Angeli con un’ala rotta

Giovane dentista, cresciuto nello spirito missionario frequentando i nostri gruppi giovanili, Daniele ha deciso di spendere alcuni mesi come volontario in un ospedale del Cottolengo in Kenya, per mettere
a servizio dei più poveri la sua specializzazione professionale. Le riflessioni sulla sua esperienza insegnano che occorre poco per essere felici: basta fare felici gli altri. Provare per credere.

«Ed è subito sera». Credo sia una poesia di Quasimodo. È diventata un po’ il motivo portante di questa mia vita qui, a Chaaria. Mi accorgo di quanto sia vero proprio in questo posto, proprio adesso in cui rubo qualche minuto alla routine in ospedale per scrivere.
Non me ne sono accorto, ma quasi due mesi sono passati. Un giorno per volta, un passo dopo l’altro, mi sembra di aver fatto tanta strada e nello stesso tempo di essere fermo.
Sembra incredibile, il giorno scorre come un torrente, a volte placido, a volte come imbizzarrito. E veloce. Cavoli com’è veloce!
Dalla mia camera vedo l’alba. Ogni mattina spengo la sveglia (maledico la sveglia) e, ancora sdraiato, 6 e 20, apro le tende. Apro anche la finestra: mi piace il fresco del mattino, mi aiuta a svegliarmi. È tutto tranquillamente in ombra, le vacche dormono, il bananeto non si muove. E di colpo esce fra le foglie di banana un disco arancione.
Sembra che quella palla rossa, enorme, sia lì apposta per me, a guardarmi in faccia per dirmi che sono vivo, e se mi sbrigo a saltare fuori dalle lenzuola è meglio. Non capisco cosa ci sia di diverso nel cielo; è come se fosse pronto a piombarti sulla testa, è come se fosse piegato ad abbracciarti. Probabilmente sarà per la diversa curvatura della terra all’equatore. Non mi interessa. Mi piace pensare che sia Dio che stringe al petto con amore i suoi figli prediletti: i miserabili, i sofferenti che abitano qui. E che sono quelli che ama di più, non perché sono più buoni, ma perché sono poveri.
Così comincia un’altra giornata. La messa come prima cosa. Per dare energia, per trovare un motivo per tutto quello che ci circonda. O almeno dovrebbe essere. In realtà ho talmente sonno, che tante volte riprendo conoscenza quando qualcuno seduto vicino a me mi scrolla per darmi il segno della pace.
Di lì in poi si comincia a correre. Perché, ha detto Madre Teresa, «non sia mai che qualcuno venga da voi e non se ne vada migliore di com’era quando è venuto, più felice». Questo cerco di propormi ogni mattina. Spesso non ci riesco.

È difficile spiegare Chaaria. Perché è difficile spiegare i sentimenti a parole. E i sentimenti sono forti; e sono in contrasto fra di loro. Sono occhi, grida, sorrisi, lacrime. Sono volti, nomi, odori.
Chaaria è Glory: non sa perché, ma a 12 anni ha un tumore. Troppi soldi per operarsi. Maledetti soldi. Sempre loro. Troppo tardi per cercare una soluzione. C’è un angelo in più, adesso, in cielo. Un angelo troppo piccolo per capire, troppo lontano adesso dal suo papà che piange.
Chaaria è Susan: non ha fatto niente di male. Ha l’Aids. Senza colpa. Semplicemente, è nata dove non doveva. Susan sorrideva, sempre, mi salutava con la mano sinistra. Mi ha anche ringraziato perché le ho tolto un dente che le faceva male.
Non è una bambina, è un fiore, dolce come un bacio. Mi sorrideva anche la sera se passavo a toccarle una mano. Ma è fragile, Susan. Troppo il peso della sofferenza sulle sue ossa leggere.
Susan è una fiammella che si allontana sempre più. Susan è un angelo con un’ala rotta, è scesa per farci capire quale preziosa meraviglia sia la vita.

Stasera, proprio mentre scappavo dall’ospedale per venire a scrivere, si sentiva da una radio quella canzone, di non so più chi, che dice «… but if God was one of us…». Già, se Dio fosse uno di noi, cosa gli direi…
Lo ringrazierei per l’alba, i fiori del frangipane, gli alberi di banana, i mango. Per la risata di Makena, le gambe di Kanana, il sorriso di Beppe, la voce di Lorenzo. Perché respiro. Forse ci litigherei. Gli urlerei in faccia. Come Vecchioni che canta: «Ora facciamo due conti io e te, Signore!». Perché non fai qualcosa?
In questa mia fede traballante mi convinco sempre più che, se Dio c’è, è qui, con i poveri, con quelli che soffrono. Non fa quello che vorrei io. Non è un Dio prestigiatore, che fa i miracolini per far vedere che può. È un Dio che sta con gli ultimi. Anzi, sta proprio in fondo alla fila. Lui era lì. Con Glory. A tenerle la mano, in silenzio. Lo so.

Certo, la rabbia a volte è tanta. Non so se la notizia sia arrivata in Italia, ma qui la scarsa stagione delle piogge ha portato la carestia. Giustamente, persone di buon cuore si sono attivate per portare sollievo a una popolazione sofferente. Così una dolce vecchietta neozelandese, amministratore delegato di una multinazionale che produce alimenti per animali, ha offerto in dono diversi quintali di mangime per cani, «per alleviare la fame dei bambini del nord del Kenya». Complimenti! È grazie a iniziative costruttive come questa che Beppe Grillo può mantenere attivo il suo blog.
L’Undp (United Nations Development Programme) ha calcolato che basterebbero 40 miliardi di dollari, lo 0,1% del prodotto interno lordo mondiale, per garantire a tutti, in tutto il mondo, i servizi sociali di base. Ogni anno spendiamo circa 1.000 miliardi di dollari in armi, quasi 500 in pubblicità, 50 in sigarette, 11 in gelati. E circa 20 in cibo per animali. Guardando tutto da quaggiù, non mi sento per niente fiero di essere un abitante di questo pianeta.
Ma non vorrei che con tutto questo mi pensaste triste o scoraggiato. L’unica cosa è che ho tanto sonno. Ma sento verissimo quello che dice Frei Betto: «Nella vita per essere felici serve solo un po’ di pane, del buon vino e un grande amore». La vita semplice, come dice Gesù: beati, sì, beati i cuori semplici. È la semplicità che fa scoprire una libertà interiore.
È di questa libertà del cuore che, credo, tutti abbiamo sete. Una mia grande amica mi ha detto una volta che i poveri sono una straordinaria ricchezza. Credo sia vero.
E poi non ci sono solo Glory e Susan. Solo che spesso spendo più tempo a pensare alle ombre che alle luci. Capita anche a voi?
Vorrei raccontarvi di William, che lavorando si è distrutto una mano. Con Gian l’abbiamo ricostruita, e ho visto ieri che riesce di nuovo a muovere il pollice.
Potrei raccontarvi di Kangai, che ha partorito, dopo un bruttissimo intervento, una bimba che sarà una fotomodella o almeno un premio Nobel. La settimana scorsa è andata a casa, mi ha salutato con quel suo orrendo sorriso sdentato, bellissimo.
O di Isidoro, uno dei nostri «buoni figli», un dolce vecchietto di 5 anni che non dimostra per niente i suoi 60; che salta di gioia quando lo portiamo in macchina a bere una cocacola in «città»; che mi ferma per mostrarmi orgoglioso la sua tartaruga che ha chiamato Brother Moris.
Ma non c’è più tempo, vi parlerò ancora di loro. Adesso è tardi, devo tornare in ospedale. Poi bere una birra e poi andare a dormire. Magari dopo avee cantate un paio con Andrea. Canzonacce da osteria o canzoni d’amore, con la chitarra. Come se fossimo da sempre in vacanza.

Ho sentito in un film una frase dura, che mi ha colpito. Diceva circa così: faranno vedere tutte queste cose al telegiornale, la gente dirà «che vergogna». Poi prenderà in mano la forchetta e ricomincerà a mangiare cena. Forse è proprio così.
Ma non dobbiamo rassegnarci. Non dobbiamo abituarci. Si può cambiare. «Il sole nasce anche d’inverno. La notte non esiste: guarda la luna» diceva una canzone qualche anno fa. Il mondo può cambiare.
Siamo noi che possiamo cambiarlo. Noi, tutti insieme. Un pezzo alla volta. Non so se il Signore mi ha voluto qui per cambiare il mio pezzettino. Credo che ci proverò. Di sicuro sono felice.

Di Daniele Pecorari

Daniele Pecorari




Ebrei del borgo rosso

Inviati dagli imperatori persiani, fin dal secolo vi,
a popolare le regioni orientali del Caucaso, gli ebrei si erano integrati negli usi e costumi degli altri abitanti, che i russi, arrivati all’inizio del xix secolo, chiamarono «ebrei della montagna». La fine del regime sovietico e libero mercato hanno rinfocolato la loro intraprendenza. Ma rimangono soggetti a paure e diffidenze, soprattutto da parte degli azeri musulmani, rimasti economicamente al palo.

Un tempo dovevano avere lo stesso aspetto dimesso i due insediamenti sulla riva destra e su quella sinistra del fiume. Il primo si chiama Quba, ed è abitato da azeri, l’altro Krasnaja Sloboda, ed è abitato da ebrei.
Sono arrivata a Quba in un sonnolento pomeriggio di sabato. Per strada pochi passanti e ancora meno macchine. Ho cercato invano un luogo di ritrovo, una piazza centrale dove ci fosse un po’ d’animazione. Non ho visto che case basse, a un piano, massimo due, per lo più in cattivo stato, e vie silenziose. Tanto valeva andare subito dall’altra parte del fiume, a Krasnaja Sloboda: quella era la meta, il vero motivo per cui ero giunta fin lì, a quattro ore di autobus da Baku.
La cittadina azera, difatti, non presenta particolari motivi di attrazione, ma un paese abitato esclusivamente da ebrei in un territorio musulmano e turco, ebbene, quella è cosa più unica che rara. Così ho attraversato il piccolo parco cittadino e sono scesa per l’ampia scalinata, costeggiata da statue argentee di atleti e atlete palestrati – un commovente kitsch sovietico – che porta al ponte pedonale di collegamento tra le due sponde del fiume.
Prima ancora che mi si spalancasse alla vista, tuttavia, ho avuto del luogo dove ero diretta una percezione sonora. Da dietro gli alberi del parco ho sentito a un certo punto un diffuso picchiar di martelli provenire proprio da quella parte. Lo sguardo, invece, è stato subito attratto dalla mole squadrata di un edificio che, primo ad accogliere il pedone al di là del ponte, con le sue sgraziate dimensioni nasconde alla vista un bel pezzo di paese.
Una volta lasciatolo alle spalle, mi sono trovata all’imbocco della strada principale del paese e ho finalmente scoperto perché i martelli non cessavano di picchiare. L’intera via era costellata di cantieri; ad una ad una le modeste case a un piano vengono sostituite da palazzine di due, tre piani, dall’aspetto solido e pretenzioso, tutte coicioni, architravi, colonnine e torrette. Ne ho subito riconosciuto lo stile: quello dei nuovi palazzi di Mosca, che l’occhio vede crescere in grandezza e numero senza mai abituarsi; uno stile che pare voler dire: «Guardatemi, quanto sono potente e quanto valgo».
Ma qui perché questa ostentazione d’arte architettonica?

Qui vive la più grande comunità di «ebrei di montagna»: così furono chiamati dai russi questi ebrei, che parlano un dialetto persiano e che nelle abitudini e nell’aspetto non si distinguono in nulla dagli altri abitatori del Caucaso. Sulla loro origine circolano le ipotesi più disparate, alcune decisamente leggendarie, come quella che vi vedrebbe le perdute tribù d’Israele, o l’altra che li farebbe un resto del popolo turco dei khazari, che occuparono il Daghestan nei secoli vi-x e che avevano il giudaismo come religione di stato.
Secondo un’altra tradizione sarebbero un ramo degli ebrei di Babilonia. Tuttavia, l’ipotesi più accreditata è che siano i discendenti degli ebrei persiani, mandati dai Sasanidi nel vi secolo a popolare il Caucaso orientale, estrema periferia del loro impero e regione di grande importanza strategica. Quel primo nucleo avrebbe poi raccolto nel corso dei secoli flussi migratori di ebrei provenienti sempre dalla Persia, soprattutto dalla regione caspica del Gilan, e da altre parti del Caucaso.
Non si sa quante migliaia di «ebrei di montagna» vivessero nel territorio degli attuali Azerbaigian e Daghestan, quando i russi vi arrivarono all’inizio del xix secolo. Un volonteroso ricercatore ne contò circa 21 mila nel 1888, di cui 6 mila solo a Evrejskaja Sloboda, il Borgo Ebraico, diventato Rosso, Krasnaja, dopo la rivoluzione del 1917.
Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso erano, secondo stime approssimative, 50-52 mila. Con la perestrojka, però, molti cominciarono a trasferirsi in Israele, in America, o in Germania. Ve ne sono tuttora dei nuclei a Mosca e in altre città della Russia e c’è anche una grossa comunità a Baku.
Con la fine dell’Urss e l’introduzione del libero mercato, hanno avuto modo di manifestare appieno il proprio spirito imprenditoriale, si sono dati al commercio su larga scala; e le cose devono andare abbastanza bene, a giudicare dalle palazzine che stanno sorgendo nel «Borgo Rosso».

Nonostante l’alacre attività che si sospettava nei cantieri, sebbene fosse sabato, giorno del riposo (che fossero muratori azeri?), per strada di passanti ce n’erano pochi; così per scambiare due parole ho pensato di andare alla chaikhane, dove gli uomini si trovano a bere il tè, chai, a fumare, o a giocare a nardi, una sorta di dama mediorientale.
Gli avventori erano per lo più signori anziani; uno di loro, che nel frattempo aveva fatto arrivare al mio tavolo una teiera bollente, mi ha spiegato che tanti giovani del paese sono in giro per il mondo; i suoi figli, ad esempio, vivono a New York, lui, però, non ha nessuna voglia di lasciare la sua casa per raggiungerli.
Eravamo ormai al tramonto, ma nessuno degli avventori pareva intenzionato ad andare alla funzione del sabato sera; io, invece, avrei voluto assistervi, così ho chiesto al mio ospite di indicarmi la strada per la sinagoga.
L’ho visto imbarazzato. «Nel Borgo ce ne sono sette, mi ha spiegato, ma solo una è aperta e non la più interessante». Ci potevo andare, naturalmente, ma poi mi consigliava di fare un salto a una delle due feste di matrimonio che si preparavano per la serata. Come straniera avrei dovuto considerarmi invitata. Sarebbero state feste ricche, con molti invitati provenienti da ogni parte e cantanti azeri fatti venire apposta da Baku. Era chiaro che, a suo avviso, quella parte della serata sarebbe stata per me di maggiore interesse.
Mentre seguivo le indicazioni per l’unica sinagoga aperta, sono riuscita a individuae altre due, alquanto decrepite. Un tempo a Krasnaja Sloboda le sinagoghe erano 11 – ogni quartiere ne aveva almeno una – tanto da meritare al paese l’appellativo di «Gerusalemme del Caucaso». Poi erano venuti gli anni dell’ateismo di stato: qualche sinagoga fu abbattuta, le altre andarono in rovina o furono adibite ad altri usi. Ora, con la libertà di culto e la nuova prosperità economica della comunità, le cose sono migliorate e si è provveduto a restaurae qualcuna. Gli ebrei del Borgo, tuttavia, non sembrano brillare per zelo religioso.

Davanti alla sinagoga ho trovato solo un gruppetto di uomini in attesa della funzione. Io ero l’unica donna. Siccome alle donne non è consentito pregare assieme agli uomini, per farle in qualche modo partecipare alla funzione la fantasia degli architetti locali ha escogitato un sistema ingegnoso: la stanza loro riservata ha una finestra che dà su un corridoio di separazione, proprio in corrispondenza di un’altra finestra che dà sul locale principale. Grazie a questo gioco di finestre le donne possono seguire la preghiera.
Mi è stato detto che mi sarei potuta fermare nel corridoio, così da vedere meglio. Ne ho approfittato per guardare alcune fotografie lì appese, che documentavano i buoni rapporti della comunità con le autorità azerbaigiane: visite ufficiali di alti funzionari di Baku alla sinagoga e, viceversa, di notabili ebrei ai funzionari di Baku.
Al calar del sole i fedeli sono entrati, togliendosi le scarpe come in una moschea, e la funzione ha avuto inizio. Dal mio punto d’osservazione ho visto gli uomini muoversi al canto della preghiera, passarsi il Libro per leggerlo a tuo, e inchinarsi ai rotoli della Torah, esposti a occidente.
È per questo motivo, oltre che per le differenze nel rito e nelle parole delle preghiere, che quando gli ebrei europei cominciarono ad arrivare nel Caucaso, a seguito della conquista russa, non si mischiarono ai loro fratelli «di montagna», ma si costruirono sinagoghe separate.
Nel quartiere ebraico di Baku i templi delle due comunità si trovano in due vie adiacenti, orientati rigorosamente in direzioni opposte. Il diverso orientamento fa memoria delle diverse direzioni prese dalla diaspora ebraica. Coloro che andarono a occidente rivolsero le loro sinagoghe a est, dove avevano lasciato Gerusalemme, e il contrario fecero coloro che andarono a oriente.
Tra le due comunità non c’era molta simpatia. Gli «europei» snobbavano i «montanari», che quasi non si distinguevano tra la massa degli «incolti asiatici»; questi ricambiavano la diffidenza dei correligionari europei e sembravano trovarsi più a loro agio con i vicini musulmani, con i quali, fuorché la fede, condividevano tutto, perfino l’architettura dei loro luoghi di culto.
Me ne sarei resa conto il giorno dopo andando a spasso per Quba. Per un attimo, nel passare accanto a una moschea di quartiere, ho creduto di aver trovato un’altra sinagoga: la stessa forma a casetta bassa, la stessa torretta sul cucuzzolo. Solo che, a ben guardare, al posto della stella di David, appariva una discreta mezzaluna.

Quando sono uscita dalla sinagoga già imbruniva. Ora in strada c’era animazione. Il martellare era cessato, in compenso si sentivano le note di un’orchestra.
Mi sono ricordata dei due ricchi matrimoni e anche, chissà perché, che non avevo pranzato. Avevo una gran voglia di mettere qualcosa sotto i denti, ma, con i due banchetti di nozze in pieno svolgimento nei due unici ristoranti del paese, non sarebbe stata cosa facile.
Sono tornata un po’ delusa verso il ponte e mi si è nuovamente parato davanti lo sgraziato edificio che avevo notato all’inizio. Era uno dei ristoranti. Al primo piano, dietro il parapetto dell’enorme terrazza coperta, si vedeva un pullulare di teste, in un angolo s’intuiva la presenza dei musicisti, davanti a loro emergevano i mezzibusti dei cantanti.
Non mi aveva un signore per strada appena confermato che avrei dovuto considerarmi invitata alla festa? Così ho fatto un timido tentativo di avvicinarmi alle scale, ma l’ingresso era guardato da due solidi ragazzotti in giacca e cravatta, che non avevano un’aria incoraggiante.
Lì, sul ponte, tra gli sfaccendati venuti a guardare da lontano la festa, ho riconosciuto alcuni ragazzi che avevo visto in sinagoga. Sono stati loro a ridarmi speranza. Esattamente dall’altro capo del ponte, nascosto tra il verde della riva c’era un ristorantino. Si sono offerti di accompagnarmi, perché conoscevano bene il padrone, un azero piccolo e mite, e gli avrebbero detto di trattarmi bene. Nell’attesa che arrivasse la mia cena si sono trattenuti a chiacchierare con me, poi si sono dileguati, nonostante il mio invito a restare. Non volevano disturbarmi mentre mangiavo.

Rimasta sola, mi sono messa a riflettere sul caso singolare di quelle due comunità che da secoli si guardano da una sponda all’altra del fiume. Come in tutto il mondo islamico, anche nel Caucaso gli ebrei non avevano gli stessi diritti dei musulmani, erano soggetti a maggiori obblighi e tasse.
Tuttavia, la loro posizione era qui migliore che altrove. Veniva loro perfino riconosciuto il diritto di portare il pugnale, accessorio indispensabile dell’abbigliamento di un montanaro. Il pugnale nel Caucaso non era solo un’arma, aveva anche un valore simbolico, perché era lo strumento con cui si stipulava un patto di sangue tra due membri di clan diversi; in questo modo si diventava fratelli per elezione, pur non essendolo per nascita, e ci si impegnava a comportarsi in tutto e per tutto come i figli di un’unica madre. Ci furono casi in cui un simile patto unì musulmani ed ebrei. Ma ciò avvenivano soprattutto nei villaggi sparsi tra i monti.
A Evrejskaja Sloboda, ai piedi delle montagne, il rapporto con i vicini turchi era, invece, piuttosto freddo. Gli ebrei avevano potuto insediarsi in quel luogo solo per volere del Khan di Quba, che intorno al 1730 aveva loro concesso un lembo di terra su cui costruirvi il villaggio. Non avevano diritto di occupare i terreni circostanti, motivo per cui, con l’arrivo di nuove famiglie e il crescere della comunità, le case si erano sempre più infittite.
Raramente gli ebrei si arrischiavano ad andare sulla riva opposta, per paura di essere aggrediti o derubati. È significativo che il ponte sia stato costruito solo nell’Ottocento e che, anche in seguito, il traffico tra le due sponde fosse minimo.
Ora, però, i destini delle due comunità sembravano invertirsi: grazie alle doti nel commercio dimostrate dai suoi abitanti, Krasnaja Sloboda prosperava, le case crescevano in altezza, la via principale era appena stata riasfaltata, e le numerose auto vi correvano senza fare la gimcana tra le buche, o sobbalzare sui grossolani rattoppi del fondo stradale.
Speriamo, mi dicevo, che tutta quella mostra di ricchezza non susciti cattivi sentimenti nei vicini azeri, evidentemente non così abili nell’adattarsi ai nuovi tempi.
In Azerbaigian la ricchezza che viene dal petrolio si vede solo in centro a Baku, non arriva neanche alla periferia della capitale, figuriamoci a Quba. Qui, non diversamente che in tante altre parti dell’ex Urss, bisogna conoscere l’arte di arrangiarsi, oppure avere parenti all’estero che mandano di tanto in tanto un po’ di valuta pregiata. Se non si hanno né l’uno, né gli altri, la vita è grama. Speriamo, dunque, che la miseria non sia cattiva consigliera.
Questo pensavo, mentre le note delle canzoni azere mi giungevano da oltre il fiume, così come qualche ora prima il picchiettio dei martelli.

di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




«Il matrimonio? Meglio combinato!»

Pensi di trovare il fatidico «velo». Invece la maggioranza delle ragazze sono truccate e vestono all’occidentale. I fidanzati girano mano nella mano, cosa impensabile in altri paesi arabi. I problemi poi sono gli stessi dei giovani occidentali, innanzitutto il lavoro che non c’è. Dipinto di un Marocco che non t’aspetti.

Da Marrakech a Rabat, da Rabat a Tangeri. Sana’a viaggia con il padre, un imprenditore, sul treno che da Marrakech la sta portando a Rabat, dove abita. Ha diciassette anni e frequenterà l’ultima classe del liceo (che dura soltanto 3 anni, dopo i 9 della scuola dell’obbligo): è bellissima nel suo viso ovale dal profilo regolare e dai grandi occhi neri. Vestita con pantaloni aderenti, camicetta sbracciata, scollata e stretta, capelli sciolti, sandali da spiaggia con infradito, chiacchiera allegra con l’amica che li ha accompagnati nella settimana di vacanze nel caos della più famosa delle città marocchine. «Dopo le superiori farò l’università, la facoltà di lingue forse. In famiglia abbiamo studiato tutti».
«E il matrimonio?», domandiamo. Arrossisce, a dimostrazione che, nonostante la moda e i veloci cambiamenti, certi argomenti rimangono nella sfera del privato e del pudore: «Più in là». «Ma esistono ancora quelli combinati?», insistiamo. A questo punto interviene il padre, simpatico, cordiale, ma protettivo: «Certo, e sono una grande istituzione. Solo le madri conoscono bene i propri figli e possono capire quale partner è più indicato per il successo della vita comune. Mia figlia maggiore si è sposata con un matrimonio combinato: le due mamme si sono accordate nel presentare i due ragazzi, che si sono piaciuti e che, dopo qualche settimana, hanno deciso di sposarsi. È una bella coppia, felice».

Tangeri. Alcuni ragazzi sorseggiano bibite e tè alla menta seduti ai tavolini di un bar, in Avenue d’Espagne, a ridosso delle mura della caotica e affascinante medina. Sedie allineate una a fianco all’altra verso la strada, come è d’uso in Marocco, chiacchierano e ridono. Ciò che colpisce subito è l’abbigliamento: sono vestiti alla moda, in jeans e magliette firmate (Nike, Calvin Klein, Versace, Diesel, ecc.). Indossano cappellini da baseball e occhiali scuri molto fashion. Non appartengono a famiglie facoltose – frequenterebbero altre zone della città meno popolari di questa – ma, come molti della loro età, sono attenti alla moda, soprattutto occidentale, e investono i soldi di qualche lavoretto o dei regali in abiti o oggetti del consumismo made in Usa o in Europe. Non sembrano affatto diversi dai ragazzi delle nostre città italiane: oltre ai commenti divertiti o curiosi sui turisti che sfilano davanti a loro, i discorsi ruotano intorno a scuola, lavoro, divertimenti. Questo, almeno, per i più fortunati, coloro che non sono stati costretti a svolgere umili mansioni subito dopo o, in certe aree più arretrate, al posto delle scuole primarie.
Le ragazze, in giro, non sono da meno: magliette attillate che si fermano all’ombelico, jeans o gonnelloni a vita bassa, scarpe a punta e con tacchi alti, piercing, capelli colorati o con la piega appena uscita dal coiffeur, trucco marcato su occhi e labbra, aria sicura e provocante. Decollété, miniabiti e così via: nel bene e nel male, un altro mondo rispetto alle comunità islamiche d’Europa, che si dibattono su «velo sì, velo no» e sulla sua lunghezza. Non che da noi manchino le ragazze musulmane dall’abbigliamento moderno e sportivo. È solo che qui in Marocco sono la maggioranza!
Anche le abitudini musicali e il divertimento sono simili: dalla techno al rap, dal rock arabo alle «contaminazioni» musicali, dal raï ai cantanti più in voga negli Stati Uniti o in Europa e alla musica latino-americana, i maghrebini amano ballare e cantare, dai più piccoli ai più grandi, dalle città al deserto. I grandi centri urbani offrono discoteche e divertimenti d’ogni sorta destinati ai turisti e alla popolazione che può permetterseli. L’hashish è una presenza costante e diffusissima in quasi tutto il Marocco, ma anche le colle, che vengono sniffate quasi pubblicamente da bambini e adulti nei quartieri più poveri e degradati delle metropoli.
Per molti teenagers (e oltre) marocchini, certe tradizioni sono una noia da cui liberarsi al più presto. Anche nei rapporti di coppia sono un po’ più «disinibiti» di qualche tempo fa: vanno in giro a braccetto o mano nella mano, si guardano negli occhi con tenerezza, si abbracciano. Un gran bel balzo in avanti se paragonato a paesi come l’Egitto, dove i fidanzatini non s’azzardano neanche a sfiorarsi e camminano ben separati, e dove una coccola in pubblico può costare cara.
Nonostante il perdurare dei matrimoni combinati – sia all’interno del clan familiare sia nella cerchia di amici e conoscenti dei genitori -, i giovani stanno cercando con sempre più determinazione di acquisire libertà ormai garantite ai loro coetanei occidentali. Sono tante, infatti, le coppiette formatesi tra i banchi di scuola o all’università, o in discoteca o nelle compagnie di amici. E anche nelle chat-line, usatissime dai quindici-trentenni.

Ouarzazate. La città, a ridosso delle montagne dell’Alto Atlante e alle porte delle spettacolari valli del Drâa e di Dadès, è chiamata la «Hollywood del Deserto»: è infatti diventata un importante centro di produzione cinematografica. Nei suoi studios hanno girato molti colossal, tra cui il recente Alexander.
Hakim, 24 anni e una laurea in legge conseguita un paio di anni fa, lavora con il padre negli «Atlas corporation studios» come aiuto scenografo.
Look sportivo e aria simpatica, racconta delle difficoltà che un giovane marocchino, con un ottimo curriculum scolastico, incontra nell’inserimento professionale:
«I posti pubblici, molto ambiti, sono saturi. Siamo tantissimi, ormai, a possedere titoli di studio elevati, e il mercato del lavoro non offre grandi possibilità. Come in altri paesi del Mediterraneo, qui vale la regola delle amicizie influenti. Chi non trova l’occupazione giusta, quella per cui ha investito anni di studio, e soldi, si deprime. Tanti miei coetanei si trovano in questa situazione e sognano di andare lontano, in America o in Europa. Ma io non lo ritengo giusto: si deve lottare e vincere là dove si vive. Eppoi, lo stile di vita frenetico, stressato dell’Occidente non mi interessa. Comunque, mi ritengo fortunato: non esercito la professione di giurista, ma faccio un bellissimo mestiere, creativo e a contatto con registi, attori, persone di tutto il mondo. Guadagno bene e ho molto tempo libero a disposizione per gli amici, le letture e per girare il paese».

Hakim è fortunato. La vita dei ragazzi marocchini può cambiare radicalmente a seconda delle zone e, ovviamente, del livello economico e sociale di appartenenza: nei monti dell’Alto Atlante, nelle meravigliose oasi che si dischiudono dopo centinaia di chilometri di paesaggi aridi o desertici, i ragazzi sono più vincolati ad abbigliamenti e tradizioni locali e la povertà impone loro un ingresso precoce nel mondo del lavoro.
Tuttavia, se non ci si ferma all’apparente spensieratezza e cordialità che caratterizza il Paese, si scoprirà che la situazione sociale è complessa e dura. La disoccupazione imperversa su diplomati, laureati e incolti. Su tutti coloro che non abbiano risorse familiari o amicizie da spendere per trovare un buon posto di lavoro, magari governativo, o per aprire attività autonome. Sono tantissimi i giovani con ottimo curriculum scolastico o universitario che brancolano nel buio di un futuro senza prospettive che li relega in mestieri umili, manuali, mal pagati. Molti cadono nella depressione e nell’uso delle droghe o dell’alcornol (acquistato clandestinamente). Prostituzione, spaccio e tratta degli esseri umani attraverso il mercato dei clandestini, costituiscono l’unica risorsa per gli strati più disperati, soprattutto lungo la costa mediterranea, e una grande ricchezza per i racket mafiosi, locali e inteazionali.
Le riforme sociali stanno attraversando il paese, mutando realtà che sembravano etee.
I giovani marocchini aspettano il loro tuo.

Di angela Lano


LIBRI, FILM, SITI INTERNET

Libri:
«Il pane nudo», Mohammed Choukri, edizioni Theoria, Milano 1993
«Soco Chico», Mohammed Choukri, edizioni Jouvence, Roma 1997
«Gli straordinari viaggi di Ibn Battuta», Ross E. Dunn, Garzanti, Roma 1993
«La terrazza proibita. Vita nell’harem», Fatima Meissi, Giunti editore, Firenze 1996
«I ragazzi dei vicoli», Abdelhak Serhane, edizioni Theoria, Roma 1992
«Favole del deserto», a cura di Ettore Fasolini, Emi editrice, Bologna 1995
«Onze histornires marocaines», a cura di Mohammed Saad Eddine El Yamani, Institut du Monde Arabe, Paris 1999
«Il tè nel deserto», Paul Bowles, Garzanti, Milano 2003

Film:

«Hideous Kinky – Un treno per Marrakech», di Gillies Mackinnon (1998)
«Door to the sky», di Farida Ben Lyzaid (1989)
«Le coiffeur du quartier des pauvres», di Mohammed Reggab (1985)
«Casablanca», di Michael Curtiz (1942)

Siti:

· www.al-bab.com/maroc
Sito che offre collegamenti dove trovare notizie di varia utilità.
· www.maghrebarts.ma
Si trovano informazioni su cinema, musica, teatro, spettacoli, feste, ecc.
· www.mincom.gov.ma
Sito governativo dove trovare informazioni su molti aspetti della vita sociale, politica e culturale del Marocco.
www.cia.gov/cia/publications/factbook/geos/mo.html Sito della Cia e contiene una dettagliata descrizione del Marocco.

Angela Lano




Tanti «saponi» per un sogno

Paulina e Paola hanno la stessa età e il tesoro di una grande amicizia, nata per le strade di Madrid.
Paulina, ecuadoriana, venuta in Spagna in cerca di lavoro, ha una storia nel cassetto e la voglia di narrarla: la sua storia di emigrata.
Paola, italiana, ama chi si racconta e pensa che la vita della gente ha sempre molto da insegnare. La storia di Paulina rispecchia situazioni, problemi e sentimenti di ogni migrante, con la nostalgia di ciò che ha lasciato e un futuro da inventare.

A maggio ho compiuto sei anni da quando ho lasciato la mia patria, la mia famiglia, gli amici, il lavoro… tutto; non con il fine di conseguire il «sogno europeo», ma obbligata dalle difficili circostanze della mia famiglia, dovute alla crisi economica e politica che attanaglia l’Ecuador.
Sono arrivata in Spagna, il «paese dell’accoglienza», con paura, incertezza e tanta voglia di lavorare. Nella valigia portavo con me anche briciole di speranza, fiducia, innocenza e volontà. Inoltre, non mi mancava il desiderio di farcela.
Appena l’aereo toccò terra, il mio cuore iniziò a battere all’impazzata; ero nervosa perché temevo che qualche poliziotto dell’immigrazione potesse fermarmi e iniziare a fare domande. Grazie a Dio varcai la porta di uscita senza problemi e tirai un grande sospiro di sollievo.

DUE MONDI ALLO SPECCHIO

Presi la metropolitana e poi il pullman, per raggiungere un paese vicino a Madrid, dove sarei stata ospite di una figlia di amici di mio padre. Il percorso per arrivare nella mia nuova casa mi sembrò eterno: non pensavo che Madrid fosse così grande. La paura mi ha accompagnato per molto tempo; temevo che la polizia, o chi per essa, avrebbe potuto fermarmi per strada in qualsiasi momento, chiedendomi di esibire documenti e permessi di soggiorno e di lavoro. Ogni volta che scorgevo una qualsiasi uniforme cambiavo di marciapiede. Per questo motivo uscivo poco di casa e, quando lo facevo, ero sempre accompagnata dalla mia amica con il suo figlio più piccolo.
Per prima cosa ho dovuto imparare a gestire i mezzi di trasporto: fermate fisse, orari fissi, divieti di sovraccarico di gente: tutte cose inesistenti nei servizi di trasporto ecuadoriani. Per non parlare della metropolitana, le cui mappe rappresentavano per me soltanto un intreccio di linee colorate, zeppe di simboli di cui non conoscevo il significato.
Ben presto ho scoperto che l’affitto in questa città è molto caro; per questo la mia amica, i suoi figli e io abitavamo tutti in una stanza. L’altro locale del mini appartamento era affittato da un’altra coppia di immigrati. Tutto era in comune; ognuno aveva il suo spazio riservato nel frigo, nella dispensa e ciascuno si arrangiava nel preparare i propri pasti.
Quante volte, incontrandomi con altri immigrati, ho dovuto ascoltare storie sulla difficoltà di vivere ammucchiati, dormire per terra e dover pagare anche per un bicchiere di acqua! In alcuni casi erano proprio i nostri connazionali ad approfittarsi della situazione di bisogno, anche se va detto, questo non è stato il mio caso.
Il fatto di condividere in più famiglie uno stesso alloggio rappresenta una vera avventura: da una parte si ha la possibilità di conoscere persone diverse, con le loro abitudini ed esperienze, di non sentirsi troppo soli. Si perde però la propria intimità, non si ha uno spazio personale; non si riesce a riposare bene e quello che al principio può sembrare un’ avventura persino divertente si converte ben presto in seri problemi di convivenza. Questo tipo di co-abitazione «forzata» mi ha aiutata a vincere la solitudine, ma nello stesso tempo ha fatto emergere la nostalgia per le relazioni che sono state recise nel momento in cui ho dovuto lasciare l’Ecuador per venire a vivere qui.
Insomma, i primi tempi mi sentivo come una pecorella smarrita; non riuscivo neppure a entrare in sintonia con una comunità parrocchiale. Entravo e uscivo da una e dall’altra chiesa, tentando ogni volta di risollevare il mio spirito e cercando di incontrare nelle celebrazioni una qualche somiglianza con quelle che vivevo in Ecuador.
Sono rimasta sorpresa nel vedere così poche persone (per la maggior parte anziane) partecipare alla messa. La liturgia mancava di animazione e il ricordo della mia parrocchia d’origine mi riempiva di tristezza; più di una volta mi sono messa a piangere. Dovettero passare tre anni prima che potessi ritornare finalmente all’«ovile»: adesso faccio parte di una comunità cristiana che vive e celebra cercando di riscattare le tradizioni della chiesa latinoamericana, partecipando anche della ricchezza di quelle della Spagna.

I PRIMI PASSI

Avevo voglia di lavorare e mi misi subito alla ricerca di un impiego; iniziai a pubblicare annunci di lavoro in un quotidiano della capitale. Fermate di mezzi pubblici, centri commerciali e consultori si trasformarono in altrettanti punti di riferimento per lasciare bigliettini che dicevano: «Ragazza seria e responsabile si offre per lavorare come balia, badante o persona delle pulizie».
Ai colloqui di lavoro andavo sempre accompagnata dalla mia amica, che mi elargiva consigli per l’eventuale impiego, visto che alcuni colloqui potevano nascondere proposte indecenti o contratti capestro, con paghe infime e senza giorno libero.
Impiegai tre mesi per trovare occupazione. Non conoscevo ancora nulla della Spagna: abitudini, modo di mangiare, ritmo di lavoro; perfino certe espressioni nel parlare, tipicamente spagnole, mi erano del tutto sconosciute. Devo ringraziare una famiglia, che, conoscendo un po’ la realtà latinoamericana, insieme al lavoro mi offrì l’opportunità di imparare a condividere il loro modo di vivere. Con il lavoro ho appreso nuovi termini per definire i vari utensili per le pulizie della casa, che da noi hanno tutti altri nomi; ho imparato a distinguere la miriade di saponi e detersivi: quello per i vetri e l’altro per i pavimenti, l’uno per vestiti e l’altro per lavastoviglie, e ancora quello per lavare le stoviglie a mano… In Ecuador è più semplice: un solo sapone funziona bene per tutto. Per non parlare degli elettrodomestici che ho dovuto imparare a maneggiare: vetroceramica, minipimer, microonde… tutte cose di cui ignoravo completamente l’esistenza.
Naturalmente ho dovuto imparare a preparare il cibo alla spagnola. Ma ciò che più mi ha impressionato è l’attenzione che gli spagnoli hanno per i bambini e animali domestici: gli uni come gli altri hanno medico, vaccini, letto, giocattoli, shampoo, cibo speciale e lo stesso diritto di uscire a sgambettare tre volte al giorno.
Non riuscivo a capire come mobili, computer, vestiti venivano scartati e portati in strada solamente perché avevano un piccolo difetto o non servivano più. Questo particolare mi ha fatto riflettere sulla grande differenza che esiste fra questi due mondi: quello che ho lasciato e quello che ho incontrato. Per esempio, il bambino di cinque anni che accudivo era perennemente annoiato e insensibile a ogni provocazione dei genitori. Che contrasto con la gioia di vivere dei bambini nel mio rione a Quito. È proprio vero che «non è felice colui che possiede più cose, ma colui che ne ha bisogno di meno».
Tutto ciò che vivevo era in aperto contrasto con la realtà dalla quale provenivo. Sentivo di dovermi adattare a questa nuova forma di vita, anche se non l’approvavo. Ho preso un impegno con me stessa: non lasciarmi assorbire dal materialismo esistente, cercando di mantenere il più possibile il mio essere autentico.

«ODISSEA LAVORO»

Dopo alcuni mesi di lavoro al servizio della prima famiglia, iniziò a funzionare il «passa parola» che avevo attivato e, grazie alle referenze e all’esperienza maturata, riuscii ad avere un impiego migliore. Ma dovevo al tempo stesso ottenere i permessi di lavoro e di residenza. Il 14 agosto del 2001, iniziai le pratiche per ottenere un documento che certificasse la mia situazione lavorativa. In quegli anni le file agli sportelli per ottenere informazioni e kit di documentazione erano interminabili, anche se non si era costretti a passare la notte all’addiaccio per conquistarsi il tuo, come succede oggi. Il 7 agosto del 2002 notificarono al mio datore di lavoro la non concessione dei permessi, cosa che mi obbligò a fare ricorso.
Passati tre anni di permanenza in Spagna, tempo sufficiente per richiedere il certificato di residenza per arraigo, cioè per radicamento nel paese, decisi di contattare una donna avvocato. Mi assicurò che tutto si sarebbe risolto celermente e che per la fine dell’anno avrei potuto viaggiare tranquillamente in Ecuador e, altrettanto tranquillamente rientrare in Spagna, perché munita di regolari documenti di residenza.
Ero piena di entusiasmo e illusioni quando, come una doccia fredda, mi notificarono che avrei dovuto giustificare l’arraigo, comunicando i dati dei familiari (genitori, coniuge, figli) presenti in Spagna. Tutte le mie speranze crollarono di botto, visto che, non vivendo con me nessun membro della mia famiglia, ero impossibilitata a dare risposta alle richieste dell’Ufficio immigrazione. Tempo, fatica e soldi sprecati inutilmente.
Riassumere in poche righe il mio cammino nei labirinti della burocrazia spagnola non è impresa facile. È una storia lunga, fatta di grandi illusioni e tante repentine delusioni, di lunghe code davanti agli sportelli degli uffici competenti, di ritardi burocratici e inspiegabili «silenzi» amministrativi. A volte io stessa ho commesso errori, che sarebbero stati evitabili con una maggior informazione e conoscenza del sistema giuridico spagnolo. Ma la delusione più cocente la ebbi quando l’ennesimo iter burocratico fu interrotto bruscamente a causa della situazione fiscale irregolare del mio datore di lavoro. Che beffa arrivare a toccare il cielo con un dito per poi vederselo portar via all’ultimo istante.
Grazie a nuovi datori di lavoro e all’esperienza acquisita, sono riuscita a consegnare a tempo tutti i documenti necessari: ora attendo fiduciosa di ottenere, finalmente, i tanto agognati permessi di lavoro e residenza. Con questi documenti in mano mi si apriranno nuove prospettive, tra le quali anche la possibilità di tornare in Ecuador ad abbracciare, dopo sei anni, la mia famiglia.
Sicuramente esistono innumerevoli casi simili al mio. Personalmente, ringrazio il Signore di aver incontrato una donna avvocato capace di aiutarmi a conoscere i miei diritti e a muovermi con sicurezza nel mondo della burocrazia spagnola. La mia esperienza e il suo aiuto mi hanno anche aperto gli occhi e spinta a lottare per quello che sento essere un diritto di tutti; anche se c’è, e ci sarà sempre, qualcuno che pensa di avere il diritto di approfittarsi di altri, solo perché questi sono indifesi o fuori legge, essendo privi dei dovuti documenti.

Di Paulina Ceballos

UN SOGNO DALLE MILLE FACCE

Agli occhi del turista, Madrid si presenta come un intreccio logico di vie oate da palazzi chiari. Orientarsi è semplice, grazie all’ottima metropolitana che con le sue dodici linee urbane e i collegamenti ai frequenti treni interurbani, conduce da una parte all’altra della città in tempi brevi e a prezzi modici.
Signorine sorridenti all’ingresso della metropolitana consegnano foglietti su cui l’amministrazione comunale «si scusa per aver temporaneamente sospeso il servizio tra Plaza de Castilla e Fuencarral», sostituito da un servizio autobus, e le scritte sui cartelloni pubblicitari di quello spazio sotterraneo assicurano a ogni cittadino la possibilità di essere operato entro trenta giorni dalla domanda di ricovero. Incentivi all’imprenditoria giovanile e femminile vengono promessi dagli spot mandati in onda per tenere compagnia ai passeggeri in attesa, e facce di ogni colore si mischiano nel vieni e vai di una mappa che si muove e fa muovere a un ritmo intenso, ma per fortuna ancora umano: c’è sempre tempo per fermarsi a bere un paio di cervezas (non importa che ora del giorno sia, una birra si beve sempre volentieri), accompagnate da qualche tapas, spuntini di pane, prosciutto e salse.
Le vie sono invase da gente che transita, ma che spesso si ferma, si siede e chiacchiera godendo l’aria, mite o fredda che sia: a Madrid il conversare non è questione di stagione. I giovani si ritrovano la notte per le tradizionali bevute in mezzo alla strada, nelle piazze e per le scalinate, tirando fuori dai sacchetti di plastica innumerevoli bottiglie di tinto (vino rosso) e di cerveza.
Madrid è una città che invoglia a fermarsi, che offre teatri, cinema e musei a prezzi modici, e che ha il piacere di essere vissuta.

LA GRANDE CASA

Per molti latinoamericani rappresenta «el sueño», il sogno, la possibilità di riscattarsi. Scelta per motivi geografici e linguistici, soprattutto dopo le molte restrizioni che il governo statunitense ha posto all’immigrazione, la Spagna è diventata uno dei punti di maggior convoglio dei flussi migratori, provenienti in particolar modo dall’Ecuador.
Ben un terzo della popolazione dell’Ecuador è emigrata e attualmente l’economia del paese si basa per il 51% sulle rimesse che i residenti all’estero inviano ai familiari rimasti a casa. La lontananza comporta lo sviluppo di fenomeni particolari, ad esempio lo sfaldamento dei legami tra il migrante e la famiglia di origine (spesso «integrata» o addirittura sostituita con una nuova, creata nel paese di arrivo), o il diradamento della fascia dei trentenni-quarantenni, con conseguente distribuzione nella popolazione di vecchi e bambini.
Sono proprio i bambini a essere chiamati a gestire le rimesse di denaro inviate dai genitori lontani, che devono servire per il sostentamento, ma soprattutto per la «grande prova», per quel segno tangibile di sé che resisterà nel tempo: la costruzione di una casa. L’Ecuador è un paese pieno di case enormi in stile nord americano, con colonne bianche e porticato, costruite come prova di esistenze generate da lì, ma destinate a non tornare: case fantasma, incarnazioni di miti e nulla più.
A Madrid, gli immigrati che mandano soldi in Ecuador per costruire enormi case-fantasma, vivono stipati in piccoli appartamenti della periferia, condividendo in sette, otto, persino in dieci persone, spazi di settanta metri quadrati. Spesso sono i connazionali ad accogliere i nuovi venuti, con lo scopo di estorcere loro un affitto non compatibile con la bassa qualità della sistemazione offerta.
«El sueño» diventa la realtà quotidiana della sopravvivenza, delle difficoltà a trovare lavoro, permesso di soggiorno o la carta sanitaria. Diventa un atteggiamento di diffusione identitaria, che porta a due tipi di reazioni possibili: alla chiusura nella propria comunità di origine, con rafforzamento dei tratti culturali comuni, o al rifiuto degli stessi, con conseguente aderenza superficiale agli stili di vita del paese di arrivo.
Paulina viene da Quito, la capitale dell’Ecuador. Volò in Italia sei anni fa nella speranza di fermarsi nel Veneto ma, non trovando lavoro, fu costretta a tentare la carta della Spagna.
«El sueño» per lei si tradusse in un lavoro di pulizia a ore e in spazi di vita così ristretti da impedire l’intimità. Per Paulina imparare a orientarsi a Madrid non fu certo facile, così come richiese impegno abituarsi alle parole e ai modi di dire che condividono la madre lingua comune agli spagnoli e ai latini, ma non la coloritura culturale che si portano appresso.
Madrid vista con gli occhi di Paulina non è la città dei bei palazzi chiari, della cerveza e delle tapas. Non è la città dei musical, i cui biglietti, rapportati al suo stipendio, diventano proibitivi e persino un po’ offensivi. Non è la città della sanità che funziona e degli incentivi all’imprenditoria femminile: per Paulina Madrid è la coda infinita al Ministero del lavoro che quasi ogni settimana è costretta a fare, per sapere se la sua domanda di residenza è stata accettata o ancora una volta respinta.
Madrid è il negozietto vicino alla stazione, dove un colombiano amico suo importa prodotti latini di cui può riconoscere l’odore e il gusto. Madrid è il parco del Retiro, dove la domenica mattina incontra i connazionali che passeggiano con l’illusione di tranquillizzante omogeneità, è il call center dove telefonare a casa, a Quito, costa meno di un’interurbana a Siviglia.
Camminando accanto a Paulina per le strade di Madrid, si incontrano fiumi di occidentali che comprano un detersivo diverso per ogni tipo di sporco, mentre in Ecuador un sapone basta per tutto. Accanto ai cassonetti della spazzatura si vedono materassi dove ci si potrebbe dormire ancora per anni, e nei menù appesi fuori dai ristoranti si legge che la banale frittata di uova è diventata una ben più chic «tortilla francesa».
Le strade sono ostiche, piene di elementi da decifrare, riconoscere, inglobare nella ricerca di una ridefinizione di sé che fatica ad arrivare. È la nostalgia il sentimento dominante di Paulina. Il termine nostalgia deriva dalle parole greche nostos e algos, cioè «ritorno in patria» e «dolore, tristezza».
Introdotto nel ‘700 dal medico svizzero J. Hofer per indicare il sentimento che i suoi connazionali provavano quando erano lontani dalla loro patria, cioè una sorta di malattia, una vera e propria sofferenza per la sottrazione del paesaggio d’origine, la nostalgia è tanto più intensa quanto più è profondo il legame con i luoghi che hanno contribuito a strutturare l’identità individuale e sociale.
Come dice lo scrittore libanese Amin Maalouf, prima di diventare un immigrato, si è un emigrato, e prima di arrivare in un paese, si è dovuto abbandonae un altro: solo considerando i due lati della questione si capisce come i sentimenti di una persona verso la terra abbandonata non siano mai semplici.
Se si è partiti, vuol dire che si è rifiutato delle cose: la repressione, l’insicurezza, la povertà, la mancanza di orizzonti. Ma è frequente che tale rifiuto si accompagni a un senso di colpa per la terra, la casa, le persone che ci si rimprovera di aver abbandonato; senso di colpa che spesso si accompagna alla nostalgia. In questi casi è importante che gli individui possano rivisitare i paesaggi interiori, grazie ai quali riscoprire le radici che permetteranno la ripresa del processo di crescita.
Paulina prova a cercarsi nelle lunghe passeggiate alla scoperta di Madrid, aprendosi al nuovo e allo stesso tempo imparando a non perdersi. Camminando mi racconta il suo sueño, quello nuovo: sentirsi a casa propria. E non importa in che parte del mondo.

Di Paola Cereda

RITROVARE LA STRADA

La strada è sempre stata un luogo tradizionale di incontro e di scambio. Quando si arriva in una nuova città o in un nuovo paese, le prime impressioni sono date dalla strada, che è un insieme di persone, mestieri, storie, oggetti, case, uffici, negozi, direzioni, mete, divieti di accesso, regole e pregiudizi. La strada racconta una storia che è sempre in movimento: l’architettura e l’urbanistica mostrano le origini, i cambiamenti, le evoluzioni, le involuzioni e rispondono a esigenze umane e sociali che non sono soltanto mere risposte a bisogni materiali, ma che rispecchiano soprattutto i mutamenti relazionali.
Il primo passo per conoscere un luogo è l’orientamento, cioè la progressiva acquisizione di dati e punti di riferimento, con cui «un luogo» è trasformato e diventa «il luogo». Le cornordinate spazio temporali prendono forma in base a esigenze personali e a vissuti di attaccamento e radicamento. Con il tempo e l’abitudine «quella» strada diventa «la» strada: la strada di casa, il tragitto per andare a lavorare, il percorso per arrivare al ritrovo di ogni sera… Questa acquisizione di senso permette il passaggio dal sentimento di estraneità all’appropriazione del territorio, dal sentirsi straniero al sentirsi «parte di».
In ogni città esistono luoghi tradizionali di ritrovo per chi «è appena arrivato»: la stazione, il parco, un certo quartiere, un punto di aggregazione religiosa…
I fenomeni migratori hanno disegnato nuove mappe possedute e vissute da chi, straniero, arrivava per necessità nelle grandi città.
Uno dei luoghi che maggiormente raccontano un paese è il mercato, dove si assiste alla circolazione non solo monetaria, ma anche di merci che rispondono a bisogni aggregativi. È sempre più facile incontrare banchi che vendono il tradizionale platano latino americano o le spezie arabe, segno di una sensibilità ai cambiamenti sociali, sia dal punto di vista della domanda e della risposta che della gestione economica, non più a esclusiva conduzione locale.
In alcuni strati sociali, specialmente in quelli più storicamente radicati nel territorio, la strada perde la caratteristica di luogo di incontro e diventa semplicemente luogo di transito, che fa paura per i possibili pericoli che nasconde o palesa, che stressa per i suoi ritmi frenetici, che separa dai rifugi privati, in cui la gente si chiude per stare «bene, al sicuro». In questo caso la domanda principale è quella della sicurezza: «Voglio essere sicuro che per la strada non mi succeda niente». Il tradizionale gioco del pallone, che ha cresciuto generazioni di bambini nelle strade di tutto il mondo, ora rischia di diventare un fatto privato da gestire in spazi ristretti o in luoghi predisposti.
Per chi non può o non vuole godere di «rifugi privati», la strada è ancora l’unica alternativa possibile. Essa è casa, espediente, sede di lavoro, risorsa di sopravvivenza e risposta ai bisogni. È «il gruppo», quella dimensione sociale e identitaria che permette di riconoscersi e di essere riconosciuti. Sulla strada si possono vedere i tentativi di adattarsi al nuovo ambiente, che si sposano con la necessità di ricostruire elementi che appartenevano alla propria terra di origine. La strada dà l’opportunità di riflettere sugli argini: le case, chi le abita, come vengono vissute.

Di Paola Cereda

Paulina Ceballos e Paola Cereda




SILENZIO! Il padrone ti ascolta

Alteando pugno di ferro e patealismo, il governo ha fatto di Singapore una delle più floride economie dell’Asia, a scapito di libertà politiche, valori sociali e ideali umani. Dietro lo scintillio dei grattacieli, si nascondono sacche di emarginazione, soprattutto tra gli immigrati, aiutati dalla chiesa cattolica e altre associazioni umanitarie.
Nella babele di lingue, culture e religioni, il governo cerca di costruire l’identità nazionale, usando anche le canzoni patriottiche.

Gli Annali Malesi del xvi secolo, raccontano che il governatore di Palembang, Sri Tri Buana, navigando nelle acque dell’attuale Stretto di Malacca, fu sorpreso da una tempesta, che lo costrinse a cercare rifugio su una piccola isola pressoché disabitata, chiamata dai cinesi Pu-luo-chang (isola alla fine della penisola). Qui, mentre aspettava che l’uragano si calmasse, il funzionario credette di aver avvistato, tra la fitta vegetazione, un leone, cosa alquanto rara, se non impossibile.
Si era nel xiii secolo e, da allora, i leoni nessuno più li ha visti. A dir la verità, anche il racconto degli Annali non sembra avere molta attinenza con la realtà; con tutta probabilità, l’animale che Sri Tri Buana intravide era forse un daino, un tapiro o anche una tigre, allora comune nella giungla tropicale.
La leggenda, però, non morì; anzi, il racconto del governatore divenne così popolare e affascinò talmente il sultano, che lui stesso decise di battezzare il minuscolo villaggio dell’isola di Pu-luo-chang col nome di Singha Pura, Città del Leone.
E fu a Singapura che sir Stamford Raffles, nel gennaio 1819 mise piede per fondare un avamposto commerciale per la Compagnia delle Indie Occidentali, dando inconsapevolmente il via a una delle più incredibili e stupefacenti storie di sviluppo economico del mondo.

BENESSERE SÌ, OPINIONI NO

Alteando, in perfetto stile confuciano, pugno di ferro e patealismo, Lee Kuan Yew è riuscito a compiere quello che la maggior parte degli osservatori politici avevano dichiarato impossibile a farsi: costruire una delle economie più floride dell’Asia (sviluppatasi il 6% nel 2005) e dove ogni cittadino, in media, guadagna più di un lavoratore del Regno Unito, a cui Singapore è appartenuta come colonia per più di un secolo.
I costi sociali che hanno permesso un tale sviluppo sono però stati assai pesanti: eliminazione di ogni opposizione intea, soppressione della libertà di stampa e di parola, perdita di valori e di ideali.
Turisti e uomini d’affari, sin dal loro arrivo all’aeroporto di Changi, vengono immersi in una città ovattata, in cui tutto è controllato e programmato. Sul pullman che mi porta dal terminal al centro, una targa scritta nelle quattro lingue ufficiali (mandarino, malay, tamil e inglese), informa che chiunque venga sorpreso a lordare la città, verrà multato e costretto a un periodo di servizi sociali obbligati.
Più severe sono le leggi che puniscono i possessori di droga, la cui pena prevede anche la morte. L’ultimo a essere stato impiccato è Nguyen Tuong Van, un venticinquenne australiano di origine vietnamita, ucciso il 2 dicembre 2005 perché trovato in possesso di 400 grammi di eroina.
Le regole ferree che controllano ogni aspetto della vita dei cittadini di Singapore vengono ridicolizzate con battute da parte degli stranieri. Mentre ceno al ristorante con Reiko, una giornalista che lavora presso un’importante agenzia di stampa giapponese, questa si mette a raccontare una barzelletta: «Un europeo, parlando con un russo, un bengalese e un singaporeano, si lamenta di quanti soldi occorrano per comprare del cibo a Singapore e chiede l’opinione dei suoi tre interlocutori. Il russo domanda: “Cosa sono i soldi?”. Il bengalese chiede: “Cosa è il cibo?”. E il singaporeano: ”Cosa è un’opinione?“».
Solo dal novembre 1990, con la volontaria consegna di Lee dei poteri di primo ministro al delfino Goh Chok Tong, il governo della città-stato, accortosi che la mancanza di libertà e di espressione alla fine si traduceva in perdita d’iniziativa e di inventiva in campo economico, ha ammorbidito la linea, permettendo timide critiche al suo operato.
La parentesi di Goh, però, sembra già essere tramontata, da quando alla poltrona di primo Ministro è salito Lee Hsien Loong, 54 anni, figlio di Lee Kuan Yew. Neppure il parziale flop delle elezioni generali dello scorso 6 maggio, sembra abbia scalfito la leadership di Lee: il Partito di azione popolare (Pap), al governo ininterrottamente dall’indipendenza, è calato dal 75% del 2001 al 67% attuale.
«Vista con gli occhi di un occidentale può sembrare che viviamo in una sorta di dittatura, e in effetti, in un certo senso, lo è. Ma è un dispotismo illuminato, accettato dalla maggior parte dei cittadini come controparte per la stabilità sociale ed economica» dice Liu Kuang-chou, proprietario di un negozio di computer al Raffles City. E come Liu molti altri suoi connazionali giustificano il rigore con cui il loro governo ha condotto la sua politica negli anni passati. Insomma, meglio vivere in una prigione sicura, che liberi ma insicuri.

EQUILIBRIO MULTIETNICO

Nella piccola città-stato, la molteplicità di lingue, etnie, religioni, volti, è la caratteristica che più risalta agli occhi di noi stranieri. I quattro milioni e mezzo di singaporeani si dividono essenzialmente tra cinesi (76%), malay (13,9%) e indiani (7,9%), ma ognuno di questi gruppi propone varianti linguistiche e religiose che spezzettano ulteriormente il mosaico sociale.
Nelle edicole, tra le strade, nei cinema, nei ristoranti, si mischia teochew, mandarino, inglese, hokkien, cantonese, malay, tamil, mentre le litanie buddiste, islamiche, taoiste, hindu e cristiane si intrecciano tra loro nei luoghi di culto. Ma l’equilibrio multietnico è tanto difficile a creare quanto facile a sbilanciare.
«Singapore è una società multietnica e non possiamo permettere che le diverse razze che la compongono lottino tra loro – afferma la suora canossiana Janet Wang, una delle persone più informate e impegnate sulla realtà del Paese -. Quello che tutti noi siamo riusciti a costruire, è qualcosa di meraviglioso: razze di diverse etnie, tradizioni, culture, religioni, lingue, si sono riunite e convivono pacificamente».
La paura di un equilibrio funambolico, ha però sclerotizzato il sistema, come arguisce Sinapan Samydorai, del Think Centre, un gruppo di studio che promuove il multipartitismo e una maggiore apertura politica: «Non è solo questione di libertà civili: il governo considera ogni cosa che può costare la stabilità del sistema sociale, politico ed economico come una minaccia per l’esistenza stessa di Singapore. Ha quindi sempre cercato di eliminare o sedare rivolte sociali e chi le fomentava. Per questo la gente ancora oggi ha paura di parlare. E un popolo che ha paura di parlare non è creativo. L’economia di Singapore risente di questa mancanza d’immaginazione».

IN DIFESA DEGLI SFRUTTATI

La fobia del comunismo e delle tensioni razziali, ha portato i leaders della nazione a sospettare di chiunque difendesse i diritti dei più deboli, giungendo nel 1989 ad accusare la chiesa cattolica stessa di essere portavoce di istanze marxiste.
«La chiesa di Singapore ha sempre lavorato con quelli che in Italia chiamate “sfruttati” – afferma suor Janet – e fino a che si limita a svolgere lavoro pastorale, non ha alcun problema, ma quando invade il campo della giustizia, del sociale, dei diritti, allora ecco che il governo si mette in allarme».
Non per questo, comunque, la chiesa locale ha rinunciato al suo impegno sociale, dimostrando anche ai governanti più scettici la validità dei suoi progetti e, soprattutto, guadagnandosi la loro fiducia. Lee Hsien Loong è stato educato in scuole cattoliche, mentre lo stesso ministro della Pubblica istruzione ha recentemente elogiato il lavoro svolto dalle scuole cristiane nel proporre alle nuove generazioni quei valori che colmino quel vuoto creato dall’eccessivo consumismo e materialismo.
Già, perché la Singapore più conosciuta, quella dei luccicanti centri commerciali e parchi di divertimento, ne cela un’altra meno pubblicizzata, ma non meno reale. Nelle zone più periferiche della città, i palazzoni dell’Housing Development Board nascondono sacche di povertà e di emarginazione che alimentano la crescente microcriminalità.
«Non siamo a livelli europei o nordamericani, ma anche qui a Singapore abbiamo le nostre bande giovanili, formate soprattutto da adolescenti che la società ha escluso, in parte per la crisi economica, in parte perché essi stessi hanno rifiutato le regole che venivano loro imposte» rivela suor Gerard del convento del Buon Pastore, che assiste i detenuti cattolici nella prigione di Changi.
La crisi economica del dopo 11 settembre, a Singapore si è ripercossa nel campo edilizio, un settore dove trovano occupazione la maggior parte dei lavoratori immigrati: una volta persa la fonte del loro reddito, essi acquisiscono automaticamente lo stato di illegalità. Per questi disoccupati particolarmente disagiati, le organizzazioni sociali, sia religiose che laiche, hanno istituito centri di ascolto e di aiuto che cercano, con ogni mezzo a loro disposizione, di ridare fiducia e sostentamento a chi è in condizioni di bisogno.
«Ma la paura di uscire allo scoperto, la mancanza di personale, di strutture e, non ultima, la differenza di credo, riducono di molto le potenzialità di questi progetti» mi confida Maya, una volontaria che lavora al Catholic Welfare Centre di Waterloo Street; e aggiunge che più dell’80% degli stranieri da loro assistiti è formato da lavoratori filippini di estrazione cattolica.
«La nostra speranza è quella di poter raggiungere anche gli immigrati indonesiani, bengalesi e pachistani, che a Singapore sono la parte più consistente dei lavoratori di manovalanza. Ma per coronare questo sogno sappiamo che dovranno passare ancora molti anni» conclude la ragazza.

CONTRO LA CRISI DI VALORI

Oggi l’80% dei reclusi è reo di aver commesso reati comuni come furti, scippi, traffico di droga. E se all’inizio il problema era circoscritto a singole persone che operavano per proprio conto, ora si è creata una rete malavitosa, che comprende anche bande di adolescenti emarginati.
«Il problema della delinquenza non è solo dovuto a mancanza di beni materiali; anzi, se mai è l’opposto – spiega suor Janet Wang -. La società è prosperata sulle basi del materialismo, portando a identificare il successo di una persona con la marca dell’abito o la macchina che possiede. Tutto questo ha mortificato la spiritualità e la morale umana, creando enormi scompensi etici. La crisi che stiamo attraversando non è solo materiale, ma è essenzialmente spirituale».
Lo stesso Lee Hsien Loong, dopo che suo padre ha spinto per anni i suoi connazionali a lavorare per la prosperità economica del paese, ha iniziato a chiamare a raccolta le associazioni di impegno sociale e umano, perché aiutino a ridare valori a una popolazione troppo protesa al successo e al profitto.
I piani del governo, comunque, non sono dettati solo da esigenze umanitarie: l’espulsione di migliaia di lavoratori clandestini, ha creato un’allarmante penuria di manodopera, che il governo non riusciva a colmare. I piani di sovvenzionamento sociale sono sufficienti per evitare che il 3,3% dei disoccupati venga improvvisamente emarginato e molti singaporeani senza lavoro rifiutano di coprire ruoli considerati «poco dignitosi».

TIGRI IN COMPETIZIONE

La competitività di Singapore è ancora elevata, nonostante gli alti costi di produzione, grazie al passaggio di Hong Kong alla Cina: molte delle compagnie inteazionali che avevano la loro sede asiatica nell’ex colonia britannica, hanno preferito trasferirsi a Singapore piuttosto che rischiare di incappare nelle maglie della burocrazia di Pechino.
«Singapore può ancora contare su una produzione di qualità eccellente, nettamente superiore a quella degli altri paesi della regione e questo lo rende ancora competitivo. Per il momento» spiega Chow Hung-t’u, della Camera del commercio cinese. La domanda, quindi è: quanto durerà questo momento?
La Malesia, ha già costruito la sua «Silicon Valley» nell’isola di Penang e molte aziende hanno cominciato a guardare alla vicina nazione con ingordigia.
In altri periodi, sotto la guida di Lee Kuan Yew, Singapore avrebbe risposto alla minaccia dei vicini con aggressività, utilizzando la sua esperienza e i legami con gli istituti finanziari a mo’ di artigli, non esitando a imprimere un’accelerata alla filosofia economica del laissez-faire che, assieme alla stabilità sociale e politica, è stata il leit motive della storia del paese sin dai tempi di Raffles.
Ma Singapore e l’economia mondiale devono fare i conti con nuove sfide: la globalizzazione ha rotto ogni schema, rendendo le economie dei singoli paesi interdipendenti l’una con l’altra. Inoltre al governo della piccola isola non c’è più il duro e dispotico Lee Kuan Yew, ma il più malleabile figlio. Il quale ha capito che il suo paese non avrebbe sostenuto, a lungo andare, il confronto con i giganti di cui è circondato. E allora, piuttosto di riproporre una sorta di konfrontasi economica, il governo ha preferito cercare un accordo che possa avvantaggiare tutti, sfruttando le migliori opportunità che Malesia, Indonesia e Singapore possono offrire al mercato.
Lo aveva già azzardato Goh Chong Tong: far nascere un «Triangolo di Crescita», un’area geografica che ha gli epigoni tra la città di Johor, in Malesia, Singapore e l’isola indonesiana di Bintan, la più settentrionale dell’Arcipelago delle Riau. Johor potrebbe offrire terreno per nuovi insediamenti industriali con regole ambientali meno ferree; l’Indonesia potrebbe coprire il fabbisogno di manodopera a basso costo e Singapore garantirebbe tecnologie, infrastrutture, collegamenti inteazionali di prim’ordine.
«Per ora il Triangolo di Crescita rimane solo sulla carta: l’instabilità politica indonesiana e la crescente islamizzazione della società malese, rappresentano sfide che nessun imprenditore di buon senso avrebbe il coraggio di affrontare» conclude Sinapan Samydorai.
E così, Singapore continua per la sua strada. Coraggiosamente, così come coraggiosamente il 9 agosto 1965 si era distaccato dalla Federazione Malese. Anche quel giorno, Singapore, se ne andò per la sua strada.

Di Piergiorgio Pescali

SINGAPORE IN MUSICA

Sin dal giorno della sua indipendenza, avvenuta il 9 agosto 1965 con l’abbandono della Federazione Malese, il governo di Singapore ha profuso notevoli sforzi perché indiani, cinesi, malay, europei aventi passaporto della città-stato, ponessero in secondo piano la propria identità etnica per sentirsi tutti singaporeani. Una sfida improba che, forse, non raggiungerà mai una soluzione definitiva, anche se oggi l’80% della popolazione è nata dentro i confini dell’isola.
Nel 1991 il primo ministro Goh Chok Tong, conscio di tali difficoltà, affermava: «Fino a quando l’economia è in fase di crescita e c’è ricchezza per tutti, non penso che la gente abbia voglia di lottare per affermare la propria etnicità. Ma se non vi sarà sufficiente torta da spartire per tutti, allora ci troveremo di fronte al test decisivo per verificare se siamo davvero coesi e solidi».
Il governo deve quindi continuamente proporre nuovi spunti, affinché il trapianto del Dna della «singaporeanità» nei tre milioni di cittadini abbia successo. Una delle difficoltà maggiori riguarda il modo in cui è possibile raggiungere la sfera psichica di ogni singola persona; trovare cioè un linguaggio semplice e accessibile a tutti, quale che sia la razza, religione, grado di cultura, età.
Ecco allora affacciarsi la musica e le parole che, combinati assieme e diretti verso un fine ben preciso, riescono a far suscitare emozioni e sensazioni altrimenti impossibili ad altri mezzi.
Non è un caso che tutte le rivoluzioni siano accompagnate da canti che perpetuano la memoria di chi le ha vissute. E chi più di altri ha bisogno di una rivoluzione interiore, se non stati multietnici come Singapore?
Così il ministero della Comunicazione e dell’Informazione ha pubblicato una serie di motivi orecchiabili, elevandoli a titolo di Canzoni Nazionali e raggruppandole in un Cd dal titolo «Sing Singapore».

I testi, abilmente scritti in modo semplice, così da essere facilmente assimilati nella mente (e nel subconscio), sembrano avvalorare la fama di patealismo, a volte così ossessivo da sfociare quasi in una sorta di dittatura, che viene addossata al governo di Singapore:
«Caro pedone, quando scendi dal marciapiede
e attraversi la strada, segui le strisce zebrate,
rispetta i semafori» si canta in Road Safety for you.
Tale apprensione può essere vista da due angolazioni differenti: in segno positivo potrebbe rappresentare un particolare modo d’insegnamento del codice stradale; nell’accezione negativa potrebbe essere vista come una sorta di ossessivo controllo sul popolo.
Ma il vero obiettivo a cui mirano le Canzoni Nazionali rimane il senso della nazionalità. Nella canzone più nota e più trasmessa da radio e televisione, We are Singapore, la strofa più dirompente esclama:
«Noi, cittadini di Singapore
ci consideriamo come un popolo unito
a prescindere dalla razza, lingua o religione
per costruire una società democratica
basata sulla giustizia e l’eguaglianza…
Noi siamo Singapore, Singaporeani…
Singapore, per sempre una nazione forte e libera».
Durante la festa del Gioo dell’Indipendenza di quest’anno, migliaia di persone intonavano questa canzone, tenendosi per mano e sventolando bandierine bianche e rosse con la mezzaluna e cinque stelle. Uno spettacolo nello spettacolo, se non altro perché è una delle poche volte in cui ho visto cinesi, indiani, europei, malay mischiarsi, bere e mangiare assieme al di fuori dei luoghi di lavoro. Un ennesimo esempio, se ve n’era bisogno, di quanto sia difficile dimenticare le proprie origini e rivestirsi di nuovi abiti.
E nell’occasione del National Day ogni finestra degli appartamenti costruite dall’Housing Development Board, in cui abita l’80% della popolazione, ha esposta una bandiera singaporeana:
«C’è una nuova luna
che sorge dal mare in burrasca…
Ci sono cinque stelle
che sorgono dal mare in burrasca.
Ognuna è una fiaccola
che guida la nostra via…
C’è una nuova bandiera
che sta sorgendo dal mare in burrasca.
Rossa come il sangue
di tutto il genere umano,
ma anche bianca,
pura e libera» (Five Stars Arising).
Rossa, come il sangue di tutto il genere umano per accomunare tutte le razze in un’unica nazione.

È però anche vero che, contrariamente alle prospettive poco rosee lanciate dagli economisti all’indomani della separazione di Singapore dalla Federazione Malese, lo sviluppo che Lee Kuan Yew è riuscito a imprimere alla nazione, ha qualcosa di eclatante, di cui gli stessi abitanti possono andar fieri. E non esitano a rinfacciare a questi Soloni dell’epoca che predicevano un futuro di miserie, la loro prosperità attuale:
«C’era un tempo in cui la gente diceva
che Singapore
non sarebbe mai potuto essere
una nazione,
ma noi l’abbiamo resa una nazione.
C’era un tempo in cui i problemi
sembravano troppo grandi
per essere affrontati,
ma noi li abbiamo affrontati.
Abbiamo costruito una nazione forte e libera
raggiungendo insieme la pace e l’armonia.
Questo è il mio paese, questa è la mia bandiera,
questo è il mio futuro, questa è la mia vita,
questa è la mia famiglia,
questi sono i miei amici» (We Are Singapore).
Il paragone alla famiglia implica anche un impegno di ogni suo singolo componente, per far sì che la sua conduzione sia coronata da successo:
«Riconosci che devi giocare il tuo ruolo…
Sii preparato a dare qualcosa in più…
Per Singapore» (Stand up for Singapore).
Un passo in perfetto stile confuciano, dove ogni cittadino, o meglio, ogni componente della «famiglia Singapore» deve svolgere un compito ben preciso occupando un ruolo ben preciso nella ferrea gerarchia comunitaria,
«per mostrare al mondo cosa Singapore può essere…
Conta su di me, Singapore, conta su di me
per dare il mio meglio e ancora di più» (Count On Me Singapore).

Q uesta filosofia, tipica delle società asiatiche, ha trovato piena attuazione nella minuscola nazione, favorendo la trentennale permanenza al potere di un governante dispotico, ma che sa anche essere benevolo, come Lee Kuan Yew. Grazie alla sua guida «illuminata»,
«in Singapore puoi trovare felicità per tutti» (Singapore Town).
Ma questo benessere deve essere difeso sia dagli attacchi speculativi di operatori finanziari che tentano di assaltare l’economia di Singapore dall’esterno, sia da improbabili, ma non impossibili, attacchi militari dalle nazioni vicine. La «sindrome Kuwait» è assai viva tra il governo, che destina il 5% della finanziaria alle proprie forze armate, tra le meglio addestrate nella regione.
Ma i leaders sanno bene che il minuscolo territorio non potrà essere difeso a lungo in una guerra convenzionale; quindi, anche in caso di invasione dall’esterno,
«C’è una parte per ognuno
in questa terra a cui apparteniamo.
C’è una parte per ognuno e per tutto
per mantenere la pace che vogliamo.
Anche se non tutti con le armi,
per aiutare a difendere la nostra terra
dobbiamo far tutto quello che possiamo
insieme, mano nella mano…
Abbiamo marinai, aviatori,abbiamo soldati,
impavidi uomini addestrati e pronti…
Aiutali ad aiutare tutti noi»
(There’s a Part for Everyone).
Parole dure, sferzanti, che si spera non dovranno mai trovare impiego nella realtà. Già, perché alla fin fine la multietnicità che caratterizza Singapore può essere di esempio anche per gli stati europei che si trovano a fronteggiare, spesso con intolleranza e xenofobia, l’arrivo di rappresentanti di altre culture.
E si potrebbe terminare questa cartolina di Singapore in musica, con le strofe forse più significative di One People, One Nation, One Singapore:
«Abbiamo costruito una nazione con le nostre mani,
con la fatica di gente da una dozzina di terre.
Stranieri quando arrivammo,
ora noi siamo Singaporeani…
Un popolo, una nazione, un Singapore».


Piergiorgio Pescali




Solidarietà in passerella

Ancora una volta Missioni Consolata dà spazio
alla manifestazione di AfroItalyFashion,
giunta alla sua quinta edizione. Tale iniziativa
va ben al di là di una frivola sfilata di moda: numerose persone, in collaborazione con associazioni italiane e africane, sono coinvolte
in tale manifestazione per fare cultura
e stimolare la solidarietà attraverso lo spettacolo, per poi promuovere progetti di impegno sociale
a favore del continente africano.

È sempre un grande piacere per me parlare di AfroItalyFashion, una manifestazione che seguo da molto tempo come addetto stampa. Seguire i preparativi che cominciano mesi prima, i contatti intercorsi tra gli organizzatori e i vari professionisti che, superati i primi momenti entrano subito nella magica atmosfera di un appuntamento molto atteso.
Per capire meglio quanto lavoro vi è dietro questa manifestazione, cominciamo col dire che AfroItalyFashion è organizzata dalla Associazione Culturale «Abissa» di Torino, di cui è presidente il dott. Diego Cudia, con il fine di sensibilizzare l’opinione pubblica e le persone più abbienti, verso una realtà molto diversa dalla nostra, eppure a noi molto vicina, in termini culturali e geografici.
La produzione esecutiva è affidata all’agenzia Didacus Communication di Milano, che si occupa dei contatti con stilisti italiani e stranieri, con indossatori e indossatrici, artisti e ospiti vari, rapporti con i vari mass media, con professionisti vari. Lo studio Area Fotografica di Torino ha curato i servizi fotografici e video, luci e direzione della fotografia, elementi scenografici e lo studio CD Comunicazione di Torino ha cornordinato i servizi pubblicitari, le sponsorizzazioni e marketing.
Motore della manifestazione è stata soprattutto l’associazione umanitaria Mission Sinan di Cuneo, la quale promuove progetti di cooperazione tra Italia e Africa, come la costruzione e mantenimento di un centro ginecologico moderno ed efficiente in Costa d’Avorio, ricerca fondi in denaro, attrezzature tecnologiche, mezzi per il commercio e persone volonterose affascinate dall’idea di un aiuto concreto al continente africano.
Nomi importanti, quindi, che muovono decine di persone verso una iniziativa che, anno dopo anno, acquista dimensioni sempre maggiori; persone che riescono a supportare una manifestazione che qualcuno ha definito «sincera e pulita», in riferimento all’idea di base: fare cultura e stimolare la solidarietà attraverso lo spettacolo.

Direttore artistico di AfroItalyFashion è il dott. Diego Cudia, che è anche presidente dell’Associazione Culturale «Abissa» (acronimo di Attività sociale, beneficenza, immobiliare, spettacolo, sport, arte). A lui rivolgiamo alcune domande sul significato della manifestazione.

Come si concilia la solidarietà verso un mondo di bisognosi e una manifestazione di moda, musica, spettacolo…?
Ogni anno cresce sempre più il consenso degli stilisti italiani e, soprattutto, stranieri verso la manifestazione AfroItalyFashion; i vari stilisti africani cedono gratuitamente i loro abiti (sopportando le spese di iscrizione, spedizione, assicurazione), questi abiti verranno venduti successivamente e metà del ricavato ritoerà in Africa sotto forma di aiuto verso quelle etnie più disagiate (se non è solidarietà questa…).
E vorrei ringraziare i vari stilisti che hanno partecipato, essi sono: Alfadi (Nigeria), con il suo pret-a-porter tradizionale; Cris Seydou (Mali), con i suoi abiti per il teatro, cinema, come fornitore ufficiale delle divise per le hostess di Air Afrique; Dramé (Costa d’Avorio), con la sua linea di abiti femminili; Fabiene (Costa d’Avorio), giovane stilista di abiti tradizionali da giorno e da sera, da cerimonia; Mirelle (Senegal), specializzata in abiti da matrimonio; Pathé (Burkina Faso), molto conosciuto dai vip tra cui Nelson Mandela.
Accanto a questi stilisti, molti dei quali presenti, il pubblico ha potuto ammirare le stupende creazioni per sposa di Claudio Ambrogio (Boutique sposa di Bene Vagienna, Cuneo), e di giovani creatori di moda italiana, freschi di studi accademici.

E il discorso culturale, l’impegno sociale, dove sono?
Chi assiste alla manifestazione AfroItalyFashion, oltre ad ammirare delle bellissime creazioni di moda multietnica, sente parlare di progetti di cooperazione, costruzione di ospedali e scuole, raccolta di attrezzature professionali, risorse umane operanti in luoghi difficili, malattie e condizioni di vita inconcepibili. I vari ospiti invitati parlano delle loro esperienze passate e presenti, a contatto con una realtà che spesso ci è difficile da immaginare; gli stessi artisti si esibiscono con musiche e brani coreografici, sono testimoni di una situazione di vita non proprio serena e felice. Tutti questi discorsi servono a ricordare che esistono persone che hanno fatto dell’impegno sociale una ragione di vita, che può dare grandi soddisfazioni morali. Discorsi che devono portare tutti alla convinzione che siamo un paese che può fare moltissimo per gli altri, senza grandi sforzi economici e organizzativi; che devono fare riflettere soprattutto i giovani, perché il loro futuro sarà sempre più influenzato dai problemi presenti a livello di politica comunitaria internazionale.

Prima Torino, dove è nata e cresciuta, poi Cuneo, con il pubblico in piazza. Dove sarà il prossimo appuntamento con AfroItalyFashion?
Torino e Cuneo sono le città dove «Abissa» è nata e si è fatta conoscere; era naturale pensare di realizzare la manifestazione prima a Torino (presso il teatro dei missionari della Consolata) poi a Cuneo (piazza Audifreddi); per la prossima edizione stiamo valutando le proposte di alcuni sponsor che la vorrebbero in una città della Lombardia (Brescia o Como), per estendere a un pubblico sempre diverso la conoscenza della nostra associazione e i suoi progetti.

A proposito di progetti, avete in cantiere qualcosa di cui parlare?
Stiamo lavorando alla realizzazione di «Il Canario», un calendario nazionale fotografico a colori, in cui i proprietari di cani possono comperare, per pochi euro, uno dei 288 spazi fotografici a disposizione, manifestando la loro solidarietà attraverso la pubblicazione di una fotografia in compagnia del fidato amico di vita. La somma raccolta con la vendita del calendario, sarà destinata all’acquisto di generi di conforto (alimentari, medicinali, cucce…) per i cani ospitati nei vari canili d’Italia.
A Il Canario aderiscono molti vip e personalità dei più disparati settori sociali, oltre a persone comuni, a riprova che l’amore di un cane verso l’uomo non è vincolato alla sua condizione umana, ma libero e sincero.

Di Dino Sassi

Per informazioni: Associazione Culturale Abissa onlus – V. Lancia 121/F – 10141 Torino – Tel 339.3701387.
Per Il Canario: Area Fotografica – Tel 011.704264.

Dino Sassi




CONSOLATA: madre dei poveri

Il Concilio Vaticano II ha messo l’accento sull’immagine di chiesa come popolo in cammino. Tra le giornie e le speranze, le tristezze e le angosce di tutti gli uomini Maria è, oggi come sempre, modello e guida, luce di consolazione. Soprattutto dei poveri e di ogni persona che soffre.

In questa stagione, la campagna del Sussex si stende lussureggiante da Londra verso il mare. Villette a schiera, case coloniche e nobiliari bucano il manto di prato «all’inglese» che proseguirebbe altrimenti intonso per decine di chilometri. Una fotografia di pace, armonia; magari un po’ noiosa, ma certamente rilassante. Alle spalle il viaggiatore lascia la grande metropoli; di fronte, la turistica costa della Manica è l’unico vero ostacolo prima di tuffarsi nel blu intenso del canale.

UN SANTUARIO SPECIALE

Il santuario di «Nostra Signora della Consolazione», nel paesino di West Grinstead, emerge come una grande macchia bianca immersa in un oceano di verde: un grande luogo di culto come non ci si aspetterebbe di trovare da queste parti, in questa terra dove le parole chiesa e liturgia si sposano obbligatoriamente con il concetto di sobrietà. Ci sono ragioni storiche per spiegare il perché si è voluto dedicare il santuario proprio alla Regina della consolazione. Sì, perché la Consolata ha una delle sue «seconde case» anche in Inghilterra. Dobbiamo ritornare brevemente con la memoria al XVI secolo e agli anni bui che seguirono la rottura politico-religiosa operata dalla corona inglese con la chiesa di Roma. Al colpo di mano di re Edoardo VIII seguirono anni di repressione contro la presenza cattolica in Inghilterra, che ebbero il loro picco durante il lunghissimo regno della figlia di questi: Elisabetta I. Per molti preti, religiosi o anche esponenti laici della chiesa cattolica la fuga fu l’unica opportunità per evitare minacce, arresti, torture e condanne a morte. Inutile dire che l’unica via di salvezza per chi voleva allontanarsi dalle isole britanniche era rappresentata dal mare. I percorsi delle attuali A24 e A23, le autostrade che oggi, piene di traffico, si snodano da Londra verso le cittadine di Worthing e Brighton, divennero il pericoloso cammino notturno di molti pellegrini che cercavano sul continente il modo di salvarsi e, con il tempo, riordinare le fila del cattolicesimo inglese.
Tuttavia, le campagne del sud dell’Inghilterra non offrivano soltanto pericoli a questi viandanti del tutto speciali. A West Grinstead, i Carylls, un’abbiente famiglia cattolica del posto, iniziò a dare rifugio a molti preti che tentavano di lasciare l’isola o, in seguito, cercavano di ritornarvi sotto mentite spoglie per iniziare a ricostituire nella clandestinità le comunità cattoliche. Verso la metà del XVI secolo, venne costruita nella proprietà di famiglia quella che, ancora oggi, è conosciuta come la «casa del prete», una piccola costruzione in cui i rifugiati vivevano sotto mentite spoglie, sovente travestiti da pastori. Sotto il tradizionale tetto di paglia, un fienile nascondeva una piccola cappella in cui, quotidianamente, veniva celebrata l’eucaristia. Altri due nascondigli, ovviamente privi di luce naturale, vennero ricavati utilizzando le canne fumarie della casa, angusti rifugi che permettevano ad una persona in piedi di rimanere perfettamente celata a sguardi inopportuni.
L’affidabilità di questo ricovero di fortuna è testimoniata dal fatto che non si ha avuto memoria di persone scoperte o arrestate mentre vi si nascondevano. La famiglia Carylls subì vessazioni e persecuzioni a causa della testimonianza di fede data in così difficili circostanze e non è difficile immaginare i sentimenti di paura, sgomento, angoscia, che le pareti di quel nascondiglio dovettero respirare per anni.
Quando, nel 1865, venne presa in considerazione la proposta di costruire una nuova chiesa a West Grinstead, si suggerì che il futuro santuario potesse essere messo sotto la protezione della Vergine della Consolazione. L’ordinario della diocesi di Southwark, il vescovo Grant, appoggiò caldamente questa iniziativa, riconoscendo che il «luogo santo», su cui sarebbe sorto il nuovo centro di culto, avrebbe avuto nella Madonna Consolata una degna titolare, madre e modello di una chiesa perseguitata che si fa servitrice degli oppressi della storia. Per l’importanza rivestita in quel tempo e per la particolare spiritualità che da sempre lo animava, il santuario della Consolata di Torino divenne il modello cui ispirarsi e gemellarsi, in modo da poter condividere con esso preghiere, privilegi spirituali e benedizioni.

SPIRITUALITÀ FORTE

Del resto, anche la gente di Torino aveva imparato, nel corso dei secoli, ad affidarsi alla Vergine nei momenti particolarmente difficili della vita cittadina: carestie, epidemie, guerre. La Consolata è sempre stata la discreta «compagna di viaggio» della popolazione che a lei si affidava, attenta e premurosa, pronta ad offrire uno squarcio di luce a chi brancolava nel buio di difficili circostanze esistenziali. Da sempre, insomma, la spiritualità della Consolata si è incarnata nel tessuto quotidiano della vita della città. I grandi santi sociali della chiesa torinese del tempo avevano attinto a piene mani la forza per continuare la loro opera al servizio dei più poveri anche dalla figura umile, silenziosa, ma risoluta della giovane donna di Nazaret che vedevano impressa nell’icona della Consolata.
Questo tratto caratteristico di Maria è stato riconosciuto sin dall’esperienza di fede della prima comunità cristiana. Nel racconto dell’evangelista Giovanni, immediatamente prima dei capitoli dedicati alla passione e morte del Signore, Gesù promette l’invio del suo spirito sulla comunità dei discepoli, spirito che dimorerà in loro, guidandoli nei sentirneri della storia e aiutandoli a ricordare con fedeltà e testimoniare con autorità il messaggio di Gesù. Per compiere il suo mandato, la chiesa trova in Maria un modello degno di essere imitato. In lei, celebra un essere umano capace di trascendere la propria realtà e che, abitato dallo spirito, indica con coraggio i valori del regno. Il conto del Magnificat riassume al meglio lo status che Maria riveste davanti a Dio e alla chiesa: è la umile e docile ancella del Signore, da lui consolata attraverso «grandi meraviglie» affinché possa essere lei stessa una consolatrice profetica dei poveri e degli oppressi. Di conseguenza, noi, che siamo la presente generazione di discepoli di Cristo, chiamati a partecipare e a lottare nel suo mistero di redenzione, crediamo che nessun altro come Maria possa guidarci attraverso le frange, sia umane che divine, di questo mistero. È su questi passi che ci guida il culto della Consolata.
Seguendo le orme di Maria, consolata e consolatrice, si possono superare certi aspetti devozionistici deteriori suscitati da una certa forma di culto mariano, fondata su un eccessivo sentimentalismo e una certa dose di superstizione. Ciò non significa assolutamente farsi beffe della religiosità popolare. Si tratta, invece di recuperare autentiche forme di devozione, che facciano maturare una genuina relazione dell’uomo con l’inesauribile mistero di Dio, relazione che si perfeziona nella prassi delle beatitudini e nella testimonianza dei valori del Regno.
Già papa Paolo VI, nella sua esortazione apostolica Marialis Cultus (1974) incoraggiava la ripresa di pratiche tradizionali di devozione mariana come il rosario, auspicando che esse venissero arricchite da fondamenti teologico-pastorali che le rendessero più vicine alle sensibilità e alle esigenze del mondo contemporaneo. Oggi, nuovi spunti provenienti dalle scienze bibliche, dalla teologia femminista e dal dialogo ecumenico obbligano la chiesa a ripensare teologicamente e pastoralmente il ruolo di Maria e a rivisitare il culto a lei dedicato applicandolo al contesto esistenziale del credente.
Come non pensare all’immagine di Maria che traspare dall’insegnamento del beato Allamano, per quarantasei anni rettore del santuario della Consolata di Torino? L’amore grande per la Vergine, coltivato in intense notti di preghiera e vissute a tu per tu dal coretto che si affaccia sull’icona del santuario, è passione vera per una persona «viva», reale, che l’Allamano indica come modello ai suoi preti e missionari. Una donna «che condusse una vita esteamente ordinaria, ma non in modo ordinario». Una donna come tante, vicina all’esperienza di molte altre madri, figlie e sorelle che si rivolgono a lei per cercare la via dello straordinario nell’ordinario, la santificazione nelle piccole cose. Maria madre dei poveri e degli oppressi, donna del popolo e, nello stesso tempo, icona di fedeltà al progetto di Dio sull’umanità, chiamata ad esser santa per poter essere missionaria, portatrice di Gesù Cristo, consolazione delle genti.

CONSOLARE IL MONDO

Per i poveri, Maria è sempre stata la consolata e la consolatrice, anche se per ragioni culturali, storiche o affettive l’hanno venerata e continuano a venerarla sotto altri titoli. In Colombia, per esempio, il culto alla Virgen del Carmen ha resistito all’invasione di altre devozioni mariane che hanno accompagnato l’evangelizzazione del paese nel corso dei secoli. Se andiamo però a leggere gli aspetti che caratterizzano l’amore della gente alla Madonna del Carmine, non possiamo non individuarvi gli stessi tratti tipici che ci spingono ad abbracciare la Consolata. In una terra segnata da guerra, violenza, disgregazione familiare e sociale come è la Colombia di oggi, Maria assurge a modello di fede e vita cristiana, con le sue doti di madre consolatrice. Come la figura della madre è sociologicamente il centro della famiglia, vero (e molte volte unico) punto di riferimento, Maria, sotto qualsiasi titolo la si voglia chiamare, suscita una spiritualità forte. È una donna energica, determinata, che si impegna, silenziosamente, nell’oscuro lavoro di testimoniare con fede incrollabile la sconfitta del peccato e di annunciare la liberazione messianica dei poveri dalle storiche ingiustizie sociali. In America Latina come nelle baraccopoli di Nairobi, nella foresta del nord del Brasile come nelle ghiacciate steppe della Mongolia o nel deserto umano delle opulente città europee e Nordamericane, Maria continua a essere la donna del Magnificat. È l’umile serva con cui gli emarginati di ogni tempo possono identificarsi. Come ieri furono i pellegrini che fuggivano per le campagne inglesi ad essere accompagnati da Maria al sicuro rifugio di West Grinstead, oggi sono altri migranti a cercarne la protezione. La processione della Consolata che si tiene tradizionalmente a Torino la sera del 20 giugno si veste di nuovi colori e si arricchisce di nuovi volti. Sono i segni della nuova cristianità torinese, frutto della migrazione, che celebra la propria fede nel capoluogo piemontese. Senza rinunciare alle proprie devozioni tradizionali, le comunità latinoamericane, africane, est-europee e asiatiche di fede cattolica pongono ai piedi della Consolata i loro affanni quotidiani. Da lei sono ancora una volta invitati ad avvicinarsi all’unico consolatore: Gesù, il Cristo.
Maria ha dovuto sentire su di sé la forza della consolazione: Maria resa madre prima del matrimonio e subito discriminata, Maria migrante, rifugiata in terra straniera, madre di un uomo ucciso ingiustamente e barbaramente. È proprio la sua drammatica esperienza di povertà, sofferenza, persecuzione e migrazione che rende Maria sorella dei poveri. Nessuno si può sentire da lei rifiutato e questa sicurezza rappresenta una grande fonte di consolazione per coloro che sono continuamente abbandonati alle periferie della storia. Maria è un modello che non sostituisce Cristo in quanto sorgente di ogni consolazione, ma ne completa l’opera grazie alla dimensione matea e femminile della sua esperienza di fede.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Sulle orme di Saverio

In occasione dei 500 anni dalla nascita di Francesco Saverio, cinque sacerdoti ripercorrono il suo cammino di evangelizzazione in Giappone, per meglio conoscere la persona e l’opera avviata dal grande missionario. L’incontro con alcune comunità cristiane ed esperienze di dialogo interreligioso offrono l’opportunità di venire a contatto con l’attuale chiesa giapponese.

Domenica 19 febbraio 2006 rimane nei ricordi come un’esperienza unica, cuore del pellegrinaggio, che ormai volge al termine. Siamo invitati a partecipare alla messa in una delle parrocchie della periferia di Osaka, ognuno affidato a un missionario saveriano. Il mio angelo custode mi porta nella comunità cristiana di Kumatori. Dopo la comunione, il parroco, padre Angelo Manni, mi presenta ai fedeli e mi chiede di rivolgere loro un breve messaggio, che lui traduce in giapponese.
«Cari cristiani – esordisco -, sono un missionario della Consolata e vengo da lontano. Mi chiamo Vincenzo Mura. Ho lavorato per diversi anni in Italia e nella Repubblica democratica del Congo. Non vi nascondo che vi parlo con tanta umiltà, perché vedo in voi, innanzitutto, la chiesa iniziata da san Francesco Saverio e i fratelli diretti di generazioni di martiri. Questo mi emoziona tanto. Non è di tutte le chiese avere fondamenta e tradizioni così solide. Esorto ognuno di voi a continuare a dare la vostra bella testimonianza di fede in Gesù Cristo risorto. Grazie».

DUE ANNI EROICI
DI EVANGELIZZAZIONE

Siamo in cinque: tre sacerdoti della diocesi di Brescia, un missionario saveriano e il sottoscritto. Atterriamo a Kagoshima, nell’isola di Kyushu, la più meridionale dell’arcipelago giapponese. All’aeroporto ci attende padre Giuseppe, dei missionari Saveriani, nostro angelo protettore, che ci introduce nel mondo giapponese.
Anche per Francesco Saverio sarebbe stata un’impresa impossibile, nel 1549, raggiungere questa città senza la guida di un esperto del paese. La trovò, infatti in Anjiro, un giapponese sfuggito alla giustizia e ricercato per omicidio, che il missionario aveva incontrato a Malacca, presentatogli da Alvares, capitano di una nave.
Usciti dall’aeroporto, proviamo a immaginare cosa abbia provato il grande missionario di fronte allo spettacolo offerto dalla prima città giapponese che lo accolse. Purtroppo, una fitta e piovigginosa nebbiolina c’impedirà per tutto il tempo del nostro soggiorno di gustarne fino in fondo la bellezza della baia, lunga e stretta, dominata dal vulcano Satura-Jima, isolato in mezzo al mare. Così era e tale è rimasto fino al 1914, quando un’enorme eruzione di lava lo ha unito alla sponda orientale.
Sotto una pioggia torrenziale visitiamo il monumento a san Francesco, dove è raffigurato Anjiro che porta sulle spalle il missionario e lo introduce in Giappone. Passiamo quindi al castello del potente daimyò (governatore locale), dove il Saverio si recò, accompagnato da Anjiro, per avere la libertà di predicare il vangelo. Permesso che ottenne facilmente, anche perché il signorotto sperava di attirare nel suo feudo i commercianti portoghesi.
Continuiamo il nostro pellegrinaggio, visitando la città di Kagoshima e la cattedrale. La giornata termina nella casa del presidente della comunità cristiana, dove siamo invitati a cena, rigorosamente alla giapponese, con tanto di bastoncini (hashi) al posto delle posate.
A Kagoshima Francesco si fermò circa un anno, dando vita alle prime comunità cristiane. Poi si spostò a Hirado, piccola isola a nord di Nagasaki, e dopo quattro mesi raggiunse Yamaguchi. Facciamo anche noi tale percorso, ma prima ci fermiamo per un giorno nel centro di spiritualità Seimeizan, dove veniamo iniziati a tante piccole realtà giapponesi (vedi riquadro). Ci prepariamo a familiarizzare con il tatamì: spessa stuoia di paglia di riso usata come pavimento nelle case giapponesi, nelle quali si entra solo dopo aver lasciato le scarpe all’esterno delle mura domestiche. È piacevole camminare a piedi scalzi sul tatamì: dà una sensazione di leggerezza e di silenzio.
Ci abituiamo al futon, il materasso per dormire, disteso sul pavimento, che al mattino viene ripiegato e riposto in un armadio, lasciando libero lo spazio per i pasti e la vita familiare diua. Impariamo anche a fare la meditazione zen, appollaiati sulle gambe per mezz’ora… Che fatica, la prima volta!
Riposti i futon nei loro armadi, riprendiamo il viaggio sotto la guida di padre Franco Sottocornola, direttore del Seimeizan. Ci fermiamo a Nagasaki, per sostare in preghiera davanti al monumento che ricorda i martiri giapponesi e visitare il museo della bomba atomica (vedi riquadro), quindi anche noi raggiungiamo Hirado, dove visitiamo la bella chiesa dedicata al santo missionario; quindi raggiungiamo Yamaguchi, capoluogo dell’omonima prefettura, nella regione del Chûgoku, nell’estrema punta occidentale dell’isola di Honshû.
A Yamaguchi visitiamo i luoghi che portano la memoria del Saverio: santuario, museo, castello. Ci vengono ricordate le sue peripezie per ottenere piena libertà nella predicazione del vangelo. Tenendo presente la situazione sociopolitica del paese, il Saverio pensava di guadagnarsi i favori dell’imperatore; per questo si recò a Kyoto: un viaggio di 400 km a piedi, d’inverno, tra indicibili stenti e pericoli. Noi faremo lo stesso tragitto in poche ore sul treno velocissimo.
Francesco trovò la capitale dell’impero in preda a gravi tumulti e comprese che il monarca era privo di potere politico. Egli toò subito a Yamaguchi e si procurò l’appoggio del daimyò della regione, che gli concesse un vecchio tempio buddista (poi diventato la prima casa dei gesuiti in Giappone) e di annunciare liberamente il vangelo di Gesù.
Dopo circa quattro mesi, nel 1551, Francesco ripartì per le Indie, con l’intento di organizzare e dare solidità alla sua missione in Giappone ed estendere l’evangelizzazione alla Cina. Ma morì l’anno seguente.

LA CHIESA GIAPPONESE

Dopo due anni d’intensa ed eroica evangelizzazione, Francesco Saverio lasciava in Giappone più di 400 battezzati: piccole comunità cristiane che seppero tener viva la fede per secoli, sfidando contrasti e persecuzioni.
Nel nostro pellegrinaggio constatiamo quanto la presenza del Saverio sia ancora viva: li vediamo nei segni che ricordano i luoghi dove egli è passato; i cristiani giapponesi parlano di lui come uomo di Dio, un santo, divorato dalla sua missione; i missionari attualmente presenti lo hanno come patrono e ispiratore del modo di fare missione.
La prima evangelizzazione di san Francesco e altri missionari fu seguita da lunghi e tormentati periodi di persecuzioni e testimonianza nel martirio, silenzio e isolamento dal resto del mondo e dalla chiesa universale.
Il viaggio di Giovanni Paolo ii, nel febbraio 1981, le scelte pastorali dei vescovi e il lavoro dei missionari hanno contribuito, negli ultimi decenni, a frantumare un certo tipo di «congiura» contro il cattolicesimo.
Un papa che parla in diverse lingue, che celebra la messa e ordinazioni di preti locali in lingua giapponese, che si rivolge con umiltà e autorità ai capi di tutto il mondo per implorare la pace… non appare certo come un capo spirituale di una minoranza insignificante!
Ma è soprattutto con i suoi gesti e la sua catechesi che il pontefice penetra nel cuore dei giapponesi, quando, per esempio, invitato dalla nota cantante Agnese Chang, improvvisa un girotondo con alcuni bambini, durante l’incontro con i giovani; oppure quando, durante la messa celebrata il 26 febbraio a Nagasaki sotto una tormenta di neve, loda i martiri giapponesi, paragonandoli ai «primi martiri dell’era cristiana». Tutto questo contribuisce a far sì che il cammino della chiesa faccia notizia.
I vescovi, secondo lo stile giapponese, evitano lo scontro e non prendono posizioni; ma operano come fermento nella società. Significativo rimane il loro documento «Messaggio sulla vita», in cui essi presentano la dignità della vita nella visione cristiana, usando espressioni molto belle e incisive, capaci di penetrare veramente nel cuore della persona, aiutandola a cambiare. Anche aborto ed eutanasia vengono toccati da una prospettiva positiva, secondo il grande valore della vita.
La chiesa è anche propositiva sul problema della discriminazione di gruppi socialmente emarginati, sull’attenzione ai poveri, lebbrosi, orfani, anziani e sul concreto impegno nella giustizia sociale.

PICCOLA, MA DINAMICA

I missionari saveriani che ci accompagnano nel nostro pellegrinaggio sono felici di rispondere alle nostre domande, per darci un quadro sempre più completo sulla situazione della chiesa giapponese.
Oggi, la chiesa in Giappone conta più di 450 mila cattolici, distribuiti in 16 diocesi e 1.000 parrocchie, circa 800 sacerdoti autoctoni e altrettanti missionari esteri. Questa presenza missionaria opera in piena collaborazione con la chiesa locale, per rispondere a tutti gli impegni della chiesa giapponese nell’assistenza religiosa, nel campo dell’insegnamento, dell’aiuto ai poveri e anziani… oltre a dare quella spinta di missionarietà ad extra, di cui il Giappone ha ancora bisogno.
A dare visibilità e prestigio alla chiesa cattolica sono soprattutto le scuole: 559 matee, 54 elementari, 98 medie inferiori, 113 medie superiori, 26 istituti universitari, con corsi di due anni, e altri 18 a ciclo prolungato. Il rapporto tra istituzioni scolastiche e studenti, genitori ed ex alunni è molto intenso e dura tutta la vita. Nelle scuole cattoliche, poi, non c’è nessuna imposizione religiosa.
Gran parte degli studenti non diventa cattolica, ma rimane «simpatizzante» del cattolicesimo. Inoltre, il 90% degli adulti che si convertono e ricevono il battesimo hanno avuto il primo contatto con Cristo e la chiesa attraverso la scuola. La chiesa è molto presente anche in campo sociale: gestisce 234 nidi d’infanzia, 192 case per anziani, 80 centri sociali per i senzatetto o per altri servizi.
Se confrontiamo il numero dei cattolici (450 mila) con quello degli abitanti (126 milioni) la chiesa appare certamente una minoranza. Nonostante la piccolezza, i cattolici si sentono parte essenziale della società giapponese, profondamente radicati nella propria cultura e, al tempo stesso, totalmente integrati nella chiesa universale.
In Giappone sono presenti un centinaio di congregazioni religiose, di cui 5 autoctone, come le suore del Cuore Immacolato di Maria, fondate a Nagasaki. Grande attrazione riscuote la vita claustrale maschile e femminile: 5 monasteri di trappiste (con 30-60 religiose ciascuno), 9 di carmelitane (tutti pieni); e poi monasteri di clarisse, redentoriste, del Preziosissimo Sangue; 2 monasteri di trappisti. In tutto sono oltre 6 mila le suore giapponesi: la percentuale più alta del mondo, rispetto al numero di cattolici.
«Siamo un piccolo gruppo; non siamo certamente una forza come voi in Congo, Vincenzo; ma si lavora bene» conclude padre Franco.

TRA PARCHI E TEMPLI

Nonostante le grandi città e i complessi industriali disseminati in tutto il paese, la prima impressione che si prova in Giappone è quella di trovarsi in un grande parco, dove tutto è pulito e ordinato; e poi la gente, rispettosa di ogni cosa, cerimoniosa nell’accogliere i passeggeri in stazioni e aeroporti.
Il pellegrinaggio sulle orme del Saverio, è un’occasione per conoscere anche la storia, la cultura, l’animo del Giappone. Per questo visitiamo i suoi monumenti religiosi più importanti, come i kofun, tra i più antichi. Sono tombe a tumulo, che si trovano a migliaia in tutta l’isola di Honshû, la più grande del Giappone, e nella parte settentrionale dell’isola di Kyûshû. La loro fioritura ha dato il nome a un segmento della storia del Giappone, conosciuto come «periodo Kofun» (iv-vi secolo d.C.). Dopo questi secoli, i kofun non furono più edificati, sopraffatti dalla diffusione del buddismo e delle usanze funerarie ad esso collegate.
A Kyoto, la Firenze del Giappone, ci troviamo immersi nel parco di Kinkakuji (padiglione dorato) uno dei più pittoreschi tra i molti templi dell’antica capitale imperiale. L’ incantevole piccolo tempio, ricoperto di lamine d’oro, appollaiato su un laghetto, è allo stesso tempo unico tempio zen e sacro reliquiario di Budda.
Come preti ci viene naturale domandare ai nostri accompagnatori: «In che cosa credono i giapponesi? Qual è la loro religione?». Risposte e spiegazioni sono sorprendenti. Questo popolo ha nel sangue lo shintornismo, una religione atavica, secondo la quale tutto è abitato da Dio. La gente ha un profondo senso religioso della natura, un’innata capacità di cogliere la bellezza straordinaria del creato. I messaggi televisivi avvisano quando il pesco è fiorito a Nagasaki o il ciliegio fiorisce a Kyoto. A tali informazioni, tutti sospendono ogni attività e si riversano in campagna per godere della fioritura del pesco o del ciliegio.
«Non domandare mai a un giapponese quale sia la sua religione – spiega padre Marco -; potrebbe risponderti: “Per amor di Dio, non ne ho nessuna!”. Si può domandare, invece, a quale tempio appartenga. Di fatto, su 126 milioni, 80 milioni vanno a un tempio per pregare, ma appena il 5% dei giapponesi sanno in che cosa credono».
L’innata religiosità dei giapponesi è caratterizzata da una diffusissima superficialità. Nelle case si può avere l’altarino buddista per gli antenati e quello shintornista per gli dei. Ma pochi saprebbero dire il nome degli dei venerati in famiglia.
Quando arriviamo nelI’isola di Miyajima e visitiamo il bellissimo tempio shintornista (patrimonio dell’umanità, distrutto da un tifone nel settembre del 2004 e ricostruito), si sta celebrando un matrimonio. Anche questo è un argomento che ci interessa come preti.
«I giapponesi nascono shintornisti; si sposano in chiesa e muoiono buddisti – risponde lapidario la nostra guida -. Tutti sono presentati al tempio shintornista al momento della nascita; un numero sempre crescente si sposa nelle nostre chiese cattoliche (logicamente non si tratta di matrimonio cristiano); è compito dei bonzi fare i funerali».
E finiamo (si fa per dire) a Tokyo, camminando lungo i viali, sempre in ordine e puliti, del parco dove sono le abitazioni dei bonzi buddisti. Anche qui le domande si affollano: hanno costoro una speranza futura? Nessuno ci ha chiesto l’elemosina: ma i poveri ci sono? E questi giovani in visita come noi e ai quali chiediamo di fare una foto insieme, credono a tutto questo?
«Intanto sono qui – spiega la nostra guida -. Hanno fatto le loro abluzioni. Ora guardate come battono la mano destra sulla sinistra per farsi notare dalla divinità: chiedono la grazia di essere promossi o qualche altro favore materiale… E fanno tutto con molto rispetto. Ma non chiedete qual è la loro fede o a cosa credono. Esprimono con la loro presenza la gioia di far parte della natura che li circonda».

Vincenzo Mura

Vincenzo Mura




Seimeizan: montagna della vita

L’ispirazione viene da due assemblee tenute negli anni ‘70 dalla Federazione delle conferenze episcopali asiatiche, le quali suggeriscono di dotare la chiesa in Asia, oltre alle tradizionali strutture ecclesiastiche (parrocchie, opere sociali, scuole, asili…) di centri di preghiera e di dialogo tra le grandi religioni dell’Asia. La scintilla che lo fa nascere è l’incontro provvidenziale tra il padre saveriano Franco Sottocornola e il monaco buddista Furukawa. Dopo anni di gestazione, nel 1987, su una collina sovrastante la cittadina di Kikusui, nell’isola di Kyushu, nasce il «Seimeizan» (montagna della vita), centro di spiritualità e dialogo interreligioso.
Il centro rispecchia in tutto le caratteristiche culturali e spirituali della tradizione giapponese: la struttura dell’edificio, immersa in una foresta di bambù e cipressi, con pareti e porte scorrevoli, la luce che penetra diffusa e non violenta, sembra non avere alcuna discontinuità tra l’interno e l’ambiente circostante. Inoltre, la semplicità dell’arredamento, l’uso del legno o della paglia di riso intrecciata, il tatamì che invita a stare insieme, creano rapporti familiari e calore umano che fanno pensare a una psicologia della casa, diversa dalle nostre tradizioni europee.
Ma ciò che caratterizza il Seimeizan è, soprattutto, l’assunzione di tre elementi classici dello spirito del popolo giapponese: la natura, la montagna, la via del tè. Vivere in mezzo alla natura, sentita come luogo sacro, significa vivere in un contesto di esperienza religiosa. La montagna è luogo di silenzio e d’incontro con Dio. Il silenzio caratterizza molte volte gli incontri interreligiosi che si svolgono al Seimeizan. Il desiderio di stare insieme, di comunicare l’esperienza mistica non ha bisogno di parole. Nella cerimonia del tè, servito dal padrone di casa, i componenti del gruppo (non più di 7 persone) non si guardano in faccia, ma tutti guardano la tazza: bere insieme il tè è segno di pace; è un momento che crea nel gruppo uguaglianza e rispetto, gioia di stare insieme.

La comunità cristiana del Seimeizan (5 persone in tutto) opera in stretta collaborazione con il tempio buddista della vicina città di Tamana, praticando con semplicità e impegno alcune scelte fondamentali: vivere in mezzo ai buddisti per rispondere al dialogo della vita e delle opere; svolgere servizi di vario genere a favore dei bambini, anziani e persone bisognose di aiuto, di consigli e assistenza; offrire accoglienza a singoli e gruppi che vogliono fare esperienza spirituale e di dialogo.
Ogni anno centinaia di persone salgono alla «Montagna della vita» per pregare, vivere a contatto con la natura e con se stessi, comprendere l’animo giapponese, scoprire negli eventi quotidiani la presenza di Dio. Seimeizan è un vero polmone spirituale, in un ambiente in cui il senso religioso rimane spesso in superficie.
Anche noi pellegrini respiriamo un’atmosfera di autentica spiritualità cristiana, fatta di accoglienza, preghiera, contemplazione, attenzione all’altro. Vorremmo condividere per tutto il giorno il loro stile di preghiera, rivolti al sole quando sorge e quando tramonta, ma la pioggia non ce lo permette. Quindi svolgiamo tutto il nostro programma all’interno.
Centro della nostra giornata è la celebrazione della messa, preceduta dalla meditazione zen. Il rito, ispirato alla cerimonia del tè, si svolge con profondo rispetto e dignità liturgica e costituisce per noi un’affascinante novità per rivivere il mistero pasquale.

VM




Nagasaki e Hiroshima

Tappe obbligate del nostro pellegrinaggio sono Nagasaki e Hiroshima, le due città distrutte dalla bomba atomica nell’agosto 1945. Entrambe le città sono state ricostruite, conservando, però, la memoria dell’incredibile tragedia: nel cuore di ognuna delle due città sono stati fatti bellissimi parchi, con vari monumenti alla vita e alla pace. In quello di Nagasaki ce n’è uno intitolato «Inno alla vita», offerto dalla città di Pistornia 1987.
Nei musei passano ogni giorno migliaia di persone e sostano in silenziosa meditazione davanti all’orrore stampato sulle fotografie di volti, scene, situazioni, e sugli oggetti sfigurati dal calore della nube atomica. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare qualche superstite: sul loro volto non si legge alcun sentimento di rancore, ma solo la speranza che mai più si ripetano orrori del genere.

Identici sentimenti li ritroviamo nel santuario dei martiri cristiani a Nagasaki, dove riviviamo una pagina triste e, al tempo stesso, tra le più gloriose della storia del Giappone e della chiesa.
Era il 5 febbraio 1597: Paolo Miki e altri 25 cristiani, dopo essere stati invitati a rinnegare la propria religione, furono messi a morte per crocifissione. Alcuni morirono pregando in silenzio, altri cantando i salmi e tutti perdonando ad alta voce il loro persecutore e i carnefici che eseguivano gli ordini di morte.
A quella persecuzione seguirono oltre due secoli d’isolamento, finché i missionari poterono ritornare nel paese. Il venerdì santo del 1865, a Nagasaki, si presentò in chiesa un gruppetto di giapponesi che rivelarono agli stupiti missionari la presenza in zona di circa 10 mila cristiani, sparsi nei villaggi dell’isola di Goto e nella valle di Urakami. Li chiamavano kakure kirishitan, cioè «cristiani nascosti». Un vero miracolo: per generazioni avevano resistito a persecuzioni e umiliazioni, trasmettendo la fede cristiana di padre in figlio, senza l’aiuto e la guida di nessuna struttura ecclesiastica.

VM