Il ponte sullo Spreca

Dopo i 10 lunghi anni di guerra condotti negli anni Novanta fra le popolazioni della ex Jugoslavia, le giovani generazioni possono realmente giocare un ruolo attivo nel processo individuale e collettivo di elaborazione costruttiva del dolore e nella ricostruzione non solo materiale del proprio paese? Nove ragazzi tra i 16 e 20 anni, 4 musulmani e 5 serbi, sono da anni impegnati come mediatori e facilitatori nel processo di riconciliazione interetnica delle comunità a cui appartengono.

Per secoli, serbi e musulmani che abitavano lungo il fiume Spreca erano convissute pacificamente. Poi, con lo scoppio della guerra serbo-bosniaca, tutta la regione da esso attraversata diventò teatro di combattimento tra l’esercito dei serbi bosniaci (sostenuti dalle truppe regolari serbe) e le forze spontanee delle comunità musulmane: sulle sue sponde si sono consumati scontri continui tra persone che fino a poco tempo prima si erano sposati e imparentati, costituendo numerose famiglie miste.
In base agli accordi di pace di Dayton del dicembre 1995, questo confine naturale costituisce anche la linea di separazione fra la comunità di Orahovica, paesino della Federazione musulmana croata di Bosnia, e Petrovo, cittadina della Repubblica serba di Bosnia. Per molti anni, nonostante la guerra nei suoi aspetti più distruttivi fosse finita, tale confine fu considerato invalicabile dagli abitanti delle due parti.
La paura costituiva un blocco che inglobava, però, la necessità di ricominciare. Da un lato, gli adulti sembravano come paralizzati, in lotta con i fantasmi del passato, mentre i giovani venivano trasportati dalle esigenze dell’età. Fra questi ultimi, però, vi erano Sheila Dugic, Verko Popadic, Samina Ahmetovic, Sulio Ahmetovic, Rade Cvijanovic, Jelica Mihajlovic, Ivana Todorovic, Alma Becic, Svetlana Ceca Petrovic, che non potevano e non volevano farsi scivolare addosso l’adolescenza.
Da tempo, questi 9 giovani tra i 16 e 20 anni, di etnia mista, quattro musulmani e cinque serbi, sono impegnati come mediatori e facilitatori nel processo di riconciliazione interetnica tra le comunità di Orahovica e Petrovo a cui appartengono.

A raccogliere le istanze di questi giovani e incanalarle in un processo di riconciliazione è un gruppo di italiani di Cremona, che opera nella zona dalla fine della guerra, portando aiuti umanitari. «Quando iniziammo a portare gli aiuti alle due comunità, svolsi anche il ruolo di messaggero – racconta Maurizio Furgada -. Andavo da una parte all’altra in bici, portando dei bigliettini che le famiglie si inviavano. A questi contatti facemmo seguire l’organizzazione di corsi separati di computer, italiano, inglese; poi lanciammo l’idea di prenderci una vacanza nel mare del Montenegro, riunendo in un solo gruppo i ragazzi delle due parti».
Nell’estate 2002 il direttore didattico della scuola di Orahovica, Adburaman Dzinic, mette a disposizione la casa di villeggiatura per l’occasione. Nel clima vacanziero, notando l’affiatamento dei ragazzi, Maurizio Furgada e Stefano Cirelli propongono loro di costituire un gruppo interetnico per elaborare le esperienze vissute e per interrogarsi su temi che li toccano da vicino: conflitto, diritti umani, discriminazioni, pregiudizi.
L’idea è accolta con entusiasmo e da quel momento i ragazzi cominciano a lavorare per consolidare e far maturare il gruppo. Nel luglio 2003 i ragazzi furono ospitati da alcune famiglie cremonesi per due settimane di svago e formazione; successivamente, alcuni di essi ricambiano l’ospitalità, accogliendo a casa loro tre ragazzi della città italiana, dando vita a uno scambio ancora in corso.
Intanto maturano le riflessioni. I giovani cominciano ad avvicinarsi a certe tecniche che permettono di mediare i conflitti e prevenie l’escalation violenta. Indagano sulla natura della violenza e analizzano le cause dei conflitti, non solo sul piano del coinvolgimento di nazioni o fazioni, ma anche a livello più domestico, come nei casi di dissidio fra due amici; esplorano le posizioni, gli interessi, i bisogni primari messi in gioco in ogni conflitto; ricercano gli stili risolutivi, provano a immaginae una trasformazione costruttiva.
In tale approccio perde di valore il confronto vincere/perdere. Si evidenzia la capacità di promuovere rapporti di collaborazione nelle diversità, il dialogo, il riconoscimento reciproco, l’ascolto e partecipazione.
Con tali tecniche, si scopre che il conflitto ha un connotato positivo, poiché è occasione di incontro tra bisogni, interessi, visioni opposte e apparentemente inconciliabili. Fondamentali sono le modalità con le quali lo si gestisce e risolve.

Il 2003 è pure l’anno della fondazione della scuola di pace «Fabio Moreni» (volontario di Cremona, ucciso il 29 maggio 1993 presso Goj Vakuf, insieme a Sergio Lana e Fabio Puletti, componenti un convoglio umanitario). Tale scuola è formata dai ragazzi e i direttori didattici delle scuole bosniache, che accolgono il gruppo per farlo lavorare, e dagli italiani, che nel frattempo hanno costituito allo scopo l’associazione di volontariato «Iniziative spontanee di solidarietà fra i popoli» (Issp).
«L’originalità del progetto sta nel voler “costruire” ambasciatori di pace, partendo da candidati che portano ancora addosso le conseguenze tragiche di quegli eventi – spiega Furgada -, non quindi bravi funzionari, maestri della teoria come potremmo al limite diventare noi, ma veri attori, capaci di recitare la loro parte nelle trame che portano alla risoluzione delle divisioni fra popoli. Questi ragazzi stanno superando in concreto le barriere che altri hanno costruito per loro».
La creazione della scuola porta in sé un significato più ampio, il direttore della scuola di Petrovo, Jovo Jovovic, quando accompagnò il gruppo nella prima visita a Cremona, affermò: «L’esempio portato da questa esperienza contribuisce a frantumare il muro eretto dalla guerra». «È un modo per rendere i ragazzi consapevoli delle possibilità di pace che dimorano dentro di loro. Ai loro genitori va il merito di aver staccato la corrente che li legava in modo quasi indelebile al passato e a quello dei loro genitori per dare ai ragazzi questa possibilità che sapevano bene di non aver mai avuto» continua Furgada.
Durante i corsi di formazione a Cremona e poi nel gennaio 2004 in Bosnia, i ragazzi elaborano e maturano i concetti acquisiti attraverso giochi, simulazioni, rappresentazioni teatrali. «Quando scoppiò la guerra avevo quattro anni – dice Jelica, di origine serba, in un’esercitazione in cui doveva scrivere una lettera ad un amico israeliano – e non sapevo neanche il significato della parola. Mi limitavo a chiedere che cos’è la guerra. È stato orribile crescere in quegli anni.
Il brutto è che ben presto finisci per abituarti alla violenza, che diventa un qualcosa di normale nella vita di ogni giorno. Non capivo perché non mi era permesso di uscire dalla mia casa. Se devo proprio imparare una lezione da quei giorni terribili del mio passato, allora vorrei usarla per chiedere di pensare a ciò che ti sta succedendo. Davvero vuoi la guerra? Immagina di vedere te stesso nelle condizioni dell’altro e ti accorgerai di come può pensarla lui».
Sheila, musulmana, scrive ad un amico palestinese: «Noi, che abbiamo sofferto le conseguenze della guerra, dobbiamo essere in grado di indicare una nuova via di pace. Cerca di parlare con la tua gente, cerca di persuaderla a tentare di cambiare il loro approccio ai problemi, di smetterla di gridarsi contro. Fa’ in modo che considerino le loro pretese nei confronti degli altri con rispetto e forse allora potremmo trovare la via verso la risoluzione».
Sheila sfuggì con la famiglia alla pulizia etnica che travolse Olovo, piccolo paese perso tra le montagne sulla via che da Sarajevo porta a Tuzla. Sostarono un anno in un campo profughi vicino ad Orahovica; ora il padre è riuscito a trovare un lavoro e a costruire, nel paese di adozione, una piccola casa.

Un’idea lega i 9 giovani: tutti gli uomini sono uguali e allo stesso modo diversi; l’identità di ognuno deve essere rispettata.
Il concetto emerge più volte nelle discussioni guidate, in particolare in relazione ad alcune letture sul popolo cherokee, nell’episodio ricordato come «trail of tears» (sentirnero di lacrime). Nel 1838 e nel 1839, la nazione cherokee fu costretta ad abbandonare le proprie terre ad est del fiume Mississipi e migrare nell’area oggi chiamata Oklahoma: una marcia forzata con effetti devastanti e la morte di oltre 4 mila indiani cherokee, per questo chiamata trail of tears.
Samina fu costretta ad abbandonare la sua terra, Srebrenica, e a sopportare l’uccisione del padre nella strage compiuta in città. Si immedesima nel nativo americano e si rivolge, in uno scritto, a un immaginario amico bianco: «Abbiamo cominciato ad arrampicarci come capre per raggiungere la nostra destinazione, dove pensavamo che avremmo vissuto pacificamente. Ma la pace è durata solo due settimane, quando i bianchi sono tornati per obbligarci a lasciare anche quel posto. Se qualcuno della tua famiglia moriva, bisognava portarlo nelle proprie braccia e continuare, in lacrime, distrutti dal dolore. Portare un padre morto nelle braccia non è cosa da niente. In quel momento ti è solo concesso di piangere, maledire chi ti ha fatto questo. Ti prego, cerca di capire il mio sfogo. Perdonami per l’odio che provo verso l’uomo bianco; ma ricorda che io ti considero mio amico e so che non sei come loro».
Sheila rimarca, nello stesso esercizio, l’importanza di evitare le generalizzazioni: «È stato difficile vedere la tua gente farsi beffa del nostro dolore. Tutto ciò che la tua gente ha fatto alla mia è un’ingiustizia totale, frutto di razzismo; ma la tua amicizia è il più bel regalo per me, riesce in parte a lenire i sentimenti d’odio e tristezza che mi porto dentro».

Dopo tre anni di lavoro, il gruppo si sente pronto a trasmettere le nozioni acquisite sui banchi della scuola di pace e l’esperienza viva dell’incontro con l’altro.
Attraverso la collaborazione con l’associazione di volontariato Faros di Atene, nell’estate 2004, i 9 partono alla volta della capitale greca; a loro si uniscono quattro ragazze e un ragazzo di Cremona. Per la prima volta conducono la formazione di un gruppo di coetanei greci. Una volta tornati in Bosnia, i ragazzi, entusiasti, esprimono la volontà di migliorarsi nelle competenze raggiunte e nella capacità organizzativa.
Il gruppo dedica le settimane finali di luglio 2005 alla elaborazione di nuovi materiali dialettici e concettuali, acquisiti con l’esperienza greca, e alla organizzazione delle giornate in cui si sperimenteranno nuovamente come formatori. L’avventura formativa ha un simbolico inizio: una festa svolta nella scuola di Orahovica, che coinvolge i genitori, 12 ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 14 anni, i direttori didattici. L’organizzazione è rigorosamente interetnica. Così il cerchio si allarga; i nuovi partecipanti appartengono ad altre due comunità: quella musulmana Dobosnica e quella serba Krtova (frazione della prima).
In quel caldo pomeriggio estivo, musulmani e serbi, di generazioni diverse, si avvicinano timidamente. Sullo sfondo dell’aula appaiono appesi i poster che illustrano i pericoli delle mine antiuomo e ricordano il peso del passato.
«Credo e ho sempre creduto in questo progetto – esordisce Jelica – e sento la responsabilità verso il gruppo e verso mia sorella di 14 anni, che voglio che impari qualcosa di nuovo per la vita. Voglio essere utile a tutti».
Svetlana di Petrovo prosegue: «È mio desiderio mettere in pratica ciò che ho imparato in questi anni, all’inizio è stato un gioco, ma ora è scuola; ed è qualcosa dentro di me che uso per migliorare i miei rapporti con la gente». Sulio, che con la cugina Samina condivide il triste esodo e il massacro del padre, conclude: «Dobbiamo creare legami fra noi sempre più forti».
È l’inizio di un alternarsi di giornate, tra le aule scolastiche di parte musulmana e serba, in cui si fa strada un difficile equilibrio, costituito dalla volontà di comunicare neutralità e apertura verso le comunità.
Il nuovo gruppo, quello composto dai ragazzi più giovani, mostra da subito una disinvolta capacità di amalgamarsi; capacità che progredisce di esercizio in esercizio e che li differenzia dai loro formatori. Questi, infatti, necessitano ancor oggi di qualche spinta estea per non creare gruppi monoetnici, a dimostrazione del fatto che più è lontana la memoria diretta della guerra più è naturale l’incontro fra gruppi diversi.
«È bene che i miei figli facciano quello che noi non facciamo più» dice Boro Stamenic, padre di Milka, dodicenne serba, scampata al rogo della sua casa nel 1996, cresciuta in un campo profughi vicino a Belgrado e ora di nuovo nella casa ricostruita.
Gli adulti hanno ricordi vividi e forse insormontabili: le case bruciate e sventrate, lasciate per non morirci dentro; i faticosi ritorni alla propria terra dopo anni da profughi; le catene di torti, rivendicazioni, odi subiti e perpetrati; le ferite sulla pelle, gli arti mancanti e gli affetti perduti.

Il nazionalismo più fanatico è tuttora presente e domina il contesto economico, politico, sociale e culturale. La linea di confine, tracciata 10 anni fa a 10 mila chilometri di distanza, è nella carta, nella terra e nella mente. Così è possibile che sulla scrivania dell’ufficio del direttore della scuola di Krtova, che ha ospitato parte delle attività estive dei ragazzi, campeggi una cartina della Serbia e, dietro, un quadro di principi serbi.
I luoghi di divertimento sono separati e hanno nomi che definiscono in modo netto la provenienza culturale. E i genitori, fra i quali si contano molti ex combattenti, indietreggiano di fronte a un loro impegno in prima persona.
Sul fronte istituzionale, del resto, nessuna autorità promuove veramente la riconciliazione. Gli attori inteazionali riconosciuti (Onu, Nato, Osce, Eu, chiese) hanno, per diverse ragioni, ridotto notevolmente gli sforzi in tal senso. Queste popolazioni sono lasciate pressoché sole a cercare una nuova forma di convivenza non violenta se non proprio pacifica.
C’è ancora il bisogno di terze parti imparziali ed estee, che favoriscano il riavvicinamento fra le etnie e che sappiano introdurre nel dialogo contenuti di rispetto per la dignità umana. È d’importanza vitale la creazione di occasioni d’incontro e dialogo fra le comunità, oltre a quelle che spontaneamente crea il commercio. Spesso avviene che si superi il confine per andare ad acquistare beni che dall’altra parte sono più convenienti.
A fronte di tutto ciò, ecco che l’esperimento di Orahovica e Petrovo assume la valenza di progetto pilota per la ricerca della pacificazione interetnica. E il risultato sembra essere posto esclusivamente nelle mani delle giovani generazioni, alle quali è richiesto di svolgere il lavoro più imponente nel processo personale e collettivo nel superamento dei risentimenti e nella riappacificazione dei cuori, per creare una dimensione dinamica della pace che vada al di là delle logiche di potere.

Silvia Bianco

Silvia Bianco




CONSOLATA: madre dei poveri

Il Concilio Vaticano II ha messo l’accento sull’immagine di chiesa come popolo in cammino. Tra le giornie e le speranze, le tristezze e le angosce di tutti gli uomini Maria è, oggi come sempre, modello e guida, luce di consolazione. Soprattutto dei poveri e di ogni persona che soffre.

In questa stagione, la campagna del Sussex si stende lussureggiante da Londra verso il mare. Villette a schiera, case coloniche e nobiliari bucano il manto di prato «all’inglese» che proseguirebbe altrimenti intonso per decine di chilometri. Una fotografia di pace, armonia; magari un po’ noiosa, ma certamente rilassante. Alle spalle il viaggiatore lascia la grande metropoli; di fronte, la turistica costa della Manica è l’unico vero ostacolo prima di tuffarsi nel blu intenso del canale.

UN SANTUARIO SPECIALE

Il santuario di «Nostra Signora della Consolazione», nel paesino di West Grinstead, emerge come una grande macchia bianca immersa in un oceano di verde: un grande luogo di culto come non ci si aspetterebbe di trovare da queste parti, in questa terra dove le parole chiesa e liturgia si sposano obbligatoriamente con il concetto di sobrietà. Ci sono ragioni storiche per spiegare il perché si è voluto dedicare il santuario proprio alla Regina della consolazione. Sì, perché la Consolata ha una delle sue «seconde case» anche in Inghilterra. Dobbiamo ritornare brevemente con la memoria al XVI secolo e agli anni bui che seguirono la rottura politico-religiosa operata dalla corona inglese con la chiesa di Roma. Al colpo di mano di re Edoardo VIII seguirono anni di repressione contro la presenza cattolica in Inghilterra, che ebbero il loro picco durante il lunghissimo regno della figlia di questi: Elisabetta I. Per molti preti, religiosi o anche esponenti laici della chiesa cattolica la fuga fu l’unica opportunità per evitare minacce, arresti, torture e condanne a morte. Inutile dire che l’unica via di salvezza per chi voleva allontanarsi dalle isole britanniche era rappresentata dal mare. I percorsi delle attuali A24 e A23, le autostrade che oggi, piene di traffico, si snodano da Londra verso le cittadine di Worthing e Brighton, divennero il pericoloso cammino notturno di molti pellegrini che cercavano sul continente il modo di salvarsi e, con il tempo, riordinare le fila del cattolicesimo inglese.
Tuttavia, le campagne del sud dell’Inghilterra non offrivano soltanto pericoli a questi viandanti del tutto speciali. A West Grinstead, i Carylls, un’abbiente famiglia cattolica del posto, iniziò a dare rifugio a molti preti che tentavano di lasciare l’isola o, in seguito, cercavano di ritornarvi sotto mentite spoglie per iniziare a ricostituire nella clandestinità le comunità cattoliche. Verso la metà del XVI secolo, venne costruita nella proprietà di famiglia quella che, ancora oggi, è conosciuta come la «casa del prete», una piccola costruzione in cui i rifugiati vivevano sotto mentite spoglie, sovente travestiti da pastori. Sotto il tradizionale tetto di paglia, un fienile nascondeva una piccola cappella in cui, quotidianamente, veniva celebrata l’eucaristia. Altri due nascondigli, ovviamente privi di luce naturale, vennero ricavati utilizzando le canne fumarie della casa, angusti rifugi che permettevano ad una persona in piedi di rimanere perfettamente celata a sguardi inopportuni.
L’affidabilità di questo ricovero di fortuna è testimoniata dal fatto che non si ha avuto memoria di persone scoperte o arrestate mentre vi si nascondevano. La famiglia Carylls subì vessazioni e persecuzioni a causa della testimonianza di fede data in così difficili circostanze e non è difficile immaginare i sentimenti di paura, sgomento, angoscia, che le pareti di quel nascondiglio dovettero respirare per anni.
Quando, nel 1865, venne presa in considerazione la proposta di costruire una nuova chiesa a West Grinstead, si suggerì che il futuro santuario potesse essere messo sotto la protezione della Vergine della Consolazione. L’ordinario della diocesi di Southwark, il vescovo Grant, appoggiò caldamente questa iniziativa, riconoscendo che il «luogo santo», su cui sarebbe sorto il nuovo centro di culto, avrebbe avuto nella Madonna Consolata una degna titolare, madre e modello di una chiesa perseguitata che si fa servitrice degli oppressi della storia. Per l’importanza rivestita in quel tempo e per la particolare spiritualità che da sempre lo animava, il santuario della Consolata di Torino divenne il modello cui ispirarsi e gemellarsi, in modo da poter condividere con esso preghiere, privilegi spirituali e benedizioni.

SPIRITUALITÀ FORTE

Del resto, anche la gente di Torino aveva imparato, nel corso dei secoli, ad affidarsi alla Vergine nei momenti particolarmente difficili della vita cittadina: carestie, epidemie, guerre. La Consolata è sempre stata la discreta «compagna di viaggio» della popolazione che a lei si affidava, attenta e premurosa, pronta ad offrire uno squarcio di luce a chi brancolava nel buio di difficili circostanze esistenziali. Da sempre, insomma, la spiritualità della Consolata si è incarnata nel tessuto quotidiano della vita della città. I grandi santi sociali della chiesa torinese del tempo avevano attinto a piene mani la forza per continuare la loro opera al servizio dei più poveri anche dalla figura umile, silenziosa, ma risoluta della giovane donna di Nazaret che vedevano impressa nell’icona della Consolata.
Questo tratto caratteristico di Maria è stato riconosciuto sin dall’esperienza di fede della prima comunità cristiana. Nel racconto dell’evangelista Giovanni, immediatamente prima dei capitoli dedicati alla passione e morte del Signore, Gesù promette l’invio del suo spirito sulla comunità dei discepoli, spirito che dimorerà in loro, guidandoli nei sentirneri della storia e aiutandoli a ricordare con fedeltà e testimoniare con autorità il messaggio di Gesù. Per compiere il suo mandato, la chiesa trova in Maria un modello degno di essere imitato. In lei, celebra un essere umano capace di trascendere la propria realtà e che, abitato dallo spirito, indica con coraggio i valori del regno. Il conto del Magnificat riassume al meglio lo status che Maria riveste davanti a Dio e alla chiesa: è la umile e docile ancella del Signore, da lui consolata attraverso «grandi meraviglie» affinché possa essere lei stessa una consolatrice profetica dei poveri e degli oppressi. Di conseguenza, noi, che siamo la presente generazione di discepoli di Cristo, chiamati a partecipare e a lottare nel suo mistero di redenzione, crediamo che nessun altro come Maria possa guidarci attraverso le frange, sia umane che divine, di questo mistero. È su questi passi che ci guida il culto della Consolata.
Seguendo le orme di Maria, consolata e consolatrice, si possono superare certi aspetti devozionistici deteriori suscitati da una certa forma di culto mariano, fondata su un eccessivo sentimentalismo e una certa dose di superstizione. Ciò non significa assolutamente farsi beffe della religiosità popolare. Si tratta, invece di recuperare autentiche forme di devozione, che facciano maturare una genuina relazione dell’uomo con l’inesauribile mistero di Dio, relazione che si perfeziona nella prassi delle beatitudini e nella testimonianza dei valori del Regno.
Già papa Paolo VI, nella sua esortazione apostolica Marialis Cultus (1974) incoraggiava la ripresa di pratiche tradizionali di devozione mariana come il rosario, auspicando che esse venissero arricchite da fondamenti teologico-pastorali che le rendessero più vicine alle sensibilità e alle esigenze del mondo contemporaneo. Oggi, nuovi spunti provenienti dalle scienze bibliche, dalla teologia femminista e dal dialogo ecumenico obbligano la chiesa a ripensare teologicamente e pastoralmente il ruolo di Maria e a rivisitare il culto a lei dedicato applicandolo al contesto esistenziale del credente.
Come non pensare all’immagine di Maria che traspare dall’insegnamento del beato Allamano, per quarantasei anni rettore del santuario della Consolata di Torino? L’amore grande per la Vergine, coltivato in intense notti di preghiera e vissute a tu per tu dal coretto che si affaccia sull’icona del santuario, è passione vera per una persona «viva», reale, che l’Allamano indica come modello ai suoi preti e missionari. Una donna «che condusse una vita esteamente ordinaria, ma non in modo ordinario». Una donna come tante, vicina all’esperienza di molte altre madri, figlie e sorelle che si rivolgono a lei per cercare la via dello straordinario nell’ordinario, la santificazione nelle piccole cose. Maria madre dei poveri e degli oppressi, donna del popolo e, nello stesso tempo, icona di fedeltà al progetto di Dio sull’umanità, chiamata ad esser santa per poter essere missionaria, portatrice di Gesù Cristo, consolazione delle genti.

CONSOLARE IL MONDO

Per i poveri, Maria è sempre stata la consolata e la consolatrice, anche se per ragioni culturali, storiche o affettive l’hanno venerata e continuano a venerarla sotto altri titoli. In Colombia, per esempio, il culto alla Virgen del Carmen ha resistito all’invasione di altre devozioni mariane che hanno accompagnato l’evangelizzazione del paese nel corso dei secoli. Se andiamo però a leggere gli aspetti che caratterizzano l’amore della gente alla Madonna del Carmine, non possiamo non individuarvi gli stessi tratti tipici che ci spingono ad abbracciare la Consolata. In una terra segnata da guerra, violenza, disgregazione familiare e sociale come è la Colombia di oggi, Maria assurge a modello di fede e vita cristiana, con le sue doti di madre consolatrice. Come la figura della madre è sociologicamente il centro della famiglia, vero (e molte volte unico) punto di riferimento, Maria, sotto qualsiasi titolo la si voglia chiamare, suscita una spiritualità forte. È una donna energica, determinata, che si impegna, silenziosamente, nell’oscuro lavoro di testimoniare con fede incrollabile la sconfitta del peccato e di annunciare la liberazione messianica dei poveri dalle storiche ingiustizie sociali. In America Latina come nelle baraccopoli di Nairobi, nella foresta del nord del Brasile come nelle ghiacciate steppe della Mongolia o nel deserto umano delle opulente città europee e Nordamericane, Maria continua a essere la donna del Magnificat. È l’umile serva con cui gli emarginati di ogni tempo possono identificarsi. Come ieri furono i pellegrini che fuggivano per le campagne inglesi ad essere accompagnati da Maria al sicuro rifugio di West Grinstead, oggi sono altri migranti a cercarne la protezione. La processione della Consolata che si tiene tradizionalmente a Torino la sera del 20 giugno si veste di nuovi colori e si arricchisce di nuovi volti. Sono i segni della nuova cristianità torinese, frutto della migrazione, che celebra la propria fede nel capoluogo piemontese. Senza rinunciare alle proprie devozioni tradizionali, le comunità latinoamericane, africane, est-europee e asiatiche di fede cattolica pongono ai piedi della Consolata i loro affanni quotidiani. Da lei sono ancora una volta invitati ad avvicinarsi all’unico consolatore: Gesù, il Cristo.
Maria ha dovuto sentire su di sé la forza della consolazione: Maria resa madre prima del matrimonio e subito discriminata, Maria migrante, rifugiata in terra straniera, madre di un uomo ucciso ingiustamente e barbaramente. È proprio la sua drammatica esperienza di povertà, sofferenza, persecuzione e migrazione che rende Maria sorella dei poveri. Nessuno si può sentire da lei rifiutato e questa sicurezza rappresenta una grande fonte di consolazione per coloro che sono continuamente abbandonati alle periferie della storia. Maria è un modello che non sostituisce Cristo in quanto sorgente di ogni consolazione, ma ne completa l’opera grazie alla dimensione matea e femminile della sua esperienza di fede.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Sulle orme di Saverio

In occasione dei 500 anni dalla nascita di Francesco Saverio, cinque sacerdoti ripercorrono il suo cammino di evangelizzazione in Giappone, per meglio conoscere la persona e l’opera avviata dal grande missionario. L’incontro con alcune comunità cristiane ed esperienze di dialogo interreligioso offrono l’opportunità di venire a contatto con l’attuale chiesa giapponese.

Domenica 19 febbraio 2006 rimane nei ricordi come un’esperienza unica, cuore del pellegrinaggio, che ormai volge al termine. Siamo invitati a partecipare alla messa in una delle parrocchie della periferia di Osaka, ognuno affidato a un missionario saveriano. Il mio angelo custode mi porta nella comunità cristiana di Kumatori. Dopo la comunione, il parroco, padre Angelo Manni, mi presenta ai fedeli e mi chiede di rivolgere loro un breve messaggio, che lui traduce in giapponese.
«Cari cristiani – esordisco -, sono un missionario della Consolata e vengo da lontano. Mi chiamo Vincenzo Mura. Ho lavorato per diversi anni in Italia e nella Repubblica democratica del Congo. Non vi nascondo che vi parlo con tanta umiltà, perché vedo in voi, innanzitutto, la chiesa iniziata da san Francesco Saverio e i fratelli diretti di generazioni di martiri. Questo mi emoziona tanto. Non è di tutte le chiese avere fondamenta e tradizioni così solide. Esorto ognuno di voi a continuare a dare la vostra bella testimonianza di fede in Gesù Cristo risorto. Grazie».

DUE ANNI EROICI
DI EVANGELIZZAZIONE

Siamo in cinque: tre sacerdoti della diocesi di Brescia, un missionario saveriano e il sottoscritto. Atterriamo a Kagoshima, nell’isola di Kyushu, la più meridionale dell’arcipelago giapponese. All’aeroporto ci attende padre Giuseppe, dei missionari Saveriani, nostro angelo protettore, che ci introduce nel mondo giapponese.
Anche per Francesco Saverio sarebbe stata un’impresa impossibile, nel 1549, raggiungere questa città senza la guida di un esperto del paese. La trovò, infatti in Anjiro, un giapponese sfuggito alla giustizia e ricercato per omicidio, che il missionario aveva incontrato a Malacca, presentatogli da Alvares, capitano di una nave.
Usciti dall’aeroporto, proviamo a immaginare cosa abbia provato il grande missionario di fronte allo spettacolo offerto dalla prima città giapponese che lo accolse. Purtroppo, una fitta e piovigginosa nebbiolina c’impedirà per tutto il tempo del nostro soggiorno di gustarne fino in fondo la bellezza della baia, lunga e stretta, dominata dal vulcano Satura-Jima, isolato in mezzo al mare. Così era e tale è rimasto fino al 1914, quando un’enorme eruzione di lava lo ha unito alla sponda orientale.
Sotto una pioggia torrenziale visitiamo il monumento a san Francesco, dove è raffigurato Anjiro che porta sulle spalle il missionario e lo introduce in Giappone. Passiamo quindi al castello del potente daimyò (governatore locale), dove il Saverio si recò, accompagnato da Anjiro, per avere la libertà di predicare il vangelo. Permesso che ottenne facilmente, anche perché il signorotto sperava di attirare nel suo feudo i commercianti portoghesi.
Continuiamo il nostro pellegrinaggio, visitando la città di Kagoshima e la cattedrale. La giornata termina nella casa del presidente della comunità cristiana, dove siamo invitati a cena, rigorosamente alla giapponese, con tanto di bastoncini (hashi) al posto delle posate.
A Kagoshima Francesco si fermò circa un anno, dando vita alle prime comunità cristiane. Poi si spostò a Hirado, piccola isola a nord di Nagasaki, e dopo quattro mesi raggiunse Yamaguchi. Facciamo anche noi tale percorso, ma prima ci fermiamo per un giorno nel centro di spiritualità Seimeizan, dove veniamo iniziati a tante piccole realtà giapponesi (vedi riquadro). Ci prepariamo a familiarizzare con il tatamì: spessa stuoia di paglia di riso usata come pavimento nelle case giapponesi, nelle quali si entra solo dopo aver lasciato le scarpe all’esterno delle mura domestiche. È piacevole camminare a piedi scalzi sul tatamì: dà una sensazione di leggerezza e di silenzio.
Ci abituiamo al futon, il materasso per dormire, disteso sul pavimento, che al mattino viene ripiegato e riposto in un armadio, lasciando libero lo spazio per i pasti e la vita familiare diua. Impariamo anche a fare la meditazione zen, appollaiati sulle gambe per mezz’ora… Che fatica, la prima volta!
Riposti i futon nei loro armadi, riprendiamo il viaggio sotto la guida di padre Franco Sottocornola, direttore del Seimeizan. Ci fermiamo a Nagasaki, per sostare in preghiera davanti al monumento che ricorda i martiri giapponesi e visitare il museo della bomba atomica (vedi riquadro), quindi anche noi raggiungiamo Hirado, dove visitiamo la bella chiesa dedicata al santo missionario; quindi raggiungiamo Yamaguchi, capoluogo dell’omonima prefettura, nella regione del Chûgoku, nell’estrema punta occidentale dell’isola di Honshû.
A Yamaguchi visitiamo i luoghi che portano la memoria del Saverio: santuario, museo, castello. Ci vengono ricordate le sue peripezie per ottenere piena libertà nella predicazione del vangelo. Tenendo presente la situazione sociopolitica del paese, il Saverio pensava di guadagnarsi i favori dell’imperatore; per questo si recò a Kyoto: un viaggio di 400 km a piedi, d’inverno, tra indicibili stenti e pericoli. Noi faremo lo stesso tragitto in poche ore sul treno velocissimo.
Francesco trovò la capitale dell’impero in preda a gravi tumulti e comprese che il monarca era privo di potere politico. Egli toò subito a Yamaguchi e si procurò l’appoggio del daimyò della regione, che gli concesse un vecchio tempio buddista (poi diventato la prima casa dei gesuiti in Giappone) e di annunciare liberamente il vangelo di Gesù.
Dopo circa quattro mesi, nel 1551, Francesco ripartì per le Indie, con l’intento di organizzare e dare solidità alla sua missione in Giappone ed estendere l’evangelizzazione alla Cina. Ma morì l’anno seguente.

LA CHIESA GIAPPONESE

Dopo due anni d’intensa ed eroica evangelizzazione, Francesco Saverio lasciava in Giappone più di 400 battezzati: piccole comunità cristiane che seppero tener viva la fede per secoli, sfidando contrasti e persecuzioni.
Nel nostro pellegrinaggio constatiamo quanto la presenza del Saverio sia ancora viva: li vediamo nei segni che ricordano i luoghi dove egli è passato; i cristiani giapponesi parlano di lui come uomo di Dio, un santo, divorato dalla sua missione; i missionari attualmente presenti lo hanno come patrono e ispiratore del modo di fare missione.
La prima evangelizzazione di san Francesco e altri missionari fu seguita da lunghi e tormentati periodi di persecuzioni e testimonianza nel martirio, silenzio e isolamento dal resto del mondo e dalla chiesa universale.
Il viaggio di Giovanni Paolo ii, nel febbraio 1981, le scelte pastorali dei vescovi e il lavoro dei missionari hanno contribuito, negli ultimi decenni, a frantumare un certo tipo di «congiura» contro il cattolicesimo.
Un papa che parla in diverse lingue, che celebra la messa e ordinazioni di preti locali in lingua giapponese, che si rivolge con umiltà e autorità ai capi di tutto il mondo per implorare la pace… non appare certo come un capo spirituale di una minoranza insignificante!
Ma è soprattutto con i suoi gesti e la sua catechesi che il pontefice penetra nel cuore dei giapponesi, quando, per esempio, invitato dalla nota cantante Agnese Chang, improvvisa un girotondo con alcuni bambini, durante l’incontro con i giovani; oppure quando, durante la messa celebrata il 26 febbraio a Nagasaki sotto una tormenta di neve, loda i martiri giapponesi, paragonandoli ai «primi martiri dell’era cristiana». Tutto questo contribuisce a far sì che il cammino della chiesa faccia notizia.
I vescovi, secondo lo stile giapponese, evitano lo scontro e non prendono posizioni; ma operano come fermento nella società. Significativo rimane il loro documento «Messaggio sulla vita», in cui essi presentano la dignità della vita nella visione cristiana, usando espressioni molto belle e incisive, capaci di penetrare veramente nel cuore della persona, aiutandola a cambiare. Anche aborto ed eutanasia vengono toccati da una prospettiva positiva, secondo il grande valore della vita.
La chiesa è anche propositiva sul problema della discriminazione di gruppi socialmente emarginati, sull’attenzione ai poveri, lebbrosi, orfani, anziani e sul concreto impegno nella giustizia sociale.

PICCOLA, MA DINAMICA

I missionari saveriani che ci accompagnano nel nostro pellegrinaggio sono felici di rispondere alle nostre domande, per darci un quadro sempre più completo sulla situazione della chiesa giapponese.
Oggi, la chiesa in Giappone conta più di 450 mila cattolici, distribuiti in 16 diocesi e 1.000 parrocchie, circa 800 sacerdoti autoctoni e altrettanti missionari esteri. Questa presenza missionaria opera in piena collaborazione con la chiesa locale, per rispondere a tutti gli impegni della chiesa giapponese nell’assistenza religiosa, nel campo dell’insegnamento, dell’aiuto ai poveri e anziani… oltre a dare quella spinta di missionarietà ad extra, di cui il Giappone ha ancora bisogno.
A dare visibilità e prestigio alla chiesa cattolica sono soprattutto le scuole: 559 matee, 54 elementari, 98 medie inferiori, 113 medie superiori, 26 istituti universitari, con corsi di due anni, e altri 18 a ciclo prolungato. Il rapporto tra istituzioni scolastiche e studenti, genitori ed ex alunni è molto intenso e dura tutta la vita. Nelle scuole cattoliche, poi, non c’è nessuna imposizione religiosa.
Gran parte degli studenti non diventa cattolica, ma rimane «simpatizzante» del cattolicesimo. Inoltre, il 90% degli adulti che si convertono e ricevono il battesimo hanno avuto il primo contatto con Cristo e la chiesa attraverso la scuola. La chiesa è molto presente anche in campo sociale: gestisce 234 nidi d’infanzia, 192 case per anziani, 80 centri sociali per i senzatetto o per altri servizi.
Se confrontiamo il numero dei cattolici (450 mila) con quello degli abitanti (126 milioni) la chiesa appare certamente una minoranza. Nonostante la piccolezza, i cattolici si sentono parte essenziale della società giapponese, profondamente radicati nella propria cultura e, al tempo stesso, totalmente integrati nella chiesa universale.
In Giappone sono presenti un centinaio di congregazioni religiose, di cui 5 autoctone, come le suore del Cuore Immacolato di Maria, fondate a Nagasaki. Grande attrazione riscuote la vita claustrale maschile e femminile: 5 monasteri di trappiste (con 30-60 religiose ciascuno), 9 di carmelitane (tutti pieni); e poi monasteri di clarisse, redentoriste, del Preziosissimo Sangue; 2 monasteri di trappisti. In tutto sono oltre 6 mila le suore giapponesi: la percentuale più alta del mondo, rispetto al numero di cattolici.
«Siamo un piccolo gruppo; non siamo certamente una forza come voi in Congo, Vincenzo; ma si lavora bene» conclude padre Franco.

TRA PARCHI E TEMPLI

Nonostante le grandi città e i complessi industriali disseminati in tutto il paese, la prima impressione che si prova in Giappone è quella di trovarsi in un grande parco, dove tutto è pulito e ordinato; e poi la gente, rispettosa di ogni cosa, cerimoniosa nell’accogliere i passeggeri in stazioni e aeroporti.
Il pellegrinaggio sulle orme del Saverio, è un’occasione per conoscere anche la storia, la cultura, l’animo del Giappone. Per questo visitiamo i suoi monumenti religiosi più importanti, come i kofun, tra i più antichi. Sono tombe a tumulo, che si trovano a migliaia in tutta l’isola di Honshû, la più grande del Giappone, e nella parte settentrionale dell’isola di Kyûshû. La loro fioritura ha dato il nome a un segmento della storia del Giappone, conosciuto come «periodo Kofun» (iv-vi secolo d.C.). Dopo questi secoli, i kofun non furono più edificati, sopraffatti dalla diffusione del buddismo e delle usanze funerarie ad esso collegate.
A Kyoto, la Firenze del Giappone, ci troviamo immersi nel parco di Kinkakuji (padiglione dorato) uno dei più pittoreschi tra i molti templi dell’antica capitale imperiale. L’ incantevole piccolo tempio, ricoperto di lamine d’oro, appollaiato su un laghetto, è allo stesso tempo unico tempio zen e sacro reliquiario di Budda.
Come preti ci viene naturale domandare ai nostri accompagnatori: «In che cosa credono i giapponesi? Qual è la loro religione?». Risposte e spiegazioni sono sorprendenti. Questo popolo ha nel sangue lo shintornismo, una religione atavica, secondo la quale tutto è abitato da Dio. La gente ha un profondo senso religioso della natura, un’innata capacità di cogliere la bellezza straordinaria del creato. I messaggi televisivi avvisano quando il pesco è fiorito a Nagasaki o il ciliegio fiorisce a Kyoto. A tali informazioni, tutti sospendono ogni attività e si riversano in campagna per godere della fioritura del pesco o del ciliegio.
«Non domandare mai a un giapponese quale sia la sua religione – spiega padre Marco -; potrebbe risponderti: “Per amor di Dio, non ne ho nessuna!”. Si può domandare, invece, a quale tempio appartenga. Di fatto, su 126 milioni, 80 milioni vanno a un tempio per pregare, ma appena il 5% dei giapponesi sanno in che cosa credono».
L’innata religiosità dei giapponesi è caratterizzata da una diffusissima superficialità. Nelle case si può avere l’altarino buddista per gli antenati e quello shintornista per gli dei. Ma pochi saprebbero dire il nome degli dei venerati in famiglia.
Quando arriviamo nelI’isola di Miyajima e visitiamo il bellissimo tempio shintornista (patrimonio dell’umanità, distrutto da un tifone nel settembre del 2004 e ricostruito), si sta celebrando un matrimonio. Anche questo è un argomento che ci interessa come preti.
«I giapponesi nascono shintornisti; si sposano in chiesa e muoiono buddisti – risponde lapidario la nostra guida -. Tutti sono presentati al tempio shintornista al momento della nascita; un numero sempre crescente si sposa nelle nostre chiese cattoliche (logicamente non si tratta di matrimonio cristiano); è compito dei bonzi fare i funerali».
E finiamo (si fa per dire) a Tokyo, camminando lungo i viali, sempre in ordine e puliti, del parco dove sono le abitazioni dei bonzi buddisti. Anche qui le domande si affollano: hanno costoro una speranza futura? Nessuno ci ha chiesto l’elemosina: ma i poveri ci sono? E questi giovani in visita come noi e ai quali chiediamo di fare una foto insieme, credono a tutto questo?
«Intanto sono qui – spiega la nostra guida -. Hanno fatto le loro abluzioni. Ora guardate come battono la mano destra sulla sinistra per farsi notare dalla divinità: chiedono la grazia di essere promossi o qualche altro favore materiale… E fanno tutto con molto rispetto. Ma non chiedete qual è la loro fede o a cosa credono. Esprimono con la loro presenza la gioia di far parte della natura che li circonda».

Vincenzo Mura

Vincenzo Mura




Seimeizan: montagna della vita

L’ispirazione viene da due assemblee tenute negli anni ‘70 dalla Federazione delle conferenze episcopali asiatiche, le quali suggeriscono di dotare la chiesa in Asia, oltre alle tradizionali strutture ecclesiastiche (parrocchie, opere sociali, scuole, asili…) di centri di preghiera e di dialogo tra le grandi religioni dell’Asia. La scintilla che lo fa nascere è l’incontro provvidenziale tra il padre saveriano Franco Sottocornola e il monaco buddista Furukawa. Dopo anni di gestazione, nel 1987, su una collina sovrastante la cittadina di Kikusui, nell’isola di Kyushu, nasce il «Seimeizan» (montagna della vita), centro di spiritualità e dialogo interreligioso.
Il centro rispecchia in tutto le caratteristiche culturali e spirituali della tradizione giapponese: la struttura dell’edificio, immersa in una foresta di bambù e cipressi, con pareti e porte scorrevoli, la luce che penetra diffusa e non violenta, sembra non avere alcuna discontinuità tra l’interno e l’ambiente circostante. Inoltre, la semplicità dell’arredamento, l’uso del legno o della paglia di riso intrecciata, il tatamì che invita a stare insieme, creano rapporti familiari e calore umano che fanno pensare a una psicologia della casa, diversa dalle nostre tradizioni europee.
Ma ciò che caratterizza il Seimeizan è, soprattutto, l’assunzione di tre elementi classici dello spirito del popolo giapponese: la natura, la montagna, la via del tè. Vivere in mezzo alla natura, sentita come luogo sacro, significa vivere in un contesto di esperienza religiosa. La montagna è luogo di silenzio e d’incontro con Dio. Il silenzio caratterizza molte volte gli incontri interreligiosi che si svolgono al Seimeizan. Il desiderio di stare insieme, di comunicare l’esperienza mistica non ha bisogno di parole. Nella cerimonia del tè, servito dal padrone di casa, i componenti del gruppo (non più di 7 persone) non si guardano in faccia, ma tutti guardano la tazza: bere insieme il tè è segno di pace; è un momento che crea nel gruppo uguaglianza e rispetto, gioia di stare insieme.

La comunità cristiana del Seimeizan (5 persone in tutto) opera in stretta collaborazione con il tempio buddista della vicina città di Tamana, praticando con semplicità e impegno alcune scelte fondamentali: vivere in mezzo ai buddisti per rispondere al dialogo della vita e delle opere; svolgere servizi di vario genere a favore dei bambini, anziani e persone bisognose di aiuto, di consigli e assistenza; offrire accoglienza a singoli e gruppi che vogliono fare esperienza spirituale e di dialogo.
Ogni anno centinaia di persone salgono alla «Montagna della vita» per pregare, vivere a contatto con la natura e con se stessi, comprendere l’animo giapponese, scoprire negli eventi quotidiani la presenza di Dio. Seimeizan è un vero polmone spirituale, in un ambiente in cui il senso religioso rimane spesso in superficie.
Anche noi pellegrini respiriamo un’atmosfera di autentica spiritualità cristiana, fatta di accoglienza, preghiera, contemplazione, attenzione all’altro. Vorremmo condividere per tutto il giorno il loro stile di preghiera, rivolti al sole quando sorge e quando tramonta, ma la pioggia non ce lo permette. Quindi svolgiamo tutto il nostro programma all’interno.
Centro della nostra giornata è la celebrazione della messa, preceduta dalla meditazione zen. Il rito, ispirato alla cerimonia del tè, si svolge con profondo rispetto e dignità liturgica e costituisce per noi un’affascinante novità per rivivere il mistero pasquale.

VM




La pace … nel pallone

Una volta modello di sviluppo per i paesi africani, la Costa d’Avorio è ora divisa in due dalla guerra civile e la pace è ancora lontana. I missionari della Consolata, da 10 anni presenti nel paese, hanno tenuto la loro conferenza regionale, mettendo a punto nuove strategie per essere tra la gente seminatori di riconciliazione e di speranza.
Vi ha partecipato l’autore di questo articolo, consigliere generale dell’Istituto.

Sono a Sago, 29 gennaio 2006, data importante per i missionari della Consolata: è l’anniversario della fondazione del nostro Istituto. Per i missionari che lavorano in Costa d’Avorio è pure l’occasione per celebrare il decimo anniversario della loro presenza nel paese.
La sera del 23 gennaio del 1996, infatti, i primi tre missionari della Consolata arrivarono al Centro pastorale della diocesi di San Pedro. Questo nuovo impegno missionario, in obbedienza alle indicazioni del ix Capitolo generale, aveva lo scopo di portare «novità in quanto allo stile, ai metodi e alle espressioni dell’azione evangelizzatrice dell’Istituto».
Di fatto, subito dopo il loro arrivo, cominciarono a prendere contatto con la bidonville del Bardot, un agglomerato di capanne di legno con 50 mila abitanti, senza luce elettrica né acqua né altre strutture essenziali. Poi, per essere più vicini ai poveri, fu costruita una casa in legno, accanto a una cappella già esistente, e si trasferirono definitivamente nella bidonville. Al tempo stesso i missionari ebbero l’incarico temporaneo di costruire la nuova parrocchia della cattedrale.
Con l’arrivo di nuovi missionari, nel 1997 fu aperta la missione di Sago, campo di prima evangelizzazione a 120 km da San Pedro. Nel 2000 fu accettata la cura pastorale di Grand Béréby, una parrocchia già organizzata, con numerose comunità cristiane appena incipienti. Nel 2004, restituita la zona del Bardot alla parrocchia della cattedrale, fu aperta una nuova missione a Grand Zatry, a nord di Sago.
Su invito del nunzio apostolico e a richiesta del vescovo di Odienné, nel 2001 tre missionari si stabilirono a Dianra, nel nord del paese a maggioranza musulmana, con lo scopo di avviare anche un primo graduale incontro e dialogo con la consistente popolazione islamica. Nel 2002 altri due missionari hanno iniziato la missione di Marandala, a 80 km a est di Dianra.

È il 12 febbraio 2006. Siamo a Daloa, una cittadina situata a circa 350 km dalla capitale Abidjan. Da quanto si vede, doveva essere una bella città; ma ora si è lasciata andare a causa della guerra.
Siamo ospiti in un centro di accoglienza della Caritas, per celebrare la seconda conferenza regionale dei missionari della Consolata operanti nel paese. È un momento importante per sognare, organizzare, inventare, riflettere sulla missione in questo bel paese.
Siamo nel refettorio: alla televisione passano le immagini del ritorno trionfale in patria della squadra nazionale di calcio, arrivata seconda dietro all’Egitto al toeo africano della Can (Campionato d’Africa delle nazioni). Uno dei dirigenti commenta: «Celebriamo la nostra squadra, orgoglio nazionale e segno dell’unità del paese» (sic!). «Se bastasse una partita di calcio… per riconciliare un paese e portare la pace!» pensano i missionari.
Dal 2002 la Costa d’Avorio è divisa in due: il nord è controllato dalle forze dei ribelli; il sud dall’esercito governativo. Questa divisione pesa non solo sulla popolazione, ma anche sul nostro servizio missionario, dal momento che tre comunità sono nella regione meridionale, due nel nord del paese.
La fragile tregua permette viaggi e spostamenti tra le due zone, ma solo con mezzi pubblici o di fortuna, come i camion militari. Così ho potuto visitare anche le due missioni nel nord del paese.
Girando nelle varie zone ho potuto constatare il degrado causato dalla guerra e della situazione d’insicurezza. La strada, una volta asfaltata, è in un pietoso stato d’abbandono, si vedono delle case smantellate, il «solito» piccolo commercio delle mamme africane, forza dell’economia di sopravvivenza, che rimpiazza il grande commercio del caffè, cacao e cotone e altri prodotti che hanno creato la fortuna del paese.
Dappertutto blocchi militari, posti di controllo, ufficialmente posti per la sicurezza e salvaguardia dei cittadini, ma in realtà, segno dello sfruttamento, corruzione, disinteresse generale di un paese fino a pochi anni fa tra i più belli dell’Africa, ma ora dilaniato e distrutto, in mano a gerarchi che non si interessano del bene della gente.

Le comunità cristiane affidate ai missionari della Consolata sono tutte situate in zone periferiche e presentano ancora la sfida della prima evangelizzazione. Esse sono costituite in grande maggioranza da immigrati, originari del Burkina Faso, Ghana, Togo, venuti a cercare fortuna ai tempi d’oro della Costa d’Avorio e costretti a lavorare per il paese ospitante, ed ora divenuti capro espiatorio di tutti i mali e malessere del paese. Le ritorsioni arbitrarie, le costrizioni, i rubalizi contro di loro sono tristemente noti alla società avoriana.
In questa situazione è difficile evangelizzare, annunciare la buona novella, costruire comunità cristiane. Anche la chiesa ufficiale è divisa e non offre orientamenti per un cammino di riconciliazione nazionale e per una crescita nel rispetto dei diritti di tutti.
Non essendoci una lingua unica nazionale, oltre al francese, che non è capito né parlato da tutti, il lavoro resta ancora più difficile e frammentario. La situazione per il momento non presenta grandi possibilità di soluzione o di miglioramento, si parla di arrivare alle elezioni per il prossimo mese di ottobre, ma sembra che quasi nessuno ci creda veramente.
La pace è dunque solo una parentesi nella storia umana? La Costa d’Avorio come tutta l’Africa è destinata «eternamente» a soffrire? Dal 1960, anno simbolo dell’indipendenza di molte nazioni africane, questo continente ha conosciuto più di 200 colpi di stato, 101 capi di stato sono stati cacciati a forza. Dal 1970 ci sono stati più di 35 conflitti solo nell’Africa subsahariana, che hanno provocato circa 8 milioni di morti, come la prima guerra mondiale.
Toando alla Costa d’Avorio, bisogna dire pure che gli indici di fiducia commerciale sono scesi precipitosamente nella scala mondiale a causa di questa guerra. La guerra ha rovinato gli equilibri sociali e promosso modelli di milizia professionale al servizio dei signori della guerra, arruolando e coinvolgendo sempre più dei bambini, compromettendo così generazioni intere.
Ma cosa è capitato in Costa d’Avorio, una volta «modello» di sviluppo africano? Chi poteva immaginare che un paese che aveva organizzato così bene la propria indipendenza, che bussava alla porta dei paesi emergenti, che dimostrava molti segni di sviluppo nel campo economico, infrastrutture, rete stradale, elettrificazione delle campagne, tasso di scolarizzazione… potesse covare tanto odio tribale. Come è stato possibile che in un paese definito «la patria della pace», «tanto caro e vicino alla Francia», si sia scatenata tanta violenza xenofoba verso gli immigrati, di purificazione etnica tra il nord e sud dello stesso paese, fino a sfociare in autentiche scene di «caccia all’uomo bianco»?
All’origine di questi drammatici eventi ci sarebbero lo scontento di una parte delle forze armate nazionali e le ambizioni di rivalsa dei protagonisti del precedente tentativo di golpe, oggi esiliati. Inoltre lo scontento per la dominazione economica della Francia, a cui ora si aggiunge l’insofferenza della presenza dell’Onu, mediante l’operazione Monuci. E poi ci sono tutti quei fattori presenti nelle crisi degli altri paesi africani: interessi politici ed economici delle grandi potenze per le risorse del continente, che in generale si disinteressano delle sorti delle popolazioni. Nel nord del paese ci sono giacimenti di diamanti, la cui vendita serve a finanziare le Forces Nouvelles, il gruppo ribelle che controlla quella regione. Un gruppo di esperti Onu ha stimato che la produzione annuale in Costa d’Avorio è di circa 300 mila carati, con un giro di affari annuo di oltre 20 milioni di euro.

Durante la conferenza, la parola che ho sentito maggiormente risuonare sulla bocca dei 14 missionari è stata «la speranza», da dare e da ricevere.
Speranza trasmessa, restando accanto alla gente in tempo di guerra e di disordini, condividendo rischi e paure delle popolazioni. Come sono rimasti ai loro posti nel passato, i «nostri» missionari si sono impegnati a continuare nel futuro a visitare i villaggi a piedi e in bicicletta, nonostante l’insicurezza che regna ancora, soprattutto nel nord del paese.
Speranza ricevuta dalla forza della gente, che ha reagito e continua a reagire a situazioni tanto precarie, organizzandosi, lavorando, aprendo cammini nuovi. Speranza nella missione, per costruire sulle rovine lasciate dalla guerra e fare spuntare fiori di novità.
I vescovi della Costa d’Avorio, in un messaggio dal titolo emblematico: «Gesù Cristo è la nostra pace», invitano tutti a essere artefici della pace, mediante il perdono per le sofferenze vissute, le vessazioni subite e anche per le uccisioni che hanno colpito tante famiglie. Essi chiedono a tutti gli uomini di buona volontà di resistere a tutte le tentazioni etniche, regionaliste e nazionaliste. E concludo: «La forza dell’Africa non viene dall’unità dei suoi figli? È la vittoria di Cristo che supera tutti gli ostacoli e ci rende liberi per un amore senza frontiere».

Stefano Camerlengo

Stefano Camerlengo




Tante ragnatele fermano l’elefante

In un contesto di contraddizioni e ingiustizie eclatanti, oggi più che mai, la missione della chiesa è chiamata a promuovere i valori del regno di Dio: giustizia, pace e salvaguardia del creato, facendosi «voce dei senza voce» nelle istituzioni in cui si fanno scelte che riguardano i paesi poveri del mondo.
Lo stanno facendo le congregazioni missionarie operanti in Africa, mediante la «Rete fede e giustizia Africa-Europa» (Aefjn), nei parlamenti dell’Unione europea e dei paesi che la compongono.

In febbraio 2004, circa 11 milioni di inglesi hanno seguito uno dei cosiddetti Reality shows: «Sono una celebrità, venite a liberarmi», dove un attempato cantante rock, una modella e un ex corrispondente governativo parteciparono a un gioco di sopravvivenza, in una remota parte della foresta vergine australiana.
Tale programma non ha niente a che fare con la realtà, perché basato su false sofferenze e false celebrità, con lo scopo di intrattenere cittadini annoiati e ben nutriti di una società consumistica. In molte parti del mondo, invece, si combatte una reale lotta per l’esistenza e nessuno vede. Non si tratta di false celebrità, ma di milioni di persone che lottano ogni giorno per sopravvivere: con loro e per loro dobbiamo essere agenti di speranza e liberazione integrale.
Il cristianesimo è fondamentalmente una religione di speranza: è basato sulla promessa del progetto di Dio per l’umanità e per tutta la creazione; vive perché tale promessa diventi realtà. La missione cristiana scaturisce da questa speranza e le dona un’espressione concreta. Anzi, la missione è «speranza in azione» (David Bosch). È il mezzo con cui l’avvenire che speriamo è introdotto in una relazione trasformante con il presente in cui viviamo. È «il ponte di Dio verso un mondo che non è ancora arrivato alla dimora che gli è stata preparata» (Carl E. Braaten).

UN MONDO GLOBALIZZATO

Oggi tutti parlano di «globalizzazione», ma c’è poco accordo sul suo significato e su come reagire al riguardo. Il gesuita Peter Henriot la definisce come «l’integrazione delle economie mondiali tramite il commercio, flussi finanziari e scambio di tecnologie e informazioni».
Qualsiasi definizione, tuttavia, non riesce a farci percepire le enormi trasformazioni portate in ogni aspetto della nostra vita dal rapido sviluppo delle cosiddette tecnologie di informazione. «Nel bene o nel male, siamo catapultati in un ordine globale che nessuno capisce pienamente, ma i cui effetti sono risentiti da noi tutti» (Anthony Giddens).
Il problema non è tanto il suo processo in sé. La globalizzazione può essere buona o cattiva: dipende da ciò che è globalizzato. Potrebbe essere usata per estendere i benefici di un capitalismo socialmente responsabile e una scienza e una tecnologia umanizzata per tutti i popoli: e sarebbe la ben venuta.
Ma ad essere globalizzato sono il capitalismo liberale irresponsabile («capitalismo selvaggio» lo ha definito Giovanni Paolo ii), a vantaggio dei ricchi e a spese dei poveri, e una tecnologia materialista, che sfrutta e distrugge la natura. Questo è problematico e profondamente inquietante. A dominare la scena mondiale oggi è il libero mercato. Il globo è visto come un mercato guidato dalla voglia di profitto d’imprese private, che non conosce frontiere nazionali né interessi locali.
«Oggi i ricchi capitalisti hanno un mercato globale dove giocare a tutto campo – afferma il teologo indiano Michael Amaladoss -. Le facilitazioni della comunicazione rapida e su scala mondiale sono utilizzate per aumentare i profitti, procurandosi mano d’opera a buon mercato nei paesi poveri. I mercati inteazionali giovano alle nazioni ricche che li controllano. I settori commerciali e di servizi sono favoriti, mentre i prodotti di prima necessità perdono valore. I parlatori di diritti di proprietà intellettuale ignorano i diritti umani e naturali. Le multinazionali sono più potenti di molti paesi. I politici sono dappertutto a servizio di interessi commerciali. Le nazioni più ricche usano la potenza politica e militare, anche fuori dei loro confini, per favorire e proteggere i propri interessi economici… Ciò che abbiamo non è la globalizzazione del benessere e dell’abbondanza, ma dell’ingiustizia e povertà».

AFRICA GLOBALIZZATA

Gli effetti negativi della globalizzazione sono visibili specialmente in Africa: le statistiche mostrano chiaramente che per la maggior parte degli africani non funziona bene. Se in qualche parte del mondo la globalizzazione ha offerto opportunità di crescita economica e sviluppo, in Africa ha aumentato disparità e ineguaglianze. Su 48 paesi in via di sviluppo nel mondo, l’Africa ne conta 33 e ha il più alto debito commerciale. Nell’ultimo decennio il Prodotto interno della maggioranza dei paesi africani ha subito un costante declino, mentre i prezzi dei prodotti da esportazione sono in caduta libera.
Per i paesi più poveri dell’Africa la globalizzazione ha significato l’apertura alle importazioni e industrie straniere e la distruzione delle imprese locali. Ne è un esempio il processo di «deindustrializzazione» avvenuto nello Zambia, dove l’industria tessile, una volta fiorente, è stata spazzata via dalle importazioni dall’Asia; piccole industrie, come quelle produttrici di pneumatici e materiale sanitario, hanno chiuso a causa della concorrenza di grandi ditte del Sudafrica.
La promozione di Investimenti stranieri diretti (Fdi, Foreign direct investment) è stata salutata come nuova motrice di sviluppo, ma il loro flusso in Africa è molto piccolo, a vantaggio di pochi paesi come il Sudafrica e di un’élite già privilegiata.
Inoltre il processo di globalizzazione in Africa ha portato all’imposizione di dure riforme economiche, dettate dal «programma di aggiustamento strutturale» (Sap). Tali aggiustamenti strutturali hanno significato: aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, delle tasse scolastiche e sanitarie, diminuzione di occupazione e smantellamento di strutture economiche locali.
Gli economisti neoliberali sostengono che, con l’attuazione del Sap, vi può essere «difficoltà a breve termine, ma un vantaggio a lunga scadenza»; in Africa, però, la «sofferenza temporanea» dei tagli ai servizi sociali, il danno ecologico e l’erosione delle industrie di base avrà a lungo termine effetti disastrosi, rendendo impossibile la speranza di uno sviluppo umano integrale e continuo.
Una delle conseguenze più disastrose di tali aggiustamenti è quella di rendere inutili le popolazioni africane: negli ultimi anni in molti paesi dell’Africa la disoccupazione è aumentata del 14% e i governi non hanno incluso alcun programma esplicito a favore dell’occupazione.
Non esiste né cooperazione né progresso, quando non si tiene conto della popolazione che vive sul posto, salvo venire usata da interessi stranieri per trae il maggior profitto. La globalizzazione guarda all’Africa e agli africani come componenti di un mercato libero globale, prescindendo da considerazioni di sostentamento e sviluppo umano integrale.
In breve, l’88% dei paesi africani sono considerati ad «alto rischio», a causa dell’instabilità politica e leadership corrotta, violenza e anarchia, tribalismo e razzismo, avidità di profitto economico e noncuranza dei diritti umani.
Il 40% dei paesi africani sono in guerra e sconvolge la vita di oltre 100 milioni di africani, in maggioranza donne e bambini, causando dislocamenti di popolazioni, massacri, perdite di vite umane, bambini soldati, fame, distruzioni di scuole, ospedali e infrastrutture varie.
Più di 300 milioni di africani vivono con meno di un dollaro al giorno; oltre un terzo dei bambini sono denutriti; 25 milioni di africani vivono con la sindrome Hiv/Aids (il 70% degli infettati in tutto il mondo).

MISSIONE È…
TRASFORMARE IL MONDO

Fino a poco tempo fa, la missione mirava in generale a estendere la chiesa, così com’era, fino agli estremi confini della terra, più che alla trasformazione di se stessa e del mondo, alla luce della speranza cristiana di una nuova terra e nuovi cieli.
Ma non è stato sempre così. La missione cristiana delle origini, soprattutto come la comprendeva san Paolo, era ispirata e diretta dalla speranza di una nuova creazione. Nella visione di Paolo missione e speranza erano intimamente legate: la missione spiana la strada e prepara l’umanità per la tappa finale del regno di Dio, quando non solo l’umanità, ma tutta la creazione sarà liberata e trasformata sul modello della risurrezione di Cristo.
Per Paolo, missione significa annunciare la signoria di Cristo su ogni realtà e invitare i popoli a rispondervi. Ciò significa proclamare una nuova situazione, che Dio ha iniziato con Cristo; una situazione che interessa tutte le nazioni e tutta la creazione e che culmina nella celebrazione della gloria finale di Dio.
Ma la predicazione in sé non basta. La vittoria finale del regno di Dio non giustifica la passività. La missione chiede e sostiene una partecipazione attiva al piano di Dio per la liberazione dell’umanità qui e ora.
Nella teologia paolina della missione troviamo il fondamento per una protesta coraggiosa contro le strutture oppressive del peccato e della morte e per un impegno totale nella promozione della giustizia, pace e integrità del creato. Alla luce della venuta gloriosa del regno di Dio, i cristiani sono chiamati a sfidare le strutture oppressive e rendere visibili i segni del nuovo mondo di Dio.

DEFINIZIONI E ATTITUDINI

Abbiamo tante definizioni della missione. Quelle che più mi piacciono, in linea con l’insegnamento di Paolo, sono le seguenti: la missione è «trasformazione del mondo in regno di Dio» (Sean Healy); «proclamazione giorniosa e universale della risurrezione di Cristo»; «effusione del divino Spirito di vita e d’amore dal Signore Risorto in tutti gli esseri umani e nell’intero cosmo»; «cooperazione illimitata tra Dio e gli esseri umani nel modellare continuamente un mondo libero da ogni tipo di peccato e schiavitù e nel ricrearlo senza sosta, fino alla pienezza d’amore e vita voluta da Dio».
Da tali definizioni derivano attitudini specifiche. Prima di tutto occorre testimoniare con la vita più che con le parole. «La rosa non ha bisogno di predicare. Effonde semplicemente il suo profumo. La fragranza è il suo sermone» (Gandhi).
E poi, ascoltare prima di parlare; operare con la gente, anziché per la gente; imparare prima d’insegnare; non avere tutte le risposte; essere attenti alla voce dello Spirito che ci parla negli altri e attraverso gli altri; scoprire Cristo nell’altro e convertirsi all’altro; avere il coraggio di essere umili; soffrire con gioia; agire con speranza in mezzo alla disperazione…
La conseguenza ovvia della missione così intesa è che l’ impegno per la giustizia, non è semplicemente un’area o una dimensione della missione della chiesa, ma il cuore di ogni missione e servizio svolto in nome di Cristo e del vangelo.
Se la sollecitudine e l’impegno attivo per un mondo più giusto, pacifico e sano non è al centro delle varie attività apostoliche, non può esserci una vera testimonianza e proclamazione del vangelo integrale di Cristo. L’impegno per creare un mondo più giusto, pacifico e sano è una dimensione essenziale e integrale della testimonianza della chiesa a Cristo e al regno di Dio nel mondo d’oggi. Forse questa è la sfida più impegnativa per le congregazioni religiose.
In tale impegno ci sono tre dimensioni fondamentali e interdipendenti: fare e avere esperienza del mondo degli esclusi ed emarginati; riflettere sul mondo e capirlo dalla prospettiva di tale esperienza; lavorare assieme ai poveri ed emarginati in programmi di azione diretti alla trasformazione del mondo.

ESPERIENZA ED ESPOSIZIONE

Le tre dimensioni sono collegate, ma distinte, con propri metodi e traguardi. La prima (con l’accento sull’esperienza) usa il metodo di esporsi al mondo dei poveri ed emarginati e mira all’empatia con le vittime dell’ingiustizia e a vedere il mondo dal loro punto di vista.
Sperimentare il mondo degli esclusi deve essere il punto di partenza e di riferimento costante per tutti gli impegni di «giustizia, pace e integrità del creato» (Gpic). Tutto ciò è in linea con la «opzione preferenziale per i poveri», adottata più di 30 anni fa come criterio principale dell’impegno apostolico di molte congregazioni religiose e missionarie.
Oggi non se ne sente parlare molto, eppure è essenziale. Tale opzione scaturisce e prende forza dalla via scelta da Dio per coinvolgersi con amore nella vita dei suoi figli; ci fa vivere concretamente le beatitudini di Cristo e imitare i suoi metodi missionari. È dal punto di vista dei poveri e degli esclusi che incominciamo a percepire le vie di Dio e ad allinearci al suo progetto per l’umanità.
Nel passato la formazione religiosa e missionaria in genere avveniva in centri sicuri e confortevoli, lontano dalle inquietudini e lotte per la vita della maggior parte della gente, specie dei poveri. Ma non credo che ci siamo allontanati da questo tipo di formazione in modo significativo. Non è facile. Persino i recenti centri di formazione in Africa e Asia non hanno scelto di rompere con tale tipo tradizionale di strutture; anzi, sono più confortevoli che nel passato.
Per esporsi al mondo dei poveri bisogna entrare nei luoghi dove vivono, identificarsi con le loro paure, frustrazioni, lotte, giornie e speranze, come fece Gesù. Solo così si può imparare a sentire e simpatizzare con quelli che vivono ai margini della società economica e politica e vedere il mondo dal loro punto di vista.

RIFLETTERE E CAPIRE

La seconda dimensione usa l’investigazione, riflessione, ricerca metodica, con lo scopo di capire il mondo dal punto di vista delle vittime dell’ingiustizia. Come ogni esperienza, anche quella fatta con i poveri ed emarginati deve essere interpretata. Non basta l’empatia, il mettersi nei panni dei poveri. È d’importanza vitale leggere e capire il mondo dalla loro prospettiva. Tale lettura deve essere fatta, prima, alla luce del vangelo e della tradizione cristiana; poi alla luce del carisma specifico di ciascuna congregazione o istituto.
La formazione intellettuale, specie all’inizio, dovrebbe mirare a fornire ai candidati non solo fatti e risposte prefabbricate ai problemi sperimentati, ma anche strumenti e metodi che permettano d’interpretare e capire la realtà vissuta di persona e vista dalla parte degli esclusi.
Al tempo stesso è cruciale che siano comunicate certe informazioni basilari, specialmente sugli squilibri che affliggono il nostro mondo nel campo dell’economia, politica, rapporti sociali, relazioni tra uomini e donne e con l’ambiente. Questo non viene ancora fatto. Corsi specifici su tali problemi possono essere necessari per completare e concretizzare i normali programmi dei corsi di teologia, spiritualità e pastorale.
Inoltre i candidati, fin dalla formazione di base, dovrebbero essere incoraggiati a fare delle ricerche personali su problemi specifici, per esempio: valutare un determinato programma di aiuto, trattamento dei rifugiati in una certa area, soluzione di un conflitto, ecc. La conoscenza intellettuale del mondo non basta. Come cristiani dobbiamo avere una comprensione che unisce cuore e mente, spirito e intelletto.

AGIRE PER CAMBIARE
IN SOLIDARIETA’ CON I POVERI

Come servi del vangelo di Cristo, la nostra missione non è solo di capire il mondo, ma anche di cambiarlo, trasformarlo alla luce e in accordo con le esigenze dell’avvento del regno di Dio. La fede nel Risorto ci induce in una profetica scontentezza per come stanno le cose e in vista dell’avvenire promesso al mondo.
Per ciò la formazione alla giustizia include l’iniziazione a tecniche e pratiche necessarie per diventare attori effettivi del cambiamento sociale. Nel passato si dava molta attenzione, nei programmi formativi, alla conoscenza e alle tecniche necessarie per i ministeri spirituali e pastorali. C’è ugualmente bisogno di formazione per diventare attori efficaci in campo socio-economico; cioè attori capaci di motivare le persone, aiutarle a far valere le proprie ragioni, lavorare con loro in programmi di azione scelti dalla gente.

DIFESA DEI DIRITTI UMANI

L’«advocacy» (patrocinio) è una delle strategie più importante per promuovere la giustizia nei paesi in via di sviluppo. Le decisioni prese nell’emisfero nord hanno un impatto enorme e durevole sulla vita di milioni di persone dell’emisfero sud. È imperativo che la loro voce sia udita nel processo decisionale. Le congregazioni religiose non debbono eludere questa sfida, di patrocinare e farsi voce di chi non ha voce.
È chiaro che tale patrocinio (advocacy) è una strategia che richiede la più grande cooperazione possibile tra i religiosi e i gruppi laicali che hanno come comune ideale la creazione di un mondo più giusto.
L’Africa Faith and Justice Network (Afjn) e l’Africa-Europe Faith and Justice Network (Aefjn) sono state istituite specificamente per questo tipo di azione comune.
C’è un proverbio dello Zimbabwe che dice: «Quando le tele di ragni si uniscono, possono imprigionare un elefante». Il «vangelo della speranza», che siamo chiamati a proclamare con parole e opere, c’interpella e ci dà la forza d’imprigionare l’elefante delle strutture economiche ingiuste, in modo che il regno di Dio, che è giustizia, pace e amore, diventi una realtà per tutte le sue creature.

Michael McCabe SMA
*
Padre Michael McCabe, teologo irlandese, della Società delle missioni africane (Sma), è attualmente direttore dell’Aefjn e consigliere generale del suo istituto.

Michael McCabe SMA




Gomitolo di storie

Nel barrio (quartiere) Guaricano, periferia nord di Santo Domingo, una volta conosciuto come «barrio della spazzatura», dal 1991 operano due preti genovesi e quattro suore di N. S. del Rifugio in Monte Calvario (Brignoline). La loro presenza si intreccia in una matassa di storie di ordinaria vita quotidiana, non tutte a lieto fine.

Il ragazzo ha una testa enorme, sproporzionata al resto del corpo. Sei mesi dopo, lo scrivo come l’ho pensato, rettifica compresa: il ragazzo sembra avere una testa enorme, sproporzionata rispetto al corpo. Il fatto è che il corpo non ce l’ha, povero ragazzo di Barrio Guaricano, fulminato da non so quale malattia che gli ha storpiato gambe e braccia, rattrappendo il tronco e lasciando solo alla testa la libertà di svilupparsi secondo natura.
Avrà 18 anni, passati tutti fra un letto e una seggiolina, o strisciando sul pavimento della baracca di casa, nel ventre di uno dei posti più desolati e desolanti del mondo, nella parte di Santo Domingo che le cartoline e i begli spot promozionali non fanno vedere e, chi prenota una vacanza, scopre soltanto dopo, ma subito dimentica, perché la barriera corallina e la bellissima gente dominicana sono tutta un’altra cosa. E in fotografia vengono meglio.
Il mio fratello di reportages missionari si chiama Tito Mangiante e usa la telecamera con la leggerezza con cui farebbe il bagnetto a un neonato: è così delicato e rispettoso che a volte l’inquadratura somiglia a una carezza; e così racconta con garbo anche le cose che si faticano a guardare.
Così nei servizi che ho fatto per il mio telegiornale (quello che tutti conoscono come Tg3 regionale, nel mio caso Tg3 Liguria, si dovrebbe dire TgR Liguria, ma dite come vi piace), sono riuscito a far vedere il ragazzo dalla testa che sembra enorme, senza che nessuno abbia pensato a una spettacolarizzazione del dolore. Ho voluto farlo vedere, questo ragazzo, perché da noi starebbe nelle camere che non si visitano di qualche ospedale, e invece laggiù vive insieme agli altri, non è solo né vittima di curiosità morbose, l’ho visto sorridere, benché affondato nella sedia a rotelle dal telaio rosso fuoco.
Non dico sia stata una lezione; non ho mai pensato che il giornalismo sia dare lezioni, essendo la testimonianza il solo compito richiesto a chi ha il privilegio di essere testimone; dico privilegio perché il testimone vede e riflette senza mediazioni la realtà mentre si svolge, tutti gli altri devono accontentarsi di sentirsela raccontare. Niente può compensare la possibilità di essere occhi, orecchie e cuore del resto dell’umanità.
È un dono che diventa responsabilità e la sento, questa responsabilità: nel lavoro quotidiano, nel lavoro straordinario che una volta all’anno vado a fare da qualche parte nel mondo, per documentare attività missionarie, che oggi più che mai non devono restare sconosciute.
Quanto più i mezzi di comunicazione danno spazio agli argomenti futili, tanto più mi pare importante sventolare qualche bandierina diversa e rivendicarne la piena dignità; se ogni scelta ha proprie inossidabili logiche (è così, ma se ne può discutere) le scelte d’amore e di frateità vanno testimoniate negli spazi della normale informazione quotidiana, perché sono testimonianze di vita quotidiana.
D ico questo perché il filo che con Tito sono andato ad avvolgere in un gomitolo di storie, a Santo Domingo, ci ha portati a frugare fra le baracche di Barrio Guaricano; ma anche intorno agli ombrelloni di Boca Chica e a quelli di Samanà, non distanti dalla spiaggia che viene truccata da isola in un noto reality televisivo. Poi abbiamo visto e non dimenticheremo la Explanada de la verguenza, la spianata della vergogna, sulla quale incombe il Faro a Colón (Cristoforo Colombo), brutto monumento, che ha la pretesa di far sintesi dell’umanità e di porsi come principio del Nuovo Mondo.
Però abbiamo visto anche la «Prima Università», la sobria e sorprendente «Prima Cattedrale» (con la targa che ne ricorda la consacrazione a basilica, firmata dal genovese Benedetto xv), perfino i nobilissimi resti del «Primo Ospedale», intitolato a san Nicola di Bari. In realtà è stato un modo per celebrare il viceré Nicolas de Ovando, passato alla storia certo per la sua abilità di governatore delle terre d’oltremare, ma anche per aver sterminato gli sventurati tainos. Sono quelli che, all’arrivo di Colombo, avevano accolto l’ammiraglio con ingenua cordialità: gli stessi che, dopo la cura Ovando, scomparvero senza lasciare alcuna traccia di sé, a parte quelle che gli archeologi sanno ritrovare e valorizzare come reperti storici.

Così nella matassa sono rimasti immagini e appunti che a volte sembrano avere poco, o comunque meno, a che fare con il cammino pastorale di don Lorenzo Lombardo e don Paolo Benvenuto, insomma con l’impegno della missione diocesana di Genova a Santo Domingo, intensamente vissuta anche dalle suore, che, appartenendo all’ordine delle Brignoline, issano un’altra bandiera con i colori e la croce di San Giorgio.
È vero, a volte certi argomenti possono sembrare fuorvianti, ma servono a costruire ipotesi di contesto ed è questo che rende possibile collocare le cose e le storie, percepire le sensibilità, tastare il terreno, sentire se e dove ci sia uno spazio di dialogo.
Per capire il contesto, una sera abbiamo accompagnato don Paolo in uno studio televisivo (una sorta di Telepace dominicana) e abbiamo partecipato a una messa in diretta, osservando con sorpresa ed emozione il nostro tuo di preghiera; con suor Serafina siamo andati fra i malati del barrio, entrando nelle loro poverissime case; sull’ambulanza di don Lorenzo abbiamo girato la città coloniale, vedendo e toccando i segni del suo essere stata avamposto della Vecchia Europa nel Nuovo Mondo.
Ma siamo arrivati anche nella discarica di Duquesa, dove bambini di 12 anni raccolgono bottiglie rotte e si dissetano spremendo cartocci di bevande presi nella spazzatura: abbiamo registrato i loro sguardi, le loro esplosioni di infantile arroganza, le loro confessate paure di morire sotto un carico di rifiuti o per una infezione, la desolata ammissione che «qui nessuno va a scuola, perché nessuno si occupa di noi e noi dobbiamo procurarci almeno da mangiare».

Abbiamo assaggiato anche la Santo Domingo dei vincenti. Ci ha aiutati l’esuberante ed efficientissimo Aldo Burzatta, portavoce degli italiani residenti. In seguito alle sue segnalazioni abbiamo incontrato uno degli uomini più ricchi dell’isola, il simpatico figlio (il primo di cinque) di un pizzaiolo napoletano che scelse la terra dominicana per riunire la famiglia, non potendo farlo negli Stati Uniti per i vincoli posti dalla legge sull’immigrazione: ricordando i tempi difficili, a Natale fanno in modo che sia festa anche per qualcun altro.
Sempre Burzatta ci ha fatto incontrare un romagnolo con una casa da film: fra luglio e agosto l’ha trasformata in scuola d’italiano per i figli dei connazionali, con la speranza di riuscire a passare dalla fase sperimentale all’insegnamento legalmente riconosciuto: è una persona intraprendente, con interessi nei settori alberghiero e commerciale, grande senso del proprio successo, peccato abbia ripetuto l’invito a pranzo ammiccando un «non preoccupatevi del conto, perché è tutto pagato da me».

Toando ai piani bassi, quelli che francamente ci interessano di più, abbiamo conosciuto la storia di Mamà Tingò, Donna Coraggio, che 30 anni fa non ebbe paura di sfidare i terratenientes che si erano impadroniti delle terre da sempre appartenute ai campesinos, che le lavoravano ricavandone appena di che vivere: la uccisero davanti a testimoni, senza preoccuparsi delle conseguenze. Un sacrificio che purtroppo non è servito: nessuno dei campesinos ha conservato la propria terra; Mamà Tingò non ha avuto nemmeno un monumento dignitoso.
Una storia triste. Del resto è difficile trovare storie a lieto fine cercando fra i disperati. Per esempio, finiscono male, ogni anno, 250 ragazzi del Guaricano, risucchiati dalla vita di strada e morti di morte violenta.
Uno ogni 36 ore resta vittima di un tiroteo con la polizia, ci racconta Francesco Zannini, volontario della Missione diocesana di Genova: «A volte perché lo scontro a fuoco aveva qualche motivo, a volte perché in certi posti basta non rispettare uno stop e si finisce ammazzati».
In questi casi la strada viene disseminata di candele accese e le scarpe del morto vengono appese ai fili della luce, come aquiloni finiti male: nel linguaggio del barrio, è il segno che lì è stato compiuto un sopruso.
È vita quotidiana. «Qui manca qualunque possibilità, ecco perché si vive nella violenza» ci dice il farmacista, mentre sistema grossi lucchetti alle saracinesche della sua tienda. Oltre la cinquantina, brizzolato, occhiali con la montatura in metallo, modi gentili, accompagnato dalla moglie, una signora elegante, dalla cinta dei pantaloni gli spunta il calcio di una pistola: «I delinquenti sono armati, dobbiamo esserlo anche noi: se vedono la pistola ti lasciano stare, altrimenti ti rapinano, ecco perché qui tutti girano armati». La sua, dice, non ha mai sparato.

In questa città disordinata e dalle contraddizioni sociali in piena evidenza, dove viadotti mozzafiato nascondono alla vista la sterminata baraccopoli cresciuta lungo il fiume, a poca distanza dalla discarica si incontra la Città Modello, una zona residenziale totalmente autosufficiente, in cui però non abita nessuno.
Più avanti, percorrendo Calle Emma Balaguer, si sfiora la Cañada, un quartiere-fogna, cinque metri sotto il livello della strada, in cui la gente vive ammucchiata in baracche ad alto rischio. «Lo scarico è a cielo aperto; oggi si sente solo la puzza, ma quando piove diventa pericoloso – ci hanno detto Iris Valensuela e Juan Reyos -. Qui si allaga tutto, la fogna entra nelle case». Starebbero volentieri altrove, ma sono troppo poveri per comprare casa da un’altra parte.
I bambini giocano lungo il fiume maleodorante e nero; gli uomini rinforzano il piccolo argine a protezione della propria baracca. Qui la speranza di vita è così bassa e la povertà così spessa, da non poter portare in ospedale una bambina che ha smesso di camminare dopo essere caduta dalla sedia.

In questa città ci è piaciuto sentire ancora vivo il ricordo di un segno lasciato da Giovanni Paolo ii.
Era l’11 ottobre del 1992; si festeggiavano con un giorno di anticipo i 500 anni dell’impresa colombiana. Davanti al Faro, appena costruito senza badare a spese né alla sopravvivenza dei 50 mila sfrattati dalla Explanada, era stato sistemato l’altare per la messa: spettacolare il colpo d’occhio, una quinta formidabile per le riprese televisive. Peccato solo che l’orario della funzione non permettesse di apprezzare il fascio di luce sparato nel cielo da 250 mila watts (sottratti alla pubblica illuminazione), per formare una croce irradiata, appunto, dal Faro a Colón.
Il Papa disse che quel lato non gli piaceva, meglio celebrare la messa dall’altra parte, quella che si affaccia sulle baracche rimaste, nascoste da un muro fatto costruire proprio per evitare che il mondo vedesse quella miseria. Immenso Wojtyla, gli mandò a pallino la sceneggiata.

Sono le storie che ci hanno raccontato e che a piccole dosi si possono trovare sul blog di don Paolo (Hyperlink «http://www.chiesamissionaria.it/diario»), dove per qualche tempo ho inserito frammenti di quella che in gergo chiamiamo relazione di ripresa. Una sorta di appunti di viaggio, scritti man mano che esaminavo il lavoro fatto con Tito: 10 ore di immagini, comprese le interviste a qualche persona importante e molta gente comune.
La mia relazione di ripresa si è tradotta in una serie di brevi articoli (li ho titolati «Sbobinando» e seguono una numerazione progressiva), che hanno costituito l’ossatura dei servizi che ho realizzato per il TgR Rai della Liguria, per Tv7 (Tg1), per Agenda del Mondo (Tg3). Tutto questo si fonderà in un documentario che metteremo a disposizione delle parrocchie, coronando in questo modo un mio desiderio di sempre. Che poi è l’inizio del mio cammino, in un piccolissimo e lontanissimo cinema teatro parrocchiale. Tanto tempo fa, capanne africane in un filmato tremolante, storie missionarie che chissà quanti di voi hanno visto e certamente ricordano.
A me è stata concessa la gioia profonda della prima persona: ho visto, ho sentito, ho condiviso, e questo è un altro grande privilegio.

Tarcisio Mazzeo

Tarcisio Mazzeo




EJJP: cosìè e cosa fa

Nata ad Amsterdam nel 1992, la Ejjp (European Jews for a just peace, ebrei europei per una pace giusta), è una federazione di gruppi ebraici di vari paesi europei che si oppongono con azioni nonviolente all’occupazione dei Territori palestinesi. La fine di tale occupazione rappresenta, a loro avviso, la prima e più importante pre-condizione per la pace.
La Ejjp ha partecipato insieme alla popolazione palestinese di Bi’lin alle proteste contro il muro di separazione; ha organizzato la riunione del proprio comitato esecutivo durante la conferenza internazionale indetta per l’anniversario della lotta nonviolenta intrapresa dal villaggio; ha incontrato i membri del neoeletto parlamento palestinese, Hamas compresa, e ha aiutato la gente a ripiantare gli alberi di ulivo sradicati dagli israeliani.

La Dichiarazione di Amsterdam
«Noi, rappresentanti di 18 organizzazioni pacifiste ebraiche di 9 paesi europei, ci siamo riuniti per la Conferenza “Non dire che non lo sapevi” in Amsterdam, il 19 e il 20 settembre 2002, chiamati a discutere su: a) il governo israeliano deve cambiare la sua attuale politica e dar seguito alle proposte contenute nella presente dichiarazione; b) tutti i governi, Onu e l’Ue, devono esercitare pressioni sul governo israeliano affinché porti avanti tali proposte.
Crediamo che l’unica strada per uscire dall’attuale situazione sia attraverso un accordo basato sulla creazione di uno stato palestinese indipendente e vivibile e la garanzia di sicurezza per Israele e per la Palestina. Condanniamo tutte le forme di violenza contro i civili, da chiunque siano perpetrate.
Chiediamo: la fine dell’occupazione israeliana dei Territori palestinesi e il riconoscimento dei confini del 4 giugno 1967; il ritiro totale di tutti gli insediamenti ebraici dai Territori occupati; Il riconoscimento del diritto di entrambi gli stati ad avere Gerusalemme come loro capitale; il riconoscimento da parte di Israele della sua parte di responsabilità nel problema dei profughi palestinesi. Rivolgiamo un appello alla comunità internazionale, specialmente all’Europa, affinché offra un sostegno politico ed economico».

Boicottaggio dell’occupazione
Durante l’incontro di Londra, nel settembre 2005, la Ejjp ha deciso di aggiungere alla sua dichiarazione di intenti le seguenti clausole: a) la Ejjp sostiene azioni nonviolente che hanno lo scopo di porre fine all’occupazione israeliana della terra palestinese e alla violazione delle leggi inteazionali; b) la Ejjp richiama tutti gli stati ad assicurare che le loro relazioni con Israele siano in accordo con le leggi inteazionali e con la Dichiarazione universale dei diritti umani.
«Per 38 anni nei Territori hanno avuto luogo confische di massa della terra, blocchi stradali, uccisioni extragiudiziarie, chiusure, coprifuochi, punizioni collettive. Il governo israeliano, attraverso gli anni di occupazione, si è sentito autorizzato a violare le leggi inteazionali… Le Nazioni Unite e la comunità internazionale hanno fallito nel portare a compimento ogni concreta sanzione contro la violazione israeliana del diritto internazionale. La nostra azione di cittadini attraverso l’Europa è rivolta ai governi affinché smettano di usare due pesi e due misure e di assecondare Israele».

Angela Lano




Non dimenticare i malati cronici

L’Organizzazione mondiale della sanità propone un nuovo obiettivo: ridurre la mortalità per malattie croniche, causa di morte in paesi ricchi e poveri.

Malattie cardiovascolari, ictus cerebrale, cancro, diabete, patologie che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) definisce responsabili di un’epidemia globale, per la quale non vi sono confini fra Nord e Sud del mondo. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, sono infatti diffuse anche nei paesi poveri, con il loro carico di morte e disabilità, ostacolo alla vita e allo sviluppo economico di famiglie e stati.

IL NONO OBIETTIVO
Le malattie croniche, secondo un rapporto pubblicato dall’Oms all’inizio di ottobre del 2005, sono responsabili della morte prematura di 17 milioni di persone ogni anno. L’80% di questi decessi si verifica nei paesi a basso e medio reddito, dove fra l’altro le persone (sia donne sia uomini) si ammalano in età più giovane, con conseguenze maggiori sul lavoro e l’economia: il 41% di morti per malattie croniche in Sudafrica e il 35% in India hanno un’età fra i 35 e i 64 anni.
I dati presentati dall’Oms sono stati ricavati da 9 paesi (Brasile, Canada, Cina, Gran Bretagna, India, Nigeria, Pakistan, Russia, Tanzania), molti dei quali non considerabili ad alto reddito, ed è stimato anche l’impatto economico: le perdite collegate a queste morti premature e ai malati cronici dal 2005 al 2015 sarebbero intorno ai 558 miliardi di dollari in Cina, 236 in India e 303 in Russia.
L’Oms quindi, a 5 anni dalla dichiarazione degli Obiettivi di sviluppo del millennio, ha proposto di aggiungee uno nuovo, da ottenere entro il 2015: ridurre ogni anno del 2% il numero di morti per malattie croniche. Il raggiungimento di questa meta salverà la vita a 36 milioni di persone, metà delle quali non ancora settantenni.
L’Oms afferma anche che le conoscenze per arrivare al risultato sono a portata di mano: la strada della prevenzione e del trattamento è possibile perché le conoscenze scientifiche attualmente disponibili mettono a disposizione soluzioni efficaci e accessibili. Nel rapporto sono foiti anche consigli pratici sulla strada da seguire per ridurre la mortalità e migliorare la vita di milioni di persone: ogni paese, indipendentemente dal suo livello di risorse, ha la possibilità di ottenere miglioramenti significativi nella prevenzione e nel controllo delle malattie croniche.

RIDURRE IL RISCHIO
La maggior parte delle malattie croniche è causata da pochi fattori di rischio, conosciuti e prevenibili, su cui intervenire per bloccare questa epidemia «globale». I più importanti sono: una dieta poco sana, la mancanza di attività fisica e l’uso di tabacco, accanto anche a ipertensione e alta concentrazione di zuccheri e di colesterolo nel sangue.
L’Oms riporta come circa l’80% delle malattie cardiache, ictus cerebrale e diabete a insorgenza precoce e il 40% dei cancri possano essere prevenuti attraverso una dieta sana, un’attività fisica regolare ed evitando i prodotti del tabacco. È proprio sulla prevenzione che l’Oms chiama a raccolta gli sforzi delle nazioni: bastano alcune iniziative semplici ed economiche per arrivare a rapidi risultati.
Tutti sono coinvolti: governi, industria privata, società civile e comunità. Catherine le Galès-Camus, assistente alla direzione del settore dell’Oms che si occupa di malattie non trasmissibili e salute mentale (Noncommunicable Diseases and Mental Health), ha sottolineato che si conoscono i passi da fare di fronte a un numero crescente di persone che muoiono e soffrono molto a lungo per malattie croniche, ed è necessario agire, subito.

I NUMERI DELL’ASIA
Considerando solo i paesi del Sud-Est dell’Asia, questo nuovo obiettivo del millennio salverebbe otto milioni di vite nel decennio a venire. In questa parte del mondo, infatti, oltre la metà delle cause di morte rientra fra le patologie croniche e, secondo le previsioni, da qui al 2015 uccideranno 89 milioni di persone, di cui 60 nella sola India.
Ricerche pubblicate sulla rivista medica Lancet, che all’argomento ha dedicato una serie di articoli, riportano come in India le malattie croniche siano responsabili di oltre la metà dei decessi: le malattie cardiovascolari e il diabete sono diffuse in particolare nei centri urbani e il tabacco è la causa di una grande fetta di tutti i tumori. Nel paese, il consumo di tabacco, sia fumato sia da masticare, è comune soprattutto fra le persone povere e nelle regioni rurali; ancora, fattori di rischio quali l’ipertensione e i livelli alti di grassi nel sangue non vengono adeguatamente riconosciuti e trattati.
In Cina, i morti per malattie croniche raggiungono addirittura l’80% del totale e i maggiori protagonisti sono le patologie cardiovascolari e i cancri. I fattori di rischio sono diffusi: sono oltre 300 milioni gli uomini che fumano sigarette e 160 milioni gli ipertesi, la maggioranza dei quali senza terapia. Si pensa poi che sul suolo cinese sia prossima un’epidemia di obesità: nelle grandi città, oltre 2 bambini su dieci fra i 7 e i 17 anni sono già sovrappeso od obesi.
L’obesità, presente anche in paesi poveri, è il fattore di rischio maggiore per le malattie croniche e si stima sia collegata a due milioni e mezzo di morti ogni anno.

NON SI PUO’ ASPETTARE
Il carico di morte e malattia di queste patologie appare in salita. Gli Obiettivi di sviluppo del millennio stabiliti nel 2000 si sono occupati esplicitamente di tematiche sanitarie in tre settori: ridurre la mortalità infantile, migliorare la salute matea e ridue la mortalità, prevenire la diffusione di malattie infettive, come Hiv/Aids, malaria e altre.
Ora l’attenzione viene portata anche sulle malattie croniche, che sempre su Lancet, in un editoriale di accompagnamento alla serie di articoli dedicati al tema, vengono definite come una «epidemia dimenticata», nonostante rappresentino una consistente percentuale delle patologie che minacciano la salute dell’uomo.
Sempre l’editoriale, riporta infatti come, secondo le previsioni del 2005, il 30% dei morti previsti nel mondo sarebbero appannaggio di malattie cardiovascolari, il 13% di cancro, il 7% di malattie respiratorie croniche e il 2% di diabete. Se non si inizia subito a fare qualcosa, viene sottolineato sulla rivista, si rischia di perdere il guadagno ottenuto dagli interventi sulle malattie infettive, perché queste patologie prevenibili travolgeranno, ancora una volta, le persone meno in grado di proteggersi.
Non ci sono dunque scuse, secondo il mondo medico, per continuare a permettere che le malattie croniche uccidano milioni di persone ogni anno, quando ci sono a disposizione le conoscenze scientifiche per impedirlo.

Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




L’innocenza violentata

Questa è un’intervista «forte»: gli argomenti sono da brividi. Di più, sono dei pugni allo stomaco. Ma fanno pensare a un dramma sul quale è delittuoso chiudere gli occhi. Come ci dice don Fortunato Di Noto, la «strage degli innocenti» non ammette coscienze dormienti.

Lisa chiede alla maestra: «Chi è il pedofilo?». «Il pedofilo – risponde l’insegnante – è un uomo che sembra buono, un uomo che fa finta di essere un vostro amico, perché si mostra affettuoso e perché non vi fa sentire soli, ma che poi vi chiede di fare giochi strani insieme a lui». Entusiasta come tutti i bambini, Lisa replica: «Ma è bello giocare!». Paziente, la maestra riprende a spiegare: «Certamente. Quello dei pedofili, però, non è un gioco, è un modo diverso di cercarvi, di incontrarvi, di accarezzarvi, di toccarvi, di stare insieme, anche quando voi non volete, anche quando a voi non piace, è qualcosa che dopo tempo vi fa stare male. Il pedofilo non vuole che raccontate a nessuno cosa fate insieme e dice che deve essere un segreto».
Questo dialogo tra Lisa e la maestra è riportato in uno splendido libretto dal titolo Raccontarsi. Mamma, papà, maestra: cos’è la pedofilia?.
È una pubblicazione di «Meter», l’associazione fondata e diretta da don Fortunato Di Noto, il sacerdote conosciuto come «il prete anti-pedofilia». Con il padre siciliano, parroco ad Avola, cittadina della provincia di Siracusa, abbiamo lungamente conversato, proprio in coincidenza con un periodo che vede la pedofilia sulle pagine dei giornali e nei discorsi della gente comune.

NUMERI INCREDIBILI

Don Di Noto, potrebbe dare delle stime in merito al fenomeno degli abusi sui minori?
«La difficoltà è avere stime che rispecchino concretamente la realtà dell’abuso (inteso in senso lato); per non citare i bambini scomparsi, trafficati, venduti, “i bambini fantasma” (quelli nati ma che non hanno una identità anagrafica); i bambini del lavoro minorile; i bambini soldato o quelli vittime del traffico di organi. Questa condizione ci inquieta, ci vergogna, ci indigna ma soprattutto ci deve impegnare.
Comunque, se dovessimo definire la condizione dell’infanzia e della adolescenza in Italia e nel mondo attraverso i numeri, allora potremmo dire che “la strage degli innocenti continua”, un vero e proprio “rosario della sofferenza e del dolore”, un “olocausto silenzioso”, così silenzioso che imbavagliamo le grida assordanti di bambini e bambine che interpellano le nostre coscienze dormienti.
Se guardiamo – ad esempio – al dossier di Fides e al rapporto Unicef, possiamo scoprire numeri da brivido:
• 860 milioni di bambini nel mondo hanno un futuro drammatico con 211milioni di “bambini operai”; alla radice di molte forme di sfruttamento c’è il fatto che nei più poveri tra i paesi in via di sviluppo oltre 50 milioni di bambini non vengono nemmeno registrati alla nascita;
• in Asia, l’ultimo rapporto Unicef parla di 24 milioni di piccoli “clandestini” nella loro stessa terra, e per l’Africa subsahariana si sale a 28 milioni di nascite non registrate;
• ogni 9 ore un bambino di strada muore di fame, di stenti, di freddo: sono 120 milioni i bambini di strada, incontrati tra le fogne di Bucarest o ai margini delle strade del Brasile, o nella vasta distesa della terra Russa, o iraniana e irakena;
• sono almeno 300 mila i “piccoli soldati”;
• 11milioni di bambini muoiono di fame prima di aver compiuto 5 anni;
• il traffico di esseri umani è un problema su scala mondiale che coinvolge ogni anno almeno 1.200.000 minori al di sotto dei 18 anni;
• 4 milioni di bambine vengono comprate e vendute per matrimoni, prostituzione e schiavitù;
• 2 milioni di bambine hanno gli organi genitali mutilati;
• in Asia i due terzi dei bambini che non ricevono un’educazione sono bambine e la conseguenza è che poi saranno donne analfabete: oggi oltre 600 milioni;
• nella nostra civile Italia, circa 20 mila sono i baby accattoni di cui 8.000 solo nel Lazio, come ha messo in luce l’inchiesta parlamentare italiana presentata nella Giornata dell’infanzia.
E con numeri e statistiche potremmo continuare all’infinito».

IL RUOLO DI INTERNET:
BUSINESS E PERVERSIONI IN VETRINA

A parte il Sud Est asiatico, dove il fenomeno del mercato del sesso è particolarmente sviluppato, in Europa com’è la situazione?
«Non credo che il Sud Est asiatico abbia il primato del mercato del sesso. Ci sono anche la Russia, l’Ucraina, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Romania, la Moldavia; le strade delle nostre grandi città europee sono piene di minori indotti alla prostituzione. L’uomo ridotto a merce. E il concetto di merce racchiude, evidentemente, anche la scadenza, il deperimento. Merce scaduta che deve essere sempre sostituita: i bambini sono il prodotto nuovo di questa nuova, strategica, lucrosa forma di schiavitù. Merce in Europa e nel mondo che si può acquistare nelle grandi vetrine virtuali di internet, esposta come prodotto da megastore, ipermercati del sesso per tutti i tipi di perversione umana. Non dimenticherò mai, da un ultimo viaggio in un paese dell’est europeo, la proposta di acquisto che mi fecero di una bambina di meno di 10 anni!».

Le cause prime della situazione nascono dalla miseria?
«Ovviamente. Lo sfruttamento dell’infanzia ha le sue radici nell’estrema povertà, nell’ingiustizia sociale e nelle condizioni disumane in cui versano le famiglie, famiglie frantumate e “impazzite” per la fame e la totale precarietà di vita e di sussistenza primaria. I bambini sono spesso considerati come una possibile fonte di reddito supplementare per una famiglia: questa concezione incentiva lo sfruttamento sessuale e la pedofilia».

Lei ha accennato alle «vetrine» di internet. È indubbio che il mondo sia stato rivoluzionato dall’avvento di questo strumento. Ma è altrettanto vero che esso ha fatto da moltiplicatore di alcune problematiche, tra queste proprio lo sfruttamento dei minori. È così, padre?
«Inteet ha una sua valenza positiva per la comunicazione, ma permette di “accedere” con grande facilità a questo enorme mercato di sfruttamento sessuale sui minori (oltre che sugli adulti)».

Quanti minori, all’anno, diventano vittime dei pedofili?
«È vittima del pedofilo chi non è amato da nessuno. Possiamo stimare che ogni anno circa 2 milioni di bambini nel mondo sono adescati e indotti ad avere rapporti sessuali con adulti. Minori tra 0 (zero anni!) e 12 anni, è questa l’età preferita dai pedofili. Ma la stima è sempre per difetto e non rispecchia la realtà».

E quale sarebbe questa realtà?
«Dall’attento monitoraggio e dallo studio sociale dell’associazione Meter riguardo la pedofilia online risulta che milioni di pedofoto circolano ogni anno su internet; si stima che 700 mila filmini pedopoo siano stati prodotti negli ultimi 12 anni; 2 milioni di bambini sono coinvolti ogni anno, nel mondo, per produzione di materiale pedofilo; l’età varia da pochi mesi a 12 anni (uno studio di Max Taylor su 50 mila foto ha stabilito che l’età media è tra i 4 e gli 11 anni) (1); 70% sono di razza bianca; 20% (asiatici e africani); 10% (paesi arabi e mediorientali); il 78% femmine e il 22% maschi. Il data base dell’Interpol ha raccolto già 300 mila volti di bambini tratti dal materiale sequestrato nelle operazioni di polizia in Europa, soltanto poche centinaia sono stati individuati.
Il Rapporto 2005 dell’Associazione Meter offre un’ulteriore lettura sociale del fenomeno da cui emergono alcuni dati nuovi ed impressionanti:
• aumento di pedofili a viso aperto che abusano di bambini; anche di donne pedofile;
• l‘infantofilia – in gergo, bambini con il pannolino – che si riferisce alla preferenza di bambini in tenerissima età (da pochi giorni a 2 anni);
• aumento di bambini seviziati (in alcuni casi rapporti necrofili);
• violenze a bambini disabili;
• calendari e riviste edite e bollettini settimanali della comunità pedofila;
• aumento dei blog come canali di promozione e contatti pedofili.
Dall’attività di monitoraggio e segnalazione di siti pedofili e pedopoografici per l’anno 2005 risultano n. 9.044 segnalazioni di siti pedofili e pedopoografici. Nel dettaglio sono 3.672 i siti formalmente denunciati al compartimento della Polizia postale e delle comunicazioni di Catania (di cui 21 con riferimenti italiani e in particolare 4 community pedofile, con iscrizione obbligatoria e password segreta), che hanno coinvolto 17 regioni italiane e circa 1.000 indagati tra l’Italia e i paesi esteri (anche medio-orientali, arabi e africani).
Altri 5.342 sono i siti segnalati alle polizie europee e inteazionali (Fbi, Interpol, polizia spagnola, portoghese, australiana, gendarmeria francese…).
Le nazioni dove sono allocati i siti sono, per ordine d’importanza: Usa, Russia, Brasile, Spagna, Australia, Francia, Polonia, Iran, Iraq, Giappone, Italia, Germania, Inghilterra, Rep. Ceca, Romania, Nigeria, Israele».

In Italia, vi è differenza, a livello di stime, tra i minori vittime della pedofilia in ambito familiare e coloro che sono venduti e sfruttati dalle organizzazioni criminali etniche?
«I minori stranieri non accompagnati censiti (provenienti soprattutto da Romania, Albania, Marocco, come emerso durante il Convegno Internazionale “Contro ogni schiavitù” del 4 novembre 2005) sarebbero 20.000. Mentre ci sarebbero circa 7.000 minori stranieri sfruttati e a quanto pare resi schiavi dalle organizzazioni criminali.
Le Nazioni Unite dichiarano che milioni di esseri umani ogni anno sono vittime della tratta e il 30% sono bambini e bambine. Non ci sono dati certi della tratta e lo sfruttamento dalle organizzazioni nei paesi di origine (2). In questa direzione, in Europa sono state condotte diverse operazioni di repressione nei riguardi di organizzazioni che sfruttavano minori producendo materiale pedopoografico e rivendendo il prodotto (video, foto e in alcuni casi anche bambini) sull’asse tra Russia-Europa, Italia-Svizzera-Brasile, e oggi anche Africa-Europa-Paesi dell’Est».

In Italia, si dice che il 90% degli abusi avviene in famiglia. Lei concorda con questa affermazione, oppure il minore può essere vittima di persone estranee con la stessa probabilità?
«Non concordo affatto nella percentuale (90%) degli abusi in famiglia; un dato fuorviante della realtà stando ai dati in nostro possesso. Bisogna parlare di “ambito familiare”, intra ed extra. I dati ufficiali concordano nel dire che gli abusi sessuali, pur avvenendo nell’ambito familiare nel 30% dei casi, sono compiuti da conoscenti o partner occasionali, o da conviventi non stabili. Solo nel 19% circa (comunque non poco) le offese e i reati sono compiuti dal padre, dal nonno, dal cugino. Non dimentichiamo, anche se in percentuale minima, ma crescente, il 4-7% delle violenze o della detenzione di materiale pedopoografico è compiuto da donne.
Secondo i dati del Dac (Direzione anticrimine centrale della polizia), nella prima metà del 2005 le segnalazioni di reati sessuali nei confronti dei minori sono state 410 (407 delle quali risolte). Sul totale di 410, 334 segnalazioni hanno riguardato violenze sessuali, 45 atti sessuali con minorenni, 17 violenze sessuali di gruppo e 14 di corruzione di minorenne. Le bambine sono le più colpite. Nel 77,4% dei casi sono loro le vittime degli abusi, fin da piccolissime – dichiarano ancora i dati del Dac – a conferma di quanto detto precedentemente in merito alla produzione di materiale pedopoografico. La fascia di età più colpita è quella compresa tra 0 e 10 anni. Sul totale di 471 vittime di abusi sessuali sotto i 18 anni, 165 (il 35%) aveva da 0 a 10 anni, 164 (il 34,8%) tra gli 11 e i 14 anni il resto (142) tra i 15 e i 17 anni. Vittime italiane e straniere».

PEDOFILI ED
ORGANIZZAZIONI CRIMINALI

Toiamo alla domanda di partenza, chi sono i pedofili?
«Chi compie abuso sessuale nell’82,4% dei casi conosce la vittima. Il pedofilo infatti non desidera una relazione occasionale, ma duratura e continuativa; vuole riempire il vuoto d’amore del bambino, condizionandolo con i ricatti, le minacce e i sensi di colpa. Un fenomeno che vive nel sommerso e di forti coperture culturali, sociali e di normalizzazione».

Dietro al singolo pedofilo si nascondono organizzazioni criminali…
«Partiamo da un concreto esempio di proposta di vendita di prodotto finito pedofilo. Una denuncia di Meter riguardava un sito internet (costantemente aggiornato) chiamato Pedoland (la terra dei pedofili). La home-page iniziale dichiara: “Vendiamo soltanto materiale esclusivo – 800 immagini ‘hard core’ con adolescenti di 7-14 anni e in più 250 ore di video domestici di bambini poo, video di violenze e di giovanottini seducenti”.
Il costo dell’abbonamento mensile è di 10 dollari, l’abbonamento, all’atto della denuncia, era già stato accordato a 3.550 utenti, con un incremento nell’ultimo mese dell’88% degli utenti. Il guadagno in un solo mese era di 33.550 euro (65 milioni delle vecchie lire, che moltiplicati per 12 mesi equivalgono a circa 800 milioni). E questo per un solo portale, definibile di “pedo-businnes”.
Concretamente ciò evidenzia che la pedocriminalità, negli ultimi anni, si è strategicamente strutturata con diramazioni che potremmo così sintetizzare: al primo livello c’è una sorta di “cupola pedocriminale” che organizza, decide, investe per il procacciamento di bambini; al secondo, c’è invece una rete “intra ed extra familiare” (pedofilia artigianale) per la produzione e vendita al migliore offerente del materiale privato. In questo vasto contesto, esistono i “pedo-free” (i liberi procacciatori di materiale da offrire ai pedofili online) e per finire il “pedo-businnes” (piccole organizzazioni criminali composte da 3-10 persone) che sfruttano, producono e vendono prodotto».

Pedo-business, pedo-free, pedofilia artigianale: padre, è proprio un incredibile catalogo dell’orrore…
«Che debbo dirvi… Alla vasta comunità pedofila (criminale) appartengono una varietà di soggetti per preferenza di bambini (età, contesto sociale e razza) e altri per scelte o orientamenti di perversione: pseudo normali; benpensanti; acculturati e snob; amanti estatici; cultori bellezza infantile; amanti biancheria intima di bambini; amanti orge tra bambini; amanti della pornografia su bambini disabili; amanti dei piedi e gambe dei bambini; foto neonati e feticisti; sadici; necrofili… Ma ci sono anche gli stupidi occasionali (la maggior parte degli indagati online) che alimentano un mercato trasversale e criminale a danno dei bambini».

Utenti ignobili, ma pur sempre utenti. Come arrivare a chi tira le fila del business?
«È arrivato il momento di investire in risorse e uomini affinché si risalga alla fonte ovvero rintracciare i “produttori”, gli “smistatori”, gli “schiavisti” a livello transnazionale.
Una visione generale consentirebbe di seguire le tracce del denaro, e quindi verosimilmente i dirigenti, la “cupola” di questo “mercato”, che non è solo nel mondo virtuale. Pedopoografi che non sono pedofili, e sfruttatori che lucrano con i clienti che cercano “merce e carne bambina”».

Sembra incredibile, ma esistono anche organizzazioni di pedofilia… «culturale». Che sono?
«La pedofilia culturale è invece il tentativo di singole e “congreghe” (meglio definirle lobby) che propongono la normalizzazione del fenomeno dichiarando la liceità della pedofilia come orientamento, stato, categoria della scelta individuale, consapevole e determinata di un uomo o donna.
I pedofili si presentano come “amici e benefattori dei bambini”, dato che, secondo le loro convinzioni, i bambini consensualmente desiderano vivere relazioni affettive e sessuali con i “boylover” (gli amanti dei bambini). Una crescita, negli ultimi 10 anni che ha raggiunto una presenza massiccia e di potere di opinione che mette in difficoltà la più acuta delle menti razionali e anche del buon senso».

Insomma, la pedofilia culturale, pur poco conosciuta dall’opinione pubblica, è subdola e molto pericolosa. Lei ritiene che i pedofili che ne sostengono i contenuti siano diventati, nel corso degli ultimi anni, sempre più abili a proporre la relazione adulto-minore ad un bambino? Potrebbe fare qualche esempio?
«La lobby pedofila culturale ha adottato la strategia della “promozione dei loro diritti e della loro naturale tendenza di attrazione e affettiva e sessuale nei confronti dei bambini” come l’ultimo tassello della rivoluzione sessuale, come l’ultimo tabù da sconfiggere: “perché i bambini hanno il diritto a vivere la propria sessualità e possono decidere di viverla con chi vogliono”. Il corsivo è tratto dai siti di promozione e difesa della pedofilia.
E per fare tutto questo le strategie propagandistiche sono innumerevoli e subdole. Un libro prodotto dalle organizzazioni pedofile, intitolato Pedophilies, rivolgendosi ai genitori dice: “Cari genitori, se vi accorgete che vostro figlio ha una relazione con un pedofilo, prima di denunciare, chiedete se a vostro figlio o figlia gli è piaciuto”. Il sovvertimento e la provocazione raggiunge livelli “culturalmente e strategicamente elaborati” per sovvertire il concetto di “consenso” da parte dei minori. Evidentemente è bene che qualcuno dica, se ne ha il coraggio, se una relazione di un pedofilo con una bambina di 10 giorni (E non è una provocazione da parte mia) o anche di 5,6,7 anni ha la ragione della consapevolezza e della volontà da parte dei minori.
Una inedita analisi di un “portale madre” BL (boylovers), per dare concreti elementi, ha contato ben 1.071 portali suddivisi in n. 391 siti specificamente indirizzati alla pedocultura con riferimenti espliciti al pedosoft (amanti del nudo infantile) e n. 146 indirizzati alle “risorse di rete” (newsgroups, community, siti personali) per scambio informazioni e localizzazioni di situazioni “piacevolmente pedofile”, il restante sono una collezione di links che parlano di bambini (movie, letteratura, arte).
In sintesi le lobby pedofile promuovono:
• un senso di orgoglio;
• il sesso non è dannoso ai bambini;
• la campagna contro i pedofili deriva dalla preoccupazione dei genitori di perdere potere sui figli;
• i pedofili assicurano benessere e la crescita dei bambini; non bisogna criminalizzare un orientamento, una inclinazione, una preferenza sessuale, uno stato, una categoria; numerosi sono gli appelli alle istituzioni, ai governi, con la proposta di verosimili candidature alle elezioni politiche (anche se per provocazione).
La presenza di siti di “rivendicazione sociale del diritto dei pedofili” ha raggiunto livelli estremamente raffinati (non esiste nazione che non ha un gruppo di sostenitori della liceità della pedofilia e dei rapporti tra adulti e minori), una vera e propria rete di lobby stratificata e organizzata anche economicamente. Rivendicazioni che sono sfociate anche in comportamenti criminosi e bracci armati come la “Brigata pretoriana del Fronte di liberazione dei pedofili”, che aveva in progetto la eliminazione fisica degli oppositori della pedofilia, quali sacerdoti, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine».

E rispetto al turismo sessuale che cosa ci dice, padre?
«Dopo la tragedia dello tsunami, si leggeva tra le agenzie di stampa che i fruitori del turismo sessuale dichiaravano che “dopo lo tsunami non ci resta che la bella terra del Brasile”».

Questo significa che si fa poco per contrastarlo?
«Il turismo sessuale è un turismo da vergogna e certamente si fa ancora poco, molto poco per debellarlo con determinazione e forza. Nonostante innovative leggi contro il turismo sessuale è un fenomeno conosciuto, studiato, analizzato nei minimi dettagli, ma non contrastato alla radice. Il turismo sessuale è alimentato dalla povertà e dalla condizione sociale disastrata di milioni di uomini che non hanno “pane, carne e cibo”, così le bambine e i bambini di quelle nazioni diventano “carne fresca da assimilare e mangiare”. Chi fa turismo sessuale esprime tutta la miseria e la malvagità degli uomini; il turista sessuale è il non senso della vita.
Il turismo sessuale è la più becera risorsa economica per un paese povero. Un fenomeno che purtroppo cresce a dismisura: in alcune aree del mondo sta assumendo caratteristiche di massa. Un fenomeno difficilmente circoscrivibile per la sua continua trasformazione e perché dietro ad esso si concentrano enormi interessi economici».

Don Di Noto, lei crede che esistano forti interessi, e di che tipo, alla base della rete mondiale che alimenta il mercato dei minori e il loro sfruttamento?
«L’interesse più grande è, se posso dirlo in questi termini, il relativismo applicato all’uomo, considerato cosa e non persona. È un terrorismo culturale di involuzione della specie. È il più forte che domina sul piccolo e debole. È una cultura della violenza, del potere e del dominio, con una sola regia “il lupo” (non me ne voglia questo splendido animale) che mangia e divora».

Al di là delle metafore, si tratta sempre di domanda ed offerta…
«Il sistema economico ha delle regole: quando la domanda chiede al mercato di offrire la carne innocente dei bambini e l’offerta arriva, è il segnale di una umanità che ha un grosso bubbone e numerosi virus invasivi che distruggono la visione antropologica cui si dovrebbe guardare: quella di un’umanità legata alla conquista del bene per tutti, nessuno escluso».

La nostra società è sempre più dominata dalla cultura mercantilista, in cui l’avere conta più dell’essere, il profitto personale più del bene collettivo. Secondo lei, questo modo di pensare e vivere quanto è responsabile di fronte all’infanzia sfruttata?
«Totalmente responsabile. I numeri dell’infanzia abusata, violata, sfruttata, dimenticata dimostrano e confermano che della vita dei bambini non si può, non si deve fare mercato. I bambini e l’uomo in generale non è in vendita al migliore offerente».

CHIESA E PRETI PEDOFILI:
FERITE PROFONDE

Che cosa ne pensa degli scandali di pedofilia nell’ambito della chiesa cattolica, in particolare negli Stati Uniti?
«Vicende dolorose, ferite profonde che generano dolore e invocano misericordia da Dio per la chiesa e la società intera. Le parole di Giovanni Paolo II racchiudono il mio pensiero e pertanto la determinazione a continuare l’impegno per l’infanzia nella chiesa e nel mondo. Mi dispiace soltanto per l’anticlericalismo che ha generato nelle persone; un accanimento che non rende merito e giusto onore ai sacerdoti che svolgono in grazia e santità il loro ministero.
“In questo momento […] – scriveva Giovanni Paolo II -, in quanto sacerdoti, noi siamo personalmente scossi nel profondo dai peccati di alcuni nostri fratelli che hanno tradito la grazia ricevuta con l’Ordinazione, cedendo anche alle peggiori manifestazioni del mysterium iniquitatis che opera nel mondo. Sorgono così scandali gravi, con la conseguenza di gettare una pesante ombra di sospetto su tutti gli altri benemeriti sacerdoti, che svolgono il loro ministero con onestà e coerenza, e talora con eroica carità. Mentre la chiesa esprime la propria sollecitudine per le vittime e si sforza di rispondere secondo verità e giustizia ad ogni penosa situazione, noi tutti – coscienti dell’umana debolezza, ma fidando nella potenza sanatrice della grazia divina – siamo chiamati ad abbracciare il mysterium Crucis e ad impegnarci ulteriormente nella ricerca della santità"».

Quando ha iniziato ad occuparsi di questo fenomeno? C’è stato un motivo particolare che ha influito sulla sua scelta?
«Quindici anni fa, all’inizio del mio ministero sacerdotale, raccolsi i primi racconti di abusi di bambini. La passione per le nuove forme di tecnologia (internet) nel 1989 mi permisero di imbattermi per la prima volta in immagini pedopoografiche. Durante una meditazione di un passo dell’Esodo in cui si dice che “Dio vide la sofferenza del suo popolo e se ne prese cura”, ebbi l’intuizione, parafrasando il contenuto di quella straordinaria parola di Dio: anch’io “vedevo” le immagini e sentivo i racconti e il dolore dei bambini, per cui dovevo prendermene cura. E così feci, e continuo a fare con Meter. Non salverò tutti i bambini del mondo, ma so che qualcuno lo salverò. È già accaduto e vorrei che accadesse sempre e di frequente».

La «strage degli innocenti», ordinata a Betlemme da Erode, è un episodio biblico narrato nel vangelo secondo Matteo. Prendendo il governatore della Giudea a modello negativo, secondo lei Erode sta vincendo?
«Erode non vincerà mai. Erode sarà schiacciato dagli stessi bambini».

La sua è una certezza o una speranza?
«La mia vuole essere una profezia carica di speranza».

Nicoletta Bressan e Paolo Moiola