Perù. Contro i terroristi, contro l’ingiustizia

L’epoca di Sendero Luminoso è durata 20 anni; l’ingiustizia e la povertà fanno da sempre la storia del paese latinoamericano.
Gastón Garatea Yori, prete di Lima, lotta per riparare ai danni del terrorismo e per dare una vita dignitosa alla popolazione peruviana che ancora vive nella povertà.

Lima. In Perù è molto conosciuto perché presidente della Mesa de concertación para la lucha contra la pobreza, organismo contro la povertà istituito nel gennaio 2001. Padre Gastón Garatea Yori mi accoglie nel suo ufficio al 1155 di Avenida Benavides, a Miraflores, un distretto della capitale peruviana. Barba e capelli bianchi, padre Garatea, 66 anni, ha l’aspetto di una persona tranquilla e semplice. Sul tavolo del suo ufficio sono impilati i 9 volumi dell’Informe final, il rapporto finale della Comisión de la verdad y reconciliación, la commissione istituita per indagare su 20 anni (dal 1980 al 2000) di terrorismo e guerra civile in Perù. Padre Garatea è uno dei 12 membri di quella commissione, che nel paese tanto ha fatto discutere.

La guerra civile in Perù:
69.280 vittime

Presidente della Tavola nazionale per la lotta alla povertà, membro della Commissione per la verità e la riconciliazione: lei è una persona importante, padre…
«Non tanto – si scheisce -. Non credo. Lei mi conosce soltanto perché fa il giornalista».

Il rapporto finale della Commissione per la verità e la riconciliazione è stato presentato il 28 agosto 2003, dopo due anni di lavoro. Qual è il suo giudizio?
«Era stato previsto che questo lavoro sarebbe durato 6 o 7 anni, mentre poi è stato concluso in due. Abbiamo indagato il fenomeno del terrorismo in Perù e i motivi che lo hanno determinato. Abbiamo fornito una interpretazione storica. Siamo quindi arrivati a tutti i punti importanti, i punti chiave, e questo è giusto sottolinearlo.
Io credo che la Commissione per la verità sia stata una delle più grandi iniziative intraprese in Perù».

E che ci dice sulle persone che l’hanno composta?
«Un eccellente gruppo, costituito da persone molto competenti. Sì, non ho dubbi al riguardo: persone valide, indipendenti, disinteressate, votate alla sola ricerca della verità, persone animate da un grande spirito di gruppo. Avevamo molte diversità (di provenienza, radici ideologiche, professione), siamo però riusciti a lavorare in gruppo, con grande spirito comunitario».

Il vostro rapporto parla di 69.280 vittime.
«… ma forse sono di più. Significa circa due milioni di persone coinvolte».

Le vittime furono in grande maggioranza poveri, molti parlavano “quechua” ed erano semianalfabeti…
«Quando le persone morivano sulla sierra, il potere centrale e la gente continuavano la propria vita come se nulla fosse successo. Quando l’ondata di terrorismo giunse a Lima, allora sì che le cose vennero prese sul serio».

Il gruppo di “Sendero Luminoso” è stato ritenuto responsabile del 54% di quelle vittime. Su quali basi ideologiche si formò Sendero?
«Ebbe un fondamento comunista-marxista-leninista-maoista che si proponeva di aiutare il popolo peruviano. Ma fu un’esperienza fallimentare: si cercò di imporre un regime totalitario basato sulla dittatura del proletariato. Questa dittatura avrebbe dovuto essere conseguita alla maniera di Mao: attraverso una rivoluzione che doveva partire dalle campagne per arrivare in città. Per questo si cominciò con una sensibilizzazione dei contadini. Io credo che questo lavoro non venne fatto a dovere. Si iniziò, ma non fu tanto incisivo quanto fu forte la violenza e la violenza, una volta innescata, non si riuscì più a fermarla. E, come succede spesso, i movimenti che usano la violenza non hanno più tempo per pensare».

Il “Movimiento revolucionario Tupac Amaru”, meglio noto con l’acronimo Mrta, è stato ritenuto responsabile soltanto dell’1,5 per cento delle vittime. In che differirono da Sendero?
«L’Mrta ebbe una grande risonanza per l’assalto all’ambasciata del Giappone (dicembre 1996-aprile 1997), ma non ebbe mai la stessa forza di Sendero, né la stessa organizzazione. Nell’Mrta c’era più consapevolezza politica; assaltavano banche e a volte uccidevano, ma non si potevano paragonare alla forza distruttiva di Sendero».

Il rapporto della Commissione è molto duro anche nei riguardi delle forze armate e della polizia. Come reagì lo stato all’inizio della guerra sporca?
«Lo stato reagì in modo sbagliato, perché non capì l’impatto politico. Pensò piuttosto che si trattasse di delinquenti comuni e agì di conseguenza».

Alla guida del paese ci furono presidenti diversi…
«All’inizio ci fu Feando Belaunde (1980-1985), seguì Alan García (1985-1990) e infine Alberto Fujimori. La guerra ebbe varie tappe. Il biennio più duro fu tra il1983 e l’84. Lo stato non capiva chi stava affrontando e tutto quello che si faceva era uccidere e questo fu un gran errore. Quando Alan García diventò presidente affermò che il terrorismo andava combattuto con lo sviluppo e questa avrebbe potuto essere una buona tattica, molto interessante. Cominciarono a diminuire gli attentati. Però nel giugno 1986 ci fu una rivolta in tre carceri di Lima (Lurigancho, El Fronton e Santa Barbara). Il governo ordinò l’intervento delle forze armate e ci fu una mattanza di prigionieri. Così arrivammo all’anno ’89 con un altro picco di violenza. Poi iniziarono a venire alla luce molti fatti: la corruzione nell’esercito, i legami tra Sendero e il narcotraffico, le infiltrazioni nei corpi dello stato…».

Poi, nel 1990, arrivò Alberto Fujimori e con lui Vladimiro Montesinos…
«Fujimori si rese conto che il terrorismo era la cosa più tragica e si buttò in questa guerra terribile avvalendosi dell’intelligence. Assestò duri colpi al terrorismo, ma allo stesso tempo diffuse la corruzione che arrivò ai massimi livelli. Vladimiro Montesinos, capo dei servizi segreti, aveva in pugno Fujimori e Fujimori accettava tutto».

Anche esecuzioni, sparizioni, torture, stupri. Anche i tribunali militari e i giudici “sin rostro”, senza volto perché erano incappucciati…
«I tribunali militari emettevano giudizi sommari e i giudici senza volto definivano sentenze ancora prima di iniziare i processi. I militari non erano giudici, non avevano una preparazione in tema di giustizia. Insomma, il sistema non permetteva l’esercizio di una giustizia giusta».

Il capo di Sendero, Abimael Guzmán Reinoso, detto Presidente Gonzalo, è incarcerato dal settembre 1992. Lei lo ha mai incontrato?
«Sì, nella base navale, dove è rinchiusa la cupola delle due organizzazioni. Ci sono anche Feliciano, Miguel Rincón Rincón, Victor Polay Campos».

Come fu l’incontro con lui?
«Un incontro istituzionale. Si sarebbe potuto credere più impressionante, ma lui è un filosofo. Certo un filosofo di secondo piano, ha elaborato una concezione molto chiusa, ermetica. In questo senso, non discute con l’altro: racconta, ma non si mette in discussione, non si lascia interrogare, come sarebbe proprio del filosofo che vive l’angustia delle domande. Guzmán ritiene invece di avere i suoi concetti ben chiari, di tenere il pensiero saldamente nelle sue mani».

Quanti anni ha ora?
«Una settantina. Non è molto vecchio ma è malandato di salute, perché ha sulle spalle tanti anni di carcere duro. Inizialmente aveva il diritto di uscire dalla cella solo mezz’ora al giorno e c’erano anche dei giorni in cui non poteva uscire. È stato condannato ad un anno di isolamento totale che poi sono diventati quattro anni. C’è da meravigliarsi che non sia ancora più provato da questo regime carcerario molto duro. Non è un uomo denutrito, è ben vestito, è lucido, segue bene la conversazione. L’ho trovato realista, è consapevole che morirà in carcere. Non si fa illusioni».

Prova compassione nei confronti di quest’uomo su cui gravano responsabilità tanto pesanti?
«Certo, si prova pena, perché è un essere umano, ma è una pena relativa se si pensa alle cose che ha fatto».

Il governo di Toledo ha ostacolato il vostro lavoro?
«All’inizio c’è stata molta gente che era contro la Commissione per la verità; ci trattavano come tendenziosi, ci fu gente che espresse giudizi gratuiti, alcuni addirittura ci insultarono. Da parte del governo non siamo stati sottoposti ad alcun tipo di pressione. Altri invece sì, ci hanno tenuti sotto pressione, anche indagando sul passato di uno o di un altro membro della Commissione, cercando di metterci in cattiva luce».

Il partito aprista (Apra,”Alleanza popolare rivoluzionaria americana”) era al governo negli anni duri della guerra. Come ha guardato al vostro lavoro?
«L’Apra ci ha seguito molto. Temeva che attaccassimo la sua dirigenza, ma noi non avevamo nulla contro il partito, anche se è certo che abbia agito molto male in varie circostanze. Contro l’Apra avevamo argomenti etici, politici, sociali, ma nulla di penale».

Dopo due anni di lavoro nella Commissione, cosa sente dentro di sé?
«Molte cose. Non siamo gli stessi di quando abbiamo iniziato: quello che abbiamo visto e sentito; le lacrime e la pena di vedere questo paese dissanguarsi. Tutti noi siamo stati colpiti. Io sono diventato diabetico».

Uno degli imperativi della Commissione dice: “Un país que olvida su historia está condenado a repetirla”, un paese che dimentica la propria storia è condannato a ripeterla. Bello, ma la verità è stata raggiunta?
«Sì».

Solo la verità? E la giustizia?
«In un qualche modo anche la giustizia. La maggior parte dei senderisti è stata imprigionata e questa è già giustizia. Ci sono state detenzioni di militari ma all’appello ne mancano. Manca infine tutto quello che riguarda le riparazioni, tanto collettive quanto individuali».

Le riparazioni alle vittime non si sono viste. Ma anche le richieste di “cambi istituzionali” in vari ambiti (politici, giudiziari, educativi) sono rimaste lettera morta. Che ne pensa, padre?
«Io credo sia un errore grandissimo, un grandissimo errore politico. La Commissione chiedeva cambiamenti strutturali, riforme dello stato, un nuovo ordinamento. Invece i politici stanno insistendo con lo stesso sistema del passato. Per questo sono da ritenersi responsabili della povertà, del sottosviluppo, della schiavitù di molti peruviani. Spiace parlare così, perché uno ama il proprio paese e la propria gente, ma questo è ciò che sta accadendo».

È preoccupato?
«C’è timore. Io personalmente ho molta paura che una cosa simile a quella sofferta per 20 anni torni a fare la propria apparizione. Non dico che sarà domani, non dico che sarà per i motivi politici del passato, ma potrebbe succedere. Le tensioni potrebbero provenire dal settore minerario o contadino o anche da settori commerciali. C’è un’esigenza di libertà e di giustizia che sale dai settori poveri, ma è un’esigenza che non ha trovato ascolto nello stato».

Un paese
con 15 milioni di poveri

I settori poveri della società peruviana lei li conosce bene in qualità di presidente della “Tavola di concertazione per la lotta contro la povertà”. In primis, la Tavola è un’ organizzazione governativa?
«Non proprio: è un ibrido tra lo stato e la società civile. Qui lo stato è abituato a comandare, ma la società civile ha le sue istanze. Noi abbiamo cercato di iniziare una collaborazione: piani congiunti per lo sviluppo, affinché le persone possano dire la loro e possano segnalare le proprie priorità. Ad esempio, il poter mangiare: le grandi opere non sono importanti come la sopravvivenza. Questo è un lavoro lungo, ma è una grande scuola di partecipazione e di gestione del bene comune. I frutti, prima o poi si raccoglieranno».

Ma cosa significa essere povero oggi in Perù?
«Cominciamo col dire che la povertà non è una condizione solo economica. Il povero è quello che non ha opportunità e non ha opportunità perché è escluso dalla società, una società che ha obiettivi che non sono per i poveri. Sono per gente altra: un’altra razza, un’altra cultura, un’altra lingua, un altro modo di vestire, un altro colore della pelle, un’altra statura…».

Scusi un attimo… lei intende statura fisica?
«Certo, la statura degli indigeni si abbassa, mentre quella degli altri cresce. È impressionante vero?».

Impressionante.
«Sono due paesi mescolati con un’invasione della capitale da parte della provincia. Questo fenomeno ebbe inizio negli anni ‘40, aumentò negli anni ‘50-’60 fino ad arrivare alla presa di Lima negli anni ‘80, Lima fu veramente occupata dal resto del Perù. Le famiglie di Lima sono uscite dal centro della città per fuggire dall’invasione della provincia».

Dalla provincia… Si tratta, dunque, soprattutto di popolazione indigena?
«Indigena che parla quechua. Il dipartimento del Perù dove si parla più quechua è quello di Lima. Questa massa di poveri che giunge nella capitale arriva nelle peggiori condizioni, e con un bassissimo livello di istruzione».

La scuola pubblica è così scadente?
«Le scuole pubbliche, nella maggior parte dei casi, sono molto malandate. Per le buone scuole bisogna pagare. E così avviene per le università: molti possono accedervi, ma le migliori sono quelle private, che tengono corsi a pagamento. Ci sono buoni corsi anche in università pubbliche (alla San Marcos, ad esempio), ma vi sono università di provincia, cui tutti possono accedere, che non si dovrebbero neanche chiamare università. È un problema reale, perché già qui avviene una separazione: tra chi ha opportunità e chi non le ha. Così, se si deve assumere un funzionario, gli si chiede da quale università proviene e quindi non tutti hanno le stesse possibilità. Dobbiamo fare ancora molta strada, per poter offrire un’educazione di buona qualità a tutti i peruviani. E la stessa cosa vale per la sanità».

Quanti sono ora i poveri in Perù?
«Quindici milioni».

E in percentuale?
«Quasi il 60% e di questi il 25% si trova in una condizione di estrema povertà, cioè non ha i mezzi necessari per la sopravvivenza. Sono persone in continuo pericolo, senza difese organiche, persone che muoiono per una malattia che ad un altro causerebbe solo un malessere».

Anche a Lima ce ne sono?
«Anche a Lima ci sono persone in condizione di estrema povertà, ma non tanto come in altre zone. Nel dipartimento di Huancavelica i poveri sono praticamente la totalità. A Cajamarca, terra di miniere di oro, il 48% dei bambini si trova in condizioni di denutrizione cronica…».

Di miniere si sta discutendo molto in Perù in questi anni…
«Nel dipartimento di Puno c’è una miniera dove lavorano i bambini. In un’altra, altissima, la gente non è neppure attrezzata, non avendo scarpe adatte per camminare sul ghiaccio. E poi è un disastro dal punto di vista morale: la metà delle case sono postriboli e l’altra metà sono discoteche. Non c’è speranza di vita e non c’è gusto per la vita.
Nessuno dà importanza alla vita del povero e loro sono abituati a questo. La gente lavora, si ammala, invecchia in fretta e muore ancora giovane. Costa molto convincersi che pure i poveri hanno i loro diritti. Alcuni iniziano a rendersene conto, ma le grandi strutture no, e men che meno le compagnie minerarie. Non può essere che nei luoghi dei giacimenti minerari vi sia estrema povertà e nel contempo grandi ricchezze».

L’attività mineraria è importante per il paese?
«In Perù, l’agricoltura è sviluppata sulla zona costiera, ma se abbiamo il 10% coltivato è già molto, il resto è deserto; la nostra sierra invece produce soltanto patate. Abbiamo miniere, quelle sì: oggi il 53% delle entrate del paese proviene dalle risorse minerarie. Quelle d’oro sono le terze per importanza nel mondo. C’è una quantità d’oro che nemmeno i padroni sapevano di possedere».

Le miniere stanno in terre indigene…
«Il problema minerario è innanzitutto un problema indigeno. D’altra parte, la questione indigena non è stata compresa per secoli ed ora inizia ad esplodere. Dopo 500 anni, bisogna tentare di riparare le ingiustizie. Sarà molto difficile, ma bisogna provarci».

Qual è la percentuale di popolazione indigena in Perù, più o meno?
«La metà, un po’ meno che in Bolivia. È gente che nasce povera ed è condannata a morire povera, perché lo sviluppo non arriva fino alle zone in cui vivono».

Le popolazioni indigene della Bolivia e dell’Ecuador, stanche di subire ingiustizie, fanno sentire la loro voce in maniera sempre più forte e chiara…
«Bolivia, Ecuador e Perù sono i tre paesi dell’ insurrezione indigena. Adesso bisogna fare molta attenzione, affinché ci sia sì una liberazione dall’ oppressione della povertà, ma una liberazione incruenta guidata dalla giustizia».

L’oppressione della povertà
e l’economia neoliberista

Padre, lei parla di “liberazione dall’oppressione della povertà”. Il sistema economico neoliberista che domina attualmente il mondo moltiplica ingiustizie e diseguaglianze. La liberazione inizia dalla fine del neoliberismo?
«Il neoliberismo cerca di fare in modo che la gente consumi sempre di più. Io penso che dentro un sistema siffatto non ci siano possibilità di riscatto per i poveri. Purtroppo, è un sistema che ha invaso tutto il mondo, persino la Cina. Ma il trattamento dei lavoratori è pessimo tanto per i peruviani quanto per i cinesi».

Questo sistema economico morirà?
«Io credo che nessuno lo possa salvare e che per questo morirà».

Ma morirà senza lottare?
«No, cercherà di salvarsi, ma credo che non abbia futuro perché l’esigenza della maggioranza è molto forte. Io penso che la coscienza di diritti umani uguali per tutti è cresciuta molto. Come pure è cresciuta la consapevolezza che l’economia non può essere l’aspetto fondamentale della vita. A chi dice che l’economia deve dirigere tutto, io rispondo che è il sociale che deve dirigere l’economia e il sociale deve essere guidato da uno spirito umanitario».

Il credo neoliberista è stato esportato nel mondo dagli Stati Uniti. Come prete cattolico, cosa pensa di Bush, un presidente che ricorda spesso il suo essere cristiano…
«Bush è il rappresentante di un cristianesimo fondamentalista. Non è un uomo di riflessione cristiana, non ha una visione del mondo basata su veri principi del vangelo. Io quel cristianesimo non lo accetterò mai, perché credo che il cristianesimo vero sia mettersi nell’ottica di Gesù di Nazareth e cioè nell’ottica dei poveri per creare un mondo migliore, di uguaglianza e giustizia. Questo non è il mondo a cui pensa Bush».

Lui dice di agire per la libertà…
«Questa è una menzogna. Bisogna dirlo con molta chiarezza: è una menzogna. Penso però che occorra distinguere Bush dal popolo nordamericano, anche se io rimprovero ai nordamericani di averlo rieletto, questo sì. Possono essersi sbagliati una volta, ma due volte è molto. Comunque, penso che quel popolo abbia bontà e generosità come tutti i popoli del mondo. Che poi i nordamericani siano neoliberisti è un’altra cosa: è il sistema ad essere tale ed è un sistema che si sta deteriorando. Gli Stati Uniti sono un popolo senza giovani, tanto che non hanno persone per rimpiazzare gli attuali funzionari dello stato. Per questo nazionalizzano i latinoamericani che si recano là, almeno i più efficienti tra loro. Offrono buoni stipendi ed essi si fermano. Così si sta trasformando la società nordamericana: non sono più alti e biondi, ma bruni, parlano castigliano, hanno sangue latino».

Questa mi pare una buona cosa sia per l’America Latina che per il mondo!
«Non posso dirlo, perché non so se questi latinoamericani che diventano nordamericani manterranno la loro testa diversa o la cambieranno. Il neoliberismo è molto insinuante.
Ed il gusto di essere grandi e potenti… ubriaca».

“Ubriaca”… è interessante la sua affermazione…
«La cosa più terribile del mondo è il potere del denaro. Se si può guadagnare, meglio, ma ci sono dei limiti… Su questi temi l’Europa si sa destreggiare meglio perché l’Europa sa riflettere».

Ma l’Europa è divisa e Bush è contento che lo sia.
«Certo che è contento! Ma l’Europa ha gente che pensa, ha filosofi, ha grandi pensatori, è innegabile. La cultura europea è più profonda di quella nordamericana».

Secondo lei, è giusto pensare che l’America Latina si andrà a poco a poco unendo perché sente di avere radici comuni, perché capisce che unendosi può diventare più forte? È così o è soltanto un sogno?
«Credo che sia un sogno, perché le divisioni sono molto grandi. Sebbene i cileni vadano a Buenos Aires e gli argentini alla spiaggia di Viña del Mar, questo non significa nulla. Tra Colombia e Venezuela, dove peraltro vivono molti colombiani, succede lo stesso. Tra Cile e Bolivia c‘è una barriera storica importante e così pure tra Perù e Cile. Abbiamo cioè divisioni molto profonde e molto sostenute dagli Stati Uniti: agli Usa conviene un continente diviso».

D’accordo. Ma, secondo lei, i popoli indigeni del continente latinoamericano non potrebbero costituire l’elemento coagulante?
«I popoli indigeni sono numericamente consistenti in Perù, Bolivia ed Ecuador. Poi ci sono alcune popolazioni in zone marginali: in Argentina, in Brasile, in Cile (i mapuche). L’Argentina è una provincia italiana: basta guardare l’elenco del telefono. Buenos Aires è una città europea. Non ha nulla a che vedere con le radici indigene: è una città di gente immigrata, e così, sotto alcuni aspetti, anche Santiago del Cile. L’America bianca non è l’America Latina. L’altra America, quella scura di pelle, è differente».

Toledo: il razzismo (bianco)
contro un indio (di fabbrica)

Padre, il presidente uscente, Alejandro Toledo, è un indio!
«Un indio de fábrica».

Cosa significa?
«Toledo ha studiato negli Stati Uniti e sotto molti aspetti è un nordamericano dipinto da indio. Non ha una cultura tanto ispanica come quella che abbiamo qui a Lima. Lui ha una cultura più pratica, come i nordamericani».

Nel 2001 Toledo iniziò con molte aspettative da parte della maggioranza dei peruviani, che oggi, dopo 5 anni di governo, si dicono molto delusi di lui. Qual è il suo giudizio?
«Toledo ha fatto cose molto buone. Ha messo ordine all’economia. Ha migliorato le finanze del paese e dato impulso alla crescita: 4-5% su base annuale è molto.
La povertà è diminuita, anche se non come avremmo voluto, ma è diminuita. In provincia i posti di lavoro sono aumentati più che a Lima e questo è importante. Ci sono più medici, più maestri; che ci siano ancora molti problemi è certo, ma questo non significa che non stiamo progredendo.
Il presidente ha invece combinato disastri nel trattamento della cosa pubblica; ha maneggiato molte cose come se fossero una sua proprietà personale; ha utilizzato male il potere.
È stato detto che Toledo avrebbe dovuto cambiare due cose attorno a sé: partito e famiglia».

Include anche la moglie, Eliane Karp?
«Anche la moglie. La moglie non ha avuto il carisma che sarebbe stato necessario; non ha trattato bene il popolo peruviano. Lei dice: non sono latina, non ho alcuna caratteristica simile alla vostra, provengo da un’altra cultura, ho un’altra mentalità e continuo a conservare questa mentalità. È stata poco diplomatica ed è stata poco amata dal paese e questo ha avuto un riflesso negativo su Toledo. Toledo con un’altra moglie avrebbe potuto essere più amato».

E sulla corruzione che dice?
«Il tema della corruzione è un tema molto vasto e importante per il paese. Toledo non ha saputo combatterla. Non è aumentata, ma non è diminuita come invece stava diminuendo negli otto mesi di governo di Paniagua. Non si è andati avanti come si sarebbe dovuto».

Toledo è stato un presidente, un «indio de fábrica» come dice lei, che i mezzi di comunicazione peruviani hanno sempre pesantemente criticato. Secondo lei, hanno esagerato?
«Sono stati sicuramente troppo cattivi. Gli hanno trovato tutti i difetti possibili e non hanno sufficientemente sottolineato le buone qualità del suo governo. Non va dimenticato che i media peruviani sono stati molto compromessi con il fujimorismo, una mentalità questa che ha influenzato il loro giudizio. Infine, i padroni dei mezzi di comunicazione non hanno perdonato che Toledo, un indio, sia diventato presidente della repubblica».

Razzismo?
«Sì».

Razzismo bianco?
«Certo. Questo è un grosso problema, anche se non si può generalizzare. All’inizio sembrava una bella storia: la vicenda di un indio della sierra che aveva studiato negli Stati Uniti, che aveva avuto molte soddisfazioni professionali e che infine era tornato in Perù per mettersi al servizio del paese… Invece poi come è stato visto? Come un uomo che si è messo dove non avrebbe dovuto mettersi: queste sono cose che succedono in un paese razzista».

Razzismo o meno, Toledo è stato al centro di numerosi scandali personali…
«Ha sicuramente sbagliato tante cose. Ma io credo che il suo governo non sia stato tanto cattivo come si dice. Per sintetizzare, direi che è stato un governo buono, con molte cose negative».

Tra García, Flores e Humala

Dopo Toledo, è possibile che torni ad essere presidente Alan García?
«L’Apra è il principale partito peruviano, dal momento che tutti gli altri sono piccoli schieramenti. Alan García è un uomo molto abile, ma in questo momento non so se potrà essere il prossimo presidente del Perù».

Se non lui, chi allora?
«Paniagua sarebbe la scelta migliore, ma Paniagua non è un politico agguerrito, non è uno che si fa largo parlando male degli altri, è un simbolo di onestà».

E Ollanta Humala? Lo scrittore Mario Vargas Llosa ne ha scritto malissimo. Lei che pensa al riguardo?
«Il mio modo di vedere è diverso da quello di Vargas Llosa. La mia critica verso Ollanta Humala parte dal fatto che lui è un uomo con tutte le caratteristiche tipiche dei militari che si mettono in politica: autoritarismo, poca capacità di ascolto, interpretazione militaresca di ogni cosa».

Padre Garatea, per concludere, tenti una previsione , faccia un nome…
«Io ho paura che la destra torni a prendere il potere: la loro rappresentante, la signora Lourdes Flores, è una candidata molto forte. Però, nella politica peruviana tutto può succedere. Non è mai successo, nella nostra storia recente, che siamo stati capaci di annunciare il vincitore in anticipo».

(fine 2.a puntata – continua)

Paolo Moiola




Tracce di futuro

Un viaggio in Africa, a contatto con le missioni e i missionari, può essere «l’occasione da non perdere», per chi vuole imparare a guardare la realtà dietro le cose e continuare a sognare che «un altro mondo è possibile». Ancora una volta, i poveri hanno molto da insegnarci… se siamo capaci a metterci in ascolto.

«I l futuro non ci porta nulla, non ci dà nulla; siamo noi che, per costruirlo, dobbiamo dargli tutto». È stato un viaggio attraverso alcune zone del Kenya, dove operano i missionari della Consolata, a dare un nuovo significato alle parole di Simone Weil, sul cui pensiero medito da anni.
Il viaggio era finalizzato all’incontro con una parte della popolazione e alla conoscenza di alcune attività missionarie che si svolgono in quei luoghi; ha avuto, però, anche la forza di obbligarci a contemplare la paradossale sproporzione tra l’assoluta bellezza degli spettacoli naturali e l’estrema ingiustizia che segna alcune vite umane. Forse, l’incontro con questa realtà ci ha aiutati a tener viva la fiducia nella possibilità di un mondo più equo.

IL CAMMINO DI SOWETO

Il Kenya riflette tutte le contraddizioni che dilaniano il nostro mondo globalizzato e la sua capitale ne è, in un certo senso, un concentrato. Nei «quartieri-bene» di Nairobi si intravedono ville di lusso, immerse in parchi da sogno e difese da alti muri, da filo spinato, anche da guardie; al centro della città e nei suoi rioni periferici residenziali, centri commerciali, banche e grandi alberghi restituiscono un’immagine di benessere.
Eppure, vicinissimi ai luoghi dell’opulenza, anche se nella quasi totalità dei casi ben nascosti, sorgono gli slums, immense baraccopoli dove un’umanità derelitta è costretta a lottare per la propria sopravvivenza e dignità, nutrendo spesso un’estrema, difficile speranza: quella in un futuro diverso. A Soweto, per esempio, dove seimila persone vivono ammassate in poche centinaia di metri quadrati, ho toccato con mano a che cosa alludeva la filosofa spagnola Maria Zambrano quando parlava del sottosuolo su cui si regge l’edificio della storia.
Di Soweto e, in generale, degli slums di Nairobi molto è stato scritto sulla rivista Missioni Consolata, ma è sempre utile ritornare su tale argomento, per ricordare i problemi della gente che vi vive e sottolineare l’infaticabile lavoro dei missionari che vi operano.
A Soweto padre Franco Cellana lavora in mezzo alla gente con straordinaria dedizione, forza e carica vitale. Egli accompagna il cammino di speranza della popolazione alla luce di un progetto d’insieme, in cui problemi materiali, esigenze morali e fame di nutrimento spirituale trovano pari attenzione. Di questo progetto vorrei sottolineare almeno quattro aspetti essenziali.
Il primo è che ogni intervento di promozione umana si inserisce in una prospettiva di trasformazione strutturale delle condizioni esistenti. L’acquisizione della proprietà della terra su cui sorgono le baracche da parte di chi le abita, la costruzione di strade e fognature, l’approvvigionamento d’acqua, l’installazione di punti-luce, scuola e refezione per bambini e ragazzi, la costruzione di case in muratura, la prevenzione e la cura dell’Aids sono le condizioni basilari irrinunciabili perché gli abitanti di Soweto possano incominciare a vivere con dignità. Dentro questo quadro generale si muovono le iniziative particolari.
Il secondo aspetto riguarda la partecipazione costante della popolazione, non solo alla realizzazione dei progetti, ma anche alla loro ideazione. Non si tratta di fruire un po’ passivamente di un aiuto programmato altrove, ma di essere soggetti attivi, pensanti, parlanti e, soprattutto, responsabili, cosicché si attuino, tra missionario e popolazione locale, un’autentica condivisione, un’interazione e un mutuo arricchimento e donazione reciproca.
Il terzo aspetto riguarda la costante interlocuzione con il governo per il riconoscimento degli slums. Questi agglomerati urbani esistono e non possono essere né ignorati né svuotati dei loro abitanti con opere di demolizione delle baracche, essendo gli abitanti stessi persone i cui diritti comportano obblighi e responsabilità pubbliche.
Infine, quarto aspetto, esiste un cornordinamento delle équipes pastorali di alcune parrocchie di Nairobi che, lavorando insieme, possono sia dare forza al movimento di coscientizzazione degli abitanti degli slums, che evitare la dispersione di forze progettuali e operative.

SPERANZE E REALIZZAZIONI

Anche altre realtà missionarie mi hanno fatto ugualmente e diversamente riflettere nel corso del mio viaggio. Penso alla Familia ya ufariji (la casa della consolazione) di Nairobi, dove bambini e ragazzini di strada per lo più orfani, affidati alle cure di padre Gilberto Forese e di alcuni educatori, tentano una non facile integrazione. Questi ragazzi continuano a vivere in famiglia e, al tempo stesso, frequentano scuole estee in modo da evitare la ghettizzazione.
Penso alla Tumaini Children’s Home di Nanyuki, dove bimbi sieropositivi o malati di Aids ricevono assistenza e amore, in un contesto per quanto possibile sereno. Penso agli ospedali ben attrezzati, come quello di Wamba, o ai dispensari e ai centri di formazione tecnica e professionale presenti un po’ dovunque.
Penso a quanto ho ascoltato a Maralal da padre Tablino e padre Tallone, riguardo al lavoro per la riconciliazione tra samburu, turkana e pokot; tre gruppi etnici tradizionalmente ostili gli uni agli altri per questioni legate ai pascoli, ai pozzi d’acqua e alla proprietà del bestiame e, tuttavia, capaci di appianare i loro conflitti in nome non solo di evidenti affinità, ma del valore più alto della pace.
Penso anche a quella grandiosa opera, ormai nota a livello internazionale, che è l’acquedotto ideato da fratel Argese, missionario a Mukululu, e realizzato sotto la sua direzione recuperando l’acqua proveniente dalla condensa nottua che si forma sugli alberi della foresta del Nyambene. L’acquedotto, la cui storia è stata ricostruita nel marzo 2005 dalla rivista Missioni Consolata e al quale sono stati dedicati anche servizi televisivi nell’ambito dei programmi «Geo & Geo» e «Alle falde del Kilimangiaro», fornisce attualmente acqua a 250 mila persone.

VOLTI SENZA MASCHERE

Infine, per concludere, vorrei concentrarmi più a lungo su un incontro, per me di forte impatto emotivo, avvenuto a Sagana, nella «Casa di Betania», con le «vecchiette» di cui si prende cura padre Gerardo Martinelli. Forse perché sono una donna anch’io, o forse perché la curva della mia vita ha raggiunto ormai la sua fase discendente, ho avvertito un’immediata simpatia per queste anziane.
Di molte di loro non si conosce nulla: non l’età, non la storia, non la provenienza originaria; talora neppure il nome. Alla «Casa di Betania» le porta generalmente la polizia; vengono dalla strada dove finiscono per motivi non sempre ricostruibili. Si può pensare che non abbiano più nessuno e restino prive di sostegno e di risorse o che vengano cacciate da casa perché inutili, pesi morti in situazioni già difficili.
Il dato certo è che diventano nude vite esposte alla brutalità del mondo. La «Casa di Betania» non solo le sottrae alla violenza e ai pericoli della strada, ma offre loro un luogo dignitoso e sereno in cui vivere. Se restano loro delle energie, possono svolgere qualche lavoretto, come coltivare l’orto, lavare, pulire le stanze, badare agli animali; dispongono di momenti di solitudine, ma possono godere della compagnia reciproca.
Non tutto è idilliaco, ovviamente, e non sempre i risultati del loro trasferimento sono quelli sperati. Accade, infatti, che qualcuna scappi, ritornando alla strada. Difficile dire cosa le spinga a fuggire da un luogo protetto e accogliente, senza aver in mano alcuna alternativa. Ma in gran parte restano e, forse, riescono a guarire almeno un poco dalle ferite che sono state loro inferte, provando a rinascere come persone, nonostante i mille ostacoli, un lungo tratto di vita già percorso.
Quando facciamo loro visita, le donne non sembrano nutrire alcuna diffidenza nei nostri confronti, come ci si potrebbe aspettare, forse perché il tramite tra noi e loro è padre Martinelli. Proprio questa mediazione rompe, o almeno fluidifica, i confini che ci separano e consente l’inizio di una relazione, sia pure fatta di gesti e di sguardi più che di parole.
Ci accolgono, infatti, con espressioni di benvenuto, scambi di jambo, strette di mano, sorrisi. È come se, attraverso i corpi, si attuasse un travaso di anime. Credo di poter leggere nei loro gesti un infinito bisogno di affetto, ma soprattutto il desiderio di esserci, di rendersi visibili, di contare qualcosa, almeno per un momento.
Qualcuna di loro ha un aspetto vitale. Qualche altra, con gli arti rattrappiti, ha bisogno di una sedia a rotelle spinta dalle compagne dotate di maggior vigore. Commuove vedere quest’espressione di solidarietà che le esperienze di deprivazione da cui vengono non hanno cancellato e che basta un contesto adeguato per far emergere.
L’età di queste donne è indefinibile; ma, quanto più i loro volti sono solcati da rughe profonde, tanto più sono straordinariamente espressivi e, in modi diversi, belli, intensi, vissuti. Osservae la fragile bellezza e l’irriducibile unicità mi ricorda la filosofia di Lévinas e il suo richiamo all’appello implicito nell’assolutezza dell’alterità dell’altro.
Al tempo stesso, queste donne, prive di orpelli e di maschere sociali, spogliate di quello che siamo abituati a chiamare identità (e che invece spesso deriva da una serie di ruoli e appartenenze), dicono anche qualcosa di me, mi offrono uno specchio impietoso in cui guardarmi, mi interpellano e mi impegnano a fare la mia parte perché il mondo sia un po’ meno squilibrato.

UN’ALTRA STORIA

Camminando tra le baracche di Soweto, ascoltando i canti degli orfani della Familia ya ufariji, accarezzando i piccoli della Tumaini Children’s Home, abbracciando le «vecchiette», entrando negli ospedali, ho messo più concretamente a fuoco come siano proprio i calpestati, i divorati dalla storia, le «vite di scarto» a sprigionare, di fatto, con il loro stesso esistere, una forza di contrasto e a rappresentare il margine di incompiutezza, di irrealizzazione della storia, esplicando un’energia specifica e segnalando che un altro mondo è necessario.
Ma, in Kenya, di questo mondo «altro» ho anche intravisto le tracce. Nella storia c’è violenza, quella che ha buttato ai margini del consorzio sociale, letteralmente al bordo della strada, questi «poveri» che ho incontrato; ma ciò non significa affatto che tale violenza sia la realtà ultima o essenziale della storia stessa. La solidarietà, l’assistenza, la condivisione, l’appoggio nella difesa dei loro diritti, la promozione della loro dignità, nonché lo sforzo di far assumere a queste persone la responsabilità del loro destino, sono altrettanti segni che la storia può andare in un’altra direzione; in modo tale che, in essa, i senza-nome, gli invisibili possano avere un posto riconosciuto.
Non credo affatto che il dolore, la sofferenza, il male possano sparire dal mondo, ma ritengo che, almeno, possa essee eliminata quella parte che deriva dai rapporti di forza. Infatti, per citare ancora Simone Weil: «Se la forza è assolutamente sovrana, la giustizia è assolutamente irreale. Ma non lo è. Lo sappiamo per via sperimentale. Essa è reale in fondo al cuore degli uomini».

Bruna Colombo




VIVA LA ROJA

Un cileno su tre vive nella capitale, nelle cui periferie, come quella di Peñalolen, molta gente nasconde le ferite aperte dalla dittatura di Pinochet dietro la facciata della normalità. Oltre alla squadra nazionale di calcio, dal mese di gennaio i cileni hanno un buon motivo di orgoglio e di speranza, con l’elezione di Michelle Bachelet alla presidenza del paese.

Un’immensa distesa di luci gialle, a perdita d’occhio. Se una notte ti capita di ammirare Santiago del Cile da Peñalolen, quartiere periferico che finisce dove cominciano le Ande, rimani senza parole. Quei puntini luminosi che fanno fatica a entrare nel tuo campo visivo ti fanno capire che una metropoli latinoamericana è grande, proprio grande.
Non ha le cifre di Città del Messico o San Paolo, ma con i suoi cinque milioni di abitanti Santiago ospita il 35% della popolazione totale, vale a dire un cileno su tre. Gli altri? Vivono lungo i 4 mila chilometri del paese, il più lungo e stretto del continente, imbrigliato tra la cordigliera andina e l’Oceano Pacifico.
A Santiago, spesso, l’aria fa ammalare. Chiusa in una conca dalle montagne circostanti, la città non riesce a liberarsi dall’inquinamento che produce: la nube che si ferma a pochi metri d’altezza, imponente, giallastra, ti entra nelle vie respiratorie e lì ci rimane, fino a quando un raro acquazzone non ti permette di assaporare, ma solo per un attimo, l’odore delle stagioni.
Le stufe a legna, dichiarate fuorilegge dal governo per il fumo che sprigionano, sono ancora presenti. Soprattutto nelle zone più povere: una baracca che s’incendia è una stufa malridotta, assemblata male o troppo vicina a materiale infiammabile.
E di baracche, a Santiago del Cile, ce ne sono a volontà. Ma spesso non si vedono, perché nascoste tra case normali o «mimetizzate» tra esse. Ricco o povero, bianco o meticcio, il cileno è orgoglioso della sua patria: provate a cercarne uno per le strade in occasione delle partite della Roja (Rossa, la nazionale di calcio cilena), rimarrete completamente a mani vuote.

UN PULLMAN ARANCIONE

La strada che porta dall’aeroporto internazionale al centro città ti riempie gli occhi di «normalità». Industrie, cantieri, cartelloni pubblicitari, e poi grattacieli, macchine modee, ristoranti, cinema multisala: il modello di vita occidentale è stato assimilato completamente anche a queste latitudini.
Nella frenesia degli acquisti, del ritmo di lavoro, delle relazioni fra le persone, il centro di Santiago ricorda il Nord Italia. Persino i lineamenti delle persone, a volte, ricalcano quelli europei.
Le micro, gli onnipresenti pullman arancioni, sfrecciano per le vie della città in eterna competizione: chi ha più passeggeri ha maggiori guadagni, buona parte degli autisti sono proprietari del mezzo, e ognuno di essi lo personalizza a piacimento, con tendine colorate, santini, portafortuna, scritte e immagini incollate ai vetri.
Se riesci a prenderla o a salire senza cadere, la micro ti racconta Santiago, essendone il mezzo di trasporto più diffuso e popolare, che raggiunge anche le periferie più estreme. Salgono studenti, lavoratori, disoccupati (il 9% secondo le stime ufficiali, almeno il doppio a giudicare da quello che si vede nelle strade), anziani (ma pochissimi pensionati, la previdenza sociale è una chimera), vagabondi, artisti che si esibiscono in cambio di una mancia e mercanti di ogni bene di consumo, commestibile o meno.
I disoccupati, dice il governo, sono circa il 9%, meno dell’Italia. Ma se poi scopri che «occupati» sono considerati tutti coloro che hanno guadagnato anche solo qualche peso durante l’anno, il discorso cambia.
Luis è uno di questi: 35 anni, tossicodipendente e con precedenti penali per furto, vende gelati sui pullman e agli incroci stradali. Lo incontri a una mensa popolare, tutti i giorni, dove racconta le sue peripezie agli altri avventori (anziani, alcolizzati cronici, famiglie indigenti) caricandole di immagini forti: «Ieri i carabineros mi hanno fermato (Luis non ha il permesso per fare il venditore ambulante, quasi nessuno ce l’ha); ho cercato di scappare, ma mi hanno raggiunto. E sono state botte da orbi» dice mostrandoti grossi lividi su braccia e gambe.
Per conoscere Luis e tanti altri come lui devi cambiare il tuo modo di «vedere» Santiago: via dal luccichio dei negozi del centro, via dai grattacieli della zona commerciale di Providencia, via dalle sontuose ville e dai futuristici centri commerciali di Las Condes e La Reina, dove sembra di passeggiare sopra un enorme tappeto di benessere.
Il cileno che tiene plata (ha i soldi, e ne ha tanti) vive in un mondo in cui tutto è possibile, a portata di mano. Cliniche private, università prestigiose, servizi alla persona impeccabili e tutti nelle vicinanze: un paradiso sociale.
Ma c’è un altro cileno, tanto diffuso quanto nascosto, che per tutta la vita sarà chiuso in un altro mondo, fatto di miseria, soprusi, nessuna speranza di sbarcare il lunario.
Nascosto perché vive lontano dai riflettori, in posti dai nomi molto meno accattivanti: La Pintana, Maipú, La Legua. O Peñalolen, il luogo da cui vedi le «luci gialle», la cui situazione merita una fermata speciale.

SOTTO IL TAPPETO

Con 200 mila abitanti, l’aria più pulita della città (lontano dal centro, 700 metri sul livello del mare) è uno degli esperimenti più riusciti di politiche socio-ambientali (una vasta comunità ecologica in cui centinaia di artisti e musicisti vivono in modo autonomo offrendo spunti culturali di notevole livello), Peñalolen avrebbe tutte le caratteristiche per essere un quartiere ricco, come la vicina La Reina. Ma non è così.
C’è una chilometrica cancellata che divide i due quartieri su Avenida Josè Arrieta, arteria importante della zona est di Santiago: dietro queste inferriate, guardie private assicurano agli abitanti di La Reina quel paradiso sociale di cui sopra.
Dall’altra parte, nessuna guardia, molta più gente a piedi apparentemente senza meta, cani randagi e affamati ai bordi delle strade. Ma niente esagerazioni: le case sono modeste ma di mattoni; le attività commerciali non mancano; frotte di bambini si recano a scuola con il loro grembiule color piombo, tanto obbligatorio quanto «scialbo».
Dove sta il dilemma? Toiamo per un attimo all’immagine del tappeto.
Se ci avviciniamo a queste case all’apparenza normali, notiamo subito due cose: una striscia verde, impeccabile, di erba, e una stradina che, circumnavigando l’abitazione, sparisce dietro di essa.
La striscia verde, innaffiata quotidianamente da ogni buon cileno, memore di un’efficace affermazione venuta dagli ambienti governativi («il giardino davanti a casa è lo specchio della vostra anima»), è il trionfo dell’apparenza: dentro, le case non sono così pulite, belle; spesso il cibo a tavola è scarso, l’arredamento ridotto all’essenziale, i letti meno delle persone. Invece, la televisione c’è e troneggia nel salotto, radio e computer non sono così insoliti.
La stradina è la via che conduce alla verità: ti aspetti un giardino nel retro, trovi una baracca; sposti di qualche metro lo sguardo, ne trovi un’altra, poi un’altra ancora.
Ecco che il tappeto si alza, per poi sparire senza lasciare traccia. Sotto questo tappeto centinaia di famiglie, migliaia di bambini che vivono in condizioni di forte disagio. Famiglie del tutto atipiche: padri inesistenti, ragazze-madri ospitate da zii, nonni, o conviventi con fratelli, cugini; un nugolo di niños che spesso condivide il proprio letto con due, tre persone adulte, con le conseguenze del caso. Nelle baracche, oltre all’acqua calda e alla vasca da bagno, mancano le divisioni fra gli ambienti.
Perché queste baracche così nascoste? Sono le uniche abitazioni che si trovano, per chi non è povero. L’affitto, seppur alto, è contrattabile con il proprietario del terreno, reduce anch’egli da un passato simile e dunque, quando va bene, «sensibile».
Ma la ragione vera è un’altra: se sei così nascosto, nessuno ti può vedere «dentro». Per ricostruirti un’immagine nella società, spendi i pochi soldi che hai in capi d’abbigliamento e altri beni secondari che ti fanno apparire interessante. Non ti accorgi, ma baratti la dignità con il materialismo, passando dalla povertà alla miseria.
A Peñalolen, negli ultimi 40 anni, si sono riversate migliaia di persone provenienti dalla campagna, in cerca di un’anonima ma più speranzosa vita di città. Il quartiere si è espanso, tuttavia, con le Ande così vicine, i nuovi arrivati si sono dovuti incastrare dove hanno potuto. Poi è arrivata la dittatura, e con essa la volontà del regime militare di «ripulire il cuore della capitale»: migliaia di senzatetto, vagabondi cacciati nelle periferie, laggiù dove nessuno può né vederli né sentire il loro odore. Sotto il tappeto, dunque.
Molti sono stati torturati, chissà quanti desaparecidos (scomparsi) o eliminati sommariamente; pochi altri, quelli con più niente da perdere, si sono riorganizzati. Chi impugnando armi, aumentando in tal modo la spirale della violenza, chi i propri diritti: prendi un terreno qualsiasi, ne rivendichi il possesso, costruisci case di lamiera, legno, polistirolo, a volte decine in una sola notte, ti attacchi a edifici circostanti per ottenere luce, acqua, gas. Fai così nascere i campamentos: versione tutta cilena, assai organizzata a livello politico, delle baraccopoli sudamericane.

LE FERITE, IL FUTURO

Pinochet è l’eterno incubo con cui, ancora oggi, deve fare i conti gran parte della popolazione cilena.
Ultraottantenne, finalmente subissato dai processi a suo carico (per violazione dei diritti umani, dove riesce sempre a farla franca, facendosi passare per pazzo; per frodi bancarie di migliaia di dollari, per le quali anche la sua famiglia è finita agli arresti) e da «fedeli del regime», che gli voltano le spalle, il generale in ritiro Augusto Pinochet ha ancora il 30 per cento della popolazione che lo apprezza.
Persone che, per la maggior parte, hanno vissuto la dittatura senza conoscee le efferatezze, in quanto appartenenti alle classi alte, o lontani dalla politica. Sono molti quelli che negano la politica di terrore fisico e psicologico del regime, nonostante le migliaia di testimonianze raccolte e il recupero storico dei «luoghi della tortura»: case e ville private, scuole, edifici dismessi, disseminati in tutto il paese.
Uno di questi, il più famoso, è la Villa Grimaldi, che, guarda caso, si trova proprio a Peñalolen, al numero 8201 di Avenida Arrieta. Dall’11 settembre 1973, giorno del golpe, per i primi 5 anni del regime, migliaia di dissidenti politici e semplici cittadini «sospetti» sono stati sottoposti a violazioni di diritti umani, con forme brutali e umilianti. Chi per pochi giorni, settimane o mesi interi, chi scomparendo nel nulla o non uscendone vivo.
Hugo, che oggi ha 53 anni, ma ne dimostra almeno una decina in più, è entrato e uscito diverse volte dalla Villa in quegli anni. Ieri era sostenitore del governo di Unidad Popular di Salvador Allende, oggi si ritrova ridotto a uno straccio: fegato spappolato, numerose fratture intee che non si sono mai rimarginate, dentatura pressoché inesistente e una sofferenza sul viso che si attenua solo quando c’è una bottiglia di vino tinto nel suo campo visivo. Le torture l’hanno ucciso dentro, tanto da non aver risposto all’ultimo appello del governo, che ha chiesto ai cittadini di «raccontare» le proprie storie, in un tentativo di cancellare gli orrori del passato recente (la dittatura è caduta nel 1990, con l’esito a sorpresa di un referendum che avrebbe dovuto prolungarla), riportando verità e giustizia.
A Hugo fa troppo male scavare nel passato. In lui, come in tanti altri, rimane l’orgoglio di essere cileno, quello dell’attaccamento alla Roja e della goliardia delle Fiestas Patrias, che cadono il 18 settembre e riuniscono tutta la popolazione in balli e canti popolari. Ma è un orgoglio ferito, e rimarrà segnato per sempre.
Hugo non crede nel futuro, per colpa del passato. Gli abitanti di Santiago e del resto del Cile, invece, possono lottare per avere un futuro sempre più equo a livello etico, imparando proprio da un difficile passato in cui il valore di una vita umana dipendeva dall’appartenenza a un partito.
Possono cominciare dal rimuovere tutti i tappeti, magari destinandoli ad abbellire le tante micro sgangherate.

Daniele Biella




Bolivia. Evo, il presidente aymara

Su Evo Morales Ayma, il primo presidente realmente indio delle Americhe, pesano molte aspettative, in patria e all’estero. Dovrà affrontare temi spinosi come la gestione delle ingenti risorse di gas, la produzione di foglie di coca, la ricerca di uno sbocco al mare, i difficili rapporti con Washington. Con Evo Morales abbiamo parlato in un incontro avvenuto prima della sua netta vittoria alle elezioni del 18 dicembre 2005. Questo è il resoconto di quella conversazione.

La Paz. L’ufficio del Mas, all’interno del palazzo del Congresso, è pieno di manifesti popolari. Nessun mobile di pregio, nessun orpello, nessuna segretaria giovane ed attraente. Insomma, non ha nulla di un ufficio di rappresentanza. Santos Ramirez Valverde mi riceve per un’intervista su tematiche economiche. Al termine, quasi pro forma, domando se è possibile incontrare Evo Morales. «Non è a La Paz, ma domani dovrebbe esserci – mi risponde -. Vediamo se possiamo prendere un appuntamento». Fa una telefonata. «Allora, è per domani mattina, alle 8.30». Un colpo di fortuna, penso. Ma sarà vero?
Francisco Ibar Arocha, proprietario del Sagaaga, l’albergo dove alloggio, è un imprenditore e in quanto tale mi guarda con faccia interdetta quando gli dico che incontrerò Evo Morales. Poi però mi suggerisce una serie di domande… Il giorno seguente, di buon mattino, mi presento all’appuntamento nel palazzo del Congresso. E puntualmente mi fanno entrare nell’ufficio di Evo Morales. L’iconografia del personaggio è come uno si attende: volto indio, capelli nero corvino, vestiti popolari.

La Bolivia è un paese a netta maggioranza indigena. E lei non perde occasione per ricordare la sua appartenenza india…
«Perché non dovrei? Io sono di stirpe aymara. Sono nato nel 1959, a Orinoca, nel dipartimento di Oruro. Poi sono emigrato con la mia famiglia nella regione del Chapare, nel dipartimento di Cochabamba. All’inizio degli anni Ottanta sono entrato nel sindacato del Tropico, dove sono arrivato a coprire la carica di segretario generale.
Nel 1998 ho assunto la presidenza del Mas, il Movimiento al socialismo. Insomma, io provengo dalle lotte sociali e non ho una formazione accademica».

Il Mas è cresciuto come movimento di protesta dei produttori di foglie di coca. Non le pare un po’ limitato?
«Non è così. Il Mas è un partito politico che è nato e affonda le sue radici nei movimenti sociali.
Nel 1992, il movimento contadino, durante il suo congresso, decise di dotarsi di uno strumento politico per arrivare alla liberazione e alla sovranità delle popolazioni. Proprio in quell’anno cadevano i 500 anni dall’inizio della resistenza indigena e popolare. Il Mas era lo strumento giusto per passare dalla resistenza alla presa del potere, dalla protesta alla proposta.
Nel 2002 il Mas era la seconda forza politica del paese, oggi è diventata la prima. Assieme ai movimenti sociali e ai movimenti intellettuali, il Mas vuole essere uno strumento politico per cercare di cambiare il sistema economico e politico».

Il sistema è quello neoliberista. Qual è l’analisi del suo movimento?
«Abbiamo sperimentato il neoliberismo non soltanto all’interno della Bolivia, ma anche nel resto dell’America Latina. Da tempo siamo giunti alla conclusione che esso non soltanto non è la soluzione, ma anzi è la causa delle crisi economiche e dell’instabilità dei governi. L’Argentina era il paese simbolo di questo sistema economico e sappiamo tutti che fine ha fatto. Anche il Cile, altro paese additato a modello, oggi è attraversato da ondate di protesta».

La Bolivia è un paese con enormi ricchezze minerarie, di gas in particolare. Eppure, dopo Haiti, è il paese più povero dell’America Latina…
«Le risponderò con una frase che ha detto il premio Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel: “Sulla nostra ricchezza ci siamo impoveriti”.
Il modello economico del sistema capitalista purtroppo è fondato innanzitutto sul saccheggio delle nostre ricchezze e delle nostre risorse ad opera delle transnazionali, della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Pare assurdo, ma la stessa ricchezza ha generato la povertà».

Se questo è il problema principale, come pensate di risolverlo?
«Ponendo fine al saccheggio, attraverso il recupero della proprietà del suolo e del sottosuolo. Questa è la richiesta di tutti i movimenti sociali boliviani.
Ma lo sa che la Bolivia fu il primo paese latinoamericano a nazionalizzare? Oggi i benefici sono tutti per le imprese transnazionali e non per le popolazioni della Bolivia».

Dunque, è lo stato che deve gestire le risorse della Bolivia?
«Lo stato con la partecipazione del popolo».

Lei insiste molto sul saccheggio messo in atto dalle imprese transnazionali. Ma la Bolivia può fare a meno di esse?
«Certamente ci sarà la necessità di tecnologia, esperienza, macchinari e per questo avremo bisogno di collaborare con altri paesi. Ma il saccheggio delle risorse del popolo boliviano deve terminare! Un saccheggio, tra l’altro, legittimato dalla nostra legge di capitalizzazione».

Quella che in Bolivia si chiama «capitalizzazione» è una sorta di «privatizzazione»?
«Sì, la legge di capitalizzazione è un sinonimo di privatizzazione. Noi la contestiamo perché non ha favorito l’importazione di capitali ma l’esportazione, con la conseguenza (paradossale) che invece di capitalizzare il paese lo si è decapitalizzato. In questo modo invece di progredire si è prodotta ancora più povertà e disoccupazione. C’è anche una transnazionale del suo paese, la Telecom Italia, proprietaria di Entel. L’azienda italiana ha fatto milioni di dollari di profitti in questi ultimi anni».

Dalla guerra del Pacifico del 1879, la Bolivia è priva di un accesso al mare. È una questione rilevante per il paese?
«Certamente! La Bolivia è stata fondata con un accesso al mare. Il problema è strettamente connesso con la questione del gas. Infatti, il movimento indigeno ha preso posizione sul tema del gas e lo ha fatto in connessione con il problema dell’accesso al mare. Adesso che la questione non è più soltanto a livello nazionale ma è diventata internazionale, si è aperto uno spiraglio affinché la Bolivia torni ad avere un accesso al mare.
Vogliamo evitare di creare conflitti regionali, ma allo stesso tempo non vogliamo restare condizionati da una situazione che è stata creata da un conflitto e che resta tuttora pendente. Siamo contenti dell’interessamento della comunità internazionale perché questo è un problema multilaterale».

La sua opinione su Gonzalo Sánchez de Lozada detto Goni e su Carlos Mesa.
«Goni era un imprenditore neoliberista. Il popolo si è sollevato contro di lui, ma non è riuscito a finirla con il modello economico che egli rappresentava. Oltre a ciò è un fascista e un razzista. Adesso è scappato a Miami, sicuramente portando con sé molto denaro, frutto della corruzione e dei saccheggi. Nel caso di Mesa pensavo che almeno sarebbe stato un riformista neoliberale, ma invece ci siamo trovati con un continuismo d’impresa. Il presidente ha continuato a dialogare con le imprese transnazionali senza ascoltare i movimenti sociali. Quindi Mesa non ha capito il sentimento e le intenzioni del popolo boliviano, questa è la realtà».

Insomma, a suo parere, uno vale l’altro?
«Mesa parla meglio lo spagnolo di Goni, ma purtroppo suonano la stessa musica sulle tematiche politiche».

Per decenni gli Stati Uniti hanno considerato il Sud America come il loro «cortile di casa». Come giudica quel paese o meglio la sua politica?
«Pensiamo a come gli Stati Uniti hanno disegnato l’intervento in Iraq: hanno detto che là c’era Saddam dotato di armi di distruzione di massa, che però non esistevano. In tal modo hanno giustificato un intervento militare per accaparrarsi delle risorse e in particolare gli idrocarburi per le loro imprese. La scusa di Washington per l’America Latina è il narcoterrorismo, ovvero una giustificazione politica per permettere alle transnazionali di quel paese di sfruttare le risorse. Insomma, in Iraq hanno usato un pretesto, in America Latina ne usano un altro.
Siamo in questa congiuntura politica: quando la democrazia non serve all’impero, si fanno colpi di stato. Basti pensare a questa cospirazione permanente contro il Venezuela. Per questo noi vogliamo aiutare e appoggiare concretamente il presidente Hugo Chávez e la democrazia in Venezuela, che fra l’altro ha appoggiato la nostra richiesta di avere un accesso al mare».
In Italia, i media, soprattutto quelli importanti, l’hanno descritta quasi esclusivamente come leader dei cocaleros. Può spiegare i termini della questione coca?
«Innanzitutto occorre dire che la foglia di coca, allo stato naturale, non fa nessun danno alla salute umana. Ci sono, ad esempio, molte imprese che fanno un uso industriale della foglia di coca per ottenere per esempio una specie di whisky o altri prodotti destinati al mercato europeo o degli Stati Uniti. Anche secondo gli studi dell’Oms, la foglia di coca allo stato naturale non è dannosa. Quindi, non possiamo dire che i produttori di foglie di coca siano narcotrafficanti, né che i consumatori di esse siano tossicodipendenti, anche se questa è la visione che hanno alcuni paesi.
In Chapare ci sono circa 60 mila famiglie che vivono della produzione di foglie di coca, un prodotto che finisce sul mercato interno, locale e nazionale».

D’accordo, ma Washington la accusa di essere un narcotrafficante…
Tanto che, nel 2002, l’ambasciatore Usa in Bolivia, Manuel Rocha, fece campagna elettorale contro di lei…
«Noi diciamo che si deve affrontare il problema del mercato illegale della foglia di coca per la produzione della cocaina. Noi non siamo difensori del narcotraffico. Anzi, il narcotraffico ci è stato imposto. I precursori, ovvero gli agenti chimici necessari per trasformare in droga le foglie di coca, provengono dagli Stati Uniti; senza dire che, per trattare chimicamente le foglie di coca, sono necessari investimenti di parecchi milioni di dollari; infine, c’è il segreto bancario che ostacola tutto. Insomma, c’è un narcotraffico in doppiopetto, che non viene mai messo in galera e coinvolti in questo business ci sono persino stati e governi. O ambasciate di paesi stranieri in Bolivia… Io dico che, purtroppo, la coca non è altro che un pretesto affinché gli Stati Uniti possano controllare meglio il nostro paese».

Lei ritiene che la lotta alle coltivazioni dei cocaleros sia una scusa dietro cui si celano altri obiettivi?
«Certamente questo è un modo per criminalizzarci. Guardiamo alla storia. I movimenti sociali degli anni ’50 e ’60 erano accusati di furto e di essere comunisti; negli anni ’80 e ’90 siamo stati accusati (io ero già sul campo) di essere narcotrafficanti; a partire dall’11 settembre del 2001, non ci hanno più accusato di essere narcotrafficanti, ma di essere terroristi. Tutto questo ovviamente serve per demonizzare ed isolare questo movimento. In sostanza, se tu sei antimperialista, ti accusano sistematicamente di essere comunista, terrorista, narcotrafficante.
Si pensi al Cile dove, nella zona di Temuco, la regione dei mapuches, vari dirigenti indigeni sono stati incarcerati. Erano alla guida di grandi proteste, legali dal punto di vista costituzionale. Per poterli fermare e chiudere in carcere, hanno dovuto dire che erano terroristi. Queste accuse vengono costruite per reprimere le lotte dei movimenti. Anche il Mas è spesso esposto al rischio di vedere i propri dirigenti oggetto di montature per fini politici.
Personalmente, sono oramai abituato a essere accusato di tutto. In passato, i servizi di intelligence degli Stati Uniti mi hanno accusato di essere vincolato con le Farc della Colombia, adesso dicono che sono alle dipendenze di Chávez».

Nonostante i problemi, lei è ottimista sulla possibilità di cambiare la Bolivia senza violenza, senza guerra civile, attraverso mediazioni pacifiche?
«Da quando abbiamo scelto di entrare nel processo elettorale, abbiamo innanzitutto deciso di cercare di ottenere modifiche profonde ma sempre attraverso strumenti pacifici. Non ci sono soltanto le questioni delle risorse del sottosuolo o delle foglie di coca, ci poniamo anche il problema di come incorporare in questa democrazia formale la democrazia delle comunità. Per esempio, in tema della giustizia attualmente si riconosce solo la giustizia politica e non si prende in considerazione la giustizia comunitaria. Ma ci sono molti altri temi: l’istruzione, le forze armate, che tipo di economia adottare. E ancora come fare una nuova assemblea costituente che permetta di ammodeare la Bolivia che, nelle linee generali, è stata definita all’atto della sua fondazione. Da quel momento però gli indigeni sono stati esclusi dal processo di formazione del paese. Eppure, secondo l’ultimo censimento del 2001, essi costituiscono il 62% della popolazione totale. Oramai non mancano più studenti o imprenditori di etnia quechua, aymara o guaranì, ma a volte, di fronte ai censimenti, le persone mentono sulla loro appartenenza etnica. Quindi, 62% è il valore ufficiale ma in realtà la percentuale di popolazione indigena è superiore.
Da questo momento dovremo procedere a un profondo rinnovamento della Bolivia e questa trasformazione dovrà essere democratica e pacifica».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Attenti… al cuore

Secondo la cultura dei macua, etnia bantu delle province settentrionali del Mozambico, il mondo è popolato da un insieme di forze vitali che, come i fili di una ragnatela, interagiscono tra loro. La malattia non è mai un fatto privato, ma nasce e si evolve in un complesso mondo di relazioni, che diversificano anche le forme di terapia… E l’Aids, prima di tutto, è una malattia del cuore.

Il 24 aprile 2004, i vescovi mozambicani hanno scritto la lettera pastorale «Curate i malati»1, affrontando il problema dell’Aids in Mozambico. Il dato è allarmante: nonostante le campagne di prevenzione promosse negli ultimi anni dal servizio sanitario nazionale e da varie Ong, il Mozambico è oggi uno dei paesi africani con il più alto tasso d’infezione da Hiv: 17% della popolazione. Circa 500 mila bambini sono orfani di genitori, deceduti per Aids, e 50 mila neonati contraggono ogni anno l’infezione per via verticale.
Le campagne di prevenzione realizzate in questi anni hanno per lo più presentato il preservativo come metodo preventivo: ne sono state distribuite ai giovani enormi quantità, spiegando pubblicamente come utilizzarli2. Uno degli effetti collaterali di tali campagne sembra essere stato un maggiore disimpegno dei giovani (e non solo) verso un comportamento sessuale responsabile: adolescenti e bambini, informati sull’uso facile del preservativo, sono stati di fatto sollecitati all’attività sessuale. In questo senso, sembra che le campagne informativo-preventive abbiano avuto un effetto boomerang sulla diffusione dell’infezione da Hiv.
Al di là della trasmissione per via sessuale, bisogna anche considerare la trasmissione sanguinea, che ha un suo importante ruolo, sia all’interno delle strutture sanitarie, spesso precarie, che nell’ambito dei vari trattamenti di medicina tradizionale (es. incisioni tramite lamette).
Ultimamente, in alcuni centri maggiormente popolati, sono nati alcuni consultori per la prevenzione e il trattamento dell’Aids. Tipico è il progetto Dream della Comunità di S. Egidio, che ha realizzato tre centri principali (Maputo, Beira, Nampula), attrezzati con laboratori altamente specializzati, e una rete di piccoli centri e servizi domiciliari3.

Un mondo di forze vitali

Per chi opera o simpatizza con l’Africa e vuole entrare in dialogo con le persone con cui collabora, è necessario aprirsi alla conoscenza del pensare africano, cercando di intendee non solo la lingua, ma anche il linguaggio. Senza tale conoscenza, ogni dialogo, compreso quello «sanitario», risulta impedito e causare troppi equivoci da ambo le parti; nel discorso e prassi sanitaria, si rischia di usare gli stessi termini e si intendono realtà diverse.
Per capire il pensiero africano, soprattutto il concetto di malattia, bisogna tener presente che i popoli bantu si muovono in un mondo fatto non tanto di cose o esseri, ma piuttosto di forze vitali, che si intrecciano in relazioni e influenze reciproche.
Questo, in modo estremamente semplificato, è il principio chiave per comprendere la cultura bantu4: un «pensare» che alcuni studiosi contemporanei definiscono «vitalogia», ossia, una filosofia a partire dalla vita più che dall’essere5.
L’immagine della ragnatela6 può rendere l’idea di questo mondo di forze vitali in relazione: se si muove un filo, la sua vibrazione si ripercuote su tutta la ragnatela. Sullo sfondo di questa concezione del mondo si muove il pensiero e la vita bantu, compreso il modo di vedere e vivere salute e malattia.
Se a un macua xirima domandate «come sta», la risposta può variare in modo sorprendente per la mentalità occidentale. Essa può essere molto simile a quella che anche noi siamo abituati a dare: «Bene, e tu?». Ma, come in un motivo musicale, le variazioni sono spesso numerose e significative: «Bene, non so però come va il tuo corpo»; «bene, non so però come stanno le tue forze»; «bene, non so però come sta la tua vita»; «bene, non so però come stanno le tue ossa».
Oppure la risposta può essere «così, così», seguito dal racconto, spesso complesso e dettagliato, della ragione del «così, così», spaziando da un mal di pancia notturno a un brutto sogno, da un problema di relazione familiare alla malattia di un parente vicino o lontano… fino agli elefanti che hanno rovinato il campo di granoturco. Sono risposte che esprimono le ragioni per cui una persona si sente minacciata nella propria vita/salute.
Il bantu vive di relazioni e influenze reciproche, sia a livello intrapersonale che interpersonale. Mi spiego. Sotto l’aspetto intrapersonale, il bantu considera la persona come un’unità, composta da tre dimensioni fondamentali: corpo, spirito e ombra, i quali, integrando tra loro, influiscono sullo stato di salute o provocano la malattia.
A livello interpersonale, il bantu riconosce nell’altro (sia esso persona umana vivente o antenato, realtà animate e inanimate e Dio stesso) un qualcuno col quale, in qualche modo, è in continuo scambio: tale scambio può aumentare o diminuire la «vita» e non lascia mai inalterate le condizioni che trova.

Malattia e rimedi nella cultura macua

Da tale visione del mondo derivavano i criteri per classificare le malattie e per applicarvi i relativi rimedi. Secondo la mentalità bantu-macua, tutte le infermità possono essere racchiuse in due grandi categorie. La prima comprende le malattie «di Dio» o «naturali», quelle, cioè, che si ritengono causate da agenti naturali; la seconda quelle «culturali», cioè, causate da influenze negative di altri (persone viventi o del passato).
Per un loro adeguato trattamento bisogna tenere presente il contesto culturale completo (filosofia, religione, vita familiare, sociale), soprattutto l’antropologia bantu-macua, con le sue tre dimensioni: corpo, spirito e ombra, distinte ma mai separate7.
La cerchia dei «personaggi» coinvolti nel dramma della malattia si allarga rispetto alla mentalità occidentale. Un ruolo preminente è svolto da Dio e dagli antenati (relazioni e influenze del mondo dell’aldilà); ci sono poi gli esperti tradizionali della salute (indovini, medici tradizionali); c’è il malato con i suoi parenti, con i suoi vicini e con quanti in qualche modo entra in contatto.
Per questo la malattia non è puramente una condizione personale, un fatto privato, ma è un evento multidimensionale che muove, coinvolge, nasce e si evolve in un contesto relazionale che abbraccia tutto l’orizzonte del mondo bantu-macua. Di conseguenza, anche la «farmacologia» e la terapia si dilatano e diversificano in modo impressionante8.
Nell’universo bantu-macua si può parlare, prima di tutto, di terapia mistico-religiosa. «Dio è la vita, gli antenati sono medicine» dice un proverbio macua.
La terapia tradizionale include aspetti mitico-cosmogonici: essa è impensabile senza il contatto con il mito fondativo del popolo, con le origini della collettività e dell’individuo malato, con la scaturigine della forza vitale.
La terapia abbonda di aspetti simbolici: simboli e gesti usati evocano significati ed emozioni. Ma non mancano, naturalmente, gli aspetti prettamente farmacologici: i medici tradizionali conoscono rimedi naturali a volte molto efficaci.
Infine, nelle terapie tradizionali giocano un ruolo importante le relazioni tra il malato e il medico, la famiglia e il mondo dell’aldilà. Tali relazioni costituiscono l’ambiente in cui si collocano i vari trattamenti.
In questo scenario, si comprende come la cura di una malattia non possa fare a meno di essere multidimensionale: deve interessare le tre dimensioni della antropologia bantu (corpo, spirito, ombra), dialogare con i diversi ambiti (religioso, familiare, sociale) del mondo macua e abbracciare diversi tempi: presente, passato (il tempo mitico delle origini) e naturalmente il futuro.
Credo che anche la medicina scientifica, in qualche modo, abbia bisogno di un cammino di inculturazione; debba, cioè, entrare in dialogo con le istanze che la persona e il popolo presentano, nell’ascolto umile e empatico di come la persona o il popolo comprende se stesso e, di conseguenza, del significato che attribuisce a un dato avvenimento, anche quello della malattia.

E se l’Aids fosse una malattia del cuore?

Estate 2003: siamo in una missione della provincia del Niassa. È un pomeriggio di sole, caldo ma non troppo. Con Roberto, un ragazzo di 27-28 anni, siamo seduti in un luogo ombroso e fresco. Parliamo della vita: della sua e del suo popolo.
Roberto è figlio del suo tempo e del suo popolo: tempo e popolo che hanno ritrovato la pace da appena 11 anni, dopo una guerra lunga ed estenuante, che ha lasciato segni fuori e, soprattutto, dentro le persone.
Roberto parla volentieri; lo sento vibrare nel raccontare e approfondire i suoi pensieri e sentimenti. Lo fa soprattutto prendendo spunto dalla sapienza tradizionale, proverbi e detti del suo popolo, ma li rielabora con talento poetico e acutezza d’intuito.
Il discorso cade sull’Aids, che sta mietendo giovani vittime anche nel suo villaggio. A un certo punto il giovane esordisce: «Di Aids però ce ne sono due tipi». Gli chiedo spiegazioni. «C’è quella che conosciamo, quella del virus – afferma -. Sappiamo come si trasmette, come si previene. Sappiamo che non ci sono cure, che porta alla morte. Queste cose le sappiamo. Però tutto ciò non ci impedisce di ammalarci…».
Approfondiamo il dialogo e Roberto spiega che forse il problema della prevenzione dell’Aids non sta solo nell’informazione. I ragazzi del suo villaggio sono ben informati sulla malattia. Il fatto è, dice Roberto, che probabilmente ai ragazzi non interessa molto di ammalarsi, piuttosto che rimanere sani. E rilancia: «Vedi, c’è un altro tipo di Aids, che è anche peggio di quella del virus, e che viene prima…». E continua parlandomi di un’altra «malattia», diffusa e mortale, «è come un verme che ti mangia dentro… e tu non hai più voglia di vivere… e cominci a morire».
Mi spiega che è una malattia «del cuore» e ne elenca i «sintomi». Nella mia mente, ascoltandolo, riconosco con precisione impressionante la descrizione del vuoto, della depressione, della solitudine. Roberto va oltre, elencandone pure alcune cause, con lucidità e intuito ammirevole; e corona la sua analisi con una parabola.
«Quando soffia il vento e cade un albero, noi pensiamo che sia stato il vento a farlo cadere, ed è vero. Ma non è tutta la verità. Se guardiamo bene l’albero, ci accorgiamo che dentro era “mangiato”, vuoto. Prima del vento, c’era un verme che era entrato e aveva fatto il suo lavoro. L’albero sembrava vivo, ma era già morto. Il vento ha dato solo l’ultimo colpo».
Roberto mi ha dato un’altra lezione di vita. Mi ha insegnato che bisogna stare attenti al vento, prevenirlo, rinforzare gli alberi perché non cadano. Ma mi ha insegnato che questo non è tutto, che «c’è un altro tipo di Aids, che viene prima». C’è una persona che forse è ferita dentro e a questa ferita va data attenzione. Non è una ferita che si cura con le medicine. È una ferita del cuore, dell’anima, che richiede un «trattamento» diverso, fatto di cose forse meno visibili e quantificabili delle medicine, ma non per questo meno importanti.
Richiede silenzio, ascolto, presenza, discrezione, delicatezza, capacità di comprendere, intuire e sfidare. Richiede l’impegno in relazioni vere, che possano costituire quello spazio/luogo in cui la persona possa «sedersi» al sicuro, avere il coraggio di guardare le proprie ferite e recuperare le energie, la vita.
Richiede l’impegno e la passione di creare con l’altro una comunicazione attraverso cui la consolazione passi. Non la consolazione delle frasi fatte, della pacca sulle spalle, ma la consolazione biblica, cristiana, cioè di Cristo. La consolazione che circola anche attraverso gli umili canali delle relazioni umane più vere, in cui si incarna la carità, che non è assistenzialismo umiliante, ma condivisione di se stessi nel dare e nel ricevere la ricchezza dell’altro e dell’Altro.
Roberto mi ha dato una buona lezione, sfidandomi ad approfondire il mio essere cristiana e missionaria. Grazie, Roberto!

Simona Brambilla




Seminatori di speranza


La chiesa africana (vescovi, preti diocesani, missionari e missionarie) è impegnata su due fronti: combatte la malattia dell’Hiv e l’afro-pessimismo.
È una lotta impari, per mancanza di risorse e, spesso, per la latitanza dei governi locali.
Eppure ci sono molti segni di speranza, come testimoniano le esperienze qui riportate di alcuni paesi: Uganda, Sudafrica, Tanzania e Mozambico.
In questa lotta sono coinvolti anche i missionari e missionarie della Consolata.

Lottiamo contro l’Aids e, allo stesso tempo, contro l’afro-pessimismo». È questo l’appello che mons. John Onayiekan, arcivescovo di Abuja e presidente del Simposio delle conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Sceam), ha rivolto al mondo in occasione della Giornata internazionale di lotta contro l’Aids, che si è celebrata lo scorso 1° dicembre.
Un appello forte, il suo, fatto a nome di tutte le conferenze episcopali africane, che da molto tempo ormai hanno fatto loro la sfida imposta dall’Aids a tutte le realtà africane, chiesa cattolica compresa. E non potrebbe essere altrimenti, visto che questa pandemia sta sconvolgendo la vita di popolazioni intere e di interi stati, mettendo a dura prova i sistemi sanitari, indebolendo le economie, ma anche mettendo in discussione i modelli valoriali di riferimento e la stessa struttura sociale, disgregando le famiglie e uccidendo le giovani generazioni.
Per questo, di fronte allo slogan dell’ultima giornata internazionale di lotta all’Aids «Manteniamo le promesse», le chiese d’Africa non si sono tirate indietro. «Noi promettiamo – scrive l’arcivescovo – a voi tutti che siete colpiti dalla malattia di essere al vostro fianco, e incoraggiamo tutti gli agenti pastorali ad aiutarvi e a prendersi cura di voi totalmente, nel corpo e nell’anima». Al tempo stesso, sottolinea mons. Onayiekan, «noi vescovi africani ci opponiamo alla marginalizzazione dell’Africa come continente. Chiediamo di rispettare l’Africa, che non ha bisogno di pietà, ma di amore vero, solidarietà e giustizia».
E guardando al continente e alle sue ricchezze umane, alla sua capacità di affrontare le difficoltà e le sofferenze, e di custodire, nonostante tutto, l’ottimismo, il presidente del Sceam dice con convinzione: «Noi non abbiamo paura. I popoli dell’Africa sono ricchi di forza interiore e di valori nobili, di coraggio e di determinazione a vincere la pandemia. È per questo che facciamo appello a tutti i popoli africani, affinché si impegnino coraggiosamente nella lotta contro l’Hiv/Aids. E accoglieremo la solidarietà di tutti gli uomini e le donne di buona volontà».

Rapporto «olistico»

Il ruolo delle chiese africane e dei missionari in Africa, nel settore della salute, è assolutamente rilevante. Ancora oggi, oltre la metà di tutte le strutture sanitarie presenti nel continente sono gestite da enti ecclesiali o missionari. E inoltre, se si guarda allo specifico della lotta all’Aids, «la percentuale dei centri di assistenza sanitaria della chiesa cattolica che curano l’Aids in tutto il mondo è il 26,7%, contro il 42% gestiti dai governi di tutto il mondo con copertura economica». Lo fa notare in un’intervista a Fides, il cardinale Javier Lozano Barragán, presidente del Pontificio consiglio per la pastorale della salute, che aggiunge: «Anche per questo il santo padre ha voluto la Fondazione il “Buon Samaritano”, che si occupasse di aiutare i poveri malati». Creata il 12 settembre 2004, e affidata al Pontificio consiglio per la pastorale della salute, la Fondazione ha ricevuto una donazione personale di Benedetto xvi di 100 mila euro. Nei suoi primi mesi di vita, precisa mons. Lozano, «la Fondazione ha già inviato 40 mila dollari, equamente divisi tra Etiopia, Congo, Tanzania e Birmania, che possiamo dire sono già pasticche antiretrovirali».
Quello di fornire farmaci, tuttavia, non è l’unico strumento con cui la chiesa interviene direttamente nella lotta all’Aids. Quattro sono le linee di fondo, per un approccio di tipo «olistico» al problema, un approccio cioè che prende in considerazione tutti gli aspetti legati a questa terribile pandemia. Non solo trattamenti antiretrovirali, dunque, ma anche prevenzione e formazione, assistenza psicologica e spirituale, accompagnamento dei malati e delle loro famiglie, assistenza alle vedove e agli orfani, e un lavoro di base per promuovere valori e comportamenti responsabili ispirati al vangelo.
Anche in ambiti non ecclesiali, pare essere questa la linea guida predominante nella lotta all’Aids, come dimostra l’ultima Conferenza internazionale che si è tenuta ad Abuja, in Nigeria, all’inizio di dicembre 2005, significativamente incentrata sul tema: «Hiv/Aids e famiglia».
«Dobbiamo prendere in mano il nostro destino – ha dichiarato per l’occasione il presidente della Conferenza, Femi Soyinka – e liberarci dell’Hiv/Aids: per questo sono necessarie politiche che rinforzino il modello familiare africano, basato sui valori dell’ospitalità, della cura e dell’assistenza».

In Uganda

Un esempio positivo in questo senso viene dall’Uganda. Dove la chiesa ha dato un contributo fondamentale alla riduzione della prevalenza dell’Hiv/Aids, adottando una formula basata sulla promozione dei valori, la fedeltà e l’astinenza. Questo intervento capillare, in tutte le regioni del paese, anche quelle rurali più isolate – e persino, dove è stato possibile, in quelle devastate dalla guerriglia nel nord – si è associato a un importante lavoro in rete di tutti i soggetti impegnati nella lotta all’Aids, dal governo ai donatori inteazionali, dalle associazioni locali alle Ong straniere. I risultati sono incoraggianti. Si è infatti passati dal 12% di persone affette da Hiv/Aids all’inizio degli anni ‘90, al 4,1% nel 2003 (ultimo dato disponibile) con una prevalenza tra gli adulti del 7,5%. Anche nella capitale Kampala la percentuale è scesa significativamente dal 29% di 10 anni fa all’8% attuale.
Questo grazie anche all’intervento tempestivo del governo che, a fronte del primo caso diagnosticato nel 1982, ha messo a punto un piano nazionale di lotta all’Aids già quattro anni dopo, aggiornato successivamente in diverse fasi per rispondere sempre meglio all’emergenza. Nel 2001, il Progetto di controllo dell’Hiv/Aids coinvolgeva 12 ministeri, 28 Ong locali e inteazionali, e 30 partners.

In Sudafrica

Lo stesso non si può dire per molti altri governi africani, alcuni dei quali, come quello del Sudafrica, portano pesanti responsabilità per il grave ritardo con cui hanno affrontato il problema Aids. Nonostante il paese abbia il numero assoluto più alto di malati – 5 milioni su una popolazione di 44 – il governo di Thabo Mbeki ha elaborato un serio piano nazionale di lotta all’Aids solo nel novembre 2003, con 15 anni di colpevole ritardo. Oggi il Sudafrica si trova a far fronte a una pandemia fuori controllo che sta devastando la società a tutti i livelli.
Anche qui la chiesa cattolica – che pure non è maggioritaria nel paese – sta facendo un lavoro enorme ed è seconda solo al governo quanto a erogazione di servizi legati alla prevenzione e alla cura dell’Aids.
Un contributo importante all’opera cornordinata dall’Ufficio Aids della Conferenza dei vescovi del Sudafrica (Sabc) è dato dall’AidsRelief Consortium, un cornordinamento di più soggetti guidato dal Catholic Relief Services (Crs), la Caritas statunitense.
In Sudafrica, AidsRelief – attraverso Sabc e un altro partner, l’Inteational Youth Development – è riuscita a raggiungere 5.500 pazienti con trattamenti antiretrovirali, più di 11 mila con cure mediche in 24 strutture.
Complessivamente AidsRelief interviene in 9 paesi, dove distribuisce trattamenti antiretrovirali a 26.600 malati e cura 78.650 pazienti in 89 strutture.
Durante una conferenza che si è tenuta alla fine del 2004 presso il Sizanani Village di Bronkhonstpruit, una sessantina di chilometri da Pretoria – un centro creato da un missionario altornatesino, padre Charles Kuppelwieser, dove tra le molte attività si curano anche malati terminali di Aids e si realizzano programmi di assistenza domiciliare – l’imperativo emerso da tutti i partecipanti è quello di rendere i trattamenti antiretrovirali sostenibili sia economicamente che nella gestione concreta di una cura che richiede grande rigore e assistenza.
«I nostri pazienti trattati con antiretrovirali – spiega Bulelani Kuwane, responsabile del centro Sizanani, che con le sue strutture coloratissime, secondo la tradizione locale, è tutt’altro che un luogo che evoca malattia e morte – vengono seguiti da assistenti sociali e infermieristici, che visitano i malati nelle loro case, assistono le famiglie e curano l’aspetto comunitario, che è estremamente importante anche nella lotta all’Aids. Perché è nella comunità che il malato trova i riferimenti a cui aggrapparsi per poter sopravvivere».
«La situazione in Sudafrica è drammatica – conferma Johan Viljoen, nel suo studio presso l’Ufficio Aids della Sabc -. In dodici anni, la prevalenza del virus tra gli adulti è salita dall’1 a oltre il 20%. Ma solo un’esigua minoranza – 10% circa – è consapevole di essere malata. E pochissimi vengono curati. In alcune zone del KwaZulu Natal, i risultati dei test sulle donne incinte mostrano che circa il 40% di loro sono sieropositive».
E proprio le donne sono le più colpite, ma anche le più attive nel reagire. Lo conferma la dottoressa Malebo Maponyane, medico infettivologo, che pure lavora presso l’Ufficio Aids della Sabc. E mentre ci porta a visitare un centro sanitario gestito dalle suore di Holy Cross, alla periferia di Pretoria, dove sono stati introdotti con grande successo, lo scorso anno, i trattamenti antiretrovirali, commenta: «Le donne continuano ad avere uno status sociale inferiore rispetto all’uomo. Dunque, non hanno voce e sono spesso oggetto di abusi anche fisici. Basti pensare che in questo paese si registra più di un milione di stupri all’anno. Molti dei quali non denunciati».
Non è medico, ma si rende perfettamente conto che l’Aids è innanzitutto donna, anche chi presta una silenziosa e paziente assistenza ai malati. Come Matsediso Mthethwa, che vive a Daveyton, una township a pochi chilometri da Johannesburg, dove padre José Luis Ponce de León, missionario della Consolata, ha creato un gruppo di volontari che si dedicano all’assistenza domiciliare.
«Le mie prime pazienti sono state due sorelle, la più grande allo stadio terminale. La loro famiglia le aveva abbandonate. La madre non se la sentiva di assisterle. E allora, insieme a una vicina, ho cercato di occuparmi di loro. Molti malati continuano a morire nel nascondimento, senza nessun tipo di assistenza perché loro stessi e i loro familiari ancora si vergognano di questa malattia che è sinonimo di maledizione e tabù».
È per combattere lo stigma, prima ancora che la malattia in sé, che padre José Luis aveva avviato un analogo progetto di assistenza domiciliare a Madadeni, periferia di Newcastle, nel KwaZulu Natal, la regione più colpita del Sudafrica.
Oggi è padre Joseph Mang’ongo, kenyano d’origine, a seguire e cornordinare una cinquantina di volontari. «L’Aids – conferma – continua a essere considerata una malattia infamante. A volte è addirittura difficile, per noi e i nostri volontari, “scoprire” i malati ed entrare in contatto con loro. Ma è importante sensibilizzare la gente e far capire che non c’è nulla di cui vergognarsi. Lo ripetiamo sempre, anche in chiesa, ma è un messaggio ancora difficile da trasmettere».

In Tanzania

Un altro missionario della Consolata, padre Alessandro Nava, sta affrontando analoghi problemi in un contesto molto diverso, in una regione povera e isolata come quella di Ikonda, sulle montagne di Livingston nel sud del Tanzania. Insieme ad alcune suore della Consolata, gestisce un ospedale che fino a pochi anni fa aveva tutt’altro di cui occuparsi e che oggi si trova assediato dall’Aids.
«Quando i missionari della Consolata hanno cominciato a costruire l’ospedale nel 1962 – spiega padre Alessandro -, la priorità era quella di curare le popolazioni di questa regione remota e di migliorae le condizioni di salute e di vita. Quando la situazione stava finalmente migliorando, l’Aids si è abbattuto anche su questa gente, con pesanti conseguenze sociali e sanitarie. Il nostro ospedale è sempre più sollecitato da questa pandemia, che nessuno, in questo paese e penso nell’intera Africa, è in grado di combattere efficacemente».
«Sono soprattutto le donne e i giovani a essee colpiti – conferma suor Egle Casiraghi, una delle missionarie della Consolata che lavorano in ospedale, mentre si aggira preoccupata nel reparto mateità -. Le campagne di prevenzione sono insufficienti e non abbastanza efficaci, la gente, continua ad ammalarsi, ma sono pochissimi quelli che hanno il coraggio di venire in ospedale a fare il test. C’è paura e vergogna. Al punto che, persino tra gli infermieri, c’è chi si rifiuta di sottoporsi al test, per timore di affrontare una malattia che rimane per molti incomprensibile e maledetta».
Nello studio medico, il dottor Gerold Jäger, una lunga esperienza in Uganda alle spalle, visita una giovane donna, che si è sottoposta al test e sa di essere sieropositiva. «Sono soprattutto le donne – afferma – che accettano di fare il test, ma spesso quando tornano a casa non osano rivelare il risultato al marito, perché rischiano di essere malmenate o cacciate, anche se è quasi sempre l’uomo a trasmettere la malattia. Purtroppo la situazione di inferiorità della donna la rende più vulnerabile anche di fronte a una catastrofe come l’Aids».
Secondo i dati ufficiali, in Tanzania l’Aids colpisce il 9% della popolazione adulta. Ma chi lavora nel settore è pronto a giurare che la percentuale è molto più alta. Realisticamente potrebbe aggirarsi attorno al 20%.
Nel dicembre del 2004, anche all’ospedale di Ikonda hanno cominciato a distribuire farmaci antiretrovirali. «Attualmente curiamo circa 150 pazienti – dice padre Nava -. Ma sono molti di più quelli che ne avrebbero bisogno. Altri 500 ricevono medicine per le malattie opportunistiche, in attesa di poter entrare nel programma degli antiretrovirali. Per il momento, con le nostre risorse, è tutto quello che riusciamo a fare».

In Mozambico

I bisogni sono enormi, qui come altrove. Un po’ più a sud, cambia il paese, il Mozambico, e il contesto, l’interno della provincia di Sofala, ma non la gravità del problema. È un altro missionario, padre Ottorino Poletto, comboniano, che si è trovato in questi anni di fronte a una sfida nella sfida: quella di lottare contro le devastazioni della guerra e, sempre di più, contro l’Aids.
«Su mandato del vescovo – racconta padre Ottorino, aggrappato al volante della sua auto, mentre percorre piste sconnesse che lui stesso ha cercato di far sistemare – sto cercando di ricostruire e riavviare quattro missioni completamente distrutte dal conflitto civile e a lungo abbandonate. Ma da qualche tempo mi sono trovato di fronte a un’altra devastazione, quella dell’Aids».
E così, nella missione di Mangunde, grazie alla presenza e al sostegno delle suore comboniane, ha aperto lo scorso anno un centro per la prevenzione della trasmissione del virus da madre a figlio, sul modello di quello proposto dalla Comunità di Sant’Egidio, che proprio in Mozambico ha lanciato il progetto Dream nel 2002. Partita da Maputo, l’iniziativa si è poi trasferita in altri luoghi, tra i quali anche a Beira, la seconda città del paese, dove fa base padre Ottorino. Il quale, però, non si è accontentato di avere un punto di riferimento in città e ha fatto di tutto per avviare il primo centro di prevenzione e cura dell’Aids in una zona rurale del Mozambico.
«Questo progetto – continua padre Ottorino – rappresenta per noi un grande impegno e un onere non indifferente. Ma ci sembrava giusto esser presenti anche così tra la nostra gente, portare questo segno di solidarietà e di carità attraverso il quale cerchiamo di dare una testimonianza autentica della presenza di Gesù in mezzo ai poveri e agli ammalati. Il nostro lavoro in missione, dalla pastorale all’educazione, dalla sanità sino alla cura dell’Aids si radica nella Parola che libera l’uomo integralmente».

Anna Pozzi




Un volto, un nome, un fratello

Nel «Centro Allamano» di Iringa alcune volontarie collaborano con le missionarie
della Consolata, nella prevenzione e assistenza ai malati di Aids. Una dottoressa e una volontaria raccontano le lore esperienze di sofferenza di fronte al dolore umano e di gratificazione per quanto ricevono dai pazienti.
I malati che vi ricevono attenzione e cure, vengono coinvolti nell’aiutare gli altri a lottare con coraggio contro il nemico comune dell’Hiv/Aids.

A distanza di un anno, sono tornata in quel pezzetto d’Africa, dove ho lavorato come medico, seppure solo per due anni. Già l’anno scorso questa generosa terra di Tanzania mi si è presentata diversa da come me la ricordavo. Alcuni progressi, certo: più strade asfaltate, più mezzi di comunicazione, più telefoni… Ma, nel complesso, la nazione è peggiorata per via del flagello dell’Aids.
Lo si legge su riviste impegnate in prima linea in questa lotta impari; a volte, gli echi di tale strage silenziosa giungono persino sulle pagine di alcuni nostri quotidiani. Le grandi promesse dei politici del G8 non hanno sortito finora alcun risultato concreto, in termini di progetti fattibili. Un’altra cosa è, però, vedere con i propri occhi. Per quanto una foto o un servizio televisivo siano realizzati bene, non si prova lo stesso effetto di quando si entra in un ospedale, dove i malati giungono spesso ridotti in condizioni pietose, sapendo di non poter guarire, ma almeno certi che non moriranno soli e senza alcuna consolazione.
Così, pur sapendo bene cosa avrei visto e quali tragedie umane avrei incontrato (o almeno sfiorato per pochi giorni), sono tornata in quell’Africa subsahariana dove povertà, malnutrizione e malattie endemiche hanno trovato in questo virus un alleato formidabile per fare strage di un’intera generazione, rendere orfani migliaia di bambini (spesso infettati dalla nascita) e provocare una reazione a catena con ripercussioni sociali ed economiche che solo ora il mondo sta conoscendo, anche se fa comodo a molti mettere la sordina, per evitare probabili contraccolpi economici a livello planetario.
I ricordi si affollano, non so da quale storia cominciare, anche perché sono tutte ugualmente tragiche.
M aria è ha meno di vent’anni; è malata di Aids e, nel momento in cui scrivo, forse è già morta. La ricordo su un pagliericcio in una stanza piccola, ma dignitosa e pulita. Fuori, nel piccolo cortile davanti alla porta, alcuni bambini fanno festa alle mie figlie venute con le caramelle. Dentro, con lei, i genitori, in piedi in fondo alla stanza.
Maria è «pelle e ossa», rannicchiata sotto una coperta di lana, malgrado i trenta gradi di oggi. Le viene messa una flebo, appesa a un chiodo nel muro; non riesce più a nutrirsi, perché un germe le ha infettato le mucose dalla bocca fino all’intestino, che non riesce più a assorbire i cibi, causandole una dolorosa diarrea.
Gli occhi infossati mi guardano: qualcuno le ha spiegato che sono un medico e negli occhi le si è accesa una luce di speranza. Vorrei dirle qualcosa, ma il mio swahili fa cilecca (è soltanto un problema di lingua?); riesco solo a balbettare alcune parole di cordoglio e poi le lacrime mi annebbiano la vista. Le prendo la mano per qualche istante. Forse il gesto serve più a me che a lei. Mi occorre sentirla, quella mano fredda e malata; almeno un contatto umano, al di là delle parole. Vorrei uscire, scappare; ma il ricordo di Maria non mi lascia proprio.
Passano pochi minuti e con Paola, una volontaria italiana che lavora al «Centro Allamano» di Iringa, torniamo alla base. Rientrano anche le altre infermiere che hanno finito il giro di visite domiciliari. E le storie si ripetono: un bambino è morto stanotte, una mamma è stata ricoverata in ospedale in fin di vita; pochi sono quelli che migliorano.
È la tragedia dell’Aids in Africa, ove i farmaci sono per pochi, troppo pochi. Paola abbozza un po’ di numeri: «Qui abbiamo in cura domiciliare circa 1.500 malati di Aids: a tutti portiamo da mangiare e, poi, cerchiamo di curare le infezioni, alleviare il dolore, dare ai malati un po’ di dignità. Solo per 130 abbiamo i farmaci; è stato difficile inserire i pazienti nella lista dei candidati alle cure.
Seguiamo le indicazioni del ministero tanzaniano della sanità, ma molti sono fuori dal programma di trattamento, a causa della mancanza di fondi; perché i farmaci adesso arrivano, ma per loro sono troppo costosi (una cura costa più dello stipendio annuale). Solo per il supporto alimentare a domicilio, i vestiti e le rette scolastiche per i figli, spendiamo circa 10 mila euro al mese. Abbiamo fra i nostri utenti 150 bambini, ma sono destinati a morire, perché non possiamo fornire loro i farmaci.
Ecco, se già prima avrei voluto scappare, adesso rimango senza parole e, a distanza di 20 giorni da quell’incontro, ancora mi tornano alla mente i 150 bambini destinati a morire. E questo non è che uno dei tanti luoghi che ho visitato, dei tanti missionari che ho incontrato; le storie si ripetono, ognuno ha centinaia di malati da curare, migliaia di orfani da assistere.

C erto, ai ricordi tristi si alternano anche momenti di gioia, come l’esperienza vissuta al villaggio di Ihela, nella regione dell’Ukinga, ove spesso si reca suor Emelina, missionaria della Consolata. Insieme incontriamo la gente del villaggio e pranziamo con loro. Qui, l’anno scorso abbiamo cominciato un progetto di adozioni a distanza dei bambini orfani. È una esperienza di «gemellaggio», di vicinanza, di familiarità con i più poveri, che ha riempito di gioia il cuore mio e di quelli che erano con me, ricordandoci quanto sono vere le parole di Gesù: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere».
E, ancora, i ricordi belli: tante persone che abbiamo incontrato e che stanno dando la vita a servizio di chi soffre, missionari, ma anche laici, come il dottor Gerold, un medico tedesco che lavora come volontario a Ikonda. Egli mi ha impressionato, oltre che per la sua professionalità, per la sua grande umanità verso i malati, che cura con amore e dedizione totale.
Ora non ho che un sogno: vedere tanti bambini sorridere, avere tante mani da stringere e scorgere finalmente la speranza sul volto di questi fratelli e sorelle che il Signore mi ha dato la gioia di incontrare sul cammino.

Marina Barcella Franceschi




Dolore tangibile…

Avevo circa 9 anni quando mia zia suor Michela, missionaria della Consolata, ritoò in Italia per un periodo di vacanza. Ero come la sua ombra, quasi sempre appresso. Un bel giorno le confidai che da grande l’avrei aiutata… Parole di bambina, desiderio che è rimasto in me sempre, anche se i miei studi hanno limitato le possibilità di andare in missione: non sono medico, né infermiera, né maestra, né psicologa, ma ho una specializzazione in marketing e finanza, decisamente un altro campo.
Passa il tempo e le strade tra Dublino (dove vivevo) e Iringa (dove vive suor Michela), si incontrano. Al «Centro Allamano», in cui la zia gestisce un dispensario diuo adibito all’assistenza sociale, psicologica, medica, economica delle persone affette dal virus Hiv/Aids, dei loro bambini e dei numerosi orfani.
Nasce l’esigenza di una persona che si occupi di amministrazione, perché l’attività si sta ingrandendo, sempre più persone vengono a bussare alla sua porta e la tendenza non sembra diminuire. Suor Michela, con qualche dubbio e incertezza, mi scrive una lettera, nella quale mi chiede di andare a Iringa per aiutarla nel lavoro del Centro. Provo una forte emozione: mi sembra di toccare il cielo… Sì, l’avrei aiutata! E parto per il Tanzania.
Il 3 febbraio arrivo a Dar es Salaam con un visto turistico di 3 mesi, senza contratto di lavoro, e subito inizio il mio servizio nel «Centro Allamano», dove non mi occupo solo di amministrazione, ma guido una delle macchine per l’assistenza domiciliare ai malati: ogni giorno andiamo su e giù per le colline di Iringa e i villaggi dei dintorni a visitare i nostri pazienti.
Sono a contatto diretto con i malati, le loro famiglie, problemi, dolore, desolazione, miglioramenti, ricadute, progressi… L’esperienza quotidiana è molto forte: non è facile toccare con mano il dolore, sentirsi inutili, impotenti di fronte alla realtà di sofferenza. Ma qualcosa accade. La nostra visita, le nostre parole, il nostro affetto danno sollievo alle persone che ci ringraziano e benedicono. Quanto bene ricevo, io che pensavo di dae!
Seguire i malati non è semplice: occorre dare loro assistenza psicologica, medica, sociale e, soprattutto, aiutarli a crescere, affinché, nel limite delle loro forze, possano riprendere in mano la loro esistenza. Al Centro si organizzano corsi di formazione per microcrediti e microprogetti; si incentivano idee per una piccola attività, perché gli ammalati ritornino a essere operativi in famiglia e nella società, sentendosi nuovamente delle persone.
I bambini (molti sono orfani) vengono aiutati e spronati affinché vadano a scuola, apprendano un mestiere, diventino autosufficienti da adulti. Con la morte prematura dei genitori, rischiano di finire sulla strada, oppure di fare i «servetti» presso qualche famiglia di parenti; il nostro impegno è proprio quello di salvarli da queste situazioni, perché possano costruirsi un futuro.
Quanta gioia si prova quando nascono bambini sani pur da mamme malate, perché hanno ricevuto la medicina antiretrovirale; oppure malati che stanno meglio e li si incontra per strada a parlare con gli amici o di ritorno dal mercato con un po’ di frutta; o ancora, che il micro progetto a loro affidatogli dà buoni risultati; e vedi l’orto con tanta verdura: sono come luce di stelle in una notte buia, che ti guidano verso una Luce più grande.

A circa un anno dal mio arrivo, mi rendo conto che devo imparare ancora molto su come vivere a pieno lo «spirito missionario», per evitare retorica e luoghi comuni. L’andare in missione (ovunque sia) non deve essere un’avventura fine a se stessa, un’esperienza alternativa al «grigiore» della nostra esistenza, una fuga, ricerca di una soddisfazione personale, egoistica; se così fosse, si sbaglierebbe tutto.
Spesso si parte con tante buone intenzioni, poi la realtà mette alla prova; occorre trovare la forza per continuare e cercare di imparare a fare bene il bene, il che non è semplice.
Ammiro i missionari, che da tanti anni vivono e lavorano qui; sono un esempio molto importante per me; le loro esperienze di vita, conquiste, sconfitte, riflessioni, dubbi, proposte… mi aiutano ad aprire gli occhi e chiedermi quali sono i motivi per cui sono volata in Tanzania. Sono venuta perché potevo essere di aiuto in questa terra drammaticamente bella; spero di crescere, di maturare e che la mia presenza sia fonte di sollievo al prossimo che incontro.
La strada della vita mi ha condotta fin qui; il Signore mi ha guidata per mano, fino all’Allamano Centre; ma ognuno di noi può essere «missionario», il prossimo è ovunque, vicino o lontano dal posto in cui viviamo.

Paola Viotto




Non nascondiamoci!

È chiaro che, a causa della diffusione dell’Aids, la famiglia sia in grave pericolo. Non è difficile incontrare famiglie che non abbiano più un genitore, o addirittura entrambi. Spesso si viene a conoscere che sono morti per «la malattia dei nostri giorni», senza dire apertamente cosa sia successo, come se non si sapesse di cosa si stia parlando. In questa situazione, chi sopporterà maggiormente il peso della vita, se non i bambini? Le testimonianze che seguono provengono da due donne affette dal virus dell’Aids e ci spronano a non tacere davanti a questa tragedia che ci tocca tutti.

(Testimonianze raccolte da padre Gianni Treglia e pubblicate sulla rivista Enendeni)

Sono una vedova e ho 42 anni. Ho quattro figli, di cui l’ultimo ha 13 anni ed è in settima (l’ultima classe delle primarie, ndr). Nel 1996, mio marito si ammalò e morì.
Dopo la sua morte, anch’io mi ammalai di tubercolosi e fui ricoverata nell’ospedale regionale dove fui curata. Dopo di ciò, cominciai ad avere problemi di salute, con dolori alle ossa. Per lungo tempo sopportai questa situazione, finché un giorno, fortunatamente, incontrai un consulente medico e con lui accettai di controllare a fondo la mia situazione. Dopo varie analisi, risultò che avevo contratto il virus dell’Aids. A dire il vero, questo mi sconvolse alquanto e già pensai di essere una morente.
Però Dio è buono e il consulente mi indicò in che modo vivere, cosa mangiare, cosa lasciare, cosa fare. Ritornai dal primo medico, il quale mi consigliò allo stesso modo. Ora mi ritrovo ad avere speranza di vivere, ad accettare la mia condizione. Ora vivo grazie anche agli aiuti di organizzazioni non governative, che contribuiscono a mandare avanti i miei figli negli studi, a ricevere dei microcrediti che mi permettono di vivere una vita dignitosa.
Non nascondo la mia situazione e per dare una informazione giusta voglio sensibilizzare la società: è bene andare a controllare la propria salute, piuttosto che vivere nella paura. Se conosceremo la nostra situazione sanitaria, sapremo programmare meglio la vita. Nonostante la morte sia lì, spazza via la paura e va’ a fare le analisi. Non farti ingannare dall’aspetto esteriore della persona. L’unica medicina è fare le analisi. I centri per questo sono tanti. Dopo aver fatto le analisi e accettata la tua condizione, vivrai in pace, scaccerai la paura che hai ogni volta che non stai bene e pensi: ecco, sono finito! Queste possono essere piccole malattie secondarie, che possono essere curate. Il virus, di per sé, non ti danneggerà più di tanto, se seguirai i consigli dei consulenti e potrai vivere più a lungo senza problemi.
Sono ormai nove anni che so di avere il virus dell’Aids, eppure sto bene e vado avanti con speranza nella vita. Alzati, allora, e vai a controllare la tua salute.

Vivo a Kihesa (quartiere di Iringa) e ho tre bambini. È dal 1996 che ho scoperto di avere il virus dell’Aids, quando andai per una visita.
Nel 2003, mi recai al «Centro Allamano», l’ospedale per affetti da virus di Aids, gestito dalle missionarie della Consolata, per fare un nuovo controllo e ho visto che il virus era ancora lì, non se ne era andato, né era diminuito.
Il motivo per cui andai a controllarmi fu questo: mio marito desiderava che avessimo il quarto figlio e io, da parte mia, ho creduto bene di verificare lo stato della mia salute, prima di rimanere incinta. È qui che scoprii di essere affetta dal virus dell’Aids. Consigliai a mio marito di fare altrettanto, dicendogli che sarei stata disposta a rimanere incinta dopo aver fatto le analisi.
Non mi diede retta, ma questo durò solo due mesi. Si convinse e lo portai al «Centro Allamano», dove diagnosticarono la presenza del virus, ma ci consigliarono il modo di vivere da marito e moglie nonostante l’Aids. Ricevemmo tanti insegnamenti che ci aiutarono a poter allevare i nostri figli senza perdere la speranza (poi il marito morì, ndr).
Ringraziamo Dio per il «Centro Allamano», che si ricorda delle persone affette dal virus, le raduna, dà loro aiuti di ogni genere che permettono alla gente di vivere senza doversi rompere il capo per sapere delle medicine o del cibo. Inoltre, il Centro fa prestiti a chi ha ancora la forza di lavorare. Offre pure piccoli progetti di allevamento di bestiame (quali polli, capre, ecc.) e anche attrezzature varie per l’agricoltura. Ci è stato anche insegnato come fare l’orto: non abbiamo problemi di verdura, ora, anche nei periodi di siccità.
Perciò, fatevi avanti e controllatevi, non fatevi ingannare dall’apparenza del vostro stato di salute, pensando di stare bene. No, fai le analisi per conoscerti. E se non hai fatto le analisi, sta’ zitto, non indicare a dito le persone!

M i chiamo Abely Myovela, ho 39 anni. Con molte speranze vivo nella città di Iringa. Ho scoperto di avere il virus dell’Aids il 12 dicembre del 1996. Questo avvenne dopo lunga malattia, che mi vide ricoverato per più di due anni. Mentre ero in ospedale, fui consigliato di fare le analisi per vedere se avessi l’Aids, ma non accettai quel consiglio.
Il dolore cresceva, il mio problema diventava sempre più grande e cominciarono a venir fuori molti bubboni. Toai così dal dottore che mi aveva in cura, il quale mi consegnò un foglio con cui mi mandava dal consulente medico dell’ospedale.
Il dialogo si protrasse a lungo, almeno due ore e mezzo; dopo di che, mi fu prelevato il sangue. Quando le analisi furono pronte, i risultati erano inequivocabili: avevo contratto il virus dell’Aids! Il consulente, in quel secondo colloquio e dopo avermi fatto conoscere i risultati, si accorse che avevo cambiato atteggiamento, tanto da andarmene sbattendo forte la porta.
Quando la rabbia si affievolì, tornai dal consulente, che mi rassicurò riguardo il mio comportamento: era cosa normale. Non ero il solo in quella situazione, c’erano anche degli altri e, se lo desideravo, mi avrebbe accompagnato da loro. Accettai la proposta e mi condusse a un incontro con malati che avevano contratto il virus; in gruppo, ricevemmo dei consigli.
Ho deciso di non nascondermi alla società, anzi desidero che la gente veda una testimonianza vera, affinché comprenda la gravità di questo problema. Ho continuato a ricevere tanti insegnamenti per poter vivere con speranza; ho la possibilità di incontro con altre persone che hanno il virus; ho frequentato seminari per conoscere l’importanza di una buona alimentazione per curare le malattie a esso collegate e prevenire nuovi contagi.
Nonostante sia infetto, posso vivere più a lungo. Ho imparato che avere il virus non significa essere già morto. Ho incontrato altre persone malate e associazioni che si occupano di loro. Sono venuto a conoscenza dei luoghi dove vengono offerti servizi e aiuti di altro genere. In ospedale, conoscendo la mia situazione, vengo subito accolto e curato.
A dire il vero, all’inizio ho avuto molti problemi, soprattutto quando ho ammesso apertamente la mia situazione; e così, quando gli altri ne sono venuti a conoscenza, ho sperimentato una situazione di infelicità. Ero, infatti, visto come un «diverso». Ciononostante, non mi sono scoraggiato. Mi sono fatto avanti e ho cominciato a dire a tutti che solo facendo le analisi è possibile sapere se uno sia affetto o no dal virus dell’Aids.
Poiché in quel periodo ero in una situazione pietosa, la gente mi aveva già battezzato con svariati nomi: «Il compare ha il tamburo; il compare si è inciampato; il compare ha l’elettricità; il compare è andato a sbattere…» (espressioni che ho tradotto letteralmente, molto efficaci nel nostro linguaggio di strada, ma che in fondo indicano chi è stato contagiato, ndr).
Però non ho mollato e ho continuato a espormi. Ho creduto che ciò fosse normale. Allo stesso tempo, molti di coloro che mi indicavano a dito se ne sono andati proprio per lo stesso male. Non sapevano che l’Aids è una tragedia nazionale e mondiale. Altri che hanno contratto il virus ora mi cercano per consigli, come «maestro del vivere con speranza»: le accolgo, le consolo, dicendo loro di non perdere la speranza di vivere, di accettare il problema e prenderlo per quello che è. Fino ad ora vado avanti con i miei impegni quotidiani e per questo non mi vedono diverso dagli altri.
Ora consiglio a tutti che bisogna conoscere la propria situazione. Personalmente, dopo aver avuto certezza della mia condizione, vivo tranquillo. Non è facile per un altro conoscere che ho il virus dell’Aids, poiché il mio stato di salute è buono. A tutti dico di abbandonare i comportamenti che diffondono il virus e di non emarginare nessuno, perché nella lotta contro il nemico dell’Aids bisogna combattere uniti.

Gianni Treglia




Non c’è tempo da perdere

Dopo due anni di studi e ricerche, il Programma delle Nazioni Unite su Hiv/Aids (Unaids) ha presentato, il 4 marzo 2005 ad Addis Abeba, il rapporto: «Aids in Africa: tre scenari al 2025». Vengono descritte tre possibili direzioni di lotta all’Aids nei prossimi 20 anni, con relative implicazioni e conseguenze economiche, politiche e sociali. Tali evoluzioni o scenari dipendono dalle decisioni che vengono prese oggi sia dai leaders africani che dal resto del mondo.

Quali saranno, nei prossimi 20 anni, le risposte dell’Africa e del mondo all’epidemia di Aids? Quale futuro per la prossima generazione? Per rispondere a tali domande, il Programma delle Nazioni Unite su Hiv/Aids (Unaids) lanciò un progetto di studio, nel febbraio 2003, in collaborazione con l’Unione africana, banche e altri organismi inteazionali.
Per 18 mesi si sono tenuti seminari, simposi, ricerche, analisi… in cui hanno messo a disposizione tempo, esperienze e competenze centinaia di persone di ogni ceto sociale, per lo più coinvolte in prima persona con i problemi dell’Hiv/Aids nel continente africano. I risultati sono stati resi pubblici il 4 marzo 2005, ad Addis Abeba nel rapporto «Aids in Africa: tre scenari al 2025».

Punti di partenza e natura degli scenari

Il progetto parte dall’analisi delle forze che provocano e influiscono sull’evoluzione dell’epidemia dell’Aids in Africa: sono fattori culturali, che sono alla base dei comportamenti sessuali, le disuguaglianze sociali e tra i sessi, le condizioni economiche di povertà e sottosviluppo, i fattori politici, come instabilità e inefficienze dei governi.
Inoltre, il progetto poggia su due ipotesi fondamentali: 1) l’Aids non è un problema di breve durata, ma colpirà l’Africa ancora per 20 anni; 2) le decisioni che prendiamo oggi forgeranno il futuro del continente.
Il progetto descrive tre diversi scenari possibili, che non sono predizioni, ma storie plausibili sul futuro del continente, a seconda delle diverse scelte con cui dovranno confrontarsi i paesi africani nei due decenni a venire.
La situazione non è inevitabile. Milioni di nuove infezioni potrebbero essere evitate, se l’Africa e il resto del mondo decidono di affrontare l’Aids come una crisi eccezionale, con la potenzialità di devastare intiere società ed economie.
Ciò che facciamo oggi può cambiare il futuro. Nonostante la persistenza per lungo tempo dell’Aids, la vastità dell’impatto dell’epidemia dipenderà dalla reazione e dagli investimenti del presente. L’applicazione e il sostegno degli insegnamenti del prossimo ventennio farà la grande differenza nel futuro dell’Africa.
Questo progetto non intende decretare quali saranno queste decisioni. Il suo scopo è semplice: offrire uno strumento capace di aiutare a prendere le decisioni migliori, esplorando l’interconnessione tra i vari fattori sociali, culturali, economici e politici, identificando e sfidando le ipotesi e i meccanismi, spesso sottintesi, dei medesimi fattori.
In ogni scenario vengono illustrati anche i costi dei programmi di lotta all’Hiv/Aids, calcolati sulla base di quanto è stato fatto nell’ultimo decennio, analizzando la relazione tra interventi e risultati. Naturalmente tali scenari non nascondono la persistenza di alcune importanti incertezze che circondano l’epidemia dell’Aids: come è percepita la crisi dell’Aids e da chi? Ci saranno incentivi e capacità di affrontarla? I diversi scenari offrono risposte diverse a queste domande e illustrano gli effetti prodotti dai vari livelli di incentivi e risorse disponibili.

1° SCENARIO: scelte senza concessioni

Il primo scenario racconta una storia in cui l’Africa si impegna realmente nella lotta; i leaders africani scelgono di prendere misure drastiche e inflessibili per ridurre la diffusione dell’Hiv a lungo termine, anche se tale scelta comporta difficoltà a breve termine in altri settori.
Lo scenario è raccontato quasi fosse il copione di un documentario realizzato nel 2026: insieme alle osservazioni di una parte di esperti e leaders africani, sono descritte le rigorose scelte economiche, sociali ed etniche che i governi devono adottare per generare un rinnovamento nazionale. Non è un tempo di abbondanza per l’Africa.
In tale contesto governi capaci sono della massima importanza, ma anche lo sviluppo di istituzioni regionali e panafricane assume un ruolo chiave. Lo scenario dimostra che è possibile creare una risposta in cui leaders e comunità procedono insieme; dimostra che un approccio tempestivo e rigoroso alla prevenzione darà i suoi effetti, anche se occorrerà del tempo prima di registrare effetti evidenti.
Nonostante i considerevoli sforzi nella prevenzione, la crescita demografica aumenta il numero di persone affette da Hiv/Aids, per attestarsi su livelli simili a quelli di oggi entro il 2025, per poi diminuire, quando gli investimenti a lungo termine in capitale sociale, economico e umano del prossimo ventennio cominceranno a dare i primi frutti.
Mentre lo sforzo principale dei programmi contro Hiv/Aids si focalizza sulla prevenzione, c’è un aumento progressivo della terapia antiretrovirale, grazie al costante investimento nei sistemi sanitario e scolastico e nella produzione di farmaci in Africa.
Il numero dei morti continua a essere alto almeno fino al 2015; dopo di che la percentuale comincia a calare: le misure preventive, infatti, hanno bisogno di tempo per dare risultati all’interno del sistema.
In tutto il corso dello scenario, raddoppia il numero dei bambini resi orfani dall’Aids; ma anche le iniziative a loro sostegno aumentano rapidamente intorno al 2010 e continuano con il crescere della popolazione.
Per quanto riguarda i costi, buona parte del loro aumento deriva dalle maggiori spese per attività di prevenzione e sarà sempre più rapido tra il 2008 e il 2014. I costi per le cure, invece, all’inizio della prima decade crescono lentamente, ma subiranno un’accelerazione negli anni successivi, quando sistemi e capacità saranno messi in campo per una diffusione durevole degli interventi.
In tale scenario si ipotizza un costante e consistente aiuto da parte dei donatori nella lotta all’Aids, mentre ristagna la promozione dello sviluppo.

2° SCENARIO: il peso del passato

Il secondo scenario racconta una storia in cui l’Africa intera non riesce a sfuggire ai suoi maggiori retaggi del passato, per cui l’Aids penetra profondamente nelle trappole della povertà, sottosviluppo ed emarginazione in un mondo globalizzato.
Nonostante le buone intenzioni dei leaders e l’aiuto sostanziale di donatori inteazionali, una serie di ostacoli impedisce a tutti, eccetto poche nazioni o settori privilegiati della popolazione, di sfuggire alla povertà e all’alta diffusione dell’Hiv.
Lo scenario ipotizza che Hiv e Aids continueranno a ricevere forte enfasi nel prossimo futuro, ma le reazioni saranno disperse e a breve termine, spesso non riescono ad affrontare la realtà quotidiana e pertanto a dare una soluzione duratura.
Lo scenario identifica 7 ostacoli che impediscono uno sviluppo efficace, a lungo termine o largamente diffuso nel continente:
1. il retaggio della storia dell’Africa;
2. il ciclo di povertà, ineguaglianza e malattia;
3. le divisioni e fratture sociali;
4. la ricerca di guadagni rapidi;
5. le sfide della globalizzazione: integrazione e marginalizzazione;
6. la dipendenza dagli aiuti e la ricerca di sicurezza globale;
7. la reazione all’epidemia dell’Aids: scorciatornie e rimedi miracolosi.
Il secondo scenario ha come sottotitolo: la spirale infeale. Da una parte le politiche dei paesi africani nella lotta all’Aids si mostrano inefficaci e l’aiuto esterno è fluttuante e/o diminuisce; dall’altra l’infezione soffoca le risorse e indebolisce le infrastrutture; la piaga della povertà, sottosviluppo e disuguaglianze si allarga ulteriormente; in molti paesi diminuisce la speranza di vita; effetti devastanti si ripercuotono a livello familiare e sociale, aumentando disunità e disintegrazione, tensioni etniche e religiose, fino alla frammentazione degli stati. Di tale situazione si avvantaggiano i soliti profittatori, con spreco di risorse e fondi destinati alla cosiddetta industria dell’Aids.
Così, entro il 2025, la percentuale di persone colpite dall’epidemia supererà i livelli attuali, e continuerà ad aumentare negli anni seguenti, poiché la prevenzione non è diffusa efficacemente a livello periferico e i costi di tale prevenzione continueranno a salire.

3° SCENARIO: tempi di transizione

In «tempi di transizione», dal sottotitolo «l’Africa recupera il tempo perduto», l’epidemia è percepita come una crisi eccezionale che esige risposte eccezionali: politiche intee e aiuti estei si intrecciano in modo efficace.
Transizioni e trasformazioni descrivono il modo in cui l’Africa e il resto del mondo devono affrontare insieme vari problemi: la salute, lo sviluppo, il commercio, la sicurezza e le relazioni inteazionali, per poter raggiungere lo scopo di dimezzare il numero di persone affette da Hiv/Aids e assicurare che la maggioranza di coloro che necessitano della terapia antiretrovirale possa accedervi entro il 2025.
Una serie di «storie» identificano 6 trasformazioni interdipendenti, per dare al futuro dell’Africa una nuova faccia e il suo posto nel mondo:
1. «Dall’orlo della catastrofe» descrive i cambiamenti nel modo di trattare Hiv/Aids, con una rapida diffusione delle cure ed efficaci strategie di prevenzione, sostenute da una società civile molto attiva;
2. «Mettere in ordine la casa» si concentra sulle reazioni della politica nazionale, per ridurre la povertà e rafforzare lo sviluppo, cruciale per limitare la diffusione dell’epidemia;
3. «Lavorare insieme per lo sviluppo» studia il miglioramento della collaborazione tra governi africani e alleati estei nei primi 25 anni del secolo, tempo in cui le risorse sono dirette e cornordinate sempre più dai governi africani e dai loro popoli;
4. «Commerciare sulle forze» affronta in modo dettagliato i cambiamenti chiave che hanno luogo nel commercio;
5. «Sentimenti e diritti umani» descrive la popolazione al centro dello scenario e i modi in cui essa è cambiata: mutamenti radicali che riguardano anche le relazioni tra uomini e donne, tra questi e le loro comunità;
6. «Piantare la pace» descrive come la prevenzione dei conflitti e la promozione della pace e sicurezza, tra le nazioni e all’interno di una stessa nazione, giochi un ruolo vitale nei nuovi impegni africani del xxi secolo.
Lo scenario descrive i cambiamenti fondamentali che avvengono anche nel modo in cui i donatori foiscono aiuti e come i governi li gestiscono, affinché tali aiuti rispettino autonomie e sovranità nazionali, non siano causa di inflazione e non generino dipendenza.
In questo scenario, oltre a dettare nuove regole e nuove relazioni di collaborazione negli affari inteazionali, viene mobilitata la società civile nazionale e internazionale. Si inizia con attivisti impegnati nell’attenta somministrazione delle terapie antiretrovirali; quindi altri settori della società civile sono interessati, coinvolti e impegnati nella lotta.
Se queste transizioni riuscissero a essere attuate in una sola generazione, si ridurrebbe notevolmente il numero delle infezioni: tra il 2003 e il 2025 il numero di persone affette da Hiv si dimezza e la diffusione delle terapie antiretrovirali è strepitosa.
Sotto l’aspetto finanziario, lo scenario descrive una crescita iniziale delle spese per la prevenzione, ma l’investimento per le cure e terapie comincia a diminuire a partire dal 2019, anno in cui si dovrebbe registrare anche un calo nel numero di persone affette dal virus.

Implicazioni e insegnamenti

Presi nel loro insieme, i tre scenari introducono alcune importanti considerazioni per attivisti, politici, pianificatori e per coloro che mettono in opera questi programmi. Ma non garantiscono una reazione sufficiente contro l’epidemia. Essi indicano che ci sono ancora grandi cose da fare per cambiare la traiettoria a lungo termine dell’epidemia e per incidere sul numero delle persone che contrarranno l’infezione.
Di fronte a una crisi che supera l’attuale capacità di reagire, non tutto può essere fatto subito. Non c’è un rimedio miracoloso. L’Hiv/Aids è un evento di lunga durata.
Tutto dipende da come e da chi viene affrontata la crisi in Africa. Il risultato delle azioni intraprese deve tenere in considerazione la cultura locale, i valori e significati nell’elaborazione delle politiche da seguire. Ma anche l’identità religiosa sembra giocare un ruolo importante. Tuttavia, risposte efficaci possono essere raggiunte solo con un effettivo impegno e supporto dal centro.
La vulnerabilità sociale, economica e fisiologica delle donne nei confronti dell’Hiv è evidentissima; ma non sono state adeguatamente implementate politiche e azioni per meglio favorire la loro protezione. È di capitale importanza prendere misure per migliorare il loro status nella società: istruzione obbligatoria per tutte le ragazze, eliminare la violenza sulle donne, garantire loro uguale accesso alla proprietà, rendite e lavoro. Una soluzione efficace del problema della parità tra i sessi, si riverbera necessariamente sulla riforma di altri settori in campo sociale, economico e politico.
Finora, la volontà delle comunità di prendersi cura dei bambini orfani è stata notevole, ma la natura ricorrente e ciclica della crisi dell’Aids potrebbe condurre all’esaurimento di questa volontà. Alteative più a lungo termine devono essere pianificate oggi. Gli scenari mostrano come l’investimento nei bambini sia una risorsa del futuro e il mantenere i genitori sani e vivi contribuisca in modo significativo ai risultati generali in questa lotta.
L’impatto psicologico dell’epidemia, in generale, è stato poco studiato. La salute mentale, come quella fisica, deve essere inclusa nei programmi di prevenzione, trattamenti e cure.
Infine, gli scenari dimostrano chiaramente che non conta solo quanto si spende per i programmi di lotta all’Hiv/Aids, ma come e in quale contesto: l’aumento delle spese dovrebbe mirare a ottenere miglioramenti significativi nel frenare la diffusione dell’Hiv, mitigae l’impatto e facilitare l’accesso alle terapie.

Uso degli scenari

Lo sviluppo degli scenari è solo il primo passo: essi sono studiati e applicati in modo efficace attraverso processi interattivi, che incoraggiano chi li usa a riflettere sulle ipotesi e sui giudizi individuali e collettivi. Con tali scenari il progetto Unaids spera di:
1. aumentare la comprensione dell’Hiv/Aids e delle forze che ne delineano il futuro nel continente;
2. far crescere la consapevolezza (e la possibile sfida) delle percezioni, credenze, ipotesi e mappe mentali in cui si radica l’epidemia;
3. aumentare l’intesa reciproca tra le varie parti, per creare un linguaggio comune con cui discutere il problema dell’Hiv/Aids in Africa;
4. aumentare la consapevolezza e la comprensione dei fattori, forze guida e incertezze fondamentali (e loro relazioni) che determinano il futuro dell’Hiv/Aids;
5. stimolare la presa di coscienza dei dilemmi posti e scelte da fare;
6. identificare le lacune da colmare e l’ordine in cui farlo, accompagnando organismi e paesi dal punto di partenza fino al raggiungimento degli scopi prefissati;
7. creare e sviluppare piani, strategie e politiche; e poi valutare o sfidare la validità e consistenza di ogni visione e strategia;
8. analizzare le situazioni specifiche, i rischi e le opportunità concrete di un dato paese o regione;
9. fornire lo sfondo per una storia specifica che necessita di essere raccontata, per creare passione e sostegno per una politica concreta.

Problema tempo

Costruire scenari significa impegnarsi con il tempo: presente, passato e futuro assumono significati diversi nei tre scenari.
In scelte inflessibili il tempo è intergenerazionale: passato, valori ancestrali, identità storica e familiare danno forma al presente; le azioni del presente hanno conseguenze non solo per la generazione attuale, ma anche per quelle a venire.
In retaggi del passato il tempo è breve, il ritorno dei risultati deve essere immediato, gli obiettivi sono legati a un tempo determinato e le azioni si misurano in termini di mandati politici. Eventi a lungo corso come l’Hiv/Aids non rispondono bene alla brevità del tempo.
In tempi di transizione si parla più della profondità del tempo che della sua durata. Le transizioni e trasformazioni immaginate potrebbero aver bisogno di generazioni, che si susseguono in maniera consequenziale. Ma questo scenario parla di un mondo in cui i passaggi bruschi e la sinergia sono metafore dominanti: i progressi contro l’epidemia sono rapidi perché generati da altre transizioni che avvengono simultaneamente.
Gli scenari permettono un impegno a più dimensioni su un problema e foiscono un quadro più completo da esplorare. Ciò che essi offrono è il punto di partenza per avviare un processo; il loro valore sarà evidente nel momento in cui essi saranno ampiamente diffusi, discussi e usati.
Soprattutto, questi scenari ci dicono che, mentre da un lato qualsiasi azione intrapresa è in ritardo per i milioni di persone già morte di Aids, dall’altro è ancora possibile cambiare il futuro di altri milioni di persone. Ma non c’è tempo da perdere.

(Da: AIDS in Africa: Three Scenarios to 2025, sezioni 1-2-8, traduzione e sintesi di E. Zanchi, F. Mazzarella e Laura Picchio)

a cura di Unaids ( E. Zanchi)