Amore contro i mulini a vento

Dati alla mano, frutto della sua ricca esperienza di medico in missione, la dottoressa Chiara Castellani ci racconta la sua lotta quotidiana contro l’Aids nella Repubblica Democratica del Congo. Povertà, scarsezza di risorse e anche qualche retaggio culturale da «purificare» sono alla base di questo racconto molto umano. Una voce in difesa di una generazione che sta scomparendo. Ed un rimedio extra-medico che sempre causa beneficio: l’amore umano.

A partire dall’inizio degli anni ‘80, quando i primi casi di Aids furono rilevati nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), la situazione epidemiologica non ha cessato di evolversi, fino a diventare oggi un vero e proprio problema della società. Ciò risulta chiaro, quando si considerano la sua enorme diffusione nel paese e il suo impatto sugli individui, le famiglie e le comunità; per non parlare di quello sul vissuto della sessualità e della mateità/pateità. In particolare, la situazione congolese in merito alla distribuzione e utilizzo di reattivi per il sangue sicuro (per trasfusioni e operazioni) appare anarchica ed inefficiente.
Questo, nonostante i paesi dell’Unione Europea stiano intervenendo più specificamente nel settore della prevenzione, compiendo peraltro il grosso errore culturale di focalizzare la prevenzione sul solo uso del preservativo. In assenza di un programma nazionale di trattamento antivirale, si è obbligati a utilizzare la diagnosi sierologica (che, oltretutto, sta risultando sensibile ma poco specifica) unicamente per identificare i sieropositivi fra i donatori di sangue.
Mentre la prise en charge del malato si limita al solo trattamento palliativo. Negando di fatto l’accesso alle terapie antiretrovirali e, pertanto, ripetendo lo stesso errore compiuto per quasi un ventennio con i nuovi trattamenti tubercolostatici short cours, che erano «privilegio» delle forme resistenti fino al 1996 ed ancora a pagamento nel 2003.
Come per la tubercolosi, negare l’accesso al farmaco efficace, benché non curativo, rischia di avere un effetto boomerang sulla diffusione del virus. Infatti, non solo il trattamento riduce la contagiosità, ma anche e soprattutto – come conferma l’Oms. (Organizzazione mondiale della sanità) per tutti i paesi interessati dalla pandemia – il malato condannato a morte a cui viene svelata la diagnosi, ma negato il trattamento, rischia di assumere un atteggiamento di rivalsa che ne accentuerà il comportamento a rischio (diretto deliberatamente contro la prevenzione e verso la propagazione del contagio).
Senza contare che l’essere umano, di tutte le razze e culture, a cui viene negato un futuro che ad altri, più ricchi, è viceversa garantito per legge, cercherà prima di tutto di «eternizzarsi», mettendo al mondo un figlio che personifichi il futuro negato.

Con le cifre non si scherza

Attualmente, sono rimasti cinque dei quattordici «posti-sentinella» per i rilevamenti di casi Hiv-Aids, istituiti nel 1992 nell’ambito di un progetto Unaids: Kinshasa, Karawa (Provincia Equatore), Mikalay (Kasai occidentale), Kibondo (Kasai orientale) e Sendwe (Katanga). Ma indagini più approfondite in tutto il paese sono auspicate da molto tempo.
Statistiche a livello nazionale, realizzate attraverso il sistema di informazione sanitario, stimano meno di 10 mila i nuovi casi di Hiv nel 2004. Ma i responsabili del «Programma di lotta all’Aids» della cooperazione italiana (attualmente sospeso per mancanza di fondi) e della cooperazione tedesca (Gtz) commentano: «Sarebbe un caso unico in cui un’epidemia è entrata da sola nella fase discendente della sua curva, senza alcun intervento né preventivo né curativo». Infatti, chi analizza l’evidenza delle circostanze vissute nella Rdc negli ultimi 10 anni, stima che i tassi relativi alla prevalenza nel paese, siano molto più elevati rispetto al 5% ufficialmente dichiarato dalle autorità politico-sanitarie. In effetti tale percentuale esprimerebbe una riduzione della prevalenza, rispetto alle ultime statistiche veramente affidabili realizzate dal Prof. Peter Piot, verso la fine degli anni ‘80. Riduzione da considerarsi inspiegabile e non reale, se si considera che nessuna azione preventiva su larga scala è stata lanciata, e che i preservativi (relativamente costosi, difficilmente reperibili e culturalmente poco accettati, soprattutto nelle zone rurali) sono disponibili solo a pagamento ed esclusivamente sul mercato della capitale.
Infatti, i molteplici movimenti di truppe e i flussi migratori, sia all’interno del paese che verso e da paesi confinanti, con tassi di prevalenza di Hiv-Aids molto alti, hanno esposto il Congo all’esplosione e all’ampia diffusione del virus, tanto nelle zone urbane, come nelle rurali (rapporto Oms/Unicef, luglio 2001).
Ma esistono anche cifre reali ben differenti, basate sulle informazioni raccolte attraverso gli osservatori regionali. Da recenti indagini condotte tra famiglie apparentemente sane e donatrici di sangue in Kalemie (Katanga settentrionale), un terzo dei donatori è risultato positivo all’Hiv. Inoltre, da uno studio di pazienti presso il General Hospital, a Bukavu, è emersa una prevalenza del 32% tra gli uomini adulti, il 54% tra le donne adulte e il 26,5% tra i bambini.
Nel Bandundu, dove la presenza di truppe è stata limitata nel tempo e geograficamente, il problema sembra meno eclatante, ma a Tembo, cittadina nota per il traffico dei diamanti ai confini con l’Angola, la prevalenza dei sieropositivi fra i donatori di sangue nel primo semestre del 2005 arrivava al 18%, benché si tratti di zona rurale. In tutto il paese si parla di 173 mila nuovi casi all’anno, con un totale di circa 1,3 milioni di adulti e bambini già affetti da Hiv.
Nel caso specifico delle strutture sanitarie della diocesi di Kenge, in assenza di terapie combinate antiretrovirali (disponibili solo a Kinshasa nel quadro di un «progetto pilota», ma a tariffe talmente elevate da essere comunque accessibili solo a pochi privilegiati), ed anche della profilassi alla Nevirapina per le partorienti (anch’essa disponibile solo nei grandi ospedali di Kinshasa, e sconosciuta negli ospedali dell’interno), gli unici interventi possibili sarebbero l’uso del preservativo e il «test rapido per l’Hiv».
L’utilizzo del primo è pressoché inesistente nonché culturalmente rifiutato perché, nell’immaginario collettivo, viene associato a un vissuto di imposizione politica del controllo delle nascite e, quindi, tacciato di provocare la sterilità. Il secondo è reperibile in modo irregolare, solo a pagamento e in quantità talmente esigue che diviene obbligatorio limitae l’uso alle sole trasfusioni.
Nel caso di positività del donatore, poi, conformemente agli orientamenti dell’Oms, ci si deve limitare a dire che il sangue è risultato essere «incompatibile» e scartarlo. Di fatto gli ospedali della diocesi di Kenge (e in genere le strutture sanitarie dell’interno del paese) non dispongono di una struttura di counselling capace di far fronte alla tempesta psicoemotiva che fa seguito alla diagnosi di sieropositività (che in assenza di trattamento costituisce una vera e propria sentenza di condanna a morte) e di evitare che il malato presenti una reazione paradossale di incremento del comportamento a rischio.
A Kimbau, il personale ha cominciato a rifiutare il dono di sangue perché terrorizzato dall’ipotesi di trovarsi di fronte a una positività del test. La gente comune non viene neanche informata sul fatto che il test viene realizzato, per evitare che, in caso di emergenza, rifiuti di donare il sangue. I donatori volontari che hanno accettato coscientemente di sottomettersi al test non sono che due per tutta la zona sanitaria di Kimbau: parlare di «Banca del Sangue» è ancora un’utopia!
Anche le attività di educazione sanitaria sembrano essere piuttosto limitate, a causa della mancanza di attrezzatura di base: fanno eccezione i cornordinamenti delle scuole cattoliche, protestanti e kimbangwiste, che dal 1998 stanno portando avanti un’azione di educazione sanitaria nelle scuole che, pur ammettendo l’uso del preservativo, preconizza l’astinenza per i giovanissimi e la fedeltà all’interno della coppia per i giovani già sessualmente attivi. Nel 1999, dopo sei mesi di «progetto pilota» nella sola parrocchia di Kimbau, il programma educativo è stato adottato anche nelle scuole cattoliche della diocesi di Kenge.
Inoltre, nell’anno scolastico 2003-2004, si sono svolti a Kenge seminari di formazione per gli insegnanti di scuola primaria e secondaria, con distribuzione di materiale destinato alle classi superiori, prodotto con sostegno scientifico e finanziario di Medicine Sans Frontière. Con il sostegno della Ong italiana «Aifo» è prevista la conduzione di seminari diretti alla «formazione dei formatori» (presidi, direttori di scuole primarie e insegnanti selezionati) sui temi vari, quali: Aids e malattie sessualmente trasmissibili, lebbra, tubercolosi, tabagismo, alcolismo, nutrizione ed altri temi prioritari di educazione sanitaria e prevenzione.
Purtroppo, nel frattempo, chi è ammalato di Aids, dovrà scegliere fra il negarlo a se stesso e agli altri e il crollare nella disperazione perché, al momento, non gli può essere garantito alcun trattamento. Alcuni, magari, cercheranno disperatamente di generare ancora un figlio prima di morire, senza considerare le possibili, drammatiche, conseguenze.

Vite travolte dall’Aids

La storia di Albert Kikanda è esemplare di questa tragedia che si sta consumando in Congo. Alto, slanciato, prestante, campione di calcio, innamoratissimo di sua moglie Aimedò Mambanzi e legatissimo ai cinque figli, Kikanda presenta i primi sintomi della sua sieropositività appena diplomato infermiere specializzato e nominato «supervisore per casi di lebbra e tubercolosi».
Non fa nemmeno in tempo a installarsi nel suo nuovo ruolo, che comincia a vivere su se stesso il dramma dell’autodiagnosi progressiva. È il mese di giugno del 1999 e Kikanda scopre il bacillo di Koch nei suoi stessi polmoni. «Tu sei sempre a contatto con i malati, per forza sei esposto. Ñon fumi, non bevi, ma forse hai sudato troppo durante l’ultima partita; puoi aver preso freddo».
Poi, gli parlo di un noto campione di calcio italiano degli anni ‘70, che ha sofferto di tubercolosi, ma poi è diventato più forte di prima. Mi sorride amaro, pensa a quella sua fidanzata a Kenge, quando lui aveva ancora 20 anni, prima di conoscere Aimedò. Era bella, ma poi si è ammalata di tubercolosi, è guarita, ma è morta lo stesso, misteriosamente.
Anche Kikanda guarisce, grazie alla cura che cerca di avere per se stesso. Dopo qualche mese ricomincia a giocare a calcio; intanto, impara ad operare, mentre continua a seguire i malati di tubercolosi. Sta bene fino al luglio 2001, poi ricomincia la febbre. Un giorno mi chiama in disparte, nel retrobottega della farmacia «ho delle bollicine sul pene», mi dice. Mi basta un’occhiata per fare la diagnosi, che lui, d’altronde, già conosce fin troppo bene: «È un herpes Zoster». Glielo nomino chiaro e tondo, col nome scientifico, sapendo cosa significa avere il «fuoco di sant’Antonio» per qualcuno che ha già sofferto di tubercolosi.
Non pronunciare il vero nome, mi sembrerebbe di offendere la sua intelligenza. Ho un campione di Aciclovir e glielo dò. Guarisce, ma il gonfiore delle ghiandole linfatiche all’inguine non scompare. Dopo un po’ le scopre sul collo, sotto le ascelle… La febbre ricomincia, associata a dolore addominale e a diarrea intermittente. «Non ti sarai mica beccato il tifo?», gli chiedo.
Sarà, ancora una volta, il trattamento tubercolostatico a ottenere la fine dei sintomi. Quando viene a Kimbau il cornordinatore provinciale di «lebbra e tubercolosi», trovandolo di nuovo malato, mi chiede perché Albert non ha mai subito il test di Dupont (Hiv-check). Gli spiego che qui a Kimbau abbiamo chiamato quest’esame «test Mambanzi» perché la sola persona autorizzata a praticarlo è papà Mambanzi, il decano degli infermieri, ma anche il padre di Aimedò, suocero, quindi, di Kikanda. Non può certo essere lui a porre una diagnosi del genere a suo genero e, forse, subito dopo, anche a sua figlia, e ai figli di sua figlia, specialmente il più piccolo che è spesso malato…
Partiamo assieme alla volta di Kinshasa nell’agosto 2001. Compiamo un viaggio rocambolesco, su un camion che cade per tre volte in panne in 500 Km. Lo accompagno all’Istituto Nazionale di Ricerca Biologica (Inrb) per prelevare il test, che ci costa un occhio della testa: fortuna che è venuto Salvatore per darci una mano. Ci danno appuntamento per cinque giorni dopo, ma il giorno stabilito, Kikanda, non si presenta all’appuntamento che ci siamo dati presso l’Inrb. Inutilmente l’aspetterò per più di un’ora: non verrà, ha troppa paura. Benché io sia medico curante, non ho diritto di ritirare quel test a nome suo. Ci metterò un anno per convincerlo che non devo essere io a ritirare il test, ma deve essere lui, in persona. Nell’ottobre 2002, siamo di nuovo assieme all’Inrb, ma quando chiediamo di ricevere la risposta di un esame vecchio di oltre un anno ci mandano letteralmente al diavolo: «Non potevate ritirarla a suo tempo? Adesso dove la troviamo?». Insisto, dicendo che con quello che avevamo pagato potevano ben conservarci la risposta. Alla fine li mando al diavolo anch’io: possibile che non capiscano la tragedia umana di chi, come Kikanda, percepisce il test positivo come una condanna a morte e, quindi si resiste a ritirarlo? Per convincerlo a rifare il test ci vorranno altri 6 mesi; Kikanda è sempre più magro, sempre più malato.
Quando andiamo assieme a ritirare il test, Kikanda stavolta si fa trovare puntuale all’appuntamento, ma trema come una foglia, terrorizzato. Anch’io tremo: è evidente che entrambi non siamo assolutamente pronti a un verdetto mortale, purtroppo molto probabile. Quando l’infermiera viene per darci la risposta, ci guarda in faccia un po’ perplessa ed esitante; rientra in laboratorio, esce di nuovo, entra nell’ufficio del medico, il dottor Kabeya. Alla fine ci dice: «Toate martedì». Allora capisco che il test è positivo. Forse lo intuisce anche Kikanda. Ma entrambi preferiamo far finta di non capire e continuare a mentire a noi stessi, reciprocamente, una realtà troppo pesante per essere accettata.
Il martedì, anziché la stessa infermiera, è lo stesso dr. Kabeya a riceverci. L’avevo conosciuto all’epoca del mio primo stage all’Ospedale St. Joseph, nel 1991. Padre di 8 figli, si distingueva già allora dagli altri colleghi medici per la sua umanità; sono contenta di scoprire che adesso è lui ad occuparsi dei malati di Aids e, in generale, di tutti coloro il cui test risulta positivo. Ci riceve con un largo sorriso sul volto amico, come per farci coraggio, perché sa che anche il test di Kikanda è positivo.
Quando il medico ci comunica il risultato, Kikanda reagisce in un modo «fisiologico»: scoppia in un pianto inconsolabile. Lo lasciamo fare, anche perché ho tanta voglia di piangere anch’io. Kikanda, fra le lacrime, implora che io possa far venire sua moglie da Kimbau, con i bambini. Maman Aimedò è sposata con Kikanda da 12 anni; che speranza c’è che lei e i suoi figli siano sieronegativi? Farla venire a Kinshasa sarà un’occasione per eseguire il test anche su di lei e, se positivo, anche sui figli più piccoli.

Più della paura poté l’amore

Mentre Kikanda procede con altri controlli, tutti carissimi e interamente a nostro carico, io, dopo aver cercato inutilmente fondi per gli antiretrovirali (non posso certo spendere per lui ciò che è destinato al progetto), too a Kimbau.
Nel successivo viaggio alla capitale, vengono con me Aimedò e il bimbo più piccolo, l’unico che ha un rischio eventuale di venir contagiato, perché prende ancora il latte materno. Entrambi sono spesso (troppo spesso!) malati. Ma dopo i fatidici cinque giorni, abbiamo una sorpresa: il test di Aimedò è negativo! Il dr. Kabeya mi chiede di parlarne ad entrambi, perché occorre, d’ora in poi, proteggere Aimedò e il bambino dal rispettivo marito e padre, divenuto, paradossalmente, una minaccia per la loro salute. Quando li riunisco per dirglielo, ho un’altra sorpresa: Kikanda reagisce male alla notizia: «Mia moglie mi abbandonerà». La profezia è destinata ad avverarsi: appena viene messa al corrente Aimedò prende con sé il bambino e riparte subito per Kimbau. Da allora in poi, rifiuterà di rivedere il marito, che implorerà insistentemente, ma invano, la sua presenza vicino a lui.
Grazie al mio aiuto e a quello di alcuni amici italiani, Kikanda inizierà un costosissimo trattamento antivirale, anche se continua a ripetere che molti malati nella sua condizione possono convivere con il partner discordante ed avere relazioni grazie al preservativo. Ma sua moglie si irrigidisce: non vuole proprio più sentirne di tornare dal marito! Non mi ci vuole molto a capire l’origine delle sue paure: nonostante le mie raccomandazioni, Kikanda ha avuto con lei, almeno una volta, una relazione sessuale senza utilizzare il preservativo; ciò, prima che lei realizzasse il test e, in quel modo, potesse sapere la verità sulla sua sieronegatività, mentre lui già sapeva di aver contratto il virus! «Perché l’hai fatto, Kikanda? Non capisci che è proprio questo il motivo del rifiuto di Aimedò di vivere assieme a te?». Mi risponde singhiozzando e tremando come una foglia. «Lo so, ho sbagliato, perdonami, ma io volevo generare un altro figlio, prima di morire».
Passano altri due anni di separazione. Aimedò è a Kimbau: l’ho assunta in accettazione per sostituire suo marito. Adesso Kikanda sta meglio fisicamente e lavora a Kinshasa, in un centro medico privato. Con quello che guadagna si paga da solo gli anti-retrovirali. Riceve ancora l’aiuto irregolare di amici italiani, che non hanno il coraggio di tagliargli il trattamento, anche se mi chiedono, forse giustamente, se non sto commettendo un privilegio: «Perché a lui sì e a tutti gli altri no? Perché aiuti un singolo e non la collettività?».
Non so più che rispondere, salvo dar loro ragione; ma continuo a inviare in Italia le lettere disperate di Kikanda, in cui lui continua a implorare, non solo di non abbandonarlo, ma di consentirgli il ricongiungimento familiare, giurando che applicherà tutte le dovute precauzioni per proteggere sua moglie.
Aimedò continua a rifiutare e io, ovviamente, le dò ragione, anzi la incoraggio a non partire, a proteggere se stessa e il suo futuro: Kikanda cerca un figlio, per possedere un briciolo di eternità, non utilizzerà il preservativo e lei, che in fondo lo ama, teme che non riuscirà a resistergli. Finché, nel mese di settembre 2005 ci arriva una notizia: chi conosce le vie del Signore? Il messaggio radiofonico ci informa che Kikanda ha avuto un incidente stradale e si è fratturato il femore. È sotto trazione al centro medico privato dove prima lavorava, abbandonato a se stesso, incapace di pagare le cure e ormai nei debiti fino al collo. E Aimedò viene da me, i grandi occhi allarmati e pieni di lacrime e di paura: «Se lo raggiungo adesso, cosa rischio?».
Stavolta la tranquillizzo: finché lui sarà immobilizzato sotto trazione, lei non rischia nulla! Allora Aimedò parte per Kinshasa, con i figli, per occuparsi del marito. E capisco finalmente che Aimedò l’ama ancora. L’amore perfetto vince la paura.

Chiara Castellani




Nuovi samaritani

Il Sudafrica è tra i paesi con il più alto numero di malati di Aids e, nonostante gli sforzi, il morbo sembra fuori controllo: chi ne è colpito cerca di nascondere la malattia, per paura di essere emarginato dalla società e dalla famiglia. Nelle parrocchie affidate ai missionari della Consolata, sono stati formati gruppi di volontari, impegnati in varie iniziative per prevenire la diffusione del virus Hiv e accompagnare persone e famiglie che ne sono colpite.

Una mattina di settembre 2000, nella regione del KwaZulu-Natal. Celebrata l’ultima messa, rimasi nell’ufficio parrocchiale, parlando per più di un’ora con diverse persone. Mentre stavo per tornare a casa, arrivò una ragazza che mi disse a bruciapelo: «Sono sieropositiva. Ti prego di pensare ai miei figli dopo la mia morte».
In 10 anni di lavoro in quella regione, ho accompagnato molti pazienti fino al momento della loro pasqua: un tempo molto lungo e sofferto, fino al punto di chiedermi: «Prega perché io muoia». Ma sono poche le persone che mi hanno confessato apertamente di essere state colpite da tale malattia, anche se le statistiche dicono che nel KwaZulu-Natal una su tre risulta sieropositiva.
Eppure da molto tempo in Sudafrica si parla a iosa di Aids. Enormi cartelloni costeggiano le strade. Si distribuiscono preservativi nelle università. Abbondano le informazioni con volantini, programmi radio-televisivi, raduni a tutti i livelli per dibattere il problema… Numerose sono pure le iniziative per far conoscere la gravità della situazione. Lo stesso Nelson Mandela si è impegnato in prima persona, partecipando ai famosi «Concerti 46664» (numero con cui l’ex-presidente era identificato in carcere, ndr), fino a confessare con coraggio che il suo primogenito è morto a causa dell’Aids.

Paura e confusione

Mi sono chiesto molte volte perché siano tanto pochi coloro che parlano apertamente della loro malattia. Ripensando alla mia esperienza, ho trovato tanti motivi, che potrebbero essere sintetizzati in due parole: paura e confusione.
Paura di essere emarginati e perdere gli amici. Il film sudafricano Yesterday (2004) descrive crudamente questa situazione: appena si viene a sapere che una persona è sieropositiva è subito isolata dalla gente. Ho visto il film insieme a un altro missionario e, alla fine della proiezione, ci siamo guardati in faccia e abbiamo esclamato nello stesso momento: «È proprio così».
Soprattutto, si ha paura di perdere la famiglia. All’inizio del 2005, ho dovuto interessarmi di una ragazza che, quando la famiglia venne a sapere che era positiva, fu cacciata da casa. Ho visitato molti malati che, evitati da tutti, passano la giornata in camera soli; altri sono mandati presso un familiare, perché i vicini non vedano l’avanzare della malattia.
C’è la paura di fare la fine di Gugu Dlamini e altri come lei: sono stati uccisi dopo avere parlato apertamente della loro malattia.
Viviamo in una società in cui mancano certi valori forti, come misericordia, perdono e comprensione. Per questo la moglie non ha il coraggio di dire al marito di essere sieropositiva; il marito fa altrettanto nei riguardi della propria sposa; entrambi hanno paura di dirlo ai figli. Tempo fa, una ragazza mi confidava e mi avvertiva che la mamma sapeva, ma non aveva il coraggio di dirlo al padre.
Infine c’è la paura dalla morte. Sebbene alcuni hanno la possibilità di accedere alla medicina antiretrovirale, per molti l’Aids è fondamentalmente una condanna a morte. Perciò alcuni dicono: «Se ce l’ho, meglio non saperlo».

Messaggio… senza eco

Ho l’impressione che l’atteggiamento del governo sudafricano non aiuti a vincere la paura, ma aumenti la confusione.
Il 9 ottobre 1998, per la prima volta, fu lanciato un messaggio chiaro e coraggioso: il vicepresidente Thabo Mbeki chiamò a raccolta la nazione per una «coalizione contro l’Aids», con queste parole: «L’Hiv-Aids è tra noi. È reale. È in espansione… Per troppo tempo abbiamo chiuso gli occhi come nazione, sperando che la realtà non fosse vera. Per troppi anni abbiamo permesso che il virus si diffondesse… È con noi, nei nostri posti di lavoro, nelle nostre aule scolastiche e universitarie. È lì, nei nostri raduni religiosi e in altre funzioni di culto. L’Hiv-Aids cammina con noi, viaggia con noi dovunque andiamo… Non è il problema di qualcun altro. È il nostro problema. Ogni giorno e ogni notte, dovunque noi siamo, faremo sapere ai nostri familiari, amici e colleghi che essi possono salvare se stessi e salvare la nazione, cambiando il nostro modo di vivere e di amare. Useremo ogni opportunità apertamente per discutere l’argomento dell’Aids… Coloro che vivono con l’Hiv-Aids sono esseri umani, come te e come me. Quando ci diamo una mano, costruiamo la nostra propria umanità…».
Dopo quel primo messaggio, non ne ho sentiti altri simili. Anzi, ci sono stati diversi interventi che hanno seminato dei dubbi sulla connessione fra Hiv e Aids, sull’aiuto della medicina per ridurre la trasmissione del virus da madre a figlio e sull’efficacia dei farmaci antiretrovirali. Avevamo nutrito molte speranze, ma siamo rimasti sorpresi dal suo silenzio, dopo che Mbeki è diventato presidente del Sudafrica: ho la sensazione che abbia scelto di chiudere la porta che lui stesso aveva aperto.

Cercasi… ascoltatore

Così, continua lo stigma dell’emarginazione verso i malati colpiti dal virus, e questi continuano a tacere, pensando che nel parlare della propria situazione ci sia molto da perdere e poco da guadagnare. Il silenzio, almeno, permette loro di non essere visti come lebbrosi.
I malati di Aids sono doppiamente colpiti: dalla malattia fisica e, spesso, dal non trovare alcuno con cui parlarne. Da parte loro ci vuole coraggio; ma questo può nascere solo quando si incontrano veri ascoltatori.
L’anno scorso, durante un incontro di sacerdoti, organizzato dalla diocesi di Johannesburg per parlare sull’Aids, una delle «dinamiche di gruppo» chiedeva di discutere su queste domande: «Se tua sorella scoprisse di essere ammalata di Aids, ne parlerebbe con te? Lo direbbe a suo marito? Cosa le accadrebbe sul posto di lavoro?». Nella discussione azzardai un’altra domanda: «Se tu, prete, scoprissi di avere l’Aids, ne parleresti… e con chi?».
Credo che anche nella chiesa, anzi, nelle chiese cristiane (in Sudafrica ce ne sono più di 5.000) non siamo ancora riusciti a liberarci e a liberare la nostra gente. In un paese dove il 90% della popolazione si dichiara cristiana, non siamo stati ancora capaci di diventare «buona notizia», di rivelare il volto misericordioso di Dio, che continua a sfidarci: «Ero malato e…». L’Aids ha mostrato che il nostro cuore, almeno in parte, assomiglia più a quello del fariseo che al cuore di Dio, che si identifica con il malato.

I volontari, ministri della consolazione

La «coalizione» lanciata dall’attuale presidente del Sudafrica è stata una sfida all’abituale ritmo del lavoro nelle parrocchie affidate a noi missionari della Consolata. Verso la metà dell’anno 2000, abbiamo invitato una suora delle Francescane di Nardini, comunità che si occupa di malati di Aids, a parlare del problema durante la messa domenicale: lanciammo l’appello perché qualcuno offrisse la propria disponibilità al servizio degli ammalati della comunità.
La risposta fu immediata. Si presentarono una cinquantina di giovani e adulti, che nei mesi successivi furono preparati con appositi corsi, tenuti dalle stesse Francescane, sulla prevenzione e l’accompagnamento dei malati di Aids. Nasceva così il primo gruppo di volontari, diventati ministri di consolazione, volto visibile dell’amore del Padre.
Il primo impegno fu quello dell’accompagnamento. Si cominciò con il lavoro di collegamento tra l’ospedale e gli ammalati, dal momento che la struttura sanitaria non poteva prendersi cura a lungo di un numero tanto elevato di malati e li rimandava a casa appena notava in essi un qualche miglioramento.
Ma come rintracciare tanti altri, che hanno paura di parlare del loro male? Come primo passo, una domenica fu organizzata una celebrazione religiosa per i malati, in cui tutti erano invitati, anche i non cattolici. Iniziammo il rito con l’aspersione dell’acqua benedetta, chiedendo al Signore di purificare i nostri cuori. Dopo aver chiesto a Dio di guidarci con la sua Parola, abbiamo ascoltato alcune letture, commentate da due volontari che, alla luce della loro esperienza, illustrarono il cammino intrapreso dalla nostra comunità e le sfide che doveva ancora affrontare.
Quindi, altri due volontari hanno guidato la preghiera sui malati, chiedendo al Signore di darci un cuore nuovo e riempirlo con il suo spirito: le parole erano seguite dal gesto dell’imposizione delle mani.
Infine chiedemmo al Signore di guarirci con il suo olio santo e risuonò l’invito: «Chi sente il bisogno, si avvicini per ricevere l’unzione dei malati». Nessuno rimase seduto. Eravamo coscienti che tutti avevamo bisogno di guarigione, dal bambino al più anziano, dal momento che in Africa non si fa alcuna distinzione tra una malattia e l’altra.
Alla fine della celebrazione ungemmo con l’olio santo anche i volontari ed esortammo la gente affinché li invitasse a ripetere ciò che avevano fatto in chiesa: pregare e condividere la Parola di Dio con i malati rimasti in casa.
Anche noi missionari, quando troviamo qualche ammalato nelle visite alle famiglie, offriamo loro la possibilità di essere visitati regolarmente dai nostri volontari; in questo modo possiamo sapere se si tratta di semplice indisposizione o di Aids e essere informati sul suo stadio e della sua evoluzione.
Nelle loro visite, i volontari svolgono un servizio prezioso: spiegano alla famiglia come prendersi cura del malato, pregano con loro e per loro, ascoltano e cercano di mantenere viva la speranza… Quando i malati sono abbandonati a se stessi, tale servizio si traduce nel portare il malato all’ospedale, procurare documenti d’identità, registrare i bambini all’anagrafe, pulire l’abitazione, lavare i vestiti e tanti altri aiuti di ordinaria amministrazione.
Il nostro motto è sempre stato: «Dalla chiesa cattolica a tutta la comunità». Un messaggio chiaro per tutti, come provano i numerosi inviti da parte di organismi e autorità civili a discutere e pianificare insieme le strategie di lotta contro l’Aids. Moltissimi sono i non cattolici che chiedono aiuto ai nostri volontari. All’inizio del 2005 una famiglia ha scritto una breve lettera alla nostra comunità, chiedendo di leggerla in chiesa, per ringraziare la nostra vicinanza in un momento molto difficile: la malattia e la perdita di due figlie in poche settimane.

La fatica di ricominciare

Ma è un servizio che richiede un «prezzo da pagare», soprattutto in termini psicologici. I volontari spendono la vita accanto ai malati, intessendo una relazione di amicizia e reciproca fiducia, ben presto troncata dal sopravvento della morte. È un’esperienza d’impotenza che si ripete con troppa frequenza: data la difficoltà di accesso ai farmaci antiretrovirali, la morte sopravviene troppo presto.
Ne è un esempio la crisi di una giovane volontaria. Aveva accompagnato per alcuni mesi una donna sola e molto malata, finché riuscimmo a trovarle un posto in un ospizio gestito dai francescani. La ragazza era al colmo della gioia: il luogo incantevole; la paziente non più sola; un prete tutti i giorni vicino a lei; comunione quotidiana; possibilità di avere medicine antiretrovirali… ma la donna morì tre giorni dopo il ricovero e la giovane non riusciva a farsene una ragione. Era distrutta. C’è voluto molto tempo prima di accettare tale fatto, pacificare il suo cuore e ricominciare l’attività di volontaria.
Ma le prove più dolorose sono quelle causate dall’impotenza di fronte a tanto dolore. La paura dello stigma, che costringe i malati a tacere sulla loro malattia, fa sì che in molti casi veniamo chiamati quando è troppo tardi e l’accompagnamento dura appena tre o quattro giorni. Per i volontari si tratta di ricominciare costantemente da capo.
Per superare tali difficoltà, i volontari si radunano ogni settimana per parlare e condividere le loro esperienze, per pianificare il loro servizio e, soprattutto, per pregare insieme e incoraggiarsi a vicenda. In questo modo, il volontario riconosce il volto di Gesù, che si è identificato nel malato. A sua volta, il malato vede nel volontario il volto di Dio, che si è incarnato e si è avvicinato a noi, che condivide con cuore di Padre-Madre le sofferenze dei suoi figli e figlie.

La sfida dell’Abcd

Non basta occuparsi dei malati. In molte occasioni cerchiamo di formare anche le famiglie, per aiutare anch’esse a diventare misericordia. Si tratta di un cammino di formazione e prevenzione che si fa con la comunità, con un’attenzione particolare ai giovani, perché intraprendano una scelta di vita che non riguarda solo l’aspetto sessuale.
Abbiamo sintetizzato tale cammino nell’acronimo «abcd» di quattro parole in inglese:
– Abstain (astieniti) da crimine, corruzione, abuso di sostanze nocive, sporcare l’ambiente, vandalismo, condotta sessuale irresponsabile.
– Be faithful (sii fedele) a te stesso, al tuo corpo, alla tua famiglia, amici e comunità.
– Change your lifestyle (cambia il tuo stile di vita), facendo scelte consapevoli, sviluppando la tua coscienza, vivendo la tua cultura africana, sperimentando la cultura dell’amore.
Cambia stile di vita, altrimenti potresti essere in…
– Danger (pericolo) di non vivere la vita in pienezza (Gv 10,10), diventando un criminale o tossicomane, deturpando l’ambiente o contraendo l’Hiv-Aids.
È un cammino che si fa in comunità, poiché forte è la pressione sociale e grande la confusione.
Alla formazione e prevenzione si aggiungono altre sfide, come l’attenzione agli orfani, spesso anch’essi sieropositivi; la preoccupazione per trovare e offrire le medicine…
Tutto questo è nelle mani dei volontari. Sono essi che hanno la possibilità di parlare con le famiglie, preparare il futuro, parlare della propria esperienza, incoraggiare il malato a fare il test e cominciare il trattamento…
A volte il volontario stesso vive il proprio cammino alla scoperta dell’amore di Dio, perché anche lui è ammalato e, come gli altri, ha paura di parlarne apertamente.
All’inizio del 2005, i vescovi del Sudafrica hanno organizzato una speciale giornata di preghiera per i malati di Aids, celebrata nella chiesa Regina Mundi di Soweto: avevano bisogno di 15 persone che avessero il coraggio di dichiarare apertamente, davanti a migliaia di persone, di essere contagiati dal virus. Vi sono riusciti, ma con fatica. Quel giorno è stato un evento memorabile: finalmente si rompeva il cerchio del silenzio e si infrangeva il tabù dello stigma.

Confesso che mi diventa sempre più difficile parlare di tutto questo. Non si tratta di numeri o statistiche, ma di persone, ognuna unica e irripetibile. Porto nel cuore nomi, momenti, parole, silenzi, impotenza, rabbia… ricordi di tante persone care. Se da una parte la fede mi dice che ora esse sono nella pace del Signore, dall’altra non riesco ad accettare che si debba vivere nella paura e soffrire in silenzio.
Penso a tanti giovani che ho visto soffrire fisicamente, immobili nel letto per lungo tempo. E non riesco ad accettare che tali sofferenze continuino ancora oggi, perché non si vuole provvedere le medicine che permetterebbero loro di vivere con dignità.
Come chiesa, non abbiamo nessun dubbio sulla strada che abbiamo intrapreso. In questi ultimi anni sono stati avviati e moltiplicati tanti progetti, gestiti da centinaia di volontari. Sono stati istituiti 22 posti dove, con l’aiuto di tanti benefattori, vengono attuati i programmi antiretrovirali.
«Sono venuto perché abbiano vita… e questa sia piena!». È il nostro sogno di missionari; è la nostra forza quotidiana. È la nostra fede.

osé Luis Ponce de León




A nuove sfide, nuove strategie

La condizione di chi vive con l’infezione Hiv è simile a quella dei lebbrosi del tempo di Gesù, che «passò nel mondo facendo del bene a tutti, guarendo
i malati e liberando i posseduti da spiriti maligni, perché Dio era con Lui» (At 10,38). Religiosi e religiose sono chiamati a configurarsi a Cristo, nel servizio integrale, anima e corpo, dei «nuovi intoccabili». In un mondo dai cambiamenti epocali, la vita consacrata è stimolata dallo Spirito a rinnovare la sua passione per Cristo e per l’umanità, per rendere visibile la compassione
del Padre, mediante iniziative nuove, creative e profetiche.

Una delle condizioni umane peggiori al tempo di Gesù era la lebbra: discriminazioni fisiche, sociali, religiose, economiche e culturali hanno fatto di essa una delle malattie più temute. Era paragonata al peccato, perché causava tanto danno da sfigurare i malati, con la perdita di dita, naso e orecchie, ne distruggeva la dignità, condannandoli a essere rifiutati e isolati dai loro fratelli e sorelle.
Gesù Cristo incontrò questi ammalati e fece ciò che gli altri non osavano: li toccò, stese le mani su di loro. E da tali incontri scaturiva una forza di guarigione. Un tocco sanante che sarebbe diventato un segno della presenza di Dio in mezzo a noi.
Oggi, molte persone che soffrono per l’infezione Hiv/Aids si sentono isolate e abbandonate e provano il bisogno di essere rassicurate sul fatto di essere accettate e «toccabili».

Impegno

Sin dall’inizio della pandemia la chiesa cattolica si è coinvolta nei servizi relativi all’Hiv/Aids in ogni parte del mondo. Membri degli ordini religiosi maschili e femminili hanno risposto alla nuova situazione prendendosi cura in un primo momento dei malati. Molto presto, però, si sono coinvolti anche in programmi di sicurezza delle trasfusioni, nei servizi sociali e di supporto emozionale, in programmi sanitari mobili.
La pandemia Hiv/Aids ha colto l’umanità impreparata ad affrontarla e a rispondere alle sue molteplici sfide e conseguenze. Non c’è un singolo gruppo religioso, governativo o organizzazione sociale che può far fronte da solo alle domande difficili che presenta questa realtà. C’è invece il bisogno per i diversi gruppi umani di mettersi insieme, senza pregiudizi per le rispettive ideologie e fedi, al fine alleviare il dolore causato da questa tragedia.
L’ammalato necessita di cure appropriate, non solo per guarire nel corpo, ma anche par aiutarlo a riprendere le forze e prevenire le malattie opportunistiche. Ha bisogno di una cura integrale della salute, che spesso non esiste nel suo ambiente. Infatti non è solo il corpo a richiedere attenzione: il paziente Aids necessita di un approccio olistico da parte del personale medico e paramedico, assistenza psicologica, counselling, aiuto di assistenti sociali, supporto economico, sostegno spirituale e l’irrinunciabile ruolo della famiglia e del suo ambiente sociale.
Gli ordini religiosi si sono sforzati di essere presenti in ognuno di questi livelli, dall’inizio della pandemia. Alcuni già provvisti di risorse tecniche e professionali, molti mancanti di preparazione adeguata, ma tutti con la volontà di farsi prossimo a coloro che sono direttamente o indirettamente interessati da questa nuova situazione, con l’unico scopo di mostrare l’amore compassionevole di Dio per coloro che sono nel bisogno.
Siccome lo scopo degli ordini religiosi è di incarnare la vita di Gesù nel mondo contemporaneo, senza altro intento, il loro coinvolgimento in ambito caritativo molte volte manca di organizzazione e collaborazione con altri servizi collegati alle chiese, organizzazioni governative o Ong.
Inoltre, a causa della spiritualità di umiltà e piccolezza, di solito fanno il proprio lavoro in maniera silente e nascosta, senza farsi conoscere dal mondo: questo rende difficile monitorare queste attività e cornordinarle convenientemente con quelle di altre organizzazioni.
Ma è fuori dubbio che molti religiosi/e, in ogni parte del mondo, costituiscono una sorgente di consolazione e sollievo per tutti coloro che sono toccati da questa pandemia, in modo gratuito e sicuro.
D’altra parte ci sono anche molte realtà di servizi collegati alla chiesa, che sono stati degli esempi straordinari di programmi altamente organizzati e professionali, aperti a operare in stretta collaborazione con le altre chiese e altre organizzazioni, con risultati così soddisfacenti da essere imitati da altre comunità e paesi.

Le sfide

Nell’ultimo Congresso sulla vita consacrata (Roma, 23-27 novembre 2004), noi religiosi e religiose abbiamo sentito la necessità di essere inseriti nelle realtà dei nostri tempi, nella vita e missione tra la nostra gente con una nuova visione della carità.
Anche se in nessun’altra epoca, forse, la vita consacrata si è sentita così povera e limitata come in questo tempo di cambiamenti epocali, noi ci sentiamo rinnovati dallo Spirito e mandati, con una rinnovata passione per Cristo e per l’umanità, a rendere visibile la compassione di Dio verso coloro che soffrono, mediante iniziative nuove, creative e profetiche.
La risposta degli ordini religiosi alla pandemia deve continuare in fedeltà alla nostra consacrazione, nell’imitazione e incarnazione della presenza di Cristo e del suo amore compassionevole in mezzo a questa tragedia umana. I valori del vangelo devono renderci capaci di impegnarci totalmente nei vari ambiti e nelle molteplici sfide che questa pandemia globale presenta.

1 La sfida della sostenibilità dei programmi Hiv/Aids.
Le istituzioni sanitarie della chiesa cattolica provano serie difficoltà finanziarie a mantenere ed espandere i loro programmi Hiv/Aids. Non abbiamo fondi sufficienti per diverse ragioni: gran parte degli ordini religiosi interessati in tali programmi non lavorano esclusivamente in quest’area, ma portano avanti molti altri impegni; spesso la sostenibilità dei servizi sanitari è basata sulla carità e buona volontà di benefattori sporadici.
Dobbiamo sperimentare nuove e diverse vie per assicurare i fondi, senza perdere di vista il grande valore evangelico delle risorse piccole e povere. In tempo di globalizzazione, vorremmo «globalizzare» una solidarietà compassionevole.

2 La sfida di provvedere una cura integrale della salute.
Non siamo capaci di attuare le guarigioni miracolose che Gesù fece al suo tempo, ma abbiamo la sfida di procurare ai malati di Aids l’assistenza medica migliore possibile, lottando affinché le risorse mediche e scientifiche più recenti siano disponibili per tutti. Abbiamo anche la sfida di assicurare ai pazienti il necessario supporto psicologico e spirituale.
Il dolore dell’umanità ha bisogno del tocco sanante dell’amore compassionevole di Dio. La nostra risposta alla pandemia deve essere tale da riconoscere Cristo negli ammalati, mentre essi incontrano Cristo in coloro che si prendono cura di loro. Dobbiamo ricordare che il loro dolore, malattia e morte hanno bisogno di trovare una risposta che possa ripristinare la loro dignità e aiutarli a scoprire l’intimo significato della sofferenza, della vita e della morte.

3 La sfida di migliorare le strategie di prevenzione dell’AIDS.
Molti sono d’accordo che l’efficacia della lotta contro la pandemia dimora più sulle misure di prevenzione per evitare l’infezione, piuttosto che sulle aspettative della scoperta di una cura o di un efficace vaccino.
Questo ci porta verso le cause e i fattori che condizionano alla radice l’espansione della malattia. Sappiamo che la maggior parte dei casi di infezione Hiv sono stati trasmessi per via sessuale, trasfusioni di sangue, condivisione di aghi infetti e per trasmissione verticale da madre a bambino. Alcuni di questi fattori domandano l’attenzione del personale sanitario, mentre altri necessitano l’impegno del settore sia privato che pubblico della società, per educare e contribuire a costruire i principi etici fondamentali che regolano le relazioni umane e i comportamenti nel nostro tempo, in modo che siano sicuri e sani.
Oggi siamo testimoni di cambiamenti grandi e complessi della nostra società, che sorgono dall’influenza di molteplici fattori, tra i quali: la forte interdipendenza causata dal fenomeno della globalizzazione; la grande influenza dei nuovi e potenti mass media, che spesso colonizza gli spiriti umani; la rivoluzione sessuale dell’ultimo secolo; le grandi scoperte tecnologiche e scientifiche; l’incremento di violenza, guerre e terrorismo; il crescente divario tra un’élite ricca e le masse di poveri; la perdita di tanti valori morali, comportamenti sessuali permissivi e aperto proselitismo omosessuale; la caduta della figura dell’autorità e di principi etici assoluti; la frattura della famiglia; la diffusione di droghe; la secolarizzazione; l’intolleranza religiosa e fondamentalismo; il disincanto politico ed esistenziale… Queste sono le aree in cui il contributo dei religiosi/e necessita di espansione.

4 La sfida di acquisire nuove attitudini e convinzioni.
All’entrata nel terzo millennio, noi religiosi e religiose dobbiamo renderci conto che il nostro modello di vita consacrata non è più «in forza», ma non esiste ancora un nuovo modello. Necessitiamo di una trasformazione strutturale delle nostre vite e lavoro, in modo da poter costruire una rete di giustizia e pace e globalizzare una solidarietà compassionevole.
Abbiamo bisogno di comunità aperte e ospitali, dove ognuno possa respirare uno spirito nuovo di libertà, mitezza e gratuità, e dove possano maturare i frutti della non violenza.
Abbiamo bisogno di un modello di vita religiosa capace di aiutarci a vivere, con profondità nuova, l’autenticità dei nostri rispettivi carismi e ci permetta di essere una memoria evangelica e missionaria di Cristo nel mondo presente, per riempire fino all’orlo gli autentici desideri di gioia e amore dei nostri fratelli e sorelle nel mondo.
Dobbiamo sottolineare la rilevanza della parola di Dio e la necessità di incarnarla nel nostro mondo. La nuova passione per Cristo deve trasformare le nostre vite e strutture e condurci verso una più grande passione per l’umanità, espressa come amore compassionevole, con audacia e nuova capacità creativa.
Dobbiamo essere sempre presenti laddove la vita è minacciata. Vogliamo mostrare al mondo un nuovo volto della vita consacrata che è reale sacramento e parabola vivente del regno di Dio in mezzo a noi.

5 La sfida della tolleranza e del dialogo.
Il pluralismo crescente e irreversibile nel mondo ci conduce a un dialogo più profondo con altre congregazioni e altre religioni. Dobbiamo promuovere una spiritualità di comunione e collaborazione interreligiosa, che possa distruggere lo spirito di dominio e le tendenze fondamentaliste presenti nel nostro tempo. Un dialogo tollerante deve diventare opzione e stile di vita per tutti noi, con un impegno a creare spazi di perdono e riconciliazione in mezzo a violenza e morte.
Genuina missione per i religiosi e religiose è mantenere un profondo dialogo con altre religioni, culture e con i poveri, la cui voce grida di essere ascoltata. Siamo aperti all’ecumenismo e a lavorare in solidarietà con altri gruppi che lottano in favore della dignità umana, della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato.

6 La sfida di presentare la positività della castità in un mondo edonistico.
Fino al xix secolo, nella cultura occidentale sembrava esserci persone senza sesso: era tabù parlarne apertamente. Ora, dopo l’esplosione della rivoluzione sessuale del xx secolo, pare che ci sia sesso senza persona, poiché la sessualità è stata separata dalla personalità. Si è caduti nel libertinismo e immoralità permissiva, con comportamenti indecenti e contro la legge di natura, con la perdita dei principi morali assoluti.
Come il dondolio di un pendolo, tendiamo a muoverci da un estremo all’altro: da una mentalità puritana che condannava la sessualità, siamo passati a un totale libertinismo sessuale; c’è il rischio, ora, di tornare indietro di nuovo, verso attitudini intolleranti della sessualità umana.
Noi religiosi dobbiamo testimoniare la gioia e la pienezza della nostra vita consacrata. Se la maggioranza crede che essere casti è difficile, d’altra parte non è impossibile; e ci sentiamo ok con il nostro corpo, i nostri sentimenti ed emozioni. Il celibato è per noi un’opzione libera di vivere la nostra sessualità in maniera sana ed equilibrata. La nostra castità risplende meglio quando mostra chiaramente che è per il regno di Dio e che ci conduce a una relazione d’amore più profonda con Cristo e a condividere il nostro amore con gli altri.
Non crediamo in una chiesa che condanna la sessualità umana o si scandalizza per comportamenti sessuali devianti; ma crediamo in una chiesa che proclama un Cristo incarnato, che manifesta sulla croce la pienezza e la bellezza dell’amore di Dio, ci redime dalla schiavitù del peccato e dall’inganno di un falso erotismo. Come disse Giovanni Paolo ii nella Redemptoris Hominis, è necessario convincersi delle priorità dell’etica sulla tecnologia, della persona sui beni materiali, della superiorità dello spirito sulla materia. Lo sviluppo della civilizzazione caratterizzato oggi dal domino della tecnologia domanda uno sviluppo proporzionale della morale e della spiritualità.

7 La sfida di comunicare oggi attraverso i mass media.
Dalla fuga dal mondo, come era al suo inizio, la vita consacrata muove verso l’incarnazione nel mondo, testimoniando la trascendenza negli eventi della storia umana. Dobbiamo cambiare la nostra mentalità sulla comunicazione ed essere capaci di correre il rischio di incontrare la nostra complessa realtà utilizzando i mezzi della comunicazione.
Abbiamo bisogno di religiosi e religiose specialisti in questo campo e che lavorino in stretta collaborazione con laici competenti. Dobbiamo avere il coraggio di mostrare la nostra forza e le nostre debolezze, di dialogare apertamente con la gente del nostro tempo su uno schermo continentale, per rispondere alle vere domande che ci vengono poste a nome dell’intero villaggio globale.

8 La sfida di dare potere ai deboli, bisognosi e quanti non contano nella nostra società.
Abbiamo bisogno di formulare un sistema legale integrale che protegga e difenda la dignità e i diritti umani delle masse, la cui voce è stata fatta tacere dai poteri egoisti di una manciata di ricchi e potenti.
Parlando di diritti umani dobbiamo chiarire che nessuno può essere considerato come un valore assoluto, senza un punto di rriferimento al di fuori di sé. I diritti di uno finiscono là dove iniziano quelli di un altro. E questo è vero per gli individui come per gruppi umani o organizzazioni. Perciò i diritti di una donna incinta, per esempio, finiscono dove iniziano quelli del bimbo nel suo seno. E i diritti di un movimento gay terminano dove iniziano i diritti di bambini innocenti. Una persona o un gruppo non può pretendere di possedere valori o diritti assoluti, senza riferimento a coloro che gli stanno intorno.
Dobbiamo riconoscere la presenza di principi morali registrati nel cuore di ogni essere umano e l’importanza di stabilire un ordine legale comune per salvaguardare la libertà e non il libertinismo. Schierarsi in favore di coloro che non contano significa rischiare la vita davanti ai signori della guerra e chiedere pace e giustizia; significa difendere la vita, ovunque sia in pericolo, impegnarsi per combattere l’ingiustizia e dare forza a coloro che sono lasciati vivere ai margini della società. Significa alzarsi per le donne che sono oppresse in società rette dal culto della virilità. Comporta lo sforzo di favorire ogni singola iniziativa di lotta contro la pandemia Hiv/Aids, nonostante la sua apparente piccolezza.

9 La sfida di far fronte alla pandemia in modo più cornordinato.
In era di globalizzazione, non possiamo continuare a lavorare in maniera isolata e non cornordinata. Nel nostro villaggio globale ognuno è o infetto o affetto dalla pandemia; tutti dobbiamo contribuire con i nostri talenti e possibilità per alleviare la situazione e il peso che grava su nostri fratelli e sorelle.
Come un uragano, la forza devastante della pandemia Hiv si è fatta sentire improvvisa e violenta, suscitando la risposta pronta di diverse organizzazioni. Al contrario di un uragano, però, la pandemia è venuta per stare con noi lungo tempo. Dopo le iniziali risposte di emergenza, dobbiamo riflettere su cosa dobbiamo fare oggi, provare a capire come usare le nostre risorse umane e finanziarie in maniera più cornordinata.
Bisogna pensare in grande e continuare ad agire localmente, ma in collaborazione con altre forze. Dobbiamo rinforzare la collaborazione intea con altri religiosi e religiose che lavorano nella sanità, educazione, servizi sociali, attività di sviluppo a tutti i livelli, come in strategie di prevenzione, cura delle persone che vivono con il virus, cura degli orfani, in modo umanitario e cristiano. Dobbiamo rinforzare anche la collaborazione estea con uomini e donne di altre religioni e organizzazioni, in spirito di comunione e fratea solidarietà.

Prospettive

Il panorama globale della pandemia mostra un incremento superiore a ogni previsione. Purtroppo, le popolazioni più colpite sono quelle con un sistema sanitario meno efficiente. Finora, non esiste una cura, ma il trattamento aiuta a prolungare la vita dei sieropositivi. La sicurezza di trovare un vaccino appare sempre più dubbia. La lotta contro l’Aids è stata condotta centrandola sulle misure di prevenzione per evitare la diffusione dell’infezione, ma non c’è stato un comune assenso tra gli organismi coinvolti sui mezzi di prevenzione da usarsi.
Nella lotta contro l’Aids si è sviluppata una guerra ideologica. Da una parte coloro che hanno una visione trascendente dell’uomo, con una fine escatologica, che privilegiano la fedeltà coniugale per gli sposati e sostengono l’astinenza sessuale per i single, subordinando la sessualità all’etica. Dall’altra parte, coloro che hanno una visione immanente dell’uomo, guidati solo dalla ragione e considerandosi gli unici arbitri del proprio destino, che sono in favore della libertà sessuale e sostengono l’esercizio della sessualità come diritto assoluto della persona, senza norme etiche. La questione è come riconciliare queste concezioni diverse in favore di un’autodisciplina fortemente necessaria.
Tra i fattori estei che ostacolano la prevenzione dell’infezione da Hiv c’è la realtà della guerra. Spesso interessi nascosti, nazionali o inteazionali, collegati all’avidità di potere politico o economico, sono dietro innumerevoli guerre, che si combattono in paesi dove c’è un gran numero di persone che vivono con il virus. La situazione di turbolenza in tali aree di guerra favorisce il diffondersi di nuove infezioni e impedisce una giusta presa in carico degli ammalati.
Ci si chiede se l’umanità imparerà mai a vivere in armonia e comunione nel nostro villaggio globale. È necessario cambiare la visione della globalizzazione: da lotta tra culture per il sopravvento della più potente, a spazio di dialogo fra diverse culture nella ricerca comune di un mondo di giustizia e di pace.
Molte cose in questo mondo iniziano o continuano ad accadere, dovute alla nostra complicità, negligenza, indifferenza o omissione. Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla pandemia o minimizzare la gravità della tragedia; dobbiamo, invece, considerarla in tutta la sua realtà e prendere il coraggio di pensare e agire positivamente.
Bisogna tracciare delle strategie globali in modo da raggiungere obiettivi parziali o generali e superare i molti ostacoli nella lotta all’Aids.
All’inizio di questo millennio, siamo di fronte a una moltitudine di sfide che sembrano sorpassare le nostre forze e sforzi; noi religiosi e religiose vogliamo ricordare il carattere profetico della nostra consacrazione. In linea con la tradizione patristica, la profezia non parla di una misteriosa visione del futuro; ma vera profezia è testimoniare il primato di Dio e i valori evangelici in mezzo all’incertezza del tempo presente.
Rispondere ai gravi problemi che attentano alla vita dell’intera umanità in modo creativo e profetico, significa per noi elaborare e adottare un’intera serie di convinzioni.
La rilevanza del carisma dei nostri fondatori per il nostro tempo.
Il compito per la nostra vita consacrata di mostrare il primato di Dio e dei beni eterni a un mondo secolarizzato e materialista.
Il primato della persona sul capitale, sviluppo tecnologico e industriale nel presente neoliberismo globale.
La testimonianza della povertà evangelica come segno profetico dell’amore preferenziale per i poveri e impegno a globalizzare carità e solidarietà.
La testimonianza di vera vita fratea a un mondo assetato di comunione, amicizia e amore.
La testimonianza della pratica giorniosa della perfetta castità, offerta dai religiosi e religiose che mostrano autocontrollo personale, equilibrio e maturità psicologica e affettiva, in mezzo a una cultura edonistica che riduce la sessualità a mera merce di consumo.
L’apertura a tutti i grandi dialoghi e all’ecumenismo in un mondo di fondamentalismi e di guerre.
La scelta della giustizia, pace e integrità della creazione, che può restaurare il disequilibrio ecologico e distruggere il dominio del terrorismo e l’idolatria del potere.
La dedizione totale della nostra vita fino all’accettazione del martirio in difesa della vita umana, specie dove è più minacciata.
Il ruolo eminente dell’amore compassionevole di Cristo e il suo potere sanante nel ministero della cura dei malati di Aids.
Il coraggio di proporre il regno di Dio come possibile progetto di vita, dove uomini e donne trovano condizioni di vita uguali e tutta l’umanità si impegna a ricreare una nuova civilizzazione.
La necessità di inserirci nei processi inteazionali, dove viene deciso il destino delle comunità che siamo chiamati a servire.
La volontà di aggioarci nell’era post-modea ed essere capaci di incarnare i valori del vangelo in un dialogo di vita con altre religioni e culture.

Luis Francisco Arellano Perez




Senza paura di sbagliare

Di fronte al dilagare del virus Hiv in America Latina, chiesa e istituti di vita consacrata si sono mobilitati in due direzioni: combattere la discriminazione
e promuovere una rete di solidarietà.
Occorre aumentare la collaborazione con la società civile, senza perdere la specificità profetica, e mettere al primo posto la salvaguardia della vita…

Dal 1999 appartengo a una comunità dell’ordine dei cappuccini, che si dedica alla prevenzione e assistenza a persone che convivono con l’Hiv e lavoro nella pastorale dell’Aids.
Concepisco questo impegno come parte della mia vocazione francescana-cappuccina. Vocazione che si estrinseca a partire dalla fede e per questo la vivo come missione e non solo come filantropia.

La realtà dell’Aids nell’America Latina

Per capire la dinamica dell’epidemia in America Latina, occorre tener presente che essa è il continente dei contrasti sociali. Il Brasile, per esempio, è la 9ª potenza economica mondiale, ma occupa la 69ª posizione nella classifica degli indicatori sociali. Ciò significa che ci sono pochi ricchi e molti poveri e che la forbice si allarga di giorno in giorno: «I ricchi diventano sempre più ricchi, a spese dei poveri, che diventano sempre più poveri».
Ma la povertà non è limitata all’accesso alla ricchezza: essa si traduce in mancanza di casa, cibo, educazione, informazione, lavoro. La povertà diventa un vettore di incremento dell’epidemia.
I paesi con il più alto numero di sieropositivi sono Argentina, Brasile e Colombia; quelli con il più alto tasso di infezioni sono Belize, Guatemala e Honduras, con un tasso di incidenza dell’1%. I Caraibi sono la seconda regione del pianeta per tasso di infezione, con tassi di incidenza pari a 5,6 in Haiti e 2,3 nella Repubblica Dominicana. I paesi con le migliori coperture per le terapie antiretrovirali sono Brasile, Argentina, Cile e Messico.

Vincere la paura

La realtà in cui si dibatte il continente latinoamericano, con l’esperienza in essi maturata, mi spinge a proporre due prospettive: vincere la paura e costruire solidarietà.
Alla comparsa di un’epidemia segue, normalmente, la ricerca dei responsabili e delle spiegazioni della sua origine. Il primo atteggiamento è stato quello di attribuire a Dio la causa di tale malattia, come punizione esemplare contro i perversi.
Poi, quando si è capito che questa attribuzione non conveniva a Dio, si sono cercati tra gli esseri umani i responsabili della piaga. Facilmente sono stati trovati: omosessuali, tossicodipendenti, professionisti del sesso. Negli Stati Uniti si parla di quattro «H»: (h)emofilici, (h)omossessuali, haitiani e (h)eroino-dipendenti.
Oggi dobbiamo vincere la paura del virus, considerare che tutti siamo vulnerabili. Viviamo in un mondo con Aids. Viviamo in una chiesa con Hiv. Non tutti siamo sieropositivi per l’Hiv, ma tutti siamo coinvolti in questa realtà che ci tocca direttamente. Dobbiamo vincere la paura, poiché la paura non vince il virus.
Bisogna vincere anche la paura delle persone che vivono con l’Hiv. Rompere il «fare» discriminatorio e trattarle come esseri umani. Superare l’idea che tali soggetti sono malati perché colpevoli. In un certo senso, si tratta di «neutralizzare» la malattia, cioè, smitizzare, «smoralizzare», comprendere le persone con l’Hiv come si comprende una persona ipertesa o diabetica.
Vincere la paura attraverso l’informazione, la consapevolezza, la sensibilizzazione. Secondo Paulo Freire, grande pedagogo e educatore brasiliano, «nessuno educa nessuno, ma tutti si educano vicendevolmente». Nessuno si confronta con l’Hiv come un problema che lo riguarda, che lo tocca, se non trova qualcuno che lo provochi con forza a tale riguardo. Ossia, qualcuno che faccia riflettere sui valori, credenze, affettività, visioni dell’uomo e del mondo, che stabilisca un rapporto faccia a faccia, in grado di comprendere l’umanità che abita in ognuno di noi.
Evidentemente ciò non si fa con grandi campagne televisive, anche se questo non è del tutto inutile.

Costruire solidarietà

In America Latina è in corso un grande movimento di solidarietà verso le persone che vivono con l’Hiv. Sono molte le istituzioni e iniziative promosse da congregazioni religiose per offrire servizi, accoglienza e cure ai sieropositivi. Grande attenzione al problema esiste in tutta la chiesa in generale. In Brasile, per esempio, essa è molto attiva attraverso la «pastorale dell’Aids», in collaborazione con varie organizzazioni della società civile, rispondendo alle istanze del governo nella lotta all’Aids.
Si moltiplicano le iniziative da parte della gerarchia ecclesiastica, delle conferenze episcopali per incentivare questa solidarietà. Il 1º dicembre 2005, la Conferenza episcopale latinoamericana (Celam) ha pubblicato un documento intitolato: La Chiesa latinoamericana di fronte all’epidemia di Aids.
Si moltiplicano incontri, convegni, seminari per dibattere il problema. Nel luglio 2005 abbiamo organizzato il 1° Simposio latinoamericano e dei Caraibi per approfondire l’azione della chiesa cattolica nel mondo dell’Aids. Vi hanno partecipato un vescovo, religiosi, religiose e laici di 14 paesi dell’America Latina e Caraibi, oltre a una delegazione di Timor Est.
Il percorso fatto fino a oggi ci spinge a guardare avanti, affrontando altre sfide e prospettive; prima di tutto quella di rafforzare la rete latinoamericana di lotta all’Aids. Questa rete si sta allargando, con lo scopo di animare, articolare, stimolare la partecipazione di tutti i cristiani nell’affrontare l’epidemia e nel dare visibilità alle risposte ecclesiali in questo campo.
Altra sfida consiste nel disseminare il lavoro di cooperazione con la società civile e lo stato. In Brasile è in atto un’esperienza molto promettente: è il lavoro articolato tra il Ministero della Sanità e la Pastorale dell’Aids, dipartimento ecclesiale creato dalla Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb) nel 2001. Non si tratta di sostituire il governo, tanto meno di ripetere l’azione delle istituzioni pubbliche, ma di un lavoro complementare, in cui la chiesa contribuisce al controllo dell’epidemia a partire dalla sua visione, dalla sua spiritualità, dai suoi valori. Nonostante alcuni dissensi rispetto ad alcune pratiche del Ministero della Sanità, crediamo di poter dare il nostro contributo, a partire dalla nostra specificità.

SFIDA CONTINUA

La sfida più grande è il lavoro di controllo dell’Aids, in cui la chiesa deve avere un coinvolgimento sempre maggiore. Credo che la chiesa e la vita consacrata, con la sua dimensione profetica, possano contribuire in modo significativo e fare la differenza nella lotta contro l’Aids. L’impegno concreto permetterà di superare il pregiudizio corrente, secondo cui la chiesa ostacola il lavoro di prevenzione all’Aids.
È necessario abbandonare l’atteggiamento fiscalista, controllore; bisogna annunciare, piuttosto che esigere. Credo fermamente che il nostro primo obiettivo sia prendersi cura della vita. Dobbiamo salvare la vita anche di coloro che non sono in grado di osservare gli ideali che annunciamo. Sotto questo aspetto la dimensione profetica della vita consacrata può offrire un valido contributo.
La chiesa deve credere in ciò che la capacità umana può raggiungere. Non dobbiamo avere paura di sbagliare. Un sacerdote eudista colombiano, che ha imparato il cammino della prevenzione all’Aids vivendo accanto a professionisti del sesso, mi ha insegnato che è più produttivo chiedere perdono, anziché chiedere il permesso.
Nonostante tutto, la chiesa è un’istituzione che gode di credibilità e accettazione per l’impegno che svolge in questo campo: possiede strutture, risorse umane, mezzi di comunicazioni, disponibilità di volontari, capacità di contattare spontaneamente le persone. Nessun governo ha la possibilità di arrivare dove può giungere la chiesa, quando organizza un servizio specifico per affrontare i problemi dell’Hiv/Aids, mediante la pastorale dell’Aids.
Ciò vale anche a livello mondiale, contribuendo a raggiungere gli obiettivi del Millennio, che sintetizzerei in un’unica sfida: universalizzare la prevenzione, il trattamento e l’assistenza. Prevenzione intesa come intervento faccia a faccia, nella metodologia alla pari, rispettando la cultura, il processo di ogni persona.
Universalizzare il trattamento significa globalizzare l’accesso agli antiretrovirali e altri medicinali necessari alla cura delle infezioni secondarie. Una buona adesione al trattamento ripercuote, infatti, nella qualità della prevenzione, con la riduzione di ri-infezioni e contaminazioni.
L’assistenza include analisi, controllo medico, lotta alla povertà, reinserimento sociale, rispetto dei diritti e costruzione del senso di cittadinanza.
Che la forza dello Spirito Santo non ci lasci soccombere nella paura, ma ci aiuti nella costruzione solidale che preserva la vita e fa sorgere i segni del regno.

José Beardi




Ritorno disagiatoRiflessioni di un fidei donum rientrato in diocesi

L’evangelizzazione dell’Anaunia (Val di Non)
per opera di tre missionari venuti dalla Cappadocia (v sec.) è un esempio dello scambio del «dono della fede» tra le chiese dei primi secoli.
Tale tradizione è stata ripresa, dopo il Concilio Vaticano ii, con l’invio di preti «fidei donum» alle giovani chiese dell’Africa, Asia e America Latina, ma rischia di restare senza eredi.

Pochi mesi fa, ho visitato per la prima volta la basilica di Sanzeno in Val di Non. Ho sostato di fronte ai resti di martiri missionari del v secolo: Sisinio, Alessandro e Martirio e ne fui impressionato.

Nel silenzio della basilica ho tentato di ripercorrere mentalmente la loro vicenda umana e cristiana. Originari della Cappadocia, si misero in cammino verso Milano per approfondire la loro conoscenza nelle cose della fede presso il grande vescovo Ambrogio, che battezzò i due fratelli Martirio e Alessandro.

Su richiesta del vescovo Vigilio di Trento, Ambrogio gli inviò questi tre cristiani come un vero «dono della fede» (fidei donum), dopo aver ordinato Sisinio diacono, Martirio lettore e Alessandro accolito.

È un’antichissima storia di scambio di doni tra chiese, di missioni, di formazione di comunità cristiane e di martirio. Eppure essa ha tutte le caratteristiche di una storia attualissima. Così, questa visita alla basilica di Sanzeno mi è stata di stimolo, non solo a ripensare a me stesso come prete fidei donum, ma anche alle missioni affidate a dei preti la cui vocazione missionaria ha però una durata limitata di esercizio ed è vissuta come dono alla chiesa che riceve e alla chiesa che invia.

La mia vita «a incastro», durante la quale si sono alternati periodi di presenza «missionaria» in America Latina (10 anni) e in Tunisia (5 anni), con periodi prolungati nella mia diocesi di appartenenza a servizio di migranti e rom, nell’impegno di dialogo e prossimità con i musulmani, mi offre a tutt’oggi il pozzo da cui attingere per ripensare la missione.

Dalla Cappadocia alla Val di Non

Quando ci si sofferma a riflettere sulla quantità e tipo di relazioni che intercorrevano tra le società antiche, fino alla nascita degli stati nazionali, si resta sorpresi dalla mobilità che le caratterizzava. Basti pensare alla vicenda di sant’Agostino, di Antonio di Padova e di innumerevoli altre importantissime figure della chiesa e delle culture antiche. La libera circolazione delle persone non costituiva un problema per nessuno. Sisinio, Martirio e Alessandro in questo non si differenziavano dai loro contemporanei.

Nella vicenda dei missionari della Val di Non si combinano insieme, in maniera del tutto spontanea, la ricerca personale dei tre compagni, che li fa spostare da un capo all’altro dell’orbe mediterraneo; il mandato del vescovo Ambrogio; la richiesta del vescovo Vigilio e il fatto che tutto questo avvenga dentro un quadro ammirevole di libertà e santità di tutti i protagonisti.

La particolare vocazione fidei donum sia caratterizzata da questi tratti fondamentali e comuni. Nel prete fidei donum, a mio parere, è forte il sentimento della responsabilità e dell’appartenenza a una realtà universale, che va al di là delle limitazioni del territorio e altrettanto forte è il sentimento di una vocazione che è continua ricerca di una rinnovata fedeltà al vangelo: ricerca che non accetta di interrompersi mai nel corso di tutta la propria esistenza.

Questi due dati fondamentali che caratterizzano il cammino interiore della sua vita, sono poi riconosciuti e fatti oggetto di un «mandato» da parte di chi ha il compito di servire la chiesa e di assecondare la piena maturazione della vocazione cristiana di ciascuno all’interno di essa. La proposta del servizio si orienterà, poi, verso la chiesa che ne ha fatto richiesta.

Inseguire Ambrogio e rendersi disponibili alla richiesta di Vigilio: è la storia di tante vocazioni fidei donum.

Il sentimento di saturazione che a volte si prova nel servizio alla propria chiesa di origine può degenerare in frustrazioni e apatia; ma in alcuni, esso ha fatto nascere la ricerca e il desiderio di mettersi al servizio di altre esperienze di chiesa in Asia, Africa, America Latina; di conoscere altre figure di pastori capaci di condurre al cuore del vangelo e sperimentare altra libertà umana ed evangelica.

Bisogna comunque aggiungere che accanto a queste motivazioni più strettamente ecclesiali, nel nostro partire è stata determinante la convinzione che fra evangelizzazione e promozione umana esistesse un legame per natura sua inscindibile.

Vangelo e poveri costituirono la bussola che ci ha guidato in questa nostra ricerca, che qui, in casa nostra, si alimentava delle grandi prospettive pervenuteci dalla Pacem in terris e Populorum progressio; tali prospettive trovarono nella chiesa di arrivo non solo una conferma, ma un metodo, una spiritualità, un reale campo di azione e sperimentazione.

Se da qui partimmo con un entusiasmo un poco ideologico, non ci fu difficile trovare «nelle terre di Anaunia» una vita piena di relazioni, prospettive, azioni concrete, convinzioni condivise, motivazioni teologiche e spirituali, che contribuivano a darci la serena certezza di star vivendo una vita piena, in abbondanza.

Credo che le partenze maturate negli anni immediatamente successivi al Concilio erano particolarmente segnate da queste prospettive, che per certi versi le distinguevano un poco anche rispetto alle scelte per la missione maturate negli anni precedenti al Concilio.

Ho l’impressione che oggi si tende a sottovalutare l’aspetto della traiettoria personale che conduce i tre Cappadoci a mettersi sulla strada di Milano, attirati dalla figura di Ambrogio, alla ricerca di una maturazione di fede e di una vocazione cristiana mai conclusa.

C’è allora il rischio che «questo scambio di doni» si trasformi in un fatto burocratico; in un atto che prescinde dalla storia della persona e che perciò tende a non recepire le ragioni del «fecondo disagio» che ha condotto a questa scelta e gli stimoli culturali e spirituali della stagione nella quale essa si è espressa.

Ciò impedisce di capire anche la successione che, guardata dall’esterno, potrebbe sembrare incoerente, ma che in realtà si produce per dinamica intea rispetto a quei «punti di partenza» che hanno caratterizzato «gli inizi».

La missione in Anaunia

I tre Cappadoci che in origine probabilmente parlavano greco, che presumibilmente conversavano con Ambrogio in latino, sono inviati da Vigilio nella regione «barbara» di Anaunia (Val di Non) e restarvi per annunciare il vangelo.

Sarebbe sbagliato pensare che in Anaunia non esistessero lingue, culture e tradizioni religiose. Il «luogo sacro» dove successivamente si costruì lo splendido monastero di San Romedio ne è la prova.

Il primo problema che si pone al missionario è come vivere e come entrare in relazione con le persone del posto. Stile di vita e inculturazione, nella quale è compresa la conoscenza della lingua sono le due sfide primarie a cui si è chiamati a far fronte.

In una mia recente lettura, sono rimasto impressionato da un paragrafo dove si riferiva delle scelte di Giustino De Jacobis, santo missionario dell’Abissinia del secolo xix. «De Jacobis abbandonò definitivamente il proprio paese e la propria cultura… Liberatosi così da ogni legame straniero e ogni senso di superiorità, condivise ogni cosa con il suo popolo, secondo le locali condizioni di vita… A casa dormiva su un pagliericcio e, nei frequenti viaggi, su una pelle di vacca. Anche nei percorsi più lunghi camminava scalzo, passando la notte in una baracca o in una cavea. La cosa più importante, tuttavia, fu che De Jacobis non tentò mai di introdurre la liturgia latina, ma adattò il ge’etz e i riti etiopici» (Storia del cristianesimo in Africa, pag. 243-244).

Ho avuto la fortuna di conoscere un prete fidei donum bellunese, tuttora in servizio, che si è avvicinato molto a questo stile «de Jacobis». L’impatto che questa scelta suscita in tutti è molto forte e stimola in chi lo avvicina il desiderio di vivere con integralità il vangelo.

Inculturazione e durata

Il passaggio dal greco al latino e alla lingua locale deve essere costato non poco ai tre missionari martiri. Da sottolineare, inoltre, che tutta la loro avventura cristiana e missionaria fu vissuta in gruppo, cosa che senza dubbio li aiutò, prima di tutto, a crescere nella fede, poi, a svolgere il compito loro affidato e, infine, ad affrontare la suprema testimonianza del martirio.

Il processo d’inculturazione è stato descritto dai vescovi africani in questi termini: «L’inculturazione è Dio che scende ed entra nella vita, nei comportamenti morali e nella cultura degli uomini per liberarli dal peccato e introdurli nella sua vita e santità» (ottobre 2003).

Prima di partire per l’America Latina ci avevano detto che occorreva rinascere e darsi dei prolungati tempi di attesa. Ma rinascere in un contesto tunisino o ciadiano è indubbiamente un altro paio di maniche! I tempi sono diversi e le difficoltà molto più grandi.

C’è da domandarsi se e come l’esercizio ad tempus del compito missionario che caratterizza la scelta fidei donum possa essere adeguato a questa realtà. Un periodo di missione della durata di 10 anni che sembra garantito a tutti coloro che lo desiderano è sufficiente?

Con mia sorpresa ho potuto constatare che nelle circostanze attuali succede spesso che i preti fidei donum abbiano maggiore stabilità degli stessi membri delle congregazioni missionarie. Ma questo non aiuta molto a individuare prospettive per il futuro. Anzi, se si tiene conto che il missionario fidei donum è svincolato da tante necessità intee di una congregazione e che la sua scelta è fondata, oltre che su un «mandato», su una disponibilità vocazionale aperta, forse si può arrivare a intravedere una soluzione.

Tra i fidei donum ci sono persone che maturano se stesse e le loro scelte di vita in una progressiva identificazione con «un popolo di poveri» a cui sono inviati. È un processo, lento, ma inarrestabile, che dipende da avvenimenti e persone da cui si è coinvolti.

Mi domando: perché stoppare una storia personale e collettiva che acquista un sempre più profondo significato? Benché lontana, la vita di tali persone si carica di senso e diventa un segno anche per la chiesa che li ha inviati, purché questa relazione venga coltivata. In tali casi si dovrebbe tener conto dell’impulso vocazionale di queste persone, nella certezza che questo è utile all’una e all’altra chiesa.

Vivere tra due appartenenze ecclesiali

Se la scelta molto prolungata o definitiva ha valore di segno per le due chiese, il rientro nella chiesa di origine fa parte della particolare dinamica della vocazione fidei donum. A mio parere, è proprio il rientro che viene disatteso, sia nella riflessione che nelle scelte di collocazione dei preti in questione.

È innegabile che la scelta di partire, per essere ecclesiale, deve essere convalidata dal mandato; ma questo non può essere considerato come la ragione che la spiega e la motiva.

Una partenza «troppo obbediente» agli inizi e un ritorno senza problemi alla conclusione potrebbero essere il segno che ciò che si è vissuto con intensità e immensa generosità nel periodo passato ad extra abbia costituito una bella parentesi senza profondi collegamenti né con «il prima» né con «il dopo».

Il disagio del rientro non attende di essere riassorbito come una ferita che si rimargina con il tempo. Deve piuttosto diventare interrogazione su ciò e su come si vive qui. Anche se questo passaggio si gioca la particolare vocazione del fidei donum.

Al momento del rientro dovrebbe succedere che ci si interroga su tutto: sulla nostra teologia europea, che ha pretese di universalità, sulla nostra abitudine di contrabbandare i problemi dell’uomo occidentale come fossero «i problemi dell’uomo» tout court; sulle relazioni umane nella chiesa; sull’uso della libertà e l’esercizio della comune responsabilità all’interno di essa; sull’uso dei mezzi, denaro e strutture; sulla semplificazione della pastorale; sui grandi problemi che investono l’umanità e che sono vincolati al nostro «locale»: giustizia, povertà, informazione, uso delle risorse; sulle relazioni tra le religioni e tra le culture.

Si ritorna diversi; si deve ritornare diversi; si dovrebbe restare diversi, non per attaccamento nostalgico a ciò che abbiamo vissuto ad extra, ma per continuare a offrire quel «rotolo amaro» (Ez 2,9) che, qualora venisse ingoiato, diventerebbe dolce come il miele (Ez 3,3). Ho l’impressione che scelte un po’ troppo rassegnate potrebbero contribuire a sterilizzare il potenziale innovativo legato al «disagio del ritorno».

I mezzi dei fidei donum

L’ampia disponibilità di mezzi di cui normalmente gode un fidei donum costituisce un suo punto di forza, ma forse soprattutto il suo tallone d’Achille, se paragonati con quelli del clero locale.

Personalmente, soprattutto durante la mia prima esperienza missionaria ad extra, ne ho fatto molto uso all’unica condizione che i beni da essi prodotti non restassero di proprietà della chiesa, ma delle associazioni e organizzazioni popolari per le quali venivano usati.

Favorire le organizzazioni popolari rendendole autonome sotto il profilo economico mi sembrava una buona scelta. Altri miei amici, che a distanza di anni devo ammettere essere stati molto più bravi di me, hanno fatto delle scelte più radicali: si sono limitati a chiedere qualche cosa di essenziale e di piccola entità.

Nella mia personale esperienza non mi è mai accaduto di dovermi confrontare con la povertà di mezzi di cui, generalmente, patiscono i colleghi della chiesa locale. Come succede di frequente in Africa.

Uno stile di sobrietà oppure di povertà radicale bisogna saperselo costruire ogni giorno nella libertà e nella gioia. Un sobrio contento è sicuramente meglio che un povero scontento. Ho trovato che i poveri contenti sono generalmente dei creativi, che usufruiscono in maniera diversa da tutte le realtà della vita.

Mi diceva un prete povero: «Quando guardo la catena di montagne, nella limpidezza di un mattino di sole, mi dico: guarda che spettacolo gratuito di cui posso godere, sempre a mia disposizione».

La doppia appartenenza, inoltre, dovrebbe offrire al fidei donum validi criteri per aiutare la chiesa di origine a giudicare sull’opportunità o meno di certe opere che, viste esclusivamente con occhio occidentale, rischiano di essere considerate necessarie o comunque molto utili.

Non si tratta di fare i professionisti della profezia e, meno ancora, di sentirsi investiti di tale ruolo; ma semplicemente di mettere davanti a ogni altro criterio il diritto dei poveri ai beni della chiesa e di farlo con quella insistenza che di solito caratterizza le richieste del povero.

Abbiamo assolto al nostro compito?

Sembra che nei piani alti del potere ecclesiastico ci sia stata, nel passato, una certa preoccupazione nei confronti dei fidei donum che si reinseriscono in diocesi. Forse, oggi, i timori sono stati almeno in parte digeriti. Personalmente credo che, almeno per quanto ci riguarda, noi non abbiamo assolto totalmente al nostro compito nel farci portavoce nella profezia dei poveri del mondo.
In tutti questi anni, non abbiamo sentito il bisogno di trovarci in gruppo, per riflettere insieme su ciò che via via accadeva nella nostra chiesa. Non c’è stato neppure il tentativo, come è successo in qualche altra diocesi, di ritrovarci periodicamente insieme. La nostra inerzia di gruppo ha probabilmente rassicurato molto chi nutriva dei timori nei nostri confronti. Credo che abbia giocato non poco anche la differenza tra il servizio alla chiesa latinoamericana e quella africana.
Abbiamo saputo trasferire solo parzialmente quel clima di libertà e creatività all’interno del vivere ecclesiale, che hanno assicurato quel sentimento di pienezza e autorealizzazione sperimentato quando eravamo in missione. Ora in sede di bilancio, mi pare di dover concludere che ci si trova di fronte ad un’eredità un po’ dilapidata e quasi inesistente per le giovani generazioni di preti.Abbiamo qualche medaglia sul petto, magari di dubbia lega, ma siamo rimasti senza eredi, anche per colpa nostra.

Giuliano Vallotto




Tracce di consolazione

Problemi e prospettive di pastorale ed evangelizzazione missionaria fra gli indigeni del Chimborazo

Gli indios del Chimborazo, fra cui lavoriamo, come missionari della Consolata, nella diocesi di Riobamba, sono divisi in nazioni, secondo distinzioni originarie che risalgono al periodo preincaico. Si avvertono, tuttavia, forti influenze, pressioni sociali e mescolanze (sovrapposte e trasversali), frutto di più di 500 anni di impero ispanico.
Abbiamo di fronte, quindi, un ritratto culturale, politico e organizzativo ufficiale, che include, però, un volto nascosto e invisibile. Pubblicamente, la società indigena si presenta con un’ identificazione amministrativa secondo schemi comunitari (dal cabildo locale alla federazione intercomunale), che vive all’ombra di un’organizzazione classista, che si impone sempre di più come movimento sociale e politico. Tuttavia, a ben vedere, la realtà etnico-culturale che si manifesta, raggiungendo dimensioni drammatiche, è la solitudine: i bambini vanno soli, i giovani vanno soli, gli adulti vanno soli, le donne vanno sole. Le affermazioni unitarie, da parte delle varie giunte locali e organizzazioni, sono pura pubblicità senza una vera applicazione alla realtà perché, in fin dei conti, frutto di un’imposizione.

N onostante il contesto conflittuale, dovuto allo sforzo di promuovere e formare persone nel nostro territorio pastorale, si vedono già alcuni segni di consolazione. Questi segni traspaiono negli uomini e nelle donne che sentono l’esigenza di una riflessione critica, che iniziano ad interrogarsi, che si chiedono la ragione delle decisioni prese. A queste persone, ora, bisogna giustificare i passi intrapresi e la veridicità dei proclami pubblici.
Dal 1990, quando gli indios, per la prima volta, fecero sentire con forza la loro presenza e pretesero di essere considerati e consultati nelle decisioni, comincia una nuova fase. Emerge una presa di coscienza chiara, anche se ancora racchiusa dentro i segni incerti di un processo che è appena agli inizi e, perciò, ancora lento.
Un altro segno di consolazione appare nell’urgenza di ritornare alle caratteristiche culturali proprie: idioma, usanze, tradizioni. Si parla di pensiero proprio, codici di comportamento propri, anche di sistemi giudiziari e penalizzazioni sancite secondo antiche tradizioni popolari. Si afferma il bisogno di identificarsi con schemi differenti da quelli nazionali e, nella nuova costituzione, si parla di un Ecuador multietnico e plurilinguistico. Si riconoscono, perfino, come diritti costituzionali, i diritti collettivi delle differenti presenze etniche: nazioni indie e nazioni di origine africana.
Non mancano, tuttavia, segni di desolazione; uno dei quali è, senza dubbio, la mancanza di un concetto chiaro di «consolazione». Nell’idioma quichua ordinario, la lingua degli indios, il verbo «consolare» arriva solo a esprimere il «soffrire assieme». Il significato che noi diamo alla parola consolare, quello, cioè, di «fare felice qualcuno» non entra ancora nel linguaggio comune. «Maria Consolata» diventa così «dolorosa», colei che soffre i nostri mali.
Un altro segno di desolazione è la «comunitarietà», identificata e venduta come caratteristica peculiare della comunità, soltanto da chi non è in grado di leggere molto a fondo la realtà. Di fatto, manca la intercomunitarietà negli eventi quotidiani della vita interfamigliare e sociale. La mentalità chiusa e la diffidenza tra comunità vicine fanno pensare ad una mancanza di riconoscimento dell’altro a livello basico.
La nostra risposta religiosa e missionaria, a livello istituzionale, parte con buone intenzioni ma, certamente, non è in grado di andare oltre le parole e le inquietudini.
Lo sforzo per programmare incontri, a ogni livello di categoria e geografia, è intenso. Dialogare è un fattore estremamente positivo e, senza dubbio, mai prima d’ora, si era verificata tanta promozione di dialogo come oggi. Si corre però il rischio che tutto questo dialogare si risolva, alla fin fine, in meri incontri organizzati per «esigenza di copione», in cui non riesce ad emergere la chiave di lettura della realtà. Non si riescono a vedere cambi di mentalità, sforzi sinceri per verificare le posizioni programmatiche e un lavoro che conduca a valutazioni schiette della realtà. Si avvertono critiche, lamentele, malesseri: l’arca è grande e, alla fine, c’è posto per tutti e per tutto. Si continua a parlare di famiglia, ma in realtà i problemi di convivenza fratea sono feriti e minimizzati. È preferibile, quindi, insistere a parlare di comunità, perché, in fondo, la comunità è un ufficio grande, dove i professionisti possono convivere benissimo otto ore al giorno, per poi ritornare ciascuno alla propria famiglia, alla propria solitudine e ai problemi di sempre.

P enso che ci sarebbe la possibilità di esprimere il nostro carisma in sintonia con il contesto reale. Lavoriamo per costruire una chiesa che sia comunione di fede, speranza e carità. In tal modo, la consolazione lavora per inserire nella chiesa una volontà caratteristica di apertura, disposta a restituire la visibilità culturale e spirituale propria, interrotta nel passato.
Se la chiesa è davvero sacramento universale, gli indigeni dovrebbero riuscire a diventae segni idonei. Dovrebbero «rivestirsi di Cristo», senza scartare le proprie memorie; arricchirsi del pensiero cristiano, senza disattivare completamente il proprio pensiero.
Ci sono dei paradigmi, oggi, in grado di esprimere l’esigenza di rispettare ed esprimere il «proprio» culturale. Si potrebbe cominciare con un paradigma di inculturazione pastorale. Il primo passo dovrebbe essere quello di «indigenizzare» i posti pastorali, facendo in modo che gli agenti di pastorale indigeni siano una maggioranza e che, di conseguenza, si possano fare programmazioni e valutazioni, partendo dalle forze locali. In questo modo, risulterebbe più facile capire se la diversità culturale ha davvero l’opportunità di essere avviata verso un’interculturalità creativa, per un rinnovamento pastorale nella pratica della evangelizzazione.
Noi siamo ancora troppo legati a consolazioni «materiali». Si continua a lavorare in ambiti di promozione sociale, di assistenza giuridica nei casi di ingiustizia contro i poveri, di sviluppo e formazione della leadership, nel tentativo di creare una mentalità comunitaria in grado di affrontare problemi di disabilità e altri ritardi o limiti, fisici e mentali.

L a chiesa locale, dal canto suo, non va oltre la «stagione della parola». I documenti sono coraggiosi per la critica e l’indignazione che esprimono. Diventano lettura ardita e meditazione interessante; ma rimangono solo buone intenzioni. Quelli che hanno firmato i manifesti incontrano insuperabili difficoltà a realizzare quanto scritto e, arrivati al dunque, a puntare esplicitamente il dito contro i colpevoli.
Per agire, si dovrebbe essere capaci di rispondere con decisione alle seguenti domande:
1. Che tipo di consolazione si considera necessaria per gli oppressi, oggi?
2. Che stile di presenza missionaria esige un ideale così impegnativo?
3. Che aspetti e atteggiamenti dovremmo approfondire e trasformare, a livello personale e comunitario, come regione e come continente, per vivere con maggior coerenza il nostro carisma di consolazione nell’oggi della storia?
Sono tutte eccellenti domande che si scontrano, oggi come oggi, con la nostra povertà «numerica» e qualitativa e che, molto difficilmente, potrebbero essere elaborate in risposte credibili e vissute. Consoliamoci, almeno, con la nostra caratteristica misericordiosa, che emerge nonostante tutto e che aiuta a superare la tristezza di quello che passa il convento.
Diceva Fito Paez (cantante argentino): «Quién dijo que todo está perdido? Yo vengo a ofrecer mi corazón…» (chi ha detto che tutto è perduto? Io vengo a offrire il mio cuore).

Giuseppe Ramponi




Tra curiosità e paure

La difficile arte di capirsi, nonostante diversità di pensiero
e stili di vita. Sorseggiando insieme, magari, un po’ di tè,
nel sogno di una convivenza possibile, costruita attraverso piccoli ponti
di umanità.

Egiziana di Luxor, Shayma lavora come commessa dieci ore al giorno, sei giorni su sette per 140 pounds al mese (poco meno di 20 euro), in un negozio di fotografie 24 ore su 24.
Shayma indossa l’hijab (velo che copre il capo, lasciando libero il volto) da quando aveva tredici anni e si cancella il viso sotto il trucco pesante: rossetto, fondotinta e fard. Quasi con grazia, abbina il velo alla tunica o ai pantaloni all’occidentale e, sotto le maglie larghe a maniche lunghe, prova a nascondere il seno vigoroso, addolcito dallo slancio della figura. È la migliore amica di Mervet, 23 anni, la pelle chiara, gli occhi verdi e una croce copta tatuata sul polso destro; Said, dal sorriso bianco nel volto scuro segnato da un’acne leggera, indossa spesso la maglia della nazionale di calcio italiana, perché «Roberto Baggio and Totò Schillaci are great».

«Ciaomancia»

«Non sposerei mai un musulmano» – confessa Mervet: «I musulmani sono cattivi con i cristiani, specialmente con noi cattolici, non ci lasciano lavorare»; e lo dice sbattendo con forza zucchero e Nescafè in un bicchiere di vetro per preparare un buon cappuccino ai suoi amici Shayma e Said, musulmani anche loro ma, a differenza degli altri, hanno un nome, un volto e offrono, quindi, la possibilità di un incontro.
Mervet ha imparato i segreti del cappuccino da suor Maria del Crocifisso, della comunità delle francescane, che le ha insegnato anche a preparare la pizza, il calzone e le tagliatelle. Mervet vorrebbe andare a Roma a vedere il papa e il suo desiderio è quello di sposare un bravo ragazzo, «prima di tutto un buon cattolico», che possa darle figli e pensare a loro.
Vive con i genitori e due fratelli a Sawaghy, il piccolo quartiere cristiano di Luxor dove convivono, non sempre dialogando, copti ortodossi e cattolici. Oltre la porta segnata col sangue di un animale ucciso anni prima per inaugurare l’arrivo nella nuova casa, letti dai materassi alti e duri si ammassano contro le pareti e la povertà estrema stride con il computer che troneggia in una delle stanze, ben protetto da una coperta di lana.
Nel negozio di fotografie, la tv rimane accesa 24 ore su 24 e fa entrare prepotente la massiccia programmazione di telenovelas, in cui donne truccate e senza velo si struggono d’amore per aridi uomini d’affari, che si alterna alla pubblicità: «Welcome to Egypt», dieci, cento volte ripetuta ogni giorno dal canale di stato Nile Tv, che mostra piramidi, templi e il magnifico Mar Rosso, accompagnati dal sottofondo trionfalistico della marcia dell’Aida, che pochi autoctoni sanno essere di un italiano chiamato Verdi.
Il percorso tipico del turista che decide di visitare l’Egitto consiste in una settimana di crociera dal Cairo fino ad Assuan, in Nubia, quasi al confine con il Sudan, e in una seconda settimana sulle belle spiagge di Hurghada, facendo snorkelling negli incantevoli fondali di un mare la cui costa è, purtroppo, sempre più simile ai nostri paradisi estivi dell’Adriatico.
Andando in Egitto da turisti, non sempre si può cogliere il fatto che tutto ha il doppio prezzo e quello per stranieri è due, tre, persino dieci o cinquanta volte più alto rispetto a quello per egiziani.
Laggiù c’è uno strano culto dei soldi: c’è il denaro per vivere (la lira egiziana) e quello per vivere meglio (la valuta straniera), per cui le mance e i pagamenti in euro e in dollari sono ambiti e quasi pretesi. Specialmente nel sud, i bambini più poveri sono educati ad assalire il turista con il continuo «hellobaksheesh!» (ciaomancia, tutto attaccato), parola unica e concetto inscindibile: io ti saluto – tu dammi; sempre accompagnato dalla manina tesa e dallo sguardo deciso: tu hai, tu dammi. Se nonostante l’assalto di gruppo il turista non cede, la richiesta passa da «hellobaksheesh» a «pen, pen». Spesso sono i genitori a spingere i figli a rincorrere i turisti, nella speranza di ricevere una penna rossa o blu.

Una sera dopo l’altra

I coffee shops sono luoghi per uomini arabi e donne occidentali. «Non si incontrano ragazze arabe per bene lì – spiega Shayma, la commessa del negozio di fotografia -, ma a te, italiana e sola, frequentare un coffee shop è permesso, perché sei straniera e loro tolleranti». Si raccomanda solo che, uscendo, mi copra bene le braccia e le gambe.
Ed è proprio nei coffee shops che si incontra l’Egitto, quello vero: tra le maioliche gialle, bianche e blu, tra i tavoli sbilenchi disposti sulle strade polverose dei piccoli centri, tra i giocatori di tawla (backgammon) che ti accettano solo se hai la pazienza di tornare una sera e poi un’altra e poi un’altra ancora, allo stesso tavolo a bere lo stesso tè, fumare la stessa sheesha (narghilé), tirare gli stessi dadi e sorridere alle stesse persone. Una sera dopo l’altra, quelle persone diventano capaci di un saluto più caldo, il tè profuma di rito e la sheesha diventa l’aroma di mela che la bocca pretende.
La tawla è un linguaggio, un incastro di mosse guidate da fili sotterranei in cui i dadi fanno da controcanto allo scivolare delle pedine sul legno: nello spazio quasi intimo di un gioco a mosaico che si disegna nel tempo, nascono le amicizie e le conversazioni. E il tempo che si vive non è un sentito dire, ma un’esperienza nata da uno scambio.
La curiosità non è prerogativa occidentale: i volti acquistano nomi ed è con Mohammed, Omar, Ahmed e Said che la sera si parla di «noi». «Noi», cioè di Europa e mondo arabo che sorseggiano insieme una iansung (tisana digestiva) sempre troppo dolce, domandandosi a vicenda: «Come ci vedete? Cosa pensate della nostra cultura? Cosa pensate della nostra religione?».
I ragazzi arabi seduti al coffee shop vorrebbero sapere tutto di Dio, di Cristo, della Trinità: «Se Dio è Gesù, e Gesù muore il venerdì e risorge la domenica, cosa accade il sabato? Può esistere un sabato senza Dio? Gesù è profeta di Dio, Dio ama i suoi profeti. Perché permette che Gesù soffra e muoia?».
«Perché bevete alcol, se l’alcol è peccato?». I giovani arabi ascoltano con interesse una donna senza velo la quale pensa che saper gestire il proprio rapporto con l’alcol sia una questione che chiama in causa la persona con la sua capacità di controllo, e non l’idea assoluta di Bene e di Male. E i giovani arabi, che sorseggiano tè e iansung, ascoltano: forse non concordano, ma ascoltano e rispettano, probabilmente perché la giovane donna senza velo parla di alcol e in Europa lo beve – è educazione al gusto, dice lei – ma lì, seduta al tavolino sbilenco del coffee shop di Omar, sorseggia tè e iansung proprio come loro, tenendo le braccia e le gambe coperte in segno di rispetto. Per essere rispettata.
Ai discorsi occidentali sull’undici settembre o sulle bombe di Madrid, i giovani arabi rispondono parlando di Afghanistan, Iraq e Palestina e dopo accese discussioni, in cui le parti non si incontrano, perché separate da una convinzione profonda che si barrica su due poli opposti (le nostre ragioni – i vostri torti), si arriva insieme alla conclusione che, in fondo, la pena che si sente per la miseria umana è la stessa da entrambi i lati della barricata.

«Raccontaci,
donna
senza velo!»

Ed è proprio lì che ci si incontra, quando si smette di sostenere una causa e si torna ad essere semplicemente ciò che si è: uomini e uomini mortali per di più. Uomini che si uccidono tra di loro, ma che quando bevono insieme tè e si chiamano per nome non sono più mostri dalle sette teste, bensì persone, persino interessanti.
E allora, per favore, donna occidentale senza velo, dicci com’è il mondo al di là del Mediterraneo. Dicci come sono i colori, i sapori, le facce della gente, i colori della pelle, i suoni delle strade; raccontaci come sono i vestiti, i giorni di festa e le promesse che gli innamorati si scambiano quando decidono che, sì, staranno insieme per tutta la vita.
C’è fame di sapere, perché uscire dall’Egitto è praticamente impossibile: non solo perché è troppo costoso, ma, soprattutto, perché non è facile ottenere un visto di ingresso in un altro paese e, naturalmente, un permesso di soggiorno. La possibilità a cui molti ricorrono è quella di farsi fare una carta di invito da qualche turista straniera che, in Egitto per le vacanze e spesso in età matura, si lascia affascinare dalle galanterie maschili che promettono, chissà, una ritrovata gioventù.
Un musulmano può sposare una donna cristiana, perché l’eventuale prole eredita la religione dell’uomo; quindi i matrimoni con straniere sono frequenti.
Benché l’Egitto sia un paese laico, la religione è un fattore identitario importantissimo; il 90% della popolazione è di fede islamica e il restante 10% è in gran parte di fede copto ortodossa. Solo una piccolissima minoranza è cattolica, evangelista o di rito armeno. Può capitare di sostare in meditazione nella piccola chiesa francescana di Luxor e di sentire entrare dal portone spalancato la voce metallica del muezzin che invita alla preghiera del tramonto. Ed è in quell’attimo, in quell’aria così pregna di Dio – qualunque nome abbia – che sfiora la mente il pensiero di una coabitazione possibile.
Raccogliendo le impressioni dei cristiani che vivono a Luxor, spesso si sente parlare di «restringimento degli spazi vitali» e cioè che le religioni non islamiche sono tollerate, ma ad esse non viene permesso di fare proseliti. Le scuole cristiane, in cui la maggior parte degli studenti è musulmana, faticano ad avere i permessi di ristrutturazione e devono sottostare a continui controlli e a leggi di restrizione dei posti disponibili. Le comunità cristiane si chiudono, così, a riccio al proprio interno, diventando mondi quasi in autornassorbimento. Dicono che sia per pura conservazione, ma questa strategia diventa una morte lenta, un riprodursi a l proprio interno, che porta dritto alla sterilità.
È una questione di stato, di organizzazione sociale, di mancanza di informazione, di possibilità di controllo: per chi governa, per chi tira le fila dell’intero paese è molto più semplice separare che unire, creare zone attorniate da confini marcati invece che lasciare alla gente la possibilità di spazi in cui conoscersi e, quindi, costruire piccoli ponti.

Non c’è certezza di sapere fino dove sarebbe possibile arrivare attraversando questi ponti… forse solo fino al primo coffee shop, con i tavoli sbilenchi nelle strade polverose del souq (mercato) di Luxor; ma già, questo sarebbe, in fondo, un primo e vero reciproco viaggio dentro l’Altro, che non fa paura.

Paola Cereda




Una penna per la democrazia

 

Arrestato 126 volte, fondatore di uno dei giornali più vecchi e rispettati dell’Africa francofona, Pius Njawe è da sempre attivista per la libertà di stampa a livello internazionale. Ci spiega l’evoluzione democratica del continente e confida le speranze per il futuro.

Camerunese, giornalista ed editore, Pius Njawe è uno dei più grandi difensori della libertà di stampa e diritto all’informazione sul continente africano. Nel ’79 ha fondato a Douala il settimanale Le Messager, (Il Messaggero), più tardi divenuto quotidiano. È stato arrestato 126 volte a causa delle sue pubblicazioni non gradite al potere; talvolta ha passato mesi in prigione, con pesanti conseguenze sulla sua salute.
Oggi è direttore generale del Free Media Group, società editrice del Messager, che sviluppa anche un’edizione elettronica (www.lemessager.net) e possiede un’agenzia di comunicazione: Cameroun communications incorporated. Il gruppo ha creato una stazione radio, Freedom FM, che è stata chiusa per due anni dal governo del Camerun e recentemente ha riottenuto il permesso di trasmettere. Peccato che tutti questi mesi di sigillo in ambiente umido abbiano deteriorato la maggior parte delle attrezzature e ne rendano impossibile l’operatività.
Njawe è anche il presidente dell’Unione editori della stampa dell’Africa Centrale, dopo aver creato l’Organizzazione camerunese per la libertà della stampa, ed è membro del Comitato per la libertà di stampa dell’Associazione mondiale dei giornali. È stato per 7 anni, due mandati, membro del gruppo consultivo dell’Unesco per la libertà di stampa, e membro della giuria del Premio mondiale per la libertà di stampa dell’Unesco «Guillermo Cano» (giornalista colombiano assassinato).

Si parla molto di libertà di stampa in Africa. Ma a che punto siamo?
La libertà di stampa ha conosciuto un’evoluzione positiva in Africa, grazie al vento dell’est, che ha soffiato anche un po’ da noi alla fine degli anni ’80. Negli stati anglofoni, c’è sempre stata libertà; non dico totale, ma esistevano già giornali con certa tradizione di indipendenza. In Africa francofona c’è stata una corrente, negli anni ’80, con Le Messager in Camerun, seguito a metà della decade da Sud Hebdo (oggi quotidiano) a Dakar, creato in Senegal da un gruppo di giovani giornalisti che volevano cambiare qualcosa. In Benin La Gazzette du Golfe e AST in Niger avevano uno spirito simile.
Questi 4 giornali hanno resistito alla repressione nei loro paesi rispettivi, il che ha creato una certa solidarietà tra di loro. Ogni volta che uno era attaccato, gli altri si sentivano implicati e si attivavano. È stata un’esperienza formidabile che ci ha aiutato a resistere. Poi le cose si sono evolute con l’avvento del multipartitismo in certi paesi dove il monolitismo era la regola.
La stampa è stata un po’ all’avanguardia della democratizzazione in molti paesi francofoni, cioè ha preceduto il pluralismo politico: una specie di esploratore per tutti gli attori dell’alternanza politica nel continente. E continua, in molti paesi come il mio, a essere il vero contropotere, di fronte al fallimento dei partiti di opposizione.
Malgrado il multipartitismo iniziato nei primi anni ’90, abbiamo conosciuto un’ondata di repressione cieca contro questa stampa, che talvolta ha impedito di rubare, di uccidere. In Camerun la «censura preventiva» è rimasta in vigore fino al ’96. Prima occorreva sottoporre ogni edizione del giornale a un censore, in un ufficio amministrativo: era lui a decidere, da solo quello che 15 milioni di camerunesi avrebbero letto: noi lo soprannominammo il «super redattore capo». Il giornale era pubblicato a volte con parti o intere pagine in bianco. Le Messager ne ha particolarmente sofferto. Senza contare gli arresti e attentati alla mia vita: ci sono stati così tanti episodi.

Oggi la situazione è evoluta.
Sul piano politico c’è una comunità internazionale che osserva: il principio dell’aiuto sottoposto ai criteri di democrazia ha portato a qualche progresso; poi la straordinaria evoluzione della tecnologia per l’informazione e comunicazione: prima il fax, poi internet. Questi mezzi hanno ridotto a nulla l’azione della censura, perché, malgrado ciò, la gente riusciva ad avere le informazioni che si volevano bloccare. In Camerun tale pratica è stata mantenuta a lungo per punire anche economicamente chi pubblicava informazioni non gradite, con il sequestro, ad esempio, di intere edizioni.
Dopo la soppressione della censura preventiva, il governo ha iniziato a comprare il mondo politico. Per conservare il potere, il regime di Paul Biya ha moltiplicato i partiti politici satelliti per soffocare quelli veri di opposizione, metterli in imbarazzo e mostrarli inaffidabili.
La strategia è la seguente: se un certo partito non scende a patti, se ne crea un altro che invece lo fa. Nascono così molti piccoli partiti e si mostra all’opinione pubblica che almeno 10 partiti stanno dalla parte del potere; mentre l’altro lo si dice radicale e che non vuole dialogare. Si demonizza il partito vero.
Lo stesso avviene con la stampa: dato che Le Messager da fastidio, si moltiplicano i giornali che lo contraddicono ogni volta che dà una informazione scomoda. Così si rafforza il quotidiano governativo, anche se la gente, ormai, non gli crede più. Con questi imbrogli il regime riesce a superare le tempeste e consolidare le posizioni.
Oggi questo potere non ha più bisogno dei partiti e giornali satelliti che ha creato, poiché l’opposizione è quasi inesistente e tutti si sono trovati un posto intorno alla tavola. Non ci sono più contestazioni; la gente non scende più in strada, neppure quando gli studenti vengono massacrati. Il regime ha portato il paese a una specie di unanimismo che chiamo il «monolitismo multipartitico». Abbiamo decine di partiti politici, ma tutti allineati. Non si oppongono agli abusi, non difendono la causa democratica di ieri. Il potere non ha più bisogno di loro.
Tutti hanno interesse a consolidare la propria posizione attorno alla maggioranza presidenziale; e per raggiungere tale scopo occorre avere un mezzo di comunicazione: i giornali di cui il potere non ha più bisogno, si mettono al servizio dei differenti clan. Tutto questo rende fragile la stampa e la relativa professione: anche i giornali seri non sono più presi come tali.

E i giornalisti?
I giornalisti finiscono per adottare il sistema: ciò favorisce la corruzione generalizzata anche nella professione giornalistica. Non è tipico solo del Camerun, ma di buona parte dei paesi africani, dove, con un po’ di soldi, si possono comprare articoli per distruggere o abbellire l’immagine di qualcuno.
Quando uno cerca di distinguersi, diventa il bersaglio di tutti gli altri e viene demonizzato con ogni sorta di titoli. È questa la battaglia che stiamo combattendo.

Le organizzazioni per la libertà di stampa quale ruolo possono giocare nel sostegno ai media realmente indipendenti?
Potrebbero fare un lavoro straordinario. Purtroppo a livello nazionale, dato il contesto che ho descritto, è difficile cambiare, perché ognuno crede di non aver niente da imparare da nessuno. Con l’Associazione mondiale dei giornali (Amg) abbiamo tentato di organizzare seminari in materia di gestione dell’impresa di stampa, con l’obiettivo di rinforzare le basi economiche dei media. Ha funzionato per certi paesi, ma non per il Camerun. La maniera in cui si arriva alla professione spesso non è lineare e ciò spiega la non predisposizione a migliorare: se ci si arriva per giocare sporco è chiaro che non si è pronti a progredire.
Credo che il lavoro fatto da Reporter senza frontiere, Amg e Commettee to protect journalists sia da moltiplicare. Ma la bonifica della professione, in tutti i sensi, passa innanzitutto dai professionisti stessi: essi devono prendere coscienza che quelli che vengono a distruggere sono di passaggio e, quando avranno raggiunto i loro obiettivi, se ne andranno.
Parlo delle persone che credono in questo mestiere. Ne esistono. Ma sfortunatamente sono sopraffatti da avventurieri in cerca di un salario o che hanno conti da regolare.

Lei è stato arrestato 126 volte a causa dei suoi scritti…
L’ultimo arresto avvenne in agosto 2002. Trovavo da Londra, dove avevo seguito dei corsi di diritto umanitario. Mi arrestarono all’aeroporto di Douala, mi ritirarono i documenti, ma dopo 6 ore fui rilasciato.
L’ultima volta che venni sbattuto in prigione fu nel 1998, colpevole di aver rivelato un leggero malore cardiaco del presidente Paul Biya.
Fui condannato a due anni di reclusione, ma ci fu un gran movimento internazionale di protesta sul mio caso e la corte d’appello fu costretta a dimezzare la pena. La pressione estea era così forte che, dopo 10 mesi sono stato liberato. Il presidente mi ha concesso una grazia da me non chiesta e, per paura che non volessi uscire di prigione, mandò l’esercito a sloggiarmi.
Alla fine avevano capito che la mia reclusione era per loro controproducente. Ma vi sono arrivati tardi, quando erano già stati fatti molti danni inutili. Ma questo non ha cambiato nulla nel mio comportamento, nelle mie preoccupazioni e nella mia determinazione, poiché nulla è cambiato nella situazione del Camerun.
Se l’avermi incarcerato avesse migliorato le cose che denunciavo, sarebbe servito a qualcosa; se parlo di malgoverno, corruzione, furto… è perché le cose continuano allo stesso modo. Il fatto di arrestarmi non smentisce quello che denuncio, al contrario, distrugge la loro immagine di fronte all’opinione pubblica nazionale e internazionale.

È sempre lo stesso potere che vi ha arrestato?
Sì, e rimarrà in carica almeno fino al 2011! (Segue una grassa risata).

Oggi com’è cambiata la repressione?
È diventata più sofisticata: quella fiscale ha rimpiazzato la repressione fisica. Le azioni, che prima erano esercitate dall’amministrazione, sono state trasferite ai giudici dei tribunali. Si fanno simulacri di processi, sapendo che la giustizia è sul libro paga del potere esecutivo. Quando si è accusati di un delitto di diritto comune, in realtà si mira a reprimere il lavoro di giornalista. Non viene utilizzata la legge sulla stampa, che è già molto brutta. È stata soppressa la censura, ma si sono aperti altri fronti: per esempio, chiunque pensi di essere stato diffamato ha la possibilità di far sequestrare un giornale; è stato prolungato da sei mesi a tre anni il periodo di prescrizione, cioè il tempo che intercorre tra la pubblicazione di un articolo e la possibilità di denuncia.

A livello mondiale, cosa pensa del movimento che si oppone al neoliberismo e si appoggia sui diritti umani. Può avere un futuro e influenzare certe dinamiche in Africa?
È un movimento che bisogna incoraggiare e contribuire a sviluppare, anche se è minoritario da noi. È una lotta nobile contro il liberismo cieco e selvaggio, perché conduce alla distruzione totale dell’Africa. Chi lo persegue cerca solo di proteggersi contro i poveri o contro popoli che ha impoverito. È un’ingiustizia. Non si può ridurre un continente allo stato in cui è ridotta l’Africa e venire a dire che occorre liberalizzare.
Il movimento deve essere appoggiato da tutte le forze che credono in una giustizia mondiale; occorre lottare contro chi vuole monopolizzare tutto: ci impone il prezzo di acquisto delle materie prime, le trasforma altrove e ci riporta i prodotti finiti con relativo prezzo da lui fissato. Dobbiamo avere la libertà di vendere il nostro cotone a prezzi che scegliamo noi, calcolando gli investimenti in tempo e sofferenza per produrlo.

Pensa che la società civile in Africa sia abbastanza matura per questa lotta?
La società civile è qualcosa di molto importante, ma che deve prendere corpo e consolidarsi nei nostri paesi. In Camerun essa è gestita dagli uomini politici, che da un giorno all’altro decidono chi ne fa parte. Una società civile si definisce da sola: si tratta di gente che agisce e partecipa al consolidamento del progresso di un paese. In Africa, oggi, essa esiste, ma manca di organizzazione. È costituita da individualità, ma devono mettersi insieme per costituire dei veri contro-poteri, imparare a interpellare quando è necessario, a esigere di poter dire la propria opinione nelle decisioni che riguardano la sorte della comunità.
A questo dobbiamo lavorare oggi. In diverse parti dell’Africa ci sono embrioni di società civile che si mettono in piedi. Bisogna lavorare per rinforzarli, migliorare le loro capacità di discussione, i mezzi d’incontro, per facilitare gli scambi di idee e poter parlare di cose importanti per l’avvenire dei loro popoli.

Cosa vorrebbe dire ai dirigenti occidentali sullo sviluppo dell’Africa?
Se vogliono aiutarla, la facciano uscire dal circolo vizioso del debito. L’Africa non è debitrice di fronte all’Occidente; al contrario, sono i paesi ricchi debitori di questo continente. Se vogliono veramente aiutarla, ammettano questa realtà. Dopo di che, ammettano anche che l’Africa rigurgita di risorse per svilupparsi da sola e la smettano con quell’aiuto-trappola che serve a mantenerla al servizio dell’Occidente. La si aiuti a sviluppare le sue proprie potenzialità, a sfruttare le sue ricchezze sul suolo africano. Mandino gente che sappia trasmettere onestamente la tecnologia propria, per fare dell’Africa un continente sviluppato a partire dalle sue risorse. La maggior parte delle ricchezze dei vostri paesi vengono dal nostro continente: perché non possiamo far di tali ricchezze dei mezzi di sviluppo delle nostre popolazioni?

L’Africa ha mezzi sufficienti per svilupparsi: occorre orientarla per meglio servirsi delle proprie risorse, invece di mantenere certi nostri capi che, per restare al potere, prendono le nostre ricchezze e le offrono all’Occidente. Sotto questo aspetto, è meglio che l’Occidente non ci aiuti, ma lasci che ce la sbrighiamo da soli.
Voglio pure dire che anche l’africano deve riflettere su come svilupparsi e costruire il suo futuro sul fondamento dei propri valori e risorse. Stiamo organizzando l’Istituzione Nelson Mandela, con lo scopo di suscitare ai quattro angoli del continente le capacità umane, raccoglierle in sinergie al fine di trasformare sul posto le materie prime africane in prodotti locali.
Sono il responsabile della comunicazione di questo gruppo ancora in embrione; ma miriamo alla creazione di istituti regionali per le tecnologie, dove dei giovani possano ricevere la necessaria formazione. Il presidente Mandela ha accettato di essere padrino dell’iniziativa. Mi auguro che i paesi occidentali, istituzioni internazionali, quelle di Bretton Woods, portino il loro sostegno a questa idea, per renderla sempre più concreta e rispondente alla realtà africana.

 

Marco Bello

 

 




AFFARI…. IN CORSOChiesa cattolica e altre religioni nell’occhio del ciclone

Coniugando capitalismo selvaggio e comunismo maoista, la Cina si è inserita tra le potenze economiche mondiali. Ma la libertà religiosa e altri diritti umani continuano a essere calpestati. Il governo cinese non teme le rimostranze dei paesi occidentali, con i quali gli affari vanno a gonfie vele. Teme invece i gruppi religiosi, che non sono interessati al business del denaro. Così, sotto varie forme, l’opposizione alla chiesa cattolica continua.

I l boom economico legato alla libera circolazione dei capitali ha portato un sostanzioso benessere materiale per almeno cento milioni di cinesi. Una storia che tutti conoscono, osannata dai cultori del neo liberismo che vedono nell’apertura commerciale cinese la prova definitiva della bontà del modello di progresso neo liberista.
E visto che tale boom mercantile si allaccia per motivi sempre economici con la società occidentale in maniera inscindibile, governanti, politici, sindacati, industriali, media preferiscono chiudere entrambi gli occhi su un sistema dittatoriale che forse per la prima volta nella storia unisce gli aspetti peggiori del capitalismo selvaggio e del comunismo maoista.
Troppo potente la Cina di oggi per permettersi di criticarla. Un paese pericoloso da non importunare, perché sta fagocitando le industrie occidentali, offrendo condizioni lavorative non lontane dalla schiavitù, che permettono di rifornire i nostri centri commerciali di prodotti sempre meno costosi.
Cosa temono le autorità cinesi, il Partito comunista cinese? Cosa potrebbe minare questo diabolico sistema di investimenti occidentali e repressione locale? Forse le denunce della nostra dormiente stampa? Oppure la schiena dritta della cultura democratica americana o europea?
Nulla di tutto questo ovviamente. Hu Jintao, presidente della RPC e segretario del partito, e Wen Jibao, primo ministro, insieme a tutta la vecchia nomenclatura comunista, compreso il solito burattinaio Jang Zeming, sanno bene che il loro potere non potrà mai essere attaccato dalle decadenti istituzioni occidentali, troppo ansiose di fare business con i nuovi amici comunisti cinesi.
Temono quindi chi è sostanzialmente disinteressato al business, ai soldi, ovvero le religioni.

L a storia delle religioni in Cina è drammatica e troppo semplicemente ora si tende a dimenticare, a pensare che «quei tempi siano ormai superati», quando cioè, le religioni venivano semplicemente abolite, bollate come «superstizioni borghesi» e i credenti erano «controrivoluzionari».
Il periodo della rivoluzione culturale (1966-1976) vide le peggiori forme di perversione antireligiosa: umiliazioni pubbliche, processi sommari ai credenti, moschee trasformate in porcilaie e chiese in stalle, solo per fare pochi esempi di una follia durata dieci anni.
Un osservatore distratto potrebbe pensare che da allora le cose sono molto migliorate. Effettivamente i truculenti metodi dell’epoca di Jang Qing, la sanguinaria moglie di Mao e leader della banda, sono stati abbandonati, e dal 1982, anno della revisione della legge sulle religioni, le restrizioni sono diminuite.
Il Partito comunista cinese ha constatato che schiacciare le religioni è impossibile e, secondo la filosofia leninista, ha scelto di gestirle dall’interno: dalla persecuzione dura e pura si è passati alla discriminazione e al controllo.
Il vantaggio è doppio: i credenti sono facilmente controllabili e agli occhi del mondo si possono sbandierare «prodigiosi traguardi» raggiunti nei diritti umani.
Tutti sembrano contenti: controllati e sedicenti controllori. Con un po’ di make up gli affari con le multinazionali possono continuare indisturbati.
Il perché di questa repressione è semplice: le religioni, in particolare il cattolicesimo e il Falun Gong, sono vissuti come potenziali pericoli controrivoluzionari.
L’assenza dello stato sociale lascerebbe ampi spazi di manovra all’aiuto cattolico, ma il governo cinese preferisce rifiutare scuole e ospedali, perché porterebbero alla creazione di un proselitismo giudicato pericoloso. In poche parole, la massa sterminata di diseredati cinesi rischierebbe di sollevarsi contro le decadenti e corrotte autorità locali e centrali.
Nonostante questo, dal 1982 la politica cinese verso i cattolici ha avuto periodi fluttuanti di apertura e repressione, ma con un denominatore comune: controllo totale e sottomissione.
Attualmente sembra che vi sia in corso un processo di distensione, caratterizzato da trattative silenziose tra il Vaticano ed il governo cinese.
Punta di diamante di questo riavvicinamento è l’ordinazione di mons. Xing Wen-zhi a vescovo (ufficiale) ausiliare di Shanghai, nomina avallata sia dalla Santa Sede che dalla chiesa patriottica.
Una scelta avvolta dalla confusione che ha creato ottimismo, velocemente superato dall’incidente dei 4 vescovi cinesi cui è stato impedito di partecipare al recente Sinodo.

A peggiorare le cose ci ha pensato il governo cinese con una dichiarazione ufficiale di Kong Quan, portavoce del ministero cinese degli esteri, che ha accusato il Vaticano di non fare abbastanza per migliorare le relazioni diplomatiche. Il diplomatico cinese ha detto che dalla Santa Sede la Cina si aspetta «fatti», non«parole».
Il governo cinese, ha affermato Kong, ha «desiderio sincero» di migliorare i rapporti con il Vaticano, ma questi deve far «seguire i fatti alle parole». A rincarare la dose, Kong ha citato le due tradizionali prove che Pechino richiede alla Santa Sede come pre-condizioni per intraprendere ogni dialogo: rottura delle relazioni diplomatiche con Taipei; «non interferenza negli affari interni della Cina con la scusa della religione». Le dichiarazioni di Kong hanno riportato il gelo nei rapporti di Pechino con la Santa Sede.
A proposito della libertà religiosa, Kong ha detto che «la Costituzione garantisce la libertà di religione e tutti possono vedere che sempre più gente segue una religione e che ci sono sempre più posti dove i fedeli possono praticare i loro riti». In realtà, la Cina permette libertà religiosa solo con personale e in luoghi registrati presso l’Ufficio affari religiosi e sotto il controllo capillare delle Associazioni patriottiche. Chiunque pratica la sua fede fuori da queste condizioni è considerato «un delinquente», perseguibile a norma di legge. Secondo Asia News, decine di vescovi e sacerdoti della chiesa non ufficiale sono in prigione o in isolamento a causa di questo.
Una personalità dell’Accademia delle Scienze sociali di Pechino ha riferito ad Asia News che il governo di Pechino «ha capito l’importanza che il Vaticano ha nel mondo, ma non vuole risolvere la questione in modo giusto. La Cina non riesce a capire che occorre una divisione fra stato e chiesa; il governo teme che i cattolici, in momenti di crisi, ubbidiranno più al papa che alla Cina».
È teoria che le spinte liberali seguono o precedono le aperture dei mercati economici e che un sistema capitalistico maturo necessita di una società libera e democratica.
Teoria che ha sempre funzionato, ma che ora sembra vacillare proprio a causa della situazione cinese in cui lo strapotere del partito comunista regola un mercato del lavoro che necessita di manodopera docile per far felici le multinazionali occidentali che delocalizzano le produzioni.
In questo contesto la chiesa cattolica naviga a vista, fiduciosa che i dinosauri di oggi finalmente si estinguano. n

INTERVISTA
Hong Kong: incontro
con padre Gianni Criveller

Missionario del Pime, padre Gianni Criveller vive e studia a Hong Kong da 14 anni, attualmente insegna teologia della missione presso il Centro studi dello Spirito Santo.
Mi riceve nel suo studio strapieno di libri situato nella Hong Kong Island, la parte più bella della città. L’edificio del PIME è l’ultimo che vanta l’architettura tradizionale cinese a Hong Kong.
Padre Criveller, molti osservatori occidentali sostengono che la Cina deve necessariamente adottare una politica non democratica a causa dell’enorme popolazione…
Ognuno è libero di pensare cosa vuole. Ovviamente io non sono d’accordo, perché sono testimone di cosa significa questo tipo di ragionamento. Noi missionari siamo qui per portare il messaggio del vangelo e per questa ragione pensiamo che i diritti umani debbano essere rispettati ovunque.

La Cina sta avendo uno sviluppo economico straordinario. Seguirà un miglioramento anche nella vita dei cattolici?
Il boom capitalistico è fortissimo e miglioramenti sono avvenuti anche per i cattolici. Ma il controllo della chiesa patriottica nella Cina continentale è tuttora molto forte. I cattolici non sono liberi di riunirsi quando lo desiderano, gli è concessa la messa la domenica e poco altro. Le nomine dei vescovi sono imposte e chi aderisce alla chiesa sotterranea viene perseguitato. I cattolici sono sospettati di chissà quali attività contro rivoluzionarie e in definitiva sono visti come un pericolo per il partito comunista.

Questa situazione è presente anche ad Hong Kong?
No. Gli aspetti più antipatici del controllo del governo sono presenti nella Cina continentale. Non dimentichiamo che per Hong Kong esiste un sistema legale diverso dal resto della Cina, quindi vi è una maggiore libertà.

Alcuni studiosi sostengono che la Cina diventerà nel giro di qualche decennio protestante. Lei cosa ne pensa?
Non sono d’accordo: 50 anni di ateismo non si superano facilmente e l’attuale materialismo dominante ha partita facile rispetto ai valori etico-morali delle religioni. In Cina la cosa più importante in questo momento è fare i soldi, il resto non conta.
Qual è il ruolo dello stato all’interno degli affari religiosi, ad esempio con i preti che lavorano sul campo?
L’amministrazione degli Affari religiosi, un organo ufficiale dello stato, esercita un ruolo particolarmente negativo. Spesso mettono sotto pressione i giovani preti perché questi ottengano donazioni dall’estero oppure vengono tentati a seguire le pressioni governative con offerte di divertimenti, viaggi e carriere politiche.

Ci parli della comunità sotterranea cinese. Come vivono?
La comunità cattolica sotterranea ha sofferto molto in passato e sta soffrendo nel presente, ma è la grande speranza della chiesa in Cina. La loro forza è che non vogliono fare nessuna attività politica, come il governo sospetta, ma semplicemente desiderano vivere la loro fede in totale integrità, ed in maniera indipendente.

Come è vista la figura di papa Giovanni Paolo II in Cina?
Quando vado nella Cina continentale, spesso i cattolici mi fanno domande su papa Giovanni Paolo II: questo perché, durante i suoi 26 anni di pontificato, il papa ha parlato moltissimo ai cattolici cinesi, offrendo altresì alle autorità aperture politiche senza precedenti e sostenendo con forza che «un buon cattolico è anche un buon cinese», ciò che i comunisti invece non ammettono. Un amore, quello del santo padre, corrisposto dai fedeli cinesi.

Giacomo Mucini




RORAIMA Reportage tra gioia e rabbia

TERRA AMARA


Finalmente, gli indios di Roraima

hanno potuto festeggiare l’«omologazione» di un pezzo di terra che, d’ora in poi, sarà loro. Ma non tutti si rassegnano alla… sconfitta, continuando ad esprimere,
con la violenza, il loro rancore…

Quella del 21-24 settembre 2005 è stata una grande festa nel territorio di Roraima (Brasile): dopo lunga attesa, la terra di «Raposa Serra do Sol» è stata «omologata», cioè consegnata definitivamente ai popoli indigeni, legittimi proprietari. La vigilia è stata preceduta da un evento funesto: due giorni prima i fazendeiros hanno appiccato il fuoco a quasi tutte le costruzioni della missione di Surumú.
Una delegazione di cinque persone, la senatrice Emanuela Baio, mons. Aldo Mongiano, padre Silvano Sabatini, fratel Carlo Zacquini e padre Giordano Rigamonti, in cammino verso Maturuca, decideva di fermarsi a Surumú per essere testimone degli effetti di tanta violenza.
La festa è stata grande ugualmente: le ceneri della missione hanno maggiormente stimolato la resistenza degli indigeni nella difesa dei loro diritti e la volontà di ricostruire il loro futuro.

Surumú, 20 settembre

Scuola, ospedale, casa delle suore, chiesa… tutto distrutto dalla violenza: quali sono le sue prime impressioni, senatrice?

Sgomento e dolore hanno accompagnato le quattro ore che abbiamo trascorso nella missione di Surumú. A distanza di giorni, ancora rabbrividisco quando penso alla violenza racchiusa in quelle macerie, allo scontro tra odio e amore. Di violenza, terrorismo e scontro si può parlare, perché questo è un male che accompagna l’uomo e che nella piccola e sperduta missione di Surumú, ha espresso il peggio di sé.
Tutto è cominciato al nostro arrivo a Boa Vista. Fratel Carlo ci ha accolti, immergendoci immediatamente nella triste realtà: «Qualche ora fa, hanno bruciato la nostra missione a Surumú». Poche parole per esprimere il dramma di un popolo: gli indios dello stato di Roraima, dimenticati dai più, poco conosciuti, ma forti della loro esistenza, cultura, tradizioni e capacità. Non saranno i fazendeiros, conniventi con alcuni «politici», a distruggere questa comunità (vedi riquadro). Ci hanno già provato, ma non sono riusciti. Nonostante lo sgomento e la rabbia che ho ritrovato tra i missionari, è riemerso immediato l’amore.
Il giorno seguente il nostro arrivo a Boa Vista, padre Mario Campos, parroco di Surumú, ci ha detto pure che i giovani vogliono continuare l’esperienza comunitaria della missione. Una scelta coraggiosa, che ha illuminato di speranza il paesaggio devastato dall’odio e che ha fatto in modo che condividessimo un momento di riflessione e preghiera con quei giovani. Questo mi ha convinta ancor di più sulla necessità di continuare a sostenere il loro coraggio, sia da parte degli italiani, come hanno già fatto con la campagna Nós existimos, sia da parte delle istituzioni, come la Commissione diritti umani del Senato della repubblica.
Girando fra le macerie della scuola, casa delle suore, ospedale e nello squallore dei pochi resti della chiesa, mi sono subito accorta che la mano potente e violenta di quegli uomini (quasi sicuramente ubriachi, a detta dei presenti) hanno colpito con un’intelligenza raffinata. Quella di Surumú non è solo una missione: è il centro pulsante di una nuova cultura. Lì vengono formati i nuovi leaders e istruiti gli indios, si trova la quintessenza della paziente e faticosa opera compiuta dai missionari della Consolata per più di 30 anni di impegno. Ma lì si trova anche un ambulatorio medico, importante per le prime cure delle comunità indie.
Nella povertà e desolazione di quel luogo risiede il futuro, ricco di speranza. Se nell’ambulatorio si percepisce la solidarietà umana e il riconoscimento di un diritto inalienabile dell’uomo, quale è quello alla salute, nei resti della chiesa si intravede la profonda ricerca spirituale, nella scuola la costruzione del presente: tre simboli che rappresentano per i giovani le rocce sulle quali costruire il futuro.

Calpestiamo le ceneri ancora calde sul pavimento; preghiamo con i leaders della comunità; padre Mario, il parroco, è in lacrime e a stento riesce a dare la parola a giovani che vogliono celebrare la vita: le emozioni sono stampate su tutti i volti dei presenti…

Sono sopravvissute solo le mura perimetrali della chiesa: il resto è polvere, ceneri. È un paesaggio surreale, ma brutalmente vero. Eppure abbiamo vissuto un momento di intensa spiritualità: i giovani della scuola, nel momento di preghiera, si sono disposti in cerchio, quasi a rappresentare il circolo dell’esistenza, e ognuno di loro ha gridato il proprio nome, affermando così una presenza che non è stata portata via dal vento dell’odio, ma che lì, in quel cerchio, formava la catena della vita: la forza dell’amore.
Hanno poi intonato canti e letto testi sacri, per suggellare il sentimento di perdono e la richiesta di aiuto: è stata una comunione di intenti e una grande lezione di vita. Nessuna recriminazione né minaccia di vendetta; nessuna spiegazione per cercare di capire… Ma hanno accettato quella sorte con la forza della speranza nella pace e nella prospettiva di un futuro migliore, senza dare spazio alla rassegnazione.
Con noi c’era anche il neo vescovo di Boa Vista, mons. Roque Paloschi, il quale ha individuato il percorso dove camminare come un fratello fra fratelli, una strada in cui i missionari sono i seminatori del regno, tra un popolo che soffre.

Maturuca, 21 settembre

Il capo Jacir De Souza ti prende sotto braccio e ti accompagna alla maloca centrale, accolta da una folla festante… Come ti sei sentita, tra un popolo orgoglioso del traguardo conquistato?

Il loro scortarci alla grande maloca con canti e balli, con una gioia incontenibile, mi ha fatto constatare la spontaneità di un’ospitalità non consueta. Per noi occidentali è semplice condividere la felicità di questo popolo; non lo è altrettanto capirla fino in fondo. Solo stando lì, sentendo il racconto di persone che per 30 anni hanno sopportato le angherie dei fazendeiros (retribuiti per il loro lavoro con bottiglie di alcornol), ci si può forse avvicinare, rispettare e apprezzare la loro dignità di popolo; mentre noi non siamo in grado di guardare al futuro, essi hanno la felicità dell’essenziale, invisibile agli occhi.

La Commissione diritti umani del Senato ha fatto un prezioso lavoro di appoggio alle rivendicazioni degli indigeni di Roraima per la riconquista della loro terra: quale è stato il tuo messaggio? Quale ipotesi di collaborazione per il futuro?
«Costruire una società nella quale i diritti di pochi si trasformino nel diritto di tutti» è la prima affermazione che ho pronunciato durante la festa di omologazione. È lo spirito che ha accompagnato i missionari e che ha mosso anche il nostro impegno alla Commissione diritti umani del Senato. La mia partecipazione rappresenta una tappa di un percorso. Le 44.000 firme consegnate al presidente Marcello Pera costituiscono il sostegno, la condivisione e il rafforzamento di una battaglia (vedi riquadro).
Come rappresentante del Parlamento italiano ho ringraziato gli indios di Roraima per il coraggio dimostrato, per la forza morale che ha consentito di superare barriere invalicabili, per la paziente attesa di vedere ripristinati i loro diritti umani e civili, senza mai ricorrere alla violenza, senza attimi di esitazione o demotivazione.
Quello che unisce le nostre nazioni è anche un altro sentimento: l’amore verso la propria terra. Il concetto di terra è ben definito, indica dei limiti e proprio in questi ritroviamo i nostri valori, che, nonostante gli usurpatori, le catastrofi naturali o l’allontanamento forzoso, non potranno essere stravolti. Dentro questo diritto naturale è riconosciuta la nostra esistenza, la disponibilità a essere amati per la nostra identità, essere accettati anche da chi, forse ancora oggi, non vuole riconoscere quel grande e unico popolo.
Nel momento in cui si ammette il diritto alla terra, si riconoscono anche diritti umani essenziali: alla vita, all’alimentazione, all’acqua potabile e, quindi, all’esistenza. L’impegno del Parlamento italiano continuerà, vigilando da lontano e da vicino e lavorando affinché questi diritti, che non sono ancora pienamente riconosciuti, siano suggellati anche dal Tribunale internazionale di giustizia.
Con i missionari e la comunità indigena lavoreremo anche per far crescere sempre più la conoscenza culturale di questo popolo. Brasile e Italia, insieme, possono contribuire, con la forza della frateità, a costruire un mondo migliore, fatto di tante diversità, ma realizzato con giustizia, libertà, pace e democrazia.

Boa Vista, 21 settembre (sera)

In città circolano voci su una spedizione punitiva nei tuoi confronti… con l’accusa di ingerenza, già sbandierata dai media nei giorni precedenti: hai avuto paura?

L’atteggiamento di intimidazione nei nostri confronti, a mezzo stampa, aveva già avuto un precedente, nell’agosto di questo anno, quando il senatore Pianetta, presidente della Commissione dei diritti umani, si era recato in visita a Roraima. Forse siamo stati fraintesi: il nostro intervenire non era finalizzato all’ingerenza, ma alla cooperazione con questo popolo e le istituzioni brasiliane.
Non nego che tali intimidazioni mi abbiano spaventata, però non potevano impedire la mia visita, in quanto ero profondamente convinta del valore del mio compito.
Non posso nemmeno negare il conforto morale datomi dai missionari della Consolata che, attraverso la disponibilità e l’autornironia per quanto stava accadendo, mi hanno dato la forza per non abbattermi e hanno fatto in modo che anche questa esperienza mi rimanesse impressa come positiva.

Brasilia, 22 settembre

Incontri con deputati e senatori dello stato federale del Brasile: quali sono i suggerimenti dati e ricevuti riguardo al futuro dei popoli indigeni di Roraima?

Fra Brasilia e lo stato di Roraima è come se ci fosse una dissociazione. Ciò che sembra possibile nelle aule del Parlamento federale è vissuto come difficile o impossibile a Maturuca e a Surumú. Le ragioni sono molte e non sta a noi giudicare le scelte politiche degli uni o degli altri. Credo sia importante capire, per individuare la via da percorrere, continuare il nostro aiuto e il sostegno internazionale a una causa non solo giusta, ma essenziale per il futuro dell’umanità.
Come ci ha detto il vescovo di Boa Vista: il diritto alla terra è un diritto inviolabile dell’uomo. Anche alcuni parlamentari federali lo affermano. Ci hanno ripetuto che questa è una competenza dello stato federale. Peccato che il governatore di Roraima, quando il presidente Lula, il 15 aprile 2005, ha firmato il decreto di omologazione, abbia dichiarato sette giorni di lutto per Roraima!
Il nostro compito in Brasile è quello di creare un ponte tra due sponde che hanno gli stessi obiettivi: se da una parte ci sono i parlamentari brasiliani impegnati per gli interessi del popolo indio, dall’altra compaiono missionari, associazioni e cittadini che ambiscono alla serenità e al benessere; le due sponde fronteggiano lo stesso fiume, ma non hanno lo stesso materiale per costruire un collegamento, le stesse parole per comunicare.
Stiamo seguendo questa prima delicata fase, ascoltando entrambe le motivazioni, traducendo gesti incompresi in un messaggio reciproco di solidarietà. La prima impressione è, infatti, quella che i fazendeiros non siano convinti a lasciare le terre, nonostante lo stato federale abbia assegnato loro altre proprietà.
I colleghi brasiliani ci hanno chiesto l’impegno a continuare a sostenerli dall’Italia; ma anche di non rinunciare a raggiungerli, evitando interferenze, e aiutando il processo di autodeterminazione del popolo.
Noi, invece, abbiamo chiesto di far sentire la loro presenza in quello stato del nord brasiliano. Ci hanno assicurato che non abbandoneranno il loro popolo: parola di brasiliani. Io, di certo, non lascerò questa esperienza come mero ricordo, ma per me sarà un obiettivo quotidiano: parola di italiana!

(di Emanuela Baio Dossi con Giordano Rigamonti)

Emanuela Baio Dossi