Amore contro i mulini a vento

Dati alla mano, frutto della sua ricca esperienza di medico in missione, la dottoressa Chiara Castellani ci racconta la sua lotta quotidiana contro l’Aids nella Repubblica Democratica del Congo. Povertà, scarsezza di risorse e anche qualche retaggio culturale da «purificare» sono alla base di questo racconto molto umano. Una voce in difesa di una generazione che sta scomparendo. Ed un rimedio extra-medico che sempre causa beneficio: l’amore umano.

A partire dall’inizio degli anni ‘80, quando i primi casi di Aids furono rilevati nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), la situazione epidemiologica non ha cessato di evolversi, fino a diventare oggi un vero e proprio problema della società. Ciò risulta chiaro, quando si considerano la sua enorme diffusione nel paese e il suo impatto sugli individui, le famiglie e le comunità; per non parlare di quello sul vissuto della sessualità e della mateità/pateità. In particolare, la situazione congolese in merito alla distribuzione e utilizzo di reattivi per il sangue sicuro (per trasfusioni e operazioni) appare anarchica ed inefficiente.
Questo, nonostante i paesi dell’Unione Europea stiano intervenendo più specificamente nel settore della prevenzione, compiendo peraltro il grosso errore culturale di focalizzare la prevenzione sul solo uso del preservativo. In assenza di un programma nazionale di trattamento antivirale, si è obbligati a utilizzare la diagnosi sierologica (che, oltretutto, sta risultando sensibile ma poco specifica) unicamente per identificare i sieropositivi fra i donatori di sangue.
Mentre la prise en charge del malato si limita al solo trattamento palliativo. Negando di fatto l’accesso alle terapie antiretrovirali e, pertanto, ripetendo lo stesso errore compiuto per quasi un ventennio con i nuovi trattamenti tubercolostatici short cours, che erano «privilegio» delle forme resistenti fino al 1996 ed ancora a pagamento nel 2003.
Come per la tubercolosi, negare l’accesso al farmaco efficace, benché non curativo, rischia di avere un effetto boomerang sulla diffusione del virus. Infatti, non solo il trattamento riduce la contagiosità, ma anche e soprattutto – come conferma l’Oms. (Organizzazione mondiale della sanità) per tutti i paesi interessati dalla pandemia – il malato condannato a morte a cui viene svelata la diagnosi, ma negato il trattamento, rischia di assumere un atteggiamento di rivalsa che ne accentuerà il comportamento a rischio (diretto deliberatamente contro la prevenzione e verso la propagazione del contagio).
Senza contare che l’essere umano, di tutte le razze e culture, a cui viene negato un futuro che ad altri, più ricchi, è viceversa garantito per legge, cercherà prima di tutto di «eternizzarsi», mettendo al mondo un figlio che personifichi il futuro negato.

Con le cifre non si scherza

Attualmente, sono rimasti cinque dei quattordici «posti-sentinella» per i rilevamenti di casi Hiv-Aids, istituiti nel 1992 nell’ambito di un progetto Unaids: Kinshasa, Karawa (Provincia Equatore), Mikalay (Kasai occidentale), Kibondo (Kasai orientale) e Sendwe (Katanga). Ma indagini più approfondite in tutto il paese sono auspicate da molto tempo.
Statistiche a livello nazionale, realizzate attraverso il sistema di informazione sanitario, stimano meno di 10 mila i nuovi casi di Hiv nel 2004. Ma i responsabili del «Programma di lotta all’Aids» della cooperazione italiana (attualmente sospeso per mancanza di fondi) e della cooperazione tedesca (Gtz) commentano: «Sarebbe un caso unico in cui un’epidemia è entrata da sola nella fase discendente della sua curva, senza alcun intervento né preventivo né curativo». Infatti, chi analizza l’evidenza delle circostanze vissute nella Rdc negli ultimi 10 anni, stima che i tassi relativi alla prevalenza nel paese, siano molto più elevati rispetto al 5% ufficialmente dichiarato dalle autorità politico-sanitarie. In effetti tale percentuale esprimerebbe una riduzione della prevalenza, rispetto alle ultime statistiche veramente affidabili realizzate dal Prof. Peter Piot, verso la fine degli anni ‘80. Riduzione da considerarsi inspiegabile e non reale, se si considera che nessuna azione preventiva su larga scala è stata lanciata, e che i preservativi (relativamente costosi, difficilmente reperibili e culturalmente poco accettati, soprattutto nelle zone rurali) sono disponibili solo a pagamento ed esclusivamente sul mercato della capitale.
Infatti, i molteplici movimenti di truppe e i flussi migratori, sia all’interno del paese che verso e da paesi confinanti, con tassi di prevalenza di Hiv-Aids molto alti, hanno esposto il Congo all’esplosione e all’ampia diffusione del virus, tanto nelle zone urbane, come nelle rurali (rapporto Oms/Unicef, luglio 2001).
Ma esistono anche cifre reali ben differenti, basate sulle informazioni raccolte attraverso gli osservatori regionali. Da recenti indagini condotte tra famiglie apparentemente sane e donatrici di sangue in Kalemie (Katanga settentrionale), un terzo dei donatori è risultato positivo all’Hiv. Inoltre, da uno studio di pazienti presso il General Hospital, a Bukavu, è emersa una prevalenza del 32% tra gli uomini adulti, il 54% tra le donne adulte e il 26,5% tra i bambini.
Nel Bandundu, dove la presenza di truppe è stata limitata nel tempo e geograficamente, il problema sembra meno eclatante, ma a Tembo, cittadina nota per il traffico dei diamanti ai confini con l’Angola, la prevalenza dei sieropositivi fra i donatori di sangue nel primo semestre del 2005 arrivava al 18%, benché si tratti di zona rurale. In tutto il paese si parla di 173 mila nuovi casi all’anno, con un totale di circa 1,3 milioni di adulti e bambini già affetti da Hiv.
Nel caso specifico delle strutture sanitarie della diocesi di Kenge, in assenza di terapie combinate antiretrovirali (disponibili solo a Kinshasa nel quadro di un «progetto pilota», ma a tariffe talmente elevate da essere comunque accessibili solo a pochi privilegiati), ed anche della profilassi alla Nevirapina per le partorienti (anch’essa disponibile solo nei grandi ospedali di Kinshasa, e sconosciuta negli ospedali dell’interno), gli unici interventi possibili sarebbero l’uso del preservativo e il «test rapido per l’Hiv».
L’utilizzo del primo è pressoché inesistente nonché culturalmente rifiutato perché, nell’immaginario collettivo, viene associato a un vissuto di imposizione politica del controllo delle nascite e, quindi, tacciato di provocare la sterilità. Il secondo è reperibile in modo irregolare, solo a pagamento e in quantità talmente esigue che diviene obbligatorio limitae l’uso alle sole trasfusioni.
Nel caso di positività del donatore, poi, conformemente agli orientamenti dell’Oms, ci si deve limitare a dire che il sangue è risultato essere «incompatibile» e scartarlo. Di fatto gli ospedali della diocesi di Kenge (e in genere le strutture sanitarie dell’interno del paese) non dispongono di una struttura di counselling capace di far fronte alla tempesta psicoemotiva che fa seguito alla diagnosi di sieropositività (che in assenza di trattamento costituisce una vera e propria sentenza di condanna a morte) e di evitare che il malato presenti una reazione paradossale di incremento del comportamento a rischio.
A Kimbau, il personale ha cominciato a rifiutare il dono di sangue perché terrorizzato dall’ipotesi di trovarsi di fronte a una positività del test. La gente comune non viene neanche informata sul fatto che il test viene realizzato, per evitare che, in caso di emergenza, rifiuti di donare il sangue. I donatori volontari che hanno accettato coscientemente di sottomettersi al test non sono che due per tutta la zona sanitaria di Kimbau: parlare di «Banca del Sangue» è ancora un’utopia!
Anche le attività di educazione sanitaria sembrano essere piuttosto limitate, a causa della mancanza di attrezzatura di base: fanno eccezione i cornordinamenti delle scuole cattoliche, protestanti e kimbangwiste, che dal 1998 stanno portando avanti un’azione di educazione sanitaria nelle scuole che, pur ammettendo l’uso del preservativo, preconizza l’astinenza per i giovanissimi e la fedeltà all’interno della coppia per i giovani già sessualmente attivi. Nel 1999, dopo sei mesi di «progetto pilota» nella sola parrocchia di Kimbau, il programma educativo è stato adottato anche nelle scuole cattoliche della diocesi di Kenge.
Inoltre, nell’anno scolastico 2003-2004, si sono svolti a Kenge seminari di formazione per gli insegnanti di scuola primaria e secondaria, con distribuzione di materiale destinato alle classi superiori, prodotto con sostegno scientifico e finanziario di Medicine Sans Frontière. Con il sostegno della Ong italiana «Aifo» è prevista la conduzione di seminari diretti alla «formazione dei formatori» (presidi, direttori di scuole primarie e insegnanti selezionati) sui temi vari, quali: Aids e malattie sessualmente trasmissibili, lebbra, tubercolosi, tabagismo, alcolismo, nutrizione ed altri temi prioritari di educazione sanitaria e prevenzione.
Purtroppo, nel frattempo, chi è ammalato di Aids, dovrà scegliere fra il negarlo a se stesso e agli altri e il crollare nella disperazione perché, al momento, non gli può essere garantito alcun trattamento. Alcuni, magari, cercheranno disperatamente di generare ancora un figlio prima di morire, senza considerare le possibili, drammatiche, conseguenze.

Vite travolte dall’Aids

La storia di Albert Kikanda è esemplare di questa tragedia che si sta consumando in Congo. Alto, slanciato, prestante, campione di calcio, innamoratissimo di sua moglie Aimedò Mambanzi e legatissimo ai cinque figli, Kikanda presenta i primi sintomi della sua sieropositività appena diplomato infermiere specializzato e nominato «supervisore per casi di lebbra e tubercolosi».
Non fa nemmeno in tempo a installarsi nel suo nuovo ruolo, che comincia a vivere su se stesso il dramma dell’autodiagnosi progressiva. È il mese di giugno del 1999 e Kikanda scopre il bacillo di Koch nei suoi stessi polmoni. «Tu sei sempre a contatto con i malati, per forza sei esposto. Ñon fumi, non bevi, ma forse hai sudato troppo durante l’ultima partita; puoi aver preso freddo».
Poi, gli parlo di un noto campione di calcio italiano degli anni ‘70, che ha sofferto di tubercolosi, ma poi è diventato più forte di prima. Mi sorride amaro, pensa a quella sua fidanzata a Kenge, quando lui aveva ancora 20 anni, prima di conoscere Aimedò. Era bella, ma poi si è ammalata di tubercolosi, è guarita, ma è morta lo stesso, misteriosamente.
Anche Kikanda guarisce, grazie alla cura che cerca di avere per se stesso. Dopo qualche mese ricomincia a giocare a calcio; intanto, impara ad operare, mentre continua a seguire i malati di tubercolosi. Sta bene fino al luglio 2001, poi ricomincia la febbre. Un giorno mi chiama in disparte, nel retrobottega della farmacia «ho delle bollicine sul pene», mi dice. Mi basta un’occhiata per fare la diagnosi, che lui, d’altronde, già conosce fin troppo bene: «È un herpes Zoster». Glielo nomino chiaro e tondo, col nome scientifico, sapendo cosa significa avere il «fuoco di sant’Antonio» per qualcuno che ha già sofferto di tubercolosi.
Non pronunciare il vero nome, mi sembrerebbe di offendere la sua intelligenza. Ho un campione di Aciclovir e glielo dò. Guarisce, ma il gonfiore delle ghiandole linfatiche all’inguine non scompare. Dopo un po’ le scopre sul collo, sotto le ascelle… La febbre ricomincia, associata a dolore addominale e a diarrea intermittente. «Non ti sarai mica beccato il tifo?», gli chiedo.
Sarà, ancora una volta, il trattamento tubercolostatico a ottenere la fine dei sintomi. Quando viene a Kimbau il cornordinatore provinciale di «lebbra e tubercolosi», trovandolo di nuovo malato, mi chiede perché Albert non ha mai subito il test di Dupont (Hiv-check). Gli spiego che qui a Kimbau abbiamo chiamato quest’esame «test Mambanzi» perché la sola persona autorizzata a praticarlo è papà Mambanzi, il decano degli infermieri, ma anche il padre di Aimedò, suocero, quindi, di Kikanda. Non può certo essere lui a porre una diagnosi del genere a suo genero e, forse, subito dopo, anche a sua figlia, e ai figli di sua figlia, specialmente il più piccolo che è spesso malato…
Partiamo assieme alla volta di Kinshasa nell’agosto 2001. Compiamo un viaggio rocambolesco, su un camion che cade per tre volte in panne in 500 Km. Lo accompagno all’Istituto Nazionale di Ricerca Biologica (Inrb) per prelevare il test, che ci costa un occhio della testa: fortuna che è venuto Salvatore per darci una mano. Ci danno appuntamento per cinque giorni dopo, ma il giorno stabilito, Kikanda, non si presenta all’appuntamento che ci siamo dati presso l’Inrb. Inutilmente l’aspetterò per più di un’ora: non verrà, ha troppa paura. Benché io sia medico curante, non ho diritto di ritirare quel test a nome suo. Ci metterò un anno per convincerlo che non devo essere io a ritirare il test, ma deve essere lui, in persona. Nell’ottobre 2002, siamo di nuovo assieme all’Inrb, ma quando chiediamo di ricevere la risposta di un esame vecchio di oltre un anno ci mandano letteralmente al diavolo: «Non potevate ritirarla a suo tempo? Adesso dove la troviamo?». Insisto, dicendo che con quello che avevamo pagato potevano ben conservarci la risposta. Alla fine li mando al diavolo anch’io: possibile che non capiscano la tragedia umana di chi, come Kikanda, percepisce il test positivo come una condanna a morte e, quindi si resiste a ritirarlo? Per convincerlo a rifare il test ci vorranno altri 6 mesi; Kikanda è sempre più magro, sempre più malato.
Quando andiamo assieme a ritirare il test, Kikanda stavolta si fa trovare puntuale all’appuntamento, ma trema come una foglia, terrorizzato. Anch’io tremo: è evidente che entrambi non siamo assolutamente pronti a un verdetto mortale, purtroppo molto probabile. Quando l’infermiera viene per darci la risposta, ci guarda in faccia un po’ perplessa ed esitante; rientra in laboratorio, esce di nuovo, entra nell’ufficio del medico, il dottor Kabeya. Alla fine ci dice: «Toate martedì». Allora capisco che il test è positivo. Forse lo intuisce anche Kikanda. Ma entrambi preferiamo far finta di non capire e continuare a mentire a noi stessi, reciprocamente, una realtà troppo pesante per essere accettata.
Il martedì, anziché la stessa infermiera, è lo stesso dr. Kabeya a riceverci. L’avevo conosciuto all’epoca del mio primo stage all’Ospedale St. Joseph, nel 1991. Padre di 8 figli, si distingueva già allora dagli altri colleghi medici per la sua umanità; sono contenta di scoprire che adesso è lui ad occuparsi dei malati di Aids e, in generale, di tutti coloro il cui test risulta positivo. Ci riceve con un largo sorriso sul volto amico, come per farci coraggio, perché sa che anche il test di Kikanda è positivo.
Quando il medico ci comunica il risultato, Kikanda reagisce in un modo «fisiologico»: scoppia in un pianto inconsolabile. Lo lasciamo fare, anche perché ho tanta voglia di piangere anch’io. Kikanda, fra le lacrime, implora che io possa far venire sua moglie da Kimbau, con i bambini. Maman Aimedò è sposata con Kikanda da 12 anni; che speranza c’è che lei e i suoi figli siano sieronegativi? Farla venire a Kinshasa sarà un’occasione per eseguire il test anche su di lei e, se positivo, anche sui figli più piccoli.

Più della paura poté l’amore

Mentre Kikanda procede con altri controlli, tutti carissimi e interamente a nostro carico, io, dopo aver cercato inutilmente fondi per gli antiretrovirali (non posso certo spendere per lui ciò che è destinato al progetto), too a Kimbau.
Nel successivo viaggio alla capitale, vengono con me Aimedò e il bimbo più piccolo, l’unico che ha un rischio eventuale di venir contagiato, perché prende ancora il latte materno. Entrambi sono spesso (troppo spesso!) malati. Ma dopo i fatidici cinque giorni, abbiamo una sorpresa: il test di Aimedò è negativo! Il dr. Kabeya mi chiede di parlarne ad entrambi, perché occorre, d’ora in poi, proteggere Aimedò e il bambino dal rispettivo marito e padre, divenuto, paradossalmente, una minaccia per la loro salute. Quando li riunisco per dirglielo, ho un’altra sorpresa: Kikanda reagisce male alla notizia: «Mia moglie mi abbandonerà». La profezia è destinata ad avverarsi: appena viene messa al corrente Aimedò prende con sé il bambino e riparte subito per Kimbau. Da allora in poi, rifiuterà di rivedere il marito, che implorerà insistentemente, ma invano, la sua presenza vicino a lui.
Grazie al mio aiuto e a quello di alcuni amici italiani, Kikanda inizierà un costosissimo trattamento antivirale, anche se continua a ripetere che molti malati nella sua condizione possono convivere con il partner discordante ed avere relazioni grazie al preservativo. Ma sua moglie si irrigidisce: non vuole proprio più sentirne di tornare dal marito! Non mi ci vuole molto a capire l’origine delle sue paure: nonostante le mie raccomandazioni, Kikanda ha avuto con lei, almeno una volta, una relazione sessuale senza utilizzare il preservativo; ciò, prima che lei realizzasse il test e, in quel modo, potesse sapere la verità sulla sua sieronegatività, mentre lui già sapeva di aver contratto il virus! «Perché l’hai fatto, Kikanda? Non capisci che è proprio questo il motivo del rifiuto di Aimedò di vivere assieme a te?». Mi risponde singhiozzando e tremando come una foglia. «Lo so, ho sbagliato, perdonami, ma io volevo generare un altro figlio, prima di morire».
Passano altri due anni di separazione. Aimedò è a Kimbau: l’ho assunta in accettazione per sostituire suo marito. Adesso Kikanda sta meglio fisicamente e lavora a Kinshasa, in un centro medico privato. Con quello che guadagna si paga da solo gli anti-retrovirali. Riceve ancora l’aiuto irregolare di amici italiani, che non hanno il coraggio di tagliargli il trattamento, anche se mi chiedono, forse giustamente, se non sto commettendo un privilegio: «Perché a lui sì e a tutti gli altri no? Perché aiuti un singolo e non la collettività?».
Non so più che rispondere, salvo dar loro ragione; ma continuo a inviare in Italia le lettere disperate di Kikanda, in cui lui continua a implorare, non solo di non abbandonarlo, ma di consentirgli il ricongiungimento familiare, giurando che applicherà tutte le dovute precauzioni per proteggere sua moglie.
Aimedò continua a rifiutare e io, ovviamente, le dò ragione, anzi la incoraggio a non partire, a proteggere se stessa e il suo futuro: Kikanda cerca un figlio, per possedere un briciolo di eternità, non utilizzerà il preservativo e lei, che in fondo lo ama, teme che non riuscirà a resistergli. Finché, nel mese di settembre 2005 ci arriva una notizia: chi conosce le vie del Signore? Il messaggio radiofonico ci informa che Kikanda ha avuto un incidente stradale e si è fratturato il femore. È sotto trazione al centro medico privato dove prima lavorava, abbandonato a se stesso, incapace di pagare le cure e ormai nei debiti fino al collo. E Aimedò viene da me, i grandi occhi allarmati e pieni di lacrime e di paura: «Se lo raggiungo adesso, cosa rischio?».
Stavolta la tranquillizzo: finché lui sarà immobilizzato sotto trazione, lei non rischia nulla! Allora Aimedò parte per Kinshasa, con i figli, per occuparsi del marito. E capisco finalmente che Aimedò l’ama ancora. L’amore perfetto vince la paura.

Chiara Castellani




Seminatori di speranza


La chiesa africana (vescovi, preti diocesani, missionari e missionarie) è impegnata su due fronti: combatte la malattia dell’Hiv e l’afro-pessimismo.
È una lotta impari, per mancanza di risorse e, spesso, per la latitanza dei governi locali.
Eppure ci sono molti segni di speranza, come testimoniano le esperienze qui riportate di alcuni paesi: Uganda, Sudafrica, Tanzania e Mozambico.
In questa lotta sono coinvolti anche i missionari e missionarie della Consolata.

Lottiamo contro l’Aids e, allo stesso tempo, contro l’afro-pessimismo». È questo l’appello che mons. John Onayiekan, arcivescovo di Abuja e presidente del Simposio delle conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Sceam), ha rivolto al mondo in occasione della Giornata internazionale di lotta contro l’Aids, che si è celebrata lo scorso 1° dicembre.
Un appello forte, il suo, fatto a nome di tutte le conferenze episcopali africane, che da molto tempo ormai hanno fatto loro la sfida imposta dall’Aids a tutte le realtà africane, chiesa cattolica compresa. E non potrebbe essere altrimenti, visto che questa pandemia sta sconvolgendo la vita di popolazioni intere e di interi stati, mettendo a dura prova i sistemi sanitari, indebolendo le economie, ma anche mettendo in discussione i modelli valoriali di riferimento e la stessa struttura sociale, disgregando le famiglie e uccidendo le giovani generazioni.
Per questo, di fronte allo slogan dell’ultima giornata internazionale di lotta all’Aids «Manteniamo le promesse», le chiese d’Africa non si sono tirate indietro. «Noi promettiamo – scrive l’arcivescovo – a voi tutti che siete colpiti dalla malattia di essere al vostro fianco, e incoraggiamo tutti gli agenti pastorali ad aiutarvi e a prendersi cura di voi totalmente, nel corpo e nell’anima». Al tempo stesso, sottolinea mons. Onayiekan, «noi vescovi africani ci opponiamo alla marginalizzazione dell’Africa come continente. Chiediamo di rispettare l’Africa, che non ha bisogno di pietà, ma di amore vero, solidarietà e giustizia».
E guardando al continente e alle sue ricchezze umane, alla sua capacità di affrontare le difficoltà e le sofferenze, e di custodire, nonostante tutto, l’ottimismo, il presidente del Sceam dice con convinzione: «Noi non abbiamo paura. I popoli dell’Africa sono ricchi di forza interiore e di valori nobili, di coraggio e di determinazione a vincere la pandemia. È per questo che facciamo appello a tutti i popoli africani, affinché si impegnino coraggiosamente nella lotta contro l’Hiv/Aids. E accoglieremo la solidarietà di tutti gli uomini e le donne di buona volontà».

Rapporto «olistico»

Il ruolo delle chiese africane e dei missionari in Africa, nel settore della salute, è assolutamente rilevante. Ancora oggi, oltre la metà di tutte le strutture sanitarie presenti nel continente sono gestite da enti ecclesiali o missionari. E inoltre, se si guarda allo specifico della lotta all’Aids, «la percentuale dei centri di assistenza sanitaria della chiesa cattolica che curano l’Aids in tutto il mondo è il 26,7%, contro il 42% gestiti dai governi di tutto il mondo con copertura economica». Lo fa notare in un’intervista a Fides, il cardinale Javier Lozano Barragán, presidente del Pontificio consiglio per la pastorale della salute, che aggiunge: «Anche per questo il santo padre ha voluto la Fondazione il “Buon Samaritano”, che si occupasse di aiutare i poveri malati». Creata il 12 settembre 2004, e affidata al Pontificio consiglio per la pastorale della salute, la Fondazione ha ricevuto una donazione personale di Benedetto xvi di 100 mila euro. Nei suoi primi mesi di vita, precisa mons. Lozano, «la Fondazione ha già inviato 40 mila dollari, equamente divisi tra Etiopia, Congo, Tanzania e Birmania, che possiamo dire sono già pasticche antiretrovirali».
Quello di fornire farmaci, tuttavia, non è l’unico strumento con cui la chiesa interviene direttamente nella lotta all’Aids. Quattro sono le linee di fondo, per un approccio di tipo «olistico» al problema, un approccio cioè che prende in considerazione tutti gli aspetti legati a questa terribile pandemia. Non solo trattamenti antiretrovirali, dunque, ma anche prevenzione e formazione, assistenza psicologica e spirituale, accompagnamento dei malati e delle loro famiglie, assistenza alle vedove e agli orfani, e un lavoro di base per promuovere valori e comportamenti responsabili ispirati al vangelo.
Anche in ambiti non ecclesiali, pare essere questa la linea guida predominante nella lotta all’Aids, come dimostra l’ultima Conferenza internazionale che si è tenuta ad Abuja, in Nigeria, all’inizio di dicembre 2005, significativamente incentrata sul tema: «Hiv/Aids e famiglia».
«Dobbiamo prendere in mano il nostro destino – ha dichiarato per l’occasione il presidente della Conferenza, Femi Soyinka – e liberarci dell’Hiv/Aids: per questo sono necessarie politiche che rinforzino il modello familiare africano, basato sui valori dell’ospitalità, della cura e dell’assistenza».

In Uganda

Un esempio positivo in questo senso viene dall’Uganda. Dove la chiesa ha dato un contributo fondamentale alla riduzione della prevalenza dell’Hiv/Aids, adottando una formula basata sulla promozione dei valori, la fedeltà e l’astinenza. Questo intervento capillare, in tutte le regioni del paese, anche quelle rurali più isolate – e persino, dove è stato possibile, in quelle devastate dalla guerriglia nel nord – si è associato a un importante lavoro in rete di tutti i soggetti impegnati nella lotta all’Aids, dal governo ai donatori inteazionali, dalle associazioni locali alle Ong straniere. I risultati sono incoraggianti. Si è infatti passati dal 12% di persone affette da Hiv/Aids all’inizio degli anni ‘90, al 4,1% nel 2003 (ultimo dato disponibile) con una prevalenza tra gli adulti del 7,5%. Anche nella capitale Kampala la percentuale è scesa significativamente dal 29% di 10 anni fa all’8% attuale.
Questo grazie anche all’intervento tempestivo del governo che, a fronte del primo caso diagnosticato nel 1982, ha messo a punto un piano nazionale di lotta all’Aids già quattro anni dopo, aggiornato successivamente in diverse fasi per rispondere sempre meglio all’emergenza. Nel 2001, il Progetto di controllo dell’Hiv/Aids coinvolgeva 12 ministeri, 28 Ong locali e inteazionali, e 30 partners.

In Sudafrica

Lo stesso non si può dire per molti altri governi africani, alcuni dei quali, come quello del Sudafrica, portano pesanti responsabilità per il grave ritardo con cui hanno affrontato il problema Aids. Nonostante il paese abbia il numero assoluto più alto di malati – 5 milioni su una popolazione di 44 – il governo di Thabo Mbeki ha elaborato un serio piano nazionale di lotta all’Aids solo nel novembre 2003, con 15 anni di colpevole ritardo. Oggi il Sudafrica si trova a far fronte a una pandemia fuori controllo che sta devastando la società a tutti i livelli.
Anche qui la chiesa cattolica – che pure non è maggioritaria nel paese – sta facendo un lavoro enorme ed è seconda solo al governo quanto a erogazione di servizi legati alla prevenzione e alla cura dell’Aids.
Un contributo importante all’opera cornordinata dall’Ufficio Aids della Conferenza dei vescovi del Sudafrica (Sabc) è dato dall’AidsRelief Consortium, un cornordinamento di più soggetti guidato dal Catholic Relief Services (Crs), la Caritas statunitense.
In Sudafrica, AidsRelief – attraverso Sabc e un altro partner, l’Inteational Youth Development – è riuscita a raggiungere 5.500 pazienti con trattamenti antiretrovirali, più di 11 mila con cure mediche in 24 strutture.
Complessivamente AidsRelief interviene in 9 paesi, dove distribuisce trattamenti antiretrovirali a 26.600 malati e cura 78.650 pazienti in 89 strutture.
Durante una conferenza che si è tenuta alla fine del 2004 presso il Sizanani Village di Bronkhonstpruit, una sessantina di chilometri da Pretoria – un centro creato da un missionario altornatesino, padre Charles Kuppelwieser, dove tra le molte attività si curano anche malati terminali di Aids e si realizzano programmi di assistenza domiciliare – l’imperativo emerso da tutti i partecipanti è quello di rendere i trattamenti antiretrovirali sostenibili sia economicamente che nella gestione concreta di una cura che richiede grande rigore e assistenza.
«I nostri pazienti trattati con antiretrovirali – spiega Bulelani Kuwane, responsabile del centro Sizanani, che con le sue strutture coloratissime, secondo la tradizione locale, è tutt’altro che un luogo che evoca malattia e morte – vengono seguiti da assistenti sociali e infermieristici, che visitano i malati nelle loro case, assistono le famiglie e curano l’aspetto comunitario, che è estremamente importante anche nella lotta all’Aids. Perché è nella comunità che il malato trova i riferimenti a cui aggrapparsi per poter sopravvivere».
«La situazione in Sudafrica è drammatica – conferma Johan Viljoen, nel suo studio presso l’Ufficio Aids della Sabc -. In dodici anni, la prevalenza del virus tra gli adulti è salita dall’1 a oltre il 20%. Ma solo un’esigua minoranza – 10% circa – è consapevole di essere malata. E pochissimi vengono curati. In alcune zone del KwaZulu Natal, i risultati dei test sulle donne incinte mostrano che circa il 40% di loro sono sieropositive».
E proprio le donne sono le più colpite, ma anche le più attive nel reagire. Lo conferma la dottoressa Malebo Maponyane, medico infettivologo, che pure lavora presso l’Ufficio Aids della Sabc. E mentre ci porta a visitare un centro sanitario gestito dalle suore di Holy Cross, alla periferia di Pretoria, dove sono stati introdotti con grande successo, lo scorso anno, i trattamenti antiretrovirali, commenta: «Le donne continuano ad avere uno status sociale inferiore rispetto all’uomo. Dunque, non hanno voce e sono spesso oggetto di abusi anche fisici. Basti pensare che in questo paese si registra più di un milione di stupri all’anno. Molti dei quali non denunciati».
Non è medico, ma si rende perfettamente conto che l’Aids è innanzitutto donna, anche chi presta una silenziosa e paziente assistenza ai malati. Come Matsediso Mthethwa, che vive a Daveyton, una township a pochi chilometri da Johannesburg, dove padre José Luis Ponce de León, missionario della Consolata, ha creato un gruppo di volontari che si dedicano all’assistenza domiciliare.
«Le mie prime pazienti sono state due sorelle, la più grande allo stadio terminale. La loro famiglia le aveva abbandonate. La madre non se la sentiva di assisterle. E allora, insieme a una vicina, ho cercato di occuparmi di loro. Molti malati continuano a morire nel nascondimento, senza nessun tipo di assistenza perché loro stessi e i loro familiari ancora si vergognano di questa malattia che è sinonimo di maledizione e tabù».
È per combattere lo stigma, prima ancora che la malattia in sé, che padre José Luis aveva avviato un analogo progetto di assistenza domiciliare a Madadeni, periferia di Newcastle, nel KwaZulu Natal, la regione più colpita del Sudafrica.
Oggi è padre Joseph Mang’ongo, kenyano d’origine, a seguire e cornordinare una cinquantina di volontari. «L’Aids – conferma – continua a essere considerata una malattia infamante. A volte è addirittura difficile, per noi e i nostri volontari, “scoprire” i malati ed entrare in contatto con loro. Ma è importante sensibilizzare la gente e far capire che non c’è nulla di cui vergognarsi. Lo ripetiamo sempre, anche in chiesa, ma è un messaggio ancora difficile da trasmettere».

In Tanzania

Un altro missionario della Consolata, padre Alessandro Nava, sta affrontando analoghi problemi in un contesto molto diverso, in una regione povera e isolata come quella di Ikonda, sulle montagne di Livingston nel sud del Tanzania. Insieme ad alcune suore della Consolata, gestisce un ospedale che fino a pochi anni fa aveva tutt’altro di cui occuparsi e che oggi si trova assediato dall’Aids.
«Quando i missionari della Consolata hanno cominciato a costruire l’ospedale nel 1962 – spiega padre Alessandro -, la priorità era quella di curare le popolazioni di questa regione remota e di migliorae le condizioni di salute e di vita. Quando la situazione stava finalmente migliorando, l’Aids si è abbattuto anche su questa gente, con pesanti conseguenze sociali e sanitarie. Il nostro ospedale è sempre più sollecitato da questa pandemia, che nessuno, in questo paese e penso nell’intera Africa, è in grado di combattere efficacemente».
«Sono soprattutto le donne e i giovani a essee colpiti – conferma suor Egle Casiraghi, una delle missionarie della Consolata che lavorano in ospedale, mentre si aggira preoccupata nel reparto mateità -. Le campagne di prevenzione sono insufficienti e non abbastanza efficaci, la gente, continua ad ammalarsi, ma sono pochissimi quelli che hanno il coraggio di venire in ospedale a fare il test. C’è paura e vergogna. Al punto che, persino tra gli infermieri, c’è chi si rifiuta di sottoporsi al test, per timore di affrontare una malattia che rimane per molti incomprensibile e maledetta».
Nello studio medico, il dottor Gerold Jäger, una lunga esperienza in Uganda alle spalle, visita una giovane donna, che si è sottoposta al test e sa di essere sieropositiva. «Sono soprattutto le donne – afferma – che accettano di fare il test, ma spesso quando tornano a casa non osano rivelare il risultato al marito, perché rischiano di essere malmenate o cacciate, anche se è quasi sempre l’uomo a trasmettere la malattia. Purtroppo la situazione di inferiorità della donna la rende più vulnerabile anche di fronte a una catastrofe come l’Aids».
Secondo i dati ufficiali, in Tanzania l’Aids colpisce il 9% della popolazione adulta. Ma chi lavora nel settore è pronto a giurare che la percentuale è molto più alta. Realisticamente potrebbe aggirarsi attorno al 20%.
Nel dicembre del 2004, anche all’ospedale di Ikonda hanno cominciato a distribuire farmaci antiretrovirali. «Attualmente curiamo circa 150 pazienti – dice padre Nava -. Ma sono molti di più quelli che ne avrebbero bisogno. Altri 500 ricevono medicine per le malattie opportunistiche, in attesa di poter entrare nel programma degli antiretrovirali. Per il momento, con le nostre risorse, è tutto quello che riusciamo a fare».

In Mozambico

I bisogni sono enormi, qui come altrove. Un po’ più a sud, cambia il paese, il Mozambico, e il contesto, l’interno della provincia di Sofala, ma non la gravità del problema. È un altro missionario, padre Ottorino Poletto, comboniano, che si è trovato in questi anni di fronte a una sfida nella sfida: quella di lottare contro le devastazioni della guerra e, sempre di più, contro l’Aids.
«Su mandato del vescovo – racconta padre Ottorino, aggrappato al volante della sua auto, mentre percorre piste sconnesse che lui stesso ha cercato di far sistemare – sto cercando di ricostruire e riavviare quattro missioni completamente distrutte dal conflitto civile e a lungo abbandonate. Ma da qualche tempo mi sono trovato di fronte a un’altra devastazione, quella dell’Aids».
E così, nella missione di Mangunde, grazie alla presenza e al sostegno delle suore comboniane, ha aperto lo scorso anno un centro per la prevenzione della trasmissione del virus da madre a figlio, sul modello di quello proposto dalla Comunità di Sant’Egidio, che proprio in Mozambico ha lanciato il progetto Dream nel 2002. Partita da Maputo, l’iniziativa si è poi trasferita in altri luoghi, tra i quali anche a Beira, la seconda città del paese, dove fa base padre Ottorino. Il quale, però, non si è accontentato di avere un punto di riferimento in città e ha fatto di tutto per avviare il primo centro di prevenzione e cura dell’Aids in una zona rurale del Mozambico.
«Questo progetto – continua padre Ottorino – rappresenta per noi un grande impegno e un onere non indifferente. Ma ci sembrava giusto esser presenti anche così tra la nostra gente, portare questo segno di solidarietà e di carità attraverso il quale cerchiamo di dare una testimonianza autentica della presenza di Gesù in mezzo ai poveri e agli ammalati. Il nostro lavoro in missione, dalla pastorale all’educazione, dalla sanità sino alla cura dell’Aids si radica nella Parola che libera l’uomo integralmente».

Anna Pozzi




Nuovi samaritani

Il Sudafrica è tra i paesi con il più alto numero di malati di Aids e, nonostante gli sforzi, il morbo sembra fuori controllo: chi ne è colpito cerca di nascondere la malattia, per paura di essere emarginato dalla società e dalla famiglia. Nelle parrocchie affidate ai missionari della Consolata, sono stati formati gruppi di volontari, impegnati in varie iniziative per prevenire la diffusione del virus Hiv e accompagnare persone e famiglie che ne sono colpite.

Una mattina di settembre 2000, nella regione del KwaZulu-Natal. Celebrata l’ultima messa, rimasi nell’ufficio parrocchiale, parlando per più di un’ora con diverse persone. Mentre stavo per tornare a casa, arrivò una ragazza che mi disse a bruciapelo: «Sono sieropositiva. Ti prego di pensare ai miei figli dopo la mia morte».
In 10 anni di lavoro in quella regione, ho accompagnato molti pazienti fino al momento della loro pasqua: un tempo molto lungo e sofferto, fino al punto di chiedermi: «Prega perché io muoia». Ma sono poche le persone che mi hanno confessato apertamente di essere state colpite da tale malattia, anche se le statistiche dicono che nel KwaZulu-Natal una su tre risulta sieropositiva.
Eppure da molto tempo in Sudafrica si parla a iosa di Aids. Enormi cartelloni costeggiano le strade. Si distribuiscono preservativi nelle università. Abbondano le informazioni con volantini, programmi radio-televisivi, raduni a tutti i livelli per dibattere il problema… Numerose sono pure le iniziative per far conoscere la gravità della situazione. Lo stesso Nelson Mandela si è impegnato in prima persona, partecipando ai famosi «Concerti 46664» (numero con cui l’ex-presidente era identificato in carcere, ndr), fino a confessare con coraggio che il suo primogenito è morto a causa dell’Aids.

Paura e confusione

Mi sono chiesto molte volte perché siano tanto pochi coloro che parlano apertamente della loro malattia. Ripensando alla mia esperienza, ho trovato tanti motivi, che potrebbero essere sintetizzati in due parole: paura e confusione.
Paura di essere emarginati e perdere gli amici. Il film sudafricano Yesterday (2004) descrive crudamente questa situazione: appena si viene a sapere che una persona è sieropositiva è subito isolata dalla gente. Ho visto il film insieme a un altro missionario e, alla fine della proiezione, ci siamo guardati in faccia e abbiamo esclamato nello stesso momento: «È proprio così».
Soprattutto, si ha paura di perdere la famiglia. All’inizio del 2005, ho dovuto interessarmi di una ragazza che, quando la famiglia venne a sapere che era positiva, fu cacciata da casa. Ho visitato molti malati che, evitati da tutti, passano la giornata in camera soli; altri sono mandati presso un familiare, perché i vicini non vedano l’avanzare della malattia.
C’è la paura di fare la fine di Gugu Dlamini e altri come lei: sono stati uccisi dopo avere parlato apertamente della loro malattia.
Viviamo in una società in cui mancano certi valori forti, come misericordia, perdono e comprensione. Per questo la moglie non ha il coraggio di dire al marito di essere sieropositiva; il marito fa altrettanto nei riguardi della propria sposa; entrambi hanno paura di dirlo ai figli. Tempo fa, una ragazza mi confidava e mi avvertiva che la mamma sapeva, ma non aveva il coraggio di dirlo al padre.
Infine c’è la paura dalla morte. Sebbene alcuni hanno la possibilità di accedere alla medicina antiretrovirale, per molti l’Aids è fondamentalmente una condanna a morte. Perciò alcuni dicono: «Se ce l’ho, meglio non saperlo».

Messaggio… senza eco

Ho l’impressione che l’atteggiamento del governo sudafricano non aiuti a vincere la paura, ma aumenti la confusione.
Il 9 ottobre 1998, per la prima volta, fu lanciato un messaggio chiaro e coraggioso: il vicepresidente Thabo Mbeki chiamò a raccolta la nazione per una «coalizione contro l’Aids», con queste parole: «L’Hiv-Aids è tra noi. È reale. È in espansione… Per troppo tempo abbiamo chiuso gli occhi come nazione, sperando che la realtà non fosse vera. Per troppi anni abbiamo permesso che il virus si diffondesse… È con noi, nei nostri posti di lavoro, nelle nostre aule scolastiche e universitarie. È lì, nei nostri raduni religiosi e in altre funzioni di culto. L’Hiv-Aids cammina con noi, viaggia con noi dovunque andiamo… Non è il problema di qualcun altro. È il nostro problema. Ogni giorno e ogni notte, dovunque noi siamo, faremo sapere ai nostri familiari, amici e colleghi che essi possono salvare se stessi e salvare la nazione, cambiando il nostro modo di vivere e di amare. Useremo ogni opportunità apertamente per discutere l’argomento dell’Aids… Coloro che vivono con l’Hiv-Aids sono esseri umani, come te e come me. Quando ci diamo una mano, costruiamo la nostra propria umanità…».
Dopo quel primo messaggio, non ne ho sentiti altri simili. Anzi, ci sono stati diversi interventi che hanno seminato dei dubbi sulla connessione fra Hiv e Aids, sull’aiuto della medicina per ridurre la trasmissione del virus da madre a figlio e sull’efficacia dei farmaci antiretrovirali. Avevamo nutrito molte speranze, ma siamo rimasti sorpresi dal suo silenzio, dopo che Mbeki è diventato presidente del Sudafrica: ho la sensazione che abbia scelto di chiudere la porta che lui stesso aveva aperto.

Cercasi… ascoltatore

Così, continua lo stigma dell’emarginazione verso i malati colpiti dal virus, e questi continuano a tacere, pensando che nel parlare della propria situazione ci sia molto da perdere e poco da guadagnare. Il silenzio, almeno, permette loro di non essere visti come lebbrosi.
I malati di Aids sono doppiamente colpiti: dalla malattia fisica e, spesso, dal non trovare alcuno con cui parlarne. Da parte loro ci vuole coraggio; ma questo può nascere solo quando si incontrano veri ascoltatori.
L’anno scorso, durante un incontro di sacerdoti, organizzato dalla diocesi di Johannesburg per parlare sull’Aids, una delle «dinamiche di gruppo» chiedeva di discutere su queste domande: «Se tua sorella scoprisse di essere ammalata di Aids, ne parlerebbe con te? Lo direbbe a suo marito? Cosa le accadrebbe sul posto di lavoro?». Nella discussione azzardai un’altra domanda: «Se tu, prete, scoprissi di avere l’Aids, ne parleresti… e con chi?».
Credo che anche nella chiesa, anzi, nelle chiese cristiane (in Sudafrica ce ne sono più di 5.000) non siamo ancora riusciti a liberarci e a liberare la nostra gente. In un paese dove il 90% della popolazione si dichiara cristiana, non siamo stati ancora capaci di diventare «buona notizia», di rivelare il volto misericordioso di Dio, che continua a sfidarci: «Ero malato e…». L’Aids ha mostrato che il nostro cuore, almeno in parte, assomiglia più a quello del fariseo che al cuore di Dio, che si identifica con il malato.

I volontari, ministri della consolazione

La «coalizione» lanciata dall’attuale presidente del Sudafrica è stata una sfida all’abituale ritmo del lavoro nelle parrocchie affidate a noi missionari della Consolata. Verso la metà dell’anno 2000, abbiamo invitato una suora delle Francescane di Nardini, comunità che si occupa di malati di Aids, a parlare del problema durante la messa domenicale: lanciammo l’appello perché qualcuno offrisse la propria disponibilità al servizio degli ammalati della comunità.
La risposta fu immediata. Si presentarono una cinquantina di giovani e adulti, che nei mesi successivi furono preparati con appositi corsi, tenuti dalle stesse Francescane, sulla prevenzione e l’accompagnamento dei malati di Aids. Nasceva così il primo gruppo di volontari, diventati ministri di consolazione, volto visibile dell’amore del Padre.
Il primo impegno fu quello dell’accompagnamento. Si cominciò con il lavoro di collegamento tra l’ospedale e gli ammalati, dal momento che la struttura sanitaria non poteva prendersi cura a lungo di un numero tanto elevato di malati e li rimandava a casa appena notava in essi un qualche miglioramento.
Ma come rintracciare tanti altri, che hanno paura di parlare del loro male? Come primo passo, una domenica fu organizzata una celebrazione religiosa per i malati, in cui tutti erano invitati, anche i non cattolici. Iniziammo il rito con l’aspersione dell’acqua benedetta, chiedendo al Signore di purificare i nostri cuori. Dopo aver chiesto a Dio di guidarci con la sua Parola, abbiamo ascoltato alcune letture, commentate da due volontari che, alla luce della loro esperienza, illustrarono il cammino intrapreso dalla nostra comunità e le sfide che doveva ancora affrontare.
Quindi, altri due volontari hanno guidato la preghiera sui malati, chiedendo al Signore di darci un cuore nuovo e riempirlo con il suo spirito: le parole erano seguite dal gesto dell’imposizione delle mani.
Infine chiedemmo al Signore di guarirci con il suo olio santo e risuonò l’invito: «Chi sente il bisogno, si avvicini per ricevere l’unzione dei malati». Nessuno rimase seduto. Eravamo coscienti che tutti avevamo bisogno di guarigione, dal bambino al più anziano, dal momento che in Africa non si fa alcuna distinzione tra una malattia e l’altra.
Alla fine della celebrazione ungemmo con l’olio santo anche i volontari ed esortammo la gente affinché li invitasse a ripetere ciò che avevano fatto in chiesa: pregare e condividere la Parola di Dio con i malati rimasti in casa.
Anche noi missionari, quando troviamo qualche ammalato nelle visite alle famiglie, offriamo loro la possibilità di essere visitati regolarmente dai nostri volontari; in questo modo possiamo sapere se si tratta di semplice indisposizione o di Aids e essere informati sul suo stadio e della sua evoluzione.
Nelle loro visite, i volontari svolgono un servizio prezioso: spiegano alla famiglia come prendersi cura del malato, pregano con loro e per loro, ascoltano e cercano di mantenere viva la speranza… Quando i malati sono abbandonati a se stessi, tale servizio si traduce nel portare il malato all’ospedale, procurare documenti d’identità, registrare i bambini all’anagrafe, pulire l’abitazione, lavare i vestiti e tanti altri aiuti di ordinaria amministrazione.
Il nostro motto è sempre stato: «Dalla chiesa cattolica a tutta la comunità». Un messaggio chiaro per tutti, come provano i numerosi inviti da parte di organismi e autorità civili a discutere e pianificare insieme le strategie di lotta contro l’Aids. Moltissimi sono i non cattolici che chiedono aiuto ai nostri volontari. All’inizio del 2005 una famiglia ha scritto una breve lettera alla nostra comunità, chiedendo di leggerla in chiesa, per ringraziare la nostra vicinanza in un momento molto difficile: la malattia e la perdita di due figlie in poche settimane.

La fatica di ricominciare

Ma è un servizio che richiede un «prezzo da pagare», soprattutto in termini psicologici. I volontari spendono la vita accanto ai malati, intessendo una relazione di amicizia e reciproca fiducia, ben presto troncata dal sopravvento della morte. È un’esperienza d’impotenza che si ripete con troppa frequenza: data la difficoltà di accesso ai farmaci antiretrovirali, la morte sopravviene troppo presto.
Ne è un esempio la crisi di una giovane volontaria. Aveva accompagnato per alcuni mesi una donna sola e molto malata, finché riuscimmo a trovarle un posto in un ospizio gestito dai francescani. La ragazza era al colmo della gioia: il luogo incantevole; la paziente non più sola; un prete tutti i giorni vicino a lei; comunione quotidiana; possibilità di avere medicine antiretrovirali… ma la donna morì tre giorni dopo il ricovero e la giovane non riusciva a farsene una ragione. Era distrutta. C’è voluto molto tempo prima di accettare tale fatto, pacificare il suo cuore e ricominciare l’attività di volontaria.
Ma le prove più dolorose sono quelle causate dall’impotenza di fronte a tanto dolore. La paura dello stigma, che costringe i malati a tacere sulla loro malattia, fa sì che in molti casi veniamo chiamati quando è troppo tardi e l’accompagnamento dura appena tre o quattro giorni. Per i volontari si tratta di ricominciare costantemente da capo.
Per superare tali difficoltà, i volontari si radunano ogni settimana per parlare e condividere le loro esperienze, per pianificare il loro servizio e, soprattutto, per pregare insieme e incoraggiarsi a vicenda. In questo modo, il volontario riconosce il volto di Gesù, che si è identificato nel malato. A sua volta, il malato vede nel volontario il volto di Dio, che si è incarnato e si è avvicinato a noi, che condivide con cuore di Padre-Madre le sofferenze dei suoi figli e figlie.

La sfida dell’Abcd

Non basta occuparsi dei malati. In molte occasioni cerchiamo di formare anche le famiglie, per aiutare anch’esse a diventare misericordia. Si tratta di un cammino di formazione e prevenzione che si fa con la comunità, con un’attenzione particolare ai giovani, perché intraprendano una scelta di vita che non riguarda solo l’aspetto sessuale.
Abbiamo sintetizzato tale cammino nell’acronimo «abcd» di quattro parole in inglese:
– Abstain (astieniti) da crimine, corruzione, abuso di sostanze nocive, sporcare l’ambiente, vandalismo, condotta sessuale irresponsabile.
– Be faithful (sii fedele) a te stesso, al tuo corpo, alla tua famiglia, amici e comunità.
– Change your lifestyle (cambia il tuo stile di vita), facendo scelte consapevoli, sviluppando la tua coscienza, vivendo la tua cultura africana, sperimentando la cultura dell’amore.
Cambia stile di vita, altrimenti potresti essere in…
– Danger (pericolo) di non vivere la vita in pienezza (Gv 10,10), diventando un criminale o tossicomane, deturpando l’ambiente o contraendo l’Hiv-Aids.
È un cammino che si fa in comunità, poiché forte è la pressione sociale e grande la confusione.
Alla formazione e prevenzione si aggiungono altre sfide, come l’attenzione agli orfani, spesso anch’essi sieropositivi; la preoccupazione per trovare e offrire le medicine…
Tutto questo è nelle mani dei volontari. Sono essi che hanno la possibilità di parlare con le famiglie, preparare il futuro, parlare della propria esperienza, incoraggiare il malato a fare il test e cominciare il trattamento…
A volte il volontario stesso vive il proprio cammino alla scoperta dell’amore di Dio, perché anche lui è ammalato e, come gli altri, ha paura di parlarne apertamente.
All’inizio del 2005, i vescovi del Sudafrica hanno organizzato una speciale giornata di preghiera per i malati di Aids, celebrata nella chiesa Regina Mundi di Soweto: avevano bisogno di 15 persone che avessero il coraggio di dichiarare apertamente, davanti a migliaia di persone, di essere contagiati dal virus. Vi sono riusciti, ma con fatica. Quel giorno è stato un evento memorabile: finalmente si rompeva il cerchio del silenzio e si infrangeva il tabù dello stigma.

Confesso che mi diventa sempre più difficile parlare di tutto questo. Non si tratta di numeri o statistiche, ma di persone, ognuna unica e irripetibile. Porto nel cuore nomi, momenti, parole, silenzi, impotenza, rabbia… ricordi di tante persone care. Se da una parte la fede mi dice che ora esse sono nella pace del Signore, dall’altra non riesco ad accettare che si debba vivere nella paura e soffrire in silenzio.
Penso a tanti giovani che ho visto soffrire fisicamente, immobili nel letto per lungo tempo. E non riesco ad accettare che tali sofferenze continuino ancora oggi, perché non si vuole provvedere le medicine che permetterebbero loro di vivere con dignità.
Come chiesa, non abbiamo nessun dubbio sulla strada che abbiamo intrapreso. In questi ultimi anni sono stati avviati e moltiplicati tanti progetti, gestiti da centinaia di volontari. Sono stati istituiti 22 posti dove, con l’aiuto di tanti benefattori, vengono attuati i programmi antiretrovirali.
«Sono venuto perché abbiano vita… e questa sia piena!». È il nostro sogno di missionari; è la nostra forza quotidiana. È la nostra fede.

osé Luis Ponce de León




Un volto, un nome, un fratello

Nel «Centro Allamano» di Iringa alcune volontarie collaborano con le missionarie
della Consolata, nella prevenzione e assistenza ai malati di Aids. Una dottoressa e una volontaria raccontano le lore esperienze di sofferenza di fronte al dolore umano e di gratificazione per quanto ricevono dai pazienti.
I malati che vi ricevono attenzione e cure, vengono coinvolti nell’aiutare gli altri a lottare con coraggio contro il nemico comune dell’Hiv/Aids.

A distanza di un anno, sono tornata in quel pezzetto d’Africa, dove ho lavorato come medico, seppure solo per due anni. Già l’anno scorso questa generosa terra di Tanzania mi si è presentata diversa da come me la ricordavo. Alcuni progressi, certo: più strade asfaltate, più mezzi di comunicazione, più telefoni… Ma, nel complesso, la nazione è peggiorata per via del flagello dell’Aids.
Lo si legge su riviste impegnate in prima linea in questa lotta impari; a volte, gli echi di tale strage silenziosa giungono persino sulle pagine di alcuni nostri quotidiani. Le grandi promesse dei politici del G8 non hanno sortito finora alcun risultato concreto, in termini di progetti fattibili. Un’altra cosa è, però, vedere con i propri occhi. Per quanto una foto o un servizio televisivo siano realizzati bene, non si prova lo stesso effetto di quando si entra in un ospedale, dove i malati giungono spesso ridotti in condizioni pietose, sapendo di non poter guarire, ma almeno certi che non moriranno soli e senza alcuna consolazione.
Così, pur sapendo bene cosa avrei visto e quali tragedie umane avrei incontrato (o almeno sfiorato per pochi giorni), sono tornata in quell’Africa subsahariana dove povertà, malnutrizione e malattie endemiche hanno trovato in questo virus un alleato formidabile per fare strage di un’intera generazione, rendere orfani migliaia di bambini (spesso infettati dalla nascita) e provocare una reazione a catena con ripercussioni sociali ed economiche che solo ora il mondo sta conoscendo, anche se fa comodo a molti mettere la sordina, per evitare probabili contraccolpi economici a livello planetario.
I ricordi si affollano, non so da quale storia cominciare, anche perché sono tutte ugualmente tragiche.
M aria è ha meno di vent’anni; è malata di Aids e, nel momento in cui scrivo, forse è già morta. La ricordo su un pagliericcio in una stanza piccola, ma dignitosa e pulita. Fuori, nel piccolo cortile davanti alla porta, alcuni bambini fanno festa alle mie figlie venute con le caramelle. Dentro, con lei, i genitori, in piedi in fondo alla stanza.
Maria è «pelle e ossa», rannicchiata sotto una coperta di lana, malgrado i trenta gradi di oggi. Le viene messa una flebo, appesa a un chiodo nel muro; non riesce più a nutrirsi, perché un germe le ha infettato le mucose dalla bocca fino all’intestino, che non riesce più a assorbire i cibi, causandole una dolorosa diarrea.
Gli occhi infossati mi guardano: qualcuno le ha spiegato che sono un medico e negli occhi le si è accesa una luce di speranza. Vorrei dirle qualcosa, ma il mio swahili fa cilecca (è soltanto un problema di lingua?); riesco solo a balbettare alcune parole di cordoglio e poi le lacrime mi annebbiano la vista. Le prendo la mano per qualche istante. Forse il gesto serve più a me che a lei. Mi occorre sentirla, quella mano fredda e malata; almeno un contatto umano, al di là delle parole. Vorrei uscire, scappare; ma il ricordo di Maria non mi lascia proprio.
Passano pochi minuti e con Paola, una volontaria italiana che lavora al «Centro Allamano» di Iringa, torniamo alla base. Rientrano anche le altre infermiere che hanno finito il giro di visite domiciliari. E le storie si ripetono: un bambino è morto stanotte, una mamma è stata ricoverata in ospedale in fin di vita; pochi sono quelli che migliorano.
È la tragedia dell’Aids in Africa, ove i farmaci sono per pochi, troppo pochi. Paola abbozza un po’ di numeri: «Qui abbiamo in cura domiciliare circa 1.500 malati di Aids: a tutti portiamo da mangiare e, poi, cerchiamo di curare le infezioni, alleviare il dolore, dare ai malati un po’ di dignità. Solo per 130 abbiamo i farmaci; è stato difficile inserire i pazienti nella lista dei candidati alle cure.
Seguiamo le indicazioni del ministero tanzaniano della sanità, ma molti sono fuori dal programma di trattamento, a causa della mancanza di fondi; perché i farmaci adesso arrivano, ma per loro sono troppo costosi (una cura costa più dello stipendio annuale). Solo per il supporto alimentare a domicilio, i vestiti e le rette scolastiche per i figli, spendiamo circa 10 mila euro al mese. Abbiamo fra i nostri utenti 150 bambini, ma sono destinati a morire, perché non possiamo fornire loro i farmaci.
Ecco, se già prima avrei voluto scappare, adesso rimango senza parole e, a distanza di 20 giorni da quell’incontro, ancora mi tornano alla mente i 150 bambini destinati a morire. E questo non è che uno dei tanti luoghi che ho visitato, dei tanti missionari che ho incontrato; le storie si ripetono, ognuno ha centinaia di malati da curare, migliaia di orfani da assistere.

C erto, ai ricordi tristi si alternano anche momenti di gioia, come l’esperienza vissuta al villaggio di Ihela, nella regione dell’Ukinga, ove spesso si reca suor Emelina, missionaria della Consolata. Insieme incontriamo la gente del villaggio e pranziamo con loro. Qui, l’anno scorso abbiamo cominciato un progetto di adozioni a distanza dei bambini orfani. È una esperienza di «gemellaggio», di vicinanza, di familiarità con i più poveri, che ha riempito di gioia il cuore mio e di quelli che erano con me, ricordandoci quanto sono vere le parole di Gesù: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere».
E, ancora, i ricordi belli: tante persone che abbiamo incontrato e che stanno dando la vita a servizio di chi soffre, missionari, ma anche laici, come il dottor Gerold, un medico tedesco che lavora come volontario a Ikonda. Egli mi ha impressionato, oltre che per la sua professionalità, per la sua grande umanità verso i malati, che cura con amore e dedizione totale.
Ora non ho che un sogno: vedere tanti bambini sorridere, avere tante mani da stringere e scorgere finalmente la speranza sul volto di questi fratelli e sorelle che il Signore mi ha dato la gioia di incontrare sul cammino.

Marina Barcella Franceschi




A nuove sfide, nuove strategie

La condizione di chi vive con l’infezione Hiv è simile a quella dei lebbrosi del tempo di Gesù, che «passò nel mondo facendo del bene a tutti, guarendo
i malati e liberando i posseduti da spiriti maligni, perché Dio era con Lui» (At 10,38). Religiosi e religiose sono chiamati a configurarsi a Cristo, nel servizio integrale, anima e corpo, dei «nuovi intoccabili». In un mondo dai cambiamenti epocali, la vita consacrata è stimolata dallo Spirito a rinnovare la sua passione per Cristo e per l’umanità, per rendere visibile la compassione
del Padre, mediante iniziative nuove, creative e profetiche.

Una delle condizioni umane peggiori al tempo di Gesù era la lebbra: discriminazioni fisiche, sociali, religiose, economiche e culturali hanno fatto di essa una delle malattie più temute. Era paragonata al peccato, perché causava tanto danno da sfigurare i malati, con la perdita di dita, naso e orecchie, ne distruggeva la dignità, condannandoli a essere rifiutati e isolati dai loro fratelli e sorelle.
Gesù Cristo incontrò questi ammalati e fece ciò che gli altri non osavano: li toccò, stese le mani su di loro. E da tali incontri scaturiva una forza di guarigione. Un tocco sanante che sarebbe diventato un segno della presenza di Dio in mezzo a noi.
Oggi, molte persone che soffrono per l’infezione Hiv/Aids si sentono isolate e abbandonate e provano il bisogno di essere rassicurate sul fatto di essere accettate e «toccabili».

Impegno

Sin dall’inizio della pandemia la chiesa cattolica si è coinvolta nei servizi relativi all’Hiv/Aids in ogni parte del mondo. Membri degli ordini religiosi maschili e femminili hanno risposto alla nuova situazione prendendosi cura in un primo momento dei malati. Molto presto, però, si sono coinvolti anche in programmi di sicurezza delle trasfusioni, nei servizi sociali e di supporto emozionale, in programmi sanitari mobili.
La pandemia Hiv/Aids ha colto l’umanità impreparata ad affrontarla e a rispondere alle sue molteplici sfide e conseguenze. Non c’è un singolo gruppo religioso, governativo o organizzazione sociale che può far fronte da solo alle domande difficili che presenta questa realtà. C’è invece il bisogno per i diversi gruppi umani di mettersi insieme, senza pregiudizi per le rispettive ideologie e fedi, al fine alleviare il dolore causato da questa tragedia.
L’ammalato necessita di cure appropriate, non solo per guarire nel corpo, ma anche par aiutarlo a riprendere le forze e prevenire le malattie opportunistiche. Ha bisogno di una cura integrale della salute, che spesso non esiste nel suo ambiente. Infatti non è solo il corpo a richiedere attenzione: il paziente Aids necessita di un approccio olistico da parte del personale medico e paramedico, assistenza psicologica, counselling, aiuto di assistenti sociali, supporto economico, sostegno spirituale e l’irrinunciabile ruolo della famiglia e del suo ambiente sociale.
Gli ordini religiosi si sono sforzati di essere presenti in ognuno di questi livelli, dall’inizio della pandemia. Alcuni già provvisti di risorse tecniche e professionali, molti mancanti di preparazione adeguata, ma tutti con la volontà di farsi prossimo a coloro che sono direttamente o indirettamente interessati da questa nuova situazione, con l’unico scopo di mostrare l’amore compassionevole di Dio per coloro che sono nel bisogno.
Siccome lo scopo degli ordini religiosi è di incarnare la vita di Gesù nel mondo contemporaneo, senza altro intento, il loro coinvolgimento in ambito caritativo molte volte manca di organizzazione e collaborazione con altri servizi collegati alle chiese, organizzazioni governative o Ong.
Inoltre, a causa della spiritualità di umiltà e piccolezza, di solito fanno il proprio lavoro in maniera silente e nascosta, senza farsi conoscere dal mondo: questo rende difficile monitorare queste attività e cornordinarle convenientemente con quelle di altre organizzazioni.
Ma è fuori dubbio che molti religiosi/e, in ogni parte del mondo, costituiscono una sorgente di consolazione e sollievo per tutti coloro che sono toccati da questa pandemia, in modo gratuito e sicuro.
D’altra parte ci sono anche molte realtà di servizi collegati alla chiesa, che sono stati degli esempi straordinari di programmi altamente organizzati e professionali, aperti a operare in stretta collaborazione con le altre chiese e altre organizzazioni, con risultati così soddisfacenti da essere imitati da altre comunità e paesi.

Le sfide

Nell’ultimo Congresso sulla vita consacrata (Roma, 23-27 novembre 2004), noi religiosi e religiose abbiamo sentito la necessità di essere inseriti nelle realtà dei nostri tempi, nella vita e missione tra la nostra gente con una nuova visione della carità.
Anche se in nessun’altra epoca, forse, la vita consacrata si è sentita così povera e limitata come in questo tempo di cambiamenti epocali, noi ci sentiamo rinnovati dallo Spirito e mandati, con una rinnovata passione per Cristo e per l’umanità, a rendere visibile la compassione di Dio verso coloro che soffrono, mediante iniziative nuove, creative e profetiche.
La risposta degli ordini religiosi alla pandemia deve continuare in fedeltà alla nostra consacrazione, nell’imitazione e incarnazione della presenza di Cristo e del suo amore compassionevole in mezzo a questa tragedia umana. I valori del vangelo devono renderci capaci di impegnarci totalmente nei vari ambiti e nelle molteplici sfide che questa pandemia globale presenta.

1 La sfida della sostenibilità dei programmi Hiv/Aids.
Le istituzioni sanitarie della chiesa cattolica provano serie difficoltà finanziarie a mantenere ed espandere i loro programmi Hiv/Aids. Non abbiamo fondi sufficienti per diverse ragioni: gran parte degli ordini religiosi interessati in tali programmi non lavorano esclusivamente in quest’area, ma portano avanti molti altri impegni; spesso la sostenibilità dei servizi sanitari è basata sulla carità e buona volontà di benefattori sporadici.
Dobbiamo sperimentare nuove e diverse vie per assicurare i fondi, senza perdere di vista il grande valore evangelico delle risorse piccole e povere. In tempo di globalizzazione, vorremmo «globalizzare» una solidarietà compassionevole.

2 La sfida di provvedere una cura integrale della salute.
Non siamo capaci di attuare le guarigioni miracolose che Gesù fece al suo tempo, ma abbiamo la sfida di procurare ai malati di Aids l’assistenza medica migliore possibile, lottando affinché le risorse mediche e scientifiche più recenti siano disponibili per tutti. Abbiamo anche la sfida di assicurare ai pazienti il necessario supporto psicologico e spirituale.
Il dolore dell’umanità ha bisogno del tocco sanante dell’amore compassionevole di Dio. La nostra risposta alla pandemia deve essere tale da riconoscere Cristo negli ammalati, mentre essi incontrano Cristo in coloro che si prendono cura di loro. Dobbiamo ricordare che il loro dolore, malattia e morte hanno bisogno di trovare una risposta che possa ripristinare la loro dignità e aiutarli a scoprire l’intimo significato della sofferenza, della vita e della morte.

3 La sfida di migliorare le strategie di prevenzione dell’AIDS.
Molti sono d’accordo che l’efficacia della lotta contro la pandemia dimora più sulle misure di prevenzione per evitare l’infezione, piuttosto che sulle aspettative della scoperta di una cura o di un efficace vaccino.
Questo ci porta verso le cause e i fattori che condizionano alla radice l’espansione della malattia. Sappiamo che la maggior parte dei casi di infezione Hiv sono stati trasmessi per via sessuale, trasfusioni di sangue, condivisione di aghi infetti e per trasmissione verticale da madre a bambino. Alcuni di questi fattori domandano l’attenzione del personale sanitario, mentre altri necessitano l’impegno del settore sia privato che pubblico della società, per educare e contribuire a costruire i principi etici fondamentali che regolano le relazioni umane e i comportamenti nel nostro tempo, in modo che siano sicuri e sani.
Oggi siamo testimoni di cambiamenti grandi e complessi della nostra società, che sorgono dall’influenza di molteplici fattori, tra i quali: la forte interdipendenza causata dal fenomeno della globalizzazione; la grande influenza dei nuovi e potenti mass media, che spesso colonizza gli spiriti umani; la rivoluzione sessuale dell’ultimo secolo; le grandi scoperte tecnologiche e scientifiche; l’incremento di violenza, guerre e terrorismo; il crescente divario tra un’élite ricca e le masse di poveri; la perdita di tanti valori morali, comportamenti sessuali permissivi e aperto proselitismo omosessuale; la caduta della figura dell’autorità e di principi etici assoluti; la frattura della famiglia; la diffusione di droghe; la secolarizzazione; l’intolleranza religiosa e fondamentalismo; il disincanto politico ed esistenziale… Queste sono le aree in cui il contributo dei religiosi/e necessita di espansione.

4 La sfida di acquisire nuove attitudini e convinzioni.
All’entrata nel terzo millennio, noi religiosi e religiose dobbiamo renderci conto che il nostro modello di vita consacrata non è più «in forza», ma non esiste ancora un nuovo modello. Necessitiamo di una trasformazione strutturale delle nostre vite e lavoro, in modo da poter costruire una rete di giustizia e pace e globalizzare una solidarietà compassionevole.
Abbiamo bisogno di comunità aperte e ospitali, dove ognuno possa respirare uno spirito nuovo di libertà, mitezza e gratuità, e dove possano maturare i frutti della non violenza.
Abbiamo bisogno di un modello di vita religiosa capace di aiutarci a vivere, con profondità nuova, l’autenticità dei nostri rispettivi carismi e ci permetta di essere una memoria evangelica e missionaria di Cristo nel mondo presente, per riempire fino all’orlo gli autentici desideri di gioia e amore dei nostri fratelli e sorelle nel mondo.
Dobbiamo sottolineare la rilevanza della parola di Dio e la necessità di incarnarla nel nostro mondo. La nuova passione per Cristo deve trasformare le nostre vite e strutture e condurci verso una più grande passione per l’umanità, espressa come amore compassionevole, con audacia e nuova capacità creativa.
Dobbiamo essere sempre presenti laddove la vita è minacciata. Vogliamo mostrare al mondo un nuovo volto della vita consacrata che è reale sacramento e parabola vivente del regno di Dio in mezzo a noi.

5 La sfida della tolleranza e del dialogo.
Il pluralismo crescente e irreversibile nel mondo ci conduce a un dialogo più profondo con altre congregazioni e altre religioni. Dobbiamo promuovere una spiritualità di comunione e collaborazione interreligiosa, che possa distruggere lo spirito di dominio e le tendenze fondamentaliste presenti nel nostro tempo. Un dialogo tollerante deve diventare opzione e stile di vita per tutti noi, con un impegno a creare spazi di perdono e riconciliazione in mezzo a violenza e morte.
Genuina missione per i religiosi e religiose è mantenere un profondo dialogo con altre religioni, culture e con i poveri, la cui voce grida di essere ascoltata. Siamo aperti all’ecumenismo e a lavorare in solidarietà con altri gruppi che lottano in favore della dignità umana, della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato.

6 La sfida di presentare la positività della castità in un mondo edonistico.
Fino al xix secolo, nella cultura occidentale sembrava esserci persone senza sesso: era tabù parlarne apertamente. Ora, dopo l’esplosione della rivoluzione sessuale del xx secolo, pare che ci sia sesso senza persona, poiché la sessualità è stata separata dalla personalità. Si è caduti nel libertinismo e immoralità permissiva, con comportamenti indecenti e contro la legge di natura, con la perdita dei principi morali assoluti.
Come il dondolio di un pendolo, tendiamo a muoverci da un estremo all’altro: da una mentalità puritana che condannava la sessualità, siamo passati a un totale libertinismo sessuale; c’è il rischio, ora, di tornare indietro di nuovo, verso attitudini intolleranti della sessualità umana.
Noi religiosi dobbiamo testimoniare la gioia e la pienezza della nostra vita consacrata. Se la maggioranza crede che essere casti è difficile, d’altra parte non è impossibile; e ci sentiamo ok con il nostro corpo, i nostri sentimenti ed emozioni. Il celibato è per noi un’opzione libera di vivere la nostra sessualità in maniera sana ed equilibrata. La nostra castità risplende meglio quando mostra chiaramente che è per il regno di Dio e che ci conduce a una relazione d’amore più profonda con Cristo e a condividere il nostro amore con gli altri.
Non crediamo in una chiesa che condanna la sessualità umana o si scandalizza per comportamenti sessuali devianti; ma crediamo in una chiesa che proclama un Cristo incarnato, che manifesta sulla croce la pienezza e la bellezza dell’amore di Dio, ci redime dalla schiavitù del peccato e dall’inganno di un falso erotismo. Come disse Giovanni Paolo ii nella Redemptoris Hominis, è necessario convincersi delle priorità dell’etica sulla tecnologia, della persona sui beni materiali, della superiorità dello spirito sulla materia. Lo sviluppo della civilizzazione caratterizzato oggi dal domino della tecnologia domanda uno sviluppo proporzionale della morale e della spiritualità.

7 La sfida di comunicare oggi attraverso i mass media.
Dalla fuga dal mondo, come era al suo inizio, la vita consacrata muove verso l’incarnazione nel mondo, testimoniando la trascendenza negli eventi della storia umana. Dobbiamo cambiare la nostra mentalità sulla comunicazione ed essere capaci di correre il rischio di incontrare la nostra complessa realtà utilizzando i mezzi della comunicazione.
Abbiamo bisogno di religiosi e religiose specialisti in questo campo e che lavorino in stretta collaborazione con laici competenti. Dobbiamo avere il coraggio di mostrare la nostra forza e le nostre debolezze, di dialogare apertamente con la gente del nostro tempo su uno schermo continentale, per rispondere alle vere domande che ci vengono poste a nome dell’intero villaggio globale.

8 La sfida di dare potere ai deboli, bisognosi e quanti non contano nella nostra società.
Abbiamo bisogno di formulare un sistema legale integrale che protegga e difenda la dignità e i diritti umani delle masse, la cui voce è stata fatta tacere dai poteri egoisti di una manciata di ricchi e potenti.
Parlando di diritti umani dobbiamo chiarire che nessuno può essere considerato come un valore assoluto, senza un punto di rriferimento al di fuori di sé. I diritti di uno finiscono là dove iniziano quelli di un altro. E questo è vero per gli individui come per gruppi umani o organizzazioni. Perciò i diritti di una donna incinta, per esempio, finiscono dove iniziano quelli del bimbo nel suo seno. E i diritti di un movimento gay terminano dove iniziano i diritti di bambini innocenti. Una persona o un gruppo non può pretendere di possedere valori o diritti assoluti, senza riferimento a coloro che gli stanno intorno.
Dobbiamo riconoscere la presenza di principi morali registrati nel cuore di ogni essere umano e l’importanza di stabilire un ordine legale comune per salvaguardare la libertà e non il libertinismo. Schierarsi in favore di coloro che non contano significa rischiare la vita davanti ai signori della guerra e chiedere pace e giustizia; significa difendere la vita, ovunque sia in pericolo, impegnarsi per combattere l’ingiustizia e dare forza a coloro che sono lasciati vivere ai margini della società. Significa alzarsi per le donne che sono oppresse in società rette dal culto della virilità. Comporta lo sforzo di favorire ogni singola iniziativa di lotta contro la pandemia Hiv/Aids, nonostante la sua apparente piccolezza.

9 La sfida di far fronte alla pandemia in modo più cornordinato.
In era di globalizzazione, non possiamo continuare a lavorare in maniera isolata e non cornordinata. Nel nostro villaggio globale ognuno è o infetto o affetto dalla pandemia; tutti dobbiamo contribuire con i nostri talenti e possibilità per alleviare la situazione e il peso che grava su nostri fratelli e sorelle.
Come un uragano, la forza devastante della pandemia Hiv si è fatta sentire improvvisa e violenta, suscitando la risposta pronta di diverse organizzazioni. Al contrario di un uragano, però, la pandemia è venuta per stare con noi lungo tempo. Dopo le iniziali risposte di emergenza, dobbiamo riflettere su cosa dobbiamo fare oggi, provare a capire come usare le nostre risorse umane e finanziarie in maniera più cornordinata.
Bisogna pensare in grande e continuare ad agire localmente, ma in collaborazione con altre forze. Dobbiamo rinforzare la collaborazione intea con altri religiosi e religiose che lavorano nella sanità, educazione, servizi sociali, attività di sviluppo a tutti i livelli, come in strategie di prevenzione, cura delle persone che vivono con il virus, cura degli orfani, in modo umanitario e cristiano. Dobbiamo rinforzare anche la collaborazione estea con uomini e donne di altre religioni e organizzazioni, in spirito di comunione e fratea solidarietà.

Prospettive

Il panorama globale della pandemia mostra un incremento superiore a ogni previsione. Purtroppo, le popolazioni più colpite sono quelle con un sistema sanitario meno efficiente. Finora, non esiste una cura, ma il trattamento aiuta a prolungare la vita dei sieropositivi. La sicurezza di trovare un vaccino appare sempre più dubbia. La lotta contro l’Aids è stata condotta centrandola sulle misure di prevenzione per evitare la diffusione dell’infezione, ma non c’è stato un comune assenso tra gli organismi coinvolti sui mezzi di prevenzione da usarsi.
Nella lotta contro l’Aids si è sviluppata una guerra ideologica. Da una parte coloro che hanno una visione trascendente dell’uomo, con una fine escatologica, che privilegiano la fedeltà coniugale per gli sposati e sostengono l’astinenza sessuale per i single, subordinando la sessualità all’etica. Dall’altra parte, coloro che hanno una visione immanente dell’uomo, guidati solo dalla ragione e considerandosi gli unici arbitri del proprio destino, che sono in favore della libertà sessuale e sostengono l’esercizio della sessualità come diritto assoluto della persona, senza norme etiche. La questione è come riconciliare queste concezioni diverse in favore di un’autodisciplina fortemente necessaria.
Tra i fattori estei che ostacolano la prevenzione dell’infezione da Hiv c’è la realtà della guerra. Spesso interessi nascosti, nazionali o inteazionali, collegati all’avidità di potere politico o economico, sono dietro innumerevoli guerre, che si combattono in paesi dove c’è un gran numero di persone che vivono con il virus. La situazione di turbolenza in tali aree di guerra favorisce il diffondersi di nuove infezioni e impedisce una giusta presa in carico degli ammalati.
Ci si chiede se l’umanità imparerà mai a vivere in armonia e comunione nel nostro villaggio globale. È necessario cambiare la visione della globalizzazione: da lotta tra culture per il sopravvento della più potente, a spazio di dialogo fra diverse culture nella ricerca comune di un mondo di giustizia e di pace.
Molte cose in questo mondo iniziano o continuano ad accadere, dovute alla nostra complicità, negligenza, indifferenza o omissione. Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla pandemia o minimizzare la gravità della tragedia; dobbiamo, invece, considerarla in tutta la sua realtà e prendere il coraggio di pensare e agire positivamente.
Bisogna tracciare delle strategie globali in modo da raggiungere obiettivi parziali o generali e superare i molti ostacoli nella lotta all’Aids.
All’inizio di questo millennio, siamo di fronte a una moltitudine di sfide che sembrano sorpassare le nostre forze e sforzi; noi religiosi e religiose vogliamo ricordare il carattere profetico della nostra consacrazione. In linea con la tradizione patristica, la profezia non parla di una misteriosa visione del futuro; ma vera profezia è testimoniare il primato di Dio e i valori evangelici in mezzo all’incertezza del tempo presente.
Rispondere ai gravi problemi che attentano alla vita dell’intera umanità in modo creativo e profetico, significa per noi elaborare e adottare un’intera serie di convinzioni.
La rilevanza del carisma dei nostri fondatori per il nostro tempo.
Il compito per la nostra vita consacrata di mostrare il primato di Dio e dei beni eterni a un mondo secolarizzato e materialista.
Il primato della persona sul capitale, sviluppo tecnologico e industriale nel presente neoliberismo globale.
La testimonianza della povertà evangelica come segno profetico dell’amore preferenziale per i poveri e impegno a globalizzare carità e solidarietà.
La testimonianza di vera vita fratea a un mondo assetato di comunione, amicizia e amore.
La testimonianza della pratica giorniosa della perfetta castità, offerta dai religiosi e religiose che mostrano autocontrollo personale, equilibrio e maturità psicologica e affettiva, in mezzo a una cultura edonistica che riduce la sessualità a mera merce di consumo.
L’apertura a tutti i grandi dialoghi e all’ecumenismo in un mondo di fondamentalismi e di guerre.
La scelta della giustizia, pace e integrità della creazione, che può restaurare il disequilibrio ecologico e distruggere il dominio del terrorismo e l’idolatria del potere.
La dedizione totale della nostra vita fino all’accettazione del martirio in difesa della vita umana, specie dove è più minacciata.
Il ruolo eminente dell’amore compassionevole di Cristo e il suo potere sanante nel ministero della cura dei malati di Aids.
Il coraggio di proporre il regno di Dio come possibile progetto di vita, dove uomini e donne trovano condizioni di vita uguali e tutta l’umanità si impegna a ricreare una nuova civilizzazione.
La necessità di inserirci nei processi inteazionali, dove viene deciso il destino delle comunità che siamo chiamati a servire.
La volontà di aggioarci nell’era post-modea ed essere capaci di incarnare i valori del vangelo in un dialogo di vita con altre religioni e culture.

Luis Francisco Arellano Perez




Dolore tangibile…

Avevo circa 9 anni quando mia zia suor Michela, missionaria della Consolata, ritoò in Italia per un periodo di vacanza. Ero come la sua ombra, quasi sempre appresso. Un bel giorno le confidai che da grande l’avrei aiutata… Parole di bambina, desiderio che è rimasto in me sempre, anche se i miei studi hanno limitato le possibilità di andare in missione: non sono medico, né infermiera, né maestra, né psicologa, ma ho una specializzazione in marketing e finanza, decisamente un altro campo.
Passa il tempo e le strade tra Dublino (dove vivevo) e Iringa (dove vive suor Michela), si incontrano. Al «Centro Allamano», in cui la zia gestisce un dispensario diuo adibito all’assistenza sociale, psicologica, medica, economica delle persone affette dal virus Hiv/Aids, dei loro bambini e dei numerosi orfani.
Nasce l’esigenza di una persona che si occupi di amministrazione, perché l’attività si sta ingrandendo, sempre più persone vengono a bussare alla sua porta e la tendenza non sembra diminuire. Suor Michela, con qualche dubbio e incertezza, mi scrive una lettera, nella quale mi chiede di andare a Iringa per aiutarla nel lavoro del Centro. Provo una forte emozione: mi sembra di toccare il cielo… Sì, l’avrei aiutata! E parto per il Tanzania.
Il 3 febbraio arrivo a Dar es Salaam con un visto turistico di 3 mesi, senza contratto di lavoro, e subito inizio il mio servizio nel «Centro Allamano», dove non mi occupo solo di amministrazione, ma guido una delle macchine per l’assistenza domiciliare ai malati: ogni giorno andiamo su e giù per le colline di Iringa e i villaggi dei dintorni a visitare i nostri pazienti.
Sono a contatto diretto con i malati, le loro famiglie, problemi, dolore, desolazione, miglioramenti, ricadute, progressi… L’esperienza quotidiana è molto forte: non è facile toccare con mano il dolore, sentirsi inutili, impotenti di fronte alla realtà di sofferenza. Ma qualcosa accade. La nostra visita, le nostre parole, il nostro affetto danno sollievo alle persone che ci ringraziano e benedicono. Quanto bene ricevo, io che pensavo di dae!
Seguire i malati non è semplice: occorre dare loro assistenza psicologica, medica, sociale e, soprattutto, aiutarli a crescere, affinché, nel limite delle loro forze, possano riprendere in mano la loro esistenza. Al Centro si organizzano corsi di formazione per microcrediti e microprogetti; si incentivano idee per una piccola attività, perché gli ammalati ritornino a essere operativi in famiglia e nella società, sentendosi nuovamente delle persone.
I bambini (molti sono orfani) vengono aiutati e spronati affinché vadano a scuola, apprendano un mestiere, diventino autosufficienti da adulti. Con la morte prematura dei genitori, rischiano di finire sulla strada, oppure di fare i «servetti» presso qualche famiglia di parenti; il nostro impegno è proprio quello di salvarli da queste situazioni, perché possano costruirsi un futuro.
Quanta gioia si prova quando nascono bambini sani pur da mamme malate, perché hanno ricevuto la medicina antiretrovirale; oppure malati che stanno meglio e li si incontra per strada a parlare con gli amici o di ritorno dal mercato con un po’ di frutta; o ancora, che il micro progetto a loro affidatogli dà buoni risultati; e vedi l’orto con tanta verdura: sono come luce di stelle in una notte buia, che ti guidano verso una Luce più grande.

A circa un anno dal mio arrivo, mi rendo conto che devo imparare ancora molto su come vivere a pieno lo «spirito missionario», per evitare retorica e luoghi comuni. L’andare in missione (ovunque sia) non deve essere un’avventura fine a se stessa, un’esperienza alternativa al «grigiore» della nostra esistenza, una fuga, ricerca di una soddisfazione personale, egoistica; se così fosse, si sbaglierebbe tutto.
Spesso si parte con tante buone intenzioni, poi la realtà mette alla prova; occorre trovare la forza per continuare e cercare di imparare a fare bene il bene, il che non è semplice.
Ammiro i missionari, che da tanti anni vivono e lavorano qui; sono un esempio molto importante per me; le loro esperienze di vita, conquiste, sconfitte, riflessioni, dubbi, proposte… mi aiutano ad aprire gli occhi e chiedermi quali sono i motivi per cui sono volata in Tanzania. Sono venuta perché potevo essere di aiuto in questa terra drammaticamente bella; spero di crescere, di maturare e che la mia presenza sia fonte di sollievo al prossimo che incontro.
La strada della vita mi ha condotta fin qui; il Signore mi ha guidata per mano, fino all’Allamano Centre; ma ognuno di noi può essere «missionario», il prossimo è ovunque, vicino o lontano dal posto in cui viviamo.

Paola Viotto




Senza paura di sbagliare

Di fronte al dilagare del virus Hiv in America Latina, chiesa e istituti di vita consacrata si sono mobilitati in due direzioni: combattere la discriminazione
e promuovere una rete di solidarietà.
Occorre aumentare la collaborazione con la società civile, senza perdere la specificità profetica, e mettere al primo posto la salvaguardia della vita…

Dal 1999 appartengo a una comunità dell’ordine dei cappuccini, che si dedica alla prevenzione e assistenza a persone che convivono con l’Hiv e lavoro nella pastorale dell’Aids.
Concepisco questo impegno come parte della mia vocazione francescana-cappuccina. Vocazione che si estrinseca a partire dalla fede e per questo la vivo come missione e non solo come filantropia.

La realtà dell’Aids nell’America Latina

Per capire la dinamica dell’epidemia in America Latina, occorre tener presente che essa è il continente dei contrasti sociali. Il Brasile, per esempio, è la 9ª potenza economica mondiale, ma occupa la 69ª posizione nella classifica degli indicatori sociali. Ciò significa che ci sono pochi ricchi e molti poveri e che la forbice si allarga di giorno in giorno: «I ricchi diventano sempre più ricchi, a spese dei poveri, che diventano sempre più poveri».
Ma la povertà non è limitata all’accesso alla ricchezza: essa si traduce in mancanza di casa, cibo, educazione, informazione, lavoro. La povertà diventa un vettore di incremento dell’epidemia.
I paesi con il più alto numero di sieropositivi sono Argentina, Brasile e Colombia; quelli con il più alto tasso di infezioni sono Belize, Guatemala e Honduras, con un tasso di incidenza dell’1%. I Caraibi sono la seconda regione del pianeta per tasso di infezione, con tassi di incidenza pari a 5,6 in Haiti e 2,3 nella Repubblica Dominicana. I paesi con le migliori coperture per le terapie antiretrovirali sono Brasile, Argentina, Cile e Messico.

Vincere la paura

La realtà in cui si dibatte il continente latinoamericano, con l’esperienza in essi maturata, mi spinge a proporre due prospettive: vincere la paura e costruire solidarietà.
Alla comparsa di un’epidemia segue, normalmente, la ricerca dei responsabili e delle spiegazioni della sua origine. Il primo atteggiamento è stato quello di attribuire a Dio la causa di tale malattia, come punizione esemplare contro i perversi.
Poi, quando si è capito che questa attribuzione non conveniva a Dio, si sono cercati tra gli esseri umani i responsabili della piaga. Facilmente sono stati trovati: omosessuali, tossicodipendenti, professionisti del sesso. Negli Stati Uniti si parla di quattro «H»: (h)emofilici, (h)omossessuali, haitiani e (h)eroino-dipendenti.
Oggi dobbiamo vincere la paura del virus, considerare che tutti siamo vulnerabili. Viviamo in un mondo con Aids. Viviamo in una chiesa con Hiv. Non tutti siamo sieropositivi per l’Hiv, ma tutti siamo coinvolti in questa realtà che ci tocca direttamente. Dobbiamo vincere la paura, poiché la paura non vince il virus.
Bisogna vincere anche la paura delle persone che vivono con l’Hiv. Rompere il «fare» discriminatorio e trattarle come esseri umani. Superare l’idea che tali soggetti sono malati perché colpevoli. In un certo senso, si tratta di «neutralizzare» la malattia, cioè, smitizzare, «smoralizzare», comprendere le persone con l’Hiv come si comprende una persona ipertesa o diabetica.
Vincere la paura attraverso l’informazione, la consapevolezza, la sensibilizzazione. Secondo Paulo Freire, grande pedagogo e educatore brasiliano, «nessuno educa nessuno, ma tutti si educano vicendevolmente». Nessuno si confronta con l’Hiv come un problema che lo riguarda, che lo tocca, se non trova qualcuno che lo provochi con forza a tale riguardo. Ossia, qualcuno che faccia riflettere sui valori, credenze, affettività, visioni dell’uomo e del mondo, che stabilisca un rapporto faccia a faccia, in grado di comprendere l’umanità che abita in ognuno di noi.
Evidentemente ciò non si fa con grandi campagne televisive, anche se questo non è del tutto inutile.

Costruire solidarietà

In America Latina è in corso un grande movimento di solidarietà verso le persone che vivono con l’Hiv. Sono molte le istituzioni e iniziative promosse da congregazioni religiose per offrire servizi, accoglienza e cure ai sieropositivi. Grande attenzione al problema esiste in tutta la chiesa in generale. In Brasile, per esempio, essa è molto attiva attraverso la «pastorale dell’Aids», in collaborazione con varie organizzazioni della società civile, rispondendo alle istanze del governo nella lotta all’Aids.
Si moltiplicano le iniziative da parte della gerarchia ecclesiastica, delle conferenze episcopali per incentivare questa solidarietà. Il 1º dicembre 2005, la Conferenza episcopale latinoamericana (Celam) ha pubblicato un documento intitolato: La Chiesa latinoamericana di fronte all’epidemia di Aids.
Si moltiplicano incontri, convegni, seminari per dibattere il problema. Nel luglio 2005 abbiamo organizzato il 1° Simposio latinoamericano e dei Caraibi per approfondire l’azione della chiesa cattolica nel mondo dell’Aids. Vi hanno partecipato un vescovo, religiosi, religiose e laici di 14 paesi dell’America Latina e Caraibi, oltre a una delegazione di Timor Est.
Il percorso fatto fino a oggi ci spinge a guardare avanti, affrontando altre sfide e prospettive; prima di tutto quella di rafforzare la rete latinoamericana di lotta all’Aids. Questa rete si sta allargando, con lo scopo di animare, articolare, stimolare la partecipazione di tutti i cristiani nell’affrontare l’epidemia e nel dare visibilità alle risposte ecclesiali in questo campo.
Altra sfida consiste nel disseminare il lavoro di cooperazione con la società civile e lo stato. In Brasile è in atto un’esperienza molto promettente: è il lavoro articolato tra il Ministero della Sanità e la Pastorale dell’Aids, dipartimento ecclesiale creato dalla Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb) nel 2001. Non si tratta di sostituire il governo, tanto meno di ripetere l’azione delle istituzioni pubbliche, ma di un lavoro complementare, in cui la chiesa contribuisce al controllo dell’epidemia a partire dalla sua visione, dalla sua spiritualità, dai suoi valori. Nonostante alcuni dissensi rispetto ad alcune pratiche del Ministero della Sanità, crediamo di poter dare il nostro contributo, a partire dalla nostra specificità.

SFIDA CONTINUA

La sfida più grande è il lavoro di controllo dell’Aids, in cui la chiesa deve avere un coinvolgimento sempre maggiore. Credo che la chiesa e la vita consacrata, con la sua dimensione profetica, possano contribuire in modo significativo e fare la differenza nella lotta contro l’Aids. L’impegno concreto permetterà di superare il pregiudizio corrente, secondo cui la chiesa ostacola il lavoro di prevenzione all’Aids.
È necessario abbandonare l’atteggiamento fiscalista, controllore; bisogna annunciare, piuttosto che esigere. Credo fermamente che il nostro primo obiettivo sia prendersi cura della vita. Dobbiamo salvare la vita anche di coloro che non sono in grado di osservare gli ideali che annunciamo. Sotto questo aspetto la dimensione profetica della vita consacrata può offrire un valido contributo.
La chiesa deve credere in ciò che la capacità umana può raggiungere. Non dobbiamo avere paura di sbagliare. Un sacerdote eudista colombiano, che ha imparato il cammino della prevenzione all’Aids vivendo accanto a professionisti del sesso, mi ha insegnato che è più produttivo chiedere perdono, anziché chiedere il permesso.
Nonostante tutto, la chiesa è un’istituzione che gode di credibilità e accettazione per l’impegno che svolge in questo campo: possiede strutture, risorse umane, mezzi di comunicazioni, disponibilità di volontari, capacità di contattare spontaneamente le persone. Nessun governo ha la possibilità di arrivare dove può giungere la chiesa, quando organizza un servizio specifico per affrontare i problemi dell’Hiv/Aids, mediante la pastorale dell’Aids.
Ciò vale anche a livello mondiale, contribuendo a raggiungere gli obiettivi del Millennio, che sintetizzerei in un’unica sfida: universalizzare la prevenzione, il trattamento e l’assistenza. Prevenzione intesa come intervento faccia a faccia, nella metodologia alla pari, rispettando la cultura, il processo di ogni persona.
Universalizzare il trattamento significa globalizzare l’accesso agli antiretrovirali e altri medicinali necessari alla cura delle infezioni secondarie. Una buona adesione al trattamento ripercuote, infatti, nella qualità della prevenzione, con la riduzione di ri-infezioni e contaminazioni.
L’assistenza include analisi, controllo medico, lotta alla povertà, reinserimento sociale, rispetto dei diritti e costruzione del senso di cittadinanza.
Che la forza dello Spirito Santo non ci lasci soccombere nella paura, ma ci aiuti nella costruzione solidale che preserva la vita e fa sorgere i segni del regno.

José Beardi




Non nascondiamoci!

È chiaro che, a causa della diffusione dell’Aids, la famiglia sia in grave pericolo. Non è difficile incontrare famiglie che non abbiano più un genitore, o addirittura entrambi. Spesso si viene a conoscere che sono morti per «la malattia dei nostri giorni», senza dire apertamente cosa sia successo, come se non si sapesse di cosa si stia parlando. In questa situazione, chi sopporterà maggiormente il peso della vita, se non i bambini? Le testimonianze che seguono provengono da due donne affette dal virus dell’Aids e ci spronano a non tacere davanti a questa tragedia che ci tocca tutti.

(Testimonianze raccolte da padre Gianni Treglia e pubblicate sulla rivista Enendeni)

Sono una vedova e ho 42 anni. Ho quattro figli, di cui l’ultimo ha 13 anni ed è in settima (l’ultima classe delle primarie, ndr). Nel 1996, mio marito si ammalò e morì.
Dopo la sua morte, anch’io mi ammalai di tubercolosi e fui ricoverata nell’ospedale regionale dove fui curata. Dopo di ciò, cominciai ad avere problemi di salute, con dolori alle ossa. Per lungo tempo sopportai questa situazione, finché un giorno, fortunatamente, incontrai un consulente medico e con lui accettai di controllare a fondo la mia situazione. Dopo varie analisi, risultò che avevo contratto il virus dell’Aids. A dire il vero, questo mi sconvolse alquanto e già pensai di essere una morente.
Però Dio è buono e il consulente mi indicò in che modo vivere, cosa mangiare, cosa lasciare, cosa fare. Ritornai dal primo medico, il quale mi consigliò allo stesso modo. Ora mi ritrovo ad avere speranza di vivere, ad accettare la mia condizione. Ora vivo grazie anche agli aiuti di organizzazioni non governative, che contribuiscono a mandare avanti i miei figli negli studi, a ricevere dei microcrediti che mi permettono di vivere una vita dignitosa.
Non nascondo la mia situazione e per dare una informazione giusta voglio sensibilizzare la società: è bene andare a controllare la propria salute, piuttosto che vivere nella paura. Se conosceremo la nostra situazione sanitaria, sapremo programmare meglio la vita. Nonostante la morte sia lì, spazza via la paura e va’ a fare le analisi. Non farti ingannare dall’aspetto esteriore della persona. L’unica medicina è fare le analisi. I centri per questo sono tanti. Dopo aver fatto le analisi e accettata la tua condizione, vivrai in pace, scaccerai la paura che hai ogni volta che non stai bene e pensi: ecco, sono finito! Queste possono essere piccole malattie secondarie, che possono essere curate. Il virus, di per sé, non ti danneggerà più di tanto, se seguirai i consigli dei consulenti e potrai vivere più a lungo senza problemi.
Sono ormai nove anni che so di avere il virus dell’Aids, eppure sto bene e vado avanti con speranza nella vita. Alzati, allora, e vai a controllare la tua salute.

Vivo a Kihesa (quartiere di Iringa) e ho tre bambini. È dal 1996 che ho scoperto di avere il virus dell’Aids, quando andai per una visita.
Nel 2003, mi recai al «Centro Allamano», l’ospedale per affetti da virus di Aids, gestito dalle missionarie della Consolata, per fare un nuovo controllo e ho visto che il virus era ancora lì, non se ne era andato, né era diminuito.
Il motivo per cui andai a controllarmi fu questo: mio marito desiderava che avessimo il quarto figlio e io, da parte mia, ho creduto bene di verificare lo stato della mia salute, prima di rimanere incinta. È qui che scoprii di essere affetta dal virus dell’Aids. Consigliai a mio marito di fare altrettanto, dicendogli che sarei stata disposta a rimanere incinta dopo aver fatto le analisi.
Non mi diede retta, ma questo durò solo due mesi. Si convinse e lo portai al «Centro Allamano», dove diagnosticarono la presenza del virus, ma ci consigliarono il modo di vivere da marito e moglie nonostante l’Aids. Ricevemmo tanti insegnamenti che ci aiutarono a poter allevare i nostri figli senza perdere la speranza (poi il marito morì, ndr).
Ringraziamo Dio per il «Centro Allamano», che si ricorda delle persone affette dal virus, le raduna, dà loro aiuti di ogni genere che permettono alla gente di vivere senza doversi rompere il capo per sapere delle medicine o del cibo. Inoltre, il Centro fa prestiti a chi ha ancora la forza di lavorare. Offre pure piccoli progetti di allevamento di bestiame (quali polli, capre, ecc.) e anche attrezzature varie per l’agricoltura. Ci è stato anche insegnato come fare l’orto: non abbiamo problemi di verdura, ora, anche nei periodi di siccità.
Perciò, fatevi avanti e controllatevi, non fatevi ingannare dall’apparenza del vostro stato di salute, pensando di stare bene. No, fai le analisi per conoscerti. E se non hai fatto le analisi, sta’ zitto, non indicare a dito le persone!

M i chiamo Abely Myovela, ho 39 anni. Con molte speranze vivo nella città di Iringa. Ho scoperto di avere il virus dell’Aids il 12 dicembre del 1996. Questo avvenne dopo lunga malattia, che mi vide ricoverato per più di due anni. Mentre ero in ospedale, fui consigliato di fare le analisi per vedere se avessi l’Aids, ma non accettai quel consiglio.
Il dolore cresceva, il mio problema diventava sempre più grande e cominciarono a venir fuori molti bubboni. Toai così dal dottore che mi aveva in cura, il quale mi consegnò un foglio con cui mi mandava dal consulente medico dell’ospedale.
Il dialogo si protrasse a lungo, almeno due ore e mezzo; dopo di che, mi fu prelevato il sangue. Quando le analisi furono pronte, i risultati erano inequivocabili: avevo contratto il virus dell’Aids! Il consulente, in quel secondo colloquio e dopo avermi fatto conoscere i risultati, si accorse che avevo cambiato atteggiamento, tanto da andarmene sbattendo forte la porta.
Quando la rabbia si affievolì, tornai dal consulente, che mi rassicurò riguardo il mio comportamento: era cosa normale. Non ero il solo in quella situazione, c’erano anche degli altri e, se lo desideravo, mi avrebbe accompagnato da loro. Accettai la proposta e mi condusse a un incontro con malati che avevano contratto il virus; in gruppo, ricevemmo dei consigli.
Ho deciso di non nascondermi alla società, anzi desidero che la gente veda una testimonianza vera, affinché comprenda la gravità di questo problema. Ho continuato a ricevere tanti insegnamenti per poter vivere con speranza; ho la possibilità di incontro con altre persone che hanno il virus; ho frequentato seminari per conoscere l’importanza di una buona alimentazione per curare le malattie a esso collegate e prevenire nuovi contagi.
Nonostante sia infetto, posso vivere più a lungo. Ho imparato che avere il virus non significa essere già morto. Ho incontrato altre persone malate e associazioni che si occupano di loro. Sono venuto a conoscenza dei luoghi dove vengono offerti servizi e aiuti di altro genere. In ospedale, conoscendo la mia situazione, vengo subito accolto e curato.
A dire il vero, all’inizio ho avuto molti problemi, soprattutto quando ho ammesso apertamente la mia situazione; e così, quando gli altri ne sono venuti a conoscenza, ho sperimentato una situazione di infelicità. Ero, infatti, visto come un «diverso». Ciononostante, non mi sono scoraggiato. Mi sono fatto avanti e ho cominciato a dire a tutti che solo facendo le analisi è possibile sapere se uno sia affetto o no dal virus dell’Aids.
Poiché in quel periodo ero in una situazione pietosa, la gente mi aveva già battezzato con svariati nomi: «Il compare ha il tamburo; il compare si è inciampato; il compare ha l’elettricità; il compare è andato a sbattere…» (espressioni che ho tradotto letteralmente, molto efficaci nel nostro linguaggio di strada, ma che in fondo indicano chi è stato contagiato, ndr).
Però non ho mollato e ho continuato a espormi. Ho creduto che ciò fosse normale. Allo stesso tempo, molti di coloro che mi indicavano a dito se ne sono andati proprio per lo stesso male. Non sapevano che l’Aids è una tragedia nazionale e mondiale. Altri che hanno contratto il virus ora mi cercano per consigli, come «maestro del vivere con speranza»: le accolgo, le consolo, dicendo loro di non perdere la speranza di vivere, di accettare il problema e prenderlo per quello che è. Fino ad ora vado avanti con i miei impegni quotidiani e per questo non mi vedono diverso dagli altri.
Ora consiglio a tutti che bisogna conoscere la propria situazione. Personalmente, dopo aver avuto certezza della mia condizione, vivo tranquillo. Non è facile per un altro conoscere che ho il virus dell’Aids, poiché il mio stato di salute è buono. A tutti dico di abbandonare i comportamenti che diffondono il virus e di non emarginare nessuno, perché nella lotta contro il nemico dell’Aids bisogna combattere uniti.

Gianni Treglia




Non c’è tempo da perdere

Dopo due anni di studi e ricerche, il Programma delle Nazioni Unite su Hiv/Aids (Unaids) ha presentato, il 4 marzo 2005 ad Addis Abeba, il rapporto: «Aids in Africa: tre scenari al 2025». Vengono descritte tre possibili direzioni di lotta all’Aids nei prossimi 20 anni, con relative implicazioni e conseguenze economiche, politiche e sociali. Tali evoluzioni o scenari dipendono dalle decisioni che vengono prese oggi sia dai leaders africani che dal resto del mondo.

Quali saranno, nei prossimi 20 anni, le risposte dell’Africa e del mondo all’epidemia di Aids? Quale futuro per la prossima generazione? Per rispondere a tali domande, il Programma delle Nazioni Unite su Hiv/Aids (Unaids) lanciò un progetto di studio, nel febbraio 2003, in collaborazione con l’Unione africana, banche e altri organismi inteazionali.
Per 18 mesi si sono tenuti seminari, simposi, ricerche, analisi… in cui hanno messo a disposizione tempo, esperienze e competenze centinaia di persone di ogni ceto sociale, per lo più coinvolte in prima persona con i problemi dell’Hiv/Aids nel continente africano. I risultati sono stati resi pubblici il 4 marzo 2005, ad Addis Abeba nel rapporto «Aids in Africa: tre scenari al 2025».

Punti di partenza e natura degli scenari

Il progetto parte dall’analisi delle forze che provocano e influiscono sull’evoluzione dell’epidemia dell’Aids in Africa: sono fattori culturali, che sono alla base dei comportamenti sessuali, le disuguaglianze sociali e tra i sessi, le condizioni economiche di povertà e sottosviluppo, i fattori politici, come instabilità e inefficienze dei governi.
Inoltre, il progetto poggia su due ipotesi fondamentali: 1) l’Aids non è un problema di breve durata, ma colpirà l’Africa ancora per 20 anni; 2) le decisioni che prendiamo oggi forgeranno il futuro del continente.
Il progetto descrive tre diversi scenari possibili, che non sono predizioni, ma storie plausibili sul futuro del continente, a seconda delle diverse scelte con cui dovranno confrontarsi i paesi africani nei due decenni a venire.
La situazione non è inevitabile. Milioni di nuove infezioni potrebbero essere evitate, se l’Africa e il resto del mondo decidono di affrontare l’Aids come una crisi eccezionale, con la potenzialità di devastare intiere società ed economie.
Ciò che facciamo oggi può cambiare il futuro. Nonostante la persistenza per lungo tempo dell’Aids, la vastità dell’impatto dell’epidemia dipenderà dalla reazione e dagli investimenti del presente. L’applicazione e il sostegno degli insegnamenti del prossimo ventennio farà la grande differenza nel futuro dell’Africa.
Questo progetto non intende decretare quali saranno queste decisioni. Il suo scopo è semplice: offrire uno strumento capace di aiutare a prendere le decisioni migliori, esplorando l’interconnessione tra i vari fattori sociali, culturali, economici e politici, identificando e sfidando le ipotesi e i meccanismi, spesso sottintesi, dei medesimi fattori.
In ogni scenario vengono illustrati anche i costi dei programmi di lotta all’Hiv/Aids, calcolati sulla base di quanto è stato fatto nell’ultimo decennio, analizzando la relazione tra interventi e risultati. Naturalmente tali scenari non nascondono la persistenza di alcune importanti incertezze che circondano l’epidemia dell’Aids: come è percepita la crisi dell’Aids e da chi? Ci saranno incentivi e capacità di affrontarla? I diversi scenari offrono risposte diverse a queste domande e illustrano gli effetti prodotti dai vari livelli di incentivi e risorse disponibili.

1° SCENARIO: scelte senza concessioni

Il primo scenario racconta una storia in cui l’Africa si impegna realmente nella lotta; i leaders africani scelgono di prendere misure drastiche e inflessibili per ridurre la diffusione dell’Hiv a lungo termine, anche se tale scelta comporta difficoltà a breve termine in altri settori.
Lo scenario è raccontato quasi fosse il copione di un documentario realizzato nel 2026: insieme alle osservazioni di una parte di esperti e leaders africani, sono descritte le rigorose scelte economiche, sociali ed etniche che i governi devono adottare per generare un rinnovamento nazionale. Non è un tempo di abbondanza per l’Africa.
In tale contesto governi capaci sono della massima importanza, ma anche lo sviluppo di istituzioni regionali e panafricane assume un ruolo chiave. Lo scenario dimostra che è possibile creare una risposta in cui leaders e comunità procedono insieme; dimostra che un approccio tempestivo e rigoroso alla prevenzione darà i suoi effetti, anche se occorrerà del tempo prima di registrare effetti evidenti.
Nonostante i considerevoli sforzi nella prevenzione, la crescita demografica aumenta il numero di persone affette da Hiv/Aids, per attestarsi su livelli simili a quelli di oggi entro il 2025, per poi diminuire, quando gli investimenti a lungo termine in capitale sociale, economico e umano del prossimo ventennio cominceranno a dare i primi frutti.
Mentre lo sforzo principale dei programmi contro Hiv/Aids si focalizza sulla prevenzione, c’è un aumento progressivo della terapia antiretrovirale, grazie al costante investimento nei sistemi sanitario e scolastico e nella produzione di farmaci in Africa.
Il numero dei morti continua a essere alto almeno fino al 2015; dopo di che la percentuale comincia a calare: le misure preventive, infatti, hanno bisogno di tempo per dare risultati all’interno del sistema.
In tutto il corso dello scenario, raddoppia il numero dei bambini resi orfani dall’Aids; ma anche le iniziative a loro sostegno aumentano rapidamente intorno al 2010 e continuano con il crescere della popolazione.
Per quanto riguarda i costi, buona parte del loro aumento deriva dalle maggiori spese per attività di prevenzione e sarà sempre più rapido tra il 2008 e il 2014. I costi per le cure, invece, all’inizio della prima decade crescono lentamente, ma subiranno un’accelerazione negli anni successivi, quando sistemi e capacità saranno messi in campo per una diffusione durevole degli interventi.
In tale scenario si ipotizza un costante e consistente aiuto da parte dei donatori nella lotta all’Aids, mentre ristagna la promozione dello sviluppo.

2° SCENARIO: il peso del passato

Il secondo scenario racconta una storia in cui l’Africa intera non riesce a sfuggire ai suoi maggiori retaggi del passato, per cui l’Aids penetra profondamente nelle trappole della povertà, sottosviluppo ed emarginazione in un mondo globalizzato.
Nonostante le buone intenzioni dei leaders e l’aiuto sostanziale di donatori inteazionali, una serie di ostacoli impedisce a tutti, eccetto poche nazioni o settori privilegiati della popolazione, di sfuggire alla povertà e all’alta diffusione dell’Hiv.
Lo scenario ipotizza che Hiv e Aids continueranno a ricevere forte enfasi nel prossimo futuro, ma le reazioni saranno disperse e a breve termine, spesso non riescono ad affrontare la realtà quotidiana e pertanto a dare una soluzione duratura.
Lo scenario identifica 7 ostacoli che impediscono uno sviluppo efficace, a lungo termine o largamente diffuso nel continente:
1. il retaggio della storia dell’Africa;
2. il ciclo di povertà, ineguaglianza e malattia;
3. le divisioni e fratture sociali;
4. la ricerca di guadagni rapidi;
5. le sfide della globalizzazione: integrazione e marginalizzazione;
6. la dipendenza dagli aiuti e la ricerca di sicurezza globale;
7. la reazione all’epidemia dell’Aids: scorciatornie e rimedi miracolosi.
Il secondo scenario ha come sottotitolo: la spirale infeale. Da una parte le politiche dei paesi africani nella lotta all’Aids si mostrano inefficaci e l’aiuto esterno è fluttuante e/o diminuisce; dall’altra l’infezione soffoca le risorse e indebolisce le infrastrutture; la piaga della povertà, sottosviluppo e disuguaglianze si allarga ulteriormente; in molti paesi diminuisce la speranza di vita; effetti devastanti si ripercuotono a livello familiare e sociale, aumentando disunità e disintegrazione, tensioni etniche e religiose, fino alla frammentazione degli stati. Di tale situazione si avvantaggiano i soliti profittatori, con spreco di risorse e fondi destinati alla cosiddetta industria dell’Aids.
Così, entro il 2025, la percentuale di persone colpite dall’epidemia supererà i livelli attuali, e continuerà ad aumentare negli anni seguenti, poiché la prevenzione non è diffusa efficacemente a livello periferico e i costi di tale prevenzione continueranno a salire.

3° SCENARIO: tempi di transizione

In «tempi di transizione», dal sottotitolo «l’Africa recupera il tempo perduto», l’epidemia è percepita come una crisi eccezionale che esige risposte eccezionali: politiche intee e aiuti estei si intrecciano in modo efficace.
Transizioni e trasformazioni descrivono il modo in cui l’Africa e il resto del mondo devono affrontare insieme vari problemi: la salute, lo sviluppo, il commercio, la sicurezza e le relazioni inteazionali, per poter raggiungere lo scopo di dimezzare il numero di persone affette da Hiv/Aids e assicurare che la maggioranza di coloro che necessitano della terapia antiretrovirale possa accedervi entro il 2025.
Una serie di «storie» identificano 6 trasformazioni interdipendenti, per dare al futuro dell’Africa una nuova faccia e il suo posto nel mondo:
1. «Dall’orlo della catastrofe» descrive i cambiamenti nel modo di trattare Hiv/Aids, con una rapida diffusione delle cure ed efficaci strategie di prevenzione, sostenute da una società civile molto attiva;
2. «Mettere in ordine la casa» si concentra sulle reazioni della politica nazionale, per ridurre la povertà e rafforzare lo sviluppo, cruciale per limitare la diffusione dell’epidemia;
3. «Lavorare insieme per lo sviluppo» studia il miglioramento della collaborazione tra governi africani e alleati estei nei primi 25 anni del secolo, tempo in cui le risorse sono dirette e cornordinate sempre più dai governi africani e dai loro popoli;
4. «Commerciare sulle forze» affronta in modo dettagliato i cambiamenti chiave che hanno luogo nel commercio;
5. «Sentimenti e diritti umani» descrive la popolazione al centro dello scenario e i modi in cui essa è cambiata: mutamenti radicali che riguardano anche le relazioni tra uomini e donne, tra questi e le loro comunità;
6. «Piantare la pace» descrive come la prevenzione dei conflitti e la promozione della pace e sicurezza, tra le nazioni e all’interno di una stessa nazione, giochi un ruolo vitale nei nuovi impegni africani del xxi secolo.
Lo scenario descrive i cambiamenti fondamentali che avvengono anche nel modo in cui i donatori foiscono aiuti e come i governi li gestiscono, affinché tali aiuti rispettino autonomie e sovranità nazionali, non siano causa di inflazione e non generino dipendenza.
In questo scenario, oltre a dettare nuove regole e nuove relazioni di collaborazione negli affari inteazionali, viene mobilitata la società civile nazionale e internazionale. Si inizia con attivisti impegnati nell’attenta somministrazione delle terapie antiretrovirali; quindi altri settori della società civile sono interessati, coinvolti e impegnati nella lotta.
Se queste transizioni riuscissero a essere attuate in una sola generazione, si ridurrebbe notevolmente il numero delle infezioni: tra il 2003 e il 2025 il numero di persone affette da Hiv si dimezza e la diffusione delle terapie antiretrovirali è strepitosa.
Sotto l’aspetto finanziario, lo scenario descrive una crescita iniziale delle spese per la prevenzione, ma l’investimento per le cure e terapie comincia a diminuire a partire dal 2019, anno in cui si dovrebbe registrare anche un calo nel numero di persone affette dal virus.

Implicazioni e insegnamenti

Presi nel loro insieme, i tre scenari introducono alcune importanti considerazioni per attivisti, politici, pianificatori e per coloro che mettono in opera questi programmi. Ma non garantiscono una reazione sufficiente contro l’epidemia. Essi indicano che ci sono ancora grandi cose da fare per cambiare la traiettoria a lungo termine dell’epidemia e per incidere sul numero delle persone che contrarranno l’infezione.
Di fronte a una crisi che supera l’attuale capacità di reagire, non tutto può essere fatto subito. Non c’è un rimedio miracoloso. L’Hiv/Aids è un evento di lunga durata.
Tutto dipende da come e da chi viene affrontata la crisi in Africa. Il risultato delle azioni intraprese deve tenere in considerazione la cultura locale, i valori e significati nell’elaborazione delle politiche da seguire. Ma anche l’identità religiosa sembra giocare un ruolo importante. Tuttavia, risposte efficaci possono essere raggiunte solo con un effettivo impegno e supporto dal centro.
La vulnerabilità sociale, economica e fisiologica delle donne nei confronti dell’Hiv è evidentissima; ma non sono state adeguatamente implementate politiche e azioni per meglio favorire la loro protezione. È di capitale importanza prendere misure per migliorare il loro status nella società: istruzione obbligatoria per tutte le ragazze, eliminare la violenza sulle donne, garantire loro uguale accesso alla proprietà, rendite e lavoro. Una soluzione efficace del problema della parità tra i sessi, si riverbera necessariamente sulla riforma di altri settori in campo sociale, economico e politico.
Finora, la volontà delle comunità di prendersi cura dei bambini orfani è stata notevole, ma la natura ricorrente e ciclica della crisi dell’Aids potrebbe condurre all’esaurimento di questa volontà. Alteative più a lungo termine devono essere pianificate oggi. Gli scenari mostrano come l’investimento nei bambini sia una risorsa del futuro e il mantenere i genitori sani e vivi contribuisca in modo significativo ai risultati generali in questa lotta.
L’impatto psicologico dell’epidemia, in generale, è stato poco studiato. La salute mentale, come quella fisica, deve essere inclusa nei programmi di prevenzione, trattamenti e cure.
Infine, gli scenari dimostrano chiaramente che non conta solo quanto si spende per i programmi di lotta all’Hiv/Aids, ma come e in quale contesto: l’aumento delle spese dovrebbe mirare a ottenere miglioramenti significativi nel frenare la diffusione dell’Hiv, mitigae l’impatto e facilitare l’accesso alle terapie.

Uso degli scenari

Lo sviluppo degli scenari è solo il primo passo: essi sono studiati e applicati in modo efficace attraverso processi interattivi, che incoraggiano chi li usa a riflettere sulle ipotesi e sui giudizi individuali e collettivi. Con tali scenari il progetto Unaids spera di:
1. aumentare la comprensione dell’Hiv/Aids e delle forze che ne delineano il futuro nel continente;
2. far crescere la consapevolezza (e la possibile sfida) delle percezioni, credenze, ipotesi e mappe mentali in cui si radica l’epidemia;
3. aumentare l’intesa reciproca tra le varie parti, per creare un linguaggio comune con cui discutere il problema dell’Hiv/Aids in Africa;
4. aumentare la consapevolezza e la comprensione dei fattori, forze guida e incertezze fondamentali (e loro relazioni) che determinano il futuro dell’Hiv/Aids;
5. stimolare la presa di coscienza dei dilemmi posti e scelte da fare;
6. identificare le lacune da colmare e l’ordine in cui farlo, accompagnando organismi e paesi dal punto di partenza fino al raggiungimento degli scopi prefissati;
7. creare e sviluppare piani, strategie e politiche; e poi valutare o sfidare la validità e consistenza di ogni visione e strategia;
8. analizzare le situazioni specifiche, i rischi e le opportunità concrete di un dato paese o regione;
9. fornire lo sfondo per una storia specifica che necessita di essere raccontata, per creare passione e sostegno per una politica concreta.

Problema tempo

Costruire scenari significa impegnarsi con il tempo: presente, passato e futuro assumono significati diversi nei tre scenari.
In scelte inflessibili il tempo è intergenerazionale: passato, valori ancestrali, identità storica e familiare danno forma al presente; le azioni del presente hanno conseguenze non solo per la generazione attuale, ma anche per quelle a venire.
In retaggi del passato il tempo è breve, il ritorno dei risultati deve essere immediato, gli obiettivi sono legati a un tempo determinato e le azioni si misurano in termini di mandati politici. Eventi a lungo corso come l’Hiv/Aids non rispondono bene alla brevità del tempo.
In tempi di transizione si parla più della profondità del tempo che della sua durata. Le transizioni e trasformazioni immaginate potrebbero aver bisogno di generazioni, che si susseguono in maniera consequenziale. Ma questo scenario parla di un mondo in cui i passaggi bruschi e la sinergia sono metafore dominanti: i progressi contro l’epidemia sono rapidi perché generati da altre transizioni che avvengono simultaneamente.
Gli scenari permettono un impegno a più dimensioni su un problema e foiscono un quadro più completo da esplorare. Ciò che essi offrono è il punto di partenza per avviare un processo; il loro valore sarà evidente nel momento in cui essi saranno ampiamente diffusi, discussi e usati.
Soprattutto, questi scenari ci dicono che, mentre da un lato qualsiasi azione intrapresa è in ritardo per i milioni di persone già morte di Aids, dall’altro è ancora possibile cambiare il futuro di altri milioni di persone. Ma non c’è tempo da perdere.

(Da: AIDS in Africa: Three Scenarios to 2025, sezioni 1-2-8, traduzione e sintesi di E. Zanchi, F. Mazzarella e Laura Picchio)

a cura di Unaids ( E. Zanchi)




Qui e altrove

Prima di andare in casa altrui, andiamo a vedere cosa succede in casa nostra. In Italia, a un calo del numero delle persone colpite da Aids, corrisponde un aumento di problematiche sociali ad esso relazionate. Con alcuni luoghi comuni da sfatare.

S e la malattia e la morte sono esperienza comune di tutti gli esseri umani, il luogo in cui una persona nasce incide profondamente sulle diverse opportunità di vita dei vari individui. Il fatto di nascere e vivere in paesi dove sono possibili diagnosi, cura e prevenzione, pone alcuni in una posizione di enorme privilegio rispetto ad altri. Questo vale in particolare per l’infezione da Hiv/Aids, da cui non si può ancora guarire, ma che evidenzia le enormi differenze di quantità e qualità di vita che esistono tra persone che vivono in paesi ricchi ed altre che vivono in paesi poveri, disuguaglianze valutabili non solo in termini di cure farmacologiche.
I dati ufficiali foiti dall’Unaids, agenzia delle Nazioni Unite che si occupa del fenomeno Aids a livello mondiale, ci dicono che, a dicembre 2005, le persone che al mondo vivevano con l’infezione da Hiv erano in totale 40,3 milioni, di cui 25,2 milioni nell’Africa subsahariana. Il continente risulta il più colpito sia per numero di nuove infezioni che di morti, registrati nel corso del 2005 (vedi statistiche complete a pag. 35).
In Europa occidentale, le persone che convivono con l’infezione da Hiv sono circa 720 mila, mentre le nuove infezioni sono state calcolate, nel 2005, in circa 22 mila (erano 18 mila nel 2002); il numero dei morti accertati si aggirerebbe, invece, intorno ai 12.000.

Il caso italiano

In Italia, come in quasi tutti i paesi occidentali, è rallentata in questi anni l’incidenza di nuovi casi di Aids ed è cresciuta la speranza di vita di chi è sieropositivo. Ciò sembra aver generato nei più l’idea che l’infezione da Hiv non faccia più paura e che l’Aids sia stato sconfitto. Certamente, dopo il picco dei primi anni ’90, si è verificata una diminuzione del numero di nuovi casi di Aids conteggiati ogni anno, tanto che il numero di nuovi casi, diagnosticati nel 2004, è pressoché identico a quello riportato nel 1988; ma il numero delle persone che oggi vivono con l’Aids è almeno 10 volte superiore ad allora. Le cifre ufficiali ci dicono che, alla fine di dicembre 2004, le persone che in Italia vivevano con l’Aids erano 20.460, due terzi delle quali nel solo territorio di Lombardia, Lazio, Emilia Romagna, Toscana, Piemonte e Liguria.
Accanto al numero noto dei malati di Aids, resta il numero (in realtà solo ipotizzabile, perché al di fuori di ogni possibilità di conteggio), delle persone sieropositive. Si stima che nel nostro paese vivano attualmente tra le 110 e le 130 mila persone sieropositive. Questa cifra è comprensiva sia di chi è a conoscenza della propria situazione, ma anche di coloro che non sospettano minimamente di essere stati contagiati. Nel nostro paese, la metà circa dei casi delle persone che si pensa abbiano contratto un’infezione da Hiv non sono consapevoli della loro situazione, fino al momento in cui la malattia non si rende evidente attraverso i segni inequivocabili dell’Aids. Ciò significa che, grazie agli enormi passi avanti fatti in campo terapeutico, con cure che permettono una più lunga aspettativa di vita anche a chi ha già la malattia conclamata, ogni anno aumenta costantemente il numero di persone sieropositive o con l’Aids che vive accanto a noi.
La percezione collettiva è che, oggi, l’Aids in Italia sia un fenomeno in grado di autolimitarsi, che richiede meno impegno, meno servizi e meno risorse. Come conseguenza, sarebbe quindi urgente spostare attenzione, impegno e risorse su progetti riguardanti persone con Aids in altri continenti.
Attenzione, impegno, servizi e risorse devono certamente essere indirizzate a creare partnership significative con coloro che vivono con l’Aids in Africa e altrove, senza però dimenticare che anche le persone con Hiv/Aids che ci vivono accanto sono portatrici di bisogni complessi e rilevanti, sicuramente di tipo sanitario, ma anche – e molto spesso – di tipo sociale, psicologico e relazionale; persone che rischiano di vivere le loro situazioni in totale solitudine.
I farmaci allungano la vita, ma non sono in grado di restituirla alla sua integrità; la vita continua dopo la diagnosi di Aids, ma purtroppo, su questa si infrangono spesso tanti progetti di autonomia, di relazioni, di lavoro. La vita, che in qualche misura viene restituita, deve fare i conti con disabilità residue, con compromissioni fisiche e psichiche, con gli effetti collaterali delle terapie. Spesso, inoltre, va a scontrarsi con problematiche preesistenti la malattia, con dinamiche familiari e personali compromesse, che è difficile recuperare e che richiedono, spesso, il sostegno di strutture e operatori, espressi per lo più dal privato sociale.

Casi insospettabili

Nel tempo, sono variate sensibilmente le modalità di trasmissione: si è verificato un aumento percentuale delle infezioni attribuibili a un contagio per via sessuale (omosessuale ed eterosessuale) con una diminuzione delle altre modalità di trasmissione. La trasmissione attraverso rapporti eterosessuali (dovuta a rapporto con partner sieropositivo, dell’altro sesso) è stata la modalità di contagio più frequente nell’ultimo anno.
Anche se la fascia giovanile è sempre la più rappresentata (il 69,7% ha un’età compresa tra i 25 e i 39 anni), è aumentata la quota di persone con Aids al di sopra dei 40 e persino dei 60 anni. Oggi, in Italia, accanto ad un numero ridotto di morti per Aids e di pazienti terminali, i servizi dedicati a persone con Hiv/Aids si trovano ad affrontare problematiche socio-sanitarie sempre più complesse.
Queste sono portate sia da persone provenienti da percorsi con difficoltà di integrazione (uso di droghe, alcol o marginalità sociale), ma anche, sempre più spesso, da coloro che hanno contratto l’infezione attraverso rapporti eterosessuali.
Fra questi figurano soggetti più che cinquantenni, uomini e donne socialmente integrati e, nella maggior parte dei casi, ignari a proposito della loro sieropositività. Soggetti che svolgono abitualmente il ruolo di padre-madre e di marito-moglie all’interno delle loro famiglie, ma che, all’emergere della malattia, sperimentano la difficoltà di mantenere saldi tali legami familiari.
Sempre più spesso, in Italia, incontriamo persone straniere, provenienti da contesti geografici e culturali estremamente eterogenei; dette persone rimangono spesso prive di supporti familiari, ma anche amicali, per il problema avvertito di rivelare il loro stato di salute a parenti o connazionali. A ciò, si associa talvolta la condizione di irregolarità, che richiede l’attivazione di percorsi specifici per l’accompagnamento alla cura del malato e per il riconoscimento dei suoi diritti fondamentali.
Oggi più che mai, siamo chiamati non solo a «non discriminare», ma ad accogliere e sostenere chi è colpito dall’Aids (come da ogni altra forma di malattia cronica e inguaribile) accompagnando i malati e le loro famiglie: soggetti che, troppo spesso, non trovano luoghi di senso, conforto e ascolto in cui poter liberamente esprimere la propria sofferenza.
Non si tratta di promuovere soltanto gesti «profetici» o creare luoghi appositamente dedicati, quanto di aprirci alla quotidianità e alla ferialità dell’incontro con altre persone affette, in questo caso, da Hiv/Aids; persone che molto sovente vivono accanto a noi. Sarebbe un primo passo verso l’accoglienza «possibile» e sincera della persona colpita dal virus. Senza avere l’alibi di doversi occupare dei «lontani» e di non aver modo di badare ai «vicini».

Laura Rancilio