Bolivia. Evo, il presidente aymara

Su Evo Morales Ayma, il primo presidente realmente indio delle Americhe, pesano molte aspettative, in patria e all’estero. Dovrà affrontare temi spinosi come la gestione delle ingenti risorse di gas, la produzione di foglie di coca, la ricerca di uno sbocco al mare, i difficili rapporti con Washington. Con Evo Morales abbiamo parlato in un incontro avvenuto prima della sua netta vittoria alle elezioni del 18 dicembre 2005. Questo è il resoconto di quella conversazione.

La Paz. L’ufficio del Mas, all’interno del palazzo del Congresso, è pieno di manifesti popolari. Nessun mobile di pregio, nessun orpello, nessuna segretaria giovane ed attraente. Insomma, non ha nulla di un ufficio di rappresentanza. Santos Ramirez Valverde mi riceve per un’intervista su tematiche economiche. Al termine, quasi pro forma, domando se è possibile incontrare Evo Morales. «Non è a La Paz, ma domani dovrebbe esserci – mi risponde -. Vediamo se possiamo prendere un appuntamento». Fa una telefonata. «Allora, è per domani mattina, alle 8.30». Un colpo di fortuna, penso. Ma sarà vero?
Francisco Ibar Arocha, proprietario del Sagaaga, l’albergo dove alloggio, è un imprenditore e in quanto tale mi guarda con faccia interdetta quando gli dico che incontrerò Evo Morales. Poi però mi suggerisce una serie di domande… Il giorno seguente, di buon mattino, mi presento all’appuntamento nel palazzo del Congresso. E puntualmente mi fanno entrare nell’ufficio di Evo Morales. L’iconografia del personaggio è come uno si attende: volto indio, capelli nero corvino, vestiti popolari.

La Bolivia è un paese a netta maggioranza indigena. E lei non perde occasione per ricordare la sua appartenenza india…
«Perché non dovrei? Io sono di stirpe aymara. Sono nato nel 1959, a Orinoca, nel dipartimento di Oruro. Poi sono emigrato con la mia famiglia nella regione del Chapare, nel dipartimento di Cochabamba. All’inizio degli anni Ottanta sono entrato nel sindacato del Tropico, dove sono arrivato a coprire la carica di segretario generale.
Nel 1998 ho assunto la presidenza del Mas, il Movimiento al socialismo. Insomma, io provengo dalle lotte sociali e non ho una formazione accademica».

Il Mas è cresciuto come movimento di protesta dei produttori di foglie di coca. Non le pare un po’ limitato?
«Non è così. Il Mas è un partito politico che è nato e affonda le sue radici nei movimenti sociali.
Nel 1992, il movimento contadino, durante il suo congresso, decise di dotarsi di uno strumento politico per arrivare alla liberazione e alla sovranità delle popolazioni. Proprio in quell’anno cadevano i 500 anni dall’inizio della resistenza indigena e popolare. Il Mas era lo strumento giusto per passare dalla resistenza alla presa del potere, dalla protesta alla proposta.
Nel 2002 il Mas era la seconda forza politica del paese, oggi è diventata la prima. Assieme ai movimenti sociali e ai movimenti intellettuali, il Mas vuole essere uno strumento politico per cercare di cambiare il sistema economico e politico».

Il sistema è quello neoliberista. Qual è l’analisi del suo movimento?
«Abbiamo sperimentato il neoliberismo non soltanto all’interno della Bolivia, ma anche nel resto dell’America Latina. Da tempo siamo giunti alla conclusione che esso non soltanto non è la soluzione, ma anzi è la causa delle crisi economiche e dell’instabilità dei governi. L’Argentina era il paese simbolo di questo sistema economico e sappiamo tutti che fine ha fatto. Anche il Cile, altro paese additato a modello, oggi è attraversato da ondate di protesta».

La Bolivia è un paese con enormi ricchezze minerarie, di gas in particolare. Eppure, dopo Haiti, è il paese più povero dell’America Latina…
«Le risponderò con una frase che ha detto il premio Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel: “Sulla nostra ricchezza ci siamo impoveriti”.
Il modello economico del sistema capitalista purtroppo è fondato innanzitutto sul saccheggio delle nostre ricchezze e delle nostre risorse ad opera delle transnazionali, della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Pare assurdo, ma la stessa ricchezza ha generato la povertà».

Se questo è il problema principale, come pensate di risolverlo?
«Ponendo fine al saccheggio, attraverso il recupero della proprietà del suolo e del sottosuolo. Questa è la richiesta di tutti i movimenti sociali boliviani.
Ma lo sa che la Bolivia fu il primo paese latinoamericano a nazionalizzare? Oggi i benefici sono tutti per le imprese transnazionali e non per le popolazioni della Bolivia».

Dunque, è lo stato che deve gestire le risorse della Bolivia?
«Lo stato con la partecipazione del popolo».

Lei insiste molto sul saccheggio messo in atto dalle imprese transnazionali. Ma la Bolivia può fare a meno di esse?
«Certamente ci sarà la necessità di tecnologia, esperienza, macchinari e per questo avremo bisogno di collaborare con altri paesi. Ma il saccheggio delle risorse del popolo boliviano deve terminare! Un saccheggio, tra l’altro, legittimato dalla nostra legge di capitalizzazione».

Quella che in Bolivia si chiama «capitalizzazione» è una sorta di «privatizzazione»?
«Sì, la legge di capitalizzazione è un sinonimo di privatizzazione. Noi la contestiamo perché non ha favorito l’importazione di capitali ma l’esportazione, con la conseguenza (paradossale) che invece di capitalizzare il paese lo si è decapitalizzato. In questo modo invece di progredire si è prodotta ancora più povertà e disoccupazione. C’è anche una transnazionale del suo paese, la Telecom Italia, proprietaria di Entel. L’azienda italiana ha fatto milioni di dollari di profitti in questi ultimi anni».

Dalla guerra del Pacifico del 1879, la Bolivia è priva di un accesso al mare. È una questione rilevante per il paese?
«Certamente! La Bolivia è stata fondata con un accesso al mare. Il problema è strettamente connesso con la questione del gas. Infatti, il movimento indigeno ha preso posizione sul tema del gas e lo ha fatto in connessione con il problema dell’accesso al mare. Adesso che la questione non è più soltanto a livello nazionale ma è diventata internazionale, si è aperto uno spiraglio affinché la Bolivia torni ad avere un accesso al mare.
Vogliamo evitare di creare conflitti regionali, ma allo stesso tempo non vogliamo restare condizionati da una situazione che è stata creata da un conflitto e che resta tuttora pendente. Siamo contenti dell’interessamento della comunità internazionale perché questo è un problema multilaterale».

La sua opinione su Gonzalo Sánchez de Lozada detto Goni e su Carlos Mesa.
«Goni era un imprenditore neoliberista. Il popolo si è sollevato contro di lui, ma non è riuscito a finirla con il modello economico che egli rappresentava. Oltre a ciò è un fascista e un razzista. Adesso è scappato a Miami, sicuramente portando con sé molto denaro, frutto della corruzione e dei saccheggi. Nel caso di Mesa pensavo che almeno sarebbe stato un riformista neoliberale, ma invece ci siamo trovati con un continuismo d’impresa. Il presidente ha continuato a dialogare con le imprese transnazionali senza ascoltare i movimenti sociali. Quindi Mesa non ha capito il sentimento e le intenzioni del popolo boliviano, questa è la realtà».

Insomma, a suo parere, uno vale l’altro?
«Mesa parla meglio lo spagnolo di Goni, ma purtroppo suonano la stessa musica sulle tematiche politiche».

Per decenni gli Stati Uniti hanno considerato il Sud America come il loro «cortile di casa». Come giudica quel paese o meglio la sua politica?
«Pensiamo a come gli Stati Uniti hanno disegnato l’intervento in Iraq: hanno detto che là c’era Saddam dotato di armi di distruzione di massa, che però non esistevano. In tal modo hanno giustificato un intervento militare per accaparrarsi delle risorse e in particolare gli idrocarburi per le loro imprese. La scusa di Washington per l’America Latina è il narcoterrorismo, ovvero una giustificazione politica per permettere alle transnazionali di quel paese di sfruttare le risorse. Insomma, in Iraq hanno usato un pretesto, in America Latina ne usano un altro.
Siamo in questa congiuntura politica: quando la democrazia non serve all’impero, si fanno colpi di stato. Basti pensare a questa cospirazione permanente contro il Venezuela. Per questo noi vogliamo aiutare e appoggiare concretamente il presidente Hugo Chávez e la democrazia in Venezuela, che fra l’altro ha appoggiato la nostra richiesta di avere un accesso al mare».
In Italia, i media, soprattutto quelli importanti, l’hanno descritta quasi esclusivamente come leader dei cocaleros. Può spiegare i termini della questione coca?
«Innanzitutto occorre dire che la foglia di coca, allo stato naturale, non fa nessun danno alla salute umana. Ci sono, ad esempio, molte imprese che fanno un uso industriale della foglia di coca per ottenere per esempio una specie di whisky o altri prodotti destinati al mercato europeo o degli Stati Uniti. Anche secondo gli studi dell’Oms, la foglia di coca allo stato naturale non è dannosa. Quindi, non possiamo dire che i produttori di foglie di coca siano narcotrafficanti, né che i consumatori di esse siano tossicodipendenti, anche se questa è la visione che hanno alcuni paesi.
In Chapare ci sono circa 60 mila famiglie che vivono della produzione di foglie di coca, un prodotto che finisce sul mercato interno, locale e nazionale».

D’accordo, ma Washington la accusa di essere un narcotrafficante…
Tanto che, nel 2002, l’ambasciatore Usa in Bolivia, Manuel Rocha, fece campagna elettorale contro di lei…
«Noi diciamo che si deve affrontare il problema del mercato illegale della foglia di coca per la produzione della cocaina. Noi non siamo difensori del narcotraffico. Anzi, il narcotraffico ci è stato imposto. I precursori, ovvero gli agenti chimici necessari per trasformare in droga le foglie di coca, provengono dagli Stati Uniti; senza dire che, per trattare chimicamente le foglie di coca, sono necessari investimenti di parecchi milioni di dollari; infine, c’è il segreto bancario che ostacola tutto. Insomma, c’è un narcotraffico in doppiopetto, che non viene mai messo in galera e coinvolti in questo business ci sono persino stati e governi. O ambasciate di paesi stranieri in Bolivia… Io dico che, purtroppo, la coca non è altro che un pretesto affinché gli Stati Uniti possano controllare meglio il nostro paese».

Lei ritiene che la lotta alle coltivazioni dei cocaleros sia una scusa dietro cui si celano altri obiettivi?
«Certamente questo è un modo per criminalizzarci. Guardiamo alla storia. I movimenti sociali degli anni ’50 e ’60 erano accusati di furto e di essere comunisti; negli anni ’80 e ’90 siamo stati accusati (io ero già sul campo) di essere narcotrafficanti; a partire dall’11 settembre del 2001, non ci hanno più accusato di essere narcotrafficanti, ma di essere terroristi. Tutto questo ovviamente serve per demonizzare ed isolare questo movimento. In sostanza, se tu sei antimperialista, ti accusano sistematicamente di essere comunista, terrorista, narcotrafficante.
Si pensi al Cile dove, nella zona di Temuco, la regione dei mapuches, vari dirigenti indigeni sono stati incarcerati. Erano alla guida di grandi proteste, legali dal punto di vista costituzionale. Per poterli fermare e chiudere in carcere, hanno dovuto dire che erano terroristi. Queste accuse vengono costruite per reprimere le lotte dei movimenti. Anche il Mas è spesso esposto al rischio di vedere i propri dirigenti oggetto di montature per fini politici.
Personalmente, sono oramai abituato a essere accusato di tutto. In passato, i servizi di intelligence degli Stati Uniti mi hanno accusato di essere vincolato con le Farc della Colombia, adesso dicono che sono alle dipendenze di Chávez».

Nonostante i problemi, lei è ottimista sulla possibilità di cambiare la Bolivia senza violenza, senza guerra civile, attraverso mediazioni pacifiche?
«Da quando abbiamo scelto di entrare nel processo elettorale, abbiamo innanzitutto deciso di cercare di ottenere modifiche profonde ma sempre attraverso strumenti pacifici. Non ci sono soltanto le questioni delle risorse del sottosuolo o delle foglie di coca, ci poniamo anche il problema di come incorporare in questa democrazia formale la democrazia delle comunità. Per esempio, in tema della giustizia attualmente si riconosce solo la giustizia politica e non si prende in considerazione la giustizia comunitaria. Ma ci sono molti altri temi: l’istruzione, le forze armate, che tipo di economia adottare. E ancora come fare una nuova assemblea costituente che permetta di ammodeare la Bolivia che, nelle linee generali, è stata definita all’atto della sua fondazione. Da quel momento però gli indigeni sono stati esclusi dal processo di formazione del paese. Eppure, secondo l’ultimo censimento del 2001, essi costituiscono il 62% della popolazione totale. Oramai non mancano più studenti o imprenditori di etnia quechua, aymara o guaranì, ma a volte, di fronte ai censimenti, le persone mentono sulla loro appartenenza etnica. Quindi, 62% è il valore ufficiale ma in realtà la percentuale di popolazione indigena è superiore.
Da questo momento dovremo procedere a un profondo rinnovamento della Bolivia e questa trasformazione dovrà essere democratica e pacifica».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Dal rettore magnifico

T ra l’Università di Torino e l’Africa esiste un rapporto molto concreto, tangibile e in fase di continuo arricchimento. Da molti anni ormai diverse facoltà e gruppi di ricerca del nostro ateneo svolgono attività di cooperazione nel continente africano: un continente problematico, ma allo stesso tempo ricco di risorse umane e di interessi di ricerca.
Gli accordi esistenti riguardano sia la cooperazione interuniversitaria che quella a sostegno dello sviluppo e rientrano sia nell’ambito della didattica che della ricerca scientifica. I progetti spaziano in diversi ambiti disciplinari, dal campo medico e sanitario, a quello della medicina veterinaria, delle scienze agrarie, biologiche, matematiche e fisiche, ma anche delle discipline giuridiche, antropologiche ed umanistiche.
Docenti e studenti torinesi e africani trascorrono periodi di studio e ricerca presso l’ateneo partner, rendendo possibili esperienze estremamente arricchenti sia sotto il profilo didattico e professionale sia, più in generale, nella prospettiva della comunicazione interculturale.
Allo stretto rapporto tra l’Università di Torino e l’Africa, nei mesi di maggio e giugno 2005, sono state dedicate una mostra fotografica e una giornata di studi, organizzata dal dipartimento di Scienze antropologiche, archeologiche e atorico-territoriali e dal Centro piemontese di studi africani.
Le due iniziative, ospitate nel rettorato della nostra Università, sono state preziose occasioni per diffondere la conoscenza sui progetti avviati e i risultati ottenuti.

L’ impegno dell’Università in Africa in ambito medico e sanitario prevede essenzialmente interventi di tipo assistenziale, didattico e scientifico dall’implicito carattere umanitario.
Nel villaggio burundese di Kiremba, a 30 km dal confine con il Rwanda, dal 1966 sorge un ospedale fatto costruire dalla diocesi di Brescia per volere di sua santità Paolo vi. L’ospedale, a cui attualmente accedono circa 100 mila abitanti, è dotato di reparti di medicina, pediatria, ostetricia, ginecologia, chirurgia, ortopedia e alcuni servizi quali un laboratorio analisi e uno di radiologia, e il centro nutrizionale e terapeutico. Le facoltà di medicina dell’Università di Torino e Verona operano in stretta collaborazione a livello medico per la gestione della struttura che è affidata alla Ong Ascom (Associazione per la cooperazione missionaria) di Legnago (VR).
L’Università di Torino inoltre cornordina un’attività di ricerca clinica soprattutto su malaria, virus dell’Hiv, tubercolosi e collabora con la facoltà di Medicina di Ngozi, tenendo un corso di malattie infettive e tropicali agli studenti del 3° anno, i quali hanno anche la possibilità di svolgere uno stage teorico pratico presso l’ospedale di Kiremba.
Si tratta di un intervento che permette all’ospedale di Kiremba di avere medici specializzati senza spese di gestione e all’Università di Torino di implementare lavori di ricerca scientifica con una importante ricaduta sulla sanità pubblica mondiale.

I n Kenya l’Università di Torino nel 2000 ha siglato un accordo quadro di cooperazione con il Nazareth Hospital di Limuru, un ospedale missionario di 220 letti in cui ogni anno vengono ricoverati e assistiti 15 mila pazienti, in gran parte provenienti dagli slums della capitale Nairobi.
Il prof. Giorgio Olivero, direttore della 3a scuola di specializzazione in chirurgia generale è il responsabile del progetto, che prevede l’invio di docenti, specializzandi e studenti della nostra facoltà di Medicina e Chirurgia, l’organizzazione di seminari e convegni scientifici e la donazione di attrezzature.
Personalmente il prof. Olivero ogni anno svolge per un mese la propria attività chirurgica e didattica presso l’ospedale, addestrando personale locale, studenti di medicina e specializzandi.
La Scuola di specializzazione di malattie infettive di Torino, diretta dal prof. Giovanni Di Perri, cornopera con l’ospedale inviando, con cadenza semestrale, un medico specializzando che svolge un ruolo di assistenza medica nel reparto di pediatria ed educazione sanitaria permanente per il personale medico infermieristico.

L’ ateneo guarda con vivo interesse al proseguimento della ricerca africanistica svolta in partenariato con le università e le istituzioni africane. L’intenzione per il futuro è quella di promuovere nuove strategie per la crescita di un positivo confronto interdisciplinare tra ricercatori italiani e africani, di esplorare possibili sinergie e mettere a punto iniziative comuni che coinvolgano le istituzioni di ambo le parti.

Ezio Pelizzetti




La pandemia in cifre

Alla fine di novembre 2005 è stato reso pubblico il rapporto del programma congiunto delle Nazioni Unite per Hiv/Aids (Unaids o Onusida): ne riportiamo l’introduzione e alcune statistiche, che rivelano la drammaticità della situazione in tutto il mondo.

Da quando fu scoperta, nel 1982, la Sindrome da immunodeficienza acquisita (Aids) ha ucciso più di 25 milioni di persone. È diventata una delle più distruttive epidemie che la storia abbia mai registrato. Nonostante sia migliorato in varie regioni del mondo l’accesso ai trattamenti e cure antiretrovirali, cresce ogni anno il numero delle vittime della pandemia.
Secondo il rapporto Unaids (Programma congiunto delle Nazioni Unite per l’Hiv/Aids), aggiornato al mese di dicembre 2005, il numero totale di persone che vivono col virus dell’Hiv ha raggiunto il livello più alto: circa 40,3 milioni; quasi 5 milioni sono state le nuove infezioni nel 2005 e 3,1 milioni i morti a causa dell’Aids durante il 2005.
Circa la distribuzione geografica, il continente africano mantiene il triste primato: circa 25,8 milioni di persone con l’Hiv nell’Africa subsahariana e 510 mila nell’Africa del Nord e nel Medio Oriente.
Circa 7,4 milioni di persone infette sono nell’Asia meridionale e sud orientale. Segue l’America Latina con circa 1,8 milioni di persone e 300 mila nella regione caraibica. In America del Nord le persone affette dal virus sono circa 1,2 milioni; nell’Europa Orientale e nell’Asia Centrale circa 1,6 milioni di casi e nell’Europa Occidentale 720 mila.
Negli ultimi due anni il numero di persone che vivono con l’Hiv è cresciuto in tutte le regioni, eccetto nei Caraibi, dove non si sono registrati aumenti rispetto al 2003, ma che restano ugualmente la seconda regione più infettata al mondo.
L’Africa subsahariana rimane la più colpita dal virus: 25,8 milioni, un milione in più del 2003. In questa regione sono i due terzi di tutte le persone che vivono con l’Hiv e il 77% di tutte le donne con Hiv; nel 2005 sono morti circa 2,4 milioni di persone a causa del virus o malattie ad esso connesse e altri 3,2 milioni sono state infettate da tale epidemia.
Dal 2003 le persone colpite da Hiv sono aumentate di un quarto, raggiungendo l’1,6 milioni e il numero dei morti è raddoppiato (62 mila) nell’Europa Orientale e in Asia Centrale; mentre nell’Asia Orientale l’aumento è stato di un quinto nello stesso periodo.
Continua ad aumentare, soprattutto, la proporzione delle donne colpite dal virus: 17,5 milioni; un milione in più rispetto al 2003; 13,5 milioni di esse vivono nell’Africa subsahariana. L’impatto si allarga pure nel Sud-Est Asiatico (quasi 2 milioni di donne con Hiv) e nell’Est Europa e Asia Centrale.
Lo stesso rapporto sottolinea l’intensificarsi dell’epidemia nell’Africa australe: il livello di infezione tra le donne pregnanti raggiunge il 20% (e oltre) in sei paesi (Botswana, Lesotho, Namibia, Sudafrica, Swaziland e Zimbabwe). In due di essi (Botswana e Swaziland) i livelli di infezione sono attorno al 30%. Allarmante è pure la crescita dei livelli di infezione in Mozambico. Segni incoraggianti sul declino nazionale dell’Hiv si registrano in Zimbabwe, anche se l’infezione delle pregnanti rimane a livelli alti (21% nel 2004).
In Africa Orientale la diminuzione dell’infezione tra le donne incinte è iniziata verso la metà degli anni ‘90 ed ora è evidente anche in varie zone urbane del Kenya, dove i livelli di infezione sono in diminuzione, dovuto probabilmente a cambiamenti di comportamento. Ma rimangono casi eccezionali; altrove nell’Africa Orientale (come in quella Occidentale e Centrale), i livelli di infezione rimangono stabili da vari anni.
Per quanto riguarda l’Asia e l’Oceania, l’epidemia è in espansione, specialmente in Cina, Papua Nuova Guinea e Vietnam. Ci sono pure segni allarmanti che altri paesi asiatici (inclusi Pakistan e Indonesia) siano sull’orlo di serie epidemie. Tali epidemie trovano il maggiore impulso da una combinazione di iniezioni endovenose di droghe e il commercio sessuale. Solo una manciata di paesi stanno facendo seri sforzi per introdurre programmi che mettono a fuoco questi comportamenti rischiosi.
La stessa cosa vale anche per l’Europa dell’Est e l’Asia Centrale, dove il numero di persone con Hiv è cresciuto nel 2005, e nell’America Latina, soprattutto tra le donne che vivono in situazione di povertà.
Tuttavia, negli ultimi due anni, l’accesso al trattamento antiretrovirale è notevolmente migliorato. Non è più solo nei ricchi paesi del Nord America e dell’Europa Occidentale che le persone bisognose di tali cure hanno una ragionevole possibilità di ottenerle; ma l’estensione del trattamento antiretrovirale ha raggiunto l’80% in paesi come Argentina, Brasile, Cile e Cuba. Ma nonostante tali progressi, la situazione è molto differente nei paesi poveri dell’America Latina e Caraibi, in Est Europa, nella maggior parte dell’Asia e praticamente in tutta l’Africa subsahariana.
Tuttavia, più di un milione di persone, nei paesi con medio e basso reddito, ora vive meglio e più a lungo, perché sotto cura antiretrovirale. Grazie a tali trattamenti iniziati alla fine del 2003, sono state evitate 250-350 mila morti nel 2005.

(Tradotto e adattato da: Unaids/Who Aids epidemic update: december 2005).

Unaids/Who Aids epidemic update




Genocidio strisciante

Dati e statistiche offrono un panorama devastante: l’espansione del virus Hiv costituisce una minaccia globale alla sopravvivenza di intere popolazioni e al loro sviluppo sociale, culturale ed economico. L’Africa subsahariana è sull’orlo del disastro, se i governi locali e organismi inteazionali non intervengono tempestivamente. Le Nazioni Unite lanciano inviti e iniziative per arginare l’epidemia, ma risposte e risultati sono deludenti: occorre l’impegno di tutti nel mantenere le promesse.

L’ epidemia causata dal virus dell’immunodeficienza umana (Hiv) e della conseguente sindrome da immunodeficienza acquisita (Aids) continua a dilagare in tutto il mondo. Aumentano ogni anno le persone che vivono con l’Hiv e le morti causate dall’Aids. Le ultime statistiche pubblicate dal Programma congiunto delle Nazioni Unite per l’Hiv/Aids (Unaids in inglese; Onusida nelle lingue neolatine) lo confermano (vedi pagine precedenti).
La Dichiarazione della speciale sessione sull’Hiv/Aids dell’Assemblea delle Nazioni Unite del 2001 (Ungass) ha stabilito una serie di mete che gli stati devono raggiungere e ha contribuito a notevoli miglioramenti nel campo dell’attenzione integrale; ma i livelli di copertura della prevenzione e del trattamento antiretrovirale rimangono molto al di sotto degli obiettivi stabiliti.
La diffusione del virus non è solo una questione di igiene pubblica, come nel caso di altre malattie infettive. La diffusione dipende anche da fattori di ordine sociale, economico e culturale che pertanto richiedono un approccio multisettoriale e interdisciplinare. Il solo conoscere e/o saper utilizzare i metodi di prevenzione o l’essere a conoscenza del rischio non garantiscono che le persone assumano un comportamento responsabile che impedisca la trasmissione del virus.
I fattori economici, sociali e culturali rappresentano le difficoltà più gravi nel disegnare strategie efficaci di prevenzione. Quasi ovunque l’individuo agisce in base a ciò che conosce ed elabora, all’intelligenza emotiva, alla percezione del rischio e alla vulnerabilità individuale, ma sempre condizionato dall’ambiente socio-economico e culturale. Per questo è necessario elaborare delle strategie di risposta complesse, che tengano conto delle distinte dimensioni della comunità e non tralascino nessuno dei fattori di rischio.

Minaccia globale allo sviluppo sostenibile

Nessun paese e nessun contesto sociale sono esenti dal soffrire il grave impatto dell’Hiv/Aids sulla vita quotidiana delle persone. In contesti di maggior vulnerabilità, come nei paesi in via di sviluppo, l’Hiv/Aids ha un peso enorme e insostenibile sulla popolazione, che non riusciva a soddisfare le sue necessità basiche nemmeno prima dell’epidemia. Secondo alcuni studiosi, il virus dell’Hiv può essere considerato come una causa delle nuove crisi di questo secolo, alle quali le nuove generazioni sono impreparate, perché la nuova minaccia non ricalca nessuna precedente esperienza storico-culturale.
Dal punto di vista macroeconomico, l’Hiv/Aids è considerato un vero flagello che riduce il tasso di crescita dell’economia a breve e a lungo termine e influisce pesantemente sul prodotto interno lordo, come dimostrato dall’esperienza del Botswana: con il suo 37%, ha un indice di prevalenza tra i più alti del continente.
In particolare si stima che il reddito delle famiglie appartenenti al gruppo sociale più povero scenderà di circa il 13% nei prossimi 10 anni e che, a causa del virus, con le stesse risorse ridotte, le famiglie dovranno mantenere più persone. L’epidemia porta con sé la perdita o il grande indebolimento della forza lavoro, che a sua volta genera l’aumento degli orfani, con gravi risvolti sociali.
In pratica, non pochi paesi come il Botswana, non solo hanno subito gravi danni di ordine economico e sociale, ma sono stati completamente sfigurati da questa epidemia.
La disintegrazione familiare, la crescita del numero degli orfani, il rischio per i minori di finire sulla strada o di essere vittima di sfruttamento, l’incertezza relativa alla sicurezza alimentare per l’effetto del virus nelle zone rurali, la perdita di manodopera qualificata, la diminuzione della base fiscale imponibile, l’assenteismo dai luoghi di lavoro per ragioni di salute o per la necessità di prendersi cura dei familiari, l’aumento dei costi per sepolture, i pensionamenti anticipati e frequenti cambi di personale sul posto di lavoro sono tutti indicatori dell’effetto devastante dell’Hiv/Aids nei paesi colpiti.
La perdita del lavoro per le famiglie che vivono nei paesi in via di sviluppo comporta una vera e propria condanna alla miseria, che obbliga milioni di persone a ricorrere a ogni mezzo per la propria sopravvivenza. Dato il difficile contesto socio-economico in cui si verifica l’epidemia, nei continenti con tassi alti di prevalenza, essa porta come conseguenze l’aumento dello sfruttamento minorile, del lavoro e dello sfruttamento sessuale, una forte crescita del rischio di cadere vittima della tratta di persone o di essere coinvolti nelle reti di contrabbando dei migranti, e una forte tentazione a cercare il sostentamento in attività illecite, che risultano l’unica opzione possibile.
Il virus genera anche effetti devastanti sul contesto culturale in cui si trovano le persone affette. Stigma e discriminazione escludente sono sempre state presenti nei tessuti sociali e di solito si rivolgono contro i cosiddetti «nuovi, diversi o sconosciuti». Tradizioni, errate interpretazioni di fedi religiose, pregiudizi e ignoranza portano molto spesso a stigmatizzare e discriminare le persone che vivono con l’Hiv/Aids.
Fin dall’identificazione del virus, nel 1982, si pensava che fossero a rischio solo omosessuali e persone operanti in ambito sessuale. Questi due gruppi sopra menzionati venivano considerati come i soli portatori del virus e gli unici responsabili della sua trasmissione, e furono dunque stigmatizzati. Furono le prime vittime della discriminazione, la stessa che soffrono molto spesso le persone che vivono con l’Hiv/Aids.
Atti di discriminazione possono essere presenti in ogni ambito: dall’accesso alla salute a quello all’educazione, dal non essere assunti per un posto di lavoro fino a perdere il proprio lavoro, dal non essere ben accetti nel proprio tessuto sociale d’origine o non essere accolti all’estero.

Diritti umani: sfida difficile da comprendere e affrontare

I comportamenti discriminatori rappresentano gravi violazioni dei diritti umani e costituiscono una grande sfida per tutti coloro che lavorano per il riconoscimento pieno dei diritti delle persone che vivono con l’Hiv.
I diritti umani hanno un ruolo chiave nel garantire una risposta integrale ed efficace all’epidemia. La loro realizzazione e tutela va considerata come uno strumento essenziale di prevenzione dell’epidemia, soprattutto nei riguardi di donne, bambine, e i giovani in generale. L’emergere del virus ha costretto la comunità mondiale a riflettere su situazioni e analisi nuove e ha portato al riconoscimento di diritti prima sconosciuti o totalmente ignorati.
Va rispettato innanzitutto il diritto a essere informati ed educati in modo chiaro e adeguato sulla propria salute, sessualità, rischi che si possono correre e mezzi di protezione, in modo che ciascuno possa vivere una sessualità libera, responsabile e gratificante. La disinformazione è una protagonista dell’epidemia nella maggior parte dei paesi del mondo, dove le donne sono tuttora vittime di discriminazione, sopraffazione maschile, violenza e abusi di vario genere.
In alcuni paesi è emerso che la maggioranza delle donne infette sono casalinghe, fedeli al proprio partner e che dunque si sorprendono di fronte a una prova di Hiv che risulti positiva. Per questo risulta essenziale che i giovani, uomini e soprattutto donne, ricevano una formazione opportuna e siano in grado di esercitare e rivendicare i propri diritti, secondo la strategia del trasferimento di potere ai gruppi vulnerabili.
L’Hiv/Aids è poi una sfida formidabile al diritto alla salute, che è considerato nel nucleo dei diritti umani fondamentali e va inteso come il diritto al livello più alto possibile di buona salute. Ogni persona infetta ha diritto di accedere alle medicine e ai farmaci necessari per tenere sotto controllo la carica virale di chi vive con l’Hiv.
In particolare si discute se il ricevere a titolo gratuito un trattamento medico adeguato, le cure per le cosiddette malattie opportunistiche e tutte le misure contenute in un programma di attenzione integrale, debba considerarsi un diritto umano. Per il momento non si è raggiunto un consenso globale su questo punto, ma si è arrivati all’accettazione del principio secondo cui, per lo meno i farmaci antiretrovirali, dovrebbero essere accessibili economicamente a tutti, specie ai gruppi vulnerabili.
Con la collaborazione dell’Oms (Organismo mondiale della sanità) e Unaids, nel mese di settembre 2005, in Argentina, si sono svolte delle consultazioni sul prezzo degli antiretrovirali, tra i rappresentanti dei paesi latinoamericani e 26 imprese farmaceutiche. Tali consultazioni hanno portato a una forte riduzione dei prezzi fino a cifre minime. In particolare, si è raggiunta una riduzione del prezzo tra il 15% e il 55% per le terapie più utilizzate nella regione. Per i paesi ciò si traduce in un risparmio sul costo dei farmaci che va dal 9% al 66%.

Caratteristiche del virus e strategie di prevenzione

Non esiste a tutt’oggi un vaccino o una cura che consenta di guarire dal virus dell’Hiv. Si tratta infatti di un virus mutante, che si riproduce in modo diverso in ogni individuo e per questo è difficile incontrare un sistema universale di risposta. Nonostante ciò, si può ottenere il prolungamento della vita di una persona infetta fino a un massimo di 20 anni.
I farmaci antiretrovirali servono a mantenere sotto controllo la carica virale, ovvero la quantità del virus presente nel corpo. Mantenendo tale quantità a un livello basso, si evita che il virus aggredisca in modo grave l’organismo e diminuiscono anche i rischi di trasmissione.
Per questo è importante promuovere la realizzazione della prova volontaria dell’Hiv-Elisa. Se, infatti, il virus viene identificato quasi subito dopo l’infezione, è possibile controllare la carica virale e limitare i danni, iniziando immediatamente il trattamento con gli antiretrovirali.
In assenza di trattamento, la carica virale, invece, aumenta e aggredisce l’organismo fino a disarmare il suo sistema di difesa: a questo punto si raggiunge la fase terminale, ovvero l’Aids (sindrome di immunodeficienza acquisita).
Il virus si trasmette attraverso relazioni sessuali, scambio di siringhe sporche nel caso del consumo di droghe intravenose, trasfusioni con sangue infetto e tra madre e figlio. In particolare in quest’ultimo caso la trasmissione può avvenire nella stessa gravidanza, nel parto o nell’allattamento. Ci sono esperienze che dimostrano che da una mamma Hiv positiva può nascere un bambino Hiv negativo e perfettamente sano.
Somministrando il trattamento antiretrovirale a partire dai primi tre mesi della gravidanza, prestando adeguata assistenza al momento del parto ed evitando l’allattamento materno, si riesce a evitare la trasmissione del virus. Per questo è fondamentale che le donne incinte o desiderose di una gravidanza, si sottomettano a una prova di Hiv/Aids.
Se le tecniche di prevenzione non sono applicate l’indice di trasmissione del virus tra madre e figlio può arrivare al 40%. In Colombia, nell’ambito di un progetto finanziato dalla Commissione Europea e in cui sono state seguite queste procedure, l’indice di trasmissione tra madre e figlio è sceso allo 0,7%, dimostrando così che esistono le possibilità per evitare tale tipo di trasmissione.
La strategia di prevenzione contro l’Hiv/Aids non è limitata alla mera distribuzione dei preservativi; una strategia multisettoriale prevede la formazione, educazione, promozione di un cambio di comportamento e l’emancipazione delle donne.
La lotta contro l’Hiv/Aids non va considerata come una sfida di etica o di morale, quanto piuttosto come una opzione per salvare vite umane, un obiettivo prioritario, rispetto alle ideologie. La strategia «ABC» (astinenza, fedeltà, preservativo) ha dimostrato di non essere in grado da sola di arrestare la diffusione dell’epidemia, per cui è necessario disegnare nuove strategie più adatte alle realtà locali.

Ricerca di risposta globale

La globalizzazione, l’abbattimento delle frontiere nella comunicazione e i sogni di un futuro con migliore qualità della vita, aprono ampi spazi alle migrazioni e il tema della mobilità umana assume un’importanza sempre maggiore con riferimento all’Hiv/Aids.
Il rischio è ancora più evidente nel caso della tratta di persone a scopo di sfruttamento sessuale. Vista la condizione di quasi reclusione e spesso l’assenza di un permesso di soggiorno, la vittima del traffico è spesso sottoposta a ogni tipo di violenza e non ha accesso al sistema sanitario. Lo stesso vale per i migranti clandestini che non hanno accesso ai servizi di salute ed educazione e che per la condizione di invisibilità sul territorio sono spesso vittime di profittatori.
Considerate le proporzioni assunte da questo fenomeno è necessario ripensare le politiche di accoglienza in modo da tutelare sia chi emigra sia la comunità di destinazione. In Italia sono in vigore disposizioni che prevedono l’accesso gratuito al test dell’Hiv per tutti i cittadini e gli stranieri, anche se privi del permesso di soggiorno.
Negli ultimi decenni l’Onu ha assunto un ruolo centrale perché il problema dell’Hiv/Aids sia presente in tutte le consultazioni e agende politiche con agganci al tema. Si è così arrivati all’approvazione di diversi documenti contenenti delle raccomandazioni per gli stati.
La Dichiarazione del Millennio, adottata dall’Assemblea generale dell’Onu nel 2000, contiene una meta specifica relativa all’Hiv/Aids, la n. 6: essa mira ad arrestare il diffondersi dell’Hiv/Aids entro il 2015. La Dichiarazione della sessione speciale sull’Aids, nel 2001, ha proposto mete e sistemi di monitoraggio per valutare i progressi compiuti dagli stati.
Nel 2003, governi africani, organismi multilaterali e bilaterali, Ong e settore privato hanno raggiunto il consenso su 3 principi fondamentali, applicabili a tutte le parti interessate a livello nazionale: adozione di un quadro di azione sull’Hiv/Aids come base per il lavoro di tutti gli attori sociali; unica autorità nazionale di cornordinamento, con un mandato multisettoriale; un solo sistema di vigilanza e valutazione a livello nazionale.
Il 1º dicembre del 2003, Oms e Unaids presentarono un rapporto in cui si dimostrava la possibilità di fornire il trattamento con gli antiretrovirali a 3 milioni di persone entro l’anno 2005, nell’ottica di promuovere l’accesso universale ai farmaci e trasformare l’Hiv in malattia cronica e non letale.
Nel maggio 2004, nell’Assemblea dell’Oms,192 paesi assunsero l’impegno, denominato «3 by 5», di garantire l’accesso al trattamento con gli antiretrovirali a 3 milioni di persone entro il 2005, attraverso l’utilizzazione di 5 strategie specifiche.
Nel rapporto sull’iniziativa di giugno 2005, si descrive un notevole incremento, a livello mondiale, nell’accesso al trattamento, anche se sono necessari ulteriori sforzi per il raggiungimento dell’obiettivo previsto, che è stato mancato. La meta si basava sul presupposto di ciò che si poteva raggiungere se governi, paesi donanti e organismi inteazionali avessero avuto pieno successo nell’aumentare la volontà politica, nel mobilizzare le risorse e costruire sistemi e infrastrutture di salute.
L’ultimo rapporto testimonia che mentre l’appoggio politico, finanziario e tecnico per l’aumento della copertura degli antiretrovirali hanno, in alcuni casi, anche superato le aspettative, in altri non si è ancora raggiunta una risposta pienamente positiva.
La Banca mondiale rappresenta uno dei maggiori finanziatori dei programmi contro l’Hiv/Aids, nell’ambito del sistema delle Nazioni Unite. Negli ultimi 5 anni ha investito più di 1,8 miliardi di dollari attraverso prestiti, crediti e altre forme di sostegno ad azioni contro l’epidemia. Per i paesi più poveri utilizza la strategia di prestiti senza tasso di interesse. Collabora con le altre agenzie Onu, che da sempre sono co-sponsor di Unaids, nella elaborazione di analisi strategiche, definizione di politiche e altre forme di know-how.
Nel luglio 2001 il Summit G8 decise la creazione del Fondo globale contro l’Aids, tubercolosi e malaria. Il Fondo fu ufficialmente creato nel gennaio 2002 a Ginevra e fin dall’inizio ha assunto un ruolo di prim’ordine, diventando una delle principali entità erogatrici di fondi per la lotta all’Hiv/Aids.
Nel luglio 2001 l’Italia s’impegnò a contribuire al Fondo con 200 milioni di dollari (100 nel 2002 e 100 nel 2003), diventando così il secondo donatore, dopo gli Stati Uniti, e acquisendo di diritto uno dei 7 posti riservati nel Consiglio di amministrazione ai paesi donatori. Per il periodo 2004-2007, ha già donato circa 218 milioni di dollari, rispettando i tempi previsti.

Aids in Africa: uno scandalo

In un rapporto sulla situazione del continente africano nel 2005 e sulle possibili evoluzioni, Unaids traccia delle proiezioni fino al 2025. Lo studio è molto interessante e mette in luce delle variabili finora poco considerate. La gravità della situazione attuale, il numero dei morti e dei nuovi casi di infezione, rendono urgente ripensare quanto si è fatto finora per migliorare gli interventi futuri e così anche la speranza di vita delle prossime generazioni.
La conclusione dei vari seminari, studi e analisi, sono stati tracciati tre distinti scenari, uno dei quali, intitolato «il peso del passato, spirale infeale, è certamente il più disastroso e… scandaloso per il futuro del continente (per una conoscenza dettagliata vedi pag. 25).
I tre scenari suggeriscono che, attualmente, la risposta all’epidemia non è adeguata e che si dovrebbe tentare tutto il possibile per evitare il propagarsi del virus. È evidente l’ importanza della percezione della crisi e la necessità di approfittare delle risorse, valori e culture a livello locale, come ulteriori elementi utili nella lotta contro il virus.
È necessario, soprattutto, espandere la risposta all’Hiv/Aids all’ambito dello sviluppo vero e proprio, perché non esistono formule magiche, che diano risultati a breve termine; è fondamentale la collaborazione tra tutti gli attori sociali. È necessario investire in favore dei diritti delle donne, promuovere e rafforzare il loro ruolo all’interno del contesto sociale; è opportuno investire sui minori rimasti orfani e prendere in considerazione l’effetto psicologico dell’epidemia. Ciò nonostante la sfida all’epidemia sarà con noi per i prossimi 20 anni.
L’Hiv/Aids è un fenomeno complesso, che richiede una risposta integrale e una collaborazione effettiva tra tutti gli attori sociali coinvolti, con particolare enfasi nella partecipazione delle persone che vivono con il virus. «Per il momento – suggerisce Kofi Annan, segretario generale dell’Onu – le uniche armi disponibili sono l’unione e la collaborazione tra i diversi protagonisti delle strategie contro l’Hiv/Aids; per cui occorre far crescere la mobilizzazione di tutti i soggetti, imprese private, istituzioni nazionali e organizzazioni non governative. Ogni attore sociale e ogni individuo hanno una responsabilità verso la collettività, perché questa epidemia è un problema di tutti non solo delle persone sieropositive».
In linea con gli slogan delle campagne mondiale 2005, ognuno deve contribuire ad arrestare l’epidemia, mantenendo la sua promessa.

Sandro Calvani e Serena Buccini




L’infezione africana

Dal 1983 molte cose sono cambiate nella lotta all’Aids. Anche se tuttora non esiste un vaccino, i trattamenti farmacologici hanno di molto allungato (e migliorato) la vita dei malati. Ma non in Africa, dove la situazione è addirittura peggiorata, sconvolgendo un continente già segnato da problemi di ogni tipo. Ed anche le prospettive per il futuro sono tutt’altro che rassicuranti.

R ispetto alla data di identificazione del virus Hiv, avvenuta nel 1983, molto oggi è noto sulle sue caratteristiche, modalità di trasmissione e meccanismo patogenetico. Sappiamo che, per il progressivo danno immunitario, la malattia passa da una fase apparentemente silente sino a quella della comparsa di infezioni opportunistiche. Le manifestazioni cliniche sono strettamente condizionate da fattori quali l’età, sesso, razza, sede geografica, trattamento e storia comportamentale.
L’infezione da Hiv ha assunto un suo specifico inquadramento all’inizio degli anni ’80 quando in tre città americane (Los Angeles, New York e San Francisco) venne identificata in giovani omosessuali una forma apparentemente epidemica di Sarcoma di Kaposi. Da allora molta strada è stata fatta, soprattutto nella ricerca di farmaci per il trattamento; ciò ha permesso di trasformare in cronica una malattia che aveva all’origine esito letale nel giro di 10 anni.
Dal punto di vista epidemiologico il modello di diffusione si è drammaticamente trasformato in questi ultimi anni. Mentre all’ inizio la malattia era soprattutto confinata in Nord America, in Europa e in alcune aree dell’Africa subsahariana, oggi focolai di infezione sono presenti in tutto il mondo.
Sotto l’aspetto socio-economico l’Aids non differisce dalle «classiche» malattie infettive che, come noto, tendono a colpire popolazioni più «vulnerabili» da ogni punto di vista. Nei paesi industrializzati i nuovi casi sono identificati tra persone definite «a rischio» (omosessuali, tossicodipendenti), ma è nei paesi dell’ Est Europa e soprattutto in Africa che si riscontra il 90% di nuove infezioni. In questi soggetti la via più frequente di contagio è quella eterosessuale.
A livello mondiale si stima che i casi di Aids siano circa 45 milioni, di cui 25-30 localizzati nell’area subsahariana. I fattori che maggiormente incidono sulla diffusione sono da ricondurre a variabili comportamentali, biologiche, demografiche, politiche ed economiche.

Fattori responsabili dell’epidemia

Variabili comportamentali
L’infezione da Hiv è una malattia a trasmissione sessuale, e pertanto le abitudini sessuali sono il determinante maggiore nella diffusione del virus. Tali abitudini possono variare molto, sia tra differenti popolazioni che all’ interno di una stessa popolazione. Indagini effettuate in area subsahariana hanno documentato che fattori critici per il contagio sono il numero di partner, l’età d’inizio dell’attività sessuale, il tasso di rapporti occasionali e/o per sesso a pagamento.
Nella diffusione del virus hanno un ruolo chiave i cosiddetti core groups: si tratta di popolazioni numericamente ridotte, che, mantenendo comportamenti a rischio acquisiscono più facilmente il contagio e contribuiscono a mantenere l’epidemia. In Africa subsahariana è possibile che la donna diventi Hiv positiva avendo come unico partner il marito, il quale può aver acquisito il contagio attraverso rapporti sessuali con partner differenti.
Altri fattori che incidono nella trasmissione sono il tipo di rapporto sessuale e l’uso o meno del preservativo. Sempre in Africa si è rilevato come in coppie discordanti il preservativo abbia ridotto la frequenza di contagio e come, di conseguenza, efficaci misure di prevenzione possano essere effettuate anche in contesti tradizionalmente considerati «difficili».

Variabili demografiche
Uno degli aspetti che maggiormente differenzia paesi con risorse limitate da quelli industrializzati è la più elevata prevalenza nella popolazione di persone in età sessualmente attiva; tale fattore di per sé giustifica la maggior incidenza di Infezioni sessualmente trasmesse (Ist), tra cui anche l’infezione da Hiv. Da sempre la migrazione e la rapida urbanizzazione si associano ad un più elevato tasso di Ist, e migrazioni dalla campagna alla città, oltre che inteazionali, avvengono in tutto il mondo.
Lo squilibrio numerico tra sessi rappresenta un determinante importante nella epidemiologia di Hiv: nelle città dove tale squilibrio è evidente per effetto della immigrazione maschile la diffusione avviene in modo più rapido. La mobilità verso paesi industrializzati può generare problematiche di altro tipo; tra queste, la disapprovazione per il comportamento sessuale del maschio, in particolare per rapporti prima del matrimonio o extraconiugali, oppure il matrimonio in età tardiva per motivi economici. Aspetti socio-demografici di tale tipo possono favorire il maggior contatto con la prostituzione da parte dell’uomo, con le ben note conseguenze sul contagio.

Variabili biologiche
La trasmissione eterosessuale di Hiv avviene in modo più efficace quanto più la malattia è in fase avanzata, e la carica e l’escrezione del virus sono elevate. Nelle popolazioni africane, in cui l’epidemia da Hiv è presente da lungo tempo, si assiste a una maggior efficienza della trasmissione eterosessuale e perinatale.
Inoltre, ceppi Hiv africani mostrano un più alto grado di variabilità genetica: se tale caratteristica favorisse infettività e tropismo cellulare, potrebbero esservi importanti ripercussioni dal punto di vista epidemiologico. È assai probabile che differenze tra Hiv 2 e Hiv 1 giochino un ruolo importante nella diffusione del contagio.
L’elevata prevalenza di Malattie sessualmente trasmesse (Mst) in una data popolazione facilita la trasmissione di Hiv e contribuisce a rendere la stessa più vulnerabile. Ciò è quanto si verifica nei paesi africani, specie in aree urbane, dove i core groups per Mst e Hiv sono rappresentati da prostitute e loro clienti, militari, camionisti, ecc. Va, tuttavia, tenuto presente che l’elevata incidenza di Mst non è solo frutto di comportamenti sessuali non sicuri, ma anche di terapia inadeguata.
Infine, il rituale che coincide con la circoncisione maschile, praticato in molte popolazioni africane, può favorire la diffusione di Hiv sia durante l’atto chirurgico, se effettuato in assenza di sterilità, sia per i comportamenti sessuali successivi. Nella cultura locale, infatti, la libertà sessuale è uno degli aspetti che caratterizzano il passaggio dall’adolescenza all’età adulta.

Variabili economiche e politiche
Sia in paesi industrializzati che in quelli a risorse limitate si è dimostrato che è possibile bloccare la diffusione del contagio se è presente una risposta nazionale all’epidemia. È indispensabile che la prevenzione rientri nelle politiche del governo; nel caso di Paesi in via di sviluppo (Pvs) si calcola siano necessarie risorse finanziarie almeno 10 volte superiori alle attuali per controllare la pandemia da Hiv.
Il sistema sanitario dei paesi africani, oltre a essersi progressivamente deteriorato negli ultimi 10 anni, ha visto diminuire il numero di pazienti che richiedono il trattamento di Malattie sessualmente trasmissibili con l’introduzione di una seppur piccola quota di pagamento. A Nairobi, il ticket ha fatto ridurre del 40% il numero di pazienti che richiedono le cure.
Infine, la povertà non è solo una conseguenza dell’epidemia da Hiv, ma anche una delle maggiori forze che la diffondono. Terreno fertile sono la prostituzione, la presenza di ragazzi di strada, bassi tassi di scolarizzazione, migrazioni, separazioni familiari, basso livello sociale nella donna.

IMPATTO DELL’EPIDEMIA DA HIV/AIDS

Le conseguenze dell’epidemia in molti paesi a risorse limitate sono gravissime e lo saranno ancora di più nei prossimi anni. La malattia colpisce non solo la persona e il proprio nucleo familiare, ma la comunità in generale con impatto a lungo termine su famiglie, sanità, assetto demografico e sul sistema economico e sociale.
Uno degli aspetti più gravi è forse l’elevato numero di uomini e donne Hiv positivi presenti in ospedale; si calcola che in molte città africane, tra cui Abidjan, Kampala, Lusaka e Kinshasa il 50% dei ricoverati sia Hiv positivo, e che nel 90% l’Aids sia la più frequente causa di morte tra i ricoverati. Con l’incremento di individui infetti, cresce la domanda di cure e di conseguenza anche il budget sanitario, difficilmente sostenibile da paesi poveri. Stime sull’impatto demografico a lungo termine evidenziano una diminuzione di crescita della popolazione sino all’azzeramento nelle aree più colpite.
L’Aids contribuisce in modo rilevante anche alla mortalità di bambini sotto i cinque anni di età e vanifica i benefici di iniziative avviate per la loro assistenza. Il numero di orfani è in progressiva crescita, e ha raggiunto i 15 milioni nei paesi dell’area subsahariana. In termini economici, l’Aids rappresenta una delle cause che più incidono sul settore socio-economico, in quanto colpisce adulti negli anni di maggiore attività lavorativa. Il prodotto interno lordo è destinato a ridursi nei settori agricolo e industriale, oltre che nei servizi, e tale riduzione potrà superare il 30% nei paesi più colpiti dall’epidemia.
Sin dal 1998 sono emerse nuove evidenze basate su studi community based, sorveglianze e censimenti a livello nazionale che hanno permesso a epidemiologi, sociologi ed economisti di sviluppare tecniche analitiche e modelli teorici per stimare in modo empirico gli effetti di Hiv sulla famiglia, la comunità e a livello nazionale. Inizialmente tali modelli sono stati utilizzati per predire l’evoluzione dell’epidemia: oggi vengono usati per definire politiche nazionali e per valutae le risposte.
Conoscenze in ambito socio-demografico sono state utilizzate per misurare l’impatto macro e microeconomico, con l’intento di potenziare investimenti sui servizi sanitari, sulla formazione e sugli orfani. Politiche di intervento devono, infatti, basarsi su dati attendibili e analisi rigorose.
Con una stima di 25-30 milioni di individui Hiv infetti nell’area subsahariana, e con una prevalenza nell’adulto 10 volte superiore a quella di altre parti del mondo, è chiaro che l’impatto socio-economico sulla popolazione e sulla economia ha dimensioni non paragonabili a quelle dei paesi industrializzati.
Va inoltre puntualizzato che nello stesso continente Africano gli scenari sono diversi e devono generare risposte differenti; in Sudafrica, per esempio, la prevalenza di Hiv in donne gravide supera di 3-5 volte quella osservata in paesi dell’area subsahariana, e ciò implica necessariamente politiche diversificate.

Accuratezza delle stime sull’impatto
Valutazioni sull’ impatto dell’epidemia sono suscettibili di ampio margine di errore per il limitato numero di dati disponibili. La crescente evidenza di associazione tra Aids e mortalità negli adulti e nell’infanzia, e tra Aids e numero di orfani, ha fatto riconsiderare il ruolo di modelli basati su stime demografiche ed epidemiologiche. Walker N. e altri, basandosi su dati raccolti da Unaids in paesi in cui è in atto l’epidemia, hanno valutato il rapporto di mortalità tra Hiv positivi e Hiv negativi, la proporzione di tutti gli adulti deceduti per Aids e il numero di orfani, e ha osservato che la differenza per quanto riguarda indicatori demografici tra Unaids e studi mirati rientra in un raggio compreso tra più o meno il 25-35%.
Tali risultati sono da ritenersi incoraggianti, in quanto dimostrerebbero che stime basate su modelli demografici sono sufficientemente adeguate per la pianificazione a medio termine; per quella a breve termine sono da preferire indagini più mirate, dato l’ampio raggio osservato.
Il miglioramento di sorveglianze basate su popolazioni ed estese ai servizi per le cure prenatali possono migliorare le stime sulla prevalenza di Hiv, ma non sulla sopravvivenza. È probabile, infatti, che l’aumentato accesso alle cure antenatali amplii il raggio di incertezza sulla mortalità correlata all’epidemia.

Mortalità nell’adulto
È l’effetto più drammatico correlato all’epidemia; la probabilità che un ragazzo di 15 anni muoia prima di raggiungere i 60 anni è passata dal 10-30% (metà degli anni ‘80) al 30-60% nel 2000. I dati sono ricavati da sorveglianze comunitarie sullo stato sierologico, e confronta la mortalità tra soggetti infetti e non infetti.
In 5 studi community based condotti in Est Africa, la mortalità nei soggetti Hiv + era maggiore di 10-20 volte rispetto a quella di non infetti. Tra infetti e non infetti si è, inoltre, osservato un caratteristico patte correlato all’età e caratterizzato da un picco tra i 20 e 40 anni, più precoce (di 5-10 anni) nelle donne rispetto all’uomo.
Porter e altri hanno valutato la mortalità attribuibile in rapporto alla prevalenza dell’infezione in una data popolazione; con valori del 4-16% la mortalità Hiv – correlata è compresa tra 24 e 75% (circa sei volte il valore della prevalenza) e dipende sia dalla durata dell’epidemia che da altri fattori condizionanti l’ exitus. In Africa la sopravvivenza è di circa 9 anni dal contagio, di due anni inferiore a quella osservata nei paesi industrializzati prima dell’avvento della terapia antiretrovirale.
Per misurare la mortalità nei paesi colpiti dall’epidemia sono stati utilizzati censimenti e altri sistemi di sorveglianza sulla popolazione. Ciascun metodo ha in sé intrinseche debolezze: comunque, è sempre necessario integrare i dati con sorveglianze su popolazioni target, in particolare quelle di età compresa tra 20 e 40 anni. Studi specifici hanno, infatti, evidenziato elevata prevalenza di infezione ed elevata mortalità per i motivi più disparati sia tra soggetti Hiv positivi che Hiv negativi. Tra gli anni ‘90 e il 2000 la probabilità di morire tra 15 e 60 anni è aumentata in Kenya dal 18 al 28%, in Malawi dal 30 al 45%, e in Zimbabwe è arrivata al 50% nelle donne e al 65% negli uomini.

Mortalità infantile
Sin dall’ inizio dell’epidemia quasi 4 milioni di bambini sotto i 15 anni sono stati contagiati dal virus, e nel solo 2003 si stima ci sia stato un milione di nuove infezioni, per lo più acquisite attraverso la trasmissione madre – bambino. Relativamente a tale aspetto, in assenza di registrazione delle nascite o della mortalità, è pressoché impossibile avere dati esatti: quelli disponibili sono frutto di sorveglianze condotte in piccoli ospedali o a livello comunitario.
In assenza di terapia antiretrovirale, la sopravvivenza dopo il contagio è nettamente inferiore nei bambini africani rispetto a quelli di paesi industrializzati (2 anni vs 5 anni). La durata della vita dipende da alcuni fattori, quali lo stadio di malattia matea, la sopravvivenza della madre, l’uso di farmaci antiretrovirali, la mortalità per altre cause e l’epoca del contagio. Al momento non vi sono evidenze scientifiche che indichino una più elevata mortalità nei bambini infettati in utero o durante il parto, rispetto a quelli infettati con l’allattamento al seno.
Studi longitudinali su comunità in Malawi, Tanzania e Uganda hanno fatto rilevare che bambini nati da madre Hiv positiva hanno una probabilità 3 volte maggiore di morire entro i 5 anni rispetto a quelli nati da madre sana, e che gli stessi risultati si osservano in bambini che diventano orfani di madre, indipendentemente dal contagio da Hiv.
I dati sulla mortalità infantile sono molto disparati, variano tra i diversi paesi e all’interno di uno stesso paese e risentono della modalità di raccolta; è, tuttavia, opportuno ricordare che laddove sono state fatte politiche mirate di prevenzione la mortalità si è ridotta. Il problema necessita di ulteriori approfondimenti, anche se appare sufficientemente attendibile la stima che in Africa la morte per Aids colpisca il 10% dei bambini di età inferiore ai 5 anni.

Fertilità femminile
Ricerche a livello comunitario, concluse alla fine degli anni ‘90, hanno evidenziato che in società con ridotto uso di contraccettivi le donne Hiv positive hanno un tasso di fertilità inferiore del 25% rispetto alle donne Hiv negative. Fanno eccezione le donne giovani Hiv positive e con precocità di rapporti sessuali, in cui si sarebbe dimostrato più elevato il tasso di fertilità rispetto alle donne sieronegative. I risultati a disposizione provengono da centri per le cure prenatali e necessitano di conferme a più ampio raggio.
È comunque certo che l’impatto dell’epidemia sulla fertilità di una popolazione può non essere trascurabile, anche con valori di prevalenza relativamente piccoli. È dimostrato che con una variazione dell’1% dei tassi di prevalenza di Hiv vi è una modifica dello 0,4% sulla fertilità totale, che può tradursi nella riduzione del 6% della natalità.

Assetto familiare e di popolazione
Nella popolazione adulta di paesi dell’area subsahariana l’incremento della mortalità Aids-correlata ha provocato alterazioni importanti sulla struttura familiare e sociale con conseguenze socio economiche notevoli. Negli anni futuri, indipendentemente dall’accesso alla terapia antiretrovirale, tale tendenza difficilmente potrà modificarsi.
Sorveglianze condotte per valutare l’impatto dell’epidemia sulla prevalenza di orfani hanno evidenziato che in regioni in cui la maggior parte della popolazione è rappresentata da giovani sotto i 15 anni, il 9% ha perso almeno un genitore e l’1% ambedue. Laddove i parenti possono provvedere alla continuità assistenziale, gli orfani rimangono all’interno di un nucleo familiare; in questi bambini, tuttavia, il grado di scolarizzazione sembrerebbe essere alquanto insufficiente.

Impatto socio-economico
L’infezione da Hiv/Aids colpisce i giovani proprio nell’età di massima potenzialità dal punto di vista lavorativo. In una prospettiva di tipo economico è a livello individuale e della famiglia che l’epidemia ha l’impatto più significativo. Se, come si verifica in molti paesi dell’area subsahariana, molte famiglie sono colpite dalla malattia, il danno si estende alla comunità, in particolare sul settore economico, e di qui all’intera economia nazionale. In termini economici il macro è frutto del micro; da sempre la malattia e la morte provocano miseria e aumentata povertà nella famiglia colpita, ma sono le migliaia di malattie che possono mettere in crisi la crescita economica di un paese.
Stime sull’impatto socio-economico sono difficili per svariati motivi, primo tra tutti la mancanza di dati. Gli epidemiologi utilizzano dati demografici che non sempre sono così utili per gli economisti; inoltre, a livello nazionale i dati non sono raccolti routinariamente e spesso sono limitati o incompleti. Non esistono studi di economia su base nazionale, e ci si deve accontentare di estrapolazioni da sorveglianze a livello di nuclei familiari o comunitario per il calcolo del costo della vita o della forza lavoro. Difficile correlare i risultati osservati al tasso di Hiv; più facile collegarli alla morbilità/mortalità osservata in un determinato contesto familiare.
Altro aspetto che rende difficile la valutazione dell’impatto socio-economico è che per molto tempo non sono state misurate le conseguenze dell’infezione su morbilità e mortalità. Se, come noto, la morte arriva dopo 8-10 anni dal contagio, le conseguenze diverranno evidenti dopo tale periodo. In molti paesi africani l’incidenza della malattia è in progressiva crescita; inoltre, vi è evidenza che in paesi in cui la prevalenza è in calo il numero di orfani continua ad aumentare. Ciò significa che anche dopo che l’epidemia avrà raggiunto il suo picco i problemi sociali continueranno ad aumentare.
Sociologi ed economisti osservano gli effetti dell’Aids mentre sono in atto: malattia, morte, povertà, orfani. Per contro, gli epidemiologi sono prevalentemente interessati a mettere in rilievo eventi vitali, quali la nascita o la morte. Per il governo, un evento quale la malattia tra il personale viene affrontato con la sostituzione dello stesso, mentre per l’azienda lo stesso evento è interpretato come diminuita produttività per variazione della forza lavoro. In ogni caso morbilità e mortalità sono i determinanti dell’impatto socio-economico sulle famiglie, e sul lungo tempo anche sull’ economia nazionale .
Altra differenza tra epidemiologi ed economisti è che, in alcuni casi, i primi possono misurare qualcosa che non è più presente. Se un nucleo familiare scompare e la sorveglianza prosegue, si considera una famiglia in meno. Per gli economisti questo può significare che se i bambini emigrano in un altro nucleo, tale riallocazione potrà creare problemi nella nuova famiglia.
Altro aspetto da non sottovalutare a livello nazionale è quello di possibili ridotti investimenti in paesi dove è in atto l’epidemia; come si può misurare l’effetto di denaro che non è stato introitato a causa di tale motivo?
Infine, nell’osservare l’impatto della malattia e della morte su nuclei familiari e sull’economia emerge che in termini economici il valore della vita può essere differente. Le economie dei Pvs crescono lentamente, e le strutture si modificano con lo stesso ritmo. Questo può comportare minore necessità di lavoro e conseguentemente minor necessità di denaro per la salute. In tale scenario ed a livello macroeconomico, la morte potrebbe non incidere sul funzionamento di una economia che va a rilento e, in termini puramente economici, coloro che soppravvivono potrebbero stare meglio.
Le argomentazioni sul valore relativo della vita stanno diventando sempre più importanti con la maggior diffusione del trattamento antiretrovirale: chi potrà accedere alla terapia e come sarà presa tale decisione? Si tratta di problemi etici che, se non sufficientemente approfonditi, porterebbero gli economisti a generare politiche che contrastano con il sentire comune.

PER QUANTO ANCORA SPETTATORI INDIFFERENTI?

L’epidemia di Aids, come tutte le malattie che nei secoli hanno sconvolto il pianeta, ha spinto a trovare soluzioni che permettessero la sopravvivenza della nostra specie. Rispetto ad altre infezioni, l’Aids ha una connotazione del tutto particolare, sia sotto l’aspetto scientifico che sociale. Ha permesso di sviluppare la ricerca di base e clinica, ed ha portato a conquiste utili anche in ambiti non strettamente infettivologici. Se il capitolo non si è ancora chiuso per la mancata realizzazione di un vaccino, si è tuttavia riusciti a trasformare un’infezione mortale in una malattia curabile. Ma l’Aids è stata ed è anche altro; ci ha sensibilizzato su aspetti sociali, economici, etici, comportamentali e ci ha spinto ad approfondire temi che sembravano non dover interessare la nostra coscienza.
Le conseguenze dell’epidemia sono sotto gli occhi di tutti attraverso il numero di morti, di contagiati, di orfani, ecc., ma la dimensione socio-economica, attuale e soprattutto futura, ci sfugge. I dati a disposizione non ci permettono di definire con chiarezza politiche di intervento e ancor meno di predire risultati raggiungibili; in tale incerto scenario continua a crescere il divario tra paesi ricchi e paesi poveri. È opportuno chiederci se continueremo a rimanere spettatori indifferenti.

Maria Luisa Soranzo




Il moltiplicatore della povertà

Oggi l’Aids uccide più persone di qualunque altra malattia infettiva. I sieropositivi, i nuovi infettati e i morti sono concentrati nell’Africa subsahariana. L’Aids si diffonde nella povertà e, allo stesso tempo, causa povertà. Anche se i costi delle cure sono drasticamente diminuiti (nel 2000 una cura antiretrovirale costava 12.000 dollari all’anno, oggi 300), nel continente più colpito la povertà ha ancora il sopravvento, tanto che le persone in trattamento sono appena lo 0,4% dei malati africani. In questo contesto si innescano le polemiche sui brevetti dei farmaci antiretrovirali (proprietà di poche multinazionali farmaceutiche) e sui fondi inteazionali per la lotta all’Aids.

Nel mondo, ogni anno muoiono 15 milioni di persone per malattie infettive: di queste 3 milioni per l’Aids (dal 1981, anno della sua «scoperta» ufficiale, fra i 20 e i 25 milioni di persone); 1-2 milioni per malaria; 2 milioni per tubercolosi. Aids, malaria, tubercolosi, i grandi flagelli epidemici dell’umanità, colpiscono soprattutto i paesi del Sud del mondo (il 97% dei decessi avviene infatti in quei paesi).
Per quanto riguarda l’Aids, si stima che i sieropositivi siano fra 35 e 42 milioni di persone (90% nel Sud del mondo); che i contagiati siano 5 milioni ogni anno (14 mila al giorno), il 95% dei quali abitanti nel Sud.
Questa grave epidemia mondiale assume la dimensione di una vera pandemia nell’Africa subsahariana, nella quale si stima vi siano 25-26 milioni di sieropositivi, 2,2 milioni di morti ogni anno (13 milioni dall’inizio dell’epidemia), 3 milioni di contagiati ogni anno; valori che si aggirano su percentuali del 60-70% del totale mondiale, a fronte di una popolazione di poco più del 10% del totale mondiale.
La presenza non è la stessa nelle diverse parti dell’Africa: in sei paesi la quota della popolazione adulta sieropositiva non supera il 2%; più elevata è la presenza nell’Africa del Sud (16% di sieropositivi sulla popolazione adulta); nell’Africa Orientale la stessa percentuale scende al 6%; nell’Africa Centrale e Occidentale è attorno al 4,5% e nel Nord Africa è meno dell’1%, ma in sette paesi essa supera il 20% (in Botswana e Swaziland si arriva al 35%).
In alcuni paesi subsahariani, nell’ultimo decennio, si è avuto il raddoppio della mortalità per Aids: Kenya, Malawi, Zimbabwe, fra questi. In Kenya e Malawi, la probabilità di morire di Aids per le persone di età compresa tra 15 e 60 anni è salita in dieci anni dal 48 al 63%; in Zimbabwe è arrivata all’80%.
I decessi di cui si parla non si devono esclusivamente all’Aids: infezioni batteriche intestinali e delle vie respiratorie, tubercolosi e malaria fanno il resto. Diffusa è la presenza di coinfezioni Hiv-Tbc. Se la cura anti Hiv fosse più diffusa, anche le altre infezioni di tipo epidemico subirebbero un rallentamento o una battuta d’arresto.
L’Africa, però, è tuttora il continente a copertura farmacologica più bassa: le persone in trattamento anti Hiv sono appena 100 mila, lo 0,4% di quello che servirebbe, mentre si stima che tale percentuale sia pari al 7 nel Sud del mondo e al 10 nell’intero mondo.
L’epidemia di Hiv e Aids rappresenta una delle catastrofi più grandi della nostra epoca, e non ha i connotati di un mero problema di salute. L’epidemia ha conseguenze tragiche nella vita sociale, economica e politica delle popolazioni investite e investe in modo assai differente uomini e donne, città e campagna, ricchi e poveri, istruiti e non istruiti, occupati e inoccupati. L’Aids va affrontato sapendo che si è di fronte non solo a un problema di salute, ma anche ad una grave manifestazione del sottosviluppo economico, delle disuguaglianze sociali, della povertà del Sud del mondo, e dell’Africa sudsahariana in particolare. La risposta deve saper affrontare questa vasta problematica, non solamente l’aspetto sanitario.

Quel circolo vizioso Aids-povertà

Causa dell’Aids è il virus dell’Hiv; ma la causa della diffusione dell’Hiv e dell’Aids nei paesi sottosviluppati è la povertà. Le cause dell’espansione dell’epidemia sono infatti:
a) le condizioni igieniche scadenti (e la povertà non consente di migliorare tali condizioni);
b) gli scarsi servizi sanitari (e la povertà non consente di avee di migliori);
c) l’ignoranza e l’analfabetismo (e la povertà non permette di realizzare un’adeguata attività educativa cui normalmente è associata anche una minore attività sessuale, fonte principale della trasmissione dell’Hiv);
d) il maschilismo, gli abusi sessuali e la discriminazione femminile, che fanno sì che il rapporto fra sieropositivi uomini e donne (sia pari a 13/10 in Africa, ma pari a 20/10 in Sudafrica e a 45/10 in Kenya fra le persone con età 15-24 anni); l’ignoranza, anch’essa conseguenza della povertà, costituisce un forte ostacolo all’empowerment della donna;
e) aspetti culturali, giuridici e sociali, fortemente collegati ai livelli di educazione presenti nella società;
f) le migrazioni, prodotte dalla miseria.
Se l’Aids prolifera nella povertà, al tempo stesso l’Aids crea povertà poiché:
a) contagi e decessi sono prevalentemente di giovani adulti (il 50% dei contagi riguardano persone di età tra i 15 e i 24 anni) e questo indebolisce e fa venir meno forza lavoro a elevato potenziale produttivo, sovente colpendo e distruggendo competenze professionali in essere o in divenire (insegnanti, medici, infermieri, tecnici, artigiani, commercianti…). L’epidemia colpisce persone che avevano studiato, si erano formate o erano in itinere per divenirlo, persone indispensabili per creare il tessuto economico, sociale e politico necessario per la realizzazione dei programmi di sviluppo. Fiaccandone la capacità di agire e distruggendone la vita, l’epidemia elimina il potenziale di sviluppo dei sistemi economici e sociali;
b) i sistemi economici perdono i beni che gli ammalati e i defunti avrebbero altrimenti potuto produrre: si stima che nell’Africa Orientale si sia perso, per questo motivo, il 25% della produzione agricola; che in Africa in complesso si sia perso il 10% del prodotto interno; che se ne sia perso l’1% in tutto il mondo;
c) le famiglie colpite vedono ridursi le loro risorse poiché devono sostenere spese per cure e per funerali e a causa di esse possono essere ridotte in miseria. Si stima che queste spese possano arrivare a ridurre i redditi famigliari in media di un terzo (ma anche di due terzi o di tre quarti in Sud Africa);
d) l’epidemia ha effetti deleteri nel lungo periodo in quanto i milioni di morti in età giovane e adulta portano ad un drammatico calo nella fertilità della popolazione e la scarsità della popolazione tarpa le possibilità di crescita economica nei paesi laddove la produttività del lavoro supera il consumo procapite;
e) l’epidemia lascia dietro di sé milioni di bambini orfani di almeno un genitore. Si stimano attualmente nella misura di 15 milioni, di cui 12 milioni nell’Africa subsahariana. Questi bambini o vengono seguiti da nonni o parenti, che li avviano al lavoro per poter permettere alla famiglia di sopravvivere, o vengono abbandonati (leggere articolo di Touadi). Gli uni e gli altri non avranno modo di andare o di continuare la scuola, di formarsi, di acquisire capitale umano attraverso un curriculum formativo o anche solo con l’acquisizione di conoscenze, di abilità, di esperienze che i genitori defunti avrebbero altrimenti potuto dare loro. L’epidemia distrugge il capitale umano dei defunti e non permette l’acquisizione di nuovo capitale umano da parte dei giovani orfani.

DA 10.000 A 300 DOLLARI

S’è detto della insufficiente copertura farmacologica anti Hiv (è più in generale anti malattie infettive). Eppure i dati scientifici mostrano come le nuove terapie contro l’Hiv – le cosiddette multiterapie antiretrovirali – che si utilizzano nei paesi occidentali a partire dal 1996 abbiano nettamente aumentato le possibilità di sopravvivenza dei malati. Nel Nord del mondo, con la multiterapia, la mortalità da Aids è diminuita del 75% e si ipotizza che una persona infetta, se curata precocemente, possa avere davanti a sé oltre 30 anni di vita (non si parla più di durata della «sopravvivenza»). Non c’è più la percezione che un malato di Aids abbia necessariamente una sopravvivenza limitata. Al contrario, in Africa, il decesso avviene in media dopo 7-8 mesi.
La risposta farmacologica dunque esiste, e qui si riapre allora la questione della disponibilità e dei costi dei farmaci.
Le case farmaceutiche sono accusate di applicare prezzi troppo elevati e di realizzare, grazie alla situazione di monopolio in cui operano, profitti esorbitanti. È vero, i mercati dei farmaci hanno tuttora strutture concorrenziali alquanto limitate; basta vedere la differenza di prezzo di molti farmaci in due paesi economicamente e geograficamente vicini come l’Italia e la Francia.
Inoltre, l’Omc è accusata di permettere la presenza di forme di monopolio nel settore farmaceutico con l’applicazione, anche a questo, dell’accordo Trips (del 1996), che regola il brevetto dei prodotti e dei processi di fabbricazione, per impedire il commercio dei beni contraffatti, vietando la produzione da parte di soggetti non titolari dei brevetti e vincolando importazione, uso e vendita dei prodotti all’autorizzazione del titolare del brevetto.

BREVETTO SÌ, BREVETTO NO

Il brevetto è l’istituto giuridico – di diritto interno e, con l’accordo Trips, di diritto internazionale – indispensabile affinché le imprese private facciano ricerca applicata: senza la possibilità di essere l’unico produttore – che il brevetto consente – non sarebbe possibile all’impresa privata sostenere i costi della ricerca (da 100 a 1.000 milioni di dollari Usa per prodotto) poiché non avrebbe nessuna garanzia di poter recuperare i costi con i ricavi, se anche altri soggetti potessero vendere lo stesso prodotto. Gli elevati profitti che la posizione di monopolio permette di realizzare possono poi essere la fonte di autofinanziamento per ulteriori ricerche di nuovi prodotti e di nuovi processi.
Il brevetto viene fatto valere e nei mercati dei prodotti farmaceutici dei paesi ricchi e in quelli dei paesi poveri e gli elevati utili derivano e dagli uni e dagli altri. Ma nei primi paesi, ci si può permettere di pagare i prezzi dei farmaci nei secondi no (la cura anti Hiv costava nel 2000 circa 10-12 mila dollari Usa, mentre il reddito procapite del Sud era fra 150 e 7.000).
Se si vogliono abbassare ovunque i prezzi dei farmaci, un modo è quello di ridurre le posizioni di monopolio svincolate dai brevetti; l’altro è di abbassare i costi della ricerca privata attraverso lo sviluppo della ricerca pubblica o attraverso la contribuzione pubblica alla ricerca privata. La collettività non può avere farmaci – così come altri beni – a prezzi bassi lasciando che siano le imprese private a sostenere i costi di produzione (e della ricerca, quindi). Se si vogliono avere prezzi bassi, una parte dei costi (quelli della ricerca, in primis) devono essere assunti dalla collettività; non invece si aboliscano i brevetti, che permettono il formarsi di prezzi alti, ma senza i quali la ricerca verrebbe a scomparire se lasciata a carico delle imprese private. D’altra parte, vaccini, antivirali e antibiotici sono «beni pubblici», beni i cui benefici trascendono coloro che li usano direttamente e quindi richiedono l’impiego di risorse pubbliche.
Questo in generale. Quanto alla disponibilità che le imprese farmaceutiche foiscano ai paesi più poveri i farmaci antivirali a prezzi bassi, e quindi ridotti rispetto ai costi (in assenza di un adeguato sostegno pubblico alla ricerca privata), la questione è semplice.
Si tratta di un’ulteriore manifestazione del modo in cui i paesi ricchi devono porsi nei confronti dei paesi poveri. Questi hanno una disponibilità di beni insufficiente rispetto alle proprie esigenze: il mondo produce una massa di beni sufficiente per soddisfare i bisogni dell’umanità, ma la produzione è squilibrata e il principio dominante del «a ciascuno il suo» – secondo il quale ognuno ha a disposizione quello che ha prodotto, per cui chi produce molto ha molto a disposizione e chi produce poco ha poco a disposizione – porta ad una distribuzione squilibrata fra beni disponibili e bisogni.
L’unico modo di breve periodo è quello che una parte dei beni prodotti dai paesi ricchi vengano trasferiti senza contropartita ai paesi poveri. Beni d’investimento per poter crescere in futuro, ma anche beni di consumo, poiché una popolazione che muore di fame e malattia non potrà mai iniziare un cammino di sviluppo.
In quest’ottica va posto il significato dell’annullamento dei debiti dei paesi poveri (regalare con ritardo, nel senso di rinunciare a recuperare i prezzi dei beni ceduti in passato con dilazioni di pagamento) e nella stessa ottica è posizionata la cessione dei farmaci salvavita a prezzi sottocosto, perché i manager delle imprese produttrici applicano prezzi sottocosto o gli azionisti impongono ai manager di fare meno utili per aiutare i paesi sottosviluppati (casi rari!) o perché i costi vengono abbattuti dalla presenza di attività di ricerca pubblica o sono coperti da contribuzioni pubbliche dei paesi ricchi.
In effetti, negli ultimi anni, sono stati effettuati importanti progressi nell’attivazione di fondi per combattere la pandemia Aids. Si stima che nel 2003 siano stati impiegati per la lotta all’Aids fondi (aggiratisi sui 5 miliardi di dollari Usa) provenienti da agenzie delle Nazioni Unite, organizzazioni non governative, governi nazionali, donazioni e spese dirette da parte dei paesi e delle persone colpite dalla pandemia. Quest’importo corrisponderebbe a meno della metà dei fondi stimati come necessari nel 2005 (12 miliardi).
Ci si aspetta che due terzi dei fondi necessari per la lotta all’Aids nel 2005 siano foiti dalla comunità internazionale. La maggior parte di questi fondi dovrebbero essere spesi nei paesi più poveri e più affetti dalla pandemia (Asia e Africa subsahariana); questi paesi dovrebbero ricevere dall’estero fondi liberali corrispondenti all’80% del loro fabbisogno.
In questo modo, dovrebbe essere ridotta di molto la forte divergenza, esistente nel 2002, fra le risorse destinate alle persone affette da Hiv. Una ricerca evidenziava, infatti, come la spesa procapite per affetti da Hiv fosse negli Stati Uniti pari a 35 volte la spesa procapite dei paesi dell’America Latina e pari a 1.000 volte la spesa procapite dell’Africa.
Alla diminuzione di queste enormi differenze dovrebbe contribuire anche la rilevante riduzione avutasi negli ultimi anni quanto al costo di una cura antiretrovirale anti Hiv, passato da 10-12 mila dollari Usa pro-capite del 2.000 a 300 dollari Usa nel 2004.

Con la cura, anche l’azione culturale


Non è sufficiente portare ai paesi africani farmaci a prezzi bassi o nulli. È indispensabile un intervento su larga scala e di grande impegno, cioè non solo sanitario e farmaceutico, ma anche culturale.
Prima di tutto è necessario espandere i servizi di informazione e di prevenzione, che ora toccano meno del 20% della popolazione mondiale. Prima di iniziare qualsiasi trattamento medico, è necessario procedere a test per valutare l’infezione Hiv ed è allora indispensabile convincere della necessità di questi esami coloro che hanno influenza sull’opinione pubblica: capi religiosi, notabili, autorità di governo, personale medico-sanitario, organizzazioni femminili, che hanno conoscenza della cultura locale, dei comportamenti sessuali della popolazione, dei modi di comunicazione (termini e modi di comprensione) riguardo alle campagne di informazione e di istruzione in funzione antidiffusione dell’Hiv.
Preparata la strada per l’azione terapeutica, si deve assicurare l’approvvigionamento dei farmaci sul lungo periodo. Personale addestrato deve spiegare ai soggetti sotto cura il significato e l’importanza di una costante assunzione dei farmaci, attualmente realizzata nella forma di complessi cocktail di farmaci. Inoltre, nel pianificare e realizzare la terapia, non bisogna assolutamente perdere di vista il rischio che insorgano resistenze; quindi bisogna ben guardarsi da una somministrazione selvaggia dei farmaci che porti alla diffusione di varianti resistenti ai farmaci esistenti dall’agente patogeno.
È richiesto quindi un intervento su larga scala e di grande impegno per consentire la riorganizzazione dei sistemi sanitari organizzati, per ripristinare le elementari attività di diagnosi, prevenzione, educazione sanitaria e promozione della salute indispensabili per contenere l’espandersi dell’epidemia. Occorre disporre di un affidabile sistema informativo e di valide strategie di comunicazione con tutti gli strati della popolazione.
Il rapporto di Unaids «Aids in Africa: Three scenarios to 2025», del gennaio 2005, individua cinque driver (forze guida) cruciali per un futuro senza Hiv/Aids in Africa:

1) la crescita dell’unità e dell’integrazione sociale e politica. L’unità e l’integrazione fra le persone e le loro comunità di appartenenza formano una potente base per una convivenza pacifica che facilita un’effettiva implementazione delle politiche e dei programmi sull’Hiv e sull’Aids;
2) l’evoluzione dei modi di pensare, dei valori e dei significati. Se l’Aids è percepita come inevitabile o come una trasgressione, uno stigma, una punizione, difficile è realizzare un efficace intervento (prevenzione e cura) in opposizione all’Hiv;
3) la capacità di attivare risorse finanziarie, di persone, di sistemi, di istituzioni che operino in modo cornordinato fra di loro;
4) la generazione e applicazione di conoscenze, nonché nuovi modi di applicare conoscenze esistenti (biomediche, di comportamento sessuale, di consapevolezza delle conseguenze che la malattia ha sui malati e su coloro che ne hanno cura);
5) la distribuzione del potere e dell’autorità all’interno delle società in modo che i diversi centri interagiscano positivamente fra di loro.

Solo attivando questi driver si riuscirà – come si è avuto nei paesi sviluppati – a trasformare l’Aids da malattia mortale per i più in una patologia di tipo cronico grazie all’impiego sistematico e cornordinato dei farmaci antiretrovirali.
Si riuscirà a realizzare quanto preventivato dall’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu: «Siamo riusciti a sconfiggere l’apartheid; abbiamo la forza per vincere anche l’Aids».

Daniele Ciravegna




Futuro per tutti

In una conferenza tenuta a Parigi nel marzo del ‘79 sul tema «Il terzo mondo interpella l’Europa», dom Helder Camara toccò i punti principali del dialogo Nord-Sud, con varie osservazioni sull’Africa di straordinaria attualità. In quegli anni, l’Europa si consolidava nella Comunità economica, lasciandosi alle spalle il secolo dei nazionalismi e dittature e presentandosi come modello di pace e integrazione tra popoli, divisi da guerre sanguinose; l’Africa stava uscendo dalla colonizzazione, ma persisteva comunque una condizione di «dipendenza» economica e in molti casi anche di sudditanza politica dai paesi del «vecchio continente».
Per un vero dialogo tra Sud e Nord del mondo, sosteneva Camara, in primo luogo è necessario lottare contro il modello consumistico che domina nei paesi industrializzati. Fino a quando questi paesi, che controllano quasi tutte le risorse finanziarie e consumano la maggior parte delle risorse, non guariranno dalla pratica del consumismo e dello spreco, gli sforzi per avviare una politica di sviluppo nei paesi più poveri sono destinati al fallimento.
In secondo luogo, non bisogna pensare di affrontare il problema dell’esplosione demografica, cioè della crescente pressione delle masse giovanili del terzo mondo, «attraverso un’invasione teleguidata di pillole anticoncezionali». Oggi potremmo fare una considerazione analoga per i «preservativi». Senza un’attenzione coraggiosa a questo problema e senza la capacità di integrare queste masse giovanili «in uno sviluppo portatore di futuro, si porranno le premesse per una rivoluzione e una guerra civile».
Sono parole tremendamente profetiche, se guardiamo alle migrazioni bibliche dal Sud al Nord del mondo e all’esplosione di violenza nelle banlieues delle città francesi; ma anche al fallimento del recente vertice tra i paesi dell’America del Nord e America Latina e alle conclusioni non incoraggianti della conferenza euro-africana sul Mediterraneo, tenuta a Barcellona alla fine di novembre 2005. Anche l’assemblea del Wto (Hong Kong, dicembre 2005) non sembra offrire risultati migliori.
Il terzo problema è quello della fame, provocata anche dalle ingiustizie nel commercio internazionale, cioè dalle ragioni di scambio imposte dalle economie più forti e dal protezionismo (specie nel campo dell’agricoltura), che ancora caratterizza la politica americana e quella europea: cioè economie che impongono a tutti i paesi un modello liberista.
Tuttavia non è sufficiente, per uscire dal circolo vizioso della povertà, abbassare le tariffe doganali verso i paesi poveri. Senza altre decisioni, deprime gli sforzi dei paesi più poveri. Senza vera solidarietà politica, questi interventi si risolveranno in un vantaggio per le multinazionali che controllano il mercato mondiale.
A questi problemi, sin dal ’79, Camara ha aggiunto quello rappresentato dal crescente indebitamento dei paesi in via di sviluppo rispetto a quelli industrializzati: squilibrio aggravato dell’inflazione mondiale e internazionale, che avvantaggia i ricchi.
L’uscita dell’Africa dal circolo vizioso della povertà comporta una «restituzione» di ciò che l’Europa ha «depredato» al tempo delle colonie, specialmente con un forte investimento in capitale umano, nella formazione professionale. Di questo, più che di un «regalo», in effetti si dovrebbe parlare.

I n 30 anni, sono cambiate molte cose. In alcune realtà si sono avviati processi virtuosi; ma in molte regioni del mondo la situazione è peggiorata. In Africa in particolare. Per la Comunità europea l’interesse si è concentrato per molti anni sui problemi della «guerra fredda» (tra Alleanza atlantica e Urss) e sui rapporti con i paesi del Mediterraneo. Essi sono stati in qualche modo associati alla Comunità europea, anche se il conflitto medio-orientale ha impedito il concreto decollo del progetto di Barcellona del 1999, che riguardava la cooperazione con i paesi dell’area del Mediterraneo.
In seguito, tramontato l’impero sovietico, è entrata in discussione la realizzazione del mercato, cioè le relazioni con sistemi economici (dal Giappone alla Cina) che la globalizzazione ha avvicinato a un’Europa sempre più interessata all’allargamento degli scambi commerciali e alla competizione economica.
E questo orizzonte ha spinto l’Europa a ridurre il costo di ogni intervento (o aiuto) in qualche modo assimilabile alla politica sociale e agli impegni di solidarietà internazionale. D’altra parte, i bilanci della maggior parte dei paesi in via di sviluppo, non sopportano il costo delle cure che sarebbe possibile adottare contro le pandemie che minacciano questi paesi.
Poi l’allargamento dell’Unione europea verso i paesi dell’Est, spostano risorse finanziarie europee verso i paesi che si sono integrati con l’Europa o che si apprestano ad aderire all’Unione europea.
E questi mutamenti di orizzonte, insieme al consolidarsi del mercato unico, hanno accentuato, in concreto, la marginalità dell’Africa, anche se continua il richiamo al dovere di un forte impegno per il suo sviluppo, mentre per molti aspetti si stava aggravando la situazione economica e sociale del «Continente nero».
Di fatto, non solo si è accentuato il fenomeno di cui parlava Helder Camara: milioni di poveri hanno lasciato campagne desolate per migrare verso città, «che vedono trasformarsi le periferie, in enormi favelas, da cui i poveri possono venire spazzati via per sempre, quando disturbano i progetti turistici». Inoltre, sono esplose guerre tribali, spesso fomentate dall’esterno (dal Rwanda al Coo d’Africa), che hanno provocato la morte di milioni di persone, distrutto immense ricchezze e scavato solchi di odio molto profondi; e poi conflitti (Darfur) che minacciano equilibri da sempre precari tra popolazioni di diverse radici culturali e religiose.
Tutto questo ha a che fare con la diffusione dell’Aids e con le difficoltà che si incontrano per combatterlo.

I documenti del Parlamento europeo riassumono l’interesse dell’Europa per i problemi dell’Africa. Accanto all’interesse per i programmi di sviluppo economico (e istruzione), per la difesa del valore dei prodotti su cui è fondata l’economia tradizionale (cotone, zucchero, banane) e per la lotta contro la fame e povertà, è cresciuto l’impegno per prevenire i conflitti, creare una pace durevole, difendere i diritti umani, rafforzare la democrazia. Infine si delinea l’interesse ai problemi della salute della popolazione e quindi, negli ultimi anni, anche per il flagello dell’Aids.
Sulla politica da adottare per prevenire e combattere la pandemia si è sviluppata una vivace polemica sui suoi costi, sulla corruzione, che devia la destinazione degli aiuti, sulle priorità degli interventi, sulla politica dei brevetti; ma, come per molte altre questioni, sino ad ora sono state più le parole dedicate all’analisi del problema che la consistenza degli interventi concreti.
Tuttavia nelle ultime risoluzioni dell’Assemblea parlamentare Acp-Ue (Lussemburgo, 25 giugno 2005), a fianco dell’obiettivo di «sradicare la povertà e inserire con armonia i paesi dell’Acp nell’economia mondiale» (anche per contrastare la minaccia del terrorismo), si colloca l’obiettivo di lottare contro l’Hiv/Aids, malaria e tubercolosi, riconoscendo che «la realizzazione degli obiettivi di sviluppo per il Millennio», esigono sforzi supplementari e un aumento sostanziale delle risorse.
Pertanto l’Ue è invitata, in partenariato con il settore privato (fondazioni e industrie farmaceutiche), ad «accrescere le risorse destinate alla ricerca e alla messa a punto di nuovi strumenti e progetti di lotta contro queste tre malattie».
Perché i propositi diventino realtà, di fronte a un fenomeno di dimensioni catastrofiche, specie nell’Africa subsahariana (vedi statistiche p. 35), è necessario che al centro della riflessione politica sia posta la questione indicata da Helder Camara: se non cambia il modello di vita dei paesi più ricchi, se non si afferma un nuovo umanesimo dell’economia, è molto difficile che si possano destinare le risorse necessarie alla lotta contro la povertà e per l’avvenire di popoli minacciati di estinzione.
Eppure, senza invocare le radici cristiane dell’Europa, anche solo una ragione egoistica dovrebbe convincere l’Unione europea e l’Occidente a fare scelte che si muovono in questa direzione: basta guardare alla crescente emigrazione dall’Africa ai paesi dell’Europa mediterranea, all’esplosione della violenza nella periferia delle metropoli europee, dove vivono ai margini della società migliaia di giovani africani, senza speranza di un futuro a misura umana.
Chi rinuncia a scelte possibili e accetta come ineluttabile il declino dell’Africa, dovrebbe mettere in conto che questa tragedia finirà per riflettersi anche sull’Europa. L’Europa non può dire «non mi interessa». Bisogna rompere la congiura del silenzio e rifiutare l’opinione che il declino dell’Africa è irreversibile. Se domina il timore delle guerre e non siamo in grado di combattere la povertà e la fame, è più difficile portare avanti un programma che guarda al futuro. Poiché «se non c’è speranza, non c’è futuro».

Guido Bodrato




Ricerca… continua

La scienza è da tempo impegnata nel produrre farmaci per prevenire e ritardare il processo infettivo dell’Hiv; ma la protezione dei brevetti rende i loro prezzi proibitivi per i paesi poveri, specie in Africa. Alcuni paesi in via di sviluppo hanno cominciato a produrre farmaci «generici» in loco, copie a basso costo di quelli brevettati. Intanto la ricerca continua nel mondo vegetale e nelle tradizioni mediche popolari, ma la scoperta di farmaci o vaccini efficienti è ancora lontana.

L a pandemia Hiv/Aids ha indotto un’impressionante mobilitazione del mondo scientifico, convogliando enormi risorse economiche sulla ricerca biomedica, provocando un importante sviluppo delle conoscenze nel campo della virologia e farmacologia antivirale; ciò ha consentito un rapido sviluppo di molti farmaci innovativi, ma ha anche evidenziato l’iniquità di accesso alle cure tra paesi ricchi e paesi poveri.
Dagli studi di biologia molecolare dei virus, abbiamo appreso molti dei meccanismi di replicazione/moltiplicazione e invasività di questo virus e altri virus simili (figura 1). Al tempo stesso sono stati progettati e sviluppati nuovi farmaci anti-Hiv, che hanno offerto un netto miglioramento della sopravvivenza e della qualità di vita dei pazienti trattati.
I farmaci attualmente disponibili per il trattamento dell’infezione da Hiv appartengono a quattro classi farmacologiche diverse: inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa (Nrti), inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa (Nnrti), inibitori delle proteasi (Pi) e inibitori della fusione del virus con le cellule dell’ospite (Fi).
La paura dell’Aids ha polarizzato l’attenzione dei sistemi sanitari dei paesi industrializzati e già all’inizio degli anni ‘90 le risorse sanitarie assorbite dai malati di Aids erano decine di volte superiori a quelle assorbite da malattie di grande impatto sociale, come malattie cardiovascolari, depressione, cancro.
La situazione è peggiorata negli anni successivi sia per l’ulteriore espandersi dell’epidemia sia per l’introduzione dei nuovi farmaci inibitori delle proteasi, molto più attivi e meglio tollerati degli inibitori della trascrittasi inversa, ma anche molto più costosi.

Farmaci inaccessibili

La triplice associazione, generalmente di due inibitori della trascrittasi inversa e di un inibitore delle proteasi, è diventata rapidamente uno standard irrinunciabile per i paesi sviluppati e ricchi, grazie alla sua elevata efficacia nel ridurre e mantenere a bassi livelli la forza del virus e alla buona tollerabilità.
Questa strategia terapeutica a elevata efficacia antiretrovirale (Haart), pur comportando un notevole aggravio della spesa farmaceutica a carico dei sistemi sanitari, è stata giudicata conveniente, perché consente di ottenere anni di vita in più ad un costo ritenuto accettabile per le economie dei paesi ricchi.
Ma il costo di acquisto dei farmaci antiretrovirali prodotti da poche industrie farmaceutiche multinazionali è risultato proibitivo per i paesi poveri o in via di sviluppo. Nella maggior parte dei paesi a basso o medio reddito, la prevalenza dell’infezione Hiv è molto elevata, ma la disponibilità di risorse economiche destinabili alla salute non è neppure sufficiente per far fronte alle comuni malattie e il reddito pro capite annuale è spesso inferiore al costo necessario per acquistare i farmaci antiretrovirali.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nel lanciare il progetto «3×5», ha stimato in circa 6 milioni il numero di pazienti dei paesi in via di sviluppo bisognosi di trattamenti con farmaci Arv, mentre solo il 7% di questi avevano accesso alle cure mediche adeguate, con percentuali molto diverse nelle varie aree geografiche: in Africa solo il 2% del fabbisogno risultava esser coperto.

Problema priorità

Negli ultimi anni una serie di iniziative inteazionali, suscitate da movimenti di opinione e fondazioni benefiche, ha reso disponibile una quantità crescente di farmaci antiretrovirali anche per le popolazioni a basso e medio reddito.
Soprattutto la riduzione dei costi di acquisto di questi farmaci ha fatto emergere, anche nei paesi africani, il problema delle priorità da assegnare al trattamento dell’infezione Hiv rispetto ad altre patologie più diffuse e pericolose. Solo una minima parte della popolazione ha accesso alle terapie antiretrovirali; inoltre, con le scarse risorse allocabili alla sanità, occorre trovare un difficile equilibrio tra interventi di prevenzione, trattamento e cura dell’infezione. In queste condizioni l’analisi costo/efficacia dei possibili interventi per l’Hiv/Aids dovrebbe essere uno strumento molto rilevante per supportare ogni decisione delle autorità sanitarie.
Ma il solo parametro della costo-efficacia delle varie strategie anti-Hiv non è sufficiente per stabilire le priorità degli interventi che devono esser finanziati dai fondi pubblici nei paesi africani.
L’Oms ha messo a fuoco le «condizioni essenziali minime richieste per introdurre il trattamento antiretrovirale nei servizi sanitari nazionali» (Oms 2000). Esse sono così riassunte:
1 – disponibilità di counselling sui problemi dell’Hiv e servizi per i test;
2 – capacità di riconoscere e gestire in modo appropriato le comuni malattie correlate all’Hiv;
3 – disponibilità di laboratori capaci di fare almeno la conta dei linfociti CD4+;
4 – certezza di avere un adeguato rifoimento di farmaci, inclusi quelli per le infezioni opportunistiche;
5 – identificazione di sufficienti risorse economiche per pagare i trattamenti a lungo termine;
6 – informazione e formazione dei medici e personale sanitario che prescrivono i farmaci Arv.
Successivamente sono comparsi, su autorevoli riviste mediche, articoli che riprendevano questo argomento, soffermandosi sulla opportunità di standardizzare l’approccio al trattamento antiretrovirale.
Accanto alle priorità da assegnare alle differenti strategie anti-Hiv nei paesi africani, negli ultimi anni si è fatta largo la coscienza che anche la ricerca medica attuata in questi paesi debba essere sviluppata e rappresenti una priorità irrinunciabile per la messa a punto delle terapie ottimali.
Al tempo stesso è maturata la convinzione che sia essenziale attuare ricerche cliniche controllate sui farmaci Arv per indirizzare le nuove sfide che derivano dalla crescente disponibilità di tali farmaci. Vi è un generale consenso che sia possibile attuare ricerche cliniche sui farmaci antiretrovirali nei paesi in via di sviluppo e che sia necessario sviluppare maggiormente l’attitudine alla ricerca clinica nei paesi africani. Ne è un esempio l’inaugurazione in Uganda dell’Infectious Diseases Institute (2004), il più grande centro di malattie infettive della regione dell’Africa Orientale, istituito per elargire assistenza, ma anche formazione dei medici e paramedici e per condurre ricerche.

Farmaci di prevenzione

È molto importante mettere a punto sistemi efficaci di prevenzione della trasmissione dell’Hiv. La semplice distribuzione del preservativo non ha avuto grande successo a causa delle difficoltà psicologiche, tipiche della cultura africana. Un’alternativa può essere, sul piano teorico, l’uso di creme vaginali microbicide.
Oltre 40 diverse molecole germicide sono state testate in vitro o su modelli animali. Diversi prodotti e altrettante ricerche cliniche sul campo sono state predisposte e avviate per studiare l’efficacia e la praticabilità di questo approccio. I risultati definitivi circa l’efficacia nel prevenire la trasmissione dell’infezione Hiv sono attesi per il 2010; ma già uno studio è stato sospeso a causa dei problemi irritativi creati dalla crema a livello vaginale che ha comportato un sensibile aumento del rischio di trasmissione del virus Hiv.
Si ritiene che i gel microbicidi, nel migliore dei casi, possano essere solo parzialmente efficaci. Tuttavia, è stato stimato che un gel che fosse efficace al 60% potrebbe prevenire globalmente 2,5 milioni di infezioni in tre anni, con un risparmio sulle povere economie dei paesi in via di sviluppo di ben 2,7 miliardi di dollari.
I gel vaginali, tuttavia, non sono generalmente accettati con favore dalle donne e dai loro partner e la messa a punto di prodotti che siano contemporaneamente efficaci, ben tollerati e poco evidenti non è impresa facile. Infine, è da sottolineare come alcune Fondazioni inteazionali, qualche tempo fa, abbiano proposto e propagandato le creme vaginali come metodo anticoncezionale spermicida, contribuendo a creare una fama negativa a questo tipo di prodotto.
Recentemente John Moore, un ricercatore della Coell University, New York, ha messo a punto una nuova formulazione di un gel costituito dall’associazione di tre nuove sostanze antivirali. Il prodotto è risultato efficace su modelli animali (macaco). La ricerca clinica, che dovrebbe iniziare nel 2007, coinvolgerà 10.000 donne africane e costerà 150-200 milioni di dollari.
Ben documentata è l’efficacia della chemioprofilassi della trasmissione del virus Hiv dalla madre al figlio durante la gravidanza o il periodo perinatale. Questo tipo di trattamento, in genere con la triplice associazione Haart, è ormai di uso consolidato nei paesi occidentali ad alto reddito e ha portato ad una drastica riduzione dei casi di positività nei bambini nati da madri sieropositive.
Molto differente è, purtroppo, ancora la situazione nei paesi africani. Ogni giorno, in Africa, 1.900 bambini vengono infettati dalle loro mamme Hiv positive. Il rischio della trasmissione virale da madre a figlio oscilla tra il 25 e il 45% ed è tra le principali cause della netta riduzione dell’aspettativa di vita media nei paesi subsahariani.

Farmaci… da copiare

La drastica riduzione dell’attuale prezzo di vendita dei farmaci antiretrovirali è una tappa fondamentale per rendere accessibili su vasta scala queste terapie nei paesi poveri in via di sviluppo. Il prezzo attuale dei farmaci Arv è dovuto a un insieme di fattori industriali e alle strutture di mercato nazionali e inteazionali. Il sistema dei brevetti inteazionali, sostenuto anche dall’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), contribuisce in modo evidente a mantenere elevato il prezzo dei farmaci.
Il mantenimento a lungo della protezione dei brevetti per farmaci così essenziali come quelli antiretrovirali sono state contestate da più parti. La violazione delle norme sui brevetti, impossibile nei paesi aderenti al Wto, è teoricamente possibile nei paesi poveri che non riconoscono la validità dei brevetti; ma mancano competenze tecniche e strutture industriali per produrre a basso costo le copie dei farmaci brevettati.
Negli ultimi anni una coraggiosa donna thailandese, Krisana Kraisintu, ha voluto sfidare il sistema dei brevetti e con grande tenacia è riuscita a fondare nel suo paese un’industria farmaceutica pilota, in grado di produrre a basso costo farmaci «generici», ossia copie di alcuni antiretrovirali ancora coperti da brevetto, rendendoli accessibili a vaste fasce di popolazioni povere. Questa straordinaria donna ha esportato la sua esperienza in vari paesi dell’Africa, mettendo in piedi altre aziende farmaceutiche locali.
La disponibilità su vasta scala di prodotti «generici», copie a basso costo di antiretrovirali di marca, renderebbe possibile il trattamento di ampie fasce di popolazioni povere che attualmente non hanno accesso alle cure, come hanno dimostrato diversi studi, tra cui quello dell’Oxfam relativo all’Uganda.
Diverse Fondazioni inteazionali e personalità, tra cui l’ex presidente Usa, Bill Clinton, hanno cercato di favorire e promuovere la politica dei «generici», per rendere accessibili le cure anti-Aids a più vaste fasce di popolazioni dei paesi in via di sviluppo. Per intermediazione di Clinton, quattro aziende farmaceutiche in India e in Sudafrica hanno recentemente firmato un accordo per fornire a paesi poveri alcuni farmaci antiretrovirali «generici» a un prezzo decisamente ridotto. Secondo Clinton, «l’accordo consentirà di distribuire il trattamento basato sulla triplice associazione a circa 38 centesimi di dollaro, che corrisponde a circa la metà del prezzo corrente dei farmaci a basso costo comunemente usati». Il piano prevede la foitura di tali farmaci a circa 2 milioni di soggetti nelle aree caraibiche e in Africa entro il 2008.
Secondo Carlos Correa dell’Università di Buenos Aires, Argentina, il taglio dei prezzi antiretrovirali è una tappa importante, ma tale sforzo dovrebbe estendersi anche a tutti gli altri farmaci necessari per le popolazioni dei paesi poveri. Secondo Correa «ciò richiederà una revisione della politica dei brevetti e, in particolare, di discutere se vi sia una qualche giustificazione per imporre standards di protezione, comprensibili solo nel contesto di paesi ricchi».

Terapie non convenzionali

Vaste fasce della popolazione africana spesso utilizzano rimedi tradizionali, ricavati da piante medicinali, anche per curare i sintomi dell’Aids. Si tratta di preparati di origine vegetale già usati da molto tempo per una varietà di altri problemi medici ed ora applicati anche alla nuova emergenza sanitaria dell’Aids.
La maggior parte di questi rimedi sono nettamente meno costosi dei farmaci antiretrovirali e quindi più accessibili. Inoltre, la loro accettabilità è elevata, sia perché essi vengono proposti dai praticanti della medicina tradizionale, sia perché generalmente sono ben tollerati. L’efficacia antivirale, tuttavia, non è provata e, allo stato attuale delle conoscenze, il loro uso può, al massimo, alleviare qualche sintomo delle manifestazioni cliniche del virus.
Tra le piante medicinali più usate ricordiamo la sutherlandia che contiene canavanina, una molecola dotata di qualche attività antiretrovirale, oltre al gaba, che svolge un’azione antidepressiva, e al pinitolo dotato di proprietà antidiabetiche.
Altro rimedio tradizionale molto usato dalle popolazioni africane è la spirulina, un’alga marina ricca di vitamina B12, carotene, xantofille e fotopigmenti. I preparati a base di spirulina sarebbero in grado di inibire l’adesione del virus alla membrana delle cellule dell’ospite e la replicazione di alcuni virus, tra i quali l’Hiv-1 e il virus influenzale tipo A e quello della parotite. Inoltre, sarebbe in grado di stimolare il sistema immunitario, aumentando il numero e l’attività dei macrofagi.
I preparati a base di echinacea angustifolia inducono in vitro un marcato aumento dell’attività delle cellule natural killer (Nk) e incrementano la distruzione immunomediata dell’Hiv.
Il viscum album, detto pure iscador, possiede attività immunostimolante e antiretrovirale. Un suo preparato standardizzato è in fase di sviluppo clinico come possibile prodotto farmaceutico. In associazione alla terapia farmacologica antiretrovirale favorisce la stabilizzazione delle condizioni cliniche dei pazienti Aids.
I preparati di aloe vera, divenuti popolari anche nei paesi occidentali per le loro presunte attività antitumorali, hanno proprietà antibatteriche, antifungine e antinfiammatorie. Inoltre contengono acemannono, una sostanza accreditata per una qualche attività anti-Hiv.
Gli estratti della plumeria rubra sono ricchi di composti fenolici e di tannini e sono comunemente impiegati dalle popolazioni africane nei casi di herpes zoster.
I semi di papaia sono usati per la loro attività antiparassitaria nel trattamento delle patologie opportunistiche in corso di infezione da Hiv.
Il mondo vegetale è da sempre una fonte inesauribile di principi medicamentosi che l’uomo nella sua evoluzione ha imparato a riconoscere e utilizzare per curare le malattie. Oggi, diverse strutture pubbliche (università, enti governativi) e private (industrie farmaceutiche, fondazioni) sono impegnate nell’esplorazione della biodiversità del mondo vegetale alla ricerca di nuovi e migliori farmaci anti-Hiv, possibilmente dotati di nuovi meccanismi d’azione.
Diversi composti di origine vegetale finora isolati presentano le caratteristiche per essere considerati buoni candidati da sottoporre all’ulteriore sviluppo degli studi sperimentali come innovativi prodotti utilizzabili per via sistemica nella terapia e/o profilassi dell’infezione Hiv, per lo più in associazione con altri farmaci.
Ma la strada è ancora molto lunga e difficile e richiede molte risorse economiche e molti anni di ricerche. Finora solo il 5-15% delle 250.000 piante conosciute sono state studiate sistematicamente alla ricerca di composti biologicamente attivi. Inoltre, eventuali farmaci anti-Hiv estratti dal mondo vegetale, devono essere scientificamente provati sotto il profilo tossicologico, farmacologico e clinico, per dimostrare di avere un rapporto rischio/beneficio accettabile.
Infine, i prodotti naturali di origine vegetale presentano ulteriori difficoltà, rispetto a quelli di sintesi. Infatti, devono essere presenti in natura in quantità adeguate rispetto alle esigenze terapeutiche e la loro estrazione non dovrebbe arrecare danni irreparabili e irreversibili agli ecosistemi. Inoltre, il prodotto dovrebbe avere sempre la medesima composizione di qualità e quantità e le stesse proprietà nei vari lotti di produzione. Tali caratteristiche non sono facili da ottenere con prodotti estrattivi.

Etnofarmacologia

Lo studio dei rimedi delle tradizioni popolari secondo i canoni della modea farmacologia, rappresenta un importante esempio metodologico e culturale capace di portare alla scoperta e sviluppo di nuovi farmaci, compresi quelli utili per l’infezione Hiv. Un esempio delle possibilità dell’etnofarmacologia applicata alla ricerca di nuovi principi attivi anti-Hiv è dato dagli studi fatti in autorevoli centri di ricerca del Sudafrica, Stati Uniti, Francia e Venezuela.
L’esperienza di questi gruppi inteazionali di ricercatori è interessante non solo sotto il profilo scientifico, ma anche in quello culturale e della collaborazione umanitaria. Sotto il profilo culturale questa esperienza evoca temi vitali per la comprensione del rapporto tra uomo e natura, tra medicina e cultura dei popoli, ed evidenzia i limiti intrinseci a una visione puramente tecnicistica e riduzionistica dell’attuale scienza medica.
L’approccio etnofarmacologico provoca il farmacologo a superare la visione strettamente tecnicistica del valore dei farmaci e a recuperare il significato complessivo della cura accogliendo e includendo nella propria scienza l’irrinunciabile dimensione umanistica distillata nei millenni dall’evoluzione e dalla storia dei popoli.
Sotto il profilo della collaborazione umanitaria l’esperienza internazionale sopra riferita può essere assunta come modello per coinvolgere ricercatori dei paesi sviluppati e di quelli in via di sviluppo in un unico razionale sforzo per far evolvere in modo utile le conoscenze sulle malattie, nel caso specifico sull’infezione da Hiv, e sui possibili rimedi, ascoltando la storia e la cultura dei popoli e la voce infinitamente ricca, seppur nascosta, della biodiversità della natura

Mario Eandi




Solidarietà da reinventare

L’accesso alla tutela della salute è un diritto fondamentale di ogni persona, ma esso viene per lo più negato alle popolazioni dei paesi poveri, nei quali infierisce la pandemia dell’Aids. Mentalità e insufficienze da parte dei paesi più ricchi, unite alle incapacità e deficienze a livello locale, hanno allargato la forbice tra bisogni e risorse, a scapito della giustizia. Occorre reinventare il futuro a tutti i livelli, smascherando individualismi, errori, furbizie interessate, e rivitalizzando il concetto di solidarietà.

Il principio di giustizia nella tutela del diritto alla salute può essere un buon titolo per un contributo teorico, che sappia di lucerna. Vorrei parlare, invece, di cose più concrete, come hanno fatto e fanno quotidianamente coloro che vivono in prima persona il dramma dell’Aids.
E vorrei ricordare, prima di tutto a me stesso, che anche in questo ambito non si tratta soltanto di diritti (come abitualmente si fa ogni volta che si menziona la giustizia), ma anche di doveri.
Le chiacchiere, cui siamo adusi, privilegiano i primi, mentre i secondi sono lasciati sullo sfondo, perché sono scomodi; e così, su di essi domina spesso il silenzio, eccetto quando diventano argomento di rissa politica, il che è un rischio che mal si accorda con i dettami della ragione; ma che appartiene – e lo sappiamo quanto – all’esperienza quotidiana.
Il diritto a cui mi riferisco riguarda, da un lato, un livello adeguato di vita che assicuri la salute e il benessere; dall’altro, la legittima attesa di ricevere, quando necessario, un’assistenza sanitaria degna, qualunque sia il modo, pubblico o privato, di foirla.
Parlando di Aids, potremmo parafrasare John Rawls (Una teoria della giustizia, 1982) e dire che il fatto per cui alcuni godono buona salute e altri cattiva, non è qualificabile né come giusto, né come ingiusto; ma si tratta di dinamiche che vanno riferite alla sorte o, per usare una sua espressione, agli esiti favorevoli o sfavorevoli della «lotteria naturale».
Sappiamo che, nel corso della infermità da HIV, tale «lotteria» talora è «aiutata» da un non trascurabile contributo colposo di insipienza, imprudenza, faciloneria; per cui viene sottintesa una colpa del paziente, che il moralismo pubblico spesso ha condannato a priori, per assolvere se stesso dalle insufficienze del trattamento terapeutico successivo.
Sono nate così le accuse di mercantilismo, arroganza, insensibilità, sopraffazione di una società governata dalla potenza, palese o occulta, del denaro. L’avere è il surrogato magico dell’essere. Chi non ha, non è. Chi è, deve mostrare d’essere, avendo. Poiché il mondo ama i vittoriosi e disprezza gli sconfitti.
È il fascino del successo: chi non riesce, non conta.
Ora, pensate forse che, nell’accesso alla tutela della salute, il problema si ponga in termini diversi, in particolar modo, nei paesi sottosviluppati? No, di certo. E ciò tanto più in un momento che sappiamo essere di difficoltà generale e di forbice aperta tra risorse e bisogni.
In verità la meta dell’assistenza (e di una assistenza uguale) per tutti sembra essersi convertita in una coperta stretta e corta, che tutti tirano con ostinazione, ma che non basta a riparar dal freddo e talora neppure a coprire le vergogne.
È tempo di realismo. Occorre privilegiare la perseveranza insieme alla speranza, che premia le buone battaglie.
Occorre evitare che la sanità venga abbandonata all’appiattimento su base monetaristica e alle semplificazioni economiche dell’aziendalismo (da noi) e delle grandi industrie farmaceutiche che, nel Terzo Mondo, dominano il campo, condizionando gli interventi.
Occorre ricordare che, al di là dei grandi problemi sociali che tormentano, e giustamente, il politico, vi è quello meno rumoroso del cittadino qualunque, del poveraccio di tuo, che non ha (o ha poca) voce e perciò meno si fa sentire.

Mi riferisco agli ultimi, ai diseredati, nel cui nome molti parlano, anche se non sono talora quelli che hanno più titolo a farlo.
Gli ultimi: senza privilegi, né gerarchie, né speciali riconoscimenti che ricevono sole, pioggia, arsura e tempesta a capo chino, continuamente inciampando, cadendo, rialzandosi, reinciampando ancora.
Quello stesso piccolo uomo anonimo che, le parole sono di Mazzolari, «nasce senza molti auguri e muore senza necrologi», è un fante della umanità, emblematicamente il milite ignoto, e che sulla via accidentata dell’assistenza quotidiana è e resta pedina di un gioco altrui.
È a lui che vogliamo rivolgere uno sguardo intenzionale, perché anche noi medici possiamo correre dei rischi nei suoi confronti: di divenire i mandarini di una scienza e di una professione che, sotto il manto della neutralità, pratica un antico integralismo e stabilizza pericolosi sodalizi regressivi o repressivi, non certo a vantaggio dei sofferenti e degli esclusi.

Il problema dell’Aids è nato circa un quarto di secolo fa, non contemporaneamente in tutti i paesi e con una diversa risposta da parte dei singoli stati, ma si è trasformato in pochissimo tempo in una piaga biblica per la diffusione della malattia in tutti gli strati della popolazione e per l’altissima mortalità.
Nei paesi più ricchi la prevenzione e il controllo si sono fatti ora efficaci, non invece in quelli in via di sviluppo, che costituiscono i due terzi della superficie del pianeta, ospitano i tre quarti dell’umanità. Paesi che sono sinonimo di povertà, stato di bisogno, assenza di regole, arbitrio politico, diseguaglianze sociali, guerre civili, rovina per le carenze (corruzione compresa) del potere e, talora, per un triage medico (valutazione della gravità e priorità di assistenza, ndr) di tipo militare.
Questi paesi hanno di fatto vanificato anche alcuni sforzi compiuti per aiutarli, perché i fondi sono stati dirottati verso spese militari e/o vantaggi per gli uomini al potere, o sono stati mal utilizzati per incapacità e cattiva coscienza nella gestione amministrativa.
Ma la cattiva politica non si trova soltanto a casa loro, perché medicina, morale e moneta hanno anche altrove vissuto in difficile coabitazione. Nell’istituzione sociale deputata alla cura del malato, ciascuna ha infatti avuto sempre bisogno dell’altro e si è trovata imbarazzata nel dover ammettere la co-presenza dell’altra.
Se poi si aggiungono i progressi rapidi della tecnologia medica da importare, gli ubiquitariamente crescenti costi delle cure, l’incapacità di pianificare le pur limitate risorse, l’ignoranza grave e la impreparazione della popolazione, nonché la incapacità di autogestione, non si ha difficoltà a capire perché il bilancio dei risultati terapeutici sia colà risultato così fallimentare.
Nella maggior parte dei casi si è scelto di fatalisticamente attendere con le mani in mano e di continuare sulla via comoda della cattiva gestione interessata e delle sperequazioni nella distribuzione delle risorse e quindi nell’accesso alle cure.
A tale incapacità locale si sono aggiunte poi quelle dei paesi ricchi, la cui cultura, spesso disillusa dalle grandi narrazioni metafisiche del passato,
– ha rinunciato a fondare l’etica dei suoi rapporti con i paesi poveri sul solido terreno dell’Assoluto, personale e trascendentale, per rifugiarsi nelle sabbie mobili del contrattualismo e dell’utilitarismo;
– ha disatteso le istanze personalistiche e comunitarie;
– ha ceduto alle pressioni del profitto (eretto talora a suprema norma dell’agire anche in ambito medico);
– ha calpestato esigenze di giustizia e di solidarietà;
– ha giustificato, anche in termini farmacologici, l’assunto che «chi più ha, più può; chi non ha, meno riceve»;
– ha prodotto una veloce e ideologizzata liquidazione dello stato sociale;
– ha rivelato aspetti contraddittori: cultura del rischio o della paura, della prudenza o del desiderio?
– ha dato vita a riforme sanitarie che non hanno prodotto i frutti attesi ma si sono spesso rivelate un «ombrello bucato», per usare l’espressione di Rosaia (1980);
– ha alimentato una politica asfittica e appiattita sulle regole del gioco, alla mercé dei grandi potentati commerciali.
La somma di tutte queste insufficienze ha progressivamente allargato la forbice tra bisogni e risorse, a tutto danno della giustizia, con grande preoccupazione per chi ha responsabilità programmatiche.

Va detto pure ciò che avviene in molti dei paesi del continente africano:
– non vi è democrazia o vi è una grave sua erosione, per lo meno per quel che riguarda l’assistenza sanitaria;
– il potere diventa l’artefice della «giustizia» e della «morale» nella forma più egoistica e brutale; non vi è rispetto per l’autonomia dei singoli pazienti (del resto in buona misura incapaci di autogestirsi per quel che concee cure complesse e da protrarre nel tempo);
– prevale l’esercizio o di uno spregiudicato abuso o, per lo meno, di un patealismo forte, che viola le regole morali, gli obiettivi fondamentali della medicina, i diritti del paziente e la stessa sua natura umana.
Il futuro sarà quel che faremo oggi. È come piantare un albero, attendere e curare che cresca. La nostra è l’epoca di chi pianta alberi, non di chi fugge dalla responsabilità o di chi sostituisce la saggezza con la tecnica, la solidarietà con il controllo.
È vero. Siamo in una terza fase dello sviluppo della medicina. Nella prima ci si prendeva cura del malato, si foiva al più una diagnosi, per il resto ci si limitava di fatto a offrire conforto e qualche palliativo.
Nella seconda l’orizzonte è mutato: ci si è ripromessi di curare, vincere le malattie e salvare i malati.
Ci piaccia o no, siamo ora nella terza, che, secondo Callahan (1987), è l’era dei limiti imposti dalle restrizioni che pesano sulla economia. Il dilemma non è più del singolo o del solo volontariato o della missione emblematicamente impegnata, ma della società intiera.
Fu forse una generosa utopia quella che ci ha portato a progettare una sanità pubblica, in cui ciascuno ricevesse secondo i propri bisogni, pur contribuendo nei soli limiti delle proprie possibilità? Forse sì, ma resta il dovere di:
– non rinunciare a un’importante conquista di civiltà;
– provvedere a un riassetto istituzionale e organizzativo dell’esistente;
– e adeguatamente correggere gli errori e gli sprechi di uno stato sociale spendaccione, corrotto e diseducatore, senza far passare il tutto sulla testa del più debole e diseredato.
Se la questione vertesse solo sulla razionalizzazione della spesa sanitaria, attraverso modelli più appropriati e controlli più sistematici, saremmo di fronte (Pasini 1998) a una mera questione di efficienza e la questione andrebbe risolta a livello organizzativo. Ma non si tratta soltanto di questo, bensì di decidere anche chi curare e fino a che punto estendere i servizi.
Di qui la inevitabilità delle scelte, che implicano ulteriori dilemmi etici, quali il valore della vita delle singole persone, la qualità dell’esistenza loro assicurata, la dignità da sottrarre alla valutazione del mercato.
Certamente il mito del tutto a tutti (e per di più gratis) deve fare i conti con i diversi tipi di razionamento e la questione, essendo pubblica e dunque politica, tocca al cuore il rapporto tra democrazia e assistenza sanitaria.

Ed è così che se ne è parlato in questo Convegno. Per dire che cosa? Che intendiamo sia giustizia, in questo ambito, l’impegno di:
– non alimentare le confusioni,
– non mascherare le differenze,
– deflazionare gli individualismi, privilegi, errori, furbizie interessate,
– preparare un clima di reciproco servizio, fatto di fiducia partecipe e autorevolezza competente, senza
– annullare le responsabilità di ognuno, a tutti i livelli.
Qualcosa si muove in quello che, da parte di tanti, si ritiene lo sfascio: molte coscienze prendono la parola, varie energie vanno mobilitandosi. Solo che il presente non produce da sé il futuro, occorre reinventarlo nella misura delle proprie speranze. Noi medici per primi.
Ci dobbiamo aiutare tutti, perché fare delle scelte significa anche rivitalizzare il concetto di solidarietà, altrimenti svuotato (perché spinto oltre i limiti di ciò che si può ragionevolmente ottenere), rispettando:
– l’uguaglianza delle persone,
– il bisogno fondamentale di protezione della vita umana,
– il principio di reciproco aiuto.
E che l’invito parta anche da questo Convegno è frutto di una coscienza critica che dovrebbe far ben sperare chi da fuori guarda e di noi non dispera.

Mario Portigliatti Barbos




Attenti… al cuore

Secondo la cultura dei macua, etnia bantu delle province settentrionali del Mozambico, il mondo è popolato da un insieme di forze vitali che, come i fili di una ragnatela, interagiscono tra loro. La malattia non è mai un fatto privato, ma nasce e si evolve in un complesso mondo di relazioni, che diversificano anche le forme di terapia… E l’Aids, prima di tutto, è una malattia del cuore.

Il 24 aprile 2004, i vescovi mozambicani hanno scritto la lettera pastorale «Curate i malati»1, affrontando il problema dell’Aids in Mozambico. Il dato è allarmante: nonostante le campagne di prevenzione promosse negli ultimi anni dal servizio sanitario nazionale e da varie Ong, il Mozambico è oggi uno dei paesi africani con il più alto tasso d’infezione da Hiv: 17% della popolazione. Circa 500 mila bambini sono orfani di genitori, deceduti per Aids, e 50 mila neonati contraggono ogni anno l’infezione per via verticale.
Le campagne di prevenzione realizzate in questi anni hanno per lo più presentato il preservativo come metodo preventivo: ne sono state distribuite ai giovani enormi quantità, spiegando pubblicamente come utilizzarli2. Uno degli effetti collaterali di tali campagne sembra essere stato un maggiore disimpegno dei giovani (e non solo) verso un comportamento sessuale responsabile: adolescenti e bambini, informati sull’uso facile del preservativo, sono stati di fatto sollecitati all’attività sessuale. In questo senso, sembra che le campagne informativo-preventive abbiano avuto un effetto boomerang sulla diffusione dell’infezione da Hiv.
Al di là della trasmissione per via sessuale, bisogna anche considerare la trasmissione sanguinea, che ha un suo importante ruolo, sia all’interno delle strutture sanitarie, spesso precarie, che nell’ambito dei vari trattamenti di medicina tradizionale (es. incisioni tramite lamette).
Ultimamente, in alcuni centri maggiormente popolati, sono nati alcuni consultori per la prevenzione e il trattamento dell’Aids. Tipico è il progetto Dream della Comunità di S. Egidio, che ha realizzato tre centri principali (Maputo, Beira, Nampula), attrezzati con laboratori altamente specializzati, e una rete di piccoli centri e servizi domiciliari3.

Un mondo di forze vitali

Per chi opera o simpatizza con l’Africa e vuole entrare in dialogo con le persone con cui collabora, è necessario aprirsi alla conoscenza del pensare africano, cercando di intendee non solo la lingua, ma anche il linguaggio. Senza tale conoscenza, ogni dialogo, compreso quello «sanitario», risulta impedito e causare troppi equivoci da ambo le parti; nel discorso e prassi sanitaria, si rischia di usare gli stessi termini e si intendono realtà diverse.
Per capire il pensiero africano, soprattutto il concetto di malattia, bisogna tener presente che i popoli bantu si muovono in un mondo fatto non tanto di cose o esseri, ma piuttosto di forze vitali, che si intrecciano in relazioni e influenze reciproche.
Questo, in modo estremamente semplificato, è il principio chiave per comprendere la cultura bantu4: un «pensare» che alcuni studiosi contemporanei definiscono «vitalogia», ossia, una filosofia a partire dalla vita più che dall’essere5.
L’immagine della ragnatela6 può rendere l’idea di questo mondo di forze vitali in relazione: se si muove un filo, la sua vibrazione si ripercuote su tutta la ragnatela. Sullo sfondo di questa concezione del mondo si muove il pensiero e la vita bantu, compreso il modo di vedere e vivere salute e malattia.
Se a un macua xirima domandate «come sta», la risposta può variare in modo sorprendente per la mentalità occidentale. Essa può essere molto simile a quella che anche noi siamo abituati a dare: «Bene, e tu?». Ma, come in un motivo musicale, le variazioni sono spesso numerose e significative: «Bene, non so però come va il tuo corpo»; «bene, non so però come stanno le tue forze»; «bene, non so però come sta la tua vita»; «bene, non so però come stanno le tue ossa».
Oppure la risposta può essere «così, così», seguito dal racconto, spesso complesso e dettagliato, della ragione del «così, così», spaziando da un mal di pancia notturno a un brutto sogno, da un problema di relazione familiare alla malattia di un parente vicino o lontano… fino agli elefanti che hanno rovinato il campo di granoturco. Sono risposte che esprimono le ragioni per cui una persona si sente minacciata nella propria vita/salute.
Il bantu vive di relazioni e influenze reciproche, sia a livello intrapersonale che interpersonale. Mi spiego. Sotto l’aspetto intrapersonale, il bantu considera la persona come un’unità, composta da tre dimensioni fondamentali: corpo, spirito e ombra, i quali, integrando tra loro, influiscono sullo stato di salute o provocano la malattia.
A livello interpersonale, il bantu riconosce nell’altro (sia esso persona umana vivente o antenato, realtà animate e inanimate e Dio stesso) un qualcuno col quale, in qualche modo, è in continuo scambio: tale scambio può aumentare o diminuire la «vita» e non lascia mai inalterate le condizioni che trova.

Malattia e rimedi nella cultura macua

Da tale visione del mondo derivavano i criteri per classificare le malattie e per applicarvi i relativi rimedi. Secondo la mentalità bantu-macua, tutte le infermità possono essere racchiuse in due grandi categorie. La prima comprende le malattie «di Dio» o «naturali», quelle, cioè, che si ritengono causate da agenti naturali; la seconda quelle «culturali», cioè, causate da influenze negative di altri (persone viventi o del passato).
Per un loro adeguato trattamento bisogna tenere presente il contesto culturale completo (filosofia, religione, vita familiare, sociale), soprattutto l’antropologia bantu-macua, con le sue tre dimensioni: corpo, spirito e ombra, distinte ma mai separate7.
La cerchia dei «personaggi» coinvolti nel dramma della malattia si allarga rispetto alla mentalità occidentale. Un ruolo preminente è svolto da Dio e dagli antenati (relazioni e influenze del mondo dell’aldilà); ci sono poi gli esperti tradizionali della salute (indovini, medici tradizionali); c’è il malato con i suoi parenti, con i suoi vicini e con quanti in qualche modo entra in contatto.
Per questo la malattia non è puramente una condizione personale, un fatto privato, ma è un evento multidimensionale che muove, coinvolge, nasce e si evolve in un contesto relazionale che abbraccia tutto l’orizzonte del mondo bantu-macua. Di conseguenza, anche la «farmacologia» e la terapia si dilatano e diversificano in modo impressionante8.
Nell’universo bantu-macua si può parlare, prima di tutto, di terapia mistico-religiosa. «Dio è la vita, gli antenati sono medicine» dice un proverbio macua.
La terapia tradizionale include aspetti mitico-cosmogonici: essa è impensabile senza il contatto con il mito fondativo del popolo, con le origini della collettività e dell’individuo malato, con la scaturigine della forza vitale.
La terapia abbonda di aspetti simbolici: simboli e gesti usati evocano significati ed emozioni. Ma non mancano, naturalmente, gli aspetti prettamente farmacologici: i medici tradizionali conoscono rimedi naturali a volte molto efficaci.
Infine, nelle terapie tradizionali giocano un ruolo importante le relazioni tra il malato e il medico, la famiglia e il mondo dell’aldilà. Tali relazioni costituiscono l’ambiente in cui si collocano i vari trattamenti.
In questo scenario, si comprende come la cura di una malattia non possa fare a meno di essere multidimensionale: deve interessare le tre dimensioni della antropologia bantu (corpo, spirito, ombra), dialogare con i diversi ambiti (religioso, familiare, sociale) del mondo macua e abbracciare diversi tempi: presente, passato (il tempo mitico delle origini) e naturalmente il futuro.
Credo che anche la medicina scientifica, in qualche modo, abbia bisogno di un cammino di inculturazione; debba, cioè, entrare in dialogo con le istanze che la persona e il popolo presentano, nell’ascolto umile e empatico di come la persona o il popolo comprende se stesso e, di conseguenza, del significato che attribuisce a un dato avvenimento, anche quello della malattia.

E se l’Aids fosse una malattia del cuore?

Estate 2003: siamo in una missione della provincia del Niassa. È un pomeriggio di sole, caldo ma non troppo. Con Roberto, un ragazzo di 27-28 anni, siamo seduti in un luogo ombroso e fresco. Parliamo della vita: della sua e del suo popolo.
Roberto è figlio del suo tempo e del suo popolo: tempo e popolo che hanno ritrovato la pace da appena 11 anni, dopo una guerra lunga ed estenuante, che ha lasciato segni fuori e, soprattutto, dentro le persone.
Roberto parla volentieri; lo sento vibrare nel raccontare e approfondire i suoi pensieri e sentimenti. Lo fa soprattutto prendendo spunto dalla sapienza tradizionale, proverbi e detti del suo popolo, ma li rielabora con talento poetico e acutezza d’intuito.
Il discorso cade sull’Aids, che sta mietendo giovani vittime anche nel suo villaggio. A un certo punto il giovane esordisce: «Di Aids però ce ne sono due tipi». Gli chiedo spiegazioni. «C’è quella che conosciamo, quella del virus – afferma -. Sappiamo come si trasmette, come si previene. Sappiamo che non ci sono cure, che porta alla morte. Queste cose le sappiamo. Però tutto ciò non ci impedisce di ammalarci…».
Approfondiamo il dialogo e Roberto spiega che forse il problema della prevenzione dell’Aids non sta solo nell’informazione. I ragazzi del suo villaggio sono ben informati sulla malattia. Il fatto è, dice Roberto, che probabilmente ai ragazzi non interessa molto di ammalarsi, piuttosto che rimanere sani. E rilancia: «Vedi, c’è un altro tipo di Aids, che è anche peggio di quella del virus, e che viene prima…». E continua parlandomi di un’altra «malattia», diffusa e mortale, «è come un verme che ti mangia dentro… e tu non hai più voglia di vivere… e cominci a morire».
Mi spiega che è una malattia «del cuore» e ne elenca i «sintomi». Nella mia mente, ascoltandolo, riconosco con precisione impressionante la descrizione del vuoto, della depressione, della solitudine. Roberto va oltre, elencandone pure alcune cause, con lucidità e intuito ammirevole; e corona la sua analisi con una parabola.
«Quando soffia il vento e cade un albero, noi pensiamo che sia stato il vento a farlo cadere, ed è vero. Ma non è tutta la verità. Se guardiamo bene l’albero, ci accorgiamo che dentro era “mangiato”, vuoto. Prima del vento, c’era un verme che era entrato e aveva fatto il suo lavoro. L’albero sembrava vivo, ma era già morto. Il vento ha dato solo l’ultimo colpo».
Roberto mi ha dato un’altra lezione di vita. Mi ha insegnato che bisogna stare attenti al vento, prevenirlo, rinforzare gli alberi perché non cadano. Ma mi ha insegnato che questo non è tutto, che «c’è un altro tipo di Aids, che viene prima». C’è una persona che forse è ferita dentro e a questa ferita va data attenzione. Non è una ferita che si cura con le medicine. È una ferita del cuore, dell’anima, che richiede un «trattamento» diverso, fatto di cose forse meno visibili e quantificabili delle medicine, ma non per questo meno importanti.
Richiede silenzio, ascolto, presenza, discrezione, delicatezza, capacità di comprendere, intuire e sfidare. Richiede l’impegno in relazioni vere, che possano costituire quello spazio/luogo in cui la persona possa «sedersi» al sicuro, avere il coraggio di guardare le proprie ferite e recuperare le energie, la vita.
Richiede l’impegno e la passione di creare con l’altro una comunicazione attraverso cui la consolazione passi. Non la consolazione delle frasi fatte, della pacca sulle spalle, ma la consolazione biblica, cristiana, cioè di Cristo. La consolazione che circola anche attraverso gli umili canali delle relazioni umane più vere, in cui si incarna la carità, che non è assistenzialismo umiliante, ma condivisione di se stessi nel dare e nel ricevere la ricchezza dell’altro e dell’Altro.
Roberto mi ha dato una buona lezione, sfidandomi ad approfondire il mio essere cristiana e missionaria. Grazie, Roberto!

Simona Brambilla