GUATEMALA – Viaggio in America centrale (4)

RICOSTRUIRE LA AMEMORIA PER RICOSTRUIRE LA PACE

La maggioranza della popolazione del Guatemala è formata dai discendenti degli antichi maya, la cui storia è segnata da tre genocidi. L’ultimo (1954-96) riporta cifre agghiaccianti: 250 mila tra assassinati e desaparecidos, 100 mila orfani,
1,5 milioni di rifugiati e sfollati.
La strada della pace e riconciliazione nazionale è tutta in salita, perché i responsabili del genocidio rimangono impuniti e le leve dell’economia e della politica sono sempre in mano a una minoranza di bianchi e meticci. Eppure non mancano segni concreti di speranza.

Ricordando la loro storia dalla colonizzazione a oggi, gli indigeni maya del Guatemala parlano di tre genocidi. L’ultimo è terminato, dopo 36 anni di guerra civile, con gli accordi di pace nel 1996. Ma a distanza di quasi 10 anni, la società civile guatemalteca sta ancora tentando di costruire una nuova cultura di pace e una riconciliazione inclusiva, cioè, estesa a tutti i guatemaltechi, compresi i responsabili dei crimini compiuti durante la guerra.
TRAGEDIA IN TRE ATTI
Il primo genocidio ebbe inizio nel 1524, quando le truppe di Pedro de Alvarado, luogotenente di Hean Cortez, invasero le terre dei maya, dove le popolazioni indigene abitavano da più di 12 mila anni: territorio poi chiamato dagli invasori «Capitaneria generale del regno del Guatemala».
Occupazione e colonizzazione del Mesoamerica si tradussero in politica di saccheggio, schiavizzazione e sterminio a danno delle popolazioni autoctone, a vantaggio degli interessi espansionistici, economici e religiosi dei sovrani e della società spagnola dell’epoca.
In effetti, nel giro di pochi decenni del xvi secolo, le popolazioni maya furono decimate, sia dalle malattie portate dai conquistatori, contro le quali gli indigeni non avevano difese immunitarie, sia dalle fatiche e stenti a cui furono sottoposti nelle miniere d’oro e d’argento, dove lavoravano come schiavi. Nonostante i tre secoli di colonizzazione diretta, il regime coloniale non riuscì a troncare il legame che univa i popoli indigeni con la propria cultura.
Il secondo genocidio iniziò a metà del secolo xviii, con l’invenzione dei coloranti artificiali in Europa: tale scoperta ebbe forti ripercussioni in Guatemala, allora paese esportatore di tinture vegetali, provocando una grave crisi economica.
Per risolvere tale crisi, l’élite filo-europea allora al potere introdusse la coltura intensiva del caffè. Per incrementare la produzione, la cosiddetta «Riforma liberale», nel 1871, espropriò le terre comunitarie degli indigeni maya, acquistate poi dai grandi latifondisti meticci per la creazione di piantagioni di caffè.
La «Riforma liberale» imprigionò gli indigeni nella loro stessa terra, costringendoli a diventare braccianti stagionali. Cominciò un secondo periodo di genocidio fisico e culturale per la popolazione maya, nella cui spiritualità la terra è considerata «dea madre».
Il terzo periodo tragico ebbe inizio nel 1954 con la fine della cosiddetta «rivoluzione di ottobre», chiamata poeticamente dai guatemaltechi: «I dieci anni di primavera nel paese dell’eterna dittatura». In effetti, finita questa rivoluzione, iniziò la lunga successione di dittature militari, durata più di 40 anni.
SOTTO IL TALLONE MILITARE
Per capire il significato della «rivoluzione di ottobre» bisogna andare al 1944. Il governo progressista di Juan José Arévalo, democraticamente eletto, diede il via a riforme economiche e sociali di ampia portata, tra cui l’estensione del diritto di voto alle donne (1945). Fu pure progettato un vasto programma di riforma agraria, ideato dal presidente Jacobo Arbenz a cavallo degli anni ’50.
Tale riforma, però, minacciava gli interessi della transnazionale nordamericana United Fruit Company (Ufco), che all’epoca possedeva il 2% delle terre del paese, molte delle quali lasciate incolte, e sfruttava gli indigeni, usati come braccianti con salari da fame. La riforma agraria proponeva la ridistribuzione di 100 mila acri di terra di proprietà dell’Ufco.
Per l’esproprio la Compagnia sarebbe stata indennizzata in base al valore dichiarato nel pagamento delle imposte allo stato guatemalteco. Il governo sapeva, infatti, che la United Fruit Company aveva da sempre falsificato il valore reale delle proprietà terriere per trarre il massimo beneficio dall’evasione fiscale.
Di fronte a questa riforma, John Foster Dulles, segretario del Dipartimento di stato Usa, oltre che azionista e avvocato della Compagnia, fece pressioni sul governo statunitense per ottenere la condanna del governo guatemalteco di Arbenz. La reazione dell’amministrazione di Dwight Eisenhower fu immediata: la riforma agraria venne dichiarata «una minaccia per gli interessi americani» e Allen Dulles, direttore della Cia ed ex presidente dell’Ufco, fu incaricato di organizzare un’invasione, partendo dall’Honduras, per «ristabilire l’ordine in Guatemala».
Era il 1954. Centinaia d’indigeni, operai e leaders contadini furono catturati e fucilati, le terre restituite alla United Fruit Company e il governo di Arbenz rovesciato; al suo posto fu insediato il colonnello Carlos Castillo Armas, che arrivò in Guatemala nell’aereo privato dell’ambasciatore Usa.
Seguirono sei anni di instabilità politica, sfociata in una serie di governi militari, contro cui insorsero vari movimenti rivoluzionari armati. Dal 1960 l’esercito iniziò a terrorizzare il Guatemala con repressioni, violenze, torture e massacri contro le comunità indigene. Il genocidio fisico e culturale raggiunge il culmine negli anni ’80. Le forze armate adottano la strategia della «terra bruciata». Per eliminare l’appoggio alla guerriglia, 400 comunità indigene vengono disarticolate e ristrutturate, secondo un progetto di ingegneria sociale, in «poli di sviluppo», cioè, «villaggi modello», in cui i contadini furono trasferiti e costretti a produrre per l’esportazione e non per l’autosostentamento.
Sotto la vigilanza stretta dell’esercito, essi venivano indottrinati. Una vasta rete d’informatori bloccava qualsiasi manifestazione di dissenso. Molti contadini e indigeni furono costretti a entrare nelle Pattuglie di autodifesa civile (Pac), una sorta di gruppi paramilitari che, sotto il controllo dell’esercito, dovevano combattere la guerriglia.
Vari tentativi di ritorno alla democrazia furono frustrati dall’ingerenza dei militari, che proseguirono nella violazione dei diritti umani, in massacri e assassini politici fino al 1996, quando vennero firmati gli accordi di pace tra il governo, guidato da Alvaro Arzú del Partito progressista nazionale, e l’Unione rivoluzionaria nazionale guatemalteca (Ug), formata fin dal 1982 dai tre principali gruppi guerriglieri.
RICERCA DELLA MEMORIA
Finito il conflitto, rimangono le ferite da rimarginare, come racconta una leader indigena, Maria Ebedarda Tista, cornordinatrice del Comitato nazionale delle vedove del Guatemala (Conavigua). «La nostra organizzazione è sorta negli anni ’80, durante la repressione perpetrata dall’esercito e “squadroni della morte”. È composta prevalentemente da vedove che, fin dall’inizio, si sono poste l’obiettivo di appoggiare la smilitarizzazione del territorio e la ricerca della pace. Oggi Conavigua lavora in 12 dipartimenti del Guatemala, prevalentemente nell’ambito della ricostruzione della memoria e delle esumazioni.
Le donne sopravvissute al genocidio continuano a cercare i loro familiari desaparecidos, fino a denunciare davanti ai tribunali le ingiustizie subite e chiedere le esumazioni dei resti dei familiari, sepolti in più di mille cimiteri clandestini in tutto il territorio guatemalteco. È l’aspetto più importante: queste donne sono riuscite ad arrivare alle autorità giudiziarie, fatto insolito per una indigena in questo paese, e avviare i processi contro i loro carnefici, responsabili di 250 mila morti tra assassinati e desaparecidos».
Purtroppo si assiste a un fenomeno preoccupante, precisa la leader indigena: «Molte di queste donne ricevono intimidazioni e minacce e sono perfino oggetto di attentati, per far sì che desistano dal loro proposito di chiedere giustizia».
Al momento la quasi totalità dei responsabili del genocidio restano impuniti, protetti dalla connivenza dell’élite politica e dal loro passato di potenti gerarchi dell’esercito. Uno dei più feroci dittatori contemporanei, per esempio, l’ex generale Rios Montt, ha avuto l’ardire di candidarsi alle presidenziali del 2003, con una campagna elettorale di intimidazioni e violenze, gettando di nuovo il paese nel terrore.
Il recente passato del Guatemala continua a pesare enormemente sul presente, come spiega la signora Tista: «L’impatto culturale dello sterminio delle comunità indigene, per noi donne, ha significato la perdita dei nostri diritti fondamentali, della nostra cultura e, al tempo stesso, la proibizione delle nostre credenze e tradizioni culturali. Per esempio, nella nostra cultura gli anziani hanno un ruolo centrale, perché concentrano in sé tutta la saggezza tramandata oralmente di generazione in generazione: sono una “biblioteca vivente”. Ebbene, questi anziani non hanno avuto lo spazio d’insegnare alla nostra gente questo sapere millenario, perché per più di tre decenni hanno dovuto restare in silenzio, fuggendo dalla guerra.
Inoltre, cosa ancor più grave, molti di essi sono stati rapiti e assassinati dall’esercito, in cui militavano molti indigeni che, quindi, sapevano dell’importanza degli anziani nelle nostre società indigene. La nostra cultura ha subito una specie di amputazione. Tuttavia abbiamo resistito, nella convinzione di avere il diritto di sopravvivere, conservando la cultura e cosmovisione maya. Nonostante tutto, siamo ancora il 70% della popolazione del paese».
NUNCA MAS
«Un paese senza memoria e autocoscienza della propria storia – dicono i guatemaltechi -, non riuscirà a costruire una pace duratura». Per rimarginare le ferite aperte nel tessuto sociale occorre conoscere la verità di quanto è accaduto; altrimenti la pace sarà sempre fragile.
La ricerca della verità è lo scopo principale del «Progetto interdiocesano di recupero della memoria storica» (Remhi) che, nell’immediato dopoguerra, ha pubblicato il rapporto Guatemala nunca más (Guatemala mai più), pietra miliare del processo di chiarificazione storica.
Questo rapporto, promosso dall’Ufficio per i diritti umani dell’arcidiocesi di Città del Guatemala (Odhag), fu fortemente voluto dal vescovo della capitale, mons. Juan Gerardi, che tre giorni dopo la pubblicazione venne assassinato. In Guatemala nunca más, frutto di meticolose indagini, mons. Gerardi denunciava dettagliatamente gli omicidi e altri crimini contro i diritti umani perpetrati dai militari durante la guerra. Vi sono registrati 663 massacri. Finora, in 12 anni di lavoro, sono state realizzate 381 esumazioni, il 57% dei massacri registrati; ma si stima che ce ne siano altrettanti non ancora scoperti. In 36 anni di conflitto ci sarebbero state oltre mille esecuzioni di massa.
Il lavoro di riesumazione, in cui è impegnato anche l’Odhag (vedi riquadro), è fondamentale per la ricostruzione della verità: è la chiave di volta per una vera pacificazione del Guatemala attuale. Ma non basta. Oltre che ricostruire la memoria storica della società guatemalteca, l’Odhag è impegnato nella ricerca di nuove forme di convivenza, nel rafforzare l’organizzazione comunitaria, nel costruire una nuova cultura di pace, affinché mai più si ripeta la violenza sofferta nel passato.
OCCORRONO RISARCIMENTI
Tutto questo lavoro indica che la situazione sta cambiando in meglio; ma è indispensabile che a tali sforzi seguino azioni concrete per elevare la qualità della vita di comunità e persone che hanno vissuto sulla propria pelle il flagello della violenza. Il processo di pace e riconciliazione deve portare a gesti di risarcimento.
A tale proposito è stato creato il Programma nazionale di risarcimento (Pnr), a capo del quale c’è Rosalina Tuyuc, ex deputata e leader indigena guatemalteca. «Come strategia di lavoro usiamo la riparazione tanto materiale quanto psicologica – spiega la signora Tuyuc -. Il nostro obiettivo è quello di creare un registro nazionale delle vittime e delle esumazioni. Inoltre, vogliamo assicurare un risarcimento alle vittime della guerra e riparare i danni psicologici e fisici causati da torture, esecuzioni extra giudiziarie, stupri e tutti i delitti di lesa umanità commessi dall’esercito, agenti della polizia segreta e gruppi paramilitari.
I membri indigeni che partecipano al Pnr esigono che il progetto abbia anche una dimensione culturale, che costruisca, cioè, una mappa dei centri cerimoniali distrutti e delle comunità indigene smembrate. Tali dati sono importanti per riuscire a contestualizzare la vastità e gravità delle conseguenze che la guerra ha lasciato nei popoli indigeni. Finora abbiamo in mano dati molto generici. Si sa, ad esempio, che ci sono attualmente 663 cimiteri clandestini, ma non si sa quanti siano i cimiteri per ognuna delle 23 comunità linguistiche; ci sono stati un milione e mezzo di profughi, ma ancora non sappiamo da quali comunità linguistiche provengono».
Rosalina Tuyuc ci tiene a sottolineare che «l’impatto culturale del conflitto ha danneggiato il tessuto sociale comunitario dei popoli indigeni, ha provocato la distruzione dei terreni comunitari e l’interruzione dell’esercizio sia delle guide spirituali maya che delle autorità indigene. Abbiamo il bisogno di conoscere il grado di smembramento e distruzione provocato nella nostra società indigena, per calcolare il tempo necessario per ricostruire e, soprattutto, sapere da dove iniziare».
Una delle mete a cui punta il Pnr è incamminare il Guatemala sulla strada della costruzione della pace, mediante una riconciliazione duratura. «Questa, però – conclude Rosalina Tuyuc -, sarà possibile solamente quando coloro che hanno partecipato al disegno ed esecuzione delle violenze contro uomini, donne e bambini, riconosceranno le loro responsabilità e ne pagheranno le conseguenze».
PIÙ SPAZIO ALLE DONNE
Norma Isabel Santic Suque, presidente dell’Associazione politica di donne maya (Moloj), sottolinea un altro aspetto importante del processo di pace e riconciliazione nazionale: la partecipazione delle donne indigene nella vita politica del paese. In Guatemala, infatti, le donne indigene sono la categoria più emarginata della società, una discriminazione più forte di quella razziale.
Moloj è una associazione sorta nel 1999, in occasione della prima tornata elettorale dopo la pace del 1996, con lo scopo di creare spazio e formazione complessiva alle donne indigene. «Noi donne siamo praticamente escluse dalla partecipazione politica guatemalteca, per mancanza di strumenti giuridici e politici – spiega Norma Isabel -. Moloj vuole colmare questo deficit democratico a livello nazionale e internazionale. Vogliamo offrire alle donne una formazione politica, in cui siano integrati gli elementi della cultura, cosmovisione e spiritualità maya. Cerchiamo di creare spazi in cui le donne leader indigene, nelle 23 comunità linguistiche presenti in Guatemala, possano crescere interiormente senza perdere la loro identità e senza rinunciare alle loro credenze e pratiche culturali proprie della tradizione maya.
Nel processo di globalizzazione in atto, infatti, esistono molti meccanismi che allontanano i popoli indigeni della loro cultura. Tutto ciò implica gravi conseguenze: rischiamo di non trasmettere ai giovani i valori maya o lasciamo loro in eredità un patrimonio culturale viziato».
Per questo l’Associazione ha tessuto una rete di donne maya, una classe dirigente, pronta ad assumere responsabilità civili. Tra le varie iniziative formative figura il corso di laurea biennale in «Gestione politica maya», avallato dalla facoltà di Scienze politiche presso l’Università statale San Carlos de Guatemala. Frequentando tale corso, molte donne maya hanno imparato a conoscere i propri diritti e il valore della politica come strumento di pace; al tempo stesso hanno potuto approfondire la conoscenza della cosmovisione maya.
DEMOCRAZIA INCLUSIVA
«Molti punti del trattato di pace del 1996 restano ancora incompiuti – continua Norma Isabel -. Per esempio, è stato impossibile concretizzare l’accordo sul tema dell’identità, nonostante le chiare proposte che abbiamo avanzato in proposito. E questo perché ci troviamo di fronte uno stato che non ha la volontà politica di migliorare la situazione dei popoli indigeni; è uno stato basato sull’esclusione: non permette che le proposte dei popoli indigeni si integrino nella coice giuridica istituzionale attuale.
Noi vorremmo vivere in una democrazia partecipativa, che includa tutti; una democrazia che si costruisce giorno per giorno mediante il dialogo. Abbiamo avuto alcune esperienze di dialogo con il governo, anche in passato; ma nessuno ha messo i diritti dei popoli indigeni tra le priorità nazionali. Sono state fatte manifestazioni di massa, a cui hanno partecipato le comunità indigene, venute dalla campagna dopo giorni di viaggio a piedi, per consegnare alle istituzioni l’agenda politica contenente le priorità dei popoli indigeni; ma non è servito a nulla. Gli accordi di pace continuano a essere violati. Noi indigeni abbiamo il diritto di ricevere risposte concrete, perché è ora di essere trattati come cittadini del Guatemala, non come stranieri nella nostra terra».

Josè Carlos Bonino




BIRMANIA Liberi dalla paura

La leader birmana e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, parla alle nostre coscienze.
Note per una vera conversione.

Era il 1998. Una sera, di passaggio in una libreria di Baltimora, mi capitò in mano un libro fotografico di donne importanti. Sfogliandolo, mi soffermai su un ritratto di donna che emanava una bellezza singolare: guardava verso l’obiettivo della macchina fotografica con tranquillità, pace, fermezza, senza durezza o arroganza. Lessi il nome della donna; un nome complicato, composto di tre o quattro parole, che avevo già udito e che era stato citato sulla stampa recentemente. Non avrei mai immaginato che il pensiero e gli scritti della persona di cui stavo guardando il ritratto fossero destinati a influenzarmi, fino a cambiare alcuni aspetti della mia vita.

PAESE DIMENTICATO

Due anni fa mi fu chiesto di scrivere un articolo su Aung San Suu Kyi. All’inizio avevo accettato felicemente, ma in un secondo tempo mi ero scoraggiato. Che cosa potevo raccontare di questa persona?
Ma un giorno di marzo di quest’anno ho iniziato a pensare più seriamente a quest’idea e ho trovato due motivi che mi hanno scrollato dalla mia apatia. Il primo è che ogni volta che provo a discutere la situazione della Birmania la gente sembra cadere dalle nuvole: non ne sa assolutamente nulla, non per disinteresse, ma piuttosto per la scarsa informazione sull’argomento.
Altre nazioni che lottano per ottenere giustizia, come il Tibet, possono contare su persone celebri che perorano la loro causa in Occidente e nel mondo. Quella della Birmania, invece, è una lotta dimenticata: la repressione di 45 milioni di abitanti va avanti indisturbata.
Il secondo motivo è che mi accorgo sempre di più come la filosofia non violenta di Aung San Suu Kyi e della Lega nazionale per la democrazia (Nld) indichino un cammino di rinnovamento e di cambiamento interiore d’importanza fondamentale per il mondo, specialmente in questo periodo in cui le forze della violenza e della paura sembrano prendere il sopravvento.
In Birmania come in Tibet sono in corso due dei rari tentativi al mondo di cambiare lo status quo attraverso la non violenza. Dimenticare la lotta per la democrazia in Birmania e, soprattutto i valori sui quali tale lotta è basata sarebbe disastroso non solo per il popolo birmano, ma anche per il mondo intero.
Inoltre, la visione di cambiamento non violento propugnato dalle forze democratiche in Birmania è in perfetta consonanza con il concetto della conversione cristiana.


GOVERNATI DALLA PAURA

La Birmania è uno stato del sud-est asiatico di rara bellezza, ricco di risorse naturali. Il suo territorio è popolato da diversi gruppi etnici di cui quello dei birmani è il prevalente. Dal 1962, il paese è dominato da una giunta militare, che costituisce uno dei regimi più brutali e violenti che esistano al mondo. Tale giunta, conosciuta in precedenza con il sinistro acronimo Slorc (State law and order restoration council), è ora chiamata Spdc (State peace and development council), dopo che una ditta di relazioni pubbliche americana aveva suggerito il cambiamento del nome a fini «cosmetici».
L’Spdc mantiene la popolazione sotto un pugno di ferro, imponendo lavori forzati, lavoro minorile e reprimendo violentemente ogni tentativo d’instaurare nel paese un qualunque dibattito politico.
Il popolo birmano vive totalmente isolato dal resto del mondo. La legge proibisce, infatti, il possesso e l’uso di fax e modem e l’unica forma di stampa permessa è quella sponsorizzata dal governo. Di conseguenza, intere generazioni di birmani sono cresciute pensando di non potersi permettere nulla più del regime in cui vivono, dato che non hanno la possibilità di sapere come si vive in altre nazioni.
Ciò non toglie che molti birmani si oppongano a questa situazione e chiedano dibattito politico, riforme e democrazia. Alla fine degli anni ’80, il Movimento per la democrazia divenne molto attivo nel richiedere riforme al sistema, grazie soprattutto al coinvolgimento degli studenti universitari nel dibattito politico. Tale fermento causò un’ondata di repressione violenta da parte del governo. Fortunatamente, la Nld trovò un leader naturale nella persona di Aung San Suu Kyi.
All’età di due anni, San Suu Kyi perse in un attentato il padre Aung San, leader del movimento per l’indipendenza della Birmania negli anni ’40. Vissuta a lungo lontana dal suo paese, prevalentemente nel Regno Unito dove aveva sposato un cittadino britannico, era rientrata in Birmania nel 1988 per prestare le cure alla madre gravemente ammalata e che morì di lì a poco.
L’arrivo della donna in Birmania coincise fatidicamente con l’apice delle lotte politiche nel paese e, ben presto, la sua guida carismatica galvanizzò la Nld e i suoi simpatizzanti. Proprio in quel periodo e alquanto inaspettatamente, l’allora presidente dello Slorc, Ne Win, decise di concedere elezioni democratiche, contando, erroneamente, in una sicura vittoria del partito di regime. Le elezioni risultarono invece un trionfo a stragrande maggioranza della Nld, che si aggiudicò l’80% dei voti.
Come risposta, lo Slorc dichiarò l’invalidità delle elezioni e iniziò una violenta ritorsione contro gli esponenti della Nld, tra cui Aung San Suu Kyi, posta agli arresti domiciliari. Migliaia di altri membri del partito d’opposizione vennero aggrediti, arrestati, torturati e gli uffici del partito vennero chiusi.
Questo primo periodo di arresti domiciliari durò per più di cinque anni, a cui seguì un periodo di relativa libertà personale in cui, comunque, a San Suu Kyi venne negato il diritto di uscire dalla capitale Rangoon. Un tentativo di lasciare la città per recarsi a Mandalay, nel 2000, le procurò un altro lungo periodo di arresti domiciliari.
Da notare che la leader birmana si ritenne sempre fortunata per il trattamento a lei riservato, se comparato alla sorte di altri membri della Nld, sottoposti a condizioni inumane di carcerazione.
Nel 2003, fu di nuovo rilasciata, ma alcuni mesi dopo il regime sferrò un altro violento attacco contro la Nld, uccidendo circa 600 dei suoi membri e simpatizzanti. San Suu Kyi venne nuovamente arrestata e condannata agli arresti domiciliari, che perdurano fino ad oggi.

«RIVOLUZIONE SPIRITUALE»

Alcuni elementi della lotta per la democrazia in Birmania rendono San Suu Kyi un caso unico al mondo. Il più importante consiste nel basare l’opposizione al regime sulla non violenza, ispirata al buddismo militante. Tale atteggiamento è in aperto contrasto con la repressione violenta da parte del regime, che rispetta il buddismo solo a parole.
Alla base della filosofia di San Suu Kyi c’è la convinzione buddista che non vi è alcun male insito nella persona umana, ma quelle che chiamiamo cattive azioni sono dovute a quattro influenze negative: odio, illusione, avidità e paura.
La paura è la causa primaria che guida tutte le altre influenze negative. Per paura di cosa accadrà domani accumuliamo beni economici e questo provoca avidità. Per paura dell’ignoto, dell’aprirsi agli altri, diventiamo aggressivi e questo provoca rabbia. E così via.
Aung San Suu Kyi sottolinea come sia la paura ciò che governa la Birmania e che il paese non si disporrà a un vero cambiamento fino a quando questa paura non verrà rimossa. Propone quindi una «rivoluzione spirituale», nella quale il popolo deve prima di tutto liberarsi dalla paura, in tutti gli aspetti della vita, in una ricerca personale della libertà. Le persone che si sono liberate interiormente possono, a questo punto, liberarsi dalla repressione, dato che nessuno ha più il potere di paralizzarle con la paura.
A conferma di tale verità, la stessa leader birmana cita spesso un episodio vissuto da lei e un gruppo di membri del suo partito: mentre passavano di fronte a un drappello di soldati, questi intimarono loro di fermarsi, senz’altra ragione se non quella di molestarli. Gli esponenti della Nld rifiutarono di fermarsi e i soldati non ebbero il coraggio di sparare su persone inermi.
Atti di coraggio come questo riflettono la profonda serenità spirituale e l’identificazione delle idee politiche con le convinzioni religiose, elementi cari a Gandhi e ad altri combattenti non violenti. Questa filosofia incoraggia la creazione di un «popolo nuovo», che rifiuta la scelta di soluzioni violente dei conflitti.
Il più delle volte, le rivoluzioni armate sfociano in governi che, essendo formati da persone cresciute in condizioni repressive e di paura, perpetrano a loro volta gli errori dei regimi a cui si sostituiscono.
La Nld è cosciente del fatto che quando in Birmania sarà finalmente instaurato un regime democratico, sarà necessario sviluppare un processo attivo di riconciliazione nazionale, per evitare che parte della popolazione, lungamente vessata dal regime al potere, abbia la tentazione, se non addirittura la determinazione, di vendicarsi dei tanti abusi subiti.

BISOGNO DI SPERANZA

Esiste un’altra nazione dove si sta svolgendo una lotta simile: il Tibet. Ma mentre la situazione tibetana è abbastanza conosciuta, grazie anche agli sforzi di politici e personalità del mondo dello spettacolo, la Birmania non ha una stella di Hollywood che perori la sua causa. Il silenzio più assoluto copre, a livello mondiale, i soprusi, violazioni di diritti umani, uso del lavoro forzato e minorile, profitti incassati dal governo con il traffico di droga, campagne di pulizia etnica… che affliggono la Birmania e sulla lotta non violenta che si oppone a tutte queste aberrazioni.
Il giorno che perderemo il Tibet e la Birmania, perderemo i due esempi più significativi al mondo di non-violenza. Dobbiamo dare speranza alla Birmania.
In questo particolare momento storico, noi occidentali possiamo imparare molto da questa lotta. Alcuni avvenimenti recenti hanno fatto sì che si incrementasse nei paesi industrializzati l’uso del sistema del «governare con la paura». L’11 settembre e altri attentati terroristici, hanno innescato nella gente il timore di vivere in un mondo apparentemente pericoloso. I governi hanno pilotato la paura a loro vantaggio, iniziando guerre con falsi pretesti, diminuendo la tutela dei diritti umani.
Similmente, la paura di perdere il nostro stile di vita benestante ha incoraggiato l’applicazione di leggi economiche basate puramente sulla predominanza del profitto invece che sulla ripartizione delle ricchezze in modo giusto ed equo per tutti.
La teoria della «libertà dalla paura» ha molto da insegnarci; la sua applicazione va ben al di là di nuove opportunità democratiche per la Birmania e il Tibet. Abbiamo tutti bisogno di questa liberazione, se vogliamo perseguire il sogno di un mondo migliore. Di conseguenza, appoggiare la rivoluzione spirituale in Birmania implica qualcosa di più del dare un supporto politico a un paese tiranneggiato da un regime brutale. Appoggiare la causa birmana significa instaurare un cambiamento di regime nelle nostre vite.
Tale appello diventa ancora più importante per i cristiani, che condividono queste realtà di conversione integrale, di rivoluzione interiore, di vera libertà. Quante volte leggiamo nel vangelo le parole che Gesù rivolge ai suoi discepoli: «Non abbiate paura!».

CONTINUARE LA PRESSIONE

Mentre alcune nazioni, in maggioranza asiatiche, intrattengono relazioni economiche con il governo di Rangoon, alcuni governi di paesi occidentali hanno rivolto la loro attenzione ai problemi della Birmania, imponendo, in accordo con richieste della Nld, dure sanzioni economiche.
Unione Europea e Stati Uniti sono stati coerenti nel richiedere al regime, troncando nel frattempo relazioni economiche e diplomatiche, di concedere libere elezioni e rimettere il potere nelle mani di un governo democratico. Ma c’è ancora molto da fare.
Alcune associazioni svolgono un ruolo importantissimo nel mantenere la pressione sul regime. Negli Stati Uniti, per esempio, la Free Burma Coalition, ora chiamata US Campaign for Burma, è riuscita a convincere 86 ditte americane e multinazionali a chiudere i rapporti d’affari con la Birmania, a smettere di vendere prodotti made in Burma e a convincere l’esercito americano a non acquistare vestiario prodotto in quella nazione.
Anche queste azioni, come quelle adottate nella lotta birmana, sono state non violente: sono consistite soprattutto nello scrivere una grande quantità di lettere per scoraggiare relazioni d’affari con la Birmania. E non si pensi che un’organizzazione come l’US Campaign for Burma sia una grossa entità: in questi giorni l’associazione ha pubblicato l’annuncio: ricerca di candidati da cui scegliere la… terza persona pagata a tempo pieno. La determinazione porta molto lontano.
Anche dall’Italia è possibile appoggiare la lotta in Birmania, sostenendo, per esempio, eventuali iniziative che Amnesty Inteational e organizzazioni non governative operanti nel campo di giustizia e pace stanno attivando a favore del popolo birmano e dei prigionieri politici di quel paese.
Un altro modo è boicottare i viaggi in Birmania e i prodotti made in Burma, sia personalmente, sia convincendo gli altri a fare altrettanto, sia spiegando ad agenzie turistiche e negozianti ciò che avviene in quel paese, esortandoli a non rendersi complici delle ingiustizie che vi si compiono.
Naturalmente, prima di fare ciò, è necessario informarsi. La via della conversione, della liberazione dalla paura, comincia dall’informazione.

Alfredo Garzino Demo




Il miraggio dell’emigrazione

La guerra civile in El Salvador ha provocato milioni di profughi.
I governi neoliberisti che da una quindicina di anni guidano il paese non hanno portato alcun beneficio alle popolazioni rurali, che si sono riversate nella capitale, vivendo nella povertà ed emarginazione.
Dalla città l’emigrazione continua verso gli Stati Uniti: un quarto della popolazione salvadoregna vive negli Usa.
Il fenomeno dell’emigrazione continua, tra indicibili umiliazioni, anche se varie associazioni cercano di frenare tale esodo, con progetti di sviluppo solidale.

Con l’arrivo della globalizzazione, San Salvador, la capitale, riunisce in sé tutta la ricchezza e la miseria del paese. Negli ultimi anni si sono moltiplicati i tipici mali dei modei agglomerati urbani: mancanza d’acqua, povertà, ghettizzazione, violenza e inquinamento. L’esodo dei contadini, in fuga dalla miseria rurale e dalla guerra, ha invaso la città e di conseguenza l’ha fatta crescere a dismisura.
Dalla capitale, poi, quasi tutti gli uomini, tranne vecchi e bambini, sono emigrati verso gli Stati Uniti, dove vivono 2 milioni di salvadoregni. Le donne più giovani, invece, sono rimaste a San Salvador per spendere la loro giovinezza nelle maquilas dove vengono pagate molto poco, «giusto quanto serve perché non muoia il lavoratore, perché non muoia lo sfruttato» si dice nel paese.
Il resto, donne e uomini contadini – una buona parte della popolazione economicamente attiva – lavorano nel settore informale, o sono andati a ingrossare l’esercito dei venditori ambulanti oppure girano per le strade del centro della città.
Durante il giorno li si vede trafficare tra le bidonvilles e i nuovi centri commerciali, copia identica di quelli degli Stati Uniti; tuttavia i margini di consumo e il modello di «progresso» di questo ingombrante vicino (il Nord America), trasferiti in un paese povero, rappresentano solamente un «miraggio» in termini di stabilità macroeconomica.
Infatti questi nuovi centri commerciali sono stati costruiti e, soprattutto, progettati per assorbire i 2.200 milioni di dollari che i 2 milioni di emigrati salvadoregni presenti in Usa mandano ogni anno alle proprie famiglie rimaste in patria. Tale flusso di denaro supera di 20 volte le esportazioni di caffè, che a loro volta rappresentano il 70% del totale delle esportazioni di El Salvador.

DIRITTI CALPESTATI

In queste circostanze è iniziato il nostro viaggio per San Salvador, con l’intenzione di capire più a fondo tale situazione, cercando, soprattutto, di ascoltare i leaders della società civile del paese. Abbiamo visitato la Commissione per i diritti umani di El Salvador (Cdhes). Tale Commissione, non governativa, fu fondata nel 1978 e da allora è impegnata nella difesa dei diritti umani del popolo salvadoregno, denunciando i soprusi a livello nazionale e internazionale.
Evidentemente, il lavoro di 26 anni nell’impegno per la giustizia è stato giudicato «scomodo», al punto da avere causato la perdita di 7 attivisti, assassinati o fatti sparire dalle forze militari. Tra loro Marianela García, che è stata la principale fondatrice di questa organizzazione, insieme al presidente Herber Anaya e altri cinque colleghi che hanno creduto in questo impegno di giustizia.
L’attuale direttore della Cdhes, Miguel Montenegro, oltre a parlarci del lavoro odierno della Commissione, ci ha raccontato un po’ della storia travagliata del paese: «El Salvador misura 21.000 kmq, con un’alta densità demografica: attualmente conta più di 6 milioni di abitanti residenti, oltre 2 milioni di emigrati negli Stati Uniti e altre migliaia in vari paesi del mondo.
La storia contemporanea del paese è segnata da diverse tappe. In un primo periodo sono stati violentati prevalentemente i diritti umani nella campagna. Verso gli anni ’20 El Salvador era praticamente un paese esportatore solamente di caffè, finché nel 1929, in conseguenza della crisi economica mondiale, il caffè restò senza mercato: la raccolta non si effettuò e migliaia di braccianti e contadini poveri soffrirono la fame.
A causa di questa situazione, lo scontento popolare crebbe fino a scoppiare in rivolta, nel 1932, guidata da Farabundo Martí. La ribellione fu soffocata nel sangue, con massacri perpetrati dalle truppe del generale Maximiliano Heández. La repressione fece 12 mila morti. Iniziò così una serie di regimi militari che durò per mezzo secolo».
«Tra gli anni ’60 e ’70 – continua Miguel Montenegro – i diritti umani vengono calpestati prevalentemente in città. In questi anni, infatti, la gente inizia a emigrare verso le aree urbane, per l’avvento dell’industrializzazione nell’ambito del Mercato comune centroamericano. Gli alti indici di crescita raggiunti, non furono sufficienti per abbattere la disoccupazione e lo scontento per le ingiustizie si trasferì in città.
Seguì un altro periodo di violenta repressione, portata avanti da differenti “corpi di sicurezza” e dalle forze armate. È in questo momento che iniziano l’organizzazione e la denuncia da parte nostra. Nel 1977, infatti, la contestazione civile era scesa per le strade e la repressione era stata dura e indiscriminata, causando oltre 7 mila morti.
L’impotenza e la mancanza di alternativa politica fecero esplodere il conflitto armato. Scoppiata nel 1980, la guerra civile durò per 12 anni, con un conto salatissimo: 80 mila persone assassinate, più di 7 mila desaparecidos e circa un milione di profughi. Dopo questo periodo estremamente difficile per El Salvador, nel 1992 furono firmati gli accordi di pace tra il movimento guerrigliero Farabundo Martí para la Liberación Nacional (Fmln) e il governo ed esercito, soggetti che in quel momento si equivalevano totalmente».
«Attualmente stiamo vivendo in tempo di post-guerra – conclude Miguel Montenegro -. Continuiamo a difendere i diritti economici, sociali e culturali, che sono quelli più calpestati. Certo, rispetto al periodo del conflitto armato e immediatamente dopo la firma degli accordi di pace, i diritti umani vengono violati in minore misura, ma continuano a essere ancora a rischio. La “Polizia nazionale civile”, per esempio, sorta dagli accordi di pace, defrauda le aspettative e speranze dei salvadoregni, commettendo abusi, torture, minacce di morte ai civili. Un comportamento che ubbidisce a una politica di stato: serve strategicamente a garantire la sicurezza di quei settori della società economicamente benestanti, che hanno in mano il potere e che lo utilizzano contro i poveri».

PER QUALCHE DOLLARO IN PIU’

Uno dei fenomeni sociali più importanti e drammatici di El Salvador è quello dell’emigrazione. Il problema investe la storia contemporanea di tutta l’America Latina in generale, ma riguarda in modo particolare i paesi del Centro America.
Il grande flusso migratorio dall’America Centrale verso gli Stati Uniti si spiega, da un lato, per la vicinanza geografica e, dall’altro, per il fatto che tutti i paesi centroamericani, tranne il Costa Rica e in parte il Panama, appartengono ormai al «quarto mondo», secondo la definizione del sociologo francese Serge Latouche. Tra i paesi dell’America Centrale, El Salvador è l’unico ad avere un quarto della sua popolazione residente negli Stati Uniti, prevalentemente concentrata a Los Angeles e New York, dove abita più di un milione, metà dei salvadoregni che vivono negli Usa.
In questo flusso migratorio verso gli Stati Uniti, i più vulnerabili sono i salvadoregni che emigrano per via terra e in maniera illegale. Essi sono costretti a emigrare perché divenuti oggetto dell’ingiustizia sociale nel loro paese.
Nell’ultimo decennio, infatti, in El Salvador il divario tra ricchi e poveri è aumentato di ben 24 volte. Ciò significa che il 20% delle famiglie più povere di questo paese partecipa alla ricchezza nazionale per un misero 2,4% (famiglie intere che vivono con meno di un dollaro al giorno); mentre il 20% delle famiglie più ricche si appropria del 58,3% della ricchezza nazionale.
È questa ingiustizia a spingere i salvadoregni a imboccare la strada dell’emigrazione, un autentico calvario, in cui devono subire maltrattamenti, da parte delle autorità migratorie nei paesi di transito, e i continui inganni dei coyotes, come vengono chiamati gli individui che trasportano illegalmente le persone attraversando Guatemala e Messico e le frontiere degli Stati Uniti.
Soprusi e angherie non finiscono con il viaggio, ma continuano nel paese d’arrivo, senza parlare del fatto che soltanto l’1% dei salvadoregni che intraprende la strada dell’emigrazione verso gli Stati Uniti, riesce ad arrivare alla meta.
Le donne emigranti sono la categoria più vulnerabile dopo i bambini. Queste donne, di solito sopra i 30 anni, si vedono obbligate a emigrare sia per il salario da fame che offre la maquila, sia per le difficili condizioni di lavoro a cui sono sottoposte: la vita lavorativa nelle maquilas finisce a 30 anni.
La sorte delle donne emigranti è drammatica: non avendo soldi per sopravvivere e per continuare il viaggio, si vedono loro malgrado coinvolte nella prostituzione. Altre decidono di consegnarsi alle autorità migratorie e sono costrette a rientrare a El Salvador come deportate.
A partire dal 2000, è iniziata anche l’emigrazione dei bambini, chiamati coyotitos: partono da soli da El Salvador per ricongiungersi ai genitori negli Stati Uniti. In alcuni casi, bambini e ragazzi tra i 10 e i 15 anni sono stati utilizzati alle frontiere per trasportare e smistare droga; oppure, in attesa di continuare il loro viaggio, questi minori vengono usati per vendere cocaina e marijuana a Guatemala City e a Città del Messico e finiscono per chiedere l’elemosina quando vengono «scartati» dai pusher. (Il viaggio della droga inizia in Colombia, passa per l’America Centrale e arriva negli Stati Uniti; da qui riparte per Spagna e Portogallo ed è smistata in tutta l’Europa).
Miguel Montenegro della Cdhes illustra ulteriormente la situazione degli emigranti: «Ai 2 milioni di salvadoregni emigrati negli Usa, molti altri se ne aggiungono ogni giorno; il fenomeno continuerà a lungo anche in futuro, perché la situazione economica di questo paese non sembra affatto migliorare. Inoltre, bisogna ricordare che, oggi, El Salvador sopravvive grazie alle rimesse degli emigrati; tali rimesse sono la voce più importante per quanto riguarda l’ingresso di dollari nel paese, valuta indispensabile per l’economia salvadoregna, soprattutto da quando è in vigore la dollarizzazione».
«Se è pessimo il trattamento riservato ai salvadoregni durante il viaggio verso gli Stati Uniti – conclude Miguel Montenegro – ciò che gli emigranti centroamericani incontrano nel nuovo paese non è certo migliore. Le politiche migratorie del governo degli Stati Uniti e l’applicazione di leggi sempre più restrittive sfociano spesso in atti di violenza che attentano alla vita dei migranti. Le autorità frontaliere sono arrivate a utilizzare armi con proiettili di gomma e bombe lacrimogene per disperdere i migranti che si avvicinano alla frontiera Usa. Inoltre, la legislazione in vigore tratta i migranti come delinquenti, quando in realtà sono solamente persone che cercano un lavoro più remunerativo, per soddisfare alle necessità elementari dei familiari rimasti nei rispettivi paesi».

DALLA CAMPAGNA ALLA CITTÀ

Di fronte a tale fenomeno, viene spontaneo domandarsi: dove inizia tale esodo, che negli ultimi 10 anni ha coinvolto il 20% della popolazione salvadoregna? Oggi, il 60% della popolazione del paese abita in città, mentre un decennio fa era il 40%.
Molte delle famiglie che emigrano nella capitale, San Salvador, e verso altri centri urbani, svolgono attività di commercio informale e finiscono praticamente per riprodurre la situazione di miseria che avevano in precedenza, senza ottenere nel medio e lungo termine un miglioramento delle loro condizioni di vita.
A San Salvador abbiamo incontrato Hugo Flores, direttore dell’Associazione per la cooperazione e lo sviluppo comunitario di El Salvador (Cordes). Da più di 15 anni questa associazione tenta di fermare l’esodo rurale e ha aiutato i profughi, alla fine della guerra, a ritornare nelle proprie comunità e a ricostruire la loro vita, utilizzando come strategia un nuovo modello di sviluppo associativo e sostenibile: creare, cioè, opportunità che non siano in contrasto con l’ambiente naturale circostante.
«Cordes è sorta nel 1988 – spiega Hugo Flores -, durante il processo di rimpatrio di migliaia di famiglie che all’inizio degli anni ’80, per fuggire al conflitto armato, si erano rifugiate in diversi paesi dell’America Centrale e nelle zone più intee di El Salvador. In tale contesto la nostra associazione ha accompagnato queste famiglie nella situazione di emergenza e reinserimento, aiutandole a risolvere le necessità più urgenti, come alloggio, scuola, sicurezza alimentare e sanitaria. Inoltre, Cordes si prefisse il compito di accompagnare queste famiglie nella lotta per il rispetto dei diritti umani che in quegli anni erano costantemente violati dalla dittatura militare.
Nel 1992, con la firma degli accordi di pace, abbiamo iniziato un processo di riorganizzazione strategica, che ci ha portato a specializzarci sul tema dello sviluppo rurale sostenibile. In questo modo, da una parte ci proponiamo di risolvere il problema della sicurezza alimentare e dall’altro di generare reddito e lavoro a circa 5 mila famiglie, promuovendo 5 programmi nella campagna salvadoregna.
Il primo riguarda progetti agricoli e di allevamento nell’ambito della sicurezza alimentare, indispensabile per contenere l’impoverimento della campagna salvadoregna; il secondo è un programma finanziario che promuove la creazione di cornoperative di risparmio e credito, come enti al servizio di queste famiglie. Attualmente in tutte le cornoperative funzionanti si hanno complessivamente 5 mila soci.
Il terzo progetto riguarda lo sviluppo imprenditoriale, che ha creato finora tre piccole imprese agro-industriali, per la trasformazione dei prodotti contadini e per la commercializzazione all’interno di El Salvador e per l’esportazione. Un quarto programma si occupa di gestione dei rischi: lavoriamo con le comunità e le famiglie, aiutandole e insegnando loro a reagire a situazioni di emergenza, come uragani e alluvioni, fenomeni frequenti nel paese.
Un quinto programma ha come oggetto il rafforzamento istituzionale: cioè accompagnare e sostenere l’organizzazione sociale perché sia capace non solo di realizzare con successo i loro progetti, ma abbiano pure capacità e forza per incidere nella politica, per negoziare con il governo e organismi inteazionali.
Attualmente stiamo lavorando in 300 comunità contadine e 17 mila famiglie; abbiamo creato 5 uffici dipartimentali in tutto il paese; continuiamo ad accompagnare lo sviluppo rurale sostenibile con la convinzione che è questa la chiave per fermare il depauperamento che colpisce soprattutto la campagna in El Salvador».

ALLO STATO CONVIENE….

Cordes e altre associazioni e organizzazioni non governative sono impegnate a contenere la povertà e l’emigrazione sia nella campagna che nelle città; ma i loro sforzi sono inutili, perché la spinta a tale esodo viene dalla stessa politica economica di tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi 20 anni. Una politica che ha danneggiato non solo le regioni rurali, ma anche le aree urbane, provocando concentrazione demografica e ghettizzazione nelle baraccopoli, come nella periferia di San Salvador.
In uno dei quartieri periferici della capitale abbiamo incontrato César Villalona, economista e consulente di un progetto di educazione popolare: ci ha spiegato le strategie fallimentari di sviluppo attuate dai governi neoliberali del paese.
«Negli ultimi due decenni abbiamo assistito a iniziative di decentramento del potere e a numerosi progetti di sviluppo locale promossi prevalentemente dalle Ong. Progetti in cui sono state combinate la partecipazione e l’organizzazione popolare, la riattivazione economica e la generazione di nuove fonti di lavoro.
Tutti questi sforzi, però, si scontrano con una realtà ben chiara: El Salvador sta sostituendo la sua produzione agricola con importazioni. Negli ultimi 14 anni sono crollate sia la produzione contadina, soprattutto di verdure e grano (elemento base per l’alimentazione) sia l’allevamento. Attualmente, buona parte del cibo è importato dall’estero.
In questo contesto, quindi, è molto difficile pensare a uno sviluppo locale concreto. Gli sforzi fatti fino a ora non sono stati risolutivi; la situazione è aggravata dal sistema finanziario, che non dà appoggio all’agricoltura. Le Ong, da parte loro, fanno quel che possono, poiché dispongono di risorse molto limitate.

Siamo in un circolo vizioso: da una parte la mancanza di sviluppo causa il fenomeno migratorio; dall’altra la fuga delle persone più valide all’interno delle comunità mette in crisi lo sviluppo locale.



DIPENDENZA POLITICA


La modeizzazione imposta dalla globalizzazione ha segnato la fine della sovranità economica del paese e l’inizio dell’ingerenza politica statunitense. Inoltre, l’introduzione di strumenti economici, come il Trattato di libero commercio (Tlc) recentemente siglato tra i due stati, ha aumentato la dipendenza di El Salvador dagli Usa, fino a diventare totale.
Tale situazione è degenerata solo negli ultimi 15 anni. Prima, infatti, El Salvador aveva poco capitale straniero e la sua economia si sostentava con l’esportazione di caffè e cotone. C’era più autonomia anche a livello politico. Ma in questi ultimi 15 anni, la classe imprenditoriale salvadoregna ha concluso che, nel mondo globalizzato, può sopravvivere solamente se è totalmente vincolata al capitale nordamericano. Il Tlc rinforza questa dipendenza.
Il 65% delle esportazioni di El Salvador va negli Usa; dagli Usa importa il 55% di beni e servizi; tutta l’industria delle maquilas, dove lavorano 90 mila persone, è vincolata al capitale nordamericano; da questo paese arrivano 2.200 milioni di dollari in rimesse; il debito estero è principalmente con gli Stati Uniti e con organismi multilaterali dipendenti dal governo degli Stati Uniti.
Si tratta, quindi, di una dipendenza economica totale, che ha un riflesso immediato a livello politico. El Salvador, per esempio, è stato l’ultimo dei paesi latinoamericani a decidere di ritirare le truppe dall’Iraq. Il governo non ha nessuna possibilità di prendere decisioni che riguardino le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti.
Goveanti e classe dirigente di questo paese sono così legati al carro americano, da rendere El Salvador la nazione più dipendente dell’America Centrale e praticamente dell’America Latina. Gli Usa hanno ingerenza totale nella politica intea ed estera del paese.

Un esempio eclatante lo si è avuto nelle ultime elezioni politiche: il governo statunitense è intervenuto direttamente nella campagna elettorale, inviando alti funzionari che dicessero al popolo per chi votare. Il tutto accompagnato dalle dichiarazioni ufficiali dell’ambasciatore degli USA in El Salvador. Il risultato è che il governo è in debito con gli Stati Uniti: per ricambiare è diventato talmente compiacente verso il potente vicino, da dimenticare da chi è stato eletto

BOX 1

STOP ALL’ESODO

Nonostante le rimesse in dollari che gli emigrati inviano al paese di origine, l’emigrazione costituisce un forte impoverimento per la nazione. In El Salvador la gravità è doppia, poiché provoca lo spopolamento della campagna, primo anello della catena del depauperamento demografico e delle forze produttive del paese.
Come frenare tale esodo? Hugo Flores, direttore dell’Associazione per la cooperazione e lo sviluppo comunitario di El Salvador (Cordes) racconta un’esperienza significativa e innovativa realizzata nel municipio di Tecoluca, con cui la sua organizzazione è riuscita a frenare tale emorragia migratoria dalla campagna alla città.
«Un anno fa, abbiamo fatto uno studio per scoprire le cause e l’intensità dei flussi di emigrazione dalle zone rurali di El Salvador. La conclusione è stata che, nel nord del paese, nel municipio di Tecoluca, i flussi di emigrazione verso le città e poi verso l’estero, comparati con altri municipi, sono relativamente più bassi. In questo municipio avevamo lavorato in stretta collaborazione con l’amministrazione comunale e altre istituzioni, promuovendo una serie di iniziative economiche e produttive di ampio respiro, come il miglioramento delle infrastrutture, introduzione dell’acqua potabile e dell’energia elettrica.
Queste iniziative, che includevano la partecipazione popolare, hanno cominciato subito a dare frutti: la popolazione di questo municipio non desidera più emigrare. È evidente che la gente emigra solo se vi è costretta dalla povertà; ma rimane nella propria terra se viene offerta la possibilità di lavoro e di guadagno per sopravvivere dignitosamente.
Abbiamo quindi formulato una proposta incentrata sull’incremento dello sviluppo nel settore rurale dell’agricoltura e allevamento. Prima, però, abbiamo dovuto garantire le risorse necessarie, garanzie minime che negli ultimi 10 anni erano venute meno, a causa del modello neoliberale imposto dal governo. In tale processo, infatti, sono state soppresse e smantellate le strutture statali che sostenevano il settore agricolo e di allevamento: la banca agraria è stata privatizzata; il Ministero d’agricoltura e allevamento depotenziato; l’istituto per la creazione e mantenimento dei canali di commercializzazione è stato ridotto all’impotenza. Banche, ministeri e istituzioni varie sono rimaste senza risorse e nell’incapacità di promuovere sviluppo nel settore rurale; in questo modo la povertà si è generalizzata, fino a travolgere il 97% della gente che ancora abita in campagna.
Nell’implementare i sistemi di produzione cerchiamo di coinvolgere la gente e sviluppare il concetto di sostenibilità. Questa viene declinata attraverso progetti che rispettino l’ambiente, con iniziative che generino impiego, garantiscano la sicurezza alimentare e assicurino un guadagno alle famiglie coinvolte nei progetti. Questo modello partecipativo contribuisce a fermare la povertà nella campagna e quindi l’emigrazione e tutti i mali ad essa collegati; inoltre preserva e conserva le risorse naturali, che in questo paese sono state depredate negli ultimi anni proprio a causa della diffusione della povertà.
Ma tale modello di sviluppo sostenibile deve essere implementato a livello statale, perché i cambiamenti siano concreti e a lungo termine. Nel nostro paese, purtroppo, lo stato si disimpegna completamente e lascia che la situazione degeneri, mentre si è impegnato a firmare un trattato di libero commercio con gli Stati Uniti, che produrrà benefici solo per questi ultimi e aggraverà la situazione della campagna di El Salvador».
J. C. Bonino .

Josè Carlos Bonino




Resistenza civile contro Alcala e Ppp

Nonostante i mutamenti politici raggiunti per via violenta, nei paesi dell’America Centrale la situazione rimane intollerante. Unica via d’uscita per generare un cambiamento sociale e politico è senza dubbio la resistenza popolare, legata alla disobbedienza civile non violenta.
In El Salvador, dopo 30 anni di violenza e centinaia di migliaia di morti sono stati firmati gli accordi di pace nel 1992. A 13 anni da quella data, il paese si trova di fronte all’imposizione di una serie di megaprogetti, dannosi per la maggioranza delle popolazioni. A opporsi o limitare i danni di questi megaprogetti ci sono varie organizzazioni come il Cripdes (Comunità rurali per lo sviluppo di El Salvador) e Compa (Convergenza di movimenti dei popoli delle Americhe).
Marta Lorena Araujo Martines è una delle responsabili della Compa, cornordinamento di 75 organizzazioni della società civile di tutta l’America Centrale. Inoltre essa è cornordinatrice del Cripdes, che raggruppa 42 organizzazioni sociali e contadine di El Salvador.
«Il cornordinamento della Compa – spiega Marta Araujo – ci permette di essere in contatto con tutte le organizzazioni affiliate in America Latina e molte altre associazioni che condividono i nostri stessi obiettivi: organizzazione, mobilitazione, lotta e ricerca di alternative ai grandi problemi che vivono i nostri paesi. Inoltre rappresento il Cripdes, che è un’organizzazione salvadoregna, nata nel 1984 per far fronte all’emergenza dei profughi causata dal conflitto armato. In quel frangente ci impegnammo soprattutto per far sì che la popolazione civile fosse considerata come popolazione non combattente e non come obiettivo militare da parte dell’esercito e della polizia militare. Abbiamo lavorato con le comunità contadine perché venissero rispettati i diritti umani, economici, sociali e culturali. Fu un periodo molto duro e difficile per il paese.
Attualmente continuiamo a cercare alternative alla situazione attuale; per questo facciamo parte della Compa, cioè dei vari movimenti sociali dell’America Latina, che vogliono crescere dal basso e diventare forti per affrontare le politiche nefaste dei trattati liberisti che irrompono nella vita dei nostri popoli».

Le politiche che investono i paesi centroamericani si chiamano: Piano Puebla Panama (Ppp) e Area di libero commercio delle americhe (Alcala). I due organismi sono strettamente legati. Affinché l’Alcala, il trattato di libero commercio, possa funzionare con efficienza, il Ppp deve provvedere le infrastrutture necessarie: fare strade, ristrutturare porti, costruire zone franche o maquilas lungo tutta l’America Centrale.
Nella realizzazione di tali strutture, però, occorre il «capitale umano». Per questo il Ppp è impegnato a «spostare» migliaia di persone dalle zone rurali verso i grandi centri urbani, senza nessun rispetto per le popolazioni indigene e contadine, costrette ad abbandonare la propria terra e le tradizioni millenarie, per diventare operai di maquilas, mano d’opera «addomesticata dalla povertà».
E tutto avviene con il consenso dei governi neoliberali che, più che rispondere alle aspettative della propria gente, obbediscono alle politiche degli Stati Uniti, il cui governo sta forzando in tutti i modi il trattato del libero commercio.
«Le infrastrutture e megaprogetti del Ppp rendono sempre più vulnerabile la situazione della popolazione delle aree rurali – continua ancora Marta Araujo -. Non è assolutamente vero che tali infrastrutture porteranno sviluppo, come viene detto dalle pubblicità che ci fanno vedere e ascoltare.
Nel caso di El Salvador, oltre alla ristrutturazione di porto Cutucu e a nuove strade, il Ppp costruirà due dighe. Entrambe sono progettate con una precisa strategia che prevede l’espulsione dalle aree rurali di oltre 55 mila famiglie indigene e contadine, spingendole a emigrare verso le aree urbane perché diventino operai nelle zone franche o maquilas.
In questo modo verrà distrutta ogni organizzazione e unità comunitaria; saranno consegnati titoli di proprietà individuali, smembrando così l’economia collettiva; saranno introdotti i semi geneticamente modificati (Ogm), con effetti devastanti sull’agricoltura locale e sicurezza alimentare: essi fanno sparire il seme “autoctono”, pazientemente “addomesticato” dai nostri antenati per millenni.
I progetti del Ppp non riguardano solo El Salvador, ma anche Guatemala e Messico. Nella regione nicaraguense di El Petén e nel sud del Messico, si vogliono costruire 30 dighe, che spingeranno 10 milioni di indigeni a diventare operai nelle maquilas, oltre a porre fine in questo modo alla resistenza indigena del Chiapas.
Il processo di attuazione non tiene in nessuna considerazione la cultura ancestrale dei popoli indigeni che vivono in quelle zone del Messico da più di 5 mila anni. Il Ppp è una minaccia per tutti e non può che generare più povertà, più instabilità sociale e più disperazione nei popoli centroamericani».

Di fronte alla pressione Usa per implementare l’Alca, cresce la resistenza non solo da parte dei movimenti della società civile latinoamericana, ma anche da parte di vari governi, come Costa Rica, Brasile, Argentina e Venezuela.
«L’Alca avrebbe potuto funzionare se ci fosse stato un processo democratico di consultazione tra tutti i settori sociali dell’America Latina – afferma Marta Araujo -, ma così non è stato. Al contrario, si è trattato di un processo favorito dai politicanti di una ristretta élite al potere in alcuni paesi. È chiaro che quanti hanno intenzione di imporre l’Alca vogliono garantire soltanto il proprio benessere, a scapito della stragrande maggioranza della popolazione, condannata all’estrema povertà.
Ma a fae le spese sono soprattutto i popoli dell’America Centrale, che sono i più vulnerabili. Per questo ci opponiamo energicamente ai trattati liberisti come quello dell’Alca e del Ppp, perché siamo convinti che questi progetti ostacoleranno lo sviluppo umano di tutte le popolazioni dell’America Centrale».

Josè Carlos Bonino




Ultima tappa all’interno della comunità Nasa (3)

PENSIERO GIOVANE

Lettera «mai scritta» di una giovane indigena ai coetanei del nord del mondo.

Carissimi giovani del nord del mondo,
molte volte, attraverso la lettura o l’incontro con quelli di voi che in questi anni ci hanno visitato, siamo entrati in contatto con il vostro mondo e la vostra maniera di vivere. Vorremmo adesso essere noi a raccontare qualche cosa della nostra comunità, perché pensiamo che dalla conoscenza reciproca possa nascere un dialogo utile a creare legami nuovi, basati sul rispetto, la tolleranza e la pace. Cercheremo di darvi un panorama di quello che siamo e viviamo, dei piccoli e grandi successi che ci fanno continuare a crescere, nonché delle difficoltà che dobbiamo superare.
Sono seduta con altri giovani sul cemento un po’ freddo del campo di basket del mini-palazzetto di Tacueyó, piccolo paese del Cauca colombiano. Con altri 300-400 giovani abbiamo appena celebrato la messa e ora ci prepariamo ad ascoltare Pablo Tatai, bogotano di origine magiara, un amico storico del processo indigeno. Amico dai giorni duri in cui i nostri padri si facevano ammazzare pur di riconquistare la terra che ritenevano esser loro da sempre, e che invece era diventata proprietà di pochi e ricchi latifondisti. Il congresso annuale che si sta svolgendo è uno dei tanti momenti di aggregazione e formazione organizzato dal movimento giovanile «Álvaro Ulcué», la più attiva organizzazione indigena giovanile del Cauca.
Con attenzione – le agende o i quadei appena estratti dalla jigra (la borsa tradizionale tessuta a mano dalle donne della comunità) – l’assemblea inizia a riascoltare un racconto che i più vecchi tra noi già conoscono a memoria. Prendiamo appunti, in silenzio, anche soltanto per rispetto verso quest’uomo dai radi capelli bianchi che ha lottato nel passato e che ora, invece di godersi la pensione, continua ad appoggiare la causa indigena. Sappiamo che adesso tocca a noi continuare l’opera dei padri, prendere in mano il testimone che l’oratore, con la sua presenza, simbolicamente sta passando.
La Colombia è un paese giovane (il 45,5% dei suoi abitanti ha meno di 18 anni) e il Cauca non fa eccezione. Occorre dunque migliorare la speranza di vita della gente, garantire un lavoro degno ai più giovani ed offrire a tutti la possibilità di costruire un futuro familiare e comunitario soddisfacente se si vuole che la comunità affronti con speranza il suo futuro. Purtroppo, l’impatto della modeità, il conflitto armato, nonché l’invadenza del narcotraffico, sono tutti fattori che ostacolano pesantemente il nostro cammino.

Giovani di una volta

Stiamo vivendo un momento di cambio molto rapido che dobbiamo imparare a gestire se vogliamo aprirci al mondo senza veder completamente stravolti i nostri valori tradizionali, quei valori che per secoli sono stati un fondamentale fattore di unità per la nostra gente. Il giovane di ieri era un individuo che si formava alla vita in funzione delle esigenze della famiglia e della comunità. La scuola era soprattutto il campo, il pezzo di terra, frutto della ripartizione tra i figli fatta dai genitori e che bisognava lavorare duramente per poter sopravvivere.
Il giovane nasa viveva immerso nel suo mondo mitico, regolato da forze ancestrali che bisognava rispettare per non rompere l’armonia del cosmo. L’autorità del padre, del governatore del resguardo (la riserva indigena) e del medico tradizionale erano insindacabili. Erano loro ad imporre le regole per la futura vita matrimoniale, per la partecipazione alla vita e alle attività della comunità e per la relazione con il mondo spirituale. Poco spazio era dato all’iniziativa individuale e concetti come «coscienza, responsabilità personale» erano pressoché sconosciuti.
Diciamolo francamente: uno dei problemi della nostra società era quello di non tenere assolutamente in conto il giovane, le sue esigenze, i suoi sogni. Se poi il soggetto nasceva donna la sua gioventù era tutta orientata verso un orizzonte ben preciso: la casa. Il risultato di questo processo formativo era un giovane dallo spirito un po’ gregario, pronto ad adeguarsi alle decisioni prese per lui dalle autorità, sia quella patea come quella della comunità.
L’impatto con la modeità ha messo in crisi questa figura di giovane e vari modelli estranei alla nostra cultura hanno, di fatto, rivoluzionato usi e costumi. Non tutto è venuto per nuocere, bisogna riconoscerlo, ma è difficile trovare un equilibrio fra vecchi e nuovi valori, come anche saper scegliere, sia nella tradizione come nella modeità, le cose da buttare e quelle da conservare gelosamente.
Noi nasa siamo dei magnifici camaleonti della storia. Sono state le difficoltà ad insegnare alla nostra gente come modellarsi secondo le diverse esigenze; siamo dei campioni nel far nostri gli aspetti di una cultura diversa che ci servono, e ad adattarli alle nostre necessità. Per questo quando parliamo di cultura nasa facciamo riferimento a ciò che è proprio e a ciò che è «appropriato»; il problema sta semmai nel sapersi appropriare delle cose giuste, quelle che possono aiutarci a crescere come comunità e non causarci dei danni. Il rischio, come sempre accade, è quello di buttare via anche il bambino con l’acqua sporca.

Chi siamo oggi

Il giovane della mia generazione si sta progressivamente staccando dalla cultura patea e, di conseguenza, dalla sua autorità; così come si sta allontanando dall’autorità politica e religiosa della comunità. Sia il medico tradizionale, con le sue pratiche e i suoi riti, come la chiesa stessa hanno sofferto una perdita di significato e non rivestono una grande attrattiva per il giovane di oggi, sempre più secolarizzato. L’idioma nasa non è più parlato come un tempo e, anzi, alcuni tra noi si vergognano persino di essere cresciuti in una famiglia dove ci si comunica nella lingua propria.
Rispetto anche solo a vent’anni fa è aumentata vertiginosamente la popolazione scolastica. Il numero dei giovani che si iscrivono alla scuola superiore o addirittura all’università è cresciuto a tal punto da rappresentare una delle cause più importanti del cambio che si sta dando all’interno della comunità. La maggiore preparazione accademica, accompagnata da uno sviluppo più maturo della coscienza personale, ha fatto sì che si sia creato nei giovani un diverso atteggiamento nei confronti dell’autorità. I miei coetanei non vogliono più obbedire ciecamente, ma desiderano guardare la realtà criticamente, anche se questo conduce inevitabilmente allo scontro generazionale.
Cambiano, anzi, si moltiplicano, anche i bisogni. Il maggior grado di istruzione raggiunto fa sì che alcuni di noi non vogliano più lavorare i campi e sperino di conseguire un posto di lavoro come insegnante o come impiegato; cosa non sempre possibile, vista la poca offerta di spazi di lavoro alternativi all’agricoltura rispetto alla domanda. Si crea quindi un tasso di disoccupazione molto elevato. Anche il consumismo è entrato prepotentemente nella vita del giovane. La maglietta di marca, le scarpe alla moda, la moto, diventano esigenze di cui prima non si avvertiva la necessità.
Se il giovane tradizionale conduceva una vita per lo più solitaria, dedicando gran parte del tempo al lavoro, il giovane d’oggi vive un’apparente contraddizione. Da una parte tende a riunirsi in gruppi di coetanei, nei quali incontra appoggio e forza, dall’altra si trasforma in un individualista, incapace di condividere vita e beni con i compagni o la comunità. Tende a perdere interesse per il lavoro comunitario e nelle relazioni con l’altro sesso sperimenta una libertà che prima non esisteva.
Queste pressioni estee espongono i giovani attuali a un cambio totale e quindi, com’è caratteristica delle stagioni di grande mutamento epocale, ad un’instabilità e un’irrequietezza che sfociano molte volte nell’irresponsabilità e nella perdita di orientamento e significato. Si presentano quindi alcuni grandi rischi: la tentazione di trovare sicurezza e stabilità in un’organizzazione armata, quella di lasciarsi sedurre dal «denaro facile» offerto dal narcotraffico, con il progressivo formarsi di una «narco-mentalità». In alcuni soggetti più deboli non è rara la tentazione di togliersi la vita nel momento in cui ci si trova davanti a problemi anche piccoli, ma per cui non si ha una base di valori sufficiente per poterli affrontare e risolvere.

Pensare «giovane»

Alcuni giovani si sono resi conto di questa situazione di cambio e hanno deciso di correre ai ripari. Alla fine degli anni ‘80, ci si rendeva conto che il mondo stava cambiando e che, se non si riusciva a far sì che i giovani prendessero la vita nelle loro mani, sarebbero stati travolti dagli eventi. Non ci si poteva solo fidare della comunità e del suo processo; di fatto i giovani lavoravano per la comunità, ma questa non lavorava per i giovani. Si decise pertanto di creare un movimento giovanile che potesse servire come strumento d’unificazione della gioventù indigena e veicolo capace di guidare i giovani alla formazione di una coscienza critica, morale e politica.
L’obiettivo era aiutarci tra di noi a crescere, pensare e attuare come indigeni, nel rispetto della propria cultura, ma attenti e preparati ai cambi epocali che sentivamo essere inevitabili e dai quali non volevamo farci cogliere impreparati. Abbiamo iniziato a creare una scuola di animatori che ha come fine quello di formare giovani capaci di orientare altri giovani della nostra comunità.
Cerchiamo, inoltre, di realizzare spazi di incontro e condivisione come le assemblee giovanili per scambiare opinioni ed esperienze, fare un’analisi della situazione e progettare le attività future. Anche il progetto della rete studentesca è una realtà interessante che ci permette di sensibilizzare i giovani della scuola alle problematiche del mondo contemporaneo.
Abbiamo iniziato anche qualche progetto produttivo per imparare tutti insieme le regole dell’amministrazione e della gestione, cercando di sperimentare scelte economiche alternative.
Non siamo molti. Possiamo dire che allo stato attuale delle cose la nostra esperienza non coinvolge più del 5% del numero complessivo dei giovani della nostra regione, ma speriamo di incrementare questa cifra in un prossimo futuro. Non tutti, anche all’interno della nostra comunità, vedono di buon occhio questo processo in cui, senza voler disconoscere il criterio del progetto comunitario e della cultura tradizionale, cerchiamo di dar valore al pensiero proprio di noi giovani, ciò che con un po’ di ambizione e di orgoglio chiamiamo pensamiento jóven, il pensiero giovane. Anzi, riteniamo che un apporto dei giovani, più attenti alle nuove esigenze e sfide della comunità possa essere ossigeno nuovo per affrontare le sfide non facili del presente e del domani, aprendo spazio al dialogo e alla comunicazione dei valori con altre forze umane e sociali della regione, del paese e anche inteazionali.
Quello che vogliamo è svegliare le coscienze e lavorare nell’ambito di tutti quei contesti che possano aiutarci a migliorare la convivenza e permettere di costruire un nuovo profilo della persona, un nuovo giovane, che sarà, domani, l’artefice di nuove famiglie e, di conseguenza, di una nuova comunità.
Il giovane che sogniamo è quello che si forma, conosce, studia per poter offrire un servizio qualificato alla propria gente. Un giovane fermo nei suoi principi, stabile affettivamente e che fa le cose per scelta e non per obbligo, capace di disceere per conto suo ciò che è bene e ciò che è male. Un giovane che, cosciente delle sue radici, guarda verso il futuro in modo critico, ma aperto. Aperto anche al dialogo con voi, amici del nord del mondo, che pazientemente avete letto questa lettera. Se vorrete conoscere qualcosa di più della nostra vita sarete sempre i benvenuti in questa porzione della madre terra che è la patria dei nasa.

Hasta pronto.


Ugo Pozzoli




Radici culturali dell’Europa: per una democrazia dei popoli

CRISTIANI ADULTI PER LA NUOVA EUROPA

La rottura del sottile equilibrio tra Est e Ovest europeo ha provocato un terremoto politico planetario e posto la premessa per un nuovo ordine mondiale. Il prossimo equilibrio sarà pluripolare. Oltre agli Usa, già si delineano nuove potenze emergenti (Cina, India, Brasile), con cui dovrà confrontarsi il «Vecchio continente».
Di qui l’importanza, per i cittadini europei e cristiani, che la nuova Europa nasca bene sin dalla sua costituzione.

Parlando di Europa, istintivamente pensiamo alla «moneta unica» e problemi economici: contenimento della spesa pubblica e inflazione, stabilità di mercati finanziari, parametri di Maastricht, quasi che la costruzione europea si riduca ai conti economici.
Certamente l’euro è una meta importante. Bisognava raggiungerla, anche in vista dei nuovi equilibri che si stanno delineando a livello planetario. Tuttavia, neppure tali equilibri saranno di natura meramente economica. Per cui, mentre costruiamo l’Unione, occorre non perdere mai di vista il ruolo morale, oltre che economico, che l’Europa è destinata ad avere nel mondo.
L’allargamento a 25 stati membri ha aperto una fase nuova, non solo all’interno del cammino comunitario, ma anche nella sua proiezione estea: i valori culturali e spirituali basilari comuni trascendono i confini del vecchio continente e ci impegnano tutti a renderli universali.

Le tre europe

La storia dimostra che l’Europa non è nata come un mercato, ma con radici cristiane, i cui valori umani e umanistici non sono mai venuti meno. Nella sua storia possiamo distinguere tre fasi.
La prima Europa è quella medioevale, nata sulle rovine dell’impero romano e formatasi sotto il regno di Carlo Magno (771-814), caratterizzata dall’unione tra trono e altare. Fin dall’inizio essa fu soprattutto una unità culturale, fondata sui valori spirituali cristiani. Tanto che chi non condivideva la cultura della «cristianità» (ebrei, arabi, musulmani, «barbari» del nord), era visto come straniero spiritualmente e politicamente, pur abitando il medesimo spazio geografico.
La fusione tra valori cristiani e vita storico-politica era capace di produrre effetti straordinari: cattedrali, università, ospedali, ospizi per i poveri… Tale unità tra spiritualità cristiana e cultura ha lasciato impronte indelebili nel pensiero, costume giuridico e civile, letteratura e arte, formando una coscienza più forte e resistente di ogni altro vincolo geografico, mercantile o politico.
Come ogni storia, anche quella europea è piena di luci e di ombre: l’identificazione di croce e spada produceva ferite tuttora non sanate: crociate, guerre di religione, colonialismi, roghi, torture e massacri perpetrati spesso in nome della fede. Eccessi negativi di cui il papa ha chiesto perdono, ma che sono stati motivo della scristianizzazione nei secoli seguenti.
Infatti, la seconda Europa, quella modea, è caratterizzata dalla rottura dell’unità politica, culturale e religiosa del continente, ed è segnata da profonde trasformazioni, seguite all’esplosione dell’umanesimo e alle grandi scoperte geografiche del 15° secolo. Con l’avvento della riforma, si formarono nel vecchio continente due blocchi: da un lato, l’Europa centro-settentrionale protestante, staccatasi da Roma; dall’altro i cattolici rimasti fedeli al papa.
Ora, mentre la fine dell’unità fra trono e altare segna la fine della «cristianità» e lascia il posto agli stati nazionali assoluti, una nuova coscienza dei diritti dell’uomo e nuove correnti di pensiero frazionano anche culturalmente il vecchio continente. Con la rivoluzione francese (1789), al centro della vita sociale e politica ormai non ci sarà più il «cristiano», ma il «cittadino».
Avanza e si diffonde così quel processo di «secolarizzazione» che, attraverso l’illuminismo, razionalismo, liberalismo, scientismo, positivismo e le grandi ideologie dei secoli 17° e 18°, sarebbe sfociato nel «secolarismo» dei nostri giorni.
Così, un processo di per sé positivo come la «secolarizzazione», intesa come distinzione tra chiesa e stato, è approdato al «secolarismo» che esclude Dio dall’orizzonte umano.
Tuttavia, nonostante la fine della «cristianità», il confronto-scontro tra la cultura cristiana e le nuove correnti del pensiero «liberale» e «laico» non riuscì ad affossare in Europa la tradizione umanistica, fondata sul primato dei valori. Essa manterrà a lungo la supremazia anche nei confronti della nascente cultura scientifica.
La terza Europa è quella postmodea, dopo la smentita storica delle grandi ideologie del 18° e 20° secolo. Se queste non sono riuscite a scalzare la plurisecolare tradizione umanistica nel vecchio continente, ne hanno però laicizzato la cultura e il costume, rendendolo per molti aspetti «postcristiano».
Il secolarismo (degenerazione del processo di secolarizzazione) ha gettato la cultura contemporanea in preda a forme di nichilismo, relativismo etico e neoliberismo selvaggio. Tanto che negli ultimi decenni del 20° secolo, anche come reazione a tali processi degenerativi, è tornato di attualità il dibattito sui fondamenti spirituali e culturali dell’Europa.
Un tema da approfondire, senza rimpianti per la «cristianità» perduta, guardando avanti, verso la «casa comune» da costruire in continuità con i valori della civiltà europea, nel rispetto della laicità della politica e del pluralismo culturale degli stati membri.

«La casa comune»

Lo sviluppo delle scienze e della tecnica, le correnti di pensiero laico e il progresso economico hanno cambiato il modo di pensare e di vivere degli europei; ma l’identità che rende «uno» il continente europeo rimane all’interno della sua storia e cultura, nel patrimonio spirituale e morale comune ai popoli che lo compongono.
Ovviamente la concezione dell’uomo e della società e la comprensione dei diritti dell’uomo, oggi, non sono più quelle della primitiva «cristianità». Lungo i secoli, la civiltà europea è stata alimentata anche da tradizioni culturali diverse (ebraica, islamica, illuministica). Ciò non è stato un male, ma un arricchimento: «La storia dell’Europa – secondo la bella immagine di Giovanni Paolo ii – è un grande fiume, nel quale sboccano numerosi affluenti, e la varietà delle tradizioni e culture che la formano è la sua ricchezza». Ma la corrente che prevale è l’onda cristiana.
Non deve stupire, perciò, il risveglio e bisogno di spiritualità che si riscontra in tutta l’Europa. Altrettanto significativo è il fatto che i paesi dell’Est si sentano uniti all’Europa occidentale in virtù dei vincoli spirituali e culturali che essi hanno conservato con il cristianesimo, nonostante il tentativo di spezzarli compiuto dal comunismo.
Lo riconosceva Mikhail Gorbaciov, alla vigilia della caduta del muro di Berlino: l’Europa, scriveva, è una «casa comune», dove geografia e storia hanno strettamente intrecciato i destini dei popoli e nazioni che la compongono. Poi esclamava: anche «noi (i sovietici) siamo europei: la vecchia Rus’ era unita all’Europa dal cristianesimo».
In realtà a Mosca, la «terza Roma», va il merito di aver salvato l’eredità bizantina, consentendo così alla «cristianità» di continuare a respirare con i suoi due polmoni: quello occidentale e quello orientale.
Perciò, oggi, per costruire l’Europa come una «casa comune», culturalmente pluralistica, plurietnica e multireligiosa, non si può fare a meno di porre a fondamento dell’unione politica del continente anche quei valori spirituali e culturali, ovviamente ripensati e approfonditi, che sono parte inseparabile della sua storia.

I 4 pilastri del Trattato

L’importanza di tali valori, è stata riconosciuta, benché indirettamente, dal Trattato costituzionale europeo, approvato il 18 giugno 2004 a Bruxelles e firmato a Roma il 29 ottobre 2004. Così recita l’articolo 2: «L’Unione si fonda sui valori della dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, stato di diritto e rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a una minoranza. Questi valori sono comuni agli stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, tolleranza, giustizia, solidarietà e parità tra donne e uomini».
In sostanza, sono 4 i pilastri su cui si basa la nuova Europa: dignità umana, libertà solidale, uguaglianza, diritti umani. Oggi sono tutti valori considerati «laici» e non si pensa più alla loro radice religiosa. Se insistiamo sul rapporto originario che essi conservano con la visione cristiana dell’uomo e della società, non è per mettere un cappello «clericale» o «confessionale» alla Costituzione europea, la quale è laica e laica deve restare; ma per stimolare soprattutto i cristiani a un impegno coraggioso per dare alla costruzione dell’Europa un’anima etica il più coerente possibile con i valori enunciati dalla Costituzione, nel rispetto del pluralismo e regole democratiche.

1° pilastro: la dignità della persona umana è inviolabile.
L’uomo, cioè, vale per quello che è, più che per quello che ha o che fa. Perciò il Trattato europeo pone al centro del sistema politico la persona umana e ne tutela i diritti: dal diritto alla vita a quello dell’integrità fisica e psichica.
Società e stato possono disporre (in una legislazione democratica) dell’attività dei singoli, per il raggiungimento dei fini comunitari, ma non della persona e della sua vita. «L’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere intee e un mercato unico nel quale la concorrenza è libera e non falsata».
Chi può negare che questo primo principio «laico» abbia «radici cristiane»? Infatti, considerare l’uomo come «autore, centro e fine di tutta la vita economico-sociale» (Gaudium et spes 65) è il caposaldo della dottrina sociale cristiana. La ragione di tale primato è essenzialmente religiosa e risiede nel fatto «che l’uomo è stato creato “a immagine di Dio”, capace di conoscere e amare il proprio Creatore, costituito da lui sopra tutte le creature terrene quale signore di esse, per governarle e servirsene a gloria di Dio» (GS 12 ).

2° pilastro: libertà solidale.
La ii parte della Costituzione tratta della libertà. Essa non è intesa come individualismo, ma legata ai rapporti tra persone. Su tale concezione solidale si fondano il rispetto della dignità della persona, parità tra uomo e donna, «diritto di ogni individuo alla libertà di pensiero, coscienza, religione» (ii,10), espressione e informazione (ii,11), riunione e associazione (ii,12), di sposarsi e costituire una famiglia (ii,9), primo nucleo della società umana.
Anche il secondo nucleo, la società civile, si radica nel principio di libertà solidale, poiché né la persona, né la famiglia possono esistere al di fuori della società. Sullo stesso principio l’Unione «combatte l’esclusione sociale e discriminazione e promuove la giustizia e protezione sociali, parità tra donne e uomini, solidarietà tra le generazioni e tutela dei diritti del minore. Promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli stati membri» (i,3,3).
Tale solidarietà è garantita anche in situazioni di emergenza: «L’Unione e gli stati membri agiscono congiuntamente in uno spirito di solidarietà, qualora uno stato membro sia oggetto di un attacco terroristico o sia vittima di una calamità naturale o provocata dall’uomo» (i,43).
Anche questa tutela «laica» della libertà e solidarietà si radica nella visione antropologica di ispirazione cristiana. «Dall’indole sociale dell’uomo – spiega il Concilio – è evidente come il perfezionamento della persona umana e lo sviluppo della stessa società siano tra loro interdipendenti. Infatti, principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali è e deve essere la persona umana, come quella che di sua natura ha sommamente bisogno di socialità… L’uomo cresce in tutte le sue doti e può rispondere alla sua vocazione attraverso i rapporti con gli altri, i mutui doveri, il colloquio con i fratelli» (GS 25).
Per questo la coscienza cristiana considera la solidarietà non come «un sentimento di vaga compassione o superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» (Sollicitudo rei socialis 38).

3° pilastro: l’uguaglianza.
Su di essa si basa lo stato di diritto. «L’Unione rispetta, in tutte le attività, il principio dell’uguaglianza dei cittadini, che beneficiano di uguale attenzione da parte delle sue istituzioni, organi e organismi» (i,45).
In altre parole: i cittadini dovranno partecipare alle scelte e alla vita dell’Unione, secondo regole che assicurino la corresponsabilità di tutti, nel rispetto delle prerogative peculiari di ciascuno. Non è ammessa alcuna discriminazione «fondata su sesso, razza, colore, origine etnica o sociale, caratteristiche genetiche, lingua, religione o convinzioni personali» (ii,21).
Da qui la preoccupazione di evitare gli eccessi della burocrazia e di un centralismo soffocante e di valorizzare l’apporto dei gruppi sociali, classi, autonomie locali (i,5). Quasi non bastasse, si specifica ulteriormente: «In virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva, l’Unione interviene soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente raggiunti dagli stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere meglio raggiunti a livello di Unione» (i,11).
Anche qui, non è difficile scorgere il rapporto tra questa concezione «laica» dello stato di diritto e i concetti di uguaglianza e di partecipazione responsabile (o sussidiarietà) sviluppati dal pensiero sociale cristiano. Già Pio xi scriveva nel 1931: «Come è illecito sottrarre agli individui ciò che essi possono compiere con le proprie forze e di loro iniziativa per trasferirlo alla comunità, così è ingiusto affidare a una maggiore e più alta società quello che le minori e inferiori comunità possono fare. È questo, insieme, un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già di distruggerle o assorbirle» (Quadragesimo anno 86).
Più vicino a noi, il Vaticano ii ribadisce la necessità di vegliare «affinché i cittadini non siano indotti ad assumere di fronte alla società un atteggiamento di passività o irresponsabilità» (GS 69); occorre invece concepire e attuare soprattutto le politiche sociali, attraverso l’intervento creativo delle diverse istanze della società civile, riconoscendone il ruolo insostituibile accanto a quello del mercato e delle istituzioni.

4° pilastro: diritti umani.
Il Trattato riprende integralmente la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione approvata a Nizza nel dicembre del 2000 (i,9). Oltre a garantire a singoli e gruppi tutti i diritti civili e le condizioni materiali necessarie all’esistenza, viene tutelata la libera fruizione dei beni di natura superiore: arte, cultura, dimensione spirituale e religiosa della vita.
Anche questa impostazione, ancora una volta «laica», è in chiara continuità con la concezione cristiana della società. Questa, come specifica il Concilio, prevede che «siano rese accessibili all’uomo tutte quelle cose che sono necessarie a condurre una vita veramente umana, come vitto, vestito, abitazione, diritto a scegliersi liberamente lo stato di vita e a fondare una famiglia, educazione, lavoro, buon nome, rispetto, diritto alla necessaria informazione, alla possibilità di agire secondo il retto dettato della coscienza, alla salvaguardia della vita privata e alla giusta libertà anche in campo religioso» (GS 26).

Impegno per i cristiani

La continuità dei valori «laici» con l’ispirazione religiosa originaria risalta maggiormente la responsabilità dei cristiani nella costruzione dell’Europa. Lavorando insieme a tutti i cittadini del continente, sono chiamati a far sì che i valori «laici» comuni su cui poggia l’Unione non solo siano rispettati, ma vengano applicati, evitandone interpretazioni riduttive o errate, ricuperandone il significato originario.
Tale continuità con i valori cristiani, infatti, non significa che la Costituzione europea sia pienamente conforme a essi. Ne è un esempio l’ambigua posizione assunta nei confronti della famiglia: non affermare esplicitamente che essa si fonda sul matrimonio tra un uomo e una donna, lascia in pratica la porta aperta alle unioni di fatto, anche tra omosessuali.
Parimenti, come molti hanno rilevato, nonostante l’evidente impegno nel promuovere la pace e tutelare l’autorità dell’Onu, nella Costituzione manca un rifiuto esplicito della guerra come strumento per risolvere le controversie tra gli stati.
È auspicabile che su questi e altri punti importanti, quali l’applicazione delle nuove tecnologie alla vita umana, istruzione, giustizia sociale, relazioni inteazionali, il testo del Trattato possa in futuro essere ulteriormente perfezionato.
Al tempo stesso i cristiani devono evitare di cadere nella trappola della cosiddetta «religione civile».

Religione civile

Da qualche tempo, nella cultura occidentale, secolarizzata e laicizzata, si assiste a una rinnovata attenzione verso la religione in genere e verso quella cristiana in particolare. Dopo l’ostracismo decretato dall’illuminismo, che riduceva il fenomeno religioso a mero fatto privato, senza alcuna rilevanza sociale, e dopo la guerra contro la religione da parte delle dittature di diversa ispirazione ideologica, oggi ci si rende conto, invece, che la religione ha una sua rilevanza sociale.
La religione è ritenuta necessaria sia sul piano culturale (per plasmare e custodire l’identità nazionale all’interno della società pluralistica e plurietnica), sia sul piano politico (come fattore di stabilità civile di pacificazione contro la violenza), sia sul piano etico (per dare senso al lavoro umano, responsabilizzare i cittadini verso il bene comune).
In quest’ottica si spiega perché l’articolo 52 della Costituzione europea riconosca in modo esplicito il valore sociale della religione e l’utilità, anzi la necessità, che si instaurino rapporti stabili di collaborazione tra istituzioni democratiche e comunità religiose: «L’Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui godono negli stati membri, in virtù del diritto nazionale, le chiese e le associazioni o comunità religiose. L’Unione rispetta ugualmente lo status di cui godono, in virtù del diritto nazionale, le organizzazioni filosofiche e non confessionali. Riconoscendone l’identità e il contributo specifico, l’Unione mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare con tali chiese e organizzazioni».
Senza negare l’importanza del clima di rispetto e dialogo che si sta instaurando nei rapporti tra istituzioni politiche e comunità religiose, è chiaro che la «religione civile» può trasformarsi in una trappola per la chiesa e la sua missione.
Da una parte lo stato riconosce l’importanza della religione e ricerca l’appoggio della chiesa per gli utilizzi sociali che essa offre (oratori, ospedali, scuole…). Dall’altro, la chiesa vede con favore tale riconoscimento pubblico e tende a scorgervi un aiuto alla sua missione evangelizzatrice, se non già un effetto della evangelizzazione.
Sotto le apparenze più sofisticate della «religione civile» sta tornando una forma modea di «cristianità», in cui lo stato strumentalizza la religione come mero collante di convivenza sociale e civilizzazione, senza alcun riferimento al suo valore trascendente e soprannaturale.
Da parte della chiesa, può tornare la vecchia tentazione della «cristianità», cioè di «battezzare» il potere, col pericolo di subordinare la profezia alla diplomazia, di tacere di fronte a disuguaglianze e ingiustizie stridenti, di fingere di non vedere le illegalità e prevaricazioni della classe politica al potere. Non meno grave, poi, è la tentazione di ridurre l’annunzio evangelico alla sua dimensione sociale. La promozione umana è certamente parte integrante della evangelizzazione; questa però non potrà mai prescindere, senza rinnegarsi, dall’annunzio integrale della salvezza e del regno di Dio.
Bisogna dunque stare attenti a non tornare indietro verso forme pur rinnovate di «cristianità»; ma, mentre ci si apre al dialogo e al confronto con la storia e i problemi del tempo, occorre ritrovare il coraggio della testimonianza profetica della risurrezione e del regno e il coraggio dell’annunzio della parola di Dio, sine glossa.

Cristiani maturi cercansi

Questa sintesi tra servizio all’uomo e testimonianza viva della fede è la sfida che la costruzione dell’Europa oggi pone sia alle chiese che ai singoli cristiani, chiamati a operare «laicamente» con tutti gli altri cittadini del continente.
In particolare i cristiani impegnati a costruire l’Europa, in posti di responsabilità o anche come semplici cittadini, dovranno sforzarsi di ricuperare il significato integrale dei valori e principi fondamentali fissati dal Trattato costituzionale. Infatti, quando si passa dall’enunciazione teorica alla loro applicazione pratica, le interpretazioni divergono e spesso contrastano, come avviene specialmente in alcuni ambiti delicati, come quello della vita e della salute o del matrimonio e della famiglia. Toccherà ai cristiani servirsi della loro competenza professionale e degli strumenti democratici disponibili per dare ai valori fondamentali della Costituzione europea il necessario «supplemento d’anima», cioè per interpretarli e applicarli in senso plenario pur nel rispetto della loro laicità.
Accanto a questo sforzo, non meno efficace e urgente è il dovere della testimonianza di una vita cristiana autentica. Di fronte al multiculturalismo e «laicismo» odierno, occorrono veri cristiani che abbiano fatto personalmente la scoperta del vangelo, che aderiscano a Cristo, non in virtù della nativa tradizione sociologica o culturale, ma per avere incontrato personalmente il Risorto nella fede.

In conclusione, che giudizio dare del dibattito, non ancora sopito, sulla opportunità o meno di un richiamo esplicito alle «radici cristiane» nella Costituzione europea?
In primo luogo, è ovvio che nell’Europa di oggi, secolarizzata, pluralistica, multietnica e multireligiosa, non si può pensare di parlare di «radici cristiane» in senso confessionale, come avveniva al tempo della «cristianità» della prima Europa. Oggi, nel contesto europeo, accanto ai circa 560 milioni di cristiani (269 cattolici, 170 ortodossi, 80 protestanti, 30 anglicani), vivono 32 milioni di musulmani, 3,4 di ebrei, 1,6 di induisti, 1,5 di buddisti, 500 mila sikh. È ovvio che non si può definire l’Europa come un continente esclusivamente cristiano dal punto di vista confessionale. Dal canto suo, il Concilio Vaticano ii ha definitivamente chiarito che il cristianesimo non si identifica con nessuna civiltà, neppure con quella europea.
Dunque era prevedibile che la menzione delle «radici cristiane» non sarebbe entrata nell’articolato della Costituzione, anche perché essa avrebbe potuto causare delicati conflitti interpretativi, nel caso, per esempio, dell’ammissione in Europa di stati di cultura e religione diversa (come la Turchia).
Il Preambolo invece sembrava a molti il luogo adatto per ricordare l’influsso storico esercitato dal cristianesimo sulla nascita e sulla crescita dell’Europa e sulla sua civiltà, senza con ciò negare l’apporto di altre culture, come quella ebraica, greco-romana, islamica e illuministica.
Ma il Preambolo parla solo genericamente di «eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa». Tuttavia, nonostante il mancato richiamo esplicito, in realtà le «radici cristiane», come abbiamo visto, sono sostanzialmente ben presenti nella Costituzione europea. E ciò vale molto di più di un mero riconoscimento formale.
Pertanto, ora la cosa che più importa è impegnarsi a interpretare in coerenza con la loro origine cristiana i valori e i principi enunciati dall’articolo 2 della Costituzione europea, rispettandone la laicità. Infatti, la fecondità del servizio cristiano non dipende dal suo riconoscimento formale o meno. Lo afferma anche il Concilio: la chiesa «non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile; anzi essa rinuncerà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni» (GS 76).
In altre parole, la forza del cristianesimo sta nel suo stesso messaggio, nella potenza disarmata della parola di Dio e nella testimonianza coerente dei cristiani. Se alla costruzione della nuova Europa dovesse mancare il contributo effettivo di cristiani adulti e forti, a nulla servirebbe la menzione formale delle «radici cristiane» nel Preambolo del Trattato costituzionale.

Bartolomeo Sorge




OBIETTIVI DI SVILUPPO DEL MILLENNIO Largo alle donne (3)

Target 2015

L’offerta di pari opportunità è l’Obiettivo numero tre, che riconosce le sofferenze causate dalla mancata possibilità di studio e lavoro e il ruolo delle donne nella costruzione della società.

Almeno due terzi degli analfabeti nel mondo sono donne. Colmare questo divario, offrendo a entrambi i sessi le medesime possibilità di crescita, studio e lavoro, rappresenta un obiettivo cruciale, il numero 3 nell’agenda del Millennio. Il suo raggiungimento è la chiave per aprire altre porte, dalla salute infantile allo sviluppo economico e sociale di un paese.
Il ruolo delle donne nella società è considerato fondamentale per il progresso e lo sviluppo: in Asia, Africa e America Latina, dove alle donne è stata data la possibilità di accedere all’istruzione e di lavorare in piccole imprese, le famiglie sono più forti, così pure l’economia del paese. Gli Obiettivi di sviluppo del millennio sono strettamente collegati l’uno all’altro, in una visione complessiva delle necessità del mondo. Il miglioramento delle condizioni di povertà e fame (obiettivo 1) passa nelle mani del miglioramento dell’alfabetizzazione in senso globale (obiettivo 2) e delle opportunità offerte alle donne e alla loro autonomia (obiettivo 3). Ma l’accesso alla scuola e al mondo del lavoro è a sua volta possibile nella misura in cui si migliorano le condizioni generali di vita, riducendo il tasso di povertà (obiettivo 1).

UN MONDO A PARTE

L’Obiettivo numero 3 si concentra dunque sul mondo femminile e sull’importanza di offrire a tutte le donne l’opportunità di scegliere e costruirsi una vita autonoma. Sono purtroppo numerosi nel mondo gli esempi in cui l’essere nati donna ha segnato la vita fin dal primo istante: istruzione negata, matrimoni precoci e combinati, dipendenza prima dagli uomini della famiglia di origine poi dal marito imposto, impossibilità di scegliersi un lavoro e avere una retribuzione e quindi un’autonomia rispetto all’uomo di tuo, prostituzione.
Aprire alle donne le porte all’istruzione e alla possibilità di un lavoro permetterebbe loro di uscire da una spirale di sofferenza e violenza fisica e psicologica, che può anche concludersi con la morte. In Messico, negli ultimi dieci anni, circa 1.000 ragazze sono scomparse e quasi 400 uccise in circostanze violente; in Guatemala, negli ultimi quattro anni, sembra siano oltre 1.000 le donne violentate e uccise e 25.000 i casi di violenza domestica di cui si è venuti a conoscenza.
La mancanza di prospettive e progetti futuri può portare le donne al gesto estremo: in Cina, le donne che vivono nelle zone rurali, in condizioni di maggiore povertà e isolamento, tentano il suicidio da 3 a 5 volte in più rispetto alle donne di città. In Iraq, Afghanistan, Kurdistan, sono numerose le donne ricoverate per cosiddetti «incidenti domestici»; ma a volte il sospetto, purtroppo senza conferme, di chi cura le loro ustioni quando sopravvivono, è che la realtà sia diversa: è possibile che si siano date fuoco per sfuggire a un destino che, appena adolescenti, le ha viste vendute da padri o fratelli a un marito che non volevano.

TUTTE A SCUOLA

Il 2005 rappresenta una tappa intermedia per il raggiungimento della meta finale per l’istruzione: entro quest’anno dovrebbe essere uguale il numero di ragazzi e ragazze seduti ai banchi delle scuole primarie e secondarie.
Ottenuto questo, entro il 2015 l’uguaglianza deve essere raggiunta per tutti i gradi di istruzione. Rispetto ad altri obiettivi, quello sulle pari opportunità, per lo meno nel campo scolastico, è sulla buona strada e il risultato tutt’altro che illusorio. L’obiettivo per il 2005 sembra sia raggiungibile o quasi nella maggior parte delle zone geografiche: l’Asia dell’Est e il Pacifico sono quasi alla meta e in alcune zone dell’America Latina le alunne superano il numero dei colleghi maschi.
In questo quadro positivo farebbero al momento eccezione, per quanto è possibile valutare, l’Africa subsahariana e l’Asia meridionale e occidentale. Anche in queste regioni, però, il risultato potrebbe essere raggiunto entro il 2010. Le differenze di scolarità tra maschi e femmine appaiono comunque maggiori nei paesi più poveri e con in generale percentuali di completamento del ciclo primario di studi più bassi.

NEL MONDO DEL LAVORO

Analogamente ai numeri riportati per l’analfabetismo, nel mondo del lavoro le donne con un impiego sono pari a due terzi dei colleghi maschi. Se si considera il lavoro regolarmente retribuito, dal 1990 vi sono stati solo piccoli cambiamenti per il mondo femminile e le possibilità per le donne sono ancora lontane rispetto a quelle dei loro colleghi. Le uniche regioni a dare speranza sembrano essere, al momento, l’America Latina e i Caraibi, dove le donne rappresentano il 43% dei lavoratori retribuiti, e l’Asia dell’est, in cui la proporzione raggiunge il 40%.
Restringendo lo sguardo al settore delle cariche politiche, le percentuali crollano ulteriormente: l’altra metà del cielo occupa circa il 15% dei seggi nei parlamenti nazionali, con ampie oscillazioni da paese a paese, da punte del 30-40% e a crolli fino al 10%, in particolare nell’Africa del nord, nell’Asia del sud e dell’ovest e nell’Oceania.
Si intravedono però alcuni segnali positivi. Per esempio, lo scorso anno in Oman, primo paese del Golfo (seguito a breve da Qatar e Barhain) a dare, nel 1994, il diritto di voto e di eleggibilità alle donne, tre nuovi ministri (Istruzione superiore, Turismo e Sviluppo sociale) erano donne. Inoltre, a maggio in Kuwait il parlamento ha approvato un emendamento alla costituzione: le donne potranno votare e candidarsi alle elezioni.
Peraltro, la questione delle pari opportunità non è da considerare appannaggio esclusivo dei paesi in via di sviluppo. Secondo il rapporto pubblicato a metà maggio 2005 dal Forum economico mondiale (World Economic Forum), che ha valutato l’indice delle differenze uomo-donna (gender gap index) in termini di accesso scolastico, al lavoro, alle cariche politiche e all’assistenza sanitaria in 58 nazioni, l’Italia è addirittura al 45° posto, non solo dopo diversi paesi dell’Unione europea, ma anche africani (come Sudafrica o Zimbabwe), sudamericani (come Colombia o Argentina), asiatici (come Bangladesh o Thailandia).
Certo, le conseguenze delle diverse possibilità offerte in base al sesso sono condizionate dal contesto sociale e culturale in cui si verificano, ma i risultati presentati dal Forum economico mondiale invitano comunque a riflettere e a guardare anche in casa propria.

PROSPETTIVE DI VITA

Ma il discorso sull’offerta di pari opportunità si allarga dalla scuola e dal lavoro ai diversi aspetti della vita quotidiana. Alle donne è in genere affidata la conduzione della famiglia: una maggiore conoscenza e istruzione migliorerebbe le loro condizioni di vita e quelle di tutta la famiglia; avrebbe per esempio effetti positivi sulla salute dei neonati e dei bambini.
Saper leggere, scrivere, sostenere una conversazione, conoscere i propri diritti, sapersi relazionare con gli altri sono capacità che si acquisiscono grazie anche alla frequenza scolastica di primo e secondo livello. Sono capacità e strumenti che possono permettere alle donne di uscire da situazioni difficili e pericolose per la loro stessa sopravvivenza, di fare le proprie scelte in autonomia, di costruirsi una vita senza dipendere dagli altri.
Nel mondo, dal 16% al 50% delle donne con una relazione stabile subisce violenza da parte del compagno; e sempre le donne rappresentano ormai circa la metà delle persone infettate dal virus dell’Aids, proprio a causa della loro maggiore vulnerabilità, del mancato accesso all’assistenza sanitaria, del loro essere oggetto di abusi e sfruttamento sessuale, contro cui spesso non hanno la possibilità e gli strumenti per opporsi.
I mesi a venire dovranno aprire le porte al vecchio «sesso debole», che più di una volta ha smentito la definizione e dimostrato come le situazioni, e le mentalità, possano cambiare. Come hanno fatto due donne afghane all’inizio dello scorso anno. Il loro villaggio di contadini nel nord del paese era circondato da ordigni inesplosi, frutto dei bombardamenti americani nella zona. Inizialmente gli abitanti del villaggio si limitavano a stare attenti a non calpestare questi piccoli oggetti gialli. Ma quando due bambini ci hanno giocato, rimanendo dilaniati dall’esplosione, le due donne hanno deciso di ripulire il terreno e in pochi giorni hanno raccolto una settantina di bombe, facendole esplodere di notte, in una buca fuori dal villaggio.
Inizialmente gli uomini hanno considerato oltraggioso il loro comportamento: donne che prendevano iniziative di testa loro! Ora sono diventate due eroine locali.

BOX 1

METE DA RAGIUNGERE

1. Povertà e fame: dimezzare rispetto al 1990 la povertà estrema e la fame.
2. Istruzione: garantire a tutti un livello di istruzione primaria.
3. Parità dei sessi: promuovere l’uguaglianza tra maschi e femmine; dare maggiore autonomia e poteri alle donne.
4. Bambini: ridurre di due terzi rispetto al 1990 la mortalità infantile.
5. Mamme: migliorare la salute matea, inclusa la riduzione di tre quarti rispetto al 1990 della mortalità in gravidanza e da parto.
6. Malattie: prevenire la diffusione di HIV/AIDS, malaria e altre malattie.
7. Ambiente: assicurare uno sviluppo sostenibile.
8. Scienza, tecnologia, progresso: sviluppare una collaborazione globale per lo sviluppo.

BOX 2

OBIETTIVO N°3

Promuovere l’uguaglianza tra maschi e femmine e dare maggiore autonomia e poteri alle donne.

Eliminare le diverse possibilità offerte a maschi e femmine per il raggiungimento di un livello di istruzione primaria e secondaria, preferibilmente già entro quest’anno, e ottenere questo obiettivo per tutti i gradi di istruzione non oltre il 2015.
Gli obiettivi del millennio in questo campo sottolineano l’importanza del ruolo svolto dalle donne sul benessere generale della famiglia e della società: nonostante questo, che porterebbe vantaggi alla comunità intera, non viene ancora data la possibilità di realizzazione al potenziale positivo del sesso femminile, per discriminazioni conseguenti a norme sociali, incentivi e istituzioni legali.

Siti Inteet:
http://www.millenniumcampaign.org
http://www.millenniumcampaign.it
http://ddp-ext.worldbank.org/ext/MDG/home.do
http://www.developmentgoals.org/Education.htm
http://www.unmillenniumproject.org
http://web.worldbank.org
http://www.dfid.gov.uk/mdg/gender.asp
http://www.weforum.org
http://www.peacereporter.net

Grown C., Taking action to improve women’s health
through gender equality and women’s empowerment, Lancet 2005; 365: 541-43

Valeria Confalonieri




Un’esperienza di riconciliazione da esportare

MIRACOLO IN CORSO

Dialogo e perdono hanno guidato il Sudafrica sulla via della pace e della riconciliazione nazionale, diventando un modello per altri popoli in situazioni di conflitto. Con gli stessi valori umani e cristiani vengono affrontati i problemi che ancora assillano il paese.

Lo scorso aprile, il Sudafrica ha celebrato 10 anni di libertà. Il cambio politico, dalla minoranza bianca alla maggioranza nera, è avvenuto in modo pacifico e, fin dall’inizio, si è respirato uno spirito di riconciliazione, salutata come un miracolo e un segno di speranza. Nessuno di noi pensava che pace e democrazia si sarebbero potute realizzare tanto velocemente ed efficacemente come in Sudafrica.
Pur con tutti i suoi limiti, l’esperienza sudafricana è sicuramente uno dei segni del nostro tempo e quindi altamente significativa per la riflessione teologica cristiana. Essa annuncia la possibilità di pace e riconciliazione in contesti di conflitti apparentemente irrimediabili.
Tuttavia, è importante ricordare che questa riconciliazione è tutt’oggi incompleta e presenta seri problemi che dovranno essere assolutamente affrontati in un prossimo futuro. Tutto sta nell’atteggiamento da scegliere: vedere tale riconciliazione incompleta come un bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. Nella situazione attuale, l’avere un bicchiere pieno a metà, invece di un bicchiere vuoto o rotto, è già un dono per il quale dobbiamo essere grati.

Il ruolo di guida

Sono molti nel mondo a credere che il miracolo sudafricano sia stato frutto, quasi esclusivamente, del lavoro di una sola persona, un leader e statista eccezionale: Nelson Mandela. Non c’è persona al mondo che non sia stata profondamente impressionata dalla sua totale mancanza di risentimento e dal suo spirito di perdono, nonostante i 27 anni di dura prigionia.
La sua figura impressiona per la libertà personale, che gli permette di esprimere le proprie idee e fare ciò che crede sia giusto, senza essere condizionato da ciò che può pensare o dire la gente, compresi i sostenitori più accaniti. Siamo stati testimoni dei suoi straordinari gesti di riconciliazione, come quando andò a prendere un tè da Betsie Verwoerd, l’anziana vedova dell’ideatore dell’apartheid.
Mandela non è l’unico grande leader espresso dal Sudafrica. Walter Sisulu, per esempio, deceduto l’anno scorso, fu una persona eccezionalmente umile e nobile, che ispirava sentimenti patei e mai fu tentato dalla fame di potere, prestigio o denaro. È sempre rimasto nell’ombra, anche se Mandela lo ricorda come suo consigliere e ispiratore. Entrambi sono stati in prigione a Robben Island.
Inoltre, non possiamo dimenticare Albert Luthuli, primo sudafricano a vincere il premio Nobel per la pace, e Oliver Tambo, fine e infaticabile guida dell’African National Congress (Anc), che visse in esilio durante gli anni cupi della prigionia di Mandela e Sisulu e che, purtroppo, non visse abbastanza a lungo per assistere alle prime elezioni democratiche del paese. Stesso destino toccò a Stephen Biko, torturato e ucciso nel 1979 dalla polizia dell’apartheid, ma ancora ricordato come eroe e sorgente d’ispirazione.
Anche due dirigenti del Partito comunista sudafricano meritano di essere menzionati per il significativo contributo al miracolo della riconciliazione: Chris Hani, figura estremamente importante e carismatica, assassinato dai bianchi di estrema destra nel 1993, e Joe Slovo, militante dell’Anc. Nonostante fosse un bianco, Slovo seppe guadagnarsi la stima di tutti e giocò un ruolo fondamentale nel negoziato e nel primo governo, prima della morte avvenuta alla fine degli anni ’90.
Anche grandi personalità religiose contribuirono in maniera significativa al processo di pace e riconciliazione del Sudafrica: il vescovo anglicano Desmond Tutu, il dottor Beyers Naude, direttore del Christian Institute e l’arcivescovo cattolico di Durban, Denis Hurley. E poi migliaia di «eroi sconosciuti», tra cui molte donne, imprigionati, torturati e uccisi affinché il popolo sudafricano potesse godere la libertà.
Ciò che l’esperienza sudafricana ci insegna è che la giustizia, la pace e la riconciliazione possono essere raggiunte solo grazie a una leadership efficace, cioè, non solo forte e capace di imporre decisioni, ma soprattutto umile, onesta, disinteressata e fondata su una profonda libertà personale.
Usando un concetto cristiano, potremmo definire questo stile come «santità», applicata alla guida di un popolo. Il fatto che essa sia stata vissuta da persone che poco o nulla avevano a che fare con la chiesa, è una sfida alla nostra teologia.

Politica di non-razzismo

L’Anc, a cui aderiva la maggior parte dei grandi leaders politici, ha sempre sostenuto una politica non razzista. Il vero nemico, sostenevano, non era la popolazione bianca, il National Party o il presidente segregazionista P. W. Botha, ma l’ingiustizia insita nel sistema dell’apartheid. Era il sistema da distruggere, non la gente.
Il conflitto, così come era inteso, non era tra minoranza bianca e maggioranza nera, ma tra politica razzista e politica non razzista. Di fatto, i bianchi che erano realmente convinti della necessità di una politica anti-razzista lottarono a fianco dei neri, mentre alcuni neri che, per qualsiasi ragione, decisero di adattarsi al sistema di segregazione razziale, cornoperarono con la politica razzista dei bianchi. Questo avvenne soprattutto nelle cosiddette homelands o bantustans.
Il conflitto sudafricano non fu tribale, né etnico e tanto meno religioso. Difatti, escludendo tutta la gente di colore, senza distinzione di cultura, religione o origine etnica, il regime dei bianchi riuscì a suscitare l’unanime opposizione di tutti i gruppi etnici e religiosi neri. Dato che solamente coloro che erano giudicati di pura stirpe bianca erano ammessi al voto, il conflitto divenne tra razzismo e democrazia più che tra bianchi e neri semplicemente.
Naturalmente non tutti leggevano la situazione in questo modo. Ci furono interminabili discussioni se essere non-razzisti o anti-razzisti, se ammettere o meno i bianchi nella lotta, se bisognava parlare di lotta di razza o di classe. Ma non c’è dubbio che la politica di trattare il sistema di apartheid in sé come il vero nemico contribuì in maniera sostanziale alla tranquilla transizione politica e, pur con tutti i suoi limiti, alla riconciliazione che ne è seguita.
Tutto ciò ha pure reso possibile ai cristiani e persone di altri credi religiosi di appoggiare la lotta con una teologia di giustizia e pace; fu anche possibile, tra l’altro, stigmatizzare il peccato di razzismo senza odiare i peccatori.

Ruolo della società civile

Un altro elemento tipico del cambiamento in Sudafrica fu lo sviluppo di una forte società civile. Siccome solo ai partiti politici di opposizione più moderati era permesso di operare, i veri oppositori dell’apartheid, bianchi e neri, agirono dentro e attraverso gli organi della società civile. Molti sudafricani erano infatti membri di movimenti «fuori legge» come l’African National Congress (Anc), il Pan African Congress (Pac) o il South African Communist Party (Sacp), ma di fatto lavorarono in movimenti civili come sindacati, movimenti giovanili, studenteschi e femminili, come pure in organizzazioni di volontariato o non governative, che si occupavano di realtà sociali come povertà, educazione, analfabetismo o handicap. Chiese e comunità religiose, specialmente i movimenti e organismi religiosi impegnati nel campo di giustizia e pace erano pure viste come parte integrante della società civile.
All’interno di questi organismi, gente di differente colore e credo impararono a lavorare uniti contro il comune nemico: l’apartheid. Nel 1983, quasi tutte queste organizzazioni e movimenti, compresi alcuni movimenti ecclesiali, si unirono per formare il fortissimo Fronte democratico unito (Udf).
L’incrollabile fiducia nella società civile è uno dei tratti distintivi che ha caratterizzato l’esperienza sudafricana, rispetto ad altri stati africani o mondiali dove gli unici protagonisti in conflitto sono stati solo i politici di professione. Ne è un esempio la Repubblica democratica del Congo, dove la società civile non ha alcuna voce. I conflitti sono lotte di potere tra uomini politici e i loro eserciti.
È impossibile esagerare il ruolo della società civile nel miracolo sudafricano, specialmente dopo che giunse a formare un fronte comune contro l’apartheid, facendo sì che sfociasse in una vera lotta di popolo, in cui anche le comunità religiose poterono fare la loro parte.
È stata la fede delle comunità a rendere in gran parte possibile la riconciliazione in Sudafrica. Le comunità di fede, specialmente le chiese cristiane (anche se non tutte), appoggiando la lotta all’apartheid e rifiutandone l’ideologia come «eretica», hanno aiutato a smantellare la segregazione razziale e portare i politici e rivoluzionari intorno al tavolo dei negoziati.

Il cammino dei negoziati

Da anni il governo del National Party aveva cercato di contenere la rivoluzione. Al tempo stesso, l’Anc era impegnato in azioni di guerriglia urbana, nota come lotta armata; la gente comune, specie attraverso l’Udf, stava rendendo il paese ingovernabile; le chiese delegittimavano la politica dell’apartheid, mentre le sanzioni inteazionali facevano vacillare l’economia.
Il regime aveva tentato ogni forma possibile di repressione per mantenere lo status quo: arresti di massa, torture, uccisioni, intimidazioni, propaganda, giustificazioni teologiche, spionaggio, infiltrazioni, tattiche di divide et impera, massacri orrendi… fino a trovarsi a un bivio: raggiungere un qualche tipo di accordo, oppure proseguire nella distruzione reciproca, affogando il paese in un bagno di sangue.
Dal canto suo, l’Anc aveva sempre spinto per una soluzione negoziata. Le varie forme di lotta, compresa quella armata, tendevano a questo: condurre il regime al tavolo dei negoziati. I leaders dell’Anc sapevano perfettamente che una vittoria militare o un colpo di stato erano impossibili.
In entrambe le parti quasi tutti arrivarono a capire che un negoziato doveva offrire la possibilità di una vittoria per tutti, senza vinti né vincitori. Il National Party e i suoi alleati dovevano capire che non ci sarebbe stata alcuna riconciliazione senza «giustizia»; l’Anc e i suoi alleati dovevano rendersi conto che non ci sarebbe stata alcuna pace senza «compromesso».

Pace senza giustizia

Nel corso degli anni un numero crescente di bianchi venivano implorando pace e riconciliazione; però non erano disposti a sacrificare i loro privilegi e concedere uguali diritti alla maggioranza nera, in una nazione indivisa. Volevano la pace senza la giustizia. Fu necessario negoziare duramente per cambiare questa visione.
Al contrario, la maggioranza nera oppressa era sospettosa verso ogni compromesso che, in un modo o nell’altro, li avrebbe lasciati in una situazione di svantaggio o discriminazione. Era urgente trovare una risposta alle paure dei bianchi. Alla fine i negoziatori trovarono modi ingegnosi per aggirare l’ostacolo, facendo concessioni provvisorie chiamate sunset clauses (clausole del tramonto). Una di queste, per esempio, fu il prolungare la durata delle amministrazioni municipali.
Fu quindi possibile accordarsi su una costituzione provvisoria, che consentisse di giungere a elezioni democratiche, per poi scrivere una costituzione definitiva, in cui tutti avrebbero avuto il diritto di esprimersi. Oggi abbiamo una delle costituzioni più progressiste del mondo e un’efficace corte costituzionale. Risultato di tale processo è la crescita di una cultura dei diritti umani e una società fondata sulla legalità.
Il processo di riconciliazione in Sudafrica si fonda nettamente sulla fede da tutti condivisa nel valore del dialogo. Per questo, oggi, sudafricani bianchi e neri viaggiano nel mondo per portare il loro aiuto nelle situazioni di conflitto, «predicando» i valori delle soluzioni negoziate.
Una caratteristica dell’esperienza sudafricana merita di essere ricordata: i negoziati non sono stati mai mediati o facilitati da forze estee, neppure quando essi minacciavano di interrompersi o quando, in un paio di casi, erano arrivati a un punto di rottura. Il fatto che gli stessi negoziatori furono capaci di raccogliere i pezzi in continuazione e riportare il processo in carreggiata, deve essere attribuito alla eccezionale saggezza e magnanimità dei nostri leaders.

Commissione verità e riconciliazione

La risoluzione negoziata doveva includere qualche forma di amnistia per le decine di migliaia di persone colpevoli di violazioni dei diritti umani durante il regime di apartheid. Senza di essa, non era possibile alcun accordo. L’ultima clausola della Costituzione provvisoria obbligava il futuro governo a stabilire i meccanismi per regolare tale amnistia.
Nel 1995, l’anno dopo le prime elezioni democratiche, fu istituita la Commissione verità e riconciliazione (Trc), composta da 17 membri e presieduta dal vescovo Desmond Tutu, con il mandato di investigare le gravi violazioni dei diritti umani, facilitare la concessione di amnistia a coloro che avrebbero confessato tutto ciò che avevano commesso, provando che lo avevano fatto per motivi politici. Inoltre, la commissione doveva suggerire le modalità per restituire alle vittime la propria dignità e suggerire qualche forma di risarcimento.
Negli anni seguenti, furono raccolte più di 20 mila dichiarazioni da parte delle vittime, di cui 2 mila in udienze pubbliche, trasmesse integralmente dalla radio e in parte dalla televisione. Ci furono 8 mila domande di amnistia, anch’esse rese attraverso udienze pubbliche.
Per più di due anni i sudafricani dovettero ascoltare rivelazioni quasi giornaliere sui traumi del loro passato. Il faccia a faccia tra carnefici (alcuni pentiti, altri no) e vittime (alcune disposte a perdonare, altre no), fu un’esperienza ricca di emozione.
Essendo un tribunale para-legale, non poteva pretendere il pentimento dei responsabili, né il perdono delle vittime, tanto meno arrivare a fornire le prove sulla sincerità di entrambi. Questo tipo di riconciliazione appartiene infatti all’ambito religioso (come il sacramento della confessione) o alla sfera delle relazioni interpersonali.
Ci furono alcune dimostrazioni molto drammatiche di rimorso e grandi gesti di perdono sia durante le udienze della Trc che negli anni successivi. Bisogna però sottolineare che, per i più, non fu per niente facile constatare l’impunità di alcuni dei peggiori responsabili di crimini contro l’umanità. Alcuni capi dell’apartheid non si presentarono neppure davanti alla Trc. Era il duro prezzo da pagare per raggiungere la pace. Molto probabilmente si sarebbe potuto fare di più per le vittime; ma non c’è alcun dubbio che la Trc è stata un potentissimo strumento di riconciliazione in Sudafrica e senza tale esperienza non si potrebbe parlare di pacificazione del paese.

La sfida continua

Per svariate e serie ragioni, il processo di riconciliazione in Sudafrica rimane incompleto. Il razzismo, per esempio, rimane diffuso. È una forma mentale che, si sapeva, non poteva scomparire da un giorno all’altro. Si dice che è stato solo messo sotto il tappeto. Affiora di tanto in tanto e, leggendo tra le righe, se ne può riconoscere la presenza.
I bianchi, oggi, sono pronti a negare di essere «razzisti», lo sentono come grave insulto. Ma poi, capita spesso di sentire declamare frasi del genere: «Io non voglio essere razzista, però…».
Abbondano le incomprensioni fra bianchi e neri. Alcune sono di matrice culturale, altre nascono dall’incapacità di riconoscere quanto la comunità nera ha dovuto soffrire durante il regime. Nel loro insieme, i bianchi mancano di riconoscenza per il miracolo di riconciliazione avvenuto in Sudafrica.
Bisogna dire che non tutte le differenze e divisioni sono di carattere razziale e che tutti stiamo imparando, in modo sorprendente, a vivere insieme come nazione. I dirigenti attuali fanno tutto il possibile per celebrare e promuovere la riconciliazione. Il 16 di dicembre, festa nazionale che una volta celebrava una vittoria militare, ora è il nostro «giorno della riconciliazione». Lo sforzo per la riconciliazione continua, perché, come ricorda spesso il presidente Thabo Mbeki, siamo ancora una nazione divisa.
L’altro grande male è la povertà. Molto è stato fatto: costruzione di milioni di case, estensione del servizio idrico ed elettrico, miglioramento di strade e scuole, economia in espansione… eppure molte persone sono ancora disoccupate e vivono in miseria. La giustizia economica sarà la grande sfida del futuro.
Problema speciale è la criminalità, cresciuta enormemente con la fine dell’apartheid. Non sappiamo perché. Vi sono senza dubbio molti fattori concomitanti che spiegano l’aumento di rapine a mano armata, furti di auto, assalti ad abitazioni e banche, spaccio di stupefacenti, frode, corruzione, violenze sessuali e sui minori. Sarebbe troppo lungo analizzae le cause. Diciamo, tuttavia, che il Sudafrica non è il tipo di paese che permette a questi fatti di passare inavvertiti e senza la volontà di cambiarli, ma cerchiamo di aiutarci a vicenda per non diventare apatici e compiacenti.
In cima alla lista di tutti i problemi troneggia quello dell’Hiv/Aids. Il Sudafrica è uno dei paesi più colpiti al mondo da tale pandemia.
Nel prossimo futuro, la nostra democrazia, economia e lo stesso processo di riconciliazione saranno messi in crisi dalla morte di milioni di giovani, molti dei quali istruiti ed economicamente produttivi, da milioni di orfani e da una popolazione sempre più traumatizzata da questa nuova tragedia.
Il dramma dell’Hiv/Aids aggrava la situazione psicologica della popolazione sudafricana, già profondamente traumatizzata dal terrorismo del passato e dalla criminalità del presente. Altri soffrono il complesso di colpa o d’inferiorità. Individualismo e avidità si insinuano dappertutto. Molti guardano al futuro con cinismo e disincanto. Abbiamo poca pace interiore e poca libertà personale. Anche questo è un grosso problema.
D’altro canto siamo un paese dinamico, pieno di energia e attivismo. Discutiamo, dibattiamo, litighiamo e ci accusiamo a vicenda. Ma di fronte ai problemi del razzismo, povertà, delinquenza, corruzione, violenze e Aids, organizziamo proteste, mobilitazioni, dimostrazioni e campagne. Nel linguaggio politico del Sudafrica rispondiamo con il toyi-toyi (danza dei militanti contro l’apartheid, ndr).
Questo è un segno di speranza per il futuro, perché, tra l’altro, queste forme di protesta riuniscono persone di differenti razze e fedi e culture. Dal punto di vista della speranza cristiana, poi, nonostante abbiamo fatto tanta strada, dobbiamo andare ancora molto più lontano.
Lo Spirito di Dio è sempre stato attivo in mezzo a noi; ma dobbiamo riscontrare che pace e riconciliazione sono ancora limitate, poiché molti di noi, presi individualmente, non sono in pace con se stessi, non sono ancora in pace con la terra né con Dio. Senza un maggiore grado di pace interiore, gli esseri umani, in Sudafrica come altrove, troveranno sempre difficile vivere tra loro in pace e armonia.

Albert Nolan




ETIOPIA – Tra i missionari cappuccini marchigiani

In Etiopia il tempo sembra fissato per sempre. Eppure, dalla capitale, Addis Abeba, al vicariato di Soddo, la gente, umile e serena, continua la ricerca di costruire un futuro migliore… con l’aiuto dei missionari.

C’è una signora molto nervosa tra i passeggeri dell’aereo che sta scendendo su Addis Abeba. Ha gli occhi chiusi e tiene le mani conserte sulle ginocchia. Avvolta in un silenzio che sembra quello di una preghiera, un filo di pianto le riga la guancia, segnata da una sola ruga lunga e superficiale. Sono sette anni che non torna nel suo paese e, da sette giorni, non dorme per l’emozione. Solleva le palpebre e ruota impercettibilmente il collo irrigidito per la stanchezza. Dal finestrino si scorgono spruzzi di luci, misti a zone di buio fondo; due viali illuminati si stagliano su quel nero imperlato e, come due serpenti, si irradiano intorno a una corona di regina intarsiata di giornie e dolori.
Laggiù, ad aspettare la signora, si è radunata tutta la sua famiglia. Quando finalmente escono dall’aeroporto, abbracciati e sereni, le loro facce sono investite da un forte odore di erba fresca, di valle distesa tra le montagne che si apre nella mattina dai colori tersi, in mezzo ai quali si stempera l’ansia di una lunga attesa. Trascorreranno insieme il natale ortodosso; dopodiché, lei toerà a Roma a lucidare pavimenti in qualche appartamento del centro.
Ma non c’è tempo per rattristarsi. Il sole sta sorgendo. In lontananza si dirada la foschia intorno ai rilievi, qualche indistinto rumore proveniente da un orto, il fabbro che riprende a martellare e, in fondo alla via impolverata, il primo tintinnio di una borraccia di latta che gli studenti del «Centro Romagna» usano per mettervi la colazione.

Odore di polvere

Nel Centro Romagna, un grande edificio di cinque piani, i cappuccini hanno costruito le aule per l’asilo e la scuola, fino all’ottava classe. Al suono della campanella che annuncia la ricreazione, tutti si riversano nel piazzale antistante il portone per giocare al ritmo di musiche tradizionali. I maglioni celesti della divisa si mescolano ai sorrisi, al battere delle mani e al trambusto dei piedi che segnano il selciato in un ampio girotondo.
Ma le donne che scendono la collina, alla periferia di Addis, non sanno nulla della tenerezza di quel gioco, portano da una vita e sulle spalle tutta la sofferenza di un fascio di erba e legna. Ritornano in città con il materiale necessario per riparare le loro casupole, per preparare un giaciglio o, semplicemente, per accendere il fuoco. Quando si arriva nelle vie del centro, l’odore di polvere che rotola dalle colline e impregna le vesti si mescola a quello della benzina delle auto che sfrecciano davanti all’ambasciata americana, fortificata come se stesse per essere attaccata. Lungo le vie, accanto alle case in costruzione, la vita brulica tra i banchetti dei piccoli commercianti, mentre una sottile e incessante fila di mendicanti marcia verso la cattedrale ortodossa.
Nel giardino che circonda la chiesa alcuni pregano il Cristo esposto, altri bivaccano e parlottano sotto i piccoli oleandri, da dove sbucano le mani rinsecchite di chi chiede un po’ di spiccioli. Anche nella parrocchia di San Salvatore, i cappuccini cercano di venire incontro alle esigenze delle famiglie. Hanno così organizzato un incontro pubblico per decidere una linea di intervento e cornordinare gli aiuti dall’Italia, proprio per rendere più dolci le festività natalizie: solo che le richieste d’intervento sono più numerose delle mosche che si appiccicano intorno agli occhi dei bambini.
Un lavoro quotidiano, in risposta ai problemi della povertà, viene svolto da padre Tommaso Bellesi che ha creato e ora gestisce il «Centro San Giuseppe», una sorta di Caritas etiope che segue più di 5.000 casi di persone indigenti. L’assistenza garantita dai cappuccini va dalla distribuzione di vestiti e pasti al finanziamento di piccole attività economiche, fino alla copertura delle spese mediche, comprese quelle relative a interventi chirurgici e alle tasse scolastiche. Tra loro ci sono anche malati di Aids, orfani, lebbrosi, disabili fisici e mentali che, ogni giorno, formano una processione cenciosa e dannata davanti agli operatori del Centro per chiedere una scodella, un farmaco o un paio di scarpe ortopediche.
È un’umanità che lascia sgomenti, che sconvolge la mente del visitatore, la cui anima è turbata da mille interrogativi che sorgono dai cunicoli della storia, dominata dalla precarietà dell’esistenza, che qui si fa sentire con forza: al mattino, respiri e ti sfami, ma non sai se al tramonto sarai ancora vivo o se dovrai lasciare per strada un occhio, un figlio o tutt’e due.
Al pomeriggio, il Centro chiude e la città si riprende i suoi diseredati. Intoo alla grande piazza dove il passato regime comunista massacrava gli oppositori, la polizia dell’odierno governo multipartitico non li fa girare. E allora se ne vanno in periferia, a mucchietti intorno agli incroci, fermi davanti alla fermata dell’autobus che non prenderanno mai. Un viso intagliato nella pietra scura guarda fiero la sera che scende sui negozietti di semi e di tessuti, ritagliando bizzarri giochi di ombre e di luce. E, tra quella massa grigia di storpi e affamati, ogni tanto si infila a zig-zag un monaco ortodosso con il suo candido mantello.

Il «palo» della cultura

Quando si esce da Addis Abeba, si entra in un altro mondo. L’unica strada per raggiungere il sud è asfaltata solo nei primi cento chilometri, poi si trasforma in una pista piena di buchi, che incrocia ogni tanto il letto di un fiume in secca. Lo sterrato attraversa valli e gole che si aprono sull’altopiano, in un dislivello (rispetto alla capitale) di circa 700 metri di altitudine. Lungo il tragitto, si incontrano i segni vivi dell’economia e della cultura di questo paese: venditori di collane, qualche contadino che zappa la terra, piccole chiese copte, sepolcri recintati, capanne di paglia, greggi di pecore e mandrie di buoi.
Colpiscono i pastori di dromedari, sparsi sotto i sicomori e avvolti in un logoro mantello che lascia scoperto solo il viso: maschere di un tempo antico, bocche spolpate con i denti storti e marci sotto due occhi infuocati. Sono immobili, con il bastone in mano nel bassopiano sferzato dal vento e limitato tutt’intorno da una caligine turchese, che avanza sulla sabbia a piccoli banchi.
Nonostante il tempo sembri fissato per sempre, il popolo si muove. Ai lati del cammino, scorrono due fiumi di persone: donne, uomini e bambini si dirigono al mercato o rientrano da scuola, vivono la loro storia nella polvere, socializzano sulla strada, con le suole rotte o scalzi e affaticati, con i morsi della fame, con poche monete racimolate che ballonzolano nella tasca, mentre un asino carreggia due sacchi di pietre per una casa nuova.
Dopo sette ore di viaggio e 400 chilometri, si giunge a Soddo, fulcro della regione del Wolayta, dove i tetti di lamiera brillano tra la vegetazione, sommandosi ai tradizionali tukul di paglia e legno.
A Soddo, sede del vescovo Domenico Marinozzi, uno tra i missionari della prima ora, i cappuccini hanno fondato e amministrano l’altra metà della missione in Etiopia: asili, scuole di formazione, piccole attività economiche, presidi sanitari, parrocchie, seminari, centri culturali, pozzi per l’approvvigionamento idrico.
Nella comunità di Konto, attiva sin dal 1969 (anno in cui la missione arrivò in questa zona), il giorno inizia presto. Dalla piccola chiesa si sentono il suono del tamburo e i canti delle novizie che accompagnano la messa, celebrata in lingua amarica. L’aria è fresca e trasparente e si lascia invadere dolcemente dai primi caldi raggi del sole.
Intanto, dai villaggi arrivano i piccoli scolari che, per tradizione, iniziano le lezioni con l’alzabandiera, mettendosi in fila davanti ai vessilli dell’Etiopia e del Wolayta, intonando un canto e una preghiera.
In un altro padiglione della comunità, gli studenti più grandi occupano le aule della scuola dei mestieri, finanziata dalla Confartigianato della provincia di Ancona. Sono circa 50, cornordinati da un insegnante italiano in pensione, venuto quaggiù come volontario. Studiano la teoria, ma fanno anche molta pratica nei laboratori per diventare falegnami, fabbri e meccanici con l’auspicio che, un giorno, possano avviare una attività in proprio.
A poca distanza da Konto, padre Gino Binanti ha aperto da qualche anno il «Wolayta Tuussaa», un centro culturale per i giovani. Nella lingua locale tuussaa indica il palo che regge la capanna, sul quale non solo convergono i tronchi che costituiscono il tukul, ma la famiglia lo usa per appendervi i ritratti degli antenati. Significa, dunque, fondamento. E la cultura è, in un certo senso, la base di tutto; senza di essa non c’è sviluppo.
Da qui nasce l’intuizione di padre Gino: aggregare i giovani attraverso lo sport e altre attività culturali ed educative (come la musica) al fine di non disperdere il patrimonio delle tradizioni popolari. Può sembrare bizzarro adoperarsi per cose immateriali, come la cultura, in un luogo dove si muore di fame; invece, il compito missionario del Tuussaa è preziosissimo.
In primo luogo perché, privati delle proprie radici, i giovani che scelgono di trasferirsi nella grande città sono spesso carne da macello per sfruttatori senza scrupoli; poi, creare le condizioni affinché i giovani possano esprimere il loro talento significa basare lo sviluppo sulla coscienza delle proprie risorse ed energie creative. Al momento, al Tuussaa si danno appuntamento un’apprezzata squadra di calcio e un gruppo musicale, che porta in giro per la regione il suo repertorio di canti e balli.
con occhi di silenzio
Ma padre Gino vorrebbe fare di più. Il suo progetto, ancora in fase embrionale, è di costituire un museo etnografico e una biblioteca in modo da proporsi come associazione specializzata nel turismo e formare, quindi, guide competenti in un settore che potrebbe fungere da volano per la depressa economia locale. In un altro ambito cruciale nonché di emergenza umanitaria, quello sanitario, opera la clinica di Dubbo, distante alcuni chilometri da Konto.
Inaugurata nel 2000, frutto della collaborazione tra un gruppo di benefattori marchigiani, consorziati in una fondazione per dare continuità al servizio, e il Cuamm (Centro universitario aspiranti missionari medici) mette a disposizione un reparto di chirurgia e una pediatria, quest’ultima con venti posti letto.
Per coprire le spese di degenza, si chiede una piccola somma; mentre per quanto riguarda i pazienti visitati mensilmente le stime parlano di 5.000; alcuni provengono addirittura dalla frontiera con la Somalia. Il personale della clinica, formato da medici italiani volontari e infermieri etiopi, deve misurarsi con la malaria, la tubercolosi, l’epatite virale, il glaucoma e soprattutto l’Aids che, per vergogna e disinformazione, viene nascosto come se fosse una colpa divina, finché il virus non si manifesta in tutta la sua virulenza.
Anche il parto rappresenta un pericolo per la vita. Per raggiungere la clinica, molte mamme affrontano a piedi uno spostamento di 5-6 ore, compromettendo seriamente l’esito dell’operazione. In assenza di mezzi di trasporto, il malato viene trasportato dai suoi parenti su una barella fatta in casa, percorrendo diversi chilometri. È davvero un popolo in cammino.
A Boditti (una piccola comunità, sempre nel comprensorio di Soddo) è sorto un calzaturificio, con macchinari giunti dalle Marche, che attualmente non naviga in buone acque, ma che presto si riprenderà alla grande. Le suore della comunità in cui il laboratorio è stato costruito lo sperano con tutto il cuore, perché il popolo che si raduna intorno alle parrocchie chiede quotidianamente un aiuto. E, quando si sparge la voce di un nuovo censimento per individuare i bambini e le famiglie da inserire nel progetto di adozione a distanza, vengono a frotte dai villaggi più sperduti.
L’adozione a distanza è un programma di assistenza che i cappuccini hanno avviato da molti anni e che riguarda circa 6.000 bambini. Per loro significa ricevere una benedizione, in quanto in Etiopia la guerra e le carestie hanno prodotto molti orfani e lasciato piaghe insopportabili. Drammatica è la realtà dei ragazzi di strada, ai quali i frati stanno cercando di dare una degna sistemazione con un’iniziativa che sta partendo a Borkoshé, piccola comunità non lontana da Soddo. Bambini con le croste ai piedi, i lineamenti delicati mortificati in un’espressione imbronciata del viso, rassegnata, quasi da vecchi, con capelli e pelle imbiancati dalla polvere.
Per entrare a far parte del sistema di solidarietà, grazie al quale riceveranno una famiglia italiana disposta ad «adottarli» nelle spese scolastiche e in quelle concrete di tutti i giorni, si mettono in fila silenti, accompagnati da un adulto, guardando fissi nel vuoto, con occhi che contengono solo la fame e il loro nome.

Il natale dei poveri

Tutta l’Etiopia si prepara per festeggiare il natale. Le entrate dei bar e dei negozi sono adoate con piccole luci a intermittenza. In tutte le comunità cristiane intorno a Soddo, il popolo si incontra per il rito della santa notte. Un gruppo di catecumeni, stanziato sui monti che delimitano la valle del fiume Omo, sta scendendo sulla spianata per raggiungere la chiesa di Bale, percorrendo a piedi un sentirnero di sei ore.
Nelle parrocchie dei cappuccini, i giovani hanno preparato varie scenette: un teatro povero e popolare che si ispira al vangelo, in attesa della celebrazione della Parola. Come a Embeccio, la grande chiesa costruita da poco dove, tra l’altro, si raccoglie una laboriosa comunità agricola. Dopo lo spettacolo, una folla con i gomiti sbucciati, qualche toppa sugli indumenti, sommessa ma anche istintivamente viva e sincera, entra in chiesa e inizia a pregare. Da ogni altare si diffonde il canto di una corale; lungo le strade i pubblici ufficiali escono dai loro piccoli e spartani presidi, appoggiano il kalashnikov sul muro e si siedono sotto un fascio evanescente di una lampadina, mentre un presepe essenziale luccica dentro la sua grotta, buia come la notte.
Al mattino, gli altoparlanti della chiesa ortodossa mandano la musica e le parole del predicatore che invita a partecipare alla processione. Anche i movimenti protestanti iniziano alle prime luci dell’alba a sfilare per le vie di Soddo, invasa dai veli bianchi, con i quali le donne si adoano nei giorni di festa. Sulle strade dissestate sembrano aghi mobili sulla terra rossa, disseminati alla rinfusa, muovendosi in ogni direzione, sotto una luce che appiattisce ogni spessore, leviga ogni spigolo, rende tutto comunione e armonia.
Dopo aver partecipato alla processione, Manina, una studentessa, è ritornata a casa per il pranzo con la famiglia. Il pavimento è ricoperto di foglie di granoturco, la sorella più piccola è impegnata nell’antica cerimonia del caffè, che sarà servito molte volte, visto che la casa è aperta ai parenti e a tutto il vicinato. Non esiste la regola dei regali; ci si incontra e si sta insieme, come del resto è d’uso fare anche gli altri giorni. Nella sua stanza, Manina ha i libri in inglese con i quali sta preparando il prossimo esame di economia all’università.
Nella sala da pranzo accende la televisione e, da Addis Abeba, giunge un servizio sui mercati che pullulano di manufatti e scorte alimentari; alcune industrie pubblicizzano i loro prodotti di cosmesi da cartelloni arrugginiti e sbiaditi, piantati lungo il viale che conduce all’aeroporto, da dove la signora delle pulizie aspetta il suo volo per ritornare a Roma.

Paolo Brunacci




SUDAN – Viaggio in un paese ex cristiano

LA CIVILTA’ NEL DESERTO

Alla scoperta di un pezzo di una grande nazione africana,
ricca di storia e risorse, ma ambita da molti.
E dove il cristianesimo è – ahimè – soltanto un lontano ricordo…

Sudan. Un paese che molti considerano pericoloso. Uno stato canaglia, è stato definito. Il più grande dell’Africa, otto volte più vasto dell’Italia e tra i meno densamente popolati: solo 7 abitanti per chilometro quadrato.
Ho potuto vedere solo una piccola regione, la Nubia, legata alla storia dell’antico Egitto. Rimpiango il cielo, i sorrisi, la dignità della gente e i colori. In Sudan ho visto povertà, una vita semplice ed essenziale, quella del deserto. Forse, quella che amo.

Verso la Nubia

Il primo giorno, a Khartoum, lo dedichiamo al pellegrinaggio sulla tomba del Mahdi, il carismatico condottiero che riuscì a liberare il paese dal dominio anglo-egiziano (per un breve periodo) tra il 1885 e il 1899. Attraversiamo il Nilo sul nuovo ponte costruito dai cinesi, sostiamo nel ricco mercato di Omdurman per fare provviste e cerchiamo, poi, il luogo dove sorge il mausoleo: una cupola argentea in un giardino ombroso. Resto in disparte, osservando i fedeli che sostano in preghiera.
Incontro così una famiglia di profughi dal Darfur, venuta a pregare per la guarigione del figlio, un bimbo febbricitante e smagrito. Solo il padre sa spiegarsi in inglese, mentre la mamma, avvolta in un sari rosso, il viso assorto e la pelle molto scura, tace. Mohammed mi racconta di essere arrivato sette anni fa e di essere tuttora ospite di parenti, perché non ha ancora trovato lavoro.
Rientrando nella capitale, sosto presso l’imponente cattedrale cattolica che non si può fotografare, al pari del palazzo del presidente. Qui incontro un anziano missionario comboniano che, dopo 50 anni di servizio ai poveri, ha deciso di rimanere nel paese. Il governo tollera la presenza di salesiani e comboniani per la loro preziosa opera sociale, per le scuole professionali e i licei, frequentati dai figli delle famiglie più influenti del paese.
In Sudan vi sono centinaia di etnie e moltissimi idiomi. Noi siamo diretti a nord, nella Nubia, dove la popolazione è stata influenzata dall’Egitto, ma anche dalla cultura greca, cristiana e romana e dai primi esploratori europei. Seguiamo il corso del Nilo, sostando nella cittadina di Shendi, un tempo famosa per l’artigianato.
Il tempio di Musawwarat è il più vasto del Sudan. Il clima doveva essere molto diverso, a quel tempo. Nel grande recinto si trovano, infatti, molte rappresentazioni di elefanti, oggetto di culto, e del dio leone Apedemak, rappresentativo della regalità dei sovrani di Nubia. Non lontano, visitiamo un tempio che già dal nome, Naga, ricorda i contatti con la cultura indiana. I rilievi sulle pareti di arenaria sono nitidi, molto belli. Si nota la coppia di sovrani che incontra Apedemak, rappresentato con più braccia con altre divinità: Iside, Amon e alcuni prigionieri dai lineamenti mediterranei e africani.
Davanti al tempio, una curiosa costruzione, sempre in arenaria lavorata in capitelli e archi, denuncia le influenze greco romane, mentre un tempio dedicato ad Amon si trova su una collina, preceduto da una serie di arieti: sepolti da secoli nella sabbia, sono stati recuperati dagli archeologhi tedeschi.
La sera, il vento cala e ci sistemiamo nelle tende, sotto il cielo stellato. La mattina è radiosa, il cielo finalmente limpido. Sono davanti a noi le colline dove svettano le piramidi di Meroe, la capitale del regno di Kush, famosa nel mondo commerciale greco e romano dal 500 a. C. al 350 d. C.
I sovrani, allora, venivano sepolti con ricchi tesori. Ci avviciniamo a piedi e notiamo i danni fatti nel 1834 dall’italiano Ferlini, un avventuriero che utilizzò manovalanza locale per cercare i giornielli delle regine, ora conservati a Monaco e Berlino.
La sera, il cuoco prepara le melanzane fritte, buonissime. Gli autisti riposano; solo Atif, l’egiziano, è intento a fumare il narghilé; originario di Luxor, è arrivato bambino con la famiglia e non ha alcuna intenzione di ritornare in Egitto. «Questo è un paese molto ricco, nel futuro ci sarà grande sviluppo e io voglio approfittae». Poco pratico del deserto, Atif ci creerà problemi con la sua vettura, una Toyota malandata che dovremo lasciare nel deserto, a 50 chilometri dalla nostra meta.

Tracce cristiane

Lasciamo il Nilo e ci inoltriamo nel deserto del Bayuda, seguendo una pista che ci riporterà sulle sue rive, presso la cittadina di Merowe. Rarissime sono le abitazioni e i segni di vita, limitati nei dintorni dei pozzi. Qui, assistiamo a scene bibliche. I greggi devono venire dissetati e l’asino è l’aiuto principale per tirare su l’acqua negli otri di pelle; per il trasporto ci sono anche i dromedari, che, in Sudan, sono snelli ed eleganti, color miele.
Tra insabbiamenti e rotture di balestre, quando raggiungiamo le sponde del Nilo è scesa la sera. La pista diventa difficile da percorrere, per via del limo accumulato durante le inondazioni. A Merowe ci aspettano le feluche e, durante la traversata, si tace, emozionati. Nel cielo stellato sta sorgendo la luna.
Karima è al centro di una zona archeologica importante e ci fermeremo per visitare i dintorni, le piramidi della necropoli di Nuri, della 25a dinastia, e le tombe di Kurru, con i sorprendenti affreschi in stile egizio.
Saliremo all’alba sul gebel Barkal, la montagna sacra, che domina l’abitato e da cui si ammira il Nilo con la fascia verde di coltivazioni. Verso ovest, il gruppo di piramidi più belle e misteriose della Nubia.
Old Dongola fu capitale di un regno cristiano per quasi mille anni. La si raggiunge facilmente da Karima attraverso il deserto, dove piantiamo le tende ai piedi di un’altura pietrosa. In lontananza, si vedono le cupole di fango di una necropoli islamica, dette qubbe. Una missione polacca ha iniziato a scavare nella zona sin dal ’64, riuscendo a portare alla luce splendidi resti di basiliche e monasteri, colonne di granito, capitelli decorati con croci.
Su di una collina, da cui si domina la valle del Nilo, sorge una costruzione massiccia: era un monastero e un’iscrizione attesta che, nel 1317, un re islamico la trasformò in moschea.
I nubiani, discendenti delle popolazioni della valle del Nilo a sud di Assuan, furono influenzati dalla cultura egizia e si convertirono al cristianesimo monofisita nel vi secolo. Solo 8 secoli dopo, i mamelucchi egiziani riuscirono a sottometterli, costringendoli a convertirsi all’islam. «La prima chiesa di Old Dongola fu costruita dal vescovo di Assuan nel vii secolo – mi racconta Stefan, accompagnandomi nel complesso di edifici che formavano il monastero.

Il Nilo

Sono arrivati i cinesi. Anche qui, come in tutti i paesi del mondo, si confermano come i più aggressivi e pronti a sfruttare ogni occasione buona. Siamo sulla via del ritorno, ma la quarta cataratta non la potremo vedere, perché stanno brillando le mine. Un altro mostro ecologico sta sorgendo lungo le rive del grande fiume, una diga che darà energia e sviluppo alle città, distruggendo l’ecosistema e creando un bacino artificiale che coprirà anche i resti delle antiche civiltà.
Il Sudan è molto ricco in risorse naturali: petrolio, oro e altri preziosi minerali; ma la più importante è forse proprio l’acqua del fiume. A Khartoum, il Nilo Bianco, arricchito delle acque di grandi affluenti, si unisce al Nilo Azzurro, che scende dall’altopiano etiopico. Poi il corso è interrotto da una serie di cataratte, difficili da superare con le imbarcazioni e le rive sono abitate da gente che conserva abitudini antiche e coltivano la stretta striscia di terra fertile. Solo a Khartoum è possibile attraversare il Nilo su uno dei due ponti, uno di epoca coloniale e l’ultimo, recente, costruito dai cinesi per smaltire il traffico aumentato negli ultimi anni.
Si parte da Karima che fa ancora buio, per raggiungere il luogo dell’imbarco. Qui incontro Ibrahim, un signore alto e magro che porta con eleganza il tipico turbante bianco e l’abito immacolato. «Ho studiato a Khartoum – mi dice in perfetto inglese – ho due mogli e sette figli. Alcuni vivono e studiano nella capitale. Nel mio villaggio, El Kurru, svolgo la funzione di imam (colui che guida la preghiera)».
Ibrahim è un rispettato commerciante di cammelli, che oggi si mette in viaggio per la regione occidentale del Kordofan, confinante con il Darfur, dove ha intenzione di acquistare un centinaio di capi che rivenderà in Egitto, ad Assuan. «Se riesco, spedirò gli animali su un camion, altrimenti ci vorranno 15 giorni di pista carovaniera per arrivare in Egitto». Mi sorprende quando vuole darmi il numero del suo cellulare: «Chiamami, se ti fermi a Khartoum».
L’ultimo giorno lo passerò a Khartoum. Come in tutte le capitali africane, qui si possono conoscere i vari aspetti del paese. Arrivando dal nord, abbiamo attraversato le periferie dove abitano migliaia di rifugiati in case di fango, basse, prive di acqua e servizi. I mercati sono estesissimi e ricchi di colore. Era l’ora di uscita delle scuole e le studentesse portano divise belle e colorate, sempre con il fazzoletto sul capo, pantaloni attillati e tuniche corte. Sono numerosi i colleges e le università a Khartoum e non ho avuto l’impressione che le donne siano discriminate.

L ascio Khartoum nella notte, con un volo della Lufthansa che trasporta pochissimi passeggeri, come al nostro arrivo. L’equipaggio non si ferma mai in Sudan, è salito al Cairo e ora vi ritorna, direttamente. Ho avuto l’impressione di lasciare un paese blindato, assediato da stranieri che vedono nelle ricchezze potenziali del paese un motivo per cercare di inserirsi e fare affari.
Arrivare in Sudan non è facile, per ottenere il visto ci vuole tempo e pazienza. Proibita la telecamera, non si può fotografare il palazzo presidenziale e altre strutture (come i ponti). Lo stesso accadeva anni fa in Iraq, durante una mia visita in cui, come qui, avevo apprezzato le doti di gentilezza, ospitalità e civiltà della popolazione. Spero che un domani questo paese non debba diventare bersaglio di una guerra «preventiva»: troppi sono gli interessi puntati su un territorio poco popolato e ricchissimo di materie prime.

Claudia Caramanti