RORAIMA: la Campagna

La consegna delle firme

LA FORZA DI 44.000 FIRME

«In fretta, in fretta! Il presidente Pera vi sta aspettando!». Antonio Feandes, missionario della Consolata a Roraima (Brasile) e oggi consigliere generale dell’istituto, si asciuga emozionato il sudore; Carlo Maglietta, medico e presidente del «Comitato Roraima», si riannoda precipitosamente la cravatta; Silvia Zaccaria, antropologa, si aggiusta con la mano la chioma fluente; Vincenzo Gaeta, caporedattore di «Famiglia Cristiana», spegne il cellulare. E Francesco Beardi, cornordinatore nazionale di «Nós existimos», dichiara deciso: «Andiamo!». A Roma, il vistoso orologio di Palazzo Madama, sede dell’incontro con il presidente del Senato, segna le 12 e 13. È il 26 luglio 2005.

Marcello Pera accoglie sorridente e interessato i cinque delegati, accompagnati dal pensiero degli amici rimasti in anticamera: tutti attivisti nella campagna «Nós existimos» (Noi esistiamo) in favore dei popoli indigeni, piccoli contadini ed emarginati urbani di Roraima. Il quintetto illustra al presidente le sfide in una regione dove corruzione, violenza e impunità si intrecciano e regnano sovrane.
I missionari della Consolata operano a Roraima dal 1948. Dopo lunga riflessione, scelgono i popoli indigeni, cioè i più poveri dei poveri. A partire da tale opzione, essi passano dalle parole ai fatti, anche a livello internazionale. Lanciano alcune campagne.
– Ecco la campagna per gli Yanomami del 1979-80. Dall’Italia partono tantissime cartoline: sollecitano il presidente del Brasile a creare il «parco yanomami», perché la terra è essenziale per salvaguardare la cultura di un popolo indigeno. L’obiettivo verrà raggiunto nel 1991.
– Segue, nel 1988-89, la campagna «Indios Roraima», realizzata anche a livello europeo: moltissimi cittadini si appellano al Segretario generale delle Nazioni Unite, affinché siano tutelati i diritti dei popoli indigeni e sia salvaguardato l’ambiente amazzonico. La campagna include pure il progetto «Una mucca per l’indio», che si concreta in 10 mila capi di bestiame, oggi 42 mila.
– «Nós existimos» è l’ultima campagna. Lanciata nel Forum sociale mondiale di Porto Alegre nel 2003; rispetto alle precedenti, si caratterizza per due novità. La prima: la campagna nasce ed è cornordinata in Brasile, da realtà locali (missionari della Consolata, Consiglio indigeno, ecc.); in Italia si raccolgono solo le «loro» proposte. La seconda novità: «Nós existimos» è globale; riguarda non solo i popoli indigeni, ma anche i piccoli contadini e gli emarginati della città. Insomma, tutti i poveri. E tutti scendono in campo, per la prima volta insieme, in una storica alleanza di oppressi. Queste le rivendicazioni di «Nós existimos»:
– omologazione-riconoscimento della terra indigena di Raposa Serra do Sol in un’area continua, allontanando gli invasori; controllo del territorio e rispetto delle culture ancestrali;
– approvazione del nuovo Statuto degli indios e sospensione del progetto (stralciato dallo Statuto) di estrazione mineraria in area indigena;
– no ad agevolazioni fiscali a latifondisti, coltivatori di riso, acacia mangium e soia; sì a investimenti per una politica agricola familiare e creazione di posti di lavoro in città;
– no alla produzione di «pasta base» per la cellulosa, onde scongiurare l’alto costo ambientale;
– sostegno a indios e non indios, in campagna e città, che vogliono salvaguardare l’ambiente e sviluppo sostenibile;
– lotta alla corruzione a ogni livello; in particolare, punire i responsabili di illegalità politiche;
– regolamentazione della presenza militare in terra indigena.

Q ueste rivendicazioni sono state sottoscritte anche da 44 mila italiani. Grazie alle firme, che padre Feandes e compagni consegnano al presidente del Senato, si è già ottenuto (indirettamente) un risultato positivo: il riconoscimento dell’area indigena «Raposa Serra do Sol» (17 mila kmq), avvenuto il 15 aprile scorso con il decreto del presidente brasiliano, Luis Inacio Lula da Silva. Una vittoria… dentro un cammino ancora irto di ostacoli.
All’incontro con Pera partecipa pure Enrico Pianetta, presidente della Commissione dei diritti umani del Senato, che in agosto consegnerà al presidente Lula le 44 mila firme. «Tante quante sono gli indigeni di Roraima: una firma per ogni indio» commenta con evidente simpatia la senatrice Emanuela Baio, anch’essa in sala.

Con la consegna delle firme, sulla campagna «Nós existimos» in Italia cala il sipario. Ma, «oltre il sipario», sul palco di Roraima, indios, piccoli contadini ed emarginati urbani recitano ancora a soggetto, rivendicando maggiore giustizia e libertà, in un contesto di sfacciata ricchezza e lacerante povertà. Ma sono incoraggiati da un nutrito «movimento» di forze religiose e sociali locali. È un’altra significativa vittoria…
Siamo grati ai 44 mila «attivisti» italiani. Attivisti: termine un po’ desueto, che è opportuno riscoprire nel suo significato migliore. «Non dobbiamo starcene come automi, senza iniziative proprie, per paura di sbagliare. Non lasciamoci rimorchiare. No, avanti! Camminiamo sempre, per farci santi e salvare tante anime!» (Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari della Consolata).

Francesco Beardi

Francesco Beardi




RORAIMA: la festa

L’antropologa

LA FESTA CONTINUA

Lo scandalo del finanziamento illecito ai partiti, che ha colpito il Partito dei lavoratori, nonché il suo leader, il presidente del Brasile Luiz Inacio Lula da Silva, si è ripercosso anche sullo stato di Roraima: le élites locali hanno ironizzato e accusato il presidente di sprecare il denaro pubblico nell’inviare un manipolo di poliziotti federali in quello stato, per garantire la sicurezza e il tranquillo svolgimento della festa per l’omologazione della terra indigena Raposa Serra do Sol. Così sono rimasti indifesi i villaggi di quell’area e alcuni dei suoi presidi più rappresentativi, come la missione di Surumú e il suo Centro di formazione e cultura indigena.
In questa latitanza del governo centrale, i gruppi tradizionalmente ostili ai popoli indigeni, tra cui anche molti indios corrotti dai politici locali, sono riusciti ad avere mano libera: appena 4 giorni prima dell’inizio della festa, 150 uomini incappucciati e armati hanno bruciato il Centro, la chiesa e l’ospedale. Dietro tali atti ci sono mandanti ed esecutori ben noti: il sindaco di Pacaraima (il maggior risicoltore della regione), Paulo César Quarteiro, di lontane origini italiane e il tuxawa (capo) del villaggio di Contão, Genivaldo Macuxi.
I media locali (giornali e Tv) hanno provveduto a coprire i mandanti e svelare gli esecutori materiali, che si sono assunti tutte le responsabilità. Al tempo stesso, però, hanno fatto di tutto per scagionarli: ripetendo fino alla noia la solita tiritera sull’«inteazionalizzazione» (che cioè, «chi difende i diritti degli indios sarebbero soltanto stranieri, interessati a impossessarsi delle loro terre») e rimproverando alla polizia militare locale di non intervenire contro gli stranieri e ad alcuni organi giuridici di garantire loro l’impunità.

I l tanto contestato manipolo di polizia federale (appena tre uomini, invece dei 150 attesi), sono arrivati all’inizio della festa, dopo la distruzione della missione di Surumú e l’incendio appiccato, il giorno successivo, al ponte sul fiume Urucurí, l’unico accesso via terra all’area indigena.
Questi fatti non hanno bloccato il normale svolgimento della festa; però ne hanno permesso la delegittimazione istituzionale. A parte la presenza di un consigliere personale di Lula, Cesar Alvarez, alla festa hanno partecipato unicamente dei «tecnici» dell’apparato governativo, come il presidente della Fondazione nazionale per gli indios e quello dell’Istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria.
Si attendeva la presenza di almeno tre ministri: Marina Silva ministro dell’Ambiente, Miguel Rossetto dello Sviluppo agricolo e Marcio Thomaz Bastos della Giustizia, il quale aveva confermato da tempo la sua partecipazione. I timori per la sua incolumità (volantini distribuiti per tutta la città di Boa Vista con minacce di una manifestazione e altre azioni ai suoi danni e di rappresaglie nei confronti delle comunità indigene) hanno impedito a Bastos di recarsi alla festa dell’omologazione di cui egli è stato certamente il maggior artefice.
C’erano invece tanti stranieri, rappresentanti di organizzazioni non governative, che hanno fatto dire ai mezzi di comunicazione che «la festa è solo un’iniziativa degli indios e degli stranieri», fomentando ancora una volta la tesi dell’inteazionalizzazione dell’Amazzonia. «L’area unica – hanno ripetuto i media – è sostenuta da una minoranza indigena, dalla chiesa e dalle Ong, mentre la maggioranza degli indios vuole la demarcazione “in isole”, in quanto solo questa può garantire lo sviluppo delle comunità indigene e, soprattutto, dello stato di Roraima».
Certamente la regione del Basso Cotingo, che vede la presenza stabile dei grandi coltivatori di riso, fornisce spesso uomini, ma anche donne e giovani, alle azioni terroristiche condotte ai danni delle comunità che hanno sostenuto l’omologazione in area continua. Sembra, però, che questi individui si prestino a tali atti per tre motivi principali: ricevono compensi e vantaggi economici, sono ricattati, subiscono le pressioni della Missione evangelica dell’Amazzonia, da tempo presente nell’area (soprattutto nel villaggio di Contão) e da sempre contraria alla demarcazione in area continua.
Tuttavia, dietro coloro che a Roraima si oppongono al riconoscimento delle terre, dei diritti indigeni e alla riforma agraria, ci sono parlamentari locali che godono di notevole rappresentatività a Brasilia; essi vedono nella risicoltura e in altre attività intensive il futuro di Roraima, per cui non hanno nessun interesse alla regolarizzazione delle terre, perché ciò significherebbe un controllo più diretto sul loro uso, che non è mai esplicitamente dichiarato.
Ne deriva una situazione assurda: l’amministrazione locale di Roraima preferisce che non si realizzi il passaggio delle terre federali allo stato regionale e che, piuttosto, rimangano nell’indefinizione, consentendo così che tali terre cadano nelle mani dei grileiros (invasori illegali di terre federali), la mano lunga dei potentati locali, i quali, a loro volta, rappresentano gli emissari delle multinazionali che stanno davvero «inteazionalizzando» il Brasile.
Per esempio, nella regione domina pure un certo Walter Vogel, svizzero. Possiede 12 mila capi di bestiame, due agenzie immobiliari, diversi negozi, piantagioni di acacia mangium per migliaia di ettari, nonché il 40% delle terre coltivabili dello stato (escluse quelle indigene). Spesso i bianchi recriminano: «A Roraima c’è troppa terra per pochi indios»; ma non si sente dire: «Troppa terra per un solo bianco».

I ntanto la festa continua, sotto la guida del grande tuxawa Jacir de Souza Macuxi, che «è stato ricevuto a Brasilia come un capo di stato». Egli si sente erede di Makunaima, il leggendario capostipite di quei popoli indigeni che dalla notte dei tempi abitano quelle terre e le hanno difese con coraggio a prezzo del proprio sangue.
Jacir è commosso, mentre inaugura il monumento che rappresenta la mappa della regione Raposa Serra do Sol, realizzata da Barthó, un artista non-indio. Anche questo costituisce una significativa testimonianza, per dimostrare che la convivenza pacifica tra indios e non indios a Roraima e in tutto il Brasile è possibile e che il processo di riappropriazione delle terre da parte dei suoi più antichi abitanti, dopo 500 anni di soprusi, è ormai irreversibile.

Silvia Zaccaria

Silvia Zaccaria




Viaggio in Caquetà

Un paese esagerato
Racconto di un’esperienza nella foresta amazzonica: incontri, sapori, colori e… missionari nel bunker.

La signora colombiana emigrata in Italia, insieme alla quale abbiamo condiviso la traversata dell’oceano, ci aveva guardati stupita e incredula dopo aver saputo la nostra destinazione: «In Caquetá?». Per lei, che conosce bene quelle terre, avrebbe fatto meno effetto un soggiorno a Baghdad.
Florencia, Caquetá, la porta dell’Amazzonia. Fare turismo da queste parti è facile, soprattutto per quanto riguarda la preparazione del bagaglio; nella valigia serve mettere solo una cosa: l’incoscienza. Qui uno straniero passa inosservato come un marziano a Firenze, fare una foto ci mette a disagio tanto quanto passeggiare nudi per le vie del centro di una qualsiasi delle nostre città; tutti ti guardano e si chiedono: «Perché?».
La stazione di Florencia si anima di buon’ora; ogni partenza è una storia e ogni viaggiatore è un attore: mille romanzi tutti diversi. Avendo tempo, ci si può fermare, osservare mondi lontanissimi in ogni persona; ma bisogna partire e recitare anche noi la nostra storia.

SGUARDO DAL FINESTRINO

La scelta del mezzo su cui viaggiare offre tre opzioni: la chiva, tradizionale autobus coloratissimo, privo di finestrini e porte, dove si può caricare qualsiasi bagaglio personale e dove può capitare di avere come vicino di viaggio un maiale o una pecora; la jeep, che però è molto scomoda se ti capitano i posti laterali; il piccolo pulmino, il mezzo che abbiamo scelto noi.
L’eccitazione della partenza pare coinvolgere tutti, sembra una gita. Senza rendersene conto, si diventa parte di un gruppo e la solidarietà fra gli occupanti del veicolo si avverte a pelle, senza bisogno di parole. In queste zone, il viaggio è sempre molto pericoloso: è facile non arrivare a destinazione.
Sono stato fortunato, il passeggero che mi è toccato vicino non è un maiale, né una capra: è un giovane costeño (abitante della costa; termine usato abitualmente per indicare gli afro-colombiani) dalla pelle scura e dal fisico possente. In compenso viaggio con un gallo da combattimento chiuso in una scatola di cartone sotto al sedere!
Il primo posto di blocco ci aspetta subito fuori l’abitato di fronte a una grande caserma. Qui i militari sono più rilassati, rispetto a quelli incontrati nel resto del viaggio: avere una caserma alle spalle, con tanti commilitoni pronti a contrastare eventuali assalti della guerriglia, penso dia sicurezza e, di conseguenza, renda più sereni. Controllo dei documenti e perquisizione, infatti, sono veloci e non infastidiscono più di tanto. Ognuno riprende il proprio posto e, senza alcun commento, si riparte verso sud.
Qui, non è il mezzo di trasporto che ti permette di arrivare: è la strada, la cui terra rossa cambia ogni giorno, vive, si muove: il tuo arrivo dipende dal suo umore. Oggi che la strada è buona, si guida sul fango, in controsterzo, tanto che non posso fare a meno di dire al conducente: «Usted maneja mejor que Montoya!». Una leggera smorfia, a significare «si fa quel che si può», è la risposta. Le condizioni della carreggiata sono davvero pessime, ma mi dicono che oggi siamo fortunati, perché la pioggia, arrivata durante la notte, ci ha risparmiato la polvere.
Fisso il cruscotto del veicolo: balla che pare staccarsi da un momento all’altro; guardo le mani dell’autista girare vorticosamente a sinistra il volante, mentre la logica lo vorrebbe nel senso opposto, ma così si deve fare per restare sul tracciato. Mi viene da fare quattro conti e concludo che i danni al veicolo saranno sicuramente maggiori di quanto incassato dai viaggiatori trasportati.
Scoprirò in seguito che in Colombia si aggiusta tutto con poco o niente e che il milione di chilometri per una autovettura non è cosa impossibile, né rara.
Il percorso è abbastanza omogeneo, si viaggia in un continuo saliscendi, fra verdissime colline disboscate per far posto al pascolo, le mucche però sono molto magre e ce ne vogliono due per fae una delle nostre. Ogni tanto si incontra qualche gaucho, il cavallo e il cavaliere sono una cosa sola, né bestia, né uomo.
Attraversiamo qualche villaggio. Le case sono di legno e qualche mattone; le grondaie dei tetti in lamiera hanno legato all’estremità un recipiente e un tubo di gomma porta acqua da qui a un serbatornio più grande. Non mancano piccoli negozi e bar per la sosta, la pipì e una cerveza.
Incrociamo un grande autocarro: la motrice è molto vecchia, America anni ’50, sono sicuro che non ha servosterzo… Lo guida un ragazzino: qui si cresce in fretta.
Più avanti, dopo molta strada e tanto niente, sul ciglio, un vecchio vestito di bianco, sombrero sulla testa, fa segno all’autista di fermarsi. Insieme a lui sta una minuta figura contorta; è una piccola vecchia vestita con uno straccetto, incapace di salire a bordo: ha le gambe storte e anche le braccia sono colpite da handicap. Sembra un piccolo passero ferito, incapace di volare, e quei due scalini sono invalicabili. Ma la mano del costeño è grande, la sua forza capace di sollevare tutto il bus e il suo cuore sa amare senza pietà. La prende da terra come una foglia e la fa sedere vicino a noi.
Al secondo posto di blocco la procedura di controllo è uguale alla prima. Si scende tutti, perquisizione, verifica documenti e qualche domanda. I militari qui sono più tesi; sono tutti giovanissimi, armati di mitra. Alcuni stanno rinchiusi in piccoli rifugi fatti di sacchi verdi riempiti di sabbia, sono tutti molto seri. La guerriglia può colpire in ogni momento; già troppe volte ha attaccato e ucciso come si uccide in battaglia, perché qui siamo in guerra, guerra civile.
A qualcuno i militari chiedono, dopo avergli preso il documento, di ripetere a memoria il numero dello stesso. Un passeggero non lo ricorda e subito gli intimano di impararlo. Guardano il mio passaporto, se mi fanno domande non saprei cosa dire, spero solo di non essere loro antipatico per non maledire il giorno che sono partito dall’Italia.
Avanti ancora… Ormai siamo alle porte di Cartagena del Chairá, ma prima di arrivare ecco un altro posto di blocco. Giù tutti e di nuovo perquisizione con documenti alla mano. Tutti in fila: uomini, donne, vecchi e giovani; i ragazzi in divisa ci devono dire se possiamo passare, oppure no. Anche questa volta sembra tutto a posto, ma mi accorgo che fanno togliere un bagaglio dalla corriera e si portano dietro il mio amico nero. Lui non dice niente, segue rassegnato quei bambini-soldato, il suo viaggio finisce lì. Noi ripartiamo, con un posto vuoto e tante domande in testa, che non avranno mai risposta. Ciao, costeño dal cuore grande.
Paese… «normale»
Mi pare che siamo nel 2005. Non so quanti anni siano passati da quando, anche nel nostro mondo, si parcheggiavano i cavalli anziché le automobili. Cartagena è un luogo dove il cavallo parcheggiato, legato per la briglia a un albero, è cosa normale anche per il cavallo.
Sono normali anche le tracce di recenti battaglie, i colpi di mitra sui muri, se si è già messo in conto di essere morti, di averla anticipata la morte e di vivere ogni giorno un giorno di più.
Lì ho visto tre foto nelle mani di padre Victor Iacovissi e ho letto un foglio che le accompagnava. Le fotografie mostravano i corpi senza vita di tre vittime della guerriglia passate per le armi, sfigurate e sporche di sangue e il foglio, con la grafia di mani senza pietà, giustificava la sentenza: ladro, prostituta e spia.
Ho capito dov’ero! Ci dovrebbe essere per tutti un momento in cui si capisce veramente che non esiste violenza giustificabile e nulla che valga la morte di un uomo. Io l’ho capito a Cartagena del Chairá.
La casa dei missionari della Consolata è attigua alla grande chiesa. Vi si accede attraverso un grande portone di legno, che conduce all’interno di un grande giardino quadrato. Tutto intorno la costruzione a un solo piano, che forma un intero isolato nel paese in riva al fiume. Si avverte subito un senso di pace e protezione; ci si sente a casa, forse per l’ospitalità vera che si respira e, forse più, per la presenza delle anime buone degli uomini che l’hanno costruita e che ci hanno vissuto, aiutando tutti senza distinzioni.
Non avevo idea, prima di questo viaggio, di cosa significasse essere missionari e quale fosse il loro mondo. Ho imparato, o almeno penso di aver capito, quale sia la cosa più bella, utile e grande del loro agire. Non sono le innumerevoli opere delle quali si sono resi artefici, come scuole, orfanotrofi, ospedali e tutto quello che aiuta la gente a vivere, crescere ed evolversi. Non sono gli aiuti in denaro, cibo, medicine e altro genere; né il conforto che sanno dare ai poveri, disperati, emarginati.
La cosa più grandiosa che sanno fare è semplicemente il vivere donando se stessi agli altri, senza chiedere nulla in cambio. La loro vita è un esempio benefico di un’alternativa possibile ai nostri piccoli mondi fatti di egoismi, paure e superficialità.

PADRE VICTOR SI È FATTO IL BUNKER

Credo che certi uomini nascano buoni, allo stesso modo in cui altri nascano con gli occhi verdi. La differenza è che gli occhi verdi non servono a nulla e a nessuno, la bontà sì.
Oltre ad essere un buon uomo, padre Victor è anche un bravissimo cuoco e così il pollo che ci aveva preparato è passato, oltre che dal mio stomaco, anche nella stanza dei ricordi che non si cancellano. Noi, in cambio, avevamo portato un pandoro, un dolce fatto a Verona, che diventa il dolce più buono del mondo se mangiato a 10 mila chilometri da dove viene prodotto.
È incredibile come le cose perdano o, viceversa, acquistino valore cambiando luogo. Un dolce che in Italia costa meno del pane e si mangia solo per tradizione a Natale, senza apprezzarlo più di tanto, qui diventa una squisitezza. Allo stesso modo, le preziose e tanto desiderate foglie di coca, lì perdono tutto il loro valore e diventano solo foglie, come quelle di tanti alberi che fanno ombra e compagnia a meravigliosi pappagalli colorati.
Padre Victor, oltre a essere un bravo cuoco, è anche un grande attore. Recita senza copione le parti di un’opera che non ha sceneggiatura, ma solo un titolo: «Amore». All’altare veste gli abiti del prete sopra la canottiera del contadino che ingrassa i polli col pane. Le tasche delle braghe sono piene di caramelle per i bambini di Cartagena del Chairá, che bussano sempre al suo portone: «Padre Victoooor!».
Verrebbe da pensare che persone disposte a lasciare la propria terra per vivere al servizio degli altri, fra mille sacrifici e privandosi di tutto quello che i più considerano indispensabile per vivere bene, abbiano un rapporto con la morte più facile e sereno. Credo anche che la fede in Dio aiuti ad avere con la morte un rapporto privilegiato. Nonostante questo, padre Victor si è fatto costruire un bunker in cemento armato all’interno della missione, vicino al pollaio, sotto un grande albero di mango, per difendersi in caso di attacco della guerriglia.
Non è passato molto tempo, infatti, da quando i guerriglieri delle Farc, avevano sferrato un attacco alla caserma, a poche decine di metri dalla chiesa, uccidendo tutti i militari che vi stazionavano dentro. La sua non è paura della morte, è difesa ostinata della vita; non c’è tempo ora per morire, con tutto quello che c’è da fare!
La mia insonnia di quella sera, invece, era proprio paura. La stanzetta che mi era stata riservata stava proprio di fronte alla caserma, che i militari avevano da poco ricostruito, e dalle fessure degli stipiti di legno della finestra potevo guardare fuori. La luce dei lampioni rendevano ancora più tetro quello che potevo scorgere e i racconti ascoltati durante la giornata sulle modalità dell’attacco della guerriglia, rendevano l’atmosfera surreale per uno come me, abituato a vedere la guerra in Tv. Un soldato di guardia, mitra a penzoloni sul fianco, camminava lento, avanti e indietro, davanti a quella costruzione grigia in cemento armato, senza porte e finestre, solo piccole feritornie alle pareti.
Per la strada, nessun altro.
Entro nella mia piccola stanza. Qualcuno, passando, aveva lanciato all’interno, prima che io entrassi per andare a dormire, due lattine di birra vuote e io, subito, avevo tradotto in minaccia quel gesto. La paura mi impediva di dormire; la mente produceva solo il peggio che mi sarebbe successo: in quella occasione ho imparato a cosa può servire una bottiglia di aguardiente… E il sonno fu profondo; la mattina arrivò presto.

IL FIUME

La luce sull’acqua del fiume, al mattino presto, subito dopo l’alba, sprigiona energia dentro chi sa vedere il bello; energia inebriante, che ti coinvolge ed entusiasma. La brezza del mattino appoggiata sul fiume si rivelò presto fredda e fastidiosa anche a pochi chilometri dall’equatore; ma l’ebbrezza di quella navigazione a zig-zag lungo il corso del fiume riscaldava a sufficienza per ignorare il freddo.
Risalimmo la strada d’acqua per circa 5 ore: ancora non ho capito se l’arrivo a San Vicente sia stato una liberazione o la fine di una grande gioia. Ora so bene cosa significhi «essere sulla stessa barca». L’ho imparato in mezzo al fiume sperduto in Amazzonia, insabbiato per la poca profondità dell’acqua.
Non so come facesse il pilota dello scafo a individuare, in quelle acque limacciose, il punto profondo dove poter sfrecciare veloce, senza arenarsi. Il fiume, normalmente pieno d’acqua, era in quel periodo più asciutto per le scarse piogge. Sicuramente, vedeva un percorso a noi sconosciuto, che lui aveva già fatto migliaia di volte e che suo figlio stava imparando. Un attimo di stanchezza o disattenzione e la barca, improvvisamente, per via del basso fondale in quel punto, si arenò e il motore si spense. Il silenzio di tutti fu subito la nuova musica e gli sguardi di ognuno verso gli altri un punto di domanda: «Che fare?».
Alcuni dei nuovi passeggeri, imbarcati lungo le sponde del Caguán, misero le braccia in acqua lungo il fianco della barca e sollevarono le mani piene di sabbia. Il motorista si rimboccò i calzoni e scese in acqua per tentare, spingendo, di uscire dal fango. Al motorista si aggiunse un altro passeggero e il pilota; sempre in silenzio, cominciò a far dondolare lo scafo con il peso del corpo per aiutare la corrente del fiume a togliere la barca da quel pantano. Niente da fare.
Pensai subito che, oltre a spingere, bisognava togliere peso all’imbarcazione per farla galleggiare meglio. Non trovai altra soluzione che togliermi le braghe, scendere nel fiume e spingere anch’io. La cosa si rivelò subito divertente anche per gli altri passeggeri che, vedendo un forestiero in mutande spingere la loro barca per toglierla dall’insabbiatura, manifestarono sorridendo la loro gratitudine.
Ho visto l’acqua e la luce; poi sono arrivato a San Vicente del Caguán.

GRAZIE COLOMBIA
Capita a tutti di incontrare persone che non vedremo mai più. Magari ci parliamo anche, per una volta soltanto, e le perdiamo per sempre senza addii. Quel giorno ho perso i miei compagni di viaggio nel più piccolo porto che si possa immaginare, sulle sponde del Caguán, a San Vicente, in Colombia.
Fare paragoni con le nostre realtà, quando si frequentano nuovi mondi, è la cosa più sbagliata. Bisogna osservare senza riferimenti per scoprire bellezze inaudite dove, altrimenti, non le troveremo mai. Ho fatto così e ho visto colori più forti e tutto mi è piaciuto quanto basta per avere la voglia di tornare.
Verso sera, padre Luis ha celebrato la messa e, dato che quando sono arrivato io era quasi finita, l’ho aspettato fuori, seduto sui gradini della piccola chiesa celeste, godendomi quella distanza che mai avevo raggiunto dalla mia casa, oltre l’oceano, lungo il fiume.
Una giovane donna, finita la messa, avvicinò il prete e gli chiese se la poteva confessare, che il giorno dopo si sarebbe sposata. Io la guardai e mi chiesi che peccati potesse aver commesso. Non riuscii a immaginae alcuno e mi dissi che l’unico peccato era quello di essere nata in un meraviglioso paese dove tutto è esagerato.

Francesco Rezzadore




Viaggio tra gli esclusi dal boom economico

Aiutare È glorioso!

Deng Xiao Ping è il padre della celebre frase: «arricchirsi è glorioso!»,
da molti interpretata come il via libera al capitalismo cinese attuale.
A Derge, nel Sichuan, qualcuno crede che la vera gloria consiste nell’aiutare
i più sfortunati.

Bisogna salire sugli altipiani del Sichuan, quasi al confine con il Tibet, per conoscere la Cina che non cresce del 9,5% all’anno, non utilizza elettrodomestici e non chatta su internet. Salire fin quassù è utile anche per capire il «sistema socialista con caratteristiche cinesi», come amano ripetere i vertici del Partito comunista cinese.

UNA REGIONE «NORMALE»
La città di Derge si trova nella regione del Kham, la parte centrale della provincia tibetana, ed è abitata dalla fiera popolazione dei khampa, che tanti problemi in passato ha dato sia all’etnia han, i cinesi, sia al governo centrale di Pechino, smanioso di avere la zona del Tibet tranquilla e senza rivolte.
I khampa sono uomini fieri dallo sguardo torvo, vestiti con giacche di simil pelle (anche qui la plastica globalizzante imperversa), dalle lunghissime maniche che vengono utilizzate come scialle da avvolgere intorno al busto. Girano armati con un lungo coltello ben in vista; il loro sorriso è caratterizzato dallo scintillio di due denti d’oro, di solito i canini.
Nei primi anni di occupazione del Tibet (i cinesi parlano di liberazione), i khampa diedero vita a dure rivolte armate che però vennero facilmente stroncate dall’esercito cinese, accorso a riportare la calma. Sono quindi diversi anni che le ribellioni hanno cessato di prorompere, con evidenti vantaggi un po’ per tutti.
L’esplosione di benessere, almeno per il 10% della popolazione cinese, ha alimentato un volano economico che ha raggiunto anche questa zona. Al posto dei carri armati dell’esercito popolare ora arrivano i turisti, sia occidentali che cinesi. Quello che viene descritto sulle guide turistiche vecchie al massimo di un paio d’anni come un piccolo villaggio è in realtà una città che nel giro di pochi mesi ha visto la crescita di palazzi, centri sportivi, luoghi d’interesse storico inventati, strade, centrali elettriche… Tutto grazie all’arrivo di visitatori da tutto il mondo.
In quest’ottica, il Tibet e la regione confinante del Sichuan stanno trovando una fortissima valorizzazione economica da parte delle autorità cinesi, che da buoni affaristi, hanno capito che lo sfruttamento commerciale di queste zone rappresenta una miniera d’oro inesplorata.
La cultura tradizionale tibetana risulta in questo contesto spacciata. Ad esempio, l’architettura tipica in legno è ormai completamente travolta dalle imperversanti mattonelle bianche dei palazzoni cinesi di nuova costruzione, e anche la lingua locale versa in condizioni critiche: sono ormai pochi i bambini capaci di utilizzare il tibetano, essendo il cinese ormai imperante. Le caratteristiche culturali tibetane resistono se portatrici di soldi.
In questo caso il governo centrale tende addirittura a enfatizzare tali risorse, rendendole a volte grottesche, perché palesemente pensate in ottica turistica. Non sono pochi i monasteri che hanno perso il loro clima di mistero per essere trasformati in pure attrazioni turistiche.
Mentre la cultura tradizionale sta scomparendo, in compenso sono in arrivo moltissimi soldi, e con essi un numero sempre maggiore di coloni dell’etnia han, i cinesi. Ma è difficile capire fino a che punto i khampa traggano vantaggi materiali da questo grande fermento economico-turistico. Moltissimi non abbandonano la vita nomade; altri si accontentano di aprire un negozietto di souvenir made in China. La passione per gli affari non appartiene ai khampa e questo spiega anche la ragione del massiccio afflusso di cinesi dalle pianure.

SOPRAVVIVA… CHI PUO’
Lo sviluppo economico promosso dal governo in questa regione non si traduce in miglioramento dello stato sociale. Gli altipiani del Sichuan rispecchiano quanto accade nel resto del paese. Mentre le riforme economiche ultraliberiste hanno portato al 9,5% annuo la crescita economica della Cina, lo stato sociale è praticamente assente.
È convinzione comune tra gli stessi cinesi che 1 miliardo e 300 milioni di abitanti siano troppi da accudire con un welfare state efficiente. Da qui la scelta per una drastica selezione naturale: chi può sopravvive, gli altri affondano.
Tale prospettiva è vista con sdegno dalle autorità cinesi che amano ricordare la teoria marxista dell’accumulo: «Un’economia di mercato necessita di un periodo di forti disuguaglianze sociali, nel quale si accumula il capitale da investire negli anni successivi per la crescita economica; cosa che tutti i paesi capitalisti occidentali hanno fatto, anche il tuo» mi dice un combattivo signore di Shanghai.
È veramente difficile sfiorare i dolenti tasti economico-sociali con i cinesi che hanno raggiunto un minimo di benessere e che campano, forse, sulle disparità insite nella società.

NON SOLO TURISTI
La strada verso Derge sale tra mille tornanti. Il bus, stracarico di persone e bagagli, sembra debba rompersi da un momento all’altro. Il motore urla, si ferma, riparte. In discesa l’autista si lancia in folli sorpassi, che lo costringono poi ad attaccarsi ai freni per non finire nei burroni che costeggiano la pista. L’odore di acciaio in fusione che proviene dai tamburi del bus mi fa tornare in mente vecchie lezioni di fisica sulla deformabilità dei corpi soggetti a calore…
Meglio non pensarci e guardare fuori dal finestrino il panorama, segnato anche dai resti di alcuni camion usciti di strada, che hanno seguito le leggi fisiche della dinamica… A 4 mila metri, in mezzo ad altipiani mozzafiato, uomini e donne mietono il grano a mano. La loro piccolezza e magrezza contrastano con l’immensità dei campi: un mare dorato, dove quei piccoli esseri umani sembrano naufraghi alla deriva.
In questa zona opera la Ong italiana «Asia onlus», impegnata in progetti di sviluppo e cooperazione in campo sanitario e scolastico.
Il compito delle Ong occidentali in Cina è particolarmente difficile. Viste con sospetto dal governo comunista, devono innanzitutto dimostrare di lavorare senza alcun fine politico e nell’esclusivo interesse della popolazione locale. È facile ipotizzare che in questa zona «calda» della Cina tali condizioni siano richieste più che altrove.
Asia onlus opera da molti anni in collaborazione sia con le autorità comuniste, sia con la popolazione locale che beneficia dei suoi progetti. «La politica non ci interessa; ciò che importa è aiutare, per quanto possiamo, la gente bisognosa, soprattutto i più piccoli» spiega Wolfgang, un volontario tedesco che, insieme alla fidanzata Gina, utilizza le ferie per controllare i progetti in svolgimento nella zona del Sichuan.
Derge, descritto sulla Lonely planet come «villaggio tradizionale», è una vera città con palazzoni e traffico congestionato.
In posizione dominante sorge un grande monastero buddista, sede anche della più antica stamperia tibetana. È un patrimonio culturale preziosissimo quello che viene custodito nelle silenziose stanze del monastero: migliaia di matrici incise a mano su assi di legno, alcune risalenti al 1500.
I turisti non mancano: occidentali con zaino in spalla e comitive di cinesi; questi ultimi sono la punta di diamante del benessere nazionale, simili in tutto al classico turista europeo o statunitense, che ovunque vada cerca i comforts lasciati a casa sua.

IL VESTITO NON FA IL MONACO
Wolfgang e Gina mi accompagnano in visita al monastero. Il silenzio dei vicoli è rotto dal canto urlato e ritmato di decine di bambini, ammassati sotto una tettornia che li ripara dal sole, seduti su panche di fronte a un monaco che fa loro da maestro. Hanno davanti a loro dei quadei rettangolari scritti in caratteri tibetani. Ripetono a memoria la lezione e il maestro-monaco detta il tempo.
Sono piccoli, con i capelli rasati quasi a zero, vestiti con abiti da monaci anche se non lo sono. Molti di essi sono orfani e le condizioni economiche non permettono loro di avere vestiti differenti.
Wolfgang mi spiega che gli alunni sono 101 e il ciclo di studi previsto per loro è di sei anni. Mi mostra un libro in cui sono riportate le schede personali dei bambini. Lo schema si ripete tragico per tutti. Famiglie poverissime e numerose, madre o padre malati o indebitati: condizioni di vita che non permetterebbero ai bimbi nessun tipo di istruzione.
La mia guida mi spiega il dramma di molte famiglie: i debiti contratti sono dovuti a motivi di salute. «Il sistema sanitario cinese è completamente privato. In caso di malattia, appena giunti in ospedale bisogna pagare una tassa che molti non possono permettersi. Per questo i più poveri ricorrono ai prestiti» conclude Wolfgang, che è medico e da molti anni viaggia in queste zone per conto di Asia onlus.
Anche il sistema scolastico è privato. Consapevoli che le forti ingiustizie sociali alimentano rivolte in tutto il paese, le autorità cinesi stanno tentando di porre rimedio. Da poco è entrata in vigore la nuova legge riguardante il sistema scolastico, universale, ma ci vorrà molto tempo prima che diventi operativa. Sono necessarie molte risorse economiche per migliorare una drammatica situazione precaria.
Il progetto scolastico di Asia onlus nel monastero di Derge è portato avanti grazie alle adozioni a distanza. Con 300 euro annuali per bambino, l’organizzazione italiana provvede, in collaborazione con i monaci del tempio, la formazione scolastica tradizionale di base, due pasti giornalieri e un tetto dove ripararsi.
Ma la situazione non è rosea. In un incontro tra Wolfgang e il lama del monastero, quest’ultimo ha esposto la situazione con dura sincerità: i finanziamenti scarseggiano e la scuola rischia di chiudere, con conseguenze prevedibili per i bambini. Il medico tedesco assicura il monaco che la sua associazione è solida e che, nel 2006, il progetto potrà essere ampliato ulteriormente.

COPIANDO L’OCCIDENTE
Un aspetto interessante del lavoro di Asia onlus in Cina è l’affidamento dei progetti a personale locale capace e responsabile. Ne è un esempio Sonam, una bella ragazza tibetana, 30 anni, inglese fluente, che cornordina i progetti nella zona del Kham.
La sua è una storia di organizzazione dal basso e di altruismo. Consapevole di avere raggiunto la tranquillità economica e di possedere un forte strumento di emancipazione, la conoscenza della lingua inglese, un bel giorno ha deciso di inventarsi una scuola gratuita.
Ha affittato una stanzetta in un palazzone di nuova costruzione, ha comprato libri, quadei, sedie e banchi. I bambini sono accorsi numerosi e la scuola gratuita d’inglese è un successo. Fin troppo forse, perché Sonam insegna tutti i giorni due ore. Chi può paga una retta minima, gli altri, la maggioranza, non spendono nulla. I genitori dei piccoli sono molto riconoscenti a Sonam e quando la incontrano per strada sembra non la vogliano più lasciare andare via.
La conoscenza dell’inglese in Cina può rivelarsi uno strumento fondamentale per uscire dalla miseria. Economia informale, altruismo, cooperazione tra le autorità comuniste cinesi, comunità locali e Ong inteazionali appaiono come un’alternativa auspicabile all’attuale turbo-capitalismo cinese.
Se è vero che il nuovo «sistema socialista con caratteristiche cinesi» ha strappato dalla fame 200 milioni di cinesi in 20 anni, è parimenti credibile che stia scaraventando un numero imprecisato di esseri umani in condizioni di vita disastrose.
Passeggiare per le strade di Shanghai, per esempio, può dare un’idea dell’immensa forbice sociale che si sta aprendo nel paese: disperati che dormono nudi per strada, affamati che strisciano per avere una moneta in elemosina. E tutto in un clima di opulenza sfacciata, di luccicanti Ferrari e botti di champagne. Si dice che la Cina copi e ingigantisca tutto quello che proviene dall’Occidente. È un vero peccato che copi anche le cose peggiori.
(fine prima puntata – continua)

Giacomo Mucini




PRETI D’AMERICA Alla scoperta di idee ed esistenze (1)

Venezuela

IN PRIMA LINEA (E SENZA GRADI)

Il Venezuela è oggi il paese latinoamericano
di cui più si parla. Inviso agli Stati Uniti, è guidato
da Hugo Chávez Frias, presidente controverso ma carismatico e vulcanico. I vertici della chiesa cattolica venezuelana non hanno mai guardato a lui con simpatia, fino ad appoggiare il fallito golpe
di stato dell’aprile 2002.
Di questo e di altro abbiamo parlato con Bruno Renaud, sacerdote belga da 40 anni a Caracas.

Caracas. Pulizia, modeità ed efficienza sono caratteristiche del metro della capitale venezuelana e per questo i suoi abitanti ne vanno orgogliosi. Nei sotterranei della metropolitana di Caracas, le differenze sociali sembrano scomparire. Soltanto guardando con attenzione la gente che sale e scende è possibile intuire quello che ci aspetterà in superficie.
Mentre le stazioni si susseguono, sfogliamo il materiale che abbiamo tra le mani. Come la pagina delle opinioni di Ultimas Noticias (1), il più diffuso quotidiano del paese: «La chiesa cattolica è giustamente sensibile a quello che si chiama “cesaropapismo”. Essa dice all’autorità politica: “Fate attenzione a non intromettervi nei nostri ambiti. Attenzione a non pestarci i piedi. Alla chiesa non mancano motivi, anche storici. Tuttavia, i vertici cattolici non sono altrettanto sensibili davanti al pericolo contrario…».
Altamira, Parque del Este, Los Dos Caminos, Los Contijos, La Califoia, Petare: siamo arrivati.
Uscire dalla stazione del metro alle strade di Petare, è come passare dalle sale di un museo d’arte modea ad uno stadio pieno di tifosi: è una bolgia di gente e di buhoneros, i venditori ambulanti che l’opposizione prende a simbolo del disordine in cui, a suo dire, sarebbe caduto il Venezuela di Hugo Chávez Frias.
Petare dista pochi minuti di metro dalla Caracas bianca ed anti-chavista, eppure sembra di piombare in un altro mondo. Perché Petare è un quartiere (parroquia) popolare, dove il bianco (nel senso di persona dalla pelle bianca) è un’eccezione e i supermercati a prezzi ribassati (i mercal) sono certamente più diffusi dei centri commerciali in stile gringo, propri dei quartieri da cui proveniamo.
Che aspetto avrà il nostro uomo? Al telefono non abbiamo perso tempo in descrizioni precise. Ci mettiamo in attesa nel punto convenuto, mentre un uomo accanto a noi chiama a gran voce compratori per i suoi biglietti della lotteria.
Vediamo un uomo, blu-jeans e camicia azzurrina, che sembra cercare qualcuno. Padre Bruno Renaud? «Sì, sono io». Ci siamo trovati finalmente.
Ha capelli corti e chiari, occhi azzurri su un viso affilato. «Seguitemi», ci dice. È una parola. Filiforme, padre Bruno si muove tra bancarelle e venditori con l’agilità di una gazzella. Facciamo fatica a stargli dietro. Dopo qualche minuto, passato il caos del mercato, si ferma di scatto su una stradina secondaria. «Ecco, qui una volta mi hanno assalito. Erano due giovani con la pistola in pugno. “Dacci la moto”, mi hanno intimato. “No, a me questa moto serve”, ho risposto. Alla fine, ho dovuto dargliela e ho ricominciato a muovermi a piedi».
Giungiamo alla sua abitazione: una piccola casa ad un piano nel cuore della Petare coloniale (la fondazione del barrio è fatta risalire al 17 febbraio 1621). Aperta una porta in ferro, si arriva davanti ad una scala estea. «Facciamo piano», ci dice il padre, indicando una persona che sta dormendo nel sottoscala. Saliamo al piano ed entriamo in una stanza che funge da studio: libri, fax, computer, raccoglitori, una scrivania.
È qui che padre Bruno Renaud scrive editoriali come quelli letti nel metro. La sua biografia racconta di un sacerdote di origine belga da 40 anni in Venezuela e per la precisione a Petare. Nel 1972 fu sospeso a divinis e fu reintegrato nella chiesa soltanto 12 anni dopo, nel 1984.
Già a nostro agio, gli chiediamo se veste ancora i panni del sacerdote disobbediente. «No – risponde con un sorriso -, sono totalmente obbediente, anche se non nego di avere idee poco conformi e scarsamente tollerate».
Padre Bruno deve aver trovato un modus vivendi considerato che, oltre a fare il sacerdote di frontiera (perché il barrio di Petare è una frontiera), scrive molto ed insegna teologia.
Teologia che, in America Latina, ha spesso significato «teologia della liberazione», anche se il tema è quasi scomparso dal dibattito ufficiale…
«Negli anni ’80 e ’90 la teologia della liberazione sembrava il drappo rosso da agitare davanti alle coa del toro. Dove il toro era la chiesa che si inferociva. Attualmente quella teologia appare molto spenta. Anche per questo preferisco non utilizzare la parola liberazione, perché sono convinto che ci ha portato sfortuna e che può alimentare conflitti interni alla chiesa.
Quello che è certo è che le comunità cattoliche, sviluppatesi qui a Caracas o nel paese, hanno lo stesso stile, cioè un cristianesimo innanzitutto sociale e non individuale. Quando ho l’occasione di stare in questi circoli dove si commenta la parola di Dio, lascio che siano gli altri a parlare: la gente è abituata al fatto che non sia il sacerdote quello che prende la parola. Si sentono liberi di commentare, perché non è un commento scientifico, ma parte dall’esperienza di tutti i giorni, dalla vita quotidiana.
Dal punto di vista pratico, si cerca la liberazione con l’azione. Per esempio, nei confronti delle donne sole o incinte o che hanno molti bambini. Ecco, direi che al termine “liberazione” noi diamo il significato di “mutua solidarietà”».

LA MESSA ALLA TELEVISIONE (PUBBLICA)
Ogni domenica la televisione pubblica Venezolana de television (nota come Canale 8) trasmette in diretta la messa. Lo stesso presidente Chávez non perde occasione per citare le scritture e per ricordare le radici cattoliche del popolo venezuelano. Insomma, in Venezuela la fede religiosa gioca un ruolo importante. Eppure, la chiesa cattolica di questo paese è stata, fin dall’inizio, contro Hugo Chávez Frias e la cosiddetta rivoluzione bolivariana. A tal punto che, durante l’effimero golpe dell’aprile 2002, il cardinale José Ignacio Velazco, arcivescovo di Caracas (oggi scomparso), fu in prima fila accanto a Pedro Carmona, primo ministro dell’estemporaneo governo golpista.
Pochissimi vescovi venezuelani appoggiano Chávez, mentre diversa è la situazione tra i sacerdoti. Padre Bruno è uno di essi.
«Mi oppongo – spiega senza tanti giri di parole – al fatto che l’episcopato venezuelano, in forma cosciente, molto cosciente, continui ad offrire la sua solidarietà sociale, politica ed economica a quei potenti che il governo di Chávez ha messo sulla difensiva. Mi oppongo inoltre al fatto che la chiesa, che dovrebbe portare la parola di Dio, metta davanti la sua presunta libertà di attore politico o il suo protagonismo sociale per difendere questa gente e criticare un governo legittimo.
Per tutto questo alcuni sacerdoti come me hanno manifestato posizioni diverse alla televisione e sui giornali. E ciò non per una banale voglia di apparire, ma per la convinzione che, di fronte al silenzio di una parte della chiesa, è necessario far sentire un’altra voce e far conoscere un’altra opzione».
In Aló Presidente, la sua trasmissione della domenica, il presidente Chávez si presenta spesso con il crocefisso sulla scrivania. E bacchetta a suo modo i vertici della chiesa venezuelana che, a suo dire, hanno dimenticato «l’opzione preferenziale per i poveri».
Spiega padre Bruno: «Non ci si deve stupire. Da tempo, la gerarchia episcopale confonde il suo sano e legittimo diritto di critica profetica con una difesa ipocrita e meschina dei privilegi sociali tradizionali. Chávez non fa solo discorsi populisti, perché è convinto di quello che dice. Quando il presidente dichiara di essere il vero rappresentante del vangelo, fa una cosa ben comica e strana, appena comprensibile per un europeo, eppure non assurda in una situazione tanto ambigua come quella della chiesa venezuelana».
Il sacerdote di Petare reclama posizioni chiare, in primis verso quelle classi umili a cui appartiene la grande maggioranza dei venezuelani. «Non si può – spiega – non riconoscere che il 70% della popolazione venezuelana, dopo 6 anni, continua ad appoggiare Chávez. È la fascia bassa della popolazione, è la gente umile che ha fatto questa scelta. La chiesa non può dimenticarlo».
«Personalmente – continua padre Bruno -, non ho mai fatto crociate pro-Chávez. Anzi, ci sono alcune cose che non condivido proprio. In primo luogo, non sono a favore dei militari al potere. I militari devono stare nelle caserme. In verità, non so quale sia l’utilità dei militari (ammesso che ne abbiano una), ma sicuramente non è quella di governare. In secondo luogo, uno dei motivi per i quali Chávez è stato votato è la lotta alla corruzione. Ebbene, si deve riconoscere che in questa battaglia il paese non è avanzato per nulla. In questo momento c’è abbondanza di petrodollari, cioè di dollari derivanti dalla rendita petrolifera, ma ci sono anche enormi fughe di denaro che vanno anche nelle tasche di uomini vicini a Chávez.
Nessuno fino ad ora ha potuto accusare il presidente ed anzi io credo che lui ne sia estraneo. Tuttavia, ha collaboratori che sono profondamente implicati nella corruzione e che io spero vengano presto allontanati ed incriminati».

CARACAS NON È BOGOTÀ
Tra Venezuela e Stati Uniti da tempo non corre buon sangue. I rapporti sono peggiorati soprattutto da quando Washington ha sostenuto il golpe di stato dell’aprile 2002 (fallito in 48 ore).
Nulla di nuovo sotto il sole. «Nel 1973 – ricorda padre Bruno -, il presidente cileno Salvador Allende fu scacciato dagli statunitensi e da Kissinger (2). Il mondo lo sa, loro lo ammettono e dicono che non potevano fare altrimenti. Se questo è il ragionamento, senza appoggiare Fidel Castro e il suo regime (per il quale non ho alcuna simpatia), bisogna riconoscere che, se non si metteva sulla difensiva, da varie decadi gli americani lo avrebbero cacciato.
Per gli Stati Uniti il nostro Chávez è più pericoloso di Fidel Castro non solamente perché è ben più giovane, ma perché rappresenta un umanesimo che il leader cubano non ha.
Personalmente ammiro lo sforzo pedagogico di Chávez per tentare di costruire un mondo protagonista, attivo e reattivo al di fuori degli schemi finora conosciuti e di invitare il popolo in un meccanismo partecipativo».
Di fronte ai fallimenti della globalizzazione capitalista, Chávez sta proponendo una nuova ricetta che ha però un vecchio nome che suscita sospetti e paure.
Sorride, il sacerdote, e spiega: «Il presidente parla di “socialismo del secolo XXI”. Nessuno sa cosa significhi e finora non ha alcun rappresentante, però è molto facile squalificarlo in nome del socialismo catastrofico del XX° secolo, che è imploso per la sua violenza e la sua mancanza di libertà».
In patria, tutti i mezzi di comunicazione privati (con le televisioni in prima fila) sono contro Chávez (3). Ed anche all’estero egli non gode del favore dei media…
«Oggi – chiosa padre Bruno -, tutti sanno che le guerre importanti iniziano con la mobilitazione mediatica. Attualmente è impossibile giustificare un conflitto senza l’appoggio dell’opinione pubblica mondiale. Dunque, è comprensibile che le grandi agenzie di stampa non possano che diffondere notizie poco favorevoli a Chávez. Così gli Stati Uniti e i loro alleati hanno iniziato le guerre attuali».
Il Venezuela si oppone all’ulteriore espansione delle politiche neoliberiste propugnate da Washington e punta a creare un fronte comune d’opposizione in America Latina e nel mondo intero. Oltre a ciò, è un grande produttore ed esportatore di petrolio, risorsa sempre più scarsa e costosa. Per tutto ciò il Venezuela e Chávez danno molto fastidio. Da tempo, nel paese si parla apertamente di «magnicidio», l’assassinio del presidente (leggere riquadro).
Padre Bruno ha idee chiare al riguardo: «In queste situazioni gli Stati Uniti non si fermano di fronte a nulla. L’assassinio politico è un’opzione reale come accadde con Gaitán (4) nel 1948. Il politico colombiano sembrava una specie di Chávez, anche se io non l’ho conosciuto e il contesto era diverso. Il suo assassino scatenò la rivolta a Bogotà e segnò l’inizio di un conflitto che dura da 50 anni.
Sono personalmente convinto che gli Usa non permetteranno a questo governo di continuare. Hanno già fatto di tutto per farlo cadere, anche se finora gli è andata male. Ma, nonostante tanti elementi contrari, non credo che rinunceranno».
È una persona che non ha mai smesso di pensare con la propria testa, padre Bruno, anche pagando di persona – come abbiamo ricordato – per la sua chiarezza. Ma chi si crederà d’essere?, pensano i suoi detrattori. Lui si qualifica così: «Continuo ad essere un piccolo pastore da prima linea e senza nessun grado in questo esercito che è la chiesa».

LA BIBBIA DI BUSH
A piedi, facciamo ritorno al metro di Petare. Abbiamo in mano Soy ateo!, l’articolo (5) che padre Bruno ha dedicato al presidente Bush: «Dicono che il signor Bush legga la bibbia tutti i giorni. Dicono che fu eletto e rieletto alla presidenza del suo paese grazie, in gran parte, al voto di numerosi cristiani, che lo considerano come un buon fedele. Io credo che la mia bibbia non è quella del signor Bush. Definitivamente, non stiamo leggendo la stessa bibbia, né pregando lo stesso Dio. Di fronte alle violenze di parte di coloro che si dicono credenti, io faccio come i martiri cristiani del II secolo: mi dichiaro “ateo”!».
Sì, padre Bruno Renaud, sacerdote belga da 40 anni a Caracas, è obbediente. Ma non troppo.

(fine 1.a puntata – continua)


Note:

(1) Su Ultimas Noticias del 21 maggio 2005. Titolo dell’articolo: «Nuncio apostólico».
(2) Henry Kissinger era segretario di stato Usa ai tempi del golpe del generale Pinochet. Era l’11 settembre 1973.
(3) Al riguardo, si legga Fronte dei media (MC, giugno 2003) e Essere giornalisti in Venezuela (MC, settembre 2003).
(4) Jorge Eliécer Gaitán, politico e dirigente liberale, fu assassinato il 9 aprile del 1948.
(5) Su Ultimas Noticias del 12 marzo 2005. Titolo dell’articolo: «Soy ateo!».

Le prossime puntate di «Preti d’America»:

Questa serie, che abbiamo titolato «Preti d’America», vuole raccontare le esistenze e le idee (libere, diverse, condivisibili o non) di sacerdoti che, negli ultimi anni, abbiamo incontrato in vari paesi dell’America Latina.
Pertanto, a questo primo articolo seguiranno, nel corso del 2006, altri incontri-interviste, tra cui quelli con: padre Jesus Silva del Venezuela, padre Antonio Bonanomi, missionario della Consolata nel Cauca (Colombia), padre Giacinto Franzoi, missionario della Consolata in Caquetà (Colombia), padre Clemente Peneleu Navichoc (Guatemala), padre Gonzalo Guitian Galano (Cuba) ed altri ancora.

Pa.Mo.

Paolo Moiola




TARGET 2015 Obiettivi di sviluppo del Millennio (5)

LA MORTE NELLA VITA

Ogni anno mezzo milione di donne muore durante la gravidanza o il parto.

Molte vite potrebbero essere salvate, semplicemente dando la possibilità a tutte le mamme di partorire in un centro sanitario dove sia possibile intervenire sulle eventuali complicanze del parto. O anche solo di essere assistite durante la gravidanza e il parto da un medico o da un’ostetrica. E invece mezzo milione di donne ogni anno muore perché non ha potuto ricevere le cure necessarie: una ogni minuto. Molti milioni di donne portano con loro per tutta la vita le conseguenze di gravidanze e parti seguiti poco o non seguiti del tutto: disturbi, malattie, invalidità con cui fare i conti negli anni a venire.
Il 5° Obiettivo di sviluppo del millennio si è posto il traguardo di ridurre di tre quarti la mortalità matea entro il 2015 (a partire dai dati del 1990).
Squilibrio poveri-ricchi
Ancora una volta, tutte le donne che muoiono dando la vita appartengono praticamente ai paesi in via di sviluppo: il 99%.
Una donna che vive nell’Africa subsahariana, nel corso della sua vita ha una probabilità su 16 di morire quando aspetta un figlio o lo dà alla luce: nei paesi sviluppati una su 2.800; in Sierra Leone o in Afghanistan una donna ogni 6 muore per complicazioni collegate a gravidanza o parto; in India 136 mila ogni anno. Malawi, Angola, Niger, Tanzania, Rwanda, Mali, Somalia sono tutti paesi dove la mortalità matea è alta. Ma il quadro potrebbe essere anche peggiore di quanto registrato, perché non sono disponibili i dati relativi a 62 nazioni, che da sole coprono il 27% delle nascite mondiali.
Inoltre, lo squilibrio non è solo fra uno stato e l’altro, bensì anche all’interno dello stesso paese, fra popolazione agiata e in miseria: in Etiopia, una futura mamma ricca ha una probabilità 28 volte maggiore di una povera di essere seguita da personale qualificato durante il parto.
Questi numeri evidenziano un enorme squilibrio, ma sottolineano anche la possibilità di cambiare le cose, dando a tutti la disponibilità di personale qualificato, strumenti e farmaci. Si intrecciano dunque i diversi obiettivi del millennio, si riafferma la concatenazione per la quale il raggiungimento di uno porta con sé il miglioramento di un altro: dalla povertà all’istruzione, dalle pari opportunità alla mortalità infantile e alle malattie infettive come l’Aids, il quinto obiettivo porta con sé tutti i precedenti.

AVERE UN MEDICO ACCANTO
Per la mortalità matea, i dati disponibili nel 2005 indicano che finora i miglioramenti si sono avuti solo nei paesi dove vi era già un basso livello di mortalità. In quelli invece in cui i numeri erano più alti la situazione non è migliorata o è addirittura peggiorata. Negli stati più poveri solo 28 partorienti su 100 vengono ancora seguite da personale qualificato nel momento che dovrebbe essere fra i più belli della loro vita e che troppo spesso diventa quello della loro morte.
Punti fondamentali per cambiare i dati di mortalità sono proprio l’assistenza professionale e sanitaria adeguata durante la gravidanza e durante il parto, quell’assistenza che viene data per scontata nei paesi industrializzati e che non lo è affatto in quelli in via di sviluppo.
La prevenzione della mortalità matea passa attraverso un rapido accesso alle cure ostetriche di emergenza, alla possibilità di un trattamento adeguato di emorragie, infezioni, ipertensione e travaglio complicato.
In Burkina Faso, alcuni ricercatori hanno segnalato sulla rivista medica British Medical Joual (Bmj) che, su 34 donne decedute durante il parto, 10 erano morte per emorragia, 7 per sepsi (infezione diffusa) e 4 per travaglio prolungato: morti evitabili, con un’assistenza adeguata.
In Mozambico e in Zimbabwe, questioni burocratiche e organizzative non rendono disponibili per le gravide farmaci utili e a basso costo, come il magnesio solfato, efficace nel trattamento e nella prevenzione dell’eclampsia (convulsioni legate a un marcato aumento della pressione), per la quale muoiono ogni anno nel mondo oltre 60 mila donne, il 99% delle quali nei paesi a medio e basso reddito.
Per l’Organizzazione mondiale della sanità ci sono stati miglioramenti nell’assistenza medica od ostetrica; ma la disponibilità di interventi che possono salvare la vita, come antibiotici, chirurgia, trasporto in centri medici attrezzati, manca ancora a molte donne, soprattutto nelle zone rurali, lontano dalle città.
In Myanmar (ex Birmania), le donne della minoranza karen verso la fine della gravidanza cercano di arrivare in Thailandia e, in prossimità della data del parto, si dedicano addirittura alla microcriminalità: tutto questo per essere arrestate ed entrare in travaglio nelle carceri thailandesi, dove sanno che ci saranno infermiere al loro fianco e che verranno portate in ospedale al momento del parto. Scelgono quindi la prigione per essere seguite e per nutrire per qualche mese i loro figli: nel loro paese non avrebbero questa possibilità, in quanto minoranza senza cittadinanza birmana.

DIFFICILE INTERVENTO NEL RISPETTO DELLA VITA 
Gli interventi sulla mortalità matea, rispetto ad altri Obiettivi del millennio, sollevano anche polemiche e questioni etiche sull’aspetto della «prevenzione» delle gravidanze, dell’offerta di una consulenza appropriata e rispettosa di idee, culture, visioni della famiglia nei paesi in via di sviluppo.
Per ridurre la mortalità matea e salvaguardare la salute della donna, si parla infatti anche di misure preventive. Ad esempio: l’aumento dell’età dei matrimoni e della prima gravidanza, adeguati intervalli di tempo fra un figlio e l’altro, prevenzione delle gravidanze non volute ed eliminazione degli aborti in condizioni non sicure. Azioni che, si legge sui documenti del Dipartimento per lo sviluppo internazionale (Dfid) britannico, potrebbero evitare un terzo delle morti matee ed essere importanti per 1 miliardo e 300 mila giovani che si affacciano all’età riproduttiva.
Sempre sul Dfid si legge che la mateità rappresenta la causa principale di morte fra i 15 e i 19 anni nei paesi in via di sviluppo, che ogni minuto 190 donne si trovano di fronte a una gravidanza non voluta o non pianificata e ogni anno circa 70 mila muoiono per complicanze di un aborto non sicuro.
Ma sono temi che aprono il capitolo sulla difficoltà di integrare con correttezza interventi medici di salute in una cultura, in un modo di vivere, e anche di intendere la vita, differente. Sono interventi che sollevano polemiche sulla concentrazione degli sforzi nella prevenzione delle gravidanze più che nella cura delle stesse.
L’argomento è stato per esempio affrontato dalla giornalista Eugenia Roccella, nel contesto più globale dell’azione dell’Onu e dell’Unione europea nei confronti della donna, salute riproduttiva e controllo delle nascite nei paesi in via di sviluppo. Roccella riporta che, secondo la Società di ostetricia e ginecologia del Canada, in base ai dati di rapporti inteazionali, gli obiettivi di riduzione del numero di morti conseguenti al parto non vengono raggiunti per la mancanza non di conoscenze e strumenti, bensì dell’investimento di risorse per permettere l’accesso alle cure ostetriche per le complicanze.
«Il problema consisterebbe quindi nella scarsa volontà internazionale di affrontare questo aspetto della salute riproduttiva, nonostante sia il più drammatico e urgente, sia per il numero dei decessi femminili che per le conseguenze sui bambini» scrive Roccella. E ancora: «I dati confermano come i cosiddetti servizi alla salute riproduttiva siano rivolti moltissimo alla prevenzione delle gravidanze indesiderate, ma pochissimo alle cure delle gravidanze desiderate. Il modo principale con cui si intende ridurre la mortalità da parto è riducendo, semplicemente, il numero di parti, e aumentando quello di aborti».
Ciò che va bene in un paese può non inserirsi positivamente in un altro e ogni intervento richiede la conoscenza della realtà cui è rivolto. Scrive sempre sul Bmj Zulfiqar A. Bhutta, del Dipartimento di pediatria e salute infantile dell’Agha Khan University (Karachi, Pakistan): «La mancata comprensione di importanti aspetti socioculturali nell’affrontare la salute e la malattia può ostacolare programmi sanitari, soprattutto in quelle società dove la salute e i diritti di donne e bambini sono strettamente interconnessi».

Mete da raggiungere

1. Povertà e fame: dimezzare rispetto al 1990 la povertà estrema e la fame.
2. Istruzione: garantire a tutti un livello di istruzione primaria.
3. Parità dei sessi: promuovere l’uguaglianza tra maschi e femmine; dare maggiore autonomia e poteri alle donne.
4. Bambini: ridurre di due terzi rispetto al 1990 la mortalità infantile.
5. Mamme: migliorare la salute matea, inclusa la riduzione di tre quarti rispetto al 1990 della mortalità in gravidanza e da parto.
6. Malattie: prevenire la diffusione di HIV/AIDS, malaria e altre malattie.
7. Ambiente: assicurare uno sviluppo sostenibile.
8. Scienza, tecnologia, progresso: sviluppare una collaborazione globale per lo sviluppo.

OBIETTIVO N°5
Migliorare la salute matea
e ridurre la mortalità in gravidanza e da parto.

In tutto il mondo oltre 50 milioni di donne soffrono di disturbi, anche gravi, correlati alla gravidanza o al parto: mezzo milione muore nel dare la vita. La maggior parte di questi decessi si verifica in Asia, ma sono le donne africane ad avere il rischio più alto di morire durante la gravidanza o il parto: nell’Africa Sub Sahariana il rischio di morire di parto nel corso della propria vita è di uno a 16, in Europa uno a 2.000, nel Nord America uno a 3.500. Il 5° Obiettivo del millennio si propone di ridurre di tre quarti, fra il 1990 e il 2015, i numeri della mortalità matea.

Valeria Confalonieri




Stati Uniti versus Venezuela: il predicatore Pat Robertson

Da tempo abbiamo imparato a non stupirci più di nulla. Eppure, sentire un
incitamento al delitto in diretta televisiva è un fatto che non può (o
non dovrebbe) lasciare indifferenti. È avvenuto lo scorso 23 agosto ed
ha avuto come protagonista il predicatore televisivo Pat Robertson,
fondatore del gruppo evangelico d’ultradestra «Coalizione cristiana»,
nonché ex candidato presidenziale, molto vicino a George Bush. Dalle
frequenze del canale televisivo statunitense Christian Broadcasting
Network (Cbn), nel corso del suo spettacolo «The 700 Club», il
reverendo si è così espresso: «Chávez ha distrutto l’economia
venezuelana. Ed è diventato una testa di ponte per l’infiltrazione
comunista e dell’estremismo islamico in tutto il continente. (…) Noi
abbiamo la capacità per eliminarlo e credo che sia giunto il momento
per esercitarla. Non abbiamo bisogno di intraprendere un’altra guerra
da 200 milioni di dollari per sbarazzarsi di questo pericoloso
dittatore. È molto più facile che qualche agente segreto faccia il
lavoro e la faccia finita con lui».

Dopo queste incredibili parole (pronunciate – vale la pena di ricordarlo –
nel corso di un
programma televisivo), la Casa Bianca ha preso le distanze, ma non ha
espresso un’esplicita condanna nei confronti del reverendo Robertson.
Sull’argomento è intervenuto, qualche settimana dopo, lo stesso Hugo
Chávez.
Durante l’assemblea plenaria per il sessantesimo
anniversario delle Nazioni Unite, lo scorso 15 settembre, il presidente
venezuelano ha chiuso così il suo (applauditissimo) intervento:
«L’unico paese dove una persona si può permettere il lusso di chiedere
l’assassinio di un capo di stato sono gli Stati Uniti. Come è avvenuto
da poco con un reverendo di nome Pat Robertson, molto amico della Casa
Bianca. Costui ha domandato pubblicamente, davanti al mondo, il mio
assassinio. E se ne va libero. Delitto internazionale, terrorismo
internazionale». Possiamo dargli torto?

Paolo Moiola

 

Paolo Moiola




ITALIA – Viaggio tra le comunità famiglia

COMUNITARIO È BELLO

Un numero crescente di famiglie vivono insieme, felici, con sobrietà e in spirito di solidarietà e condivisione: una risposta al bisogno di «umanità» e una sfida controcorrente all’individualismo, egoismo e mode consumistiche.

Alessandro e Simona, Alberto e Sandra, Antonio e Gabriella, Manfredo e Alessandra sono seduti nella grande cucina di uno degli appartamenti della «comunità-famiglia» Ruah, a La Loggia, nella seconda cintura torinese. Tutt’intorno corrono e giocano i loro figli.
Hanno acquistato una grande cascina e l’hanno ristrutturata con gusto ricavandone alloggi, separati da porte comunicanti, per ogni nucleo familiare.
Sono tutti sui 34-35 anni, cordiali, simpatici, colti: uno è laureato in Fisica, l’altra in Lingue straniere, un’altra in Legge, una fa la grafica pubblicitaria, l’altro l’imprenditore, ecc. E si sforzano di essere coerenti con i principi evangelici e le scelte comunitarie.
Stando insieme a loro si respira creatività e frateità, uno stile di vita semplice e rivoluzionario allo stesso tempo. «Abbiamo acquistato la nostra cascina qualche anno fa – racconta Alessandro – in “proprietà indivisa”, cioè con la condivisione totale della casa, dunque anche dei debiti. Volevamo sentirci uniti nella povertà. Siamo quattro famiglie e una suora laica. Ognuno di noi lavora all’esterno, ma passiamo molta parte del tempo libero insieme: ci aiutiamo nella gestione dei figli, dell’orto e delle abitazioni, e ci ritroviamo alla sera per la preghiera. Tutti insieme partecipiamo alle spese.
Per i bambini, poi, è una ricchezza enorme. Alla base della nostra scelta c’è la fede: ci eravamo conosciuti agli incontri di Taizé e in parrocchia. È stata una “chiamata”: ci accomunava la voglia di aiutarci e di aprire la nostra vita a persone con problemi. Uno dei nostri obiettivi era quello di provare ad avvicinare gente che non sarebbe mai entrata in chiesa».
«Anche sul lavoro cerchiamo di portare concretamente la nostra testimonianza – continua Alberto – e il nostro impegno verso la famiglia e la comunità: la fedeltà al Cristo, alla propria moglie o marito e alle scelte di condivisione e solidarietà, sono aspetti fondamentali della nostra quotidianità. Importante è anche la sensibilizzazione su tematiche religiose, economiche e sociali. Cerchiamo di dimostrare concretamente che un altro modo di vivere è possibile. E rende felici».
Tra di loro hanno deciso di non farsi regali: i soldi vengono destinati a progetti di sviluppo.

«MICRO» CONTRO «MACRO»
Le comunità-famiglia sono in «contro-tendenza» rispetto all’individualismo e rappresentano un segnale di cambiamento radicale negli orientamenti esistenziali di un numero crescente di coppie e di single. È la scelta di un presente e di un futuro più umani e sostenibili, meno consumistici ed egoistici, lontani dai modelli trendy, quanto falsi e deprimenti, veicolati dalla pubblicità, dai salotti tv e dai reality show.
Elementi base dell’economia comunitaria sono la condivisione degli spazi abitativi, della terra da coltivare (dalla quale si ricavano alcuni prodotti naturali da portare in tavola), delle spese; la collaborazione nella cura e nell’educazione dei figli; la frugalità; la solidarietà; il rispetto della natura e, per molti, la preghiera. Una versione modea e non autoritaria della vecchia famiglia patriarcale.
Scrive, infatti, Sara Omacini in Le comunità di famiglie1: «Nel passaggio dalla famiglia tradizionale a quella modea e a quella postindustriale, la privatizzazione è stata caratterizzata dalla ricerca di un ambito di vita relativamente “chiuso” al mondo esterno, in cui promuovere o preservare un particolare stile di vita, prima di un ceto sociale, poi della singola famiglia… La famiglia patriarcale estesa era in grado di diffondere nel tessuto sociale capacità organizzativa, senso del dovere collettivo, abitudine alla collaborazione e alla solidarietà. Il familismo, invece, impedisce la costruzione di rapporti di fiducia trasparenti e inibisce altre forme di vita associativa… È ovvio che se la famiglia ha mantenuto pochi rapporti con il mondo esterno, nel bisogno non sa a chi rivolgersi e situazioni relativamente difficili s’ingigantiscono, perché la famiglia vive una forte solitudine».
Le «macrofamiglie», dunque, rispondono a esigenze di «unità», di ritorno al «comunitario», di accoglienza. Ma anche di sostegno concreto: i prezzi dei prodotti alimentari che sono saliti alle stelle, il potere d’acquisto degli stipendi ormai sempre più debole, la mobilità e l’instabilità del mercato del lavoro, l’ascesa senza limiti dei costi degli affitti, le bollette di gas, luce e telefono, un tempo considerati «servizi» ora diventati «beni di lusso», e così via, spesso rendono angosciante e precaria la vita dei nuclei familiari, che non hanno più ammortizzatori sociali né sponde a cui aggrapparsi.
«Insieme riusciamo ad abbattere le spese – raccontano, infatti, Michele, Vittoria e Luca della frateità del Cisv, a Reaglie, nel torinese – e possiamo garantire la disponibilità a tempo pieno di uno di noi nelle attività della comunità».
La scelta di vivere insieme offre, dunque, quella tutela che lo stato italiano non garantisce più. Si tratta di una tendenza che va di pari passo con una realtà economica, sociale e culturale sempre più problematica. Un ritorno all’economia di villaggio, di sussistenza, di scambio. Il «micro» contro il «macro» della globalizzazione neoliberista che affama e amplia il divario tra il ricchissimo e il poverissimo e annulla, depauperandoli, i ceti medi.
«Ciò che stanno tentando di fare le comunità di famiglie è analogo a quanto fecero le comunità monastiche nel periodo della fine dell’impero romano. Potevano sembrare realtà marginali; eppure hanno elaborato e diffuso una nuova cultura, che ha inciso profondamente nella formazione dell’Europa. Oggi, quasi in silenzio e senza far notizia, sorgono ovunque movimenti di comunità di famiglie. Crescono a macchia d’olio e, pur con caratteristiche diverse, rispondono al bisogno di “umanità” che tutti avvertono»2.

DOVE E COME
Se ne possono incontrare in Piemonte, Liguria, Lombardia, Toscana e altre regioni: alcune sono organizzate in reti, come quelle affiliate all’Associazione comunità famiglia (Acf), che hanno alle spalle una lunga storia di volontariato e di condivisione. Altre sono esperienze di piccoli gruppi. Parallelamente, alcune hanno una forte caratterizzazione ecologica, come la comunità creata da Giannozzo Pucci a Fiesole, che pubblica la rivista italiana L’Ecologist, dedicata ai temi ambientali, oppure come gli «ecovillaggi» (il «Villaggio verde», «Comunità degli Elfi» di Sambuca Pistorniese, «Upachi», «Anande», ecc.), spirituale e/o religiosa e radicale, cioè, di rifiuto di ogni strumento tecnologico e consumistico. E altre che si contraddistinguono per la pratica della nonviolenza, come le comunità de «L’Arca di Lanza del Vasto».
Complessivamente sono diverse centinaia: il livello culturale delle persone che vi fanno parte è alto, così come la consapevolezza e la sensibilità ai piccoli e grandi problemi che affliggono l’umanità vicina e lontana. L’età degli adulti oscilla tra i 30 e gli over 50.
Le residenze sono, in genere, vecchie cascine ristrutturate, abbazie sconsacrate, ville d’epoca e castelli concessi in comodato gratuito, condomini ribattezzati «solidali». Quasi sempre in mezzo al verde e all’aria pulita.
La loro scelta di convivenza non significa assenza di privacy: nella maggior parte dei casi, infatti, ogni nucleo familiare ha un proprio spazio privato e i momenti comunitari vengono rappresentati dai pasti, momenti di preghiera, incontri, spesa, lavoro agricolo e volontariato.
Non si tratta di un revival delle «comuni» degli anni ’60 e ’70, anche se, ad esempio, le «frateità» del Cisv, un’organizzazione di volontariato di Torino, la comunità «Mambre» di Cuneo, quella di Villapizzone di Milano, il «Forteto» di Dicomano nel Mugello, sono nate proprio in quel periodo.

COLLANTE SPIRITUALE
La componente spirituale è sentita come un collante in molte esperienze comunitarie, perché ritenuta essenziale per il superamento di difficoltà e momenti di crisi: «Numerosi esperimenti di vita comune degli anni ’70 sono falliti – sottolineano le famiglie della comunità di Mambre, a Cuneo -, lasciando un senso di frustrazione e incompiutezza. Se alla base di determinate scelte c’è invece una forte fede e ideali ben radicati, anche gli ostacoli sono più facilmente superabili».
«La nostra realtà – spiegano Anna e Piero, della comunità “Nibai” di Ceusco sul Naviglio, in provincia di Milano – è nata sulla scia di un’altra esperienza: una cornoperativa di frateità con comunità residenziale, che agiva sul territorio. I primi anni sono stati di sperimentazione su principi-base, come il desiderio di creare un ambiente concreto dove maturare un cammino di fede profonda, la solidarietà e l’apertura verso gli altri, l’accoglienza sul territorio. Seguiamo le linee guida della comunità storica di Villapizzone, quella di Bruno Volpi3. Ora siamo un’associazione di comunità-famiglie. I nostri pilastri sono l’accoglienza, la condivisione dei beni e la spiritualità. Ci basiamo su un’economia frugale: stiamo attenti a ciò che compriamo».
Stili di vita e di consumo, dunque, fondati su quell’essenzialità che, nella filosofia delle comunità-famiglia, contribuisce a una trasformazione «dal basso» dei sistemi economici e sociali. Questo è pure il messaggio che, dagli anni ’90, lancia il «Centro nuovo modello di sviluppo» di Vecchiano di Pisa, creato da Francesco Gesualdi, allievo di don Lorenzo Milani. Esso è nato proprio dalle scelte «radicali» di un gruppetto di famiglie che, dal 1985, vivono insieme in un grande cascinale toscano.
«Per quelle strane combinazioni della vita – racconta Gesualdi -, trovammo persone che avevano la nostra stessa visione del mondo. E decidemmo di creare una comunità di accoglienza. Erano gli anni ’70, un momento particolare della storia contemporanea (c’erano i movimenti hippy, le comuni), anche se noi non ci innamorammo del comunitario fine a se stesso, ma della possibilità di mettere a frutto i nostri progetti e i nostri sogni. Volevamo coinvolgere la famiglia come istituzione, spezzando il cliché per cui essa era un intralcio al lavoro di cambiamento sociale. Decidemmo dunque di vivere insieme in una casa sufficientemente grande, perché ogni nucleo familiare potesse avere i propri spazi privati e alcuni luoghi di condivisione comuni a tutti. Insomma, doveva essere un luogo dove potenziare il nostro impegno: la nostra, infatti, era una scelta politica nel senso più ampio del termine…
Il Centro è nato per ricercare e analizzare le cause profonde che generano emarginazione e impoverimento, per definire delle strategie di difesa dei diritti degli ultimi e ricercare nuove formule economiche in grado di garantire a tutti gli esseri umani la soddisfazione dei bisogni ma nel rispetto dell’ambiente.
Studiamo le cause del sottosviluppo e le traduciamo in un linguaggio accessibile a tutti, anche a chi non ha strumenti culturali adeguati»4.

MENSA «ALLARGATA»
La comunità del Forteto5, a Dicomano nel Mugello, è un’altra di quelle che resistono tenacemente dalla fine degli anni ’70. I suoi 33 soci fondatori ne sono ancora pienamente parte da quasi 30 anni, da quando, cioè, giovanotti pieni di sogni e ideali si buttarono in quest’esperienza di condivisione e lavoro. Insieme avevano anche dato vita a una cornoperativa agricola, che ora è tra le più importanti del Mugello e distribuisce prodotti alimentari in tutta la Toscana.
Il nucleo originario, mano a mano, si è allargato, a seguito dei matrimoni, nascite, figli in adozione e affidamento: ora sono 100 persone e la loro mensa è davvero «allargata».
«Siamo rimasti in piedi fino a oggi – spiegano due dei fondatori, Luigi Goffredi e Luciano Barbagli – perché ci siamo trovati bene. Eravamo quasi tutti vecchi amici, cresciuti respirando l’aria di don Milani e di padre Balducci. Forte è stata anche l’impronta di Giorgio La Pira. Il filo conduttore che ci legava era la volontà di costruire relazioni che potessero continuare nel tempo e producessero accoglienza.
I primi 15 anni sono stati duri: i soldi erano pochi, ma il desiderio di lavorare era grande. Avevamo creato un’azienda agricola che ci permetteva di essere autosufficienti e di mantenere le nostre famiglie e i ragazzi che ci venivano affidati dai servizi sociali, e per i quali non volevamo assegni di mantenimento.
Il legame affettivo e ideale ci ha permesso di superare le difficoltà. La componente “fede” era relativa: i nostri pilastri erano l’amicizia, l’uguaglianza, gli ideali milaniani (che appassionano credenti e non credenti), e la nostra determinazione a metterli in pratica.
L’identità familiare di ogni singolo nucleo è sempre stata forte, seguita dal confronto comunitario. I nostri figli sono cresciuti insieme: la socializzazione è un’attività vitale per i ragazzi.
Ora siamo tantissimi: i nostri momenti di convivialità sono a pranzo e a cena. Alla sera ci ritroviamo per discutere, prendere insieme decisioni, proprio come facevamo agli inizi quando ci si riuniva per organizzare il lavoro dei campi o la raccolta dei prodotti. Da allora ci è rimasta questa buona abitudine».

Fondamentale, per tutte le comunità-famiglia, forse, è la convinzione che quello della condivisione sia un percorso necessario per il futuro di un’umanità solidale, interdipendente e corresponsabile.

BOX 1

Comunità Villapizzone, Milano
Fondata a Milano da Enrica e Bruno Volpi negli anni Settanta, è una grande cascina in cui vivono in «condominio solidale» una sessantina di persone e alcuni gesuiti. Tel 02-3925426 – comvillapizzone@tiscalinet.it

Frateità Cisv, Torino.
Sono attive tre comunità: a Reaglie, Sassi, Albiano. I primi nuclei comunitari risalgono agli anni ’60. Tel 011-8981477
– www.cisv.org

Il Forteto, Dicomano nel Mugello, Firenze
È nato nel 1977 da un gruppo di 30 giovani influenzati dagli ideali di don Milani. Ora sono un centinaio di persone, tra adulti e ragazzi. Si occupano dell’accoglienza di minori e hanno un’avviata azienda agricola.
Tel 055-8448376 – www.ilforteto.it

Comunità Mambre, Busca, Cuneo
Nata nel 1977, si occupa di accoglienza, fede, animazione socio-culturale e della Scuola di pace. Tel 0171-943407 – mambre@lillinet.org

Comunità Ruah, La Loggia, Torino
Sono quattro famiglie che vivono in una grande cascina in campagna e condividono momenti di preghiera, semplicità nello stile di vita, accoglienza, solidarietà e serate di discussione. Tel. 011-9627372

Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano di Pisa
La comunità di famiglie fondata nel 1985 da Francesco Gesualdi, allievo di don Milani. Tel 050-826354
– www.cnms.it

Esiste inoltre una rete di circa 200 nuclei familiari sparsi tra Lombardia, Piemonte e Toscana in collegamento fra loro, che si riuniscono periodicamente: è l’Acf, l’associazione comunità famiglie. www.acf.org.
Rive è la rete che collega una cinquantina di villaggi ecologici presenti in Italia, tra cui la Comunità degli Elfi, Alcatraz e Damanhur.
www.sostenibile.org/rive

Angela Lano




COLOMBIA – Caracoli: tra i

IL MONDO DI PADRE JUAN

Una scuola «virtuale» per contrastare il disagio giovanile nella periferia violenta della capitale colombiana. Un’azienda agricola gestita dai
«bimbi della guerra». L’esperienza di un missionario della Consolata con il gusto della pace e tanta voglia di creare speranza.

Caracolí è un quartiere nel sud di Bogotá dove molti colombiani, specialmente del ricco nord, non si sono mai avventurati. Per raggiungerlo bisogna salire, con una camionetta o con un bus da pochi pesos, lungo strade non asfaltate che tagliano in due gli agglomerati di mattoni, laminato e legno. Attraverso le porte delle baracche, spesso aperte, si intravedono panni stesi ad asciugare, corpi scalzi e cani stanchi.
Da quasi dieci anni Caracolí è un quartiere «di invasione», cioè un quartiere che raccoglie gente di tutta la Colombia costretta ad abbandonare la terra per necessità un tempo economiche e ora soprattutto politiche. Sono specialmente i desplazados (gli sfollati a causa della guerra) a riempire il sud di Bogotá di poche cose e tante facce, che hanno i colori di tutta la nazione, dal nero della costa – retaggio dell’antica schiavitù – alla pelle dorata dei meticci, fino ai tratti olivastri e fieri degli antichi indios.
La gente è povera a Caracolí. Se tutto va bene si può permettere un pasto giornaliero: un piatto di riso e fagioli o ceci, tanto per cambiare. La sera è sufficiente una tazza di agua panela, acqua zuccherata, e poi a dormire, perché il giorno finisce presto in quelle strade polverose, dove alle 8 della sera è meglio chiudere la porta, dato che alle 10 nessuno, ma proprio nessuno, si avventura per i vicoli.
Ci sono i paramilitari a Caracolí: un esercito indipendente, un tempo finanziato dai ricchi per tutelare le terre dalla guerriglia, là dove lo stato non garantiva tutela sufficiente, e ora diventato un essere dalla vita propria e dalle cento teste. Nessuno sa chi siano, gente che vive nel quartiere, forse il vicino di casa; però tutti sanno che ci sono e non parlano. Hanno paura.
Da gennaio a metà aprile i paramilitari hanno già ucciso 88 persone nel sud di Bogotà, la maggior parte dei quali giovani al di sotto dei 25 anni. La chiamano limpieza social, pulizia sociale, volta a eliminare chi è coinvolto in giri di droga, furto o malavita in genere. La polizia entra di rado in questa parte della città e sempre in pattuglie numerose.
La gente è abituata alla morte. «Che succede là?» chiediamo a un bambino che ci corre incontro con un lecca lecca in bocca. «Un morto. Hanno trovato una mano, poi la testa. Il corpo se lo stanno mangiando i cani».
Sostiamo ai piedi della salita guardando la piccola folla radunata attorno a due uomini con le tute azzurre che raccolgono con pazienza i resti del cadavere. Da una rivendita di pane e conserve poco lontana arriva prepotente la musica un po’ malinconica di un vallenato e una donna dai fianchi marcati accenna un passo di danza.
Meraviglia e indifferenza, vita e maledizione, si può trovare di tutto e tutto nello stesso momento nella calle, che a Caracolí non è una strada come le altre, no: qui è più casa della casa. Raccoglie i bambini che, dopo la scuola primaria, non hanno la possibilità di continuare a studiare; raccoglie le donne che alle 4 del mattino si accodano pazienti in attesa di un autobus che le porti al nord, dove lavorano nelle case dei ricchi per 300.000 pesos al mese, poco meno di cento euro. Raccoglie gli uomini che vanno ai mercati generali, dove sperano di poter guadagnare la giornata e di recuperare qualche verdura di scarto per la zuppa del giorno dopo. Raccoglie gruppetti di idraulici, elettricisti e improvvisati muratori, che si aiutano l’un l’altro per costruire case veloci che sembrano fazzoletti sensibili al vento.
Gli sguardi ti seguono, quando arrivi a Caracolí, per vedere chi sei e dove vai, per provare a immaginare perché gente occidentale, che non possiede i tratti caldi dell’America Latina, si sia decisa ad andare proprio lì.

Sono ormai tre anni che un missionario della Consolata sale, spesso solo, lungo la calle di Caracolí e la gente lo riconosce, perché lui si ferma in tutte le case, una per una, e non ha fretta. Porta un messaggio, un invito per la fagiolata della domenica pomeriggio; porta un conforto o un semplice saluto e la gente sorride a quell’uomo grande, con la faccia italiana, che dopo tanti anni di America Latina non ha perso l’accento piemontese.
Padre Testa ha appena comprato una casa che due muratori stanno sistemando. Sulla porta c’è un cartello che invita ai corsi di alfabetizzazione: per informazioni rivolgersi alla Escuela amigos de la naturaleza o casa de padre Juan, perché lui si chiama Gianfranco, ma la gente qui lo chiama così: Juan.
Per il momento è agibile solo il piano terreno, dove le novizie delle suore della Consolata organizzano corsi di taglio e cucito; presto sarà possibile celebrarvi la messa. Il primo piano diventerà un laboratorio di elettronica e informatica per i ragazzi del quartiere, in collaborazione con il Sena, Centro di formazione nazionale, che metterà a disposizione alcuni insegnanti volontari.
Padre Testa ha comprato dei gerani per la sua casa di Caracolí, perché chi entra possa trovare un po’ di colore e abbia voglia di fermarsi. Sono soprattutto i bambini a invadere la casa: bussano timidamente, mettono la testa oltre la porta e appena incontrano gli occhi di padre Juan, corrono ad abbracciarlo e sanno che lui non si risparmierà: è un uomo che dà. Un sorriso, una carezza, un pezzo di pane.
– Padre Juan, oggi è il mio compleanno, gli dice un bambino.
– E allora andiamo a scegliere un regalo.
In una bottega del quartiere dove si vendono caramelle, biscotti, yogurt e telefonate, il bimbo si alza in punta di piedi: «Voglio quello», un bocadillo (dolce di frutta e zucchero) da 200 pesos che per lui è il secondo grande dono di quel giorno speciale: «Guarda cosa mi ha regalato il mio padrino» dice il bimbo, tirando fuori da una tasca un pacchetto di crackers. Perché la miseria è grande quaggiù, ma la gioia può esserlo altrettanto e con molto poco.

Aiutare un ragazzo di Caracolí a studiare costa 15 euro l’anno. Con gli aiuti che la città di Bra (CN) non fa mancare al suo concittadino, padre Testa sta progettando un centro per i bambini e i giovani del quartiere, che potrebbe essere pronto per la fine del 2006.
Capace di accogliere ben 900 ragazzi, il centro diventerà la sede di una scuola superiore «virtuale», la prima e unica del quartiere, in collaborazione con l’Università pedagogica nazionale di Bogotá, che potrà offrire formazione giornaliera tramite computer. Sono previsti anche corsi di avviamento al lavoro, con laboratori di cucito, elettronica, informatica, cucina, assemblaggio di computer, infermieristica e coltivazioni idroponiche, per educare all’autosostentamento, mantenendo la memoria della terra abbandonata a causa della guerra.
La sanità, l’istruzione e la fame sono i tre grandi nodi sociali lasciati scoperti dalla politica dell’attuale governo, che ha deciso di investire quasi esclusivamente nell’esercito, per raccogliere i consensi di gran parte dei ceti medio-alti, che invocano la sicurezza in una nazione dove la guerriglia e il paramilitarismo da decenni minano la possibilità di muoversi liberamente.
Attualmente, il sistema nazionale copre una parte delle spese sanitarie di chi non ha un lavoro, però i ceti poveri faticano a pagare persino il 10% richiesto dallo stato. Per questo, il centro contempla l’apertura di un ambulatorio di primo soccorso, un dispensario medico e una mensa gestita dai ragazzi.
Sono previsti anche corsi di musica, teatro, arti marziali, ginnastica, pittura, per dare spazio e possibilità di sfogo, divertimento e aggregazione a tutti i giovani del quartiere che decideranno di frequentare il centro, che potrà nascere e mantenersi grazie agli aiuti economici di chi vorrà impegnarsi in un piccolo gesto sociale.
Oltre alla città di Bra, l’ambasciata del Giappone potrebbe finanziare parte del progetto; e già ci si muove attivamente sul territorio colombiano per reperire un gruppo di insegnanti volontari.
L’idea della costruzione di un centro giovanile a Caracolí nasce come continuazione della bella esperienza della Fundación niños de la guerra, hombres de paz, promossa nel 2000 dai missionari della Consolata come «gesto di consolazione» per l’anno santo, con l’idea di assistere i figli degli sfollati dalla guerra.
Nel 2001, padre Testa inizió a lavorare a Carmen de Apicalá (piccolo centro nel dipartimento del Tolima, a un’ottantina di chilometri dalla capitale) con un primo gruppo di bambini, la maggior parte provenienti da Caracolí, in una finca (azienda agricola) immersa nella zona tropicale, dove il clima caliente e la vegetazione dai colori forti e dalle forme enormi, fanno dimenticare in fretta il cielo grigio della capitale.
Le urla dei ragazzi accolgono ogni martedì la camionetta che arriva carica della spesa per la settimana. Il clacson suona e chiede un poco di respiro, ma i bambini non ascoltano: continuano a urlare e invadono i vetri di mani, facce e parole: «Padre Juan, padre Juan!».
Padre Testa passa tutta la giornata con i ragazzi, ascolta i racconti della settimana, li aiuta con i compiti, controlla come vanno le coltivazioni del piccolo campo adiacente alla struttura, dà consigli e distribuisce i piccoli pacchi che i genitori mandano ai figli.
«C’è qualcosa per me?» chiede ogni settimana il piccolo Nanchito, 7 anni, pelle nera e occhi grandi. No, nessuno si ricorda di lui; però padre Juan ha comprato un pacco di biscotti e con la penna blu ha scritto in un angolo della carta rossa: «Nanchito, te lo manda papà». E non è una bugia; non è un inganno: è solo un regalo che dà la sensazione di esistere.
Originariamente la finca apparteneva a un generale dell’aeronautica; oggi i tre diciottenni ospiti della fondazione occupano la casa del generale, mentre quella dei contadini è stata abbattuta per dare spazio a un primo blocco a due piani, adibito ad aule per lo studio. Oltre a una nuova cucina, sono stati costruiti 4 dormitori con letti a castello. Per le educatrici e gli ospiti, ci sono 6 stanze con servizi.
La gestione della finca richiede un grosso impegno economico, perché, oltre alla costruzione, ampliamento e manutenzione della struttura, bisogna pensare ai vestiti, al trasporto giornaliero fino alla scuola, alla divisa, cibo, materiale scolastico e personale professionale: una psicologa, una pedagoga e una cuoca che vivono 24 ore su 24 con i ragazzi.
I 43 ospiti della finca vanno tutti i giorni a scuola e nel pomeriggio, dopo i compiti, coltivano il piccolo campo, raccolgono cacao, banane, pomodori, allevano polli e maialini.
I ragazzi fanno votazioni periodiche per eleggere il presidente, vicepresidente, segretario e i responsabili di quattro aree: studio, lavoro nel campo, spiritualità e convivenza. Ogni settimana c’è un’assemblea per discutere i problemi quotidiani e per scrivere su un foglio a quadretti, sottoscritto in calce dai partecipanti, le richieste di materiale da inoltrare a padre Juan.
Gli adulti hanno diritto a parlare ma non al voto, ed è così, attraverso l’educazione all’autoresponsabilizzazione, che bambini di strada, abituati alla violenza e portatori di ferite profonde e rabbia, si avvicinano a se stessi e agli altri con l’idea di una convivenza possibile.

Quando i ragazzi tornano alla finca, dopo un breve periodo di vacanza nei quartieri di Bogotá, ci vuole almeno un mese per riportare l’equilibrio nel gruppo, perché nei quartieri periferici, dove la prepotenza è l’arma del vincitore, è costante la tentazione della droga e il ricorso alla violenza.
Nel sud della capitale i paramilitari stanno reclutando giovani per i loro «servizi» di ordine sociale: li attirano col miraggio di qualche migliaio di pesos per impiegarli come spie o direttamente nella lotta armata.
Ecco perché è forte il bisogno di dare al più presto ai bambini e ai giovani uno spazio alternativo, dove sia possibile imparare a fidarsi di se stessi e degli altri, nella prospettiva di un impegno comune e una solidarietà che conservi la memoria del passato e apra al presente.
Sono i bambini a dare ragione a padre Testa: sono i loro sorrisi, la vitalità che hanno dentro, l’immediatezza nel togliersi i vestiti per buttarsi nel fiume e la voglia di credere che quello spazio, un po’ sospeso tra il tropico e l’inferno, sia davvero un piccolo paese dove tutto può accadere. Ci si può arrabbiare e ci si può picchiare, si può chiedere scusa e si può ricominciare. Si deve ricominciare.
Lo si capisce vedendo la felicità sulla faccia di Nanchito, che ha il colore rosso di un pacco di biscotti e un nome scritto a penna. Lo si capisce vedendo la felicità sulla faccia di Nanchito e provandone stupore.
Stupore e meraviglia per un piccolo, fondamentale passo nella costruzione di un uomo che un giorno potrà raccontare che la vita, a lui, in fondo ha dato la possibilità di scegliere come diventare. Pur venendo da Caracolí, o soprattutto per quello.

Paola Cereda




UCRAINA – Il travaglio dell’«ex granaio d’Europa»

I CETRIOLI DI NATASCIA

Genova e Venezia, repubbliche marinare, hanno qui alcune vestigia,
come l’esercito del Piemonte che, nel 1855, vince la battaglia sul fiume Ceaia.
Piccoli dettagli di un affresco vasto, complesso, affascinante…
«Ucraina» deriva da kraj, frontiera, forse a indicare le steppe sconfinate.
Dal 9° al 12° secolo il paese si identifica con la «Rus di Kiev».
Il popolo ucraino si consolida nel 15° secolo.
La sua sorte è legata a quella dei polacchi e, soprattutto, dei russi.
Il 1° dicembre 1991 l’Ucraina riconquista l’indipendenza, perduta nel 1654 quando diventa parte dell’impero zarista e, nel 1922, allorché abbraccia quello sovietico. Oggi gli ucraini camminano con le loro gambe. Che fatica, però!

«Comprate, comprate, signori miei! Il prezzo è piccolo, ma l’affare è grande!». È il ritornello, strillato a iosa, che ci accompagna mentre esploriamo le bancarelle di un rumoroso mercatino delle pulci. Udiamo altre parole davvero curiose, quali: Juve, Inter, Milan. Improvvisamente, da un pittore di quadri naif, scatta la domanda: «Perché voi, italiani, coprite d’oro il calciatore Andrei Shevchenko, ma lasciate che le nostre ragazze finiscano come prostitute sulle strade delle vostre città?».
Il quesito, furioso come una schioppettata, ci investe a Kiev, capitale dell’Ucraina.

DOPO CHERNOBYL
Ucraina: quasi 50 milioni di abitanti, su una superficie due volte l’Italia. Dopo la separazione-indipendenza dall’Unione Sovietica nel 1991, la nazione sta camminando con le proprie gambe. Ma che fatica!
Le risorse economiche non mancano. Nel campo minerario il paese possiede carbone, ferro, petrolio, gas naturale. Molti impianti, però, sono obsoleti, a scapito della sicurezza. Il 19 luglio 2004, in una miniera di carbone di Donetsk, 25 operai morirono per un’esplosione di gas.
Non manca l’uranio. Ma all’erta con l’uranio! Il settore energetico si avvale (si dice) di 6 centrali nucleari «rinnovate», perché quelle vecchie sono pericolose. Gli ucraini (e non solo loro) lo sanno. Anzi, non scorderanno facilmente il 26 aprile 1986, allorché esplose un reattore della centrale nucleare di Cheobyl, a 120 chilometri da Kiev.
Complice la disinformazione voluta, all’inizio sembrò un incidente persino banale. Ma subito «bagliori mai visti» seminarono morte a ritmi incalzanti. Alla fine le vittime delle micidiali radiazioni saranno 160 mila e 3 milioni i contaminati, che sopravvivono in qualche modo. Senza contare i bambini nati deformi.
Oggi quella «zona maledetta» conta 300 individui: dopo l’evacuazione del 1986, sono ritornati a casa loro, nonostante che il territorio soffra ancora le conseguenze dell’inquinamento radioattivo. La «peste» durerà almeno 100 anni!
Invece più sicuri sarebbero i prodotti agricoli, a prescindere dagli organismi geneticamente modificati. Però, in Ucraina, soprattutto l’agricoltura è in crisi. Si importa persino frumento. Che ne è del paese «granaio d’Europa»? E dove sono finiti i potenti trattori che, sino a pochi anni fa, aravano vastissime steppe? «Sono scomparsi misteriosamente» risponde un piccolo agricoltore, con un linguaggio che ricorda quello in voga nell’Unione Sovietica.
In ogni caso la terra è proprietà dello stato. I contadini attendono con ansia dal governo ucraino la riforma agraria, per ottenere qualche ettaro in più e produrre una maggiore quantità di pannocchie o barbabietole. «Terreno comunque da acquistare» dichiara un modestissimo bracciante.
Ma con quali denari, se il salvadanaio dei risparmi si svuota continuamente?
Così l’80% degli ucraini vive sotto la soglia della povertà e 5 milioni sfidano la fortuna emigrando anche in Italia. Fra le donne, ecco le ricercate badanti per gli anziani. Però altre ucraine, adescate da raggiri mafiosi, devono adattarsi a battere i marciapiedi di Torino, insieme a qualche nigeriana.

MEGLIO IERI O OGGI?
Soggioando (anche poche settimane) nell’ex Unione Sovietica, gli interrogativi che pungolano continuamente la mente del visitatore sono sempre gli stessi. E cioè: è preferibile il regime marxista o quello capitalista, lo stile di vita di ieri o quello di oggi? Sono stati socialmente più validi «i piani quinquennali» di Nikita Kruscev o il libero mercato di Vladimir Putin? In Russia gli anziani non nutrono dubbi al riguardo: la grande maggioranza rimpiange il comunismo, in città come in campagna.
In Ucraina la musica non cambia. Dalla metropoli di Kiev al porto di Odessa i settantenni stentano, oggigiorno, a sbarcare il lunario. Le loro pensioni, per esempio, sono da «terzo mondo»: appena 24 euro mensili, al cospetto di generi alimentari, capi di abbigliamento e farmaci costosissimi.
Fino al fatidico 1989 (l’anno della caduta del muro di Berlino) l’istruzione era gratuita e garantita a tutti. Gratuita era pure l’assistenza sanitaria, anche se nelle repubbliche dell’Unione Sovietica (già prima della «glasnost-trasparenza» e della «perestrojka-ristrutturazione» di Michail Gorbacev) qualcuno mormorava con sarcasmo: «Se la salute non ti interessa, va’ a curarti in un ospedale pubblico!».
Tuttavia l’Unione offriva a tanti la possibilità di spostarsi per le ferie da un capo all’altro dell’Urss: dall’inospitale e gelida Siberia alla dolce e florida Crimea sul Mare Nero.
Però i giovani non rimpiangono il passato. «Io ho due figlie, di 20 e 30 anni – dichiara Natascia -. La ventenne non sa nulla del regime comunista, mentre la trentenne ricorda poco. Però preferisce il sistema attuale, perché offre maggiore libertà. Ma occorre fronteggiare la minaccia del terrorismo…».
Natascia, colta guida turistica di Kiev sulla cinquantina, afferma: «Oltre al russo e all’ucraino, parlo italiano, francese e inglese. Anni fa sono stata a Roma, Parigi e Londra. Ai tempi dell’impero sovietico non mi era consentito uscire dall’Urss. Confrontando lo standard di vita dell’Europa occidentale con il nostro, sono giunta alla seguente conclusione: le persone come me, che godevano di una buona cultura e di una discreta posizione statale, erano abbastanza fortunate rispetto a tante altre. Però ero chiusa in gabbia, e non me ne rendevo conto».
Conversiamo con Natascia in un piccolo ristorante, attorno a un piatto di cetrioli. Già, cetrioli! Sempre cetrioli: a colazione, pranzo e cena. Anche la guida li osserva con un pizzico di commiserazione, girandoli e rigirandoli con la forchetta. E soggiunge: «Se l’Ucraina vuole attirare i turisti europei e americani, deve rivedere la propria cucina, soprattutto se a tavola siedono italiani».

TURISTI BENVENUTI
In Ucraina il patrimonio storico, culturale e paesaggistico è favoloso. Per esempio: la penisola di Crimea, al di là delle attrazioni climatiche, offre uno spaccato di storia tormentata. Terra antichissima, abitata già nel paleolitico dal popolo iranico degli sciti e successivamente, nell’arco di secoli, dai tauri, dai tartari, ecc. Nel 13° secolo vi approdarono anche colonie di genovesi in lotta contro i veneziani.
In Crimea i turisti italiani osserveranno con interesse il fiume Ceaia, sulle cui sponde nel 1855 l’esercito del Piemonte, alleato dei francesi e degli inglesi, vinse una sanguinosa battaglia contro i russi.
Nel 1941-43 la penisola fu preda delle truppe tedesche naziste, che sterminarono gli ebrei locali. Al ritorno dei russi-sovietici, i tartari furono deportati in Siberia: 200 mila perirono di stenti.
In Crimea non si può mancare Jalta, splendida località marina e ambita sede vacanziera di tanti «vip» comunisti dell’Unione Sovietica. Inoltre a Jalta, il 4-11 febbraio 1945, Iosif Stalin, Winston Churchill e Franklin D. Roosevelt si spartirono una cospicua fetta del potere mondiale, dichiarandosi «guerra fredda».
Dal 1992 la Crimea è parte dell’Ucraina, ma con una larga autonomia.
Notevole è pure il richiamo turistico esercitato da Leopoli, città di 900 mila abitanti: un po’ austro-ungarica (fece parte dell’impero asburgico dal 1772 al 1917), un po’ polacca (la Polonia l’ha rivendicata per molto tempo), un po’ russa (si contano circa 140 mila russi), ma soprattutto ucraina. Da Leopoli (meglio L’viv), sotto il profilo culturale, si guarda più all’Europa occidentale che alla Russia.
A 40 chilometri dalla città, su una fonte ritenuta miracolosa sorge il monastero studita di Univ. È uno dei massimi centri della religione greco-cattolica, che risale al 1300, importante anche per capire la storia della nazione…
Ma il cuore dell’Ucraina è, certamente, Kiev: e non solo perché è la capitale. La metropoli è addirittura considerata «la madre delle città russe». Secondo le cronache antiche, il popolo di Kiev, con il principe Vladimir in testa, scese nelle acque del fiume Dneper, dove l’intera comunità sarebbe stata battezzata con il nome di Rus. Correva l’anno del Signore 988, che segna l’inizio del cristianesimo in Ucraina e nelle regioni limitrofe, Russia compresa.
Nel 13° secolo l’invasione delle orde tartare segnò per sempre il destino di Kiev, distruggendo inestimabili opere artistiche. Più a nord sorsero nuovi principati e centri politici: San Pietroburgo, Mosca…
Nel 2001 anche Giovanni Paolo ii visitò Kiev e dintorni, soffermandosi in preghiera presso due «colossei modei» o luoghi di martirio. Il primo è Babij Jar, alla periferia della città. Qui, nel 1941-43, i nazisti consumarono terribili massacri: scomparvero circa 100 mila persone, in gran parte ebrei, ma anche zingari, oppositori e prigionieri di guerra sovietici. Dal 1976 un monumento di bronzo ricorda quegli eccidi.
Il secondo «colosseo» si chiama Bykivnja, a 30 chilometri da Kiev. In una zona boschiva, nel 1937-41 Stalin seppellì in fosse comuni circa 50 mila presunti oppositori del regime (di cui 15 mila identificati), vittime delle «purghe» del dittatore. Oggi su una pietra si legge: «La cosa più cara è stata la libertà. Noi l’abbiamo pagata con la vita».

E LA SITUAZIONE RELIGIOSA?
Natascia, l’esperta guida di Kiev che si trastulla con slavati cetrioli, accenna anche alla complessa situazione religiosa dell’Ucraina. Alla domanda «lei è credente?», risponde: «Vorrei esserlo, come lo sono stati i nonni e un po’ i genitori. Invece sono agnostica. Ma, se fossi credente, non vorrei essere né ortodossa, né cattolica, né protestante, ma semplicemente cristiana».
I cattolici e gli ortodossi d’Ucraina ebbero «un sussulto» nel 2001, con la visita di Giovanni Paolo ii del 23-27 giugno. «Desidero rassicurare gli ortodossi che non sono venuto qui con intenti di proselitismo. Prostrati davanti al comune Signore, riconosciamo le nostre colpe. Assicuriamo il perdono per i torti subiti…». Sono alcune battute, con le quali il papa invitava tutti i cristiani a superare i nefasti pregiudizi del passato.
Gli ortodossi rappresentano il 55% della popolazione e i cattolici l’11%. Vi sono anche piccole minoranze di protestanti, ebrei e musulmani, mentre il 30% si dichiara ateo.
Le contese non dividono solo gli ortodossi dai cattolici, ma anche gli stessi cattolici, distinti in rito greco-cattolico (9%) e rito latino-cattolico (2%). Gli ortodossi hanno disprezzato e disprezzano i greco-cattolici, chiamandoli «uniati» (uniti al pontefice romano).
Nel 2001 papa Wojtila invitò tutti a riconoscere «l’ecumenismo dei testimoni dell’unica fede cristiana», anche se vissuta in denominazioni differenti. Inoltre sottolineò «l’ecumenismo dei martiri»: martiri ortodossi, cattolici e protestanti. Nel ’900 la sola Ucraina vide soccombere, sotto i colpi della guerra, del nazismo e del comunismo, ben 17 milioni di persone, appartenenti a diversi credo.
Le persecuzioni subite dai cattolici sono rievocate, in parte, da Iryna Kolomyec, dell’università cattolica di Leopoli, figlia del prete greco-cattolico Stephan Kolomyec (ndr: i sacerdoti greco-cattolici possono sposarsi).
Padre Stephan fu vittima del comunismo. A partire dal 1935, divenuto parroco in un villaggio, esercitò il ministero (con fatica) sino alla fine della 2a guerra mondiale, allorché venne brutalmente arrestato dalla polizia Kgb e condannato a 10 anni di lavori forzati. Morto Stalin, nel 1954 Stephan ritoò a casa. La moglie Maria non lo riconobbe più, tanto era sfigurato per gli stenti patiti. Riprese a esercitare il ministero pastorale. Ma la Kgb lo ricercava. Il sacerdote, saputolo, fuggì nell’Ucraina orientale, dove lavorò come contadino in un kolkoz. Ma nella pasqua del 1969 la polizia lo scovò e ricacciò ai lavori forzati e, poi, agli arresti domiciliari. Padre Stephan morì nel 1974 a 65 anni…
Leonid è un prete cattolico polacco di rito latino: solleva l’annoso problema della restituzione ai legittimi proprietari degli edifici di culto, requisiti dal regime comunista. Da otto anni è responsabile della comunità cattolica di Sebastopoli (Crimea). Ma la chiesa è un cinema dal 1935, allorché il parroco finì nel famigerato carcere Lubjamka di Mosca e poi fucilato. Malgrado tutto, padre Leonid è contento. Anche i rapporti con gli ortodossi sono cordiali; vi sono pure incontri interconfessionali per esaminare insieme i problemi sociali e religiosi…
Un pomeriggio concelebriamo l’eucaristia in una stanza dell’appartamento del sacerdote, in un condominio, con alcuni fedeli. L’attesa di tutti è che il cinema, all’angolo della strada, ridiventi chiesa.

Odessa. Celeberrima è la scalinata della città, immortalata dal film La corazzata Potemkin di Sergej Ejzenstejn (1925). Il capolavoro racconta la rivolta dell’equipaggio della nave russa Potemkin, che raggiunge Odessa. L’ammutinamento scoppia perché il medico di bordo dichiara commestibile carne marcia. La gente è solidale con l’equipaggio. Ma la polizia dello zar affoga nel sangue la ribellione. Fra le vittime c’è una mamma, con una carrozzina, sulla sommità della scalinata di Odessa. Colpita a morte, la donna abbandona la carrozzina, che precipita lungo la gradinata. Finché si rovescia. La scena del film è apparsa anche un preludio dei tragici «kapitomboli» nei paesi dell’Unione Sovietica.

Francesco Beardi