We care, oppure…

Non si può far finta di niente: l’Aids è un problema di tutti. Chi pensa di lavarsene le mani, relegandolo al ruolo di semplice «problema africano», uno fra i tanti, si sbaglia di grosso. Con la Campagna di sensibilizzazione e aiuto «Salute Africa» vogliamo rompere il silenzio e scuotere le coscienze, nel segno della consolazione.

Questa è la storia di Thandi, una bambina sudafricana di dieci anni; una bambina come tante. Per lungo tempo, Thandi aveva curato sua madre, che soffriva di una malattia che nessuno chiamava per nome; nel frattempo, faceva da mamma a due fratelli più piccoli. Tutto questo le aveva tolto molte energie e le aveva causato un grande stress. Aveva lasciato la scuola per guardare la famiglia che, nel frattempo, era stata abbandonata dal padre.
Un giorno, sua madre morì e, durante il funerale, lei sentì per la prima volta la parola «Aids», sussurrata dai vicini. Sebbene Thandi non avesse alcun introito, continuò a prendersi cura dei due fratellini. Non solo; pensò che sarebbe anche stato opportuno ritornare a scuola, per migliorare la propria educazione. Lo stigma, però, la segnava a causa della morte di sua mamma; non aveva alcun soldo per comperare la divisa scolastica e pagare la retta, e il direttore le rifiutò un posto alla scuola.
Quando i vicini vennero a saperlo, decisero di andare loro stessi dal direttore per spiegare la situazione di Thandi. Sebbene essi sapessero che il responsabile della scuola dispensava le persone più povere dall’acquisto della divisa e dal pagamento della retta, erano certi che la vera causa per cui la bambina veniva rifiutata era lo stigma dell’Aids.
I vicini si presentarono direttamente al Consiglio d’istituto, ma non ci fu niente da fare. Citarono persino la Costituzione del Sudafrica, che dice: «Ogni bambino ha il diritto all’educazione e non può essere rifiutato a causa della mancanza di soldi». La risposta dei membri del Consiglio d’Istituto fu: «We do not care (non c’interessa), noi stiamo con la decisione del direttore».
Lo stigma era il marchio che si imprimeva a fuoco sul bestiame, come segno di proprietà; era anche il marchio a fuoco con cui si bollavano sulla fronte, per punizione, i delinquenti e gli schiavi fuggitivi. Oggi, lo scao racconto di un fatto realmente avvenuto diventa la premessa per accogliere il grido di questa bambina e dare noi una risposta: «We care». A noi interessa, dicono migliaia di missionari e missionarie della Consolata e loro collaboratori, lanciando il loro appello all’Europa in particolare. Essi, giorno dopo giorno, sentono il pianto e vedono il dolore degli oltre 11 milioni di bambini orfani d’Aids in Africa. Il loro grido d’aiuto chiede una risposta delle scienze mediche, economiche, politiche, sociali e religiose, oltre che una risposta umanitaria.
Chiaramente non è solo un problema africano. L’Aids è un problema globale; devasta intere aree dell’Asia, dell’Europa orientale, oltre ad essere un problema e una fonte di preoccupazione in America e nell’Europa occidentale.
Tutti preferiscono far finta di niente, mantenere il silenzio il più possibile, parlare d’altro o ritenerla una malattia come tante altre. Al contrario, i responsabili del futuro dell’umanità ne sono veramente preoccupati. Scriveva Giovanni Paolo ii nel suo ultimo messaggio per la Giornata mondiale dell’ammalato 2005: «Nella lotta contro l’Aids, tutti devono sentirsi coinvolti.
Tocca ai governanti e alle autorità civili fornire chiare e corrette informazioni al servizio dei cittadini, come pure dedicare risorse sufficienti all’educazione dei giovani ed alla cura della salute. Agli operatori pastorali domando di portare ai fratelli e alle sorelle colpiti dall’Aids tutto il conforto possibile sia materiale che morale e spirituale. Agli uomini di scienza e ai responsabili politici di tutto il mondo chiedo con viva insistenza che, mossi dall’amore e dal rispetto dovuti ad ogni persona umana, non facciano economia quanto ai mezzi capaci di mettere fine a questo flagello».
Suggerisce Kofi Annan, segretario generale delle Nazioni Unite: «Per il momento le uniche armi disponibili sono l’unione e la collaborazione tra i diversi protagonisti delle strategie contro l’Hiv-Aids, per cui occorre far crescere la mobilizzazione di tutti i soggetti, le imprese private, le istituzioni nazionali e le organizzazioni non governative. Ogni attore sociale ed ogni individuo hanno una responsabilità verso la collettività perché l’Hiv/Aids è un problema di tutti non solo delle persone Hiv positive».
Infine le parole di Thabo Mbeki, l’attuale presidente del Sudafrica, che all’inizio del suo mandato presidenziale affermava: «Il virus è tra di noi, è reale, si sta diffondendo. Per troppo tempo abbiamo chiuso gli occhi, sperando che la verità non fosse così vera. E invece è con noi, nei posti di lavoro, nelle nostre classi scolastiche, nelle biblioteche. C’è nei nostri incontri di preghiera e in altre funzioni religiose… L’Aids è un mio problema. È un tuo problema. Ogni giorno e ogni notte, ovunque noi siamo, noi informeremo le nostre famiglie, amici e vicini che essi si possono salvare e possono salvare la nazione, cambiando il loro modo di vivere e di amare. Coloro che sono ammalati di Hiv-Aids sono persone umane, come voi e come me. Quando diamo loro una mano, noi costruiamo la nostra propria umanità».

P ur salvaguardando i diritti legati ai brevetti farmaceutici, il diritto alla salute, soprattutto per i poveri, viene prima di ogni possibile business miliardario delle case farmaceutiche. Anche per questo, la Campagna «Salute Africa» ha come sottotitolo «Nella Giustizia la lotta all’Aids». Affermo con forza: «Prima la salute, poi il commercio».
Già la Santa Sede, in occasione della presentazione del messaggio della Quaresima 2004, dedicato alla difesa dei bambini, chiedeva ufficialmente, attraverso il presidente del Pontificio consiglio per la promozione umana e cristiana Cor Unum, l’arcivescovo Paul Josef Cordes, che fossero abbassati i prezzi dei farmaci antiretrovirali. Ma il forte appello non ha minimamente scalfito le coscienze dei signori del farmaco. Anche in questi momenti, in Africa e in altre vaste regioni del Sud del mondo, continuano a morire nel silenzio milioni di persone che potrebbero essere salvate. E allora, senza perdere altro tempo:

«ROMPIAMO IL SILENZIO!»

Per questo i missionari della Consolata (padri e suore, fratelli e volontari) hanno scelto di scendere in campo e chiedono di unirsi a loro nel farsi carico di questa immane tragedia.

Giordano Rigamonti




Ritorno disagiatoRiflessioni di un fidei donum rientrato in diocesi

L’evangelizzazione dell’Anaunia (Val di Non)
per opera di tre missionari venuti dalla Cappadocia (v sec.) è un esempio dello scambio del «dono della fede» tra le chiese dei primi secoli.
Tale tradizione è stata ripresa, dopo il Concilio Vaticano ii, con l’invio di preti «fidei donum» alle giovani chiese dell’Africa, Asia e America Latina, ma rischia di restare senza eredi.

Pochi mesi fa, ho visitato per la prima volta la basilica di Sanzeno in Val di Non. Ho sostato di fronte ai resti di martiri missionari del v secolo: Sisinio, Alessandro e Martirio e ne fui impressionato.

Nel silenzio della basilica ho tentato di ripercorrere mentalmente la loro vicenda umana e cristiana. Originari della Cappadocia, si misero in cammino verso Milano per approfondire la loro conoscenza nelle cose della fede presso il grande vescovo Ambrogio, che battezzò i due fratelli Martirio e Alessandro.

Su richiesta del vescovo Vigilio di Trento, Ambrogio gli inviò questi tre cristiani come un vero «dono della fede» (fidei donum), dopo aver ordinato Sisinio diacono, Martirio lettore e Alessandro accolito.

È un’antichissima storia di scambio di doni tra chiese, di missioni, di formazione di comunità cristiane e di martirio. Eppure essa ha tutte le caratteristiche di una storia attualissima. Così, questa visita alla basilica di Sanzeno mi è stata di stimolo, non solo a ripensare a me stesso come prete fidei donum, ma anche alle missioni affidate a dei preti la cui vocazione missionaria ha però una durata limitata di esercizio ed è vissuta come dono alla chiesa che riceve e alla chiesa che invia.

La mia vita «a incastro», durante la quale si sono alternati periodi di presenza «missionaria» in America Latina (10 anni) e in Tunisia (5 anni), con periodi prolungati nella mia diocesi di appartenenza a servizio di migranti e rom, nell’impegno di dialogo e prossimità con i musulmani, mi offre a tutt’oggi il pozzo da cui attingere per ripensare la missione.

Dalla Cappadocia alla Val di Non

Quando ci si sofferma a riflettere sulla quantità e tipo di relazioni che intercorrevano tra le società antiche, fino alla nascita degli stati nazionali, si resta sorpresi dalla mobilità che le caratterizzava. Basti pensare alla vicenda di sant’Agostino, di Antonio di Padova e di innumerevoli altre importantissime figure della chiesa e delle culture antiche. La libera circolazione delle persone non costituiva un problema per nessuno. Sisinio, Martirio e Alessandro in questo non si differenziavano dai loro contemporanei.

Nella vicenda dei missionari della Val di Non si combinano insieme, in maniera del tutto spontanea, la ricerca personale dei tre compagni, che li fa spostare da un capo all’altro dell’orbe mediterraneo; il mandato del vescovo Ambrogio; la richiesta del vescovo Vigilio e il fatto che tutto questo avvenga dentro un quadro ammirevole di libertà e santità di tutti i protagonisti.

La particolare vocazione fidei donum sia caratterizzata da questi tratti fondamentali e comuni. Nel prete fidei donum, a mio parere, è forte il sentimento della responsabilità e dell’appartenenza a una realtà universale, che va al di là delle limitazioni del territorio e altrettanto forte è il sentimento di una vocazione che è continua ricerca di una rinnovata fedeltà al vangelo: ricerca che non accetta di interrompersi mai nel corso di tutta la propria esistenza.

Questi due dati fondamentali che caratterizzano il cammino interiore della sua vita, sono poi riconosciuti e fatti oggetto di un «mandato» da parte di chi ha il compito di servire la chiesa e di assecondare la piena maturazione della vocazione cristiana di ciascuno all’interno di essa. La proposta del servizio si orienterà, poi, verso la chiesa che ne ha fatto richiesta.

Inseguire Ambrogio e rendersi disponibili alla richiesta di Vigilio: è la storia di tante vocazioni fidei donum.

Il sentimento di saturazione che a volte si prova nel servizio alla propria chiesa di origine può degenerare in frustrazioni e apatia; ma in alcuni, esso ha fatto nascere la ricerca e il desiderio di mettersi al servizio di altre esperienze di chiesa in Asia, Africa, America Latina; di conoscere altre figure di pastori capaci di condurre al cuore del vangelo e sperimentare altra libertà umana ed evangelica.

Bisogna comunque aggiungere che accanto a queste motivazioni più strettamente ecclesiali, nel nostro partire è stata determinante la convinzione che fra evangelizzazione e promozione umana esistesse un legame per natura sua inscindibile.

Vangelo e poveri costituirono la bussola che ci ha guidato in questa nostra ricerca, che qui, in casa nostra, si alimentava delle grandi prospettive pervenuteci dalla Pacem in terris e Populorum progressio; tali prospettive trovarono nella chiesa di arrivo non solo una conferma, ma un metodo, una spiritualità, un reale campo di azione e sperimentazione.

Se da qui partimmo con un entusiasmo un poco ideologico, non ci fu difficile trovare «nelle terre di Anaunia» una vita piena di relazioni, prospettive, azioni concrete, convinzioni condivise, motivazioni teologiche e spirituali, che contribuivano a darci la serena certezza di star vivendo una vita piena, in abbondanza.

Credo che le partenze maturate negli anni immediatamente successivi al Concilio erano particolarmente segnate da queste prospettive, che per certi versi le distinguevano un poco anche rispetto alle scelte per la missione maturate negli anni precedenti al Concilio.

Ho l’impressione che oggi si tende a sottovalutare l’aspetto della traiettoria personale che conduce i tre Cappadoci a mettersi sulla strada di Milano, attirati dalla figura di Ambrogio, alla ricerca di una maturazione di fede e di una vocazione cristiana mai conclusa.

C’è allora il rischio che «questo scambio di doni» si trasformi in un fatto burocratico; in un atto che prescinde dalla storia della persona e che perciò tende a non recepire le ragioni del «fecondo disagio» che ha condotto a questa scelta e gli stimoli culturali e spirituali della stagione nella quale essa si è espressa.

Ciò impedisce di capire anche la successione che, guardata dall’esterno, potrebbe sembrare incoerente, ma che in realtà si produce per dinamica intea rispetto a quei «punti di partenza» che hanno caratterizzato «gli inizi».

La missione in Anaunia

I tre Cappadoci che in origine probabilmente parlavano greco, che presumibilmente conversavano con Ambrogio in latino, sono inviati da Vigilio nella regione «barbara» di Anaunia (Val di Non) e restarvi per annunciare il vangelo.

Sarebbe sbagliato pensare che in Anaunia non esistessero lingue, culture e tradizioni religiose. Il «luogo sacro» dove successivamente si costruì lo splendido monastero di San Romedio ne è la prova.

Il primo problema che si pone al missionario è come vivere e come entrare in relazione con le persone del posto. Stile di vita e inculturazione, nella quale è compresa la conoscenza della lingua sono le due sfide primarie a cui si è chiamati a far fronte.

In una mia recente lettura, sono rimasto impressionato da un paragrafo dove si riferiva delle scelte di Giustino De Jacobis, santo missionario dell’Abissinia del secolo xix. «De Jacobis abbandonò definitivamente il proprio paese e la propria cultura… Liberatosi così da ogni legame straniero e ogni senso di superiorità, condivise ogni cosa con il suo popolo, secondo le locali condizioni di vita… A casa dormiva su un pagliericcio e, nei frequenti viaggi, su una pelle di vacca. Anche nei percorsi più lunghi camminava scalzo, passando la notte in una baracca o in una cavea. La cosa più importante, tuttavia, fu che De Jacobis non tentò mai di introdurre la liturgia latina, ma adattò il ge’etz e i riti etiopici» (Storia del cristianesimo in Africa, pag. 243-244).

Ho avuto la fortuna di conoscere un prete fidei donum bellunese, tuttora in servizio, che si è avvicinato molto a questo stile «de Jacobis». L’impatto che questa scelta suscita in tutti è molto forte e stimola in chi lo avvicina il desiderio di vivere con integralità il vangelo.

Inculturazione e durata

Il passaggio dal greco al latino e alla lingua locale deve essere costato non poco ai tre missionari martiri. Da sottolineare, inoltre, che tutta la loro avventura cristiana e missionaria fu vissuta in gruppo, cosa che senza dubbio li aiutò, prima di tutto, a crescere nella fede, poi, a svolgere il compito loro affidato e, infine, ad affrontare la suprema testimonianza del martirio.

Il processo d’inculturazione è stato descritto dai vescovi africani in questi termini: «L’inculturazione è Dio che scende ed entra nella vita, nei comportamenti morali e nella cultura degli uomini per liberarli dal peccato e introdurli nella sua vita e santità» (ottobre 2003).

Prima di partire per l’America Latina ci avevano detto che occorreva rinascere e darsi dei prolungati tempi di attesa. Ma rinascere in un contesto tunisino o ciadiano è indubbiamente un altro paio di maniche! I tempi sono diversi e le difficoltà molto più grandi.

C’è da domandarsi se e come l’esercizio ad tempus del compito missionario che caratterizza la scelta fidei donum possa essere adeguato a questa realtà. Un periodo di missione della durata di 10 anni che sembra garantito a tutti coloro che lo desiderano è sufficiente?

Con mia sorpresa ho potuto constatare che nelle circostanze attuali succede spesso che i preti fidei donum abbiano maggiore stabilità degli stessi membri delle congregazioni missionarie. Ma questo non aiuta molto a individuare prospettive per il futuro. Anzi, se si tiene conto che il missionario fidei donum è svincolato da tante necessità intee di una congregazione e che la sua scelta è fondata, oltre che su un «mandato», su una disponibilità vocazionale aperta, forse si può arrivare a intravedere una soluzione.

Tra i fidei donum ci sono persone che maturano se stesse e le loro scelte di vita in una progressiva identificazione con «un popolo di poveri» a cui sono inviati. È un processo, lento, ma inarrestabile, che dipende da avvenimenti e persone da cui si è coinvolti.

Mi domando: perché stoppare una storia personale e collettiva che acquista un sempre più profondo significato? Benché lontana, la vita di tali persone si carica di senso e diventa un segno anche per la chiesa che li ha inviati, purché questa relazione venga coltivata. In tali casi si dovrebbe tener conto dell’impulso vocazionale di queste persone, nella certezza che questo è utile all’una e all’altra chiesa.

Vivere tra due appartenenze ecclesiali

Se la scelta molto prolungata o definitiva ha valore di segno per le due chiese, il rientro nella chiesa di origine fa parte della particolare dinamica della vocazione fidei donum. A mio parere, è proprio il rientro che viene disatteso, sia nella riflessione che nelle scelte di collocazione dei preti in questione.

È innegabile che la scelta di partire, per essere ecclesiale, deve essere convalidata dal mandato; ma questo non può essere considerato come la ragione che la spiega e la motiva.

Una partenza «troppo obbediente» agli inizi e un ritorno senza problemi alla conclusione potrebbero essere il segno che ciò che si è vissuto con intensità e immensa generosità nel periodo passato ad extra abbia costituito una bella parentesi senza profondi collegamenti né con «il prima» né con «il dopo».

Il disagio del rientro non attende di essere riassorbito come una ferita che si rimargina con il tempo. Deve piuttosto diventare interrogazione su ciò e su come si vive qui. Anche se questo passaggio si gioca la particolare vocazione del fidei donum.

Al momento del rientro dovrebbe succedere che ci si interroga su tutto: sulla nostra teologia europea, che ha pretese di universalità, sulla nostra abitudine di contrabbandare i problemi dell’uomo occidentale come fossero «i problemi dell’uomo» tout court; sulle relazioni umane nella chiesa; sull’uso della libertà e l’esercizio della comune responsabilità all’interno di essa; sull’uso dei mezzi, denaro e strutture; sulla semplificazione della pastorale; sui grandi problemi che investono l’umanità e che sono vincolati al nostro «locale»: giustizia, povertà, informazione, uso delle risorse; sulle relazioni tra le religioni e tra le culture.

Si ritorna diversi; si deve ritornare diversi; si dovrebbe restare diversi, non per attaccamento nostalgico a ciò che abbiamo vissuto ad extra, ma per continuare a offrire quel «rotolo amaro» (Ez 2,9) che, qualora venisse ingoiato, diventerebbe dolce come il miele (Ez 3,3). Ho l’impressione che scelte un po’ troppo rassegnate potrebbero contribuire a sterilizzare il potenziale innovativo legato al «disagio del ritorno».

I mezzi dei fidei donum

L’ampia disponibilità di mezzi di cui normalmente gode un fidei donum costituisce un suo punto di forza, ma forse soprattutto il suo tallone d’Achille, se paragonati con quelli del clero locale.

Personalmente, soprattutto durante la mia prima esperienza missionaria ad extra, ne ho fatto molto uso all’unica condizione che i beni da essi prodotti non restassero di proprietà della chiesa, ma delle associazioni e organizzazioni popolari per le quali venivano usati.

Favorire le organizzazioni popolari rendendole autonome sotto il profilo economico mi sembrava una buona scelta. Altri miei amici, che a distanza di anni devo ammettere essere stati molto più bravi di me, hanno fatto delle scelte più radicali: si sono limitati a chiedere qualche cosa di essenziale e di piccola entità.

Nella mia personale esperienza non mi è mai accaduto di dovermi confrontare con la povertà di mezzi di cui, generalmente, patiscono i colleghi della chiesa locale. Come succede di frequente in Africa.

Uno stile di sobrietà oppure di povertà radicale bisogna saperselo costruire ogni giorno nella libertà e nella gioia. Un sobrio contento è sicuramente meglio che un povero scontento. Ho trovato che i poveri contenti sono generalmente dei creativi, che usufruiscono in maniera diversa da tutte le realtà della vita.

Mi diceva un prete povero: «Quando guardo la catena di montagne, nella limpidezza di un mattino di sole, mi dico: guarda che spettacolo gratuito di cui posso godere, sempre a mia disposizione».

La doppia appartenenza, inoltre, dovrebbe offrire al fidei donum validi criteri per aiutare la chiesa di origine a giudicare sull’opportunità o meno di certe opere che, viste esclusivamente con occhio occidentale, rischiano di essere considerate necessarie o comunque molto utili.

Non si tratta di fare i professionisti della profezia e, meno ancora, di sentirsi investiti di tale ruolo; ma semplicemente di mettere davanti a ogni altro criterio il diritto dei poveri ai beni della chiesa e di farlo con quella insistenza che di solito caratterizza le richieste del povero.

Abbiamo assolto al nostro compito?

Sembra che nei piani alti del potere ecclesiastico ci sia stata, nel passato, una certa preoccupazione nei confronti dei fidei donum che si reinseriscono in diocesi. Forse, oggi, i timori sono stati almeno in parte digeriti. Personalmente credo che, almeno per quanto ci riguarda, noi non abbiamo assolto totalmente al nostro compito nel farci portavoce nella profezia dei poveri del mondo.
In tutti questi anni, non abbiamo sentito il bisogno di trovarci in gruppo, per riflettere insieme su ciò che via via accadeva nella nostra chiesa. Non c’è stato neppure il tentativo, come è successo in qualche altra diocesi, di ritrovarci periodicamente insieme. La nostra inerzia di gruppo ha probabilmente rassicurato molto chi nutriva dei timori nei nostri confronti. Credo che abbia giocato non poco anche la differenza tra il servizio alla chiesa latinoamericana e quella africana.
Abbiamo saputo trasferire solo parzialmente quel clima di libertà e creatività all’interno del vivere ecclesiale, che hanno assicurato quel sentimento di pienezza e autorealizzazione sperimentato quando eravamo in missione. Ora in sede di bilancio, mi pare di dover concludere che ci si trova di fronte ad un’eredità un po’ dilapidata e quasi inesistente per le giovani generazioni di preti.Abbiamo qualche medaglia sul petto, magari di dubbia lega, ma siamo rimasti senza eredi, anche per colpa nostra.

Giuliano Vallotto




Tracce di consolazione

Problemi e prospettive di pastorale ed evangelizzazione missionaria fra gli indigeni del Chimborazo

Gli indios del Chimborazo, fra cui lavoriamo, come missionari della Consolata, nella diocesi di Riobamba, sono divisi in nazioni, secondo distinzioni originarie che risalgono al periodo preincaico. Si avvertono, tuttavia, forti influenze, pressioni sociali e mescolanze (sovrapposte e trasversali), frutto di più di 500 anni di impero ispanico.
Abbiamo di fronte, quindi, un ritratto culturale, politico e organizzativo ufficiale, che include, però, un volto nascosto e invisibile. Pubblicamente, la società indigena si presenta con un’ identificazione amministrativa secondo schemi comunitari (dal cabildo locale alla federazione intercomunale), che vive all’ombra di un’organizzazione classista, che si impone sempre di più come movimento sociale e politico. Tuttavia, a ben vedere, la realtà etnico-culturale che si manifesta, raggiungendo dimensioni drammatiche, è la solitudine: i bambini vanno soli, i giovani vanno soli, gli adulti vanno soli, le donne vanno sole. Le affermazioni unitarie, da parte delle varie giunte locali e organizzazioni, sono pura pubblicità senza una vera applicazione alla realtà perché, in fin dei conti, frutto di un’imposizione.

N onostante il contesto conflittuale, dovuto allo sforzo di promuovere e formare persone nel nostro territorio pastorale, si vedono già alcuni segni di consolazione. Questi segni traspaiono negli uomini e nelle donne che sentono l’esigenza di una riflessione critica, che iniziano ad interrogarsi, che si chiedono la ragione delle decisioni prese. A queste persone, ora, bisogna giustificare i passi intrapresi e la veridicità dei proclami pubblici.
Dal 1990, quando gli indios, per la prima volta, fecero sentire con forza la loro presenza e pretesero di essere considerati e consultati nelle decisioni, comincia una nuova fase. Emerge una presa di coscienza chiara, anche se ancora racchiusa dentro i segni incerti di un processo che è appena agli inizi e, perciò, ancora lento.
Un altro segno di consolazione appare nell’urgenza di ritornare alle caratteristiche culturali proprie: idioma, usanze, tradizioni. Si parla di pensiero proprio, codici di comportamento propri, anche di sistemi giudiziari e penalizzazioni sancite secondo antiche tradizioni popolari. Si afferma il bisogno di identificarsi con schemi differenti da quelli nazionali e, nella nuova costituzione, si parla di un Ecuador multietnico e plurilinguistico. Si riconoscono, perfino, come diritti costituzionali, i diritti collettivi delle differenti presenze etniche: nazioni indie e nazioni di origine africana.
Non mancano, tuttavia, segni di desolazione; uno dei quali è, senza dubbio, la mancanza di un concetto chiaro di «consolazione». Nell’idioma quichua ordinario, la lingua degli indios, il verbo «consolare» arriva solo a esprimere il «soffrire assieme». Il significato che noi diamo alla parola consolare, quello, cioè, di «fare felice qualcuno» non entra ancora nel linguaggio comune. «Maria Consolata» diventa così «dolorosa», colei che soffre i nostri mali.
Un altro segno di desolazione è la «comunitarietà», identificata e venduta come caratteristica peculiare della comunità, soltanto da chi non è in grado di leggere molto a fondo la realtà. Di fatto, manca la intercomunitarietà negli eventi quotidiani della vita interfamigliare e sociale. La mentalità chiusa e la diffidenza tra comunità vicine fanno pensare ad una mancanza di riconoscimento dell’altro a livello basico.
La nostra risposta religiosa e missionaria, a livello istituzionale, parte con buone intenzioni ma, certamente, non è in grado di andare oltre le parole e le inquietudini.
Lo sforzo per programmare incontri, a ogni livello di categoria e geografia, è intenso. Dialogare è un fattore estremamente positivo e, senza dubbio, mai prima d’ora, si era verificata tanta promozione di dialogo come oggi. Si corre però il rischio che tutto questo dialogare si risolva, alla fin fine, in meri incontri organizzati per «esigenza di copione», in cui non riesce ad emergere la chiave di lettura della realtà. Non si riescono a vedere cambi di mentalità, sforzi sinceri per verificare le posizioni programmatiche e un lavoro che conduca a valutazioni schiette della realtà. Si avvertono critiche, lamentele, malesseri: l’arca è grande e, alla fine, c’è posto per tutti e per tutto. Si continua a parlare di famiglia, ma in realtà i problemi di convivenza fratea sono feriti e minimizzati. È preferibile, quindi, insistere a parlare di comunità, perché, in fondo, la comunità è un ufficio grande, dove i professionisti possono convivere benissimo otto ore al giorno, per poi ritornare ciascuno alla propria famiglia, alla propria solitudine e ai problemi di sempre.

P enso che ci sarebbe la possibilità di esprimere il nostro carisma in sintonia con il contesto reale. Lavoriamo per costruire una chiesa che sia comunione di fede, speranza e carità. In tal modo, la consolazione lavora per inserire nella chiesa una volontà caratteristica di apertura, disposta a restituire la visibilità culturale e spirituale propria, interrotta nel passato.
Se la chiesa è davvero sacramento universale, gli indigeni dovrebbero riuscire a diventae segni idonei. Dovrebbero «rivestirsi di Cristo», senza scartare le proprie memorie; arricchirsi del pensiero cristiano, senza disattivare completamente il proprio pensiero.
Ci sono dei paradigmi, oggi, in grado di esprimere l’esigenza di rispettare ed esprimere il «proprio» culturale. Si potrebbe cominciare con un paradigma di inculturazione pastorale. Il primo passo dovrebbe essere quello di «indigenizzare» i posti pastorali, facendo in modo che gli agenti di pastorale indigeni siano una maggioranza e che, di conseguenza, si possano fare programmazioni e valutazioni, partendo dalle forze locali. In questo modo, risulterebbe più facile capire se la diversità culturale ha davvero l’opportunità di essere avviata verso un’interculturalità creativa, per un rinnovamento pastorale nella pratica della evangelizzazione.
Noi siamo ancora troppo legati a consolazioni «materiali». Si continua a lavorare in ambiti di promozione sociale, di assistenza giuridica nei casi di ingiustizia contro i poveri, di sviluppo e formazione della leadership, nel tentativo di creare una mentalità comunitaria in grado di affrontare problemi di disabilità e altri ritardi o limiti, fisici e mentali.

L a chiesa locale, dal canto suo, non va oltre la «stagione della parola». I documenti sono coraggiosi per la critica e l’indignazione che esprimono. Diventano lettura ardita e meditazione interessante; ma rimangono solo buone intenzioni. Quelli che hanno firmato i manifesti incontrano insuperabili difficoltà a realizzare quanto scritto e, arrivati al dunque, a puntare esplicitamente il dito contro i colpevoli.
Per agire, si dovrebbe essere capaci di rispondere con decisione alle seguenti domande:
1. Che tipo di consolazione si considera necessaria per gli oppressi, oggi?
2. Che stile di presenza missionaria esige un ideale così impegnativo?
3. Che aspetti e atteggiamenti dovremmo approfondire e trasformare, a livello personale e comunitario, come regione e come continente, per vivere con maggior coerenza il nostro carisma di consolazione nell’oggi della storia?
Sono tutte eccellenti domande che si scontrano, oggi come oggi, con la nostra povertà «numerica» e qualitativa e che, molto difficilmente, potrebbero essere elaborate in risposte credibili e vissute. Consoliamoci, almeno, con la nostra caratteristica misericordiosa, che emerge nonostante tutto e che aiuta a superare la tristezza di quello che passa il convento.
Diceva Fito Paez (cantante argentino): «Quién dijo que todo está perdido? Yo vengo a ofrecer mi corazón…» (chi ha detto che tutto è perduto? Io vengo a offrire il mio cuore).

Giuseppe Ramponi




Tra curiosità e paure

La difficile arte di capirsi, nonostante diversità di pensiero
e stili di vita. Sorseggiando insieme, magari, un po’ di tè,
nel sogno di una convivenza possibile, costruita attraverso piccoli ponti
di umanità.

Egiziana di Luxor, Shayma lavora come commessa dieci ore al giorno, sei giorni su sette per 140 pounds al mese (poco meno di 20 euro), in un negozio di fotografie 24 ore su 24.
Shayma indossa l’hijab (velo che copre il capo, lasciando libero il volto) da quando aveva tredici anni e si cancella il viso sotto il trucco pesante: rossetto, fondotinta e fard. Quasi con grazia, abbina il velo alla tunica o ai pantaloni all’occidentale e, sotto le maglie larghe a maniche lunghe, prova a nascondere il seno vigoroso, addolcito dallo slancio della figura. È la migliore amica di Mervet, 23 anni, la pelle chiara, gli occhi verdi e una croce copta tatuata sul polso destro; Said, dal sorriso bianco nel volto scuro segnato da un’acne leggera, indossa spesso la maglia della nazionale di calcio italiana, perché «Roberto Baggio and Totò Schillaci are great».

«Ciaomancia»

«Non sposerei mai un musulmano» – confessa Mervet: «I musulmani sono cattivi con i cristiani, specialmente con noi cattolici, non ci lasciano lavorare»; e lo dice sbattendo con forza zucchero e Nescafè in un bicchiere di vetro per preparare un buon cappuccino ai suoi amici Shayma e Said, musulmani anche loro ma, a differenza degli altri, hanno un nome, un volto e offrono, quindi, la possibilità di un incontro.
Mervet ha imparato i segreti del cappuccino da suor Maria del Crocifisso, della comunità delle francescane, che le ha insegnato anche a preparare la pizza, il calzone e le tagliatelle. Mervet vorrebbe andare a Roma a vedere il papa e il suo desiderio è quello di sposare un bravo ragazzo, «prima di tutto un buon cattolico», che possa darle figli e pensare a loro.
Vive con i genitori e due fratelli a Sawaghy, il piccolo quartiere cristiano di Luxor dove convivono, non sempre dialogando, copti ortodossi e cattolici. Oltre la porta segnata col sangue di un animale ucciso anni prima per inaugurare l’arrivo nella nuova casa, letti dai materassi alti e duri si ammassano contro le pareti e la povertà estrema stride con il computer che troneggia in una delle stanze, ben protetto da una coperta di lana.
Nel negozio di fotografie, la tv rimane accesa 24 ore su 24 e fa entrare prepotente la massiccia programmazione di telenovelas, in cui donne truccate e senza velo si struggono d’amore per aridi uomini d’affari, che si alterna alla pubblicità: «Welcome to Egypt», dieci, cento volte ripetuta ogni giorno dal canale di stato Nile Tv, che mostra piramidi, templi e il magnifico Mar Rosso, accompagnati dal sottofondo trionfalistico della marcia dell’Aida, che pochi autoctoni sanno essere di un italiano chiamato Verdi.
Il percorso tipico del turista che decide di visitare l’Egitto consiste in una settimana di crociera dal Cairo fino ad Assuan, in Nubia, quasi al confine con il Sudan, e in una seconda settimana sulle belle spiagge di Hurghada, facendo snorkelling negli incantevoli fondali di un mare la cui costa è, purtroppo, sempre più simile ai nostri paradisi estivi dell’Adriatico.
Andando in Egitto da turisti, non sempre si può cogliere il fatto che tutto ha il doppio prezzo e quello per stranieri è due, tre, persino dieci o cinquanta volte più alto rispetto a quello per egiziani.
Laggiù c’è uno strano culto dei soldi: c’è il denaro per vivere (la lira egiziana) e quello per vivere meglio (la valuta straniera), per cui le mance e i pagamenti in euro e in dollari sono ambiti e quasi pretesi. Specialmente nel sud, i bambini più poveri sono educati ad assalire il turista con il continuo «hellobaksheesh!» (ciaomancia, tutto attaccato), parola unica e concetto inscindibile: io ti saluto – tu dammi; sempre accompagnato dalla manina tesa e dallo sguardo deciso: tu hai, tu dammi. Se nonostante l’assalto di gruppo il turista non cede, la richiesta passa da «hellobaksheesh» a «pen, pen». Spesso sono i genitori a spingere i figli a rincorrere i turisti, nella speranza di ricevere una penna rossa o blu.

Una sera dopo l’altra

I coffee shops sono luoghi per uomini arabi e donne occidentali. «Non si incontrano ragazze arabe per bene lì – spiega Shayma, la commessa del negozio di fotografia -, ma a te, italiana e sola, frequentare un coffee shop è permesso, perché sei straniera e loro tolleranti». Si raccomanda solo che, uscendo, mi copra bene le braccia e le gambe.
Ed è proprio nei coffee shops che si incontra l’Egitto, quello vero: tra le maioliche gialle, bianche e blu, tra i tavoli sbilenchi disposti sulle strade polverose dei piccoli centri, tra i giocatori di tawla (backgammon) che ti accettano solo se hai la pazienza di tornare una sera e poi un’altra e poi un’altra ancora, allo stesso tavolo a bere lo stesso tè, fumare la stessa sheesha (narghilé), tirare gli stessi dadi e sorridere alle stesse persone. Una sera dopo l’altra, quelle persone diventano capaci di un saluto più caldo, il tè profuma di rito e la sheesha diventa l’aroma di mela che la bocca pretende.
La tawla è un linguaggio, un incastro di mosse guidate da fili sotterranei in cui i dadi fanno da controcanto allo scivolare delle pedine sul legno: nello spazio quasi intimo di un gioco a mosaico che si disegna nel tempo, nascono le amicizie e le conversazioni. E il tempo che si vive non è un sentito dire, ma un’esperienza nata da uno scambio.
La curiosità non è prerogativa occidentale: i volti acquistano nomi ed è con Mohammed, Omar, Ahmed e Said che la sera si parla di «noi». «Noi», cioè di Europa e mondo arabo che sorseggiano insieme una iansung (tisana digestiva) sempre troppo dolce, domandandosi a vicenda: «Come ci vedete? Cosa pensate della nostra cultura? Cosa pensate della nostra religione?».
I ragazzi arabi seduti al coffee shop vorrebbero sapere tutto di Dio, di Cristo, della Trinità: «Se Dio è Gesù, e Gesù muore il venerdì e risorge la domenica, cosa accade il sabato? Può esistere un sabato senza Dio? Gesù è profeta di Dio, Dio ama i suoi profeti. Perché permette che Gesù soffra e muoia?».
«Perché bevete alcol, se l’alcol è peccato?». I giovani arabi ascoltano con interesse una donna senza velo la quale pensa che saper gestire il proprio rapporto con l’alcol sia una questione che chiama in causa la persona con la sua capacità di controllo, e non l’idea assoluta di Bene e di Male. E i giovani arabi, che sorseggiano tè e iansung, ascoltano: forse non concordano, ma ascoltano e rispettano, probabilmente perché la giovane donna senza velo parla di alcol e in Europa lo beve – è educazione al gusto, dice lei – ma lì, seduta al tavolino sbilenco del coffee shop di Omar, sorseggia tè e iansung proprio come loro, tenendo le braccia e le gambe coperte in segno di rispetto. Per essere rispettata.
Ai discorsi occidentali sull’undici settembre o sulle bombe di Madrid, i giovani arabi rispondono parlando di Afghanistan, Iraq e Palestina e dopo accese discussioni, in cui le parti non si incontrano, perché separate da una convinzione profonda che si barrica su due poli opposti (le nostre ragioni – i vostri torti), si arriva insieme alla conclusione che, in fondo, la pena che si sente per la miseria umana è la stessa da entrambi i lati della barricata.

«Raccontaci,
donna
senza velo!»

Ed è proprio lì che ci si incontra, quando si smette di sostenere una causa e si torna ad essere semplicemente ciò che si è: uomini e uomini mortali per di più. Uomini che si uccidono tra di loro, ma che quando bevono insieme tè e si chiamano per nome non sono più mostri dalle sette teste, bensì persone, persino interessanti.
E allora, per favore, donna occidentale senza velo, dicci com’è il mondo al di là del Mediterraneo. Dicci come sono i colori, i sapori, le facce della gente, i colori della pelle, i suoni delle strade; raccontaci come sono i vestiti, i giorni di festa e le promesse che gli innamorati si scambiano quando decidono che, sì, staranno insieme per tutta la vita.
C’è fame di sapere, perché uscire dall’Egitto è praticamente impossibile: non solo perché è troppo costoso, ma, soprattutto, perché non è facile ottenere un visto di ingresso in un altro paese e, naturalmente, un permesso di soggiorno. La possibilità a cui molti ricorrono è quella di farsi fare una carta di invito da qualche turista straniera che, in Egitto per le vacanze e spesso in età matura, si lascia affascinare dalle galanterie maschili che promettono, chissà, una ritrovata gioventù.
Un musulmano può sposare una donna cristiana, perché l’eventuale prole eredita la religione dell’uomo; quindi i matrimoni con straniere sono frequenti.
Benché l’Egitto sia un paese laico, la religione è un fattore identitario importantissimo; il 90% della popolazione è di fede islamica e il restante 10% è in gran parte di fede copto ortodossa. Solo una piccolissima minoranza è cattolica, evangelista o di rito armeno. Può capitare di sostare in meditazione nella piccola chiesa francescana di Luxor e di sentire entrare dal portone spalancato la voce metallica del muezzin che invita alla preghiera del tramonto. Ed è in quell’attimo, in quell’aria così pregna di Dio – qualunque nome abbia – che sfiora la mente il pensiero di una coabitazione possibile.
Raccogliendo le impressioni dei cristiani che vivono a Luxor, spesso si sente parlare di «restringimento degli spazi vitali» e cioè che le religioni non islamiche sono tollerate, ma ad esse non viene permesso di fare proseliti. Le scuole cristiane, in cui la maggior parte degli studenti è musulmana, faticano ad avere i permessi di ristrutturazione e devono sottostare a continui controlli e a leggi di restrizione dei posti disponibili. Le comunità cristiane si chiudono, così, a riccio al proprio interno, diventando mondi quasi in autornassorbimento. Dicono che sia per pura conservazione, ma questa strategia diventa una morte lenta, un riprodursi a l proprio interno, che porta dritto alla sterilità.
È una questione di stato, di organizzazione sociale, di mancanza di informazione, di possibilità di controllo: per chi governa, per chi tira le fila dell’intero paese è molto più semplice separare che unire, creare zone attorniate da confini marcati invece che lasciare alla gente la possibilità di spazi in cui conoscersi e, quindi, costruire piccoli ponti.

Non c’è certezza di sapere fino dove sarebbe possibile arrivare attraversando questi ponti… forse solo fino al primo coffee shop, con i tavoli sbilenchi nelle strade polverose del souq (mercato) di Luxor; ma già, questo sarebbe, in fondo, un primo e vero reciproco viaggio dentro l’Altro, che non fa paura.

Paola Cereda




Una penna per la democrazia

 

Arrestato 126 volte, fondatore di uno dei giornali più vecchi e rispettati dell’Africa francofona, Pius Njawe è da sempre attivista per la libertà di stampa a livello internazionale. Ci spiega l’evoluzione democratica del continente e confida le speranze per il futuro.

Camerunese, giornalista ed editore, Pius Njawe è uno dei più grandi difensori della libertà di stampa e diritto all’informazione sul continente africano. Nel ’79 ha fondato a Douala il settimanale Le Messager, (Il Messaggero), più tardi divenuto quotidiano. È stato arrestato 126 volte a causa delle sue pubblicazioni non gradite al potere; talvolta ha passato mesi in prigione, con pesanti conseguenze sulla sua salute.
Oggi è direttore generale del Free Media Group, società editrice del Messager, che sviluppa anche un’edizione elettronica (www.lemessager.net) e possiede un’agenzia di comunicazione: Cameroun communications incorporated. Il gruppo ha creato una stazione radio, Freedom FM, che è stata chiusa per due anni dal governo del Camerun e recentemente ha riottenuto il permesso di trasmettere. Peccato che tutti questi mesi di sigillo in ambiente umido abbiano deteriorato la maggior parte delle attrezzature e ne rendano impossibile l’operatività.
Njawe è anche il presidente dell’Unione editori della stampa dell’Africa Centrale, dopo aver creato l’Organizzazione camerunese per la libertà della stampa, ed è membro del Comitato per la libertà di stampa dell’Associazione mondiale dei giornali. È stato per 7 anni, due mandati, membro del gruppo consultivo dell’Unesco per la libertà di stampa, e membro della giuria del Premio mondiale per la libertà di stampa dell’Unesco «Guillermo Cano» (giornalista colombiano assassinato).

Si parla molto di libertà di stampa in Africa. Ma a che punto siamo?
La libertà di stampa ha conosciuto un’evoluzione positiva in Africa, grazie al vento dell’est, che ha soffiato anche un po’ da noi alla fine degli anni ’80. Negli stati anglofoni, c’è sempre stata libertà; non dico totale, ma esistevano già giornali con certa tradizione di indipendenza. In Africa francofona c’è stata una corrente, negli anni ’80, con Le Messager in Camerun, seguito a metà della decade da Sud Hebdo (oggi quotidiano) a Dakar, creato in Senegal da un gruppo di giovani giornalisti che volevano cambiare qualcosa. In Benin La Gazzette du Golfe e AST in Niger avevano uno spirito simile.
Questi 4 giornali hanno resistito alla repressione nei loro paesi rispettivi, il che ha creato una certa solidarietà tra di loro. Ogni volta che uno era attaccato, gli altri si sentivano implicati e si attivavano. È stata un’esperienza formidabile che ci ha aiutato a resistere. Poi le cose si sono evolute con l’avvento del multipartitismo in certi paesi dove il monolitismo era la regola.
La stampa è stata un po’ all’avanguardia della democratizzazione in molti paesi francofoni, cioè ha preceduto il pluralismo politico: una specie di esploratore per tutti gli attori dell’alternanza politica nel continente. E continua, in molti paesi come il mio, a essere il vero contropotere, di fronte al fallimento dei partiti di opposizione.
Malgrado il multipartitismo iniziato nei primi anni ’90, abbiamo conosciuto un’ondata di repressione cieca contro questa stampa, che talvolta ha impedito di rubare, di uccidere. In Camerun la «censura preventiva» è rimasta in vigore fino al ’96. Prima occorreva sottoporre ogni edizione del giornale a un censore, in un ufficio amministrativo: era lui a decidere, da solo quello che 15 milioni di camerunesi avrebbero letto: noi lo soprannominammo il «super redattore capo». Il giornale era pubblicato a volte con parti o intere pagine in bianco. Le Messager ne ha particolarmente sofferto. Senza contare gli arresti e attentati alla mia vita: ci sono stati così tanti episodi.

Oggi la situazione è evoluta.
Sul piano politico c’è una comunità internazionale che osserva: il principio dell’aiuto sottoposto ai criteri di democrazia ha portato a qualche progresso; poi la straordinaria evoluzione della tecnologia per l’informazione e comunicazione: prima il fax, poi internet. Questi mezzi hanno ridotto a nulla l’azione della censura, perché, malgrado ciò, la gente riusciva ad avere le informazioni che si volevano bloccare. In Camerun tale pratica è stata mantenuta a lungo per punire anche economicamente chi pubblicava informazioni non gradite, con il sequestro, ad esempio, di intere edizioni.
Dopo la soppressione della censura preventiva, il governo ha iniziato a comprare il mondo politico. Per conservare il potere, il regime di Paul Biya ha moltiplicato i partiti politici satelliti per soffocare quelli veri di opposizione, metterli in imbarazzo e mostrarli inaffidabili.
La strategia è la seguente: se un certo partito non scende a patti, se ne crea un altro che invece lo fa. Nascono così molti piccoli partiti e si mostra all’opinione pubblica che almeno 10 partiti stanno dalla parte del potere; mentre l’altro lo si dice radicale e che non vuole dialogare. Si demonizza il partito vero.
Lo stesso avviene con la stampa: dato che Le Messager da fastidio, si moltiplicano i giornali che lo contraddicono ogni volta che dà una informazione scomoda. Così si rafforza il quotidiano governativo, anche se la gente, ormai, non gli crede più. Con questi imbrogli il regime riesce a superare le tempeste e consolidare le posizioni.
Oggi questo potere non ha più bisogno dei partiti e giornali satelliti che ha creato, poiché l’opposizione è quasi inesistente e tutti si sono trovati un posto intorno alla tavola. Non ci sono più contestazioni; la gente non scende più in strada, neppure quando gli studenti vengono massacrati. Il regime ha portato il paese a una specie di unanimismo che chiamo il «monolitismo multipartitico». Abbiamo decine di partiti politici, ma tutti allineati. Non si oppongono agli abusi, non difendono la causa democratica di ieri. Il potere non ha più bisogno di loro.
Tutti hanno interesse a consolidare la propria posizione attorno alla maggioranza presidenziale; e per raggiungere tale scopo occorre avere un mezzo di comunicazione: i giornali di cui il potere non ha più bisogno, si mettono al servizio dei differenti clan. Tutto questo rende fragile la stampa e la relativa professione: anche i giornali seri non sono più presi come tali.

E i giornalisti?
I giornalisti finiscono per adottare il sistema: ciò favorisce la corruzione generalizzata anche nella professione giornalistica. Non è tipico solo del Camerun, ma di buona parte dei paesi africani, dove, con un po’ di soldi, si possono comprare articoli per distruggere o abbellire l’immagine di qualcuno.
Quando uno cerca di distinguersi, diventa il bersaglio di tutti gli altri e viene demonizzato con ogni sorta di titoli. È questa la battaglia che stiamo combattendo.

Le organizzazioni per la libertà di stampa quale ruolo possono giocare nel sostegno ai media realmente indipendenti?
Potrebbero fare un lavoro straordinario. Purtroppo a livello nazionale, dato il contesto che ho descritto, è difficile cambiare, perché ognuno crede di non aver niente da imparare da nessuno. Con l’Associazione mondiale dei giornali (Amg) abbiamo tentato di organizzare seminari in materia di gestione dell’impresa di stampa, con l’obiettivo di rinforzare le basi economiche dei media. Ha funzionato per certi paesi, ma non per il Camerun. La maniera in cui si arriva alla professione spesso non è lineare e ciò spiega la non predisposizione a migliorare: se ci si arriva per giocare sporco è chiaro che non si è pronti a progredire.
Credo che il lavoro fatto da Reporter senza frontiere, Amg e Commettee to protect journalists sia da moltiplicare. Ma la bonifica della professione, in tutti i sensi, passa innanzitutto dai professionisti stessi: essi devono prendere coscienza che quelli che vengono a distruggere sono di passaggio e, quando avranno raggiunto i loro obiettivi, se ne andranno.
Parlo delle persone che credono in questo mestiere. Ne esistono. Ma sfortunatamente sono sopraffatti da avventurieri in cerca di un salario o che hanno conti da regolare.

Lei è stato arrestato 126 volte a causa dei suoi scritti…
L’ultimo arresto avvenne in agosto 2002. Trovavo da Londra, dove avevo seguito dei corsi di diritto umanitario. Mi arrestarono all’aeroporto di Douala, mi ritirarono i documenti, ma dopo 6 ore fui rilasciato.
L’ultima volta che venni sbattuto in prigione fu nel 1998, colpevole di aver rivelato un leggero malore cardiaco del presidente Paul Biya.
Fui condannato a due anni di reclusione, ma ci fu un gran movimento internazionale di protesta sul mio caso e la corte d’appello fu costretta a dimezzare la pena. La pressione estea era così forte che, dopo 10 mesi sono stato liberato. Il presidente mi ha concesso una grazia da me non chiesta e, per paura che non volessi uscire di prigione, mandò l’esercito a sloggiarmi.
Alla fine avevano capito che la mia reclusione era per loro controproducente. Ma vi sono arrivati tardi, quando erano già stati fatti molti danni inutili. Ma questo non ha cambiato nulla nel mio comportamento, nelle mie preoccupazioni e nella mia determinazione, poiché nulla è cambiato nella situazione del Camerun.
Se l’avermi incarcerato avesse migliorato le cose che denunciavo, sarebbe servito a qualcosa; se parlo di malgoverno, corruzione, furto… è perché le cose continuano allo stesso modo. Il fatto di arrestarmi non smentisce quello che denuncio, al contrario, distrugge la loro immagine di fronte all’opinione pubblica nazionale e internazionale.

È sempre lo stesso potere che vi ha arrestato?
Sì, e rimarrà in carica almeno fino al 2011! (Segue una grassa risata).

Oggi com’è cambiata la repressione?
È diventata più sofisticata: quella fiscale ha rimpiazzato la repressione fisica. Le azioni, che prima erano esercitate dall’amministrazione, sono state trasferite ai giudici dei tribunali. Si fanno simulacri di processi, sapendo che la giustizia è sul libro paga del potere esecutivo. Quando si è accusati di un delitto di diritto comune, in realtà si mira a reprimere il lavoro di giornalista. Non viene utilizzata la legge sulla stampa, che è già molto brutta. È stata soppressa la censura, ma si sono aperti altri fronti: per esempio, chiunque pensi di essere stato diffamato ha la possibilità di far sequestrare un giornale; è stato prolungato da sei mesi a tre anni il periodo di prescrizione, cioè il tempo che intercorre tra la pubblicazione di un articolo e la possibilità di denuncia.

A livello mondiale, cosa pensa del movimento che si oppone al neoliberismo e si appoggia sui diritti umani. Può avere un futuro e influenzare certe dinamiche in Africa?
È un movimento che bisogna incoraggiare e contribuire a sviluppare, anche se è minoritario da noi. È una lotta nobile contro il liberismo cieco e selvaggio, perché conduce alla distruzione totale dell’Africa. Chi lo persegue cerca solo di proteggersi contro i poveri o contro popoli che ha impoverito. È un’ingiustizia. Non si può ridurre un continente allo stato in cui è ridotta l’Africa e venire a dire che occorre liberalizzare.
Il movimento deve essere appoggiato da tutte le forze che credono in una giustizia mondiale; occorre lottare contro chi vuole monopolizzare tutto: ci impone il prezzo di acquisto delle materie prime, le trasforma altrove e ci riporta i prodotti finiti con relativo prezzo da lui fissato. Dobbiamo avere la libertà di vendere il nostro cotone a prezzi che scegliamo noi, calcolando gli investimenti in tempo e sofferenza per produrlo.

Pensa che la società civile in Africa sia abbastanza matura per questa lotta?
La società civile è qualcosa di molto importante, ma che deve prendere corpo e consolidarsi nei nostri paesi. In Camerun essa è gestita dagli uomini politici, che da un giorno all’altro decidono chi ne fa parte. Una società civile si definisce da sola: si tratta di gente che agisce e partecipa al consolidamento del progresso di un paese. In Africa, oggi, essa esiste, ma manca di organizzazione. È costituita da individualità, ma devono mettersi insieme per costituire dei veri contro-poteri, imparare a interpellare quando è necessario, a esigere di poter dire la propria opinione nelle decisioni che riguardano la sorte della comunità.
A questo dobbiamo lavorare oggi. In diverse parti dell’Africa ci sono embrioni di società civile che si mettono in piedi. Bisogna lavorare per rinforzarli, migliorare le loro capacità di discussione, i mezzi d’incontro, per facilitare gli scambi di idee e poter parlare di cose importanti per l’avvenire dei loro popoli.

Cosa vorrebbe dire ai dirigenti occidentali sullo sviluppo dell’Africa?
Se vogliono aiutarla, la facciano uscire dal circolo vizioso del debito. L’Africa non è debitrice di fronte all’Occidente; al contrario, sono i paesi ricchi debitori di questo continente. Se vogliono veramente aiutarla, ammettano questa realtà. Dopo di che, ammettano anche che l’Africa rigurgita di risorse per svilupparsi da sola e la smettano con quell’aiuto-trappola che serve a mantenerla al servizio dell’Occidente. La si aiuti a sviluppare le sue proprie potenzialità, a sfruttare le sue ricchezze sul suolo africano. Mandino gente che sappia trasmettere onestamente la tecnologia propria, per fare dell’Africa un continente sviluppato a partire dalle sue risorse. La maggior parte delle ricchezze dei vostri paesi vengono dal nostro continente: perché non possiamo far di tali ricchezze dei mezzi di sviluppo delle nostre popolazioni?

L’Africa ha mezzi sufficienti per svilupparsi: occorre orientarla per meglio servirsi delle proprie risorse, invece di mantenere certi nostri capi che, per restare al potere, prendono le nostre ricchezze e le offrono all’Occidente. Sotto questo aspetto, è meglio che l’Occidente non ci aiuti, ma lasci che ce la sbrighiamo da soli.
Voglio pure dire che anche l’africano deve riflettere su come svilupparsi e costruire il suo futuro sul fondamento dei propri valori e risorse. Stiamo organizzando l’Istituzione Nelson Mandela, con lo scopo di suscitare ai quattro angoli del continente le capacità umane, raccoglierle in sinergie al fine di trasformare sul posto le materie prime africane in prodotti locali.
Sono il responsabile della comunicazione di questo gruppo ancora in embrione; ma miriamo alla creazione di istituti regionali per le tecnologie, dove dei giovani possano ricevere la necessaria formazione. Il presidente Mandela ha accettato di essere padrino dell’iniziativa. Mi auguro che i paesi occidentali, istituzioni internazionali, quelle di Bretton Woods, portino il loro sostegno a questa idea, per renderla sempre più concreta e rispondente alla realtà africana.

 

Marco Bello

 

 




AFFARI…. IN CORSOChiesa cattolica e altre religioni nell’occhio del ciclone

Coniugando capitalismo selvaggio e comunismo maoista, la Cina si è inserita tra le potenze economiche mondiali. Ma la libertà religiosa e altri diritti umani continuano a essere calpestati. Il governo cinese non teme le rimostranze dei paesi occidentali, con i quali gli affari vanno a gonfie vele. Teme invece i gruppi religiosi, che non sono interessati al business del denaro. Così, sotto varie forme, l’opposizione alla chiesa cattolica continua.

I l boom economico legato alla libera circolazione dei capitali ha portato un sostanzioso benessere materiale per almeno cento milioni di cinesi. Una storia che tutti conoscono, osannata dai cultori del neo liberismo che vedono nell’apertura commerciale cinese la prova definitiva della bontà del modello di progresso neo liberista.
E visto che tale boom mercantile si allaccia per motivi sempre economici con la società occidentale in maniera inscindibile, governanti, politici, sindacati, industriali, media preferiscono chiudere entrambi gli occhi su un sistema dittatoriale che forse per la prima volta nella storia unisce gli aspetti peggiori del capitalismo selvaggio e del comunismo maoista.
Troppo potente la Cina di oggi per permettersi di criticarla. Un paese pericoloso da non importunare, perché sta fagocitando le industrie occidentali, offrendo condizioni lavorative non lontane dalla schiavitù, che permettono di rifornire i nostri centri commerciali di prodotti sempre meno costosi.
Cosa temono le autorità cinesi, il Partito comunista cinese? Cosa potrebbe minare questo diabolico sistema di investimenti occidentali e repressione locale? Forse le denunce della nostra dormiente stampa? Oppure la schiena dritta della cultura democratica americana o europea?
Nulla di tutto questo ovviamente. Hu Jintao, presidente della RPC e segretario del partito, e Wen Jibao, primo ministro, insieme a tutta la vecchia nomenclatura comunista, compreso il solito burattinaio Jang Zeming, sanno bene che il loro potere non potrà mai essere attaccato dalle decadenti istituzioni occidentali, troppo ansiose di fare business con i nuovi amici comunisti cinesi.
Temono quindi chi è sostanzialmente disinteressato al business, ai soldi, ovvero le religioni.

L a storia delle religioni in Cina è drammatica e troppo semplicemente ora si tende a dimenticare, a pensare che «quei tempi siano ormai superati», quando cioè, le religioni venivano semplicemente abolite, bollate come «superstizioni borghesi» e i credenti erano «controrivoluzionari».
Il periodo della rivoluzione culturale (1966-1976) vide le peggiori forme di perversione antireligiosa: umiliazioni pubbliche, processi sommari ai credenti, moschee trasformate in porcilaie e chiese in stalle, solo per fare pochi esempi di una follia durata dieci anni.
Un osservatore distratto potrebbe pensare che da allora le cose sono molto migliorate. Effettivamente i truculenti metodi dell’epoca di Jang Qing, la sanguinaria moglie di Mao e leader della banda, sono stati abbandonati, e dal 1982, anno della revisione della legge sulle religioni, le restrizioni sono diminuite.
Il Partito comunista cinese ha constatato che schiacciare le religioni è impossibile e, secondo la filosofia leninista, ha scelto di gestirle dall’interno: dalla persecuzione dura e pura si è passati alla discriminazione e al controllo.
Il vantaggio è doppio: i credenti sono facilmente controllabili e agli occhi del mondo si possono sbandierare «prodigiosi traguardi» raggiunti nei diritti umani.
Tutti sembrano contenti: controllati e sedicenti controllori. Con un po’ di make up gli affari con le multinazionali possono continuare indisturbati.
Il perché di questa repressione è semplice: le religioni, in particolare il cattolicesimo e il Falun Gong, sono vissuti come potenziali pericoli controrivoluzionari.
L’assenza dello stato sociale lascerebbe ampi spazi di manovra all’aiuto cattolico, ma il governo cinese preferisce rifiutare scuole e ospedali, perché porterebbero alla creazione di un proselitismo giudicato pericoloso. In poche parole, la massa sterminata di diseredati cinesi rischierebbe di sollevarsi contro le decadenti e corrotte autorità locali e centrali.
Nonostante questo, dal 1982 la politica cinese verso i cattolici ha avuto periodi fluttuanti di apertura e repressione, ma con un denominatore comune: controllo totale e sottomissione.
Attualmente sembra che vi sia in corso un processo di distensione, caratterizzato da trattative silenziose tra il Vaticano ed il governo cinese.
Punta di diamante di questo riavvicinamento è l’ordinazione di mons. Xing Wen-zhi a vescovo (ufficiale) ausiliare di Shanghai, nomina avallata sia dalla Santa Sede che dalla chiesa patriottica.
Una scelta avvolta dalla confusione che ha creato ottimismo, velocemente superato dall’incidente dei 4 vescovi cinesi cui è stato impedito di partecipare al recente Sinodo.

A peggiorare le cose ci ha pensato il governo cinese con una dichiarazione ufficiale di Kong Quan, portavoce del ministero cinese degli esteri, che ha accusato il Vaticano di non fare abbastanza per migliorare le relazioni diplomatiche. Il diplomatico cinese ha detto che dalla Santa Sede la Cina si aspetta «fatti», non«parole».
Il governo cinese, ha affermato Kong, ha «desiderio sincero» di migliorare i rapporti con il Vaticano, ma questi deve far «seguire i fatti alle parole». A rincarare la dose, Kong ha citato le due tradizionali prove che Pechino richiede alla Santa Sede come pre-condizioni per intraprendere ogni dialogo: rottura delle relazioni diplomatiche con Taipei; «non interferenza negli affari interni della Cina con la scusa della religione». Le dichiarazioni di Kong hanno riportato il gelo nei rapporti di Pechino con la Santa Sede.
A proposito della libertà religiosa, Kong ha detto che «la Costituzione garantisce la libertà di religione e tutti possono vedere che sempre più gente segue una religione e che ci sono sempre più posti dove i fedeli possono praticare i loro riti». In realtà, la Cina permette libertà religiosa solo con personale e in luoghi registrati presso l’Ufficio affari religiosi e sotto il controllo capillare delle Associazioni patriottiche. Chiunque pratica la sua fede fuori da queste condizioni è considerato «un delinquente», perseguibile a norma di legge. Secondo Asia News, decine di vescovi e sacerdoti della chiesa non ufficiale sono in prigione o in isolamento a causa di questo.
Una personalità dell’Accademia delle Scienze sociali di Pechino ha riferito ad Asia News che il governo di Pechino «ha capito l’importanza che il Vaticano ha nel mondo, ma non vuole risolvere la questione in modo giusto. La Cina non riesce a capire che occorre una divisione fra stato e chiesa; il governo teme che i cattolici, in momenti di crisi, ubbidiranno più al papa che alla Cina».
È teoria che le spinte liberali seguono o precedono le aperture dei mercati economici e che un sistema capitalistico maturo necessita di una società libera e democratica.
Teoria che ha sempre funzionato, ma che ora sembra vacillare proprio a causa della situazione cinese in cui lo strapotere del partito comunista regola un mercato del lavoro che necessita di manodopera docile per far felici le multinazionali occidentali che delocalizzano le produzioni.
In questo contesto la chiesa cattolica naviga a vista, fiduciosa che i dinosauri di oggi finalmente si estinguano. n

INTERVISTA
Hong Kong: incontro
con padre Gianni Criveller

Missionario del Pime, padre Gianni Criveller vive e studia a Hong Kong da 14 anni, attualmente insegna teologia della missione presso il Centro studi dello Spirito Santo.
Mi riceve nel suo studio strapieno di libri situato nella Hong Kong Island, la parte più bella della città. L’edificio del PIME è l’ultimo che vanta l’architettura tradizionale cinese a Hong Kong.
Padre Criveller, molti osservatori occidentali sostengono che la Cina deve necessariamente adottare una politica non democratica a causa dell’enorme popolazione…
Ognuno è libero di pensare cosa vuole. Ovviamente io non sono d’accordo, perché sono testimone di cosa significa questo tipo di ragionamento. Noi missionari siamo qui per portare il messaggio del vangelo e per questa ragione pensiamo che i diritti umani debbano essere rispettati ovunque.

La Cina sta avendo uno sviluppo economico straordinario. Seguirà un miglioramento anche nella vita dei cattolici?
Il boom capitalistico è fortissimo e miglioramenti sono avvenuti anche per i cattolici. Ma il controllo della chiesa patriottica nella Cina continentale è tuttora molto forte. I cattolici non sono liberi di riunirsi quando lo desiderano, gli è concessa la messa la domenica e poco altro. Le nomine dei vescovi sono imposte e chi aderisce alla chiesa sotterranea viene perseguitato. I cattolici sono sospettati di chissà quali attività contro rivoluzionarie e in definitiva sono visti come un pericolo per il partito comunista.

Questa situazione è presente anche ad Hong Kong?
No. Gli aspetti più antipatici del controllo del governo sono presenti nella Cina continentale. Non dimentichiamo che per Hong Kong esiste un sistema legale diverso dal resto della Cina, quindi vi è una maggiore libertà.

Alcuni studiosi sostengono che la Cina diventerà nel giro di qualche decennio protestante. Lei cosa ne pensa?
Non sono d’accordo: 50 anni di ateismo non si superano facilmente e l’attuale materialismo dominante ha partita facile rispetto ai valori etico-morali delle religioni. In Cina la cosa più importante in questo momento è fare i soldi, il resto non conta.
Qual è il ruolo dello stato all’interno degli affari religiosi, ad esempio con i preti che lavorano sul campo?
L’amministrazione degli Affari religiosi, un organo ufficiale dello stato, esercita un ruolo particolarmente negativo. Spesso mettono sotto pressione i giovani preti perché questi ottengano donazioni dall’estero oppure vengono tentati a seguire le pressioni governative con offerte di divertimenti, viaggi e carriere politiche.

Ci parli della comunità sotterranea cinese. Come vivono?
La comunità cattolica sotterranea ha sofferto molto in passato e sta soffrendo nel presente, ma è la grande speranza della chiesa in Cina. La loro forza è che non vogliono fare nessuna attività politica, come il governo sospetta, ma semplicemente desiderano vivere la loro fede in totale integrità, ed in maniera indipendente.

Come è vista la figura di papa Giovanni Paolo II in Cina?
Quando vado nella Cina continentale, spesso i cattolici mi fanno domande su papa Giovanni Paolo II: questo perché, durante i suoi 26 anni di pontificato, il papa ha parlato moltissimo ai cattolici cinesi, offrendo altresì alle autorità aperture politiche senza precedenti e sostenendo con forza che «un buon cattolico è anche un buon cinese», ciò che i comunisti invece non ammettono. Un amore, quello del santo padre, corrisposto dai fedeli cinesi.

Giacomo Mucini




TARGET 2015 Obiettivi di sviluppo del Millennio (5)

LA MORTE NELLA VITA

Ogni anno mezzo milione di donne muore durante la gravidanza o il parto.

Molte vite potrebbero essere salvate, semplicemente dando la possibilità a tutte le mamme di partorire in un centro sanitario dove sia possibile intervenire sulle eventuali complicanze del parto. O anche solo di essere assistite durante la gravidanza e il parto da un medico o da un’ostetrica. E invece mezzo milione di donne ogni anno muore perché non ha potuto ricevere le cure necessarie: una ogni minuto. Molti milioni di donne portano con loro per tutta la vita le conseguenze di gravidanze e parti seguiti poco o non seguiti del tutto: disturbi, malattie, invalidità con cui fare i conti negli anni a venire.
Il 5° Obiettivo di sviluppo del millennio si è posto il traguardo di ridurre di tre quarti la mortalità matea entro il 2015 (a partire dai dati del 1990).
Squilibrio poveri-ricchi
Ancora una volta, tutte le donne che muoiono dando la vita appartengono praticamente ai paesi in via di sviluppo: il 99%.
Una donna che vive nell’Africa subsahariana, nel corso della sua vita ha una probabilità su 16 di morire quando aspetta un figlio o lo dà alla luce: nei paesi sviluppati una su 2.800; in Sierra Leone o in Afghanistan una donna ogni 6 muore per complicazioni collegate a gravidanza o parto; in India 136 mila ogni anno. Malawi, Angola, Niger, Tanzania, Rwanda, Mali, Somalia sono tutti paesi dove la mortalità matea è alta. Ma il quadro potrebbe essere anche peggiore di quanto registrato, perché non sono disponibili i dati relativi a 62 nazioni, che da sole coprono il 27% delle nascite mondiali.
Inoltre, lo squilibrio non è solo fra uno stato e l’altro, bensì anche all’interno dello stesso paese, fra popolazione agiata e in miseria: in Etiopia, una futura mamma ricca ha una probabilità 28 volte maggiore di una povera di essere seguita da personale qualificato durante il parto.
Questi numeri evidenziano un enorme squilibrio, ma sottolineano anche la possibilità di cambiare le cose, dando a tutti la disponibilità di personale qualificato, strumenti e farmaci. Si intrecciano dunque i diversi obiettivi del millennio, si riafferma la concatenazione per la quale il raggiungimento di uno porta con sé il miglioramento di un altro: dalla povertà all’istruzione, dalle pari opportunità alla mortalità infantile e alle malattie infettive come l’Aids, il quinto obiettivo porta con sé tutti i precedenti.

AVERE UN MEDICO ACCANTO
Per la mortalità matea, i dati disponibili nel 2005 indicano che finora i miglioramenti si sono avuti solo nei paesi dove vi era già un basso livello di mortalità. In quelli invece in cui i numeri erano più alti la situazione non è migliorata o è addirittura peggiorata. Negli stati più poveri solo 28 partorienti su 100 vengono ancora seguite da personale qualificato nel momento che dovrebbe essere fra i più belli della loro vita e che troppo spesso diventa quello della loro morte.
Punti fondamentali per cambiare i dati di mortalità sono proprio l’assistenza professionale e sanitaria adeguata durante la gravidanza e durante il parto, quell’assistenza che viene data per scontata nei paesi industrializzati e che non lo è affatto in quelli in via di sviluppo.
La prevenzione della mortalità matea passa attraverso un rapido accesso alle cure ostetriche di emergenza, alla possibilità di un trattamento adeguato di emorragie, infezioni, ipertensione e travaglio complicato.
In Burkina Faso, alcuni ricercatori hanno segnalato sulla rivista medica British Medical Joual (Bmj) che, su 34 donne decedute durante il parto, 10 erano morte per emorragia, 7 per sepsi (infezione diffusa) e 4 per travaglio prolungato: morti evitabili, con un’assistenza adeguata.
In Mozambico e in Zimbabwe, questioni burocratiche e organizzative non rendono disponibili per le gravide farmaci utili e a basso costo, come il magnesio solfato, efficace nel trattamento e nella prevenzione dell’eclampsia (convulsioni legate a un marcato aumento della pressione), per la quale muoiono ogni anno nel mondo oltre 60 mila donne, il 99% delle quali nei paesi a medio e basso reddito.
Per l’Organizzazione mondiale della sanità ci sono stati miglioramenti nell’assistenza medica od ostetrica; ma la disponibilità di interventi che possono salvare la vita, come antibiotici, chirurgia, trasporto in centri medici attrezzati, manca ancora a molte donne, soprattutto nelle zone rurali, lontano dalle città.
In Myanmar (ex Birmania), le donne della minoranza karen verso la fine della gravidanza cercano di arrivare in Thailandia e, in prossimità della data del parto, si dedicano addirittura alla microcriminalità: tutto questo per essere arrestate ed entrare in travaglio nelle carceri thailandesi, dove sanno che ci saranno infermiere al loro fianco e che verranno portate in ospedale al momento del parto. Scelgono quindi la prigione per essere seguite e per nutrire per qualche mese i loro figli: nel loro paese non avrebbero questa possibilità, in quanto minoranza senza cittadinanza birmana.

DIFFICILE INTERVENTO NEL RISPETTO DELLA VITA 
Gli interventi sulla mortalità matea, rispetto ad altri Obiettivi del millennio, sollevano anche polemiche e questioni etiche sull’aspetto della «prevenzione» delle gravidanze, dell’offerta di una consulenza appropriata e rispettosa di idee, culture, visioni della famiglia nei paesi in via di sviluppo.
Per ridurre la mortalità matea e salvaguardare la salute della donna, si parla infatti anche di misure preventive. Ad esempio: l’aumento dell’età dei matrimoni e della prima gravidanza, adeguati intervalli di tempo fra un figlio e l’altro, prevenzione delle gravidanze non volute ed eliminazione degli aborti in condizioni non sicure. Azioni che, si legge sui documenti del Dipartimento per lo sviluppo internazionale (Dfid) britannico, potrebbero evitare un terzo delle morti matee ed essere importanti per 1 miliardo e 300 mila giovani che si affacciano all’età riproduttiva.
Sempre sul Dfid si legge che la mateità rappresenta la causa principale di morte fra i 15 e i 19 anni nei paesi in via di sviluppo, che ogni minuto 190 donne si trovano di fronte a una gravidanza non voluta o non pianificata e ogni anno circa 70 mila muoiono per complicanze di un aborto non sicuro.
Ma sono temi che aprono il capitolo sulla difficoltà di integrare con correttezza interventi medici di salute in una cultura, in un modo di vivere, e anche di intendere la vita, differente. Sono interventi che sollevano polemiche sulla concentrazione degli sforzi nella prevenzione delle gravidanze più che nella cura delle stesse.
L’argomento è stato per esempio affrontato dalla giornalista Eugenia Roccella, nel contesto più globale dell’azione dell’Onu e dell’Unione europea nei confronti della donna, salute riproduttiva e controllo delle nascite nei paesi in via di sviluppo. Roccella riporta che, secondo la Società di ostetricia e ginecologia del Canada, in base ai dati di rapporti inteazionali, gli obiettivi di riduzione del numero di morti conseguenti al parto non vengono raggiunti per la mancanza non di conoscenze e strumenti, bensì dell’investimento di risorse per permettere l’accesso alle cure ostetriche per le complicanze.
«Il problema consisterebbe quindi nella scarsa volontà internazionale di affrontare questo aspetto della salute riproduttiva, nonostante sia il più drammatico e urgente, sia per il numero dei decessi femminili che per le conseguenze sui bambini» scrive Roccella. E ancora: «I dati confermano come i cosiddetti servizi alla salute riproduttiva siano rivolti moltissimo alla prevenzione delle gravidanze indesiderate, ma pochissimo alle cure delle gravidanze desiderate. Il modo principale con cui si intende ridurre la mortalità da parto è riducendo, semplicemente, il numero di parti, e aumentando quello di aborti».
Ciò che va bene in un paese può non inserirsi positivamente in un altro e ogni intervento richiede la conoscenza della realtà cui è rivolto. Scrive sempre sul Bmj Zulfiqar A. Bhutta, del Dipartimento di pediatria e salute infantile dell’Agha Khan University (Karachi, Pakistan): «La mancata comprensione di importanti aspetti socioculturali nell’affrontare la salute e la malattia può ostacolare programmi sanitari, soprattutto in quelle società dove la salute e i diritti di donne e bambini sono strettamente interconnessi».

Mete da raggiungere

1. Povertà e fame: dimezzare rispetto al 1990 la povertà estrema e la fame.
2. Istruzione: garantire a tutti un livello di istruzione primaria.
3. Parità dei sessi: promuovere l’uguaglianza tra maschi e femmine; dare maggiore autonomia e poteri alle donne.
4. Bambini: ridurre di due terzi rispetto al 1990 la mortalità infantile.
5. Mamme: migliorare la salute matea, inclusa la riduzione di tre quarti rispetto al 1990 della mortalità in gravidanza e da parto.
6. Malattie: prevenire la diffusione di HIV/AIDS, malaria e altre malattie.
7. Ambiente: assicurare uno sviluppo sostenibile.
8. Scienza, tecnologia, progresso: sviluppare una collaborazione globale per lo sviluppo.

OBIETTIVO N°5
Migliorare la salute matea
e ridurre la mortalità in gravidanza e da parto.

In tutto il mondo oltre 50 milioni di donne soffrono di disturbi, anche gravi, correlati alla gravidanza o al parto: mezzo milione muore nel dare la vita. La maggior parte di questi decessi si verifica in Asia, ma sono le donne africane ad avere il rischio più alto di morire durante la gravidanza o il parto: nell’Africa Sub Sahariana il rischio di morire di parto nel corso della propria vita è di uno a 16, in Europa uno a 2.000, nel Nord America uno a 3.500. Il 5° Obiettivo del millennio si propone di ridurre di tre quarti, fra il 1990 e il 2015, i numeri della mortalità matea.

Valeria Confalonieri




Stati Uniti versus Venezuela: il predicatore Pat Robertson

Da tempo abbiamo imparato a non stupirci più di nulla. Eppure, sentire un
incitamento al delitto in diretta televisiva è un fatto che non può (o
non dovrebbe) lasciare indifferenti. È avvenuto lo scorso 23 agosto ed
ha avuto come protagonista il predicatore televisivo Pat Robertson,
fondatore del gruppo evangelico d’ultradestra «Coalizione cristiana»,
nonché ex candidato presidenziale, molto vicino a George Bush. Dalle
frequenze del canale televisivo statunitense Christian Broadcasting
Network (Cbn), nel corso del suo spettacolo «The 700 Club», il
reverendo si è così espresso: «Chávez ha distrutto l’economia
venezuelana. Ed è diventato una testa di ponte per l’infiltrazione
comunista e dell’estremismo islamico in tutto il continente. (…) Noi
abbiamo la capacità per eliminarlo e credo che sia giunto il momento
per esercitarla. Non abbiamo bisogno di intraprendere un’altra guerra
da 200 milioni di dollari per sbarazzarsi di questo pericoloso
dittatore. È molto più facile che qualche agente segreto faccia il
lavoro e la faccia finita con lui».

Dopo queste incredibili parole (pronunciate – vale la pena di ricordarlo –
nel corso di un
programma televisivo), la Casa Bianca ha preso le distanze, ma non ha
espresso un’esplicita condanna nei confronti del reverendo Robertson.
Sull’argomento è intervenuto, qualche settimana dopo, lo stesso Hugo
Chávez.
Durante l’assemblea plenaria per il sessantesimo
anniversario delle Nazioni Unite, lo scorso 15 settembre, il presidente
venezuelano ha chiuso così il suo (applauditissimo) intervento:
«L’unico paese dove una persona si può permettere il lusso di chiedere
l’assassinio di un capo di stato sono gli Stati Uniti. Come è avvenuto
da poco con un reverendo di nome Pat Robertson, molto amico della Casa
Bianca. Costui ha domandato pubblicamente, davanti al mondo, il mio
assassinio. E se ne va libero. Delitto internazionale, terrorismo
internazionale». Possiamo dargli torto?

Paolo Moiola

 

Paolo Moiola




RORAIMA Reportage tra gioia e rabbia

TERRA AMARA


Finalmente, gli indios di Roraima

hanno potuto festeggiare l’«omologazione» di un pezzo di terra che, d’ora in poi, sarà loro. Ma non tutti si rassegnano alla… sconfitta, continuando ad esprimere,
con la violenza, il loro rancore…

Quella del 21-24 settembre 2005 è stata una grande festa nel territorio di Roraima (Brasile): dopo lunga attesa, la terra di «Raposa Serra do Sol» è stata «omologata», cioè consegnata definitivamente ai popoli indigeni, legittimi proprietari. La vigilia è stata preceduta da un evento funesto: due giorni prima i fazendeiros hanno appiccato il fuoco a quasi tutte le costruzioni della missione di Surumú.
Una delegazione di cinque persone, la senatrice Emanuela Baio, mons. Aldo Mongiano, padre Silvano Sabatini, fratel Carlo Zacquini e padre Giordano Rigamonti, in cammino verso Maturuca, decideva di fermarsi a Surumú per essere testimone degli effetti di tanta violenza.
La festa è stata grande ugualmente: le ceneri della missione hanno maggiormente stimolato la resistenza degli indigeni nella difesa dei loro diritti e la volontà di ricostruire il loro futuro.

Surumú, 20 settembre

Scuola, ospedale, casa delle suore, chiesa… tutto distrutto dalla violenza: quali sono le sue prime impressioni, senatrice?

Sgomento e dolore hanno accompagnato le quattro ore che abbiamo trascorso nella missione di Surumú. A distanza di giorni, ancora rabbrividisco quando penso alla violenza racchiusa in quelle macerie, allo scontro tra odio e amore. Di violenza, terrorismo e scontro si può parlare, perché questo è un male che accompagna l’uomo e che nella piccola e sperduta missione di Surumú, ha espresso il peggio di sé.
Tutto è cominciato al nostro arrivo a Boa Vista. Fratel Carlo ci ha accolti, immergendoci immediatamente nella triste realtà: «Qualche ora fa, hanno bruciato la nostra missione a Surumú». Poche parole per esprimere il dramma di un popolo: gli indios dello stato di Roraima, dimenticati dai più, poco conosciuti, ma forti della loro esistenza, cultura, tradizioni e capacità. Non saranno i fazendeiros, conniventi con alcuni «politici», a distruggere questa comunità (vedi riquadro). Ci hanno già provato, ma non sono riusciti. Nonostante lo sgomento e la rabbia che ho ritrovato tra i missionari, è riemerso immediato l’amore.
Il giorno seguente il nostro arrivo a Boa Vista, padre Mario Campos, parroco di Surumú, ci ha detto pure che i giovani vogliono continuare l’esperienza comunitaria della missione. Una scelta coraggiosa, che ha illuminato di speranza il paesaggio devastato dall’odio e che ha fatto in modo che condividessimo un momento di riflessione e preghiera con quei giovani. Questo mi ha convinta ancor di più sulla necessità di continuare a sostenere il loro coraggio, sia da parte degli italiani, come hanno già fatto con la campagna Nós existimos, sia da parte delle istituzioni, come la Commissione diritti umani del Senato della repubblica.
Girando fra le macerie della scuola, casa delle suore, ospedale e nello squallore dei pochi resti della chiesa, mi sono subito accorta che la mano potente e violenta di quegli uomini (quasi sicuramente ubriachi, a detta dei presenti) hanno colpito con un’intelligenza raffinata. Quella di Surumú non è solo una missione: è il centro pulsante di una nuova cultura. Lì vengono formati i nuovi leaders e istruiti gli indios, si trova la quintessenza della paziente e faticosa opera compiuta dai missionari della Consolata per più di 30 anni di impegno. Ma lì si trova anche un ambulatorio medico, importante per le prime cure delle comunità indie.
Nella povertà e desolazione di quel luogo risiede il futuro, ricco di speranza. Se nell’ambulatorio si percepisce la solidarietà umana e il riconoscimento di un diritto inalienabile dell’uomo, quale è quello alla salute, nei resti della chiesa si intravede la profonda ricerca spirituale, nella scuola la costruzione del presente: tre simboli che rappresentano per i giovani le rocce sulle quali costruire il futuro.

Calpestiamo le ceneri ancora calde sul pavimento; preghiamo con i leaders della comunità; padre Mario, il parroco, è in lacrime e a stento riesce a dare la parola a giovani che vogliono celebrare la vita: le emozioni sono stampate su tutti i volti dei presenti…

Sono sopravvissute solo le mura perimetrali della chiesa: il resto è polvere, ceneri. È un paesaggio surreale, ma brutalmente vero. Eppure abbiamo vissuto un momento di intensa spiritualità: i giovani della scuola, nel momento di preghiera, si sono disposti in cerchio, quasi a rappresentare il circolo dell’esistenza, e ognuno di loro ha gridato il proprio nome, affermando così una presenza che non è stata portata via dal vento dell’odio, ma che lì, in quel cerchio, formava la catena della vita: la forza dell’amore.
Hanno poi intonato canti e letto testi sacri, per suggellare il sentimento di perdono e la richiesta di aiuto: è stata una comunione di intenti e una grande lezione di vita. Nessuna recriminazione né minaccia di vendetta; nessuna spiegazione per cercare di capire… Ma hanno accettato quella sorte con la forza della speranza nella pace e nella prospettiva di un futuro migliore, senza dare spazio alla rassegnazione.
Con noi c’era anche il neo vescovo di Boa Vista, mons. Roque Paloschi, il quale ha individuato il percorso dove camminare come un fratello fra fratelli, una strada in cui i missionari sono i seminatori del regno, tra un popolo che soffre.

Maturuca, 21 settembre

Il capo Jacir De Souza ti prende sotto braccio e ti accompagna alla maloca centrale, accolta da una folla festante… Come ti sei sentita, tra un popolo orgoglioso del traguardo conquistato?

Il loro scortarci alla grande maloca con canti e balli, con una gioia incontenibile, mi ha fatto constatare la spontaneità di un’ospitalità non consueta. Per noi occidentali è semplice condividere la felicità di questo popolo; non lo è altrettanto capirla fino in fondo. Solo stando lì, sentendo il racconto di persone che per 30 anni hanno sopportato le angherie dei fazendeiros (retribuiti per il loro lavoro con bottiglie di alcornol), ci si può forse avvicinare, rispettare e apprezzare la loro dignità di popolo; mentre noi non siamo in grado di guardare al futuro, essi hanno la felicità dell’essenziale, invisibile agli occhi.

La Commissione diritti umani del Senato ha fatto un prezioso lavoro di appoggio alle rivendicazioni degli indigeni di Roraima per la riconquista della loro terra: quale è stato il tuo messaggio? Quale ipotesi di collaborazione per il futuro?
«Costruire una società nella quale i diritti di pochi si trasformino nel diritto di tutti» è la prima affermazione che ho pronunciato durante la festa di omologazione. È lo spirito che ha accompagnato i missionari e che ha mosso anche il nostro impegno alla Commissione diritti umani del Senato. La mia partecipazione rappresenta una tappa di un percorso. Le 44.000 firme consegnate al presidente Marcello Pera costituiscono il sostegno, la condivisione e il rafforzamento di una battaglia (vedi riquadro).
Come rappresentante del Parlamento italiano ho ringraziato gli indios di Roraima per il coraggio dimostrato, per la forza morale che ha consentito di superare barriere invalicabili, per la paziente attesa di vedere ripristinati i loro diritti umani e civili, senza mai ricorrere alla violenza, senza attimi di esitazione o demotivazione.
Quello che unisce le nostre nazioni è anche un altro sentimento: l’amore verso la propria terra. Il concetto di terra è ben definito, indica dei limiti e proprio in questi ritroviamo i nostri valori, che, nonostante gli usurpatori, le catastrofi naturali o l’allontanamento forzoso, non potranno essere stravolti. Dentro questo diritto naturale è riconosciuta la nostra esistenza, la disponibilità a essere amati per la nostra identità, essere accettati anche da chi, forse ancora oggi, non vuole riconoscere quel grande e unico popolo.
Nel momento in cui si ammette il diritto alla terra, si riconoscono anche diritti umani essenziali: alla vita, all’alimentazione, all’acqua potabile e, quindi, all’esistenza. L’impegno del Parlamento italiano continuerà, vigilando da lontano e da vicino e lavorando affinché questi diritti, che non sono ancora pienamente riconosciuti, siano suggellati anche dal Tribunale internazionale di giustizia.
Con i missionari e la comunità indigena lavoreremo anche per far crescere sempre più la conoscenza culturale di questo popolo. Brasile e Italia, insieme, possono contribuire, con la forza della frateità, a costruire un mondo migliore, fatto di tante diversità, ma realizzato con giustizia, libertà, pace e democrazia.

Boa Vista, 21 settembre (sera)

In città circolano voci su una spedizione punitiva nei tuoi confronti… con l’accusa di ingerenza, già sbandierata dai media nei giorni precedenti: hai avuto paura?

L’atteggiamento di intimidazione nei nostri confronti, a mezzo stampa, aveva già avuto un precedente, nell’agosto di questo anno, quando il senatore Pianetta, presidente della Commissione dei diritti umani, si era recato in visita a Roraima. Forse siamo stati fraintesi: il nostro intervenire non era finalizzato all’ingerenza, ma alla cooperazione con questo popolo e le istituzioni brasiliane.
Non nego che tali intimidazioni mi abbiano spaventata, però non potevano impedire la mia visita, in quanto ero profondamente convinta del valore del mio compito.
Non posso nemmeno negare il conforto morale datomi dai missionari della Consolata che, attraverso la disponibilità e l’autornironia per quanto stava accadendo, mi hanno dato la forza per non abbattermi e hanno fatto in modo che anche questa esperienza mi rimanesse impressa come positiva.

Brasilia, 22 settembre

Incontri con deputati e senatori dello stato federale del Brasile: quali sono i suggerimenti dati e ricevuti riguardo al futuro dei popoli indigeni di Roraima?

Fra Brasilia e lo stato di Roraima è come se ci fosse una dissociazione. Ciò che sembra possibile nelle aule del Parlamento federale è vissuto come difficile o impossibile a Maturuca e a Surumú. Le ragioni sono molte e non sta a noi giudicare le scelte politiche degli uni o degli altri. Credo sia importante capire, per individuare la via da percorrere, continuare il nostro aiuto e il sostegno internazionale a una causa non solo giusta, ma essenziale per il futuro dell’umanità.
Come ci ha detto il vescovo di Boa Vista: il diritto alla terra è un diritto inviolabile dell’uomo. Anche alcuni parlamentari federali lo affermano. Ci hanno ripetuto che questa è una competenza dello stato federale. Peccato che il governatore di Roraima, quando il presidente Lula, il 15 aprile 2005, ha firmato il decreto di omologazione, abbia dichiarato sette giorni di lutto per Roraima!
Il nostro compito in Brasile è quello di creare un ponte tra due sponde che hanno gli stessi obiettivi: se da una parte ci sono i parlamentari brasiliani impegnati per gli interessi del popolo indio, dall’altra compaiono missionari, associazioni e cittadini che ambiscono alla serenità e al benessere; le due sponde fronteggiano lo stesso fiume, ma non hanno lo stesso materiale per costruire un collegamento, le stesse parole per comunicare.
Stiamo seguendo questa prima delicata fase, ascoltando entrambe le motivazioni, traducendo gesti incompresi in un messaggio reciproco di solidarietà. La prima impressione è, infatti, quella che i fazendeiros non siano convinti a lasciare le terre, nonostante lo stato federale abbia assegnato loro altre proprietà.
I colleghi brasiliani ci hanno chiesto l’impegno a continuare a sostenerli dall’Italia; ma anche di non rinunciare a raggiungerli, evitando interferenze, e aiutando il processo di autodeterminazione del popolo.
Noi, invece, abbiamo chiesto di far sentire la loro presenza in quello stato del nord brasiliano. Ci hanno assicurato che non abbandoneranno il loro popolo: parola di brasiliani. Io, di certo, non lascerò questa esperienza come mero ricordo, ma per me sarà un obiettivo quotidiano: parola di italiana!

(di Emanuela Baio Dossi con Giordano Rigamonti)

Emanuela Baio Dossi




RORAIMA: la Campagna

La consegna delle firme

LA FORZA DI 44.000 FIRME

«In fretta, in fretta! Il presidente Pera vi sta aspettando!». Antonio Feandes, missionario della Consolata a Roraima (Brasile) e oggi consigliere generale dell’istituto, si asciuga emozionato il sudore; Carlo Maglietta, medico e presidente del «Comitato Roraima», si riannoda precipitosamente la cravatta; Silvia Zaccaria, antropologa, si aggiusta con la mano la chioma fluente; Vincenzo Gaeta, caporedattore di «Famiglia Cristiana», spegne il cellulare. E Francesco Beardi, cornordinatore nazionale di «Nós existimos», dichiara deciso: «Andiamo!». A Roma, il vistoso orologio di Palazzo Madama, sede dell’incontro con il presidente del Senato, segna le 12 e 13. È il 26 luglio 2005.

Marcello Pera accoglie sorridente e interessato i cinque delegati, accompagnati dal pensiero degli amici rimasti in anticamera: tutti attivisti nella campagna «Nós existimos» (Noi esistiamo) in favore dei popoli indigeni, piccoli contadini ed emarginati urbani di Roraima. Il quintetto illustra al presidente le sfide in una regione dove corruzione, violenza e impunità si intrecciano e regnano sovrane.
I missionari della Consolata operano a Roraima dal 1948. Dopo lunga riflessione, scelgono i popoli indigeni, cioè i più poveri dei poveri. A partire da tale opzione, essi passano dalle parole ai fatti, anche a livello internazionale. Lanciano alcune campagne.
– Ecco la campagna per gli Yanomami del 1979-80. Dall’Italia partono tantissime cartoline: sollecitano il presidente del Brasile a creare il «parco yanomami», perché la terra è essenziale per salvaguardare la cultura di un popolo indigeno. L’obiettivo verrà raggiunto nel 1991.
– Segue, nel 1988-89, la campagna «Indios Roraima», realizzata anche a livello europeo: moltissimi cittadini si appellano al Segretario generale delle Nazioni Unite, affinché siano tutelati i diritti dei popoli indigeni e sia salvaguardato l’ambiente amazzonico. La campagna include pure il progetto «Una mucca per l’indio», che si concreta in 10 mila capi di bestiame, oggi 42 mila.
– «Nós existimos» è l’ultima campagna. Lanciata nel Forum sociale mondiale di Porto Alegre nel 2003; rispetto alle precedenti, si caratterizza per due novità. La prima: la campagna nasce ed è cornordinata in Brasile, da realtà locali (missionari della Consolata, Consiglio indigeno, ecc.); in Italia si raccolgono solo le «loro» proposte. La seconda novità: «Nós existimos» è globale; riguarda non solo i popoli indigeni, ma anche i piccoli contadini e gli emarginati della città. Insomma, tutti i poveri. E tutti scendono in campo, per la prima volta insieme, in una storica alleanza di oppressi. Queste le rivendicazioni di «Nós existimos»:
– omologazione-riconoscimento della terra indigena di Raposa Serra do Sol in un’area continua, allontanando gli invasori; controllo del territorio e rispetto delle culture ancestrali;
– approvazione del nuovo Statuto degli indios e sospensione del progetto (stralciato dallo Statuto) di estrazione mineraria in area indigena;
– no ad agevolazioni fiscali a latifondisti, coltivatori di riso, acacia mangium e soia; sì a investimenti per una politica agricola familiare e creazione di posti di lavoro in città;
– no alla produzione di «pasta base» per la cellulosa, onde scongiurare l’alto costo ambientale;
– sostegno a indios e non indios, in campagna e città, che vogliono salvaguardare l’ambiente e sviluppo sostenibile;
– lotta alla corruzione a ogni livello; in particolare, punire i responsabili di illegalità politiche;
– regolamentazione della presenza militare in terra indigena.

Q ueste rivendicazioni sono state sottoscritte anche da 44 mila italiani. Grazie alle firme, che padre Feandes e compagni consegnano al presidente del Senato, si è già ottenuto (indirettamente) un risultato positivo: il riconoscimento dell’area indigena «Raposa Serra do Sol» (17 mila kmq), avvenuto il 15 aprile scorso con il decreto del presidente brasiliano, Luis Inacio Lula da Silva. Una vittoria… dentro un cammino ancora irto di ostacoli.
All’incontro con Pera partecipa pure Enrico Pianetta, presidente della Commissione dei diritti umani del Senato, che in agosto consegnerà al presidente Lula le 44 mila firme. «Tante quante sono gli indigeni di Roraima: una firma per ogni indio» commenta con evidente simpatia la senatrice Emanuela Baio, anch’essa in sala.

Con la consegna delle firme, sulla campagna «Nós existimos» in Italia cala il sipario. Ma, «oltre il sipario», sul palco di Roraima, indios, piccoli contadini ed emarginati urbani recitano ancora a soggetto, rivendicando maggiore giustizia e libertà, in un contesto di sfacciata ricchezza e lacerante povertà. Ma sono incoraggiati da un nutrito «movimento» di forze religiose e sociali locali. È un’altra significativa vittoria…
Siamo grati ai 44 mila «attivisti» italiani. Attivisti: termine un po’ desueto, che è opportuno riscoprire nel suo significato migliore. «Non dobbiamo starcene come automi, senza iniziative proprie, per paura di sbagliare. Non lasciamoci rimorchiare. No, avanti! Camminiamo sempre, per farci santi e salvare tante anime!» (Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari della Consolata).

Francesco Beardi

Francesco Beardi