti goanesi, impiegati governativi e militari venuti dalla terraferma, l’intera cristianità di Pemba conta circa 200 anime: formano un «piccolo gregge – dice padre Apollinaris -, con la missione di presenza e dialogo, senza possibilità di conversioni, ma molto importante per stabilire, in futuro, buoni rapporti tra musulmani e cristiani».
Ho visitato tutte le piccole comunità di base e ho pregato con loro. Ne ho ricavato un’enorme testimonianza di fede, pazienza, amore: quello evangelico, che arriva a perdonare 70 volte 7, ad amare anche i nemici, a cercare ciò che unisce, a testimoniare Cristo, morto e risorto, a rischio continuo della propria vita.
Testimoni e martiri nel vivere quotidiano, figli di una chiesa lontana, giovane, missionaria, povera di cose materiali, ma ricca di fede e vera carità; una piccola comunità cristiana, come quelle dei tempi apostolici.

Grazie, mons. Shao; grazie, padre Apollinaris; grazie, piccolo gregge di Pemba e Zanzibar. Gesù è con noi, sempre, fino alla fine dei tempi. Ma con voi lo è in un modo più tangibile e vero, perché è il Cristo della croce, dei martiri, della frateità che vince ogni divisione.

Lucio Abrami




GHANA – Voglia di crescere

Col permesso dei 3 nipoti, figli di mio figlio, sono tornato dagli altri 83, lasciati nella missione di Abor (Ghana). Ho seguito spesso padre Peppino Rabbiosi, comboniano, nelle visite ai villaggi. Nei momenti in cui riuscivo a essere solo con me stesso ho fatto qualche riflessione.

Ero già stato l’anno scorso ad Abor (Ghana) «Nella casa del Padre mio» (In my Father’s House), dove sono 83 bambini, dai 4 ai 17 anni, con alle spalle storie molto tristi (cfr M.C. giugno 2004, p.17). La nostalgia e il loro desiderio che tornassi hanno avuto la meglio.
Anche questa volta avrei tanti episodi da raccontare. Voglio citae uno per tutti. Daniel, 4 anni, è leader nato, intelligenza decisamente superiore alla media. Sono ormai sulla macchina che mi porterà all’aeroporto di Accra. La commozione è tanta, sia per chi resta che per chi… sta partendo. Il bimbo si stacca dal gruppo dei compagni e viene ad appoggiare le mani sulla portiera. Contrariamente alle sue abitudini di vulcano perennemente in eruzione, non dice una parola. Nei fari illuminati, che sanno sempre essere i suoi occhi, leggo la tristezza di ciò che sta accadendo. «Ti affido il coro» riesco a mormorare.
Avevo aiutato a preparare un paio di canti gregoriani per una funzione. Daniel aveva bevuto ogni mio movimento e, con l’innata predisposizione musicale, non perdeva occasione per improvvisarsi direttore del coro. Era uno spettacolo vedere la serietà con cui affrontava l’impegno.
Ora lì, appoggiato all’auto, mi guarda e mi fa capire di non preoccuparmi. Il coro è in buone mani.

Morire a 10 anni…
Domenica mattina, in uno sperdutissimo villaggio africano, del Ghana in particolare, ma potrebbe essere in mille e mille altri posti.
Qui internet non è ancora arrivata. L’elettricità si ferma molto prima. Non ci sono strade. Solo un piccolo sentirnero, arduo anche per i fuoristrada più attrezzati, che nella stagione delle piogge diventa impraticabile. Un acquitrino fangoso che isola ancor più la gente che vi abita.
Poche, poverissime capanne formano questo villaggio che sembra dimenticato dal mondo. Solo un missionario si avventura periodicamente fino a qui. Viene a celebrare la messa, a portare un poco di conforto, a parlare di un Dio buono e misericordioso. Viene a infondere speranza e a combattere la rassegnazione passiva.
È una messa molto speciale. Non perché è celebrata all’aperto, frasche come tetto a proteggere dal solleone, ma per la straordinaria partecipazione. Bambini e adulti che arrivano da altri villaggi lontani chilometri e chilometri. Il rito è un susseguirsi di preghiere e canti ritmati dalle percussioni. Tutti pregano convinti. Tutti cantano. Tutti accompagnano i canti, che sembra non debbano finire mai, con battiti cadenzati delle mani. Molti danzano.
È come se la partecipazione si fosse materializzata in qualcosa che svolazza sulle nostre teste. Ancora più palpabile, poi, è il pathos che si respira quando padre Peppino, durante l’omelia, pronuncia piangendo queste parole: «Dopo la messa daremo l’ultimo saluto a Kofi».
Kofi era un bambino di 10 anni. È morto per un ipotizzato banale mal di pancia. Nessuno ha pensato che potesse trattarsi di qualcosa di più serio. Nessuno ha tempo di curarsi di un bambino che si lamenta per un mal di pancia. E quando i dolori si fanno più lancinanti e nessun rimedio conosciuto, sia esso somministrato o imposto come esorcismo agli spiriti del male, è in grado di alleviarli, la tragica conclusione.
Kofi è stato subito inumato. Nessuno chiederà l’autopsia. Al missionario non resta che piantare una croce sulla piccola tomba appena fuori il villaggio e pregare con tutti coloro che, nella lunga processione, avevano portato la croce fino qui.
Kofi aveva solo 10 anni. Il mondo corre, si affanna alla ricerca di sempre nuove tecnologie, si spinge alla scoperta di nuovi mondi. Ma in qualche parte di questo mondo, in qualche paese meno fortunato, ci sono ancora bambini che muoiono a 10 anni per un ipotizzato, banale mal di pancia. Tanti! Troppi! Per quanto tempo ancora?
all’improvviso una scuola
Accompagno padre Peppino in visita a uno dei tanti villaggi della sua sterminata parrocchia, ai confini con il Togo. È sempre difficile arrivarci. Dopo un’ora di… non strada, padre Peppino parcheggia il pick-up sotto un maestoso mango, nei pressi di un ruscello putrido, che si perde nella palude. Una canoa ci viene incontro. Con quella attraversiamo questo guado, scortati da ogni sorta di piccoli volatili (mosche, moscerini, zanzare…). Una canoa dalla precaria stabilità e che, con una ciotola, deve essere svuotata in continuazione dall’acqua che imbarca.
Camminiamo nella savana per tre quarti d’ora, fino a raggiungere un altro acquitrino. Una seconda canoa, simile alla precedente, ci traghetta verso un sentirnero seminascosto da sterpaglie inaridite dall’arsura inclemente.
Sono circa le 7 del mattino; ma il sole comincia già a picchiare duro; tra poco la colonnina di mercurio supererà i 40 gradi. Camminiamo di buona lena nel nulla per altri 45 minuti, mentre cominciamo a sentire in lontananza i tam-tam che ci danno il benvenuto.
All’improvviso, una piacevole, inaspettata, quasi surreale immagine si materializza: su un enorme spiazzo appare un complesso scolastico animato da centinaia di bambini nella tradizionale uniforme. Una scuola, che va dalla matea alla media inferiore, dove sembrava solo savana. La folla di bambini che la popola testimonia la presenza di tanti piccoli villaggi nascosti. Povere capanne, ma arricchite da una importante presenza per la crescita delle nuove generazioni.
Padre Peppino ha costruito la prima parte della scuola, dedicata ai piccoli. Il governo, fortunatamente, ha accettato di completare la struttura e pagare (forse meglio dire malpagare) alcuni degli insegnanti.
L’Africa ha voglia di crescere: quale mezzo migliore di una scuola?

«Dacci anche oggi…»
Sanno sempre essere suggestive le messe in Africa. La devozione che senti attorno ti contagia. Ti entra dentro. Ti arriva al cervello. Ti serra la gola. Quanti momenti particolarmente significativi! I canti, che sembra non debbano mai finire, ritmati dalle percussioni, accompagnati dai battiti cadenzati dalle mani e da passi di danza. L’offertorio in cui tutti, a passo di danza, portano la loro offerta in denaro o in natura (banane, manghi, noci di cocco). Il Padre nostro, recitato spesso tenendosi per mano. Braccia protese verso l’alto.
Nei villaggi, all’aperto, questo enorme anello multicolore è ancora più suggestivo. Le parole sono le stesse, ma sembra assumano significati diversi a seconda di chi le pronuncia. A seconda delle situazioni e delle esigenze. Quella richiesta di pane quotidiano, sembra significhi realmente: «Fai che anche oggi possiamo trovare qualcosa da mangiare. Fai che la terra ci sia amica e ricambi le nostre fatiche con raccolti che non facciano più soffrire la fame ai nostri figli».
E quando vedi rivolgersi al Padre celeste bimbi che non hanno mai conosciuto quello terreno, traspare realmente il desiderio di un futuro meno avverso: desiderio di famiglia, di casa, di un riparo sicuro. Sono suppliche che senti trasmettere dalle mani di chi ti sta a fianco. Ti pervadono. Ti entrano nelle vene e, come microonde, si propagano a tutto il corpo molecola dopo molecola.
Ugualmente toccante è sempre per me il momento dello scambio di un segno di pace. Sarà anche per il colore della pelle, decisamente più sbiadito del loro e che non ci fa passare inosservati, ma sono sempre tante le mani che vengono a cercare la mia. Spesso tutte. E sono strette di mano convinte, non di curiosità, di facciata o sola cortesia.
Tale convinzione la leggi negli occhi che cercano e guardano diritto nei tuoi. E mentre pronunci l’augurio di pace, non riesci a non pensare alle loro terre martoriate da continue guerre, scontri tribali, lotte per il potere, dove a fae le spese sono sempre i più deboli e indifesi.
Mentre stringi le mani di donne e ragazze, non riesci a non pensare a quante altre, non molto lontano da lì, sono vittime di soprusi e violenza. Mentre stringi quelle dei bimbi, non riesci a non pensare alle centinaia di migliaia, la cui infanzia è negata da lavori massacranti o, peggio ancora, dall’imposizione di machete o kalashnikov da usare contro fratelli di etnia diversa.
E allora, questa volta, la supplica al Padre celeste parte da te: «Fai che finalmente in queste terre africane sia pace! Fai che la pace possa finalmente regnare, for ever and ever!», come loro stanno augurando a me.

Missionario: chi è costui?
Da ragazzo ero affascinato da testimonianze raccolte in terre di missione. Se a raccontarle erano i protagonisti, il fascino si moltiplicava. La straordinarietà di quei personaggi dalla lunga barba, ai miei occhi di fanciullo andava oltre qualsiasi libro o film d’avventura. Le foto di villaggi, povere capanne di fango e gente che vi abitava, suonavano fantascienza per chi, come me, viveva in una grande città e sembrava straordinaria la vita di campagna.
Ora che ragazzo (almeno anagraficamente) non lo sono più da tempo, ho spesso la fortuna di vivere questo fascino, seppure per un tempo limitato, direttamente con loro: nelle loro missioni, nelle loro terre.
Sì, fortunatamente ho spesso l’opportunità di seguirli nelle visite a sperduti villaggi delle loro… parrocchie: aree spesso grandi come il Piemonte o la Lombardia. Ma mi accorgo che purtroppo, in quei villaggi, poco è cambiato: quelle foto di 50 anni fa, potrebbero benissimo essere state scattate ieri l’altro.
Mi accorgo che la gente continua a vivere in povere capanne di fango; in villaggi senza luce e senza acqua; file di donne, con un secchio sulla testa percorrono chilometri per raccogliere un poco d’acqua; non ci sono strade per arrivare a quei villaggi, molti dei quali non hanno scuole o, dove ci sono, in buona parte non è stato il governo a costruirle.
Mi accorgo della mancanza di un minimo indizio di struttura sanitaria per fronteggiare le conseguenze del vivere in situazioni così difficili e in aree così malsane.
Sì, ben poco è cambiato. C’è forse qualche scolorita e bucherellata maglietta in più a coprire corpi poco abituati a fae uso.
Quanto è stridente il contrasto per noi, abituati a macchine sempre più potenti e costrette a code sempre più lunghe; abituati ai telefonini dalle suonerie più strane e fastidiose, che strillano all’impazzata anche dove gradiresti ci fosse solo silenzio. Raccontare cosa significhi andare in questi villaggi per celebrare una messa dà l’idea di straordinarietà. Qualcosa da farsi una o due volte l’anno, mentre ancor oggi è spesso la quotidianità da affrontare per molti che operano in certe aree.
La straordinarietà continua a essere in quei personaggi, con o senza barba, che con umiltà e semplicità riescono a raggiungere il cuore di migliaia e migliaia di meno fortunati, e realizzano cose grandiose, in aree difficili, in condizioni assurde, con mezzi inadeguati. Personaggi che amo spesso, bonariamente, definire «fuori di testa», per la loro cocciutaggine nel cercare e ottenere l’impossibile: personaggi che rispondono al nome di missionario.

Ewe e invasori sbiaditi
In ogni parte del mondo sono sempre state le guerre a definire i confini provvisori di un paese: l’Africa non fa certo eccezione. La storia ricorda molti imperi africani che si spinsero lontano per conquistare nuove terre. Solo che negli ultimi 3-4 secoli, fece la sua comparsa un’altra sorta di conquistatore, colorito smunto, quasi fosse una focaccia tolta dal foo troppo presto. Un invasore sbiadito, insomma, che, proprio in virtù del colore della pelle, era convinto di essere il più bello e bravo, prediletto dal Creatore (e quando mai Dio disse una cosa del genere, forse in un orecchio a Mosè quando gli consegnò le tavole?).
L’invasore sbiadito, attratto da ricchezze non indifferenti a portata di mano, pretese di imporre le proprie leggi. Impose addirittura la propria lingua. Se ne infischiò degli idiomi e tradizioni millenarie di chi quelle terre abitava. Fece anche di peggio. Si accorse che anche quegli individui potevano rappresentare preziosa merce da esportare.
Di invasori sbiaditi gli ewe ne conobbero diversi: portoghesi, tedeschi, francesi, inglesi. Furono proprio gli ultimi due a spartirsi le loro terre. Inutile soffermarsi sul come e quando, il risultato finale è che, ancora oggi, ben difficilmente tale risultato potrà essere modificato. Non importa se la linea di confine tagliava villaggi e comunità. Tanto l’invasore sbiadito l’aveva già fatto più volte anche a casa propria. E coloro che restarono in Togo, se volevano comunicare con l’invasore, dovettero arrabattarsi a decifrare una lingua definita francese. Gli altri che finirono in Ghana, pur continuando ad abitare un’area definita Togoland e villaggi il cui nome evocava origini togolesi, dovettero arrabattarsi con una lingua totalmente diversa, definita inglese.
Nel corso degli anni, qualche personaggio ambizioso cercò con la forza, senza riuscirci, di riportare tutti gli ewe sotto lo stesso tetto. Ma una volta ottenuta l’indipendenza, è impossibile mettere in discussione decisioni prese dall’invasore e sancite da un organo che, a dire il vero, da tempo annoverava anche persone di colore e tradizione simile agli ewe.
Nonostante l’ingombrante presenza, la fierezza ewe è sempre riuscita a mantenere viva la propria lingua (ora studiata nelle scuole), le proprie tradizioni, i propri canti, le proprie danze. E anche se chi vive in Ghana è convinto quando ne canta l’inno o recita la promessa di rispettae la costituzione, anche se negli incontri di calcio Ghana-Togo il tifo per il paese di appartenenza si fa sentire, ogni ewe si sente prima di tutto un ewe, nonostante che l’invasore sbiadito ce l’abbia messa tutta per cancellae le origini.

Mario Beltrami




AfroItalyfashion in passerella

NON SOLO MODA

Da una frivola sfilata di moda a una solidarietà
attenta ai bisogni… lontani, ma resi più vicini dall’interesse e dallo scambio.

Successo inaspettato quello che gli organizzatori di AfroItalyFashion hanno ricevuto nella piazzetta Audifreddi, proprio sotto il palazzo comunale, nella parte antica di Cuneo: una manifestazione giunta alla sua quarta edizione, che ha avuto come partners l’Accademia di Belle Arti di Cuneo e l’Organizzazione «Mission Sinan Onlus» di Abidjan (Costa d’Avorio).
La manifestazione ha permesso al pubblico cuneese di conoscere la bellezza e l’originalità degli abiti realizzati dai giovani stilisti che, tra poco, usciranno dall’Accademia per affrontare il grande e variegato mondo della moda.
I preparativi per la sfilata sono stati cornordinati dalla vulcanica signora Lucchini, direttrice dell’Accademia che, avendo compreso appieno lo spirito della manifestazione, ha accettato senza remore di guidare il lavoro dei suoi allievi, preparandoli a quello che per molti è stato un vero e proprio… battesimo del pubblico.
Così, le creazioni italiane si sono miscelate alle migliori firme della moda africana e agli abiti fatti arrivare apposta da Kone Lacina, presidente di Mission Sinan; una trentina di abiti, creati per AfroItalyFashion da stilisti guidati da un ideale comune: dimostrare che quella africana è una cultura con radici antichissime, che l’Africa è un paese che segue i fasti di un tempo e che, proprio nella sua gente, ha la carta vincente per uscire da una situazione economica infelice e, a volte, drammatica.
«Abbiamo scelto la città di Cuneo – dice il direttore artistico della manifestazione, dott. Diego Cudia – per far conoscere un mondo lontano, eppure a noi molto vicino; per dare un segnale forte dell’impegno che persone di nazionalità diversa hanno preso, nella ricerca di un sogno possibile, per spirito umanitario».
Nato come semplice concorso di bellezza chiamato «miss Africa in Italy», la manifestazione si è arricchita di contenuti sociali e culturali, anche attraverso l’opera di professionisti e collaboratori che, con il tempo, hanno capito come AfroItalyFashion non è solo la presentazione di opere della moda, bensì la manifestazione di un pensiero che nasce dal cuore e trova ragione di essere attraverso l’arte e lo spettacolo.
Mission Sinan crede nella formula di questa manifestazione e ne supporta la realizzazione: «Il giorno in cui l’amico Diego Cudia mi ha telefonato – dice Kone Lacina -, sono stato felice di aderire, anche se ciò ha significato passare diverse settimane a cercare gli abiti migliori dei maggiori stilisti africani. Quando anche lo stilista personale di Nelson Mandela mi aveva concesso la sua fiducia, ho capito che stavo lavorando per qualcosa di molto importante e utile per tutti noi; così, attraverso gli abiti, la musica, le persone, gli oggetti che ho potuto inserire nella manifestazione AfroItalyFashion, posso comunicare al grande pubblico l’opera che Mission Sinan compie in Italia ogni giorno».

Mission Sinan» in Italia si preoccupa di raccogliere attrezzature e materiali sanitari dismessi e, grazie al lavoro di alcuni volontari, li recupera e ripristina il loro funzionamento originario, inviandoli nei paesi in cui queste tecnologie possono diventare un aiuto per la vita. L’organizzazione si preoccupa del benessere sociale, lotta contro la povertà, prevenzione delle malattie; infine, si fa carico e concorre in tutti i settori per finalità di pubblica utilità.
«Questo lavoro – continua Kone Lacina – richiede locali, automezzi, materiali dai costi molto pesanti; è solo attraverso varie attività di autofinanziamento che il gruppo riesce a sopravvivere e lavorare. Ecco perché Mission Sinan, in collaborazione con la Didacus Communication, organizza manifestazioni quali l’AfroItalyFashion in cui gli introiti sono destinati a finanziare l’organizzazione stessa».
I prodotti abbandonati (da ospedali, case di cura, ditte foitrici, singoli medici…), che non hanno più alcun valore nel mondo occidentale, trovano un’enorme rivalutazione nel terzo mondo e, in special modo, in Costa d’Avorio, paese a tutt’oggi diviso da una guerra civile assurda.
L’iniziativa di recupero dei materiali sanitari è nata nel 1998, anno in cui la clinica «Città di Bra» (nel cuneese) dismetteva le più svariate attrezzature ospedaliere. È stato così possibile raccogliere e inviare questo materiale nel centro di cura situato sull’autostrada Abobo Ayama, al fine di assistere i bisognosi e riabilitare i suoi centri chirurgici e diagnostici, i quali sono sprovvisti di materiali sanitari ed assistenziali.
Con la manifestazione AfroItalyFashion, Mission Sinan rivolge un appello a tutti coloro che possono collaborare per dare uno sviluppo all’Associazione, dai singoli individui, ai professionisti, alle grosse società. Essa ha bisogno di materiale sanitario, mobili e un eventuale deposito per sistemare il tutto, affinché venga ripristinato e spedito in Costa d’Avorio. Naturalmente, sono graditi anche contributi in denaro per l’acquisto di materiali, utili allo scopo.

I professionisti che lavorano per AfroItalyFashion hanno accettato di devolvere il proprio compenso economico a favore di Mission Sinan: la grande ballerina e coreografa Leo Navas, poi, ha saputo dare un’impronta musicale ben definita e professionalmente valida alla manifestazione.
«Collaboro ad AfroItalyFashion da diversi anni, con l’incarico di studiare e realizzare le coreografie migliori e sempre all’altezza del tono della manifestazione – dice Leo durante -. Il direttore artistico Diego Cudia è sempre molto esigente e ha ragione, perché questa manifestazione è tutta permeata di musica, per cui canzoni, balletti e coreografie devono trasmettere al pubblico non solo emozioni forti, ma anche sentimenti di umanità e riflessione verso la natura stessa dell’uomo e dell’ambiente che si trova ad occupare».
Con queste parole, Leo dimostra la grande professionalità e bravura che solo una ballerina di talento può avere, sia come retaggio culturale (Cuba è il suo paese d’origine), sia come esperienza nel mondo dello spettacolo.
Un’altra donna è stata chiamata per curare la fotografia e riprese video della manifestazione: è Gabriella Melfa, titolare dello Studio «Area Fotografica» di Torino. Sono riuscito ad avvicinarla mentre organizzava con i suoi tecnici il parco luci intorno alla passerella allestita per la sfilata, cercando i punti adatti per ottenere i migliori risultati.
«Sono stata selezionata fra decine di professionisti; molti si presentavano con i lavori più differenti; io avevo il mio portfolio, composto in larga misura di ritratti di persone e, soprattutto, di bambini. Il direttore artistico mi aveva chiamato dicendomi che, se ero stata così brava a riprendere le espressioni più belle dei bambini, potevo essere in grado di valorizzare al massimo gli abiti e gli stessi indossatori/indossatrici di AfroItalyFashion».
Queste immagini fanno il giro del mondo attraverso giornali, tv, internet; così è possibile raggiungere i paesi più lontani, dando dimostrazioni di grande solidarietà verso chi è meno fortunato di noi e si trova in condizioni molto povere.
Arrivederci, allora, alla prossima edizione di AfroItalyFashion!

Per informazioni, si può contattare la sede italiana di Mission Sinan in via Emanuela Loi, 8 – 12100 Cuneo;
tel. 0171.403.574; oppure comporre i nn. 320-3734039 – 339-3701387 (Didacus Communication).Successo inaspettato quello che gli organizzatori di AfroItalyFashion hanno ricevuto nella piazzetta Audifreddi, proprio sotto il palazzo comunale, nella parte antica di Cuneo: una manifestazione giunta alla sua quarta edizione, che ha avuto come partners l’Accademia di Belle Arti di Cuneo e l’Organizzazione «Mission Sinan Onlus» di Abidjan (Costa d’Avorio).
La manifestazione ha permesso al pubblico cuneese di conoscere la bellezza e l’originalità degli abiti realizzati dai giovani stilisti che, tra poco, usciranno dall’Accademia per affrontare il grande e variegato mondo della moda.
I preparativi per la sfilata sono stati cornordinati dalla vulcanica signora Lucchini, direttrice dell’Accademia che, avendo compreso appieno lo spirito della manifestazione, ha accettato senza remore di guidare il lavoro dei suoi allievi, preparandoli a quello che per molti è stato un vero e proprio… battesimo del pubblico.
Così, le creazioni italiane si sono miscelate alle migliori firme della moda africana e agli abiti fatti arrivare apposta da Kone Lacina, presidente di Mission Sinan; una trentina di abiti, creati per AfroItalyFashion da stilisti guidati da un ideale comune: dimostrare che quella africana è una cultura con radici antichissime, che l’Africa è un paese che segue i fasti di un tempo e che, proprio nella sua gente, ha la carta vincente per uscire da una situazione economica infelice e, a volte, drammatica.
«Abbiamo scelto la città di Cuneo – dice il direttore artistico della manifestazione, dott. Diego Cudia – per far conoscere un mondo lontano, eppure a noi molto vicino; per dare un segnale forte dell’impegno che persone di nazionalità diversa hanno preso, nella ricerca di un sogno possibile, per spirito umanitario».
Nato come semplice concorso di bellezza chiamato «miss Africa in Italy», la manifestazione si è arricchita di contenuti sociali e culturali, anche attraverso l’opera di professionisti e collaboratori che, con il tempo, hanno capito come AfroItalyFashion non è solo la presentazione di opere della moda, bensì la manifestazione di un pensiero che nasce dal cuore e trova ragione di essere attraverso l’arte e lo spettacolo.
Mission Sinan crede nella formula di questa manifestazione e ne supporta la realizzazione: «Il giorno in cui l’amico Diego Cudia mi ha telefonato – dice Kone Lacina -, sono stato felice di aderire, anche se ciò ha significato passare diverse settimane a cercare gli abiti migliori dei maggiori stilisti africani. Quando anche lo stilista personale di Nelson Mandela mi aveva concesso la sua fiducia, ho capito che stavo lavorando per qualcosa di molto importante e utile per tutti noi; così, attraverso gli abiti, la musica, le persone, gli oggetti che ho potuto inserire nella manifestazione AfroItalyFashion, posso comunicare al grande pubblico l’opera che Mission Sinan compie in Italia ogni giorno».

M ission Sinan» in Italia si preoccupa di raccogliere attrezzature e materiali sanitari dismessi e, grazie al lavoro di alcuni volontari, li recupera e ripristina il loro funzionamento originario, inviandoli nei paesi in cui queste tecnologie possono diventare un aiuto per la vita. L’organizzazione si preoccupa del benessere sociale, lotta contro la povertà, prevenzione delle malattie; infine, si fa carico e concorre in tutti i settori per finalità di pubblica utilità.
«Questo lavoro – continua Kone Lacina – richiede locali, automezzi, materiali dai costi molto pesanti; è solo attraverso varie attività di autofinanziamento che il gruppo riesce a sopravvivere e lavorare. Ecco perché Mission Sinan, in collaborazione con la Didacus Communication, organizza manifestazioni quali l’AfroItalyFashion in cui gli introiti sono destinati a finanziare l’organizzazione stessa».
I prodotti abbandonati (da ospedali, case di cura, ditte foitrici, singoli medici…), che non hanno più alcun valore nel mondo occidentale, trovano un’enorme rivalutazione nel terzo mondo e, in special modo, in Costa d’Avorio, paese a tutt’oggi diviso da una guerra civile assurda.
L’iniziativa di recupero dei materiali sanitari è nata nel 1998, anno in cui la clinica «Città di Bra» (nel cuneese) dismetteva le più svariate attrezzature ospedaliere. È stato così possibile raccogliere e inviare questo materiale nel centro di cura situato sull’autostrada Abobo Ayama, al fine di assistere i bisognosi e riabilitare i suoi centri chirurgici e diagnostici, i quali sono sprovvisti di materiali sanitari ed assistenziali.
Con la manifestazione AfroItalyFashion, Mission Sinan rivolge un appello a tutti coloro che possono collaborare per dare uno sviluppo all’Associazione, dai singoli individui, ai professionisti, alle grosse società. Essa ha bisogno di materiale sanitario, mobili e un eventuale deposito per sistemare il tutto, affinché venga ripristinato e spedito in Costa d’Avorio. Naturalmente, sono graditi anche contributi in denaro per l’acquisto di materiali, utili allo scopo.

I professionisti che lavorano per AfroItalyFashion hanno accettato di devolvere il proprio compenso economico a favore di Mission Sinan: la grande ballerina e coreografa Leo Navas, poi, ha saputo dare un’impronta musicale ben definita e professionalmente valida alla manifestazione.
«Collaboro ad AfroItalyFashion da diversi anni, con l’incarico di studiare e realizzare le coreografie migliori e sempre all’altezza del tono della manifestazione – dice Leo durante -. Il direttore artistico Diego Cudia è sempre molto esigente e ha ragione, perché questa manifestazione è tutta permeata di musica, per cui canzoni, balletti e coreografie devono trasmettere al pubblico non solo emozioni forti, ma anche sentimenti di umanità e riflessione verso la natura stessa dell’uomo e dell’ambiente che si trova ad occupare».
Con queste parole, Leo dimostra la grande professionalità e bravura che solo una ballerina di talento può avere, sia come retaggio culturale (Cuba è il suo paese d’origine), sia come esperienza nel mondo dello spettacolo.
Un’altra donna è stata chiamata per curare la fotografia e riprese video della manifestazione: è Gabriella Melfa, titolare dello Studio «Area Fotografica» di Torino. Sono riuscito ad avvicinarla mentre organizzava con i suoi tecnici il parco luci intorno alla passerella allestita per la sfilata, cercando i punti adatti per ottenere i migliori risultati.
«Sono stata selezionata fra decine di professionisti; molti si presentavano con i lavori più differenti; io avevo il mio portfolio, composto in larga misura di ritratti di persone e, soprattutto, di bambini. Il direttore artistico mi aveva chiamato dicendomi che, se ero stata così brava a riprendere le espressioni più belle dei bambini, potevo essere in grado di valorizzare al massimo gli abiti e gli stessi indossatori/indossatrici di AfroItalyFashion».
Queste immagini fanno il giro del mondo attraverso giornali, tv, internet; così è possibile raggiungere i paesi più lontani, dando dimostrazioni di grande solidarietà verso chi è meno fortunato di noi e si trova in condizioni molto povere.
Arrivederci, allora, alla prossima edizione di AfroItalyFashion!

Per informazioni, si può contattare la sede italiana di Mission Sinan in via Emanuela Loi, 8 – 12100 Cuneo;
tel. 0171.403.574; oppure comporre i nn. 320-3734039 – 339-3701387 (Didacus Communication).

Dino Sassi




Appunti (nostalgici) di un giovane missionario

DOVE L’UTOPIA MUOVE LE MONTAGNE

Tre anni trascorsi tra gli indios Nasa del Cauca.
Viaggio di ricordo tra tanti ricordi all’orizzonte un futuro diverso

Il fuoristrada bianco con il quale ho condiviso tanti chilometri durante questi ultimi due anni e mezzo di vita missionaria scende, quasi controvoglia, per la strada sterrata che da Toribío conduce alla pianura della valle del Cauca, destinazione l’aeroporto di Cali. Sembra quasi che la macchina rifletta i sentimenti di chi, in questi mesi, a lei si è affidato per potersi spostare fra le varie comunità, come se avesse un’anima anche lei, povero ammasso di ferro e plastica, e volesse manifestare il dispiacere dell’addio.
Non guido – il piccolo incidente al ginocchio che ha fatto anticipare il mio rientro in patria non me lo permette – e questo fa sì che possa guardare con calma dal finestrino, ripercorrere tratti di cammino conosciuti, vedere per l’ultima volta luoghi familiari e visi che riconosco e che saluto con un cenno del capo. La tristezza sta nel fatto che da oggi in avanti di questi posti e di questa gente potrò solo parlare ad altri, senza aver più un giornaliero contatto diretto con loro. Non mi sono trattenuto molto in questi luoghi, poco meno di tre anni.
Non c’è momento più denso e adatto dell’addio, credo, per iniziare una piccola relazione di un’esperienza di missione, come se in un’ultima fotografia si potesse rappresentare la totalità delle immagini che hanno riempito la mia mente in tutti questi giorni. È come rigirarsi fra le mani un’istantanea che rappresenta una comunità, con la sua organizzazione, i suoi giovani, i suoi anziani e tutte le persone che le strade polverose del Cauca mi hanno fatto incontrare.
Con questa comunità, con queste persone, cammina da più di vent’anni l’equipo misionero, un gruppo formato da missionari della Consolata, religiose e laici, che condividono vita e lavoro al servizio di questa gente (box).

CONTRATTO A TERMINE
È in questo contesto dove sono atterrato, nel settembre del 2002, con in tasca una specie di contratto a termine con la missione vissuta, per così dire, sul campo. In tasca qualche sogno, molte paure e tanta, tanta voglia di conoscere.
Il primo passo che ho dovuto fare è stato quello di rendermi conto che, sebbene fossi stato destinato alla Colombia per un tempo relativamente breve, non avrei potuto svolgere il mio lavoro in maniera efficiente senza impegnarmi totalmente in questa nuova realtà. È stato quindi necessario cercare di dimenticare, per quanto possibile, il futuro ed attenermi alle circostanze presenti, lasciandomi coinvolgere dalla situazione come se avessi dovuto lavorare per sempre in quel contesto. Come si può facilmente immaginare non è stata un’operazione facile, ma in questo sono stato aiutato enormemente dall’equipo misionero e dallo stile di missione che, in questi anni, esso ha cercato di portare avanti.
Il grande lavoro di riflessione e di progettazione che il gruppo aveva condotto durante la sua storia era lì a mia disposizione, un immenso materiale che ben presto ha riempito la mia stanza, pronto per essere letto, assimilato e discusso nelle periodiche riunioni che l’equipo organizza con lo scopo di valutare ed orientare il lavoro nel modo più omogeneo possibile.
La chiesa latinoamericana, nei suoi documenti di Medellín, Puebla e Santo Domingo ha sempre spinto il lavoro missionario verso un’opera di evangelizzazione che fosse in sintonia con le culture alle quali era diretta, liberatrice e condivisa dalle varie forze ecclesiali che la animano. Queste tre dimensioni sono state accolte dalla nostra presenza nel Cauca come una sfida da portare avanti con coerenza nel suo progetto di lavoro.
La dimensione del lavoro in équipe aiuta a comprendere meglio una realtà culturalmente differente permettendo, a coloro che si uniscono in un secondo tempo, di approfittare di un cammino già fatto, di evitare errori già commessi e di dar valore ai contributi che vengono dai membri stessi della comunità in modo che il messaggio del vangelo trovi nel contatto con un’altra cultura tutta la sua forza liberatrice. Chiaramente tutto ciò mette in crisi, almeno all’inizio, il desiderio di “fare”, di buttarsi immediatamente nella mischia e richiede una buona dose d’ascolto e di condivisione. Ciò che uno ha appreso negli anni di formazione o di precedente esperienza pastorale e che forma la sintesi personale, il sogno della missione di ciascuno, deve entrare in contatto con una realtà specifica, che richiede preparazione, adattamento e talvolta sacrificio da parte del singolo operatore pastorale.

L’INCONTRO CON LA CULTURA NASA
La prima grande sfida che ho dovuto affrontare è stata quella relativa al dialogo fra culture e all’inculturazione del messaggio cristiano. L’aver sempre vissuto, come nel mio caso, in un contesto occidentale (Italia, Inghilterra e Stati Uniti) ha significato un cambio di rotta e un’apertura ad una cultura differente, il passaggio da un mondo tecnicizzato ad un universo tutto sommato ancora mitico, seppur messo in crisi dal rapido avanzare della modeità. Il modo di ragionare “circolare”, dove non sempre le conclusioni sono il frutto di un sillogismo, la visione collettivista della vita e la poca importanza data alla persona, il continuo appellarsi a forze spirituali e naturali come veri responsabili dei vari avvenimenti che segnano il corso dell’esistenza e che cancella quasi completamente la responsabilità personale, sono solo alcuni esempi della difficoltà di entrare in un mondo diverso, senza lasciarsi condizionare dai pregiudizi frutto della nostra formazione.
Uno dei grandi aiuti che ho ricevuto è stato il poter seguire la formazione dei delegados de la palabra, i catechisti locali. È a loro che devo il merito di essermi potuto inserire gradualmente in un mondo che non conoscevo. Ciò che avevo appreso negli anni precedenti e che potevo offrire nel campo della catechesi e della pastorale veniva restituito generosamente sotto forma di indicazioni su come muovermi meglio all’interno della cultura nasa. Me lo ricordava prima della mia partenza José Gentil, il delegato della comunità del Berlín, poche case e una scuola aggrappate sul dorso della montagna, “passare del tempo con noi è la miglior maniera per poter penetrare nel nostro modo di vivere senza rimanere per sempre uno straniero”. In verità ci si rende conto che stranieri si rimarrà per sempre, che non si possono cancellare di colpo forme mentali che ci appartengono dal giorno della nostra nascita, ma si possono ridurre le distanze e porre le basi per un dialogo che sia confronto e non scontro di culture.
La stessa cosa si può dire parlando del dialogo interreligioso. Anche dopo 500 e più anni di evangelizzazione l’indio nasa vive la sua spiritualità in maniera propria, dove elementi di cristianesimo si fondono con l’eredità religiosa e culturale degli antenati. A un gruppo relativamente ristretto di persone che oggi cercano di opporre i valori della Ley de origen, e della visione del cosmo nasa a quelli trapiantati del cristianesimo, corrisponde un numero ben più alto di persone che vivono in modo spontaneo e naturale queste due realtà. E questo è ciò che colpisce maggiormente e pone più difficoltà all’operatore pastorale che si trova a lavorare in questo contesto. È qui dove ci si rende conto che tre anni di esperienza nel mondo indigeno sono troppo pochi per poter fare una sintesi sufficientemente accurata dell’esperienza stessa. La pastorale sacramentale, quella della salute, nonché l’istruzione religiosa nelle scuole devono fare i conti con questa realtà quotidianamente. Che risposte può dare il povero missionario alle prime armi quando una famiglia ti chiede un battesimo per i loro figli perché invitata a far ciò dal medico tradizionale (sciamano), cattolico egli stesso, e che ha visto nella vita della famiglia un influsso negativo di qualche spirito e nel battesimo la forza della benedizione di Dio che può ristabilire l’armonia che si era perduta? O che dire alla famiglia di una piccola comunità della montagna che ti chiama, come mi è successo, un venerdì santo, perché visiti e benedica una ragazza inferma, 24 anni e madre di tre figli, e che rifiuta il trasferimento della stessa all’ospedale in quanto il medico tradizionale aveva diagnosticato la caduta della ragazza sotto l’influsso negativo dell’arcobaleno?
Il delegado de la palabra, catechista preparato e costantemente formato sulla parola di Dio e sull’essenza del messaggio cristiano, ma nello stesso tempo persona che vive inserito nella realtà culturale del suo popolo, è l’unica persona che può dare una risposta, che può aiutarti a far luce su cose e atteggiamenti che a prima vista appaiono incomprensibili o che può orientare le persone della sua comunità a vedere un bene anche in elementi culturali estranei alla propria esperienza.

“LOS SEMILLEROS DE LA PAZ”
L’utopia della pace è il disincanto rappresentato da una situazione di conflitto armato che dura ormai da più di cinquant’anni. Ecco un altro grande spazio della mia missione nel Cauca colombiano. Ricordo quando, prima di partire mi imbattei in una delle nostre riviste in una foto di giovani italiani che partecipavano ad una delle varie attività estive di formazione missionaria. Tutti indossavano la maglietta con la scritta “Credo alla pace perché ho visto la guerra”. Non so in verità quanti di loro avessero toccato concretamente con mano la realtà della guerra, un po’ come il sottoscritto, cresciuto ascoltando i racconti di genitori e familiari che erano passati attraverso le crudezze della seconda guerra mondiale, ma mai prima d’ora tanto vicino ad un’esplosione o a un colpo di mitragliatore.
Cosa fare in questa situazione? Come trasformare l’utopia di una pace fondata su criteri di giustizia, nel mezzo di un conflitto duro e assurdo che coinvolge direttamente la gente della tua parrocchia? Una guerra come molte delle guerre che si stanno combattendo in questi giorni, per molti lati incomprensibile, dove, come ha scritto il filosofo e scrittore francese Beard-Henry Levy in un suo saggio sulla guerra, il male e il fine della storia, “all’orrore di morire si aggiunge l’orrore di morire senza una ragione”.
Anche in questo frangente è importante ascoltare, saper leggere i segni del tempo, cercare di capire le ragioni degli uni e degli altri, con in mano, come diceva Karl Barth il vangelo e il giornale, affinché la parola di Dio non si esaurisca in un irenico ma sterile messaggio, ma possa invece trasformarsi in parola di liberazione per i tanti che soffrono a causa del conflitto. Anche in questo contesto mi ha aiutato molto poter condividere con altri il mio lavoro, sostenersi vicendevolmente per difendersi dallo stress provocato dalle sparatorie, stabilire norme di azione pastorale che potessero essere il più possibile coerenti e uniformi. Ma aldilà dell’equipo misionero anche l’organizzazione della comunità, autorità tradizionali come il cabildo o entità come il “Progetto nasa” (l’associazione dei cabildos delle tre riserve indigene che formano il municipio di Toribío) sono elementi importanti ai quali far riferimento per poter affrontare i momenti di conflitto con più serenità.
La gente di queste zone ha assunto ufficialmente una posizione ben chiara rispetto al conflitto armato che ne insanguina la terra, una posizione che reclama a viva voce l’autonomia politica e territoriale in conformità con i diritti garantiti agli indios colombiani dalla Costituzione politica della repubblica colombiana del 1991. Detta opposizione alle ingerenze dello stato e della guerriglia (nel territorio di Toribío è presente un grosso contingente delle Farc, il più importante e numeroso gruppo guerrigliero del paese) è attuata in forma pacifica, come segno alternativo alla logica di violenza che attanaglia da decenni la Colombia. È la stessa linea nella quale si muove l’equipo misionero e in cui ho provato ad inserirmi, cercando nel mio piccolo di essere un segno di pace e di speranza. Girando per il paese o visitando le molte veredas sparse sui fianchi della montagna con l’occasione di celebrare un sacramento o di visitare una scuola si ha modo di avvicinare la gente, parlare con loro, soprattutto ascoltare e rendersi conto di come vive o subisce la realtà del conflitto. Facendo sentire la vicinanza non solo spirituale, ma anche fisica del missionario, si può con più autorità parlare ai giovani del rischio rappresentato dal cedere al richiamo dei gruppi armati o alle sirene del narcotraffico, che della guerra è il principale finanziatore. Si può predicare la giustizia sociale, a tutti i livelli, incominciando da quello familiare, sapendo che la pace in Colombia sarà possibile nel momento in cui crolleranno certe barriere sociali che marginalizzano troppe categorie di persone a beneficio di pochi gruppi economicamente più avvantaggiati.
Anche qui, il sogno di costruire un mondo di pace si scontra con la dura realtà di una situazione contingente che lascia poco spazio alla speranza. Fortunatamente è la gente stessa che ti insegna a non disperare, a non lasciarsi cogliere dal puro disincanto e a vivere anche di utopia. In questo senso a Toribìo è nato uno dei programmi più semplici e più belli di quelli ai quali ho potuto partecipare, Los Semilleros de la Paz (I seminatori della pace). Nato nel 1998 per iniziativa di un padre tanzaniano, padre Thomas Ishengoma, missionario della Consolata, oggi formatore nel suo paese, e di Marìa Esperanza, una volontaria laica originaria di Medellin, los Semilleros sono un gruppo di bambini del centro abitato e delle varie frazioni circostanti che, una volta al mese, si riuniscono in parrocchia per fare attività formativa di educazione alla pace. Sono loro, in fondo, il futuro e la speranza vera di questa terra che saprà crescere ulteriormente nei sentirneri della tolleranza e della convivenza pacifica nella misura in cui avrà un ricambio di leaders capaci di testimoniare e credere in questi valori.

SOLIDARIETÀ
Il fuoristrada bianco continua la sua discesa, siamo ormai giunti al termine della strada sterrata. L’asfalto che tra poco incontreremo porterà via più velocemente i ricordi, i profumi di questa terra magica, i suoi colori più vivi, i sapori di frutta, le emozioni forti che genera. Non sarà la terra promessa dove “scorrono latte e miele”, ma è comunque un mondo per me ricchissimo per quanto ha saputo offrirmi in tutti questi mesi, nelle cose forse banali che formano il quotidiano.
Sono passato davanti alla casa di Dany Gustavo, un bambino di 8 anni affetto da istiocitosi di Langerhans, una forma tumorale molto rara. Lo curano a Cali con sessioni massicce di chemioterapia per cercare di sanare il fegato e di dargli qualche speranza di vita.
La solidarietà è da sempre il centro dell’attività dell’equipo misionero, ma in questi ultimi anni si è voluto dare un enfasi del tutto speciale a questo aspetto, non solo come testimonianza personale del messaggio dell’amore evangelico, ma anche come formazione della comunità ad un valore che trascende uno degli elementi etici fondamentali della cultura nasa: la reciprocità, il fare qualcosa per gli altri aspettando qualcosa in cambio o come risposta a un qualcosa che si è ricevuto.
Il sogno è quello di veder cambiare per sempre situazioni che ci fanno soffrire soltanto al contemplarle, sogno che si blocca davanti ad una realtà che ci supera e che frustra i nostri desideri; davvero il regno dei cieli è qui presente, ma non ancora pienamente realizzato. Il disincanto, frutto della coscienza dei nostri limiti davanti alla complessità della realtà, solo ci spinge a sognare di più, a continuare ad offrire il nostro piccolo bicchiere per svuotare un oceano di dolore che sembra essere a prima vista inestinguibile.
A questo sogno tentano di rispondere varie iniziative che vogliono essere azioni concrete di solidarietà: il progetto di adozioni a distanza organizzato in collaborazione con l’associazione romana “Italia Solidale” che coinvolge ormai più di 1300 bambini e le loro famiglie di tutte le riserve indigene del Nord del Cauca, il progetto di assistenza ai carcerati indigeni e alle loro famiglie, orientato a dare un po’ di luce a quelle persone che sono finite in una prigione con accuse varie che possono andare dalla lotta armata, al narcotraffico, a episodi di delinquenza comune e che spesso vengono abbandonate dalle loro comunità e dai loro parenti. Anche il progetto di assistenza dei bambini disabili vuole essere una piccola risposta ad un problema grande della comunità. A questo riguardo si è formato un piccolo ambulatorio in Toribío, dove operano una fisioterapista e una logopedista. Aldilà di un aiuto specifico ai soggetti interessati e alle loro famiglie, l’ambulatorio offre anche la possibilità di coscientizzare la comunità sul fenomeno dell’handicap psico-fisico.

MAI SMETTERE DI ESPLORARE
Facendo una valutazione finale del mio operato, penso che quanto, in questi anni, ho saputo offrire in termini di disponibilità, aldilà delle mie limitazioni umane, è stato enormemente superato da quanto ho ricevuto, imparato, assimilato. La comunità nasa chiede all’equipe missionaria di essere un punto di riferimento etico-spirituale in questa nuova fase della sua storia e questo fatto obbliga la persona che vuole impegnarsi con il processo comunitario a crescere in queste dimensioni, se vuole essere un segno significativo al suo interno. Si tratta, in fin dei conti, di formarsi per poter essere un domani formatori.
Il flusso dei miei pensieri si interrompe a causa della voce del soldato che, come in un nastro registrato, chiede i documenti e di poter perquisire la vettura. Un suo commilitone riconosce tra i passeggeri “il padre di Toribio” e ci lascia proseguire.
Passato il posto di blocco dell’esercito situato nella vereda de “El Palo”, ci separano 50 chilometri dall’aeroporto di Cali. Più speditamente la macchina inizia ad attraversare la grande pianura solcata dal fiume Cauca, coltivazioni di canna da zucchero interrotte da qualche piccolo centro abitato generalmente da famiglie afro-colombiane. Lasciamo alla nostra sinistra Cali, la capitale del dipartimento del Valle, la “succursale del cielo” come orgogliosamente la definiscono i suoi stessi abitanti. Chissà cosa deve essere il cielo, penso, se Cali ne è la succursale. Solo per un attimo penso ai due padri che vivono là, in una parrocchia del barrio Antonio Nariño, occupandosi della pastorale afro e immersi fino al collo nei molti problemi di ordine socio- economico che stanno trasformando il quartiere in una zona difficile. Ma è un pensiero di breve durata, il fuoristrada bianco ha ormai imboccato il viale dell’aeroporto, già si affacciano sullo scenario altri panorami, altri sogni, che si riuniscono tutti nell’unica grande utopia della missione.
Da domani la vita sarà differente, altre situazioni e altre sfide si apriranno ai miei orizzonti. Ricordo per darmi coraggio la frase di un celebre poeta inglese che recita, se la memoria non mi tradisce: “Non dobbiamo mai smettere di esplorare e alla fine di tutte le nostre ricerche arriveremo un’altra volta lì dove abbiamo iniziato e conosceremo quel posto per la prima volta”.

BOX 1
DALLE ANDE ALLE ALPI

Capita a volte di fare dei ritrovamenti impensati. Mezzo nascosto tra scaffali polverosi ho trovato nella biblioteca della parrocchia di Toribío un libro di Claudio Magris intitolato “Utopia e Disincanto”. Nel primo capitolo, quello che dà il titolo all’intero volume, l’autore analizza l’inizio del nuovo millennio alla luce di queste due cornordinate. Ho pensato che sarebbe stato interessante applicarle alla missione e alle diverse sfaccettature con le quali essa si è presentata alla mia esperienza.
L’utopia è la tensione verso il futuro, il fine che anima e orienta il nostro presente verso spazi immaginati ma non ancora conosciuti, verso ideali grandi che sono stati, nel mio caso, il frutto di una lunga formazione. Il disincanto è invece l’attenersi alla realtà, la resa dei conti con le circostanze che limitano l’utopia, ma che al tempo stesso non le lasciano prender piede, non permettono che sfoci nell’irrealtà, nella fantasia, che ti fa, in altre parole, rimanere con i piedi ben piantati per terra. Dal dialogo costante fra utopia e disincanto dovrebbe nascere la giusta misura, il corretto relazionarsi con la propria missione, il viverla con buon senso, senza lasciarsi travolgere dal sogno e senza neppure venir troppo frenati dalla cogente realtà di tutti i giorni.
Vorrei quindi narrare qualcosa di questi anni, iniziando dalla mia esperienza personale, da ciò che ho sentito e compreso, dalla risposta che il mio viaggiare ha dato alle tante aspettative che avevo e di come la realtà ha giocoforza sagomato il mio essere missionario nel nord del Cauca colombiano. In un secondo momento vorrei raccontare, in modo più diretto e specifico, qualcosa della comunità che mi ha ospitato, degli indigeni nasa (o páeces), delle utopie che continuano ad ispirae il progetto di vita, nel mezzo di una situazione contingente di grande difficoltà, dell’alternativa che essa vuole rappresentare, in aperto contrasto alle logiche di potere portate avanti sia dal governo colombiano che dai movimenti eversivi. In un terzo articolo narrerò qualcosa dei giovani, che di questa comunità rappresentano la linfa vitale, il futuro, del loro “pensamiento joven” (il pensiero giovane), che cerca di opporsi alla mentalità disincantata degli anziani, ad un mondo nel quale non si riconoscono più e al quale vogliono offrire qualcosa di nuovo e più vicino alle loro esigenze e alla loro sensibilità.
U.Po.

BOX 2
STORIA E SCOPI DELL’EQUIPO MISIONERO

L’equipo misionero di Toribío venne fondato il 4 marzo del 1979 su iniziativa del padre Alvaro Ulcué Chocué (sacerdote indigeno e parroco delle comunità di Toribio e Tacueyó), insieme ad alcune suore missionarie della Madre Laura. L’iniziativa voleva essere una risposta al processo di rinnovamento ecclesiale e pastorale, in corso in America Latina negli anni che seguirono il Concilio Vaticano II e le grandi conferenze episcopali di Medellín e Puebla.
La scelta di vivere in un équipe apostolica di vita e attività pastorale doveva, nel disegno del padre Alvaro, condurre ad una evangelizzazione inculturata e liberatrice, con una chiara opzione per i poveri ed un’enfasi verso il mondo indigeno e il suo processo storico di recupero della terra, organizzazione e sviluppo che, tra molti conflitti e a prezzo di molto sangue versato, la comunità stava vivendo da alcuni anni a quella parte.
Dopo la morte del padre Alvaro, assassinato a Santander de Quilichao il 10 novembre del 1984 per il suo impegno in favore della causa indigena, l’esperienza dell’equipo misionero venne raccolta dai missionari della Consolata. Coordinato a partire dal 1988 da padre Antonio Bonanomi, il gruppo è oggi formato da circa 20 persone: sacerdoti, religiose, e laici sia estei come facenti parte della comunità nasa.
U.Po.

BOX 3
SCHEDA

Superficie: 1.141.748 Kmq
Popolazione: 45.300.000 abitanti (proiezione per il 2005)
Lingua: spagnolo (ufficiale); in Colombia sono però presenti 84 popoli indigeni con 64 lingue differenti
Religione: cattolica (ufficiale, 93%).
Capitale: Santa Fe de Bogotá (7.029.928 abitanti)
Ordinamento politico: repubblica presidenziale
Presidente: Alvaro Uribe Velez, dal 7 agosto 2002
Economia: Il caffè è il principale prodotto legale da esportazione. Il sottosuolo contiene giacimenti di petrolio, carbone, oro, platino, argento e smeraldi. Le coltivazioni di marijuana, coca e papavero da oppio alimentano il floridissimo traffico illegale degli stupefacenti. Si stima che dalla Colombia provenga 80% della produzione mondiale di cocaina.
Moneta: peso colombiano (3.000 pesos = 1 Euro nel 2004)

BOX 4
CARISSIMO GUSTAVO

Carissimo Gustavo,
sono passati ormai alcuni mesi dall’ultima volta che ci siamo visti, da quell’8 di novembre dell’anno scorso quando, in silenzio come sempre, la tua anima si è riunita al “ks’a’w wala”, il grande spirito di Dio. Quel giorno, ironia della sorte, avevi deciso di prendere la chiva, la corriera locale che ti avrebbe portato con gli altri delegados della palabra fino al Cecidic, il collegio dove tutto era pronto per celebrare l’annuale assemblea su padre Alvaro dedicata al tema della solidarietà nella comunità che aveva sognato e per la quale era morto e che tu, inseguendo lo stesso sogno, avevi servito come catechista e come ricercatore storico. Dico “ironia della sorte”, perché tu non avevi certo bisogno della corriera per fare i tre chilometri che separano la parrocchia di Toribío dal collegio, abituato come eri a camminare per le tue montagne. Tre chilometri che avevi già percorso in senso contrario quella stessa mattina, per venire a vedere in paese chi era arrivato, per riunirti con i tuoi compagni, fare colazione e scambiare due chiacchiere prima dell’inizio dell’assemblea. La chiva si è capottata proprio davanti alla collina dove da qualche tempo vivevi, davanti a casa tua, intrappolando il tuo corpo sotto il peso della sua grande carrozzeria e spegnendo di un botto i tanti sogni che avevi iniziato a coltivare.
Ho ancora ben chiara in mente la volta che mi hai accompagnato a celebrare le prime comunioni nella cappella de La Primicia. Era la mia prima uscita “in vereda”, ed ero nervosissimo: ero arrivato da soli due giorni, la gente non mi conosceva ancora e nello spazio antistante la cappella c’erano vari guerriglieri, figure alle quali dovevo ancora fare l’abitudine. Mi hai spiegato in poche parole (non sei mai stato un uomo di grandi discorsi) quello che succedeva e ciò che la comunità si aspettava da me. Tutto è filato liscio come l’olio. Da quel giorno in avanti abbiamo condiviso molti chilometri, molte celebrazioni ed incontri. Era fondamentale, per esempio, quella tua introduzione alla liturgia, espressa in un linguaggio che la gente coglieva immediatamente, molte volte in nasa yuwe, la lingua del popolo nasa che tu dominavi alla perfezione.
Sapevi quello che dicevi. Negli ultimi anni, oltre alla catechesi, ti eri dedicato anima e corpo al progetto della “Cattedra nasa-Unesco”, un programma di ricerca storica all’interno della comunità basato sulle testimonianze dei protagonisti. Avevi intervistato moltissimi anziani che ti avevano parlato delle loro credenze, dei valori tradizionali, delle lotte per l’autonomia e il recupero della terra. Credevi, come padre Alvaro, che “l’utopia muove le montagne” e non ti rassegnavi a vivere come se niente avesse potuto cambiare solo perché alcuni volevano così. Sapevi che il passato orienta il nostro presente affinché, a partire da ciò che siamo, si possa camminare verso un futuro disegnato in modo differente.
Il giorno prima di lasciarci avevi comprato qualche regalino per Yuni Alexandra, la tua bambina di otto mesi: un vestitino azzurro, un atlante geografico e un dizionario. E a chi ti prendeva in giro facendoti notare che forse era un po’ azzardato regalare un dizionario di spagnolo a una bimba di neanche un anno, avevi risposto candidamente che questi strumenti sempre servono e sempre serviranno, che ora avevi i soldi e che chissà che prezzo avrebbero avuto quando Alexandra fosse andata a scuola. Grande Gustavo, grazie per questa iniezione di fiducia, per questa speranza che hai portato dentro e che fino all’ultimo, con poche parole, ma molte scelte pratiche, mi hai testimoniato.
padre Ugo

BOX: AUTORI
(*) Ugo Pozzoli, missionario torinese (1962), è rientrato in Italia per lavorare a Missioni Consolata. Da marzo 2005 è redattore in pianta stabile nella redazione della rivista.
A padre Ugo, un benvenuto e un augurio di buon lavoro.

(**) Enzo Baldoni, lo sfortunato giornalista free-lance rapito ed ucciso in Iraq, fu ospite nel Cauca dei missionari della Consolata. Le foto di questo servizio sono un suo regalo.

Ugo Pozzoli




NICARAGUA Mondi locali ed ecosistemi a rischio

Un sacco di riso transgenico proveniente dagli Usa costa
meno di un sacco di riso naturale prodotto in Nicaragua.
È sempre più incerto il futuro di indigeni e contadini di fronte all’avanzata dell’Alca, del Piano Puebla-Panamà, del Corridoio biologico mesoamericano.
A tutto ciò si aggiungono le zone franche e le fabbriche
di assemblaggio (maquilas), che certamente non aiutano lo sviluppo locale.

Managua. L’America Centrale – come scriveva Pablo Neruda – è la cintura del continente americano e al centro troviamo il Nicaragua. A Managua, la capitale, abbiamo incontrato esponenti della società civile impegnati nella difesa della sovranità alimentare e di un modello di sviluppo economico congruente con i bisogni della maggioranza dei nicaraguensi.
Il settore agricolo e l’allevamento hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo da protagonisti nello sviluppo economico e sociale del piccolo paese. L’agricoltura è da sempre la componente più importante dell’economia nicaraguense ma, negli anni, è stata segnata profondamente dalla travagliata storia del Nicaragua. Dopo i 50 anni di dittatura somozista (finiti nel 1979 con la rivoluzione sandinista), nel 1990 l’agricoltura ha cominciato a subire le conseguenze dell’applicazione del modello neoliberale. Da una parte, infatti, i governi subentrati negli anni Novanta non hanno fatto altro che promuovere questa tendenza economica e dall’altra le riforme strutturali imposte al paese hanno aggravato la già difficile situazione della classe contadina.
Ne parliamo con José Adan Rivera Castillo, vicepresidente della Atc-Unapa (Associazione dei lavoratori della campagna), l’associazione più rappresentativa degli agricoltori nicaraguensi.
«La nostra organizzazione – ci spiega – lavora con due blocchi di persone: lavoratori salariati raggruppati in 131 sindacati e piccoli produttori raccolti in 345 cornoperative. L’Atc ha iniziato a lavorare nel 1977 prima del trionfo della Rivoluzione del Fronte sandinista di liberazione nazionale, avvenuto nel 1979, quando cadde la dittatura di Anastacio Somoza. Dopo questa data ebbe inizio un processo in cui per la famiglia rurale contadina si aprì uno spazio nuovo: la riforma agraria, dove si distribuì la terra a coloro che la lavoravano, cioè ai contadini. Questo grande cambiamento in effetti colpì molto i proprietari terrieri e nel 1984 gli Stati Uniti iniziarono la guerra contro il Nicaragua.
È stata questa guerra che fece rimanere incompiuta la riforma agraria, perché essa non consisteva soltanto nel consegnare la terra ai contadini ma anche nell’avere accesso alla formazione, alla tecnologia, all’educazione, alle reti commerciali: insomma integrazione verticale e orizzontale nel sistema produttivo contadino. Non ci fu il tempo di portare a compimento la riforma agraria perché la guerra, l’invasione, i porti minati e le migliaia di morti non lo permisero. Seguì una pressione estea che finì nel 1990 con il disarmo totale di tutte le parti in conflitto: la controrivoluzione da una parte e il popolo e i contadini dall’altra. Poi iniziarono i governi neoliberali. Questi stabilirono uno schema giuridico agrario a favore della controriforma agraria, che mirava a spogliare i contadini delle loro terre per beneficiare i grandi proprietari terrieri, che erano fuggiti 25 anni prima e che volevano la restaurazione delle loro proprietà. Tutto ciò fece sì che gli ultimi tre governi – come quello di Doña Violeta Barrios de Chamorro del 1990, quello di Aoldo Aleman del 1996 e l’attuale governo di Enrique Bolaños del 2000 – decostruirono quelli che erano gli strumenti di appoggio alla piccola produzione, cominciando dalla Banca nazionale di sviluppo (che si occupava del finanziamento ai piccoli produttori), che privatizzarono. In seguito crearono una serie di leggi che riguardavano la proprietà per obbligare i contadini ad abbandonare la loro terra e non dettero nessun tipo di appoggio alle associazioni di contadini organizzati: fu un piano strutturato per spogliarci delle nostre terre. Perché noi, come contadini, ci troviamo in totale svantaggio e per uscire da questa situazione stiamo stimolando l’associazionismo; in tal senso abbiamo approvato una nuova legge generale delle cornoperative che è il modello dell’organizzazione a cui vogliamo dare impulso. L’obiettivo è poter sviluppare l’attitudine imprenditoriale presso i piccoli produttori e contadini del Nicaragua, che rappresentano più dell’80% della produzione alimentare nazionale e hanno un grande potenziale di sviluppo. Non si tratta di dire: “il Cafta e l’Alca sono cattivi”; “quella è una politica colonialista”».
«Noi dobbiamo cercare una risposta alternativa. Io credo che ci siano due modelli in conflitto: un modello esclusivo, concentratore, punitivo e un altro partecipativo, autogestionario, umanista e di solidarietà. Sono due sistemi contrapposti, è una lotta ideologica permanente in tutti i campi. Stiamo creando strategie comuni con il movimento sociale e con le università perché difendano le posizioni contadine. In altre parole; stiamo ricostruendo le alleanze sociali per affrontare questo fenomeno, quest’offensiva neoliberale costituita dall’Alca, dal Plan Puebla-Panamà, dal Corridoio biologico mesoamericano».

GOVERNI SUCCUBI, LAVORATORI IN GINOCCHIO
La classe dirigente centroamericana al potere (fatta eccezione per la Costa Rica, unico paese dell’America Centrale ad aver resistito all’Alca) non ha una strategia alternativa, un progetto autoctono di sviluppo, solamente ripete gli argomenti della controparte statunitense che chiaramente ha un progetto ben preciso e sta tentando in tutti i modi di ottenere il via libera. La classe contadina ha un suo progetto di sviluppo ma è molto difficile da attuare visto che le negoziazioni sono state fatte in segreto come ci spiega Hermogenes Rodriguez della giunta direttiva della Fenacornop (Federazione nazionale di cornoperative agricole, di allevamento e agroindustriali), la federazione di cornoperative più importante del Nicaragua formata da 620 cornoperative (di cui 371 si occuppano di produzione agricola e di allevamento e 249 cornoperative prestano servizi vari).
«Noi che abbiamo seguito queste negoziazioni, all’inizio molto segrete, le abbiamo trovate molto compartimentate, per questo abbiamo dovuto impegnarci molto per conoscere i testi originali. Prima è stato necessario conoscerli a livello di dirigenza della Federazione e poi trasmetterli alle nostre basi sociali. Noi crediamo che il Nicaragua e, perché non dirlo, l’America Centrale si siano avventurati in una negoziazione di un trattato complesso e pericoloso, come l’Alca, sotto la pressione dell’ondata di globalizzazione mondiale. Quindi, si tratta di una imposizione che il paese sta soffrendo e che non ha avuto una seria analisi da parte del governo. Queste trattative per la loro natura sono state condotte da governo a governo, in modo molto isolato, tagliando fuori il settore sociale e produttivo. Solo molto tempo dopo, i politici hanno inscenato un più ampio coinvolgimento per giustificarsi e poter dire che la società civile e i settori coinvolti in questo trattato hanno dato il loro parere».

PRODUTTORI LOCALI SCHIACCIATI DAL MERCATO
Il trattato dell’Alca e più precisamente il Cafta è indispensabile per gli Stati Uniti, innanzitutto perché consente loro di piazzare su un mercato esterno (quello centroamericano) le loro eccedenze agricole e la produzione industriale che non è competitiva all’interno della loro economia. In secondo luogo, l’Alca è indispensabile per incrementare il processo di remissione dall’estero di utilità, pagamenti per royalties e capitali, processo che sostiene l’economia statunitense. Infine, gli Usa hanno bisogno di questo megamercato latinoamericano per facilitare le sue transnazionali nell’appropriazione di risorse strategiche indispensabili per aumentare la loro competitività. Di fronte a questa chiara strategia politico-economica, il governo nicaraguense ha ceduto incondizionatamente e ora pretende di far diventare il Nicaragua un paese ancora più povero e analfabeta. A tal proposito abbiamo incontrato Alvaro Fiallos Oyanguren, presidente della Unag (Unione nazionale agricoltori e allevatori), organizzazione contadina che con i suoi 72.634 membri è il consorzio più importante dei produttori e allevatori medi del Nicaragua.
«Il governo del Nicaragua ha elaborato la teoria che questo paese debba svilupparsi in base al settore dei servizi, come il turismo e le zone franche, convertendo il piccolo produttore – considerato non efficiente – in operaio di maquila e addetto del turismo.
L’attuale situazione di crisi ha fatto aumentare l’analfabetismo, che nella campagna raggiunge ormai il 60%, e, in generale, ha peggiorato le condizioni di vita della gente. Infatti la popolazione in stato di povertà si aggira intorno al 70%, di cui un 20-25% si trova in una situazione di estrema povertà. Questo è, a mio parere, il prodotto dell’applicazione delle riforme strutturali, della politica del Fondo monetario internazionale e della preferenza espressa da questo governo per le politiche di investimento estero, a totale scapito dei produttori nazionali.
Con la ratifica del Trattato di libero commercio (Alca) l’effetto sarà completamente negativo: non c’è nessuna capacità reale di competere – soprattutto nel settore rurale – con i produttori degli Stati Uniti che hanno tutte le condizioni materiali ed economiche a loro favore, come la modeizzazione tecnologica e i grandi sussidi da parte dello Stato. Ovviamente tutto ciò altera le relazioni commerciali. Arrivano in Nicaragua prodotti statunitensi sussidiati a competere con i nostri prodotti che non hanno neanche il finanziamento di base, con la paradossale conseguenza che un sacco di riso transgenico Usa costa meno di un sacco di riso naturale coltivato in Nicaragua. Ne deduciamo che la competitività che dovrebbe stabilirsi in un trattato tra eguali non esiste».

BIODIVERSITÀ A RISCHIO
Accanto al Cafta c’è il Ppp (Piano Puebla-Panama) orientato ad offrire l’infrastruttura al megamercato americano. Il suo disegno è stato realizzato dai tecnocrati della Banca mondiale e del Bid (Banca interamericana di sviluppo) e nella sua formulazione comprende uno spazio che si estenda dallo Stato di Puebla nel sudest del Messico, attraverso altri 8 stati messicani, per arrivare a comprendere tutti i paesi Centroamericani fino a Panamà. Il finanziamento complessivo si aggira intorno ai 4.4 mila milioni di dollari, di cui il 96.3% è assegnato alla costruzione di strade, il restante 3.7% è per lo sviluppo sostenibile e la protezione del Cbm (Corridoio biologico mesoamericano) che si estende dal Chiapas messicano fino al Panamà.
Il Ppp prevede la costruzione di reti di autostrade, oleodotti e gasdotti, porti, aeroporti, dighe e un sistema di interconnessione energetica, oltre all’impiantazione di zone franche in tutta quest’area geografica. Tutto questo in una delle aree più incontaminate del pianeta, coperta ancora per gran parte dalla foresta pluviale e che, a livello mondiale, è seconda, per biodiversità, solo all’Amazzonia. Infatti quest’area, pur coprendo appena lo 0,5% della superficie totale del pianeta, alberga il 7% di tutta la biodiversità conosciuta nel mondo. Appare dunque evidente come uno degli obiettivi principali degli Usa sia proprio estrarre la riserva biogenetica da questa area con l’aiuto del Cbm, con lo strumento giuridico del brevetto delle specie biogenetiche e con l’ausilio dell’infrastruttura prevista dal Ppp. A questo quadro allarmante va aggiunta la risorsa-acqua che in questo momento, con la rivoluzione biotecnologica, è diventata un patrimonio strategico.

CONTRO GLI INDIGENI, CONTRO I CONTADINI
Un altro aspetto importante della strategia occulta del Ppp consiste nel costruire un sistema di 30 dighe lungo l’asse Puebla-Panamà e in questo modo interrompere le reti di sviluppo autoctone e smembrare le popolazioni delle comunità indigene e delle popolazioni contadine, che per il loro stretto rapporto di interdipendenza con la natura sono i più indifesi di fronte a questo tipo di cambiamenti. In un secondo momento il Plan Puebla-Panamá intende consegnare titoli di proprietà a queste stesse popolazioni, in cui l’uso della terra è invece ora comunitario, per poter smembrae definitivamente l’economia collettiva.
Queste popolazioni stanno resistendo al Ppp, perché coscienti che esso verrà a sconvolgere il fragile equilibrio del loro sistema ecologico ed eco-compatibile. Di questo ci parla José Adan Rivera dell’Atc.
«Noi siamo stati tutto questo tempo in resistenza di fronte a questa situazione che viene a coronarsi con macro-programmi come il Ppp perché si sono rivelati illusori e dannosi. Quest’ultimo infatti si è tradotto solamente nell’articolazione della strada Panamericana , ma, al di fuori di questa, tutte le strade intee verso le comunità sono distrutte, non c’è nessun tipo di comunicazione intea, a conferma che la infrastruttura viaria del Ppp è stata concepita per favorire il passaggio di merce del Nord verso il Sud e per saccheggiare risorse dal Sud verso gli Stati Uniti.
Anche nel settore energetico il quadro appare contraddittorio. Nel campo dell’energia, infatti, ci sono grandi interconnessioni elettriche ma ancora il 40% delle comunità locali non hanno l’elettricità. In base a tutte queste considerazioni, possiamo davvero affermare che il Nicaragua sia stato convertito in una discarica a cielo aperto per quanto riguarda l’ambiente, e in una riserva di mano d’opera a basso costo per quanto riguarda l’aspetto sociale. Non è infatti un caso se tutta la strada Panamericana è stata disseminata di zone franche che, oltre all’elevato profitto delle multinazionali, producono lo smembramento culturale della gioventù contadina con false illusioni di guadagno.
Con la diminuzione numerica degli occupati nel settore agricolo, i Paesi centroamericani, vincolati dai nuovi trattati neoliberali, diventeranno ancor più dipendenti dalle importazioni alimentari estere, con gravi ripercussioni sulle condizioni di vita della popolazione».

A VOI L’INQUINAMENTO, A NOI IL PROFITTO
In questa direzione si sta muovendo l’attuale governo nicaraguense che ha deciso di dare forte impulso al cosiddetto «Piano nazionale di sviluppo» (Plan nacional de desarrollo o Pnd). Scopo principale di tale iniziativa è quello di creare dei clusters, ovvero una serie di concentramenti di attività economiche composte da infrastrutture come fabbriche, reti di comunicazione, forza lavoro ecc.
Sono sei i clusters previsti: energia, turismo, prodotti tessili, prodotti caseari, prodotti forestali e agrumi. Dietro alla creazione di questi clusters c’è un lungo elenco di trasnazionali, come Enron, Chiquita Brands, Del Monte Foods, Nestlé, Philip Morris, Danone, Parmalat ecc. Queste transnazionali si doteranno di concimi, macchinari, consulenza tecnica di alto livello ecc. provenienti dall’estero e all’estero toeranno anche i guadagni (come nel caso della maquilas o zona franca) e pertanto non lasceranno al Nicaragua altro che un salario da fame.
Infatti, questo tipo di economia in America Latina venne chiamata «economia rondine», con allusione al carattere volatile di tali investimenti. Tutto questo senza parlare dell’inquinamento che lasceranno dietro di sé queste industrie, a causa dell’inesistenza di norme a difesa dell’ambiente.
Il Nicaragua è un paese povero e non sarà certo grazie a questo vecchio modello di agricoltura d’esportazione che uscirà dalla povertà. Invece, a nostro parere, una possibile via d’uscita sostenibile si trova nel modello alternativo proposto dalle organizzazioni contadine di piccoli e medi produttori e allevatori (che in Nicaragua rappresentano il 99%), dalle cornoperative e dalla gente che lavora nel settore terziario. Questo nella convinzione che l’economia popolare abbia la capacità di risolvere i problemi laddove ha fallito il modello agricolo d’esportazione, come ci racconta Orlando Nuñez Soto, direttore del Cipres (Centro di ricerca e promozione dello sviluppo rurale e sociale), un centro di ricerca che appoggia, attraverso 30 progetti specifici, lo sviluppo rurale di 150 comunità contadine, 5mila famiglie in tutto il Nicaragua.
«La nostra proposta è di sussidiare le famiglie contadine perché producano latte, uova, carne, frutta, verdure e cereali, e in questo modo compensino con la produzione alimentare i problemi che l’economia commerciale crea loro.
La nostra proposta di produzione alimentare è integrale e si irradia all’interno delle famiglie, all’interno delle cornoperative, all’interno delle comunità. Questo permette alla comunità di amministrare meglio le relazioni con la città, tanto a livello commerciale quanto a livello politico: è questa la nostra strategia. Il problema è che al Nicaragua è stato chiesto dai Paesi ricchi di produrre beni commerciali per l’esportazione come legno, caucciù, oro, cotone e caffè a seconda delle necessità delle metropoli europee e nordamericane. Parallelamente i contadini hanno prodotto per mangiare perché la produzione commerciale non ha mai lasciato eccedenze al Nicaragua a causa della vendita sottoprezzo di tali beni d’esportazione. In questo modo il Nicaragua si trova al centro di un circolo vizioso: più produce più si decapitalizza, più esporta più le sue terre diventano sterili, più sfrutta le risorse ambientali e più perde la sua biodiversità e la sua gente emigra. Oggi, con il “Piano nazionale di sviluppo”, assistiamo a un’offensiva ancora maggiore: non solo ci richiedono i beni commerciali per l’esportazione, come nel passato, ma addirittura ci viene proposto che il Nicaragua si trasformi in mercato per i paesi industrializzati. È noto infatti che l’Europa e il Nord America producano e vendano alimenti e abbiano problemi per “piazzare” le loro eccedenze: pertanto hanno bisogno dell’America Latina, e in questo caso del Nicaragua, come mercato di consumo dei loro prodotti. Si tratta di una lotta in corso tra noi che vogliamo continuare a produrre alimenti per conservare la nostra sovranità alimentare e i paesi ricchi e le imprese transnazionali che vogliono il contrario. Praticamente è in atto il tentativo di smantellamento dell’agricoltura centroamericana che, se riuscisse, costringerebbe il Nicaragua a vendere, per poter sopravvivere, le spiagge, le sorgenti d’acqua e gli ultimi boschi che restano».

BOX 1
Questo viaggio…

In questo viaggio attraverso l’America Centrale abbiamo raccolto molte testimonianze. Abbiamo voluto seguire una linea immaginaria che transita per i quattro paesi, partendo dal Nicaragua, passando per l’Honduras e El Salvador ed infine arrivando in Guatemala. Questa linea tocca i punti deboli di ognuna di queste piccole realtà, diverse tra loro, ma con problematiche che si estendono all’intera area centroamericana. Per il Nicaragua, ad esempio, abbiamo intervistato esponenti e leader contadini alla luce della crisi della sovranità alimentare, che espone i contadini al rischio di sparizione e fa sì che il problema della povertà acquisisca dimensioni endemiche e probabilmente irreversibili. Dal Nicaragua abbiamo viaggiato verso nord, verso Tegucigalpa, capitale dell’Honduras, dove abbiamo incontrato dirigenti sindacali, donne leader contadine e diversi esponenti dei Centri di difesa dei diritti umani. Abbiamo voluto investigare sulla situazione delle zone franche o «maquillas» (che in castigliano antico significava: «quegli avanzi» che si lasciano al proprietario del mulino per l’utilizzo dei suoi macchinari) e più specificamente la situazione dei diritti delle donne che vengono pagate intorno ai 25 centesimi di euro all’ora e costituiscono la quasi totalità della mano d’opera all’interno delle zone franche.
Andando ancora al nord, a 5 ore di strada dalle montagne di Tegucigalpa, troviamo El Salvador, probabilmente il paese più piccolo dell’America Latina, chiamato non per altro «il pollice d’America». A San Salvador – la capitale – abbiamo avuto degli incontri con economisti rappresentanti di organizzazioni sociali e contadine e con i membri di un Centro di difesa dei diritti umani. Abbiamo cercato di capire di più sul perché oltre un quarto della popolazione salvadoreña è residente negli Stati Uniti: sarà forse perché più del 90 per cento dei suoi fiumi sono inquinati, la campagna senza acqua si sta svuotando, le città crescono a ritmi impressionanti e con queste le enormi bidonvilles che la circondano.
Infine, siamo arrivati in Guatemala, paese per più della metà indigeno. A Città del Guatemala abbiamo intervistato il procuratore dei diritti umani e alcune donne indigene che sono impegnate nella «ricostruzione della memoria storica» dopo il conflitto armato che finì solo nel 1996 e che per tre decenni pesò sulle popolazioni indigene del Guatemala con più di 250.000 vittime. Queste donne lottano per la difesa dei diritti umani, per il compimento degli accordi di pace, per la partecipazione femminile alla vita politica e civile e per il risarcimento delle vittime della guerra.
L’America Centrale per tanti aspetti è la parte più debole dell’America Latina e non reggerà di certo alle conseguenze che deriveranno dai trattati come il Cafta, il Ppp e il Cbm nella attuale situazione in cui si trovano. Proveremo a spiegare il perché lasciando parlare i protagonisti delle società civili centroamericane.

BOX 2
Glossario


Alca: «Area di Libero Commercio delle Americhe». Trattato commerciale firmato al summit di Miami nel 1994 dai 34 capi di stato del continente americano. Prevedeva una tappa iniziale di «preparazione», fino al 1998 con l’intenzione di concludere l’accordo nel 2005. In termini di mercato coinvolge una popolazione di 780 milioni di abitanti, un terzo del prodotto lordo globale e il 20% del commercio mondiale. L’Alca è promosso dagli Stati Uniti, che pretendono di utilizzarlo come strategia per riacquistare la sua egemonia perduta in materia di competitività nei confronti dell’Europa e dei paesi asiatici. Attualmente molti paesi dell’America Latina hanno opposto resistenza, tra essi principalmente il Brasile, il Venezuela e l’Argentina.

Ppp: «Piano Puebla-Panamà». Vi partecipano i 9 stati più poveri del sud del Messico, insieme ai paesi centroamericani e a Panamà. È un macro programma centrato nella costruzione di infrastrutture (porti, autostrade, reti ferroviarie, corridoi energetici, ecc.) lungo l’America Centrale, che permetterà in futuro di estrae le risorse e trasportare merce verso l’America del Sud.

Cafta: «Area di Libero Commercio per l’America Centrale». Sessione dell’Alca circoscritta ai paesi dell’America Centrale.

Cbm: «Corridoio Biologico Mesoamericano». Ne fanno parte Messico, Belize, Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua, Costa Rica e Panamà. È un sistema di cornordinamento territoriale di aree protette. Proposta parallela al Ppp e al Cafta, viene cornordinata dai ministri dell’ambiente dei paesi dalla Mesoamerica all’interno della Commissione centroamericana dell’ambiente e lo sviluppo (Ccad).


Josè Carlos Bonino




NICARAGUA Ventiquattrore nella discarica

El Pantanal e Acahualinca sono quartieri che circondano «la Chureca» nelle vicinanze del lago di Managua. «La Chureca» è una parola che non compare nel dizionario, ma è un’auto-definizione creata dalla gente che abita qui. Si tratta di una discarica di oltre 47 metri di profondità che esiste dagli anni Cinquanta, ovviamente senza alcun tipo di controllo.

Un bambino che non avrà neppure 14 anni affonda le mani in una montagna di spazzatura: è vestito con dei pantaloni marroni, che forse una volta erano bianchi, una maglietta grigia e un cappellino rosso molto sporco che probabilmente ha trovato tra la spazzatura. È uno dei tanti bambini-lavoratori che incontriamo durante la nostra visita alla discarica. Porta a tracolla un sacco grande quasi quanto lui, dove mette tutte le cose che trova (bottiglie di vetro o plastica; pezzi di ferro, legno e materiali riciclabili in genere) e che proverà poi a vendere per poter – almeno quel giorno – mangiare qualcosa. Continuiamo ad addentrarci nella Chureca e l’odore è sempre più nauseabondo: un misto di esalazioni di animali morti, spazzatura e prodotti chimici che arrivano dal contaminatissimo lago di Managua, che si trova a pochi metri dalla Chureca.
Qui arrivano ogni giorno più di 1.400 tonnellate di spazzatura e con esse la speranza di mangiare per più di 100 famiglie. Per tutte loro la discarica rappresenta l’unico mezzo di sopravvivenza. Queste persone lavorano con ritmi estenuanti: per tutta la notte e altri fin dal mattino presto, frugano tra i rifiuti cercando qualcosa con un minimo di valore, circondati da animali morti, cani randagi, avvoltorni, mucche e cavalli che pascolano sul posto.
Nelle vicinanze del lago di Managua, al Nord della capitale, abbiamo incontrato Eddy Perez, che in passato lavorava raccogliendo spazzatura, e oggi è un educatore di strada che lavora da anni con le popolazioni dei quartieri, che circondano e sopravvivono con la Chureca.
«La Chureca – ci spiega Eddy – è la principale discarica della capitale, che produce, secondo le stime ufficiali, un totale giornaliero di 1.400 tonnellate di spazzatura, ma noi crediamo che siano molte di più. La sua estensione è di 64 ettari e al suo interno lavorano 1.300 persone, di cui più della metà sono minori di 18 anni. Questa è una parte della popolazione urbana che si è vista obbligata a vivere qui spinta dalla difficile situazione economica. La Chureca permette loro di mangiare: è l’unica strada che la gente può percorrere per sopravvivere. Nella Chureca vivono 133 famiglie in baracche del tutto inadeguate, senza servizi igienici, né acqua potabile né elettricità, costruite con materiali di recupero, a loro volta scartati da altre persone, che li ritenevano inservibili. La gente qui alla Chureca vende magari un chilogrammo di alluminio, rame, vetro, carta o plastica e risolve in questo modo le necessità basiche di un giorno per loro e i loro figli. Sono persone che non sanno misurare il domani, perché non hanno la certezza di arrivarvi. Questa realtà non glielo permette, non consente loro di avere nessun progetto per il futuro».
Aldilà dei materiali che si possono vendere per il riciclaggio i churequeros raccolgono anche scarti di cibo come ossa di maiali, scarti di pesce e verdura marcia che arrivano dal mercato orientale, il mercato più grande di Managua. Con questi scarti cucinano e mangiano famiglie intere, molte volte anche sul posto, con conseguenze per la salute facilmente immaginabili. Purtroppo, la metà di questi lavoratori sono bambini a cui non viene riconosciuto nessun diritto, la cui vita non conosce scuola, né giochi, e il cui futuro è gravemente compromesso.
Sono stati fatti molti progetti per far uscire dalla povertà questa parte di popolazione, ma la spazzatura rimane la loro unica certezza. Nel frattempo, la Chureca continua a rappresentare una contraddizione umana per chiunque si guardi attorno: da un lato trova la bellezza del tropico e l’esuberanza della natura, dall’altro indifferenza, miseria e fame.
Josè Carlos Bonino

Josè Carlos Bonino