Un bambino ci salverà

La chiesa in Ciad vive eventi simili a quelli presenti nel racconto evangelico del paralitico: le folle bussano alla porta della chiesa, malattie e guerra paralizzano la società, africani, donne e uomini, si fanno carico dei problemi della propria gente, tradizioni culturali ne congelano le aspirazioni di liberazione, giovani sensibili all’invito di Cristo di alzarsi e camminare con le proprie gambe: la salvezza dell’Africa dipende dagli africani; a noi il compito di assecondare tale cammino.

Prima di partire per un soggiorno prolungato (3 mesi e mezzo) nella missione di Fianga (Ciad) affidata a 3 preti Fidei donum di Treviso, mi è stato chiesto di raccogliere alcune informazioni e riflessioni su questo paese che è piuttosto sconosciuto. Vorrei farlo, a esperienza conclusa, sulla falsariga del racconto evangelico della guarigione del paralitico.
Si tratta indubbiamente di un modo singolare di raccontare, ma potrebbe essere un genere letterario molto appropriato quando si voglia «raccontare la missione».

LA RESSA… AMBIGUA

«Quando si seppe che Gesù era in casa, si radunarono tante persone da non esserci più posto neanche davanti alla porta».
L’impressione che in Ciad si faccia ressa davanti alla porta della chiesa è molto netta, specialmente nei giorni di festa. Si possono vedere fiumane di gente, dai vestiti sgargianti, che si affrettano verso chiese, aree sacre, o all’ombra di immense piante, dove si celebra la preghiera domenicale con o senza eucaristia.
Questo è tanto più stupefacente, se si pensa che il cattolicesimo è entrato piuttosto di recente in Ciad. La missione di Fianga, per esempio, non ha neppure 50 anni. La popolazione di questa nazione, che si autorappresenta come paese musulmano dal punto di vista dell’appartenenza religiosa, può essere divisa a metà, se da una parte si collocano i musulmani (51%) e dall’altra si mettono insieme seguaci delle religioni tradizionali e cristiani (protestanti e cattolici).
C’è ressa anche di richiedenti il battesimo. Nella sola missione di Fianga sono in media 200 gli adulti che chiedono di incominciare l’itinerario della preparazione al battesimo, anche se, poi, dopo i 3-5 anni di preparazione non ne resterà che una quarantina.
Questi dati sembrano tanto più lusinghieri, se si tiene conto di quanto mi è stato detto da un vecchio missionario del nord Camerun: l’attuale crescita dell’islam è più di carattere fisiologico e non più di carattere propulsivo, come sembrava essere nelle decadi 70-80 del secolo scorso.
Tuttavia questi dati non sono in grado di giustificare alcun trionfalismo. Molti preti locali, che d’altronde stanno diventando sempre più numerosi, sembrano più attratti dal ruolo che chiamati alla sequela di Gesù, pastore che dà la vita. La loro richiesta di amministrare il battesimo ai bambini segnala la tendenza a una pastorale di conservazione e di contenimento, piuttosto che a una pastorale missionaria. La debolezza delle motivazioni che li conducono al sacerdozio ha pesanti ripercussioni sul loro stile di vita. In genere non li ho visti molto motivati ai problemi di inculturazione del cristianesimo.
La produzione dei testi della bibbia e della liturgia sembra essere più la preoccupazione degli stranieri che dei locali. Per quanto riguarda i battezzati non è raro il caso che un certo numero di essi tornino a certe pratiche ancestrali, abbandonando di fatto la vita cristiana.
La maggioranza dei richiedenti il battesimo è costituita generalmente da giovani appartenenti a famiglie cristianizzate o per lo più di religione tradizionale. «La ressa» che si nota alle porte della chiesa nasconde, quindi, ambiguità e debolezze che potrebbero compromettere l’incontro forte e personale con Gesù Cristo.

I MALI PARALIZZANTI

«Si recarono da lui con un paralitico».
Il Ciad può essere raffigurato dal paralitico? Oggi è un po’ rischioso parlare «dell’Africa del dolore, della fame, della morte…».
Le classi medio-alte africane, assecondate dai mass media occidentali desiderosi di cancellare ogni traccia di neo-colonialismo, rifiutano questa immagine dell’Africa. Non è così in America Latina, dove la presa di coscienza collettiva e dichiarata dei propri mali provoca dinamiche di liberazione. Non vorrei che tale atteggiamento delle classi medio-alte africane significhi una presa di distanza rispetto alle masse dei poveri del continente e un occultamento delle loro condizioni di vita.
Durante il periodo che ho passato nella missione di Fianga ho avuto la forte sensazione che il tema della vita costituisca il messaggio centrale del cristianesimo della savana, la quale resta un luogo dove la vita sembra minacciata dalla onnipresente signoria della morte. Le minacce più violente sono costituite dalla malaria e dall’Aids.
La malaria, più di tutto. La morte per malaria sembra ancora più gratuita, perché è conosciuta e curabile. Ma quando è unita a una mancanza cronica di alimentazione bilanciata, alla tenace resistenza di pregiudizi legati alla cultura tradizionale, alle distanze che separano le persone dai dispensari e ancor più dall’ospedale, all’assenza di mezzi di trasporto, all’impraticabilità delle vie di comunicazione, essa è all’origine di un numero così elevato di morti da creare l’impressione di trovarsi di fronte a una qualche forma di peste.
Il tema della vita e, perciò, il tema della liberazione dalle cause strutturali, ambientali, igienico-sanitarie e culturali che la minacciano è, forse, il motivo profondo che determina l’attrazione avvertita da molti africani della foresta verso Gesù guaritore.
«Il grido dell’uomo africano» come è stato definito dal teologo camerunese J. Marc Ela, è un grido che reclama vita e liberazione.

GUERRA E TURBOLENZE

A questi fattori di morte si unisce ora la guerra. Una guerra strana che riguarda direttamente alcuni territori, soprattutto quelli frontalieri con il Sudan e, particolarmente, con il Darfour. Bisogna tentare di individuare nella migliore maniera possibile, le dinamiche di questa strana guerra e le sue conseguenze sulle popolazioni.
Da più di 2 anni affluiscono verso il Ciad i rifugiati della regione del Darfour, cacciati da ribelli armati, i cui collegamenti con il governo di Khartoum sono avvolti da una complice oscurità. La fuga verso il Ciad era favorita non solo dalla vicinanza con il Sudan, ma anche dal fatto che le popolazioni profughe appartenevano, in genere, alla stessa etnia del presidente ciadiano. Esse, perciò, confidavano in una qualche solidarietà etnica con «il fratello presidente».
Ma all’interno del clan presidenziale, in questi ultimi mesi, si è sviluppata una lotta intestina durissima, determinata, molto probabilmente, dalla spartizione del potere e delle risorse: da 3 anni il Ciad è un paese produttore di petrolio. Gli «oppositori» trovano, perciò, nella regione del Darfour un ambiente favorevole per stabilire alleanze e svolgere eventuali incursioni in territorio ciadiano. Dal mese di dicembre 2005 si è creato uno stato di belligeranza tra il Ciad e il Sudan, il cui esito finale è estremamente incerto.
Il resto del paese apparentemente non sembra sfiorato dalla guerra, anche se alcune situazioni fanno capire che, di fatto, il Ciad si trova in un periodo di turbolenza.
Fra queste segnalo le retate di giovani che, specialmente nei mercati della capitale, vengono fatte dalla polizia che poi, dopo averli rasati e rivestiti di casacca militare, provvede a inviarli al fronte. Insegnanti e personale medico e paramedico da mesi non vengono pagati, creando una forte inquietudine sociale.
Questi e altri fattori fanno capire che i soldi che restano, dopo il saccheggio operato da una voracissima corruzione, vengono utilizzati per la guerra, piuttosto che per lo sviluppo del paese.

I BARELLIERI

«Il paralitico era portato da 4 uomini».
Chi sono i 4 volontari che si fanno carico del popolo della savana, paralizzata dai suoi molti mali? Durante il mio ultimo soggiorno ho avuto la conferma che non siamo noi, i bianchi, i barellieri dell’Africa.
Essi sono africani, anche se per il momento sembrano essere maledettamente pochi e anche se per ora non hanno raggiunto quella dimensione collettiva che caratterizza, invece, i popoli e i credenti latinoamericani.
È giusto ricordare almeno alcuni di questi barellieri che, a mio parere, costituiscono il fermento pasquale, che è all’opera all’interno di una situazione apparentemente stagnante.
Ricordo Arsène, un giovane medico ciadiano di 34 anni, padre di 4 figli. Laureato a N’djamena, scarta l’ipotesi di farsi un gabinetto medico privato nella capitale, per inserirsi nel servizio pubblico. Viene assegnato all’ospedale di Fianga, lasciato già da alcuni anni da médécins sans frontières.
Prima di arrivare a Fianga fa uno stage nel campo specifico dell’Aids. A pochi mesi dal suo arrivo ha già messo in piedi un comitato per la lotta contro l’Aids, dove sono presenti 2 suore cattoliche, alcuni membri delle chiese protestanti, un giovane musulmano.
Allo stesso tempo fa interventi chirurgici e pratica le cure mediche che sono possibili. Nonostante qualche fallimento che gli brucia dentro, continua con passione la sua lotta personale contro «la signoria della morte», che sembra dominare senza efficace contrasto nella zona.
Un efficace ruolo di barelliere è svolto da suor Maria Albert, settantenne senegalese, che dal mattino alla sera visita malati di ogni tipo ed entra nelle case di tutti, accolta con affetto da musulmani e cristiani e non cristiani. Con i suoi metodi, pur ispirati a un cristianesimo di altri tempi e da una molto improbabile farmacopea, riesce a convincere molti malati di Aids a dichiararsi, a sottomettersi al test.
Considero barellieri due signori, nativi di un grosso villaggio, che hanno il coraggio e il potere di far mettere in prigione il temutissimo e intoccabile «capo locale», che aveva bastonato a morte il loro fratello trentenne.
Anche Pascal, responsabile del centro per disabili, fisioterapista autodidatta, fa parte a mio parere del gruppo di barellieri. Con il tempo si è fatto un fiuto particolare per scoprire le persone colpite da handicap e metterle a contatto con il centro.
Infine, dentro questo ristretto gruppo di barellieri, inserirei il giovane emigrato, di ritorno da Douala, che sfida costumi e convinzioni ancestrali, facendo ricorso alla giustizia ordinaria che finisce per dargli ragione.
Sono tutti barellieri con un volto africano. L’opera di qualsiasi bianco sarebbe meno efficace della loro.

FARISEI… AFRICANI

«Seduti là, erano alcuni scribi che pensavano in cuor loro: perché costui parla così?».
L’azione liberatrice di Gesù viene criticata dagli scribi, cioè dai ringhiosi custodi delle leggi e delle tradizioni svuotate di anima e di senso. Nell’Africa profonda sono all’opera fattucchieri, impostori, gerarchie, che vogliono conservare immutabile il passato.
Certo, le culture, perché non di una sola si tratta, non possono essere liquidate come eredità inutile o, peggio, dannosa del passato. Negli anni ‘70, l’Africa ha riscoperto e riaffermato la sua autenticità e identità culturale, a dire il vero in maniera piuttosto sventurata in alcuni paesi, come l’ex Zaire di Mobutu, la Repubblica Centrafricana di Bokassa, il Ciad di Tambalbaye. In ogni caso, la sua cultura costituisce la spina dorsale di un popolo e delle sue strategie di organizzazione sociale e di resistenza.
Tuttavia, nel delicatissimo film Yaaba (nonna), successivo a quel periodo, opera di un regista africano, si ebbe il coraggio di guardare in maniera critica agli aspetti disumani legati al rispetto di certe tradizioni. Il compito di superarli fu affidato, nel film, a un bambino, che nell’innocenza del suo rapporto con una donna anziana, proscritta dalla comunità perché considerata come «strega», ha messo a nudo i limiti e le disumanità di certi comportamenti indotti dalla rigida osservanza della tradizione.
La sfida dell’inculturazione nei diversi paesi africani ha bisogno anche di questi occhi e comportamenti innocenti, liberi e liberati dalla paura.
Congelare le tradizioni e le culture africane, nonostante il mutamento dei tempi, è lo stesso che distruggerle e risponde più agli impossibili sogni degli occidentali che alla ricerca degli africani.

FACCIAMO TIFO

«Ti ordino: alzati e va a casa tua!».
«Alzati e cammina»: è lo slogan della campagna proposta alla gioventù cristiana del Ciad per quest’anno. Con due numerosi gruppi di giovani ho realizzato due ritiri e qualche incontro su questo tema.
La gioventù ciadiana sembra essere particolarmente sensibile a questo appello di Gesù. Penso che, per accoglierlo in profondità, i giovani devono superare due sfide: la prima è la titubanza, o addirittura la paura, che essi provano di liberarsi da maniere di pensare e agire, determinate da alcune tradizioni ancestrali. Credo che, razionalmente, essi riescano a vedee i limiti e la nocività, ma emotivamente è molto difficile opporvi una efficace resistenza.
La seconda sfida è costituita dall’attrazione del consumismo e dei modelli occidentali che esercitano un forte fascino su di essi.
«Africa, alzati e cammina»: se questo avverrà, gli africani lo dovranno solo a se stessi. A noi il compito di stare ai limiti dell’area, di offrire, quando richiesti, la nostra collaborazione e di fare tifo perché ciò avvenga.

Giuliano Vallotto

Giuliano Vallotto




Guerra strana… ma non troppo

Da mesi il Ciad è sull’orlo della guerra civile: gruppi ribelli ed esercito regolare si combattono nelle regioni dell’est e del sud del paese, ai confini con il Sudan e la Repubblica Centrafricana; il 14 aprile la guerriglia è arrivata nella capitale, N’Djamena, nell’ennesimo tentativo di rovesciare il presidente Idriss Deby, al potere dal 1990. Il colpo di stato è fallito, ma la tensione rimane; l’episcopato ciadiano teme una catastrofe nazionale.
Ad aggravare la situazione ha contribuito la modifica della Costituzione, per consentire al presidente un terzo mandato, e della legge del petrolio, per usae i proventi in spese militari, anziché in opere pubbliche a lungo termine, come imposto dalla Banca mondiale.
Tali cambiamenti hanno provocato diserzioni in massa dell’esercito inviato a sedare le ribellioni al confine con il Sudan, ma soprattutto tra gli alti ufficiali, quelli più vicini al presidente, passati dalla parte dei ribelli, raggruppati sotto diverse sigle: Fronte unito per il cambiamento (Fuc), Fronte unito per il cambiamento democratico (Fucd), Fronte per il cambiamento, l’unità e la democrazia (Scud), Movimento per la democrazia e giustizia del Ciad (Mdjt), Coalizione per la democrazia e la liberà (Rdl).
A prima vista sembrerebbe una lotta di potere tutta intea, tra i membri dello stesso clan di cui fa parte il presidente: gli zaghawa, originari del Darfour. Ma i burattinai che tirano le fila sono altrove.
La Francia, per difendere la stabilità politica nella regione e nel resto del continente, mantiene in Ciad un contingente di 1.200 soldati, offrendo aiuto logistico e informativo all’esercito regolare, come ha fatto durante il colpo di stato.
Gli Stati Uniti sono padroni delle finanze del paese attraverso la Banca mondiale, che finanzia le compagnie americane Exxon e Chevron Texaco nella trivellazione ed estrazione del petrolio, che dal bacino di Doha viene convogliato da un lungo oleodotto sulle coste atlantiche del Camerun.
La Cina fornisce armi e mezzi di trasporto ai ribelli, nella speranza di mettere le mani sulle risorse petrolifere, ancora inesplorate, della regione confinante con il Sudan, e convogliarle verso il Mar Rosso.
Di fronte alle turbolenze del Medio Oriente, l’Africa sta diventando la grande riserva petrolifera sulla quale si rivolgono le mire di Usa e Cina, sempre più assetata di oro nero. Il Ciad è una pedina strategica nel grande gioco per l’accaparramento energetico del futuro.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Un prete per la pace

A quarant’anni
dalla morte del prete «guerrigliero» colombiano Camillo Torres, la
chiesa continua a predicare l’astensione da ogni tipo di violenza, ma
non quella dall’impegno sociale, per la giustizia e la pace. La storia
di Giacinto (Jacinto) Franzoi, missionario della Consolata in Colombia,
incarna questo secondo cammino.

Nato a Trento nel 1943, in pieno conflitto mondiale, padre Giacinto Franzoi si definisce un «figlio della guerra». L’esperienza della fame, la grande povertà, la prematura scomparsa della madre e la dura esperienza del dopoguerra lo hanno forgiato, lasciandogli un carattere ribelle e un atteggiamento da leader nato, tratti che ancora oggi lo accompagnano e contraddistinguono.
La sua storia di missionario comincia da giovanissimo, quando suo padre lo fece entrare nel seminario della Consolata, l’unico modo che aveva per potergli offrire un’istruzione decente. Lì, ebbe modo di incontrare amici, ma anche di dover fare i conti con la disciplina che l’istituzione imponeva. Nonostante le difficoltà, l’unico momento di crisi che ricorda di quel periodo fu quando, in pieno noviziato, stava per cedere alle sirene di due importanti squadre di calcio, ben impressionate dalle sue gambe atletiche poste al servizio della squadretta dei missionari. Ma più del football poté la missione…
Nel 1978, venne inviato in Colombia, a Cartagena del Chairá, una piccola cittadina adagiata sulla riva del fiume Caguán, nella provincia meridionale del Caquetá. Del viaggio di andata gli sono rimasti ben impressi nella mente i 45 giorni di mare e l’improvvisa notizia della morte di suo padre, che lo colse nel bel mezzo della traversata atlantica. Dovette ricacciare indietro la tentazione di ritornare per poter andare a benedire la tomba del suo vecchio e tirò dritto per il suo cammino. Fu su quella nave che iniziò a scrivere il diario, un racconto che lo accompagnerà per anni e verrà pubblicato tempo dopo con il titolo: «Dio e coca».
«Arrivavo nel Caguán carico di tutto quanto avevo letto sulla teologia della liberazione: molti sogni albergavano nel mio spirito che è sempre stato un po’ rivoluzionario. Sul posto mi incontrai con rivoluzionari di altro tipo: i guerriglieri. L’incontro, devo ammettere, fu alquanto deludente: trovai una guerriglia che non aveva sostanza e aveva perso tutta la sua carica profetica», commenta al riguardo padre Giacinto.

UN’AMARA LEZIONE

I libri non avevano potuto prepararlo in anticipo su quanto avrebbe incontrato in quelle terre: la coca e la guerra. L’amaro apprendistato con la guerra iniziò immediatamente dopo il suo arrivo, quando le Farc (Forze armate rivoluzionarie di Colombia, il principale movimento guerrigliero colombiano, ndr) assassinarono due catechisti della parrocchia. Il sacerdote ricorda così quest’avvenimento: «Li crivellarono di colpi mentre andavano a cavallo e mi toccò seppellirli. La guerriglia non ha mai potuto sopportare chiunque avesse una posizione di preminenza all’interno della comunità. Come sempre accade quando c’è un funerale fra la nostra gente il cimitero era stracolmo di persone venute a dare l’estremo saluto a questi due concittadini. E lì – non potevo credere ai miei occhi – mischiati fra la gente c’erano anche i loro assassini. Scelsi il brano di Caino e Abele, dove si dice che l’assassino non deve essere perseguitato dagli uomini perché ha già ricevuto il proprio castigo: andrà per il deserto come un serpente, carico del rimorso per la sua colpa. Pare, però, che alla gente del nostro tempo queste parole suonino come leggende vuote che non provocano nessuna reazione».
Quasi per par condicio, la seconda amara lezione la ricevette pochi mesi dopo dall’ esercito governativo, che stava facendo operazioni militari nella zona. Arrivarono in forze, portando cadaveri di guerriglieri che pendevano appesi ad un elicottero; li lasciarono cadere dall’alto nella piazza centrale del paese. «Fu un vero e proprio insulto alla decenza», ricorda con rabbia padre Giacinto. Insieme a un funzionario del comune di Cartagena si recò immediatamente a reclamare i corpi dei guerriglieri morti per poter dar loro sepoltura, ma i soldati presero tempo, e non vollero procedere alla consegna dei cadaveri. Passò la notte e, al mattino successivo, i corpi erano scomparsi. «Mi dissero che erano dei banditi e che non meritavano nessuna sepoltura. Questa frase mi offese moltissimo. Nell’antichità si usava trattare con pietà il corpo di un nemico morto. Si rendeva onore al cadavere. Questa guerra, però, non sa neppure che cosa significa la parola onore».
Padre Giacinto non si arrese e continuò a cercare con determinazione nei campi intorno al paese, fino a quando, dopo tre giorni, scovò la traccia delle fosse scavate di fresco nel terreno del vecchio aeroporto di Cartagena. Giacinto, che non è solito «mandarle a dire» a qualcuno, non risparmiò una battuta ai militari che continuavano a seguirlo come ombre: «Andate a dire al presidente Turbay che il prete di Cartagena del Chairá è stufo di essere angariato e preso in giro. Perché l’esercito colombiano deve uccidere due volte i propri nemici?».
Giacinto fece ritorno in Italia, dove vi rimase per cinque anni. Arrivato nuovamente in Colombia, nel 1988, la situazione era peggiorata ulteriormente. Gli venne assegnata la parrocchia di Remolino del Caguán, un villaggetto che egli stesso aveva collaborato a fondare anni prima e che ora stentava a riconoscere: «Una Babilonia. La coca era venduta per le strade. Il paese era pieno di bordelli e la violenza il pane quotidiano. A Remolino ho imparato a convivere con il delitto, la corruzione e la guerra», ricorda con dispiacere. Gli toccò persino comprare una sala da ballo per poter costruire la chiesa del paese.
«Lo stato è sempre stato assente in quest’angolo della Colombia, come se questo luogo non significasse nulla per la politica del governo, visto che era così lontano dalle città e dai centri di potere».

LA PROVA PIÙ DIFFICILE

Nonostante le grandi difficoltà, padre Giacinto si è sentito in dovere di restare sul posto, per difendere il valore della vita. Un lavoro, il suo, ricco di tante, troppe delusioni. Nel 1992, avvenne un episodio che ricorda come il più amaro di quel periodo.
«Un sabato, proprio alla vigilia della celebrazione delle cresime, la guerriglia arrestò un individuo accusato di aver violentato un bambino e voleva fucilarlo sul posto, nella pubblica piazza, davanti a tutta la gente. Tutto il paese era lì riunito, gridando di ammazzarlo. Decisi di intervenire; afferrai l’uomo di peso e lo consegnai alle autorità del comune. Persino i bambini del posto mi correvano dietro, prendendomi in giro e insultandomi. Mi sentii come defraudato. Avevo rischiato la mia vita, la mia reputazione e questi erano i frutti! Presi su due piedi la decisione di andarmene. Quella, fu la notte più amara della mia vita. Piansi a lungo, perché pensai di esser stato un fallimento come sacerdote e come uomo», dice Giacinto, ricordando come aveva pensato di lasciare il paese la mattina successiva, all’alba.
«Avevo la valigia pronta, vuota, con dentro solo la mia rabbia quando la gente iniziò a riunirsi nella piazza. C’erano circa 700 persone. Gli uomini riconobbero il loro errore e mi chiesero perdono. Ma io, veramente, sentivo di non farcela a rimanere. Infine, arrivò un bambino, uno di quelli che il giorno prima era stato tra i più aggressivi nei miei confronti. Mi disse: “Padre, io ero tra quelli che ieri non la stavano ad ascoltare e la insultavano. Mi perdoni”. Quel bambino mi provocò una stretta al cuore. Mi chiusi un attimo nella mia stanza, dicendomi “Giacinto, è vero, questi te l’hanno fatta sporca, ma che hai intenzione di fare?”. Uscii con forza dalla canonica e, con tutto il coraggio che avevo, dissi agli adulti presenti: “Non è per voi che ho deciso di restare, ma per questo bambino che è venuto a chiedermi scusa. È per lui che continuerò a lavorare in questo posto”. Decisi di restare a Remolino».
Padre Giacinto non se ne andò, sapendo che la sua vita sarebbe stata costellata di giorni felici e di altri amari. «Il benessere, frutto della coca, finì presto e tutto ciò che rimase fu la stessa povertà di sempre. Con l’unica differenza che, in questi ultimi 15 anni, la chiesa si è convertita in un punto di riferimento morale e nel motore di una nascente economia basata su attività economiche lecite, come la produzione di cacao e caucciù e l’allevamento di bestiame. Infine, per rispettare l’impegno contratto con i giovani del posto, quest’anno entra in funzione un collegio per 60 giovani che potranno studiare e conseguire l’esame di maturità. Avranno così un’alternativa in più per non scegliere un futuro fatto solo di guerra o narcotraffico».
Sono stati in molti a definire una pazzia il pensare di poter costruire un collegio nel profondo della foresta, ma in padre Giacinto Franzoi vibra ancora il cuore di quel ragazzo orfano e ribelle che imparò a Trento come si può ricostruire una nazione dopo la guerra. O nel bel mezzo di essa.

Semana




L’eretico dell’amore

Prete di frontiera, è di scena nell’Italia del dopoguerra come padre degli abbandonati. Ligio e ribelle, obbediente e rivoluzionario. Si definisce un acrobata sul trapezio del tempo, un funambolo sul filo d’acciaio della fede a tentare l’esperienza di una comunità di famiglie. Nel 25° anniversario del trapasso di don Zeno Saltini, il suo confidente, Fausto Marinetti, ne celebra la memoria, mettendo insieme, con le sue parole, questa testimonianza: Zeno racconta Zeno.

Fin da giovane sento la missione di dedicarmi agli altri. Sotto le armi, il mio più caro amico, un anarchico, mi provoca: «Voi cristiani mangiate Cristo in chiesa e fuori avete i poveracci; vi dite fratelli e tra voi ci sono sfruttati e sfruttatori. Non m’interessa il singolo, ma il fenomeno sociale. E le crociate, l’inquisizione, le guerre di religione?».
Che lite! Ha torto lui a demolire senza costruire; ho torto io a essere un cattolico borghese. Sconvolto, chiedo a Dio di morire. Prendo una boccata d’aria alla finestra, fisso un punto lontano: «Né padrone né servo. Cambio civiltà in me stesso». Non un santo, ma un ateo è riuscito a farmi sentire complice del delitto sociale. Decido di rispondergli, testimoniando il vangelo con la mia vita.
Pian piano vado scoprendo, che la fede non è una dottrina sterile e astratta; Cristo non è una mummia. Lo abbraccio, vivo, nei diseredati. Affondo cuore e mani nelle stigmate dei piccoli delinquenti. Li tiro fuori dalla galera e li prendo con me.
Fondo una scuola di arti e mestieri. Risultato? Noi assistenti ci gratifichiamo, bevendo le loro lacrime, ma loro si sentono sempre dei beneficati, dei diversi. Finché non si è alla pari, non ci può essere rapporto di amore.
Studio legge per difenderli in tribunale. La laurea in mano, mi dico: «Potrei mitigare la pena, ma sono stanco di fare del bene in modo che tutto rimanga come prima. Curare è bene, prevenire è meglio. Basta con l’assistenzialismo, mi faccio prete».
Dopo un anno mi presento all’altare con Barile, appena uscito dal carcere. Il primo di 4 mila. La mia messa è quella lì: sposo la chiesa, le do un figlio, non un assistito. Odio l’assistenza. Sono le lacrime delle vittime a darmi la passione per una nuova società, a farmi sentire la nausea dell’assistenza. In parrocchia mi faccio padre del popolo, perché sono due secoli che la chiesa insiste sul sociale e sul politico, ma non sentiamo questi problemi.

Conosco le obiezioni del mondo missionario: «Come essere alla pari con gli oppressi del mondo? Da sempre portiamo religione, cultura, civiltà: cosa è cambiato? I popoli del Nord, bianchi e cristiani, hanno in mano mezzi e strumenti per asservire i popoli del Sud. La religione è funzionale all’economia globale? Dove appoggiare l’uomo evangelico, se non c’è il minimo di dignità umana? Come fare l’adozione a distanza dei popoli-schiavi?».
Rispondo con la mia vita. A che serve denunciare le cause del delitto sociale, se non si propongono esempi alternativi? La canonica piena di abbandonati m’impensierisce: va bene accoglierli, ma così siamo servi del sistema. Esso produce le vittime e noi gliele curiamo. È meglio battersi in piazza, perché questi ragazzi sono frutto di una politica sbagliata. Se non si cambiano le strutture, non cambia niente. Non solo, ma collaboriamo con il disordine costituito.
Sulle piazze, nelle osterie, fisarmonica a tracolla, vangelo nel cuore, invito le donne a venire a fare da mamma e le famiglie a frateizzarsi tra loro. Nel ‘41 arrivano le mamme; nel ’48 le famiglie volontarie. Occupiamo l’ex-campo di concentramento di Fossoli, uomini e bambini buttano a terra muraglie e reticolati con le mani. I giornali parlano di guerra degli angeli. Il mio sogno di una città di Dio prende forma: Nomadelfia, dove la frateità è legge.
Finalmente le famiglie si frateizzano, offrendo al mondo un esempio di vita sociale, la cui legge è il vangelo: tutto quello che è mio è tuo; quello che è tuo è mio; non dalla carne, non dal sangue, ma da Dio siamo nati. Una parentela nuova, oltre le razze e le patrie. Vogliamo far vedere come è possibile essere un popolo nuovo a livello individuale, familiare, sociale e politico.
Perché il cristianesimo non ha attaccato in Cina? Perché non l’abbiamo praticato neppure in Occidente. Non è ancora nato. Tante opere di beneficenza, ma di giustizia, neanche l’ombra. Senza di questa non si fa l’uomo, tanto meno il cristiano. Non più una giustizia provinciale, ma planetaria.
Gli orrori della guerra m’insegnano che in situazione di calamità sociale non è lecito non essere eroi. Al tempo degli schiavi, la fede era così viva che sono sorti i mercedari, uomini che scambiavano se stessi con gli schiavi. E oggi cosa risponde la cristianità ai popoli del terzo mondo, incatenati da nuove schiavitù?
Nomadelfia non è che il laboratorio nel quale lo Spirito mi ha introdotto, per fare l’esperimento di applicare la fede a tutto l’umano. Un modellino piccolo piccolo, ma, se riesce, molti potranno ispirarsi ai suoi principi.
Nel ’51 alcuni disoccupati vengono a chiedere lavoro. «Se volete farvi fratelli, condividiamo quello che c’è, ma noi non siamo padroni di nessuno». Macché fratelli! Vogliono la paga a fine mese.
Danilo Dolci vuole tenerli a tutti i costi. Gli spiego: «Non sono io che rifiuto di aprire le porte ai sofferenti, è la legge della impenetrabilità dei corpi che lo impone. Se il chirurgo tralasciasse di operare il paziente che ha sotto mano, per curare quello che bussa alla porta, non sarebbe nei piani di Dio. A operazione ultimata, curerà l’altro. Noi stiamo facendo l’operazione chirurgica più delicata: tagliare l’individualismo globale, per donare al mondo un esempio di santità sociale».
Ci sono due vocazioni: quella del samaritano, che cura i feriti della società-brigante, e quella di chi vuol piantare una nuova società di fratelli, nella quale non ci sia più bisogno di curare le vittime. Io ho scelto di farmi fratello universale. C’è una sola forza che può salvare il mondo: la frateità.

Nel dopoguerra la mia provocazione sarà travisata dalla paura della guerra fredda, dall’inconfessato timore che un governo di sinistra impedisca al papa di esercitare il suo potere spirituale sul mondo intero.
Predico in piazza: «Fate due mucchi! Chi ha i soldi da una parte, chi non li ha dall’altra. Noi poveracci siamo il 95% e andiamo al potere a fare le leggi che vanno bene per noi… Che cosa sono due monetine, niente! Ma se le metti davanti agli occhi, come fai a vedere gli altri? Dio ti ha dato una misura precisa: uno stomaco, non due. Perché vuoi guadagnare più dell’altro?».
Ripeto in alto e in basso: «Le opere di Dio per loro natura portano lo scompiglio nelle coscienze». Le folle, elettrizzate, sognano con me un mondo nuovo. Dio m’ha insegnato a toccare le corde magiche del cuore. Comunico più con la presenza, con il gesto, con tutta la persona. Il mio linguaggio è tagliente, ma non urta, perché parlo col cuore in mano: «I poveri sono dei derubati, non dei condannati da Dio a essere miseri. E da chi? Da tutti coloro che non sono poveri».
Quando narro le parabole politiche, il popolo annuisce, applaude il sogno di tutti. Come nella piazza di Vignola: «Il signorotto abita nel castello sulla collina. Tutte le terre della vallata sono lavorate dai suoi sudditi. Un giorno apre la finestra e vede una moltitudine dirigersi verso lo stradone del castello, chi con il badile, chi con la forca, la falce, la vanga. Chiede al capo dei servi: “Cosa fa quella gente, laggiù? Parla chiaro e subito”. Capiva che si preparava il temporale.
– Béh! Se vuol proprio saperlo, quella gente è stanca di essere sfruttata… da suo padre, dal suo nonno, dal suo bisnonno.
– Ma questo è contro la legge, l’ordine!
– Signore, vada lei a spiegarglielo.
Il signorotto raduna tutti i servi: “Tu, prendi mille lire, corri là in mezzo e grida: viva Gesù Cristo. Tu, ecco mille lire, vai là e grida: viva Carlo Marx. Tu, grida: viva la Russia. Tu: viva l’America”. E sta alla finestra a guardare.
I contadini dicono a quello che grida viva Gesù Cristo: “Dai che andiamo al castello a farla finita”.
E lui: “Viva Gesù Cristo”.
“Cosa dici? Cosa c’entra?”.
In quel mentre saltano su gli altri: “Viva Carlo Marx”; “Viva l’America”; “Viva la Russia”. E si danno tante di quelle botte da orbi, che è un disastro.
Il signorotto chiude la finestra: “Anche questa volta mi è andata bene. Posso dormire tranquillo“».

Negli anni ’50 il sogno della città di Dio è alle stelle. La domenica, curiosi e tifosi della carità, invadono il campo. La comunità, benedetta dai prelati, ammirata dai visitatori, elogiata dalla stampa, sogna borgate e città. Le mamme prendono dal brefotrofio di Roma 120 scartini. Il card. Schuster, in duomo, affida loro una quarantina di abbandonati, pronunciando parole famose: «Tutto il resto è coice, Nomadelfia una pagina di vangelo». Il nunzio, mandato per inquisire, torna entusiasta: «Una città così non la si può capire da Roma, bisogna vederla con gli occhi».
Io guardo in prospettiva: con questo tasso di crescita annua, nel 1972, se non succederanno diaspore, saremo 120.000. È logico, quindi, chiedere al governo un territorio di 30 mila ettari solo per cominciare…
Il congresso di Nomadelfia stabilisce di «costruire una borgata nomade per la missione al popolo; prepararci a costruire una città in Africa; avere un’ambasciata presso la Santa Sede; il papa, oltre che vescovo di Roma, sarà anche vescovo della città di Nomadelfia».
Quali reazioni possono provocare, al di qua e al di là del Tevere, sfide e denunce, proiezioni di città fratee con le vittime della società? Intanto un dossier della prefettura di Modena parla di «amministrazione incontrollata e debiti a non finire». Il ministro Scelba non accetta Nomadelfia e non ripassa gli aiuti assistenziali. Non mi resta che scrivere a mons. Montini: «Guardi, eccellenza, che lo stomaco è d’interesse divino…». Il ministro invia il rapporto modenese al Vaticano, lamentandosi della mia fede troppo audace nella Provvidenza e delle «idee sociali un po’ spinte di Zeno».
Troppo dure le mie sfide, inapplicabili le proposte? «Nessuno ci vuole, perché non siamo né di destra, né di sinistra, né di centro: abbiamo cambiato strada». Paradossale prendere il vangelo sul serio? Praticarlo, poi…? Svuotare il brefotrofio di Roma, farla finita con i correzionali, pretendere di liberare i carcerati, urlare in piazza che siamo fratelli, incominciando dal portafoglio… Non è troppo fustigare i ricchi e le istituzioni inadempienti?
Il silenzio della chiesa avrebbe potuto voler dire consentimento? Secondo padre David Turoldo, proprio la chiesa mi avrebbe impedito di applicare il vangelo: «Ci hanno fermati perché avevano paura che stessimo riuscendo, che noi facessimo la rivoluzione cristiana. Ed è stata impedita dalla chiesa con la DC».

Nel 1951, ridotti alla fame, i miei rifiutano di votare il partito della chiesa, per dare una lezione ai politici. Il Vaticano mi impone di ritirarmi dalla comunità, non può tollerare che un prete, nell’Emilia rossa, predichi la giustizia, facendo il gioco dei senzadio! La mia identificazione con le vittime s’è consumata. È in nome loro che mando lettere e cuore al papa, per scuotere le fondamenta di San Pietro: «Il costume sociale della chiesa è pagano. Santo Padre, la rivoluzione comincia dall’alto. Non sono un ribelle, ma una vittima».
Dei politici dirò: «Il caso Nomadelfia, una delle infinite prepotenze di Scelba. Il mondo ritiene necessario sopprimerci, perché non ci sopporta. Ci hanno crocifisso nel nome di Dio. Non è un’accusa, ma un pianto».
Il ministro Scelba, temendo un’emorragia di voti, ordina la liquidazione coatta di Nomadelfia: gli adulti sono rispediti nei luoghi d’origine, gli accolti riportati nei collegi. Senza il padre alcuni figli tornano in galera. Con la morte nel cuore chiedo la laicizzazione pro gratia: «Se non posso essere loro padre come prete, lasciatemelo essere come laico».
Mi capita un fatto strano e corro a raccontarlo al card. Ottaviani: «Sa cos’è successo stanotte? Entro in pizzeria e vedo una ragazza tutta pitturata, con un uomo: una delle mie figlie.
– Cosa fai qua?
– Tu mi hai abbandonato. Questo signore mi mantiene e faccio quel che vuole…
Neanche a farlo apposta, ho sotto il naso la riprova che i figli tornano alla malavita per causa mia. Io ho il dovere di dirle che, se non rimedio, non posso celebrare, perché sono in peccato. Adesso lo sa anche lei ed è corresponsabile. Fra poco lei parla con il papa ed è responsabile anche lui. Se non mi date la laicizzazione, né io, né lei, né il Santo Padre possiamo celebrare. Mi sono fatto prete per salvare i figli alla deriva e adesso chiedo la laicizzazione per salvarli di nuovo. Tanto, se sono sacerdote, lo sono lo stesso».
Qualche giorno dopo il vescovo mi convoca:
– È arrivato il decreto. Quanto mi dispiace!
– Dispiace anche a me. Fino ad oggi ho sacrificato Cristo, ma questa mattina ho immolato lui e la mia persona. Ed è stata l’ultima messa.

Quasi tutti mi disapprovano. La laicizzazione è considerata una defezione sacrilega o un castigo per colpe gravi. Dalla mia, pochi intimi. Il sacrificio più grosso della mia vita. Quando si arriva a questi estremi, ciò che conta non è la propria persona, ma il bene dell’umanità e della chiesa.
Ma io continuo a torturarmi e a torturare: «Può la chiesa condannare Nomadelfia? A me pare di no, perché condannerebbe se stessa».
E seguito a pestare i piedi, perché senta, nella mia, la voce delle vittime: «Perché ubbidiamo? Lo facciamo come fanno i bambini, consapevoli che da soli nulla possono. Perché ci impenniamo senza ribellarci, ma solo pestando i piedi? Lo facciamo come fanno i bambini, sicuri che, se avremo ragione, il Padre ce la darà e piegherà la Madre a farlo».
Laicizzato, alla fame, continuo il pellegrinaggio nel deserto della chiesa verso la nostra terra promessa, per donarle un popolo che dica con le opere: «Siate nostri imitatori come noi, in quanto popolo, siamo imitatori di Cristo».
Tra noi non c’è il ricco e il povero, padrone e servo, benefattore e beneficato, assistente e assistito. Tutti figli, tutti fratelli, spezziamo il pane sicuri di non mangiare la nostra condanna.
Per dieci anni (1953-1962) vado a messa come un laico qualsiasi. Vi lascio immaginare il mio sacrificio a sentire certe prediche! L’unica cosa, cui mi aggrappo con le vittime è quella briciola di pane innalzata sul mondo, che dice alla storia la verità ultima sull’uomo: «Avevo fame di fratelli e voi vi siete fatti miei fratelli».
Negli anni ’60, irrobustiti i figli, placati i creditori, chiedo di riprendere l’esercizio del sacerdozio. Il 6 gennaio 1962 salgo l’altare, con Barile e tutti gli altri figli, per celebrare la mia seconda prima messa.

Che cosa è rimasto della semente evangelica, che ho gettato a piene mani? Una comunità con una cinquantina di famiglie frateizzate, una tenuta di 380 ettari, sulla statale Siena-Grosseto: Nomadelfia, dove il sogno di un mondo fraterno vive e continua.

Fausto Marinetti

Fausto Marinetti




Muro o dialogo?

Dopo la nascita dell’Eire (cfr. dossier MC maggio ‘06), i cattolici irlandesi rimasti nell’Ulster britannico hanno lottato per la riunificazione dell’isola e contro l’oppressione dell’autorità protestante. Per decenni Belfast e Londonderry sono state insanguinate da feroci attentati e repressioni. Ora un muro separa i quartieri cattolici da quelli protestanti; una serie di accordi hanno messo a tacere le armi. Ma la vera pace ci sarà quando le due comunità cominceranno a dialogare.

La famiglia di turisti si ferma davanti al Republican Memorial Hall, che sorge a pochi passi dal Clonard Monastery. Sean, il taxista che fa anche da guida, illustra in modo partecipato e commosso le fasi che hanno portato le comunità cattoliche e protestanti di Belfast a confrontarsi per decenni, mietendo tra il 1969 e il 2006 più di 3.600 vittime.
«Sono stato catturato nel 1974, con l’accusa di essere membro attivo dell’Ira» spiega Sean, quando mi vede seguire con attenzione la sua esposizione; poi continua: «Ho passato 14 anni in diverse prigioni dell’Irlanda del Nord prima di essere liberato. Da allora ho vissuto svolgendo lavori saltuari fino a quando, con alcuni amici ex militanti politici, abbiamo fondato la Belfast Black Taxi Tours, una compagnia che accompagna turisti attraverso i luoghi più simbolici della guerra che ha sconvolto la città».
Mi presenta i suoi ospiti: una famiglia americana di New York che vanta discendenze irlandesi. «Mio padre era membro della Noraid» dice con orgoglio il capofamiglia, stringendomi la mano. La Noraid (Irish Northe Aid) è la potente organizzazione statunitense che, con generosi sovvenzionamenti, ha permesso all’Ira di comprare armi dalla Libia e ai suoi aderenti di addestrarsi nei campi palestinesi dell’Olp.
La famiglia O’Brian continuerà il suo «political tour», entrando nella zona protestante e osservando il bellissimo monastero cattolico di Clonard dalla parte opposta del muro.

BARRIERA DI VERGOGNA

Già, perché se a Berlino il muro che divideva simbolicamente due mondi politicamente e ideologicamente contrapposti, è crollato oramai da diciassette anni, a Belfast il quartiere protestante di Shankill e quello cattolico di Falls continuano a essere separati da una parete di cemento e acciaio alta 5-6 metri. Una barriera di vergogna nel cuore della Comunità Europea e della cristianità che, nel goffo tentativo di farla apparire meno truce e spettrale, è stata denominata Peace Wall (Muro della pace).
Un divisorio, questo Muro della pace, voluto e costruito da una classe politica incapace di amministrare un territorio in guerra, nel disperato tentativo di riportare tranquillità in una Belfast sconvolta dai troubles (disordini) degli anni ‘70 e ‘80. Un muro che da 20 anni divide europei cattolici da europei anglicani, europei repubblicani da europei unionisti, europei filoirlandesi da europei filobritannici.
È pur vero che molti analisti, specialmente quelli più legati alle comunità ecclesiastiche cristiane, pur non negando le radici religiose del conflitto irlandese, spiegano il suo acutizzarsi con lo sviluppo di elementi comuni a tutti gli stati di belligeranza: prevaricazione economica di un gruppo rispetto a un altro, differenze culturali che si ripercuotono sul tessuto sociale e familiare, contrasti politici a sfondo ideologico e, non ultimo, ingerenze di potenze straniere, che, sfruttando la debolezza intea britannica, hanno giocato la carta dell’irredentismo irlandese per rafforzare i propri interessi inteazionali e le lobby di potere.

LACRIME E SANGUE

Il dramma dell’Irlanda del Nord è questa micidiale miscela di ingredienti che, spaziando dal nazionalismo storico al dogmatismo religioso, hanno finito per sfociare in una lotta che divampa sin dal xvii secolo, quando, con le Plantations, Londra sostenne la colonizzazione dell’isola a favore dei coloni inglesi e scozzesi, espropriando le terre coltivate dai contadini locali.
Il fatto che questi ultimi fossero cattolici e i primi protestanti, trasformò quella che sarebbe stata una contesa economica e nazionalista, in una lotta confessionale che vide confrontarsi la chiesa di Roma e quella anglicana; papa e re.
Fu Oliver Cromwell, sbarcato nell’agosto 1649 sulle coste irlandesi, a sfogare il suo odio contro la chiesa di Roma, stritolando l’economia agricola degli irlandesi e massacrando un quarto della loro popolazione. Da allora la storia irlandese è sempre stata segnata dalla divisione tra le due fedi, frattura che venne sancita definitivamente nel 1795, dopo che il re cattolico Giacomo ii fu sconfitto da Guglielmo iii d’Orange. Non è un caso che ancora oggi il movimento Orangista, nato allora «per sostenere il re (Guglielmo) e i suoi eredi, finché egli o costoro sosterranno la supremazia protestante», viene ancora oggi ritenuto l’organizzazione più fedele alla Corona britannica di tutta l’Irlanda.
Eppure furono proprio i protestanti, ansiosi di allargare i loro domini al di fuori delle sei contee in cui erano maggioranza assoluta, a reclamare per primi l’indipendenza da Londra, raggiungendo una semiautonomia nel 1782. La rivoluzione americana prima e quella francese poi, indussero gli irlandesi, prescindendo dalla confessione religiosa, a riunirsi nella Society of United Irishmen (società di irlandesi uniti), un movimento politico che si prefiggeva di ottenere la totale secessione dell’isola. La repressione inglese della Society e l’approvazione dell’Union Act (legge dell’unione), che riportò l’Irlanda in seno al Regno Unito, comportò anche un radicale cambiamento della politica da parte di Londra. I governi britannici vararono una serie di riforme agrarie, economiche e sociali miranti a proteggere esclusivamente i cittadini di fede protestante. Ed è in questo preciso periodo che le parti si invertono: i cattolici diventano nazionalisti e gli anglicani unionisti.
Le carestie che sconvolsero l’Irlanda tra il 1845 e il 1849, vennero viste da Westminster come un’opportunità per sbarazzarsi del nascente movimento cattolico secessionista fondato da Daniel O’Connell. La voluta e cinica inefficienza inglese nel prestare soccorso alla popolazione irlandese, falciò un milione di vite, mentre indusse un altro milione di persone alla fuga verso gli Stati Uniti.
Coloro che rimasero nell’isola, anziché sottomettersi all’impero, ritrovarono la forza di riunirsi in diversi movimenti, tra cui l’Irish Republican Brotherhood (Fratellanza repubblicana irlandese), la Gaelic League (lega gaelica) e il Sinn Fein (Solo noi), sostenitore dell’idea che i deputati irlandesi avrebbero dovuto riunirsi nel Dail (Parlamento) di Dublino e non a Westminster.
Per arginare ciò che era diventato un chiaro tentativo di separazione, nel 1913 Londra varò la Home Rule, una legge che consentiva l’amministrazione autonoma dell’Irlanda a eccezione delle sei contee di Tyrone, Donegal, Derry, Armagh, Cavan e Ulster, dove storicamente risiedevano i protestanti unionisti.
Ma le carte erano state ormai giocate e l’inizio della prima guerra mondiale diede chiari segnali di non collaborazionismo con Londra da parte dei nazionalisti irlandesi, riunitisi nell’Irish Volunteers (volontari irlandesi) tramutatisi in seguito nell’Irish Republican Army (Ira).
Fu prima l’insurrezione di pasqua del 24 aprile 1916, con la proclamazione della Repubblica d’Irlanda, e due anni dopo la riorganizzazione degli Irish Volunteers, da parte di Michael Collins, a indurre Londra a concedere, il 6 dicembre 1921, l’indipendenza dell’Eire, a esclusione delle «Sei Contee» (Ulster).
E mentre il Dail Eireann (parlamento irlandese) accettò la divisione dell’isola, l’Ira continuò la sua battaglia per la riunificazione completa. Le ostilità tra i nazionalisti irlandesi e gli unionisti delle Sei Contee, sostenuti rispettivamente dai governi di Dublino e Londra, si fecero immediatamente pesanti con l’emanazione di leggi speciali, come il Civil Authority (Special Powers) Act (legge sull’autorità civile, con poteri speciali) che, rimasto in vigore fino al 1974, consentiva alle autorità britanniche di arrestare, imprigionare, perquisire senza mandato o accusa chiunque fosse sospettato di attività repubblicana.

VIOLENZA E REPRESSIONE

Gli anni ‘70 videro l’escandescenza della guerra con il culmine raggiunto il 30 gennaio 1972, quando a Derry, tredici civili vennero uccisi dai parà inglesi, in quella che passò alla storia come il Bloody Sunday (domenica di sangue). Fu la svolta: le critiche piovute da tutto il mondo su Londra e, non ultima, l’ondata emozionale rimarcata dal famoso brano degli U2, ebbero l’effetto di indurre Londra a ricercare una soluzione non più solo militare, ma anche politica del conflitto.
Accanto alla recrudescenza della violenza delle organizzazioni paramilitari (tra il 1972 e il 1979 si contarono 1339 morti, di cui 479 solo nel 1972), si assistette a timidi tentativi di aperture. Vennero riallacciate le relazioni diplomatiche con l’Eire e con gli Accordi di Sunningdale del 1973 si stabilì un principio che sarà alla base degli Accordi del venerdì santo del 1998 e di tutti i futuri trattati anglo-irlandesi: se Dublino accoglie lo status dell’Irlanda del Nord come entità separata e integrante il Regno Unito, Londra a sua volta accetta la riunione delle Sei Contee col resto dell’isola, quando la maggioranza della popolazione esprimerà il desiderio di farlo.
Nel frattempo, però, il governo Tatcher perseguì la linea dura, commettendo errori di sottovalutazione del movimento cattolico. Il più clamoroso di questi fu l’insofferenza verso la Blanket Protest (rifiuto della divisa carceraria, indossando solo una coperta), iniziata dai detenuti politici dell’H-Block nella prigione di Long Kesh, i quali volevano essere riconosciuti dal governo di Londra con lo status di prigionieri politici e non come criminali comuni.
Lo sciopero della fame proclamato dai detenuti, portò dieci di loro alla morte e uno di questi, Bobby Sands, divenne l’icona del movimento repubblicano. La sua eredità viene oggi contesa da tutti i movimenti nazionalisti irlandesi, dal moderato Sinn Fein di Gerry Adams, al più radicale 32-County Sovereignity Committe di Beadette Sands, sorella di Bobby.
Per capire quanto profonde siano le divergenze tra i movimenti repubblicani, due frasi estrapolate da interviste effettuate ai leaders delle due organizzazioni: «Mio fratello non avrebbe mai siglato gli Accordi del venerdì santo. Avrebbe continuato la sua battaglia senza compromessi contro gli occupanti britannici» riferisce Beadette, oggi residente a Dublino. «Bobby Sands era un uomo di pace. Voleva raggiungere i suoi obiettivi senza spargere sangue. Gli Accordi del venerdì santo miravano a questo. Per ciò siamo sicuri che Bobby li avrebbe accettati» replica Gerry Adams nella sede dello Sinn Fein a Fall Roads, proprio sotto un murales che ritrae il martire repubblicano.

TACCIONO LE ARMI

Gli Accordi, sanciti il 10 aprile 1998, pur approvati in un referendum dal 71% degli elettori nordirlandesi, segnarono la spaccatura di tutte le fazioni unioniste e nazionaliste. Le organizzazioni paramilitari si frammentarono in miriadi di gruppetti più o meno agguerriti e numerosi, rendendo più problematica la gestione del panorama politico e militare. Solo la presenza di figure come John Hume, leader del Social Democratic and Labour Party (Partito socialdemocratico e laburista) o di Martin McGuinness, fondatore storico dell’Ira degli anni ‘60, riuscirono a sostenere l’arroganza e la determinazione di un Ian Paisley, leader dell’estremismo unionista e ispiratore di molti gruppi militari antirepubblicani.
Il lavoro iniziato con gli Accordi del venerdì santo trovò un importante e forse decisivo sbocco il 28 luglio 2005, quando l’Ira rilasciò il famoso comunicato in cui si invitavano tutte le sue cellule a deporre le armi: «La leadership di Oglaigh na hEireannn (Ira) ha ufficialmente ordinato la fine della campagna armata. A tutte le unità dell’Ira è stato ordinato di deporre le armi. A tutti i volontari è stato chiesto di assistere agli sviluppi dei programmi politici e democratici attraverso metodi pacifici. I volontari non devono ingaggiare alcuna attività».
Ma il comunicato va oltre, affermando che la smilitarizzazione dovrà essere seguita da un rappresentante della chiesa cattolica ed uno della chiesa anglicana. Un segno delle radici che nutrono il conflitto e che solo con la buona volontà delle due chiese potrà essere risolto. E di buona volontà ce ne vorrà tanta, perché neppure la politica potrà essere la panacea che riporterà la pace in Irlanda del Nord.
L’equazione esposta con troppa sufficienza cattolico=repubblicano e protestante=unionista, non regge, come ha dimostrato la storia. Infatti, se così fosse, già oggi l’Irlanda del Nord potrebbe tentare il referendum per l’unione con l’Eire. I cattolici, infatti, rappresentano il 44% della popolazione, mentre i protestanti dichiarati il 36% (esiste un 9% di non dichiarati che le statistiche indicano essere a maggioranza protestante). Ma è anche vero che il 35% dei cattolici, in caso fossero chiamati a scegliere tra le due opzioni, opterebbero per rimanere affrancati al Regno Unito, in modo da non perdere i sussidi elargiti da Londra.
Dalla parte opposta, molto più compatto è il movimento unionista, con il 94% dei protestanti favorevoli allo status quo. «Perché l’Irlanda del Nord si unisca all’Eire, bisogna che accadano due fattori concomitanti: che la popolazione cattolica superi nettamente quella protestante, cosa che, con gli attuali ritmi di crescita demografica potrà avverarsi entro il 2030, e che una considerevole parte dei cattolici sia favorevole all’opzione repubblicana. E questo è molto più improbabile che avvenga in pochi lustri» mi dice Stefan Andreasson, professore di Politica internazionale alla Queen’s University di Belfast.

ALLA RICERCA DEL DIALOGO

Le elezioni per il Parlamento locale del 2005 hanno dimostrato che la polarizzazione dell’elettorato si acutizza sempre più, anche se il divario tra i due blocchi si assottiglia. Il Democratic Unionist Party (Dup) di Ian Paisley è divenuto il maggior partito nordirlandese con il 29,6% delle preferenze, superando nettamente il più moderato Ulster Unionist Party (18,0%); mentre nel fronte opposto lo Sinn Fein, raggiungendo il 23,3% dei consensi, ha aumentato il vantaggio sul Socialist Democratic and Labour Party, rimasto al 17,4%.
Forte dei 9 seggi conquistati, il Dup ha chiesto immediatamente la revisione dei trattati del 1998, al fine di «garantire alla comunità protestante, discriminata dagli Accordi del venerdì santo», il rispetto dei diritti umani e delle libertà civili. «Il fatto significativo delle elezioni del 2005 – dice Sean Mac Labhrai, professore di Studi Irlandesi alla St. Mary’s University College di Belfast – è che sono scomparsi i partiti minori, che garantivano la partecipazione politica delle organizzazioni paramilitari. Questo schiacciamento ha portato le frange più estremiste, come il Dup a raggiungere i risultati ottenuti e ad alzare il tiro sulla comunità repubblicana».
Si sta quindi assistendo a una semplificazione della vita politica del paese, che per molti rischia di rianimare le lotte. «L’Irlanda del Nord è stata sempre snobbata dai grandi partiti britannici – afferma Catherine Mellen, della Campaign for Equal Citizenship -. Se i laburisti e i conservatori propagandassero le loro idee qui, come fanno in Inghilterra, anche le differenze tra le comunità cattoliche e protestanti scomparirebbero, per dare luogo a differenze sociali presenti nella normale vita politica britannica, consentendo a Londra una migliore gestione del conflitto».
Ma c’è chi addirittura si prefigge di lottare per la completa indipendenza del Nord Irlanda, come Murray Smith, del New Ulster Political Rasearch Group: «La soluzione del problema nordirlandese deve essere trovata al di fuori degli schemi convenzionali. Non è uno scegliere tra Eire o Gran Bretagna, perché qualunque sia la scelta, una delle due comunità sarà sempre scontenta. La soluzione che proponiamo noi è la creazione di un terzo stato completamente autonomo e indipendente sia da Londra che da Dublino».
Naturalmente queste ultime due tesi non tengono conto del tessuto sociale impregnato di cultura e tradizione religiosa e del fatto che nessuna delle due comunità vuole una Irlanda del Nord indipendente. Rimane quindi il dialogo costante e senza prevaricazioni con tutte le parti in causa, nessuna esclusa, così come la stessa Ira ha chiesto e ribadito nel proclama del 28 luglio scorso. Ian Paisley permettendo.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




I protagonisti della lotta

Il movimento d’indipendenza irlandese trae origine dall’United Irishmen (irlandesi uniti), fondato nel 1790 sull’onda degli ideali della rivoluzione americana e francese. Lontana dagli ideali religiosi, l’United Irishmen aspirava a creare una nazione unita e secolare attraverso l’azione politica. Solo nel 1850, con la fondazione del Movimento feniano, appoggiato dagli irlandesi emigrati in Usa dopo la grande carestia, si fa strada l’idea di una rivoluzione armata su larga scala.
Nel novembre 1913 vennero formati gli Irish Volunteers (Oglaigh na hEireann. volontari irlandesi) per «assicurare e mantenere i diritti e le libertà comuni a tutta la gente dell’Irlanda». L’Insurrezione di pasqua del 1916, repressa nel sangue da Londra, indusse Micheal Collins, leader degli Irish Volunteers, a iniziare la guerriglia, divenendo l’Irish Republican Army (esercito repubblicano irlandese), dal quale nacquero tutte le altre organizzazioni paramilitari repubblicane che operano in Irlanda del Nord.
La divisione dell’isola sancita nel 1922, con la nascita dello Stato libero d’Irlanda menomato delle Sei Contee a nord, provocò un violento dibattito all’interno del movimento repubblicano che sfociò in una sanguinosa guerra civile tra l’Ira dell’Eire e l’Ira delle Sei Contee. Nel 1932 Eamon de Valera, si staccò dall’Ira fondando il Fianna Fail, il maggior partito della nazione.
L’Ira continuò la sua battaglia nel territorio britannico, senza però destare particolari preoccupazioni all’esercito di sua maestà. Solo dopo gli anni ‘60, con la comparsa dei movimenti dei diritti civili attaccati violentemente dagli unionisti e dalla polizia locale (Royal Ulster Constabulary, Ruc), la popolazione cattolica nordirlandese cominciò a chiedere protezione ai volontari armati. I vertici dell’Ira, però si divisero sulle azioni da intraprendere e nel dicembre 1969 l’organizzazione si divise tra Official Ira (Oira), di orientamento marxista e ateo, contraria all’uso della violenza, e la Provisional Ira (Pira o Ira, chiamati anche Provos), di ideali socialisti, dichiaratamente cattolica, che continuò la lotta armata.
Se la Pira era politicamente rappresentata dallo Sinn Fein, l’Oira ebbe come ombrello politico il Partito dei lavoratori (Workers’ Party). Nel 1972 l’Oira dichiarò una tregua armata, non condivisa dai membri più radicali che, il 10 dicembre 1974, fondò il Pra (People’s Republican Army, esercito repubblicano del popolo), in seguito diventato Crf (Catholic Reaction Force, forza di reazione cattolica) e infine Inla (Irish National Liberation Army, esercito di liberazione nazionale irlandese), ancora oggi presente con una trentina di membri attivi, rappresentata politicamente dall’Irsp (Irish Republican Socialist Party, partito socialista repubblicano irlandese).
Il processo di pace in cui venne coinvolta la Pira dal 1986 non trovò consensi tra un centinaio di militanti, i quali nel 1986 fondarono la Cira (Continuity Ira), appoggiata dal Republican Sinn Fein, responsabile della bomba al Kyyhelvin Hotel di Enniskillen del 1996 e dell’uccisione di lord Mountbatten. Proprio la bomba di Enniskillen portò una successiva divisione della Cira che vide staccarsi un gruppo di militanti fondatori della Real Ira (Rira), politicamente appoggiata dal 32-Counties Sovereignity Movement (movimento per la sovranità delle 32 cotee).

Piergiorgio Pescali




Il ponte sullo Spreca

Dopo i 10 lunghi anni di guerra condotti negli anni Novanta fra le popolazioni della ex Jugoslavia, le giovani generazioni possono realmente giocare un ruolo attivo nel processo individuale e collettivo di elaborazione costruttiva del dolore e nella ricostruzione non solo materiale del proprio paese? Nove ragazzi tra i 16 e 20 anni, 4 musulmani e 5 serbi, sono da anni impegnati come mediatori e facilitatori nel processo di riconciliazione interetnica delle comunità a cui appartengono.

Per secoli, serbi e musulmani che abitavano lungo il fiume Spreca erano convissute pacificamente. Poi, con lo scoppio della guerra serbo-bosniaca, tutta la regione da esso attraversata diventò teatro di combattimento tra l’esercito dei serbi bosniaci (sostenuti dalle truppe regolari serbe) e le forze spontanee delle comunità musulmane: sulle sue sponde si sono consumati scontri continui tra persone che fino a poco tempo prima si erano sposati e imparentati, costituendo numerose famiglie miste.
In base agli accordi di pace di Dayton del dicembre 1995, questo confine naturale costituisce anche la linea di separazione fra la comunità di Orahovica, paesino della Federazione musulmana croata di Bosnia, e Petrovo, cittadina della Repubblica serba di Bosnia. Per molti anni, nonostante la guerra nei suoi aspetti più distruttivi fosse finita, tale confine fu considerato invalicabile dagli abitanti delle due parti.
La paura costituiva un blocco che inglobava, però, la necessità di ricominciare. Da un lato, gli adulti sembravano come paralizzati, in lotta con i fantasmi del passato, mentre i giovani venivano trasportati dalle esigenze dell’età. Fra questi ultimi, però, vi erano Sheila Dugic, Verko Popadic, Samina Ahmetovic, Sulio Ahmetovic, Rade Cvijanovic, Jelica Mihajlovic, Ivana Todorovic, Alma Becic, Svetlana Ceca Petrovic, che non potevano e non volevano farsi scivolare addosso l’adolescenza.
Da tempo, questi 9 giovani tra i 16 e 20 anni, di etnia mista, quattro musulmani e cinque serbi, sono impegnati come mediatori e facilitatori nel processo di riconciliazione interetnica tra le comunità di Orahovica e Petrovo a cui appartengono.

A raccogliere le istanze di questi giovani e incanalarle in un processo di riconciliazione è un gruppo di italiani di Cremona, che opera nella zona dalla fine della guerra, portando aiuti umanitari. «Quando iniziammo a portare gli aiuti alle due comunità, svolsi anche il ruolo di messaggero – racconta Maurizio Furgada -. Andavo da una parte all’altra in bici, portando dei bigliettini che le famiglie si inviavano. A questi contatti facemmo seguire l’organizzazione di corsi separati di computer, italiano, inglese; poi lanciammo l’idea di prenderci una vacanza nel mare del Montenegro, riunendo in un solo gruppo i ragazzi delle due parti».
Nell’estate 2002 il direttore didattico della scuola di Orahovica, Adburaman Dzinic, mette a disposizione la casa di villeggiatura per l’occasione. Nel clima vacanziero, notando l’affiatamento dei ragazzi, Maurizio Furgada e Stefano Cirelli propongono loro di costituire un gruppo interetnico per elaborare le esperienze vissute e per interrogarsi su temi che li toccano da vicino: conflitto, diritti umani, discriminazioni, pregiudizi.
L’idea è accolta con entusiasmo e da quel momento i ragazzi cominciano a lavorare per consolidare e far maturare il gruppo. Nel luglio 2003 i ragazzi furono ospitati da alcune famiglie cremonesi per due settimane di svago e formazione; successivamente, alcuni di essi ricambiano l’ospitalità, accogliendo a casa loro tre ragazzi della città italiana, dando vita a uno scambio ancora in corso.
Intanto maturano le riflessioni. I giovani cominciano ad avvicinarsi a certe tecniche che permettono di mediare i conflitti e prevenie l’escalation violenta. Indagano sulla natura della violenza e analizzano le cause dei conflitti, non solo sul piano del coinvolgimento di nazioni o fazioni, ma anche a livello più domestico, come nei casi di dissidio fra due amici; esplorano le posizioni, gli interessi, i bisogni primari messi in gioco in ogni conflitto; ricercano gli stili risolutivi, provano a immaginae una trasformazione costruttiva.
In tale approccio perde di valore il confronto vincere/perdere. Si evidenzia la capacità di promuovere rapporti di collaborazione nelle diversità, il dialogo, il riconoscimento reciproco, l’ascolto e partecipazione.
Con tali tecniche, si scopre che il conflitto ha un connotato positivo, poiché è occasione di incontro tra bisogni, interessi, visioni opposte e apparentemente inconciliabili. Fondamentali sono le modalità con le quali lo si gestisce e risolve.

Il 2003 è pure l’anno della fondazione della scuola di pace «Fabio Moreni» (volontario di Cremona, ucciso il 29 maggio 1993 presso Goj Vakuf, insieme a Sergio Lana e Fabio Puletti, componenti un convoglio umanitario). Tale scuola è formata dai ragazzi e i direttori didattici delle scuole bosniache, che accolgono il gruppo per farlo lavorare, e dagli italiani, che nel frattempo hanno costituito allo scopo l’associazione di volontariato «Iniziative spontanee di solidarietà fra i popoli» (Issp).
«L’originalità del progetto sta nel voler “costruire” ambasciatori di pace, partendo da candidati che portano ancora addosso le conseguenze tragiche di quegli eventi – spiega Furgada -, non quindi bravi funzionari, maestri della teoria come potremmo al limite diventare noi, ma veri attori, capaci di recitare la loro parte nelle trame che portano alla risoluzione delle divisioni fra popoli. Questi ragazzi stanno superando in concreto le barriere che altri hanno costruito per loro».
La creazione della scuola porta in sé un significato più ampio, il direttore della scuola di Petrovo, Jovo Jovovic, quando accompagnò il gruppo nella prima visita a Cremona, affermò: «L’esempio portato da questa esperienza contribuisce a frantumare il muro eretto dalla guerra». «È un modo per rendere i ragazzi consapevoli delle possibilità di pace che dimorano dentro di loro. Ai loro genitori va il merito di aver staccato la corrente che li legava in modo quasi indelebile al passato e a quello dei loro genitori per dare ai ragazzi questa possibilità che sapevano bene di non aver mai avuto» continua Furgada.
Durante i corsi di formazione a Cremona e poi nel gennaio 2004 in Bosnia, i ragazzi elaborano e maturano i concetti acquisiti attraverso giochi, simulazioni, rappresentazioni teatrali. «Quando scoppiò la guerra avevo quattro anni – dice Jelica, di origine serba, in un’esercitazione in cui doveva scrivere una lettera ad un amico israeliano – e non sapevo neanche il significato della parola. Mi limitavo a chiedere che cos’è la guerra. È stato orribile crescere in quegli anni.
Il brutto è che ben presto finisci per abituarti alla violenza, che diventa un qualcosa di normale nella vita di ogni giorno. Non capivo perché non mi era permesso di uscire dalla mia casa. Se devo proprio imparare una lezione da quei giorni terribili del mio passato, allora vorrei usarla per chiedere di pensare a ciò che ti sta succedendo. Davvero vuoi la guerra? Immagina di vedere te stesso nelle condizioni dell’altro e ti accorgerai di come può pensarla lui».
Sheila, musulmana, scrive ad un amico palestinese: «Noi, che abbiamo sofferto le conseguenze della guerra, dobbiamo essere in grado di indicare una nuova via di pace. Cerca di parlare con la tua gente, cerca di persuaderla a tentare di cambiare il loro approccio ai problemi, di smetterla di gridarsi contro. Fa’ in modo che considerino le loro pretese nei confronti degli altri con rispetto e forse allora potremmo trovare la via verso la risoluzione».
Sheila sfuggì con la famiglia alla pulizia etnica che travolse Olovo, piccolo paese perso tra le montagne sulla via che da Sarajevo porta a Tuzla. Sostarono un anno in un campo profughi vicino ad Orahovica; ora il padre è riuscito a trovare un lavoro e a costruire, nel paese di adozione, una piccola casa.

Un’idea lega i 9 giovani: tutti gli uomini sono uguali e allo stesso modo diversi; l’identità di ognuno deve essere rispettata.
Il concetto emerge più volte nelle discussioni guidate, in particolare in relazione ad alcune letture sul popolo cherokee, nell’episodio ricordato come «trail of tears» (sentirnero di lacrime). Nel 1838 e nel 1839, la nazione cherokee fu costretta ad abbandonare le proprie terre ad est del fiume Mississipi e migrare nell’area oggi chiamata Oklahoma: una marcia forzata con effetti devastanti e la morte di oltre 4 mila indiani cherokee, per questo chiamata trail of tears.
Samina fu costretta ad abbandonare la sua terra, Srebrenica, e a sopportare l’uccisione del padre nella strage compiuta in città. Si immedesima nel nativo americano e si rivolge, in uno scritto, a un immaginario amico bianco: «Abbiamo cominciato ad arrampicarci come capre per raggiungere la nostra destinazione, dove pensavamo che avremmo vissuto pacificamente. Ma la pace è durata solo due settimane, quando i bianchi sono tornati per obbligarci a lasciare anche quel posto. Se qualcuno della tua famiglia moriva, bisognava portarlo nelle proprie braccia e continuare, in lacrime, distrutti dal dolore. Portare un padre morto nelle braccia non è cosa da niente. In quel momento ti è solo concesso di piangere, maledire chi ti ha fatto questo. Ti prego, cerca di capire il mio sfogo. Perdonami per l’odio che provo verso l’uomo bianco; ma ricorda che io ti considero mio amico e so che non sei come loro».
Sheila rimarca, nello stesso esercizio, l’importanza di evitare le generalizzazioni: «È stato difficile vedere la tua gente farsi beffa del nostro dolore. Tutto ciò che la tua gente ha fatto alla mia è un’ingiustizia totale, frutto di razzismo; ma la tua amicizia è il più bel regalo per me, riesce in parte a lenire i sentimenti d’odio e tristezza che mi porto dentro».

Dopo tre anni di lavoro, il gruppo si sente pronto a trasmettere le nozioni acquisite sui banchi della scuola di pace e l’esperienza viva dell’incontro con l’altro.
Attraverso la collaborazione con l’associazione di volontariato Faros di Atene, nell’estate 2004, i 9 partono alla volta della capitale greca; a loro si uniscono quattro ragazze e un ragazzo di Cremona. Per la prima volta conducono la formazione di un gruppo di coetanei greci. Una volta tornati in Bosnia, i ragazzi, entusiasti, esprimono la volontà di migliorarsi nelle competenze raggiunte e nella capacità organizzativa.
Il gruppo dedica le settimane finali di luglio 2005 alla elaborazione di nuovi materiali dialettici e concettuali, acquisiti con l’esperienza greca, e alla organizzazione delle giornate in cui si sperimenteranno nuovamente come formatori. L’avventura formativa ha un simbolico inizio: una festa svolta nella scuola di Orahovica, che coinvolge i genitori, 12 ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 14 anni, i direttori didattici. L’organizzazione è rigorosamente interetnica. Così il cerchio si allarga; i nuovi partecipanti appartengono ad altre due comunità: quella musulmana Dobosnica e quella serba Krtova (frazione della prima).
In quel caldo pomeriggio estivo, musulmani e serbi, di generazioni diverse, si avvicinano timidamente. Sullo sfondo dell’aula appaiono appesi i poster che illustrano i pericoli delle mine antiuomo e ricordano il peso del passato.
«Credo e ho sempre creduto in questo progetto – esordisce Jelica – e sento la responsabilità verso il gruppo e verso mia sorella di 14 anni, che voglio che impari qualcosa di nuovo per la vita. Voglio essere utile a tutti».
Svetlana di Petrovo prosegue: «È mio desiderio mettere in pratica ciò che ho imparato in questi anni, all’inizio è stato un gioco, ma ora è scuola; ed è qualcosa dentro di me che uso per migliorare i miei rapporti con la gente». Sulio, che con la cugina Samina condivide il triste esodo e il massacro del padre, conclude: «Dobbiamo creare legami fra noi sempre più forti».
È l’inizio di un alternarsi di giornate, tra le aule scolastiche di parte musulmana e serba, in cui si fa strada un difficile equilibrio, costituito dalla volontà di comunicare neutralità e apertura verso le comunità.
Il nuovo gruppo, quello composto dai ragazzi più giovani, mostra da subito una disinvolta capacità di amalgamarsi; capacità che progredisce di esercizio in esercizio e che li differenzia dai loro formatori. Questi, infatti, necessitano ancor oggi di qualche spinta estea per non creare gruppi monoetnici, a dimostrazione del fatto che più è lontana la memoria diretta della guerra più è naturale l’incontro fra gruppi diversi.
«È bene che i miei figli facciano quello che noi non facciamo più» dice Boro Stamenic, padre di Milka, dodicenne serba, scampata al rogo della sua casa nel 1996, cresciuta in un campo profughi vicino a Belgrado e ora di nuovo nella casa ricostruita.
Gli adulti hanno ricordi vividi e forse insormontabili: le case bruciate e sventrate, lasciate per non morirci dentro; i faticosi ritorni alla propria terra dopo anni da profughi; le catene di torti, rivendicazioni, odi subiti e perpetrati; le ferite sulla pelle, gli arti mancanti e gli affetti perduti.

Il nazionalismo più fanatico è tuttora presente e domina il contesto economico, politico, sociale e culturale. La linea di confine, tracciata 10 anni fa a 10 mila chilometri di distanza, è nella carta, nella terra e nella mente. Così è possibile che sulla scrivania dell’ufficio del direttore della scuola di Krtova, che ha ospitato parte delle attività estive dei ragazzi, campeggi una cartina della Serbia e, dietro, un quadro di principi serbi.
I luoghi di divertimento sono separati e hanno nomi che definiscono in modo netto la provenienza culturale. E i genitori, fra i quali si contano molti ex combattenti, indietreggiano di fronte a un loro impegno in prima persona.
Sul fronte istituzionale, del resto, nessuna autorità promuove veramente la riconciliazione. Gli attori inteazionali riconosciuti (Onu, Nato, Osce, Eu, chiese) hanno, per diverse ragioni, ridotto notevolmente gli sforzi in tal senso. Queste popolazioni sono lasciate pressoché sole a cercare una nuova forma di convivenza non violenta se non proprio pacifica.
C’è ancora il bisogno di terze parti imparziali ed estee, che favoriscano il riavvicinamento fra le etnie e che sappiano introdurre nel dialogo contenuti di rispetto per la dignità umana. È d’importanza vitale la creazione di occasioni d’incontro e dialogo fra le comunità, oltre a quelle che spontaneamente crea il commercio. Spesso avviene che si superi il confine per andare ad acquistare beni che dall’altra parte sono più convenienti.
A fronte di tutto ciò, ecco che l’esperimento di Orahovica e Petrovo assume la valenza di progetto pilota per la ricerca della pacificazione interetnica. E il risultato sembra essere posto esclusivamente nelle mani delle giovani generazioni, alle quali è richiesto di svolgere il lavoro più imponente nel processo personale e collettivo nel superamento dei risentimenti e nella riappacificazione dei cuori, per creare una dimensione dinamica della pace che vada al di là delle logiche di potere.

Silvia Bianco

Silvia Bianco




La pace … nel pallone

Una volta modello di sviluppo per i paesi africani, la Costa d’Avorio è ora divisa in due dalla guerra civile e la pace è ancora lontana. I missionari della Consolata, da 10 anni presenti nel paese, hanno tenuto la loro conferenza regionale, mettendo a punto nuove strategie per essere tra la gente seminatori di riconciliazione e di speranza.
Vi ha partecipato l’autore di questo articolo, consigliere generale dell’Istituto.

Sono a Sago, 29 gennaio 2006, data importante per i missionari della Consolata: è l’anniversario della fondazione del nostro Istituto. Per i missionari che lavorano in Costa d’Avorio è pure l’occasione per celebrare il decimo anniversario della loro presenza nel paese.
La sera del 23 gennaio del 1996, infatti, i primi tre missionari della Consolata arrivarono al Centro pastorale della diocesi di San Pedro. Questo nuovo impegno missionario, in obbedienza alle indicazioni del ix Capitolo generale, aveva lo scopo di portare «novità in quanto allo stile, ai metodi e alle espressioni dell’azione evangelizzatrice dell’Istituto».
Di fatto, subito dopo il loro arrivo, cominciarono a prendere contatto con la bidonville del Bardot, un agglomerato di capanne di legno con 50 mila abitanti, senza luce elettrica né acqua né altre strutture essenziali. Poi, per essere più vicini ai poveri, fu costruita una casa in legno, accanto a una cappella già esistente, e si trasferirono definitivamente nella bidonville. Al tempo stesso i missionari ebbero l’incarico temporaneo di costruire la nuova parrocchia della cattedrale.
Con l’arrivo di nuovi missionari, nel 1997 fu aperta la missione di Sago, campo di prima evangelizzazione a 120 km da San Pedro. Nel 2000 fu accettata la cura pastorale di Grand Béréby, una parrocchia già organizzata, con numerose comunità cristiane appena incipienti. Nel 2004, restituita la zona del Bardot alla parrocchia della cattedrale, fu aperta una nuova missione a Grand Zatry, a nord di Sago.
Su invito del nunzio apostolico e a richiesta del vescovo di Odienné, nel 2001 tre missionari si stabilirono a Dianra, nel nord del paese a maggioranza musulmana, con lo scopo di avviare anche un primo graduale incontro e dialogo con la consistente popolazione islamica. Nel 2002 altri due missionari hanno iniziato la missione di Marandala, a 80 km a est di Dianra.

È il 12 febbraio 2006. Siamo a Daloa, una cittadina situata a circa 350 km dalla capitale Abidjan. Da quanto si vede, doveva essere una bella città; ma ora si è lasciata andare a causa della guerra.
Siamo ospiti in un centro di accoglienza della Caritas, per celebrare la seconda conferenza regionale dei missionari della Consolata operanti nel paese. È un momento importante per sognare, organizzare, inventare, riflettere sulla missione in questo bel paese.
Siamo nel refettorio: alla televisione passano le immagini del ritorno trionfale in patria della squadra nazionale di calcio, arrivata seconda dietro all’Egitto al toeo africano della Can (Campionato d’Africa delle nazioni). Uno dei dirigenti commenta: «Celebriamo la nostra squadra, orgoglio nazionale e segno dell’unità del paese» (sic!). «Se bastasse una partita di calcio… per riconciliare un paese e portare la pace!» pensano i missionari.
Dal 2002 la Costa d’Avorio è divisa in due: il nord è controllato dalle forze dei ribelli; il sud dall’esercito governativo. Questa divisione pesa non solo sulla popolazione, ma anche sul nostro servizio missionario, dal momento che tre comunità sono nella regione meridionale, due nel nord del paese.
La fragile tregua permette viaggi e spostamenti tra le due zone, ma solo con mezzi pubblici o di fortuna, come i camion militari. Così ho potuto visitare anche le due missioni nel nord del paese.
Girando nelle varie zone ho potuto constatare il degrado causato dalla guerra e della situazione d’insicurezza. La strada, una volta asfaltata, è in un pietoso stato d’abbandono, si vedono delle case smantellate, il «solito» piccolo commercio delle mamme africane, forza dell’economia di sopravvivenza, che rimpiazza il grande commercio del caffè, cacao e cotone e altri prodotti che hanno creato la fortuna del paese.
Dappertutto blocchi militari, posti di controllo, ufficialmente posti per la sicurezza e salvaguardia dei cittadini, ma in realtà, segno dello sfruttamento, corruzione, disinteresse generale di un paese fino a pochi anni fa tra i più belli dell’Africa, ma ora dilaniato e distrutto, in mano a gerarchi che non si interessano del bene della gente.

Le comunità cristiane affidate ai missionari della Consolata sono tutte situate in zone periferiche e presentano ancora la sfida della prima evangelizzazione. Esse sono costituite in grande maggioranza da immigrati, originari del Burkina Faso, Ghana, Togo, venuti a cercare fortuna ai tempi d’oro della Costa d’Avorio e costretti a lavorare per il paese ospitante, ed ora divenuti capro espiatorio di tutti i mali e malessere del paese. Le ritorsioni arbitrarie, le costrizioni, i rubalizi contro di loro sono tristemente noti alla società avoriana.
In questa situazione è difficile evangelizzare, annunciare la buona novella, costruire comunità cristiane. Anche la chiesa ufficiale è divisa e non offre orientamenti per un cammino di riconciliazione nazionale e per una crescita nel rispetto dei diritti di tutti.
Non essendoci una lingua unica nazionale, oltre al francese, che non è capito né parlato da tutti, il lavoro resta ancora più difficile e frammentario. La situazione per il momento non presenta grandi possibilità di soluzione o di miglioramento, si parla di arrivare alle elezioni per il prossimo mese di ottobre, ma sembra che quasi nessuno ci creda veramente.
La pace è dunque solo una parentesi nella storia umana? La Costa d’Avorio come tutta l’Africa è destinata «eternamente» a soffrire? Dal 1960, anno simbolo dell’indipendenza di molte nazioni africane, questo continente ha conosciuto più di 200 colpi di stato, 101 capi di stato sono stati cacciati a forza. Dal 1970 ci sono stati più di 35 conflitti solo nell’Africa subsahariana, che hanno provocato circa 8 milioni di morti, come la prima guerra mondiale.
Toando alla Costa d’Avorio, bisogna dire pure che gli indici di fiducia commerciale sono scesi precipitosamente nella scala mondiale a causa di questa guerra. La guerra ha rovinato gli equilibri sociali e promosso modelli di milizia professionale al servizio dei signori della guerra, arruolando e coinvolgendo sempre più dei bambini, compromettendo così generazioni intere.
Ma cosa è capitato in Costa d’Avorio, una volta «modello» di sviluppo africano? Chi poteva immaginare che un paese che aveva organizzato così bene la propria indipendenza, che bussava alla porta dei paesi emergenti, che dimostrava molti segni di sviluppo nel campo economico, infrastrutture, rete stradale, elettrificazione delle campagne, tasso di scolarizzazione… potesse covare tanto odio tribale. Come è stato possibile che in un paese definito «la patria della pace», «tanto caro e vicino alla Francia», si sia scatenata tanta violenza xenofoba verso gli immigrati, di purificazione etnica tra il nord e sud dello stesso paese, fino a sfociare in autentiche scene di «caccia all’uomo bianco»?
All’origine di questi drammatici eventi ci sarebbero lo scontento di una parte delle forze armate nazionali e le ambizioni di rivalsa dei protagonisti del precedente tentativo di golpe, oggi esiliati. Inoltre lo scontento per la dominazione economica della Francia, a cui ora si aggiunge l’insofferenza della presenza dell’Onu, mediante l’operazione Monuci. E poi ci sono tutti quei fattori presenti nelle crisi degli altri paesi africani: interessi politici ed economici delle grandi potenze per le risorse del continente, che in generale si disinteressano delle sorti delle popolazioni. Nel nord del paese ci sono giacimenti di diamanti, la cui vendita serve a finanziare le Forces Nouvelles, il gruppo ribelle che controlla quella regione. Un gruppo di esperti Onu ha stimato che la produzione annuale in Costa d’Avorio è di circa 300 mila carati, con un giro di affari annuo di oltre 20 milioni di euro.

Durante la conferenza, la parola che ho sentito maggiormente risuonare sulla bocca dei 14 missionari è stata «la speranza», da dare e da ricevere.
Speranza trasmessa, restando accanto alla gente in tempo di guerra e di disordini, condividendo rischi e paure delle popolazioni. Come sono rimasti ai loro posti nel passato, i «nostri» missionari si sono impegnati a continuare nel futuro a visitare i villaggi a piedi e in bicicletta, nonostante l’insicurezza che regna ancora, soprattutto nel nord del paese.
Speranza ricevuta dalla forza della gente, che ha reagito e continua a reagire a situazioni tanto precarie, organizzandosi, lavorando, aprendo cammini nuovi. Speranza nella missione, per costruire sulle rovine lasciate dalla guerra e fare spuntare fiori di novità.
I vescovi della Costa d’Avorio, in un messaggio dal titolo emblematico: «Gesù Cristo è la nostra pace», invitano tutti a essere artefici della pace, mediante il perdono per le sofferenze vissute, le vessazioni subite e anche per le uccisioni che hanno colpito tante famiglie. Essi chiedono a tutti gli uomini di buona volontà di resistere a tutte le tentazioni etniche, regionaliste e nazionaliste. E concludo: «La forza dell’Africa non viene dall’unità dei suoi figli? È la vittoria di Cristo che supera tutti gli ostacoli e ci rende liberi per un amore senza frontiere».

Stefano Camerlengo

Stefano Camerlengo




Tante ragnatele fermano l’elefante

In un contesto di contraddizioni e ingiustizie eclatanti, oggi più che mai, la missione della chiesa è chiamata a promuovere i valori del regno di Dio: giustizia, pace e salvaguardia del creato, facendosi «voce dei senza voce» nelle istituzioni in cui si fanno scelte che riguardano i paesi poveri del mondo.
Lo stanno facendo le congregazioni missionarie operanti in Africa, mediante la «Rete fede e giustizia Africa-Europa» (Aefjn), nei parlamenti dell’Unione europea e dei paesi che la compongono.

In febbraio 2004, circa 11 milioni di inglesi hanno seguito uno dei cosiddetti Reality shows: «Sono una celebrità, venite a liberarmi», dove un attempato cantante rock, una modella e un ex corrispondente governativo parteciparono a un gioco di sopravvivenza, in una remota parte della foresta vergine australiana.
Tale programma non ha niente a che fare con la realtà, perché basato su false sofferenze e false celebrità, con lo scopo di intrattenere cittadini annoiati e ben nutriti di una società consumistica. In molte parti del mondo, invece, si combatte una reale lotta per l’esistenza e nessuno vede. Non si tratta di false celebrità, ma di milioni di persone che lottano ogni giorno per sopravvivere: con loro e per loro dobbiamo essere agenti di speranza e liberazione integrale.
Il cristianesimo è fondamentalmente una religione di speranza: è basato sulla promessa del progetto di Dio per l’umanità e per tutta la creazione; vive perché tale promessa diventi realtà. La missione cristiana scaturisce da questa speranza e le dona un’espressione concreta. Anzi, la missione è «speranza in azione» (David Bosch). È il mezzo con cui l’avvenire che speriamo è introdotto in una relazione trasformante con il presente in cui viviamo. È «il ponte di Dio verso un mondo che non è ancora arrivato alla dimora che gli è stata preparata» (Carl E. Braaten).

UN MONDO GLOBALIZZATO

Oggi tutti parlano di «globalizzazione», ma c’è poco accordo sul suo significato e su come reagire al riguardo. Il gesuita Peter Henriot la definisce come «l’integrazione delle economie mondiali tramite il commercio, flussi finanziari e scambio di tecnologie e informazioni».
Qualsiasi definizione, tuttavia, non riesce a farci percepire le enormi trasformazioni portate in ogni aspetto della nostra vita dal rapido sviluppo delle cosiddette tecnologie di informazione. «Nel bene o nel male, siamo catapultati in un ordine globale che nessuno capisce pienamente, ma i cui effetti sono risentiti da noi tutti» (Anthony Giddens).
Il problema non è tanto il suo processo in sé. La globalizzazione può essere buona o cattiva: dipende da ciò che è globalizzato. Potrebbe essere usata per estendere i benefici di un capitalismo socialmente responsabile e una scienza e una tecnologia umanizzata per tutti i popoli: e sarebbe la ben venuta.
Ma ad essere globalizzato sono il capitalismo liberale irresponsabile («capitalismo selvaggio» lo ha definito Giovanni Paolo ii), a vantaggio dei ricchi e a spese dei poveri, e una tecnologia materialista, che sfrutta e distrugge la natura. Questo è problematico e profondamente inquietante. A dominare la scena mondiale oggi è il libero mercato. Il globo è visto come un mercato guidato dalla voglia di profitto d’imprese private, che non conosce frontiere nazionali né interessi locali.
«Oggi i ricchi capitalisti hanno un mercato globale dove giocare a tutto campo – afferma il teologo indiano Michael Amaladoss -. Le facilitazioni della comunicazione rapida e su scala mondiale sono utilizzate per aumentare i profitti, procurandosi mano d’opera a buon mercato nei paesi poveri. I mercati inteazionali giovano alle nazioni ricche che li controllano. I settori commerciali e di servizi sono favoriti, mentre i prodotti di prima necessità perdono valore. I parlatori di diritti di proprietà intellettuale ignorano i diritti umani e naturali. Le multinazionali sono più potenti di molti paesi. I politici sono dappertutto a servizio di interessi commerciali. Le nazioni più ricche usano la potenza politica e militare, anche fuori dei loro confini, per favorire e proteggere i propri interessi economici… Ciò che abbiamo non è la globalizzazione del benessere e dell’abbondanza, ma dell’ingiustizia e povertà».

AFRICA GLOBALIZZATA

Gli effetti negativi della globalizzazione sono visibili specialmente in Africa: le statistiche mostrano chiaramente che per la maggior parte degli africani non funziona bene. Se in qualche parte del mondo la globalizzazione ha offerto opportunità di crescita economica e sviluppo, in Africa ha aumentato disparità e ineguaglianze. Su 48 paesi in via di sviluppo nel mondo, l’Africa ne conta 33 e ha il più alto debito commerciale. Nell’ultimo decennio il Prodotto interno della maggioranza dei paesi africani ha subito un costante declino, mentre i prezzi dei prodotti da esportazione sono in caduta libera.
Per i paesi più poveri dell’Africa la globalizzazione ha significato l’apertura alle importazioni e industrie straniere e la distruzione delle imprese locali. Ne è un esempio il processo di «deindustrializzazione» avvenuto nello Zambia, dove l’industria tessile, una volta fiorente, è stata spazzata via dalle importazioni dall’Asia; piccole industrie, come quelle produttrici di pneumatici e materiale sanitario, hanno chiuso a causa della concorrenza di grandi ditte del Sudafrica.
La promozione di Investimenti stranieri diretti (Fdi, Foreign direct investment) è stata salutata come nuova motrice di sviluppo, ma il loro flusso in Africa è molto piccolo, a vantaggio di pochi paesi come il Sudafrica e di un’élite già privilegiata.
Inoltre il processo di globalizzazione in Africa ha portato all’imposizione di dure riforme economiche, dettate dal «programma di aggiustamento strutturale» (Sap). Tali aggiustamenti strutturali hanno significato: aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, delle tasse scolastiche e sanitarie, diminuzione di occupazione e smantellamento di strutture economiche locali.
Gli economisti neoliberali sostengono che, con l’attuazione del Sap, vi può essere «difficoltà a breve termine, ma un vantaggio a lunga scadenza»; in Africa, però, la «sofferenza temporanea» dei tagli ai servizi sociali, il danno ecologico e l’erosione delle industrie di base avrà a lungo termine effetti disastrosi, rendendo impossibile la speranza di uno sviluppo umano integrale e continuo.
Una delle conseguenze più disastrose di tali aggiustamenti è quella di rendere inutili le popolazioni africane: negli ultimi anni in molti paesi dell’Africa la disoccupazione è aumentata del 14% e i governi non hanno incluso alcun programma esplicito a favore dell’occupazione.
Non esiste né cooperazione né progresso, quando non si tiene conto della popolazione che vive sul posto, salvo venire usata da interessi stranieri per trae il maggior profitto. La globalizzazione guarda all’Africa e agli africani come componenti di un mercato libero globale, prescindendo da considerazioni di sostentamento e sviluppo umano integrale.
In breve, l’88% dei paesi africani sono considerati ad «alto rischio», a causa dell’instabilità politica e leadership corrotta, violenza e anarchia, tribalismo e razzismo, avidità di profitto economico e noncuranza dei diritti umani.
Il 40% dei paesi africani sono in guerra e sconvolge la vita di oltre 100 milioni di africani, in maggioranza donne e bambini, causando dislocamenti di popolazioni, massacri, perdite di vite umane, bambini soldati, fame, distruzioni di scuole, ospedali e infrastrutture varie.
Più di 300 milioni di africani vivono con meno di un dollaro al giorno; oltre un terzo dei bambini sono denutriti; 25 milioni di africani vivono con la sindrome Hiv/Aids (il 70% degli infettati in tutto il mondo).

MISSIONE È…
TRASFORMARE IL MONDO

Fino a poco tempo fa, la missione mirava in generale a estendere la chiesa, così com’era, fino agli estremi confini della terra, più che alla trasformazione di se stessa e del mondo, alla luce della speranza cristiana di una nuova terra e nuovi cieli.
Ma non è stato sempre così. La missione cristiana delle origini, soprattutto come la comprendeva san Paolo, era ispirata e diretta dalla speranza di una nuova creazione. Nella visione di Paolo missione e speranza erano intimamente legate: la missione spiana la strada e prepara l’umanità per la tappa finale del regno di Dio, quando non solo l’umanità, ma tutta la creazione sarà liberata e trasformata sul modello della risurrezione di Cristo.
Per Paolo, missione significa annunciare la signoria di Cristo su ogni realtà e invitare i popoli a rispondervi. Ciò significa proclamare una nuova situazione, che Dio ha iniziato con Cristo; una situazione che interessa tutte le nazioni e tutta la creazione e che culmina nella celebrazione della gloria finale di Dio.
Ma la predicazione in sé non basta. La vittoria finale del regno di Dio non giustifica la passività. La missione chiede e sostiene una partecipazione attiva al piano di Dio per la liberazione dell’umanità qui e ora.
Nella teologia paolina della missione troviamo il fondamento per una protesta coraggiosa contro le strutture oppressive del peccato e della morte e per un impegno totale nella promozione della giustizia, pace e integrità del creato. Alla luce della venuta gloriosa del regno di Dio, i cristiani sono chiamati a sfidare le strutture oppressive e rendere visibili i segni del nuovo mondo di Dio.

DEFINIZIONI E ATTITUDINI

Abbiamo tante definizioni della missione. Quelle che più mi piacciono, in linea con l’insegnamento di Paolo, sono le seguenti: la missione è «trasformazione del mondo in regno di Dio» (Sean Healy); «proclamazione giorniosa e universale della risurrezione di Cristo»; «effusione del divino Spirito di vita e d’amore dal Signore Risorto in tutti gli esseri umani e nell’intero cosmo»; «cooperazione illimitata tra Dio e gli esseri umani nel modellare continuamente un mondo libero da ogni tipo di peccato e schiavitù e nel ricrearlo senza sosta, fino alla pienezza d’amore e vita voluta da Dio».
Da tali definizioni derivano attitudini specifiche. Prima di tutto occorre testimoniare con la vita più che con le parole. «La rosa non ha bisogno di predicare. Effonde semplicemente il suo profumo. La fragranza è il suo sermone» (Gandhi).
E poi, ascoltare prima di parlare; operare con la gente, anziché per la gente; imparare prima d’insegnare; non avere tutte le risposte; essere attenti alla voce dello Spirito che ci parla negli altri e attraverso gli altri; scoprire Cristo nell’altro e convertirsi all’altro; avere il coraggio di essere umili; soffrire con gioia; agire con speranza in mezzo alla disperazione…
La conseguenza ovvia della missione così intesa è che l’ impegno per la giustizia, non è semplicemente un’area o una dimensione della missione della chiesa, ma il cuore di ogni missione e servizio svolto in nome di Cristo e del vangelo.
Se la sollecitudine e l’impegno attivo per un mondo più giusto, pacifico e sano non è al centro delle varie attività apostoliche, non può esserci una vera testimonianza e proclamazione del vangelo integrale di Cristo. L’impegno per creare un mondo più giusto, pacifico e sano è una dimensione essenziale e integrale della testimonianza della chiesa a Cristo e al regno di Dio nel mondo d’oggi. Forse questa è la sfida più impegnativa per le congregazioni religiose.
In tale impegno ci sono tre dimensioni fondamentali e interdipendenti: fare e avere esperienza del mondo degli esclusi ed emarginati; riflettere sul mondo e capirlo dalla prospettiva di tale esperienza; lavorare assieme ai poveri ed emarginati in programmi di azione diretti alla trasformazione del mondo.

ESPERIENZA ED ESPOSIZIONE

Le tre dimensioni sono collegate, ma distinte, con propri metodi e traguardi. La prima (con l’accento sull’esperienza) usa il metodo di esporsi al mondo dei poveri ed emarginati e mira all’empatia con le vittime dell’ingiustizia e a vedere il mondo dal loro punto di vista.
Sperimentare il mondo degli esclusi deve essere il punto di partenza e di riferimento costante per tutti gli impegni di «giustizia, pace e integrità del creato» (Gpic). Tutto ciò è in linea con la «opzione preferenziale per i poveri», adottata più di 30 anni fa come criterio principale dell’impegno apostolico di molte congregazioni religiose e missionarie.
Oggi non se ne sente parlare molto, eppure è essenziale. Tale opzione scaturisce e prende forza dalla via scelta da Dio per coinvolgersi con amore nella vita dei suoi figli; ci fa vivere concretamente le beatitudini di Cristo e imitare i suoi metodi missionari. È dal punto di vista dei poveri e degli esclusi che incominciamo a percepire le vie di Dio e ad allinearci al suo progetto per l’umanità.
Nel passato la formazione religiosa e missionaria in genere avveniva in centri sicuri e confortevoli, lontano dalle inquietudini e lotte per la vita della maggior parte della gente, specie dei poveri. Ma non credo che ci siamo allontanati da questo tipo di formazione in modo significativo. Non è facile. Persino i recenti centri di formazione in Africa e Asia non hanno scelto di rompere con tale tipo tradizionale di strutture; anzi, sono più confortevoli che nel passato.
Per esporsi al mondo dei poveri bisogna entrare nei luoghi dove vivono, identificarsi con le loro paure, frustrazioni, lotte, giornie e speranze, come fece Gesù. Solo così si può imparare a sentire e simpatizzare con quelli che vivono ai margini della società economica e politica e vedere il mondo dal loro punto di vista.

RIFLETTERE E CAPIRE

La seconda dimensione usa l’investigazione, riflessione, ricerca metodica, con lo scopo di capire il mondo dal punto di vista delle vittime dell’ingiustizia. Come ogni esperienza, anche quella fatta con i poveri ed emarginati deve essere interpretata. Non basta l’empatia, il mettersi nei panni dei poveri. È d’importanza vitale leggere e capire il mondo dalla loro prospettiva. Tale lettura deve essere fatta, prima, alla luce del vangelo e della tradizione cristiana; poi alla luce del carisma specifico di ciascuna congregazione o istituto.
La formazione intellettuale, specie all’inizio, dovrebbe mirare a fornire ai candidati non solo fatti e risposte prefabbricate ai problemi sperimentati, ma anche strumenti e metodi che permettano d’interpretare e capire la realtà vissuta di persona e vista dalla parte degli esclusi.
Al tempo stesso è cruciale che siano comunicate certe informazioni basilari, specialmente sugli squilibri che affliggono il nostro mondo nel campo dell’economia, politica, rapporti sociali, relazioni tra uomini e donne e con l’ambiente. Questo non viene ancora fatto. Corsi specifici su tali problemi possono essere necessari per completare e concretizzare i normali programmi dei corsi di teologia, spiritualità e pastorale.
Inoltre i candidati, fin dalla formazione di base, dovrebbero essere incoraggiati a fare delle ricerche personali su problemi specifici, per esempio: valutare un determinato programma di aiuto, trattamento dei rifugiati in una certa area, soluzione di un conflitto, ecc. La conoscenza intellettuale del mondo non basta. Come cristiani dobbiamo avere una comprensione che unisce cuore e mente, spirito e intelletto.

AGIRE PER CAMBIARE
IN SOLIDARIETA’ CON I POVERI

Come servi del vangelo di Cristo, la nostra missione non è solo di capire il mondo, ma anche di cambiarlo, trasformarlo alla luce e in accordo con le esigenze dell’avvento del regno di Dio. La fede nel Risorto ci induce in una profetica scontentezza per come stanno le cose e in vista dell’avvenire promesso al mondo.
Per ciò la formazione alla giustizia include l’iniziazione a tecniche e pratiche necessarie per diventare attori effettivi del cambiamento sociale. Nel passato si dava molta attenzione, nei programmi formativi, alla conoscenza e alle tecniche necessarie per i ministeri spirituali e pastorali. C’è ugualmente bisogno di formazione per diventare attori efficaci in campo socio-economico; cioè attori capaci di motivare le persone, aiutarle a far valere le proprie ragioni, lavorare con loro in programmi di azione scelti dalla gente.

DIFESA DEI DIRITTI UMANI

L’«advocacy» (patrocinio) è una delle strategie più importante per promuovere la giustizia nei paesi in via di sviluppo. Le decisioni prese nell’emisfero nord hanno un impatto enorme e durevole sulla vita di milioni di persone dell’emisfero sud. È imperativo che la loro voce sia udita nel processo decisionale. Le congregazioni religiose non debbono eludere questa sfida, di patrocinare e farsi voce di chi non ha voce.
È chiaro che tale patrocinio (advocacy) è una strategia che richiede la più grande cooperazione possibile tra i religiosi e i gruppi laicali che hanno come comune ideale la creazione di un mondo più giusto.
L’Africa Faith and Justice Network (Afjn) e l’Africa-Europe Faith and Justice Network (Aefjn) sono state istituite specificamente per questo tipo di azione comune.
C’è un proverbio dello Zimbabwe che dice: «Quando le tele di ragni si uniscono, possono imprigionare un elefante». Il «vangelo della speranza», che siamo chiamati a proclamare con parole e opere, c’interpella e ci dà la forza d’imprigionare l’elefante delle strutture economiche ingiuste, in modo che il regno di Dio, che è giustizia, pace e amore, diventi una realtà per tutte le sue creature.

Michael McCabe SMA
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Padre Michael McCabe, teologo irlandese, della Società delle missioni africane (Sma), è attualmente direttore dell’Aefjn e consigliere generale del suo istituto.

Michael McCabe SMA




Gomitolo di storie

Nel barrio (quartiere) Guaricano, periferia nord di Santo Domingo, una volta conosciuto come «barrio della spazzatura», dal 1991 operano due preti genovesi e quattro suore di N. S. del Rifugio in Monte Calvario (Brignoline). La loro presenza si intreccia in una matassa di storie di ordinaria vita quotidiana, non tutte a lieto fine.

Il ragazzo ha una testa enorme, sproporzionata al resto del corpo. Sei mesi dopo, lo scrivo come l’ho pensato, rettifica compresa: il ragazzo sembra avere una testa enorme, sproporzionata rispetto al corpo. Il fatto è che il corpo non ce l’ha, povero ragazzo di Barrio Guaricano, fulminato da non so quale malattia che gli ha storpiato gambe e braccia, rattrappendo il tronco e lasciando solo alla testa la libertà di svilupparsi secondo natura.
Avrà 18 anni, passati tutti fra un letto e una seggiolina, o strisciando sul pavimento della baracca di casa, nel ventre di uno dei posti più desolati e desolanti del mondo, nella parte di Santo Domingo che le cartoline e i begli spot promozionali non fanno vedere e, chi prenota una vacanza, scopre soltanto dopo, ma subito dimentica, perché la barriera corallina e la bellissima gente dominicana sono tutta un’altra cosa. E in fotografia vengono meglio.
Il mio fratello di reportages missionari si chiama Tito Mangiante e usa la telecamera con la leggerezza con cui farebbe il bagnetto a un neonato: è così delicato e rispettoso che a volte l’inquadratura somiglia a una carezza; e così racconta con garbo anche le cose che si faticano a guardare.
Così nei servizi che ho fatto per il mio telegiornale (quello che tutti conoscono come Tg3 regionale, nel mio caso Tg3 Liguria, si dovrebbe dire TgR Liguria, ma dite come vi piace), sono riuscito a far vedere il ragazzo dalla testa che sembra enorme, senza che nessuno abbia pensato a una spettacolarizzazione del dolore. Ho voluto farlo vedere, questo ragazzo, perché da noi starebbe nelle camere che non si visitano di qualche ospedale, e invece laggiù vive insieme agli altri, non è solo né vittima di curiosità morbose, l’ho visto sorridere, benché affondato nella sedia a rotelle dal telaio rosso fuoco.
Non dico sia stata una lezione; non ho mai pensato che il giornalismo sia dare lezioni, essendo la testimonianza il solo compito richiesto a chi ha il privilegio di essere testimone; dico privilegio perché il testimone vede e riflette senza mediazioni la realtà mentre si svolge, tutti gli altri devono accontentarsi di sentirsela raccontare. Niente può compensare la possibilità di essere occhi, orecchie e cuore del resto dell’umanità.
È un dono che diventa responsabilità e la sento, questa responsabilità: nel lavoro quotidiano, nel lavoro straordinario che una volta all’anno vado a fare da qualche parte nel mondo, per documentare attività missionarie, che oggi più che mai non devono restare sconosciute.
Quanto più i mezzi di comunicazione danno spazio agli argomenti futili, tanto più mi pare importante sventolare qualche bandierina diversa e rivendicarne la piena dignità; se ogni scelta ha proprie inossidabili logiche (è così, ma se ne può discutere) le scelte d’amore e di frateità vanno testimoniate negli spazi della normale informazione quotidiana, perché sono testimonianze di vita quotidiana.
D ico questo perché il filo che con Tito sono andato ad avvolgere in un gomitolo di storie, a Santo Domingo, ci ha portati a frugare fra le baracche di Barrio Guaricano; ma anche intorno agli ombrelloni di Boca Chica e a quelli di Samanà, non distanti dalla spiaggia che viene truccata da isola in un noto reality televisivo. Poi abbiamo visto e non dimenticheremo la Explanada de la verguenza, la spianata della vergogna, sulla quale incombe il Faro a Colón (Cristoforo Colombo), brutto monumento, che ha la pretesa di far sintesi dell’umanità e di porsi come principio del Nuovo Mondo.
Però abbiamo visto anche la «Prima Università», la sobria e sorprendente «Prima Cattedrale» (con la targa che ne ricorda la consacrazione a basilica, firmata dal genovese Benedetto xv), perfino i nobilissimi resti del «Primo Ospedale», intitolato a san Nicola di Bari. In realtà è stato un modo per celebrare il viceré Nicolas de Ovando, passato alla storia certo per la sua abilità di governatore delle terre d’oltremare, ma anche per aver sterminato gli sventurati tainos. Sono quelli che, all’arrivo di Colombo, avevano accolto l’ammiraglio con ingenua cordialità: gli stessi che, dopo la cura Ovando, scomparvero senza lasciare alcuna traccia di sé, a parte quelle che gli archeologi sanno ritrovare e valorizzare come reperti storici.

Così nella matassa sono rimasti immagini e appunti che a volte sembrano avere poco, o comunque meno, a che fare con il cammino pastorale di don Lorenzo Lombardo e don Paolo Benvenuto, insomma con l’impegno della missione diocesana di Genova a Santo Domingo, intensamente vissuta anche dalle suore, che, appartenendo all’ordine delle Brignoline, issano un’altra bandiera con i colori e la croce di San Giorgio.
È vero, a volte certi argomenti possono sembrare fuorvianti, ma servono a costruire ipotesi di contesto ed è questo che rende possibile collocare le cose e le storie, percepire le sensibilità, tastare il terreno, sentire se e dove ci sia uno spazio di dialogo.
Per capire il contesto, una sera abbiamo accompagnato don Paolo in uno studio televisivo (una sorta di Telepace dominicana) e abbiamo partecipato a una messa in diretta, osservando con sorpresa ed emozione il nostro tuo di preghiera; con suor Serafina siamo andati fra i malati del barrio, entrando nelle loro poverissime case; sull’ambulanza di don Lorenzo abbiamo girato la città coloniale, vedendo e toccando i segni del suo essere stata avamposto della Vecchia Europa nel Nuovo Mondo.
Ma siamo arrivati anche nella discarica di Duquesa, dove bambini di 12 anni raccolgono bottiglie rotte e si dissetano spremendo cartocci di bevande presi nella spazzatura: abbiamo registrato i loro sguardi, le loro esplosioni di infantile arroganza, le loro confessate paure di morire sotto un carico di rifiuti o per una infezione, la desolata ammissione che «qui nessuno va a scuola, perché nessuno si occupa di noi e noi dobbiamo procurarci almeno da mangiare».

Abbiamo assaggiato anche la Santo Domingo dei vincenti. Ci ha aiutati l’esuberante ed efficientissimo Aldo Burzatta, portavoce degli italiani residenti. In seguito alle sue segnalazioni abbiamo incontrato uno degli uomini più ricchi dell’isola, il simpatico figlio (il primo di cinque) di un pizzaiolo napoletano che scelse la terra dominicana per riunire la famiglia, non potendo farlo negli Stati Uniti per i vincoli posti dalla legge sull’immigrazione: ricordando i tempi difficili, a Natale fanno in modo che sia festa anche per qualcun altro.
Sempre Burzatta ci ha fatto incontrare un romagnolo con una casa da film: fra luglio e agosto l’ha trasformata in scuola d’italiano per i figli dei connazionali, con la speranza di riuscire a passare dalla fase sperimentale all’insegnamento legalmente riconosciuto: è una persona intraprendente, con interessi nei settori alberghiero e commerciale, grande senso del proprio successo, peccato abbia ripetuto l’invito a pranzo ammiccando un «non preoccupatevi del conto, perché è tutto pagato da me».

Toando ai piani bassi, quelli che francamente ci interessano di più, abbiamo conosciuto la storia di Mamà Tingò, Donna Coraggio, che 30 anni fa non ebbe paura di sfidare i terratenientes che si erano impadroniti delle terre da sempre appartenute ai campesinos, che le lavoravano ricavandone appena di che vivere: la uccisero davanti a testimoni, senza preoccuparsi delle conseguenze. Un sacrificio che purtroppo non è servito: nessuno dei campesinos ha conservato la propria terra; Mamà Tingò non ha avuto nemmeno un monumento dignitoso.
Una storia triste. Del resto è difficile trovare storie a lieto fine cercando fra i disperati. Per esempio, finiscono male, ogni anno, 250 ragazzi del Guaricano, risucchiati dalla vita di strada e morti di morte violenta.
Uno ogni 36 ore resta vittima di un tiroteo con la polizia, ci racconta Francesco Zannini, volontario della Missione diocesana di Genova: «A volte perché lo scontro a fuoco aveva qualche motivo, a volte perché in certi posti basta non rispettare uno stop e si finisce ammazzati».
In questi casi la strada viene disseminata di candele accese e le scarpe del morto vengono appese ai fili della luce, come aquiloni finiti male: nel linguaggio del barrio, è il segno che lì è stato compiuto un sopruso.
È vita quotidiana. «Qui manca qualunque possibilità, ecco perché si vive nella violenza» ci dice il farmacista, mentre sistema grossi lucchetti alle saracinesche della sua tienda. Oltre la cinquantina, brizzolato, occhiali con la montatura in metallo, modi gentili, accompagnato dalla moglie, una signora elegante, dalla cinta dei pantaloni gli spunta il calcio di una pistola: «I delinquenti sono armati, dobbiamo esserlo anche noi: se vedono la pistola ti lasciano stare, altrimenti ti rapinano, ecco perché qui tutti girano armati». La sua, dice, non ha mai sparato.

In questa città disordinata e dalle contraddizioni sociali in piena evidenza, dove viadotti mozzafiato nascondono alla vista la sterminata baraccopoli cresciuta lungo il fiume, a poca distanza dalla discarica si incontra la Città Modello, una zona residenziale totalmente autosufficiente, in cui però non abita nessuno.
Più avanti, percorrendo Calle Emma Balaguer, si sfiora la Cañada, un quartiere-fogna, cinque metri sotto il livello della strada, in cui la gente vive ammucchiata in baracche ad alto rischio. «Lo scarico è a cielo aperto; oggi si sente solo la puzza, ma quando piove diventa pericoloso – ci hanno detto Iris Valensuela e Juan Reyos -. Qui si allaga tutto, la fogna entra nelle case». Starebbero volentieri altrove, ma sono troppo poveri per comprare casa da un’altra parte.
I bambini giocano lungo il fiume maleodorante e nero; gli uomini rinforzano il piccolo argine a protezione della propria baracca. Qui la speranza di vita è così bassa e la povertà così spessa, da non poter portare in ospedale una bambina che ha smesso di camminare dopo essere caduta dalla sedia.

In questa città ci è piaciuto sentire ancora vivo il ricordo di un segno lasciato da Giovanni Paolo ii.
Era l’11 ottobre del 1992; si festeggiavano con un giorno di anticipo i 500 anni dell’impresa colombiana. Davanti al Faro, appena costruito senza badare a spese né alla sopravvivenza dei 50 mila sfrattati dalla Explanada, era stato sistemato l’altare per la messa: spettacolare il colpo d’occhio, una quinta formidabile per le riprese televisive. Peccato solo che l’orario della funzione non permettesse di apprezzare il fascio di luce sparato nel cielo da 250 mila watts (sottratti alla pubblica illuminazione), per formare una croce irradiata, appunto, dal Faro a Colón.
Il Papa disse che quel lato non gli piaceva, meglio celebrare la messa dall’altra parte, quella che si affaccia sulle baracche rimaste, nascoste da un muro fatto costruire proprio per evitare che il mondo vedesse quella miseria. Immenso Wojtyla, gli mandò a pallino la sceneggiata.

Sono le storie che ci hanno raccontato e che a piccole dosi si possono trovare sul blog di don Paolo (Hyperlink «http://www.chiesamissionaria.it/diario»), dove per qualche tempo ho inserito frammenti di quella che in gergo chiamiamo relazione di ripresa. Una sorta di appunti di viaggio, scritti man mano che esaminavo il lavoro fatto con Tito: 10 ore di immagini, comprese le interviste a qualche persona importante e molta gente comune.
La mia relazione di ripresa si è tradotta in una serie di brevi articoli (li ho titolati «Sbobinando» e seguono una numerazione progressiva), che hanno costituito l’ossatura dei servizi che ho realizzato per il TgR Rai della Liguria, per Tv7 (Tg1), per Agenda del Mondo (Tg3). Tutto questo si fonderà in un documentario che metteremo a disposizione delle parrocchie, coronando in questo modo un mio desiderio di sempre. Che poi è l’inizio del mio cammino, in un piccolissimo e lontanissimo cinema teatro parrocchiale. Tanto tempo fa, capanne africane in un filmato tremolante, storie missionarie che chissà quanti di voi hanno visto e certamente ricordano.
A me è stata concessa la gioia profonda della prima persona: ho visto, ho sentito, ho condiviso, e questo è un altro grande privilegio.

Tarcisio Mazzeo

Tarcisio Mazzeo