Sabbie mobili nel nord Mali

Armi leggere, droga e transito di immigrati. Questi i traffici della regione desertica di Kidal. Ma soprattutto milioni di dollari d’investimento per cercare il petrolio. Un tenente colonnello tuareg diserta e si dà alla macchia. Poi attacca l’esercito regolare e si ritira tra le dune. Ecco come 100 uomini riescono a intavolare negoziati inteazionali con il governo. In un paese tra i più poveri del mondo.

Bamako. Un’unica strada collega il sud con il nord del Mali. Una striscia di asfalto, molle gran parte dell’anno a causa del caldo infeale, così dritta che pare tracciata con il righello. Lascia il fiume Niger a Bamako, la capitale, per ritrovarlo a Gao, 1200 km dopo. Ma il contesto è cambiato: dal clima saheliano parzialmente umido, passando dal semi arido si è arrivati al deserto; dai popoli neri bambarà, dogon e altri ancora, siamo arrivati nella terra dei tamasheq, meglio noti in Occidente come tuareg, e i loro schiavi bellà.
Questo asfalto ha visto intensificarsi il traffico dopo il 23 maggio scorso. E non di mezzi qualsiasi, ma di blindati e camion militari carichi di truppe. Vanno nelle regioni del nord: Gao, Kidal, Menaka. Da quel giorno, infatti, sembra si sia risvegliata la ribellione tuareg, che aveva insanguinato l’area (estendendosi anche in Niger) agli inizi degli anni ’90.
Il capo tradizionale tuareg, e tenente colonnello Hassan Fagaga, si era già lamentato a fine 2005 con il presidente della repubblica, Amadou Toumani Touré (chiamato popolarmente Att). Secondo lui, gli accordi del ’92 non erano stati rispettati. Le promesse di Att non gli bastano e così a febbraio Fagaga diserta con alcune decine di uomini e si rifugia nelle dune a nord di Kidal. È il suo gruppo che all’alba del 23 maggio attacca due campi militari a Kidal, facendo 6 morti e numerosi feriti e prendendo la città in ostaggio. Nelle stesse ore, il capitano Moussa Bah, comandante di una base a Menaka (località 300 km ad est di Gao), attacca la sua stessa caserma e svuota l’arsenale. Sono passate due settimane da un approvvigionamento dei magazzini dell’esercito in armi leggere e 12 giorni dalla visita del capo di stato a Timbuctù (Tombouctou), dove ha lanciato il gigantesco "Programma d’investimento per lo sviluppo delle regioni del nord" (Pidrin): quasi 26 milioni di euro.
Il Mali è uno dei paesi più poveri del mondo, con il Pil pro capite medio di 370 dollari, la speranza di vita ferma a 41 anni e il tasso di scolarizzazione al 32%. Non si muove dagli ultimi posti (174 su 177) della classifica di sviluppo umano dell’Onu. I maggiori prodotti di esportazione sono l’oro, (che comunque vede una diminuzione della produzione) e il cotone. Quest’ultimo sebbene in aumento come quantità (il Mali è il primo produttore africano) è penalizzato dal corso dei prezzi sul mercato mondiale, in particolare dalle sovvenzioni all’esportazione dei paesi industrializzati.

Senza fissa dimora

Le popolazioni tamasheq, di origine berbera, non hanno mai accettato i confini degli stati. Sono presenti in diversi paesi sahariani (oltre al Mali, Mauritania, Niger, Algeria, Libia), ma quelle che contano sono le grandi famiglie e i loro capi tradizionali. Sono popoli nomadi, che ieri si spostavano con i cammelli e oggi vogliono continuare a farlo con le 4×4 e il telefono satellitare. Abituati a un ambiente estremo, spesso sono armati, e il loro stile di vita è molto diverso da quello dei neri, che utilizzano anche come servi. Nel nord del Mali le famiglie dell’Azawad iniziarono nel 1990 la ribellione armata che vide una tregua negoziata nel 1992, con la mediazione dell’Algeria. La vera fine della guerra fu sancita a Timbuctù, mitica città nel deserto, nel marzo 1996, dalla cerimonia della "fiamma della pace", quando l’arsenale ribelle fu bruciato. Integrazione delle milizie nell’esercito regolare, maggiore autonomia per le regioni del nord e, soprattutto, investimenti per lo sviluppo sono i principali contenuti dell’accordo. Ma nel 2000 il capo tuareg Ibrahim Ag Bahanga non è soddisfatto. Secondo lui gli impegni dello stato non sono stati onorati, diserta e si dà alla macchia. Attacca una postazione dell’esercito e fa ostaggi. L’ambasciatore d’Algeria media e ottiene soddisfazioni delle rivendicazioni del capo, anche molto personalistiche (come lo statuto di comune per il suo villaggio natale).

Militare e democratico

Amadou Toumani Touré, è presidente della repubblica dal maggio 2002, quando fu eletto democraticamente. Da allora, il suo governo non ha una vera opposizione, in quanto tutti i maggiori partiti lo hanno sostenuto. Att aveva già preso il potere con un colpo di stato militare nel 1991, per mettere fine alla dittatura di Moussa Traoré, durata, sotto forme diverse, dal 1968. Si apprestò a preparare una transizione civile, e un anno dopo fu eletto Alpha Oumar Konaré (attuale presidente della commissione dell’Unione africana), che ottenne poi un secondo mandato. Alpha appoggiò la candidatura di Att nel 2002. Un tale panorama politico vedrà una facile rielezione di Att a maggio 2007, anche se questi non si è ancora candidato ufficialmente.
Il presidente, conosce bene la "questione" tuareg: nel ’90 comandava proprio le truppe nel nord.
Ora Fagaga accusa il governo di non aver rispettato i patti. Soprattutto quelli sull’investimento allo sviluppo. "Di fatto il nord è considerato la zona più depressa del paese – ci racconta Marco Alban, rappresentante di una Ong italiana che da anni è presente in Mali – e il governo invita tutti i grandi finanziatori a intervenirvi. Le più grosse Ong, come Oxfam, Medici senza frontiere, e agenzie dell’Onu, come il Programma alimentare mondiale, hanno progetti in queste regioni". Ma, continua, "resta comunque difficile avere un buon impatto sulle condizioni di vita a causa della vastità del territorio e della dispersione della popolazione, e ancora più complicato è misurarlo se si volesse fare una valutazione. Sono, inoltre, in corso di elaborazione studi che probabilmente ridisegneranno la mappa della povertà nazionale e indicheranno altre zone come prioritarie per i progetti di lotta contro la povertà".

Rivendicazioni che ritornano

I nuovi (ma vecchi) ribelli chiedono di essere reintegrati nell’esercito, ma senza carichi penali e, soprattutto, lo statuto speciale per la regione di Kidal, che già gode di una certa autonomia (è l’unica delle otto regioni del Mali ad avere un governatore eletto e non nominato dal governo). Questo vorrebbe dire una gestione fiscale autonoma e un miglioramento dell’accesso al voto (cosa non semplice, visto che qui si vive in poche famiglie disperse tra le dune). Att sa che se Kidal ottenesse l’autonomia la reclamerebbero anche le altre due regioni del nord: Gao e Timbuctù. E questo è un forte rischio per l’integrità nazionale. "In effetti se dividessimo il Mali all’altezza di Mopti dove c’è una specie di strozzatura sulla carta geografica – confida un osservatore internazionale – otterremmo due paesi molto diversi. Uno sahariano, desertico e l’altro saheliano – sudanese".
Capita, di questi tempi, di incontrare sul volo Bamako – Parigi energumeni un po’ grezzi, con i volti bruciati dal sole e i calzoncini corti. Parlano solo inglese, con un forte accento australiano. Non è un caso: da quando si è scoperto il petrolio in Mauritania (il primo grosso giacimento nel 2001), una mezza dozzina di compagnie petrolifere (canadesi, malesi, sud africane e soprattutto australiane) stanno investendo milioni di dollari per setacciare 800.000 chilometri quadrati di deserto maliano, prontamente diviso in lotti e dato in concessione dal governo. Con il prezzo attuale del barile di greggio le ricerche sono economicamente giustificate. Le analisi preliminari danno indici positivi, dicono gli esperti, ma al momento non ci sono certezze. Ecco perché Att, durante la sua visita a Timbuctù ha detto: "Se il petrolio sarà trovato apparterrà alla nazione intera". Di dividersi quindi, non se ne parla.

La risposta di Att

Lenta, ma solida, la risposta agli attacchi di maggio. In tre giorni blindati e truppe dell’esercito regolare sono arrivate a Gao, Kidal, Menaka. "Intoo a Gao c’è un cordone di blindati, mentre è sconsigliato, dallo stesso governatore, muoversi al di fuori della città" ci conferma una fonte sul posto. I ribelli sono fuggiti, portandosi via molte 4×4 rubate a servizi statali e a privati, e una buona quantità di armi leggere. "Il forte rischio è la militarizzazione del nord – continua – già in atto che ha come conseguenza certa il dilagare del banditismo". La gente del nord ha lasciato le città all’arrivo dell’esercito regolare (in questo caso composto prevalentemente da etnie del sud) per il timore di ritorsioni come quelle della precedente guerra, quando si era scatenata una vera caccia al tamasheq. Le popolazioni sono poi rientrate, vista la situazione calma ma permane la tensione. Il rischio di frizioni etniche è comunque reale. Anche in seno all’esercito, composto da neri e da "pelle rossa" (come sono chiamati i tuareg, dalle popolazioni del sud, a causa della loro caagione più chiara), che non si possono sopportare.
Nel resto del paese la gente vede l’ennesima ribellione come un continuo chiedere senza in realtà alcun desiderio di integrarsi nella società maliana, di far parte della nazione.
Ma la maggior parte dei tamasheq del nord hanno capito che la guerra non è la via giusta. Molti ex capi della ribellione di dieci anni fa preferiscono oggi la politica, che grazie al decentramento ha visto eleggere sindaci e consiglieri comunali tra le grandi famiglie della zona.
La società civile di Gao e Timbuctù si sta impegnando a fondo per far capire ai loro "fratelli" come questa scelta delle armi sia sbagliata. "Si sono fatte riunioni e delegazioni di associazioni vanno a Kidal dalle altre due regioni, per spiegare che in questo modo si rischia di annullare tutto quello che è stato ottenuto con le precedenti lotte" ricorda Alban. "È chiaro, d’altro lato, che se Kidal avesse lo statuto speciale, anche loro lo rivendicherebbero".

Tra Libia e Usa

Alla ricorrenza del Mouloud (nascita di Maometto) quest’anno, a Timbuctù un’imponente celebrazione è stata finanziata da Gheddafi. Con gran dispendio di risorse, mezzi e persone, la Guida (come è chiamato il leader Libico) era presente lo scorso aprile nella città detta dei 333 santi dell’Islam. Anche Att c’era, e con lui capi di stato di Senegal, Mauritania, Niger e Sierra Leone. Ma il padrone di casa ebbe un ruolo di secondo piano. Gheddafi organizzò un incontro con i capi tradizionali e chiese "l’unione sacra dei popoli del Sahara, per difendere questa terra benedetta contro gli invasori stranieri". Rilanciò l’idea di una nuova entità geopolitica: "Dobbiamo creare una Carta di Timbuctù per fare del Sahara una grande famiglia". Una sorta di stato dei popoli del deserto, di cui lui sarebbe a capo.
"Già nel 2005 si erano tenuti incontri dei leader tradizionali del Sahara in Libia". Ci racconta la nostra fonte: "Gheddafi ha anche incontrato Fagaga a Timbuctù e questo senza invitare il governo maliano". Molti vedono dunque un ruolo destabilizzante della Libia nella zona. A marzo è stato aperto un consolato libico proprio a Kidal, con l’obiettivo di seguire un investimento in sviluppo di 50 milioni di dollari. Ufficio che ha chiuso pochi giorni prima dell’attacco.
Capita, sempre in questi giorni, di vedere la notte decollare dall’aeroporto di Bamako un grosso cargo quadrimotore grigio con la scritta "Us Air Force". Nulla di strano, vista la presenza di basi Usa nel nord del Mali, nell’ambito del programma Pan-Sahel, che prevede un appoggio americano, soprattutto con istruttori, ma non solo (si parla di alcune centinaia di soldati solo in Mali), agli eserciti dei poveri paesi saheliani. Uno dei programmi di sicurezza finanziati dal Pentagono dopo gli attacchi del 2001.

Rischio inteazionalizzazione

Nella stessa zona sono in effetti presenti e organizzati Gruppi salafisti per la predicazione e il combattimento, terroristi molto attivi anche in Algeria. Furono loro a rapire 14 turisti europei nel deserto algerino nel 2003 e nasconderli in Mali.
Il rischio e la paura di molti di un’inteazionalizzazione della guerra con implicazioni Usa e paesi sahariani è remoto ma reale.
"Kidal è oggi anche l’incrocio di traffici molto redditizi: armi leggere, droga e immigrati fanno scalo nella cittadina tra le dune. E queste sono altre componenti di rischio". Racconta un osservatore.
In Niger, intanto, il presidente Mamadou Tanja, è preoccupato degli avvenimenti del vicino. Nel suo paese la presenza tamasheq è importante e la storia recente simile. A giugno invita a colloquio un ex capo della ribellione e rappresentanti degli ex combattenti. Rinnova le promesse su indennizzi e reintegrazione e vara un programma di maggior contatto tra le autorità ed ex ribelli.

Alla ricerca di una soluzione

Att vorrebbe risolvere il conflitto in casa, come una questione intea all’esercito maliano, con una mediazione diretta governo-ribelli. Ma si accorge ben presto che non è possibile, gli stessi capi tuareg chiedono un mediatore esterno. L’Algeria, già forte dell’esperienza degli anni ’90 e della risoluzione dell’incidente Ibrahim Ag Bahanga del 2000, accetta la difficile missione. Alcuni osservatori paventano l’opzione militare: "Il governo maliano ha già concesso larga autonomia, e con la decentralizzazione amministrativa il potere locale è in mano ai tamasheq. Altra cosa sarebbe lo statuto speciale che il presidente non concederà. Per questo se le posizioni dei ribelli si induriranno, il conflitto potrebbe protrarsi".
Ma è dei primi di luglio la notizia che le delegazioni governativa e ribelle, incontratesi ad Algeri, hanno firmato un accordo di massima. I tuareg rinuncierebbero allo statuto speciale, mentre il presidente Att si impegna ad aumentare ulteriormente gli investimenti allo sviluppo nelle tre regioni nel nord, (in prevalenza a Kidal), con un pacchetto di 70 milioni di euro. Impunità garantita ai disertori, che potranno reintegrare l’esercito.
Su questa strada, ai 40 gradi all’ombra che caratterizzano l’inizio della stagione delle piogge, leggiamo una scritta a grossi caratteri sulle case della cittadina di San, a 400 km dalla capitale: "L’uomo propone, Dio dispone". Una certezza questa per la gente del Mali, come certo è che la "questione tuareg" non finisce qui.

Marco Bello

Una radio da … 1.200 euro

Siamo nella città vecchia di Mopti, nei pressi del porto fluviale sul Bani, affluente del Niger. Da qui partono piroghe e barconi variopinti, carichi di gente e mercanzie per la mitica Timbuctù, più a nord, nel Sahara. Poco lontano un’antenna svetta su una casa fatiscente. Al primo piano in due stanze dall’intonaco scrostato c’è gran fermento. Ci troviamo a Radio Jamana Mopti, una delle voci più ascoltate in zona, anche dal mondo rurale.
Questa Radio fa parte della cornoperativa editoriale Jamana, che conta una decina di emittenti in tutto il paese. Jamana pubblica anche uno dei rari quotidiani del Mali, Les Echos, un mensile in lingua bambarà e libri. È il più grosso gruppo editoriale del paese e, guarda caso, fu diretto da Alpha Oumar Konaré, che divenne poi presidente della repubblica per due mandati consecutivi dal ’92 al 2002.
Radio Jamana Mopti fu creata a fine 1997, ci racconta Aliou Djim che ne è stato direttore dalla fondazione ai giorni nostri. Ora lui andrà a dirigere Radio Benkan, sempre di Jamana, a Bamako.

Promozione culturale

Aliou racconta che "la missione principale delle radio Jamana, sparse soprattutto all’interno del paese, è la promozione delle lingue e della cultura locali". Per questo, ad esempio, a Mopti Radio Jamana trasmette in sette lingue, di cui sei locali (bozo, fulfuldé, dogon, sonrahi, bambarà, tamasheq) e il francese. "Inoltre, si investe molto ad accompagnare la massa rurale in tutto quello che è lo sviluppo". Questo vuol dire, di fatto, veicolare i messaggi delle Ong e delle organizzazioni di base, che siano esse locali, nazionali o inteazionali. "Se ad esempio una Ong vuole far pervenire un messaggio in tutto il cercle (provincia, ndr) di Mopti al più gran numero di beneficiari, nello stesso momento noi realizziamo una trasmissione in più lingue". La radio si propone come supporto in comunicazione tra Ong e contadini. E vendendo questi servizi trae anche il suo sostentamento.
"La maggiore sfida attuale è assicurare la nostra perennità. Ci autofinanziamo con le prestazioni al 100%, mentre l’apporto della cornoperativa Jamana si limita all’installazione della radio e alla foitura di materiale di lavoro. Il funzionamento, come i salari, affitto, elettricità deve arrivare da qui". Un posto dove i ricavi non sono così facili, ricorda Aliou.
"Mopti ha 100 mila abitanti e 8 radio. È bene che ci sia pluralità, ma questo vuol dire che il prezzo del servizio diminuisce, quando invece i costi restano gli stessi".
Alla radio lavorano 6 persone fisse, mentre altre 20 collaborano stabilmente. Il costo mensile per farla funzionare è di circa 1.200 euro, tutto compreso.
Che obblighi avete con la cornoperativa Jamana? "Siamo autonomi in gestione ma non siamo indipendenti, apparteniamo alla cornoperativa. I nostri obblighi principali sono che la radio sopravviva. Poi c’è l’accompagnamento della popolazione, la promozione delle lingue e cultura, ecc. Lo facciamo senza problema, siamo qualificati, ma la sopravvivenza della radio ci distrae, occorre trovare i soldi necessari".

Informazione

"Diamo informazione quotidiana. Abbiamo un comitato di redazione che ricerca notizie in città, tutta l’attualità che può interessare alla popolazione. Le trattiamo e le diffondiamo in francese e in tutte le lingue locali. Siamo considerati come la radio di informazione della zona perché diamo più attualità locale. Guardiamo anche su internet quali sono le informazioni nazionali e inteazionali che possono avere incidenza sulla vita dei cittadini di Mopti e della regione. E cerchiamo di adattarle e riproporle. Ad esempio se troviamo informazioni sul pesce che è molto importante qui le trasmettiamo, per preparare i pescatori a problemi che potrebbero presentarsi".
Il direttore traccia un bilancio positivo: "Radio Jamana ha aperto un campo fertile: abbiamo lavorato in modo da dare voglia a molti di imitarci. Quando iniziammo a Mopti c’era solo la radio di stato e un’altra privata, la nostra fu la terza. Abbiamo promosso uno spazio radiofonico plurale. Abbiamo, inoltre, lavorato molto sulla pratica delle lingue che adesso si è più diffusa. Si è creato un dialogo tra la radio e la popolazione per rinforzare lingue e cultura. Trasmettiamo racconti e musica che un tempo si ascoltavano solo tra poche persone, riuscendo così a ridiffonderli.

M.B.

Marco Bello




Radio Americhe

José Carlos, Sania, Maria Helena, Alvaro: ognuno di loro con un percorso esistenziale diverso, ma con in comune la provenienza latinoamericana. Ogni domenica mattina si ritrovano in uno studio radiofonico di Torino, dove assieme conducono una (bella) trasmissione di informazione e cultura latinoamericana.
Il titolo del programma è intrigante: "Trópico Utópico. Voz de tantas raíces". "Trópico" fa riferimento alla collocazione geografica di gran parte dell’America Latina, mentre l’aggettivo "utópico" vuole ricordare la voglia di sognare di molti popoli latinoamericani, quel "realismo magico" di cui si sono fatti interpreti grandi scrittori come Gabriel García Márquez, Isabel Allende, Laura Esquivel e molti altri. "Voz de tantas raíces" nasce invece da una poesia diffusa durante le ricorrenze per i 500 anni (1492-1992) dalla conquista dell’America: "En un amanecer de luchas milenarias, despierta America, canta voz de tantas raíces", "In un’alba di lotte millenarie, alzati America, sii voce di tante radici".
Anche per questo ci sarebbe piaciuto titolare questo servizio "Radio America", ma non abbiamo voluto rischiare fraintendimenti: nel mondo, "America" è quasi sempre sinonimo di "Stati Uniti". Con grande (e comprensibile) disappunto di coloro che vivono a sud degli Usa.
Nelle pagine seguenti abbiamo dato spazio alle storie autobiografiche di José Carlos, Sania, Maria Helena ed Alvaro (stranieri, anzi "extracomunitari"…!) perché – una volta tanto – c’è un lieto fine. E questo è un bel segnale di speranza, ancorché piccolo, per un’Italia che, oltre le sue leggi punitive (in primis, la Bossi-Fini), fatica a trovare una sintonia con gli immigrati.

Paolo Moiola

Radio Flash, storica radio di Torino, ogni domenica ospita una trasmissione dedicata all’America Latina. Nulla di particolare, se non fosse che
i quattro conduttori sono latinoamericani. Così, un programma radiofonico – "Trópico Utópico. Voz de tantas raíces" – diventa ben più di un esempio
di integrazione. È la dimostrazione che, in un’Italia dove la convivenza tra immigrati e italiani è ancora irta di ostacoli, l’arricchimento reciproco
è auspicabile, ma soprattutto possibile.

José Carlos, dal Nicaragua

PER SUPERARE L’INDIFFERENZA

Ricordo la vecchia entrata dell’unico Mc Donald’s che c’era a Managua: un via vai di uomini con mitra semiautomatici alle spalle e bambini in braccio… Sono arrivato in Nicaragua nel 1986, proveniente da Cusco in Perù, dove sono nato, e ho trovato un paese in rivoluzione per tante cose e in guerra per molte altre… Il Nicaragua è stata la mia seconda casa, una casa sempre minacciata dalla controrivoluzione, che dal nord, dall’Honduras, dalle montagne, bombardava e bruciava i raccolti alla frontiera. Mentre in città arrivavano notizie di possibili interventi militari nordamericani, l’embargo alimentava la carestia e nei supermercati gli scaffali restavano immobili, ma sempre vuoti.
Per strada la gente si guardava negli occhi con rispetto: erano tutti complici di una sfida collettiva al padrone del cortile di casa… La guerra esalta il peggio di noi, ma allo stesso tempo può riscattare l’invisibile che abbiamo dentro: forse per questo sono diventato inevitabilmente nicaraguense.
Ho assistito alla fine della rivoluzione sandinista in concerto con la caduta del muro di Berlino. Per 10 anni il Nicaragua è rimasto sospeso nel tempo e si è ritrovato all’inizio degli anni Novanta – dopo 10 anni d’embargo -, vestito come alla fine degli anni Settanta, quando era cominciata la rivoluzione. Le macchine, le radio, gli abiti, tutto era passato di moda da un decennio quando questo piccolo paese dell’America Centrale si svegliò da un sogno di cui aveva deciso soltanto l’inizio.

Nel 2000 sono partito per l’Italia con un sacco di idee e progetti, una sindrome condivisa da tutti gli emigrati. A Torino ho fatto lo studente operaio, imballando ricambi di tutti i tipi. Per un anno, ho lavorato in un capannone della periferia torinese per una cornoperativa gestita da alcuni mafiosi, che ci pagavano una miseria mentre, soddisfatti della loro perfetta abbronzatura, si guardavano allo specchio della nuova Jaguar. Questa fabbrica assomigliava più a una maquila centroamericana, che ad una fabbrica della ricca Italia. In inverno entravo alle 5:30 "prima del sole" e a volte ci obbligavano a fare degli straordinari fino alle 16:00 quando il sole ormai se ne stava andando… In quei giorni l’unica luce che vedevo era quella che ogni tanto si rifletteva sulle scatole.
Oggi, dopo quasi 6 anni e tanti lavori diversi, sono alle prese con gli ultimi esami universitari della laurea in studi inteazionali.

Mi sono avvicinato alla radio per caso. Alvaro Duque, colombiano, mi invitò a Visión latina, la trasmissione radiofonica da lui condotta all’epoca, per presentare una mostra fotografica sulla povertà estrema che avevo visto nella discarica di Managua, la capitale nicaraguense dove ero tornato dopo anni d’assenza, insieme alle note da cui è uscito il mio primo articolo, pubblicato proprio su questa rivista nell’aprile 2005. A quella prima volta in radio, seguirono altri miei interventi in trasmissione: per parlare del Salvador e poi degli indigeni del Guatemala. E siccome non c’è 3 senza 4, un giorno Alvaro mi chiamò per offrirmi un microfono in una nuova trasmissione. Io accettai senza pensare molto ai perché: semplicemente mi sembrava fosse un’opportunità da non rifiutare. Era, allo stesso tempo, una gran responsabilità, giacché non si trattava più di cucinare pizze, bensì qualcosa di più malleabile ma anche delicato, necessario per vivere e per riflettere: l’informazione, servita con quella trasparenza che viene abitualmente calpestata dai grandi comunicatori da… "centro commerciale".
Io credo che la radio, come la carta stampata, dovrebbe essere sinonimo di comunità educativa, di educazione popolare che inviti all’autocoscienza critica e non all’indifferenza collettiva. Così, sulla base di queste convinzioni, il 26 di marzo ho iniziato a fare lo speaker nella prima puntata di "Trópico Utópico. Voz de tantas raíces".

Nello studio di Radio Flash tutte le domeniche, verso le dieci e quindici – a volte un po’ assonnati – si corre, si rilegge e si corregge quello che partirà per le onde radio: voci, parole, denuncie, improvvisazioni e molte volte agitazione, in un tutto che arriva fino alle persone che ci ascoltano.
Quando sta per finire il notiziario di radio popolare verso le 10:40 e suona la canzone dell’inizio del programma, la sensazione della prima volta entra in studio e invisibile, si siede in una vecchia poltrona che è di fronte a noi, quasi fino alla fine del programma, ma ad ogni domenica decide di andarsene prima, so che un giorno non verrà più… quando parlare in radio per me sarà diventato leggero come ascoltarla.
Durante il programma, da dietro la consolle, Alvaro ci mostra dei cartelli di colori diversi – simili a quelli dell’arbitro in una partita di calcio – con cui ci suggerisce o ci dà i tempi: invita a domandare se siamo nel corso di un’intervista e il personaggio dall’altra parte del telefono passa tutti i semafori in rosso o – come si dice in Nicaragua – "va como carreta en bajada" (va come un carretto in discesa), oppure a cercare di chiudere il discorso o il tema che stiamo trattando, se ci si avvicina "Conexão Brasil", il segmento in lingua portoghese tenuto da Sania, l’amica brasiliana nostra compagna d’avventura.
Abbiamo trovato una sorta d’equilibrio all’interno del collettivo di Trópico Utópico. Ognuno di noi quattro concepisce la comunicazione in modo diverso, ma le basi del programma si confanno bene alle nostre idee e al nostro sentire.

José Carlos Bonino

Sania, dal Brasile

PER SFATARE I LUOGHI COMUNI

Sono nata e vissuta fino a 17 anni nella piccola e tranquilla città di Laguna, nel sud del Brasile. Dei miei ricordi di quel periodo posso dire che convivevo con la tranquillità del luogo e le disparità regionali presenti nel paese, senza molte possibilità di crescita personale attraverso qualche esperienza. Solamente quando partii per Florianopolis, la capitale dello stato, per entrare all’Università (facoltà di ingegneria ambientale), uscii dal blocco mentale nel quale prima vivevo e cominciai una vita di scoperte ed esperienze positive e negative, che contribuirono alla mia formazione personale e professionale.

Nel 2005 sono venuta in Italia con l’obiettivo di conoscere una nuova cultura e fare nuove esperienze per un tempo determinato, più o meno 3 anni. Nella condizione di immigrata non ho avuto molti problemi, a parte quelli che all’inizio penso abbiano tutti: difficoltà per la lingua, trovare un lavoro d’accordo con la formazione ottenuta nel paese di origine, burocrazia nelle pratiche civili, ecc. Comunque, poiché sono facilmente adattabile alla diversità, posso dire che mi trovo bene in Italia, paese eccezionale per natura, cultura e persone.
La mia venuta in questo paese ha anche cambiato il mio rapporto personale con il Brasile. Da lontano guardo il mio paese in un modo diverso da prima, trovandolo ancora più bello e ancora più da amare.
Il Brasile, paese in via di sviluppo, vasto quanto un continente e con circa 180 milioni di abitanti, è descritto a livello internazionale come il paese del carnevale, del calcio, dell’Amazzonia e della criminalità. Però, chi lo conosce veramente, sa bene che è un paese fantastico in tanti sensi, ben oltre quelli codificati nei luoghi comuni. È certo che, a causa della sua condizione socio-economica, ci sono tanti problemi e molte cose da fare per svilupparlo in modo equanime e sostenibile. Tuttavia, dopo 500 anni dall’occupazione europea, pian piano il paese sta trovando una propria autonomia per consolidare la sua identità nel mondo.

L’opportunità di partecipare al progetto di comunicazione radiofonico di "Trópico Utópico" mi ha dato la possibilità di avvicinare Torino alla cultura brasiliana. Con la rubrica Conexão Brasil io cerco di trasmettere, pur in uno spazio temporale ristretto, notizie interessanti dal Brasile, informazioni di utilità generale, divulgazione della lingua portoghese e musica brasiliana di qualità. Insieme a Carlos, Maria Helena ed Alvaro, gli amici che in un’atmosfera multiculturale conducono il programma, molto umilmente tento di legare il Brasile al contesto latinoamericano e nel contempo di inserirlo in una scala globale.

Sania Fortunato

Maria Helena, dalla Colombia

UNA FOTO IN TASCA, UN SOGNO NEL CUORE

Per poter raccontare la mia vita ho dovuto fare ricorso alla cassetta dei ricordi (una vecchia scatola da scarpe in cui conservo amori, defunti, amici e sogni) dove ho dunque trovato lo spunto per scrivere: una di quelle foto che si conservano con diffidenza nei sacri album della famiglia; una di quelle foto perfette in cui tutti sono belli ed ordinati, pronti per la messa; una di quelle foto che, quando arriva il momento di partire, ti prende il desiderio di rubarla, di prenderla dal reliquiario del passato senza chiedere il permesso ad alcuno.
Io lo feci, poco prima di prendere la mia valigia per partire in direzione dell’ Italia. "La foto in blu" è stata per me per molti anni l’amuleto, la connessione con la mia verità, il mio conforto e la mia tristezza. In essa sta tutta la mia famiglia vestita di blu. Colore che non ha niente di che spartire con il colore del partito conservatore colombiano. Non siamo una prole "de godos" (nomignolo dato ai conservatori, ndr). Fu soltanto una casualità.
La nonna Emelina sta nell’angolo sinistro, appare in piedi e dà la sensazione di sostenere gli altri, di tenerli, quasi che fossimo sul punto di cadere da qualche parte. Cercando come sempre di raddrizzare il quadro storto della mia famiglia, compito a cui si dedicò fino alla sua morte. A lato di Emelina, seduto in poltrona, sta il nonno Pedro Nel, un vecchio rigido ed impenetrabile; un uomo di verità, grande, brutto e formale, direbbero a casa mia. In ordine decrescente di grandezza stiamo noi, i bambini: mio fratello Juan Carlos, tanto magro da sembrare morto di fame; il cugino Wardo, piccolino, carino fin dalla sua venuta al mondo; per ultima, ci sono io, progredendo pian piano nell’arte sottile degli sguardi civettuoli. La foto non è completa, mancando Beatriz, mia madre, che stava facendo la foto con la vecchia macchina fotografica ereditata da mio padre Silvio, unico avere che ci lasciò prima di andarsene.
Io sono Maria Helena, nata 36 anni fa a Cali, Colombia, la città che molti di noi chiamiamo "la succursale del cielo". Per quanto mi riguarda, debbo confessare che del cielo ha ben poco, anzi ha più dell’inferno con l’umidità, le zanzare e i mafiosi di tuo. Sono cresciuta in un quartiere popolare, con il nome di un eroe della patria, Atanasio Girardot. Un luogo povero, di strade sterrate, di bambini e cani randagi. Ricordo che trascorrevo molte ore a giocare per la strada, dopo i compiti della scuola. Credo che giocai finché arrivò la modeità anche là, attorno agli anni Ottanta: strade asfaltate, bordelli agli angoli, la prima televisione, la scuola superiore in un collegio di monache. Con il passare degli anni, vidi come i miei amici d’infanzia, con sogni differenti dai miei, si trasformarono in ladroni, sicari, trafficanti, e addirittura mafiosi di grido. Hoy todos estan bajo tierra: oggi tutti stanno sotto terra. Di quella generazione siamo rimasti in pochi, quelli di noi che si sono salvati dalla polveriera nella quale si era convertito il barrio Atanasio Girardot.
A 16 anni avevo terminato la scuola superiore e a 17 stavo seguendo il mio primo anno nella facoltà di sociologia dell’Università pubblica della mia città. Partecipai a tutte le assemblee studentesche che ci furono, a tutte le rivolte, fino alla protesta per la sparizione del mio compagno di banco. Tuttavia, Marco non ricomparve più ed io scoprii, con dolore, che la soluzione non stava nel lanciare pietre o nell’insultare la polizia o di trasformare in carne da cannone i miei compagni di lotta.
Mi dedicai quindi a studiare, a lavorare con la gente del mio quartiere, a viaggiare in autostop per il mio paese. Così scoprii un’altra Colombia: quella dei neri del Pacifico con la loro musica, la magia e il "biche" (una specie di grappa locale fatta dalla canna da zucchero, ndr); quella degli indios con il loro odore, il silenzio e lo sguardo perso; quella dei contadini con la loro generosità; quella della selva e delle grandi città.
Distinguere tra i miei doveri professionali e il mio impegno politico è il tallone d’Achille della mia esistenza. All’epoca, mi ritrovai così compromessa in situazioni che posero in pericolo la mia tranquillità. Questo perché la Colombia è un paese dove regna l’impunità, dove è meglio tacere che denunciare. A causa dei miei problemi e alcuni momenti di orrore e morte che non potevo cancellare dalla mia mente, decisi di andarmene da lì, di lasciarmi tutto alle spalle e ricominciare in una nuova terra. Così, grazie all’aiuto di amici di Florencia che facevano ricerche per la tesi in scienze politiche in collaborazione con l’Università del Valle dove io lavoravo, iniziai la mia avventura in senso opposto a quella di Cristoforo Colombo.
Arrivai in Italia nel 1998. Nei miei primi anni da emigrata provai quella sensazione leggera e strana che ti offre l’essere niente e nessuno. È come essere morto pur essendo in vita. Per sopravvivere, a Firenze ho pulito case, servito ai tavoli, venduto articoli di cuoio e souvenir al mercato di San Lorenzo a nordamericani e giapponesi. Fino a quando l’anonimato e la voglia di tornare a "giocare alla sociologa" mi fecero impazzire, come – è così che si dice in Colombia – "si la tierra bajo los pies me picarà", se la terra sotto i piedi mi pungesse. Nel 2001 ripresi dunque in mano la valigia per andare nel nord Italia per seguire un corso di mediazione interculturale, l’unica porta che mi sembrava fattibile da attraversare. Toai a lavare piatti e a pulire case però questa volta con un sogno: lavorare in quel laboratorio sociale che è Torino.
Da 4 anni lavoro come educatrice nel mondo della cooperazione. Ho lavorato con gli adulti in difficoltà, con le donne vittime della tratta, con i drogati, con ex carcerati, con adolescenti e con stranieri come me.
In tutto questo andare e venire di progetti e belle esperienze sono arrivata alla radio e mi sono fermata. Credo che l’importanza di questo progetto risieda nella sua stessa natura, nella sua caratteristica di relazione immediata con coloro che ci ascoltano, indipendentemente dal fatto di parlare in spagnolo, in portoghese o in italiano.
Il nostro programma radiofonico è fatto di amore, di sacrifici, di ore di lavoro e di tanta voglia di continuare. Trópico Utópico è per me parte del sogno che non ho potuto sognare nella mia terra.

Maria Helena Granado

Alvaro, dalla Colombia

STACCARE LE ETICHETTE CHE DEFORMANO IL MONDO

Quando mi sono chiesto che cosa avrei potuto scrivere in poche righe su un´esperienza di migrazione come la mia, forse poco significativa e, ad ogni modo, atipica, mi è venuto in mente il fatto che in questo processo di viaggi e scoperte che è in definitiva la migrazione, ho infranto, non sempre con successo, alcuni degli stereotipi che si hanno in mente come conseguenza dell´habitat in cui uno si è formato e come risultato dell´informazione che ognuno di noi, volontariamente o senza volerlo, ha acquisito.
La prima cosa quindi che potrei raccontare o, per meglio dire, confessare è che quando mi capitò l´occasione di venire in Italia (in quell´epoca stavo conoscendo quella che è ora mia moglie, un´italiana del Piemonte), io preferii viaggiare in Francia. A Parigi, precisamente, dove mi fermai un paio di mesi. Nella mia testa si annidava l´idea semplice e banale di un’Italia piena di "bulletti spocchiosi", di persone interessate esclusivamente al calcio o alle auto di ultima generazione, di gente poco affidabile e con modi di fare in stile mafioso. Insomma, uno stereotipo, una caricatura.
In fondo, lo stesso che causò in me disillusione nella "ville lumière": il mondo pieno di pensatori con la pipa che io avevo immaginato riempire le strade del quartiere latino, in realtà era costituito in maggioranza da tronfi i quali, anziché intonare i bei testi della Chanson, cantavano rap e altri ritmi in inglese. Oh, la là!

Quando arrivai in Italia, alcuni anni più tardi, finalmente scoprii, diciamo, un´altra Italia. Anzi, per essere più precisi, altre Italie: l’Italia della solidarietà, l´Italia che si preoccupa per quanto succede in Africa o in America Latina (a proposito, quante cose ho imparato della parte del mondo da dove provengo, a partire dalle varie visioni italiane sul tema!).
Quando mi trasferii definitivamente in Italia, quattro anni fa, lo feci dopo aver deciso di vivere con Franca. Ed ecco qui un altro stereotipo infranto: si emigra fondamentalmente per ragioni economiche o politiche e le altre migrazioni si dice che siano meno dolorose. In realtà sono semplicemente diverse, però non per questo meno traumatiche. La migrazione comporta sempre un abbandono e soprattutto un confronto permanente con l´altro e pertanto un processo di apprendimento per cercare di convivere con la diversità. Uno scenario nel quale, per vivere e non solo sopravvivere, è necessario lottare contro queste semplificazioni mentali che frequentemente ci creiamo noi esseri umani per (mal) intendere certe situazioni.
In questo gioco di incasellare tutto in comode etichette deformanti e di andare per le strade della vita con una specie di spada con la quale si tagliano strette definizioni (che non tengono in considerazione altri aspetti, che si dovrebbero invece considerare), ci troviamo imprigionati quasi tutti noi emigrati. E che dire di chi, senza neanche essere stato costretto a sperimentare la vita in un altro posto, considera il suo piccolo mondo come l´unico territorio possibile dell´universo?

E così, come una goccia in quell’oceano che è l’abbattere stereotipi, nasce Trópico Utópico. Poiché l´America Latina è sì musica, balli e festa, però è anche una realtà straziante che vogliamo mostrare. Per parte sua,l’Europa non è sempre l´Eden e non per tutti la vita qui è facile. I latinoamericani (e altri stranieri venuti dalle periferie del mondo) devono abbandonare i propri figli e i propri compagni di vita per lavorare spesso in case di anziani che, a loro volta, vivono in solitudine a causa del frequente abbandono affettivo da parte delle proprie famiglie. L’America Latina non è una sola, bensì sono tante e spesso sconosciute. E forse solo all´estero iniziamo a conoscere le sue molteplici facce.
Concludendo, Trópico Utópico vuole dare visibilità a questa e ad altre Americhe, che trascendono lo stereotipo dei bei fianchi in movimento, dei "caudillos" redentori, tanto idolatrati qui, ma che secondo me a volte ci fanno più male che bene. Il nostro programma vuole combattere questa battaglia contro gli stereotipi, poiché credo che, se la storia deve servirci per apprendere, non per questo deve segnarci in modo tanto definitivo.

Alvaro Duque

Bonino, Fortunato, Grananda, Duque




La carità anima della missione

22 ottobre: Giornata missionaria mondiale
Messaggio del santo padre Benedetto XVI

Cari fratelli e sorelle!

1. La Giornata Missionaria Mondiale, che celebreremo domenica 22 ottobre p.v., offre l’opportunità di riflettere quest’anno sul tema: "La carità, anima della missione". La missione se non è orientata dalla carità, se non scaturisce cioè da un profondo atto di amore divino, rischia di ridursi a mera attività filantropica e sociale.
L’amore che Dio nutre per ogni persona costituisce, infatti, il cuore dell’esperienza e dell’annunzio del vangelo, e quanti l’accolgono ne diventano a loro volta testimoni. L’amore di Dio che dà vita al mondo è l’amore che ci è stato donato in Gesù, parola di salvezza, icona perfetta della misericordia del Padre celeste.
Il messaggio salvifico si potrebbe ben sintetizzare allora nelle parole dell’evangelista Giovanni: "In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui" (1 Gv 4,9).
Il mandato di diffondere l’annunzio di questo amore fu affidato da Gesù agli apostoli dopo la sua risurrezione, e gli apostoli, interiormente trasformati il giorno della pentecoste dalla potenza dello Spirito Santo, iniziarono a rendere testimonianza al Signore morto e risorto. Da allora, la Chiesa continua questa stessa missione, che costituisce per tutti i credenti un impegno irrinunciabile e permanente.

2. Ogni comunità cristiana è chiamata, dunque, a far conoscere Dio che è Amore. Su questo mistero fondamentale della nostra fede ho voluto soffermarmi a riflettere nell’enciclica Deus caritas est. Del suo amore Dio permea l’intera creazione e la storia umana.
All’origine l’uomo uscì dalle mani del Creatore come frutto di un’iniziativa d’amore. Il peccato offuscò poi in lui l’impronta divina. Ingannati dal maligno, i progenitori Adamo ed Eva vennero meno al rapporto di fiducia con il loro Signore, cedendo alla tentazione del maligno che instillò in loro il sospetto che egli fosse un rivale e volesse limitae la libertà.
Così all’amore gratuito divino essi preferirono se stessi, persuasi di affermare in tal modo il loro libero arbitrio. La conseguenza fu che finirono per perdere l’originale felicità e assaporarono l’amarezza della tristezza del peccato e della morte.
Iddio però non li abbandonò e promise ad essi e ai loro discendenti la salvezza, preannunciando l’invio del suo Figlio unigenito, Gesù, che avrebbe rivelato, nella pienezza dei tempi, il suo amore di Padre, un amore capace di riscattare ogni umana creatura dalla schiavitù del male e della morte.
In Cristo, pertanto, ci è stata comunicata la vita immortale, la stessa vita della Trinità. Grazie a Cristo, buon Pastore che non abbandona la pecorella smarrita, è data la possibilità agli uomini di ogni tempo di entrare nella comunione con Dio, Padre misericordioso, pronto a riaccogliere in casa il figliol prodigo.
Segno sorprendente di questo amore è la croce. Nella morte in croce di Cristo, ho scritto nell’enciclica Deus caritas est, "si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo: amore, questo, nella sua forma più radicale. È lì che questa verità può essere contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l’amore.
A partire da questo sguardo, il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare" (n. 12).

3. Alla vigilia della sua passione Gesù lasciò come testamento ai discepoli, raccolti nel cenacolo per celebrare la pasqua, il "comandamento nuovo dell’amore mandatum novum": "Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri" (Gv 15,17).
L’amore fraterno che il Signore chiede ai suoi "amici" ha la sua sorgente nell’amore paterno di Dio. Osserva l’apostolo Giovanni: "Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio" (1 Gv 4,7). Dunque, per amare secondo Dio occorre vivere in lui e di lui: è Dio la prima "casa" dell’uomo e solo chi in lui dimora arde di un fuoco di divina carità in grado di "incendiare" il mondo. Non è forse questa la missione della chiesa in ogni tempo?
Non è allora difficile comprendere che l’autentica sollecitudine missionaria, primario impegno della comunità ecclesiale, è legata alla fedeltà all’amore divino, e questo vale per ogni singolo cristiano, per ogni comunità locale, per le chiese particolari e per l’intero popolo di Dio.
Proprio dalla consapevolezza di questa comune missione prende vigore la generosa disponibilità dei discepoli di Cristo a realizzare opere di promozione umana e spirituale che testimoniano, come scriveva l’amato Giovanni Paolo ii nell’enciclica Redemptoris missio, "l’anima di tutta l’attività missionaria: l’amore che è e resta il movente della missione, ed è anche l’unico criterio secondo cui tutto deve essere fatto o non fatto, cambiato o non cambiato. È il principio che deve dirigere ogni azione e il fine a cui essa deve tendere. Quando si agisce con riguardo alla carità o ispirati dalla carità, nulla è disdicevole e tutto è buono" (n. 60).
Essere missionari significa allora amare Dio con tutto se stessi sino a dare, se necessario, anche la vita per lui. Quanti sacerdoti, religiosi, religiose e laici, pure in questi nostri tempi, gli hanno reso la suprema testimonianza di amore con il martirio!
Essere missionari è chinarsi, come il buon Samaritano, sulle necessità di tutti, specialmente dei più poveri e bisognosi, perché chi ama con il cuore di Cristo non cerca il proprio interesse, ma unicamente la gloria del Padre e il bene del prossimo.
Sta qui il segreto della fecondità apostolica dell’azione missionaria, che travalica le frontiere e le culture, raggiunge i popoli e si diffonde fino agli estremi confini del mondo.

4. Cari fratelli e sorelle, la Giornata Missionaria Mondiale sia utile occasione per comprendere sempre meglio che la testimonianza dell’amore, anima della missione, concee tutti.
Servire il vangelo non va infatti considerata un’avventura solitaria, ma impegno condiviso di ogni comunità. Accanto a coloro che sono in prima linea sulle frontiere dell’evangelizzazione – e penso qui con riconoscenza ai missionari e alle missionarie – molti altri, bambini, giovani e adulti con la preghiera e la loro cooperazione in diversi modi contribuiscono alla diffusione del regno di Dio sulla terra.
L’auspicio è che questa compartecipazione cresca sempre più grazie all’apporto di tutti.
Colgo volentieri questa circostanza per manifestare la mia gratitudine alla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e alle Pontificie opere missionarie, che con dedizione cornordinano gli sforzi dispiegati in ogni parte del mondo a sostegno dell’azione di quanti sono in prima linea alle frontiere missionarie.
La Vergine Maria, che con la sua presenza presso la croce e la sua preghiera nel cenacolo ha collaborato attivamente agli inizi della missione ecclesiale, sostenga la loro azione e aiuti i credenti in Cristo ad essere sempre più capaci di vero amore, perché in un mondo spiritualmente assetato diventino sorgente di acqua viva.
Questo auspicio formulo di cuore, mentre invio a tutti la mia benedizione.

BENEDICTUS PP. XVI

Benedictus PP. XVI




Il sorriso di Geltrude

I missionari della Consolata si sono stabiliti in Uganda nel 1985, quando presero in consegna la parrocchia di Bweyogerere, alla periferia di Kampala e aprirono un centro di animazione missionaria e vocazionale. Dopo 20 anni, per diversificare questi servizi, hanno dato vita a una nuova missione a Kapeeka, in una regione rurale, teatro di guerra e violenza nei primi anni ‘80, le cui ferite sono ancora aperte nel cuore della gente.

Prima ancora che i missionari della Consolata si stabilissero in Uganda, alcuni giovani ugandesi avevano fatto richiesta di entrare nell’Istituto e furono accolti nel seminario di Langata, a Nairobi (Kenya). Da tali richieste i missionari operanti in Kenya ebbero l’ispirazione di estendere la loro presenza all’Uganda, coniugando l’attività di prima evangelizzazione con quella di animazione missionaria e vocazionale.
Dall’idea si passò ai fatti: nel 1985 i padri Luigi Barbanti e Antonio Rovelli arrivarono a Bweyogerere, una scuola-cappella della famosa parrocchia di Namugongo, la località dove un centinaio di cristiani, cattolici e anglicani, subirono il martirio.
Venti anni fa, Bweyogerere era un villaggio in aperta campagna; oggi è diventata una zona urbana, alla periferia orientale di Kampala, la capitale dell’Uganda.
Organizzata la nuova missione, si passò subito alla costruzione del centro di animazione vocazionale a Kiwanga, a tre chilometri dalla sede parrocchiale. Si tratta di un centro di accoglienza per giovani che sentono la chiamata alla vocazione religiosa come missionari della Consolata. Qui i giovani ugandesi trascorrono un anno per conoscere meglio l’Istituto e la loro vocazione, prima di passare al seminario di Nairobi per gli studi di filosofia.

ALTRO PASSO… AD GENTES

Nel 1996, quando l’immensa diocesi di Kampala fu suddivisa in 4 circoscrizioni ecclesiastiche: Bweyogerere rimase inclusa nella diocesi della capitale; Kiwanga si trovò dentro i confini di quella di Lugazi.
Fu proprio in seguito a tale divisione che mons. Cyprien Kizito Lwanga, bisognoso di preti per la sua nuova diocesi di Kasana-Luweero, scrisse al superiore regionale dei missionari della Consolata in Kenya, suggerendo di prendere in consegna la missione di Kapeeka.
La proposta venne accolta con favore dalla comunità dei missionari in Kenya. Ben presto fu firmato un contratto, in cui il vescovo s’impegnava a costruire una casa per i missionari e il superiore promise di inviare almeno due missionari.
L’offerta di questo nuovo campo di lavoro, infatti, rispondeva agli impegni presi dal loro capitolo generale del 1999: estendere la missione sempre più lontano, verso luoghi più missionari, dove poter vivere in modo più radicale il proprio carisma missionario e il servizio di consolazione. Pur continuando la missione nella periferia della capitale, ma avanzando verso un territorio rurale, totalmente differente, i missionari della Consolata sentivano di procedere nella direzione migliore.
Soprattutto, si tratta di una zona, chiamata «Luweero», che ha particolarmente sofferto per i conflitti e le violenze che si sono susseguite dopo il famigerato regime di Idi Amin. Da qui cominciò la guerra di liberazione, guidata dall’attuale presidente contro i suoi principali oppositori. Gli effetti si vedono ancora oggi: tanta gente è stata uccisa e tutte le infrastrutture sono state distrutte.
Un anno fa, per commemorare il 25° anniversario dell’inizio di tale rivoluzione, il presidente Museveni ha voluto ripercorrere quella regione e vi ha inaugurato varie costruzioni, tra le quali anche una cappella dedicata a Santa Teresa, contribuendo con una generosa offerta.
La costruzione dell’abitazione per i missionari a Kapeeka è iniziata nel 2002, ma non senza difficoltà. I mezzi finanziari del vescovo erano limitati. Nel maggio 2004, due padri, l’ugandese Leo Bagenda e il tanzaniano Edward Ololi, poterono stabilirsi in un’ala quasi terminata della casa; scavarono un pozzo e portarono l’elettricità. Con l’acqua e la corrente si poteva cominciare a lavorare.
La nuova missione si trova a un centinaio di chilometri a nord ovest della capitale. Il suo territorio si estende per un raggio di 60 km e conta circa 26 mila persone, che vivono di agricoltura e pastorizia. Le famiglie sono numerose, con tanti bambini e giovani.
Dopo la scuola elementare la maggioranza dei giovani non possono proseguire gli studi per mancanza di mezzi economici. C’è tanta povertà e ignoranza. La donna in genere vive in uno stato di sottomissione all’uomo, del tutto ignara dei propri diritti. Numerose sono le ragazze madri. I due missionari hanno subito accolto le sfide e urgenze, soprattutto nel campo economico e sanitario.

PEDALARE…

Quasi metà della popolazione della nuova missione è cattolica; un quarto appartiene ad altre chiese cristiane, in particolare anglicana e aventista. Pochi sono i musulmani.
A Kapeeka non c’è una chiesa parrocchiale, essendo stata distaccata dalla parrocchia madre di Kijaguzo; i missionari vi hanno trovato una semplice cappella; altre 20 sono disseminate su quasi tutte le colline della zona.
Padre Leo mi porta a visitae alcune e mi spiega che ognuna di esse è affidata a un laico, con l’aiuto di un catechista. Inoltre, in ogni cappella c’è una trentina di laici che fanno funzionare diversi comitati e commissioni: per la pastorale, per i giovani, per le costruzioni, per la gestione e funzionamento della vita della comunità… La maggior parte del loro lavoro missionario, quindi, si svolge nelle cappelle.
Mentre percorriamo la strada principale, costeggiata da alcune botteghe e magazzini, ci fermiamo presso il rivenditore di biciclette. «È qui che, grazie agli aiuti inviatici da una Ong d’Italia, ho comperato 26 biciclette per i catechisti della parrocchia – racconta il missionario -. Abbiamo frequenti riunioni con loro, perché la nostra evangelizzazione si fonda in gran parte sul loro servizio. Per venire alle riunioni, essi dovevano fare decine di chilometri a piedi. Le biciclette hanno facilitato molto il loro lavoro. Ne sono felicissimi».
Il padre vuole presentarmi il catechista del villaggio di Kyanya, ma non è nel suo appezzamento di terra. Ritorniamo sulla strada principale e lo incrociamo: con un amico ha cominciato a disboscare un terreno, perché gli abitanti del villaggio si lamentano che la chiesa è lontana. Hanno deciso, quindi, di sistemare una nuova cappella su quel terreno tra la strada principale e il villaggio.
Proseguendo il nostro viaggio, ci fermiamo al dispensario di Santa Teresa, gestito da tre infermiere. Una, però, è partita per partecipare a un seminario formativo; la seconda è a casa per un lutto in famiglia; c’è rimasta Patricia Namutebe, che mi fa visitare il dispensario. Non ci sono né acqua né elettricità.

E MI CHIAMARONO…
«PADRE LETTO»

Il dispensario di Santa Teresa può essere uno specchio della precarietà in cui versano la sanità e gli ospedali in molte zone dell’Uganda. Significativo al riguardo è un fatto capitato a padre Peter Ssewezi, che attualmente lavora con padre Leo, anche lui ugandese, già missionario per tre anni in Sudafrica e quattro in Kenya.
«Un giorno – racconta – mi presentai all’ospedale della città più vicina con una donna gravemente ammalata. Ricevute le prime cure, la paziente doveva essere messa a letto; ma l’unico letto di cui disponeva l’ospedale era già occupato da un anziano. Allora alcune infermiere stesero un materasso sul pavimento, vi adagiarono l’anziano e posero la donna sul letto liberato.
Ne fui indignato! Non è possibile, dissi dentro di me. Uscii dall’ospedale e mi recai in un magazzino, dove sapevo che si vendevano i letti. Nel giro di un’ora ritornai con un letto nuovo di zecca. Da quel giorno sono diventato “il padre del letto” per medici e infermieri».
In una parrocchia appena avviata, come Kapeeka, le costruzioni non mancano mai. Padre Leo mi fa visitare il cantiere dell’asilo. A Kapeeka esistono già due scuole elementari e una media statali, ma il livello d’insegnamento è molto basso. Con la scuola matea, la parrocchia spera di portare un contributo significativo all’educazione dei più piccoli.
Dopo la scuola matea, sarà la volta del dispensario e in fine si aprirà il cantiere per la costruzione della nuova chiesa parrocchiale. I missionari non si aspettano di completarla prima di quattro o cinque anni: costruire la chiesa-comunità è per loro più importante che costruire la chiesa di mattoni.
Da notare, poi, che la costruzione di Kapeeka, forse per la prima volta nella regione del Kenya, è affidata totalmente a missionari africani.

ANZIANI: SITUAZIONE
IN EVOLUZIONE

Quando, 25 anni fa, spiegavo ad alcuni africani la situazione degli anziani in Canada, come alcuni di essi venissero affidati a posti specializzati per la loro cura, immancabilmente reagivano affermando che non sarebbe mai stato possibile vedere fatti del genere in Africa, dove i legami familiari sono fortissimi. Ora, visitando l’Uganda, mi rendo conto che tale situazione si sta evolvendo in maniera rapida e inquietante.
La sorpresa inizia quando padre Leo mi sottopone un progetto per l’acquisto e l’equipaggiamento di un’ambulanza, destinata a trasportare gli ammalati, soprattutto gli anziani, nei due ospedali più vicini, distanti 30-40 km da Kapeeka.
Più della richiesta, mi stupisce ciò che vedo con i miei occhi, quando padre Leo mi accompagna in una breve visita a quattro o cinque anziani, praticamente soli e abbandonati. «Come è possibile? Dove è andata la famiglia?» gli domando. Sono curioso.
Ci fermiamo dapprima davanti a una misera capanna: tutta la parte posteriore è crollata; le travi sono divorate dalle termiti. Nel minuscolo spazio rimasto in piedi, abita un vegliardo che deve avere almeno 80 anni e si vede che è molto malato: tenta di sollevarsi per stringermi la mano, ma non ci riesce.
Arriva di corsa alle mie spalle un ragazzo di 13 anni, di ritorno da scuola: è suo nipote; è tutto ciò che restava a questo vecchio. È lui a occuparsi del nonno e a sbrigare, alla sua età, tutte le faccende domestiche. Lo vedo uscire e, a destra della capanna attizzare il fuoco, dove bolle una pentola malandata. Non oso sollevare il coperchio!
Ma dov’è il resto della famiglia? Padre Leo mi spiega che il vecchio aveva avuto alcuni figli e figlie, ma sono stati tutti uccisi durante la guerra e le violenze scoppiate dopo la caduta del regime di Idi Amin.
Mentre ci rechiamo a visitare un’altra famiglia, ci fermiamo a salutare uno dei più anziani catechisti della parrocchia, immigrato in questa zona dai tempi dei missionari d’Africa (Padri bianchi). Nonostante la sua evidente età avanzata, cammina e si avvicina alla jeep insieme alla sua sposa, tutta felice di poter salutare dei preti.

CIRCA 16 FIGLI

Il prossimo anziano si chiama Joseph Makuya; ha passato la vita nella polizia, fin dai tempi del colonialismo britannico; parla un eccellente inglese. Posso quindi fargli qualche domanda: il suo cervello è definitivamente in eccellente forma, malgrado i 78 anni suonati. Sua moglie (la seconda o la terza, non oso domandarglielo), molto più giovane di lui, si avvicina con due sedie e s’inginocchia davanti a noi, secondo il costume di queste regioni: le donne accolgono i visitatori inginocchiandosi davanti a loro.
La accompagnano tre figli, il più giovane ha 12 anni. «È vostro figlio?» domando al vecchi. «Sì, il più giovane» risponde. Di fronte alla vigoria di quest’uomo mi azzardo un’altra domanda: «A quando il prossimo?».
«Paolo è l’ultimo – risponde sorridente -. Lo abbiamo battezzato col nome di Paolo perché è nato durante l’ultima venuta in Uganda di Giovanni Paolo ii». «Quanti figli avete?». «Circa 16» risponde con un sorriso ancora più largo. «Dove sono ora?».
Joseph Makuya mi spiega che i giovani non vogliono più restare in campagna. Una volta in questa regione i colonizzatori britannici possedevano immense piantagioni di caffè, che davano impiego a centinaia di lavoratori. Poi il suo prezzo sempre più in ribasso, la concorrenza internazionale, con l’aggiunta di una malattia che divora e uccide le piante di caffè, hanno avuto per effetto di porre termine a quell’età dell’oro.
Ora, finita la scuola secondaria e anche prima, i giovani vanno nelle città del paese in cerca di lavoro. Aggiunge che una o due volte all’anno riusciva ad andare a visitarli; ma ormai, a causa di forti dolori alla schiena, gli è sempre più doloroso affrontare un viaggio di tre ore. Le persone anziane restano qui, sole.

GELTRUDE, LA VICINATA

Dall’altro lato della strada abita Geltrude. Tulle le mattine Joseph va a visitarla per avere sue notizie. Lo stesso fa al tramonto. Anch’essa è totalmente sola, ma per un’altra ragione. Era emigrata in questa zona insieme a suo marito in cerca di lavoro. La sua famiglia è a 300 km più a ovest. Dopo la morte del marito, è remasta tutta sola e il suo vicino Joseph ha cominciato a occuparsi di lei. Dovrebbe avere un paio d’anni più di lui; ma, come capita spesso in Africa, nessuno sa dire con precisione la propria data di nascita.
L’anno scorso, a causa di un uragano particolarmente violento, un grosso albero è caduto sulla capanne di Geltrude. È Joseph a raccontare l’accaduto: «Dopo quel rumore simile a un colpo di fulmine, sono uscito precipitosamente e che vedo? Il grande albero che era sul bordo della strada non c’era più. Mi faccio avanti e mi accorgo che è caduto sulla casa di Geltrude. Tutto spaventato, m’infilo tra i rami e arrivo fino alla sua capanna e vedo la donna uscire lentamente dalle rovine della sua casa, indenne, senza neppure un graffio. È un miracolo».
Mi volto e vedo che ora Geltrude abita in una modesta casa; allora Joseph mi spiega che tutti i vicini si sono messi insieme per salvare ciò che si poteva ancora salvare dalle rovine della casa schiacciata e hanno ricostruito in tutta fretta un riparo, per colei che è considerata la più anziana del villaggio.
Padre Leo cerca di comunicare con Geltrude; ma essa è diventata talmente sorda da rendere impossibile una conversazione. La salutiamo, ammirando il bel sorriso che addolcisce quel viso profondamente segnato da una storia così lunga e tanto drammatica.

di Jean Paré

Jean Paré




Angeli con un’ala rotta

Giovane dentista, cresciuto nello spirito missionario frequentando i nostri gruppi giovanili, Daniele ha deciso di spendere alcuni mesi come volontario in un ospedale del Cottolengo in Kenya, per mettere
a servizio dei più poveri la sua specializzazione professionale. Le riflessioni sulla sua esperienza insegnano che occorre poco per essere felici: basta fare felici gli altri. Provare per credere.

«Ed è subito sera». Credo sia una poesia di Quasimodo. È diventata un po’ il motivo portante di questa mia vita qui, a Chaaria. Mi accorgo di quanto sia vero proprio in questo posto, proprio adesso in cui rubo qualche minuto alla routine in ospedale per scrivere.
Non me ne sono accorto, ma quasi due mesi sono passati. Un giorno per volta, un passo dopo l’altro, mi sembra di aver fatto tanta strada e nello stesso tempo di essere fermo.
Sembra incredibile, il giorno scorre come un torrente, a volte placido, a volte come imbizzarrito. E veloce. Cavoli com’è veloce!
Dalla mia camera vedo l’alba. Ogni mattina spengo la sveglia (maledico la sveglia) e, ancora sdraiato, 6 e 20, apro le tende. Apro anche la finestra: mi piace il fresco del mattino, mi aiuta a svegliarmi. È tutto tranquillamente in ombra, le vacche dormono, il bananeto non si muove. E di colpo esce fra le foglie di banana un disco arancione.
Sembra che quella palla rossa, enorme, sia lì apposta per me, a guardarmi in faccia per dirmi che sono vivo, e se mi sbrigo a saltare fuori dalle lenzuola è meglio. Non capisco cosa ci sia di diverso nel cielo; è come se fosse pronto a piombarti sulla testa, è come se fosse piegato ad abbracciarti. Probabilmente sarà per la diversa curvatura della terra all’equatore. Non mi interessa. Mi piace pensare che sia Dio che stringe al petto con amore i suoi figli prediletti: i miserabili, i sofferenti che abitano qui. E che sono quelli che ama di più, non perché sono più buoni, ma perché sono poveri.
Così comincia un’altra giornata. La messa come prima cosa. Per dare energia, per trovare un motivo per tutto quello che ci circonda. O almeno dovrebbe essere. In realtà ho talmente sonno, che tante volte riprendo conoscenza quando qualcuno seduto vicino a me mi scrolla per darmi il segno della pace.
Di lì in poi si comincia a correre. Perché, ha detto Madre Teresa, «non sia mai che qualcuno venga da voi e non se ne vada migliore di com’era quando è venuto, più felice». Questo cerco di propormi ogni mattina. Spesso non ci riesco.

È difficile spiegare Chaaria. Perché è difficile spiegare i sentimenti a parole. E i sentimenti sono forti; e sono in contrasto fra di loro. Sono occhi, grida, sorrisi, lacrime. Sono volti, nomi, odori.
Chaaria è Glory: non sa perché, ma a 12 anni ha un tumore. Troppi soldi per operarsi. Maledetti soldi. Sempre loro. Troppo tardi per cercare una soluzione. C’è un angelo in più, adesso, in cielo. Un angelo troppo piccolo per capire, troppo lontano adesso dal suo papà che piange.
Chaaria è Susan: non ha fatto niente di male. Ha l’Aids. Senza colpa. Semplicemente, è nata dove non doveva. Susan sorrideva, sempre, mi salutava con la mano sinistra. Mi ha anche ringraziato perché le ho tolto un dente che le faceva male.
Non è una bambina, è un fiore, dolce come un bacio. Mi sorrideva anche la sera se passavo a toccarle una mano. Ma è fragile, Susan. Troppo il peso della sofferenza sulle sue ossa leggere.
Susan è una fiammella che si allontana sempre più. Susan è un angelo con un’ala rotta, è scesa per farci capire quale preziosa meraviglia sia la vita.

Stasera, proprio mentre scappavo dall’ospedale per venire a scrivere, si sentiva da una radio quella canzone, di non so più chi, che dice «… but if God was one of us…». Già, se Dio fosse uno di noi, cosa gli direi…
Lo ringrazierei per l’alba, i fiori del frangipane, gli alberi di banana, i mango. Per la risata di Makena, le gambe di Kanana, il sorriso di Beppe, la voce di Lorenzo. Perché respiro. Forse ci litigherei. Gli urlerei in faccia. Come Vecchioni che canta: «Ora facciamo due conti io e te, Signore!». Perché non fai qualcosa?
In questa mia fede traballante mi convinco sempre più che, se Dio c’è, è qui, con i poveri, con quelli che soffrono. Non fa quello che vorrei io. Non è un Dio prestigiatore, che fa i miracolini per far vedere che può. È un Dio che sta con gli ultimi. Anzi, sta proprio in fondo alla fila. Lui era lì. Con Glory. A tenerle la mano, in silenzio. Lo so.

Certo, la rabbia a volte è tanta. Non so se la notizia sia arrivata in Italia, ma qui la scarsa stagione delle piogge ha portato la carestia. Giustamente, persone di buon cuore si sono attivate per portare sollievo a una popolazione sofferente. Così una dolce vecchietta neozelandese, amministratore delegato di una multinazionale che produce alimenti per animali, ha offerto in dono diversi quintali di mangime per cani, «per alleviare la fame dei bambini del nord del Kenya». Complimenti! È grazie a iniziative costruttive come questa che Beppe Grillo può mantenere attivo il suo blog.
L’Undp (United Nations Development Programme) ha calcolato che basterebbero 40 miliardi di dollari, lo 0,1% del prodotto interno lordo mondiale, per garantire a tutti, in tutto il mondo, i servizi sociali di base. Ogni anno spendiamo circa 1.000 miliardi di dollari in armi, quasi 500 in pubblicità, 50 in sigarette, 11 in gelati. E circa 20 in cibo per animali. Guardando tutto da quaggiù, non mi sento per niente fiero di essere un abitante di questo pianeta.
Ma non vorrei che con tutto questo mi pensaste triste o scoraggiato. L’unica cosa è che ho tanto sonno. Ma sento verissimo quello che dice Frei Betto: «Nella vita per essere felici serve solo un po’ di pane, del buon vino e un grande amore». La vita semplice, come dice Gesù: beati, sì, beati i cuori semplici. È la semplicità che fa scoprire una libertà interiore.
È di questa libertà del cuore che, credo, tutti abbiamo sete. Una mia grande amica mi ha detto una volta che i poveri sono una straordinaria ricchezza. Credo sia vero.
E poi non ci sono solo Glory e Susan. Solo che spesso spendo più tempo a pensare alle ombre che alle luci. Capita anche a voi?
Vorrei raccontarvi di William, che lavorando si è distrutto una mano. Con Gian l’abbiamo ricostruita, e ho visto ieri che riesce di nuovo a muovere il pollice.
Potrei raccontarvi di Kangai, che ha partorito, dopo un bruttissimo intervento, una bimba che sarà una fotomodella o almeno un premio Nobel. La settimana scorsa è andata a casa, mi ha salutato con quel suo orrendo sorriso sdentato, bellissimo.
O di Isidoro, uno dei nostri «buoni figli», un dolce vecchietto di 5 anni che non dimostra per niente i suoi 60; che salta di gioia quando lo portiamo in macchina a bere una cocacola in «città»; che mi ferma per mostrarmi orgoglioso la sua tartaruga che ha chiamato Brother Moris.
Ma non c’è più tempo, vi parlerò ancora di loro. Adesso è tardi, devo tornare in ospedale. Poi bere una birra e poi andare a dormire. Magari dopo avee cantate un paio con Andrea. Canzonacce da osteria o canzoni d’amore, con la chitarra. Come se fossimo da sempre in vacanza.

Ho sentito in un film una frase dura, che mi ha colpito. Diceva circa così: faranno vedere tutte queste cose al telegiornale, la gente dirà «che vergogna». Poi prenderà in mano la forchetta e ricomincerà a mangiare cena. Forse è proprio così.
Ma non dobbiamo rassegnarci. Non dobbiamo abituarci. Si può cambiare. «Il sole nasce anche d’inverno. La notte non esiste: guarda la luna» diceva una canzone qualche anno fa. Il mondo può cambiare.
Siamo noi che possiamo cambiarlo. Noi, tutti insieme. Un pezzo alla volta. Non so se il Signore mi ha voluto qui per cambiare il mio pezzettino. Credo che ci proverò. Di sicuro sono felice.

Di Daniele Pecorari

Daniele Pecorari




Ebrei del borgo rosso

Inviati dagli imperatori persiani, fin dal secolo vi,
a popolare le regioni orientali del Caucaso, gli ebrei si erano integrati negli usi e costumi degli altri abitanti, che i russi, arrivati all’inizio del xix secolo, chiamarono «ebrei della montagna». La fine del regime sovietico e libero mercato hanno rinfocolato la loro intraprendenza. Ma rimangono soggetti a paure e diffidenze, soprattutto da parte degli azeri musulmani, rimasti economicamente al palo.

Un tempo dovevano avere lo stesso aspetto dimesso i due insediamenti sulla riva destra e su quella sinistra del fiume. Il primo si chiama Quba, ed è abitato da azeri, l’altro Krasnaja Sloboda, ed è abitato da ebrei.
Sono arrivata a Quba in un sonnolento pomeriggio di sabato. Per strada pochi passanti e ancora meno macchine. Ho cercato invano un luogo di ritrovo, una piazza centrale dove ci fosse un po’ d’animazione. Non ho visto che case basse, a un piano, massimo due, per lo più in cattivo stato, e vie silenziose. Tanto valeva andare subito dall’altra parte del fiume, a Krasnaja Sloboda: quella era la meta, il vero motivo per cui ero giunta fin lì, a quattro ore di autobus da Baku.
La cittadina azera, difatti, non presenta particolari motivi di attrazione, ma un paese abitato esclusivamente da ebrei in un territorio musulmano e turco, ebbene, quella è cosa più unica che rara. Così ho attraversato il piccolo parco cittadino e sono scesa per l’ampia scalinata, costeggiata da statue argentee di atleti e atlete palestrati – un commovente kitsch sovietico – che porta al ponte pedonale di collegamento tra le due sponde del fiume.
Prima ancora che mi si spalancasse alla vista, tuttavia, ho avuto del luogo dove ero diretta una percezione sonora. Da dietro gli alberi del parco ho sentito a un certo punto un diffuso picchiar di martelli provenire proprio da quella parte. Lo sguardo, invece, è stato subito attratto dalla mole squadrata di un edificio che, primo ad accogliere il pedone al di là del ponte, con le sue sgraziate dimensioni nasconde alla vista un bel pezzo di paese.
Una volta lasciatolo alle spalle, mi sono trovata all’imbocco della strada principale del paese e ho finalmente scoperto perché i martelli non cessavano di picchiare. L’intera via era costellata di cantieri; ad una ad una le modeste case a un piano vengono sostituite da palazzine di due, tre piani, dall’aspetto solido e pretenzioso, tutte coicioni, architravi, colonnine e torrette. Ne ho subito riconosciuto lo stile: quello dei nuovi palazzi di Mosca, che l’occhio vede crescere in grandezza e numero senza mai abituarsi; uno stile che pare voler dire: «Guardatemi, quanto sono potente e quanto valgo».
Ma qui perché questa ostentazione d’arte architettonica?

Qui vive la più grande comunità di «ebrei di montagna»: così furono chiamati dai russi questi ebrei, che parlano un dialetto persiano e che nelle abitudini e nell’aspetto non si distinguono in nulla dagli altri abitatori del Caucaso. Sulla loro origine circolano le ipotesi più disparate, alcune decisamente leggendarie, come quella che vi vedrebbe le perdute tribù d’Israele, o l’altra che li farebbe un resto del popolo turco dei khazari, che occuparono il Daghestan nei secoli vi-x e che avevano il giudaismo come religione di stato.
Secondo un’altra tradizione sarebbero un ramo degli ebrei di Babilonia. Tuttavia, l’ipotesi più accreditata è che siano i discendenti degli ebrei persiani, mandati dai Sasanidi nel vi secolo a popolare il Caucaso orientale, estrema periferia del loro impero e regione di grande importanza strategica. Quel primo nucleo avrebbe poi raccolto nel corso dei secoli flussi migratori di ebrei provenienti sempre dalla Persia, soprattutto dalla regione caspica del Gilan, e da altre parti del Caucaso.
Non si sa quante migliaia di «ebrei di montagna» vivessero nel territorio degli attuali Azerbaigian e Daghestan, quando i russi vi arrivarono all’inizio del xix secolo. Un volonteroso ricercatore ne contò circa 21 mila nel 1888, di cui 6 mila solo a Evrejskaja Sloboda, il Borgo Ebraico, diventato Rosso, Krasnaja, dopo la rivoluzione del 1917.
Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso erano, secondo stime approssimative, 50-52 mila. Con la perestrojka, però, molti cominciarono a trasferirsi in Israele, in America, o in Germania. Ve ne sono tuttora dei nuclei a Mosca e in altre città della Russia e c’è anche una grossa comunità a Baku.
Con la fine dell’Urss e l’introduzione del libero mercato, hanno avuto modo di manifestare appieno il proprio spirito imprenditoriale, si sono dati al commercio su larga scala; e le cose devono andare abbastanza bene, a giudicare dalle palazzine che stanno sorgendo nel «Borgo Rosso».

Nonostante l’alacre attività che si sospettava nei cantieri, sebbene fosse sabato, giorno del riposo (che fossero muratori azeri?), per strada di passanti ce n’erano pochi; così per scambiare due parole ho pensato di andare alla chaikhane, dove gli uomini si trovano a bere il tè, chai, a fumare, o a giocare a nardi, una sorta di dama mediorientale.
Gli avventori erano per lo più signori anziani; uno di loro, che nel frattempo aveva fatto arrivare al mio tavolo una teiera bollente, mi ha spiegato che tanti giovani del paese sono in giro per il mondo; i suoi figli, ad esempio, vivono a New York, lui, però, non ha nessuna voglia di lasciare la sua casa per raggiungerli.
Eravamo ormai al tramonto, ma nessuno degli avventori pareva intenzionato ad andare alla funzione del sabato sera; io, invece, avrei voluto assistervi, così ho chiesto al mio ospite di indicarmi la strada per la sinagoga.
L’ho visto imbarazzato. «Nel Borgo ce ne sono sette, mi ha spiegato, ma solo una è aperta e non la più interessante». Ci potevo andare, naturalmente, ma poi mi consigliava di fare un salto a una delle due feste di matrimonio che si preparavano per la serata. Come straniera avrei dovuto considerarmi invitata. Sarebbero state feste ricche, con molti invitati provenienti da ogni parte e cantanti azeri fatti venire apposta da Baku. Era chiaro che, a suo avviso, quella parte della serata sarebbe stata per me di maggiore interesse.
Mentre seguivo le indicazioni per l’unica sinagoga aperta, sono riuscita a individuae altre due, alquanto decrepite. Un tempo a Krasnaja Sloboda le sinagoghe erano 11 – ogni quartiere ne aveva almeno una – tanto da meritare al paese l’appellativo di «Gerusalemme del Caucaso». Poi erano venuti gli anni dell’ateismo di stato: qualche sinagoga fu abbattuta, le altre andarono in rovina o furono adibite ad altri usi. Ora, con la libertà di culto e la nuova prosperità economica della comunità, le cose sono migliorate e si è provveduto a restaurae qualcuna. Gli ebrei del Borgo, tuttavia, non sembrano brillare per zelo religioso.

Davanti alla sinagoga ho trovato solo un gruppetto di uomini in attesa della funzione. Io ero l’unica donna. Siccome alle donne non è consentito pregare assieme agli uomini, per farle in qualche modo partecipare alla funzione la fantasia degli architetti locali ha escogitato un sistema ingegnoso: la stanza loro riservata ha una finestra che dà su un corridoio di separazione, proprio in corrispondenza di un’altra finestra che dà sul locale principale. Grazie a questo gioco di finestre le donne possono seguire la preghiera.
Mi è stato detto che mi sarei potuta fermare nel corridoio, così da vedere meglio. Ne ho approfittato per guardare alcune fotografie lì appese, che documentavano i buoni rapporti della comunità con le autorità azerbaigiane: visite ufficiali di alti funzionari di Baku alla sinagoga e, viceversa, di notabili ebrei ai funzionari di Baku.
Al calar del sole i fedeli sono entrati, togliendosi le scarpe come in una moschea, e la funzione ha avuto inizio. Dal mio punto d’osservazione ho visto gli uomini muoversi al canto della preghiera, passarsi il Libro per leggerlo a tuo, e inchinarsi ai rotoli della Torah, esposti a occidente.
È per questo motivo, oltre che per le differenze nel rito e nelle parole delle preghiere, che quando gli ebrei europei cominciarono ad arrivare nel Caucaso, a seguito della conquista russa, non si mischiarono ai loro fratelli «di montagna», ma si costruirono sinagoghe separate.
Nel quartiere ebraico di Baku i templi delle due comunità si trovano in due vie adiacenti, orientati rigorosamente in direzioni opposte. Il diverso orientamento fa memoria delle diverse direzioni prese dalla diaspora ebraica. Coloro che andarono a occidente rivolsero le loro sinagoghe a est, dove avevano lasciato Gerusalemme, e il contrario fecero coloro che andarono a oriente.
Tra le due comunità non c’era molta simpatia. Gli «europei» snobbavano i «montanari», che quasi non si distinguevano tra la massa degli «incolti asiatici»; questi ricambiavano la diffidenza dei correligionari europei e sembravano trovarsi più a loro agio con i vicini musulmani, con i quali, fuorché la fede, condividevano tutto, perfino l’architettura dei loro luoghi di culto.
Me ne sarei resa conto il giorno dopo andando a spasso per Quba. Per un attimo, nel passare accanto a una moschea di quartiere, ho creduto di aver trovato un’altra sinagoga: la stessa forma a casetta bassa, la stessa torretta sul cucuzzolo. Solo che, a ben guardare, al posto della stella di David, appariva una discreta mezzaluna.

Quando sono uscita dalla sinagoga già imbruniva. Ora in strada c’era animazione. Il martellare era cessato, in compenso si sentivano le note di un’orchestra.
Mi sono ricordata dei due ricchi matrimoni e anche, chissà perché, che non avevo pranzato. Avevo una gran voglia di mettere qualcosa sotto i denti, ma, con i due banchetti di nozze in pieno svolgimento nei due unici ristoranti del paese, non sarebbe stata cosa facile.
Sono tornata un po’ delusa verso il ponte e mi si è nuovamente parato davanti lo sgraziato edificio che avevo notato all’inizio. Era uno dei ristoranti. Al primo piano, dietro il parapetto dell’enorme terrazza coperta, si vedeva un pullulare di teste, in un angolo s’intuiva la presenza dei musicisti, davanti a loro emergevano i mezzibusti dei cantanti.
Non mi aveva un signore per strada appena confermato che avrei dovuto considerarmi invitata alla festa? Così ho fatto un timido tentativo di avvicinarmi alle scale, ma l’ingresso era guardato da due solidi ragazzotti in giacca e cravatta, che non avevano un’aria incoraggiante.
Lì, sul ponte, tra gli sfaccendati venuti a guardare da lontano la festa, ho riconosciuto alcuni ragazzi che avevo visto in sinagoga. Sono stati loro a ridarmi speranza. Esattamente dall’altro capo del ponte, nascosto tra il verde della riva c’era un ristorantino. Si sono offerti di accompagnarmi, perché conoscevano bene il padrone, un azero piccolo e mite, e gli avrebbero detto di trattarmi bene. Nell’attesa che arrivasse la mia cena si sono trattenuti a chiacchierare con me, poi si sono dileguati, nonostante il mio invito a restare. Non volevano disturbarmi mentre mangiavo.

Rimasta sola, mi sono messa a riflettere sul caso singolare di quelle due comunità che da secoli si guardano da una sponda all’altra del fiume. Come in tutto il mondo islamico, anche nel Caucaso gli ebrei non avevano gli stessi diritti dei musulmani, erano soggetti a maggiori obblighi e tasse.
Tuttavia, la loro posizione era qui migliore che altrove. Veniva loro perfino riconosciuto il diritto di portare il pugnale, accessorio indispensabile dell’abbigliamento di un montanaro. Il pugnale nel Caucaso non era solo un’arma, aveva anche un valore simbolico, perché era lo strumento con cui si stipulava un patto di sangue tra due membri di clan diversi; in questo modo si diventava fratelli per elezione, pur non essendolo per nascita, e ci si impegnava a comportarsi in tutto e per tutto come i figli di un’unica madre. Ci furono casi in cui un simile patto unì musulmani ed ebrei. Ma ciò avvenivano soprattutto nei villaggi sparsi tra i monti.
A Evrejskaja Sloboda, ai piedi delle montagne, il rapporto con i vicini turchi era, invece, piuttosto freddo. Gli ebrei avevano potuto insediarsi in quel luogo solo per volere del Khan di Quba, che intorno al 1730 aveva loro concesso un lembo di terra su cui costruirvi il villaggio. Non avevano diritto di occupare i terreni circostanti, motivo per cui, con l’arrivo di nuove famiglie e il crescere della comunità, le case si erano sempre più infittite.
Raramente gli ebrei si arrischiavano ad andare sulla riva opposta, per paura di essere aggrediti o derubati. È significativo che il ponte sia stato costruito solo nell’Ottocento e che, anche in seguito, il traffico tra le due sponde fosse minimo.
Ora, però, i destini delle due comunità sembravano invertirsi: grazie alle doti nel commercio dimostrate dai suoi abitanti, Krasnaja Sloboda prosperava, le case crescevano in altezza, la via principale era appena stata riasfaltata, e le numerose auto vi correvano senza fare la gimcana tra le buche, o sobbalzare sui grossolani rattoppi del fondo stradale.
Speriamo, mi dicevo, che tutta quella mostra di ricchezza non susciti cattivi sentimenti nei vicini azeri, evidentemente non così abili nell’adattarsi ai nuovi tempi.
In Azerbaigian la ricchezza che viene dal petrolio si vede solo in centro a Baku, non arriva neanche alla periferia della capitale, figuriamoci a Quba. Qui, non diversamente che in tante altre parti dell’ex Urss, bisogna conoscere l’arte di arrangiarsi, oppure avere parenti all’estero che mandano di tanto in tanto un po’ di valuta pregiata. Se non si hanno né l’uno, né gli altri, la vita è grama. Speriamo, dunque, che la miseria non sia cattiva consigliera.
Questo pensavo, mentre le note delle canzoni azere mi giungevano da oltre il fiume, così come qualche ora prima il picchiettio dei martelli.

di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




«Il matrimonio? Meglio combinato!»

Pensi di trovare il fatidico «velo». Invece la maggioranza delle ragazze sono truccate e vestono all’occidentale. I fidanzati girano mano nella mano, cosa impensabile in altri paesi arabi. I problemi poi sono gli stessi dei giovani occidentali, innanzitutto il lavoro che non c’è. Dipinto di un Marocco che non t’aspetti.

Da Marrakech a Rabat, da Rabat a Tangeri. Sana’a viaggia con il padre, un imprenditore, sul treno che da Marrakech la sta portando a Rabat, dove abita. Ha diciassette anni e frequenterà l’ultima classe del liceo (che dura soltanto 3 anni, dopo i 9 della scuola dell’obbligo): è bellissima nel suo viso ovale dal profilo regolare e dai grandi occhi neri. Vestita con pantaloni aderenti, camicetta sbracciata, scollata e stretta, capelli sciolti, sandali da spiaggia con infradito, chiacchiera allegra con l’amica che li ha accompagnati nella settimana di vacanze nel caos della più famosa delle città marocchine. «Dopo le superiori farò l’università, la facoltà di lingue forse. In famiglia abbiamo studiato tutti».
«E il matrimonio?», domandiamo. Arrossisce, a dimostrazione che, nonostante la moda e i veloci cambiamenti, certi argomenti rimangono nella sfera del privato e del pudore: «Più in là». «Ma esistono ancora quelli combinati?», insistiamo. A questo punto interviene il padre, simpatico, cordiale, ma protettivo: «Certo, e sono una grande istituzione. Solo le madri conoscono bene i propri figli e possono capire quale partner è più indicato per il successo della vita comune. Mia figlia maggiore si è sposata con un matrimonio combinato: le due mamme si sono accordate nel presentare i due ragazzi, che si sono piaciuti e che, dopo qualche settimana, hanno deciso di sposarsi. È una bella coppia, felice».

Tangeri. Alcuni ragazzi sorseggiano bibite e tè alla menta seduti ai tavolini di un bar, in Avenue d’Espagne, a ridosso delle mura della caotica e affascinante medina. Sedie allineate una a fianco all’altra verso la strada, come è d’uso in Marocco, chiacchierano e ridono. Ciò che colpisce subito è l’abbigliamento: sono vestiti alla moda, in jeans e magliette firmate (Nike, Calvin Klein, Versace, Diesel, ecc.). Indossano cappellini da baseball e occhiali scuri molto fashion. Non appartengono a famiglie facoltose – frequenterebbero altre zone della città meno popolari di questa – ma, come molti della loro età, sono attenti alla moda, soprattutto occidentale, e investono i soldi di qualche lavoretto o dei regali in abiti o oggetti del consumismo made in Usa o in Europe. Non sembrano affatto diversi dai ragazzi delle nostre città italiane: oltre ai commenti divertiti o curiosi sui turisti che sfilano davanti a loro, i discorsi ruotano intorno a scuola, lavoro, divertimenti. Questo, almeno, per i più fortunati, coloro che non sono stati costretti a svolgere umili mansioni subito dopo o, in certe aree più arretrate, al posto delle scuole primarie.
Le ragazze, in giro, non sono da meno: magliette attillate che si fermano all’ombelico, jeans o gonnelloni a vita bassa, scarpe a punta e con tacchi alti, piercing, capelli colorati o con la piega appena uscita dal coiffeur, trucco marcato su occhi e labbra, aria sicura e provocante. Decollété, miniabiti e così via: nel bene e nel male, un altro mondo rispetto alle comunità islamiche d’Europa, che si dibattono su «velo sì, velo no» e sulla sua lunghezza. Non che da noi manchino le ragazze musulmane dall’abbigliamento moderno e sportivo. È solo che qui in Marocco sono la maggioranza!
Anche le abitudini musicali e il divertimento sono simili: dalla techno al rap, dal rock arabo alle «contaminazioni» musicali, dal raï ai cantanti più in voga negli Stati Uniti o in Europa e alla musica latino-americana, i maghrebini amano ballare e cantare, dai più piccoli ai più grandi, dalle città al deserto. I grandi centri urbani offrono discoteche e divertimenti d’ogni sorta destinati ai turisti e alla popolazione che può permetterseli. L’hashish è una presenza costante e diffusissima in quasi tutto il Marocco, ma anche le colle, che vengono sniffate quasi pubblicamente da bambini e adulti nei quartieri più poveri e degradati delle metropoli.
Per molti teenagers (e oltre) marocchini, certe tradizioni sono una noia da cui liberarsi al più presto. Anche nei rapporti di coppia sono un po’ più «disinibiti» di qualche tempo fa: vanno in giro a braccetto o mano nella mano, si guardano negli occhi con tenerezza, si abbracciano. Un gran bel balzo in avanti se paragonato a paesi come l’Egitto, dove i fidanzatini non s’azzardano neanche a sfiorarsi e camminano ben separati, e dove una coccola in pubblico può costare cara.
Nonostante il perdurare dei matrimoni combinati – sia all’interno del clan familiare sia nella cerchia di amici e conoscenti dei genitori -, i giovani stanno cercando con sempre più determinazione di acquisire libertà ormai garantite ai loro coetanei occidentali. Sono tante, infatti, le coppiette formatesi tra i banchi di scuola o all’università, o in discoteca o nelle compagnie di amici. E anche nelle chat-line, usatissime dai quindici-trentenni.

Ouarzazate. La città, a ridosso delle montagne dell’Alto Atlante e alle porte delle spettacolari valli del Drâa e di Dadès, è chiamata la «Hollywood del Deserto»: è infatti diventata un importante centro di produzione cinematografica. Nei suoi studios hanno girato molti colossal, tra cui il recente Alexander.
Hakim, 24 anni e una laurea in legge conseguita un paio di anni fa, lavora con il padre negli «Atlas corporation studios» come aiuto scenografo.
Look sportivo e aria simpatica, racconta delle difficoltà che un giovane marocchino, con un ottimo curriculum scolastico, incontra nell’inserimento professionale:
«I posti pubblici, molto ambiti, sono saturi. Siamo tantissimi, ormai, a possedere titoli di studio elevati, e il mercato del lavoro non offre grandi possibilità. Come in altri paesi del Mediterraneo, qui vale la regola delle amicizie influenti. Chi non trova l’occupazione giusta, quella per cui ha investito anni di studio, e soldi, si deprime. Tanti miei coetanei si trovano in questa situazione e sognano di andare lontano, in America o in Europa. Ma io non lo ritengo giusto: si deve lottare e vincere là dove si vive. Eppoi, lo stile di vita frenetico, stressato dell’Occidente non mi interessa. Comunque, mi ritengo fortunato: non esercito la professione di giurista, ma faccio un bellissimo mestiere, creativo e a contatto con registi, attori, persone di tutto il mondo. Guadagno bene e ho molto tempo libero a disposizione per gli amici, le letture e per girare il paese».

Hakim è fortunato. La vita dei ragazzi marocchini può cambiare radicalmente a seconda delle zone e, ovviamente, del livello economico e sociale di appartenenza: nei monti dell’Alto Atlante, nelle meravigliose oasi che si dischiudono dopo centinaia di chilometri di paesaggi aridi o desertici, i ragazzi sono più vincolati ad abbigliamenti e tradizioni locali e la povertà impone loro un ingresso precoce nel mondo del lavoro.
Tuttavia, se non ci si ferma all’apparente spensieratezza e cordialità che caratterizza il Paese, si scoprirà che la situazione sociale è complessa e dura. La disoccupazione imperversa su diplomati, laureati e incolti. Su tutti coloro che non abbiano risorse familiari o amicizie da spendere per trovare un buon posto di lavoro, magari governativo, o per aprire attività autonome. Sono tantissimi i giovani con ottimo curriculum scolastico o universitario che brancolano nel buio di un futuro senza prospettive che li relega in mestieri umili, manuali, mal pagati. Molti cadono nella depressione e nell’uso delle droghe o dell’alcornol (acquistato clandestinamente). Prostituzione, spaccio e tratta degli esseri umani attraverso il mercato dei clandestini, costituiscono l’unica risorsa per gli strati più disperati, soprattutto lungo la costa mediterranea, e una grande ricchezza per i racket mafiosi, locali e inteazionali.
Le riforme sociali stanno attraversando il paese, mutando realtà che sembravano etee.
I giovani marocchini aspettano il loro tuo.

Di angela Lano


LIBRI, FILM, SITI INTERNET

Libri:
«Il pane nudo», Mohammed Choukri, edizioni Theoria, Milano 1993
«Soco Chico», Mohammed Choukri, edizioni Jouvence, Roma 1997
«Gli straordinari viaggi di Ibn Battuta», Ross E. Dunn, Garzanti, Roma 1993
«La terrazza proibita. Vita nell’harem», Fatima Meissi, Giunti editore, Firenze 1996
«I ragazzi dei vicoli», Abdelhak Serhane, edizioni Theoria, Roma 1992
«Favole del deserto», a cura di Ettore Fasolini, Emi editrice, Bologna 1995
«Onze histornires marocaines», a cura di Mohammed Saad Eddine El Yamani, Institut du Monde Arabe, Paris 1999
«Il tè nel deserto», Paul Bowles, Garzanti, Milano 2003

Film:

«Hideous Kinky – Un treno per Marrakech», di Gillies Mackinnon (1998)
«Door to the sky», di Farida Ben Lyzaid (1989)
«Le coiffeur du quartier des pauvres», di Mohammed Reggab (1985)
«Casablanca», di Michael Curtiz (1942)

Siti:

· www.al-bab.com/maroc
Sito che offre collegamenti dove trovare notizie di varia utilità.
· www.maghrebarts.ma
Si trovano informazioni su cinema, musica, teatro, spettacoli, feste, ecc.
· www.mincom.gov.ma
Sito governativo dove trovare informazioni su molti aspetti della vita sociale, politica e culturale del Marocco.
www.cia.gov/cia/publications/factbook/geos/mo.html Sito della Cia e contiene una dettagliata descrizione del Marocco.

Angela Lano




Tanti «saponi» per un sogno

Paulina e Paola hanno la stessa età e il tesoro di una grande amicizia, nata per le strade di Madrid.
Paulina, ecuadoriana, venuta in Spagna in cerca di lavoro, ha una storia nel cassetto e la voglia di narrarla: la sua storia di emigrata.
Paola, italiana, ama chi si racconta e pensa che la vita della gente ha sempre molto da insegnare. La storia di Paulina rispecchia situazioni, problemi e sentimenti di ogni migrante, con la nostalgia di ciò che ha lasciato e un futuro da inventare.

A maggio ho compiuto sei anni da quando ho lasciato la mia patria, la mia famiglia, gli amici, il lavoro… tutto; non con il fine di conseguire il «sogno europeo», ma obbligata dalle difficili circostanze della mia famiglia, dovute alla crisi economica e politica che attanaglia l’Ecuador.
Sono arrivata in Spagna, il «paese dell’accoglienza», con paura, incertezza e tanta voglia di lavorare. Nella valigia portavo con me anche briciole di speranza, fiducia, innocenza e volontà. Inoltre, non mi mancava il desiderio di farcela.
Appena l’aereo toccò terra, il mio cuore iniziò a battere all’impazzata; ero nervosa perché temevo che qualche poliziotto dell’immigrazione potesse fermarmi e iniziare a fare domande. Grazie a Dio varcai la porta di uscita senza problemi e tirai un grande sospiro di sollievo.

DUE MONDI ALLO SPECCHIO

Presi la metropolitana e poi il pullman, per raggiungere un paese vicino a Madrid, dove sarei stata ospite di una figlia di amici di mio padre. Il percorso per arrivare nella mia nuova casa mi sembrò eterno: non pensavo che Madrid fosse così grande. La paura mi ha accompagnato per molto tempo; temevo che la polizia, o chi per essa, avrebbe potuto fermarmi per strada in qualsiasi momento, chiedendomi di esibire documenti e permessi di soggiorno e di lavoro. Ogni volta che scorgevo una qualsiasi uniforme cambiavo di marciapiede. Per questo motivo uscivo poco di casa e, quando lo facevo, ero sempre accompagnata dalla mia amica con il suo figlio più piccolo.
Per prima cosa ho dovuto imparare a gestire i mezzi di trasporto: fermate fisse, orari fissi, divieti di sovraccarico di gente: tutte cose inesistenti nei servizi di trasporto ecuadoriani. Per non parlare della metropolitana, le cui mappe rappresentavano per me soltanto un intreccio di linee colorate, zeppe di simboli di cui non conoscevo il significato.
Ben presto ho scoperto che l’affitto in questa città è molto caro; per questo la mia amica, i suoi figli e io abitavamo tutti in una stanza. L’altro locale del mini appartamento era affittato da un’altra coppia di immigrati. Tutto era in comune; ognuno aveva il suo spazio riservato nel frigo, nella dispensa e ciascuno si arrangiava nel preparare i propri pasti.
Quante volte, incontrandomi con altri immigrati, ho dovuto ascoltare storie sulla difficoltà di vivere ammucchiati, dormire per terra e dover pagare anche per un bicchiere di acqua! In alcuni casi erano proprio i nostri connazionali ad approfittarsi della situazione di bisogno, anche se va detto, questo non è stato il mio caso.
Il fatto di condividere in più famiglie uno stesso alloggio rappresenta una vera avventura: da una parte si ha la possibilità di conoscere persone diverse, con le loro abitudini ed esperienze, di non sentirsi troppo soli. Si perde però la propria intimità, non si ha uno spazio personale; non si riesce a riposare bene e quello che al principio può sembrare un’ avventura persino divertente si converte ben presto in seri problemi di convivenza. Questo tipo di co-abitazione «forzata» mi ha aiutata a vincere la solitudine, ma nello stesso tempo ha fatto emergere la nostalgia per le relazioni che sono state recise nel momento in cui ho dovuto lasciare l’Ecuador per venire a vivere qui.
Insomma, i primi tempi mi sentivo come una pecorella smarrita; non riuscivo neppure a entrare in sintonia con una comunità parrocchiale. Entravo e uscivo da una e dall’altra chiesa, tentando ogni volta di risollevare il mio spirito e cercando di incontrare nelle celebrazioni una qualche somiglianza con quelle che vivevo in Ecuador.
Sono rimasta sorpresa nel vedere così poche persone (per la maggior parte anziane) partecipare alla messa. La liturgia mancava di animazione e il ricordo della mia parrocchia d’origine mi riempiva di tristezza; più di una volta mi sono messa a piangere. Dovettero passare tre anni prima che potessi ritornare finalmente all’«ovile»: adesso faccio parte di una comunità cristiana che vive e celebra cercando di riscattare le tradizioni della chiesa latinoamericana, partecipando anche della ricchezza di quelle della Spagna.

I PRIMI PASSI

Avevo voglia di lavorare e mi misi subito alla ricerca di un impiego; iniziai a pubblicare annunci di lavoro in un quotidiano della capitale. Fermate di mezzi pubblici, centri commerciali e consultori si trasformarono in altrettanti punti di riferimento per lasciare bigliettini che dicevano: «Ragazza seria e responsabile si offre per lavorare come balia, badante o persona delle pulizie».
Ai colloqui di lavoro andavo sempre accompagnata dalla mia amica, che mi elargiva consigli per l’eventuale impiego, visto che alcuni colloqui potevano nascondere proposte indecenti o contratti capestro, con paghe infime e senza giorno libero.
Impiegai tre mesi per trovare occupazione. Non conoscevo ancora nulla della Spagna: abitudini, modo di mangiare, ritmo di lavoro; perfino certe espressioni nel parlare, tipicamente spagnole, mi erano del tutto sconosciute. Devo ringraziare una famiglia, che, conoscendo un po’ la realtà latinoamericana, insieme al lavoro mi offrì l’opportunità di imparare a condividere il loro modo di vivere. Con il lavoro ho appreso nuovi termini per definire i vari utensili per le pulizie della casa, che da noi hanno tutti altri nomi; ho imparato a distinguere la miriade di saponi e detersivi: quello per i vetri e l’altro per i pavimenti, l’uno per vestiti e l’altro per lavastoviglie, e ancora quello per lavare le stoviglie a mano… In Ecuador è più semplice: un solo sapone funziona bene per tutto. Per non parlare degli elettrodomestici che ho dovuto imparare a maneggiare: vetroceramica, minipimer, microonde… tutte cose di cui ignoravo completamente l’esistenza.
Naturalmente ho dovuto imparare a preparare il cibo alla spagnola. Ma ciò che più mi ha impressionato è l’attenzione che gli spagnoli hanno per i bambini e animali domestici: gli uni come gli altri hanno medico, vaccini, letto, giocattoli, shampoo, cibo speciale e lo stesso diritto di uscire a sgambettare tre volte al giorno.
Non riuscivo a capire come mobili, computer, vestiti venivano scartati e portati in strada solamente perché avevano un piccolo difetto o non servivano più. Questo particolare mi ha fatto riflettere sulla grande differenza che esiste fra questi due mondi: quello che ho lasciato e quello che ho incontrato. Per esempio, il bambino di cinque anni che accudivo era perennemente annoiato e insensibile a ogni provocazione dei genitori. Che contrasto con la gioia di vivere dei bambini nel mio rione a Quito. È proprio vero che «non è felice colui che possiede più cose, ma colui che ne ha bisogno di meno».
Tutto ciò che vivevo era in aperto contrasto con la realtà dalla quale provenivo. Sentivo di dovermi adattare a questa nuova forma di vita, anche se non l’approvavo. Ho preso un impegno con me stessa: non lasciarmi assorbire dal materialismo esistente, cercando di mantenere il più possibile il mio essere autentico.

«ODISSEA LAVORO»

Dopo alcuni mesi di lavoro al servizio della prima famiglia, iniziò a funzionare il «passa parola» che avevo attivato e, grazie alle referenze e all’esperienza maturata, riuscii ad avere un impiego migliore. Ma dovevo al tempo stesso ottenere i permessi di lavoro e di residenza. Il 14 agosto del 2001, iniziai le pratiche per ottenere un documento che certificasse la mia situazione lavorativa. In quegli anni le file agli sportelli per ottenere informazioni e kit di documentazione erano interminabili, anche se non si era costretti a passare la notte all’addiaccio per conquistarsi il tuo, come succede oggi. Il 7 agosto del 2002 notificarono al mio datore di lavoro la non concessione dei permessi, cosa che mi obbligò a fare ricorso.
Passati tre anni di permanenza in Spagna, tempo sufficiente per richiedere il certificato di residenza per arraigo, cioè per radicamento nel paese, decisi di contattare una donna avvocato. Mi assicurò che tutto si sarebbe risolto celermente e che per la fine dell’anno avrei potuto viaggiare tranquillamente in Ecuador e, altrettanto tranquillamente rientrare in Spagna, perché munita di regolari documenti di residenza.
Ero piena di entusiasmo e illusioni quando, come una doccia fredda, mi notificarono che avrei dovuto giustificare l’arraigo, comunicando i dati dei familiari (genitori, coniuge, figli) presenti in Spagna. Tutte le mie speranze crollarono di botto, visto che, non vivendo con me nessun membro della mia famiglia, ero impossibilitata a dare risposta alle richieste dell’Ufficio immigrazione. Tempo, fatica e soldi sprecati inutilmente.
Riassumere in poche righe il mio cammino nei labirinti della burocrazia spagnola non è impresa facile. È una storia lunga, fatta di grandi illusioni e tante repentine delusioni, di lunghe code davanti agli sportelli degli uffici competenti, di ritardi burocratici e inspiegabili «silenzi» amministrativi. A volte io stessa ho commesso errori, che sarebbero stati evitabili con una maggior informazione e conoscenza del sistema giuridico spagnolo. Ma la delusione più cocente la ebbi quando l’ennesimo iter burocratico fu interrotto bruscamente a causa della situazione fiscale irregolare del mio datore di lavoro. Che beffa arrivare a toccare il cielo con un dito per poi vederselo portar via all’ultimo istante.
Grazie a nuovi datori di lavoro e all’esperienza acquisita, sono riuscita a consegnare a tempo tutti i documenti necessari: ora attendo fiduciosa di ottenere, finalmente, i tanto agognati permessi di lavoro e residenza. Con questi documenti in mano mi si apriranno nuove prospettive, tra le quali anche la possibilità di tornare in Ecuador ad abbracciare, dopo sei anni, la mia famiglia.
Sicuramente esistono innumerevoli casi simili al mio. Personalmente, ringrazio il Signore di aver incontrato una donna avvocato capace di aiutarmi a conoscere i miei diritti e a muovermi con sicurezza nel mondo della burocrazia spagnola. La mia esperienza e il suo aiuto mi hanno anche aperto gli occhi e spinta a lottare per quello che sento essere un diritto di tutti; anche se c’è, e ci sarà sempre, qualcuno che pensa di avere il diritto di approfittarsi di altri, solo perché questi sono indifesi o fuori legge, essendo privi dei dovuti documenti.

Di Paulina Ceballos

UN SOGNO DALLE MILLE FACCE

Agli occhi del turista, Madrid si presenta come un intreccio logico di vie oate da palazzi chiari. Orientarsi è semplice, grazie all’ottima metropolitana che con le sue dodici linee urbane e i collegamenti ai frequenti treni interurbani, conduce da una parte all’altra della città in tempi brevi e a prezzi modici.
Signorine sorridenti all’ingresso della metropolitana consegnano foglietti su cui l’amministrazione comunale «si scusa per aver temporaneamente sospeso il servizio tra Plaza de Castilla e Fuencarral», sostituito da un servizio autobus, e le scritte sui cartelloni pubblicitari di quello spazio sotterraneo assicurano a ogni cittadino la possibilità di essere operato entro trenta giorni dalla domanda di ricovero. Incentivi all’imprenditoria giovanile e femminile vengono promessi dagli spot mandati in onda per tenere compagnia ai passeggeri in attesa, e facce di ogni colore si mischiano nel vieni e vai di una mappa che si muove e fa muovere a un ritmo intenso, ma per fortuna ancora umano: c’è sempre tempo per fermarsi a bere un paio di cervezas (non importa che ora del giorno sia, una birra si beve sempre volentieri), accompagnate da qualche tapas, spuntini di pane, prosciutto e salse.
Le vie sono invase da gente che transita, ma che spesso si ferma, si siede e chiacchiera godendo l’aria, mite o fredda che sia: a Madrid il conversare non è questione di stagione. I giovani si ritrovano la notte per le tradizionali bevute in mezzo alla strada, nelle piazze e per le scalinate, tirando fuori dai sacchetti di plastica innumerevoli bottiglie di tinto (vino rosso) e di cerveza.
Madrid è una città che invoglia a fermarsi, che offre teatri, cinema e musei a prezzi modici, e che ha il piacere di essere vissuta.

LA GRANDE CASA

Per molti latinoamericani rappresenta «el sueño», il sogno, la possibilità di riscattarsi. Scelta per motivi geografici e linguistici, soprattutto dopo le molte restrizioni che il governo statunitense ha posto all’immigrazione, la Spagna è diventata uno dei punti di maggior convoglio dei flussi migratori, provenienti in particolar modo dall’Ecuador.
Ben un terzo della popolazione dell’Ecuador è emigrata e attualmente l’economia del paese si basa per il 51% sulle rimesse che i residenti all’estero inviano ai familiari rimasti a casa. La lontananza comporta lo sviluppo di fenomeni particolari, ad esempio lo sfaldamento dei legami tra il migrante e la famiglia di origine (spesso «integrata» o addirittura sostituita con una nuova, creata nel paese di arrivo), o il diradamento della fascia dei trentenni-quarantenni, con conseguente distribuzione nella popolazione di vecchi e bambini.
Sono proprio i bambini a essere chiamati a gestire le rimesse di denaro inviate dai genitori lontani, che devono servire per il sostentamento, ma soprattutto per la «grande prova», per quel segno tangibile di sé che resisterà nel tempo: la costruzione di una casa. L’Ecuador è un paese pieno di case enormi in stile nord americano, con colonne bianche e porticato, costruite come prova di esistenze generate da lì, ma destinate a non tornare: case fantasma, incarnazioni di miti e nulla più.
A Madrid, gli immigrati che mandano soldi in Ecuador per costruire enormi case-fantasma, vivono stipati in piccoli appartamenti della periferia, condividendo in sette, otto, persino in dieci persone, spazi di settanta metri quadrati. Spesso sono i connazionali ad accogliere i nuovi venuti, con lo scopo di estorcere loro un affitto non compatibile con la bassa qualità della sistemazione offerta.
«El sueño» diventa la realtà quotidiana della sopravvivenza, delle difficoltà a trovare lavoro, permesso di soggiorno o la carta sanitaria. Diventa un atteggiamento di diffusione identitaria, che porta a due tipi di reazioni possibili: alla chiusura nella propria comunità di origine, con rafforzamento dei tratti culturali comuni, o al rifiuto degli stessi, con conseguente aderenza superficiale agli stili di vita del paese di arrivo.
Paulina viene da Quito, la capitale dell’Ecuador. Volò in Italia sei anni fa nella speranza di fermarsi nel Veneto ma, non trovando lavoro, fu costretta a tentare la carta della Spagna.
«El sueño» per lei si tradusse in un lavoro di pulizia a ore e in spazi di vita così ristretti da impedire l’intimità. Per Paulina imparare a orientarsi a Madrid non fu certo facile, così come richiese impegno abituarsi alle parole e ai modi di dire che condividono la madre lingua comune agli spagnoli e ai latini, ma non la coloritura culturale che si portano appresso.
Madrid vista con gli occhi di Paulina non è la città dei bei palazzi chiari, della cerveza e delle tapas. Non è la città dei musical, i cui biglietti, rapportati al suo stipendio, diventano proibitivi e persino un po’ offensivi. Non è la città della sanità che funziona e degli incentivi all’imprenditoria femminile: per Paulina Madrid è la coda infinita al Ministero del lavoro che quasi ogni settimana è costretta a fare, per sapere se la sua domanda di residenza è stata accettata o ancora una volta respinta.
Madrid è il negozietto vicino alla stazione, dove un colombiano amico suo importa prodotti latini di cui può riconoscere l’odore e il gusto. Madrid è il parco del Retiro, dove la domenica mattina incontra i connazionali che passeggiano con l’illusione di tranquillizzante omogeneità, è il call center dove telefonare a casa, a Quito, costa meno di un’interurbana a Siviglia.
Camminando accanto a Paulina per le strade di Madrid, si incontrano fiumi di occidentali che comprano un detersivo diverso per ogni tipo di sporco, mentre in Ecuador un sapone basta per tutto. Accanto ai cassonetti della spazzatura si vedono materassi dove ci si potrebbe dormire ancora per anni, e nei menù appesi fuori dai ristoranti si legge che la banale frittata di uova è diventata una ben più chic «tortilla francesa».
Le strade sono ostiche, piene di elementi da decifrare, riconoscere, inglobare nella ricerca di una ridefinizione di sé che fatica ad arrivare. È la nostalgia il sentimento dominante di Paulina. Il termine nostalgia deriva dalle parole greche nostos e algos, cioè «ritorno in patria» e «dolore, tristezza».
Introdotto nel ‘700 dal medico svizzero J. Hofer per indicare il sentimento che i suoi connazionali provavano quando erano lontani dalla loro patria, cioè una sorta di malattia, una vera e propria sofferenza per la sottrazione del paesaggio d’origine, la nostalgia è tanto più intensa quanto più è profondo il legame con i luoghi che hanno contribuito a strutturare l’identità individuale e sociale.
Come dice lo scrittore libanese Amin Maalouf, prima di diventare un immigrato, si è un emigrato, e prima di arrivare in un paese, si è dovuto abbandonae un altro: solo considerando i due lati della questione si capisce come i sentimenti di una persona verso la terra abbandonata non siano mai semplici.
Se si è partiti, vuol dire che si è rifiutato delle cose: la repressione, l’insicurezza, la povertà, la mancanza di orizzonti. Ma è frequente che tale rifiuto si accompagni a un senso di colpa per la terra, la casa, le persone che ci si rimprovera di aver abbandonato; senso di colpa che spesso si accompagna alla nostalgia. In questi casi è importante che gli individui possano rivisitare i paesaggi interiori, grazie ai quali riscoprire le radici che permetteranno la ripresa del processo di crescita.
Paulina prova a cercarsi nelle lunghe passeggiate alla scoperta di Madrid, aprendosi al nuovo e allo stesso tempo imparando a non perdersi. Camminando mi racconta il suo sueño, quello nuovo: sentirsi a casa propria. E non importa in che parte del mondo.

Di Paola Cereda

RITROVARE LA STRADA

La strada è sempre stata un luogo tradizionale di incontro e di scambio. Quando si arriva in una nuova città o in un nuovo paese, le prime impressioni sono date dalla strada, che è un insieme di persone, mestieri, storie, oggetti, case, uffici, negozi, direzioni, mete, divieti di accesso, regole e pregiudizi. La strada racconta una storia che è sempre in movimento: l’architettura e l’urbanistica mostrano le origini, i cambiamenti, le evoluzioni, le involuzioni e rispondono a esigenze umane e sociali che non sono soltanto mere risposte a bisogni materiali, ma che rispecchiano soprattutto i mutamenti relazionali.
Il primo passo per conoscere un luogo è l’orientamento, cioè la progressiva acquisizione di dati e punti di riferimento, con cui «un luogo» è trasformato e diventa «il luogo». Le cornordinate spazio temporali prendono forma in base a esigenze personali e a vissuti di attaccamento e radicamento. Con il tempo e l’abitudine «quella» strada diventa «la» strada: la strada di casa, il tragitto per andare a lavorare, il percorso per arrivare al ritrovo di ogni sera… Questa acquisizione di senso permette il passaggio dal sentimento di estraneità all’appropriazione del territorio, dal sentirsi straniero al sentirsi «parte di».
In ogni città esistono luoghi tradizionali di ritrovo per chi «è appena arrivato»: la stazione, il parco, un certo quartiere, un punto di aggregazione religiosa…
I fenomeni migratori hanno disegnato nuove mappe possedute e vissute da chi, straniero, arrivava per necessità nelle grandi città.
Uno dei luoghi che maggiormente raccontano un paese è il mercato, dove si assiste alla circolazione non solo monetaria, ma anche di merci che rispondono a bisogni aggregativi. È sempre più facile incontrare banchi che vendono il tradizionale platano latino americano o le spezie arabe, segno di una sensibilità ai cambiamenti sociali, sia dal punto di vista della domanda e della risposta che della gestione economica, non più a esclusiva conduzione locale.
In alcuni strati sociali, specialmente in quelli più storicamente radicati nel territorio, la strada perde la caratteristica di luogo di incontro e diventa semplicemente luogo di transito, che fa paura per i possibili pericoli che nasconde o palesa, che stressa per i suoi ritmi frenetici, che separa dai rifugi privati, in cui la gente si chiude per stare «bene, al sicuro». In questo caso la domanda principale è quella della sicurezza: «Voglio essere sicuro che per la strada non mi succeda niente». Il tradizionale gioco del pallone, che ha cresciuto generazioni di bambini nelle strade di tutto il mondo, ora rischia di diventare un fatto privato da gestire in spazi ristretti o in luoghi predisposti.
Per chi non può o non vuole godere di «rifugi privati», la strada è ancora l’unica alternativa possibile. Essa è casa, espediente, sede di lavoro, risorsa di sopravvivenza e risposta ai bisogni. È «il gruppo», quella dimensione sociale e identitaria che permette di riconoscersi e di essere riconosciuti. Sulla strada si possono vedere i tentativi di adattarsi al nuovo ambiente, che si sposano con la necessità di ricostruire elementi che appartenevano alla propria terra di origine. La strada dà l’opportunità di riflettere sugli argini: le case, chi le abita, come vengono vissute.

Di Paola Cereda

Paulina Ceballos e Paola Cereda




SILENZIO! Il padrone ti ascolta

Alteando pugno di ferro e patealismo, il governo ha fatto di Singapore una delle più floride economie dell’Asia, a scapito di libertà politiche, valori sociali e ideali umani. Dietro lo scintillio dei grattacieli, si nascondono sacche di emarginazione, soprattutto tra gli immigrati, aiutati dalla chiesa cattolica e altre associazioni umanitarie.
Nella babele di lingue, culture e religioni, il governo cerca di costruire l’identità nazionale, usando anche le canzoni patriottiche.

Gli Annali Malesi del xvi secolo, raccontano che il governatore di Palembang, Sri Tri Buana, navigando nelle acque dell’attuale Stretto di Malacca, fu sorpreso da una tempesta, che lo costrinse a cercare rifugio su una piccola isola pressoché disabitata, chiamata dai cinesi Pu-luo-chang (isola alla fine della penisola). Qui, mentre aspettava che l’uragano si calmasse, il funzionario credette di aver avvistato, tra la fitta vegetazione, un leone, cosa alquanto rara, se non impossibile.
Si era nel xiii secolo e, da allora, i leoni nessuno più li ha visti. A dir la verità, anche il racconto degli Annali non sembra avere molta attinenza con la realtà; con tutta probabilità, l’animale che Sri Tri Buana intravide era forse un daino, un tapiro o anche una tigre, allora comune nella giungla tropicale.
La leggenda, però, non morì; anzi, il racconto del governatore divenne così popolare e affascinò talmente il sultano, che lui stesso decise di battezzare il minuscolo villaggio dell’isola di Pu-luo-chang col nome di Singha Pura, Città del Leone.
E fu a Singapura che sir Stamford Raffles, nel gennaio 1819 mise piede per fondare un avamposto commerciale per la Compagnia delle Indie Occidentali, dando inconsapevolmente il via a una delle più incredibili e stupefacenti storie di sviluppo economico del mondo.

BENESSERE SÌ, OPINIONI NO

Alteando, in perfetto stile confuciano, pugno di ferro e patealismo, Lee Kuan Yew è riuscito a compiere quello che la maggior parte degli osservatori politici avevano dichiarato impossibile a farsi: costruire una delle economie più floride dell’Asia (sviluppatasi il 6% nel 2005) e dove ogni cittadino, in media, guadagna più di un lavoratore del Regno Unito, a cui Singapore è appartenuta come colonia per più di un secolo.
I costi sociali che hanno permesso un tale sviluppo sono però stati assai pesanti: eliminazione di ogni opposizione intea, soppressione della libertà di stampa e di parola, perdita di valori e di ideali.
Turisti e uomini d’affari, sin dal loro arrivo all’aeroporto di Changi, vengono immersi in una città ovattata, in cui tutto è controllato e programmato. Sul pullman che mi porta dal terminal al centro, una targa scritta nelle quattro lingue ufficiali (mandarino, malay, tamil e inglese), informa che chiunque venga sorpreso a lordare la città, verrà multato e costretto a un periodo di servizi sociali obbligati.
Più severe sono le leggi che puniscono i possessori di droga, la cui pena prevede anche la morte. L’ultimo a essere stato impiccato è Nguyen Tuong Van, un venticinquenne australiano di origine vietnamita, ucciso il 2 dicembre 2005 perché trovato in possesso di 400 grammi di eroina.
Le regole ferree che controllano ogni aspetto della vita dei cittadini di Singapore vengono ridicolizzate con battute da parte degli stranieri. Mentre ceno al ristorante con Reiko, una giornalista che lavora presso un’importante agenzia di stampa giapponese, questa si mette a raccontare una barzelletta: «Un europeo, parlando con un russo, un bengalese e un singaporeano, si lamenta di quanti soldi occorrano per comprare del cibo a Singapore e chiede l’opinione dei suoi tre interlocutori. Il russo domanda: “Cosa sono i soldi?”. Il bengalese chiede: “Cosa è il cibo?”. E il singaporeano: ”Cosa è un’opinione?“».
Solo dal novembre 1990, con la volontaria consegna di Lee dei poteri di primo ministro al delfino Goh Chok Tong, il governo della città-stato, accortosi che la mancanza di libertà e di espressione alla fine si traduceva in perdita d’iniziativa e di inventiva in campo economico, ha ammorbidito la linea, permettendo timide critiche al suo operato.
La parentesi di Goh, però, sembra già essere tramontata, da quando alla poltrona di primo Ministro è salito Lee Hsien Loong, 54 anni, figlio di Lee Kuan Yew. Neppure il parziale flop delle elezioni generali dello scorso 6 maggio, sembra abbia scalfito la leadership di Lee: il Partito di azione popolare (Pap), al governo ininterrottamente dall’indipendenza, è calato dal 75% del 2001 al 67% attuale.
«Vista con gli occhi di un occidentale può sembrare che viviamo in una sorta di dittatura, e in effetti, in un certo senso, lo è. Ma è un dispotismo illuminato, accettato dalla maggior parte dei cittadini come controparte per la stabilità sociale ed economica» dice Liu Kuang-chou, proprietario di un negozio di computer al Raffles City. E come Liu molti altri suoi connazionali giustificano il rigore con cui il loro governo ha condotto la sua politica negli anni passati. Insomma, meglio vivere in una prigione sicura, che liberi ma insicuri.

EQUILIBRIO MULTIETNICO

Nella piccola città-stato, la molteplicità di lingue, etnie, religioni, volti, è la caratteristica che più risalta agli occhi di noi stranieri. I quattro milioni e mezzo di singaporeani si dividono essenzialmente tra cinesi (76%), malay (13,9%) e indiani (7,9%), ma ognuno di questi gruppi propone varianti linguistiche e religiose che spezzettano ulteriormente il mosaico sociale.
Nelle edicole, tra le strade, nei cinema, nei ristoranti, si mischia teochew, mandarino, inglese, hokkien, cantonese, malay, tamil, mentre le litanie buddiste, islamiche, taoiste, hindu e cristiane si intrecciano tra loro nei luoghi di culto. Ma l’equilibrio multietnico è tanto difficile a creare quanto facile a sbilanciare.
«Singapore è una società multietnica e non possiamo permettere che le diverse razze che la compongono lottino tra loro – afferma la suora canossiana Janet Wang, una delle persone più informate e impegnate sulla realtà del Paese -. Quello che tutti noi siamo riusciti a costruire, è qualcosa di meraviglioso: razze di diverse etnie, tradizioni, culture, religioni, lingue, si sono riunite e convivono pacificamente».
La paura di un equilibrio funambolico, ha però sclerotizzato il sistema, come arguisce Sinapan Samydorai, del Think Centre, un gruppo di studio che promuove il multipartitismo e una maggiore apertura politica: «Non è solo questione di libertà civili: il governo considera ogni cosa che può costare la stabilità del sistema sociale, politico ed economico come una minaccia per l’esistenza stessa di Singapore. Ha quindi sempre cercato di eliminare o sedare rivolte sociali e chi le fomentava. Per questo la gente ancora oggi ha paura di parlare. E un popolo che ha paura di parlare non è creativo. L’economia di Singapore risente di questa mancanza d’immaginazione».

IN DIFESA DEGLI SFRUTTATI

La fobia del comunismo e delle tensioni razziali, ha portato i leaders della nazione a sospettare di chiunque difendesse i diritti dei più deboli, giungendo nel 1989 ad accusare la chiesa cattolica stessa di essere portavoce di istanze marxiste.
«La chiesa di Singapore ha sempre lavorato con quelli che in Italia chiamate “sfruttati” – afferma suor Janet – e fino a che si limita a svolgere lavoro pastorale, non ha alcun problema, ma quando invade il campo della giustizia, del sociale, dei diritti, allora ecco che il governo si mette in allarme».
Non per questo, comunque, la chiesa locale ha rinunciato al suo impegno sociale, dimostrando anche ai governanti più scettici la validità dei suoi progetti e, soprattutto, guadagnandosi la loro fiducia. Lee Hsien Loong è stato educato in scuole cattoliche, mentre lo stesso ministro della Pubblica istruzione ha recentemente elogiato il lavoro svolto dalle scuole cristiane nel proporre alle nuove generazioni quei valori che colmino quel vuoto creato dall’eccessivo consumismo e materialismo.
Già, perché la Singapore più conosciuta, quella dei luccicanti centri commerciali e parchi di divertimento, ne cela un’altra meno pubblicizzata, ma non meno reale. Nelle zone più periferiche della città, i palazzoni dell’Housing Development Board nascondono sacche di povertà e di emarginazione che alimentano la crescente microcriminalità.
«Non siamo a livelli europei o nordamericani, ma anche qui a Singapore abbiamo le nostre bande giovanili, formate soprattutto da adolescenti che la società ha escluso, in parte per la crisi economica, in parte perché essi stessi hanno rifiutato le regole che venivano loro imposte» rivela suor Gerard del convento del Buon Pastore, che assiste i detenuti cattolici nella prigione di Changi.
La crisi economica del dopo 11 settembre, a Singapore si è ripercossa nel campo edilizio, un settore dove trovano occupazione la maggior parte dei lavoratori immigrati: una volta persa la fonte del loro reddito, essi acquisiscono automaticamente lo stato di illegalità. Per questi disoccupati particolarmente disagiati, le organizzazioni sociali, sia religiose che laiche, hanno istituito centri di ascolto e di aiuto che cercano, con ogni mezzo a loro disposizione, di ridare fiducia e sostentamento a chi è in condizioni di bisogno.
«Ma la paura di uscire allo scoperto, la mancanza di personale, di strutture e, non ultima, la differenza di credo, riducono di molto le potenzialità di questi progetti» mi confida Maya, una volontaria che lavora al Catholic Welfare Centre di Waterloo Street; e aggiunge che più dell’80% degli stranieri da loro assistiti è formato da lavoratori filippini di estrazione cattolica.
«La nostra speranza è quella di poter raggiungere anche gli immigrati indonesiani, bengalesi e pachistani, che a Singapore sono la parte più consistente dei lavoratori di manovalanza. Ma per coronare questo sogno sappiamo che dovranno passare ancora molti anni» conclude la ragazza.

CONTRO LA CRISI DI VALORI

Oggi l’80% dei reclusi è reo di aver commesso reati comuni come furti, scippi, traffico di droga. E se all’inizio il problema era circoscritto a singole persone che operavano per proprio conto, ora si è creata una rete malavitosa, che comprende anche bande di adolescenti emarginati.
«Il problema della delinquenza non è solo dovuto a mancanza di beni materiali; anzi, se mai è l’opposto – spiega suor Janet Wang -. La società è prosperata sulle basi del materialismo, portando a identificare il successo di una persona con la marca dell’abito o la macchina che possiede. Tutto questo ha mortificato la spiritualità e la morale umana, creando enormi scompensi etici. La crisi che stiamo attraversando non è solo materiale, ma è essenzialmente spirituale».
Lo stesso Lee Hsien Loong, dopo che suo padre ha spinto per anni i suoi connazionali a lavorare per la prosperità economica del paese, ha iniziato a chiamare a raccolta le associazioni di impegno sociale e umano, perché aiutino a ridare valori a una popolazione troppo protesa al successo e al profitto.
I piani del governo, comunque, non sono dettati solo da esigenze umanitarie: l’espulsione di migliaia di lavoratori clandestini, ha creato un’allarmante penuria di manodopera, che il governo non riusciva a colmare. I piani di sovvenzionamento sociale sono sufficienti per evitare che il 3,3% dei disoccupati venga improvvisamente emarginato e molti singaporeani senza lavoro rifiutano di coprire ruoli considerati «poco dignitosi».

TIGRI IN COMPETIZIONE

La competitività di Singapore è ancora elevata, nonostante gli alti costi di produzione, grazie al passaggio di Hong Kong alla Cina: molte delle compagnie inteazionali che avevano la loro sede asiatica nell’ex colonia britannica, hanno preferito trasferirsi a Singapore piuttosto che rischiare di incappare nelle maglie della burocrazia di Pechino.
«Singapore può ancora contare su una produzione di qualità eccellente, nettamente superiore a quella degli altri paesi della regione e questo lo rende ancora competitivo. Per il momento» spiega Chow Hung-t’u, della Camera del commercio cinese. La domanda, quindi è: quanto durerà questo momento?
La Malesia, ha già costruito la sua «Silicon Valley» nell’isola di Penang e molte aziende hanno cominciato a guardare alla vicina nazione con ingordigia.
In altri periodi, sotto la guida di Lee Kuan Yew, Singapore avrebbe risposto alla minaccia dei vicini con aggressività, utilizzando la sua esperienza e i legami con gli istituti finanziari a mo’ di artigli, non esitando a imprimere un’accelerata alla filosofia economica del laissez-faire che, assieme alla stabilità sociale e politica, è stata il leit motive della storia del paese sin dai tempi di Raffles.
Ma Singapore e l’economia mondiale devono fare i conti con nuove sfide: la globalizzazione ha rotto ogni schema, rendendo le economie dei singoli paesi interdipendenti l’una con l’altra. Inoltre al governo della piccola isola non c’è più il duro e dispotico Lee Kuan Yew, ma il più malleabile figlio. Il quale ha capito che il suo paese non avrebbe sostenuto, a lungo andare, il confronto con i giganti di cui è circondato. E allora, piuttosto di riproporre una sorta di konfrontasi economica, il governo ha preferito cercare un accordo che possa avvantaggiare tutti, sfruttando le migliori opportunità che Malesia, Indonesia e Singapore possono offrire al mercato.
Lo aveva già azzardato Goh Chong Tong: far nascere un «Triangolo di Crescita», un’area geografica che ha gli epigoni tra la città di Johor, in Malesia, Singapore e l’isola indonesiana di Bintan, la più settentrionale dell’Arcipelago delle Riau. Johor potrebbe offrire terreno per nuovi insediamenti industriali con regole ambientali meno ferree; l’Indonesia potrebbe coprire il fabbisogno di manodopera a basso costo e Singapore garantirebbe tecnologie, infrastrutture, collegamenti inteazionali di prim’ordine.
«Per ora il Triangolo di Crescita rimane solo sulla carta: l’instabilità politica indonesiana e la crescente islamizzazione della società malese, rappresentano sfide che nessun imprenditore di buon senso avrebbe il coraggio di affrontare» conclude Sinapan Samydorai.
E così, Singapore continua per la sua strada. Coraggiosamente, così come coraggiosamente il 9 agosto 1965 si era distaccato dalla Federazione Malese. Anche quel giorno, Singapore, se ne andò per la sua strada.

Di Piergiorgio Pescali

SINGAPORE IN MUSICA

Sin dal giorno della sua indipendenza, avvenuta il 9 agosto 1965 con l’abbandono della Federazione Malese, il governo di Singapore ha profuso notevoli sforzi perché indiani, cinesi, malay, europei aventi passaporto della città-stato, ponessero in secondo piano la propria identità etnica per sentirsi tutti singaporeani. Una sfida improba che, forse, non raggiungerà mai una soluzione definitiva, anche se oggi l’80% della popolazione è nata dentro i confini dell’isola.
Nel 1991 il primo ministro Goh Chok Tong, conscio di tali difficoltà, affermava: «Fino a quando l’economia è in fase di crescita e c’è ricchezza per tutti, non penso che la gente abbia voglia di lottare per affermare la propria etnicità. Ma se non vi sarà sufficiente torta da spartire per tutti, allora ci troveremo di fronte al test decisivo per verificare se siamo davvero coesi e solidi».
Il governo deve quindi continuamente proporre nuovi spunti, affinché il trapianto del Dna della «singaporeanità» nei tre milioni di cittadini abbia successo. Una delle difficoltà maggiori riguarda il modo in cui è possibile raggiungere la sfera psichica di ogni singola persona; trovare cioè un linguaggio semplice e accessibile a tutti, quale che sia la razza, religione, grado di cultura, età.
Ecco allora affacciarsi la musica e le parole che, combinati assieme e diretti verso un fine ben preciso, riescono a far suscitare emozioni e sensazioni altrimenti impossibili ad altri mezzi.
Non è un caso che tutte le rivoluzioni siano accompagnate da canti che perpetuano la memoria di chi le ha vissute. E chi più di altri ha bisogno di una rivoluzione interiore, se non stati multietnici come Singapore?
Così il ministero della Comunicazione e dell’Informazione ha pubblicato una serie di motivi orecchiabili, elevandoli a titolo di Canzoni Nazionali e raggruppandole in un Cd dal titolo «Sing Singapore».

I testi, abilmente scritti in modo semplice, così da essere facilmente assimilati nella mente (e nel subconscio), sembrano avvalorare la fama di patealismo, a volte così ossessivo da sfociare quasi in una sorta di dittatura, che viene addossata al governo di Singapore:
«Caro pedone, quando scendi dal marciapiede
e attraversi la strada, segui le strisce zebrate,
rispetta i semafori» si canta in Road Safety for you.
Tale apprensione può essere vista da due angolazioni differenti: in segno positivo potrebbe rappresentare un particolare modo d’insegnamento del codice stradale; nell’accezione negativa potrebbe essere vista come una sorta di ossessivo controllo sul popolo.
Ma il vero obiettivo a cui mirano le Canzoni Nazionali rimane il senso della nazionalità. Nella canzone più nota e più trasmessa da radio e televisione, We are Singapore, la strofa più dirompente esclama:
«Noi, cittadini di Singapore
ci consideriamo come un popolo unito
a prescindere dalla razza, lingua o religione
per costruire una società democratica
basata sulla giustizia e l’eguaglianza…
Noi siamo Singapore, Singaporeani…
Singapore, per sempre una nazione forte e libera».
Durante la festa del Gioo dell’Indipendenza di quest’anno, migliaia di persone intonavano questa canzone, tenendosi per mano e sventolando bandierine bianche e rosse con la mezzaluna e cinque stelle. Uno spettacolo nello spettacolo, se non altro perché è una delle poche volte in cui ho visto cinesi, indiani, europei, malay mischiarsi, bere e mangiare assieme al di fuori dei luoghi di lavoro. Un ennesimo esempio, se ve n’era bisogno, di quanto sia difficile dimenticare le proprie origini e rivestirsi di nuovi abiti.
E nell’occasione del National Day ogni finestra degli appartamenti costruite dall’Housing Development Board, in cui abita l’80% della popolazione, ha esposta una bandiera singaporeana:
«C’è una nuova luna
che sorge dal mare in burrasca…
Ci sono cinque stelle
che sorgono dal mare in burrasca.
Ognuna è una fiaccola
che guida la nostra via…
C’è una nuova bandiera
che sta sorgendo dal mare in burrasca.
Rossa come il sangue
di tutto il genere umano,
ma anche bianca,
pura e libera» (Five Stars Arising).
Rossa, come il sangue di tutto il genere umano per accomunare tutte le razze in un’unica nazione.

È però anche vero che, contrariamente alle prospettive poco rosee lanciate dagli economisti all’indomani della separazione di Singapore dalla Federazione Malese, lo sviluppo che Lee Kuan Yew è riuscito a imprimere alla nazione, ha qualcosa di eclatante, di cui gli stessi abitanti possono andar fieri. E non esitano a rinfacciare a questi Soloni dell’epoca che predicevano un futuro di miserie, la loro prosperità attuale:
«C’era un tempo in cui la gente diceva
che Singapore
non sarebbe mai potuto essere
una nazione,
ma noi l’abbiamo resa una nazione.
C’era un tempo in cui i problemi
sembravano troppo grandi
per essere affrontati,
ma noi li abbiamo affrontati.
Abbiamo costruito una nazione forte e libera
raggiungendo insieme la pace e l’armonia.
Questo è il mio paese, questa è la mia bandiera,
questo è il mio futuro, questa è la mia vita,
questa è la mia famiglia,
questi sono i miei amici» (We Are Singapore).
Il paragone alla famiglia implica anche un impegno di ogni suo singolo componente, per far sì che la sua conduzione sia coronata da successo:
«Riconosci che devi giocare il tuo ruolo…
Sii preparato a dare qualcosa in più…
Per Singapore» (Stand up for Singapore).
Un passo in perfetto stile confuciano, dove ogni cittadino, o meglio, ogni componente della «famiglia Singapore» deve svolgere un compito ben preciso occupando un ruolo ben preciso nella ferrea gerarchia comunitaria,
«per mostrare al mondo cosa Singapore può essere…
Conta su di me, Singapore, conta su di me
per dare il mio meglio e ancora di più» (Count On Me Singapore).

Q uesta filosofia, tipica delle società asiatiche, ha trovato piena attuazione nella minuscola nazione, favorendo la trentennale permanenza al potere di un governante dispotico, ma che sa anche essere benevolo, come Lee Kuan Yew. Grazie alla sua guida «illuminata»,
«in Singapore puoi trovare felicità per tutti» (Singapore Town).
Ma questo benessere deve essere difeso sia dagli attacchi speculativi di operatori finanziari che tentano di assaltare l’economia di Singapore dall’esterno, sia da improbabili, ma non impossibili, attacchi militari dalle nazioni vicine. La «sindrome Kuwait» è assai viva tra il governo, che destina il 5% della finanziaria alle proprie forze armate, tra le meglio addestrate nella regione.
Ma i leaders sanno bene che il minuscolo territorio non potrà essere difeso a lungo in una guerra convenzionale; quindi, anche in caso di invasione dall’esterno,
«C’è una parte per ognuno
in questa terra a cui apparteniamo.
C’è una parte per ognuno e per tutto
per mantenere la pace che vogliamo.
Anche se non tutti con le armi,
per aiutare a difendere la nostra terra
dobbiamo far tutto quello che possiamo
insieme, mano nella mano…
Abbiamo marinai, aviatori,abbiamo soldati,
impavidi uomini addestrati e pronti…
Aiutali ad aiutare tutti noi»
(There’s a Part for Everyone).
Parole dure, sferzanti, che si spera non dovranno mai trovare impiego nella realtà. Già, perché alla fin fine la multietnicità che caratterizza Singapore può essere di esempio anche per gli stati europei che si trovano a fronteggiare, spesso con intolleranza e xenofobia, l’arrivo di rappresentanti di altre culture.
E si potrebbe terminare questa cartolina di Singapore in musica, con le strofe forse più significative di One People, One Nation, One Singapore:
«Abbiamo costruito una nazione con le nostre mani,
con la fatica di gente da una dozzina di terre.
Stranieri quando arrivammo,
ora noi siamo Singaporeani…
Un popolo, una nazione, un Singapore».


Piergiorgio Pescali




Solidarietà in passerella

Ancora una volta Missioni Consolata dà spazio
alla manifestazione di AfroItalyFashion,
giunta alla sua quinta edizione. Tale iniziativa
va ben al di là di una frivola sfilata di moda: numerose persone, in collaborazione con associazioni italiane e africane, sono coinvolte
in tale manifestazione per fare cultura
e stimolare la solidarietà attraverso lo spettacolo, per poi promuovere progetti di impegno sociale
a favore del continente africano.

È sempre un grande piacere per me parlare di AfroItalyFashion, una manifestazione che seguo da molto tempo come addetto stampa. Seguire i preparativi che cominciano mesi prima, i contatti intercorsi tra gli organizzatori e i vari professionisti che, superati i primi momenti entrano subito nella magica atmosfera di un appuntamento molto atteso.
Per capire meglio quanto lavoro vi è dietro questa manifestazione, cominciamo col dire che AfroItalyFashion è organizzata dalla Associazione Culturale «Abissa» di Torino, di cui è presidente il dott. Diego Cudia, con il fine di sensibilizzare l’opinione pubblica e le persone più abbienti, verso una realtà molto diversa dalla nostra, eppure a noi molto vicina, in termini culturali e geografici.
La produzione esecutiva è affidata all’agenzia Didacus Communication di Milano, che si occupa dei contatti con stilisti italiani e stranieri, con indossatori e indossatrici, artisti e ospiti vari, rapporti con i vari mass media, con professionisti vari. Lo studio Area Fotografica di Torino ha curato i servizi fotografici e video, luci e direzione della fotografia, elementi scenografici e lo studio CD Comunicazione di Torino ha cornordinato i servizi pubblicitari, le sponsorizzazioni e marketing.
Motore della manifestazione è stata soprattutto l’associazione umanitaria Mission Sinan di Cuneo, la quale promuove progetti di cooperazione tra Italia e Africa, come la costruzione e mantenimento di un centro ginecologico moderno ed efficiente in Costa d’Avorio, ricerca fondi in denaro, attrezzature tecnologiche, mezzi per il commercio e persone volonterose affascinate dall’idea di un aiuto concreto al continente africano.
Nomi importanti, quindi, che muovono decine di persone verso una iniziativa che, anno dopo anno, acquista dimensioni sempre maggiori; persone che riescono a supportare una manifestazione che qualcuno ha definito «sincera e pulita», in riferimento all’idea di base: fare cultura e stimolare la solidarietà attraverso lo spettacolo.

Direttore artistico di AfroItalyFashion è il dott. Diego Cudia, che è anche presidente dell’Associazione Culturale «Abissa» (acronimo di Attività sociale, beneficenza, immobiliare, spettacolo, sport, arte). A lui rivolgiamo alcune domande sul significato della manifestazione.

Come si concilia la solidarietà verso un mondo di bisognosi e una manifestazione di moda, musica, spettacolo…?
Ogni anno cresce sempre più il consenso degli stilisti italiani e, soprattutto, stranieri verso la manifestazione AfroItalyFashion; i vari stilisti africani cedono gratuitamente i loro abiti (sopportando le spese di iscrizione, spedizione, assicurazione), questi abiti verranno venduti successivamente e metà del ricavato ritoerà in Africa sotto forma di aiuto verso quelle etnie più disagiate (se non è solidarietà questa…).
E vorrei ringraziare i vari stilisti che hanno partecipato, essi sono: Alfadi (Nigeria), con il suo pret-a-porter tradizionale; Cris Seydou (Mali), con i suoi abiti per il teatro, cinema, come fornitore ufficiale delle divise per le hostess di Air Afrique; Dramé (Costa d’Avorio), con la sua linea di abiti femminili; Fabiene (Costa d’Avorio), giovane stilista di abiti tradizionali da giorno e da sera, da cerimonia; Mirelle (Senegal), specializzata in abiti da matrimonio; Pathé (Burkina Faso), molto conosciuto dai vip tra cui Nelson Mandela.
Accanto a questi stilisti, molti dei quali presenti, il pubblico ha potuto ammirare le stupende creazioni per sposa di Claudio Ambrogio (Boutique sposa di Bene Vagienna, Cuneo), e di giovani creatori di moda italiana, freschi di studi accademici.

E il discorso culturale, l’impegno sociale, dove sono?
Chi assiste alla manifestazione AfroItalyFashion, oltre ad ammirare delle bellissime creazioni di moda multietnica, sente parlare di progetti di cooperazione, costruzione di ospedali e scuole, raccolta di attrezzature professionali, risorse umane operanti in luoghi difficili, malattie e condizioni di vita inconcepibili. I vari ospiti invitati parlano delle loro esperienze passate e presenti, a contatto con una realtà che spesso ci è difficile da immaginare; gli stessi artisti si esibiscono con musiche e brani coreografici, sono testimoni di una situazione di vita non proprio serena e felice. Tutti questi discorsi servono a ricordare che esistono persone che hanno fatto dell’impegno sociale una ragione di vita, che può dare grandi soddisfazioni morali. Discorsi che devono portare tutti alla convinzione che siamo un paese che può fare moltissimo per gli altri, senza grandi sforzi economici e organizzativi; che devono fare riflettere soprattutto i giovani, perché il loro futuro sarà sempre più influenzato dai problemi presenti a livello di politica comunitaria internazionale.

Prima Torino, dove è nata e cresciuta, poi Cuneo, con il pubblico in piazza. Dove sarà il prossimo appuntamento con AfroItalyFashion?
Torino e Cuneo sono le città dove «Abissa» è nata e si è fatta conoscere; era naturale pensare di realizzare la manifestazione prima a Torino (presso il teatro dei missionari della Consolata) poi a Cuneo (piazza Audifreddi); per la prossima edizione stiamo valutando le proposte di alcuni sponsor che la vorrebbero in una città della Lombardia (Brescia o Como), per estendere a un pubblico sempre diverso la conoscenza della nostra associazione e i suoi progetti.

A proposito di progetti, avete in cantiere qualcosa di cui parlare?
Stiamo lavorando alla realizzazione di «Il Canario», un calendario nazionale fotografico a colori, in cui i proprietari di cani possono comperare, per pochi euro, uno dei 288 spazi fotografici a disposizione, manifestando la loro solidarietà attraverso la pubblicazione di una fotografia in compagnia del fidato amico di vita. La somma raccolta con la vendita del calendario, sarà destinata all’acquisto di generi di conforto (alimentari, medicinali, cucce…) per i cani ospitati nei vari canili d’Italia.
A Il Canario aderiscono molti vip e personalità dei più disparati settori sociali, oltre a persone comuni, a riprova che l’amore di un cane verso l’uomo non è vincolato alla sua condizione umana, ma libero e sincero.

Di Dino Sassi

Per informazioni: Associazione Culturale Abissa onlus – V. Lancia 121/F – 10141 Torino – Tel 339.3701387.
Per Il Canario: Area Fotografica – Tel 011.704264.

Dino Sassi