Il moltiplicatore della povertà

Oggi l’Aids uccide più persone di qualunque altra malattia infettiva. I sieropositivi, i nuovi infettati e i morti sono concentrati nell’Africa subsahariana. L’Aids si diffonde nella povertà e, allo stesso tempo, causa povertà. Anche se i costi delle cure sono drasticamente diminuiti (nel 2000 una cura antiretrovirale costava 12.000 dollari all’anno, oggi 300), nel continente più colpito la povertà ha ancora il sopravvento, tanto che le persone in trattamento sono appena lo 0,4% dei malati africani. In questo contesto si innescano le polemiche sui brevetti dei farmaci antiretrovirali (proprietà di poche multinazionali farmaceutiche) e sui fondi inteazionali per la lotta all’Aids.

Nel mondo, ogni anno muoiono 15 milioni di persone per malattie infettive: di queste 3 milioni per l’Aids (dal 1981, anno della sua «scoperta» ufficiale, fra i 20 e i 25 milioni di persone); 1-2 milioni per malaria; 2 milioni per tubercolosi. Aids, malaria, tubercolosi, i grandi flagelli epidemici dell’umanità, colpiscono soprattutto i paesi del Sud del mondo (il 97% dei decessi avviene infatti in quei paesi).
Per quanto riguarda l’Aids, si stima che i sieropositivi siano fra 35 e 42 milioni di persone (90% nel Sud del mondo); che i contagiati siano 5 milioni ogni anno (14 mila al giorno), il 95% dei quali abitanti nel Sud.
Questa grave epidemia mondiale assume la dimensione di una vera pandemia nell’Africa subsahariana, nella quale si stima vi siano 25-26 milioni di sieropositivi, 2,2 milioni di morti ogni anno (13 milioni dall’inizio dell’epidemia), 3 milioni di contagiati ogni anno; valori che si aggirano su percentuali del 60-70% del totale mondiale, a fronte di una popolazione di poco più del 10% del totale mondiale.
La presenza non è la stessa nelle diverse parti dell’Africa: in sei paesi la quota della popolazione adulta sieropositiva non supera il 2%; più elevata è la presenza nell’Africa del Sud (16% di sieropositivi sulla popolazione adulta); nell’Africa Orientale la stessa percentuale scende al 6%; nell’Africa Centrale e Occidentale è attorno al 4,5% e nel Nord Africa è meno dell’1%, ma in sette paesi essa supera il 20% (in Botswana e Swaziland si arriva al 35%).
In alcuni paesi subsahariani, nell’ultimo decennio, si è avuto il raddoppio della mortalità per Aids: Kenya, Malawi, Zimbabwe, fra questi. In Kenya e Malawi, la probabilità di morire di Aids per le persone di età compresa tra 15 e 60 anni è salita in dieci anni dal 48 al 63%; in Zimbabwe è arrivata all’80%.
I decessi di cui si parla non si devono esclusivamente all’Aids: infezioni batteriche intestinali e delle vie respiratorie, tubercolosi e malaria fanno il resto. Diffusa è la presenza di coinfezioni Hiv-Tbc. Se la cura anti Hiv fosse più diffusa, anche le altre infezioni di tipo epidemico subirebbero un rallentamento o una battuta d’arresto.
L’Africa, però, è tuttora il continente a copertura farmacologica più bassa: le persone in trattamento anti Hiv sono appena 100 mila, lo 0,4% di quello che servirebbe, mentre si stima che tale percentuale sia pari al 7 nel Sud del mondo e al 10 nell’intero mondo.
L’epidemia di Hiv e Aids rappresenta una delle catastrofi più grandi della nostra epoca, e non ha i connotati di un mero problema di salute. L’epidemia ha conseguenze tragiche nella vita sociale, economica e politica delle popolazioni investite e investe in modo assai differente uomini e donne, città e campagna, ricchi e poveri, istruiti e non istruiti, occupati e inoccupati. L’Aids va affrontato sapendo che si è di fronte non solo a un problema di salute, ma anche ad una grave manifestazione del sottosviluppo economico, delle disuguaglianze sociali, della povertà del Sud del mondo, e dell’Africa sudsahariana in particolare. La risposta deve saper affrontare questa vasta problematica, non solamente l’aspetto sanitario.

Quel circolo vizioso Aids-povertà

Causa dell’Aids è il virus dell’Hiv; ma la causa della diffusione dell’Hiv e dell’Aids nei paesi sottosviluppati è la povertà. Le cause dell’espansione dell’epidemia sono infatti:
a) le condizioni igieniche scadenti (e la povertà non consente di migliorare tali condizioni);
b) gli scarsi servizi sanitari (e la povertà non consente di avee di migliori);
c) l’ignoranza e l’analfabetismo (e la povertà non permette di realizzare un’adeguata attività educativa cui normalmente è associata anche una minore attività sessuale, fonte principale della trasmissione dell’Hiv);
d) il maschilismo, gli abusi sessuali e la discriminazione femminile, che fanno sì che il rapporto fra sieropositivi uomini e donne (sia pari a 13/10 in Africa, ma pari a 20/10 in Sudafrica e a 45/10 in Kenya fra le persone con età 15-24 anni); l’ignoranza, anch’essa conseguenza della povertà, costituisce un forte ostacolo all’empowerment della donna;
e) aspetti culturali, giuridici e sociali, fortemente collegati ai livelli di educazione presenti nella società;
f) le migrazioni, prodotte dalla miseria.
Se l’Aids prolifera nella povertà, al tempo stesso l’Aids crea povertà poiché:
a) contagi e decessi sono prevalentemente di giovani adulti (il 50% dei contagi riguardano persone di età tra i 15 e i 24 anni) e questo indebolisce e fa venir meno forza lavoro a elevato potenziale produttivo, sovente colpendo e distruggendo competenze professionali in essere o in divenire (insegnanti, medici, infermieri, tecnici, artigiani, commercianti…). L’epidemia colpisce persone che avevano studiato, si erano formate o erano in itinere per divenirlo, persone indispensabili per creare il tessuto economico, sociale e politico necessario per la realizzazione dei programmi di sviluppo. Fiaccandone la capacità di agire e distruggendone la vita, l’epidemia elimina il potenziale di sviluppo dei sistemi economici e sociali;
b) i sistemi economici perdono i beni che gli ammalati e i defunti avrebbero altrimenti potuto produrre: si stima che nell’Africa Orientale si sia perso, per questo motivo, il 25% della produzione agricola; che in Africa in complesso si sia perso il 10% del prodotto interno; che se ne sia perso l’1% in tutto il mondo;
c) le famiglie colpite vedono ridursi le loro risorse poiché devono sostenere spese per cure e per funerali e a causa di esse possono essere ridotte in miseria. Si stima che queste spese possano arrivare a ridurre i redditi famigliari in media di un terzo (ma anche di due terzi o di tre quarti in Sud Africa);
d) l’epidemia ha effetti deleteri nel lungo periodo in quanto i milioni di morti in età giovane e adulta portano ad un drammatico calo nella fertilità della popolazione e la scarsità della popolazione tarpa le possibilità di crescita economica nei paesi laddove la produttività del lavoro supera il consumo procapite;
e) l’epidemia lascia dietro di sé milioni di bambini orfani di almeno un genitore. Si stimano attualmente nella misura di 15 milioni, di cui 12 milioni nell’Africa subsahariana. Questi bambini o vengono seguiti da nonni o parenti, che li avviano al lavoro per poter permettere alla famiglia di sopravvivere, o vengono abbandonati (leggere articolo di Touadi). Gli uni e gli altri non avranno modo di andare o di continuare la scuola, di formarsi, di acquisire capitale umano attraverso un curriculum formativo o anche solo con l’acquisizione di conoscenze, di abilità, di esperienze che i genitori defunti avrebbero altrimenti potuto dare loro. L’epidemia distrugge il capitale umano dei defunti e non permette l’acquisizione di nuovo capitale umano da parte dei giovani orfani.

DA 10.000 A 300 DOLLARI

S’è detto della insufficiente copertura farmacologica anti Hiv (è più in generale anti malattie infettive). Eppure i dati scientifici mostrano come le nuove terapie contro l’Hiv – le cosiddette multiterapie antiretrovirali – che si utilizzano nei paesi occidentali a partire dal 1996 abbiano nettamente aumentato le possibilità di sopravvivenza dei malati. Nel Nord del mondo, con la multiterapia, la mortalità da Aids è diminuita del 75% e si ipotizza che una persona infetta, se curata precocemente, possa avere davanti a sé oltre 30 anni di vita (non si parla più di durata della «sopravvivenza»). Non c’è più la percezione che un malato di Aids abbia necessariamente una sopravvivenza limitata. Al contrario, in Africa, il decesso avviene in media dopo 7-8 mesi.
La risposta farmacologica dunque esiste, e qui si riapre allora la questione della disponibilità e dei costi dei farmaci.
Le case farmaceutiche sono accusate di applicare prezzi troppo elevati e di realizzare, grazie alla situazione di monopolio in cui operano, profitti esorbitanti. È vero, i mercati dei farmaci hanno tuttora strutture concorrenziali alquanto limitate; basta vedere la differenza di prezzo di molti farmaci in due paesi economicamente e geograficamente vicini come l’Italia e la Francia.
Inoltre, l’Omc è accusata di permettere la presenza di forme di monopolio nel settore farmaceutico con l’applicazione, anche a questo, dell’accordo Trips (del 1996), che regola il brevetto dei prodotti e dei processi di fabbricazione, per impedire il commercio dei beni contraffatti, vietando la produzione da parte di soggetti non titolari dei brevetti e vincolando importazione, uso e vendita dei prodotti all’autorizzazione del titolare del brevetto.

BREVETTO SÌ, BREVETTO NO

Il brevetto è l’istituto giuridico – di diritto interno e, con l’accordo Trips, di diritto internazionale – indispensabile affinché le imprese private facciano ricerca applicata: senza la possibilità di essere l’unico produttore – che il brevetto consente – non sarebbe possibile all’impresa privata sostenere i costi della ricerca (da 100 a 1.000 milioni di dollari Usa per prodotto) poiché non avrebbe nessuna garanzia di poter recuperare i costi con i ricavi, se anche altri soggetti potessero vendere lo stesso prodotto. Gli elevati profitti che la posizione di monopolio permette di realizzare possono poi essere la fonte di autofinanziamento per ulteriori ricerche di nuovi prodotti e di nuovi processi.
Il brevetto viene fatto valere e nei mercati dei prodotti farmaceutici dei paesi ricchi e in quelli dei paesi poveri e gli elevati utili derivano e dagli uni e dagli altri. Ma nei primi paesi, ci si può permettere di pagare i prezzi dei farmaci nei secondi no (la cura anti Hiv costava nel 2000 circa 10-12 mila dollari Usa, mentre il reddito procapite del Sud era fra 150 e 7.000).
Se si vogliono abbassare ovunque i prezzi dei farmaci, un modo è quello di ridurre le posizioni di monopolio svincolate dai brevetti; l’altro è di abbassare i costi della ricerca privata attraverso lo sviluppo della ricerca pubblica o attraverso la contribuzione pubblica alla ricerca privata. La collettività non può avere farmaci – così come altri beni – a prezzi bassi lasciando che siano le imprese private a sostenere i costi di produzione (e della ricerca, quindi). Se si vogliono avere prezzi bassi, una parte dei costi (quelli della ricerca, in primis) devono essere assunti dalla collettività; non invece si aboliscano i brevetti, che permettono il formarsi di prezzi alti, ma senza i quali la ricerca verrebbe a scomparire se lasciata a carico delle imprese private. D’altra parte, vaccini, antivirali e antibiotici sono «beni pubblici», beni i cui benefici trascendono coloro che li usano direttamente e quindi richiedono l’impiego di risorse pubbliche.
Questo in generale. Quanto alla disponibilità che le imprese farmaceutiche foiscano ai paesi più poveri i farmaci antivirali a prezzi bassi, e quindi ridotti rispetto ai costi (in assenza di un adeguato sostegno pubblico alla ricerca privata), la questione è semplice.
Si tratta di un’ulteriore manifestazione del modo in cui i paesi ricchi devono porsi nei confronti dei paesi poveri. Questi hanno una disponibilità di beni insufficiente rispetto alle proprie esigenze: il mondo produce una massa di beni sufficiente per soddisfare i bisogni dell’umanità, ma la produzione è squilibrata e il principio dominante del «a ciascuno il suo» – secondo il quale ognuno ha a disposizione quello che ha prodotto, per cui chi produce molto ha molto a disposizione e chi produce poco ha poco a disposizione – porta ad una distribuzione squilibrata fra beni disponibili e bisogni.
L’unico modo di breve periodo è quello che una parte dei beni prodotti dai paesi ricchi vengano trasferiti senza contropartita ai paesi poveri. Beni d’investimento per poter crescere in futuro, ma anche beni di consumo, poiché una popolazione che muore di fame e malattia non potrà mai iniziare un cammino di sviluppo.
In quest’ottica va posto il significato dell’annullamento dei debiti dei paesi poveri (regalare con ritardo, nel senso di rinunciare a recuperare i prezzi dei beni ceduti in passato con dilazioni di pagamento) e nella stessa ottica è posizionata la cessione dei farmaci salvavita a prezzi sottocosto, perché i manager delle imprese produttrici applicano prezzi sottocosto o gli azionisti impongono ai manager di fare meno utili per aiutare i paesi sottosviluppati (casi rari!) o perché i costi vengono abbattuti dalla presenza di attività di ricerca pubblica o sono coperti da contribuzioni pubbliche dei paesi ricchi.
In effetti, negli ultimi anni, sono stati effettuati importanti progressi nell’attivazione di fondi per combattere la pandemia Aids. Si stima che nel 2003 siano stati impiegati per la lotta all’Aids fondi (aggiratisi sui 5 miliardi di dollari Usa) provenienti da agenzie delle Nazioni Unite, organizzazioni non governative, governi nazionali, donazioni e spese dirette da parte dei paesi e delle persone colpite dalla pandemia. Quest’importo corrisponderebbe a meno della metà dei fondi stimati come necessari nel 2005 (12 miliardi).
Ci si aspetta che due terzi dei fondi necessari per la lotta all’Aids nel 2005 siano foiti dalla comunità internazionale. La maggior parte di questi fondi dovrebbero essere spesi nei paesi più poveri e più affetti dalla pandemia (Asia e Africa subsahariana); questi paesi dovrebbero ricevere dall’estero fondi liberali corrispondenti all’80% del loro fabbisogno.
In questo modo, dovrebbe essere ridotta di molto la forte divergenza, esistente nel 2002, fra le risorse destinate alle persone affette da Hiv. Una ricerca evidenziava, infatti, come la spesa procapite per affetti da Hiv fosse negli Stati Uniti pari a 35 volte la spesa procapite dei paesi dell’America Latina e pari a 1.000 volte la spesa procapite dell’Africa.
Alla diminuzione di queste enormi differenze dovrebbe contribuire anche la rilevante riduzione avutasi negli ultimi anni quanto al costo di una cura antiretrovirale anti Hiv, passato da 10-12 mila dollari Usa pro-capite del 2.000 a 300 dollari Usa nel 2004.

Con la cura, anche l’azione culturale


Non è sufficiente portare ai paesi africani farmaci a prezzi bassi o nulli. È indispensabile un intervento su larga scala e di grande impegno, cioè non solo sanitario e farmaceutico, ma anche culturale.
Prima di tutto è necessario espandere i servizi di informazione e di prevenzione, che ora toccano meno del 20% della popolazione mondiale. Prima di iniziare qualsiasi trattamento medico, è necessario procedere a test per valutare l’infezione Hiv ed è allora indispensabile convincere della necessità di questi esami coloro che hanno influenza sull’opinione pubblica: capi religiosi, notabili, autorità di governo, personale medico-sanitario, organizzazioni femminili, che hanno conoscenza della cultura locale, dei comportamenti sessuali della popolazione, dei modi di comunicazione (termini e modi di comprensione) riguardo alle campagne di informazione e di istruzione in funzione antidiffusione dell’Hiv.
Preparata la strada per l’azione terapeutica, si deve assicurare l’approvvigionamento dei farmaci sul lungo periodo. Personale addestrato deve spiegare ai soggetti sotto cura il significato e l’importanza di una costante assunzione dei farmaci, attualmente realizzata nella forma di complessi cocktail di farmaci. Inoltre, nel pianificare e realizzare la terapia, non bisogna assolutamente perdere di vista il rischio che insorgano resistenze; quindi bisogna ben guardarsi da una somministrazione selvaggia dei farmaci che porti alla diffusione di varianti resistenti ai farmaci esistenti dall’agente patogeno.
È richiesto quindi un intervento su larga scala e di grande impegno per consentire la riorganizzazione dei sistemi sanitari organizzati, per ripristinare le elementari attività di diagnosi, prevenzione, educazione sanitaria e promozione della salute indispensabili per contenere l’espandersi dell’epidemia. Occorre disporre di un affidabile sistema informativo e di valide strategie di comunicazione con tutti gli strati della popolazione.
Il rapporto di Unaids «Aids in Africa: Three scenarios to 2025», del gennaio 2005, individua cinque driver (forze guida) cruciali per un futuro senza Hiv/Aids in Africa:

1) la crescita dell’unità e dell’integrazione sociale e politica. L’unità e l’integrazione fra le persone e le loro comunità di appartenenza formano una potente base per una convivenza pacifica che facilita un’effettiva implementazione delle politiche e dei programmi sull’Hiv e sull’Aids;
2) l’evoluzione dei modi di pensare, dei valori e dei significati. Se l’Aids è percepita come inevitabile o come una trasgressione, uno stigma, una punizione, difficile è realizzare un efficace intervento (prevenzione e cura) in opposizione all’Hiv;
3) la capacità di attivare risorse finanziarie, di persone, di sistemi, di istituzioni che operino in modo cornordinato fra di loro;
4) la generazione e applicazione di conoscenze, nonché nuovi modi di applicare conoscenze esistenti (biomediche, di comportamento sessuale, di consapevolezza delle conseguenze che la malattia ha sui malati e su coloro che ne hanno cura);
5) la distribuzione del potere e dell’autorità all’interno delle società in modo che i diversi centri interagiscano positivamente fra di loro.

Solo attivando questi driver si riuscirà – come si è avuto nei paesi sviluppati – a trasformare l’Aids da malattia mortale per i più in una patologia di tipo cronico grazie all’impiego sistematico e cornordinato dei farmaci antiretrovirali.
Si riuscirà a realizzare quanto preventivato dall’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu: «Siamo riusciti a sconfiggere l’apartheid; abbiamo la forza per vincere anche l’Aids».

Daniele Ciravegna




Futuro per tutti

In una conferenza tenuta a Parigi nel marzo del ‘79 sul tema «Il terzo mondo interpella l’Europa», dom Helder Camara toccò i punti principali del dialogo Nord-Sud, con varie osservazioni sull’Africa di straordinaria attualità. In quegli anni, l’Europa si consolidava nella Comunità economica, lasciandosi alle spalle il secolo dei nazionalismi e dittature e presentandosi come modello di pace e integrazione tra popoli, divisi da guerre sanguinose; l’Africa stava uscendo dalla colonizzazione, ma persisteva comunque una condizione di «dipendenza» economica e in molti casi anche di sudditanza politica dai paesi del «vecchio continente».
Per un vero dialogo tra Sud e Nord del mondo, sosteneva Camara, in primo luogo è necessario lottare contro il modello consumistico che domina nei paesi industrializzati. Fino a quando questi paesi, che controllano quasi tutte le risorse finanziarie e consumano la maggior parte delle risorse, non guariranno dalla pratica del consumismo e dello spreco, gli sforzi per avviare una politica di sviluppo nei paesi più poveri sono destinati al fallimento.
In secondo luogo, non bisogna pensare di affrontare il problema dell’esplosione demografica, cioè della crescente pressione delle masse giovanili del terzo mondo, «attraverso un’invasione teleguidata di pillole anticoncezionali». Oggi potremmo fare una considerazione analoga per i «preservativi». Senza un’attenzione coraggiosa a questo problema e senza la capacità di integrare queste masse giovanili «in uno sviluppo portatore di futuro, si porranno le premesse per una rivoluzione e una guerra civile».
Sono parole tremendamente profetiche, se guardiamo alle migrazioni bibliche dal Sud al Nord del mondo e all’esplosione di violenza nelle banlieues delle città francesi; ma anche al fallimento del recente vertice tra i paesi dell’America del Nord e America Latina e alle conclusioni non incoraggianti della conferenza euro-africana sul Mediterraneo, tenuta a Barcellona alla fine di novembre 2005. Anche l’assemblea del Wto (Hong Kong, dicembre 2005) non sembra offrire risultati migliori.
Il terzo problema è quello della fame, provocata anche dalle ingiustizie nel commercio internazionale, cioè dalle ragioni di scambio imposte dalle economie più forti e dal protezionismo (specie nel campo dell’agricoltura), che ancora caratterizza la politica americana e quella europea: cioè economie che impongono a tutti i paesi un modello liberista.
Tuttavia non è sufficiente, per uscire dal circolo vizioso della povertà, abbassare le tariffe doganali verso i paesi poveri. Senza altre decisioni, deprime gli sforzi dei paesi più poveri. Senza vera solidarietà politica, questi interventi si risolveranno in un vantaggio per le multinazionali che controllano il mercato mondiale.
A questi problemi, sin dal ’79, Camara ha aggiunto quello rappresentato dal crescente indebitamento dei paesi in via di sviluppo rispetto a quelli industrializzati: squilibrio aggravato dell’inflazione mondiale e internazionale, che avvantaggia i ricchi.
L’uscita dell’Africa dal circolo vizioso della povertà comporta una «restituzione» di ciò che l’Europa ha «depredato» al tempo delle colonie, specialmente con un forte investimento in capitale umano, nella formazione professionale. Di questo, più che di un «regalo», in effetti si dovrebbe parlare.

I n 30 anni, sono cambiate molte cose. In alcune realtà si sono avviati processi virtuosi; ma in molte regioni del mondo la situazione è peggiorata. In Africa in particolare. Per la Comunità europea l’interesse si è concentrato per molti anni sui problemi della «guerra fredda» (tra Alleanza atlantica e Urss) e sui rapporti con i paesi del Mediterraneo. Essi sono stati in qualche modo associati alla Comunità europea, anche se il conflitto medio-orientale ha impedito il concreto decollo del progetto di Barcellona del 1999, che riguardava la cooperazione con i paesi dell’area del Mediterraneo.
In seguito, tramontato l’impero sovietico, è entrata in discussione la realizzazione del mercato, cioè le relazioni con sistemi economici (dal Giappone alla Cina) che la globalizzazione ha avvicinato a un’Europa sempre più interessata all’allargamento degli scambi commerciali e alla competizione economica.
E questo orizzonte ha spinto l’Europa a ridurre il costo di ogni intervento (o aiuto) in qualche modo assimilabile alla politica sociale e agli impegni di solidarietà internazionale. D’altra parte, i bilanci della maggior parte dei paesi in via di sviluppo, non sopportano il costo delle cure che sarebbe possibile adottare contro le pandemie che minacciano questi paesi.
Poi l’allargamento dell’Unione europea verso i paesi dell’Est, spostano risorse finanziarie europee verso i paesi che si sono integrati con l’Europa o che si apprestano ad aderire all’Unione europea.
E questi mutamenti di orizzonte, insieme al consolidarsi del mercato unico, hanno accentuato, in concreto, la marginalità dell’Africa, anche se continua il richiamo al dovere di un forte impegno per il suo sviluppo, mentre per molti aspetti si stava aggravando la situazione economica e sociale del «Continente nero».
Di fatto, non solo si è accentuato il fenomeno di cui parlava Helder Camara: milioni di poveri hanno lasciato campagne desolate per migrare verso città, «che vedono trasformarsi le periferie, in enormi favelas, da cui i poveri possono venire spazzati via per sempre, quando disturbano i progetti turistici». Inoltre, sono esplose guerre tribali, spesso fomentate dall’esterno (dal Rwanda al Coo d’Africa), che hanno provocato la morte di milioni di persone, distrutto immense ricchezze e scavato solchi di odio molto profondi; e poi conflitti (Darfur) che minacciano equilibri da sempre precari tra popolazioni di diverse radici culturali e religiose.
Tutto questo ha a che fare con la diffusione dell’Aids e con le difficoltà che si incontrano per combatterlo.

I documenti del Parlamento europeo riassumono l’interesse dell’Europa per i problemi dell’Africa. Accanto all’interesse per i programmi di sviluppo economico (e istruzione), per la difesa del valore dei prodotti su cui è fondata l’economia tradizionale (cotone, zucchero, banane) e per la lotta contro la fame e povertà, è cresciuto l’impegno per prevenire i conflitti, creare una pace durevole, difendere i diritti umani, rafforzare la democrazia. Infine si delinea l’interesse ai problemi della salute della popolazione e quindi, negli ultimi anni, anche per il flagello dell’Aids.
Sulla politica da adottare per prevenire e combattere la pandemia si è sviluppata una vivace polemica sui suoi costi, sulla corruzione, che devia la destinazione degli aiuti, sulle priorità degli interventi, sulla politica dei brevetti; ma, come per molte altre questioni, sino ad ora sono state più le parole dedicate all’analisi del problema che la consistenza degli interventi concreti.
Tuttavia nelle ultime risoluzioni dell’Assemblea parlamentare Acp-Ue (Lussemburgo, 25 giugno 2005), a fianco dell’obiettivo di «sradicare la povertà e inserire con armonia i paesi dell’Acp nell’economia mondiale» (anche per contrastare la minaccia del terrorismo), si colloca l’obiettivo di lottare contro l’Hiv/Aids, malaria e tubercolosi, riconoscendo che «la realizzazione degli obiettivi di sviluppo per il Millennio», esigono sforzi supplementari e un aumento sostanziale delle risorse.
Pertanto l’Ue è invitata, in partenariato con il settore privato (fondazioni e industrie farmaceutiche), ad «accrescere le risorse destinate alla ricerca e alla messa a punto di nuovi strumenti e progetti di lotta contro queste tre malattie».
Perché i propositi diventino realtà, di fronte a un fenomeno di dimensioni catastrofiche, specie nell’Africa subsahariana (vedi statistiche p. 35), è necessario che al centro della riflessione politica sia posta la questione indicata da Helder Camara: se non cambia il modello di vita dei paesi più ricchi, se non si afferma un nuovo umanesimo dell’economia, è molto difficile che si possano destinare le risorse necessarie alla lotta contro la povertà e per l’avvenire di popoli minacciati di estinzione.
Eppure, senza invocare le radici cristiane dell’Europa, anche solo una ragione egoistica dovrebbe convincere l’Unione europea e l’Occidente a fare scelte che si muovono in questa direzione: basta guardare alla crescente emigrazione dall’Africa ai paesi dell’Europa mediterranea, all’esplosione della violenza nella periferia delle metropoli europee, dove vivono ai margini della società migliaia di giovani africani, senza speranza di un futuro a misura umana.
Chi rinuncia a scelte possibili e accetta come ineluttabile il declino dell’Africa, dovrebbe mettere in conto che questa tragedia finirà per riflettersi anche sull’Europa. L’Europa non può dire «non mi interessa». Bisogna rompere la congiura del silenzio e rifiutare l’opinione che il declino dell’Africa è irreversibile. Se domina il timore delle guerre e non siamo in grado di combattere la povertà e la fame, è più difficile portare avanti un programma che guarda al futuro. Poiché «se non c’è speranza, non c’è futuro».

Guido Bodrato




Ricerca… continua

La scienza è da tempo impegnata nel produrre farmaci per prevenire e ritardare il processo infettivo dell’Hiv; ma la protezione dei brevetti rende i loro prezzi proibitivi per i paesi poveri, specie in Africa. Alcuni paesi in via di sviluppo hanno cominciato a produrre farmaci «generici» in loco, copie a basso costo di quelli brevettati. Intanto la ricerca continua nel mondo vegetale e nelle tradizioni mediche popolari, ma la scoperta di farmaci o vaccini efficienti è ancora lontana.

L a pandemia Hiv/Aids ha indotto un’impressionante mobilitazione del mondo scientifico, convogliando enormi risorse economiche sulla ricerca biomedica, provocando un importante sviluppo delle conoscenze nel campo della virologia e farmacologia antivirale; ciò ha consentito un rapido sviluppo di molti farmaci innovativi, ma ha anche evidenziato l’iniquità di accesso alle cure tra paesi ricchi e paesi poveri.
Dagli studi di biologia molecolare dei virus, abbiamo appreso molti dei meccanismi di replicazione/moltiplicazione e invasività di questo virus e altri virus simili (figura 1). Al tempo stesso sono stati progettati e sviluppati nuovi farmaci anti-Hiv, che hanno offerto un netto miglioramento della sopravvivenza e della qualità di vita dei pazienti trattati.
I farmaci attualmente disponibili per il trattamento dell’infezione da Hiv appartengono a quattro classi farmacologiche diverse: inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa (Nrti), inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa (Nnrti), inibitori delle proteasi (Pi) e inibitori della fusione del virus con le cellule dell’ospite (Fi).
La paura dell’Aids ha polarizzato l’attenzione dei sistemi sanitari dei paesi industrializzati e già all’inizio degli anni ‘90 le risorse sanitarie assorbite dai malati di Aids erano decine di volte superiori a quelle assorbite da malattie di grande impatto sociale, come malattie cardiovascolari, depressione, cancro.
La situazione è peggiorata negli anni successivi sia per l’ulteriore espandersi dell’epidemia sia per l’introduzione dei nuovi farmaci inibitori delle proteasi, molto più attivi e meglio tollerati degli inibitori della trascrittasi inversa, ma anche molto più costosi.

Farmaci inaccessibili

La triplice associazione, generalmente di due inibitori della trascrittasi inversa e di un inibitore delle proteasi, è diventata rapidamente uno standard irrinunciabile per i paesi sviluppati e ricchi, grazie alla sua elevata efficacia nel ridurre e mantenere a bassi livelli la forza del virus e alla buona tollerabilità.
Questa strategia terapeutica a elevata efficacia antiretrovirale (Haart), pur comportando un notevole aggravio della spesa farmaceutica a carico dei sistemi sanitari, è stata giudicata conveniente, perché consente di ottenere anni di vita in più ad un costo ritenuto accettabile per le economie dei paesi ricchi.
Ma il costo di acquisto dei farmaci antiretrovirali prodotti da poche industrie farmaceutiche multinazionali è risultato proibitivo per i paesi poveri o in via di sviluppo. Nella maggior parte dei paesi a basso o medio reddito, la prevalenza dell’infezione Hiv è molto elevata, ma la disponibilità di risorse economiche destinabili alla salute non è neppure sufficiente per far fronte alle comuni malattie e il reddito pro capite annuale è spesso inferiore al costo necessario per acquistare i farmaci antiretrovirali.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nel lanciare il progetto «3×5», ha stimato in circa 6 milioni il numero di pazienti dei paesi in via di sviluppo bisognosi di trattamenti con farmaci Arv, mentre solo il 7% di questi avevano accesso alle cure mediche adeguate, con percentuali molto diverse nelle varie aree geografiche: in Africa solo il 2% del fabbisogno risultava esser coperto.

Problema priorità

Negli ultimi anni una serie di iniziative inteazionali, suscitate da movimenti di opinione e fondazioni benefiche, ha reso disponibile una quantità crescente di farmaci antiretrovirali anche per le popolazioni a basso e medio reddito.
Soprattutto la riduzione dei costi di acquisto di questi farmaci ha fatto emergere, anche nei paesi africani, il problema delle priorità da assegnare al trattamento dell’infezione Hiv rispetto ad altre patologie più diffuse e pericolose. Solo una minima parte della popolazione ha accesso alle terapie antiretrovirali; inoltre, con le scarse risorse allocabili alla sanità, occorre trovare un difficile equilibrio tra interventi di prevenzione, trattamento e cura dell’infezione. In queste condizioni l’analisi costo/efficacia dei possibili interventi per l’Hiv/Aids dovrebbe essere uno strumento molto rilevante per supportare ogni decisione delle autorità sanitarie.
Ma il solo parametro della costo-efficacia delle varie strategie anti-Hiv non è sufficiente per stabilire le priorità degli interventi che devono esser finanziati dai fondi pubblici nei paesi africani.
L’Oms ha messo a fuoco le «condizioni essenziali minime richieste per introdurre il trattamento antiretrovirale nei servizi sanitari nazionali» (Oms 2000). Esse sono così riassunte:
1 – disponibilità di counselling sui problemi dell’Hiv e servizi per i test;
2 – capacità di riconoscere e gestire in modo appropriato le comuni malattie correlate all’Hiv;
3 – disponibilità di laboratori capaci di fare almeno la conta dei linfociti CD4+;
4 – certezza di avere un adeguato rifoimento di farmaci, inclusi quelli per le infezioni opportunistiche;
5 – identificazione di sufficienti risorse economiche per pagare i trattamenti a lungo termine;
6 – informazione e formazione dei medici e personale sanitario che prescrivono i farmaci Arv.
Successivamente sono comparsi, su autorevoli riviste mediche, articoli che riprendevano questo argomento, soffermandosi sulla opportunità di standardizzare l’approccio al trattamento antiretrovirale.
Accanto alle priorità da assegnare alle differenti strategie anti-Hiv nei paesi africani, negli ultimi anni si è fatta largo la coscienza che anche la ricerca medica attuata in questi paesi debba essere sviluppata e rappresenti una priorità irrinunciabile per la messa a punto delle terapie ottimali.
Al tempo stesso è maturata la convinzione che sia essenziale attuare ricerche cliniche controllate sui farmaci Arv per indirizzare le nuove sfide che derivano dalla crescente disponibilità di tali farmaci. Vi è un generale consenso che sia possibile attuare ricerche cliniche sui farmaci antiretrovirali nei paesi in via di sviluppo e che sia necessario sviluppare maggiormente l’attitudine alla ricerca clinica nei paesi africani. Ne è un esempio l’inaugurazione in Uganda dell’Infectious Diseases Institute (2004), il più grande centro di malattie infettive della regione dell’Africa Orientale, istituito per elargire assistenza, ma anche formazione dei medici e paramedici e per condurre ricerche.

Farmaci di prevenzione

È molto importante mettere a punto sistemi efficaci di prevenzione della trasmissione dell’Hiv. La semplice distribuzione del preservativo non ha avuto grande successo a causa delle difficoltà psicologiche, tipiche della cultura africana. Un’alternativa può essere, sul piano teorico, l’uso di creme vaginali microbicide.
Oltre 40 diverse molecole germicide sono state testate in vitro o su modelli animali. Diversi prodotti e altrettante ricerche cliniche sul campo sono state predisposte e avviate per studiare l’efficacia e la praticabilità di questo approccio. I risultati definitivi circa l’efficacia nel prevenire la trasmissione dell’infezione Hiv sono attesi per il 2010; ma già uno studio è stato sospeso a causa dei problemi irritativi creati dalla crema a livello vaginale che ha comportato un sensibile aumento del rischio di trasmissione del virus Hiv.
Si ritiene che i gel microbicidi, nel migliore dei casi, possano essere solo parzialmente efficaci. Tuttavia, è stato stimato che un gel che fosse efficace al 60% potrebbe prevenire globalmente 2,5 milioni di infezioni in tre anni, con un risparmio sulle povere economie dei paesi in via di sviluppo di ben 2,7 miliardi di dollari.
I gel vaginali, tuttavia, non sono generalmente accettati con favore dalle donne e dai loro partner e la messa a punto di prodotti che siano contemporaneamente efficaci, ben tollerati e poco evidenti non è impresa facile. Infine, è da sottolineare come alcune Fondazioni inteazionali, qualche tempo fa, abbiano proposto e propagandato le creme vaginali come metodo anticoncezionale spermicida, contribuendo a creare una fama negativa a questo tipo di prodotto.
Recentemente John Moore, un ricercatore della Coell University, New York, ha messo a punto una nuova formulazione di un gel costituito dall’associazione di tre nuove sostanze antivirali. Il prodotto è risultato efficace su modelli animali (macaco). La ricerca clinica, che dovrebbe iniziare nel 2007, coinvolgerà 10.000 donne africane e costerà 150-200 milioni di dollari.
Ben documentata è l’efficacia della chemioprofilassi della trasmissione del virus Hiv dalla madre al figlio durante la gravidanza o il periodo perinatale. Questo tipo di trattamento, in genere con la triplice associazione Haart, è ormai di uso consolidato nei paesi occidentali ad alto reddito e ha portato ad una drastica riduzione dei casi di positività nei bambini nati da madri sieropositive.
Molto differente è, purtroppo, ancora la situazione nei paesi africani. Ogni giorno, in Africa, 1.900 bambini vengono infettati dalle loro mamme Hiv positive. Il rischio della trasmissione virale da madre a figlio oscilla tra il 25 e il 45% ed è tra le principali cause della netta riduzione dell’aspettativa di vita media nei paesi subsahariani.

Farmaci… da copiare

La drastica riduzione dell’attuale prezzo di vendita dei farmaci antiretrovirali è una tappa fondamentale per rendere accessibili su vasta scala queste terapie nei paesi poveri in via di sviluppo. Il prezzo attuale dei farmaci Arv è dovuto a un insieme di fattori industriali e alle strutture di mercato nazionali e inteazionali. Il sistema dei brevetti inteazionali, sostenuto anche dall’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), contribuisce in modo evidente a mantenere elevato il prezzo dei farmaci.
Il mantenimento a lungo della protezione dei brevetti per farmaci così essenziali come quelli antiretrovirali sono state contestate da più parti. La violazione delle norme sui brevetti, impossibile nei paesi aderenti al Wto, è teoricamente possibile nei paesi poveri che non riconoscono la validità dei brevetti; ma mancano competenze tecniche e strutture industriali per produrre a basso costo le copie dei farmaci brevettati.
Negli ultimi anni una coraggiosa donna thailandese, Krisana Kraisintu, ha voluto sfidare il sistema dei brevetti e con grande tenacia è riuscita a fondare nel suo paese un’industria farmaceutica pilota, in grado di produrre a basso costo farmaci «generici», ossia copie di alcuni antiretrovirali ancora coperti da brevetto, rendendoli accessibili a vaste fasce di popolazioni povere. Questa straordinaria donna ha esportato la sua esperienza in vari paesi dell’Africa, mettendo in piedi altre aziende farmaceutiche locali.
La disponibilità su vasta scala di prodotti «generici», copie a basso costo di antiretrovirali di marca, renderebbe possibile il trattamento di ampie fasce di popolazioni povere che attualmente non hanno accesso alle cure, come hanno dimostrato diversi studi, tra cui quello dell’Oxfam relativo all’Uganda.
Diverse Fondazioni inteazionali e personalità, tra cui l’ex presidente Usa, Bill Clinton, hanno cercato di favorire e promuovere la politica dei «generici», per rendere accessibili le cure anti-Aids a più vaste fasce di popolazioni dei paesi in via di sviluppo. Per intermediazione di Clinton, quattro aziende farmaceutiche in India e in Sudafrica hanno recentemente firmato un accordo per fornire a paesi poveri alcuni farmaci antiretrovirali «generici» a un prezzo decisamente ridotto. Secondo Clinton, «l’accordo consentirà di distribuire il trattamento basato sulla triplice associazione a circa 38 centesimi di dollaro, che corrisponde a circa la metà del prezzo corrente dei farmaci a basso costo comunemente usati». Il piano prevede la foitura di tali farmaci a circa 2 milioni di soggetti nelle aree caraibiche e in Africa entro il 2008.
Secondo Carlos Correa dell’Università di Buenos Aires, Argentina, il taglio dei prezzi antiretrovirali è una tappa importante, ma tale sforzo dovrebbe estendersi anche a tutti gli altri farmaci necessari per le popolazioni dei paesi poveri. Secondo Correa «ciò richiederà una revisione della politica dei brevetti e, in particolare, di discutere se vi sia una qualche giustificazione per imporre standards di protezione, comprensibili solo nel contesto di paesi ricchi».

Terapie non convenzionali

Vaste fasce della popolazione africana spesso utilizzano rimedi tradizionali, ricavati da piante medicinali, anche per curare i sintomi dell’Aids. Si tratta di preparati di origine vegetale già usati da molto tempo per una varietà di altri problemi medici ed ora applicati anche alla nuova emergenza sanitaria dell’Aids.
La maggior parte di questi rimedi sono nettamente meno costosi dei farmaci antiretrovirali e quindi più accessibili. Inoltre, la loro accettabilità è elevata, sia perché essi vengono proposti dai praticanti della medicina tradizionale, sia perché generalmente sono ben tollerati. L’efficacia antivirale, tuttavia, non è provata e, allo stato attuale delle conoscenze, il loro uso può, al massimo, alleviare qualche sintomo delle manifestazioni cliniche del virus.
Tra le piante medicinali più usate ricordiamo la sutherlandia che contiene canavanina, una molecola dotata di qualche attività antiretrovirale, oltre al gaba, che svolge un’azione antidepressiva, e al pinitolo dotato di proprietà antidiabetiche.
Altro rimedio tradizionale molto usato dalle popolazioni africane è la spirulina, un’alga marina ricca di vitamina B12, carotene, xantofille e fotopigmenti. I preparati a base di spirulina sarebbero in grado di inibire l’adesione del virus alla membrana delle cellule dell’ospite e la replicazione di alcuni virus, tra i quali l’Hiv-1 e il virus influenzale tipo A e quello della parotite. Inoltre, sarebbe in grado di stimolare il sistema immunitario, aumentando il numero e l’attività dei macrofagi.
I preparati a base di echinacea angustifolia inducono in vitro un marcato aumento dell’attività delle cellule natural killer (Nk) e incrementano la distruzione immunomediata dell’Hiv.
Il viscum album, detto pure iscador, possiede attività immunostimolante e antiretrovirale. Un suo preparato standardizzato è in fase di sviluppo clinico come possibile prodotto farmaceutico. In associazione alla terapia farmacologica antiretrovirale favorisce la stabilizzazione delle condizioni cliniche dei pazienti Aids.
I preparati di aloe vera, divenuti popolari anche nei paesi occidentali per le loro presunte attività antitumorali, hanno proprietà antibatteriche, antifungine e antinfiammatorie. Inoltre contengono acemannono, una sostanza accreditata per una qualche attività anti-Hiv.
Gli estratti della plumeria rubra sono ricchi di composti fenolici e di tannini e sono comunemente impiegati dalle popolazioni africane nei casi di herpes zoster.
I semi di papaia sono usati per la loro attività antiparassitaria nel trattamento delle patologie opportunistiche in corso di infezione da Hiv.
Il mondo vegetale è da sempre una fonte inesauribile di principi medicamentosi che l’uomo nella sua evoluzione ha imparato a riconoscere e utilizzare per curare le malattie. Oggi, diverse strutture pubbliche (università, enti governativi) e private (industrie farmaceutiche, fondazioni) sono impegnate nell’esplorazione della biodiversità del mondo vegetale alla ricerca di nuovi e migliori farmaci anti-Hiv, possibilmente dotati di nuovi meccanismi d’azione.
Diversi composti di origine vegetale finora isolati presentano le caratteristiche per essere considerati buoni candidati da sottoporre all’ulteriore sviluppo degli studi sperimentali come innovativi prodotti utilizzabili per via sistemica nella terapia e/o profilassi dell’infezione Hiv, per lo più in associazione con altri farmaci.
Ma la strada è ancora molto lunga e difficile e richiede molte risorse economiche e molti anni di ricerche. Finora solo il 5-15% delle 250.000 piante conosciute sono state studiate sistematicamente alla ricerca di composti biologicamente attivi. Inoltre, eventuali farmaci anti-Hiv estratti dal mondo vegetale, devono essere scientificamente provati sotto il profilo tossicologico, farmacologico e clinico, per dimostrare di avere un rapporto rischio/beneficio accettabile.
Infine, i prodotti naturali di origine vegetale presentano ulteriori difficoltà, rispetto a quelli di sintesi. Infatti, devono essere presenti in natura in quantità adeguate rispetto alle esigenze terapeutiche e la loro estrazione non dovrebbe arrecare danni irreparabili e irreversibili agli ecosistemi. Inoltre, il prodotto dovrebbe avere sempre la medesima composizione di qualità e quantità e le stesse proprietà nei vari lotti di produzione. Tali caratteristiche non sono facili da ottenere con prodotti estrattivi.

Etnofarmacologia

Lo studio dei rimedi delle tradizioni popolari secondo i canoni della modea farmacologia, rappresenta un importante esempio metodologico e culturale capace di portare alla scoperta e sviluppo di nuovi farmaci, compresi quelli utili per l’infezione Hiv. Un esempio delle possibilità dell’etnofarmacologia applicata alla ricerca di nuovi principi attivi anti-Hiv è dato dagli studi fatti in autorevoli centri di ricerca del Sudafrica, Stati Uniti, Francia e Venezuela.
L’esperienza di questi gruppi inteazionali di ricercatori è interessante non solo sotto il profilo scientifico, ma anche in quello culturale e della collaborazione umanitaria. Sotto il profilo culturale questa esperienza evoca temi vitali per la comprensione del rapporto tra uomo e natura, tra medicina e cultura dei popoli, ed evidenzia i limiti intrinseci a una visione puramente tecnicistica e riduzionistica dell’attuale scienza medica.
L’approccio etnofarmacologico provoca il farmacologo a superare la visione strettamente tecnicistica del valore dei farmaci e a recuperare il significato complessivo della cura accogliendo e includendo nella propria scienza l’irrinunciabile dimensione umanistica distillata nei millenni dall’evoluzione e dalla storia dei popoli.
Sotto il profilo della collaborazione umanitaria l’esperienza internazionale sopra riferita può essere assunta come modello per coinvolgere ricercatori dei paesi sviluppati e di quelli in via di sviluppo in un unico razionale sforzo per far evolvere in modo utile le conoscenze sulle malattie, nel caso specifico sull’infezione da Hiv, e sui possibili rimedi, ascoltando la storia e la cultura dei popoli e la voce infinitamente ricca, seppur nascosta, della biodiversità della natura

Mario Eandi




Solidarietà da reinventare

L’accesso alla tutela della salute è un diritto fondamentale di ogni persona, ma esso viene per lo più negato alle popolazioni dei paesi poveri, nei quali infierisce la pandemia dell’Aids. Mentalità e insufficienze da parte dei paesi più ricchi, unite alle incapacità e deficienze a livello locale, hanno allargato la forbice tra bisogni e risorse, a scapito della giustizia. Occorre reinventare il futuro a tutti i livelli, smascherando individualismi, errori, furbizie interessate, e rivitalizzando il concetto di solidarietà.

Il principio di giustizia nella tutela del diritto alla salute può essere un buon titolo per un contributo teorico, che sappia di lucerna. Vorrei parlare, invece, di cose più concrete, come hanno fatto e fanno quotidianamente coloro che vivono in prima persona il dramma dell’Aids.
E vorrei ricordare, prima di tutto a me stesso, che anche in questo ambito non si tratta soltanto di diritti (come abitualmente si fa ogni volta che si menziona la giustizia), ma anche di doveri.
Le chiacchiere, cui siamo adusi, privilegiano i primi, mentre i secondi sono lasciati sullo sfondo, perché sono scomodi; e così, su di essi domina spesso il silenzio, eccetto quando diventano argomento di rissa politica, il che è un rischio che mal si accorda con i dettami della ragione; ma che appartiene – e lo sappiamo quanto – all’esperienza quotidiana.
Il diritto a cui mi riferisco riguarda, da un lato, un livello adeguato di vita che assicuri la salute e il benessere; dall’altro, la legittima attesa di ricevere, quando necessario, un’assistenza sanitaria degna, qualunque sia il modo, pubblico o privato, di foirla.
Parlando di Aids, potremmo parafrasare John Rawls (Una teoria della giustizia, 1982) e dire che il fatto per cui alcuni godono buona salute e altri cattiva, non è qualificabile né come giusto, né come ingiusto; ma si tratta di dinamiche che vanno riferite alla sorte o, per usare una sua espressione, agli esiti favorevoli o sfavorevoli della «lotteria naturale».
Sappiamo che, nel corso della infermità da HIV, tale «lotteria» talora è «aiutata» da un non trascurabile contributo colposo di insipienza, imprudenza, faciloneria; per cui viene sottintesa una colpa del paziente, che il moralismo pubblico spesso ha condannato a priori, per assolvere se stesso dalle insufficienze del trattamento terapeutico successivo.
Sono nate così le accuse di mercantilismo, arroganza, insensibilità, sopraffazione di una società governata dalla potenza, palese o occulta, del denaro. L’avere è il surrogato magico dell’essere. Chi non ha, non è. Chi è, deve mostrare d’essere, avendo. Poiché il mondo ama i vittoriosi e disprezza gli sconfitti.
È il fascino del successo: chi non riesce, non conta.
Ora, pensate forse che, nell’accesso alla tutela della salute, il problema si ponga in termini diversi, in particolar modo, nei paesi sottosviluppati? No, di certo. E ciò tanto più in un momento che sappiamo essere di difficoltà generale e di forbice aperta tra risorse e bisogni.
In verità la meta dell’assistenza (e di una assistenza uguale) per tutti sembra essersi convertita in una coperta stretta e corta, che tutti tirano con ostinazione, ma che non basta a riparar dal freddo e talora neppure a coprire le vergogne.
È tempo di realismo. Occorre privilegiare la perseveranza insieme alla speranza, che premia le buone battaglie.
Occorre evitare che la sanità venga abbandonata all’appiattimento su base monetaristica e alle semplificazioni economiche dell’aziendalismo (da noi) e delle grandi industrie farmaceutiche che, nel Terzo Mondo, dominano il campo, condizionando gli interventi.
Occorre ricordare che, al di là dei grandi problemi sociali che tormentano, e giustamente, il politico, vi è quello meno rumoroso del cittadino qualunque, del poveraccio di tuo, che non ha (o ha poca) voce e perciò meno si fa sentire.

Mi riferisco agli ultimi, ai diseredati, nel cui nome molti parlano, anche se non sono talora quelli che hanno più titolo a farlo.
Gli ultimi: senza privilegi, né gerarchie, né speciali riconoscimenti che ricevono sole, pioggia, arsura e tempesta a capo chino, continuamente inciampando, cadendo, rialzandosi, reinciampando ancora.
Quello stesso piccolo uomo anonimo che, le parole sono di Mazzolari, «nasce senza molti auguri e muore senza necrologi», è un fante della umanità, emblematicamente il milite ignoto, e che sulla via accidentata dell’assistenza quotidiana è e resta pedina di un gioco altrui.
È a lui che vogliamo rivolgere uno sguardo intenzionale, perché anche noi medici possiamo correre dei rischi nei suoi confronti: di divenire i mandarini di una scienza e di una professione che, sotto il manto della neutralità, pratica un antico integralismo e stabilizza pericolosi sodalizi regressivi o repressivi, non certo a vantaggio dei sofferenti e degli esclusi.

Il problema dell’Aids è nato circa un quarto di secolo fa, non contemporaneamente in tutti i paesi e con una diversa risposta da parte dei singoli stati, ma si è trasformato in pochissimo tempo in una piaga biblica per la diffusione della malattia in tutti gli strati della popolazione e per l’altissima mortalità.
Nei paesi più ricchi la prevenzione e il controllo si sono fatti ora efficaci, non invece in quelli in via di sviluppo, che costituiscono i due terzi della superficie del pianeta, ospitano i tre quarti dell’umanità. Paesi che sono sinonimo di povertà, stato di bisogno, assenza di regole, arbitrio politico, diseguaglianze sociali, guerre civili, rovina per le carenze (corruzione compresa) del potere e, talora, per un triage medico (valutazione della gravità e priorità di assistenza, ndr) di tipo militare.
Questi paesi hanno di fatto vanificato anche alcuni sforzi compiuti per aiutarli, perché i fondi sono stati dirottati verso spese militari e/o vantaggi per gli uomini al potere, o sono stati mal utilizzati per incapacità e cattiva coscienza nella gestione amministrativa.
Ma la cattiva politica non si trova soltanto a casa loro, perché medicina, morale e moneta hanno anche altrove vissuto in difficile coabitazione. Nell’istituzione sociale deputata alla cura del malato, ciascuna ha infatti avuto sempre bisogno dell’altro e si è trovata imbarazzata nel dover ammettere la co-presenza dell’altra.
Se poi si aggiungono i progressi rapidi della tecnologia medica da importare, gli ubiquitariamente crescenti costi delle cure, l’incapacità di pianificare le pur limitate risorse, l’ignoranza grave e la impreparazione della popolazione, nonché la incapacità di autogestione, non si ha difficoltà a capire perché il bilancio dei risultati terapeutici sia colà risultato così fallimentare.
Nella maggior parte dei casi si è scelto di fatalisticamente attendere con le mani in mano e di continuare sulla via comoda della cattiva gestione interessata e delle sperequazioni nella distribuzione delle risorse e quindi nell’accesso alle cure.
A tale incapacità locale si sono aggiunte poi quelle dei paesi ricchi, la cui cultura, spesso disillusa dalle grandi narrazioni metafisiche del passato,
– ha rinunciato a fondare l’etica dei suoi rapporti con i paesi poveri sul solido terreno dell’Assoluto, personale e trascendentale, per rifugiarsi nelle sabbie mobili del contrattualismo e dell’utilitarismo;
– ha disatteso le istanze personalistiche e comunitarie;
– ha ceduto alle pressioni del profitto (eretto talora a suprema norma dell’agire anche in ambito medico);
– ha calpestato esigenze di giustizia e di solidarietà;
– ha giustificato, anche in termini farmacologici, l’assunto che «chi più ha, più può; chi non ha, meno riceve»;
– ha prodotto una veloce e ideologizzata liquidazione dello stato sociale;
– ha rivelato aspetti contraddittori: cultura del rischio o della paura, della prudenza o del desiderio?
– ha dato vita a riforme sanitarie che non hanno prodotto i frutti attesi ma si sono spesso rivelate un «ombrello bucato», per usare l’espressione di Rosaia (1980);
– ha alimentato una politica asfittica e appiattita sulle regole del gioco, alla mercé dei grandi potentati commerciali.
La somma di tutte queste insufficienze ha progressivamente allargato la forbice tra bisogni e risorse, a tutto danno della giustizia, con grande preoccupazione per chi ha responsabilità programmatiche.

Va detto pure ciò che avviene in molti dei paesi del continente africano:
– non vi è democrazia o vi è una grave sua erosione, per lo meno per quel che riguarda l’assistenza sanitaria;
– il potere diventa l’artefice della «giustizia» e della «morale» nella forma più egoistica e brutale; non vi è rispetto per l’autonomia dei singoli pazienti (del resto in buona misura incapaci di autogestirsi per quel che concee cure complesse e da protrarre nel tempo);
– prevale l’esercizio o di uno spregiudicato abuso o, per lo meno, di un patealismo forte, che viola le regole morali, gli obiettivi fondamentali della medicina, i diritti del paziente e la stessa sua natura umana.
Il futuro sarà quel che faremo oggi. È come piantare un albero, attendere e curare che cresca. La nostra è l’epoca di chi pianta alberi, non di chi fugge dalla responsabilità o di chi sostituisce la saggezza con la tecnica, la solidarietà con il controllo.
È vero. Siamo in una terza fase dello sviluppo della medicina. Nella prima ci si prendeva cura del malato, si foiva al più una diagnosi, per il resto ci si limitava di fatto a offrire conforto e qualche palliativo.
Nella seconda l’orizzonte è mutato: ci si è ripromessi di curare, vincere le malattie e salvare i malati.
Ci piaccia o no, siamo ora nella terza, che, secondo Callahan (1987), è l’era dei limiti imposti dalle restrizioni che pesano sulla economia. Il dilemma non è più del singolo o del solo volontariato o della missione emblematicamente impegnata, ma della società intiera.
Fu forse una generosa utopia quella che ci ha portato a progettare una sanità pubblica, in cui ciascuno ricevesse secondo i propri bisogni, pur contribuendo nei soli limiti delle proprie possibilità? Forse sì, ma resta il dovere di:
– non rinunciare a un’importante conquista di civiltà;
– provvedere a un riassetto istituzionale e organizzativo dell’esistente;
– e adeguatamente correggere gli errori e gli sprechi di uno stato sociale spendaccione, corrotto e diseducatore, senza far passare il tutto sulla testa del più debole e diseredato.
Se la questione vertesse solo sulla razionalizzazione della spesa sanitaria, attraverso modelli più appropriati e controlli più sistematici, saremmo di fronte (Pasini 1998) a una mera questione di efficienza e la questione andrebbe risolta a livello organizzativo. Ma non si tratta soltanto di questo, bensì di decidere anche chi curare e fino a che punto estendere i servizi.
Di qui la inevitabilità delle scelte, che implicano ulteriori dilemmi etici, quali il valore della vita delle singole persone, la qualità dell’esistenza loro assicurata, la dignità da sottrarre alla valutazione del mercato.
Certamente il mito del tutto a tutti (e per di più gratis) deve fare i conti con i diversi tipi di razionamento e la questione, essendo pubblica e dunque politica, tocca al cuore il rapporto tra democrazia e assistenza sanitaria.

Ed è così che se ne è parlato in questo Convegno. Per dire che cosa? Che intendiamo sia giustizia, in questo ambito, l’impegno di:
– non alimentare le confusioni,
– non mascherare le differenze,
– deflazionare gli individualismi, privilegi, errori, furbizie interessate,
– preparare un clima di reciproco servizio, fatto di fiducia partecipe e autorevolezza competente, senza
– annullare le responsabilità di ognuno, a tutti i livelli.
Qualcosa si muove in quello che, da parte di tanti, si ritiene lo sfascio: molte coscienze prendono la parola, varie energie vanno mobilitandosi. Solo che il presente non produce da sé il futuro, occorre reinventarlo nella misura delle proprie speranze. Noi medici per primi.
Ci dobbiamo aiutare tutti, perché fare delle scelte significa anche rivitalizzare il concetto di solidarietà, altrimenti svuotato (perché spinto oltre i limiti di ciò che si può ragionevolmente ottenere), rispettando:
– l’uguaglianza delle persone,
– il bisogno fondamentale di protezione della vita umana,
– il principio di reciproco aiuto.
E che l’invito parta anche da questo Convegno è frutto di una coscienza critica che dovrebbe far ben sperare chi da fuori guarda e di noi non dispera.

Mario Portigliatti Barbos




Amore contro i mulini a vento

Dati alla mano, frutto della sua ricca esperienza di medico in missione, la dottoressa Chiara Castellani ci racconta la sua lotta quotidiana contro l’Aids nella Repubblica Democratica del Congo. Povertà, scarsezza di risorse e anche qualche retaggio culturale da «purificare» sono alla base di questo racconto molto umano. Una voce in difesa di una generazione che sta scomparendo. Ed un rimedio extra-medico che sempre causa beneficio: l’amore umano.

A partire dall’inizio degli anni ‘80, quando i primi casi di Aids furono rilevati nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), la situazione epidemiologica non ha cessato di evolversi, fino a diventare oggi un vero e proprio problema della società. Ciò risulta chiaro, quando si considerano la sua enorme diffusione nel paese e il suo impatto sugli individui, le famiglie e le comunità; per non parlare di quello sul vissuto della sessualità e della mateità/pateità. In particolare, la situazione congolese in merito alla distribuzione e utilizzo di reattivi per il sangue sicuro (per trasfusioni e operazioni) appare anarchica ed inefficiente.
Questo, nonostante i paesi dell’Unione Europea stiano intervenendo più specificamente nel settore della prevenzione, compiendo peraltro il grosso errore culturale di focalizzare la prevenzione sul solo uso del preservativo. In assenza di un programma nazionale di trattamento antivirale, si è obbligati a utilizzare la diagnosi sierologica (che, oltretutto, sta risultando sensibile ma poco specifica) unicamente per identificare i sieropositivi fra i donatori di sangue.
Mentre la prise en charge del malato si limita al solo trattamento palliativo. Negando di fatto l’accesso alle terapie antiretrovirali e, pertanto, ripetendo lo stesso errore compiuto per quasi un ventennio con i nuovi trattamenti tubercolostatici short cours, che erano «privilegio» delle forme resistenti fino al 1996 ed ancora a pagamento nel 2003.
Come per la tubercolosi, negare l’accesso al farmaco efficace, benché non curativo, rischia di avere un effetto boomerang sulla diffusione del virus. Infatti, non solo il trattamento riduce la contagiosità, ma anche e soprattutto – come conferma l’Oms. (Organizzazione mondiale della sanità) per tutti i paesi interessati dalla pandemia – il malato condannato a morte a cui viene svelata la diagnosi, ma negato il trattamento, rischia di assumere un atteggiamento di rivalsa che ne accentuerà il comportamento a rischio (diretto deliberatamente contro la prevenzione e verso la propagazione del contagio).
Senza contare che l’essere umano, di tutte le razze e culture, a cui viene negato un futuro che ad altri, più ricchi, è viceversa garantito per legge, cercherà prima di tutto di «eternizzarsi», mettendo al mondo un figlio che personifichi il futuro negato.

Con le cifre non si scherza

Attualmente, sono rimasti cinque dei quattordici «posti-sentinella» per i rilevamenti di casi Hiv-Aids, istituiti nel 1992 nell’ambito di un progetto Unaids: Kinshasa, Karawa (Provincia Equatore), Mikalay (Kasai occidentale), Kibondo (Kasai orientale) e Sendwe (Katanga). Ma indagini più approfondite in tutto il paese sono auspicate da molto tempo.
Statistiche a livello nazionale, realizzate attraverso il sistema di informazione sanitario, stimano meno di 10 mila i nuovi casi di Hiv nel 2004. Ma i responsabili del «Programma di lotta all’Aids» della cooperazione italiana (attualmente sospeso per mancanza di fondi) e della cooperazione tedesca (Gtz) commentano: «Sarebbe un caso unico in cui un’epidemia è entrata da sola nella fase discendente della sua curva, senza alcun intervento né preventivo né curativo». Infatti, chi analizza l’evidenza delle circostanze vissute nella Rdc negli ultimi 10 anni, stima che i tassi relativi alla prevalenza nel paese, siano molto più elevati rispetto al 5% ufficialmente dichiarato dalle autorità politico-sanitarie. In effetti tale percentuale esprimerebbe una riduzione della prevalenza, rispetto alle ultime statistiche veramente affidabili realizzate dal Prof. Peter Piot, verso la fine degli anni ‘80. Riduzione da considerarsi inspiegabile e non reale, se si considera che nessuna azione preventiva su larga scala è stata lanciata, e che i preservativi (relativamente costosi, difficilmente reperibili e culturalmente poco accettati, soprattutto nelle zone rurali) sono disponibili solo a pagamento ed esclusivamente sul mercato della capitale.
Infatti, i molteplici movimenti di truppe e i flussi migratori, sia all’interno del paese che verso e da paesi confinanti, con tassi di prevalenza di Hiv-Aids molto alti, hanno esposto il Congo all’esplosione e all’ampia diffusione del virus, tanto nelle zone urbane, come nelle rurali (rapporto Oms/Unicef, luglio 2001).
Ma esistono anche cifre reali ben differenti, basate sulle informazioni raccolte attraverso gli osservatori regionali. Da recenti indagini condotte tra famiglie apparentemente sane e donatrici di sangue in Kalemie (Katanga settentrionale), un terzo dei donatori è risultato positivo all’Hiv. Inoltre, da uno studio di pazienti presso il General Hospital, a Bukavu, è emersa una prevalenza del 32% tra gli uomini adulti, il 54% tra le donne adulte e il 26,5% tra i bambini.
Nel Bandundu, dove la presenza di truppe è stata limitata nel tempo e geograficamente, il problema sembra meno eclatante, ma a Tembo, cittadina nota per il traffico dei diamanti ai confini con l’Angola, la prevalenza dei sieropositivi fra i donatori di sangue nel primo semestre del 2005 arrivava al 18%, benché si tratti di zona rurale. In tutto il paese si parla di 173 mila nuovi casi all’anno, con un totale di circa 1,3 milioni di adulti e bambini già affetti da Hiv.
Nel caso specifico delle strutture sanitarie della diocesi di Kenge, in assenza di terapie combinate antiretrovirali (disponibili solo a Kinshasa nel quadro di un «progetto pilota», ma a tariffe talmente elevate da essere comunque accessibili solo a pochi privilegiati), ed anche della profilassi alla Nevirapina per le partorienti (anch’essa disponibile solo nei grandi ospedali di Kinshasa, e sconosciuta negli ospedali dell’interno), gli unici interventi possibili sarebbero l’uso del preservativo e il «test rapido per l’Hiv».
L’utilizzo del primo è pressoché inesistente nonché culturalmente rifiutato perché, nell’immaginario collettivo, viene associato a un vissuto di imposizione politica del controllo delle nascite e, quindi, tacciato di provocare la sterilità. Il secondo è reperibile in modo irregolare, solo a pagamento e in quantità talmente esigue che diviene obbligatorio limitae l’uso alle sole trasfusioni.
Nel caso di positività del donatore, poi, conformemente agli orientamenti dell’Oms, ci si deve limitare a dire che il sangue è risultato essere «incompatibile» e scartarlo. Di fatto gli ospedali della diocesi di Kenge (e in genere le strutture sanitarie dell’interno del paese) non dispongono di una struttura di counselling capace di far fronte alla tempesta psicoemotiva che fa seguito alla diagnosi di sieropositività (che in assenza di trattamento costituisce una vera e propria sentenza di condanna a morte) e di evitare che il malato presenti una reazione paradossale di incremento del comportamento a rischio.
A Kimbau, il personale ha cominciato a rifiutare il dono di sangue perché terrorizzato dall’ipotesi di trovarsi di fronte a una positività del test. La gente comune non viene neanche informata sul fatto che il test viene realizzato, per evitare che, in caso di emergenza, rifiuti di donare il sangue. I donatori volontari che hanno accettato coscientemente di sottomettersi al test non sono che due per tutta la zona sanitaria di Kimbau: parlare di «Banca del Sangue» è ancora un’utopia!
Anche le attività di educazione sanitaria sembrano essere piuttosto limitate, a causa della mancanza di attrezzatura di base: fanno eccezione i cornordinamenti delle scuole cattoliche, protestanti e kimbangwiste, che dal 1998 stanno portando avanti un’azione di educazione sanitaria nelle scuole che, pur ammettendo l’uso del preservativo, preconizza l’astinenza per i giovanissimi e la fedeltà all’interno della coppia per i giovani già sessualmente attivi. Nel 1999, dopo sei mesi di «progetto pilota» nella sola parrocchia di Kimbau, il programma educativo è stato adottato anche nelle scuole cattoliche della diocesi di Kenge.
Inoltre, nell’anno scolastico 2003-2004, si sono svolti a Kenge seminari di formazione per gli insegnanti di scuola primaria e secondaria, con distribuzione di materiale destinato alle classi superiori, prodotto con sostegno scientifico e finanziario di Medicine Sans Frontière. Con il sostegno della Ong italiana «Aifo» è prevista la conduzione di seminari diretti alla «formazione dei formatori» (presidi, direttori di scuole primarie e insegnanti selezionati) sui temi vari, quali: Aids e malattie sessualmente trasmissibili, lebbra, tubercolosi, tabagismo, alcolismo, nutrizione ed altri temi prioritari di educazione sanitaria e prevenzione.
Purtroppo, nel frattempo, chi è ammalato di Aids, dovrà scegliere fra il negarlo a se stesso e agli altri e il crollare nella disperazione perché, al momento, non gli può essere garantito alcun trattamento. Alcuni, magari, cercheranno disperatamente di generare ancora un figlio prima di morire, senza considerare le possibili, drammatiche, conseguenze.

Vite travolte dall’Aids

La storia di Albert Kikanda è esemplare di questa tragedia che si sta consumando in Congo. Alto, slanciato, prestante, campione di calcio, innamoratissimo di sua moglie Aimedò Mambanzi e legatissimo ai cinque figli, Kikanda presenta i primi sintomi della sua sieropositività appena diplomato infermiere specializzato e nominato «supervisore per casi di lebbra e tubercolosi».
Non fa nemmeno in tempo a installarsi nel suo nuovo ruolo, che comincia a vivere su se stesso il dramma dell’autodiagnosi progressiva. È il mese di giugno del 1999 e Kikanda scopre il bacillo di Koch nei suoi stessi polmoni. «Tu sei sempre a contatto con i malati, per forza sei esposto. Ñon fumi, non bevi, ma forse hai sudato troppo durante l’ultima partita; puoi aver preso freddo».
Poi, gli parlo di un noto campione di calcio italiano degli anni ‘70, che ha sofferto di tubercolosi, ma poi è diventato più forte di prima. Mi sorride amaro, pensa a quella sua fidanzata a Kenge, quando lui aveva ancora 20 anni, prima di conoscere Aimedò. Era bella, ma poi si è ammalata di tubercolosi, è guarita, ma è morta lo stesso, misteriosamente.
Anche Kikanda guarisce, grazie alla cura che cerca di avere per se stesso. Dopo qualche mese ricomincia a giocare a calcio; intanto, impara ad operare, mentre continua a seguire i malati di tubercolosi. Sta bene fino al luglio 2001, poi ricomincia la febbre. Un giorno mi chiama in disparte, nel retrobottega della farmacia «ho delle bollicine sul pene», mi dice. Mi basta un’occhiata per fare la diagnosi, che lui, d’altronde, già conosce fin troppo bene: «È un herpes Zoster». Glielo nomino chiaro e tondo, col nome scientifico, sapendo cosa significa avere il «fuoco di sant’Antonio» per qualcuno che ha già sofferto di tubercolosi.
Non pronunciare il vero nome, mi sembrerebbe di offendere la sua intelligenza. Ho un campione di Aciclovir e glielo dò. Guarisce, ma il gonfiore delle ghiandole linfatiche all’inguine non scompare. Dopo un po’ le scopre sul collo, sotto le ascelle… La febbre ricomincia, associata a dolore addominale e a diarrea intermittente. «Non ti sarai mica beccato il tifo?», gli chiedo.
Sarà, ancora una volta, il trattamento tubercolostatico a ottenere la fine dei sintomi. Quando viene a Kimbau il cornordinatore provinciale di «lebbra e tubercolosi», trovandolo di nuovo malato, mi chiede perché Albert non ha mai subito il test di Dupont (Hiv-check). Gli spiego che qui a Kimbau abbiamo chiamato quest’esame «test Mambanzi» perché la sola persona autorizzata a praticarlo è papà Mambanzi, il decano degli infermieri, ma anche il padre di Aimedò, suocero, quindi, di Kikanda. Non può certo essere lui a porre una diagnosi del genere a suo genero e, forse, subito dopo, anche a sua figlia, e ai figli di sua figlia, specialmente il più piccolo che è spesso malato…
Partiamo assieme alla volta di Kinshasa nell’agosto 2001. Compiamo un viaggio rocambolesco, su un camion che cade per tre volte in panne in 500 Km. Lo accompagno all’Istituto Nazionale di Ricerca Biologica (Inrb) per prelevare il test, che ci costa un occhio della testa: fortuna che è venuto Salvatore per darci una mano. Ci danno appuntamento per cinque giorni dopo, ma il giorno stabilito, Kikanda, non si presenta all’appuntamento che ci siamo dati presso l’Inrb. Inutilmente l’aspetterò per più di un’ora: non verrà, ha troppa paura. Benché io sia medico curante, non ho diritto di ritirare quel test a nome suo. Ci metterò un anno per convincerlo che non devo essere io a ritirare il test, ma deve essere lui, in persona. Nell’ottobre 2002, siamo di nuovo assieme all’Inrb, ma quando chiediamo di ricevere la risposta di un esame vecchio di oltre un anno ci mandano letteralmente al diavolo: «Non potevate ritirarla a suo tempo? Adesso dove la troviamo?». Insisto, dicendo che con quello che avevamo pagato potevano ben conservarci la risposta. Alla fine li mando al diavolo anch’io: possibile che non capiscano la tragedia umana di chi, come Kikanda, percepisce il test positivo come una condanna a morte e, quindi si resiste a ritirarlo? Per convincerlo a rifare il test ci vorranno altri 6 mesi; Kikanda è sempre più magro, sempre più malato.
Quando andiamo assieme a ritirare il test, Kikanda stavolta si fa trovare puntuale all’appuntamento, ma trema come una foglia, terrorizzato. Anch’io tremo: è evidente che entrambi non siamo assolutamente pronti a un verdetto mortale, purtroppo molto probabile. Quando l’infermiera viene per darci la risposta, ci guarda in faccia un po’ perplessa ed esitante; rientra in laboratorio, esce di nuovo, entra nell’ufficio del medico, il dottor Kabeya. Alla fine ci dice: «Toate martedì». Allora capisco che il test è positivo. Forse lo intuisce anche Kikanda. Ma entrambi preferiamo far finta di non capire e continuare a mentire a noi stessi, reciprocamente, una realtà troppo pesante per essere accettata.
Il martedì, anziché la stessa infermiera, è lo stesso dr. Kabeya a riceverci. L’avevo conosciuto all’epoca del mio primo stage all’Ospedale St. Joseph, nel 1991. Padre di 8 figli, si distingueva già allora dagli altri colleghi medici per la sua umanità; sono contenta di scoprire che adesso è lui ad occuparsi dei malati di Aids e, in generale, di tutti coloro il cui test risulta positivo. Ci riceve con un largo sorriso sul volto amico, come per farci coraggio, perché sa che anche il test di Kikanda è positivo.
Quando il medico ci comunica il risultato, Kikanda reagisce in un modo «fisiologico»: scoppia in un pianto inconsolabile. Lo lasciamo fare, anche perché ho tanta voglia di piangere anch’io. Kikanda, fra le lacrime, implora che io possa far venire sua moglie da Kimbau, con i bambini. Maman Aimedò è sposata con Kikanda da 12 anni; che speranza c’è che lei e i suoi figli siano sieronegativi? Farla venire a Kinshasa sarà un’occasione per eseguire il test anche su di lei e, se positivo, anche sui figli più piccoli.

Più della paura poté l’amore

Mentre Kikanda procede con altri controlli, tutti carissimi e interamente a nostro carico, io, dopo aver cercato inutilmente fondi per gli antiretrovirali (non posso certo spendere per lui ciò che è destinato al progetto), too a Kimbau.
Nel successivo viaggio alla capitale, vengono con me Aimedò e il bimbo più piccolo, l’unico che ha un rischio eventuale di venir contagiato, perché prende ancora il latte materno. Entrambi sono spesso (troppo spesso!) malati. Ma dopo i fatidici cinque giorni, abbiamo una sorpresa: il test di Aimedò è negativo! Il dr. Kabeya mi chiede di parlarne ad entrambi, perché occorre, d’ora in poi, proteggere Aimedò e il bambino dal rispettivo marito e padre, divenuto, paradossalmente, una minaccia per la loro salute. Quando li riunisco per dirglielo, ho un’altra sorpresa: Kikanda reagisce male alla notizia: «Mia moglie mi abbandonerà». La profezia è destinata ad avverarsi: appena viene messa al corrente Aimedò prende con sé il bambino e riparte subito per Kimbau. Da allora in poi, rifiuterà di rivedere il marito, che implorerà insistentemente, ma invano, la sua presenza vicino a lui.
Grazie al mio aiuto e a quello di alcuni amici italiani, Kikanda inizierà un costosissimo trattamento antivirale, anche se continua a ripetere che molti malati nella sua condizione possono convivere con il partner discordante ed avere relazioni grazie al preservativo. Ma sua moglie si irrigidisce: non vuole proprio più sentirne di tornare dal marito! Non mi ci vuole molto a capire l’origine delle sue paure: nonostante le mie raccomandazioni, Kikanda ha avuto con lei, almeno una volta, una relazione sessuale senza utilizzare il preservativo; ciò, prima che lei realizzasse il test e, in quel modo, potesse sapere la verità sulla sua sieronegatività, mentre lui già sapeva di aver contratto il virus! «Perché l’hai fatto, Kikanda? Non capisci che è proprio questo il motivo del rifiuto di Aimedò di vivere assieme a te?». Mi risponde singhiozzando e tremando come una foglia. «Lo so, ho sbagliato, perdonami, ma io volevo generare un altro figlio, prima di morire».
Passano altri due anni di separazione. Aimedò è a Kimbau: l’ho assunta in accettazione per sostituire suo marito. Adesso Kikanda sta meglio fisicamente e lavora a Kinshasa, in un centro medico privato. Con quello che guadagna si paga da solo gli anti-retrovirali. Riceve ancora l’aiuto irregolare di amici italiani, che non hanno il coraggio di tagliargli il trattamento, anche se mi chiedono, forse giustamente, se non sto commettendo un privilegio: «Perché a lui sì e a tutti gli altri no? Perché aiuti un singolo e non la collettività?».
Non so più che rispondere, salvo dar loro ragione; ma continuo a inviare in Italia le lettere disperate di Kikanda, in cui lui continua a implorare, non solo di non abbandonarlo, ma di consentirgli il ricongiungimento familiare, giurando che applicherà tutte le dovute precauzioni per proteggere sua moglie.
Aimedò continua a rifiutare e io, ovviamente, le dò ragione, anzi la incoraggio a non partire, a proteggere se stessa e il suo futuro: Kikanda cerca un figlio, per possedere un briciolo di eternità, non utilizzerà il preservativo e lei, che in fondo lo ama, teme che non riuscirà a resistergli. Finché, nel mese di settembre 2005 ci arriva una notizia: chi conosce le vie del Signore? Il messaggio radiofonico ci informa che Kikanda ha avuto un incidente stradale e si è fratturato il femore. È sotto trazione al centro medico privato dove prima lavorava, abbandonato a se stesso, incapace di pagare le cure e ormai nei debiti fino al collo. E Aimedò viene da me, i grandi occhi allarmati e pieni di lacrime e di paura: «Se lo raggiungo adesso, cosa rischio?».
Stavolta la tranquillizzo: finché lui sarà immobilizzato sotto trazione, lei non rischia nulla! Allora Aimedò parte per Kinshasa, con i figli, per occuparsi del marito. E capisco finalmente che Aimedò l’ama ancora. L’amore perfetto vince la paura.

Chiara Castellani




Nuovi samaritani

Il Sudafrica è tra i paesi con il più alto numero di malati di Aids e, nonostante gli sforzi, il morbo sembra fuori controllo: chi ne è colpito cerca di nascondere la malattia, per paura di essere emarginato dalla società e dalla famiglia. Nelle parrocchie affidate ai missionari della Consolata, sono stati formati gruppi di volontari, impegnati in varie iniziative per prevenire la diffusione del virus Hiv e accompagnare persone e famiglie che ne sono colpite.

Una mattina di settembre 2000, nella regione del KwaZulu-Natal. Celebrata l’ultima messa, rimasi nell’ufficio parrocchiale, parlando per più di un’ora con diverse persone. Mentre stavo per tornare a casa, arrivò una ragazza che mi disse a bruciapelo: «Sono sieropositiva. Ti prego di pensare ai miei figli dopo la mia morte».
In 10 anni di lavoro in quella regione, ho accompagnato molti pazienti fino al momento della loro pasqua: un tempo molto lungo e sofferto, fino al punto di chiedermi: «Prega perché io muoia». Ma sono poche le persone che mi hanno confessato apertamente di essere state colpite da tale malattia, anche se le statistiche dicono che nel KwaZulu-Natal una su tre risulta sieropositiva.
Eppure da molto tempo in Sudafrica si parla a iosa di Aids. Enormi cartelloni costeggiano le strade. Si distribuiscono preservativi nelle università. Abbondano le informazioni con volantini, programmi radio-televisivi, raduni a tutti i livelli per dibattere il problema… Numerose sono pure le iniziative per far conoscere la gravità della situazione. Lo stesso Nelson Mandela si è impegnato in prima persona, partecipando ai famosi «Concerti 46664» (numero con cui l’ex-presidente era identificato in carcere, ndr), fino a confessare con coraggio che il suo primogenito è morto a causa dell’Aids.

Paura e confusione

Mi sono chiesto molte volte perché siano tanto pochi coloro che parlano apertamente della loro malattia. Ripensando alla mia esperienza, ho trovato tanti motivi, che potrebbero essere sintetizzati in due parole: paura e confusione.
Paura di essere emarginati e perdere gli amici. Il film sudafricano Yesterday (2004) descrive crudamente questa situazione: appena si viene a sapere che una persona è sieropositiva è subito isolata dalla gente. Ho visto il film insieme a un altro missionario e, alla fine della proiezione, ci siamo guardati in faccia e abbiamo esclamato nello stesso momento: «È proprio così».
Soprattutto, si ha paura di perdere la famiglia. All’inizio del 2005, ho dovuto interessarmi di una ragazza che, quando la famiglia venne a sapere che era positiva, fu cacciata da casa. Ho visitato molti malati che, evitati da tutti, passano la giornata in camera soli; altri sono mandati presso un familiare, perché i vicini non vedano l’avanzare della malattia.
C’è la paura di fare la fine di Gugu Dlamini e altri come lei: sono stati uccisi dopo avere parlato apertamente della loro malattia.
Viviamo in una società in cui mancano certi valori forti, come misericordia, perdono e comprensione. Per questo la moglie non ha il coraggio di dire al marito di essere sieropositiva; il marito fa altrettanto nei riguardi della propria sposa; entrambi hanno paura di dirlo ai figli. Tempo fa, una ragazza mi confidava e mi avvertiva che la mamma sapeva, ma non aveva il coraggio di dirlo al padre.
Infine c’è la paura dalla morte. Sebbene alcuni hanno la possibilità di accedere alla medicina antiretrovirale, per molti l’Aids è fondamentalmente una condanna a morte. Perciò alcuni dicono: «Se ce l’ho, meglio non saperlo».

Messaggio… senza eco

Ho l’impressione che l’atteggiamento del governo sudafricano non aiuti a vincere la paura, ma aumenti la confusione.
Il 9 ottobre 1998, per la prima volta, fu lanciato un messaggio chiaro e coraggioso: il vicepresidente Thabo Mbeki chiamò a raccolta la nazione per una «coalizione contro l’Aids», con queste parole: «L’Hiv-Aids è tra noi. È reale. È in espansione… Per troppo tempo abbiamo chiuso gli occhi come nazione, sperando che la realtà non fosse vera. Per troppi anni abbiamo permesso che il virus si diffondesse… È con noi, nei nostri posti di lavoro, nelle nostre aule scolastiche e universitarie. È lì, nei nostri raduni religiosi e in altre funzioni di culto. L’Hiv-Aids cammina con noi, viaggia con noi dovunque andiamo… Non è il problema di qualcun altro. È il nostro problema. Ogni giorno e ogni notte, dovunque noi siamo, faremo sapere ai nostri familiari, amici e colleghi che essi possono salvare se stessi e salvare la nazione, cambiando il nostro modo di vivere e di amare. Useremo ogni opportunità apertamente per discutere l’argomento dell’Aids… Coloro che vivono con l’Hiv-Aids sono esseri umani, come te e come me. Quando ci diamo una mano, costruiamo la nostra propria umanità…».
Dopo quel primo messaggio, non ne ho sentiti altri simili. Anzi, ci sono stati diversi interventi che hanno seminato dei dubbi sulla connessione fra Hiv e Aids, sull’aiuto della medicina per ridurre la trasmissione del virus da madre a figlio e sull’efficacia dei farmaci antiretrovirali. Avevamo nutrito molte speranze, ma siamo rimasti sorpresi dal suo silenzio, dopo che Mbeki è diventato presidente del Sudafrica: ho la sensazione che abbia scelto di chiudere la porta che lui stesso aveva aperto.

Cercasi… ascoltatore

Così, continua lo stigma dell’emarginazione verso i malati colpiti dal virus, e questi continuano a tacere, pensando che nel parlare della propria situazione ci sia molto da perdere e poco da guadagnare. Il silenzio, almeno, permette loro di non essere visti come lebbrosi.
I malati di Aids sono doppiamente colpiti: dalla malattia fisica e, spesso, dal non trovare alcuno con cui parlarne. Da parte loro ci vuole coraggio; ma questo può nascere solo quando si incontrano veri ascoltatori.
L’anno scorso, durante un incontro di sacerdoti, organizzato dalla diocesi di Johannesburg per parlare sull’Aids, una delle «dinamiche di gruppo» chiedeva di discutere su queste domande: «Se tua sorella scoprisse di essere ammalata di Aids, ne parlerebbe con te? Lo direbbe a suo marito? Cosa le accadrebbe sul posto di lavoro?». Nella discussione azzardai un’altra domanda: «Se tu, prete, scoprissi di avere l’Aids, ne parleresti… e con chi?».
Credo che anche nella chiesa, anzi, nelle chiese cristiane (in Sudafrica ce ne sono più di 5.000) non siamo ancora riusciti a liberarci e a liberare la nostra gente. In un paese dove il 90% della popolazione si dichiara cristiana, non siamo stati ancora capaci di diventare «buona notizia», di rivelare il volto misericordioso di Dio, che continua a sfidarci: «Ero malato e…». L’Aids ha mostrato che il nostro cuore, almeno in parte, assomiglia più a quello del fariseo che al cuore di Dio, che si identifica con il malato.

I volontari, ministri della consolazione

La «coalizione» lanciata dall’attuale presidente del Sudafrica è stata una sfida all’abituale ritmo del lavoro nelle parrocchie affidate a noi missionari della Consolata. Verso la metà dell’anno 2000, abbiamo invitato una suora delle Francescane di Nardini, comunità che si occupa di malati di Aids, a parlare del problema durante la messa domenicale: lanciammo l’appello perché qualcuno offrisse la propria disponibilità al servizio degli ammalati della comunità.
La risposta fu immediata. Si presentarono una cinquantina di giovani e adulti, che nei mesi successivi furono preparati con appositi corsi, tenuti dalle stesse Francescane, sulla prevenzione e l’accompagnamento dei malati di Aids. Nasceva così il primo gruppo di volontari, diventati ministri di consolazione, volto visibile dell’amore del Padre.
Il primo impegno fu quello dell’accompagnamento. Si cominciò con il lavoro di collegamento tra l’ospedale e gli ammalati, dal momento che la struttura sanitaria non poteva prendersi cura a lungo di un numero tanto elevato di malati e li rimandava a casa appena notava in essi un qualche miglioramento.
Ma come rintracciare tanti altri, che hanno paura di parlare del loro male? Come primo passo, una domenica fu organizzata una celebrazione religiosa per i malati, in cui tutti erano invitati, anche i non cattolici. Iniziammo il rito con l’aspersione dell’acqua benedetta, chiedendo al Signore di purificare i nostri cuori. Dopo aver chiesto a Dio di guidarci con la sua Parola, abbiamo ascoltato alcune letture, commentate da due volontari che, alla luce della loro esperienza, illustrarono il cammino intrapreso dalla nostra comunità e le sfide che doveva ancora affrontare.
Quindi, altri due volontari hanno guidato la preghiera sui malati, chiedendo al Signore di darci un cuore nuovo e riempirlo con il suo spirito: le parole erano seguite dal gesto dell’imposizione delle mani.
Infine chiedemmo al Signore di guarirci con il suo olio santo e risuonò l’invito: «Chi sente il bisogno, si avvicini per ricevere l’unzione dei malati». Nessuno rimase seduto. Eravamo coscienti che tutti avevamo bisogno di guarigione, dal bambino al più anziano, dal momento che in Africa non si fa alcuna distinzione tra una malattia e l’altra.
Alla fine della celebrazione ungemmo con l’olio santo anche i volontari ed esortammo la gente affinché li invitasse a ripetere ciò che avevano fatto in chiesa: pregare e condividere la Parola di Dio con i malati rimasti in casa.
Anche noi missionari, quando troviamo qualche ammalato nelle visite alle famiglie, offriamo loro la possibilità di essere visitati regolarmente dai nostri volontari; in questo modo possiamo sapere se si tratta di semplice indisposizione o di Aids e essere informati sul suo stadio e della sua evoluzione.
Nelle loro visite, i volontari svolgono un servizio prezioso: spiegano alla famiglia come prendersi cura del malato, pregano con loro e per loro, ascoltano e cercano di mantenere viva la speranza… Quando i malati sono abbandonati a se stessi, tale servizio si traduce nel portare il malato all’ospedale, procurare documenti d’identità, registrare i bambini all’anagrafe, pulire l’abitazione, lavare i vestiti e tanti altri aiuti di ordinaria amministrazione.
Il nostro motto è sempre stato: «Dalla chiesa cattolica a tutta la comunità». Un messaggio chiaro per tutti, come provano i numerosi inviti da parte di organismi e autorità civili a discutere e pianificare insieme le strategie di lotta contro l’Aids. Moltissimi sono i non cattolici che chiedono aiuto ai nostri volontari. All’inizio del 2005 una famiglia ha scritto una breve lettera alla nostra comunità, chiedendo di leggerla in chiesa, per ringraziare la nostra vicinanza in un momento molto difficile: la malattia e la perdita di due figlie in poche settimane.

La fatica di ricominciare

Ma è un servizio che richiede un «prezzo da pagare», soprattutto in termini psicologici. I volontari spendono la vita accanto ai malati, intessendo una relazione di amicizia e reciproca fiducia, ben presto troncata dal sopravvento della morte. È un’esperienza d’impotenza che si ripete con troppa frequenza: data la difficoltà di accesso ai farmaci antiretrovirali, la morte sopravviene troppo presto.
Ne è un esempio la crisi di una giovane volontaria. Aveva accompagnato per alcuni mesi una donna sola e molto malata, finché riuscimmo a trovarle un posto in un ospizio gestito dai francescani. La ragazza era al colmo della gioia: il luogo incantevole; la paziente non più sola; un prete tutti i giorni vicino a lei; comunione quotidiana; possibilità di avere medicine antiretrovirali… ma la donna morì tre giorni dopo il ricovero e la giovane non riusciva a farsene una ragione. Era distrutta. C’è voluto molto tempo prima di accettare tale fatto, pacificare il suo cuore e ricominciare l’attività di volontaria.
Ma le prove più dolorose sono quelle causate dall’impotenza di fronte a tanto dolore. La paura dello stigma, che costringe i malati a tacere sulla loro malattia, fa sì che in molti casi veniamo chiamati quando è troppo tardi e l’accompagnamento dura appena tre o quattro giorni. Per i volontari si tratta di ricominciare costantemente da capo.
Per superare tali difficoltà, i volontari si radunano ogni settimana per parlare e condividere le loro esperienze, per pianificare il loro servizio e, soprattutto, per pregare insieme e incoraggiarsi a vicenda. In questo modo, il volontario riconosce il volto di Gesù, che si è identificato nel malato. A sua volta, il malato vede nel volontario il volto di Dio, che si è incarnato e si è avvicinato a noi, che condivide con cuore di Padre-Madre le sofferenze dei suoi figli e figlie.

La sfida dell’Abcd

Non basta occuparsi dei malati. In molte occasioni cerchiamo di formare anche le famiglie, per aiutare anch’esse a diventare misericordia. Si tratta di un cammino di formazione e prevenzione che si fa con la comunità, con un’attenzione particolare ai giovani, perché intraprendano una scelta di vita che non riguarda solo l’aspetto sessuale.
Abbiamo sintetizzato tale cammino nell’acronimo «abcd» di quattro parole in inglese:
– Abstain (astieniti) da crimine, corruzione, abuso di sostanze nocive, sporcare l’ambiente, vandalismo, condotta sessuale irresponsabile.
– Be faithful (sii fedele) a te stesso, al tuo corpo, alla tua famiglia, amici e comunità.
– Change your lifestyle (cambia il tuo stile di vita), facendo scelte consapevoli, sviluppando la tua coscienza, vivendo la tua cultura africana, sperimentando la cultura dell’amore.
Cambia stile di vita, altrimenti potresti essere in…
– Danger (pericolo) di non vivere la vita in pienezza (Gv 10,10), diventando un criminale o tossicomane, deturpando l’ambiente o contraendo l’Hiv-Aids.
È un cammino che si fa in comunità, poiché forte è la pressione sociale e grande la confusione.
Alla formazione e prevenzione si aggiungono altre sfide, come l’attenzione agli orfani, spesso anch’essi sieropositivi; la preoccupazione per trovare e offrire le medicine…
Tutto questo è nelle mani dei volontari. Sono essi che hanno la possibilità di parlare con le famiglie, preparare il futuro, parlare della propria esperienza, incoraggiare il malato a fare il test e cominciare il trattamento…
A volte il volontario stesso vive il proprio cammino alla scoperta dell’amore di Dio, perché anche lui è ammalato e, come gli altri, ha paura di parlarne apertamente.
All’inizio del 2005, i vescovi del Sudafrica hanno organizzato una speciale giornata di preghiera per i malati di Aids, celebrata nella chiesa Regina Mundi di Soweto: avevano bisogno di 15 persone che avessero il coraggio di dichiarare apertamente, davanti a migliaia di persone, di essere contagiati dal virus. Vi sono riusciti, ma con fatica. Quel giorno è stato un evento memorabile: finalmente si rompeva il cerchio del silenzio e si infrangeva il tabù dello stigma.

Confesso che mi diventa sempre più difficile parlare di tutto questo. Non si tratta di numeri o statistiche, ma di persone, ognuna unica e irripetibile. Porto nel cuore nomi, momenti, parole, silenzi, impotenza, rabbia… ricordi di tante persone care. Se da una parte la fede mi dice che ora esse sono nella pace del Signore, dall’altra non riesco ad accettare che si debba vivere nella paura e soffrire in silenzio.
Penso a tanti giovani che ho visto soffrire fisicamente, immobili nel letto per lungo tempo. E non riesco ad accettare che tali sofferenze continuino ancora oggi, perché non si vuole provvedere le medicine che permetterebbero loro di vivere con dignità.
Come chiesa, non abbiamo nessun dubbio sulla strada che abbiamo intrapreso. In questi ultimi anni sono stati avviati e moltiplicati tanti progetti, gestiti da centinaia di volontari. Sono stati istituiti 22 posti dove, con l’aiuto di tanti benefattori, vengono attuati i programmi antiretrovirali.
«Sono venuto perché abbiano vita… e questa sia piena!». È il nostro sogno di missionari; è la nostra forza quotidiana. È la nostra fede.

osé Luis Ponce de León




A nuove sfide, nuove strategie

La condizione di chi vive con l’infezione Hiv è simile a quella dei lebbrosi del tempo di Gesù, che «passò nel mondo facendo del bene a tutti, guarendo
i malati e liberando i posseduti da spiriti maligni, perché Dio era con Lui» (At 10,38). Religiosi e religiose sono chiamati a configurarsi a Cristo, nel servizio integrale, anima e corpo, dei «nuovi intoccabili». In un mondo dai cambiamenti epocali, la vita consacrata è stimolata dallo Spirito a rinnovare la sua passione per Cristo e per l’umanità, per rendere visibile la compassione
del Padre, mediante iniziative nuove, creative e profetiche.

Una delle condizioni umane peggiori al tempo di Gesù era la lebbra: discriminazioni fisiche, sociali, religiose, economiche e culturali hanno fatto di essa una delle malattie più temute. Era paragonata al peccato, perché causava tanto danno da sfigurare i malati, con la perdita di dita, naso e orecchie, ne distruggeva la dignità, condannandoli a essere rifiutati e isolati dai loro fratelli e sorelle.
Gesù Cristo incontrò questi ammalati e fece ciò che gli altri non osavano: li toccò, stese le mani su di loro. E da tali incontri scaturiva una forza di guarigione. Un tocco sanante che sarebbe diventato un segno della presenza di Dio in mezzo a noi.
Oggi, molte persone che soffrono per l’infezione Hiv/Aids si sentono isolate e abbandonate e provano il bisogno di essere rassicurate sul fatto di essere accettate e «toccabili».

Impegno

Sin dall’inizio della pandemia la chiesa cattolica si è coinvolta nei servizi relativi all’Hiv/Aids in ogni parte del mondo. Membri degli ordini religiosi maschili e femminili hanno risposto alla nuova situazione prendendosi cura in un primo momento dei malati. Molto presto, però, si sono coinvolti anche in programmi di sicurezza delle trasfusioni, nei servizi sociali e di supporto emozionale, in programmi sanitari mobili.
La pandemia Hiv/Aids ha colto l’umanità impreparata ad affrontarla e a rispondere alle sue molteplici sfide e conseguenze. Non c’è un singolo gruppo religioso, governativo o organizzazione sociale che può far fronte da solo alle domande difficili che presenta questa realtà. C’è invece il bisogno per i diversi gruppi umani di mettersi insieme, senza pregiudizi per le rispettive ideologie e fedi, al fine alleviare il dolore causato da questa tragedia.
L’ammalato necessita di cure appropriate, non solo per guarire nel corpo, ma anche par aiutarlo a riprendere le forze e prevenire le malattie opportunistiche. Ha bisogno di una cura integrale della salute, che spesso non esiste nel suo ambiente. Infatti non è solo il corpo a richiedere attenzione: il paziente Aids necessita di un approccio olistico da parte del personale medico e paramedico, assistenza psicologica, counselling, aiuto di assistenti sociali, supporto economico, sostegno spirituale e l’irrinunciabile ruolo della famiglia e del suo ambiente sociale.
Gli ordini religiosi si sono sforzati di essere presenti in ognuno di questi livelli, dall’inizio della pandemia. Alcuni già provvisti di risorse tecniche e professionali, molti mancanti di preparazione adeguata, ma tutti con la volontà di farsi prossimo a coloro che sono direttamente o indirettamente interessati da questa nuova situazione, con l’unico scopo di mostrare l’amore compassionevole di Dio per coloro che sono nel bisogno.
Siccome lo scopo degli ordini religiosi è di incarnare la vita di Gesù nel mondo contemporaneo, senza altro intento, il loro coinvolgimento in ambito caritativo molte volte manca di organizzazione e collaborazione con altri servizi collegati alle chiese, organizzazioni governative o Ong.
Inoltre, a causa della spiritualità di umiltà e piccolezza, di solito fanno il proprio lavoro in maniera silente e nascosta, senza farsi conoscere dal mondo: questo rende difficile monitorare queste attività e cornordinarle convenientemente con quelle di altre organizzazioni.
Ma è fuori dubbio che molti religiosi/e, in ogni parte del mondo, costituiscono una sorgente di consolazione e sollievo per tutti coloro che sono toccati da questa pandemia, in modo gratuito e sicuro.
D’altra parte ci sono anche molte realtà di servizi collegati alla chiesa, che sono stati degli esempi straordinari di programmi altamente organizzati e professionali, aperti a operare in stretta collaborazione con le altre chiese e altre organizzazioni, con risultati così soddisfacenti da essere imitati da altre comunità e paesi.

Le sfide

Nell’ultimo Congresso sulla vita consacrata (Roma, 23-27 novembre 2004), noi religiosi e religiose abbiamo sentito la necessità di essere inseriti nelle realtà dei nostri tempi, nella vita e missione tra la nostra gente con una nuova visione della carità.
Anche se in nessun’altra epoca, forse, la vita consacrata si è sentita così povera e limitata come in questo tempo di cambiamenti epocali, noi ci sentiamo rinnovati dallo Spirito e mandati, con una rinnovata passione per Cristo e per l’umanità, a rendere visibile la compassione di Dio verso coloro che soffrono, mediante iniziative nuove, creative e profetiche.
La risposta degli ordini religiosi alla pandemia deve continuare in fedeltà alla nostra consacrazione, nell’imitazione e incarnazione della presenza di Cristo e del suo amore compassionevole in mezzo a questa tragedia umana. I valori del vangelo devono renderci capaci di impegnarci totalmente nei vari ambiti e nelle molteplici sfide che questa pandemia globale presenta.

1 La sfida della sostenibilità dei programmi Hiv/Aids.
Le istituzioni sanitarie della chiesa cattolica provano serie difficoltà finanziarie a mantenere ed espandere i loro programmi Hiv/Aids. Non abbiamo fondi sufficienti per diverse ragioni: gran parte degli ordini religiosi interessati in tali programmi non lavorano esclusivamente in quest’area, ma portano avanti molti altri impegni; spesso la sostenibilità dei servizi sanitari è basata sulla carità e buona volontà di benefattori sporadici.
Dobbiamo sperimentare nuove e diverse vie per assicurare i fondi, senza perdere di vista il grande valore evangelico delle risorse piccole e povere. In tempo di globalizzazione, vorremmo «globalizzare» una solidarietà compassionevole.

2 La sfida di provvedere una cura integrale della salute.
Non siamo capaci di attuare le guarigioni miracolose che Gesù fece al suo tempo, ma abbiamo la sfida di procurare ai malati di Aids l’assistenza medica migliore possibile, lottando affinché le risorse mediche e scientifiche più recenti siano disponibili per tutti. Abbiamo anche la sfida di assicurare ai pazienti il necessario supporto psicologico e spirituale.
Il dolore dell’umanità ha bisogno del tocco sanante dell’amore compassionevole di Dio. La nostra risposta alla pandemia deve essere tale da riconoscere Cristo negli ammalati, mentre essi incontrano Cristo in coloro che si prendono cura di loro. Dobbiamo ricordare che il loro dolore, malattia e morte hanno bisogno di trovare una risposta che possa ripristinare la loro dignità e aiutarli a scoprire l’intimo significato della sofferenza, della vita e della morte.

3 La sfida di migliorare le strategie di prevenzione dell’AIDS.
Molti sono d’accordo che l’efficacia della lotta contro la pandemia dimora più sulle misure di prevenzione per evitare l’infezione, piuttosto che sulle aspettative della scoperta di una cura o di un efficace vaccino.
Questo ci porta verso le cause e i fattori che condizionano alla radice l’espansione della malattia. Sappiamo che la maggior parte dei casi di infezione Hiv sono stati trasmessi per via sessuale, trasfusioni di sangue, condivisione di aghi infetti e per trasmissione verticale da madre a bambino. Alcuni di questi fattori domandano l’attenzione del personale sanitario, mentre altri necessitano l’impegno del settore sia privato che pubblico della società, per educare e contribuire a costruire i principi etici fondamentali che regolano le relazioni umane e i comportamenti nel nostro tempo, in modo che siano sicuri e sani.
Oggi siamo testimoni di cambiamenti grandi e complessi della nostra società, che sorgono dall’influenza di molteplici fattori, tra i quali: la forte interdipendenza causata dal fenomeno della globalizzazione; la grande influenza dei nuovi e potenti mass media, che spesso colonizza gli spiriti umani; la rivoluzione sessuale dell’ultimo secolo; le grandi scoperte tecnologiche e scientifiche; l’incremento di violenza, guerre e terrorismo; il crescente divario tra un’élite ricca e le masse di poveri; la perdita di tanti valori morali, comportamenti sessuali permissivi e aperto proselitismo omosessuale; la caduta della figura dell’autorità e di principi etici assoluti; la frattura della famiglia; la diffusione di droghe; la secolarizzazione; l’intolleranza religiosa e fondamentalismo; il disincanto politico ed esistenziale… Queste sono le aree in cui il contributo dei religiosi/e necessita di espansione.

4 La sfida di acquisire nuove attitudini e convinzioni.
All’entrata nel terzo millennio, noi religiosi e religiose dobbiamo renderci conto che il nostro modello di vita consacrata non è più «in forza», ma non esiste ancora un nuovo modello. Necessitiamo di una trasformazione strutturale delle nostre vite e lavoro, in modo da poter costruire una rete di giustizia e pace e globalizzare una solidarietà compassionevole.
Abbiamo bisogno di comunità aperte e ospitali, dove ognuno possa respirare uno spirito nuovo di libertà, mitezza e gratuità, e dove possano maturare i frutti della non violenza.
Abbiamo bisogno di un modello di vita religiosa capace di aiutarci a vivere, con profondità nuova, l’autenticità dei nostri rispettivi carismi e ci permetta di essere una memoria evangelica e missionaria di Cristo nel mondo presente, per riempire fino all’orlo gli autentici desideri di gioia e amore dei nostri fratelli e sorelle nel mondo.
Dobbiamo sottolineare la rilevanza della parola di Dio e la necessità di incarnarla nel nostro mondo. La nuova passione per Cristo deve trasformare le nostre vite e strutture e condurci verso una più grande passione per l’umanità, espressa come amore compassionevole, con audacia e nuova capacità creativa.
Dobbiamo essere sempre presenti laddove la vita è minacciata. Vogliamo mostrare al mondo un nuovo volto della vita consacrata che è reale sacramento e parabola vivente del regno di Dio in mezzo a noi.

5 La sfida della tolleranza e del dialogo.
Il pluralismo crescente e irreversibile nel mondo ci conduce a un dialogo più profondo con altre congregazioni e altre religioni. Dobbiamo promuovere una spiritualità di comunione e collaborazione interreligiosa, che possa distruggere lo spirito di dominio e le tendenze fondamentaliste presenti nel nostro tempo. Un dialogo tollerante deve diventare opzione e stile di vita per tutti noi, con un impegno a creare spazi di perdono e riconciliazione in mezzo a violenza e morte.
Genuina missione per i religiosi e religiose è mantenere un profondo dialogo con altre religioni, culture e con i poveri, la cui voce grida di essere ascoltata. Siamo aperti all’ecumenismo e a lavorare in solidarietà con altri gruppi che lottano in favore della dignità umana, della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato.

6 La sfida di presentare la positività della castità in un mondo edonistico.
Fino al xix secolo, nella cultura occidentale sembrava esserci persone senza sesso: era tabù parlarne apertamente. Ora, dopo l’esplosione della rivoluzione sessuale del xx secolo, pare che ci sia sesso senza persona, poiché la sessualità è stata separata dalla personalità. Si è caduti nel libertinismo e immoralità permissiva, con comportamenti indecenti e contro la legge di natura, con la perdita dei principi morali assoluti.
Come il dondolio di un pendolo, tendiamo a muoverci da un estremo all’altro: da una mentalità puritana che condannava la sessualità, siamo passati a un totale libertinismo sessuale; c’è il rischio, ora, di tornare indietro di nuovo, verso attitudini intolleranti della sessualità umana.
Noi religiosi dobbiamo testimoniare la gioia e la pienezza della nostra vita consacrata. Se la maggioranza crede che essere casti è difficile, d’altra parte non è impossibile; e ci sentiamo ok con il nostro corpo, i nostri sentimenti ed emozioni. Il celibato è per noi un’opzione libera di vivere la nostra sessualità in maniera sana ed equilibrata. La nostra castità risplende meglio quando mostra chiaramente che è per il regno di Dio e che ci conduce a una relazione d’amore più profonda con Cristo e a condividere il nostro amore con gli altri.
Non crediamo in una chiesa che condanna la sessualità umana o si scandalizza per comportamenti sessuali devianti; ma crediamo in una chiesa che proclama un Cristo incarnato, che manifesta sulla croce la pienezza e la bellezza dell’amore di Dio, ci redime dalla schiavitù del peccato e dall’inganno di un falso erotismo. Come disse Giovanni Paolo ii nella Redemptoris Hominis, è necessario convincersi delle priorità dell’etica sulla tecnologia, della persona sui beni materiali, della superiorità dello spirito sulla materia. Lo sviluppo della civilizzazione caratterizzato oggi dal domino della tecnologia domanda uno sviluppo proporzionale della morale e della spiritualità.

7 La sfida di comunicare oggi attraverso i mass media.
Dalla fuga dal mondo, come era al suo inizio, la vita consacrata muove verso l’incarnazione nel mondo, testimoniando la trascendenza negli eventi della storia umana. Dobbiamo cambiare la nostra mentalità sulla comunicazione ed essere capaci di correre il rischio di incontrare la nostra complessa realtà utilizzando i mezzi della comunicazione.
Abbiamo bisogno di religiosi e religiose specialisti in questo campo e che lavorino in stretta collaborazione con laici competenti. Dobbiamo avere il coraggio di mostrare la nostra forza e le nostre debolezze, di dialogare apertamente con la gente del nostro tempo su uno schermo continentale, per rispondere alle vere domande che ci vengono poste a nome dell’intero villaggio globale.

8 La sfida di dare potere ai deboli, bisognosi e quanti non contano nella nostra società.
Abbiamo bisogno di formulare un sistema legale integrale che protegga e difenda la dignità e i diritti umani delle masse, la cui voce è stata fatta tacere dai poteri egoisti di una manciata di ricchi e potenti.
Parlando di diritti umani dobbiamo chiarire che nessuno può essere considerato come un valore assoluto, senza un punto di rriferimento al di fuori di sé. I diritti di uno finiscono là dove iniziano quelli di un altro. E questo è vero per gli individui come per gruppi umani o organizzazioni. Perciò i diritti di una donna incinta, per esempio, finiscono dove iniziano quelli del bimbo nel suo seno. E i diritti di un movimento gay terminano dove iniziano i diritti di bambini innocenti. Una persona o un gruppo non può pretendere di possedere valori o diritti assoluti, senza riferimento a coloro che gli stanno intorno.
Dobbiamo riconoscere la presenza di principi morali registrati nel cuore di ogni essere umano e l’importanza di stabilire un ordine legale comune per salvaguardare la libertà e non il libertinismo. Schierarsi in favore di coloro che non contano significa rischiare la vita davanti ai signori della guerra e chiedere pace e giustizia; significa difendere la vita, ovunque sia in pericolo, impegnarsi per combattere l’ingiustizia e dare forza a coloro che sono lasciati vivere ai margini della società. Significa alzarsi per le donne che sono oppresse in società rette dal culto della virilità. Comporta lo sforzo di favorire ogni singola iniziativa di lotta contro la pandemia Hiv/Aids, nonostante la sua apparente piccolezza.

9 La sfida di far fronte alla pandemia in modo più cornordinato.
In era di globalizzazione, non possiamo continuare a lavorare in maniera isolata e non cornordinata. Nel nostro villaggio globale ognuno è o infetto o affetto dalla pandemia; tutti dobbiamo contribuire con i nostri talenti e possibilità per alleviare la situazione e il peso che grava su nostri fratelli e sorelle.
Come un uragano, la forza devastante della pandemia Hiv si è fatta sentire improvvisa e violenta, suscitando la risposta pronta di diverse organizzazioni. Al contrario di un uragano, però, la pandemia è venuta per stare con noi lungo tempo. Dopo le iniziali risposte di emergenza, dobbiamo riflettere su cosa dobbiamo fare oggi, provare a capire come usare le nostre risorse umane e finanziarie in maniera più cornordinata.
Bisogna pensare in grande e continuare ad agire localmente, ma in collaborazione con altre forze. Dobbiamo rinforzare la collaborazione intea con altri religiosi e religiose che lavorano nella sanità, educazione, servizi sociali, attività di sviluppo a tutti i livelli, come in strategie di prevenzione, cura delle persone che vivono con il virus, cura degli orfani, in modo umanitario e cristiano. Dobbiamo rinforzare anche la collaborazione estea con uomini e donne di altre religioni e organizzazioni, in spirito di comunione e fratea solidarietà.

Prospettive

Il panorama globale della pandemia mostra un incremento superiore a ogni previsione. Purtroppo, le popolazioni più colpite sono quelle con un sistema sanitario meno efficiente. Finora, non esiste una cura, ma il trattamento aiuta a prolungare la vita dei sieropositivi. La sicurezza di trovare un vaccino appare sempre più dubbia. La lotta contro l’Aids è stata condotta centrandola sulle misure di prevenzione per evitare la diffusione dell’infezione, ma non c’è stato un comune assenso tra gli organismi coinvolti sui mezzi di prevenzione da usarsi.
Nella lotta contro l’Aids si è sviluppata una guerra ideologica. Da una parte coloro che hanno una visione trascendente dell’uomo, con una fine escatologica, che privilegiano la fedeltà coniugale per gli sposati e sostengono l’astinenza sessuale per i single, subordinando la sessualità all’etica. Dall’altra parte, coloro che hanno una visione immanente dell’uomo, guidati solo dalla ragione e considerandosi gli unici arbitri del proprio destino, che sono in favore della libertà sessuale e sostengono l’esercizio della sessualità come diritto assoluto della persona, senza norme etiche. La questione è come riconciliare queste concezioni diverse in favore di un’autodisciplina fortemente necessaria.
Tra i fattori estei che ostacolano la prevenzione dell’infezione da Hiv c’è la realtà della guerra. Spesso interessi nascosti, nazionali o inteazionali, collegati all’avidità di potere politico o economico, sono dietro innumerevoli guerre, che si combattono in paesi dove c’è un gran numero di persone che vivono con il virus. La situazione di turbolenza in tali aree di guerra favorisce il diffondersi di nuove infezioni e impedisce una giusta presa in carico degli ammalati.
Ci si chiede se l’umanità imparerà mai a vivere in armonia e comunione nel nostro villaggio globale. È necessario cambiare la visione della globalizzazione: da lotta tra culture per il sopravvento della più potente, a spazio di dialogo fra diverse culture nella ricerca comune di un mondo di giustizia e di pace.
Molte cose in questo mondo iniziano o continuano ad accadere, dovute alla nostra complicità, negligenza, indifferenza o omissione. Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla pandemia o minimizzare la gravità della tragedia; dobbiamo, invece, considerarla in tutta la sua realtà e prendere il coraggio di pensare e agire positivamente.
Bisogna tracciare delle strategie globali in modo da raggiungere obiettivi parziali o generali e superare i molti ostacoli nella lotta all’Aids.
All’inizio di questo millennio, siamo di fronte a una moltitudine di sfide che sembrano sorpassare le nostre forze e sforzi; noi religiosi e religiose vogliamo ricordare il carattere profetico della nostra consacrazione. In linea con la tradizione patristica, la profezia non parla di una misteriosa visione del futuro; ma vera profezia è testimoniare il primato di Dio e i valori evangelici in mezzo all’incertezza del tempo presente.
Rispondere ai gravi problemi che attentano alla vita dell’intera umanità in modo creativo e profetico, significa per noi elaborare e adottare un’intera serie di convinzioni.
La rilevanza del carisma dei nostri fondatori per il nostro tempo.
Il compito per la nostra vita consacrata di mostrare il primato di Dio e dei beni eterni a un mondo secolarizzato e materialista.
Il primato della persona sul capitale, sviluppo tecnologico e industriale nel presente neoliberismo globale.
La testimonianza della povertà evangelica come segno profetico dell’amore preferenziale per i poveri e impegno a globalizzare carità e solidarietà.
La testimonianza di vera vita fratea a un mondo assetato di comunione, amicizia e amore.
La testimonianza della pratica giorniosa della perfetta castità, offerta dai religiosi e religiose che mostrano autocontrollo personale, equilibrio e maturità psicologica e affettiva, in mezzo a una cultura edonistica che riduce la sessualità a mera merce di consumo.
L’apertura a tutti i grandi dialoghi e all’ecumenismo in un mondo di fondamentalismi e di guerre.
La scelta della giustizia, pace e integrità della creazione, che può restaurare il disequilibrio ecologico e distruggere il dominio del terrorismo e l’idolatria del potere.
La dedizione totale della nostra vita fino all’accettazione del martirio in difesa della vita umana, specie dove è più minacciata.
Il ruolo eminente dell’amore compassionevole di Cristo e il suo potere sanante nel ministero della cura dei malati di Aids.
Il coraggio di proporre il regno di Dio come possibile progetto di vita, dove uomini e donne trovano condizioni di vita uguali e tutta l’umanità si impegna a ricreare una nuova civilizzazione.
La necessità di inserirci nei processi inteazionali, dove viene deciso il destino delle comunità che siamo chiamati a servire.
La volontà di aggioarci nell’era post-modea ed essere capaci di incarnare i valori del vangelo in un dialogo di vita con altre religioni e culture.

Luis Francisco Arellano Perez




Senza paura di sbagliare

Di fronte al dilagare del virus Hiv in America Latina, chiesa e istituti di vita consacrata si sono mobilitati in due direzioni: combattere la discriminazione
e promuovere una rete di solidarietà.
Occorre aumentare la collaborazione con la società civile, senza perdere la specificità profetica, e mettere al primo posto la salvaguardia della vita…

Dal 1999 appartengo a una comunità dell’ordine dei cappuccini, che si dedica alla prevenzione e assistenza a persone che convivono con l’Hiv e lavoro nella pastorale dell’Aids.
Concepisco questo impegno come parte della mia vocazione francescana-cappuccina. Vocazione che si estrinseca a partire dalla fede e per questo la vivo come missione e non solo come filantropia.

La realtà dell’Aids nell’America Latina

Per capire la dinamica dell’epidemia in America Latina, occorre tener presente che essa è il continente dei contrasti sociali. Il Brasile, per esempio, è la 9ª potenza economica mondiale, ma occupa la 69ª posizione nella classifica degli indicatori sociali. Ciò significa che ci sono pochi ricchi e molti poveri e che la forbice si allarga di giorno in giorno: «I ricchi diventano sempre più ricchi, a spese dei poveri, che diventano sempre più poveri».
Ma la povertà non è limitata all’accesso alla ricchezza: essa si traduce in mancanza di casa, cibo, educazione, informazione, lavoro. La povertà diventa un vettore di incremento dell’epidemia.
I paesi con il più alto numero di sieropositivi sono Argentina, Brasile e Colombia; quelli con il più alto tasso di infezioni sono Belize, Guatemala e Honduras, con un tasso di incidenza dell’1%. I Caraibi sono la seconda regione del pianeta per tasso di infezione, con tassi di incidenza pari a 5,6 in Haiti e 2,3 nella Repubblica Dominicana. I paesi con le migliori coperture per le terapie antiretrovirali sono Brasile, Argentina, Cile e Messico.

Vincere la paura

La realtà in cui si dibatte il continente latinoamericano, con l’esperienza in essi maturata, mi spinge a proporre due prospettive: vincere la paura e costruire solidarietà.
Alla comparsa di un’epidemia segue, normalmente, la ricerca dei responsabili e delle spiegazioni della sua origine. Il primo atteggiamento è stato quello di attribuire a Dio la causa di tale malattia, come punizione esemplare contro i perversi.
Poi, quando si è capito che questa attribuzione non conveniva a Dio, si sono cercati tra gli esseri umani i responsabili della piaga. Facilmente sono stati trovati: omosessuali, tossicodipendenti, professionisti del sesso. Negli Stati Uniti si parla di quattro «H»: (h)emofilici, (h)omossessuali, haitiani e (h)eroino-dipendenti.
Oggi dobbiamo vincere la paura del virus, considerare che tutti siamo vulnerabili. Viviamo in un mondo con Aids. Viviamo in una chiesa con Hiv. Non tutti siamo sieropositivi per l’Hiv, ma tutti siamo coinvolti in questa realtà che ci tocca direttamente. Dobbiamo vincere la paura, poiché la paura non vince il virus.
Bisogna vincere anche la paura delle persone che vivono con l’Hiv. Rompere il «fare» discriminatorio e trattarle come esseri umani. Superare l’idea che tali soggetti sono malati perché colpevoli. In un certo senso, si tratta di «neutralizzare» la malattia, cioè, smitizzare, «smoralizzare», comprendere le persone con l’Hiv come si comprende una persona ipertesa o diabetica.
Vincere la paura attraverso l’informazione, la consapevolezza, la sensibilizzazione. Secondo Paulo Freire, grande pedagogo e educatore brasiliano, «nessuno educa nessuno, ma tutti si educano vicendevolmente». Nessuno si confronta con l’Hiv come un problema che lo riguarda, che lo tocca, se non trova qualcuno che lo provochi con forza a tale riguardo. Ossia, qualcuno che faccia riflettere sui valori, credenze, affettività, visioni dell’uomo e del mondo, che stabilisca un rapporto faccia a faccia, in grado di comprendere l’umanità che abita in ognuno di noi.
Evidentemente ciò non si fa con grandi campagne televisive, anche se questo non è del tutto inutile.

Costruire solidarietà

In America Latina è in corso un grande movimento di solidarietà verso le persone che vivono con l’Hiv. Sono molte le istituzioni e iniziative promosse da congregazioni religiose per offrire servizi, accoglienza e cure ai sieropositivi. Grande attenzione al problema esiste in tutta la chiesa in generale. In Brasile, per esempio, essa è molto attiva attraverso la «pastorale dell’Aids», in collaborazione con varie organizzazioni della società civile, rispondendo alle istanze del governo nella lotta all’Aids.
Si moltiplicano le iniziative da parte della gerarchia ecclesiastica, delle conferenze episcopali per incentivare questa solidarietà. Il 1º dicembre 2005, la Conferenza episcopale latinoamericana (Celam) ha pubblicato un documento intitolato: La Chiesa latinoamericana di fronte all’epidemia di Aids.
Si moltiplicano incontri, convegni, seminari per dibattere il problema. Nel luglio 2005 abbiamo organizzato il 1° Simposio latinoamericano e dei Caraibi per approfondire l’azione della chiesa cattolica nel mondo dell’Aids. Vi hanno partecipato un vescovo, religiosi, religiose e laici di 14 paesi dell’America Latina e Caraibi, oltre a una delegazione di Timor Est.
Il percorso fatto fino a oggi ci spinge a guardare avanti, affrontando altre sfide e prospettive; prima di tutto quella di rafforzare la rete latinoamericana di lotta all’Aids. Questa rete si sta allargando, con lo scopo di animare, articolare, stimolare la partecipazione di tutti i cristiani nell’affrontare l’epidemia e nel dare visibilità alle risposte ecclesiali in questo campo.
Altra sfida consiste nel disseminare il lavoro di cooperazione con la società civile e lo stato. In Brasile è in atto un’esperienza molto promettente: è il lavoro articolato tra il Ministero della Sanità e la Pastorale dell’Aids, dipartimento ecclesiale creato dalla Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb) nel 2001. Non si tratta di sostituire il governo, tanto meno di ripetere l’azione delle istituzioni pubbliche, ma di un lavoro complementare, in cui la chiesa contribuisce al controllo dell’epidemia a partire dalla sua visione, dalla sua spiritualità, dai suoi valori. Nonostante alcuni dissensi rispetto ad alcune pratiche del Ministero della Sanità, crediamo di poter dare il nostro contributo, a partire dalla nostra specificità.

SFIDA CONTINUA

La sfida più grande è il lavoro di controllo dell’Aids, in cui la chiesa deve avere un coinvolgimento sempre maggiore. Credo che la chiesa e la vita consacrata, con la sua dimensione profetica, possano contribuire in modo significativo e fare la differenza nella lotta contro l’Aids. L’impegno concreto permetterà di superare il pregiudizio corrente, secondo cui la chiesa ostacola il lavoro di prevenzione all’Aids.
È necessario abbandonare l’atteggiamento fiscalista, controllore; bisogna annunciare, piuttosto che esigere. Credo fermamente che il nostro primo obiettivo sia prendersi cura della vita. Dobbiamo salvare la vita anche di coloro che non sono in grado di osservare gli ideali che annunciamo. Sotto questo aspetto la dimensione profetica della vita consacrata può offrire un valido contributo.
La chiesa deve credere in ciò che la capacità umana può raggiungere. Non dobbiamo avere paura di sbagliare. Un sacerdote eudista colombiano, che ha imparato il cammino della prevenzione all’Aids vivendo accanto a professionisti del sesso, mi ha insegnato che è più produttivo chiedere perdono, anziché chiedere il permesso.
Nonostante tutto, la chiesa è un’istituzione che gode di credibilità e accettazione per l’impegno che svolge in questo campo: possiede strutture, risorse umane, mezzi di comunicazioni, disponibilità di volontari, capacità di contattare spontaneamente le persone. Nessun governo ha la possibilità di arrivare dove può giungere la chiesa, quando organizza un servizio specifico per affrontare i problemi dell’Hiv/Aids, mediante la pastorale dell’Aids.
Ciò vale anche a livello mondiale, contribuendo a raggiungere gli obiettivi del Millennio, che sintetizzerei in un’unica sfida: universalizzare la prevenzione, il trattamento e l’assistenza. Prevenzione intesa come intervento faccia a faccia, nella metodologia alla pari, rispettando la cultura, il processo di ogni persona.
Universalizzare il trattamento significa globalizzare l’accesso agli antiretrovirali e altri medicinali necessari alla cura delle infezioni secondarie. Una buona adesione al trattamento ripercuote, infatti, nella qualità della prevenzione, con la riduzione di ri-infezioni e contaminazioni.
L’assistenza include analisi, controllo medico, lotta alla povertà, reinserimento sociale, rispetto dei diritti e costruzione del senso di cittadinanza.
Che la forza dello Spirito Santo non ci lasci soccombere nella paura, ma ci aiuti nella costruzione solidale che preserva la vita e fa sorgere i segni del regno.

José Beardi




Ritorno disagiatoRiflessioni di un fidei donum rientrato in diocesi

L’evangelizzazione dell’Anaunia (Val di Non)
per opera di tre missionari venuti dalla Cappadocia (v sec.) è un esempio dello scambio del «dono della fede» tra le chiese dei primi secoli.
Tale tradizione è stata ripresa, dopo il Concilio Vaticano ii, con l’invio di preti «fidei donum» alle giovani chiese dell’Africa, Asia e America Latina, ma rischia di restare senza eredi.

Pochi mesi fa, ho visitato per la prima volta la basilica di Sanzeno in Val di Non. Ho sostato di fronte ai resti di martiri missionari del v secolo: Sisinio, Alessandro e Martirio e ne fui impressionato.

Nel silenzio della basilica ho tentato di ripercorrere mentalmente la loro vicenda umana e cristiana. Originari della Cappadocia, si misero in cammino verso Milano per approfondire la loro conoscenza nelle cose della fede presso il grande vescovo Ambrogio, che battezzò i due fratelli Martirio e Alessandro.

Su richiesta del vescovo Vigilio di Trento, Ambrogio gli inviò questi tre cristiani come un vero «dono della fede» (fidei donum), dopo aver ordinato Sisinio diacono, Martirio lettore e Alessandro accolito.

È un’antichissima storia di scambio di doni tra chiese, di missioni, di formazione di comunità cristiane e di martirio. Eppure essa ha tutte le caratteristiche di una storia attualissima. Così, questa visita alla basilica di Sanzeno mi è stata di stimolo, non solo a ripensare a me stesso come prete fidei donum, ma anche alle missioni affidate a dei preti la cui vocazione missionaria ha però una durata limitata di esercizio ed è vissuta come dono alla chiesa che riceve e alla chiesa che invia.

La mia vita «a incastro», durante la quale si sono alternati periodi di presenza «missionaria» in America Latina (10 anni) e in Tunisia (5 anni), con periodi prolungati nella mia diocesi di appartenenza a servizio di migranti e rom, nell’impegno di dialogo e prossimità con i musulmani, mi offre a tutt’oggi il pozzo da cui attingere per ripensare la missione.

Dalla Cappadocia alla Val di Non

Quando ci si sofferma a riflettere sulla quantità e tipo di relazioni che intercorrevano tra le società antiche, fino alla nascita degli stati nazionali, si resta sorpresi dalla mobilità che le caratterizzava. Basti pensare alla vicenda di sant’Agostino, di Antonio di Padova e di innumerevoli altre importantissime figure della chiesa e delle culture antiche. La libera circolazione delle persone non costituiva un problema per nessuno. Sisinio, Martirio e Alessandro in questo non si differenziavano dai loro contemporanei.

Nella vicenda dei missionari della Val di Non si combinano insieme, in maniera del tutto spontanea, la ricerca personale dei tre compagni, che li fa spostare da un capo all’altro dell’orbe mediterraneo; il mandato del vescovo Ambrogio; la richiesta del vescovo Vigilio e il fatto che tutto questo avvenga dentro un quadro ammirevole di libertà e santità di tutti i protagonisti.

La particolare vocazione fidei donum sia caratterizzata da questi tratti fondamentali e comuni. Nel prete fidei donum, a mio parere, è forte il sentimento della responsabilità e dell’appartenenza a una realtà universale, che va al di là delle limitazioni del territorio e altrettanto forte è il sentimento di una vocazione che è continua ricerca di una rinnovata fedeltà al vangelo: ricerca che non accetta di interrompersi mai nel corso di tutta la propria esistenza.

Questi due dati fondamentali che caratterizzano il cammino interiore della sua vita, sono poi riconosciuti e fatti oggetto di un «mandato» da parte di chi ha il compito di servire la chiesa e di assecondare la piena maturazione della vocazione cristiana di ciascuno all’interno di essa. La proposta del servizio si orienterà, poi, verso la chiesa che ne ha fatto richiesta.

Inseguire Ambrogio e rendersi disponibili alla richiesta di Vigilio: è la storia di tante vocazioni fidei donum.

Il sentimento di saturazione che a volte si prova nel servizio alla propria chiesa di origine può degenerare in frustrazioni e apatia; ma in alcuni, esso ha fatto nascere la ricerca e il desiderio di mettersi al servizio di altre esperienze di chiesa in Asia, Africa, America Latina; di conoscere altre figure di pastori capaci di condurre al cuore del vangelo e sperimentare altra libertà umana ed evangelica.

Bisogna comunque aggiungere che accanto a queste motivazioni più strettamente ecclesiali, nel nostro partire è stata determinante la convinzione che fra evangelizzazione e promozione umana esistesse un legame per natura sua inscindibile.

Vangelo e poveri costituirono la bussola che ci ha guidato in questa nostra ricerca, che qui, in casa nostra, si alimentava delle grandi prospettive pervenuteci dalla Pacem in terris e Populorum progressio; tali prospettive trovarono nella chiesa di arrivo non solo una conferma, ma un metodo, una spiritualità, un reale campo di azione e sperimentazione.

Se da qui partimmo con un entusiasmo un poco ideologico, non ci fu difficile trovare «nelle terre di Anaunia» una vita piena di relazioni, prospettive, azioni concrete, convinzioni condivise, motivazioni teologiche e spirituali, che contribuivano a darci la serena certezza di star vivendo una vita piena, in abbondanza.

Credo che le partenze maturate negli anni immediatamente successivi al Concilio erano particolarmente segnate da queste prospettive, che per certi versi le distinguevano un poco anche rispetto alle scelte per la missione maturate negli anni precedenti al Concilio.

Ho l’impressione che oggi si tende a sottovalutare l’aspetto della traiettoria personale che conduce i tre Cappadoci a mettersi sulla strada di Milano, attirati dalla figura di Ambrogio, alla ricerca di una maturazione di fede e di una vocazione cristiana mai conclusa.

C’è allora il rischio che «questo scambio di doni» si trasformi in un fatto burocratico; in un atto che prescinde dalla storia della persona e che perciò tende a non recepire le ragioni del «fecondo disagio» che ha condotto a questa scelta e gli stimoli culturali e spirituali della stagione nella quale essa si è espressa.

Ciò impedisce di capire anche la successione che, guardata dall’esterno, potrebbe sembrare incoerente, ma che in realtà si produce per dinamica intea rispetto a quei «punti di partenza» che hanno caratterizzato «gli inizi».

La missione in Anaunia

I tre Cappadoci che in origine probabilmente parlavano greco, che presumibilmente conversavano con Ambrogio in latino, sono inviati da Vigilio nella regione «barbara» di Anaunia (Val di Non) e restarvi per annunciare il vangelo.

Sarebbe sbagliato pensare che in Anaunia non esistessero lingue, culture e tradizioni religiose. Il «luogo sacro» dove successivamente si costruì lo splendido monastero di San Romedio ne è la prova.

Il primo problema che si pone al missionario è come vivere e come entrare in relazione con le persone del posto. Stile di vita e inculturazione, nella quale è compresa la conoscenza della lingua sono le due sfide primarie a cui si è chiamati a far fronte.

In una mia recente lettura, sono rimasto impressionato da un paragrafo dove si riferiva delle scelte di Giustino De Jacobis, santo missionario dell’Abissinia del secolo xix. «De Jacobis abbandonò definitivamente il proprio paese e la propria cultura… Liberatosi così da ogni legame straniero e ogni senso di superiorità, condivise ogni cosa con il suo popolo, secondo le locali condizioni di vita… A casa dormiva su un pagliericcio e, nei frequenti viaggi, su una pelle di vacca. Anche nei percorsi più lunghi camminava scalzo, passando la notte in una baracca o in una cavea. La cosa più importante, tuttavia, fu che De Jacobis non tentò mai di introdurre la liturgia latina, ma adattò il ge’etz e i riti etiopici» (Storia del cristianesimo in Africa, pag. 243-244).

Ho avuto la fortuna di conoscere un prete fidei donum bellunese, tuttora in servizio, che si è avvicinato molto a questo stile «de Jacobis». L’impatto che questa scelta suscita in tutti è molto forte e stimola in chi lo avvicina il desiderio di vivere con integralità il vangelo.

Inculturazione e durata

Il passaggio dal greco al latino e alla lingua locale deve essere costato non poco ai tre missionari martiri. Da sottolineare, inoltre, che tutta la loro avventura cristiana e missionaria fu vissuta in gruppo, cosa che senza dubbio li aiutò, prima di tutto, a crescere nella fede, poi, a svolgere il compito loro affidato e, infine, ad affrontare la suprema testimonianza del martirio.

Il processo d’inculturazione è stato descritto dai vescovi africani in questi termini: «L’inculturazione è Dio che scende ed entra nella vita, nei comportamenti morali e nella cultura degli uomini per liberarli dal peccato e introdurli nella sua vita e santità» (ottobre 2003).

Prima di partire per l’America Latina ci avevano detto che occorreva rinascere e darsi dei prolungati tempi di attesa. Ma rinascere in un contesto tunisino o ciadiano è indubbiamente un altro paio di maniche! I tempi sono diversi e le difficoltà molto più grandi.

C’è da domandarsi se e come l’esercizio ad tempus del compito missionario che caratterizza la scelta fidei donum possa essere adeguato a questa realtà. Un periodo di missione della durata di 10 anni che sembra garantito a tutti coloro che lo desiderano è sufficiente?

Con mia sorpresa ho potuto constatare che nelle circostanze attuali succede spesso che i preti fidei donum abbiano maggiore stabilità degli stessi membri delle congregazioni missionarie. Ma questo non aiuta molto a individuare prospettive per il futuro. Anzi, se si tiene conto che il missionario fidei donum è svincolato da tante necessità intee di una congregazione e che la sua scelta è fondata, oltre che su un «mandato», su una disponibilità vocazionale aperta, forse si può arrivare a intravedere una soluzione.

Tra i fidei donum ci sono persone che maturano se stesse e le loro scelte di vita in una progressiva identificazione con «un popolo di poveri» a cui sono inviati. È un processo, lento, ma inarrestabile, che dipende da avvenimenti e persone da cui si è coinvolti.

Mi domando: perché stoppare una storia personale e collettiva che acquista un sempre più profondo significato? Benché lontana, la vita di tali persone si carica di senso e diventa un segno anche per la chiesa che li ha inviati, purché questa relazione venga coltivata. In tali casi si dovrebbe tener conto dell’impulso vocazionale di queste persone, nella certezza che questo è utile all’una e all’altra chiesa.

Vivere tra due appartenenze ecclesiali

Se la scelta molto prolungata o definitiva ha valore di segno per le due chiese, il rientro nella chiesa di origine fa parte della particolare dinamica della vocazione fidei donum. A mio parere, è proprio il rientro che viene disatteso, sia nella riflessione che nelle scelte di collocazione dei preti in questione.

È innegabile che la scelta di partire, per essere ecclesiale, deve essere convalidata dal mandato; ma questo non può essere considerato come la ragione che la spiega e la motiva.

Una partenza «troppo obbediente» agli inizi e un ritorno senza problemi alla conclusione potrebbero essere il segno che ciò che si è vissuto con intensità e immensa generosità nel periodo passato ad extra abbia costituito una bella parentesi senza profondi collegamenti né con «il prima» né con «il dopo».

Il disagio del rientro non attende di essere riassorbito come una ferita che si rimargina con il tempo. Deve piuttosto diventare interrogazione su ciò e su come si vive qui. Anche se questo passaggio si gioca la particolare vocazione del fidei donum.

Al momento del rientro dovrebbe succedere che ci si interroga su tutto: sulla nostra teologia europea, che ha pretese di universalità, sulla nostra abitudine di contrabbandare i problemi dell’uomo occidentale come fossero «i problemi dell’uomo» tout court; sulle relazioni umane nella chiesa; sull’uso della libertà e l’esercizio della comune responsabilità all’interno di essa; sull’uso dei mezzi, denaro e strutture; sulla semplificazione della pastorale; sui grandi problemi che investono l’umanità e che sono vincolati al nostro «locale»: giustizia, povertà, informazione, uso delle risorse; sulle relazioni tra le religioni e tra le culture.

Si ritorna diversi; si deve ritornare diversi; si dovrebbe restare diversi, non per attaccamento nostalgico a ciò che abbiamo vissuto ad extra, ma per continuare a offrire quel «rotolo amaro» (Ez 2,9) che, qualora venisse ingoiato, diventerebbe dolce come il miele (Ez 3,3). Ho l’impressione che scelte un po’ troppo rassegnate potrebbero contribuire a sterilizzare il potenziale innovativo legato al «disagio del ritorno».

I mezzi dei fidei donum

L’ampia disponibilità di mezzi di cui normalmente gode un fidei donum costituisce un suo punto di forza, ma forse soprattutto il suo tallone d’Achille, se paragonati con quelli del clero locale.

Personalmente, soprattutto durante la mia prima esperienza missionaria ad extra, ne ho fatto molto uso all’unica condizione che i beni da essi prodotti non restassero di proprietà della chiesa, ma delle associazioni e organizzazioni popolari per le quali venivano usati.

Favorire le organizzazioni popolari rendendole autonome sotto il profilo economico mi sembrava una buona scelta. Altri miei amici, che a distanza di anni devo ammettere essere stati molto più bravi di me, hanno fatto delle scelte più radicali: si sono limitati a chiedere qualche cosa di essenziale e di piccola entità.

Nella mia personale esperienza non mi è mai accaduto di dovermi confrontare con la povertà di mezzi di cui, generalmente, patiscono i colleghi della chiesa locale. Come succede di frequente in Africa.

Uno stile di sobrietà oppure di povertà radicale bisogna saperselo costruire ogni giorno nella libertà e nella gioia. Un sobrio contento è sicuramente meglio che un povero scontento. Ho trovato che i poveri contenti sono generalmente dei creativi, che usufruiscono in maniera diversa da tutte le realtà della vita.

Mi diceva un prete povero: «Quando guardo la catena di montagne, nella limpidezza di un mattino di sole, mi dico: guarda che spettacolo gratuito di cui posso godere, sempre a mia disposizione».

La doppia appartenenza, inoltre, dovrebbe offrire al fidei donum validi criteri per aiutare la chiesa di origine a giudicare sull’opportunità o meno di certe opere che, viste esclusivamente con occhio occidentale, rischiano di essere considerate necessarie o comunque molto utili.

Non si tratta di fare i professionisti della profezia e, meno ancora, di sentirsi investiti di tale ruolo; ma semplicemente di mettere davanti a ogni altro criterio il diritto dei poveri ai beni della chiesa e di farlo con quella insistenza che di solito caratterizza le richieste del povero.

Abbiamo assolto al nostro compito?

Sembra che nei piani alti del potere ecclesiastico ci sia stata, nel passato, una certa preoccupazione nei confronti dei fidei donum che si reinseriscono in diocesi. Forse, oggi, i timori sono stati almeno in parte digeriti. Personalmente credo che, almeno per quanto ci riguarda, noi non abbiamo assolto totalmente al nostro compito nel farci portavoce nella profezia dei poveri del mondo.
In tutti questi anni, non abbiamo sentito il bisogno di trovarci in gruppo, per riflettere insieme su ciò che via via accadeva nella nostra chiesa. Non c’è stato neppure il tentativo, come è successo in qualche altra diocesi, di ritrovarci periodicamente insieme. La nostra inerzia di gruppo ha probabilmente rassicurato molto chi nutriva dei timori nei nostri confronti. Credo che abbia giocato non poco anche la differenza tra il servizio alla chiesa latinoamericana e quella africana.
Abbiamo saputo trasferire solo parzialmente quel clima di libertà e creatività all’interno del vivere ecclesiale, che hanno assicurato quel sentimento di pienezza e autorealizzazione sperimentato quando eravamo in missione. Ora in sede di bilancio, mi pare di dover concludere che ci si trova di fronte ad un’eredità un po’ dilapidata e quasi inesistente per le giovani generazioni di preti.Abbiamo qualche medaglia sul petto, magari di dubbia lega, ma siamo rimasti senza eredi, anche per colpa nostra.

Giuliano Vallotto




Tracce di consolazione

Problemi e prospettive di pastorale ed evangelizzazione missionaria fra gli indigeni del Chimborazo

Gli indios del Chimborazo, fra cui lavoriamo, come missionari della Consolata, nella diocesi di Riobamba, sono divisi in nazioni, secondo distinzioni originarie che risalgono al periodo preincaico. Si avvertono, tuttavia, forti influenze, pressioni sociali e mescolanze (sovrapposte e trasversali), frutto di più di 500 anni di impero ispanico.
Abbiamo di fronte, quindi, un ritratto culturale, politico e organizzativo ufficiale, che include, però, un volto nascosto e invisibile. Pubblicamente, la società indigena si presenta con un’ identificazione amministrativa secondo schemi comunitari (dal cabildo locale alla federazione intercomunale), che vive all’ombra di un’organizzazione classista, che si impone sempre di più come movimento sociale e politico. Tuttavia, a ben vedere, la realtà etnico-culturale che si manifesta, raggiungendo dimensioni drammatiche, è la solitudine: i bambini vanno soli, i giovani vanno soli, gli adulti vanno soli, le donne vanno sole. Le affermazioni unitarie, da parte delle varie giunte locali e organizzazioni, sono pura pubblicità senza una vera applicazione alla realtà perché, in fin dei conti, frutto di un’imposizione.

N onostante il contesto conflittuale, dovuto allo sforzo di promuovere e formare persone nel nostro territorio pastorale, si vedono già alcuni segni di consolazione. Questi segni traspaiono negli uomini e nelle donne che sentono l’esigenza di una riflessione critica, che iniziano ad interrogarsi, che si chiedono la ragione delle decisioni prese. A queste persone, ora, bisogna giustificare i passi intrapresi e la veridicità dei proclami pubblici.
Dal 1990, quando gli indios, per la prima volta, fecero sentire con forza la loro presenza e pretesero di essere considerati e consultati nelle decisioni, comincia una nuova fase. Emerge una presa di coscienza chiara, anche se ancora racchiusa dentro i segni incerti di un processo che è appena agli inizi e, perciò, ancora lento.
Un altro segno di consolazione appare nell’urgenza di ritornare alle caratteristiche culturali proprie: idioma, usanze, tradizioni. Si parla di pensiero proprio, codici di comportamento propri, anche di sistemi giudiziari e penalizzazioni sancite secondo antiche tradizioni popolari. Si afferma il bisogno di identificarsi con schemi differenti da quelli nazionali e, nella nuova costituzione, si parla di un Ecuador multietnico e plurilinguistico. Si riconoscono, perfino, come diritti costituzionali, i diritti collettivi delle differenti presenze etniche: nazioni indie e nazioni di origine africana.
Non mancano, tuttavia, segni di desolazione; uno dei quali è, senza dubbio, la mancanza di un concetto chiaro di «consolazione». Nell’idioma quichua ordinario, la lingua degli indios, il verbo «consolare» arriva solo a esprimere il «soffrire assieme». Il significato che noi diamo alla parola consolare, quello, cioè, di «fare felice qualcuno» non entra ancora nel linguaggio comune. «Maria Consolata» diventa così «dolorosa», colei che soffre i nostri mali.
Un altro segno di desolazione è la «comunitarietà», identificata e venduta come caratteristica peculiare della comunità, soltanto da chi non è in grado di leggere molto a fondo la realtà. Di fatto, manca la intercomunitarietà negli eventi quotidiani della vita interfamigliare e sociale. La mentalità chiusa e la diffidenza tra comunità vicine fanno pensare ad una mancanza di riconoscimento dell’altro a livello basico.
La nostra risposta religiosa e missionaria, a livello istituzionale, parte con buone intenzioni ma, certamente, non è in grado di andare oltre le parole e le inquietudini.
Lo sforzo per programmare incontri, a ogni livello di categoria e geografia, è intenso. Dialogare è un fattore estremamente positivo e, senza dubbio, mai prima d’ora, si era verificata tanta promozione di dialogo come oggi. Si corre però il rischio che tutto questo dialogare si risolva, alla fin fine, in meri incontri organizzati per «esigenza di copione», in cui non riesce ad emergere la chiave di lettura della realtà. Non si riescono a vedere cambi di mentalità, sforzi sinceri per verificare le posizioni programmatiche e un lavoro che conduca a valutazioni schiette della realtà. Si avvertono critiche, lamentele, malesseri: l’arca è grande e, alla fine, c’è posto per tutti e per tutto. Si continua a parlare di famiglia, ma in realtà i problemi di convivenza fratea sono feriti e minimizzati. È preferibile, quindi, insistere a parlare di comunità, perché, in fondo, la comunità è un ufficio grande, dove i professionisti possono convivere benissimo otto ore al giorno, per poi ritornare ciascuno alla propria famiglia, alla propria solitudine e ai problemi di sempre.

P enso che ci sarebbe la possibilità di esprimere il nostro carisma in sintonia con il contesto reale. Lavoriamo per costruire una chiesa che sia comunione di fede, speranza e carità. In tal modo, la consolazione lavora per inserire nella chiesa una volontà caratteristica di apertura, disposta a restituire la visibilità culturale e spirituale propria, interrotta nel passato.
Se la chiesa è davvero sacramento universale, gli indigeni dovrebbero riuscire a diventae segni idonei. Dovrebbero «rivestirsi di Cristo», senza scartare le proprie memorie; arricchirsi del pensiero cristiano, senza disattivare completamente il proprio pensiero.
Ci sono dei paradigmi, oggi, in grado di esprimere l’esigenza di rispettare ed esprimere il «proprio» culturale. Si potrebbe cominciare con un paradigma di inculturazione pastorale. Il primo passo dovrebbe essere quello di «indigenizzare» i posti pastorali, facendo in modo che gli agenti di pastorale indigeni siano una maggioranza e che, di conseguenza, si possano fare programmazioni e valutazioni, partendo dalle forze locali. In questo modo, risulterebbe più facile capire se la diversità culturale ha davvero l’opportunità di essere avviata verso un’interculturalità creativa, per un rinnovamento pastorale nella pratica della evangelizzazione.
Noi siamo ancora troppo legati a consolazioni «materiali». Si continua a lavorare in ambiti di promozione sociale, di assistenza giuridica nei casi di ingiustizia contro i poveri, di sviluppo e formazione della leadership, nel tentativo di creare una mentalità comunitaria in grado di affrontare problemi di disabilità e altri ritardi o limiti, fisici e mentali.

L a chiesa locale, dal canto suo, non va oltre la «stagione della parola». I documenti sono coraggiosi per la critica e l’indignazione che esprimono. Diventano lettura ardita e meditazione interessante; ma rimangono solo buone intenzioni. Quelli che hanno firmato i manifesti incontrano insuperabili difficoltà a realizzare quanto scritto e, arrivati al dunque, a puntare esplicitamente il dito contro i colpevoli.
Per agire, si dovrebbe essere capaci di rispondere con decisione alle seguenti domande:
1. Che tipo di consolazione si considera necessaria per gli oppressi, oggi?
2. Che stile di presenza missionaria esige un ideale così impegnativo?
3. Che aspetti e atteggiamenti dovremmo approfondire e trasformare, a livello personale e comunitario, come regione e come continente, per vivere con maggior coerenza il nostro carisma di consolazione nell’oggi della storia?
Sono tutte eccellenti domande che si scontrano, oggi come oggi, con la nostra povertà «numerica» e qualitativa e che, molto difficilmente, potrebbero essere elaborate in risposte credibili e vissute. Consoliamoci, almeno, con la nostra caratteristica misericordiosa, che emerge nonostante tutto e che aiuta a superare la tristezza di quello che passa il convento.
Diceva Fito Paez (cantante argentino): «Quién dijo que todo está perdido? Yo vengo a ofrecer mi corazón…» (chi ha detto che tutto è perduto? Io vengo a offrire il mio cuore).

Giuseppe Ramponi