Bolivia. Evo, il presidente aymara
Su Evo Morales Ayma, il primo presidente realmente indio delle Americhe, pesano molte aspettative, in patria e all’estero. Dovrà affrontare temi spinosi come la gestione delle ingenti risorse di gas, la produzione di foglie di coca, la ricerca di uno sbocco al mare, i difficili rapporti con Washington. Con Evo Morales abbiamo parlato in un incontro avvenuto prima della sua netta vittoria alle elezioni del 18 dicembre 2005. Questo è il resoconto di quella conversazione.
La Paz. L’ufficio del Mas, all’interno del palazzo del Congresso, è pieno di manifesti popolari. Nessun mobile di pregio, nessun orpello, nessuna segretaria giovane ed attraente. Insomma, non ha nulla di un ufficio di rappresentanza. Santos Ramirez Valverde mi riceve per un’intervista su tematiche economiche. Al termine, quasi pro forma, domando se è possibile incontrare Evo Morales. «Non è a La Paz, ma domani dovrebbe esserci – mi risponde -. Vediamo se possiamo prendere un appuntamento». Fa una telefonata. «Allora, è per domani mattina, alle 8.30». Un colpo di fortuna, penso. Ma sarà vero?
Francisco Ibar Arocha, proprietario del Sagaaga, l’albergo dove alloggio, è un imprenditore e in quanto tale mi guarda con faccia interdetta quando gli dico che incontrerò Evo Morales. Poi però mi suggerisce una serie di domande… Il giorno seguente, di buon mattino, mi presento all’appuntamento nel palazzo del Congresso. E puntualmente mi fanno entrare nell’ufficio di Evo Morales. L’iconografia del personaggio è come uno si attende: volto indio, capelli nero corvino, vestiti popolari.
La Bolivia è un paese a netta maggioranza indigena. E lei non perde occasione per ricordare la sua appartenenza india…
«Perché non dovrei? Io sono di stirpe aymara. Sono nato nel 1959, a Orinoca, nel dipartimento di Oruro. Poi sono emigrato con la mia famiglia nella regione del Chapare, nel dipartimento di Cochabamba. All’inizio degli anni Ottanta sono entrato nel sindacato del Tropico, dove sono arrivato a coprire la carica di segretario generale.
Nel 1998 ho assunto la presidenza del Mas, il Movimiento al socialismo. Insomma, io provengo dalle lotte sociali e non ho una formazione accademica».
Il Mas è cresciuto come movimento di protesta dei produttori di foglie di coca. Non le pare un po’ limitato?
«Non è così. Il Mas è un partito politico che è nato e affonda le sue radici nei movimenti sociali.
Nel 1992, il movimento contadino, durante il suo congresso, decise di dotarsi di uno strumento politico per arrivare alla liberazione e alla sovranità delle popolazioni. Proprio in quell’anno cadevano i 500 anni dall’inizio della resistenza indigena e popolare. Il Mas era lo strumento giusto per passare dalla resistenza alla presa del potere, dalla protesta alla proposta.
Nel 2002 il Mas era la seconda forza politica del paese, oggi è diventata la prima. Assieme ai movimenti sociali e ai movimenti intellettuali, il Mas vuole essere uno strumento politico per cercare di cambiare il sistema economico e politico».
Il sistema è quello neoliberista. Qual è l’analisi del suo movimento?
«Abbiamo sperimentato il neoliberismo non soltanto all’interno della Bolivia, ma anche nel resto dell’America Latina. Da tempo siamo giunti alla conclusione che esso non soltanto non è la soluzione, ma anzi è la causa delle crisi economiche e dell’instabilità dei governi. L’Argentina era il paese simbolo di questo sistema economico e sappiamo tutti che fine ha fatto. Anche il Cile, altro paese additato a modello, oggi è attraversato da ondate di protesta».
La Bolivia è un paese con enormi ricchezze minerarie, di gas in particolare. Eppure, dopo Haiti, è il paese più povero dell’America Latina…
«Le risponderò con una frase che ha detto il premio Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel: “Sulla nostra ricchezza ci siamo impoveriti”.
Il modello economico del sistema capitalista purtroppo è fondato innanzitutto sul saccheggio delle nostre ricchezze e delle nostre risorse ad opera delle transnazionali, della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Pare assurdo, ma la stessa ricchezza ha generato la povertà».
Se questo è il problema principale, come pensate di risolverlo?
«Ponendo fine al saccheggio, attraverso il recupero della proprietà del suolo e del sottosuolo. Questa è la richiesta di tutti i movimenti sociali boliviani.
Ma lo sa che la Bolivia fu il primo paese latinoamericano a nazionalizzare? Oggi i benefici sono tutti per le imprese transnazionali e non per le popolazioni della Bolivia».
Dunque, è lo stato che deve gestire le risorse della Bolivia?
«Lo stato con la partecipazione del popolo».
Lei insiste molto sul saccheggio messo in atto dalle imprese transnazionali. Ma la Bolivia può fare a meno di esse?
«Certamente ci sarà la necessità di tecnologia, esperienza, macchinari e per questo avremo bisogno di collaborare con altri paesi. Ma il saccheggio delle risorse del popolo boliviano deve terminare! Un saccheggio, tra l’altro, legittimato dalla nostra legge di capitalizzazione».
Quella che in Bolivia si chiama «capitalizzazione» è una sorta di «privatizzazione»?
«Sì, la legge di capitalizzazione è un sinonimo di privatizzazione. Noi la contestiamo perché non ha favorito l’importazione di capitali ma l’esportazione, con la conseguenza (paradossale) che invece di capitalizzare il paese lo si è decapitalizzato. In questo modo invece di progredire si è prodotta ancora più povertà e disoccupazione. C’è anche una transnazionale del suo paese, la Telecom Italia, proprietaria di Entel. L’azienda italiana ha fatto milioni di dollari di profitti in questi ultimi anni».
Dalla guerra del Pacifico del 1879, la Bolivia è priva di un accesso al mare. È una questione rilevante per il paese?
«Certamente! La Bolivia è stata fondata con un accesso al mare. Il problema è strettamente connesso con la questione del gas. Infatti, il movimento indigeno ha preso posizione sul tema del gas e lo ha fatto in connessione con il problema dell’accesso al mare. Adesso che la questione non è più soltanto a livello nazionale ma è diventata internazionale, si è aperto uno spiraglio affinché la Bolivia torni ad avere un accesso al mare.
Vogliamo evitare di creare conflitti regionali, ma allo stesso tempo non vogliamo restare condizionati da una situazione che è stata creata da un conflitto e che resta tuttora pendente. Siamo contenti dell’interessamento della comunità internazionale perché questo è un problema multilaterale».
La sua opinione su Gonzalo Sánchez de Lozada detto Goni e su Carlos Mesa.
«Goni era un imprenditore neoliberista. Il popolo si è sollevato contro di lui, ma non è riuscito a finirla con il modello economico che egli rappresentava. Oltre a ciò è un fascista e un razzista. Adesso è scappato a Miami, sicuramente portando con sé molto denaro, frutto della corruzione e dei saccheggi. Nel caso di Mesa pensavo che almeno sarebbe stato un riformista neoliberale, ma invece ci siamo trovati con un continuismo d’impresa. Il presidente ha continuato a dialogare con le imprese transnazionali senza ascoltare i movimenti sociali. Quindi Mesa non ha capito il sentimento e le intenzioni del popolo boliviano, questa è la realtà».
Insomma, a suo parere, uno vale l’altro?
«Mesa parla meglio lo spagnolo di Goni, ma purtroppo suonano la stessa musica sulle tematiche politiche».
Per decenni gli Stati Uniti hanno considerato il Sud America come il loro «cortile di casa». Come giudica quel paese o meglio la sua politica?
«Pensiamo a come gli Stati Uniti hanno disegnato l’intervento in Iraq: hanno detto che là c’era Saddam dotato di armi di distruzione di massa, che però non esistevano. In tal modo hanno giustificato un intervento militare per accaparrarsi delle risorse e in particolare gli idrocarburi per le loro imprese. La scusa di Washington per l’America Latina è il narcoterrorismo, ovvero una giustificazione politica per permettere alle transnazionali di quel paese di sfruttare le risorse. Insomma, in Iraq hanno usato un pretesto, in America Latina ne usano un altro.
Siamo in questa congiuntura politica: quando la democrazia non serve all’impero, si fanno colpi di stato. Basti pensare a questa cospirazione permanente contro il Venezuela. Per questo noi vogliamo aiutare e appoggiare concretamente il presidente Hugo Chávez e la democrazia in Venezuela, che fra l’altro ha appoggiato la nostra richiesta di avere un accesso al mare».
In Italia, i media, soprattutto quelli importanti, l’hanno descritta quasi esclusivamente come leader dei cocaleros. Può spiegare i termini della questione coca?
«Innanzitutto occorre dire che la foglia di coca, allo stato naturale, non fa nessun danno alla salute umana. Ci sono, ad esempio, molte imprese che fanno un uso industriale della foglia di coca per ottenere per esempio una specie di whisky o altri prodotti destinati al mercato europeo o degli Stati Uniti. Anche secondo gli studi dell’Oms, la foglia di coca allo stato naturale non è dannosa. Quindi, non possiamo dire che i produttori di foglie di coca siano narcotrafficanti, né che i consumatori di esse siano tossicodipendenti, anche se questa è la visione che hanno alcuni paesi.
In Chapare ci sono circa 60 mila famiglie che vivono della produzione di foglie di coca, un prodotto che finisce sul mercato interno, locale e nazionale».
D’accordo, ma Washington la accusa di essere un narcotrafficante…
Tanto che, nel 2002, l’ambasciatore Usa in Bolivia, Manuel Rocha, fece campagna elettorale contro di lei…
«Noi diciamo che si deve affrontare il problema del mercato illegale della foglia di coca per la produzione della cocaina. Noi non siamo difensori del narcotraffico. Anzi, il narcotraffico ci è stato imposto. I precursori, ovvero gli agenti chimici necessari per trasformare in droga le foglie di coca, provengono dagli Stati Uniti; senza dire che, per trattare chimicamente le foglie di coca, sono necessari investimenti di parecchi milioni di dollari; infine, c’è il segreto bancario che ostacola tutto. Insomma, c’è un narcotraffico in doppiopetto, che non viene mai messo in galera e coinvolti in questo business ci sono persino stati e governi. O ambasciate di paesi stranieri in Bolivia… Io dico che, purtroppo, la coca non è altro che un pretesto affinché gli Stati Uniti possano controllare meglio il nostro paese».
Lei ritiene che la lotta alle coltivazioni dei cocaleros sia una scusa dietro cui si celano altri obiettivi?
«Certamente questo è un modo per criminalizzarci. Guardiamo alla storia. I movimenti sociali degli anni ’50 e ’60 erano accusati di furto e di essere comunisti; negli anni ’80 e ’90 siamo stati accusati (io ero già sul campo) di essere narcotrafficanti; a partire dall’11 settembre del 2001, non ci hanno più accusato di essere narcotrafficanti, ma di essere terroristi. Tutto questo ovviamente serve per demonizzare ed isolare questo movimento. In sostanza, se tu sei antimperialista, ti accusano sistematicamente di essere comunista, terrorista, narcotrafficante.
Si pensi al Cile dove, nella zona di Temuco, la regione dei mapuches, vari dirigenti indigeni sono stati incarcerati. Erano alla guida di grandi proteste, legali dal punto di vista costituzionale. Per poterli fermare e chiudere in carcere, hanno dovuto dire che erano terroristi. Queste accuse vengono costruite per reprimere le lotte dei movimenti. Anche il Mas è spesso esposto al rischio di vedere i propri dirigenti oggetto di montature per fini politici.
Personalmente, sono oramai abituato a essere accusato di tutto. In passato, i servizi di intelligence degli Stati Uniti mi hanno accusato di essere vincolato con le Farc della Colombia, adesso dicono che sono alle dipendenze di Chávez».
Nonostante i problemi, lei è ottimista sulla possibilità di cambiare la Bolivia senza violenza, senza guerra civile, attraverso mediazioni pacifiche?
«Da quando abbiamo scelto di entrare nel processo elettorale, abbiamo innanzitutto deciso di cercare di ottenere modifiche profonde ma sempre attraverso strumenti pacifici. Non ci sono soltanto le questioni delle risorse del sottosuolo o delle foglie di coca, ci poniamo anche il problema di come incorporare in questa democrazia formale la democrazia delle comunità. Per esempio, in tema della giustizia attualmente si riconosce solo la giustizia politica e non si prende in considerazione la giustizia comunitaria. Ma ci sono molti altri temi: l’istruzione, le forze armate, che tipo di economia adottare. E ancora come fare una nuova assemblea costituente che permetta di ammodeare la Bolivia che, nelle linee generali, è stata definita all’atto della sua fondazione. Da quel momento però gli indigeni sono stati esclusi dal processo di formazione del paese. Eppure, secondo l’ultimo censimento del 2001, essi costituiscono il 62% della popolazione totale. Oramai non mancano più studenti o imprenditori di etnia quechua, aymara o guaranì, ma a volte, di fronte ai censimenti, le persone mentono sulla loro appartenenza etnica. Quindi, 62% è il valore ufficiale ma in realtà la percentuale di popolazione indigena è superiore.
Da questo momento dovremo procedere a un profondo rinnovamento della Bolivia e questa trasformazione dovrà essere democratica e pacifica».
Paolo Moiola
Paolo Moiola